Aurea dicta
1 Aurea dicta Aurea dicta, dal De rerum natura di Lucrezio (III, 12), vuole mettere l’attenzionepropriosulvalorefortementeesemplareepedagogicodella letteraturalatina:parolecheirradianolalucediunagrandeciviltànella quale - e senza alcuna retorica - ancora oggi ci dobbiamo riconoscere.
Giancarlo Pontiggia Maria Cristina Grandi
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Aurea dicta 1
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Dalle origini all’età di Cesare
Dalle origini all’età di Cesare
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10711K ISBN 978-88-416-2021-2
Aurea dicta 1 + La seconda prova del nuovo Esame di Stato CODICE
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Aurea dicta 1 + La seconda prova del nuovo Esame di Stato CODICE
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Aurea dicta 2
Aurea dicta 2
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L’età di Augusto CODICE 10712X ISBN 978-88-6706-138-9
Aurea dicta 3
Aurea dicta 3
Dalla prima età imperiale ai regni romano-barbarici CODICE 10713K ISBN 978-88-416-2023-6
Dalla prima età imperiale ai regni romano-barbarici CODICE 10713X ISBN 978-88-6706-139-6
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La SECONDA PROVA del NUOVO Esame di Stato LICEO CLASSICO
LIBRO CON
Bellavita · Capel Badino
Floriferis ut apes in saltibus omnia libant, omnia nos itidem depascimur aurea dicta, aurea, perpetua semper dignissima vita.
La
Ornella Bellavita Roberto Capel Badino
SECONDA PROVA del NUOVO Esame di Stato LICEO CLASSICO
Guida allo svolgimento della prova di greco e latino
14 temi guidati 24
simulazioni
Il piacere di apprendere
Gruppo Editoriale ELi
Coordinamento editoriale: Marco Mauri Redazione: Manuela Capitani Progetto grafico: Fabio Bergamaschi, Studio In.pagina Impaginazione: Fabio Bergamaschi, Studio In.pagina Copertina: Giuseppina Vailati Canta Immagine di copertina: Shutterstock L’impostazione e la struttura generale dell’opera sono il risultato di un’elaborazione comune. In particolare a Ornella Bellavita si devono i temi 1-3, 8-11 del Laboratorio; i temi 1-2 e 5-14 delle Simulazioni. I restanti temi 4-7, 12-14 del Laboratorio e 3-4, 15-24 delle Simulazioni sono opera di Roberto Capel Badino.
ISBN 978-88-416-2020-5 La seconda prova del nuovo esame di stato ISBN 978-88-6706-454-0 Solo versione digitale Prima edizione: dicembre 2019 Ristampe 2024 2023 VI V
2022 IV
2021 III
2020 II
2019 I*
Printed in Italy © 2019 - Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi (Centro licenze e autorizzazioni per le riproduzioni editoriali), corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi.org. L’accesso all’eBook+ e ai contenuti digitali che integrano il libro di testo è riservato all’utente registrato che ha inserito i relativi codici contrassegno e seriale. La registrazione di tali codici e il conseguente download implicano la conoscenza e l’accettazione delle condizioni di licenza, accessibili su www.principato.it. I codici possono essere attivati una sola volta: l’utenza e la connessa licenza di utilizzo non sono trasferibili a terzi. L’editore fornisce – per il tramite dei testi scolastici da esso pubblicati e attraverso i relativi supporti o nei siti www.principato.it e www.europassedizioni.it – materiali e link a siti di terze parti esclusivamente per fini didattici o perché indicati e consigliati da altri siti istituzionali. Pertanto l’editore non è responsabile, neppure indirettamente, del contenuto e delle immagini riprodotte su tali siti in data successiva a quella della pubblicazione, dopo aver controllato la correttezza degli indirizzi web ai quali si rimanda.
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Stampa: Vincenzo Bona - Torino
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Indice Presentazione Vademecum: consigli pratici e suggerimenti per tradurre Parte prima
5 6
Laboratorio
1. Giulia, figlia di Augusto (Tacito - Macrobio) 2. Fonti quasi miracolose (Plinio il Giovane - Plinio il Vecchio) APPROFONDIMENTO La terribile Stige
3. La morte di Augusto (Svetonio - Tacito)
8 12 16 17
APPROFONDIMENTO Livia Drusilla
21
APPROFONDIMENTO Così Tacito cita le sue fonti
21
4. Educazione e competenza politica (Platone - Isocrate) APPROFONDIMENTO La democrazia ateniese
22 26
5. Il dibattito delle idee (Tucidide - Erodoto)
27
6. I fondamenti del diritto degli Ateniesi (Lisia - Isocrate)
31
7. Processo politico a Demostene (Eschine - Demostene)
35
APPROFONDIMENTO Espressioni idiomatiche in uso nell’oratoria greca
8. Comandante e sottoposto: chi ha ragione? (Livio - Arriano) APPROFONDIMENTO Alessandro Magno e la storiografia
9. In tribunale come a teatro (Cicerone - Ateneo)
39 40 43 44
APPROFONDIMENTO Iperide
48
10. Burrasca e naufragio (Seneca - Atti degli Apostoli)
49
APPROFONDIMENTO Dal lessico di Seneca
52
APPROFONDIMENTO Lo stile di Seneca
53
APPROFONDIMENTO Lo stile di Tacito
54
11. L’attentato a Eumene II, re di Pergamo (Livio - Appiano)
55
APPROFONDIMENTO Osservazioni sulla lingua di Livio
58
12. Antonio offre a Cesare la corona (Plutarco - Cicerone)
59
APPROFONDIMENTO Espressioni idiomatiche in uso nell’oratoria latina
62
APPROFONDIMENTO I magistrati romani
63
13. Alla ricerca della verità (Aristotele - Seneca)
64
APPROFONDIMENTO Lessico di base della retorica
68
14. Viaggio nel mondo della Luna (Luciano - Cicerone)
69
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3
Indice Parte seconda
Simulazioni
1. Conosci te stesso (Cicerone)
76
2. La giornata di mio zio (Plinio il Giovane)
78
3. Dissolutezza di Filippo (Demostene)
80
4. Apologia del tradimento politico (Tucidide)
82
5. Massacro del presidio romano a Vaga (Sallustio - Plutarco)
84
6. Fragilità delle città marittime (Cicerone - Aristotele)
87
7. Sacrilegi di uomini potenti (Livio - Erodoto)
90
8. Il Colosso di Rodi (Plinio il Vecchio - Polibio)
93
9. C icerone e Demostene, una coppia indissolubile (Quintiliano - Pseudo-Longino)
96
10. Libri in pericolo (Seneca - Strabone)
4
99
11. L a conoscenza storica è necessaria all’oratore (Quintiliano - Licurgo)
102
12. L’importanza della filosofia (Seneca - Plutarco)
105
13. Il campo di Teutoburgo (Tacito - Dione Cassio)
108
14. Socrate e Seneca sulla ricchezza (Seneca - Platone)
111
15. Un progetto educativo (Isocrate - Cicerone)
114
16. La naturale dissoluzione di una repubblica (Polibio - Livio)
117
17. Presagi prima della battaglia di Leuttra (Senofonte - Cicerone)
120
18. Epaminonda a Mantinea (Senofonte - Nepote)
123
19. Piaceri della campagna (Senofonte - Plinio il Giovane)
126
20. L’amore fedele (Plutarco - Tertulliano)
129
21. Locus amoenus (Platone - Cicerone)
132
22. I Romani e il greco (Polibio - Cicerone)
135
23. La favola di Cleobi e Bitone (Erodoto - Cicerone)
138
24. Un lutto inconsolabile (Plutarco - Cicerone)
141
Griglia di valutazione per l’attribuzione dei punteggi
144
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Presentazione Questo libro è stato pensato come espressamente rivolto allo studente che intenda prepararsi per tempo alla seconda prova della nuova maturità classica: naturalmente sotto la guida dei suoi insegnanti, cui si forniscono modelli operativi. Non vuole essere solo un repertorio di simulazioni, ma anche un breve corso graduale che educa gli studenti a sviluppare una nuova abilità: il confronto fra testi di autori diversi e fra la cultura greca e la cultura latina, perché questa ci sembra essere la chiave della nuova maturità.
Nota per lo studente Dovrai affrontare una traduzione innanzitutto, ma non solo. Certo tradurre non significa soltanto trasferire correttamente in un buon italiano gli elementi della lingua di partenza. Tradurre presuppone soprattutto cercare di capire a fondo e nel dettaglio il contenuto di un testo. Si tratta anche di inquadrarlo ricorrendo alle proprie conoscenze di letteratura, di cultura e storia antica: puoi provare d’ora in poi a individuare nel testo greco o latino gli elementi di storia e di civiltà che da esso emergono e che probabilmente non ti sono estranei. Nell’esame di stato è prevista la traduzione di un passo latino o greco seguita da tre quesiti a risposta aperta di interpretazione e commento dal punto di vista sia del contenuto sia della lingua e dello stile. Può essere richiesto un confronto tra due passi di autori che afferiscono alle due diverse letterature, greca e latina, il primo da tradurre, il secondo con traduzione a fronte, da analizzare e confrontare col primo. I quesiti coinvolgono entrambi i brani, dunque entrambe le lingue ed entrambe le culture. Del resto spesso non c’è un vero confine che divida il mondo greco da quello romano, non solo perché scrittori greci come Polibio, Diodoro Siculo, Plutarco rivolsero la loro attenzione a quanto succedeva a Roma, ma anche perché l’incontro culturale tra Roma e il mondo greco, dotato di una sua grande letteratura già da qualche secolo, cominciò assai presto (III secolo a.C.) e a Roma tutti o quasi si ispirarono all’eloquenza, alla filosofia, all’epica, alla storiografia e al teatro greci.
Un testo non è mai isolato, ma entra sempre in una rete vastissima. Potrai confrontare fra loro testi che dicono la stessa cosa o semplicemente parlano di argomenti affini, ma con linguaggi differenti, oppure testi che sostengono tesi opposte, magari entrando in polemica l’uno con l’altro. Confronterai di volta in volta opinioni, linguaggi e culture. Il terzo quesito richiede invece un approfondimento e delle riflessioni personali. Leggere gli autori antichi mira non solo a cercare di conoscere il passato, ma anche a confrontarsi con quanto nel corso del tempo è stato pensato intorno a temi importanti della nostra vita: la politica e la cittadinanza, la natura e la possibilità di conoscerla, la storia e la giustizia, l’amore, il dolore e le passioni. Quello che leggiamo diventa significativo se sappiamo ricondurlo alla nostra esperienza e se siamo disposti, col progredire della conoscenza, a cambiare la nostra idea del mondo.
Struttura del volume Il libro si distingue in due parti. Nella prima parte si intende avviare lo studente a: 1. ragionare sul testo tradotto, di latino o di greco, a comprenderne a fondo il significato (in termini linguistici, letterari e di civiltà); 2. confrontare il passo con altri testi di argomento affine, siano essi nella stessa lingua del primo o nell’altra, siano appartenenti allo stesso genere letterario o a generi diversi; ciò che conta è infatti la capacità di ragionamento e di confronto. È per questo motivo che abbiamo accoppiato inizialmente anche brani greco-greco e latino-latino, per invitare a esercitare con regolarità una tale attività di confronto, prima su due testi nella stessa lingua (che tradurrai in due tempi naturalmente), poi su due passi nelle due lingue antiche, come forse ti capiterà all’esame: compito più impegnativo certo, ma affrontabile con un po’ di metodo e di allenamento. Il questionario Guida alla comprensione ti suggerisce una traccia per il commento, la sezione Verso un confronto ti aiuta a mettere in rapporto i due brani cogliendo via via analogie e diversità. La seconda parte del libro comprende simulazioni sia monolingua sia di confronto latino-greco e greco-latino.
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Vademecum: consigli pratici e suggerimenti per tradurre Lettura Prima di cominciare a tradurre, leggi tutte le parti in italiano del compito che ti viene sottoposto, cioè i brevi cappelli introduttivi che contestualizzano i testi, il pre-testo e il post-testo, le eventuali note a piè di pagina, per raccogliere in partenza un bagaglio di informazioni che forse ti tornerà utile nel tradurre. Dai una sbirciata anche alle tre domande, in modo di stare all’erta mentre analizzi il testo per tradurlo. Autore Chi è l’autore del passo da tradurre? Lo conosci o è un autore minore incrociato poche volte e solo sul manuale di letteratura? Lo sai collocare in un periodo storico? Genere letterario A che genere letterario appartiene il passo proposto? È una pagina di storiografia, di oratoria, di filosofia, di narrativa, o altro? Già l’autore ti dovrebbe indirizzare nella risposta, ma ci sono autori che si sono cimentati in più generi (pensa a Cicerone) e il brano stesso potrebbe configurarsi come appartenente a un genere misto (ad es. un discorso diretto all’interno di un’opera storica). Ogni genere letterario suscita determinate aspettative sul piano delle convenzioni comunicative. Autore e genere devono orientare le tue attese rispetto al testo che ti accingi a leggere. Argomento Prova a individuare a grandi linee qual è l’argomento del passo. Il titolo ti può aiutare, anche se a volte potrebbe risultare generico o oscuro per voler essere originale. Alla fine, quando avrai tradotto, chiediti se si potrebbe proporre un altro titolo più aderente al contenuto del brano e più significativo. Se sì, tienilo presente nel rispondere alle domande finali. Nomi propri I nomi (di persona o di luogo) dovrebbero essere la cosa più semplice da individuare in un testo a una prima lettura. Cerca di trarne il maggior numero di informazioni. Personaggi Chi sono i personaggi coinvolti nel brano che hai tradotto? Sono singoli individui o collettività? C’è a tuo parere un protagonista? Se sì, a che punto compare? Subito all’inizio del passo o dopo varie righe? 6
Luoghi Dove è ambientata la vicenda? La località è definita e descritta o solo accennata tramite allusioni? Sai dove si trova la città, il fiume, il monte eventualmente menzionati? C’è nel passo unità di luogo o i luoghi sono più d’uno? Indica quali. Tempi Il fatto narrato è ambientato in quale periodo storico? Sapresti definire l’epoca o addirittura l’anno o l’evento storico che avverti sullo sfondo? La cronologia viene esplicitata o la deduci tu da qualche elemento che ti balza all’occhio? Sai individuare delle tracce storiche da valorizzare eventualmente nel commento? Parole chiave Riesci a individuare nel testo, a una prima lettura, quali sono le parole fondamentali intorno alle quali ruota il racconto o il ragionamento? Nessi logici Ricorda che, se non è futurista, un testo cerca sempre di sviluppare un ragionamento coerente. I leganti che tengono insieme il ragionamento sono le congiunzioni e gli operatori logici. Evidenziali a mano a mano che procedi nella lettura e, quando rileggi la tua traduzione, domandati se il discorso fila. Posizione dell’autore Nel passo che cosa afferma l’autore? Qual è la sua tesi, cioè l’idea guida che ti sembra di intravvedere? Come si pone l’autore di fronte al fatto che narra o all’idea che espone? Per chi o per quale punto di vista eventualmente parteggia? A chi o a che cosa è avverso? Commento personale Sei arrivato alla fine di un percorso culturale che ti ha avviato alla conoscenza del mondo antico. Sei capace di riportare i testi che hai letto alle tue conoscenze complessive sulla cultura greca e latina? Questi testi toccano temi importanti dell’esistenza o della vita politica? A volte può essere utile espandere il proprio commento con osservazioni di cultura generale, quando siano disponibili. Fai tesoro delle tue nozioni di arte, scienze della natura, storia e geografia, filosofia, letteratura italiana e letterature straniere. In ogni caso, non avere timore di esprimere il tuo punto di vista.
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Parte prima
Laboratorio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.
Giulia, figlia di Augusto (Tacito - Macrobio) Fonti quasi miracolose (Plinio il Giovane - Plinio il Vecchio) La morte di Augusto (Svetonio - Tacito) Educazione e competenza politica (Platone - Isocrate) Il dibattito delle idee (Tucidide - Erodoto) I fondamenti del diritto degli Ateniesi (Lisia - Isocrate) Processo politico a Demostene (Eschine - Demostene) Comandante e sottoposto: chi ha ragione? (Livio - Arriano) In tribunale come a teatro (Cicerone - Ateneo) Burrasca e naufragio (Seneca - Atti degli Apostoli) L’attentato a Eumene II, re di Pergamo (Livio - Appiano) Antonio offre a Cesare la corona (Plutarco - Cicerone) Alla ricerca della verità (Aristotele - Seneca) Viaggio nel mondo della Luna (Luciano - Cicerone)
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Tema
1
LINGUA E CULTURA LATINA
Giulia, figlia di Augusto PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Giulia, l’unica figlia di Augusto, era nata nel 39 a.C. da Scribonia, proprio nel giorno in cui il futuro Augusto divorziò per sposare Livia. A quattordici anni Giulia andò sposa al cugino Marcello diciassettenne e, dopo la morte prematura del giovane marito, divenne moglie di Agrippa, maggiore di almeno vent’anni; con lui ebbe cinque figli, tra cui Gaio, Lucio e Agrippa Postumo. Infine, rimasta di nuovo vedova, nell’11 a.C. sposò suo malgrado Tiberio costretto a lasciare l’amatissima moglie Vipsania. Tutti questi matrimoni furono organizzati da Augusto. La famiglia era considerata un organo dello stato e un naturale strumento di dominio, subordinato alle ragioni della politica. Presto la condotta piuttosto libera e provocatoria valse a Giulia l’esilio, un lungo esilio durato dal 2 a.C. fino alla morte. Siamo alla fine del 14 d.C.; l’imperatore Augusto è defunto in agosto. La figlia lo segue di qualche mese ma in ben più amare condizioni. E anche il suo nuovo compagno Sempronio Gracco viene eliminato per ordine di Tiberio. Su Giulia leggiamo il giudizio benevolo di uno storico moderno, Lorenzo Braccesi: «usò l’adulterio come strumento di contestazione e di fronda politica, anche se con molta più moderazione di quanto una leggenda nera le attribuisca». PRE-TESTO
(Tiberio) riferì al senato sulle imprese di Germanico e ricordò molti episodi a proposito del suo valore con parole elaborate, più per fare effetto che non perché si potesse credere che le sentiva profondamente. Più brevemente lodò Druso e la conclusione della rivolta nell’Illirico, ma in questo caso con più partecipazione e con un discorso sincero. E tutte le concessioni che erano state elargite da Germanico le conservò anche per gli eserciti della Pannonia.
Tacito, Annali, I 53, 1-5
Eodem anno Iulia supremum diem obiit, ob impudicitiam olim a patre Augusto Pandateria insula, mox oppido Reginorum, qui Siculum fretum accolunt, clausa. Fuerat in matrimonio Tiberii, florentibus Gaio et Lucio Caesaribus spreveratque ut inparem; nec alia tam intima Tiberio causa cur Rhodum abscederet. Imperium adeptus extorrem, infamem et post interfectum Postumum Agrippam omnis spei egenam inopia ac tabe longa peremit, obscuram fore necem longinquitate exilii ratus. Par causa saevitiae in Sempronium Gracchum, qui familia nobili, sollers ingenio et prave facundus, eandem Iuliam in matrimonio Marci Agrippae temeraverat. Nec is libidinis finis traditam Tiberio pervicax adulter contumacia et odiis in maritum accendebat; litteraeque quas Iulia patri Augusto cum insectatione Tiberii scripsit a Graccho compositae credebantur. Igitur amotus Cercinam, Africi maris insulam, quattuordecim annis exilium toleravit. Tunc milites ad caedem missi invenere in prominenti litoris nihil laetum opperientem. Quorum adventu breve tempus petivit ut suprema mandata uxori per litteras daret, cervicemque percussoribus obtulit. POST-TESTO
(Sempronio Gracco) per la fermezza nel morire si rivelò non indegno del nome dei Sempronii, ma in vita aveva tralignato. Alcuni storici hanno tramandato che quei 8
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1 soldati erano stati mandati non da Roma ma da Lucio Asprenate, proconsole d’Africa, su iniziativa di Tiberio, che aveva sperato invano che l’onta dell’omicidio potesse ricadere su Asprenate. (Pre-testo e post-testo: traduzione di O. Bellavita)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Quale espressione rivela l’impianto annalistico? (Confronta anche il Pre-testo) Da fuerat (riga 2) comincia il flash-back sulla vita di Giulia: con quale accusa Augusto mandò in esilio la figlia? In quali due località? 2. Come viene presentato da Tacito il matrimonio di Giulia con Tiberio? Prova a pensare perché lei lo giudica impar, vale a dire “inadeguato”. Eppure Tiberio proveniva dalla gens Claudia. Agisce forse nella figlia del principe un senso di superiorità dovuto alla nascita nella porpora? A Roma comincia forse a esserci una “famiglia reale”? 3. Una volta divenuto principe, come si comporta Tiberio con la moglie e con il figliastro Agrippa Postumo? Quali erano le condizioni di vita dell’esiliata? E Tiberio è responsabile della morte in miseria e lunga consunzione di Giulia? 4. L’ultima parte del passo ha un altro protagonista. Considera il breve ritratto di Sempronio Gracco: che cosa ci dice di lui Tacito nel bene e nel male? Perché l’amante di Giulia, che Tacito mostra di avere in considerazione (considera le parole: familia nobili, sollers ingenio et prave facundus), viene dapprima relegato in un’isola sperduta e poi eliminato? Tacito come lo dipinge e su quale sfondo naturale ne descrive la morte? 5. Prova a pensare perché la lettera ad Augusto suggerita forse da Sempronio Gracco ai danni di Tiberio fu ritenuta un fatto così grave degno dell’esilio. 6. L’imperatore Tiberio, secondo Tacito, ha a che fare con la morte di Sempronio Gracco? (Considera anche il Post-testo) ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Quale perifrasi usa Tacito per parlare dell’esilio di Giulia? Quali verbi sceglie per indicarne la morte? 2. florentibus Gaio et Lucio Caesaribus: di che costrutto si tratta? Perché Tacito fa questa precisazione sui due primi figli di Giulia, subito adottati da Augusto alla nascita? Sai che cosa accadde ai due eredi? 3. Tiberio: che caso è? Che verbo puoi sottintendere? Ci sono nel passo altre ellissi? 4. nex, necis è un termine che ha sempre a che fare con una morte violenta. Quale altro termine molto negativo usa Tacito per bollare l’atteggiamento di Tiberio verso Sempronio Gracco? 5. in prominenti litoris (riga 12): spiega il costrutto tipicamente tacitiano.
SECONDA PARTE
Traduzione e confronto con un altro testo in lingua latina I Saturnali di Macrobio (seconda metà del IV secolo) sono un dialogo erudito tra personaggi autorevoli per censo e cultura, durato tre giorni dal 17 al 19 dicembre e ambientato a Roma in casa del pagano Pretestato; ogni interlocutore espone in lunghi monologhi un tema a scelta, al mattino temi più seri, al pomeriggio più leggeri. Qui siamo nel pomeriggio della prima giornata e chi parla è il giovane Avieno, che si è dapprima soffermato sui motti di spirito di Augusto. Poi prosegue a parlare di Giulia della quale scopriamo molti squarci di vita privata. © Casa Editrice G. Principato SpA
9
Tema
1
LINGUA E CULTURA LATINA PRE-TESTO
«Volete che raccontiamo anche qualche battuta di sua figlia Giulia? Se non mi giudicate un chiacchierone, vorrei far precedere qualche notizia sui costumi di quella donna, a meno che qualcuno di voi abbia argomenti seri e istruttivi da esporre». Tutti lo esortavano a continuare, ed egli parlando di Giulia cominciò così.
Macrobio, Saturnali, II 5, 2-5 e 8
Annum agebat tricesimum et octavum, tempus aetatis, si mens sana superesset, vergentis in senium; sed indulgentia tam fortunae quam patris abutebatur, cum alioquin litterarum amor multaque eruditio, quod in illa domo facile erat, praeterea mitis humanitas minimeque saevus animus ingentem feminae gratiam conciliarent, mirantibus qui vitia noscebant tantam pariter diversitatem. Non semel praeceperat pater, temperato tamen inter indulgentiam gravitatemque sermone, moderaretur profusos cultus perspicuosque comitatus. Idem cum ad nepotum turbam similitudinemque respexerat qua repraesentabatur Agrippa, dubitare de pudicitia filiae erubescebat. Itaque inter amicos dixit duas habere se filias delicatas, quas necesse haberet ferre, rem publicam et Iuliam. Venerat ad eum licentiore vestitu, et oculos offenderat patris tacentis. Mutavit cultus sui postera die morem et laetum patrem affectata severitate complexa est. At ille, qui pridie dolorem suum continuerat, gaudium continere non potuit, et: «Quantum hic – ait – in filia Augusti probabilior est cultus». Non defuit patrocinio suo Iulia his verbis: «Hodie enim me patris oculis ornavi, heri viri». Item cum gravem amicum audisset Iulia suadentem melius facturam si se composuisset ad exemplar paternae frugalitatis, ait: «Ille obliviscitur Caesarem se esse, ego memini me Caesaris filiam». POST-TESTO
È nota anche quest’altra battuta. In uno spettacolo di gladiatori Livia e Giulia attiravano gli sguardi della gente per la diversità del séguito: Livia era attorniata da uomini seri, l’altra era assediata da una schiera di giovanotti che rivelavano dissoluta raffinatezza. Il padre le fece notare in un biglietto la differenza fra le due prime signore di Roma; essa gli mandò una risposta brillante: “Costoro invecchieranno con me”. (Pre-testo e post-testo: traduzione di N. Marinone, Utet 1967)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Quando Giulia cade in disgrazia (intorno al 2 a.C.) non è affatto vecchia secondo i nostri standard, eppure come la considera Macrobio? 2. Che cosa si dice dell’educazione ricevuta da Giulia in famiglia? E del suo carattere? Macrobio è severo o comprensivo con lei? 3. Considera ora il rapporto padre-figlia; Augusto non semel praeceperat (ut)... moderaretur: che cosa ricavi da questa espressione, soprattutto dall’avverbio? Con quali parole Augusto si rivolge alla figlia? Solo con severità? E quando prova vergogna dei propri cattivi pensieri? 4. Abbigliamento (cultus) e frequentazioni (comitatus): sono questi i punti deboli messi in chiaro da Augusto alla figlia troppo indipendente e pronta a trasgredire. Con quale aggettivo Augusto accompagna la parola filias parlando della res publica e di Giulia? 5. Considera le battute messe in bocca a Giulia: che cosa ti fanno capire della sua personalità? Riconosci nell’ultima un tratto di superiorità dovuto alla nascita nella porpora? 6. Quali virtù romane sono evocate nel passo? Rispondono all’ideologia augustea? 10
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1 ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. si mens sana superesset: è protasi di che tipo? Questa scelta sintattica sottintende un giudizio da parte di Macrobio sull’equilibrio di Giulia. Quale? 2. mirantibus (riga 4): che caso è? Di che costrutto si tratta? 3. patris oculis (riga 14): che caso e che complemento è oculis? 4. Rileggendo il testo latino, ti sembra di notare a un certo punto un cambiamento di stile? Macrobio nelle prime righe risente, a tuo avviso, dell’influenza di Tacito? VERSO UN CONFRONTO 1. I due passi parlano della stessa persona, Giulia, ma in modo assai diverso: Tacito la osserva per così dire da lontano, concentrando in poche righe un’intera vita e il giudizio su di essa. Non sottace gli sbagli della donna, ma sembra più colpito dai modi obliqui di Tiberio. Macrobio invece si concentra su aneddoti tutti tesi a illustrare un solo aspetto di Giulia, la sua spigliatezza provocatoria, la prontezza nel linguaggio, l’energia e la voglia di indipendenza. Il punto di vista di Tacito è quello dello storico abituato a riassumere una vita in poche righe; è una sua abitudine alla fine della vita di un personaggio ripercorrerne sinteticamente l’esistenza ed emettere un giudizio. Nota i termini che egli usa per indicare le circostanze della morte della povera Giulia, uno molto neutro (supremum diem obiit), un altro più complesso da interpretare (inopia ac tabe longa peremit). Prova a riassumere qual è il giudizio di Tacito su Giulia, e indirettamente su Tiberio. Come ne esce quest’ultimo? Perché Tacito attribuisce così tanta importanza all’evento della morte, al punto di concentrare nel passo ben due eventi luttuosi? 2. In Macrobio manca l’elemento funebre, il tono è più sereno: potremmo parlare di cronaca della quotidianità espansa in una serie di aneddoti spiritosi, tutti vertenti su un singolo aspetto della personalità della giovane donna ma anche su una contraddizione tra vizi e virtù. Ma Macrobio vuole anche sottolineare il complesso legame Augusto-Giulia, che non è fatto solo di severa censura ma a tratti di affettuosa indulgenza e quasi di complicità; Giulia con la sua prontezza di spirito è in fondo la perfetta figlia di suo padre. L’autore rende omaggio inoltre all’intera casa imperiale cui riconosce apertamente di attribuire valore all’amore per la letteratura e alla passione per la cultura. Macrobio non considera affatto il rapporto con il terzo marito Tiberio che invece Tacito aveva messo in primo piano anche dilungandosi sulla morte tragica di Sempronio cui Tiberio non fu estraneo. Spiega come dagli aneddoti riportati da Macrobio emergano nel rapporto padre-figlia sia un conflitto sia al contempo un attaccamento profondo. 3. Consideriamo ora il diverso stile dei due autori. Macrobio accumula nelle prime righe una serie di dati su età, aspetto, cultura, ambiente, compresenza di doti di spirito e di sfrenatezza. Sono righe tracciate in stile tacitiano. La seconda parte del brano invece – fatta di frasi brevi giustapposte, con prevalenza dell’indicativo e scambi di battute dirette – fa pensare più a Svetonio, cioè alla biografia. Sapresti indicare nel passo di Macrobio almeno due tratti distintivi di stile tacitiano nelle scelte sintattiche?
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LINGUA E CULTURA LATINA
Fonti quasi miracolose PRIMA PARTE
Plinio il Giovane, Epistole, IV 30
Traduzione di un testo in lingua latina Per i Romani erano sacre alle Ninfe tutte le acque correnti e le loro sorgenti, al punto che non solo avevano eretto un tempio sul Gianicolo a Fons o Fontus, ma addirittura si celebrava il 13 ottobre la festa dei Fontinalia, durante la quale si gettavano ghirlande di fiori nelle acque, si adornavano i pozzi con corone, racconta Varrone, si facevano libagioni con vino puro e si sacrificavano animali. Gli antichi Greci ritenevano che le sorgenti fossero tutte sotterraneamente collegate con l’oceano come a un grande albero: Ὠκεανοῦ πέταλα κρᾶναι, «sorgenti foglie dell’Oceano» dice Pindaro nel fr. 326 Snell-Maehler. L’epistolario di Plinio in dieci libri – scritto e rielaborato non escludendo la possibilità della pubblicazione – non è uno specchio di tempi tragici come fu quello di Cicerone ma rivela un’epoca pacifica in cui tutto è nelle mani del principe e dell’esercito. La sensibilità di Plinio per il paesaggio e gli spettacoli naturali è costante; basti pensare alla descrizione delle Fonti del Clitumno, o a quella delle sue numerose ville, ben due sul lago di Como. Il brano che ti proponiamo parla di una fontana proprio nei dintorni di Como che presenta uno strano fenomeno di intermittenza, che si ripete puntualmente durante la giornata. Plinio chiede all’amico Licinio Sura di spiegargli il motivo del singolare evento. È mirabile e accurata la descrizione della sorgente a lui ben nota perché situata nei luoghi della sua infanzia, quel lago che egli non dimentica mai, ma interessanti sono anche alcune ipotesi scientifiche che Plinio, abbastanza insolitamente, avanza con coraggio.
C. Plinius Licinio Surae1 suo s. Attuli tibi ex patria mea pro munusculo quaestionem altissima ista eruditione dignissimam. Fons2 oritur in monte, per saxa decurrit, excipitur cenatiuncula3 manu facta; ibi paulum retentus in Larium lacum decidit. Huius mira natura: ter in die statis auctibus ac diminutionibus crescit decrescitque. Cernitur id palam et cum summa voluptate deprenditur. Iuxta recumbis et vesceris, atque etiam ex ipso fonte (nam est frigidissimus) potas; interim ille certis dimensisque momentis vel subtrahitur vel adsurgit. Anulum seu quid aliud ponis in sicco, adluitur sensim ac novissime operitur, detegitur rursus paulatimque deseritur. Si diutius observes, utrumque iterum ac tertio videas. Spiritusne aliquis occultior os fontis et fauces modo laxat modo includit, prout inlatus occurrit aut decessit expulsus? Quod in ampullis ceterisque generis eiusdem videmus accidere, quibus non hians nec statim patens exitus. Nam illa quoque, quamquam prona atque vergentia, per quasdam obluctantis animae moras crebris quasi singultibus sistunt quod effundunt. An, quae oceano natura, fonti quoque, quaque ille ratione aut impellitur aut resorbetur, hac modicus hic umor vicibus alternis supprimitur vel egeritur? An, ut flumina, quae in mare deferuntur, adversantibus ventis obvioque aestu retorquentur, ita est aliquid quod huius fontis excursum repercutiat? […] Scrutare tu causas (potes enim), quae tantum miraculum efficiunt: mihi abunde est, si satis expressi quod efficitur. Vale. 1 Licinio Surae: Licinio Sura apparteneva al gruppo dei seguaci ispanici dell’imperatore Traiano, al quale fu molto vicino: lo seguì in Dacia e per lui forse scriveva i discorsi. Era un uomo colto, soprattutto nel campo delle scienze naturali, e fu tra i protettori del poeta Marziale.
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2 Fons: la fonte esiste ancor oggi nel territorio di Torno e fu nota tra gli altri a Leonardo da Vinci. 3 cenatiuncula: è una piccola sala da pranzo all’aperto che i Romani amavano apprestare accanto all’acqua corrente, là dove si formava una rinfrescante piscina.
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2 POST-TESTO
Oppure hanno i canali interni una determinata capacità, sicché fin che le acque recuperano ciò che hanno versato, il corso d’acqua diviene più debole e lento, dopo che lo hanno raccolto, più spedito e copioso? O infine esiste un bacino regolatore profondo e invisibile, che, mentre si scarica risveglia e fa sgorgare la sorgente, quando si riempie la trattiene e la soffoca?
(Traduzione di L. Rusca, BUR 1994)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Come definisce Plinio la nativa Como? In due punti tra loro lontani si complimenta col suo interlocutore Licinio Sura: indica con quali formule. 2. In che direzione scorre l’acqua della fonte? Considera la formazione di decurrit e di decidit; quest’ultimo verbo potrebbe alludere a una cascata? 3. status, a, um (dal verbo sisto): quale caratteristica indica, dei movimenti della fonte? E a questi movimenti come reagisce l’osservatore? Il flusso dell’acqua è descritto anche più avanti: con quali altre parole? 4. La lettera si può dividere in due parti: la prima è descrittiva, la seconda intende proporre delle spiegazioni. Quale prima spiegazione, alquanto misteriosa, dà Plinio del fenomeno della fonte intermittente? Ricorda che spiritus è un vento, una corrente d’aria, ma l’espressione spiritus occultior non potrebbe forse alludere a una sorta di “spirito della natura” in grado di dar vita a molti fenomeni, secondo un modo di pensare riconducibile o alla filosofia stoica o addirittura a quella medioplatonica che proprio allora si andava sviluppando? 5. A quale complicata similitudine ricorre Plinio? 6. La fonte come è definita rispetto all’oceano? 7. Ti pare si possa dire che il paesaggio descritto è un locus amoenus? Individuane gli elementi topici. ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Si observes... videas: che periodo ipotetico è? 2. quibus... exitus (sott. est): che caso e che complemento è? 3. quod... repercutiat: spiega il valore sintattico di questa relativa al congiuntivo. Il verbo repercutio è un composto di ...? Il prefisso re- che tipo di movimento indica? 4. mihi abunde est, si satis expressi: di che periodo ipotetico si tratta? Che cosa ti rivela di Plinio? SECONDA PARTE
Traduzione e confronto con un testo in lingua latina Plinio il Vecchio (circa 25-79) fu al contempo uomo d’azione (militò per oltre un decennio nelle legioni stanziate sul Reno) e studioso della natura, il quale incessantemente alternava la ricerca coi suoi doveri di ufficiale di cavalleria e da ultimo con quelli di ammiraglio della flotta di Capo Miseno: leggeva o si faceva leggere da uno schiavo, annotava, ricavava estratti. Non c’era libro che non lo interessasse e dal quale non sapesse estrarre qualcosa di utile. È autore di almeno due opere storiche, entrambe perdute, di vari trattati tecnici, ma soprattutto di un’opera enciclopedica, la Naturalis historia in 37 libri che abbraccia tutte le scienze della natura, un vero e proprio «inventario del mondo» come è stata definita. Si tratta di un lavoro ambizioso nella completezza della trattazione e che si innesta nella tendenza all’enciclopedismo tipica della scienza romana. La Naturalis historia è in buona sostanza compilatoria, cumulativa, interessata al particolare più che alla generalizzazione, ma con un vivido senso del meraviglioso, del singolare e della varietà della natura. Quasi alla fine del secondo libro, dopo aver parlato delle meraviglie del mare e dei luoghi in cui esso è più profondo, Plinio il Vecchio passa a considerare i mirabilia fontium, cioè i fe© Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA LATINA nomeni prodigiosi legati alle sorgenti, e ne enumera una miriade, citando fontane note ma per lo più sorgenti sconosciute, o almeno che suonano sconosciute a un lettore non erudito. Gli episodi descritti sono tutti anomali e alcuni hanno davvero dell’incredibile. PRE-TESTO
Nel Reatino una sorgente detta di Neminia nasce ora in un luogo ora in un altro indicando così la variazione nel raccolto annuale. Nel porto di Brindisi c’è una sorgente che fornisce acqua purissima ai naviganti. L’acqua che si chiama Lincestiade, acidula, rende ebbro chi la beve, né più né meno del vino; lo stesso avviene in Paflagonia e nell’agro Caleno.
Plinio il Vecchio, Storia naturale, II 231-232
Andro in insula, templo Liberi patris, fontem nonis Ianuariis semper vini sapore fundere Mucianus1 ter consul credit: Θεοδοσία vocatur. Iuxta Nonacrim in Arcadia Styx, nec odore differens nec colore, pota2 ilico necat; item in Liberoso Taurorum colle tres fontes sine remedio, sine dolore mortiferi. In Carrinensi Hispaniae agro duo fontes iuxta fluunt, alter omnia respuens, alter absorbens. In eadem gente alius aurei coloris omnes ostendit pisces, nihil extra illam aquam differentes. In Comensi iuxta Larium lacum fons largus horis singulis semper intumescit ac residit. In Cydonea insula ante Lesbum fons calidus vere tantum fluit. Lacus Sannaus in Asia circa nascente absinthio inficitur. Colophone in Apollinis Clari3 specu lacuna est, cuius potu mira redduntur oracula, bibentium breviore vita. Amnes retro fluere et nostra vidit aetas Neronis principis supremis, sicut in rebus eius rettulimus. POST-TESTO
Chi poi ignora che tutte le sorgenti sono più fresche d’estate che d’inverno?
(Pre-testo e post-testo: traduzione di A. Grilli, Giardini 1984)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Quante sono le fonti raccolte in questo breve passo? C’è un elemento che le accomuna? 2. In quale autore Plinio ha trovato notizie sulla fonte di Andro? 3. Quando nomina la fonte comasca, Plinio non si dilunga e soprattutto dà informazioni diverse rispetto a quanto farà il nipote. Diverse in cosa? 4. Ti pare si possa dire che le varie fonti descritte caratterizzino un locus amoenus? 5. Ti dice qualcosa il nome dello Stige? Il fatto che la sua acqua uccida istantaneamente è significativo della sua identità? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. pota: questo participio passato (riga 3) ha in questo caso valore attivo o passivo? 2. Dopo mortiferi che verbo sottintendi? 3. horis singulis: che complemento è? Nel passo di Plinio il Giovane si dava la stessa notizia? 1 Mucianus: Licinio Muciano, governatore della Licia sotto Nerone, poi della Siria sotto Vespasiano, scrisse un libro geografico di Mirabilia molto usato da Plinio. 2 pota: Stige è femminile sia in greco sia in latino, ma non in italiano. 3 Apollinis Clari: Apollo Clario; la città di Colofone in Ionia godeva della presenza di un santuario antichis-
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simo dedicato ad Apollo nella vicina località di Claro. Il santuario era dedicato alla triade composta dal dio, dalla sorella Artemide (Diana in latino) e dalla madre Latona. Il sacerdote di Apollo Clario, pur essendo illetterato, dopo aver bevuto l’acqua sacra emetteva oracoli in versi.
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2 4. d ifferentes (riga 6): che caso è? 5. breviore vita (penultima riga): di quale costrutto si tratta? 6. rettulimus: qui Plinio sta citando se stesso. Sai a quale sua opera, per noi perduta, sta alludendo? VERSO UN CONFRONTO 1. Il brano di Plinio il Vecchio è un esempio perfetto del suo modo di procedere, sia nell’esposizione sia nella ricerca che l’ha preceduta. Si tratta di schede giustapposte per contenuto anche se non strettamente coerenti tra di loro; in questo caso si tratta sempre di fonti ma dagli effetti più disparati e strani. Tra l’altro alcune delle località nominate, come lo Stige, sono universalmente note, altre sono menzionate nelle fonti antiche rarissimamente e suonano sconosciute a un lettore inesperto di antichità. Non è neppure escluso che, almeno per quanto riguarda gli esempi greci, Plinio derivi da una fonte greca già organizzata in questo modo. Si tratterebbe di uno dei cosiddetti paradossografi cioè scrittori di mirabilia, i quali amavano molto i fenomeni coinvolgenti le acque. Noi abbiamo in alcuni manoscritti greci una raccolta di questi autori (uno di loro fu il grande poeta ellenistico Callimaco), che però si presentano in una forma abbreviata rispetto agli originali e si esprimono non molto diversamente da come fa Plinio qui. Non c’è nessun tentativo di dare una spiegazione sperimentale dei fenomeni né di cercare verifiche. Plinio semplicemente trascrive ciò che legge e suo scopo è quello di informare e di stupire con l’infinita molteplicità della natura. La natura è la sua filosofia. Considera peraltro che altrove Plinio, quando non è assorbito da un eccesso di stupore per i mirabilia, appare molto più penetrante e sistematico. Certo egli non è, diversamente dallo scienziato moderno, uno sperimentatore: un laboratorio di Plinio non esistette. Se mai il suo laboratorio era la biblioteca, in cui studiava e ascoltava i lectores, per poi stabilire se le dottrine di quanti lo avevano preceduto erano nel giusto oppure no. Plinio compie quindi un’operazione selettiva; sa che per fare una classificazione puntuale sono essenziali la precisione terminologica e la attenta distinzione. Riesci a cogliere dalla lettura del passo qual è il metodo di lavoro di Plinio il Vecchio? 2. Singolarmente, il nipote Plinio il Giovane, che dei due non è certo lo scienziato, cerca invece una spiegazione a ciò che descrive. La descrizione è un pezzo di prosa d’arte latina da antologia, e l’autore ne è cosciente (vedi l’ultima frase). Plinio ripercorre due volte nel dettaglio lo stesso fenomeno, naturalmente cambiando sempre i termini, come per dare tutti i dati all’amico cui chiede una consulenza. È notevole che nella descrizione egli non usi mai la parola aqua. Plinio sa però di non essere in grado di spiegare il fenomeno che descrive e per questo con onestà si rivolge all’esperto. Ma saresti in grado di fare alcune distinzioni fondamentali tra i tentativi di spiegazione qui offerti? L’ultimo, nel testo latino riprodotto, si ispira a qualcosa che tutti abbiamo visto e conosciamo, cioè il fenomeno per cui col vento avverso gli estuari dei fiumi tendono a ostruirsi. Diversa è la prima spiegazione che fa appello a un misterioso soffio quasi vitale della terra. Qui sembra parlare un filosofo di ispirazione medioplatonica che non esita a credere nella presenza di pneumata e demoni all’interno della natura. Ma anche interessante è la seconda spiegazione: l’arte di Plinio, grande scrittore, descrive con assoluta precisione un fenomeno che ben conosciamo quando cerchiamo di far uscire troppo rapidamente l’acqua rovesciando una bottiglia e si crea un ingorgo, e che molto ha affaticato i fisici moderni: si tratta di un fenomeno di dinamica dei fluidi, una parte della dinamica che solo a partire dal XVIII secolo è stato possibile matematizzare grazie a equazioni complesse. © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA LATINA Per inciso il letterato Plinio alla fine si avvicina con sorprendente precisione alla spiegazione reale della questione della fonte comasca ipotizzando che essa sia legata, come effettivamente è, a una meccanica di riempimento e svuotamento di un sifone. La ricerca della dizione ornata è una costante dell’epistolario di Plinio il Giovane. Ad esempio, nella descrizione dei luoghi Plinio ritiene sia lecito procedere non historice tantum sed prope poetice “non soltanto con precisione ma quasi con arte” (2, 5). La sua preoccupazione dunque è la preziosità della forma più che il rispetto del contenuto. Discuti questo giudizio alla luce dell’analisi del brano proposto. Nel corso dei tuoi studi hai incontrato altre pagine di poesia o prosa greca e latina dedicate a sorgenti e allo scorrere delle acque? Pensa ad es. a Esiodo, a Teocrito, a Orazio, a Properzio.
