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Leggere un TESTO CRITICO Il senso del sacro nei culti di Roma arcaica R. Bloch

Leggere un TESTO CRITICO

Il senso del sacro nei culti di Roma arcaica

Non è necessario parlare di anticipazioni del gusto romantico per spiegare il gusto dell’arcano e le misteriose atmosfere dei nemora e dei lacus di questa bellissima pagina di Seneca. Secondo Raymond Bloch, si tratta dello stesso spirito del sacro che aveva animato i culti più arcaici del Latium vetus, e che non era mai scomparso dalla mentalità romana, come testimoniano il primo libro delle Storie di Tito Livio e l’VIII dell’Eneide di Virgilio.

Si può intravedere nel cittadino romano arcaico il senso del sacro, della presenza di quelle forze ora benefiche, ora malefiche che trasportano l’uomo in un mondo al di là del suo? A questo fine è necessario studiarne le reazioni di fronte a molti fenomeni che egli non capiva e in cui vedeva dei prodigi, o lo stato d’animo col quale entrava in luoghi solitari e deserti, nei fitti boschi dove l’uomo si è spesso sentito in contatto con forze dominanti su di lui. Fin dalle origini, l’interpretazione e l’espiazione di prodigi ebbero il loro peso nella vita degli abitanti dei sette colli, come risulta dalla dovizia di particolari con cui, sotto la Repubblica, i consoli elencavano al Senato tutti i prodigi che si erano visti anno per anno; dopo di che il Senato li faceva espiare dalle massime autorità religiose. Di fronte a tali prodigi e alle tracce che lasciavano nel mondo, il romano provava un sacro brivido: ai suoi occhi essi rappresentavano il segno concreto e terribile dell’intervento sulla terra di forze invisibili governanti il destino dell’uomo. A Roma, l’annunzio di fenomeni innaturali suscitava una specie di orrore religioso, che sopravvive in molti passi delle Storie di Livio. Lo stesso senso di horror, lo stesso brivido sacro, si impadroniva del romano quando entrava nei boschi sacri, i luci o nemora, che da tempi immemorabili erano punti focali di culto e venerazione a Roma e nell’area circostante. La stessa vegetazione dei Colli romani aveva suscitato un certo interesse religioso, da cui scaturirono i nomi di Viminal, cioè «colle dei salici», e Fatugal, «colle dei faggi». Come si è già detto, uno dei più antichi luoghi sacri a Roma era l’asilo aperto da Romolo sul Campidoglio, come rifugio per esuli o proscritti. Esso sorgeva fra due boschi sacri, inter duos lucos, e non v’è dubbio che questo fatto costituiva un’efficace salvaguardia magica. Questi boschi sacri appartenevano e offrivano dimora a divinità che in origine erano anonime, ma più tardi assunsero identità e nomi chiaramente definiti. Gli incontri di Numa Pompilio con la dea Egeria avvenivano, secondo Livio (I, 21), in un bosco sacro, un lucus, in mezzo al quale v’era un’oscura grotta da cui zampillava una fonte perenne. Poiché Numa spesso vi si recava da solo per incontrarvi la dea, egli dedicò il bosco alle Muse che sosteneva di trovare in compagnia di Egeria. Come i boschi, anche le sorgenti avevano proprietà sacre e misteriose, e sia in Roma che in Italia in generale molte dee benefiche presiedevano a diverse fontes. Il culto delle sorgenti ricorre in molte civiltà primitive, ed esprime lo stesso sentimento religioso profondo e tenacemente radicato, che ritroviamo nella Roma dei primi secoli. Fu solo – è vero – agli inizi dell’era cristiana che scrittori come Seneca diedero espressione a un senso del divino nascente nella solitudine delle foreste (collegato nel suo caso a riflessioni sul carattere sacro dell’anima e a una vaga spiritualità germogliante sia dalle idee dell’epoca che dalle sue vedute personali). Ma questo presentimento si riallaccia direttamente agli antichi culti latini degli dèi delle foreste e all’horror suscitato nei Romani arcaici dall’atmosfera misteriosa del nemus.

(R. Bloch, Le origini di Roma, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 130-132)

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