La terribile Stige Pochi sanno che la fonte Stige di cui qui parla Plinio è in realtà una cascata; con un salto di 200 metri essa precipita a valle dal monte Aroania che separa l’Arcadia settentrionale, non lontano appunto dalla città di Nonàcri, dalla Acaia. Il luogo è spettacolare ma difficile da raggiungere (le guide oscillano tra le quattro e le sei ore di cammino accidentato), tant’è che pochi possono vantarsi di averlo visto. Il fiume infernale Conoscerai forse il termine Stige come designante uno dei cinque fiumi infernali, col Cocito (gemiti e pianto), l’Acheronte (dolore), il Piriflegetonte (fuoco) e il Lete (oblio): esso forma una palude, la palude Stigia, che deve essere attraversata dalle anime di quanti attendono di entrare nell’aldilà. La ragione per cui la cascata Stige fu associata a due elementi così negativi come la velenosità dell’acqua – in Plinio – e le tenebre del mondo dei morti, non è chiara. Si presume che, per quanto riguarda l’acqua, la sua velenosità sia stata dedotta nella fantasia popolare dal fatto che essendo acqua di nevaio essa è gelida e quindi pericolosa da bere. Quanto agli Inferi, un fattore forse determinante poté essere il fatto che il salto d’acqua che finisce in una profonda forra ha luogo su uno sfondo di muschio assai cupo che rende il paesaggio tenebroso: in greco moderno la cascata si chiama non a caso Mavro Nerò cioè “acqua nera”. Il grande grecista Wilamowitz, che visitò il luogo, parla di un «nastro d’argento lungo la nera e ripida roccia». La dea Stige Devi anche sapere che una dea Stige compare in Esiodo nella Teogonia (vv. 775-806) dove essa è definita “dea odiosa agli immortali, la orribile Stige, la figlia più anziana del rifluente Oceano”. La sua funzione è quella di punire gli dèi che mentono o spergiurano. In questi casi Zeus manda ad attingere dalla sua acqua Iris con una brocca d’oro. Si ritiene comunemente che la presenza di Iris sia un elemento di connessione tra la dea infera e la cascata arcadica, dato che questa precipitando crea costantemente una nube di vapore dentro cui si forma un arcobaleno, di cui Iris è l’espressione. Vedi a quante connessioni si presta, se si tengono presenti le fonti antiche e i dati di realtà geografici, una menzione pur così di passaggio.
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La morte di Augusto PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Ottaviano Augusto nasce nel 63 a.C. e muore nel 14 d.C., a settantasei anni, dopo oltre un quarantennio di potere personale assoluto e quasi sessanta di attività politica, prima come triumviro con Antonio e Lepido, poi col solo Antonio dal 36 al 31 allorché fu uno dei due uomini che governavano il mondo romano. La sua è la storia di un potere personale in crescita fino all’apogeo, sempre sotto la parvenza della forma repubblicana. In realtà la costante ricerca di un successore, conclusasi con l’adozione di Tiberio figlio di sua moglie Livia nel 4 d.C., è una conferma che Augusto non prese mai in seria considerazione la possibilità di restaurare la repubblica. Egli aveva a disposizione diversi mezzi per garantire la successione a una persona di sua scelta: questa poteva entrare a far parte della sua famiglia tramite matrimonio (Marcello, Agrippa e Tiberio diventano tutti, l’uno dopo l’altro, mariti di sua figlia Giulia) oppure con l’adozione. Augusto però sopravvive a molti dei suoi potenziali successori: Marcello innanzitutto, figlio della sorella Ottavia, poi Druso, secondogenito di Livia, che muore nel 9 a.C. (e Augusto si reca fino a Pavia per muovere incontro alle sue spoglie), e infine Gaio e Lucio Cesare, i due primogeniti tra i figli di Giulia e di Agrippa, entrambi adottati da Augusto ma presto mancati. Sopravvive, ma in esilio, Agrippa Postumo che Augusto aveva adottato ma poi diseredato. I due passi di Svetonio e di Tacito, che seguono, parlano entrambi della fine di Augusto, ma non potevano esserci resoconti più diversi. PRE-TESTO
Augusto, dopo aver assistito a Capri alle esercitazioni degli efebi, offrì loro un banchetto concedendo ogni licenza nei giochi; durante il convivio si divertì a comporre estemporaneamente in greco. […] Passò poi a Napoli; sebbene di tanto in tanto il male all’intestino lo riprendesse, tuttavia assistette alle gare ginniche quinquennali istituite in suo onore e poi, insieme a Tiberio, riprese il viaggio verso il luogo dov’era diretto.
Svetonio, Vita di Augusto 98, 5 - 99, 1-2
Sed in redeundo adgravata valetudine tandem Nolae succubuit, revocatumque ex itinere Tiberium diu secreto sermone detinuit, neque post ulli maiori negotio animum accomodavit. Supremo die identidem exquirens an iam de se tumultus foris esset, petito speculo, capillum sibi comi ac malas labantes corrigi praecepit, et admissos amicos percontatus est ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse, adiecit et clausulam:
ἐπεὶ δὲ πάνυ καλῶς πέπαισται, δότε κρότον καὶ πάντες ἡμᾶς μετὰ χαρᾶς προπέμψατε. Omnibus deinde dimissis, repente in osculis Liviae et in hac voce defecit: “Livia, nostri coniugii memor, vive ac vale!”, sortitus exitum facilem et qualem semper optaverat. Unum omnino ante efflatam animam signum alienatae mentis ostendit, quod subito pavefactus a quadraginta se iuvenibus abripi questus est. Id quoque magis praesagium quam mentis deminutio fuit, siquidem totidem milites praetoriani extulerunt1 eum in publicum. 1 extulerunt: effero è il verbo tecnico per indicare il trasporto della salma fuori dalla casa per le esequie. I pretoriani sono la guardia del corpo dell’imperatore.
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LINGUA E CULTURA LATINA POST-TESTO
Morì nella stessa camera in cui era morto suo padre; l’evento ebbe luogo sotto il consolato dei due Sesti, Pompeo e Apuleio, quattordici giorni prima delle calende di settembre, all’ora nona, quando mancavano trentacinque giorni ai settantasei anni. (Pre-testo e post-testo: traduzione di O. Bellavita)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. In quale località avviene la morte di Augusto? È improvvisa o in fondo attesa? 2. Chi è presente accanto al principe? Una, due o più persone? Prova a elencarle. Chi gli resta accanto fino all’ultimo? 3. Come si comporta Augusto nei confronti del figliastro Tiberio? Il colloquio tra i due viene menzionato perché giudicato da Svetonio importante; da quale espressione lo deduci? 4. Di che cosa si preoccupa Augusto rispetto ai suoi sudditi? E rispetto a se stesso segue un’usanza antica. Quale? Come definisce la vita rivolgendosi agli amici? 5. Nel finale il moribondo ha una sorta di allucinazione. Spiegala, tenendo conto del fatto che Svetonio fu sempre interessato agli eventi soprannaturali occorsi nei momenti cruciali della vita di un imperatore. Con quale termine Svetonio interpreta e definisce l’allucinazione? 6. Svetonio chi mette al centro della scena? E come ti appare l’atmosfera che avvolge gli ultimi momenti del principe? Quieta o sinistra? Prevale, a tuo avviso, l’ufficialità nella rappresentazione dell’imperatore o la quotidianità della vita privata? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Svetonio si attiene in genere a una forma scorrevole senza artifici. Prevale nel testo la paratassi o l’ipotassi? Il suo periodare ti pare complesso dal punto di vista sintattico? Quale modo verbale è più ricorrente? 2. an... esset: di che proposizione si tratta? Da quale verbo è retta? 3. Noti nel passo degli aggettivi esornativi o figure retoriche? 4. Individua gli ablativi assoluti (sono tre). 5. quod... questus est: di che proposizione si tratta? SECONDA PARTE
Traduzione e confronto con un testo in lingua latina Chiacchiere captate in giro all’avvicinarsi della morte di Augusto su chi potrà succedergli: il giovane Agrippa Postumo relegato nell’isola di Pianosa (arcipelago toscano) o il maturo Tiberio (aveva allora 56 anni) sostenuto dalla madre Livia? Poi che la vecchiezza ormai avanzata e i malanni del corpo debilitavano Augusto ed era vicina la fine e c’erano speranze di novità politiche, pochi dissertavano a vuoto sui vantaggi della libertà, molti paventavano una guerra, altri la desideravano.
Tacito, Annali I 4-5
Pars multo maxima imminentis dominos variis rumoribus differebant: trucem Agrippam et ignominia accensum, non aetate neque rerum experientia tantae moli parem; Tiberium maturum annis, spectatum bello, sed vetere atque insita Claudiae familiae superbia, multaque indicia saevitiae, quamquam premantur, erumpere. Hunc et prima ab infantia eductum in domo regnatrice [...]. Accedere matrem muliebri inpotentia: serviendum feminae duobusque insuper adulescentibus1 qui rem publicam interim premant quandoque distrahant. 1 adulescentibus: si tratta di Druso, figlio di Tiberio, e Germanico, nipote (figlio del fratello) e figlio adottivo.
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3 Haec atque talia agitantibus, gravescere valetudo Augusti; et quidam scelus uxoris suspectabant. Quippe rumor incesserat paucos ante mensis Augustum, comite uno Fabio Maximo2, Planasiam vectum ad visendum Agrippam; multas illic utrimque lacrimas et signa caritatis spemque ex eo fore ut iuvenis penatibus avi redderetur. Quod Maximum uxori Marciae aperuisse, illam Liviae, gnarum id Caesari; neque multo post extincto Maximo, dubium an quaesita morte, auditos in funere eius Marciae gemitus semet incusantis quod causa exitii marito fuisset. Utcumque se ea res habuit, vixdum ingressus Illyricum, Tiberius properis matris litteris accitur. Neque satis compertum est spirantem adhuc Augustum apud urbem Nolam an exanimem reppererit. Acribus namque custodiis domum et vias saepserat Livia, laetique interdum nuntii vulgabantur donec, provisis quae tempus monebat, simul excessisse Augustum et rerum potiri Tiberium fama eadem tulit. POST-TESTO
Il primo fatto del nuovo principato fu l’uccisione di Agrippa Postumo, che fu abbattuto, a fatica, mentre non se l’aspettava ed era sprovvisto di armi, da un centurione pur di animo risoluto. Tiberio non diede alcuna spiegazione in senato su questo fatto. (Traduzione di O. Bellavita)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Governare l’impero non è impresa facile: quale termine – già usato da Virgilio e da Livio – indica nelle prime righe questa difficoltà? 2. Qual è il limite, per Tacito, del povero Agrippa Postumo (il solo sopravvissuto dei figli di Giulia e di Agrippa)? 3. Quale critica viene mossa alla gens Claudia, che aveva avuto tra i suoi esponenti il famoso Appio Claudio censore, famiglia da cui proviene Tiberio per via paterna? Ti sembra giustificata la critica? 4. Considera tutti i punti in cui compare Livia, o chiamata col suo nome proprio o designata con nomi comuni (sono tre i nomi comuni da individuare). 5. Quali sono le espressioni che mostrano come Tacito si limiti a riferire, senza voler giudicare la veridicità dei rumores? 6. Livia è la regista di tutta la scena: spiega perché. Qual è il suo obiettivo? Lo raggiunge? 7. Tiberius... accitur: è un presente storico all’interno di un passo tutto al passato. Che cosa vuole ottenere Tacito con questa scelta? 8. Come ti appare l’atmosfera delle ultime ore di Augusto? Quieta o sinistra? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Individua nel testo l’oratio obliqua che esprime le dicerie (rumores) sui vari personaggi vicini ad Augusto. 2. annis... bello... superbia (riga 3): sono tre ablativi, ma tutti diversi. Spiega la funzione logica di ognuno. 3. quamquam premantur: in che senso siamo di fronte a una caratteristica linguistica tacitiana? 4. Individua gli ablativi assoluti, spesso limitati al participio, come piace a Tacito. 5. gravescere (riga 8): che forma è? Quale origine ha l’uso del verbo semplice per il composto? Perché piace tanto a Tacito? 6. Individua una variatio (là dove si presenta Tiberio). 7. Nel passo ci sono varie ellissi: individuane almeno una. 2 Fabio Maximo: Fabio Massimo, console, poi proconsole in Asia e legatus Augusti nella Spagna settentrionale. Fu amico del poeta Ovidio.
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LINGUA E CULTURA LATINA VERSO UN CONFRONTO 1. Chiediti subito: a che genere letterario appartengono i due brani? Hai a che fare con il passo di un biografo e con quello di uno storico. Svetonio e Tacito sono contemporanei, entrambi amici di Plinio il Giovane (lo testimonia l’epistolario), ma non c’è prova di un contatto diretto tra i due. Svetonio ha una quindicina d’anni in meno e fu segretario imperiale sotto Traiano e Adriano avendo così accesso ai loro archivi (egli cita, ad es., lettere di Augusto a Livia su Claudio). Non li usò sempre bene a causa del suo modo di procedere per species cioè per categorie. Fu comunque un cronista attento, interessato agli individui e alle loro azioni. La sua vena talora scandalistica va inquadrata nello sviluppo del realismo nella letteratura del II secolo e interpretata come sintomo di un più intenso interesse per la vita privata degli uomini che contano. Tacito è un senatore e come tale può consultare gli acta senatus (= i verbali delle riunioni del senato in cui erano contenuti gli ordini del giorno in discussione, i vari interventi, le deliberazioni prese, i rescritti del princeps e le acclamazioni a lui rivolte) nonché i discorsi degli imperatori (orationes); si avvale inoltre delle comunicazioni scritte che i comandanti in guerra spedivano periodicamente a Roma, delle memorie di contemporanei (come quelle del generale Corbulone o di Agrippina madre di Nerone), di testimonianze orali (audita), di rumores, cioè le voci anonime e le dicerie. Ma soprattutto Tacito fa riferimento all’opera degli storici precedenti che egli consulta direttamente, valuta, rielabora per scegliere alla fine la versione più convincente riformulando il quadro in innumerevoli dettagli. Prova a pensare a come meglio potresti intitolare il brano di Tacito se volessi dar conto della problematica affrontata. Trova un titolo meno generico di quello proposto. E al brano di Svetonio che titolo daresti? Traccia alcune caratteristiche dello stile di Tacito. 2. Per procedere a un confronto puntuale sui due testi di Svetonio e di Tacito potresti partire dalla figura di Livia. Svetonio la loda presentandola come moglie affettuosa e partecipe, ma la sua figura non risulta centrale quel 19 agosto dell’anno 14 d.C. E questo nonostante le parole che il marito le rivolge. Tacito invece la dipinge come donna abile, spietatamente efficiente ma infida, sempre pronta a tramare (ha senz’altro influenzato il marito ormai vecchio – senem – nella designazione di Tiberio alla successione, cap. 3). Ma lo storico non ha prove per accusarla direttamente. Nei due resoconti la presenza di Tiberio ha un peso diverso: in Svetonio non solo il figlio di Livia è accanto ad Augusto morente, ma addirittura ha un lungo colloquio con lui; non sappiamo cosa si dissero. Puoi fare delle ipotesi? Tacito invece non sa nemmeno dire (neque satis compertum est) se Tiberio sia arrivato in tempo al capezzale del padre adottivo. Questa espressione, come l’equivalente parum comperı˘mus «non siamo sicuri se», «poco sappiamo», ricorre quando lo storico è in difficoltà nel vagliare le varie fonti; la usava già Sallustio. Tacito in fondo trascura un po’ Augusto morente, preferisce parlare della sua segreta visita ad Agrippa Postumo, come se l’imperatore si fosse pentito di aver relegato l’ultimo figlio di Giulia, da lui adottato, nell’inospitale Pianosa (arcipelago toscano), eliminandolo così dalla successione. Svetonio, diversamente, si concentra su Augusto come persona e, da biografo, vuole immortalare le ultime parole (novissima verba) del morente. 3. Il giudizio di Tacito su Augusto non è certo benevolo (nel cap. 10, 4 del primo libro degli Annali lo storico metterà in discussione la pax Augusta: l’imperatore ha assicurato sì la pace, ma una pace cruenta “pacem sine dubio, verum cruentam”). E parimenti non è tenero il giudizio su Livia, anzi: in 10, 5 Livia verrà stigmatizzata come “madre funesta per lo stato, e più funesta matrigna per la casa dei Cesari”. Ma soprattutto Tiberio è considerato rovinoso per lo stato. Tiberio, come poi accadrà a Nerone, non è per niente amato dagli storici filosenatorii. L’episodio tacitiano or ora considerato si configura più che come racconto della morte di Augusto come un iniziale attacco al regime di Tiberio. Concordi con questa interpretazione?
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3 4. Anche se l’avvenimento trattato nei due passi è il medesimo, il tono e l’animo dei due autori sono molto diversi. Prova a spiegare questa differenza. Sapresti ricavare dal confronto qualche diversità più generale tra biografia e storia?
Livia Drusilla Livia Drusilla, figlia di M. Livio Druso, fu la terza moglie di Augusto, sposata il 17 gennaio del 38, quando ancora era moglie di Ti. Claudio Nerone, già madre di Tiberio (nato nel 42) e incinta di Druso. Fu un divorzio frettoloso quello col primo marito. Ottaviano si era innamorato di questa giovane ventenne, dotata di rara avvenenza, secondo tutte le testimonianze letterarie e iconografiche, e soprattutto di una determinazione non comune, di intelligenza ma anche di dissimulata scaltrezza politica; per lei Ottaviano lascia la moglie Scribonia che sta per partorire la piccola Giulia. Un esempio di virtù Livia saprà impersonare mirabilmente per oltre un cinquantennio tutte le virtù esemplari propagandate dal nuovo regime: «donna senza pecche, degna sotto ogni aspetto, nell’immaginario collettivo e forse anche nella pietà popolare, di essere la compagna dell’uomo del destino: lontana dai salotti mondani, assente dai rumori del mondo se non per celebrazioni religiose, distaccata, virtuosa, devota agli dei e sottomessa al marito» (L. Braccesi). Livia sarà l’anello di congiunzione tra due fazioni politiche dagli interessi contrapposti: l’aristocrazia rivoluzionaria da cui proviene Ottaviano e la nobiltà conservatrice cui apparteneva la gens Livia. Ebbe due figli: Tiberio e Druso, di quattro anni più giovane e dal carattere più aperto, disteso, accattivante, e perciò preferito da tutti, soprattutto da Augusto che lo volle far sposare con la più giovane delle Antonie, figlia della sorella Ottavia. Iulia Augusta Livia visse fino a 86 anni e fu determinante nell’ultimo decennio della vita di Augusto tanto da isolarlo rispetto alla sua stessa famiglia e da sancire il proprio ruolo ottenendo che nel testamento l’imperatore la adottasse: così Livia entrò nella gens Iulia assumendo il nome di Iulia Augusta. Quando Augusto dopo la morte sarà divinizzato, Livia si sentirà la vedova di un dio.
Così Tacito cita le sue fonti ferunt, tradunt plerique, quidam, multi = la maggior parte, certuni, molti riferiscono accepimus = abbiamo appreso memorant, memoriae traditur, ut saepe memoravi = ricordano, come spesso ho ricordato memoria teneo = ricordo (ricordo personale dello storico) audire me memini = ricordo di aver sentito perhibent = si dice (affermazione generica che però allude a fonti reali, anche se non citate) constat = è noto che plurimi auctores consentiunt = molti autori concordano quidam arbitrati sunt = certuni ritennero manifestum vel creditum est = è certo, oppure si credette facilius crediderim = sarei più propenso a credere (lo storico si contrappone ad altre ipotesi) non apud auctores rerum reperio = non trovo negli storici constat, constitit = risulta (quando le fonti sono concordi) haec consensu produntur = su questi fatti la tradizione è unanime incertum est an = non si sa se neutrum adseveraverim = non potrei garantire nessuna delle due cose sunt qui tradiderint, sunt qui abnuant = c’è chi ha tramandato e c’è chi nega (quando lo storico ha un dubbio) neque satis compertum est = e non si sa con certezza se (lo storico dubita) rerum fide tradentur = saranno esposti (da me) in base alla realtà dei fatti vario rumore (+ int. indiretta) = mentre si rincorrevano diverse voci si vera forent quae iacerentur = se risultassero vere le voci diffuse
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LINGUA E CULTURA GRECA
Educazione e competenza politica PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Nel dialogo intitolato Protagora Platone conduce la propria polemica contro i sofisti e la loro pretesa di insegnare la virtù e la sapienza, come si insegnano le altre arti e si trasmettono le altre competenze. Protagora, che dà il titolo all’opera, nacque ad Abdera nella prima metà del V secolo a.C. e visse a lungo ad Atene, dove svolse con grande successo la propria attività di insegnante, vicino agli ambienti dell’élite politica e intellettuale della città, godendo della stima di Pericle. Scrisse numerose opere, giunte a noi solo attraverso esigui frammenti. Il suo pensiero ci è noto soprattutto attraverso gli scritti di Platone, che concepì, come già Socrate prima di lui, la propria attività intellettuale in netta contrapposizione rispetto alla predicazione dei sofisti. Nel Protagora, che si presenta nella forma di un dialogo indiretto (Socrate stesso riporta in prima persona la conversazione tenuta con il sofista), Socrate confuta la tesi protagorea, secondo la quale la competenza politica può essere insegnata. Di seguito un passo tratto dalla prima parte del dialogo, in cui Socrate espone la propria posizione. PRE-TESTO
«Bell’acquisto davvero», dissi, «quest’arte che possiedi, purché tu la possieda! Non ti dirò altro se non quello che penso. Non credevo, Protagora, che ciò si potesse insegnare, ma, visto che tu lo sostieni, non ho motivo di non crederti. È giusto, però, che io spieghi perché sono convinto che questo non si potesse insegnare né procurare da uomo a uomo.
Platone, Protagora, 319 a-e
Ἐγὼ γὰρ Ἀθηναίους, ὥσπερ καὶ οἱ ἄλλοι Ἕλληνες, φημὶ σοφοὺς εἶναι. Ὁρῶ οὖν, ὅταν συλλεγῶμεν εἰς τὴν ἐκκλησίαν, ἐπειδὰν μὲν περὶ οἰκοδομίας τι δέῃ πρᾶξαι τὴν πόλιν, τοὺς οἰκοδόμους μεταπεμπομένους συμβούλους περὶ τῶν οἰκοδομημάτων, ὅταν δὲ περὶ ναυπηγίας, τοὺς ναυπηγούς, καὶ τἆλλα πάντα οὕτως, ὅσα ἡγοῦνται μαθητά τε καὶ διδακτὰ εἶναι· ἐὰν δέ τις ἄλλος ἐπιχειρῇ αὐτοῖς συμβουλεύειν ὃν ἐκεῖνοι μὴ οἴονται δημιουργὸν εἶναι, κἂν πάνυ καλὸς ᾖ καὶ πλούσιος καὶ τῶν γενναίων, οὐδέν τι μᾶλλον ἀποδέχονται, ἀλλὰ καταγελῶσι καὶ θορυβοῦσιν, ἕως ἂν ἢ αὐτὸς ἀποστῇ ὁ ἐπιχειρῶν λέγειν καταθορυβηθείς, ἢ οἱ τοξόται αὐτὸν ἀφελκύσωσιν ἢ ἐξάρωνται κελευόντων τῶν πρυτάνεων 1. Περὶ μὲν οὖν ὧν οἴονται ἐν τέχνῃ εἶναι, οὕτω διαπράττονται· ἐπειδὰν δέ τι περὶ τῶν τῆς πόλεως διοικήσεως δέῃ βουλεύσασθαι, συμβουλεύει αὐτοῖς ἀνιστάμενος περὶ τούτων ὁμοίως μὲν τέκτων, ὁμοίως δὲ χαλκεὺς σκυτοτόμος, ἔμπορος ναύκληρος, πλούσιος πένης, γενναῖος ἀγεννής, καὶ τούτοις οὐδεὶς τοῦτο ἐπιπλήττει ὥσπερ τοῖς πρότερον, ὅτι οὐδαμόθεν μαθών, οὐδὲ ὄντος διδασκάλου οὐδενὸς αὐτῷ, ἔπειτα συμβουλεύειν ἐπιχειρεῖ.
1 τῶν πρυτάνεων: i pritani presiedevano l’ekklesìa, mentre gli arcieri vigilavano sullo svolgimento dell’assemblea.
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È chiaro che questo accade perché non la considerano cosa che si possa insegnare. E bada che questo non accade solo nella vita pubblica della città, ma che anche nella vita privata i più sapienti e i migliori cittadini non sono capaci di trasmettere ad altri quella virtù che essi possiedono». (Pre-testo e post-testo: traduzione di R. Capel Badino)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. L’argomento socratico consiste nel paragone fra la virtù politica e altri mestieri. Quali? 2. Rispetto alla competenza, sia tecnica sia politica, Socrate abbatte la distinzione di censo e di provenienza sociale. Individua i passi in cui è espresso questo concetto. 3. La questione filosofica ruota intorno a due aggettivi verbali: individuali e analizzali. 4. Con quale espressione è indicata l’attività politica (contrapposta alle competenze tecniche)? 5. Nel testo è vivacemente rappresentata una scena di assemblea ad Atene. Come viene descritta la folla cittadina? Rifletti sull’insistenza intorno a termini legati alla radice di θόρυβος (“confusione”, “frastuono” con conseguente sbandamento). ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. ὅταν συλλεγῶμεν: che tipo di subordinata è? In che modo è espresso il verbo e perché? 2. κἂν: che tipo di subordinata introduce? Qual è il verbo della subordinata introdotta dalla congiunzione? 3. τῶν γενναίων: che funzione ha questo genitivo? 4. μαθών... ὄντος: spiega la differenza nella costruzione di questi due participi. Come potresti definire la figura retorica qui adottata da Platone? 5. Individua nel testo un asindeto. 6. È possibile secondo te rintracciare in questo testo il tratto caratteristico dello stile argomentativo socratico, l’ironia? Se sì, spiega in che punto e con quale funzione. SECONDA PARTE
Traduzione e confronto con un testo in lingua greca Nell’orazione Contro i sofisti, una sorta di manifesto programmatico della scuola retorica da lui fondata ad Atene, Isocrate difende la propria attività di insegnante e il proprio modello educativo, in contrapposizione sia a quello filosofico propugnato da Platone, sia all’insegnamento corrente praticato dai sofisti. L’ideale educativo di Isocrate fa della formazione retorica l’asse portante della παιδεία greca. Il primato dell’oratoria nel progetto educativo isocrateo – come dimostra il passo qui di seguito riprodotto – poggia sulla convinzione che, sebbene la virtù non si possa insegnare (come invece pretendono di fare i sofisti, in cambio di lauti compensi), tuttavia la formazione all’arte retorica sia in grado più modestamente di migliorare le persone che ne intraprendono il percorso. Nel pre-testo e nel post-testo appare evidente l’impianto polemico del discorso. Nella sezione centrale in lingua originale puoi leggere la parte propositiva del modello educativo di Isocrate. PRE-TESTO
Se io devo, non solo muovere accuse agli altri, ma anche manifestare il mio pensiero, ebbene, penso che tutte le persone assennate siano d’accordo con me nel dire che molti di quelli che si sono dedicati alla filosofia continuano a essere degli sprovveduti; alcuni altri invece, che non hanno mai frequentato alcun sofista, sono diventati capaci nel dire e nel trattare i pubblici affari. © Casa Editrice G. Principato SpA
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Isocrate, Contro i sofisti, 14-15, 21-22
LINGUA E CULTURA GRECA Ἡ δὲ παίδευσις τοὺς μὲν τοιούτους τεχνικωτέρους καὶ πρὸς τὸ ζητεῖν εὐπορωτέρους ἐποίησεν· οἷς γὰρ νῦν ἐντυγχάνουσι πλανώμενοι, ταῦτ’ ἐξ ἑτοιμοτέρου λαμβάνειν αὐτοὺς ἐδίδαξεν, τοὺς δὲ καταδεεστέραν τὴν φύσιν ἔχοντας ἀγωνιστὰς μὲν ἀγαθοὺς ἢ λόγων ποιητὰς οὐκ ἂν ἀποτελέσειεν, αὐτοὺς δ’ ἂν αὑτῶν προαγάγοι καὶ πρὸς πολλὰ φρονιμωτέρως διακεῖσθαι ποιήσειεν. [...] Καίτοι τοὺς βουλομένους πειθαρχεῖν τοῖς ὑπὸ τῆς φιλοσοφίας ταύτης προσταττομένοις πολὺ ἂν θᾶττον πρὸς ἐπιείκειαν ἢ πρὸς ῥητορείαν ὠφελήσειεν. Καὶ μηδεὶς οἰέσθω με λέγειν ὡς ἔστιν δικαιοσύνη διδακτόν· ὅλως μὲν γὰρ οὐδεμίαν ἡγοῦμαι τοιαύτην εἶναι τέχνην, ἥτις τοῖς κακῶς πεφυκόσιν πρὸς ἀρετὴν σωφροσύνην ἂν καὶ δικαιοσύνην ἐμποιήσειεν· οὐ μὴν ἀλλὰ συμπαρακελεύσασθαί γε καὶ συνασκῆσαι μάλιστ’ ἂν οἶμαι τὴν τῶν λόγων τῶν πολιτικῶν ἐπιμέλειαν. POST-TESTO
Affinché però non sembri che demolisca i programmi altrui, e che io stesso faccia promesse più grandi di quanto è possibile, facilmente, credo, renderò anche agli altri evidenti le ragioni per cui mi sono io stesso convinto che la cosa è così. (Pre-testo e post-testo: traduzione di A. Argentati)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Al centro del discorso di Isocrate sta la riflessione sull’educazione. Quali sono i due sostantivi che l’autore adotta, usandoli come sinonimi, per esprimere il concetto di educazione? Sai spiegarne l’etimologia? 2. Per Isocrate l’educazione retorica è fondamentalmente questione di metodo, insegnando a non affidarsi al caso per avere successo in una controversia. Con quali parole Isocrate indica il procedere casuale di chi non ha ricevuto una formazione sistematica? 3. Isocrate sembra voler ridimensionare la possibilità che l’educazione e l’insegnamento possano influire in modo determinante su chi non possieda una predisposizione naturale, nella formazione sia dell’oratore sia del buon cittadino. In che punti del testo viene espressa e sviluppata questa idea? 4. In che misura – secondo Isocrate – l’educazione può contribuire a formare un buon oratore e un buon cittadino? 5. Con quale sostantivo Isocrate indica la virtù del buon cittadino a cui può avviare l’educazione retorica? 6. Quale genere dell’oratoria conviene praticare, secondo Isocrate, per educare alla virtù? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. οἷς: a che cosa si riferisce questo pronome relativo? In che posizione si trova rispetto al proprio antecedente? 2. λόγων ποιητάς: spiega questa perifrasi. A chi si riferisce Isocrate? Qual è il significato primario della parola ποιητής? 3. Nel testo sono presenti numerosi ottativi. Individuali e indica qual è il loro valore. Secondo te, quale carattere conferisce alla prosa isocratea l’uso di questo modo verbale? 4. τοῖς ὑπὸ τῆς φιλοσοφίας ταύτης προσταττομένοις: di che genere è questo participio sostantivato? Maschile o neutro? È possibile tradurlo con un sostantivo? Se sì, quale ti sembra adatto? 5. La prosa di Isocrate si caratterizza per una sintassi ampia e armoniosa e un argomentare misurato e sottile. Evidenzia nel testo i nessi logici, prestando attenzione anche all’uso 24
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4 delle particelle. In che punto del testo le particelle μέν... δέ servono da congiunzioni avversative? 6. Qual è il valore del nesso οὐ μὴν ἀλλά? Introduce una frase che consegue alla precedente o che la contraddice? Oppure ne delimita la validità? VERSO UN CONFRONTO 1. I due passi di Platone e di Isocrate sono accomunati dal fatto che entrambi entrano in polemica con i sofisti, in particolare in merito al tema dell’efficacia dell’insegnamento. La tesi di Platone è radicale: la sua prospettiva è quella della competenza politica, che non coincide con un’arte (una competenza tecnica) che possa essere insegnata. Anche Isocrate è scettico rispetto alla possibilità di insegnare le virtù politiche, ma appare più ottimista riguardo alla possibilità che l’educazione retorica possa efficacemente accompagnare il cittadino al miglioramento di sé, attraverso l’esercizio e la tecnica. Evidenzia i passi dei due testi da cui emergono i punti di accordo fra i due autori. Che cosa invece distingue il discorso di Isocrate da quello di Platone? 2. Prova a osservare la differenza di stile e di linguaggio fra i due testi. Platone attinge al linguaggio e alle immagini della vita quotidiana di Atene, mentre Isocrate tende al ragionamento astratto. Le differenze di stile hanno a che fare anche con il pubblico al quale gli autori si rivolgono. Che scopo ha in Platone l’uso di numerose immagini tratte dall’esperienza comune dei cittadini ateniesi? Il linguaggio adottato da Isocrate che cosa suggerisce circa il destinatario dell’orazione Contro i sofisti? Quello di Isocrate è un testo rivolto a un pubblico vasto o di specialisti? 3. Il brano di Platone è tratto da un dialogo. Come è evidente anche nel passo qui riprodotto, benché non comprenda uno scambio di battute, per natura il dialogo contrappone opinioni diverse, le mette a confronto e le sviluppa, nel tentativo di raggiungere un accordo. Al contrario l’orazione epidittica, il genere a cui appartiene il testo di Isocrate, non conosce la possibilità del confronto, ma anche l’oratore, sviluppando i propri argomenti, previene e confuta possibili obiezioni. Sei in grado di riconoscere nel testo di Isocrate questo impianto argomentativo? In che punto l’oratore sembra difendersi dall’obiezione di un interlocutore immaginario? 4. La questione posta da Platone e affrontata anche da Isocrate solleva interrogativi anche oggi. Nel dibattito pubblico contemporaneo ci si interroga intorno al rapporto fra politica e competenza e sul ruolo che le agenzie educative (come la scuola) svolgono per costruire nei cittadini quelle qualità indispensabili per un esercizio consapevole della cittadinanza. Insomma esiste anche oggi una questione che riguarda la democrazia, il suo rapporto coi saperi tecnici (economia, scienza) e la funzione dell’educazione. Proponi una sintetica riflessione intorno a questi temi. Ha senso parlare di competenza in politica? L’esercizio della cittadinanza ha a che fare anche con la conoscenza? Che ruolo può avere la scuola e quali saperi possono maggiormente contribuire alla formazione del buon cittadino?
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La democrazia ateniese La suddivisione della cittadinanza Su base territoriale, tre regioni: entroterra (μεσόγαια), costa (παραλία), città (ἄστυ). Su base amministrativa, demoi (δῆμοι), raggruppati in 30 trittie (τριττύες), 10 per regione, che a tre a tre (una da ciascuna regione) componevano le 10 tribù (φυλαί).
Le assemblee Συνελεύσεις Ἐκκλησία / Δῆμος: l’assemblea popolare. I suoi membri non sono scelti, ma vi partecipano tutti i cittadini con pieni diritti: gli ateniesi maschi che avessero svolto il servizio militare (i maggiorenni con più di vent’anni). Era il massimo organo deliberativo, convocato dai pritani, quattro volte per ogni pritania. Aveva sovranità in politica estera e legislazione ed esercitava alcune funzioni giudiziarie e di controllo dei magistrati. Si riuniva sulla collina della Pnice (ἡ Πνύξ). Βουλή / οἱ Πεντακόσιοι: il consiglio, istituito da Clistene, composto da cinquecento cittadini di età superiore ai trent’anni, designati annualmente per sorteggio. Suddiviso in dieci sezioni, chiamate pritanie (πρυτανεῖαι), una per tribù, che ne presiedevano le sedute a turno (πρυτανεία, 35 giorni). Le funzioni del consiglio erano: di amministrazione (διοίκησις) e di preconsulenza (προβούλευσις), per cui ogni decreto (ψήφισμα) o giudizio (κρίσις) proposto all’assemblea doveva essere preliminarmente approvato dal consiglio. Si riuniva nel βουλευτήριον nella ἀγορά. Ἠλιαία: Eliea, il maggiore dei tribunali ateniesi, che discuteva le cause di maggiore importanza. Composto da mille giurati (δικασταί) estratti a sorte per tribù fra i cittadini maggiori di trent’anni. Ἄρειος πάγος: l’Areopago, così chiamato dal nome del colle sacro ad Ares sul quale si riuniva, era l’assemblea degli ex arconti. Massimo organo legislativo nell’Atene pre-democratica, con le riforme di Clistene prima (508/07 a.C.) e di Efialte poi (462/61 a.C.) il suo potere fu ridotto alla sola competenza giudiziaria in merito a delitti di sacrilegio e di sangue.
Le magistrature
Aἱ ἀρχαί
Si suddividono fra quelle assegnate per sorteggio (κλῆρος; κληροτήριον era detta la macchina per l’estrazione, ritrovata qualche anno fa e visibile al museo della Agorà di Atene) e quelle elettive (χειροτονία, lett.: alzata di mano) e fra quelle sottoposte a rendiconto (ὑπεύθυνοι) di fronte ai logisti (λογισταί) e quelle no (ἀνεύθυνοι).
Cariche sorteggiate
Ἀρχαὶ κληρωταί
Ἄρχοντες: gli arconti, in numero di nove, suddivisi fra arconte eponimo (ἐπώνυμος: dà il nome all’anno), arconte re (βασιλεύς: competenze in campo religioso), arconte polemarco (πολέμαρχος: dapprima comandante dell’esercito, come il celebre Callimaco di Afidna, caduto a Maratona, poi ridotto a figura di garanzia giudiziaria per gli stranieri), e sei tesmoteti (θεσμοθέται, con funzioni di amministrazione della giustizia), ai quali si aggiunge un segretario (γραμματεύς).
Cariche elettive
Ἀρχαὶ χειροτονηταί
στρατηγοί: dieci, uno per tribù, comandanti in capo dell’esercito, affiancati da due ipparchi (ἵππαρχοι) a capo della cavalleria. Erano eletti dall’ἐκκλησία.
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LINGUA E CULTURA GRECA
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Il dibattito delle idee PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Nel 428 a.C. l’isola di Mitilene tenta la defezione dalla Lega delio-attica, strumento dell’imperialismo ateniese, avviando trattative con Sparta. Scoperto il tentativo insurrezionale dei Mitilenesi e ottenuta la loro resa, ad Atene si dibatte su quale sia la punizione da infliggere ai ribelli. Tucidide riporta il drammatico scontro che avviene nell’assemblea in due giorni consecutivi, fornendo uno spaccato della situazione politica ad Atene e un saggio dei meccanismi (talora perversi) del regime democratico. Si contrappongono i pareri di Cleone, che in una prima seduta chiede e ottiene che sia inviata una milizia a sterminare la popolazione dell’isola, e di Diodoto, il quale si fa portatore di una posizione più moderata. Respinta la sua mozione, Diodoto ottiene tuttavia che in una seconda seduta sia sottoposta a riesame la decisione varata appena il giorno prima. Il primo a parlare, in questa seconda discussione, è Cleone, rivendicando il diritto di Atene di esercitare il proprio potere con il massimo rigore. Sotto si riporta l’inizio della risposta di Diodoto. PRE-TESTO
Tali le parole di Cleone. Dopo di lui si fece avanti a parlare Diodoto, figlio di Eucrate, che anche nella precedente assemblea aveva contrastato la proposta di sterminare i Mitilenesi, e pronunciò questo discorso:
Tucidide, La guerra del Peloponneso, III 42
Οὔτε τοὺς προθέντας τὴν διαγνώμην αὖθις περὶ Μυτιληναίων αἰτιῶμαι, οὔτε τοὺς μεμφομένους μὴ πολλάκις περὶ τῶν μεγίστων βουλεύεσθαι ἐπαινῶ, νομίζω δὲ δύο τὰ ἐναντιώτατα εὐβουλίᾳ εἶναι, τάχος τε καὶ ὀργήν, ὧν τὸ μὲν μετὰ ἀνοίας φιλεῖ γίγνεσθαι, τὸ δὲ μετὰ ἀπαιδευσίας καὶ βραχύτητος γνώμης. Τούς τε λόγους ὅστις διαμάχεται μὴ διδασκάλους τῶν πραγμάτων γίγνεσθαι, ἢ ἀξύνετός ἐστιν ἢ ἰδίᾳ τι αὐτῷ διαφέρει· ἀξύνετος μέν, εἰ ἄλλῳ τινὶ ἡγεῖται περὶ τοῦ μέλλοντος δυνατὸν εἶναι καὶ μὴ ἐμφανοῦς φράσαι, διαφέρει δ’ αὐτῷ, εἰ βουλόμενός τι αἰσχρὸν πεῖσαι εὖ μὲν εἰπεῖν οὐκ ἂν ἡγεῖται περὶ τοῦ μὴ καλοῦ δύνασθαι, εὖ δὲ διαβαλὼν ἐκπλῆξαι ἂν τούς τε ἀντεροῦντας καὶ τοὺς ἀκουσομένους. Χαλεπώτατοι δὲ καὶ οἱ ἐπὶ χρήμασι προκατηγοροῦντες ἐπίδειξίν τινα. […] Ἥ τε πόλις οὐκ ὠφελεῖται ἐν τῷ τοιῷδε· φόβῳ γὰρ ἀποστερεῖται τῶν ξυμβούλων. Καὶ πλεῖστ’ ἂν ὀρθοῖτο ἀδυνάτους λέγειν ἔχουσα τοὺς τοιούτους τῶν πολιτῶν· ἐλάχιστα γὰρ ἂν πεισθεῖεν ἁμαρτάνειν. POST-TESTO
È dovere del buon cittadino cercare di prevalere nel dibattito non spaventando gli avversari, ma gareggiando alla pari; parimenti una città razionale non deve aggiungere onori a chi per lo più fa buone proposte, ma neppure diminuire gli onori che già gli spettano; e non solo non deve punire chi non ottiene il consenso, ma neppure umiliarlo. (Pre-testo e post-testo: traduzione di R. Capel Badino)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. All’inizio del proprio discorso, Diodoto fa capire che quella in corso è la seconda discussione intorno alla questione di Mitilene. Con quale avverbio indica l’idea dell’iterazione? 2. La questione di Mitilene è questione rilevante per Atene o è un fatto marginale di politica estera, secondo Diodoto? Da che cosa lo si capisce? © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA GRECA 3. Q uali sono le condizioni che maggiormente contrastano con la possibilità di prendere una decisione ponderata ed efficace? 4. λόγοι διδάσκαλοι τῶν πραγμάτων: prova a spiegare questa metafora. Che cosa intende dire l’oratore? 5. Quali sono, secondo l’oratore, le due ragioni per cui non si dovrebbe voler discutere preliminarmente le azioni? 6. Quale tipo di accusa inquina, secondo Diodoto, il corretto svolgimento di una discussione? Osserva il participio προκατηγοροῦντες: il preverbo προ- come modifica il significato del verbo? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Ricerca nel testo il lessico tecnico specifico della lotta politica ateniese. 2. Il primo periodo è costruito con arte: due coordinate parallele, contrapposte a una avversativa. Quali sono le congiunzioni che uniscono le tre sovraordinate? 3. Riconosci nel testo forme tipicamente attiche, tipiche della lingua di Tucidide? 4. ἄλλῳ τινί: questi indefiniti sono di genere maschile o neutro? 5. Sai trovare alcuni esempi di litote?
SECONDA PARTE
Traduzione e confronto con un testo in lingua greca Al cospetto di Serse, re dell’Impero persiano, che vuole organizzare una spedizione contro la Grecia, si svolge un dibattito fra i suoi consiglieri: da una parte Mardonio, che asseconda il re, esponendo i vantaggi di una spedizione militare, dall’altra Artabano, che, osando contraddire il sovrano, cerca di presentare un punto di vista differente, illustrando i punti deboli dell’impresa progettata e consigliando la prudenza, anche in nome di un’etica che mette in guardia dal pericolo della ὕβρις. Come Tucidide, in un contesto del tutto differente (non l’Atene democratica, ma la monarchia assoluta della Persia), anche Erodoto, attribuendo un discorso al personaggio di Artabano, esprime alcune considerazioni sulla necessità, per il buon governo, di decidere dopo aver vagliato i pareri. Nell’affrontare la traduzione ricorda che Erodoto scrive in ionico. Una caratteristica del dialetto ionico si riscontra nella tendenza a evitare il fenomeno della contrazione. PRE-TESTO
Dopo aver in tal modo convalidato l’opinione di Serse, riducendone le difficoltà, Mardonio smise di parlare.
Erodoto, Storie, VII 10
Σιωπώντων δὲ τῶν ἄλλων Περσέων καὶ οὐ τολμώντων γνώμην ἀποδείκνυσθαι ἀντίην τῇ προκειμένῃ, Ἀρτάβανος ὁ Ὑστάσπεος, πάτρως ἐὼν 1 Ξέρξῃ, τῷ2 δὴ καὶ πίσυνος ἦν, ἔλεγε τάδε· Ὦ βασιλεῦ, μὴ λεχθεισέων μὲν γνωμέων ἀντιέων ἀλλήλῃσι οὐκ ἔστι τὴν ἀμείνω αἱρεόμενον ἑλέσθαι, ἀλλὰ δεῖ τῇ εἰρημένῃ χρᾶσθαι, λεχθεισέων δὲ ἔστι, ὥσπερ τὸν χρυσὸν τὸν ἀκήρατον αὐτὸν μὲν ἐπ’ ἑωυτοῦ3 οὐ διαγινώσκομεν, ἐπεὰν δὲ παρατρίψωμεν ἄλλῳ χρυσῷ, διαγινώσκομεν τὸν ἀμείνω. [...] Σὺ ὦν4 μὴ βουλεύεο ἐς 1 ἐών: forma ionica del participio presente, nominativo maschile, di εἰμί (ἐών, ἐοῦσα, ἐόν). Vedi anche sotto, dove si trova lo stesso participio variamente declinato. 2 τῷ: forma ionica del pronome relative (att.: ᾧ).
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3 ἑωυτοῦ: forma ionica del pronome riflessivo di terza persona (att.: ἑαυτοῦ). Cfr. più sotto il pronome di riflessivo di seconda persona σεωυτοῦ (att.: σαυτοῦ). 4 ὦν: ionico (att. οὖν).
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5 κίνδυνον μηδένα τοιοῦτον ἀπικέσθαι5 μηδεμιῆς ἀνάγκης ἐούσης, ἀλλὰ ἐμοὶ πείθεο· νῦν μὲν τὸν σύλλογον τόνδε διάλυσον· αὖτις δέ, ὅταν τοι6 δοκῇ, προσκεψάμενος ἐπὶ σεωυτοῦ προαγόρευε τά τοι δοκέει εἶναι ἄριστα. Τὸ γὰρ εὖ βουλεύεσθαι κέρδος μέγιστον εὑρίσκω ἐόν· εἰ γὰρ καὶ ἐναντιωθῆναί τι θέλει, βεβούλευται μὲν οὐδὲν ἧσσον εὖ, ἕσσωται7 δὲ ὑπὸ τῆς τύχης τὸ βούλευμα· ὁ δὲ βουλευσάμενος αἰσχρῶς, εἴ οἱ ἡ τύχη ἐπίσποιτο, εὕρημα εὕρηκε, ἧσσον δὲ οὐδέν οἱ κακῶς βεβούλευται. POST-TESTO
Tu vedi che la divinità scaglia i suoi fulmini contro i viventi che crescono a dismisura e non permette che ne facciano ostentazione, mentre per i piccoli non c’è nulla che ne provochi il risentimento. La divinità, infatti, solo a sé, e non ad altri, permette di concepire pensieri di grandezza.
(Pre-testo e post-testo: traduzione di L. Annibaletto)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Perché Artabano ha il coraggio di esprimere un’opinione contraria a quella del re? Che cosa teme? In che cosa confida? 2. Nell’esordio Artabano adotta una similitudine. Sai spiegarla? 3. Perché secondo Artabano non bisogna correre il pericolo di una nuova spedizione contro la Grecia? 4. Artabano invita Serse a valutare nuovamente le proprie decisioni. Quale avverbio impiega per indicare l’idea della ripetizione? Che cosa significa il participio προσκεψάμενος? Il preverbo προ- come modifica il significato del verbo? 5. Quale ruolo attribuisce Erodoto alla sorte nel successo di un’impresa? La εὐβουλία è garanzia di successo? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Aiutandoti con le note, riconosci alcune caratteristiche della lingua di Erodoto. Sai individuare alcuni esempi di mancata contrazione? Come spieghi la scelta di adottare il dialetto ionico da parte dell’autore? 2. Trova i genitivi assoluti presenti nel testo. λεχθεισέων δὲ: che cosa occorre sottindere? 3. Rintraccia nel testo i termini riconducibili alle aree semantiche che esprimono rispettivamente le idee di deliberare e di valutare, riflettere. 4. κέρδος μέγιστον εὑρίσκω ἐόν: qual è la funzione del participio ἐόν? 5. εὕρημα εὕρηκε: che figura retorica riconosci? VERSO UN CONFRONTO 1. Il discorso di Diodoto fornisce un paradigma di corretto dibattito democratico. L’ideale che Tucidide sostiene, attraverso le parole dell’oratore, si fonda sul necessario legame fra parola (λόγος) e azione (πράγμα, ἔργον), coerentemente con quanto lo storico fa dire anche a Pericle nel celebre epitafio per i caduti del primo anno di guerra (Thuc. II 40): «Noi Ateniesi o giudichiamo o, almeno, ponderiamo convenientemente le varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione». La stessa idea è efficacemente sintetizzata nella metafora usata da Diodoto nell’esordio del suo discorso. Pur nei limiti che egli stesso 5 ἀπικέσθαι: ionico (att.: ἀφικέσθαι). 6 τοι (due volte): ionico (att.: σοι).
7 ἕσσωται: ionico per il perfetto, terza persona singolare, di ἡσσάομαι (att. ἡττάομαι).
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LINGUA E CULTURA GRECA individua, Diodoto si spinge quasi a una sorta di razionalismo radicale, quando attribuisce al λόγος la competenza περὶ τοῦ μέλλοντος καὶ μὴ ἐμφανοῦς. L’atteggiamento intellettuale di Diodoto appare conforme all’approccio di Tucidide stesso alla realtà e in particolare alla sua concezione della storia come κτῆμα ἐς ἀεί. Illustra quale funzione Tucidide attribuisce alla storia. In che modo lo storiografo offre uno strumento utile all’azione politica? Il razionalismo tucidideo si iscrive coerentemente in un particolare contesto politico e filosofico? 2. Anche nel discorso di Artabano a Serse troviamo una riflessione, letterariamente elaborata, anche se più semplificata, sulla necessità del confronto e del dibattito delle idee per poter deliberare e agire convenientemente. L’obiettivo della riflessione e della ponderazione fra le diverse opinioni è espresso dal verbo εὖ βουλεύεσθαι (cfr. εὐβουλία in Tucidide). Eppure l’atteggiamento di Erodoto appare meno ottimistico: la riflessione, la εὐβουλία non è di per sé garanzia di successo. Entrano in gioco altri fattori, che sono riconducibili a una concezione etica più arcaica e che risultano estranei alla riflessione più laica che sarebbe stata di Tucidide: l’irrazionale e l’idea di giustizia. Spiega brevemente, in riferimento al testo che hai tradotto, quali sono alcuni dei princìpi etici che guidano Erodoto nella sua interpretazione della storia. 3. I due discorsi propongono riflessioni apparentemente simili, ma il contesto politico in cui sono inseriti è molto diverso, potremmo dire antitetico. Tucidide ci porta nel vivo del dibattito assembleare dell’Atene democratica, Erodoto invece ci trasporta nel ristretto consiglio del Gran Re. A uno sguardo più attento, constatiamo che entrambi gli storici, pur attribuendo ai loro personaggi parole di buon senso sulla necessità della riflessione prima dell’azione, dimostrano il sostanziale fallimento dei processi decisionali, ma da punti di vista opposti. Il partito prudente di Artabano soccombe: nonostante la solidità degli argomenti e l’invito alla ponderazione, Serse non si fa convincere e sferra l’attacco alla Grecia, che lo porterà alla sconfitta. Erodoto attribuisce una riflessione sull’opportunità del dibattito democratico a un suddito e cortigiano del re e dimostra così come il tiranno sia costitutivamente irrazionale e dunque volto al fallimento. Tucidide invece mette in luce la crisi profonda della democrazia: certo Diodoto ha buon gioco a sostenere l’opportunità di riesaminare la questione di Mitilene e davvero gli Ateniesi in quell’occasione infine opteranno per la moderazione, ma lo svolgimento stesso di quel dibattito dimostra come l’assemblea sia volubile, capace di cambiare idea radicalmente da un giorno all’altro sullo stesso tema. Non sempre gli Ateniesi avranno una seconda occasione per ripensare le proprie decisioni: qualche anno dopo, coi Melî gli Ateniesi mostreranno tutta la durezza del loro impero. Erodoto mostra come alla corte del tiranno manchino le condizioni necessarie alla εὐβουλία e in tal modo esalta Atene, la sua vittoria e la superiorità della democrazia. Tucidide svela i meccanismi perversi della democrazia, che mettono il potere di deliberare in mano a un tiranno irrazionale e violento, il popolo. In base ai testi che hai tradotto, quali fattori viziano secondo Tucidide il corretto confronto fra gli oratori? Quali atteggiamenti denunciano, nel racconto di Erodoto, il clima repressivo della corte del re, che limita la libertà di parola? Come spieghi la diversa prospettiva dei due storici rispetto al regime democratico?
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I fondamenti del diritto degli Ateniesi PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Trasmesso nel corpus delle orazioni di Lisia, questo discorso funebre (λόγος ἐπιτάφιος) è in realtà di incerta attribuzione. Messi da parte i dubbi sulla sua paternità, il discorso attribuito a Lisia celebra i soldati ateniesi morti nella guerra di Corinto (395-386 a.C.), un conflitto che vide contrapposta da una parte Sparta, allora potenza egemone nel mondo greco, a un’alleanza fra Atene, Tebe, Corinto e Argo dall’altra. La guerra si concluse nel 387 a.C., a causa dell’intervento risolutivo della Persia, che impose a tutta la Grecia le condizioni della cosiddetta pace di Antalcida o pace del Re. L’uso di pronunciare un λόγος ἐπιτάφιος in onore dei caduti in battaglia risalirebbe addirittura a Solone. La tradizione ha conservato un grande numero di discorsi funebri, di cui, fra i più celebri, ricordiamo quello di Pericle (riportato da Tucidide) per i caduti nel primo anno della Guerra del Peloponneso, quello fittizio che Platone, nel dialogo Menesseno, attribuisce ad Aspasia, e quello che l’oratore Iperide pronunciò per i caduti della guerra lamiaca nel 323 a.C. Il discorso funebre attribuito a Lisia assolve a tutte le funzioni convenzionalmente assunte da questo genere retorico, che sono fondamentalmente tre: consolare del lutto i parenti dei defunti e i concittadini, elogiare i caduti che hanno sacrificato la vita per la patria, esortare i vivi alla virtù. In connessione alla funzione di elogio (e quasi facendo da cerniera con quella di esortazione) si incontra il tema della lode degli antenati e della città, con cui l’oratore intende esprimere all’uditorio l’idea che il sacrificio della vita sia stato consumato in nome di valori irrinunciabili. PRE-TESTO
I nostri antenati, con sentimento unanime, ebbero numerose occasioni di combattere per la giustizia, che costituisce d’altra parte il fondamento della loro stessa origine.
Lisia, Epitafio, 17-19
Οὐ γάρ, ὥσπερ οἱ πολλοί, πανταχόθεν συνειλεγμένοι καὶ ἑτέρους ἐκβαλόντες τὴν ἀλλοτρίαν ᾤκησαν, ἀλλ’ αὐτόχθονες ὄντες τὴν αὐτὴν ἐκέκτηντο μητέρα καὶ πατρίδα. Πρῶτοι δὲ καὶ μόνοι ἐν ἐκείνῳ τῷ χρόνῳ ἐκβαλόντες τὰς παρὰ σφίσιν αὐτοῖς δυναστείας δημοκρατίαν κατεστήσαντο, ἡγούμενοι τὴν πάντων ἐλευθερίαν ὁμόνοιαν εἶναι μεγίστην, κοινὰς δ’ ἀλλήλοις τὰς ἐκ τῶν κινδύνων ἐλπίδας ποιήσαντες ἐλευθέραις ταῖς ψυχαῖς ἐπολιτεύοντο, νόμῳ τοὺς ἀγαθοὺς τιμῶντες καὶ τοὺς κακοὺς κολάζοντες, ἡγησάμενοι θηρίων μὲν ἔργον εἶναι ὑπ’ ἀλλήλων βίᾳ κρατεῖσθαι, ἀνθρώποις δὲ προσήκειν νόμῳ μὲν ὁρίσαι τὸ δίκαιον, λόγῳ δὲ πεῖσαι, ἔργῳ δὲ τούτοις ὑπηρετεῖν, ὑπὸ νόμου μὲν βασιλευομένους, ὑπὸ λόγου δὲ διδασκομένους. POST-TESTO
Nobili di nascita e ugualmente di pensiero, gli antenati di questi caduti, che oggi qui1 giacciono defunti, compirono molte imprese belle e mirabili e i loro discendenti lasciarono dovunque trofei memorabili e grandi della loro virtù. (Pre-testo e post-testo: traduzione di R. Capel Badino)
1 Il deittico si riferisce al luogo ove si tenevano le cerimonie funebri pubbliche ad Atene, cioè il Ceramico, il cimitero collocato fuori dalle mura della città, nei pressi della porta del Dipylon, lungo la Via Sacra.
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LINGUA E CULTURA GRECA GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. L’oratore elogia gli Ateniesi a partire da un singolare primato rispetto all’occupazione del territorio, che li distingue dagli altri Greci. Quale aggettivo esprime il particolare legame degli Ateniesi con il suolo della patria? Sai analizzarlo dal punto di vista etimologico? 2. L’elogio degli Ateniesi si estende a quello del loro regime politico. Quale? Ritieni che nell’espressione τὴν πάντων ἐλευθερίαν sia importante il genitivo di specificazione? Perché? Da quali altri regimi politici l’oratore vuole distinguere il sistema politico ateniese? 3. Perché ritieni che l’oratore affermi la coincidenza di ἐλευθερία e ὁμόνοια? Con il termine ὁμόνοια quale bene pubblico vuole promuovere l’oratore? 4. La condizione degli Ateniesi è contrapposta a quella degli animali (θηρίων ἔργον). In che cosa consiste, secondo l’oratore, la differenza? Ritieni che, con il riferimento a una condizione di vita bestiale, l’oratore alluda a qualche popolo o regime politico specifico? 5. Quali sono, secondo l’oratore, i due valori su cui si regge la giustizia? Come ne definisce la funzione? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. τὴν ἀλλοτρίαν ... τὴν αὐτὴν: quale sostantivo, a cui devono essere riferiti i due attributi, è sottinteso? 2. Dopo la prima frase, il testo prosegue con un lungo periodo di una certa complessità sintattica. Qual è il verbo principale? Quale verbo è coordinato al principale? 3. βασιλευομένους... διδασκομένους: a quale elemento logico della frase si riferiscono questi due participi congiunti? 4. ἔργον εἶναι... προσήκειν: da quale verbo dipendono questi due predicati all’infinito? 5. νόμῳ μὲν ὁρίσαι... διδασκομένους: nell’ultima parte del periodo risulta evidente lo sforzo dell’oratore di costruire il discorso secondo un criterio di concinnitas o simmetria. Illustra la particolare disposizione delle parole e delle congiunzioni. Osserva in particolare la disposizione delle particelle μέν... δέ, la ripetizione dei sostantivi (in diverse funzioni logiche) e dei modi verbali (ὁρίσαι, πεῖσαι, βασιλευομένους, διδασκομένους), con le desinenze che provocano anche particolari effetti fonici.
SECONDA PARTE
Traduzione e confronto con un testo in lingua greca Il discorso intitolato Panegirico fu composto da Isocrate negli anni della guerra di Corinto, nello stesso periodo, all’incirca, in cui fu pronunciato anche l’Epitafio attribuito a Lisia, ma fu pubblicato più tardi, in occasione delle feste Olimpiche dell’anno 380 a.C. Il titolo allude precisamente al contesto della pubblicazione, la πανήγυρις, ovvero la festa, l’adunanza pubblica di tutto il popolo. Fra le feste Panegire, le Olimpiche, radunando delegazioni da ogni parte del mondo greco, costituivano senza dubbio l’occasione di maggior visibilità per un oratore, che aveva la possibilità di diffondere le proprie idee presso un pubblico più vasto. Nel Panegirico Isocrate, oltre a criticare la situazione politica attuale (in particolare gli equilibri fra le potenze in seguito alla pace di Antalcida, che in sostanza decretava una posizione di supremazia della Persia sugli affari dei Greci), esprime l’elogio della città di Atene, attingendo a un repertorio di luoghi comuni ricorrenti nella propaganda politica filo-ateniese. PRE-TESTO
Da entrambi i punti di vista, quanto più si risalga indietro nel tempo, tanto più noi risulteremo superiori agli altri.
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6 Isocrate, Panegirico, 23-25
Ὁμολογεῖται μὲν γὰρ τὴν πόλιν ἡμῶν ἀρχαιοτάτην εἶναι καὶ μεγίστην καὶ παρὰ πᾶσιν ἀνθρώποις ὀνομαστοτάτην· οὕτω δὲ καλῆς τῆς ὑποθέσεως οὔσης, ἐπὶ τοῖς ἐχομένοις τούτων ἔτι μᾶλλον ἡμᾶς προσήκει τιμᾶσθαι. Ταύτην γὰρ οἰκοῦμεν οὐχ ἑτέρους ἐκβαλόντες οὐδ’ ἐρήμην καταλαβόντες οὐδ’ ἐκ πολλῶν ἐθνῶν μιγάδες συλλεγέντες, ἀλλ’ οὕτω καλῶς καὶ γνησίως γεγόναμεν ὥστ’ ἐξ ἧσπερ ἔφυμεν, ταύτην ἔχοντες ἅπαντα τὸν χρόνον διατελοῦμεν, αὐτόχθονες ὄντες καὶ τῶν ὀνομάτων τοῖς αὐτοῖς οἷσπερ τοὺς οἰκειοτάτους τὴν πόλιν ἔχοντες προσειπεῖν. Μόνοις γὰρ ἡμῖν τῶν Ἑλλήνων τὴν αὐτὴν τροφὸν καὶ πατρίδα καὶ μητέρα καλέσαι προσήκει. Καίτοι χρὴ τοὺς εὐλόγως μέγα φρονοῦντας καὶ περὶ τῆς ἡγεμονίας δικαίως ἀμφισβητοῦντας καὶ τῶν πατρίων πολλάκις μεμνημένους τοιαύτην τὴν ἀρχὴν τοῦ γένους ἔχοντας φαίνεσθαι. POST-TESTO
Questa è la grandezza dei nostri beni originari e di ciò che ci è stato donato in più dalla sorte. Per quanto riguarda i benefici di cui siamo stati autori per gli altri, il miglior modo di ricordarli è quello di ripercorrere per ordine le imprese della nostra città. (Pre-testo e post-testo: traduzione di R. Romussi)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Nella prima frase, Isocrate individua tre primati della città di Atene: quali? 2. L’oratore usa i termini ἡ ὑπόθεσις e τὰ ἐχόμενα come lessico tecnico caratteristico della retorica. Sai spiegare che cosa significano? 3. Isocrate insiste nel sottolineare la purezza della razza degli Ateniesi. Quale espressione in particolare si riferisce a questo concetto? 4. Per indicare lo speciale primato degli Ateniesi riguardo alla legittimità della loro sovranità, Isocrate ne sottolinea la continuità dell’occupazione del territorio. Quali parole esprimono questo concetto? 5. Il legame fra gli Ateniesi e la loro città è espresso dai nomi carichi di valore affettivo con cui essi soli possono denominarla. Quali sono questi nomi? 6. Nel testo si afferma di scorcio che legittima l’aspirazione degli Ateniesi a esercitare un ruolo di preminenza politica fra tutti i Greci: in che punto precisamente? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Ταύτην γὰρ οἰκοῦμεν... αὐτόχθονες ὄντες: individua i participi congiunti al soggetto presenti in questa sezione di testo. 2. ἐξ ἧσπερ: qual è l’antecedente di questo relativo? Come si definisce una simile disposizione della frase relativa? 3. οἷσπερ τοὺς οἰκειοτάτους: quale verbo ritieni che sia sottinteso? 4. τῶν γενναίων: che funzione ha questo genitivo? 5. τροφὸν καὶ πατρίδα καὶ μητέρα: queste parole appaiono in una disposizione a climax. Perché? Prova a spiegare la pregnanza dell’accostamento di πατρίδα e μητέρα. 6. ἔχοντας: qual è la funzione sintattica di questo participio (sostantivato, attributivo, congiunto, assolulto o predicativo)? VERSO UN CONFRONTO 1. I brani che hai tradotto sono tratti da due discorsi circa contemporanei che costituiscono due esempi celebri di retorica epidittica. Benché appartengano a questa medesima categoria, alquanto generica, comprendendo tutti quei discorsi che non sono specificamente rivolti © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA GRECA a un tribunale o a un’assemblea politica deliberativa, le occasioni per cui i due testi sono stati composti, e che costituiscono il contesto della loro pubblica divulgazione, appaiono opposte: da una parte il lutto, per un discorso epitafio pronunciato per la celebrazione pubblica di funerali di stato, dall’altro la festa, richiamata nel titolo stesso del discorso Panegirico, che diventa pretesto per l’autocelebrazione e la riflessione politica. Nonostante la distanza estrema di situazione e di carattere dei due discorsi, gli oratori giungono, per diverse vie, ad affrontare argomenti analoghi, adottando quasi le stesse parole, forse anche perché si trattava di temi comuni e ampiamente divulgati della propaganda politica contemporanea, veri e propri luoghi comuni della retorica filo-ateniese. Cerca nel testo le espressioni che si equivalgono e spiegane il senso in funzione dello scopo che si prefigge l’oratore, ovvero l’elogio della stirpe. 2. Oltre alle molto evidenti somiglianze fra i due testi qui riprodotti, è importante evidenziare le differenze, più sottili, ma ben presenti. Innanzi tutto l’autore dell’epitafio mette sullo stesso piano l’autoctonia e la libertà, dunque il regime politico, degli Ateniesi, mentre, almeno per quel che riguarda il brano selezionato, nel Panegirico Isocrate si sofferma solo sul tema della continua occupazione del territorio e della purezza della razza, ricordando appena di scorcio le istituzioni della città. Ma la distanza fra i due testi si misura soprattutto considerando la loro funzione. Lisia, con l’encomio di Atene e degli antenati, intende rispondere alle funzioni del λόγος ἐπιτάφιος: παραμυθία (consolazione), affermando che i morti non sono morti invano, ἔπαινος (elogio) dei defunti, attraverso la lode della razza e della città, παραίνεσις (esortazione) dei cittadini, affinché anch’essi, secondo l’esempio dei caduti, siano disposti al sacrificio per difendere il proprio primato. Tale è il senso profondo del testo, che riecheggia temi già presenti nell’epitafio di Pericle riportato da Tucidide. Isocrate invece tende il proprio discorso a un fine diverso, che ha a che fare con il ruolo che l’oratore auspica per la propria città dal punto di vista della politica internazionale. Isocrate afferma con decisione la superiorità della stirpe, argomentando a partire dalla sua origine, per rivendicarne l’egemonia sulle altre πόλεις greche. Rintraccia nei due testi i punti da cui traspaiono queste differenti impostazioni e finalità. 3. Approfondisci: i due testi, riprendendo temi di propaganda politica, affermano il primato di Atene attraverso l’idea della priorità temporale delle sue istituzioni civili e dell’eccezionalità dell’origine della loro razza (πρῶτοι καὶ μόνοι). Attraverso la parola chiave αὐτόχθονες si esprime il legame profondo fra patria, suolo e nazione. Proponi una riflessione in merito a questi temi. Prova a pensare, per esempio, a come il tema della purezza razziale sia stato utilizzato nella storia, con fini imperialistici, oppure ai termini in cui si pone, anche nel dibattito pubblico contemporaneo, la questione della cittadinanza in una società multietnica.
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Processo politico a Demostene PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Nel 336 a.C. l’ateniese Ctesifonte propone di approvare una speciale onorificenza per Demostene: il conferimento di una corona d’oro in teatro durante la celebrazione delle feste Dionisie. Con tale premio la città intende onorare l’oratore per la sua attività nella ricostruzione delle mura in qualità di commissario per le fortificazioni, incarico ricoperto dal 337 a.C. La proposta riceve voto favorevole dalla βουλή, ma, prima che la decisione sia ratificata dalla ἐκκλησία, Eschine muove contro Ctesifonte un’accusa di illegalità (γραφὴ παρανόμων). La conseguenza automatica è la sospensione del provvedimento in attesa del giudizio del tribunale popolare (Eliea). Nella sua denuncia, Eschine fa riferimento ad alcuni aspetti strettamente giuridici della proposta di Ctesifonte, ma l’obiettivo non è tanto richiamare al rispetto di alcune formalità, quanto colpire la politica di Demostene nel suo complesso. Certamente quello per la corona fu un processo di straordinaria importanza per la città di Atene, perché l’accusato non era tanto il reo di un crimine specifico, quanto un’intera linea politica e strategica che aveva condotto Atene, su impulso di Demostene, allo scontro frontale con la Macedonia. Costituisce altresì un caso eccezionale nella letteratura greca, perché, insieme a un altro processo che vide sempre avversari Eschine e Demostene, ci offre l’opportunità di leggere i discorsi contrapposti dei due oratori. Nel passo riportato Eschine si avvia a concludere la rievocazione delle scelte politiche sbagliate, assunte da Demostene, che hanno portato Atene, alla fine di una lunga catena di eventi, nel 339 a.C., dopo la conquista da parte di Filippo della città beotica di Elatea, a stipulare un’alleanza con Tebe contro la Macedonia e, nel 338 a.C., alla disfatta di Cheronea, alla distruzione di Tebe e alla pace comune con Filippo. PRE-TESTO
No, per Zeus e per gli dèi, vi supplico, o Ateniesi, non innalzate un trofeo sulla vostra stessa sconfitta nell’orchestra di Dioniso! Non accusate di pazzia il popolo ateniese al cospetto di tutti i Greci! E non rammentate i mali che non conoscono cura né rimedio a quei disgraziati Tebani che, esuli a causa di quest’uomo, sono stati da voi accolti in città, che ebbero templi, figli e sepolcri distrutti dalla corruzione di Demostene e dall’oro del Gran Re!
Eschine, Contro Ctesifonte, 157-158
Ἀλλ’ ἐπειδὴ τοῖς σώμασιν οὐ παρεγένεσθε, ἀλλὰ ταῖς γε διανοίαις ἀποβλέψατ’ αὐτῶν εἰς τὰς συμφοράς, καὶ νομίσαθ’ ὁρᾶν ἁλισκομένην πόλιν, τειχῶν κατασκαφάς, ἐμπρήσεις οἰκιῶν, ἀγομένας γυναῖκας καὶ παῖδας εἰς δουλείαν, πρεσβύτας ἀνθρώπους, πρεσβύτιδας γυναῖκας ὀψὲ μεταμανθάνοντας τὴν ἐλευθερίαν, κλαίοντας, ἱκετεύοντας ὑμᾶς, ὀργιζομένους οὐ τοῖς τιμωρουμένοις, ἀλλὰ τοῖς τούτων αἰτίοις, ἐπισκήπτοντας μηδενὶ τρόπῳ τὸν τῆς Ἑλλάδος ἀλειτήριον στεφανοῦν, ἀλλὰ καὶ τὸν δαίμονα καὶ τὴν τύχην τὴν συμπαρακολουθοῦσαν τῷ ἀνθρώπῳ φυλάξασθαι. Οὔτε πόλις γὰρ οὔτ’ ἀνὴρ ἰδιώτης οὐδεὶς πώποτε καλῶς ἀπήλλαξε Δημοσθένει συμβούλῳ χρησάμενος. Ὑμεῖς δέ, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, οὐκ αἰσχύνεσθε εἰ ἐπὶ μὲν τοὺς πορθμέας τοὺς εἰς Σαλαμῖνα πορθμεύοντας νόμον ἔθεσθε ἐάν τις αὐτῶν ἄκων ἐν τῷ πόρῳ πλοῖον ἀνατρέψῃ, τούτῳ μὴ ἐξεῖναι πάλιν πορθμεῖ γενέσθαι, ἵνα μηδεὶς αὐτοσχεδιάζῃ εἰς τὰ τῶν Ἑλλήνων σώματα, τὸν δὲ τὴν Ἑλλάδα καὶ τὴν πόλιν ἄρδην ἀνατετροφότα, τοῦτον ἐάσετε πάλιν ἀπευθύνειν τὰ κοινά; © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA GRECA POST-TESTO
Per parlare anche della situazione attuale, voglio ricordarvi che Demostene non disertò soltanto il suo posto nell’esercito, ma anche quello nella città, perché si impossessò di una delle triremi e andava a spillare denaro ai Greci. (Pre-testo e post- testo: traduzione di L. Bartolini Lucchi, BUR 1994)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. A chi si rivolge Eschine nelle allocuzioni? 2. ἁλισκομένην πόλιν: a che città si riferisce? 3. Eschine evoca potenti immagini di guerra: quali? Quali sentimenti intende mobilitare negli uditori? 4. Con quale epiteto l’oratore si riferisce a Demostene? 5. καὶ τὸν δαίμονα καὶ τὴν τύχην: spiega perché i due termini sono associati. 6. Spiega il riferimento ai rematori. 7. τὸν δὲ τὴν Ἑλλάδα καὶ τὴν πόλιν ἄρδην: perché, a tuo parere, Eschine associa la Grecia e la città nella catastrofe di Cheronea? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Che effetto produce l’epanalessi di ἀλλά all’inizio del brano? 2. τοῖς σώμασιν ... ταῖς γε διανοίαις: che cosa intende Eschine con questa contrapposizione? Che valore assume la particella γε? 3. Distingui tutti i participi predicativi dai participi in funzione nominale. 4. Eschine a un certo punto fa un esplicito riferimento alla causa specifica del dibattimento giudiziale. Dove? Con quale termine? 5. Individua nel testo una domanda retorica: implica risposta affermativa o negativa? 6. Nell’ultimo paragrafo riportato in greco è implicitamente allusa una similitudine. A che cosa è paragonato lo stato?
SECONDA PARTE
Traduzione e confronto con un testo in lingua greca Sulle circostanze del processo sulla corona, si veda l’introduzione al brano precedente. Leggiamo ora la risposta di Demostene all’accusa di Eschine. Nel passo qui riportato, l’oratore ci trasporta drammaticamente al momento in cui l’assemblea si trovò a decidere l’alleanza con Tebe e la guerra contro la Macedonia. Demostene è costretto a difendere scelte le cui conseguenze catastrofiche sono sotto gli occhi di tutti. Ma se al tempo delle scelte politiche le conseguenze erano nell’incerto, Demostene rivendica di avere agito con senso di responsabilità per la città, guidandola nella sola direzione che era possibile ed evitandole persino guai peggiori. PRE-TESTO
Io feci proprio questo, Eschine, quando l’araldo chiese: «Chi vuole prendere la parola?» e non: «Chi vuole fare accuse sul passato?», né: «Chi dare garanzie sul futuro?». Mentre tu in quei momenti sedevi muto nelle assemblee, io mi feci avanti e parlai. Giacché allora non lo facesti, da’ delle indicazioni adesso; rivela quale ragionamento che era doveroso offrire o quale occasione, quale alleanza, quale affare a cui avrei dovuto invece spingere i cittadini qui presenti fu da me tralasciato contro la città. Ma il passato è sempre messo da parte da tutti, e nessuno fa mai proposte al suo riguardo.
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7 Demostene, Sulla corona, 192-194
Τὸ δὲ μέλλον ἢ τὸ παρὸν τὴν τοῦ συμβούλου τάξιν ἀπαιτεῖ. τότε τοίνυν τὰ μὲν ἔμελλεν, ὡς ἐδόκει, τῶν δεινῶν, τὰ δ’ ἤδη παρῆν, ἐν οἷς τὴν προαίρεσίν μου σκόπει τῆς πολιτείας, μὴ τὰ συμβάντα συκοφάντει. Τὸ μὲν γὰρ πέρας ὡς ἂν ὁ δαίμων βουληθῇ πάντων γίγνεται· ἡ δὲ προαίρεσις αὐτὴ τὴν τοῦ συμβούλου διάνοιαν δηλοῖ. Μὴ δὴ τοῦθ’ ὡς ἀδίκημ’ ἐμὸν θῇς, εἰ κρατῆσαι συνέβη Φιλίππῳ τῇ μάχῃ· ἐν γὰρ τῷ θεῷ τὸ τούτου τέλος ἦν, οὐκ ἐμοί. Ἀλλ’ ὡς οὐχ ἅπανθ’ ὅσ’ ἐνῆν κατ’ ἀνθρώπινον λογισμὸν εἱλόμην, καὶ δικαίως ταῦτα καὶ ἐπιμελῶς ἔπραξα καὶ φιλοπόνως ὑπὲρ δύναμιν, ἢ ὡς οὐ καλὰ καὶ τῆς πόλεως ἄξια πράγματ’ ἐνεστησάμην καὶ ἀναγκαῖα, ταῦτά μοι δεῖξον, καὶ τότ’ ἤδη κατηγόρει μου. Εἰ δ’ ὁ συμβὰς σκηπτὸς μὴ μόνον ἡμῶν ἀλλὰ καὶ πάντων τῶν ἄλλων Ἑλλήνων μείζων γέγονε, τί χρὴ ποιεῖν; ὥσπερ ἂν εἴ τις ναύκληρον πάντ’ ἐπὶ σωτηρίᾳ πράξαντα καὶ κατασκευάσαντα τὸ πλοῖον ἀφ’ ὧν ὑπελάμβανε σωθήσεσθαι, εἶτα χειμῶνι χρησάμενον καὶ πονησάντων αὐτῷ τῶν σκευῶν ἢ καὶ συντριβέντων ὅλως, τῆς ναυαγίας αἰτιῷτο. ἀλλ’ οὔτ’ ἐκυβέρνων τὴν ναῦν, φήσειεν ἄν (ὥσπερ οὐδ’ ἐστρατήγουν ἐγώ), οὔτε τῆς τύχης κύριος ἦν, ἀλλ’ ἐκείνη τῶν πάντων. POST-TESTO
Valuta e osserva questo: se era fatale che per noi, affrontando la lotta insieme coi Tebani, la vicenda avesse questo esito, che cosa ci saremmo dovuti aspettare se non avessimo avuto nemmeno l’appoggio della loro alleanza, ma essi si fossero messi con Filippo, unione per cui quello impiegò tutto il suo fiato? (Pre-testo e post-testo: traduzione di L. Bartolini Lucchi, BUR 1994)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. In riferimento al tempo in cui Atene assunse le decisioni che la condussero all’alleanza con Tebe contro Filippo, Demostene contrappone il passato al presente e al futuro. Di quale dovrebbe avere cura l’oratore? Di quale mostra di occuparsi Eschine? 2. In base a che cosa, per Demostene, deve essere valutato il suo operato politico? Conta più il risultato o l’intenzione? 3. ταῦτά μοι δεῖξον: che senso ha questo imperativo? Demostene vuole davvero che Eschine compia l’azione espressa dal verbo? 4. ἀναγκαῖα: in che senso Demostene rimanda all’idea di ἀνάγκη? Si riferisce all’idea di ineluttabilità connessa al destino o all’idea di necessità/bisogno? 5. I compiti dell’uomo politico sono connessi con i concetti di scelta e di azione. Quali verbi usa Demostene per indicarli? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Analizza, nel primo periodo, i diversi usi dell’articolo, distinguendo quando conferisce valore sostantivato al participio e quando è impiegato come pronome. 2. τάξιν ἀπαιτεῖ: riconosci il valore metaforico dell’espressione? A quale ambito rimanda il sostantivo τάξις? 3. Individua nel testo il lessico che può essere riferito al campo semantico della sorte. Trovi anche termini appartenenti al linguaggio religioso? 4. Rintraccia nel testo un asindeto. 5. καὶ δικαίως... ὑπὲρ δύναμιν: analizza l’ordine delle parole di questo segmento di testo. Che cosa osservi di rilevante? Guarda la disposizione degli avverbi. In che posizione si trova il verbo? © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA GRECA 6. ὁ συμβὰς σκηπτὸς: quale figura retorica di significato riconosci? 7. Individua e spiega la similitudine presente nel testo, individuando il lessico riferibile all’ambito marinaro. VERSO UN CONFRONTO 1. I brani che hai tradotto sono tratti da discorsi contrapposti, esempi eccezionali di retorica giudiziaria, in quanto pronunciati nel corso di un dibattimento in tribunale. L’oggetto della contesa tuttavia è eminentemente politico. Occorre ricordare che nel tribunale ateniese il giudice è il popolo stesso. In un processo come quello sulla corona di Demostene, che dal punto di vista strettamente giudiziario riguardava il rispetto di alcune forme (e che comunque avrebbe comportato gravi conseguenze per il destino personale dell’accusato Ctesifonte), l’assemblea popolare è chiamata in causa direttamente: i cittadini che voteranno per l’accusa o l’assoluzione sono gli stessi che hanno votato i provvedimenti di Demostene e hanno pagato o ancora pagano le conseguenze della disfatta subita dalla città. Se le funzioni del discorso sono docere, delectare, movere, è evidente che Demostene ed Eschine devono mirare al massimo coinvolgimento emotivo dell’uditorio, facendo appello non solo alle facoltà razionali a cui si riferisce la funzione del docere, ma a tutta l’emotività dei cittadini. Entrambi adottano un registro che ha come scopo la commozione, la mobilitazione emotiva dell’assemblea. Di quali mezzi si avvalgono i due oratori per raggiungere il massimo coinvolgimento del pubblico e dei giudici e comunicare loro passioni ed emozioni? Osserva come entrambi facciano ricorso all’apostrofe, ma in modo diverso. 2. I due discorsi pronunciati per il processo sulla corona di Demostene ebbero da subito straordinaria risonanza. Quelli che leggiamo sono il frutto presumibilmente della rielaborazione letteraria dei discorsi davvero pronunciati. L’orazione Contro Ctesifonte suscita ammirazione per l’abilità retorica di Eschine, sebbene unanime fosse il giudizio riguardo alla superiorità di Demostene e del suo discorso Sulla corona. Pare che la riconoscesse lo stesso Eschine, il quale dopo la sconfitta si allontanò da Atene per insegnare retorica a Rodi. Ciò non toglie che entrambi i discorsi rappresentino due fra i massimi capolavori dell’arte oratoria ateniese. La qualità letteraria di un discorso si valuta anche sulla base dell’equilibrio fra le parti, dei toni, dei registri. Anche nei brevi passi che hai letto si può osservare la cura che l’oratore pone nell’alternare periodi di ampio respiro a frasi più concise e incisive. Analizza il ritmo sintattico dei due brani. Di quanti periodi si compongono i passi di Eschine e di Demostene? Prevalgono periodi lunghi e complessi o frasi brevi e paratattiche? Quale dei due testi ti sembra più equilibrato e composto nei toni? 3. È possibile che i due oratori abbiano rivisto il testo scritto per la pubblicazione in una fase successiva al dibattimento sulla base della conoscenza del discorso dell’avversario e dell’esito del processo. In ogni caso è chiaro che, venendo a parlare della battaglia di Cheronea, Demostene risponda punto su punto alle accuse di Eschine. La corresponsione dei due testi è enfatizzata dall’impiego di similitudini appartenenti al medesimo ambito marinaro. Spiega le due similitudini: in che cosa si assomigliano e in che cosa si differenziano? Conosci altri autori che hanno paragonato lo stato a una nave in tempesta? 4. La contesa fra i due oratori verte intorno alla questione della responsabilità politica e morale della disfatta di Cheronea, di cui entrambi comprendono la portata panellenica.
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7 Eschine accusa colui che considera il responsabile di una politica a posteriori fallimentare. Demostene, senza rifiutare la responsabilità politica che gli viene attribuita, ci offre insieme una visione tragica dell’esistenza e della storia. Il risultato delle azioni sfugge alla possibilità di previsione e di governo. Tutto appare soggetto a una forza irrazionale. Quale spazio è possibile, per Demostene, all’azione dell’uomo di governo? Ritieni che la visione di Demostene possa essere in qualche modo assimilata o paragonata alla concezione dell’esistenza caratteristica della tragedia?
Espressioni idiomatiche in uso nell’oratoria greca Formule di transizione, introduzione, ricapitolazione Transizione
Formule di preterizione
βαδιοῦμαι ἐπί... = passerò a parlare di... ἐκεῖσε ἐπανέρχομαι = ritorno a parlare del tema πρὸς δὲ τούτοις / χωρὶς δὲ τούτων = oltre a ciò λοιπόν ἐστι εἰπεῖν = resta da parlare di... ἐπὶ τελευτῆς = in conclusione
παραλείπω = tralascio ἐάσω = eviterò di... ὑμᾶς οὐκ ἐπερωτήσὼ = non vi chiederò... πάντες ἴσασι ταῦτα, κἂν ἐγὼ μὴ λέγω = tutti sanno queste cose, senza che io le dica ἔχων ἔτι πολλὰ λέγειν, ἡγοῦμαι πλείω τῶν ἱκανῶν εἰρῆσθαι = pur avendo ancora molto da dire, mi sembra che si sia parlato a sufficienza di ciò
Attenzione πάλιν σκέψασθε = analizzate ancora σκοπεῖτε = osservate τὸν νοῦν προσέχειν τινί = fare attenzione a qualcosa
Evidenza δῆλόν ἐστι = è evidente εἰκότως = è naturale / logico σαφέστατ’ ἄν τις ἴδοι = si può chiaramente capire ὑπὲρ τῆς ἀληθείας = per amore della verità / a onor del vero ῥαδίως δείξω / διδάξω = facilmente dimostrerò ἄν τις ἐξετάζῃ δικαίως = a un corretto esame
Opportunità προσῆκόν, ἀναγκαῖόν, δίκαιόν, ἄξιόν ἐστι (νομίζειν) = essere (ritenere) opportuno, necessario, giusto, conveniente προσῆκει = conviene
Formule variamente limitative ἡγοῦμαι / οἶμαι = penso, ritengo ἔμοιγε δοκεῖ = mi sembra ὡς ἔοικε = come pare / εἰκός ἐστι = è probabile ἔχων ταύτην τὴν γνώμην = essendo di questa opinione κατὰ τὴν γνώμην μου = secondo la mia opinione βραχέα / ἐν βραχεῖ / βραχέως / διὰ βραχέων / συντόμως λέγειν = dire in breve. Opp.: μακρῶς διὰ ὀλίγων = in poche parole
Formule fatiche τί οὖν; = e che? καλῶ ἐναντίον ὑμῶν τοὺς θεοὺς πάντας = invoco dinanzi a voi tutti gli dèi πρὸς Διὸς καὶ θεῶν = per Zeus e per gli dèi
* Per l’uso di espressioni simili nell’oratoria latina, vedi p. 62.
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Comandante e sottoposto: chi ha ragione? PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina I Romani hanno perso la battaglia di Canne (216 a.C.), “paragonabile per fama alla sconfitta dell’Allia” inflitta a Roma dai Galli nel 390. Livio, con la consueta tecnica della “descrizione combinata”, mostra contemporaneamente in azione entrambe le parti, Cartaginesi e Romani. È un quadro sinottico da cui emerge la diversa modalità con cui i due schieramenti vivono gli avvenimenti. Dopo aver ascoltato il discorso del tribuno militare Sempronio Tuditano, che invita i Romani a non arrendersi al nemico, circa 600 Romani si fanno forza e giungono incolumi a Canosa. Poi l’attenzione dello storico si sposta sui Cartaginesi vittoriosi tra i quali emerge l’ufficiale Maarbale, già distintosi nell’assedio di Sagunto e in tutte le battaglie sul suolo italico. PRE-TESTO
Queste cose accadevano presso i vinti, più per slancio dell’animo quale in ognuno producevano l’indole o la sorte che non per una scelta personale avveduta o per comando di qualcuno.
Livio, Storie, XXII 51, 1-5
Hannibali victori cum ceteri circumfusi gratularentur suaderentque ut tanto perfunctus bello diei quod reliquum esset noctisque insequentis quietem et ipse sibi sumeret et fessis daret militibus, Maharbal praefectus equitum minime cessandum ratus, “Immo, ut quid hac pugna sit actum scias, die quinto – inquit – victor in Capitolio epulaberis. Sequere, cum equite, ut prius venisse quam venturum sciant, praecedam”. Hannibali nimis laeta res est visa maiorque quam ut eam statim capere animo posset. Itaque voluntatem se laudare Maharbalis ait; ad consilium pensandum temporis opus esse. Tum Maharbal: “Non omnia nimirum eidem di dedere: vincere scis, Hannibal, victoria uti nescis”. Mora eius diei satis creditur saluti fuisse urbi atque imperio. POST-TESTO
Il giorno seguente, appena fu chiaro, continuarono ad andare a raccogliere le spoglie e a osservare la carneficina, tremenda anche agli occhi dei nemici.
(Pre-testo e post-testo: traduzione di O. Bellavita)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Il passo si apre con la descrizione di una scena di festa nel campo cartaginese. Chi sono i protagonisti? Cerca il soggetto della frase col cum narrativo. Che cosa desiderano soprattutto i soldati cartaginesi? 2. La principale ha un altro soggetto. Quale? Quale carica riveste il nuovo personaggio? Ti pare plausibile che nell’esercito cartaginese ci siano le medesime cariche che nell’esercito romano? Prova a dare una tua spiegazione a questa apparente stranezza. 3. Che cosa consiglia l’esperto Maarbale ad Annibale? Che tono usa nei confronti del suo generale? Considera modi e tempi dei verbi. Il consiglio ti pare realistico o utopico se consideri che Roma è protetta da mura, rocche, fossati contro cui la cavalleria potrebbe ben poco? 4. Come reagisce Annibale alla proposta del suo sottoposto Maarbale? 40
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8 5. La battuta finale di Maarbale ti suona provocatoria? Che cosa ti fa capire dei rapporti nell’esercito cartaginese? Commenta ora la battuta come scelta retorica considerando la posizione delle parole, la scelta dei verbi vincere / victoria uti, scire/nescire. 6. L’ultima frase è il commento dello storico che due secoli dopo gli eventi tira le somme. O non è un commento solo suo? Considera il verbo principale satis creditur. Che cosa pensa Livio della scelta di Annibale di temporeggiare? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. victori: che caso è? Che funzione logica riveste? Il termine ritorna più avanti: in che funzione logica? 2. quod diei: spiega il costrutto. 3. sequere: che modo e che tempo è? 4. Individua un singolare collettivo. 5. saluti fuisse urbi atque imperio: di che costrutto si tratta? 6. Rispetto a Cicerone che punta alla simmetria e al bilanciamento del periodo, Livio è più abbondante e più incline a indugiare. Sapresti dimostrarlo considerando il primo periodo del passo? SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Il passo che ti proponiamo riporta uno scambio di opinioni tra Alessandro Magno e un suo vecchio generale, Parmenione, che era stato al servizio di Filippo e apparteneva quindi a una famiglia potente e ingombrante della vecchia aristocrazia macedone. Secondo il grande storico tedesco U. Wilcken, Parmenione con questa sua proposta si identifica con quanto avrebbe fatto Filippo, il quale quasi certamente si sarebbe accontentato della conquista del Vicino Oriente. Ci tramanda l’evento lo storico greco Arriano, attivo all’inizio del II secolo d.C., esperto di cose militari come il suo modello Senofonte. La sua opera principale è l’Anabasi di Alessandro, da cui è tratto il presente passo.
Arriano, Anabasi di Alessandro, II 25, 1-3
Ἔτι δὲ ἐν τῇ πολιορκίᾳ τῆς Τύρου ξυνεχομένου Ἀλεξάνδρου ἀφίκοντο παρὰ Δαρείου πρέσβεις ὡς αὐτὸν ἀπαγγέλλοντες μύρια μὲν τάλαντα ὑπὲρ τῆς μητρός τε καὶ τῆς γυναικὸς καὶ τῶν παίδων δοῦναι ἐθέλειν Ἀλεξάνδρῳ Δαρεῖον. Τὴν δὲ χώραν πᾶσαν τὴν ἐντὸς Εὐφράτου ποταμοῦ ἔστε ἐπὶ θάλασσαν τὴν Ἑλληνικὴν Ἀλεξάνδρου εἶναι. Γήμαντα δὲ τὴν Δαρείου παῖδα Ἀλέξανδρον φίλον τε εἶναι Δαρείῳ καὶ ξύμμαχον. Καὶ τούτων ἐν τῷ ξυλλόγῳ τῶν ἑταίρων ἀπαγγελθέντων Παρμενίωνα μὲν λέγουσιν Ἀλεξάνδρῳ εἰπεῖν ὅτι αὐτὸς ἂν Ἀλέξανδρος ὢν ἐπὶ τούτοις ἠγάπησεν καταλύσας τὸν πόλεμον μηκέτι τὸ πρόσω κινδυνεύειν. Ἀλέξανδρον δὲ Παρμενίωνι ἀποκρίνασθαι ὅτι καὶ αὐτὸς ἂν, εἴπερ Παρμενίων ἦν, οὕτως ἔπραξεν, ἐπεὶ δὲ Ἀλέξανδρός ἐστιν, ἀποκρινεῖσθαι Δαρείῳ ἅπερ δὴ καὶ ἀπεκρίνατο. Ἔφη γὰρ οὔτε χρημάτων δεῖσθαι παρὰ Δαρείου
Mentre era ancora occupato nell’assedio di Tiro, giunsero da Alessandro ambasciatori da parte di Dario, per annunciargli che Dario era pronto a dare diecimila talenti ad Alessandro in cambio della restituzione della madre, della moglie e dei figli; che tutto il territorio al di qua dell’Eufrate fino al Mare Greco era di Alessandro; che, sposando la figlia di Dario, Alessandro sarebbe divenuto amico e alleato di Dario. Poiché queste proposte furono riferite durante un consiglio degli etèri, si narra che Parmenione disse ad Alessandro che, se lui fosse stato Alessandro, sarebbe stato contento di porre termine alla guerra e di non correre più pericoli per l’avvenire a quelle condizioni; e Alessandro avrebbe replicato che anche lui, se fosse stato Parmenione, avrebbe agito così; ma dato che era Alessandro, avrebbe risposto a Dario nei termini in cui rispose. Gli fece dire, infatti, che egli non aveva bisogno del-
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οὔτε τῆς χώρας λαβεῖν ἀντὶ τῆς πάσης τὸ μέρος. Εἶναι γὰρ τά τε χρήματα καὶ τὴν χώραν αὑτοῦ πᾶσαν. Γῆμαί τε εἰ ἐθέλοι τὴν Δαρείου παῖδα, γῆμαι ἂν καὶ οὐ διδόντος Δαρείου. Ἐκέλευέ τε αὐτὸν ἥκειν, εἴ τι εὑρέσθαι ἐθέλοι φιλάνθρωπον παρ’ αὑτοῦ. Ταῦτα ὡς ἤκουσε Δαρεῖος, τὰς μὲν ξυμβάσεις ἀπέγνω τὰς πρὸς Ἀλέξανδρον, ἐν παρασκευῇ δὲ τοῦ πολέμου αὖθις ἦν.
le ricchezze di Dario e, quanto al territorio, non era disposto a ricevere una parte invece di tutto. Se poi voleva sposare la figlia di Dario, l’avrebbe sposata anche senza il suo consenso. Lo invitava a venire di persona se desiderava ottenere un po’ di benevolenza da parte sua. Udite queste risposte, Dario rinunciò ad accordarsi con Alessandro, e preparava di nuovo la guerra. (Traduzione di F. Sisti, Mondadori 2004)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE Il passo di Arriano è divisibile in tre parti: una prima contiene le proposte del re Dario III ad Alessandro dopo la sconfitta patita a Isso (331 a.C.), la più importante delle quali riguarda il confine all’Eufrate (tutte le fonti parlano del confine: Plutarco, Diodoro, Curzio Rufo, Giustino, Valerio Massimo). Alcuni storici moderni pensano però che la questione più rilevante fosse quella legata all’offerta del matrimonio con la principessa Barsine, figlia di Dario: le eventuali nozze avrebbero risolto il problema della persistente mancanza di un erede al trono macedone. La seconda sezione ha come protagonista Parmenione, la terza riporta le decisioni di Alessandro. Segna le tre sezioni anche sul testo greco. Il testo di Livio è ugualmente divisibile in sequenze? VERSO UN CONFRONTO 1. La storia di Annibale e Maarbale viene dall’annalista Celio Antipatro il quale la ricavava a sua volta da Catone; quest’ultimo parlava di una semplice cena promessa ad Annibale (tibi cena cocta erit); Livio alza la posta e trasforma la cena in banchetto. Un vero banchetto meriterebbe la conquista di Roma! Il banchetto è sempre associato al trionfo e un banchetto sul colle più importante di Roma diventa qualcosa di mistico, ma anche di blasfemo. Sul Campidoglio c’è il tempio di Giove. La battuta preoccupata e amara di Maarbale che disapprova la scelta del suo capo di non marciare su Roma suona quasi come una sententia, a dimostrare l’abilità retorica di Livio, ma soprattutto la sua preferenza per la storiografia “drammatica” che mette in scena gli eventi e insiste sulla disposizione d’animo dei personaggi. Prova a spiegare perché stilisticamente possiamo considerare la battuta di Maarbale una sententia. 2. Anche la storia di Arriano riferisce un famoso scambio di opinioni tra Alessandro e il suo generale Parmenione. Che cosa hanno in comune i due passi? Pensa innanzitutto ai protagonisti. Le due coppie, cartaginese e greca, sono costituite entrambe da un comandante in capo e da un ufficiale “anziano”, valoroso e dunque degno di ascolto. Non però ascoltato nei nostri due casi. Che cosa hanno di diverso i due passi? Quello di Arriano appare subito più complesso dato che illustra se pur sinteticamente un momento cruciale di politica estera. Livio invece non insiste sul fatto che Annibale in fondo si mostra incapace di sfruttare la vittoria militare, cioè di passare da un programma militare a un programma politico; non menziona qui l’incapacità di Annibale di provocare il crollo della confederazione italica e neppure menziona la mancanza di reale sostegno da parte del governo di Cartagine. Nota anche che ci sono sostanziali differenze nello svolgimento degli eventi: nel caso romano il comandante sbaglia e il subordinato ha forse l’idea giusta che però non verrà messa 42
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8 in pratica; nel caso greco le due proposte hanno entrambe una razionalità e al momento potevano essere giuste entrambe. Prevale quella di Alessandro perché è la più audace e la più confacente al carattere del personaggio. Nel caso di Annibale la scelta di fermarsi a Capua capovolge e contraddice tutto quello che egli aveva fatto fino a quel momento. Ricorda che nell’audace guerra-lampo dall’Ebro a Canne Annibale aveva avuto per modello proprio Alessandro di cui aveva studiato l’opera. Annibale non ascoltando Maarbale commette un errore strategico, secondo Livio? Considera l’ultima riga. Forse Livio intende con quel commento sminuire il genio militare di Annibale? O forse nel suo pensiero c’è principalmente il sollievo per l’insperata salvezza di Roma?
Alessandro Magno e la storiografia Arriano di Nicomedia è uno storico greco dell’inizio del II secolo d.C., allievo del filosofo stoico Epitteto e in buoni rapporti con l’imperatore Adriano; fu esperto di cose militari come il suo modello Senofonte. La sua opera principale è l’Anabasi di Alessandro, per la quale egli è la nostra fonte migliore. Diversamente da altri alessandrografi che possediamo (per es. Curzio Rufo) Arriano attinge dichiaratamente a tre fonti ottime, tendenzialmente obiettive e comunque testimoni dirette dei fatti: 1. le memorie di Tolemeo figlio di Lago, uno dei generali di Alessandro più intelligenti e futuro fondatore del regno egiziano dei Tolemei o Lagidi; 2. l’ammiraglio della flotta macedone Nearco il Cretese; 3. lo storico Aristobùlo di Cassandrea, testimone diretto della anabasi di Alessandro. Arriano attinge anche al meno fedele ma interessante Onesìcrito di Astipalea, che fu timoniere della flotta di Nearco, scrisse un “romanzo di formazione” su Alessandro, ed è fonte di importanti osservazioni sull’India. Gli alessandrografi latini risalgono invece in larga parte al poco attendibile Clitarco, storico greco della fine del IV secolo a.C., e hanno tratti in comune con l’ancor meno attendibile Romanzo di Alessandro. Quest’ultimo si andò formando in età imperiale sotto il falso nome di Callistene di Olinto, nipote o pronipote di Aristotele, autore di presto perdute Imprese di Alessandro. Il vero Callistene era stato messo a morte da Alessandro e questo fece sì che la scuola peripatetica – il Liceo fondato da Aristotele – diffondesse poi un’immagine poco benevola del conquistatore macedone.
3. Per continuare il confronto tra il passo di Livio e quello di Arriano considera anche le scelte stilistiche dei due storici: Livio affida il nucleo dell’episodio al discorso diretto, curando con acribìa la battuta che rimarrà impressa nel lettore come una sententia. Arriano invece ricorre all’oratio obliqua, retta da un λέγουσιν. Questo verbo in fondo denota che Arriano si vorrebbe quasi dissociare da quanto legge nelle sue fonti, probabilmente in questo caso Callistene. Arriano da storico politico-militare alla maniera di Senofonte non ha interesse a creare l’aneddoto, riferisce in maniera diluita quasi uno scambio di idee più che di battute all’interno di un dibattito sulla migliore strategia, che si dovette svolgere effettivamente tra gli alti ufficiali, gli etèri, dell’esercito macedone. Qui non c’è nulla della storiografia ‘drammatica’ che pure tanta parte avrà nello svolgimento del romanzo di Alessandro. Dopo Isso e prima di Gaugamela le due forze opposte erano in equilibrio: Alessandro aveva vinto due battaglie e stava aggiungendo tutta l’Asia anteriore al progetto di suo padre Filippo, il quale si sarebbe limitato verosimilmente all’Anatolia. Si potrebbe accontentare. Il re Dario sappiamo che alla fine sarà sconfitto e annientato, ma in quel momento era ancora molto forte e poteva offrire un’alleanza dinastica doppiamente utile: perché rafforzava la Macedonia e perché risolveva il preoccupante problema della mancanza di eredi da parte di Alessandro. Ti sembra che lo storico greco abbia soppesato bene tutti questi elementi? C’è più razionalità nella proposta di Parmenione o nella risposta apparentemente arrogante di Alessandro? © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA
In tribunale come a teatro PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Nei processi dell’antichità la giuria giudicava più in base a valutazioni razionali oppure in base alle emozioni? Ed era lecito che un avvocato, per riuscire a far breccia nel cuore dei giudici, tentasse di impressionare l’uditorio con spunti patetici non solo verbali, ma magari ricorrendo a gesti eclatanti che potevano perfino imbarazzare l’uditorio e contrastare con la morale corrente? E così, grazie a un’indebita pressione sulla giuria, a volte un imputato colpevole riusciva a essere assolto. Ti proponiamo due episodi accaduti a Roma e ad Atene. Cominciamo dal caso romano. Siamo nel 70 a.C., anno del processo contro Verre. Il passo che dovrai tradurre è ricavato dall’ultima delle Verrine, De suppliciis, mai recitata perché Verre in difficoltà si è ormai rifugiato a Marsiglia. Cicerone prima di narrare i misfatti più crudeli di Verre contro cittadini romani contesta le asserite qualità militari dell’imputato, che il difensore Ortensio vorrebbe presentare come bonus imperator cioè valido generale. Forse Ortensio – rimugina Cicerone – si vuole ispirare alla tattica seguita da un celebre oratore della generazione precedente, Marco Antonio (nonno del famoso triumviro), nella sua qualità di difensore di Manio Aquilio. PRE-TESTO
Ortensio si richiamerà ai pericoli della guerra, ai momenti difficili che attraversa lo Stato, allo scarso numero di generali; ora cercherà di commuovervi con le preghiere, ora, fondandosi sui suoi diritti di difensore, si sforzerà anche di convincervi a non permettere che un generale così valoroso sia strappato al popolo romano per le testimonianze dei Siciliani e a non lasciare che la gloria di un generale sia demolita da un’accusa di avidità.
Cicerone, Contro Verre, II 5, 2-3
Quid agam, iudices? Quo accusationis meae rationem conferam, quo me vertam? Ad omnis enim meos impetus, quasi murus quidam, boni nomen imperatoris opponitur. Novi locum; video ubi se iactaturus sit Hortensius. [...] Non possum dissimulare, iudices; timeo ne C. Verres propter hanc eximiam virtutem in re militari omnia, quae fecit, impune fecerit. Venit enim mihi in mentem, in iudicio M’. Aquilii1 quantum auctoritatis, quantum momenti oratio M. Antonii habuisse existimata sit. Qui, ut erat in dicendo non solum sapiens, sed etiam fortis, causa prope perorata, ipse arripuit M’. Aquilium constituitque in conspectu omnium tunicamque eius a pectore abscidit, ut cicatrices populus Romanus iudicesque aspicerent adverso corpore exceptas; simul et de illo vulnere, quod ille in capite ab hostium duce acceperat, multa dixit eoque adduxit eos, qui erant iudicaturi, vehementer ut vererentur ne, quem virum fortuna ex hostium telis eripuisset, cum sibi ipse non pepercisset, hic non ad populi Romani laudem, sed ad iudicum crudelitatem videretur esse servatus. Eadem nunc ab illis2 defensionis ratio viaque temptatur, idem quaeritur. Sit fur, sit sacrilegus, sit flagitiorum omnium vitiorumque princeps; at est bonus imperator, at felix et ad dubia rei publicae tempora reservandus. 1 M’. Aquilii: Manio Aquilio era un vecchio generale accusato di malversazione in Sicilia dove aveva combattuto una rivolta di schiavi: venne assolto nonostante fosse con ogni probabilità colpevole. Il merito va al suo
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abile difensore, l’oratore Marco Antonio. 2 ab illis: sono i difensori di Verre; non c’è dunque solo Ortensio in aula.
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Ma io non farò valere nei tuoi confronti un’interpretazione rigida delle norme giuridiche; non dirò (anche se dovrei forse attenermi a questo principio, dato che il processo è impostato in base a una legge ben definita), non dirò dunque che sarebbe tuo dovere informarci non già sulle tue valorose imprese in campo militare, ma sulla tua estraneità al reato di appropriazione indebita delle altrui ricchezze. (Pre-testo e post-testo: traduzione di L. Fiocchi-D. Vottero, BUR 1992)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Considera questi elementi: impetus, murus, imperator, se iactare. Che linguaggio ti rievocano? Quale metafora sta usando Cicerone per rappresentare Ortensio in difficoltà nella difesa di Verre? Quali parole ti fanno capire che siamo di fronte a un discorso metaforico? 2. Marco Antonio, che sarà un personaggio del De oratore, era molto stimato da Cicerone. Quali doti qui gli si riconoscono? 3. causa prope perorata: che costrutto è? Pensando alle parti canoniche di un’orazione (vedi Lessico di base della retorica, p. 68), a che punto del discorso ebbe luogo la scena che Cicerone sta per rievocare? 4. Dove erano le cicatrici di Manio Aquilio? In un’unica parte del corpo? 5. A che scopo secondo Cicerone il difensore Marco Antonio si comportò in modo tanto sfacciato? 6. Cicerone rievoca indirettamente le parole di Marco Antonio (multa dixit): il popolo e i giudici appaiono in contrapposizione tra loro. Perché? 7. Come giudica Cicerone l’atmosfera politica del suo tempo (osserva l’ultima frase)? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Quid agam... conferam... vertam?: di che tipo di congiuntivi si tratta? La figura retorica è quella della communicatio, allorché l’oratore si rivolge al pubblico con una finta richiesta di consiglio. 2. auctoritatis e momenti: che genitivi sono? 3. adverso corpore (non averso): che cosa indica del comportamento di un soldato una ferita di questo tipo? 4. cum... pepercisset: di che proposizione si tratta? 5. Nel periodo con cui Cicerone descrive l’effetto delle parole di Antonio individua una relativa prolettica. 6. Sit fur... : di che congiuntivi si tratta? Come puoi arrivare alla risposta corretta considerando la posizione dei verbi e anche un ulteriore piccolo elemento nella proposizione successiva? Che figura retorica ravvisi? SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Una tecnica non troppo dissimile fu già usata nella seconda metà del IV secolo da un celebre oratore greco, Iperide, nel processo in cui difese Frine, una cortigiana originaria di Tespie, bellissima, accusata di empietà da un certo Eutia. L’accusa era rivolta a una persona schierata su una posizione antimacedone in un momento in cui Atene era divisa tra partigiani e avversari di Filippo II. Forse Iperide aveva una relazione con l’imputata, e dunque si prospettava nel processo una mescolanza di vita personale e affari pubblici. Ci riferisce la vicenda Ateneo (II-III secolo d.C.), un poligrafo autore de I dotti a banchetto in 30 libri. Con la scusa di discorrere sulle varie portate di un simposio una serie di dotti fa a gara nell’evocare episodi variamente curiosi della storia politica e culturale della Grecia. © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA L’opera di Ateneo ci è giunta in forma abbreviata in 15 libri (i primi due libri e mezzo in epitome). Essa è una miniera sterminata di notizie sulla storia letteraria greca e in particolare, trattandosi di materia gastronomica, sulla commedia. In questo caso Ateneo attinge all’erudito Ermippo di Smirne, allievo di Callimaco, attivo ad Alessandria circa un secolo dopo gli eventi che racconta.
Ateneo, I dotti a banchetto, XIII 590e
Ὁ δὲ Ὑπερείδης συναγορεύων τῇ Φρύνῃ, ὡς οὐδὲν ἤνυε λέγων ἐπίδοξοί τε ἦσαν οἱ δικασταὶ καταψηφιούμενοι, παραγαγὼν αὐτὴν εἰς τοὐμφανὲς καὶ περιρήξας τοὺς χιτωνίσκους γυμνά τε τὰ στέρνα ποιήσας τοὺς ἐπιλογικοὺς οἴκτους ἐκ τῆς ὄψεως αὐτῆς ἐπερρητόρευσεν δεισιδαιμονῆσαί τε ἐποίησεν τοὺς δικαστὰς τὴν ὑποφῆτιν καὶ ζάκορον Ἀφροδίτης ἐλέῳ χαρισαμένους μὴ ἀποκτεῖναι. Καὶ ἀφεθείσης ἐγράφη μετὰ ταῦτα ψήφισμα, μηδένα οἰκτίζεσθαι τῶν λεγόντων ὑπέρ τινος μηδὲ βλεπόμενον τὸν κατηγορούμενον ἢ τὴν κατηγορουμένην κρίνεσθαι. Ἦν δὲ ὄντως μᾶλλον ἡ Φρύνη καλὴ ἐν τοῖς μὴ βλεπομένοις. Διόπερ οὐδὲ ῥᾳδίως ἦν αὐτὴν ἰδεῖν γυμνήν· ἐχέσαρκον γὰρ χιτώνιον ἠμπείχετο καὶ τοῖς δημοσίοις οὐκ ἐχρῆτο βαλανείοις.
Iperide, che difendeva Frine, poiché con le sue parole non combinava niente e i giudici davano a divedere che avrebbero emesso una sentenza di condanna, la presentò in pubblico e strappatele le vesti mettendo a nudo il suo petto usò come arma retorica di fronte a quella vista i lamenti finali tipici dell’oratoria e indusse i giudici a cedere alla pietà temendo superstiziosamente di condannare a morte una profetessa e sacerdotessa di Afrodite. E, dopo che ella fu prosciolta, fu approvato per decreto che nessun avvocato potesse emettere lamentazioni in difesa di un altro e che nessun accusato o accusata potesse ricevere la sentenza mentre era sotto lo sguardo dei giudici. Effettivamente Frine era più bella nelle parti che non si vedono. E perciò neppure era facile vederla nuda: indossava infatti un chitone aderente e non frequentava i bagni pubblici. (Traduzione di O. Bellavita)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Nel testo di Ateneo puoi distinguere tre parti: sapresti indicarle? Una prima parte racconta l’episodio scandaloso che ha come protagonisti l’oratore Iperide nelle vesti di difensore e Frine in quelle di imputata. Quali particolari sottolinea l’autore? Considera il verbo che all’inizio indica “emettere una sentenza di condanna” e spiega quali sono gli elementi lessicali che lo compongono. 2. Una seconda parte parla dell’inattesa risonanza legislativa che l’episodio suscitò. Come si articolano le due parti del decreto introdotto in quell’occasione ad Atene? 3. L’ultima parte del racconto di Ateneo ritorna su Frine dando indicazioni sulla moda del tempo. Quali? VERSO UN CONFRONTO 1. Chiediti: che cos’hanno in comune i due passi? Pur non appartenendo al medesimo genere letterario, essi sono confrontabili tra loro non solo nel contenuto “clamoroso” (i fatti sono simili nella dinamica), ma anche nella forma. Entrambi fanno la cronaca di un episodio per così dire non in diretta, ma in differita. Entrambi rievocano un avvenimento non contemporaneo ma ormai lontano nel tempo. Cicerone lo fa con maggiore incisività perché è lui stesso un oratore, abile conoscitore della tecnica retorica, e soprattutto lo fa mentre è impegnato in una dura requisitoria contro Verre, nel pieno di un processo dunque, quando si attende da un momento all’altro che il difensore di Verre giochi sporco e scelga una tattica 46
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9 simile a quella del celebre Marco Antonio. Ateneo, da cronista distaccato, semplicemente rievoca con oggettività un episodio antico che a suo tempo aveva suscitato scalpore. Prova a individuare a quali mezzi retorici Cicerone ricorre per essere incisivo. 2. Quelli di Iperide e Marco Antonio furono gesti così eclatanti da restare impressi nella memoria collettiva e da meritare rievocazioni da più parti. Non è un caso che l’episodio centrale della difesa di Manio Aquilio sia ricordato sinteticamente anche da Quintiliano quando tratta dei metodi di persuasione usati dagli oratori (II 15, 7). Ed è curioso che poche righe più in là Quintiliano (II 15, 9) menzioni anche il discorso di Iperide, “mirabile” sì ma che non sarebbe forse bastato a evitare la condanna dell’imputata. Quintiliano peraltro dà una versione leggermente diversa dell’episodio; ci dice – e questo è un inedito – che fu Frine stessa ad esibire il proprio corpo, già di per sé bellissimo (speciosissimum), aprendo la tunica. Considera ora i verbi usati da Cicerone e da Ateneo per indicare il gesto degli avvocati sul corpo dei loro rispettivi clienti: l’azione è suddivisa in più tempi, quasi al rallentatore: arripere, constituere e abscindere in Cicerone, παράγω e περιρρήγνυμι in Ateneo. Formula un tuo commento su queste analogie espressive. 3. L’insegnamento della retorica era tradizionalmente diviso in cinque parti; l’ultima, la actio, riguarda il modo di vestire, di camminare e di atteggiarsi, ma soprattutto di modulare la voce: l’oratore tiene un tono morbido nella narratio (parte centrale del discorso dove racconta i fatti), mentre tende ad alzare la voce nella peroratio (parte finale del discorso quando si tratta di commuovere e convincere). Iperide come si è comportato? 4. L’actio riguarda anche il modo di gesticolare che deve essere sì efficace, ma non esagerato. L’oratore deve prestare attenzione all’espressione affinché, come dice altrove Cicerone, non assomigli a un giullare. Nulla deve esserci di sovrabbondante poiché i movimenti devono solo suggerire e non mimare. Eppure una actio efficace riusciva a comunicare le emozioni anche al pubblico che, per mancanza di cultura, non capiva pienamente i contenuti del discorso. Sappiamo che Cicerone si era ispirato ai due maggiori attori dell’epoca, Roscio, da lui difeso in una delle sue prime orazioni, ed Esopo, famoso nei ruoli tragici, abile nel tenere in serbo i virtuosismi per il momento di maggior effetto drammatico. Cicerone si recava a vederli a teatro per imparare la tecnica, e a loro volta i due attori andavano ad assistere nel Foro ai processi in cui parlava Ortensio, per assimilare i segreti dell’avvocato. Cicerone, inoltre, faceva a gara con Roscio su chi fosse capace di rendere nel maggior numero di volte e differentemente la stessa idea. L’oratore è una figura simile all’attore cioè deve essere in grado di recitare. Che cosa pensi di questa vicinanza tra oratore e attore? Si tratta di una tecnica veramente efficace, a tuo giudizio?
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Iperide Una storia poco chiara Nella storia di Iperide e Frine ci sono numerosi tratti notevoli. Anzitutto non è certo che cosa accadde veramente. Quintiliano esagerando dice che fu la cortigiana stessa a spogliarsi, ma secondo un’interpretazione oggi accolta da diversi studiosi ella semplicemente si batté il petto cercando di commuovere i giudici, mentre l’abile Iperide potrebbe suggestivamente aver enfatizzato l’episodio con la sua eloquenza, e nulla più. Tra l’altro le fonti antiche dicono che Iperide fu abbastanza moderato nell’uso degli artifici retorici, e questo contrasta con un gesto così trasgressivo come quello descritto da Ateneo.
Che relazione c’era tra Iperide e Frine? Un altro punto riguarda la relazione personale tra Iperide e Frine: essa potrebbe essere stata di natura essenzialmente politica, perché Frine provenendo da una regione come la Beozia che molto stava soffrendo dall’aggressione macedone era una dichiarata avversaria di Filippo II, così come Iperide stesso. Quest’ultimo, dopo la sconfitta di Ateniesi e Tebani a Cheronea (338 a.C.), propose di dare la cittadinanza ai meteci e di arruolare gli schiavi; in seguito a ciò sarà portato in un processo in cui si difese dicendo: «Non io feci la proposta, ma la battaglia di Cheronea». Il processo “per empietà” (si diceva che Frine si fosse introdotta abusivamente nel Liceo) probabilmente camuffava una mossa propagandistica del partito filomacedone, cui apparteneva l’accusatore Eutia.
Un patrimonio perduto Nessuna delle 77 orazioni che la tradizione attribuisce a Iperide, tra cui quella Per Frine, ci è giunta attraverso la tradizione manoscritta medievale. Ma a partire dalla metà dell’Ottocento alcuni grandi papiri ce ne hanno trasmesse quasi per intero alcune, tra cui quella bellissima Per i caduti nella guerra lamiaca. Qui egli descrive, compiangendole, le virtù dello sfortunato generale ateniese Leostene, lo sconfitto di Lamia, suo grande amico. Vincitore della guerra, il generale macedone Antipatro non ebbe pietà di Iperide, il quale dopo una vita di lusso e piaceri affrontò una morte coraggiosa. Catturato a Egina dagli scherani di Antipatro, preferì strapparsi la lingua e inghiottirla piuttosto che fare nomi sotto tortura. Nello stesso giro di giorni Demostene, suo compagno di avventura politica, si suicidava col veleno nella vicina isola di Calaurìa. È doloroso che proprio le orazioni di Iperide tra quelle di tutti gli oratori attici siano andate perdute, tanto più che forse un manoscritto che ne conteneva qualcuna si è conservato quasi fino a noi nella splendida biblioteca umanistica del re d’Ungheria Mattia Corvino, alla fine del XV secolo. Poco dopo, con la sconfitta subita nella sanguinosa battaglia di Mohács (29 agosto 1526)1, quasi tutta l’Ungheria cadeva sotto il controllo della Turchia ottomana. Nel frattempo, di Iperide più nessuna traccia.
1 La battaglia – cavalleria contro cannoni – costò 16.000 morti ungheresi (dei 26.000 soldati schierati) tra cui il re Luigi II, contro solo 1500 caduti turchi; essa è descritta in perfetto latino umanistico dal dotto vescovo di Pécs Stephanus Brodericus nell’opera De conflictu Hungarorum cum Solymano Turcarum imperatore ad Mohach historia verissima. All’inizio della battaglia i cavalieri magiari tentarono l’impresa disperata di puntare direttamente sul Sultano che comandava di persona gli avversari. Due di essi arrivarono fino a poche decine di metri da Solimano venendo infine abbattuti, gli altri in gran parte perirono.
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Burrasca e naufragio La navigazione nell’antichità è qualcosa di pericoloso. I due episodi che ti sottoponiamo sono avvenuti quasi nello stesso periodo, in età neroniana, entrambi sul Mar Mediterraneo, uno nei pressi della costa campana, il secondo in una zona più rischiosa tra Creta e Malta. Protagonisti sono nel primo caso Seneca, un filosofo stoico che ben conosci, nel secondo l’apostolo san Paolo. Già alla fine del IV secolo con Girolamo – che ha per Seneca parole di grande stima: continentissimae vitae fuit, e il tenore di vita ascetico ricordato anche da Tacito rende Seneca gradito ai cristiani – si parlò di uno scambio epistolare tra il filosofo e Paolo. Il carteggio, costituito da 14 lettere in genere brevi, è sicuramente una contraffazione ma al contempo mostra che la Chiesa dei primi secoli era convinta che Seneca avesse avuto contatti col Cristianesimo. Sicuramente li ebbe il fratello maggiore Gallione, proconsole a Corinto nel 52/53: in quel periodo Paolo venne condotto davanti a lui con l’accusa di insegnare agli uomini ad adorare Dio in modo contrario alla legge; Gallione non prese neppure in considerazione il caso non ritenendolo argomento di sua competenza (il mondo pagano disprezzava la rissosità degli ebrei). Seneca piacerà molto ai cristiani che lo consideravano per le sue idee naturaliter Christianus. PRIMA PARTE
Seneca, Epistole a Lucilio, VI 53, 1-3
Traduzione di un testo in lingua latina Il passo che segue è l’inizio di una delle Epistole a Lucilio, opera di filosofia che risale al periodo del ritiro dalla politica. Seneca racconta a Lucilio una sua rocambolesca avventura in mare che gli comporta, oltre a notevoli problemi di stomaco, addirittura il rischio di naufragio. La morale che il filosofo ne ricava è che bisognerebbe riconoscere in anticipo le proprie debolezze fisiche e agire di conseguenza. Più difficile è invece conoscere le debolezze del proprio animo. Solo la filosofia può aiutarci in questo.
Seneca Lucilio suo salutem Quid non potest mihi persuaderi, cui persuasum est ut navigarem? Solvi mari languido; erat sine dubio caelum grave sordidis nubibus, quae fere aut in aquam aut in ventum resolvuntur, sed putavi tam pauca milia a Parthenope tua usque Puteolos subripi posse, quamvis dubio et inpendente caelo. Itaque quo celerius evaderem, protinus per altum ad Nesida1 derexi praecisurus omnes sinus. Cum iam eo processissem ut mea nihil interesset utrum irem an redirem, primum aequalitas illa quae me corruperat periit; nondum erat tempestas sed iam inclinatio maris ac subinde crebrior fluctus. Coepi gubernatorem rogare ut me in aliquo litore exponeret: aiebat ille aspera esse et inportuosa nec quicquam se aeque in tempestate timere quam terram. Nausia me segnis et sine exitu torquebat. Institi itaque gubernatori et illum, vellet nollet2, coegi peteret litus. Cuius ut viciniam attigimus, non exspecto ut quicquam ex praeceptis Vergilii fiat, «obvertunt pelago proras3» aut «ancora de prora iacitur4»: memor artificii mei vetus frigidae cultor mitto me in mare. 1 Nesida: piccola isola tra Napoli e Pozzuoli. 2 vellet nollet: nelle parlate moderne usiamo l’espressione volens nolens che però non è attestata nel latino antico.
3 obvertunt pelago proras: da un verso dell’Eneide: Aen. VI 2. Sogg. “i marinai”. 4 ancora de prora iacitur: Aen. III 277. È l’arrivo di Enea e compagni ad Azio, nel golfo di Ambracia.
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Che cosa immagini che io abbia patito mentre mi arrampicavo per gli scogli, cercavo e mi aprivo un passaggio? Mi convinsi che non a torto i marinai temono la terra. È incredibile quel che soffersi, non potendo andare avanti: sappi che ad Ulisse non toccò in sorte la burrasca così spesso da fare ovunque naufragio: egli soffriva il mal di mare. Anch’io dovunque dovrò navigare, vi giungerò dopo vent’anni. (Traduzione di U. Boella, Utet)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Spiega con parole tue il punto di vista di Seneca sulla navigazione che si palesa subito dalla prima frase. Ma forse Seneca sta parlando soprattutto di se stesso e della leggerezza con cui ha affrontato il viaggio. 2. Com’è lo stato del mare e del cielo quando Seneca si mette in viaggio? Chi c’è con lui? (te ne accorgi solo alla riga 6) 3. Sapresti spiegare perché solvere significa “salpare”? Che termine puoi sottintendere? 4. Descrivi la rotta che prende Seneca. A che punto del viaggio è arrivato quando cominciano le difficoltà? La natura è amica dell’uomo o a volte inganna? Quale verbo ti indica la risposta? 5. Perché il timoniere (gubernator) rifiuta di sbarcare Seneca? E perché invece Seneca insiste tanto sullo sbarco? 6. Che cosa ti dicono le citazioni da Virgilio circa il modo di ancorare la nave e che cosa ti rivelano della fortuna di Virgilio in età neroniana? Ricorda che le citazioni poetiche sono frequenti in Seneca e servono ad alleggerire una prosa impegnata, a far rilassare la mente, ma anche a rendere più facilmente assimilabile l’insegnamento (dunque hanno in piccolo la medesima funzione che ha la veste poetica in Lucrezio). 7. Come riesce Seneca a conferire un senso di dramma ma in fondo anche di umorismo e di autoironia alle modalità del suo sbarco a terra? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Che cosa sai dire della forma stilistica della prima frase? Che figura retorica vi riconosci? Nota l’assenza di sostantivi. 2. Perché aspera e inportuosa (riga 8) sono al neutro plurale? 3. Spiega l’etimologia di surripio (riga 3). Qual è il senso esatto dell’uso metaforico di surripit? 4. Analizza i valori di ut alle righe 4, 6 e 9 (ut attigimus). 5. nausia: pensando al greco prova a trovare l’etimologia di questo sostantivo. 6. quamvis dubio et inpendente caelo (riga 4): che costrutto è? SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Il Nuovo Testamento, libro sacro della religione cristiana, è una raccolta di opere in greco formata dai quattro Vangeli, dalle Epistole di Paolo e degli altri apostoli, dall’Apocalisse di Giovanni e dagli Atti degli Apostoli, redatti alla fine del I secolo dall’evangelista Luca, al cui centro stanno i viaggi e la predicazione di Paolo. Esiste dell’intera Bibbia una versione latina dovuta a Girolamo, la Vulgata, traduzione che si rese necessaria man mano che si andava allargando il numero dei proseliti non in grado di leggere il testo greco. Paolo, cittadino romano, ebreo colto appartenente a una classe sociale elevata, si trova prigioniero insieme ad altri individui su una nave che trasporta frumento e che lo deve portare a Roma, sotto la scorta del centurione Giulio. Paolo stesso ha chiesto di essere giudicato
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10 direttamente dal supremo tribunale imperiale, per rispondere alle accuse mossegli dai Giudei di fomentare rivolte, di parlare di resurrezione dei morti e di aver tentato di profanare il tempio. Il viaggio è pieno di peripezie; per quattordici giorni la nave va alla deriva da Creta fino all’isola di Malta. Paolo non si dispera, incoraggia i compagni e li esorta a mangiare assicurando che neanche un capello del loro capo andrà perduto. Atti degli Apostoli 27, 37-44 – 28, 1
Ἤμεθα δὲ αἱ πᾶσαι ψυχαὶ ἐν τῷ πλοίῳ διακόσιαι ἑβδομήκοντα ἕξ. Κορεσθέντες δὲ τροφῆς ἐκούφιζον τὸ πλοῖον ἐκβαλλόμενοι τὸν σῖτον εἰς τὴν θάλασσαν. Ὅτε δὲ ἡμέρα ἐγένετο, τὴν γῆν οὐκ ἐπεγίνωσκον, κόλπον δέ τινα κατενόουν ἔχοντα αἰγιαλὸν εἰς ὃν ἐβουλεύοντο εἰ δύναιντο ἐξῶσαι τὸ πλοῖον. Καὶ τὰς ἀγκύρας περιελόντες εἴων εἰς τὴν θάλασσαν, ἅμα ἀνέντες τὰς ζευκτηρίας τῶν πηδαλίων, καὶ ἐπάραντες τὸν ἀρτέμωνα τῇ πνεούσῃ κατεῖχον εἰς τὸν αἰγιαλόν. Περιπεσόντες δὲ εἰς τόπον διθάλασσον ἐπέκειλαν τὴν ναῦν, καὶ ἡ μὲν πρῷρα ἐρείσασα ἔμεινεν ἀσάλευτος, ἡ δὲ πρύμνα ἐλύετο ὑπὸ τῆς βίας [τῶν κυμάτων]. Τῶν δὲ στρατιωτῶν βουλὴ ἐγένετο ἵνα τοὺς δεσμώτας ἀποκτείνωσιν, μή τις ἐκκολυμβήσας διαφύγῃ· ὁ δὲ ἑκατοντάρχης βουλόμενος διασῶσαι τὸν Παῦλον ἐκώλυσεν αὐτοὺς τοῦ βουλήματος, ἐκέλευσέν τε τοὺς δυναμένους κολυμβᾶν ἀπορίψαντας πρώτους ἐπὶ τὴν γῆν ἐξιέναι, καὶ τοὺς λοιποὺς οὓς μὲν ἐπὶ σανίσιν οὓς δὲ ἐπί τινων τῶν ἀπὸ τοῦ πλοίου· καὶ οὕτως ἐγένετο πάντας διασωθῆναι ἐπὶ τὴν γῆν. Καὶ διασωθέντες τότε ἐπέγνωμεν ὅτι Μελίτη ἡ νῆσος καλεῖται.
Eravamo complessivamente sulla nave duecentosettantasei persone. Quando si furono rifocillati, alleggerirono la nave, gettando il frumento in mare. Fattosi giorno, non riuscivano a riconoscere quella terra, ma notarono un’insenatura con spiaggia e decisero, se possibile, di spingere la nave verso di essa. Levarono le ancore e le lasciarono andare in mare; al tempo stesso allentarono i legami dei timoni e, spiegata al vento la vela maestra, mossero verso la spiaggia. Ma incapparono in una secca e la nave vi si incagliò; mentre la prua arenata rimaneva immobile, la poppa minacciava di sfasciarsi sotto la violenza delle onde. I soldati pensarono allora di uccidere i prigionieri, perché nessuno sfuggisse gettandosi a nuoto, ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo progetto; diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiungessero la terra; poi gli altri, chi su tavole chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a terra. Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. (Testo integrale CEI, Piemme, 1990)
VERSO UN CONFRONTO 1. L’imbarcazione di Seneca la immaginiamo piccola, impegnata com’è su una rotta limitata, quella di Paolo deve essere assai più capiente se trasporta ben 276 persone e naviga per giorni in pieno Mediterraneo. Nota subito come vengono chiamate nel testo greco queste persone: ψυχαί. È la concezione cristiana che porta accanto a una nuova spiritualità una lingua rinnovata. Seneca non descrive mai la propria imbarcazione, preso com’è dal cielo e dalle onde, oltre che dal suo stomaco che gli crea non pochi problemi. Il passo degli Atti invece si rivela in fondo più tecnico rispetto a quello senecano, perché nomina le varie parti della nave, le ancore, la vela maestra (ἀρτέμωνα), i timoni. Ma soprattutto l’atmosfera a bordo è potenzialmente più drammatica perché ci sono dei prigionieri (Paolo stesso è prigioniero), e i soldati messi di guardia temono che possano fuggire approfittando della tempesta. Alla fine c’è un “si salvi chi può” con tuffi e nuotate fino a riva di chi sa nuotare. La differenza tra i due racconti è che quello di Luca è estremamente realistico e oggettivo; nel far questo l’autore ci dà indirettamente una serie di notizie su come avveniva la naviga© Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA zione d’alto mare all’epoca, sui suoi rischi, sulla convivenza delle persone a bordo, su come si svolgevano le tradotte dei prigionieri e anche sulla possibile spietatezza dei loro carcerieri. In tutto questo si insinua l’elemento miracoloso sia dell’esito finale sia soprattutto del fatto che il centurione pur senza saperlo si mostra strumento della Provvidenza. Il suo è un atto di ragionevolezza e di umana pietà, e anche di ubbidienza alle regole giuridiche perché Paolo è un cittadino romano. Ma siamo già a una manifestazione del destino speciale dell’Apostolo delle genti. Il nuovo linguaggio dei cristiani non punta alla ricercatezza formale, che è la caratteristica e a volte anche il limite della letteratura pagana del tempo, ma mira soprattutto alla schietta semplicità (vocis pura sinceritas, dirà Cipriano). Commenta questa affermazione e individua brevemente, per contrasto, alcune caratteristiche dello stile di Seneca nel testo dell’epistola. 2. Lo studio della natura aiuta l’uomo a meditare sulla sua fragilità e ad accettare la sua condizione mortale; la scienza deve servire – afferma Seneca alla fine del II libro delle Naturales quaestiones che risalgono allo stesso periodo delle Epistole a Lucilio – non a evitare i colpi della natura bensì a sopportarli con coraggio e fermezza, perché il fine dello studio della natura non è rendere l’uomo più dotto, ma renderlo moralmente migliore. Riassumi il pensiero di Seneca sulla scienza. Ti sembra che chi descrive a Lucilio il mare e il cielo sia un uomo interessato alla scienza? Seneca ti appare in questo frangente un pensatore contemplativo? 3. Sappiamo dalla letteratura che il viaggio in mare si presta a molte metafore: la nave è simbolo di vita (o anche dello stato), i flutti sono le passioni (anche civili), il porto con la sua quiete è la meta che ci attende, la stabilità (e anche la saggezza filosofica). Dove hai incontrato questa metafora del viaggio per mare nella letteratura greca o latina o in altre letterature a te note?
Dal lessico di Seneca otium = tempo libero, tempo del privato, vita ritirata, riposo, tranquillità [si oppone a desidia e a inertia, che designano l’ozio di chi non fa nulla], pace sociale [contrapposta a bellum], attività letteraria e intellettuale in genere. L’otium che Seneca suggerisce come medicina alle tante distrazioni di cui gli uomini soffrono non è però disimpegno, ma impegno supremo alla ricerca della saggezza. Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura, “il disimpegno senza studio è morte ed è come essere sepolti vivi” (ep. 82,3), vale a dire: la vita priva di affari e di attività pubbliche, se non è accompagnata da studi e interessi intellettuali, finisce per seppellire. Lo studio invece tiene vivi. negotium = impegno in attività politica, forense, affari, commercio, impresa, lavori agricoli, attività militare. occupati = «gli affaccendati», vittime del tempo, travolti dagli affanni del vivere, sono uomini costantemente intenti in occupazioni insulse, le quali in realtà abbreviano la vita, perché il tempo non è un vaso pieno e inesauribile. sapiens = il saggio secessus, us = «ritiro» dalla vita politica (dal verbo secedo, is = “mi allontano”) se excutere = «scavare in se stessi»; equivale al nostro “frugare”, “passare in rassegna” con una sfumatura di concretezza quasi tattile: “far uscire scuotendo” (ex + quatio), se diventa norma di vita, serve a migliorare l’uomo; scrutari = «esaminare» vacare sapientiae = «dedicarsi alla saggezza», cioè alla filosofia suum esse = «appartenere a se stessi» in se recedere = «ritirarsi in se stessi»
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10 Lo stile di Seneca La centralità della frase
Seneca non ama i periodi complessi ma in genere li sminuzza in frasi brevi e incalzanti: si può dire che l’unità di misura stilistica per lui non sia più il periodo, come era stato per Cicerone, ma la frase (diventa quindi prevalente la stilistica rispetto alla sintassi). Come per Cicerone il periodo andava costruito ricercando la concinnitas, cioè la simmetria dei suoni e delle cadenze, e tale procedimento poteva assomigliare – sono parole del grande oratore nel Brutus – all’arte del mosaico e doveva apparire naturale anche se in realtà era il risultato di una ricerca artistica meticolosa, altrettanta cura, secondo Seneca, si può e si deve riservare alla costruzione della frase.
Una prosa policentrica
La prosa senecana non ha più un centro, non è cioè costruita simmetricamente intorno a una proposizione principale che illumina e dà coerenza a tutto l’insieme, ma è fatta di molti centri tanti quante sono le frasi. Il periodare risulta pertanto poco simmetrico, “poco quadrato” secondo Quintiliano, e molto imprevedibile. Tale scelta sottintende l’idea che la varietà sia più affascinante dell’unità e della compattezza: rispetto alla simmetria ciceroniana, in Seneca prevale l’asimmetria.
Prevalenza della paratassi sull’ipotassi
La paratassi, vale a dire la coordinazione, prevale sull’ipotassi (subordinazione): una frase è affiancata all’altra e spesso posta sullo stesso piano della precedente; le principali prevalgono di gran lunga sulle subordinate che sono per lo più di primo grado. Lo scopo di tale scelta è di avvicinarsi allo stile del “parlato” che è assai più agile e povero di congiunzioni rispetto allo scritto.
L’uso dell’anafora e dell’antifrasi
Uso dell’anafora cioè della ripetizione di un termine a breve distanza: le frasi senecane tendono a connettersi per anafora o per antifrasi, poiché i nessi grammaticali subordinanti sono pochi. Così le frasi si legano tra loro tramite la ripetizione, a volte insistita, dello stesso termine, come se Seneca lavorasse su parole chiave, da fissare nella mente del lettore. Seneca martella ad esempio gli imperativi con un senso drammatico dell’incalzare del tempo (fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum = “fuggi la moltitudine, fuggi un gruppo di pochi, fuggi anche uno solo”); l’anafora crea una trama fonica che lega una frase all’altra mediante la ripetizione iniziale; l’effetto è quello di una specie di refrain.
L’uso dell’antitesi
Ricorso all’antitesi, cioè alla contrapposizione di due termini o di due gruppi di parole: non vitae sed scholae discimus = “non per la vita, ma per la scuola impariamo”. L’antitesi è anche un modo per mettere in risalto le contraddizioni intime dell’uomo.
La variatio
Uso della variatio: cambio improvviso di costruzione, fatto per evitare la monotonia e tener desta l’attenzione del lettore col quale Seneca dialoga costantemente; spesso la variatio consiste nell’accorciare l’ultimo membro di una serie, così da rompere il ritmo. La prosa classica invece seguiva spesso la cosiddetta “legge dei membri crescenti”, Seneca fa il contrario.
La sententia
Amore per la sententia, cioè per la frase brillante che racchiude in poche studiate parole una riflessione; la sentenza deve esprimere con evidenza un precetto etico conferendogli efficacia. La frase è spesso finemente cesellata e costruita in modo da concentrare al massimo il pensiero; esempio: Ducunt volentem fata, nolentem trahunt “Il destino guida chi si lascia guidare, trascina chi si rifiuta” Tuttavia nota come sia sintetico il latino coi due participi presenti, il chiasmo e la posizione centrale del termine che indica il fato. In varie occasioni Seneca si lamenta della povertà (paupertas), anzi della mancanza di vocaboli (egestas), del lessico latino rispetto a quello greco, soprattutto nella terminologia filosofica.
Uso del riflessivo
Il riflessivo sia diretto sia indiretto esprime un ripiegamento del soggetto su se stesso; spesso in Seneca i riflessivi sono più di uno nella medesima frase (se sibi).
Il participio futuro
Seneca predilige l’uso assoluto del participio futuro, scelto per la sua sinteticità e «perché serve a svalutare il presente, a denunziarne la precarietà» (A. Traina). Si tratta in genere di un grecismo sintattico.
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Lo stile di Tacito Il deliberato rifiuto della concinnitas Tacito privilegia l’asimmetria del periodo, «una struttura disarmonica o deliberatamente semplice» (R. Syme) per tener desta l’attenzione del lettore e adeguarsi alla disarmonia degli eventi narrati.
La ricerca frequente della variatio La variatio implica un brusco mutamento di costrutto, come per evitare la prevedibilità e mantenere nel lettore la tensione emotiva. La variatio si configura come un’asimmetria lessicale o grammaticale o sintattica (es. una causa prima introdotta da un quod, e poi da un sostantivo all’ablativo).
L’amore per la brevitas Tacito ama le proposizioni brevi, non ammette nessuna parola di troppo, anzi sopprime anche in modo ardito tutto quello di cui si può fare a meno; per questo frequenti sono le ellissi del verbo, soprattutto del verbo ausiliare, ma anche di altri verbi facilmente desumibili dal contesto.
Una certa sentenziosità Già propria di Seneca, è la capacità di concentrare nella frase un concetto, in modo lapidario, in funzione enfatica o ironica. La ricerca della sentenza risente dell’influsso delle scuole di retorica che insegnavano a inframmezzare e concludere un discorso o una dimostrazione con un’espressione densa e breve; nelle scuole di retorica si insegnava anche l’analisi dei procedimenti interiori.
L’uso degli astratti L’astratto al posto del concreto serve a dare un colorito poetico: salvis adfinitatibus atque amicitiis («fatti salvi i parenti e gli amici»).
L’uso di aggettivi e participi neutri plurali con valore di sostantivo Derivato dalla poesia, anche nei casi indiretti e anche con l’aggiunta di un partitivo: priora = «i trascorsi», potissima = «gli affari più importanti», avia = «le località inaccessibili», consulta = «i provvedimenti», minima = «i particolari», prospera = «il successo», adversa = «le avversità», extrema = «gli ultimi fatti», imminentium intellegens = «consapevole delle cose che stanno per succedere», occulta saltuum = «i nascondigli dei burroni», alia honorum = «altri onori», cuncta curarum =«tutte le preoccupazioni», destinata = «il proposito, i piani». Frequente è anche l’uso dell’aggettivo neutro sostantiva-
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to al singolare, di solito all’ablativo. Vi ricorrevano già Livio e Sallustio.
Il ricorso all’arcaismo per dare all’espressione una patina di antica romanità: forem invece di essem, ni al posto di nisi; uso dei frequentativi, come factito o capesso, propri della lingua arcaica e popolare, o coepto. Essi tendono a rappresentare l’aspetto durativo di un’azione, più che quello istantaneo. Tacito ama anche gli incoativi come evalesco “incomincio a prevalere”, intumesco, ardesco “mi accendo”, hebesco “comincio a spuntarmi, a venir meno”, languesco “perdo vigore”, gravesco (per ingravesco), fatisco, vanesco.
I poetismi La prosa dell’impero assorbe anche la lingua dei poeti augustei, ama i poetismi, per cui alla purezza preferisce l’efficacia colorita e fantastica del linguaggio dei poeti. Tipico poetismo è l’ablativo di stato in luogo con la ellissi di in, oppure l’uso del verbo semplice al posto del composto, vertit per revertit, firmare per adfirmare, posuit per proposuit, che ben si presta alla compressione dello stile.
La posizione del verbo Tacito ama mettere il verbo a inizio periodo, in posizione di preminenza: l’attenzione così si ferma e si concentra sull’azione.
L’ablativo assoluto Frequente l’ablativo assoluto ellittico nel nome o nel verbo; l’ablativo assoluto è a volte collocato a fine periodo, quasi fosse un’appendice, un’aggiunta inaspettata che vuole imporsi al lettore. La tensione stilistica è espressione della vita interiore: è un’indicazione di come l’autore tenga sempre desto il proprio pensiero, di come non si lasci mai trascinare dall’espressione o dal pensiero già iniziato: non solo di parola in parola accade l’inatteso, ma accade qualcosa che muta la situazione stessa via via che viene narrata.
L’asindeto Per dare risalto a una enumerazione, a una gradazione o a un contrasto Tacito ricorre all’asindeto enumerativo, cioè alla sequenza di sostantivi nello stesso caso senza congiunzione o di verbi (es. munia senatus magistratuum legum = “le attribuzioni del senato, delle magistrature, delle leggi”).
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L’attentato a Eumene II, re di Pergamo PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Nel corso del II secolo a.C. Roma conquista il Mediterraneo orientale: è l’età di punta dell’«imperialismo romano». L’attentato ai danni del re di Pergamo Eumene II è un fatto storico di cui ci parlano parecchie fonti: da Polibio, che nel XXII libro all’interno di una distinzione tra pretesti e cause definisce l’ἐπιβουλή contro Eumene come l’evento che diede inizio alla guerra tra i Romani e la Macedonia di Pèrseo, a Diodoro Siculo, a Livio, ad Appiano, a Plutarco che lo evoca nei Moralia là dove parla dell’amore tra fratelli (De fraterno amore 489D-490A) riconoscendo a Eumene grande mitezza d’animo (πραότης), e infine a Dione Cassio. Va ricordato che sotto Eumene II si assiste a una entente cordiale col senato romano: è Eumene a chiamare i Romani in Asia Minore. Siamo nella primavera del 172 a.C. Dal re Pèrseo di Macedonia (secondo Livio, ma il fatto non è certo) arriva l’ordine a dei sicari di attentare alla vita del re di Pergamo. Il momento scelto è quando, di ritorno da Roma, il re giungerà a Delfi via mare per sacrificare ad Apollo, accompagnato da guardie del corpo e amici. Livio fa il nome poco prima di uno degli attentatori: Evandro, capo dei mercenari cretesi al servizio della Macedonia, ma non ci fu nessuna prova giuridicamente valida che dietro i sicari ci fosse davvero Perseo, ultimo re della dinastia macedone degli Antigonidi. PRE-TESTO
Perseo era ostile soprattutto a Eumene; e per ordire una guerra partendo dal suo omicidio arruola, per assassinare il re, il cretese Evandro, capo delle milizie ausiliarie, e tre Macedoni, abituati ad eseguire su suo mandato misfatti simili, e dà loro una lettera indirizzata a Prassò, sua ospite, la più influente per autorevolezza e ricchezza a Delfi.
Livio, Storia di Roma, XLII 15-16
Satis constabat Eumenem, ut sacrificaret Apollini, Delphos escensurum. Ubi ad eum locum ventum est qua singulis eundum erat, primus semitam ingressus Pantaleon, Aetoliae princeps, cum quo institutus regi sermo erat. Tum insidiatores exorti saxa duo ingentia devolvunt, quorum altero caput ictum est regi, altero umerus; sopitusque ex semita procidit in declive, multis super prolapsum iam saxis congestis. Et ceteri quidem, etiam amicorum et satellitum turba, postquam cadentem videre, diffugiunt. Pantaleon contra impavidus mansit ad protegendum regem. Latrones, cum brevi circumitu maceriae decurrere ad conficiendum saucium possent, velut perfecta re in iugum Parnasi refugerunt eo cursu ut, cum unus non facile sequendo per invia atque ardua moraretur fugam eorum, ne ex comprehenso indicium emanaret, occiderint comitem. Ad corpus regis primo amici1, deinde satellites ac servi concurrerunt; tollentes sopitum volnere ac nihil sentientem, vivere tamen ex calore et spiritu remanente in praecordiis senserunt: victurum exigua ac prope nulla spes erat. Compotem iam sui regem amici postero die deferunt ad navem; inde Corinthum, ab Corintho per Isthmi iugum2 navibus traductis, Aeginam traiciunt. 1 amici: corrisponde al greco φίλοι, con cui si designano i nobili collaboratori del re, a metà tra le guardie del corpo e i consiglieri. Questo vigeva presso tutte le monarchie di ascendenza macedone. 2 per Isthmi iugum: allude al δίολκος (da διά “attraverso” ed ἕλκω “trascinare” cioè trazione attraverso l’istmo). Sulla sponda settentrionale del canale si scorgono
ancora oggi i resti di una strada lastricata con solchi guida-ruote, simili a moderni binari. Servivano per il trasporto delle navi dal Mar Egeo (golfo Saronico) al golfo di Corinto e viceversa, probabilmente su appositi carrelli con le ruote inserite nei solchi. Molte testimonianze antiche riferiscono l’impiego del δίολκος in occasioni militari, ad es. Tucidide e Polibio.
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA POST-TESTO
Lì il trattamento di cura del re fu talmente segreto che, non essendovi ammesso nessuno, si diffuse in Asia la voce che il re fosse morto. Anche Attalo (fratello di Eumene e futuro re come Attalo II) lo credette, più velocemente di quanto fosse degno di un’armonia fraterna. (Pre-testo e post-testo: traduzione di O. Bellavita)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. In compagnia di chi si trova Eumene e che cosa stanno facendo i due al momento dell’attentato? 2. In quali parti del corpo viene colpito Eumene? E dove finisce? L’espressione procidit in declive che cosa ti fa capire della natura del luogo? Più avanti trovi altri particolari paesaggistici: quali? 3. Come si comporta il seguito di Eumene, una volta che il re ha perso i sensi? 4. Prova a formulare delle ipotesi sul perché gli attentatori non finiscono (conficere) il sovrano e invece si danno alla fuga. 5. Livio sottolinea la crudeltà degli attentatori che agiscono anche nei riguardi di uno di loro in modo preventivo. Lo storico ci rivela un particolare davvero terribile degno di una banda di fuorilegge. Quale? Nota come li definisce nel passo: dapprima sono insidiatores, un nomen agentis, poi diventano latrones, cioè dei banditi. La frase ne ex comprehenso indicium emanaret spiega la scelta sciagurata degli attentatori ma allude anche a qualcosa di grave che non deve essere rivelato: il mandante era forse una persona importante il cui nome andava tutelato? 6. Da quali sintomi gli amici si accorgono che Eumene è ancora vivo? Praecordia è un termine poetico, in prosa si parlerebbe di pectus. 7. Quando rinviene il re? E dove viene portato? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. qua (riga 2): analizza questa forma: si tratta di pronome o avverbio? 2. singulis (riga 2): che caso è e che funzione logica riveste? 3. ad protegendum regem (riga 7): che proposizione è? 4. Individua gli ablativi assoluti. 5. sequendo (riga 9): che modo e che caso è? Nota da Latrones a comitem il periodare elaborato e sovrabbondante; osserva quanto abilmente Livio alterni cum narrativi, ablativi assoluti, subordinate esplicite. 6. ut... occiderint (riga 9-11): di che proposizione si tratta? 7. victurum (riga 13): che cosa sottintendi? Nota come Livio per l’infinito futuro si mantenga vicino all’uso antico della forma indeclinabile. Individua un poliptoto. 8. Una delle costanti dello stile di Livio è l’uso intensivo del participio: sottolineali tutti e distinguine le funzioni (escludi dal computo solo gli ablativi assoluti). SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Appiano di Alessandria (II secolo d.C.) scrisse una Storia romana in 24 libri che copriva un lungo arco di tempo, dalle origini a Traiano, dando in genere la prevalenza agli avvenimenti militari e ai fatti notevoli più che ai temi sociali e culturali; notevoli sono i cinque libri delle Guerre civili, sul periodo compreso tra il primo triumvirato e il 35 a.C., che si soffermano sulle cause politiche e sociali di quanto accade. Dell’intera opera ci sono arrivati 11 libri ordinati geograficamente; gli altri li conosciamo solo per brevi frammenti citati in
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11 florilegi bizantini del IX secolo. Il passo che ti proponiamo deriva proprio da questi sunti bizantini. Mentre Polibio si dava la missione di far conoscere e accettare Roma ai Greci, gli storici greci dell’età degli Antonini sono ormai dei cittadini romani, in fondo orgogliosi di far parte di un popolo che ha saputo sottomettere quasi la totalità del mondo, che non soffrono dunque alcun complesso di inferiorità e anzi partecipano all’amministrazione dell’impero. Appiano, Le guerre macedoniche, IX 4
Αὐτὸς δ’ ἐς τὴν Ἀσίαν ἐπανιὼν ἐκ Κίρρας ἐς Δελφοὺς ἀνέβαινε θύσων, καὶ αὐτῷ τέσσαρες ἄνδρες ὑπὸ τὸ τειχίον ὑποστάντες ἐπεβούλευον. Καὶ ἄλλας δέ τινας αἰτίας οἱ Ῥωμαῖοι ἐς τὸν Περσέως πόλεμον ὡς οὔπω κεκριμένον προσελάμβανον, καὶ πρέσβεις ἐς τοὺς φίλους βασιλέας Εὐμένη καὶ Ἀντίοχον καὶ Ἀριαράθην καὶ Μασσανάσσην καὶ Πτολεμαῖον τὸν Αἰγύπτου περιέπεμπον, ἑτέρους δ’ ἐς τὴν Ἑλλάδα καὶ Θεσσαλίαν καὶ Ἤπειρον καὶ Ἀκαρνανίαν καὶ ἐς τὰς νήσους, ὅσας δύναιντο προσαγαγέσθαι· <ὃ>καὶ μάλιστα τοὺς Ἕλληνας ἐτάραττεν, ἡδομένους μὲν τῷ Περσεῖ, φιλέλληνι ὄντι, ἀναγκαζομένους δ’ ἐνίους Ῥωμαίοις ἐς συμβάσεις χωρεῖν.
Sulla via del ritorno in Asia Eumene si trovò a salire da Cirra a Delfi per fare un sacrificio, e lì quattro uomini appostati dietro un muro fecero un attentato contro di lui. Anche altre cause oltre a questa i Romani addussero per la guerra contro Perseo, come se essa non fosse stata ancora decretata, e mandarono in giro ambasciatori ai re amici Eumene, Antioco, Ariarate, Massinissa e Tolemeo d’Egitto e anche in Grecia, Tessaglia, Epiro e Acarnania, e a quelle isole che pensavano di poter attrarre. Cosa che specialmente turbò i Greci, alcuni perché amavano Perseo come filelleno, altri perché si sentivano costretti a entrare nell’accordo coi Romani. (Traduzione di O. Bellavita)
VERSO UN CONFRONTO 1. I due passi sono assai diversi tra loro: drammatico e icastico quello di Livio, nudo ed essenziale quello di Appiano, che tra l’altro – è bene ricordarlo – non è il testo originale dell’autore ma un estratto prodotto in età bizantina, dunque stringato come tutti gli estratti. In Appiano solo le prime due righe sono dedicate all’attentato vero e proprio, il resto sono informazioni relative al momento storico che precede lo scatenamento della terza guerra macedonica. Eppure le due righe contengono dei dati precisi: il numero degli attentatori e il luogo in cui avvenne l’agguato, cioè il ripido percorso tra Cirra e Delfi. Appiano inserisce l’agguato al re di Pergamo all’interno della questione ben più complessa di chi avesse scatenato l’ultima e decisiva guerra contro la Macedonia e di come fosse stato difficile per i Romani attrarre dalla propria parte l’insieme degli stati greci. Livio narra l’attentato nei particolari soffermandosi soprattutto nella registrazione degli aspetti umani. Si sente in lui l’influenza della storiografia “drammatica” di ascendenza isocratea, che per così dire mette in scena gli eventi mutuando la sue tecniche dalla tragedia. Prova a pensare al corteo del re che fugge in varie direzioni (diffugiunt), e di contro allo stratego etolo che coraggiosamente e unico resta accanto all’amico, ai luoghi impervi in cui domina la verticalità (e chi è stato a Delfi sa che è proprio così), alla parallela fuga degli attentatori e alla loro spietatezza verso chi non ce la fa ad affrontare le pareti del Parnaso. Infine ci sono la miracolosa ripresa del re e quel “miracolo” di tecnologia che consente di far passare una nave dal golfo di Corinto direttamente al Mar Egeo. Il lettore, trasformato in spettatore, viene coinvolto negli atteggiamenti e nella sventura dei protagonisti della vicenda, e ne viene sollecitata la partecipazione emotiva. Dalla storiografia drammatica © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA Livio ricava l’abitudine a suddividere il racconto in scene e a insistere sulla disposizione d’animo dei personaggi. Prova a spiegare con parole tue come Livio in questo caso riesca a drammatizzare il racconto. 2. Aleggia nell’episodio un conflitto di propaganda, oggi diremmo un problema di immagine, perché Perseo puntava sulla solidarietà etnico-culturale delle città greche. Eumene dal canto suo va a fare un sacrificio a Delfi, che non era proprio sulla strada di casa, per compiere a sua volta atto di propaganda, come a dire: “sono io il protettore dei Greci”. I Romani si affannano a contattare vari re amici per ottenere il sostegno nella guerra imminente, racconta Appiano. Chi apre la lista dei possibili alleati? Che cosa significa questa collocazione così enfatica? Ricorda che sia Antioco sia Tolemeo sono, a questo punto della storia, re di regni minori; chi più di tutti si è ingrandito dopo la pace di Apamea, che aveva chiuso nel 188 a.C. la guerra contro Antioco il Grande, è proprio il regno di Pergamo. La sequenza dei nomi in Appiano che cosa ti fa capire della geografia politica della Grecia e dei regni ellenistici nel II secolo a.C.? In entrambi i brani emerge l’importanza della propaganda nella politica estera di Roma e dei suoi alleati. Di Roma Appiano dice esplicitamente che manda in giro ambasciatori per tutto l’oriente greco. Di Eumene e di Perseo che cosa si dice a proposito della loro politica verso le città greche, la cui opinione pubblica contava ancora parecchio? 3. A proposito di episodi di sangue ambientati in quella parte di mondo, te ne viene in mente uno particolarmente tragico avvenuto in età mitica sulla strada (un trivio) tra Delfi e la Beozia? O ricordi di aver incontrato notizie di altri agguati o congiure nel corso dei tuoi studi?
Osservazioni sulla lingua di Livio Ricorda alcune caratteristiche dello stile di Livio, al quale l’addestramento retorico svolto in giovinezza assicurò grande capacità di usare lo strumento della lingua: • periodo elaborato, a volte sovrabbondante perché ampliato da un’appendice che aggiunge un’idea, una circostanza; costante è il ricorso ai participi che sono per Livio la più frequente modalità di subordinazione; • Livio ama la varietà ed evita la ripetizione di un’espressione fissa, anche se rigorosamente esatta: è interessante osservare, per esempio, come nelle subordinate varî abilmente i cum narrativi, gli ubi, i participi e gli ablativi assoluti; • uso di termini della lingua poetica come invius, immotus, natus, senecta (invece di senectus), iuventa (invece di iuventus), nivalis, hebetare, pererrare; • uso dei singolari collettivi, come in poesia, per indicare una pluralità: pedes, eques, miles, hostis, Romanus, Sabinus, Poenus; • aggettivi e pronomi neutri sostantivati seguiti da un genitivo partitivo: reliqua belli, id hostium, ima urbis, per aversa urbis, serum diei, quod agri, quidquid patrum, minimum certaminis “pochissima lotta”; • predilezione per gli aggettivi in -bundus che danno un colorito arcaico e sacrale: venerabundus, deliberabundus, mirabundus, vitabundus, populabundus, praedabundus; • uso di pleonasmi, locuzioni cioè sovrabbondanti come itaque ergo, deinde postea, inde ab initio, tum deinde, forte temere; • gli arcaismi sono da un lato una concessione al gusto di alcuni poeti contemporanei, dall’altro una conseguenza dell’influsso di Sallustio, ma segnalano soprattutto una scelta di adesione all’ideologia augustea. Livio esalta la Roma dei primi secoli e diventa antiquus non solo nel contenuto ma anche nella lingua. Lo dice lui stesso: Ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus = «Ma, non so come, quando racconto cose antiche il mio animo diventa antico» (XLIII 13, 1).
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Antonio offre a Cesare la corona PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Il 14 febbraio del 44 a.C., mentre si celebra la festa dei Lupercali, di fronte al popolo di Roma, il console Marco Antonio offre per tre volte a Cesare la corona, simbolo del potere regale. Il dittatore rifiuta, fra le acclamazioni popolari, forse sdegnato per un gesto inopportuno, forse attendendo un momento più favorevole per un passaggio tanto significativo, o più probabilmente ostentando un diniego apparente che per contrasto rende ancora più manifesti il suo carisma e il suo potere sostanziale. Per i suoi avversari la messa in scena è il segno di un limite ormai superato. Manca solo un mese all’assassinio di Cesare. Fra le fonti che ci consegnano il racconto di questo avvenimento cruciale della storia romana, uno dei testi che lo restituiscono nella forma più viva e teatrale è tratto dalla biografia che Plutarco di Cheronea dedica ad Antonio. PRE-TESTO
A loro (scil. i cesaricidi Bruto e Cassio) involontariamente fu proprio Antonio a offrire il pretesto più opportuno.
Plutarco, Vita di Antonio, 12-13
Ἦν μὲν γὰρ ἡ τῶν Λυκαίων ἑορτὴ Ῥωμαίοις ἣν Λουπερκάλια καλοῦσι, Καῖσαρ δὲ κεκοσμημένος ἐσθῆτι θριαμβικῇ καὶ καθήμενος ὑπὲρ βήματος ἐν ἀγορᾷ τοὺς διαθέοντας ἐθεᾶτο· διαθέουσι δὲ τῶν εὐγενῶν νέοι πολλοὶ καὶ τῶν ἀρχόντων ἀληλιμμένοι λίπα, σκύτεσι λασίοις καθικνούμενοι μετὰ παιδιᾶς τῶν ἐντυγχανόντων. Ἐν τούτοις ὁ Ἀντώνιος διαθέων τὰ μὲν πάτρια χαίρειν εἴασε, διάδημα δὲ δάφνης στεφάνῳ περιελίξας προσέδραμε τῷ βήματι, καὶ συνεξαρθεὶς ὑπὸ τῶν συνθεόντων ἐπέθηκε τῇ κεφαλῇ τοῦ Καίσαρος, ὡς δὴ βασιλεύειν αὐτῷ προσῆκον. Ἐκείνου δὲ θρυπτομένου καὶ διακλίνοντος, ἡσθεὶς ὁ δῆμος ἀνεκρότησε· καὶ πάλιν ὁ Ἀντώνιος ἐπῆγε, καὶ πάλιν ἐκεῖνος ἀπετρίβετο. Καὶ πολὺν χρόνον οὕτω διαμαχομένων, Ἀντωνίῳ μὲν ὀλίγοι τῶν φίλων βιαζομένῳ, Καίσαρι δ’ ἀρνουμένῳ πᾶς ὁ δῆμος ἐπεκρότει μετὰ βοῆς· ὃ καὶ θαυμαστὸν ἦν, ὅτι τοῖς ἔργοις τὰ τῶν βασιλευομένων ὑπομένοντες, τοὔνομα τοῦ βασιλέως ὡς κατάλυσιν τῆς ἐλευθερίας ἔφευγον. Ἀνέστη μὲν οὖν ὁ Καῖσαρ ἀχθεσθεὶς ἀπὸ τοῦ βήματος, καὶ τὸ ἱμάτιον ἀπάγων ἀπὸ τοῦ τραχήλου τῷ βουλομένῳ παρέχειν τὴν σφαγὴν ἐβόα. POST-TESTO
La corona, che era stata messa su una delle sue statue, fu deposta da alcuni tribuni, che il popolo seguiva, acclamandoli fra le ovazioni, e che invece Cesare destituì dalla carica. Questi avvenimenti rafforzarono i piani di Bruto e Cassio, i quali, mentre sceglievano i più fidati degli amici per passare all’azione, spiavano Antonio. (Pre-testo e post-testo: traduzione di R. Capel Badino)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Plutarco si rivolge a un pubblico a cui le usanze romane non sono del tutto familiari. Da quali espressioni si può dedurre? 2. Il comportamento di Antonio risulta conforme alle tradizioni romane? Perché? © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA 3. C ome reagisce Cesare all’offerta di Antonio? 4. Qual è invece la reazione della folla di fronte alla scena? La folla è tutta unanime o si distinguono atteggiamenti diversi? 5. Il narratore si ritaglia lo spazio per un commento. Che cosa dice? Come ti pare il giudizio di Plutarco rispetto alla scena che ha appena descritto? Rivela un atteggiamento di stima o di disprezzo verso la plebe romana? 6. Il gesto con cui Cesare si allontana appare come un oscuro presagio. Perché? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Sai spiegare qual è il legame etimologico fra Λύκαια e Lupercalia? 2. τῶν ἐντυγχανόντων: da cosa è retto questo genitivo? 3. ὡς δὴ βασιλεύειν αὐτῷ προσῆκον: il narratore condivide questa affermazione? Da che cosa è possibile comprendere una sorta di presa di distanza di Plutarco? 4. La ripetitività dei gesti è sottolineata anche dalla disposizione delle parole, con la figura retorica dell’anafora. In che punto del testo? 5. ἐπεκρότει: qual è il soggetto di questo verbo? Osserva attentamente la struttura della frase: le particelle μέν e δέ articolano il periodo in due sezioni, ma qual è il predicato? 6. ὅτι τοῖς ἔργοις ... κατάλυσιν τῆς ἐλευθερίας ἔφευγον: riconosci la variatio nell’organizzazione sintattica di questa frase? Prova a spiegare in che cosa consiste.
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Se Plutarco ci consegna un racconto vivo ma distante di quell’evento, è Cicerone, nell’orazione Filippica II a offrire una drammatica testimonianza di quella giornata. Il discorso, pubblicato nell’autunno del 44 a.C., nel tumulto che seguì l’assassinio di Cesare, è un’orazione fittizia, poiché Cicerone non si presentò in senato il 19 settembre del 44 a.C. per rispondere alle accuse di Antonio. Tuttavia l’oratore sa come rendere l’immediatezza e la veemenza della voce viva ed è capace di rievocare con vividezza una scena che ancora doveva essere bene impressa nella memoria del suo pubblico. Attraverso le parole dell’orazione ci pare presente Antonio, di cui sembra di vedere la reazione fisica alle accuse di Cicerone.
Cicerone, Filippica II 84-85
Sed ne forte transiliat oratio ex multis rebus gestis M. Antoni rem unam pulcherrimam, ad Lupercalia veniamus. Non dissimulat, patres conscripti, adparet esse commotum; sudat, pallet. Quidlibet, modo ne nauseet, faciat, quod in porticu Minucia1 fecit. Quae potest esse turpitudinis tantae defensio? Cupio audire, ut videam, ubi rhetoris sit tanta merces, ubi campus Leontinus2 appareat. Sedebat in rostris conlega tuus amictus toga pur-
Ma perché il discorso non tralasci, delle molte imprese di Antonio, quella sola che è la più bella, veniamo a parlare dei Lupercali. Non dissimula, onorevoli senatori, è evidente la sua agitazione; suda, impallidisce. Faccia pure come vuole, purché non vomiti, come già ha fatto nel portico di Minucio1. Quale difesa si potrà mai trovare a una così grande vergogna? Ho proprio voglia di sentire che dirà a sua discolpa, per vedere dove sia
1 in porticu Minucia: nel Campo Marzio, questo portico, edificato nel 110 a.C., serviva per le assemblee. Al paragrafo 63 della medesima orazione Filippica II, Cicerone aveva ricordato il turpe spettacolo offerto da Antonio in quel luogo, ove si era presentato ancora ubriaco dai bagordi della notte precedente e aveva vomitato al cospetto di tutti.
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2 campus Leontinus: riferimento ironico al vasto possedimento in Sicilia (nella fertile piana di Lentini, presso Catania), con cui Antonio ricompensò il proprio maestro di retorica Sesto Clodio. Antonio si era infatti servito dell’assistenza di Sesto Clodio per la preparazione del discorso con cui il 19 settembre del 44 a.C. aveva risposto al primo duro attacco sferratogli da Cicerone nella Filippica I.
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12 purea, in sella aurea, coronatus. Escendis, accedis ad sellam – ita eras Lupercus, ut te consulem esse meminisse deberes –, diadema ostendis. Gemitus toto foro. Unde diadema? Non enim abiectum sustuleras, sed attuleras domo: meditatum et cogitatum scelus. Tu diadema inponebas cum plangore populi, ille cum plausu reiciebat. Tu ergo unus, scelerate, inventus es qui, cum auctor regni esses eumque, quem collegam habebas, dominum habere velles, idem temptares quid populus Romanus ferre et pati posset.
finito il lauto compenso del suo maestro di retorica, quali siano i frutti dell’agro Leontino2. Sedeva in tribuna il tuo collega, avvolto in una toga purpurea, su un seggio d’oro, coronato. Tu sali, ti avvicini al suo seggio – e dire che eri Luperco, così che non potevi dimenticare di essere console –, mostri il diadema. Un gemito per tutto il foro. Da dove veniva quel diadema? Infatti non ne avevi raccolto uno gettato a terra, ma l’avevi portato da casa: il delitto era premeditato e pianificato. Tu gli ponevi in capo il diadema fra le proteste del popolo, egli lo rifiutava fra gli applausi. Dunque, o scellerato, tu solo sei stato trovato capace di voler insieme essere artefice del regno e avere come signore quello che era tuo collega nel consolato e di mettere alla prova la pazienza e la sopportazione del popolo romano. (Traduzione di R. Capel Badino)
VERSO UN CONFRONTO 1. I due testi rappresentano la medesima scena ma il loro linguaggio risulta molto differente. Appartengono infatti a due generi letterari diversi: Plutarco scrive una biografia (a distanza di parecchi decenni dagli eventi narrati); Cicerone compone un discorso politico, che, benché non sia mai stato effettivamente pronunciato in senato, mira a suscitare lo sdegno del pubblico nei confronti dell’accusato, Antonio, rispondendo a tutte le convenzioni del genere oratorio. Quali segnali puoi rintracciare, nel testo di Plutarco, che indicano la distanza non solo temporale, ma anche culturale dagli eventi? E per converso, quali strategie retoriche adotta Cicerone per rendere con maggiore vivezza il racconto? Osserva, per esempio l’uso dei tempi verbali. Quali accorgimenti introduce per simulare la performance retorica? Bada all’uso della seconda persona: a chi si rivolge di volta in volta l’oratore? 2. Sia Plutarco sia Cicerone esprimono giudizi sugli eventi narrati e sui personaggi, ma il loro punto di vista non coincide. Non c’è dubbio che per Cicerone protagonista unico di quanto avvenuto ai Lupercali sia Antonio, sul quale l’oratore riversa tutto il proprio disprezzo. Plutarco mette in evidenza la temerarietà del gesto di Antonio, ma esprime il proprio sconcerto piuttosto per la contraddittorietà del popolo e illumina di una luce sinistra Cesare. Come è caratterizzato Antonio in Cicerone? Con quali epiteti gli si rivolge? Invece come ti sembra che agisca l’Antonio di Plutarco? Che cosa fa trasparire un certo giudizio di Plutarco su Cesare, che invece è accuratamente evitato da Cicerone? 3. Approfondisci: fra storiografia (possiamo considerare la biografia un sottogenere storiografico) e oratoria esiste un rapporto diretto che risale almeno a Tucidide, attraverso l’inclusione dei discorsi diretti (demegorie) nel racconto storiografico e l’influenza dei modelli dell’oratoria sullo stile dell’esposizione storiografica. In base a quanto hai studiato, illustra sinteticamente i rapporti fra oratoria e storiografia. © Casa Editrice G. Principato SpA
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Espressioni idiomatiche in uso nell’oratoria latina Formule di transizione, introduzione, ricapitolazione
ad reliqua pergamus = passiamo oltre! dicam quod sentio = dirò quello che penso dici vix potest = a stento si può dire dic quid sentias = di’ la tua opinione disputari solet = è di solito argomento di discussione ex quo intellegitur = da cui risulta (o appare) che quae cum ita sint = stando così le cose sed moneo, iudices = ma avverto, o giudici nunc agam modice = ora procederò con moderazione verissime dixerim = potrei affermare con assoluta verità requiretur fortasse nunc + interr. ind. = si chiederà a questo punto forse
Formule di preterizione
hic iam plura non dicam = a questo punto non dirò di più multa praetereo consulto = molte cose ometto di proposito sinite hoc loco me praeterire = permettete a questo punto che io tralasci ut praetermittam + acc. e inf. = per tralasciare che praeterquam quod = eccetto il fatto che
Formule variamente limitative
ne longus sim = per non essere prolisso ut brevi complectar = per riassumere in breve ut breviter dicam = per dirla in breve ut hoc utar, afferam = per usare questo esempio ut paucis absolvam (rem) = in breve ut mea fert opinio = secondo la mia opinione ut mihi quidem videtur = secondo la mia opinione ut planius, verius dicam = per esprimermi con semplicità, con esattezza mea (quidem) sententia = a parer mio quod caput est = che è la cosa principale quod maius est = cosa che è più importante
Formule modali (con valore quasi avverbiale)
meo (tuo, suo) iure = a buon diritto optimo iure = legittimamente, con pieno diritto pro tua (vestra) praestanti prudentia = in base alla tua (vostra) eccellente capacità di giudizio
Formule fatiche quid ergo? = e allora? quod di immortales omen avertant! = gli dèi ce ne preservino! hoc in promptu est = ciò è evidente ita res est = è così res ita se habet = le cose stanno così res loquitur ipsa = la cosa parla da sola
* Per l’uso di espressioni simili nell’oratoria greca, vedi p. 39.
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12 I magistrati romani CONSUL ὕπατος (2) eletti annualmente dai comizi centuriati, sono la massima autorità civile e militare; presiedono le sedute del senato e le assemblee popolari, comandano l’esercito in tempo di guerra; danno il loro nome all’anno. Si può diventare consoli a 43 anni (aetas consularis). PRAETOR πραίτωρ, στρατηγός (8) eletti annualmente, fanno da giudici e sostituiscono il console eventualmente assente. Il praetor urbanus (ἀστυδίκης) decide le liti tra cittadini romani, il praetor peregrinus (ξενοδίκης) quelle tra un romano e uno straniero. Il loro numero oscillò da 8 a 15 finché gli imperatori Flavî li portarono a 18. AEDILIS αἰδίλης, ἀγορανόμος (4) 2 curules ἐπιδίφριοι + 2 plebeii δημοτικοί: eletti annualmente, curano l’amministrazione della città: strade, mercati, acquedotti, approvvigionamento di grano e organizzano i giochi pubblici che li rendono molto popolari. QUAESTOR ταμίας (20) eletti annualmente, sono gli ufficiali finanziari; due fungono da guardiani del Tesoro di Roma, mentre ogni governatore o comandante d’armata ha un questore nel suo staff. TRIBUNI δήμαρχοι (10) eletti annualmente dai comitia tributa, sono sacri e inviolabili (sacrosancti); hanno diritto di veto (intercessio) sugli atti degli altri magistrati o sulle decisioni del senato; difendono gli interessi della plebe. CENSOR τιμητής (2) eletti ogni cinque anni per 18 mesi; mantengono aggiornata la lista dei cittadini e dei senatori che possono essere espulsi dal senato (e senatu eicere, senatu movere) per indegnità, controllano la morale pubblica. DICTATOR δικτάτωρ (1) magistrato straordinario, dispone di pieni poteri (le sue decisioni non sono soggette al veto dei tribuni); è nominato da uno dei consoli quando il senato proclama lo stato di emergenza. Sceglie (legit) come suo vice il magister equitum, cioè il comandante della cavalleria. SENATUS σύγκλητος (6001) scelti dai consoli tra gli ex magistrati curuli (pretori, edili, censori), restano in carica a vita; princeps senatus è il senatore più autorevole che vota per primo. Il titolo spetterà a tutti gli imperatori. • Plebs πληθύς • Patricii πατρίκιοι
• Nobiles
οἱ γνώριμοι
Assemblee del popolo COMITIA CURIATA φρατρικὴ ἐκκλησία sono le assemblee delle 30 curie, prevalentemente capeggiate da patrizi; hanno funzioni soprattutto religiose COMITIA CENTURIATA λοχίτις ἐκκλησία eleggono i più alti magistrati, cioè i consoli, promulgano le leggi, dichiarano guerra. Durante l’impero saranno soppressi COMITIA TRIBUTA φυλετικὴ ἐκκλησία sono i comizi delle 35 tribù, eleggono i tribuni della plebe e gli edili plebei
1 Con Costantino si formeranno due senati di 2000 componenti ciascuno, uno a Roma e uno a Costantinopoli. Il passaggio da 600 a 4000 senatori è un’occasione di ascesa per nuove élites.
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Alla ricerca della verità PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca La metafisica di Aristotele consiste in una raccolta di quattordici trattati composti dal filosofo in tempi e occasioni diverse e destinati alla fruizione interna alla sua scuola (scritti esoterici). Si tratta, come è noto, di una delle opere più influenti della storia del pensiero occidentale e non solo, essendo stata letta e commentata per tutto l’evo antico, in Grecia come a Roma, e poi, per tramite dei contatti col mondo islamico, nelle università del Medioevo cristiano, e rappresentando ancora oggi un testo che pone fondamentali problemi filosofici. Il primo libro (chiamato anche Alpha) contiene la celebre definizione della filosofia come “scienza prima”. Noi leggiamo dai paragrafi iniziali del libro secondo (detto anche Alpha minore, per il suo contenuto che pare riprendere in forma più breve temi trattati nel libro precedente). Aristotele ritorna sulla definizione della filosofia e ci offre una riflessione sull’impresa della conoscenza come opera collettiva. PRE-TESTO
La speculazione intorno alla verità per un verso è difficile, per un altro facile. Ne è un indizio il fatto che nessuno è capace di attingerla adeguatamente né d’altra parte tutti insieme possiamo fallire completamente, ma ciascuno sa dire qualcosa di vero sulla natura e, mentre individualmente poco o nulla possiamo contribuire alla sua conoscenza, dall’insieme di tutti nasce qualcosa di rilevante. Sicché se, a quanto pare, la verità è un po’ come si dice nel proverbio: «chi potrebbe mancare una porta?», allora, da questo punto di vista, la sua investigazione sarebbe facile, ma rispetto al cercare di avere una sua conoscenza complessiva e non parziale si rivela la sua difficoltà.
Aristotele, Metafisica, 933b
Ἴσως δὲ καὶ τῆς χαλεπότητος οὔσης κατὰ δύο τρόπους, οὐκ ἐν τοῖς πράγμασιν ἀλλ’ ἐν ἡμῖν τὸ αἴτιον αὐτῆς· ὥσπερ γὰρ τὰ τῶν νυκτερίδων ὄμματα πρὸς τὸ φέγγος ἔχει τὸ μεθ’ ἡμέραν, οὕτω καὶ τῆς ἡμετέρας ψυχῆς ὁ νοῦς πρὸς τὰ τῇ φύσει φανερώτατα πάντων. Οὐ μόνον δὲ χάριν ἔχειν δίκαιον τούτοις ὧν ἄν τις κοινώσαιτο ταῖς δόξαις, ἀλλὰ καὶ τοῖς ἐπιπολαιότερον ἀποφηναμένοις· καὶ γὰρ οὗτοι συνεβάλοντό τι· τὴν γὰρ ἕξιν προήσκησαν ἡμῶν· εἰ μὲν γὰρ Τιμόθεος1 μὴ ἐγένετο, πολλὴν ἂν μελοποιίαν οὐκ εἴχομεν· εἰ δὲ μὴ Φρῦνις2, Τιμόθεος οὐκ ἂν ἐγένετο. τὸν αὐτὸν δὲ τρόπον καὶ ἐπὶ τῶν περὶ τῆς ἀληθείας ἀποφηναμένων· παρὰ μὲν γὰρ ἐνίων παρειλήφαμέν τινας δόξας, οἱ δὲ τοῦ γενέσθαι τούτους αἴτιοι γεγόνασιν. Ὀρθῶς δ’ ἔχει καὶ τὸ καλεῖσθαι τὴν φιλοσοφίαν ἐπιστήμην τῆς ἀληθείας.
1 Τιμόθεος: poeta di Mileto, vissuto fra il 446 e il 357 a.C., fu allievo di Frinide. Considerato uno dei più grandi innovatori dell’arte citarodica, attirò le critiche dei tradizionalisti per lo sperimentalismo delle sue composizioni, in particolare per quanto riguarda la tecnica musicale. Di lui ci è trasmesso su papiro un frammento del nomos intitolato I Persiani.
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2 Φρῦνις: poeta di Mitilene, nato all’inizio del IV sec. a.C., maestro di Timoteo, vinse alle Panatenee nel 446 a.C., ma in un’altra occasione fu sconfitto dal proprio allievo. A Frinide sono attribuite alcune importanti riforme della musica antica, come l’aggiunta di due corde alla cetra (che passò così da sette a nove corde).
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Il fine della conoscenza teoretica infatti è la verità, di quella pratica l’azione. Gli uomini d’azione, anche quando riflettono su come stanno le cose, non indagano alla ricerca di ciò che è invisibile ed eterno, ma di ciò che è relativo e contingente. Noi non conosciamo il vero se non conosciamo la causa. (Pre-testo e post-testo: traduzione di R. Capel Badino)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. Quali sono i due tipi di difficoltà che si possono incontrare nell’affrontare un problema? La conoscenza della verità in che modo è difficile? 2. Aristotele, per spiegare la nostra incapacità di vedere la verità, adotta una similitudine. Quale? L’idea della luce abbagliante della verità non ti ricorda un mito platonico? 3. Aristotele distingue fra ψυχή e νοῦς. Sai spiegare la differenza fra questi due termini? 4. Prova a spiegare il paragone che fa Aristotele fra il progresso nella conoscenza e il rapporto tra Frinide e Timoteo, fra progresso scientifico e progresso artistico. 5. Secondo Aristotele l’accesso alla verità è un processo individuale o collettivo? 6. Che ruolo ha l’opinione (δόξα) nel percorso di avvicinamento alla verità? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Individua i periodi ipotetici presenti nel testo e specifica di che tipo sono. 2. Individua il genitivo assoluto presente nel testo. 3. Trova le frasi nominali. Come spieghi il ricorso a questo costrutto da parte di Aristotele? 4. ὧν: è un genitivo di specificazione o partitivo? 5. τοῦ γενέσθαι τούτους: che funzione ha l’articolo? Come spieghi l’accusativo τούτους? 6. Riconosci i participi sostantivati. SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Nella lettera 33 Seneca risponde a una richiesta di Lucilio: l’amico e discepolo chiede al filosofo di inserire nelle sue lettere citazioni e massime degli autori del passato. Seneca può facilmente costruire una polemica contro una cultura puramente nozionistica, fatta di un accumulo di citazioni mandate a memoria ed esibite allo scopo di impressionare il destinatario. Ma la polemica contro l’erudizione sterile diventa per Seneca occasione per una riflessione complessiva sul proprio stesso atteggiamento di filosofo eclettico e per la rivendicazione al contempo della propria autonomia di pensiero. Seneca ci offre in questa lettera una guida alla lettura delle sue epistole, invitando Lucilio e il lettore di ogni tempo ad apprezzarne l’originalità nella rielaborazione delle dottrine formulate dai grandi pensatori del passato, e insieme uno straordinario saggio di pedagogia.
Seneca, Epistole a Lucilio, IV 33.8-11
Omnes itaque istos, numquam auctores, semper interpretes, sub aliena umbra latentes, nihil existimo habere generosi, numquam ausos aliquando facere quod diu didicerant. Memoriam in alienis exercuerunt; aliud autem est meminisse, aliud scire. Meminisse est rem commissam memoriae custodire; at contra scire est et sua facere quaeque nec ad exemplar pendere et totiens respicere ad
Orbene, tutti costoro che non sanno mai creare nulla di proprio – sempre e soltanto interpreti che si nascondono dietro l’ombra di altri – non hanno, a mio avviso, alcuna nobiltà d’animo, non osando mai mettere in pratica ciò che per lungo tempo hanno appreso. Hanno esercitato la memoria con le cose altrui: altro è ricordare, altro è sapere. Ricordare significa serbare qualcosa che è stata af-
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magistrum. Adice nunc quod isti qui numquam tutelae suae fiunt primum in ea re sequuntur priores in qua nemo non a priore descivit; deinde in ea re sequuntur quae adhuc quaeritur. Numquam autem invenietur, si contenti fuerimus inventis. Praeterea qui alium sequitur nihil invenit, immo nec quaerit. Quid ergo? non ibo per priorum vestigia? ego vero utar via vetere, sed si propiorem planioremque invenero, hanc muniam. Qui ante nos ista moverunt non domini nostri sed duces sunt. Patet omnibus veritas; nondum est occupata; multum ex illa etiam futuris relictum est. Vale.
fidata alla memoria; sapere, invece, vuol dire interiorizzare ogni acquisizione senza dipendere da un paradigma e ricorrere ogni volta a un maestro. Aggiungi ora che costoro, incapaci di rendersi a un certo momento autonomi, seguono anzitutto i predecessori in quei problemi per la cui soluzione nessuno si è staccato da chi lo ha preceduto, poi li seguono in campi che sono tuttora oggetto di ricerca. Ma non si scoprirà mai nulla, se ci appagheremo di ciò che è stato scoperto. Per giunta chi segue un altro non trova un bel niente, anzi non cerca nulla. E allora? Non camminerò sulle orme dei predecessori? Certo, per quanto mi riguarda, utilizzerò la vecchia via, ma se ne troverò una più vicina e più piana, la attrezzerò come si deve. Quelli che per primi diedero avvio a tali problemi non sono i nostri padroni, ma le nostre guide. A tutti è aperta la verità, non è ancora un dominio esclusivamente privato: molto di essa è rimasto anche per le future generazioni. Stammi bene. (Traduzione di F. Solinas, Mondadori 1995)
VERSO UN CONFRONTO 1. I due testi ci offrono due riflessioni intorno al tema del rapporto di un autore con l’autorità culturale. Si tratta di un tema importante per capire la dialettica fra originalità e tradizione. È famosa la massima attribuita ad Aristotele, ma in realtà apocrifa: «Amicus Plato, sed magis amica veritas» («Mio amico è Platone, ma ancora di più è mia amica la verità»). Nel testo che hai letto Aristotele esprime l’idea del rapporto di devozione nei confronti dei maestri che lo hanno preceduto, pur nella consapevolezza che il sapere sia in progresso e che le acquisizioni del passato siano destinate a essere superate, conciliando il principio dell’autorità con il dovere filosofico di fedeltà alla verità. Lo stesso si potrebbe dire anche di Seneca, il quale, mentre espone a Lucilio una polemica verso il sapere come nozionismo, indica al contempo un atteggiamento spirituale disposto alla meditazione e all’interiorizzazione del sapere ereditato dal passato, dimostrando devozione verso le autorità della tradizione, ma insieme volgendo lo sguardo all’orizzonte della scoperta. Rintraccia nei testi di Aristotele e di Seneca le espressioni che esprimono rispetto verso l’insegnamento dei maestri e per converso quelle con cui prendono le distanze dagli errori e riguardano a una prospettiva di ricerca. A quale principio, secondo Aristotele, deve conformarsi la scienza? Da che cosa comprendiamo che Seneca condivide la stessa prospettiva? 2. Il passo di Aristotele è tratto da una sezione introduttiva, in cui si espongono alcune premesse generali sulla funzione della filosofia, ma, benché manchino i tecnicismi tipici del ragionamento filosofico serrato, non sembra avere grande spazio l’elaborazione retorica. Attinge al repertorio di sapere popolare (proverbi) e di immagini (similitudini) al solo scopo di aiutare nella comprensione di una prosa altrimenti stringata e asciutta. Tutt’altro lo stile dell’epistola di Seneca: la scelta accurata delle parole, la loro disposizione nella frase, la costruzione sintattica, l’alternanza di frasi sentenziose a periodi di più ampio respiro, il ricorso protratto alla metafora, sono tutti indizi di una raffinata letterarietà. La 66
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13 differenza di linguaggio e di stile si spiega con la differenza di destinatario. Rispetto allo scritto aristotelico (esoterico), le Epistole a Lucilio sono destinate a un pubblico più ampio e meno specializzato. L’autore ricerca un rapporto di speciale confidenza e intimità col lettore e conosce tutti gli artifici retorici per costruire, attraverso il codice stilistico dell’epistola, tale relazione. Prova a evidenziare nel testo di Seneca le metafore, in particolare quelle relative alla conoscenza come cammino. A che cosa è paragonata l’autorità dei maestri? Il loro ruolo viene paragonato a quello di quale figura? Seneca parla di due vie: che cosa rappresentano? Che idea suggerisce l’uso dei verbi patet e occupata est per la verità? Ti sembra che suggeriscano una metafora? 3. Approfondisci: i due testi, pur così diversi per forma e funzione, concordano su un punto fondamentale. Il sapere è un’impresa collettiva. Il discorso di Aristotele mira a considerare la filosofia come una forma di sapere accessibile, poiché tutti siamo immersi nella realtà; ma d’altra parte sottolinea come l’impresa del sapere sia necessariamente un’opera plurale, in cui le opinioni, persino gli errori costituiscono tappe di un progressivo avvicinamento. Il singolo, per la propria posizione nel mondo, non può che essere portatore di una δόξα relativa e fallace, ma Aristotele confida che la cooperazione umana non possa che inoltrarsi, a partire da ciò che è noto, nella conoscenza di quello che è ancora ignoto. Seneca rovescia la prospettiva. Il principio della auctoritas della tradizione si potrebbe definire quasi costitutivo dell’approccio senecano e più generalmente romano alla filosofia, acquisizione e rielaborazione delle dottrine della filosofia greca. Seneca nella lettera riflette su quale debba essere l’atteggiamento di chi si accosta all’autorità intellettuale, esaltando l’apporto dell’individuo. Si scaglia contro la degenerazione delle pratiche di insegnamento del suo tempo e illustra come solo dall’appropriazione interiore del sapere tradizionale sia possibile progredire verso la conoscenza di quanto ancora è inesplorato. A partire dalle definizioni date da Aristotele e Seneca di filosofia, memoria e scientia (scire), proponi una riflessione su uno di questi temi a tua scelta: • tradizione e originalità nel mondo antico o nella letteratura moderna. • il progresso scientifico come procedimento che avanza per tentativi ed errori.
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Lessico di base della retorica Retorica ῥητορικὴ τέχνη = un discorso persuasivo
disciplina che si prefigge di insegnare le regole a cui attenersi nella redazione di
Eloquenza ῥητορεία = capacità di parlare in pubblico e di convincere ottenendo approvazione. L’oratore deve docēre “istruire, informare” in maniera attendibile e dimostrare in modo convincente la sua tesi per mezzo di argomentazioni razionali, delectare “intrattenere, allettare”, con sviluppi narrativi gradevoli o addirittura scherzosi, movēre “commuovere”, suscitare cioè sentimenti che facciano aderire l’ascoltatore alla tesi dell’oratore anche a un livello istintivo
Le cinque parti della retorica
Τὰ μέρη τῆς ῥητορικῆς
inventio dispositio elocutio memoria actio
εὕρεσις τάξις λέξις μνήμη ὑπόκρισις
ricerca degli argomenti loro collocazione strategica scelta delle parole padronanza dei contenuti cura del portamento, dei gesti, della voce e degli sguardi
I tre generi dell’eloquenza
Τὰ γένη τῆς ῥητορικῆς
deliberativum iudiciale demonstrativum
συμβουλευτικόν δικανικόν ἐπιδεικτικόν
politico giudiziario epidittico1
I tre stili
Οἱ χαρακτῆρες τῆς ῥητορικῆς
tenue medium sublime
ἰσχνός μέσος / μεικτός ὑψηλός / μεγαλοπρεπής
tenue (quando occorre docēre) medio (quando conviene delectare) sublime2 (quando bisogna movēre)
Le parti di un’orazione
Τὰ μέρη τοῦ λόγου
exordium narratio argumentatio 1. confirmatio 2. confutatio peroratio
πρόοιμιον διήγησις ἀπόδειξις κατασκευή ἀνασκευή ἐπίλογος
esordio (con captatio benevolentiae) racconto dei fatti parte dimostrativa 1. presentazione delle prove dell’oratore 2. confutazione delle prove dell’avversario conclusione
prosopopea προσωποποιΐα si introducono a parlare persone assenti o defunte, o anche oggetti inanimati, concetti astratti, come se fossero presenti, vivi, animati percontatio πύσμα finzione di un dialogo dell’oratore o con il suo avversario o con il pubblico excursus
παρέκβασις digressione narrativa o didattica per intrattenere e ammaestrare il pubblico
1 Dal greco ἐπιδεικτικóς = “che mostra, dimostra, indica”: discorsi celebrativi come orazioni funebri, elogi, panegirici. 2 Nello stile sublime spesso si levano invocazioni agli dèi oppure si eccede in domande, esclamazioni, asindeti, frasi a strutture parallele. Una formula abilmente coniata, un termine ripetuto più volte possono avere un’efficacia maggiore di qualche sia pur acuta argomentazione.
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA
Tema
Viaggio nel mondo della Luna PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Scritta intorno agli anni 177-178, la Storia vera di Luciano è un romanzo fantastico in due libri, nella forma di un memoriale di viaggio. Il titolo, come l’autore spiega nel proemio, è ironico: «Almeno in una cosa sono sincero: dichiaro ad alta voce che mento; [...] per questo i miei lettori non devono credere nemmeno a una parola». Con sua invenzione fantastica Luciano trasporta il lettore in un viaggio fra terra, mare e cielo, fra popoli favolosi e nel regno dei morti. Sappiamo che si ispirava all’opera (per noi perduta) di Antonio Diogene, Le meraviglie di là da Tule, in cui pure si raccontava un viaggio immaginario che portava il protagonista fino alla luna, ma, come dichiara l’autore stesso, il modello archetipo di questo tipo di racconto risale all’Odissea e agli apologi di Odisseo. Non deve sfuggire l’intento ironico di Luciano verso certa storiografia, troppo incline a mescolare il racconto della storia con il prodigioso. Dall’opera leggiamo un passo celebre, in cui Luciano racconta il viaggio fino alla Luna. PRE-TESTO
Con delle anfore ci rifornimmo quindi sia di acqua sia, attingendo dal fiume, di vino e, dopo aver passato la notte accampati là vicino sulla spiaggia, all’alba levammo le àncore con una brezza leggera.
Luciano, Storia vera, I 10-11
Περὶ μεσημβρίαν δὲ οὐκέτι τῆς νήσου φαινομένης ἄφνω τυφὼν ἐπιγενόμενος καὶ περιδινήσας τὴν ναῦν καὶ μετεωρίσας ὅσον ἐπὶ σταδίους τριακοσίους οὐκέτι καθῆκεν εἰς τὸ πέλαγος, ἀλλ’ ἄνω μετέωρον ἐξηρτημένην ἄνεμος ἐμπεσὼν τοῖς ἱστίοις ἔφερεν κολπώσας τὴν ὀθόνην. Ἑπτὰ δὲ ἡμέρας καὶ τὰς ἴσας νύκτας ἀεροδρομήσαντες, ὀγδόῃ καθορῶμεν γῆν τινα μεγάλην ἐν τῷ ἀέρι καθάπερ νῆσον, λαμπρὰν καὶ σφαιροειδῆ καὶ φωτὶ μεγάλῳ καταλαμπομένην· προσενεχθέντες δὲ αὐτῇ καὶ ὁρμισάμενοι ἀπέβημεν, ἐπισκοποῦντες δὲ τὴν χώραν εὑρίσκομεν οἰκουμένην τε καὶ γεωργουμένην. Ἡμέρας μὲν οὖν οὐδὲν αὐτόθεν ἑωρῶμεν, νυκτὸς δὲ ἐπιγενομένης ἐφαίνοντο ἡμῖν καὶ ἄλλαι πολλαὶ νῆσοι πλησίον, αἱ μὲν μείζους, αἱ δὲ μικρότεραι, πυρὶ τὴν χρόαν προσεοικυῖαι, καὶ ἄλλη δέ τις γῆ κάτω, καὶ πόλεις ἐν αὑτῇ καὶ ποταμοὺς ἔχουσα καὶ πελάγη καὶ ὕλας καὶ ὄρη. Ταύτην οὖν τὴν καθ’ ἡμᾶς οἰκουμένην εἰκάζομεν. Δόξαν δὲ ἡμῖν καὶ ἔτι πορρωτέρω προελθεῖν, συνελήφθημεν τοῖς Ἱππογύποις παρ’ αὐτοῖς καλουμένοις ἀπαντήσαντες. Οἱ δὲ Ἱππόγυποι οὗτοί εἰσιν ἄνδρες ἐπὶ γυπῶν μεγάλων ὀχούμενοι καὶ καθάπερ ἵπποις τοῖς ὀρνέοις χρώμενοι· μεγάλοι γὰρ οἱ γῦπες καὶ ὡς ἐπίπαν τρικέφαλοι. POST-TESTO
Quanto siano grandi lo si potrebbe arguire da un semplice particolare: ciascuna delle loro penne è più lunga e robusta dell’albero di una grossa nave da carico. Hanno l’incarico di incrociare nel cielo del loro paese e, se trovano qualche straniero, di portarlo dal re: ovviamente hanno arrestato anche noi e ci hanno trascinato davanti a lui. Il re, dopo averci squadrati, ha domandato, deducendo la cosa dal nostro abbigliamento: «Voi dunque siete Greci, stranieri?» e al nostro «sì» ha aggiunto: «Come siete riusciti, in questo caso, a coprire una simile distanza attraverso gli spazi siderali e ad arrivare fin qui?». Noi allora lo abbiamo informato di tutto fin nei minimi dettagli; e anche il © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA sovrano, a sua volta, ha incominciato a raccontarci la sua storia: lui pure era un terrestre, si chiamava Endimione, e un bel giorno, mentre dormiva, era stato portato via dalla nostra terra, era arrivato lassù, ed era diventato il re di quel luogo: ha aggiunto poi che la terra dove ci trovavamo era quella che da laggiù ci appare come la luna. (Pre-testo e post-testo: traduzione di M. Matteuzzi, Garzanti 1995)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE 1. In che cosa si trasforma la brezza leggera che soffiava all’alba? 2. Luciano descrive la luna che appare ai naviganti con quattro caratteristiche. Quali? Sono qualità fantastiche o hanno un fondamento scientifico? 3. I naviganti comprendono che la “terra” che appare loro è la luna? A che cosa la paragonano? 4. La luna è per certi versi un mondo alla rovescia. Quali sono le caratteristiche “aliene” del mondo lunare? 5. Luciano utilizza due participi per indicare invece le caratteristiche del paesaggio lunare che lo rendono assimilabile alla terra. Quali? 6. Con la notte si svela il paesaggio nei suoi dettagli. Che cosa vedono i viaggiatori? Comprendono allora che si tratta di un altro mondo o no? 7. Che aspetto hanno gli abitanti della luna che sorprendono i viaggiatori? 8. L’autore è abile nel creare un senso di suspense, che prepara gradualmente la scoperta del mondo alieno. Quando i protagonisti comprendono la vera natura del luogo dove si trovano? ANALISI LINGUISTICA E STILISTICA 1. Nel racconto della tempesta si trovano alcuni termini tecnici della navigazione: quali? 2. A tuo giudizio, Luciano cerca di conferire verosimiglianza al racconto? Se sì, attraverso quali accorgimenti? 3. Una caratteristica dello stile del romanzo di Luciano è l’invenzione linguistica (che corrisponde all’invenzione fantastica narrativa). Rintraccia nel testo che hai letto i neologismi e spiegane formazione ed etimologia. 4. ἄλλη δέ τις γῆ κάτω: l’avverbio di luogo è indice di un ribaltamento della prospettiva. Perché? Che avverbio aveva usato precedentemente Luciano, parlando della deriva della nave in tempesta? 5. δόξαν δὲ ἡμῖν: qual è la funzione dell’accusativo δόξαν? SECONDA PARTE
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Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Gli Academici libri sono un’opera filosofica di Cicerone, in forma di dialogo, composta nell’anno 45 a.C. Essa ci è giunta in due redazioni: una anteriore, a cui ci si riferisce solitamente col titolo Academica priora, originariamente in due libri, dei quali sopravvive il secondo (il Lucullus, dal nome del protagonista del dialogo), e una di poco successiva, denominata Academica posteriora, in quattro libri, dei quali si conservano parte del primo e frammenti. Sulle diverse fasi redazionali dell’opera ci informa lo stesso Cicerone nelle lettere ad Attico. Inizialmente Cicerone aveva composto un dialogo con interlocutori sé stesso, Catulo, Lucullo e Ortensio. Aveva già inviato l’opera ad Attico perché ne curasse copia e diffusione, quando Cicerone decide di ritirare questa prima versione e rimaneggiarla, ampliandola e rendendone l’esposizione più limpida e concisa (splendidiora, breviora, meliora). Modifica anche i nomi dei dialoganti (compaiono ora solo Cicerone e Varrone). L’autore è particolarmente orgoglioso del risultato, come dice in Att. XIII 13-14.1: «Se non mi inganna l’amor proprio, senza dubbio quei libri sono riusciti così bene che non v’è l’uguale, in tal genere, nemmeno © Casa Editrice G. Principato SpA
14 fra quelli scritti dai Greci». Negli Academica Cicerone espone le teorie della conoscenza (gnoseologia e logica), richiamandosi agli insegnamenti di Antioco di Ascalona (120-67 a.C.), caposcuola dell’Accademia platonica di Atene, ove, fra il 79 e il 78 a.C. aveva avuto come scolaro Cicerone stesso. Cicerone, Academica priora, 122-123
Latent ista omnia Luculle crassis occultata et circumfusa tenebris, ut nulla acies humani ingenii tanta sit, quae penetrare in caelum, terram intrare possit. Corpora nostra non novimus, qui sint situs partium, quam vim quaeque pars habeat ignoramus; itaque medici ipsi, quorum intererat ea nosse, aperuerunt ut viderentur, nec eo tamen aiunt empirici notiora esse illa, quia possit fieri ut patefacta et detecta mutentur. Sed ecquid nos eodem modo rerum naturas persecare aperire dividere possumus, ut videamus terra penitusne defixa sit et quasi radicibus suis haereat an media pendeat. Habitari ait Xenophanes in luna, eamque esse terram multarum urbium et montium: portenta videntur; sed tamen nec ille qui dixit iurare posset ita se rem habere, neque ego non ita. Vos etiam dicitis esse e regione nobis, e contraria parte terrae qui adversis vestigiis stent contra nostra vestigia, quos ἀντίποδας vocatis: cur mihi magis suscensetis qui ista non aspernor quam is qui cum audiunt desipere vos arbitrantur? Hicetas Syracosius, ut ait Theophrastus, caelum solem lunam stellas supera denique omnia stare censet, neque praeter terram rem ullam in mundo moveri; quae cum circum axem se summa celeritate convertat et torqueat, eadem effici omnia quasi stante terra caelum moveretur. atque hoc etiam Platonem in Timaeo dicere quidam arbitrantur, sed paulo obscurius.
Tutte queste cose, Lucullo, restano nascoste nelle fitte tenebre che le circondano, così che non c’è ingegno umano tanto acuto da poter penetrare nei misteri del cielo e scavare in quelli della terra. Non conosciamo il nostro corpo, ignoriamo la disposizione dei suoi organi, quale sia la funzione specifica di ciascuno; i medici che erano interessati a conoscere queste cose, dissezionarono il corpo umano per esaminarne gli organi, e tuttavia gli empirici sostengono che non per questo ne sappiamo di più, poiché è possibile che quando un organo viene aperto ed esaminato subisca delle mutazioni. Ma noi forse possiamo ugualmente tagliare, aprire, sezionare la natura, per vedere se la terra sia conficcata in fondo e si tenga per così dire alle proprie radici oppure se sia sospesa al centro. Senofane dice che la luna è abitata e che è essa stessa una terra con molte città e montagne. Sembrano paradossi, eppure né colui che ha sostenuto una simile teoria potrebbe giurare che la realtà sia così, né io d’altra parte il contrario. Voi affermate anche che sotto di noi, dalla parte opposta della terra abitino uomini che piantano le orme dei piedi a rovescio rispetto alle vostre e li chiamate antipodi: perché vi sdegnate più con me che non disprezzo queste teorie che con quelli che quando le sentono vi giudicano pazzi? A quanto dice Teofrasto, Iceta di Siracusa sostiene che il cielo, il sole, la luna, le stelle e insomma tutti i corpi celesti stiano fermi e che niente nel mondo si muova, eccetto la terra; a causa del suo moto di rotazione intorno al proprio asse si manifestano tutti quei fenomeni come se il cielo si muovesse e la terra fosse immobile. E alcuni ritengono che questa teoria fosse affermata già da Platone nel Timeo, ma in modo un po’ più oscuro. (Traduzione di R. Capel Badino)
GUIDA ALLA COMPRENSIONE «There are more things in heaven and earth, Horatio, / than are dreamt of in your philosophy». Con questi versi dall’Amleto di Shakespeare (atto 1, scena 5, 166-167) potremmo riassumere © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA il contenuto della riflessione di Cicerone. Negli Academica Cicerone intende tuttavia non tanto suscitare l’ammirazione del lettore verso le meraviglie dell’universo, quanto piuttosto riflettere intorno ai limiti della conoscenza umana. Mettendo in guardia dai pericoli insiti sia nel dogmatismo, che impone l’accettazione acritica di alcuni contenuti dottrinali, sia nello scetticismo radicale, che rifiuta il concetto stesso di verità o postula l’esistenza di verità molteplici, rendendo di fatto impossibile ogni tipo di conoscenza, Cicerone approva una teoria gnoseologica definibile come scetticismo probabilistico, che ammette l’irriducibile concetto di verità e ne garantisce almeno una conoscenza probabile. Il passo che hai letto confronta teorie generali sui misteri più profondi della natura, per sostenere come le ipotesi più paradossali e reciprocamente incompatibili siano poste oltre i limiti della conoscenza fondata sulle percezioni sensibili. Cicerone non vuole né negare né sostenere nessuna delle teorie esposte, ma intende osservare come su ciascuna sia impossibile esprimere un giudizio. A tale proposito risulta molto interessante l’osservazione attribuita ai medici empirici, che esprimono una sorta di principio di indeterminazione quando affermano che, nel momento dell’esame autoptico, l’oggetto subisce una mutazione che comprometterebbe l’affidabilità dell’osservazione. Dopo una premessa generale sui misteri inconoscibili della natura, Cicerone passa in rassegna diversi ambiti del sapere scientifico. Ogni sezione è separata dall’altra da riflessioni in tono sentenzioso o in forma di interrogativa retorica, che hanno lo scopo di tenere insieme in un ragionamento coerente le teorie desunte da ambiti scientifici disparati. 1. La prima menzione spetta ai medici. Con l’espressione aperuerunt ut viderentur Cicerone fa riferimento alle dissezioni di cadaveri che furono praticate al Museo di Alessandria, in particolare da Erofilo di Calcedonia (che Tertulliano accusò di aver praticato anche la vivisezione). Con il termine empirici Cicerone allude alla scuola medica nata dall’insegnamento di Erofilo e fondata da Filino di Cos, la quale, introducendo nello studio della medicina le teorie scettiche, metteva in dubbio la possibilità di inferire dall’osservazione particolare verità di ordine generale. 2. Dalla medicina Cicerone passa alla cosmologia, immaginando di poter applicare allo studio del mondo gli stessi metodi di osservazione empirica applicati dai medici della scuola alessandrina. Confronta idee diverse sulla posizione della terra del cosmo e cita un passo del filosofo presocratico Senofane di Colofone (VS6 21 A 47). Senofane, vissuto fra VI e V sec. a.C., è spesso posto in relazione con la scuola eleatica, della quale da alcuni è considerato il fondatore. Delle sue teorie è nota principalmente la critica alla teologia tradizionale. Si occupò anche di fisica e astronomia, come attesta il frammento trasmesso da Cicerone. Senofane ipotizza che la luna sia un mondo abitato in tutto simile alla terra, aprendo alla possibilità di un numero indeterminto di mondi, in contrasto dunque con chi vede la terra in posizione centrale e unica nel cosmo. 3. Dalla cosmologia alla geografia. Degli antipodi Cicerone tratta anche nel Somnium Scipionis (20.2), dove afferma che sulla terra, sferica, esistono due fasce climatiche temperate abitabili, quella boreale, la nostra, e quella australe, «dove quelli che vi abitano premono le orme dei piedi di contro a voi». Le teorie sulle zone o fasce climatiche in cui è suddiviso il globo terrestre erano esposte dal geografo Eratostene nel suo poema Hermes e dal filosofo e storiografo Posidonio di Apamea, che ebbe grande influsso a Roma, dove visse. 4. Infine Cicerone, culminando la climax delle teorie scientifiche più paradossali, espone quella di Iceta di Siracusa (VS6 50 fr. 1), che trovava in Teofrasto (fr. 240 FortenbaughHuby-Sharples). Filosofo pitagorico del IV sec. a.C., Iceta fu il primo a sostenere la teoria del moto di rotazione della terra, pur in una visione ancora geocentrica dell’universo, e
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14 ad affermare che i movimenti dei corpi celesti sono apparenti. Nonostante il tentativo di ascrivere questa teoria a Platone, sappiamo che nel Timeo si sostenevano centralità e immobilità della Terra nell’universo finito. Ma la lingua talvolta oscura di questo dialogo platonico può talvolta produrre interpretazioni discordanti. Qui probabilmente si allude a un passo (40 b) in cui Platone parla di due distinti moti di rotazione impressi dal demiurgo al mondo. VERSO UN CONFRONTO 1. Il romanzo di Luciano è stato indicato come l’antesignano della moderna fantascienza. Nel passo riportato dagli Academici libri Cicerone ci offre una rassegna di alcune delle teorie scientifiche più paradossali (per l’epoca), che spingono la conoscenza al limite delle possibilità dell’esperienza umana. Spesso la fantascienza trae dal progresso scientifico ispirazione per creare mondi di fantasia. Confronta il passo di Luciano con quello di Cicerone e trova che cosa hanno in comune. È possibile che Luciano abbia tratto ispirazione da fonti analoghe a quelle citate anche da Cicerone? Come le ha trattate? 2. Con linguaggi diversi sia Cicerone sia Luciano ci parlano dell’avventura della scoperta, l’uno attraverso l’immagine del viaggio della nave verso le immensità sconosciute del cielo, l’altro riflettendo sulla tensione della mente umana a indagare l’ignoto e i misteri più profondi della natura. In particolare nel romanzo, dove pure il tono è leggero e scanzonato, come si addice all’invenzione fantastica, riconosciamo nel protagonista e nei suoi compagni di viaggio un atteggiamento di curiosità e scoperta (che ci ricorda le qualità di Odisseo). Quali verbi sono adottati per indicare simile attitudine dei protagonisti? Quali espressioni usa invece Cicerone per indicare l’indagine scientifica intorno all’universo? 3. Confronta il linguaggio dei due autori. Luciano nel romanzo simula un tono oggettivo e cronachistico; per converso Cicerone nel trattato filosofico si lascia andare a commenti che rivelano una certa partecipazione emotiva, oltre che elaborazione retorica. Con quali strategie l’uno rende credibile un racconto paradossale, l’altro conferisce empatia all’esposizione di dottrine scientifiche? Ritieni che in Luciano il registro adottato abbia una funzione di ironia? Perché? 4. I due testi che hai letto, nonostante abbiano notevoli elementi di contatto, appartengono a generi molto lontani: il racconto fantastico di evasione e la trattatistica filosofica. Sviluppa uno di questi temi a tua scelta: Scienza e letteratura nell’antichità: è possibile una letteratura intorno ad argomenti scientifici o dottrinali? Il viaggio fantastico nella letteratura antica.
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Parte seconda
Simulazioni 1. Conosci te stesso (Cicerone) 2. La giornata di mio zio (Plinio il Giovane) 3. Dissolutezza di Filippo (Demostene) 4. Apologia del tradimento politico (Tucidide) 5. Massacro del presidio romano a Vaga (Sallustio - Plutarco) 6. Fragilità delle città marittime (Cicerone - Aristotele) 7. Sacrilegi di uomini potenti (Livio - Erodoto) 8. Il Colosso di Rodi (Plinio il Vecchio - Polibio) 9. Cicerone e Demostene, una coppia indissolubile (Quintiliano - Pseudo-Longino)
10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24.
Libri in pericolo (Seneca - Strabone) La conoscenza storica è necessaria all’oratore (Quintiliano - Licurgo) L’importanza della filosofia (Seneca - Plutarco) Il campo di Teutoburgo (Tacito - Dione Cassio) Socrate e Seneca sulla ricchezza (Seneca - Platone) Un progetto educativo (Isocrate - Cicerone) La naturale dissoluzione di una repubblica (Polibio - Livio) Presagi prima della battaglia di Leuttra (Senofonte - Cicerone) Epaminonda a Mantinea (Senofonte - Nepote) Piaceri della campagna (Senofonte - Plinio il Giovane) L’amore fedele (Plutarco - Tertulliano) Locus amoenus (Platone - Cicerone) I Romani e il greco (Polibio - Cicerone) La favola di Cleobi e Bitone (Erodoto - Cicerone) Un lutto inconsolabile (Plutarco - Cicerone)
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Tema
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LINGUA E CULTURA LATINA
Conosci te stesso PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Le Tusculanae disputationes, discussioni ragionate tra un magister e un immaginario uditore, risalgono all’anno 45 a.C., anno doloroso per Cicerone, ormai più che sessantenne, a causa della perdita dell’amata figlia Tulliola. L’attività filosofica è sentita da un lato come un impegno e servizio per la comunità, e dunque come una forma di negotium anch’essa, da parte di un uomo costretto a ritirarsi dall’arena politica, dall’altro come consolazione in quanto filosofare significa pensare e pensando ci si libera dal dolore, dalle passioni e dalla paura della morte. All’inizio del De divinatione Cicerone definisce il contributo delle Tusculanae con queste parole: res ad bene vivendum maxime necessarias aperuerunt, vale a dire affrontano questioni di etica pratica necessarie per vivere bene. In realtà il passo che ti sottoponiamo pone un problema di alta spiritualità, come l’esistenza dell’anima. Contro chi nega l’esistenza dell’anima per l’impossibilità di constatare la presenza di essa nel corpo, Cicerone ricorda che si deve tentare di comprendere l’anima non con i sensi ma con lo spirito. E dà un’interpretazione personale del motto delfico iscritto sul tempio di Apollo. PRE-TESTO
Crediamo davvero che, se per un attimo si potessero vedere quelle parti che in un uomo vivo sono ora nascoste, l’anima si presenterebbe al nostro sguardo, oppure la immaginiamo così sottile da sfuggire anche all’occhio più acuto? Riflettano su queste considerazioni tutti costoro che sostengono di non riuscire a concepire l’anima senza il corpo, e vedranno che idea hanno dell’anima dentro il corpo.
Cicerone, Tuscolane, I 22, 51-52
Mihi quidem naturam animi intuenti multo difficilior occurrit cogitatio, multo obscurior, qualis animus in corpore sit tamquam alienae domi, quam qualis, cum exierit et in liberum caelum quasi domum suam venerit. Nisi enim, quod numquam vidimus, id quale sit, intellegere non possumus, certe et deum ipsum et divinum animum corpore liberatum cogitatione complecti possumus. Dicaearchus quidem et Aristoxenus1, quia difficilis erat animi, quid aut qualis esset, intelligentia, nullum omnino animum esse dixerunt. Est illud quidem vel maxumum, animo ipso animum videre, et nimirum hanc habet vim praeceptum Apollinis, quo monet, ut se quisque noscat. Non enim, credo, id praecipit, ut membra nostra aut staturam figuramve noscamus; neque nos corpora sumus, nec ego tibi haec dicens corpori tuo dico. Cum igitur «Nosce te» dicit, hoc dicit: «Nosce animum tuum». Nam corpus quidem quasi vas est aut aliquod animi receptaculum; ab animo tuo quicquid agitur, id agitur a te. Hunc igitur nosse nisi divinum esset, non esset hoc acrioris cuiusdam animi praeceptum tributum deo. POST-TESTO
Ma se l’anima stessa non riuscirà a comprendere a fondo la natura dell’anima, questo le impedirà anche, secondo te, di rendersi conto della propria esistenza, del proprio movimento? (Pre-testo e post-testo: traduzione di L. Zuccoli Clerici, BUR 1996)
1 Aristoxenus: Aristosseno di Taranto e Dicearco di Messene (non si sa se in Messenia o in Sicilia) furono tra i primi esponenti della scuola aristotelica. Aristosseno si
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occupò principalmente di musica, Dicearco inaugurò la “storia culturale” con la sua influente Vita della Grecia.
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1 SECONDA PARTE
Risposta aperta a tre quesiti relativi alla comprensione e interpretazione del brano, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione per la risposta ad ogni quesito è di 10/12 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Cicerone per temperamento non è un contemplativo, eppure ai nostri occhi di lettori moderni qui sembra che lo sia, quando ammette l’immortalità come una delle credenze più universali e meno discutibili. L’immortalità dell’anima è un dono di natura; l’uomo in fondo – dice poco prima del nostro passo (I 14,31) – si comporta da essere immortale quando costruisce, pianta alberi, genera figli, legifera, adotta, fa testamento; e la gloria stessa non è che un succedaneo dell’immortalità. Ti sembra possibile che Cicerone, provato dalla morte della figlia, trovi sollievo nella sua fede nell’immortalità dell’anima? Sapresti dire a quali filosofi greci risale l’idea di immortalità dell’anima? Spiega con parole tue l’interpretazione che Cicerone dà del precetto delfico «Conosci te stesso». Qual era il suo vero significato? L’interpretazione ciceroniana, secondo te, è storicamente fondata? Considera che di solito la formula «Nosce te ipsum» viene intesa come espressione di pessimismo. 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Cicerone è il primo prosatore romano a trattare argomenti filosofici in uno stile elegante e organizzato, chiaro nel procedimento e capace di attrarre il lettore. Il suo intento è quello di creare un linguaggio filosofico latino che consenta ai suoi compatrioti di accedere alle fonti della filosofia. I pensatori romani a lui contemporanei, gli epicurei Amafinio, Rabirio e Cazio, scrivono bensì di filosofia, ma senza criterio (inconsiderate), e producono libri assai trascurati “che leggono solo loro coi loro compagni”, racconta lui stesso altrove nelle Tusculanae (I 3, 6). A Cicerone si deve la creazione della terminologia filosofica latina, cioè un ampliamento del vocabolario grazie al conio di equivalenti dei termini filosofici greci. Nel brano che hai tradotto quali termini filosofici hai incontrato, siano essi sostantivi oppure forme verbali? Mentre il latino con anima intende comunemente il soffio vitale proprio di tutti gli esseri viventi, Cicerone che cosa intende per animus? Il sostantivo receptaculum da quale verbo deriva? 3. Approfondimento e riflessioni personali Considera quanto afferma Cicerone nella prima pagina delle Tusculanae disputationes: «Sono sempre stato convinto che in ogni campo i Romani o hanno dimostrato maggior sapienza inventiva dei Greci o hanno saputo perfezionare quanto avevano da loro appreso». Trovi che ci sia una qualche esagerazione in questo atteggiamento così patriottico di Cicerone di fronte alla cultura greca? Considera anche la posizione espressa da Quintiliano nel X libro dell’Institutio oratoria nel suo confronto tra letteratura greca e latina: quando parla di Virgilio, secondo rispetto a Omero ma più vicino a lui che non al terzo classificato, e tale da aver mostrato più cura e attenzione rispetto al suo modello, Quintiliano scrive: «la sconfitta che subiamo nei momenti più alti, forse la compensiamo con la costante altezza del nostro livello» (X 1, 86). Dopo gli anni di liceo che ti hanno avviato alla conoscenza delle due culture, greca e romana, che idea ti sei fatto del legame tra l’una e l’altra? Potresti partire dal verso di Orazio Graecia capta ferum victorem cepit. © Casa Editrice G. Principato SpA
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Tema
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LINGUA E CULTURA LATINA
La giornata di mio zio PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Molte notizie sulle abitudini di vita di Plinio il Vecchio provengono o da veloci cenni autobiografici dell’autore1 o dagli scritti del nipote Plinio il Giovane, che ricevette in eredità una raccolta di estratti dello zio in 160 fittissimi volumina. Interessante in proposito è una lettera all’amico Bebio Macro che gli ha richiesto l’indice completo delle opere dello zio materno: dopo aver elencato in ordine cronologico i suoi numerosi scritti, Plinio il Giovane mostra di sorprendersi di una così ricca produzione dato che lo zio aveva svolto anche un’intensa attività in campo legale (e noi aggiungiamo in campo militare), era stato amico di vari imperatori con tutti gli obblighi di rappresentanza e le responsabilità che ciò comportava, ed era morto a soli cinquantasei anni. Ma era un uomo che, come Annibale o come Napoleone, notoriamente dormiva pochissimo. Ecco uno stralcio della lettera a Bebio Macro. PRE-TESTO
Ti meraviglierai che un tal numero di opere e che richiedono tanta scrupolosità siano state compiute da un uomo così occupato; [...] ma era di intelligenza vigorosa, di incredibile applicazione, di grande resistenza alla veglia.
Plinio il Giovane, Epistole, III 5, 8-13
Lucubrare Vulcanalibus2 incipiebat, non auspicandi causa, sed studendi, statim a nocte multa, hieme vero ab hora septima vel, cum tardissime, octava, saepe sexta3. Erat sane somni paratissimi, non numquam etiam inter ipsa studia instantis et deserentis. Ante lucem ibat ad Vespasianum imperatorem (nam ille quoque noctibus utebatur), inde ad delegatum sibi officium. Reversus domum, quod reliquum temporis, studiis reddebat. Post cibum saepe, quem interdiu levem et facilem veterum more sumebat, aestate, si quid otii, iacebat in sole, liber legebatur, adnotabat excerpebatque. Nihil enim legit quod non excerperet; dicere etiam solebat nullum esse librum tam malum ut non aliqua parte prodesset. Post solem plerumque frigida lavabatur; deinde gustabat dormiebatque minimum; mox quasi alio die studebat in cenae tempus. Super hanc liber legebatur, adnotabatur, et quidem cursim. Memini quendam ex amicis, cum lector quaedam perperam pronuntiasset, revocasse et repeti coegisse; huic avunculum meum dixisse: «Intellexeras nempe?» cum ille adnuisset, «cur ergo revocabas? Decem amplius versus hac tua interpellatione perdidimus». Tanta erat parsimonia temporis. Surgebat aestate a cena luce, hieme intra primam noctis et tamquam aliqua lege cogente.
1 Vedi la Lettera prefatoria a Tito, che all’epoca non era ancora imperatore, all’inizio della Naturalis historia: “Dopo tutto sono un uomo anch’io, assorbito dalle pubbliche incombenze, e dedico a queste ricerche i ritagli di tempo, in particolare le ore notturne: non crediate che io le passi a riposare”.
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2 I Vulcanalia (o Volcanalia) cadevano il 23 agosto e in quell’occasione consoli e auguri si alzavano nel mezzo della notte per prendere gli auspici. Qui la frase significa che, da quella data, ma non per ragioni religiose, Plinio cominciava a studiare anche nottetempo. 3 La variazione era dovuta al variare dell’ora dell’alba.
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2 POST-TESTO
Questo era il suo genere di vita in mezzo alle occupazioni e il fracasso della città. In campagna solo il momento del bagno era sottratto allo studio: quando dico bagno intendo la fase più intima; giacché mentre lo frizionavano e lo asciugavano ascoltava una lettura o dettava. (Pre-testo e post-testo: traduzione di L. Rusca, BUR 1994)
SECONDA PARTE
Risposta aperta a tre quesiti relativi alla comprensione e interpretazione del brano, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione per la risposta ad ogni quesito è di 10/12 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Plinio il Vecchio è convinto che vita vigilia est, “la vita è veglia”, perché nella veglia gli pare di prolungare la durata della vita. La lettera che hai appena tradotto racconta particolari delle sue abitudini di vita. Ad esempio che rapporto ha col sonno notturno? E con quello diurno? A proposito del somnus paratissimus, saresti capace di collegare questa qualità fisica davvero invidiabile di Plinio con quanto sappiamo da una famosa lettera del nipote relativamente alle ultime ore di vita dello zio alle falde del Vesuvio? Tornando al testo, i pranzi e le cene di Plinio si protraevano per molte ore, come si usava nei banchetti dei ricchi romani? Che cosa pensa Plinio dei libri, anche di quelli mediocri? Dall’episodio che viene rievocato alla fine (Memini...) traspare un carattere condiscendente o severo nel padrone di casa? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Nel periodare di Plinio il Giovane prevale l’ipotassi o la paratassi? L’intera descrizione poggia sull’uso di un unico tempo, l’imperfetto: che impressione si estrae da quest’uso così insistito? Su quale aspetto dominante del carattere dello zio insiste il nipote? Il suo modo di esprimersi ti suona asciutto, da cronista, oppure anche attraverso quest’uso del tempo si rivelano un sentimento e un’emozione? Se togli il suffisso -br (che c’è anche in tenebrae), sai riconoscere la radice del verbo lucubrare? Considera memini... revocasse et coegisse (riga 11): è questa la costruzione comune del verbo memini? Considera l’espressione «Intellexeras nempe?» (riga 12): che cosa significa nel contesto la congiunzione nempe, che deriva da una forma affine a enim più il suffisso -pe? 3. Approfondimento e riflessioni personali La lettera ci permette di guardare, al di là della giornata di Plinio il Vecchio, anche alla vita del ceto colto romano durante l’impero, e ci consente di osservare quanto limitato, in realtà, fosse il tempo dedicato al lavoro ufficiale. Il lavoro intellettuale può essere così assorbente anche oggi? O sono altri oggi i lavori che assorbono in maniera così insistente? Quello di Plinio è un caso molto particolare: la sua ti sembra un’ossessione per lo studio o una giusta applicazione da parte di uno che intende produrre opere importanti e con queste iuvare mortales?
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Tema
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LINGUA E CULTURA GRECA
Dissolutezza di Filippo PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Le tre orazioni Olintiache furono pronunciate da Demostene nell’arco dell’anno 349 a.C., forse con un intervallo di pochi giorni l’una dall’altra, se non in un’unica seduta dell’assemblea. Olinto, la principale città della Penisola Calcidica, nel golfo di Torone, nel 357 a.C. si era alleata alla Macedonia di Filippo, per emanciparsi dall’imperialismo ateniese sull’area (strategica per l’accesso alla Tracia e agli stretti). Nel 351 a.C., preoccupata dell’espansionismo macedone, Olinto si era riavvicinata ad Atene, fino a che, nel 349 a.C., fu invasa da Filippo e chiese il soccorso ateniese. Le tre orazioni costituiscono il tentativo (fallito) di Demostene di convincere gli Ateniesi a intervenire a sostegno di Olinto. Secondo l’oratore, i successi militari di Filippo e la sua ingerenza nelle questioni greche si spiegano con l’inerzia degli Ateniesi, in contrasto con la loro storia. All’assemblea Demostene propone un piano d’azione tattico (invio di reparti sia in Calcidica sia in Macedonia), una valutazione delle reali forze di Filippo (la cui potenza sarebbe sovrastimata) e un piano di finanziamento delle operazioni (il punto più dolente, con la proposta di stanziare per le spese militari il fondo per gli spettacoli, che ad Atene era usato per la politica assistenziale). A proposito della situazione interna alla Macedonia, Demostene illustra come l’economia della regione sia prostrata da una guerra combattuta per l’ambizione del sovrano, col malcontento della popolazione, e passa poi a descrivere lo stile di vita di Filippo e della sua corte. PRE-TESTO
I mercenari poi e le guardie del corpo di cui si circonda hanno sì fama di essere molto valorosi e perfettamente addestrati alla guerra; ma a quanto ha riferito proprio a me uno che è stato sul posto – persona assolutamente credibile – non valgono poi più degli altri.
Demostene, Olintiaca II 18-19
Εἰ μὲν γάρ τις ἀνήρ ἐστιν ἐν αὐτοῖς οἷος ἔμπειρος πολέμου καὶ ἀγώνων, τούτους μὲν φιλοτιμίᾳ πάντας ἀπωθεῖν αὐτὸν ἔφη, βουλόμενον πάνθ’ αὑτοῦ δοκεῖν εἶναι τἄργα (πρὸς γὰρ αὖ τοῖς ἄλλοις καὶ τὴν φιλοτιμίαν ἀνυπέρβλητον εἶναι)· εἰ δέ τις σώφρων ἢ δίκαιος ἄλλως, τὴν καθ’ ἡμέραν ἀκρασίαν τοῦ βίου καὶ μέθην καὶ κορδακισμοὺς οὐ δυνάμενος φέρειν, παρεῶσθαι καὶ ἐν οὐδενὸς εἶναι μέρει τὸν τοιοῦτον. Λοιποὺς δὴ περὶ αὐτὸν εἶναι λῃστὰς καὶ κόλακας καὶ τοιούτους ἀνθρώπους οἵους μεθυσθέντας ὀρχεῖσθαι τοιαῦθ’ οἷ’ ἐγὼ νῦν ὀκνῶ πρὸς ὑμᾶς ὀνομάσαι. Δῆλον δ’ ὅτι ταῦτ’ ἐστὶν ἀληθῆ· καὶ γὰρ οὓς ἐνθένδε πάντες ἀπήλαυνον ὡς πολὺ τῶν θαυματοποιῶν ἀσελγεστέρους ὄντας, Καλλίαν ἐκεῖνον τὸν δημόσιον1 καὶ τοιούτους ἀνθρώπους, μίμους γελοίων καὶ ποιητὰς αἰσχρῶν ᾀσμάτων, ὧν εἰς τοὺς συνόντας ποιοῦσιν εἵνεκα τοῦ γελασθῆναι, τούτους ἀγαπᾷ καὶ περὶ αὑτὸν ἔχει.
1 Nulla sappiamo di questo Callia, a parte quello che ci dice lo stesso Demostene, cioè che era uno schiavo pubblico (δημόσιος) dalla fama di degenerato.
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3 POST-TESTO
Sembrano cose di poco conto: ma a ben giudicare esse sono prove del suo temperamento dissoluto. Ora come ora i suoi successi mettono in ombra i suoi difetti: basta l’esito brillante delle sue imprese a coprire tali brutture. Ma al minimo inciampo tutto questo non sfuggirà a critiche ben più severe. (Pre-testo e post-testo: traduzione di S. Aprosio, Mondadori 1993)
SECONDA PARTE
Risposta aperta a tre quesiti relativi alla comprensione e interpretazione del brano, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione per la risposta ad ogni quesito è di 10/12 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Con le sue parole Demostene ci trasporta all’interno della corte macedone di Filippo, di cui ci fornisce una descrizione moralistica. La corte stessa sembra essere plasmata dal sovrano a propria immagine. Quali sono i vizi che caratterizzano il re? Puoi notare nelle parole di Demostene anche una contrapposizione fra Atene e la Macedonia, giocata sulla polarità greci-stranieri? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Analizza la struttura sintattica delle prime righe, fino a ὀνομάσαι. Quale verbo regge il costrutto infinitivo e quali sono i quattro verbi al modo infinito che costituiscono i predicati di altrettante proposizioni dichiarative? Chi si deve intendere come soggetto sottinteso del verbo principale? Perché infine ritieni che Demostene, in questo passo, faccia ricorso al discorso indiretto? 3. Approfondimento e riflessioni personali Sulla base del testo che hai letto e delle tue conoscenze, illustra il rapporto conflittuale fra Demostene e Filippo e rifletti più in generale sul rapporto dei Greci con il barbaro o lo straniero.
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Tema
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LINGUA E CULTURA GRECA
Apologia del tradimento politico PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Nel 415 a.C. Alcibiade si fa promotore di una grande iniziativa militare: la spedizione contro Siracusa. Vincendo l’opposizione di un politico più moderato come Nicia, Alcibiade convince gli Ateniesi a intraprendere un’impresa molto onerosa, con un investimento straordinario della forza militare navale, rischiando di riaprire il conflitto con Sparta (temporaneamente sospeso secondo i patti stipulati nella pace di Nicia). Quando la flotta è già arrivata in Sicilia, a Messina, Alcibiade è raggiunto dall’ordine di ritornare in patria per essere sottoposto a giudizio in tribunale. È esploso lo scandalo delle Erme, che ha precipitato Atene nel panico della congiura politica e del colpo di stato. Come ricorderai, una serie di atti sacrileghi coinvolge personalità eminenti dell’aristocrazia ateniese. Anche Alcibiade è chiamato in causa, per la sua esibita empietà. L’obiettivo è più probabilmente colpire il leader e decapitare un intero ceto politico. In ogni caso la vicenda di Alciabiade si trova a un punto di volta. Tornare ad Atene è impossibile, data la certezza della condanna a morte (che infatti viene comminata in contumacia). Avvia trattative e infine compie la più spettacolare delle giravolte: nel pieno di una guerra, Alcibiade passa nel campo del nemico, Sparta. Il discorso che Tucidide gli fa pronunciare davanti agli Spartani è una giustificazione ardita del cambiamento di campo. Come dice la sua più celebre biografa, Jacqueline de Romilly: «Ci sono stati traditori nella storia: non c’è mai stato nessuno, però, che difendesse il tradimento con tanta lucidità, audacia, autorevolezza». PRE-TESTO
«È necessario che dapprima vi parli delle calunnie a mio carico affinché voi, con il sospettare di me, non accogliate in mala parte cose che sono nell’interesse comune. Sebbene i miei antenati avessero denunciato per colpa di qualche accusa la vostra prossenia, io la istituii nuovamente e vi fui utile in altre occasioni e soprattutto al tempo della disfatta di Pilo. E sebbene io agissi con impegno, voi, quando faceste pace con gli Ateniesi, deste autorità ai miei nemici e disonore a me, perché trattaste per mezzo loro. E per questa ragione giustamente foste danneggiati da me che mi ero rivolto alla causa dei Mantineesi e degli Argivi, e in tutte le altre occasioni in cui mi opposi a voi.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, VI 89
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Καὶ νῦν, εἴ τις καὶ τότε ἐν τῷ πάσχειν οὐκ εἰκότως ὠργίζετό μοι, μετὰ τοῦ ἀληθοῦς σκοπῶν ἀναπειθέσθω. Ἢ εἴ τις, διότι καὶ τῷ δήμῳ προσεκείμην μᾶλλον, χείρω με ἐνόμιζε, μηδ’ οὕτως ἡγήσηται ὀρθῶς ἄχθεσθαι. Τοῖς γὰρ τυράννοις αἰεί ποτε διάφοροί ἐσμεν (πᾶν δὲ τὸ ἐναντιούμενον τῷ δυναστεύοντι δῆμος ὠνόμασται), καὶ ἀπ’ ἐκείνου ξυμπαρέμεινεν ἡ προστασία ἡμῖν τοῦ πλήθους. Ἅμα δὲ καὶ τῆς πόλεως δημοκρατουμένης τὰ πολλὰ ἀνάγκη ἦν τοῖς παροῦσιν ἕπεσθαι. Τῆς δὲ ὑπαρχούσης ἀκολασίας ἐπειρώμεθα μετριώτεροι ἐς τὰ πολιτικὰ εἶναι. Ἄλλοι δ’ ἦσαν καὶ ἐπὶ τῶν πάλαι καὶ νῦν οἳ ἐπὶ τὰ πονηρότερα ἐξῆγον τὸν ὄχλον· οἵπερ καὶ ἐμὲ ἐξήλασαν. Ἡμεῖς δὲ τοῦ ξύμπαντος προέστημεν, δικαιοῦντες ἐν ᾧ σχήματι μεγίστη ἡ πόλις ἐτύγχανε καὶ ἐλευθερωτάτη οὖσα καὶ ὅπερ ἐδέξατό τις, τοῦτο ξυνδιασῴζειν, ἐπεὶ δημοκρατίαν γε καὶ ἐγιγνώσκομεν οἱ φρονοῦντές τι, καὶ αὐτὸς οὐδενὸς ἂν χεῖρον, ὅσῳ καὶ λοιδορήσαιμι. Ἀλλὰ περὶ ὁμολογουμένης ἀνοίας οὐδὲν ἂν καινὸν λέγοιτο. © Casa Editrice G. Principato SpA
4 POST-TESTO
E il cambiare quella forma di governo non ci pareva sicuro quando voi ci assalivate come nemici. Questa è la verità per quanto riguarda le mie calunnie».
(Pre-testo e post-testo: traduzione di G. Daverio Rocchi, BUR 1985)
SECONDA PARTE
Risposta aperta a tre quesiti relativi alla comprensione e interpretazione del brano, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione per la risposta ad ogni quesito è di 10/12 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Nel testo Alcibiade si riferisce al regime politico di Atene e al ruolo politico egemonico che nella città hanno svolto lui e la sua famiglia. Riconosci il lessico con il quale Alcibiade denomina la costituzione ateniese e i regimi ad essa avversi. Come definisce infine il regime ateniese? Perché Alcibiade adotta una definizione così forte sul piano del giudizio morale e politico? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione La struttura sintattica dell’ultimo periodo risulta alquanto complessa, in contrasto con le espressioni più concentrate e sintetiche dell’inizio del discorso. Rispondi ai quesiti di analisi sintattica e di interpretazione. ἐν ᾧ σχήματι ... καὶ ὅπερ ..., τοῦτο: come si definisce questo speciale costrutto del pronome relativo? Qual è il valore del participio οὖσα? I due superlativi μεγίστη e ἐλευθερωτάτη indicano con ottima capacità di sintesi le aspirazioni politiche della città di Atene. Perché? 3. Approfondimento e riflessioni personali Il brano riporta le parole di Alcibiade in discorso diretto. Tucidide si dimostra abilissimo nell’interpretare la svolta politica di Alcibiade attribuendogli un discorso di sconcertante spregiudicatezza. A partire dall’analisi del contenuto di questo discorso, sviluppa una riflessione sulla funzione delle demegorie nell’opera storica di Tucidide e degli storiografi antichi.
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Tema
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA
Massacro del presidio romano a Vaga PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina La guerra giugurtina fu una guerra che oggi chiameremmo coloniale, sostenuta dal ceto dei commercianti e dei banchieri interessati ai traffici con l’Africa settentrionale; il senato invece, preoccupato della minaccia dei Cimbri e dei Teutoni, cercò fino all’ultimo di venire a patti con Giugurta e si lasciò corrompere. La guerra si protrasse in maniera alterna, anche per la mediocrità dei generali e per la tattica logorante di guerriglia messa in campo dai Numidi. Nel 109 prese il comando il console Q. Metello Celere, uomo abile, onesto e molto influente in senato; egli ridusse Giugurta a mal partito, ma questi arruolò un nuovo esercito tra i Getuli. Nel frattempo fa la sua apparizione una figura cruciale, Gaio Mario, uomo d’armi di simpatie democratiche la cui azione sarà risolutiva. I due brani che hai di fronte sono in qualche modo l’uno la continuazione dell’altro anche se il nome di Mario compare solo in quello greco. Ma il tema è unico. Si tratta cioè di uno dei primi capitoli della “rivoluzione romana”, cioè della sorda guerra tra ottimati e popolari che si riflette anche nella politica estera e nella conduzione degli affari militari, e che da questo momento in poi avrà proprio nei generali (come qui Metello e il di lui molto più abile Mario) i protagonisti, continuando poi con Mario e Silla, Cesare e Pompeo e infine Antonio e Ottaviano. Il personaggio di Turpilio Silano è una figura minore che si viene a trovare tragicamente al centro di una vicenda più grande di lui. PRE-TESTO
Giugurta, abbandonato il pensiero della resa, riprende la guerra: con grande cura fa tutti i preparativi, si affretta, raduna l’esercito; cerca di attirare le città che si erano allontanate da lui col terrore o ostentando premi; […] tenta di corrompere col denaro quei Romani stessi che erano nelle guarnigioni. Insomma egli non lascia alcuna cosa intentata e tranquilla; tutto mette sottosopra.
Sallustio, La guerra giugurtina, 66, 2-4 e 67, 3
Igitur Vagenses, quo Metellus initio Iugurtha pacificante praesidium imposuerat, fatigati regis suppliciis neque antea voluntate alienati, principes civitatis inter se coniurant. Nam volgus, uti plerumque solet et maxume Numidarum, ingenio mobili, seditiosum atque discordiosum erat, cupidum novarum rerum, quieti et otio advorsum. Dein compositis inter se rebus, in diem tertium constituunt, quod is festus celebratusque per omnem Africam ludum et lasciviam magis quam formidinem ostentabat. Sed ubi tempus fuit, centuriones tribunosque militaris et ipsum praefectum oppidi T. Turpilium Silanum alius alium domos suas invitant. Eos omnis praeter Turpilium inter epulas obtruncant, postea milites palantis inermes, quippe in tali die ac sine imperio, aggrediuntur. Idem plebes facit, pars edocti ab nobilitate, alii studio talium rerum incitati, quis1 acta consiliumque ignorantibus tumultus ipse et res novae satis placebant. Romani milites, inproviso metu incerti ignarique quid potissumum facerent, trepidare. [...] In ea tanta asperitate saevissumis Numidis et oppido undique clauso Turpilius praefectus unus ex omnibus Italicis intactus profugit. Id mise-
1 quis: forma arcaica per quibus concordata col dativo ignorantibus.
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5 ricordiane hospitis an pactione aut casu ita evenerit, parum comperimus; nisi, quia illi in tanto malo turpis vita fama integra potior fuit, inprobus intestabilisque2 videtur. POST-TESTO
Metello dopo che ebbe notizia dei fatti di Vaga, affranto, si defilò per qualche tempo: poi, quando l’ira si mescolò al dolore, con grandissimo impegno si affrettò a vendicarsi. (Pre-testo e post-testo: traduzione di O. Bellavita)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Mario, luogotenente di Metello in Africa, con la sua straordinaria abilità militare e una vicinanza anche umana e psicologica alle sue truppe, si fa amare dai suoi soldati. Ben presto si acquista salda rinomanza in Africa e a Roma; gli stessi suoi soldati scrivendo a casa dicevano che la guerra contro i barbari non sarebbe mai finita se non fosse stato eletto console Gaio Mario. Le due relazioni – di Sallustio e di Plutarco – sulla vicenda di Turpilio, delle sue responsabilità nell’eccidio di Vaga e della punizione eccessiva che gli fu inflitta dal tribunale presieduto da Metello non potrebbero essere più differenti. Sallustio, che in quanto democratico simpatizza per Mario, abbandona Turpilio al suo destino; anche se fosse sopravvissuto per pietà dei Numidi o per caso, egli viene comunque bollato con parole durissime. Plutarco al contrario ha simpatia per Turpilio di cui riconosce la mitezza, e ovviamente per Metello, mettendo invece in risalto tratti vergognosamente crudeli della condotta di Mario.
Plutarco, Vita di Mario 8, 1-5
Ἐφ’ οἷς δῆλος ἦν ὁ Μέτελλος ἀχθόμενος. Μάλιστα δ’ αὐτὸν ἠνίασε τὸ περὶ Τουρπίλλιον. Οὗτος γὰρ ὁ ἀνὴρ ἦν μὲν ἐκ πατέρων ξένος τῷ Μετέλλῳ, καὶ τότε τὴν ἐπὶ τῶν τεκτόνων ἔχων ἀρχὴν συνεστράτευε· φρουρῶν δὲ Βάγαν πόλιν μεγάλην, καὶ τῷ μηδὲν ἀδικεῖν τοὺς ἐνοικοῦντας, ἀλλὰ πράως καὶ φιλανθρώπως αὐτοῖς προσφέρεσθαι πιστεύων, ἔλαθεν ὑποχείριος τοῖς πολεμίοις γενόμενος. Παρεδέξαντο γὰρ τὸν Ἰουγούρθαν, τὸν δὲ Τουρπίλλιον οὐδὲν ἠδίκησαν, ἀλλὰ σῷον ἐξαιτησάμενοι διῆκαν. Ἔσχεν οὖν αἰτίαν προδοσίας, καὶ παρὼν ὁ Μάριος τῇ κρίσει σύμβουλος, αὐτός θ’ οἱ πικρὸς ἦν καὶ τῶν ἄλλων παρώξυνε τοὺς πλείστους, ὥστ’ ἄκοντα τὸν Μέτελλον ἐκβιασθῆναι καὶ καταψηφίσασθαι θάνατον τοῦ ἀνθρώπου. Μετ’ ὀλίγον δὲ τῆς αἰτίας ψευδοῦς φανείσης, οἱ μὲν ἄλλοι συνήχθοντο τῷ Μετέλλῳ βαρέως φέροντι, Μάριος δὲ χαίρων καὶ ποιούμενος ἴδιον τὸ ἔργον, οὐκ ᾐσχύνετο λέγειν περιιών, ὡς αὐτὸς
Per queste ragioni Metello era con lui manifestamente adirato; ma soprattutto gli riuscì insopportabile il modo di comportarsi di Mario nell’ingiusta condanna di Turpilio. Era costui legato a Metello da vincoli d’ospitalità, come lo erano stati i loro padri, e allora accompagnava la spedizione come prefetto dei fabbri. Or avvenne che mentre comandava il presidio dell’importante città di Vaga e dimostrava eccessiva fiducia nei cittadini, contro i quali non commetteva alcun sopruso e con i quali anzi si comportava con mitezza e amichevolmente, cadde senza accorgersene nelle mani dei nemici. I cittadini infatti avevano accolto fra le loro mura Giugurta; senza però fare alcun male a Turpilio, dietro richiesta dei Romani, lo rilasciarono incolume. Naturalmente fu accusato di tradimento. Mario che assisteva al processo come giudice e gli era avverso, tanto si adoperò contro di lui rendendogli ostile la maggior parte degli altri, che alla fine Metello fu costretto, contro sua voglia, a condannarlo a morte. Poco dopo però
2 inprobus intestabilisque: espressione presa dalle XII Tavole; intestabilis è chi per indegnità non può fare testamento né testimoniare.
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Tema
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA
εἴη προστετριμμένος ἀλάστορα3 τῷ Μετέλλῳ ξενοκτόνον.
l’accusa di tradimento si dimostrò falsa e mentre tutti si mostravano addolorati con Metello, già per conto suo terribilmente angosciato, Mario ne era lieto e se ne vantava come di un successo personale, né si vergognava di andare intorno a dire che egli stesso aveva procurato a Metello il terribile tormento dell’uccisione del suo ospite. (Traduzione di L. Annibaletto, Signorelli 1958)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione I protagonisti del passo di Sallustio sono due: i principes e il volgus. Con quale altro termine è chiamato il volgo? Che idea ha del popolo minuto Sallustio (considera innanzitutto gli attributi)? Egli appare non convinto della strana vicenda di Turpilio, unico superstite. Le tre possibili ragioni della salvezza del prefetto della città sono tutte sullo stesso piano o ce n’è una che si distingue dalle altre e che cambierebbe totalmente il giudizio su questo personaggio a noi non altrimenti noto, se non da Plutarco e per un breve cenno da Appiano? Si comporta da vero storico, secondo te, Sallustio con queste sue considerazioni finali su Turpilio? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Individua gli arcaismi formali nel passo di Sallustio e altre caratteristiche dello stile sallustiano. Considera ora l’ultima frase del passo greco, là dove Plutarco inchioda Mario alla sua responsabilità morale: quale figura retorica intravvedi? I due brani terminano in maniera molto diversa. Plutarco, che dipende da una fonte aristocratica (forse Posidonio), conclude in modo tragico ricorrendo alla menzione dell’ἀλάστωρ; Sallustio, che sposa il punto di vista in questo caso astioso dei populares, a quale linguaggio ricorre scegliendo parole che suonano perentorie e inappellabili? 3. Approfondimento e riflessioni personali «Noi comprendiamo, se pure non scusiamo l’atteggiamento dello storico Sallustio: ma dobbiamo osservare che di certi dolorosi avvenimenti non è tanto colpevole l’uomo quanto una triste fatalità. Che colpa aveva dopotutto Turpilio delle insidie nemiche? E che cosa poteva, egli da solo, fare per i suoi soldati? In un solo caso la condanna di Sallustio ci apparirebbe giusta: qualora cioè l’ipotesi di pactione fosse esatta. Ma questo, Sallustio stesso non ha osato asserirlo» (E. Cesareo, La guerra giugurtina, Firenze 1946). Alla luce di due testimoni, Sallustio e Plutarco, così agli antipodi, qual è il tuo giudizio sulle responsabilità di questo ufficiale romano nella vicenda della strage di Vaga? 3 ἀλάστορα: quella dell’ἀλάστωρ è una entità che risale alla tragedia. Qui il termine significa solo “cattiva coscienza” ma il δαίμων ἀλάστωρ era nei grandi tragici,
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in particolare in Eschilo, il demone che tormentava gli autori di delitti di sangue, in particolare compiuti verso parenti.
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Tema
Fragilità delle città marittime PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Le città marittime sono vantaggiose per chi le abita oppure la presenza di un porto e dei commerci risulta negativa su più fronti? Gli antichi credevano che il luogo di fondazione di una città dovesse essere scelto solo dopo aver consultato gli dei, l’oracolo di Delfi per i Greci, la disciplina etrusca per i Romani. Inoltre non c’era nessuna città che non pretendesse di conoscere il nome del suo fondatore e anche la data della fondazione, ricordata poi ogni anno con festeggiamenti. In Grecia l’unica eccezione fu Zancle, la futura Messina, che per una lite tra i due fondatori decise di non nominarli più, anche se il loro nome si è tramandato. La narrazione ciceroniana sulle origini di Roma nel passo del De re publica1 sembra evitare di proposito di soffermarsi sugli elementi leggendari e soprannaturali facendo per così dire un’opera di razionalizzazione della storia. Tuttavia il razionalismo cui Cicerone ricorre in questo contesto (e che gli proviene dalla scuola peripatetica) si mescola con considerazioni di morale sociale attinte dalla storia e di stampo conservatore; eppure Romolo concedendo la cittadinanza ai Sabini aveva iniziato una politica di assimilazione che garantiva stabilità. Molto più razionale appare nel secondo brano Aristotele il quale con un’argomentazione di tipo logico freddamente discute vantaggi e svantaggi della vicinanza al mare. Nel brano ciceroniano parla Scipione Emiliano2 che per illustrare la grandezza della costituzione romana, prodotto collettivo maturato attraverso i secoli, vuole risalire alle origini. Romolo scelse con cura la posizione di Roma né troppo vicina né troppo lontana dal mare; il pericolo sono le incursioni nemiche che da terra, per quanto improvvise, si avvertono da indizi sonori. PRE-TESTO
Invece il nemico che viene dal mare e su navi può presentarsi davanti prima che qualcuno possa sospettarlo, e una volta arrivato non dà a divedere chi sia o da dove venga e soprattutto che cosa voglia e infine non si può distinguere e giudicare da nessun indizio se abbia intenzioni pacifiche o ostili.
Cicerone, La repubblica, II 4, 7-8
Est autem maritimis urbibus etiam quaedam corruptela ac demutatio morum; admiscentur enim novis sermonibus ac disciplinis et importantur non merces solum adventiciae, sed etiam mores, ut nihil possit in patriis institutis manere integrum. Iam qui incolunt eas urbes, non haerent in suis sedibus, sed volucri semper spe et cogitatione rapiuntur a domo longius, atque etiam cum manent corpore, animo tamen exulant et vagantur. Nec vero ulla res magis labefactatam diu et Carthaginem et Corinthum pervertit aliquando, quam hic error ac dissipatio civium, quod mercandi cupiditate et navigandi et agrorum et armorum cultum reliquerant. Multa etiam ad luxuriam invitamenta perniciosa civitatibus 1 Il De re publica è un trattato di filosofia politica che dibatte sulla miglior forma di governo; originariamente andato perduto se non per il finale (il cosiddetto Somnium Scipionis, conservato insieme al commento di Macrobio) in parte lo abbiamo ricostruito attraverso le citazioni di grammatici, in parte fu recuperato all’inizio dell’Ottocento grazie a un importante codice palinsesto (cioè cancellato e poi riscritto) della Biblioteca Vatica-
na. La scoperta, opera del cardinale Angelo Mai, emozionò il Leopardi. 2 Non è un caso che un passo in cui è menzionata la fine di Cartagine sia messo in bocca a Scipione Emiliano, il quale quella città aveva distrutto nel 146 (il dialogo è ambientato nel 129 a.C.). Nello stesso anno 146 con la caduta di Corinto ad opera del console Lucio Mummio si completò l’assoggettamento della Grecia a Roma.
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA subpeditantur mari, quae vel capiuntur vel importantur; atque habet etiam amoenitas ipsa vel sumptuosas vel desidiosas inlecebras multas cupiditatum. Et, quod de Corintho dixi, id haud scio an liceat de cuncta Graecia verissime dicere; nam et ipsa Peloponnesus fere tota in mari est [...]. Quid dicam insulas Graeciae? Quae fluctibus cinctae natant paene ipsae simul cum civitatum institutis et moribus. POST-TESTO
E queste isole, come ho detto sopra, appartengono alla Grecia antica. Ma delle colonie quale mai è stata fondata dai Greci in Asia, in Tracia, in Italia, in Sicilia o in Africa, a parte la sola Magnesia, che non sia bagnata dal mare? (Pre-testo e post-testo: traduzione di O. Bellavita)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Aristotele, come già Tucidide, è uno degli osservatori della polis più consapevoli. Egli nella Politica è interessato, da teorico, al problema dell’organizzazione della società e della giusta mescolanza dei suoi elementi. Nel VII libro prende in considerazione la città come entità politica analizzandone popolazione e territorio. Una questione molto dibattuta è se il territorio di una città debba avere o no una connessione col mare. Alcuni sostengono che le connessioni marittime implichino l’introduzione di una folla di indesiderabili, abituati ad altre leggi, ma d’altra parte ci potrebbero essere ragioni sia di sicurezza militare sia di approvvigionamento economico che rendono questa connessione di grande valore.
Aristotele, Politica, 1327a
Περὶ δὲ τῆς πρὸς τὴν θάλατταν κοινωνίας, πότερον ὠφέλιμος ταῖς εὐνομουμέναις πόλεσιν ἢ βλαβερά, πολλὰ τυγχάνουσιν ἀμφισβητοῦντες· τό τε γὰρ ἐπιξενοῦσθαί τινας ἐν ἄλλοις τεθραμμένους νόμοις ἀσύμφορον εἶναί φασι πρὸς τὴν εὐνομίαν, καὶ τὴν πολυανθρωπίαν· γίνεσθαι μὲν γὰρ ἐκ τοῦ χρῆσθαι τῇ θαλάττῃ διαπέμποντας καὶ δεχομένους ἐμπόρων πλῆθος, ὑπεναντίαν δ’ εἶναι πρὸς τὸ πολιτεύεσθαι καλῶς. Ὅτι μὲν οὖν, εἰ ταῦτα μὴ συμβαίνει, βέλτιον καὶ πρὸς ἀσφάλειαν καὶ πρὸς εὐπορίαν τῶν ἀναγκαίων μετέχειν τὴν πόλιν καὶ τὴν χώραν τῆς θαλάττης, οὐκ ἄδηλον. Καὶ γὰρ πρὸς τὸ ῥᾷον φέρειν τοὺς πολέμους εὐβοηθήτους εἶναι δεῖ κατ’ ἀμφότερα τοὺς σωθησομένους, καὶ κατὰ γῆν καὶ κατὰ θάλατταν, καὶ πρὸς τὸ βλάψαι τοὺς ἐπιτιθεμένους, εἰ μὴ κατ’ ἄμφω δυνατόν, ἀλλὰ κατὰ θάτερον ὑπάρξει μᾶλλον ἀμφοτέρων μετέχουσιν [...]. Ἐπεὶ δὲ καὶ νῦν ὁρῶμεν πολλαῖς ὑπάρχοντα καὶ χώραις καὶ πόλεσιν ἐπίνεια καὶ λιμένας εὐφυῶς κείμενα πρὸς τὴν πόλιν, ὥστε μήτε τὸ αὐτὸ 88
Si discute molto anche sulla questione se sia utile o dannoso per una città ben organizzata avere l’accesso al mare. C’è chi ritiene che dare ospitalità a stranieri cresciuti sotto altre leggi non giovi affatto al buon ordinamento, come non giova l’eccesso di popolazione; ciò avviene, infatti, perché una moltitudine di mercanti si serve del mare per spedire o ricevere merci, ed è certamente d’ostacolo a un legge buona ed efficace. D’altra parte, è pure evidente che, se si riuscisse a evitare questi inconvenienti, l’affacciarsi sul mare della città e del territorio circostante gioverebbe tanto alla sicurezza quanto all’approvvigionamento dei beni necessari. Per poter resistere meglio ai nemici, i cittadini da salvare dovrebbero essere soccorsi sia per terra sia per mare; e così pure, se si volesse sferrare un contrattacco agli aggressori, quand’anche non fosse possibile farlo dai due versanti, tuttavia, disponendo di entrambe le possibilità, si potrebbe scegliere l’uno o l’altro [...]. Poiché anche oggi possiamo vedere molti approdi e porti di città e regioni ben situati rispetto alla città, in modo di non far parte dell’area urbana
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6 νέμειν ἄστυ μήτε πόρρω λίαν, ἀλλὰ κρατεῖσθαι τείχεσι καὶ τοιούτοις ἄλλοις ἐρύμασι, φανερὸν ὡς εἰ μὲν ἀγαθόν τι συμβαίνει γίνεσθαι διὰ τῆς κοινωνίας αὐτῶν, ὑπάρξει τῇ πόλει τοῦτο τὸ ἀγαθόν, εἰ δέ τι βλαβερόν, φυλάξασθαι ῥᾴδιον τοῖς νόμοις φράζοντας καὶ διορίζοντας τίνας οὐ δεῖ καὶ τίνας ἐπιμίσγεσθαι δεῖ πρὸς ἀλλήλους.
ma neppure esserne troppo distanti, così da poter essere difesi con mura e altri presidi1, è evidente che, se qualche buon frutto viene dai collegamenti con questi luoghi, la città se ne avvantaggerà; se invece ne viene qualche danno, le sarà facile porvi rimedio mediante leggi, riconoscendo e stabilendo quelli che devono o non devono intrattenere relazioni reciproche. (Traduzione di R. Radice - T. Gargiulo, Mondadori Valla 2015)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Cicerone è un possidente agrario che viene dall’Italia profonda e che guarda con diffidenza al mare; gli riesce facile mettere il mare e i commerci in cattiva luce. Aristotele invece è un immigrato ad Atene venendo dalla lontana Stagira e vede fondamentalmente i vantaggi economici e strategici della vicinanza al mare. Concetto centrale della morale aristotelica è la mesòtes (μεσότης). Ti sembra che anche nel passo proposto agisca questo punto di vista tipicamente aristotelico? Che ruolo ha la legge in tutta la problematica? Attingendo alle tue conoscenze di storia antica sapresti dire in quale periodo della storia di Atene il rapporto tra la città e il mare fu particolarmente stretto? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione La posizione di Cicerone circa i contatti con popolazioni straniere in un certo senso è più moralistica. Individua nel passo del De re publica i termini che hanno a che fare con un discorso morale. Trova poi le espressioni dal colorito poetico. Il lessico ciceroniano è di solito ricco, ma non ricchissimo perché lo sviluppo delle subordinate fornisce al discorso possibilità espressive tali da rendere inutile il ricorso alle sfumature del singolo vocabolo. Questo giudizio trova riscontro nel passo che hai tradotto? Prova la tua idea con qualche esempio preso dal testo. 3. Approfondimento e riflessioni personali Anche Platone nel IV libro delle Leggi (704a-707d3) affronta il problema della posizione ideale di una città mettendo in guardia dall’eccessiva vicinanza al mare; il mare significa esagerata tendenza per gli affari, per la piccola mercatura, che spesso crea abitudini alla furbizia e all’inganno. È corretto stabilire un legame inverso tra l’integrità del carattere dei cittadini e la vita avventurosa da naviganti, da mercanti o anche semplicemente la vita in una città di mare? Non ti pare eccessivo il giudizio ciceroniano? Per Roma i pericoli sono mai venuti dal mare? Pensa alla storia della tarda antichità. 1 Aristotele qui riflette sull’esperienza imperiale di Atene nel secolo precedente, quando la città da un lato con la sua flotta basata al Pireo fu al centro di un im-
pero transmarino, dall’altro credette di poter resistere indefinitamente a una potenza militare tradizionale e terrestre com’era Sparta. E in questo si sbagliò.
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Tema
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA
Sacrilegi di uomini potenti PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Ti sottoponiamo la storia di due sacrilegi di ben diversa portata e atmosfera. La storia di Flacco (brano di Livio) scandalizza perché il protagonista è un censore, cioè proprio colui che dovrebbe sorvegliare la morale pubblica e privata, ma il suo crimine non comporta spargimenti di sangue, è se mai agli occhi nostri soprattutto un crimine contro la bellezza estetica di un tempio greco, agli occhi degli antichi un atto di empietà. Si tratta del tempio dorico di Giunone Lacinia, santuario nazionale degli italioti del Bruzio e del golfo di Taranto, decorato da pitture di Zeussi, da statue e tavole bronzee. Oggi ne resta un’unica colonna, in posizione spettacolare, da cui il nome di Capo Colonna. A ristabilire l’equilibrio e la ragionevolezza ci pensò allora il senato romano, anche se una qualche traccia del sacrilegio restò inemendabile nonostante i riti espiatorii messi in opera. La storia di Cambise e del bue Api (brano di Erodoto) è invece quella di un cupo e tragico delirio. Essa precede nel racconto di Erodoto la definitiva esplosione della follia del re dei re persiano. PRE-TESTO
Il censore Fulvio Flacco stava costruendo il tempio della Fortuna equestre, che aveva promesso in voto quand’era pretore in Spagna nella guerra contro i Celtibèri1, e lo costruiva con enorme impegno perché non ce ne fosse un altro più sontuoso e più magnifico. Pensando che avrebbe aggiunto a quel tempio un grande ornamento se le tegole fossero state di marmo, partì alla volta del Bruzio (odierna Calabria) e scoperchiò a metà il tempio di Giunone Lacinia, ritenendo che quel materiale sarebbe bastato a coprire l’edificio in costruzione.
Livio, Storia di Roma, XLII 3
Naves paratae fuerunt quae tollerent atque asportarent, auctoritate censoria sociis deterritis id sacrilegium prohibere. Postquam censor redit, tegulae expositae de navibus ad templum portabantur. Quamquam unde essent silebatur, non tamen celari potuit. Fremitus igitur in curia ortus est; ex omnibus partibus postulabatur ut consules eam rem ad senatum referrent. Ut vero accersitus in curiam censor venit, multo infestius singuli universique praesentem lacerare: templum augustissimum regionis eius, quod non Pyrrhus, non Hannibal2 violassent, violare parum habuisse, nisi detexisset foede ac prope diruisset. Detractum culmen templo, nudatum tectum patere imbribus putrefaciendum. Ad id censorem moribus regendis creatum? [...] Cum, priusquam referretur, appareret quid sentirent patres, relatione facta in unam omnes sententiam ierunt ut eae tegulae reportandae in templum locarentur piaculariaque Iunoni fierent. Quae ad religionem pertinebant, cum cura facta; tegulas relictas in area templi, quia reponendarum nemo artifex inire rationem potuerit, redemptores nuntiarunt. 1 Celtibèri: popolazione della Spagna centro-settentrionale, di origine mista, celtica e iberica. 2 non Pyrrhus, non Hannibal: il re dell’Epiro Pirro (primi decenni del III secolo) arriva fino in Sicilia, poi risale la penisola, ma non c’è notizia che egli abbia visitato il
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tempio. Annibale (ultimi decenni del III secolo) sicuramente sostò nei pressi; l’annalista Celio Antipatro racconta che avrebbe voluto rimuovere una colonna d’oro, ma Giunone in sogno lo invitò a soprassedere.
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Dei pretori che erano partiti per le province N. Fabio mentre stava andando nella Spagna Citeriore muore a Marsiglia. E così, quando i legati marsigliesi diedero la notizia, il senato decretò che P. Furio e Gn. Servilio, che erano i consoli in scadenza, sorteggiassero tra loro quale dei due dovesse ottenere la Spagna Citeriore con proroga di comando. (Pre-testo e post-testo: traduzione di O. Bellavita)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Cambise (re di Persia 530-522 a.C.) fu il secondo imperatore achemenide dopo il padre Ciro, fondatore dell’impero persiano. Cambise conquistò l’Egitto nel 525 ma, quando tentò di spingersi dentro il deserto, il suo esercito andò distrutto; da quel momento il suo carattere da benevolo si trasformò in crudele e folle. In questo episodio è descritto il culmine della follia di Cambise che si accanisce contro il simbolo stesso della religione egiziana: Api. La vicenda è una sequenza di episodi sanguinosi che oppongono un tiranno onnipotente a degli innocenti sacerdoti, che vengono fustigati ma non vengono meno al loro dovere. I fatti sono questi. Tutti gli Egiziani si riuniscono e festeggiano perché il loro dio, che si manifestava solo a lunghi intervalli di tempo, si manifesta ora in forma di giovane toro. Cambise, reduce da una sconfitta, interpreta i festeggiamenti popolari come legati alle sue disavventure militari; non crede a ciò che gli raccontano prima i prefetti di Menfi e poi i sacerdoti.
Erodoto, Storie, III 28-29
Ἀποκτείνας δὲ τούτους δεύτερα τοὺς ἱρέας ἐκάλεε ἐς ὄψιν. Λεγόντων δὲ κατὰ ταὐτὰ τῶν ἱρέων οὐ λήσειν ἔφη αὐτὸν εἰ θεός τις χειροήθης ἀπιγμένος εἴη Αἰγυπτίοισι. Τοσαῦτα δὲ εἴπας ἄγειν ἐκέλευε τὸν Ἆπιν τοὺς ἱρέας. Οἱ μὲν δὴ μετήισαν ἄξοντες. Ὁ δὲ Ἆπις οὗτος ὁ Ἔπαφος γίνεται μόσχος ἐκ βοὸς ἥτις οὐκέτι οἵη τε γίνεται ἐς γαστέρα ἄλλον βάλλεσθαι γόνον. Αἰγύπτιοι δὲ λέγουσι σέλας ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἐπὶ τὴν βοῦν κατίσχειν καί μιν ἐκ τούτου τίκτειν τὸν Ἆπιν. Ἔχει δὲ ὁ μόσχος οὗτος ὁ Ἆπις καλεόμενος σημήια τοιάδε, ἐὼν μέλας ἐπὶ μὲν τῷ μετώπῳ λευκόν τι τρίγωνον, ἐπὶ δὲ τοῦ νώτου αἰετὸν εἰκασμένον, ἐν δὲ τῇ οὐρῇ τὰς τρίχας διπλᾶς, ὑπὸ δὲ τῇ γλώσσῃ κάνθαρον. Ὡς δὲ ἤγαγον τὸν Ἆπιν οἱ ἱρέες, ὁ Καμβύσης, οἷα ἐὼν ὑπομαργότερος, σπασάμενος τὸ ἐγχειρίδιον, θέλων τύψαι τὴν γαστέρα τοῦ Ἄπιος παίει τὸν μηρόν· γελάσας δὲ εἶπε πρὸς τοὺς ἱρέας· Ὦ κακαὶ κεφαλαί, τοιοῦτοι θεοὶ γίνονται, ἔναιμοί τε καὶ σαρκώδεες καὶ ἐπαΐοντες σιδηρίων; Ἄξιος μέν γε Αἰγυπτίων οὗτός γε ὁ θεός· ἀτάρ τοι ὑμεῖς γε οὐ χαίροντες γέλωτα ἐμὲ θήσεσθε. Ταῦτα εἴπας ἐνετείλατο τοῖσι ταῦτα πρήσσουσι
Dopo aver fatto uccidere i prefetti, convocò al suo cospetto i sacerdoti. Poiché i sacerdoti dicevano le stesse cose, affermò che non gli sarebbe rimasto nascosto se un qualche dio mansueto era giunto presso gli Egiziani. Detto questo, ordinò ai sacerdoti di condurgli Api; ed essi, per portarglielo, andarono alla sua ricerca. Api, o Epafo, è un vitello che nasce da una vacca che non è più in grado di concepire nel ventre altra prole. Gli Egiziani dicono che un lampo di luce scende giù dal cielo sulla vacca, che la vacca ne è fecondata e genera Api. Il vitello che chiamano Api ha questi segni: è nero, ma sulla fronte ha una chiazza bianca quadrangolare, sulla schiena una figura d’aquila, i peli della coda sono doppi e sulla lingua c’è una figura di scarabeo. Quando i sacerdoti condussero Api, Cambise, infuriato com’era, estratto il pugnale con l’intenzione di colpire Api al ventre, lo ferì sulla coscia; allora ridendo disse ai sacerdoti: «Teste malsane, sono questi dunque gli dei, fatti di sangue e di carne e che sentono il ferro? Questo dio è senz’altro degno degli Egiziani; ma voi non vi rallegrerete di avermi deriso». Detto questo, ordinò a coloro che ne avevano l’incarico di frustare i sacerdoti, e di uccidere gli altri Egiziani che fos-
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA
τοὺς μὲν ἱρέας ἀπομαστιγῶσαι, Αἰγυπτίων δὲ τῶν ἄλλων τὸν ἂν λάβωσι ὁρτάζοντα κτείνειν. Ὁρτὴ μὲν δὴ διελέλυτο Αἰγυπτίοισι, οἱ δὲ ἱρέες ἐδικαιεῦντο, ὁ δὲ Ἆπις πεπληγμένος τὸν μηρὸν ἔφθινε ἐν τῷ ἱρῷ κατακείμενος. Καὶ τὸν μὲν τελευτήσαντα ἐκ τοῦ τρώματος ἔθαψαν οἱ ἱρέες λάθρῃ Καμβύσεω. TERZA PARTE
sero sorpresi a celebrare la festa. Allora la festa per gli Egiziani ebbe termine, i sacerdoti furono puniti e Api, colpito alla coscia, si spegneva, steso a terra nel santuario. Quando poi morì per la ferita, fu sepolto dai sacerdoti all’insaputa di Cambise. (Traduzione di A. Fraschetti, Mondadori Valla 1990)
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Sapresti indicare quali elementi hanno in comune i due episodi e che cosa li diversifica radicalmente? Ti sembra che i due sacrilegi possano essere messi sullo stesso piano? I due gesti sono entrambi gravi, ma considera innanzitutto la diversa statura politica dei protagonisti, l’uno è un personaggio minore, se pur censore, l’altro è l’uomo più potente del suo tempo. L’uno pratica la stessa religione dei Bruzii, l’altro viene da un mondo religioso, quello dello zoroastrismo, che non può concepire divinità in forma di animali. Considera anche i due finali: chi si fa carico di rimediare in qualche modo con iniziative di risarcimento? I rimedi sono soddisfacenti o deludenti? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione La storiografia a Roma ebbe origini sacrali, nacque dalle registrazioni dei Pontefici e come tale rimase legata alla religione ufficiale. Individua nel passo di Livio le espressioni che hanno a che fare col linguaggio religioso e le numerose formule che rientrano nel linguaggio politico. Che costrutto è sociis deterritis (riga 1)? E moribus regendis (riga 9)? 3. Approfondimento e riflessioni personali Erodoto è considerato il primo scrittore di etnologia. Ti sembra che in questo caso egli si mostri tale, vista l’attenzione e il dettaglio con cui descrive le singolarità della religione egiziana, che agli occhi dei Greci risultavano a dir poco curiose? Qual è il suo punto di vista in questa descrizione, sia come storico sia come uomo?
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Tema
Il Colosso di Rodi PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Il racconto di Plinio riferito al Colosso di Rodi è collocato all’interno di una serie di notizie relative ai progressi della scultura sia nella tecnica sia anche nell’audacia delle soluzioni; e le statue colossali sono le prime ad essere menzionate. Osserva come Plinio riferisca una serie di dati concreti sul Colosso di Rodi: anzitutto il nome dell’artista e la sua scuola di appartenenza, poi le misure dell’opera, la durata dei lavori e la spesa. Il terremoto che colpì Rodi abbattendo tra le altre cose la statua del dio Sole, il colosso appunto, è da porre con ogni probabilità nel 227 a.C.1 L’isola di Rodi, sede del Colosso, era fondamentale per la sua posizione strategica al centro di tutte le principali rotte commerciali dell’oriente ellenistico, e perciò figura spesso nella storia tipicamente politica di Polibio, da cui viene il brano di greco qui messo a confronto con Plinio. PRE-TESTO
La nostra generazione ha potuto vedere sul Campidoglio, prima del recente incendio appiccato dai Vitelliani, nella cella di Giunone una cagna di bronzo intenta a lambirsi una ferita; la straordinaria riuscita e l’assoluta verosimiglianza si deducono non solo dal particolare luogo di dedica ma anche dalla cauzione fissata: infatti, dato che nessuna somma sembrava adeguata, fu stabilito per decreto che i custodi ne rispondessero con la vita.
Plinio il Vecchio, Storia naturale, XXXIV 18, 39-41
Audaciae innumera sunt exempla. Moles quippe excogitatas videmus statuarum, quas colossaeas vocant, turribus pares. Talis est in Capitolio Apollo, translatus a M. Lucullo ex Apollonia2 Ponti urbe, XXX cubitorum, D talentis factus; talis in campo Martio Iuppiter, a Claudio Caesare3 dicatus, qui devoratur Pompeiani theatri vicinitate; talis et Tarenti factus a Lysippo, XL cubitorum. Mirum in eo quod manu, ut ferunt, mobilis (ea ratio libramenti est) nullis convellatur procellis. [...] Ante omnis autem in admiratione fuit Solis colossus Rhodi, quem fecerat Chares Lindius, Lysippi supra dicti discipulus. LXX cubitorum4 altitudinis fuit hoc simulacrum, post LXVI annum terrae motu prostratum, sed iacens quoque miraculo est. Pauci pollicem eius amplectuntur, maiores sunt digiti quam pleraeque statuae. Vasti specus hiant defractis membris; spectantur intus magnae molis saxa, quorum pondere stabiliverat eum constituens. Duodecim annis tradunt effectum CCC talentis, quae contigerant ex apparatu regis Demetrii relicto morae taedio obsessa Rhodo. 1 Il Colosso era stato allestito all’inizio del III secolo a.C. col ricavato dalla vendita delle macchine d’assedio abbandonate sull’isola da Demetrio Poliorcete, che aveva assediato Rodi a lungo senza successo. L’enorme statua non fu eretta, come comunemente si pensa, sul porto ma, probabilmente, dietro la città, rivolta verso il sole che sorge. 2 Apollonia: Apollonia Pontica era una colonia milesia situata sulla costa occidentale del Ponto Eussino, oggi Mar Nero.
3 Claudio Caesare: Claudio Cesare è l’imperatore Claudio, che fu il primo ad usare il titolo di Caesar come distintivo della dignità imperiale. 4 LXX cubitorum: la misura equivale a circa 32 metri, poco meno della celebre statua moderna di San Carlo ad Arona. Ciò che restava del Colosso fu portato in Siria dagli Arabi nel 717 e lì venduto a un mercante che ne trasportò il bronzo a Edessa con 40 cammelli (o addirittura 980, come dice l’imperatore Costantino Porfirogenito).
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA POST-TESTO
Nella medesima città vi sono altri cento colossi, più piccoli di questo, ma capaci di rendere famoso un luogo, dovunque anche uno solo di essi si fosse trovato; se ne aggiungono cinque di dèi, opera di Briassi. Anche in Italia si allestirono colossi. Vediamo tra l’altro l’Apollo Tuscanico nella biblioteca del tempio di Augusto, che misura cinquanta piedi a partire dal pollice, e che non so se sia più ammirevole per il tipo di bronzo o per la bellezza. (Pre-testo e post-testo: traduzione di L. Lehnus, Giardini 1987)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Il passo di Polibio potrebbe intitolarsi così: «Come risollevarsi da una catastrofe naturale: Rodi perde il Colosso ma suscita la solidarietà del mondo e acquista autorevolezza». L’episodio del terremoto di Rodi in cui crollò il Colosso è menzionato da Polibio non nella storia dell’anno in cui avvenne (138,2 Olimpiade = 227 a.C.) ma in connessione con eventi di dieci anni dopo e cioè a proposito della conclusione della Guerra degli Alleati nel 217. Si tratta dunque di un excursus o meglio di quello che gli storici chiamano un paracronismo. Polibio, parlando di una guerra che aveva gravemente lacerato le relazioni tra gli stati greci, vuole impartire una lezione di etichetta diplomatica: il terremoto di Rodi diventa un pretesto per mostrare quale dovrebbe essere la corretta prassi da mantenere nelle relazioni tra gli stati, esso è un’occasione per opporre al presente un passato intelligente e migliore. Per sua stessa dichiarazione Polibio traccia poi un parallelo tra la vita dei singoli e quella degli stati: la stessa morale – e cioè che bisogna essere generosi nel dare e dignitosi nel chiedere – vale per gli uni e per gli altri.
Polibio, Storie, V 88, 1-4
Ῥόδιοι δὲ κατὰ τοὺς προειρημένους καιροὺς ἐπειλημμένοι τῆς ἀφορμῆς τῆς κατὰ τὸν σεισμὸν τὸν γενόμενον παρ’ αὐτοῖς βραχεῖ χρόνῳ πρότερον, ἐν ᾧ συνέβη τόν τε κολοσσὸν τὸν μέγαν πεσεῖν καὶ τὰ πλεῖστα τῶν τειχῶν καὶ τῶν νεωρίων, οὕτως ἐχείριζον νουνεχῶς καὶ πραγματικῶς τὸ γεγονὸς ὡς μὴ βλάβης, διορθώσεως δὲ μᾶλλον, αὐτοῖς αἴτιον γενέσθαι τὸ σύμπτωμα. Τοσοῦτον ἄγνοια καὶ ῥᾳθυμία διαφέρει παρ’ ἀνθρώποις ἐπιμελείας καὶ φρονήσεως περί τε τοὺς κατ’ ἰδίαν βίους καὶ τὰς κοινὰς πολιτείας, ὥστε τοῖς μὲν καὶ τὰς ἐπιτυχίας βλάβην ἐπιφέρειν, τοῖς δὲ καὶ τὰς περιπετείας ἐπανορθώσεως γίνεσθαι παραιτίας. Οἱ γοῦν Ῥόδιοι τότε παρὰ τὸν χειρισμὸν τὸ μὲν σύμπτωμα ποιοῦντες μέγα καὶ δεινόν, αὐτοὶ δὲ σεμνῶς καὶ προστατικῶς κατὰ τὰς πρεσβείας χρώμενοι ταῖς ἐντεύξεσι καὶ ταῖς κατὰ μέρος ὁμιλίαις, εἰς τοῦτ’ ἤγαγον τὰς πόλεις, καὶ μάλιστα τοὺς βασιλεῖς, ὥστε μὴ μόνον 94
Nel periodo di tempo di cui ho appena parlato, i Rodii, cogliendo l’occasione del terremoto che li aveva colpiti poco prima e che aveva abbattuto il grande Colosso e gran parte delle mura e degli arsenali, sfruttarono il fatto in un modo così intelligente e accorto, che il disastro non causò loro un danno, bensì piuttosto un vantaggio. A questo mondo tanto nella vita dei singoli che in quella degli stati, c’è una tale differenza tra l’inesperienza e la negligenza da una parte e l’avvedutezza e la sollecitudine dall’altra che, nel primo caso, anche i successi arrecano un danno, nel secondo invece anche i rovesci diventano motivo di miglioramento. Ora, in quel momento i Rodii agirono con estrema abilità e, da un lato, ingrandendo e drammatizzando il disastro, dall’altro comportandosi, durante le ambascerie, con dignità e serietà tanto nelle pubbliche udienze che negli incontri privati, riuscirono a sensibilizzare le città e in modo particolare i re a tal punto, che non soltanto cominciarono a ricevere doni eccezionali, ma i donatori
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8 λαμβάνειν δωρεὰς ὑπερβαλλούσας, ἀλλὰ καὶ χάριν προσοφείλειν αὐτοῖς τοὺς διδόντας.
mostravano addirittura un senso di riconoscenza nei loro confronti.
(Traduzione di A. Vimercati, Rusconi)
SECONDA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione I due brani riguardano entrambi il Colosso di Rodi ma la prospettiva è diversa: Plinio (oggi considerato un enciclopedista più che uno scienziato nel senso moderno del termine) fa qui lo storico dell’arte, Polibio è un tipico storico della politica. Il Colosso in quanto tale interessa più all’uno o all’altro? E il terremoto quali diverse conseguenze ha nell’esposizione dei due autori? Individua nella descrizione del Colosso ormai a terra elementi tipici dei cosiddetti mirabilia. 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Plinio è soprattutto un grande archivista. Egli grazie a un ampio lavoro di schedatura raccoglie un’immensa mole di materiale, classifica, osserva, ordina, aggiunge alle osservazioni fatte dai predecessori note sue, discute, razionalizza le precedenti opinioni. Queste operazioni da un lato sono proprie dell’erudizione premoderna, dall’altro anticipano comunque una mentalità classificatoria tipica dello spirito scientifico. Il suo latino è tecnico, informativo e quindi a tratti ripetitivo. Dimostralo. Il greco di Polibio è pesante e analitico: attraverso una sintassi elaborata mira a mettere in luce una verità generale. Quali sono i termini di filosofia morale contenuti nel brano in greco? Quali i particolari che risalgono al linguaggio delle cancellerie e della diplomazia? 3. Approfondimento e riflessioni personali Entrambi gli autori esprimono un senso di stupore: Plinio di fronte allo spettacolo dell’opera d’arte che anche in pezzi si fa ammirare; Polibio di fronte allo spettacolo non meno mirabile della resilienza di Rodi dopo la catastrofe (i donatori si sentono addirittura grati dell’onore che viene loro fatto accettando le loro donazioni). Prova a spiegare e a discutere con parole tue l’espressione proverbiale felix calamitas che apparentemente è un ossimoro e che qui potrebbe applicarsi.
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Cicerone e Demostene, una coppia indissolubile PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Per Quintiliano l’oratore è vir bonus dicendi peritus, “un uomo retto, esperto nel parlare”, formula coniata da Catone il Censore e accettata già da Cicerone. Quintiliano fa per giunta notare nel capitolo dedicato alle qualità morali dell’oratore che Catone ha messo in prima posizione il bonus, perché se la potenza della parola armasse la malvagità non ci sarebbe nulla di più pericoloso dell’eloquenza. Non basta la capacità tecnica di impostare un discorso efficace, si deve soprattutto possedere rettitudine morale e questo comporta che l’oratore non possa sostenere cause ingiuste perché nessuno riesce a parlare in maniera persuasiva se non è coerente con se stesso, anzi non si diventerà nemmeno oratori se non si è onesti (XII 1,3). Quintiliano confuta l’opinione di chi pensa che l’uomo malvagio (malus vir), a parità di doti naturali (ingenium), applicazione (studium), cultura (doctrina), possa diventare un grande oratore quanto il vir bonus. Ma si aspetta delle obiezioni e, come usa fare, ribatte in anticipo. PRE-TESTO
I malvagi, a causa del loro disprezzo per la reputazione e dell’ignoranza della giustizia, a volte si dimenticano perfino di fingere: di conseguenza avanzano affermazioni senza ritegno e le difendono spudoratamente. […] Come nella vita, così anche nei processi, essi nutrono speranze disoneste; spesso poi accade che essi non risultino credibili neanche quando affermano il vero e che la presenza di un tale avvocato sembri essere una prova che la causa è ingiusta.
Quintiliano, La formazione dell’oratore, XII 1, 14-18
Nunc de iis dicendum est quae mihi quasi conspiratione quadam vulgi reclamari videntur: «Orator ergo Demosthenes non fuit? Atqui malum virum accepimus. Non Cicero? Atqui huius quoque mores multi reprenderunt». Quid agam? Magna responsi invidia subeunda est: mitigandae sunt prius aures. Mihi enim nec Demosthenes tam gravi morum dignus videtur invidia ut omnia, quae in eum ab inimicis congesta sunt1, credam, cum et pulcherrima eius in re publica consilia et finem vitae2 clarum legam, nec M. Tullio defuisse video in ulla parte civis optimi voluntatem. Testimonio est actus nobilissime consulatus, integerrime provincia administrata, et civilibus bellis, quae in aetatem eius gravissima inciderunt, neque spe neque metu declinatus animus, quo minus optimis se partibus, id est rei publicae, iungeret. Parum fortis videtur quibusdam, quibus optime respondit ipse non se timidum in suscipiendis, sed in providendis periculis: quod probavit morte quoque ipsa, quam praestantissimo suscepit animo. 1 congesta sunt: Demostene fu accusato da Eschine di essersi fatto conferire, tramite un certo Ctesifonte, una corona d’oro dalla città come premio per dei servigi che, a detta di Eschine, non ci sarebbero stati. Ne scaturirono due capolavori oratorii: la Contro Ctesifonte di Eschine e l’orazione Per la corona di Demostene. 2 finem vitae: all’indomani della sconfitta di Atene nella guerra lamiaca (322 a.C.) i protagonisti del partito antimacedone che aveva portato la città a sfidare il
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reggente di Alessandro in Grecia, il vecchio generale macedone Antipatro, furono arrestati e messi crudelmente a morte. I due loro capi, Demostene e Iperide, cercarono di fuggire. Demostene si rifugiò a Calauria, un’isola del golfo Saronico, nel tempio di Posidone, e si suicidò col veleno pur di non cadere in mano agli emissari di Antipatro. Iperide morì stoicamente sotto tortura a Corinto dopo essere stato arrestato a Egina.
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E se questi uomini furono così privi della somma virtù, risponderò a chi mi chiede se furono oratori come risponderebbero gli Stoici, se si chiedesse loro se Zenone, Cleante e lo stesso Crisippo furono saggi: sì furono uomini grandi e degni di rispetto, però non raggiunsero ciò che di più perfetto comporta la natura umana. (Pre-testo e post-testo: traduzione di C.M. Calcante, BUR 1997)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Il trattato Del Sublime è un’opera di critica letteraria e di teoria dello stile di autore incerto e di cronologia pure incerta, molto probabilmente della prima età imperiale. Nei manoscritti Il Sublime è ascritto a “Dionisio o Longino”: Dionisio fa pensare ovviamente a Dionisio di Alicarnasso (età augustea), capofila dell’atticismo, le cui idee in fatto di critica letteraria non sembrano però coincidere con quelle del nostro autore; Longino fu un importante filosofo neoplatonico al servizio della regina Zenobia di Palmira, vissuto intorno alla metà del III secolo d.C.: nell’incertezza si suole designare il trattato come opera di un non meglio precisato Pseudo-Longino. In questo passo prevalgono osservazioni non biografiche ma prettamente stilistiche, ispirate soprattutto all’immagine del fuoco che ben si presta a descrivere ciò che più sta a cuore all’anonimo, cioè la sublimità nelle sue varie forme.
Pseudo-Longino, Del sublime, 12, 4-5
Οὐ κατ’ ἄλλα δέ τινα ἢ ταῦτα, ἐμοὶ δοκεῖ, φίλτατε Τερεντιανέ, (λέγω δέ, εἰ καὶ ἡμῖν ὡς Ἕλλησιν ἐφεῖταί τι γινώσκειν) καὶ ὁ Κικέρων τοῦ Δημοσθένους ἐν τοῖς μεγέθεσι παραλλάττει. Ὁ μὲν γὰρ ἐν ὕψει τὸ πλέον ἀποτόμῳ, ὁ δὲ Κικέρων ἐν χύσει, καὶ ὁ μὲν ἡμέτερος διὰ τὸ μετὰ βίας ἕκαστα, ἔτι δὲ τάχους ῥώμης δεινότητος, οἷον καίειν τε ἅμα καὶ διαρπάζειν σκηπτῷ τινι παρεικάζοιτ’ ἂν ἢ κεραυνῷ, ὁ δὲ Κικέρων ὡς ἀμφιλαφής τις ἐμπρησμός, οἶμαι, πάντη νέμεται καὶ ἀνειλεῖται, πολὺ ἔχων καὶ ἐπίμονον ἀεὶ τὸ καῖον καὶ διακληρονομούμενον ἄλλοτ’ ἀλλοίως ἐν αὐτῷ καὶ κατὰ διαδοχὰς ἀνατρεφόμενον. Ἀλλὰ ταῦτα μὲν ὑμεῖς ἂν ἄμεινον ἐπικρίνοιτε, καιρὸς δὲ τοῦ Δημοσθενικοῦ μὲν ὕψους καὶ ὑπερτεταμένου ἔν τε ταῖς δεινώσεσι καὶ τοῖς σφοδροῖς πάθεσι καὶ ἔνθα δεῖ τὸν ἀκροατὴν τὸ σύνολον ἐκπλῆξαι, τῆς δὲ χύσεως ὅπου χρὴ καταντλῆσαι· τοπηγορίαις τε γὰρ καὶ ἐπιλόγοις κατὰ τὸ πλέον καὶ παρεκβάσεσι καὶ τοῖς φραστικοῖς ἅπασι καὶ ἐπιδεικτικοῖς, ἱστορίαις τε καὶ φυσιολογίαις, καὶ οὐκ ὀλίγοις ἄλλοις μέρεσιν ἁρμόδιος.
Non per altri motivi che per questi, mi sembra, carissimo Terenziano (te ne parlo nei limiti in cui anche a noi Greci è dato giudicare quest’argomento), che anche Cicerone differisce da Demostene per il tipo diverso di grandezza. Demostene s’innalza ad altezze per lo più scoscese; Cicerone, invece, tende ad espandersi; il nostro oratore, per la foga, per la terribilità che lo mettono in condizione di tutto bruciare e saccheggiare, potrebbe essere paragonato a un uragano o a una folgore, mentre Cicerone, a mio parere, come un incendio che si propaga, dappertutto divora e s’involge, con un fuoco abbondante e durevole e che si distribuisce ora qua ora là, e che, in successive riprese, trova sempre esca in se stesso. Ma sull’argomento, voi (Romani) potete giudicare molto meglio che noi Greci; l’occasione per il sublime demostenico si manifesta in Demostene nelle situazioni estreme, nelle passioni violente, e ove sia necessario scuotere da capo a fondo chi ascolta; mentre lo stile dilatato (ciceroniano) è opportuno dove c’è bisogno di subissarlo di parole; esso è adatto infatti alle descrizioni di luoghi comuni, alle perorazioni per la più parte, alle digressioni, e in tutti i luoghi che si prestano allo sviluppo discorsivo, nei discorsi epidittici, nelle storie, nelle descrizioni della natura e in non pochi altri contesti. (Traduzione di F. Donadi, BUR 1991)
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Tema
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TERZA PARTE
LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Ti pare che il discorso di Quintiliano su Cicerone e Demostene sia coerente con la sua concezione dell’oratore? Entrambi i passi, di Quintiliano e dello Pseudo-Longino, tracciano un parallelismo tra i due grandi oratori, romano e greco, ma considerando ambiti assolutamente lontani. Illustra le differenze di vedute. Del resto anche Plutarco nelle sue Vite parallele mette in coppia Demostene e Cicerone tracciando alla fine una comparazione interessante basata soprattutto sulle due personalità e sulle due biografie senza voler addentrarsi nelle capacità oratorie. 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione L’espressione di Quintiliano nel passo che hai tradotto imita quella dell’oratore; soprattutto nelle prime righe quale elemento formale ti sembra confermare questa osservazione? Ti sembra lecito sostenere che nel brano quintilianeo in cui si parla di Cicerone entra in azione una forma particolarmente intensa di mimesi? Rispondi argomentando la tua opinione. A quale dei due indirizzi retorici in voga a partire dall’ellenismo – l’uno che privilegia l’enfasi e la ricerca di pathos, l’altro gli elementi razionali dell’ordine compositivo, la chiarezza e la semplicità – è accostabile lo stile dell’anonimo autore del Sublime? 3. Approfondimento e riflessioni personali Cicerone oltre che un teorico dell’arte del dire fu un grande oratore, che per tutta la vita in senato, nel foro e nell’arengo politico praticò l’arte della parola ai più alti livelli. Quintiliano, suo grande ammiratore, fu bensì avvocato, dunque frequentatore dei tribunali (anche se purtroppo non conosciamo le sue arringhe), ma fu soprattutto un insegnante di retorica sulla cattedra per lui istituita da Vespasiano e dunque un educatore; egli si propone nell’Institutio l’obiettivo di indicare l’itinerario da seguire per chi volesse intraprendere la carriera oratoria. Sapresti dire in che cosa la sua concezione dell’oratore differisce da quella di Cicerone? Hai trovato nelle tue letture moderne pagine che contengono riferimenti all’oratoria antica o comunque diano saggi di abilità retorica?
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA
Tema
Libri in pericolo PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina In un discorso generale sulla parsimonia, il dominio di sé (continentia) e l’opportunità di porsi dei limiti soddisfacendo solo i bisogni naturali e necessari – discorso che coinvolge patrimoni, cibo, vestiti, case, numero di schiavi ma anche il desiderio di gloria –, Seneca sostiene la necessità di soppesare quanto gli oggetti che ci procuriamo siano davvero utili, non quanto appaiano tali. È il principio della massima delfica del “nulla di troppo” coniugato col senso della misura (metriotes) predicato per esempio dallo stoicismo di Panezio. Da qui la critica a chi ama collezionare libri a dismisura finendo per considerarli puri oggetti per adornare le pareti della camera da pranzo. Seneca è il filosofo antierudito per eccellenza, benché fosse coltissimo. Per lui conta il pensiero più che non l’informazione. In questo senso il suo intellettualismo si avvicina a quello di Socrate. PRE-TESTO
Anche la spesa per gli studi, che pure è la più degna di un uomo libero, ha una giustificazione finché ha un suo limite.
Seneca, La tranquillità dell’animo, IX 4-6
Quo innumerabiles libros et bybliothecas, quarum dominus vix tota vita indices perlegit? Onerat discentem turba, non instruit, multoque satius est paucis te auctoribus tradere, quam errare per multos. Quadraginta milia librorum Alexandriae arserunt1; pulcherrimum regiae opulentiae monimentum alius laudaverit, sicut T. Livius, qui elegantiae regum curaeque egregium id opus ait fuisse: non fuit elegantia illud aut cura, sed studiosa luxuria, immo ne studiosa quidem, quoniam non in studium sed in spectaculum comparaverant, sicut plerisque ignaris etiam puerilium litterarum libri non studiorum instrumenta sed cenationum ornamenta sunt. Paretur itaque librorum quantum satis sit, nihil in apparatum. «Honestius» inquis «hoc se inpensae quam in Corinthia pictasque tabulas effuderint.» Vitiosum est ubique quod nimium est. Quid habes cur ignoscas homini armaria citro atque ex ebore captanti, corpora conquirenti aut ignotorum aut inprobatorum et inter tot milia librorum oscitanti, cui voluminum suorum frontes maxime placent titulique? POST-TESTO
Vedrai dunque in casa delle persone più pigre tutte le orazioni e tutte le storie che ci sono, scaffalature alzate fino al soffitto; ormai, fra bagni e terme, anche la biblioteca viene abbellita come necessario ornamento della casa. Lo giustificherei anche, se si sbagliasse per un eccessivo desiderio di studi: ma queste opere di sacri ingegni, cercate con cura e divise insieme ai ritratti degli autori, vengono procacciate per abbellire ed adornare le pareti. (Traduzione di G. Viansino, Oscar Mondadori 1993)
1 arserunt: l’autore allude molto probabilmente all’incendio scoppiato nei pressi della biblioteca durante la guerra alessandrina del 47 a.C. Si ritiene peraltro che il grosso del patrimonio librario di Alessandria sia andato perduto successivamente: o durante l’occupazione da
parte di Odenato e Zenobia, signori di Palmira (metà III secolo d.C.), o per i tumulti antipagani istigati dal vescovo Teofilo (inizio V secolo), o ad opera del generale Amr ibn al-As al momento della presa definitiva di Alessandria da parte degli Arabi nell’anno 642.
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SECONDA PARTE
LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Le scuole filosofiche, dopo Socrate, sono costituite da un maestro, un luogo di ritrovo, un piccolo santuario e una biblioteca che comprende le opere del fondatore e quelle acquistate, patrimonio librario che passa in eredità al successore e ai successivi scolarchi. Per valutare l’importanza della biblioteca di Aristotele è bene ricordare che le sue opere sono state alla base della filosofia occidentale del Medioevo e che nel confronto dialettico con loro si è formato il pensiero moderno. Strabone è uno storico e geografo greco la cui famiglia fu portata a Roma sotto Pompeo alla fine delle guerre mitridatiche; veniva da Amasea sul Ponto. Visse tra l’età di Cesare e quella di Augusto e ci ha lasciato una Geografia in 17 libri, talora lacunosi, che è per noi l’opera più importante sulla geografia storica dell’antichità.
Strabone, Geografia, XIII 54, 608-609C
Ὁ γοῦν Ἀριστοτέλης τὴν ἑαυτοῦ Θεοφράστῳ παρέδωκεν, ᾧπερ καὶ τὴν σχολὴν ἀπέλιπε, πρῶτος ὧν ἴσμεν συναγαγὼν βιβλία καὶ διδάξας τοὺς ἐν Αἰγύπτῳ βασιλέας βιβλιοθήκης σύνταξιν. Θεόφραστος δὲ Νηλεῖ παρέδωκεν· ὁ δ’ εἰς Σκῆψιν κομίσας τοῖς μετ’ αὐτὸν παρέδωκεν, ἰδιώταις ἀνθρώποις, οἳ κατάκλειστα εἶχον τὰ βιβλία οὐδ’ ἐπιμελῶς κείμενα· ἐπειδὴ δὲ ᾔσθοντο τὴν σπουδὴν τῶν Ἀτταλικῶν βασιλέων ὑφ’ οἷς ἦν ἡ πόλις, ζητούντων βιβλία εἰς τὴν κατασκευὴν τῆς ἐν Περγάμῳ βιβλιοθήκης, κατὰ γῆς ἔκρυψαν ἐν διώρυγί τινι· ὑπὸ δὲ νοτίας καὶ σητῶν κακωθέντα ὀψέ ποτε ἀπέδοντο οἱ ἀπὸ τοῦ γένους Ἀπελλικῶντι τῷ Τηίῳ πολλῶν ἀργυρίων τά τε Ἀριστοτέλους καὶ τὰ τοῦ Θεοφράστου βιβλία· ἦν δὲ ὁ Ἀπελλικῶν φιλόβιβλος μᾶλλον ἢ φιλόσοφος· διὸ καὶ ζητῶν ἐπανόρθωσιν τῶν διαβρωμάτων εἰς ἀντίγραφα καινὰ μετήνεγκε τὴν γραφὴν ἀναπληρῶν οὐκ εὖ, καὶ ἐξέδωκεν ἁμαρτάδων πλήρη τὰ βιβλία. Συνέβη δὲ τοῖς ἐκ τῶν περιπάτων τοῖς μὲν πάλαι τοῖς μετὰ Θεόφραστον οὐκ ἔχουσιν ὅλως τὰ βιβλία πλὴν ὀλίγων, καὶ μάλιστα τῶν ἐξωτερικῶν, μηδὲν ἔχειν φιλοσοφεῖν πραγματικῶς, ἀλλὰ θέσεις ληκυθίζειν· τοῖς δ’ ὕστερον, ἀφ’ οὗ τὰ βιβλία ταῦτα προῆλθεν, ἄμεινον μὲν ἐκείνων φιλοσοφεῖν καὶ ἀριστοτελίζειν, ἀναγκάζεσθαι
Aristotele infatti aveva lasciato la sua biblioteca personale a Teofrasto, al quale pure lasciò la sua scuola; ed egli è il primo uomo, per quanto so io, che abbia raccolto libri e che abbia insegnato come organizzare una biblioteca ai re d’Egitto. Teofrasto la lasciò a Neleo, e Neleo la portò a Scepsi1 e la lasciò ai suoi eredi, gente comune che tenne i libri sotto chiave e neanche ordinati con cura. Ma quando essi appresero con quanto zelo i re Attalidi, ai quali la città era sottoposta, andavano cercando libri per allestire la biblioteca di Pergamo, essi nascosero i loro libri sotto terra in una specie di fossa. Molto più tardi, quando ormai i libri erano stati danneggiati dall’umidità e dai vermi, i loro discendenti li vendettero ad Apelliconte di Teo per una grossa somma di denaro, sia i libri di Aristotele sia quelli di Teofrasto. Ma Apelliconte era un bibliofilo più che un filosofo; perciò cercando di restaurare le parti che erano state corrose egli fece nuove copie del testo riempiendo le lacune in maniera scorretta, e pubblicò libri pieni di errori. Il risultato fu che i filosofi peripatetici antichi che erano venuti dopo Teofrasto si trovarono del tutto senza libri, a parte poche opere per lo più essoteriche [divulgative], e perciò non furono in grado di filosofare su alcunché in maniera concreta ma solo di parlare in maniera roboante su luoghi comuni; per con-
1 Scepsi: città greca della Troade, nell’Anatolia nord-occidentale, che ebbe molti contatti con gli allievi di Aristotele e di Teofrasto; quest’ultimo era originario di Lesbo, isola vicina.
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10 μέντοι τὰ πολλὰ εἰκότα λέγειν διὰ τὸ πλῆθος τῶν ἁμαρτιῶν.
tro la scuola più recente, quando i libri di cui si è detto riapparvero, sebbene rispetto a quegli altri fosse più abile nel filosofare secondo il pensiero di Aristotele, fu costretta a chiamare la maggior parte delle proprie affermazioni “pure probabilità” a causa del gran numero di errori. (Traduzione di O. Bellavita)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo 1. Comprensione/interpretazione Se rifletti sui pericoli corsi dalla biblioteca di Aristotele, si ha l’impressione che la severità di Seneca nel condannare la bibliofilia sia eccessiva. O forse Seneca, parlando di libri, intende dire qualcosa di diverso e di più importante rispetto alla loro materialità? Considera il finale del passo (compreso il Post-testo): noti un’evoluzione, uno sviluppo del pensiero dell’autore nel corso della brano proposto? E perché Seneca si dichiara in disaccordo con Livio, un grande che pure doveva ammirare? Passando ora al brano di greco, spiega perché Strabone critica Apelliconte di Teo. È una critica fondata, secondo te? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Individua le sententiae presenti nel passo senecano e spiegale con parole tue. Quali altri caratteri dello stile di Seneca riconosci nel brano che hai tradotto? alius laudaverit (riga 4): analizza questa forma verbale. Paretur itaque (riga 8): analizza questa forma verbale. 3. Approfondimento e riflessioni personali Ti sei mai chiesto perché così tante opere importanti dell’antichità non ci sono arrivate? Pensa almeno alle commedie di Menandro, alle elegie di Callimaco, agli Annales di Ennio, all’Hortensius di Cicerone. La trasmissione dei libri dall’antichità fino al mondo moderno fu un processo lineare o difficile e con momenti di grave pericolo e consistenti perdite? E poi: ti pare che i libri che potevano stare sulle pareti di una stanza al tempo di Seneca fossero così tanto ornamentali? Pensa alle forme librarie nell’antichità. E nel locale biblioteca c’erano solo libri? (considera anche il Post-testo).
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La conoscenza storica è necessaria all’oratore PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Quintiliano sta passando in rassegna le discipline che possono essere utili all’oratore. Egli si rifà al modello educativo ciceroniano di un oratore dalla vasta cultura generale che abbracci il diritto, la letteratura (la quale serve a dare colorito poetico all’arte oratoria), la storia e la filosofia, la musica (che Platone riteneva indispensabile per l’uomo di stato), l’aritmetica e la geometria che insegna l’ordine, qualità fondamentale anche per l’eloquenza. Il curriculum del futuro oratore risponde al principio di una enkyklios paideia, un’educazione enciclopedica (I 10, 1) nella quale le varie discipline contribuiscono a rendere completo l’oratore e a fornirgli una forza segreta. La storia ad esempio, dice Quintiliano in un altro passo, fatta per raccontare non per dimostrare, è utile nelle digressioni, inoltre può offrire esempi e pareri espressi da uomini liberi del passato non coinvolti nella causa che si sta trattando e quindi esenti dall’accusa di pregiudizio. Il discorso sulla storia che ti sottoponiamo viene subito dopo quello sulla conoscenza del diritto civile nel quale Quintiliano polemizza con chi, per pigrizia, ha preferito diventare un esperto di formule o peggio fingersi filosofo. PRE-TESTO
Alcuni preferirono essere esperti in formule o, come dice Cicerone, “legulei”, scegliendo come più utili quelle conoscenze che perseguivano unicamente in base alla loro facilità; altri dotati di una pigrizia più arrogante, assunta all’improvviso un’espressione studiata e con la barba lasciata crescere, come se avessero disprezzato i precetti dell’oratoria, sostarono per un po’ nelle scuole dei filosofi, per cercare di procacciarsi una qualche autorevolezza mostrandosi alteri verso gli altri, arcigni in pubblico, ma dissoluti in privato. Infatti la filosofia si può simulare, l’eloquenza no.
Quintiliano, La formazione dell’oratore, XII 4, 1-2
In primis vero abundare debet orator exemplorum copia cum veterum tum etiam novorum, adeo ut non ea modo quae conscripta sunt historiis aut sermonibus velut per manus tradita quaeque cotidie aguntur, debeat nosse, verum ne ea quidem quae sunt a clarioribus poetis ficta, neglegere. Nam illa quidem priora aut testimoniorum aut etiam iudicatorum optinent locum, sed haec quoque aut vetustatis fide tuta sunt aut ab hominibus magnis praeceptorum loco ficta creduntur. Sciat ergo quam plurima, unde etiam senibus auctoritas maior est, quod plura nosse et vidisse creduntur, quod Homerus frequentissime testatur. Sed non est expectanda ultima aetas, cum studia praestent ut, quantum ad cognitionem pertinet rerum, etiam praeteritis saeculis vixisse videamur. POST-TESTO
Questi sono gli strumenti che avevo promesso di indicare, non dell’arte, come alcuni hanno pensato, ma dell’oratore stesso: queste armi egli deve avere a portata di mano, della loro conoscenza deve essere provvisto, aggiungendo una quantità di parole e di figure, poi metodo nella ricerca degli argomenti, esperienza nella disposizione, tenacia della memoria ed eleganza del portamento. (Pre-testo e post-testo: traduzione di O. Bellavita)
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Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Licurgo ha già messo in pratica nell’orazione Contro Leocrate1, l’unica di lui che ci sia arrivata, quanto Quintiliano secoli dopo teorizzerà, cioè la necessità che l’oratore conosca e sappia far uso della storia. Egli ebbe un tenore di vita austero, pur provenendo da una famiglia nobile e agiata che discendeva dal dio Posidone: portava sempre lo stesso mantello e dormiva su un letto scomodo e duro con una sola coperta e un cuscino per facilitare il risveglio e riprendere subito lo studio. Fu eletto alla carica di amministratore delle entrate dello stato, una sorta di ministero delle finanze, che ricoprì per dodici anni con onore e ottimi risultati. Lo stile di Licurgo non è molto curato; per esempio non si preoccupa di evitare lo iato e, come sottolinea il retore Ermogene (Sulle forme dello stile 2,402-404), include lunghi excursus, racconti di leggende e storie e anche citazioni di poeti, tra cui Tirteo. Il tono del discorso però è incalzante e molto efficace. E proprio uno di questi excursus è il passo che ti sottoponiamo. Considera che Licurgo discendeva dalla famiglia nobilissima degli Eteobùtadi, già presenti in Atene ai mitici tempi del re Codro della cui eroica fine qui si tratta.
Licurgo, Contro Leocrate, 84-87
Ἐπὶ Κόδρου γὰρ βασιλεύοντος Πελοποννησίοις γενομένης ἀφορίας κατὰ τὴν χώραν αὐτῶν ἔδοξε στρατεύειν ἐπὶ τὴν πόλιν ἡμῶν, καὶ ἡμῶν τοὺς προγόνους ἐξαναστήσαντας κατανείμασθαι τὴν χώραν. Καὶ πρῶτον μὲν εἰς Δελφοὺς ἀποστείλαντες τὸν θεὸν ἐπηρώτων, εἰ λήψονται τὰς Ἀθήνας· ἀνελόντος δ’ αὐτοῖς τοῦ θεοῦ, ὅτι τὴν πόλιν αἱρήσουσιν ἐὰν μὴ τὸν βασιλέα τὸν Ἀθηναίων Κόδρον ἀποκτείνωσιν, ἐστράτευον ἐπὶ τὰς Ἀθήνας. Κλεόμαντις δὲ τῶν Δελφῶν τις, πυθόμενος τὸ χρηστήριον, δι’ ἀπορρήτων ἐξήγγειλε τοῖς Ἀθηναίοις. Οὕτως οἱ πρόγονοι ἡμῶν ὡς ἔοικε καὶ τοὺς ἔξωθεν ἀνθρώπους εὔνους ἔχοντες διετέλουν. Ἐμβαλόντων δὲ τῶν Πελοποννησίων εἰς τὴν Ἀττικήν, τί ποιοῦσιν οἱ πρόγονοι ὑμῶν, ἄνδρες δικασταί; οὐ καταλιπόντες τὴν χώραν ὥσπερ Λεωκράτης ᾤχοντο, οὐδ’ ἔκδοτον τὴν θρεψαμένην καὶ τὰ ἱερὰ τοῖς πολεμίοις παρέδοσαν, ἀλλ’ ὀλίγοι ὄντες κατακλεισθέντες ἐπολιορκοῦντο καὶ διεκαρτέρουν εἰς τὴν πατρίδα. Καὶ οὕτως ἦσαν, ὦ ἄνδρες, γενναῖοι οἱ τότε βασιλεύοντες,
Sotto il regno di Codro, ai Peloponnesii, le cui terre erano afflitte da carestia, parve di dovere scendere in campo contro di noi, per cacciare i nostri maggiori e spartirsi la terra. E anzitutto mandarono a Delfi a interrogare il Dio, se avrebbero espugnato Atene; e come il Dio ebbe risposto loro che avrebbero conquistato la città, se non avessero ucciso Codro, il re di Atene, mossero contro la città. Un abitante di Delfi, di nome Cleomanti, venuto a conoscenza dell’oracolo, segretamente ne avvertì gli Ateniesi: a tal punto, per quel che pare, i nostri maggiori avevano amici anche i forestieri. Ora, quando i Peloponnesii invasero l’Attica, sapete, o giudici, che cosa fecero i vostri maggiori? Non disertarono la terra, come Leocrate, e se la batterono, e non abbandonarono ai nemici la terra madre e i templi, ma in pochi si lasciarono rinchiuder d’assedio e resistettero alla difesa della patria. Ma i re di allora, o Ateniesi, erano tanto nobili che preferivano morire per la salvezza dei sudditi piuttosto che trasferirsi a vivere in un’altra terra. Dicono dunque che, dopo aver esortato gli Ateniesi a badare all’attimo in
1 Leocrate: è un cittadino ateniese che dopo la sconfitta subita da Ateniesi e Tebani a Cheronea, nel momento di più grave pericolo per la città, se ne andò in volontario esilio lasciando a uomini appunto come Licurgo il compito di ricostruire lo stato e risollevare il morale
della città. Il suo gesto non infrangeva alcuna legge, ma quando ritornò cercando di non dare nell’occhio l’implacabile Licurgo lo accusò pubblicamente di tradimento con questa bellissima orazione piena di severità, indignazione e senso della storia.
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ὥστε προῃροῦντο ἀποθνῄσκειν ὑπὲρ τῆς τῶν ἀρχομένων σωτηρίας μᾶλλον ἢ ζῶντες ἑτέραν μεταλλάξαι τινὰ χώραν. Φασὶν γοῦν τὸν Κόδρον παραγγείλαντα τοῖς Ἀθηναίοις προσέχειν ὅταν τελευτήσῃ τὸν βίον, λαβόντα πτωχικὴν στολὴν ὅπως ἂν ἀπατήσῃ τοὺς πολεμίους, κατὰ τὰς πύλας ὑπεκδύντα φρύγανα συλλέγειν πρὸ τῆς πόλεως, προσελθόντων δ’ αὐτῷ δυοῖν ἀνδρῶν ἐκ τοῦ στρατοπέδου καὶ τὰ κατὰ τὴν πόλιν πυνθανομένων, τὸν ἕτερον αὐτῶν ἀποκτεῖναι τῷ δρεπάνῳ παίσαντα· τὸν δὲ περιλελειμμένον, παροξυνθέντα τῷ Κόδρῳ καὶ νομίσαντα πτωχὸν εἶναι, σπασάμενον τὸ ξίφος ἀποκτεῖναι τὸν Κόδρον. Τούτων δὲ γενομένων οἱ μὲν Ἀθηναῖοι κήρυκα πέμψαντες ἠξίουν δοῦναι τὸν οἱ μὲν Ἀθηναῖοι κήρυκα πέμψαντες ἠξίουν δοῦναι τὸν βασιλέα θάψαι, λέγοντες αὐτοῖς ἅπασαν τὴν ἀλήθειαν· οἱ δὲ Πελοποννήσιοι τοῦτον μὲν ἀπέδοσαν, γνόντες δ’ ὡς οὐκέτι δυνατὸν αὐτοῖς τὴν χώραν κατασχεῖν ἀπεχώρησαν. TERZA PARTE
cui finirebbe la sua vita, Codro indossò una veste servile per ingannare i nemici, e, sgusciato fuor dalle porte, si diede a raccoglier sarmenti davanti alle mura. Due dell’esercito l’avvicinarono e gli chiesero lo stato della città; e allora Codro s’avventò contro l’uno di essi e l’uccise con la falce. Il superstite, sdegnatosi con Codro e credendolo un pezzente, sguainò la spada e uccise Codro. Allora gli Ateniesi per mezzo di un araldo chiesero si desse loro il re per seppellirlo, rivelando ai nemici l’intera verità; e i Peloponnesii restituirono il cadavere, e, persuasi che non avrebbero potuto tener più oltre la terra, se ne partirono. (Traduzione di P. Treves, Signorelli 1934)
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Individua per quali caratteristiche l’oratore Licurgo rientra a pieno titolo nella teorizzazione con cui Quintiliano introduce il suo discorso sulla storia. Trovi che ci siano delle corrispondenze tra quanto sappiamo della biografia di Licurgo oratore (vedi l’introduzione al brano) e la scelta dell’argomento della sua digressione nell’orazione Contro Leocrate? Nel finale del passo che hai tradotto Quintiliano fa un apprezzamento sull’età tarda (ultima aetas). Quale? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Lo stile di Quintiliano è sostanzialmente fedele alla tradizione ciceroniana, con l’affioramento di qualche parziale e occasionale diversità. L’esperienza di Seneca non è comunque trascorsa invano. Rileggi il testo latino, osserva la proporzione tra coordinate e subordinate e la lunghezza dei periodi, ed esprimi le tue osservazioni. 3. Approfondimento e riflessioni personali La conoscenza della storia non è utile solo all’oratore ma anche a chi pratica altri generi letterari o determinate professioni apparentemente lontane dal settore umanistico. Facendo riferimento alle tue esperienze di studio e di vita e ad autonome tue letture esponi un giudizio sull’aiuto che la cultura storica è in grado di offrire agli uomini.
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Tema
L’importanza della filosofia PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Il passo va inquadrato in un tema molto dibattuto nella filosofia ellenistica: se sia da preferire la vita attiva, dedicata alla politica, o la vita contemplativa dedicata alla filosofia. Già Cicerone aveva discettato sull’argomento nel proemio del De republica oltre che nel perduto Hortensius. In un’altra epistola (ep. 68) Seneca sostiene che il problema non è da porsi come alternativa tra le due forme di esistenza attiva o contemplativa; ciò che conta è lo spirito con cui l’uomo opera la propria scelta e che ispira il suo comportamento. Chi ostenta il suo ritiro dalla vita pubblica e lo fa in modo che gli altri parlino di lui, come Servilio Vazia (ep. 55) appartatosi nella sua villa cumana, pecca di superbia non meno dell’uomo politico. Il ritiro del filosofo (secessus) non deve essere ostentazione, ma riflessione su se stessi per curare i mali dell’anima; esso è utile se si conduce una vita interiore attiva, onde l’importanza dello studio. La pratica filosofica per Seneca non è conciliabile con gli affari (occupationes), perché non può essere ridotta ai ritagli di tempo: se ci si comporta così, bisogna sempre ricominciare da capo. Nel finale del passo c’è un appello all’interiorità, la quale ha una funzione fondamentale nel pensiero del nostro filosofo. PRE-TESTO
Su certi argomenti potresti scrivere anche andando in calesse; altri richiedono un bel divano, tempo libero e raccoglimento. Nondimeno anche in queste giornate piene di affari qualche cosa devi pur fare e senza perdere un istante [....] Inoltre siamo noi a concederci dei rinvii: «non appena avrò condotto a termine questo, mi applicherò con tutta l’anima» e poi «se riuscirò a cavarmi da cotesto impiccio, mi darò alle cose dello spirito».
Seneca, Epistole a Lucilio, VIII 72, 3-4
Non cum vacaveris philosophandum est, sed ut philosopheris vacandum est: omnia alia neglegenda ut huic adsideamus, cui nullum tempus satis magnum est, etiam si a pueritia usque ad longissimos humani aevi terminos vita producitur. Non multum refert utrum omittas philosophiam an intermittas; non enim ubi interrupta est manet, sed eorum more quae intenta dissiliunt, usque ad initia sua recurrit, quod a continuatione discessit. Resistendum est occupationibus, nec explicandae sed summovendae sunt. Tempus quidem nullum est parum idoneum studio salutari; atqui multi inter illa non student propter quae studendum est. «Incidet aliquid quod impediat». Non quidem eum cuius animus in omni negotio laetus atque alacer est: imperfectis adhuc interscinditur laetitia, sapientis vero contexitur gaudium, nulla causa rumpitur, nulla fortuna: semper et ubique tranquillus est. Non enim ex alieno pendet nec favorem fortunae aut hominis exspectat. Domestica illi felicitas est; exiret ex animo, si intraret: ibi nascitur. POST-TESTO
Talvolta succede un avvenimento esterno che gli ricorda la sua condizione di essere mortale; ma è cosa di poco conto e che gli sfiora appena la pelle. Qualche pena, sì, può turbarlo: ma quel bene sommo sta saldo. Vi sono, dico, alcune molestie provenienti dall’esterno come talvolta in un corpo sano e vigoroso vengono fuori delle pustole e delle piccole ulcere, senza che nell’interno vi sia alcun male. (Traduzione di U. Boella, Utet 1969)
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SECONDA PARTE
LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Il De liberis educandis è un opuscolo tramandato nel corpus dei Moralia plutarchei ma in realtà di incerta attribuzione. Le ragioni per cui si dubita dell’autenticità di quest’opera sono essenzialmente tre: l’abbondanza di parole non usate altrove da Plutarco, il fatto che lo iato non sia sistematicamente evitato e la relativa brevità delle frasi rispetto all’ampiezza che esse hanno normalmente altrove. Il discorso svolto da Plutarco (o dallo Pseudo Plutarco che dir si voglia) in questo scritto, che tanto successo ebbe nell’Umanesimo, appare più tecnico, più concreto ma anche più superficiale rispetto alle riflessioni di Seneca. Probabilmente chi parla è un maestro che si rivolge ai padri (si intende di famiglia agiata) per dare consigli su come crescere i figli e farne delle persone serie e perbene.
Plutarco, L’educazione dei figli, 10,7cd
Δεῖ τοίνυν τὸν παῖδα τὸν ἐλεύθερον μηδενὸς μηδὲ τῶν ἄλλων τῶν καλουμένων ἐγκυκλίων παιδευμάτων μήτ’ ἀνήκοον μήτ’ ἀθέατον ἐᾶν εἶναι, ἀλλὰ ταῦτα μὲν ἐκ παραδρομῆς μαθεῖν ὡσπερεὶ γεύματος ἕνεκεν (ἐν ἅπασι γὰρ τὸ τέλειον ἀδύνατον), τὴν δὲ φιλοσοφίαν πρεσβεύειν. Ἔχω δὲ δι’ εἰκόνος παραστῆσαι τὴν ἐμαυτοῦ γνώμην· ὥσπερ γὰρ περιπλεῦσαι μὲν πολλὰς πόλεις καλόν, ἐνοικῆσαι δὲ τῇ κρατίστῃ χρήσιμον· ἀστείως δὲ καὶ Βίων ἔλεγεν ὁ φιλόσοφος ὅτι ὥσπερ οἱ μνηστῆρες τῇ Πηνελόπῃ πλησιάζειν μὴ δυνάμενοι ταῖς ταύτης ἐμίγνυντο θεραπαίναις, οὕτω καὶ οἱ φιλοσοφίας μὴ δυνάμενοι κατατυχεῖν ἐν τοῖς ἄλλοις παιδεύμασι τοῖς οὐδενὸς ἀξίοις ἑαυτοὺς κατασκελετεύουσι. Διὸ δεῖ τῆς ἄλλης παιδείας ὥσπερ κεφάλαιον ποιεῖν τὴν φιλοσοφίαν. Περὶ μὲν γὰρ τὴν τοῦ σώματος ἐπιμέλειαν διττὰς εὗρον ἐπιστήμας οἱ ἄνθρωποι, τὴν ἰατρικὴν καὶ τὴν γυμναστικήν, ὧν ἡ μὲν τὴν ὑγίειαν, ἡ δὲ τὴν εὐεξίαν ἐντίθησι. Τῶν δὲ τῆς ψυχῆς ἀρρωστημάτων καὶ παθῶν ἡ φιλοσοφία μόνη φάρμακόν ἐστι. Διὰ γὰρ ταύτην ἔστι καὶ μετὰ
Si deve dunque consentire a un ragazzo libero di ascoltare e conoscere anche tutte le altre discipline, che formano la cosiddetta educazione di base1: queste, comunque, le dovrà apprendere di corsa, limitandosi, per così dire, a un assaggio (raggiungere la perfezione in ogni campo è impossibile), e assegnando invece un ruolo preminente alla filosofia. Posso esemplificare la mia idea con un’immagine: è bello, viaggiando per mare, scendere a visitare molte città, ma utile è andare a risiedere in quella migliore. Argutamente anche il filosofo Bione [fr. 3 Kindstrand]2 osservava che come i pretendenti, non riuscendo a entrare in intimità con Penelope, se la facevano con le sue ancelle, così pure chi non è in grado di raggiungere la filosofia inaridisce nello studio delle altre discipline, che al confronto non valgono nulla. Perciò la filosofia deve costituire il coronamento dell’intero processo educativo. Per la cura del corpo gli uomini hanno escogitato due scienze, la medicina e la ginnastica, che assicurano rispettivamente la salute e la vigorìa. Il solo rimedio alle malattie e alle passioni dell’anima è dato, invece, dalla filosofia. Per essa e con essa è possibile capire in
1 La enkyklios paideia non corrisponde alla nostra “cultura enciclopedica”, ma equivale piuttosto a “cultura generale”, cioè un ciclo di conoscenze organizzato in forma di programma educativo; a partire dall’epoca ellenistica questa educazione comprendeva grammatica, retorica, dialettica, geometria, aritmetica, astronomia e musica. È il medesimo insieme di discipline di cui parla Quintiliano nell’Institutio oratoria. 2 Bione di Boristene nacque in realtà a Olbia sulla costa settentrionale del Mar Nero; visse probabilmente tra il 335 e il 245 a.C. Nella sua lunga vita ascoltò molti
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filosofi tra cui l’academico Cratete. È considerato un filosofo cinico: come tale egli scrisse “diatribe” cioè brevi disquisizioni di tono satirico o paradossale, come nel nostro caso. Più che un vero filosofo fu un sofista, che sia insegnava a una ristretta cerchia di allievi a pagamento sia, girando di città in città, inscenava piccole rappresentazioni del proprio pensiero su argomenti di varia utilità (crie). Fu molto intelligente tanto da guadagnarsi la stima e l’amicizia del re di Macedonia Antigono II Gònata, che lo assistette nella sua ultima malattia.
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12 ταύτης γνῶναι τί τὸ καλὸν τί τὸ αἰσχρόν, τί μετὰ ταύτης γνῶναι τί τὸ καλὸν τί τὸ αἰσχρόν, τί τὸ δίκαιον τί τὸ ἄδικον, τί τὸ συλλήβδην αἱρετόν, τί τὸ φευκτόν· TERZA PARTE
che cosa consistano il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, quello che, in breve, si deve ricercare o evitare. (Traduzione di G. Pisani, Bompiani 2017)
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione I due passi, pur iscrivendosi entrambi in una problematica educativa, trattano di aspetti diversi della vita intellettuale. In Plutarco si parla di un programma educativo, in Seneca si fa appello alla vita dello spirito. Figurano qui due idee abbastanza diverse di filosofia (e di studio in generale). Prova a descriverle. Lo scritto (pseudo) plutarcheo sostiene che la filosofia è la regina delle discipline. A quale episodio celebre della letteratura greca esso ricorre per illustrare il rapporto tra la filosofia e le altre materie di studio? Trovi un possibile nesso tra l’episodio desunto dalla letteratura greca cui accenna Bione e l’immagine del viaggio e della conoscenza di molte città? La concezione della filosofia come medicina dell’anima è presente in entrambi i passi. Ma con quale diversa efficacia? E che pensi dell’idea di Plutarco di ἐκ παραδρομῆς μαθεῖν le discipline diverse dalla filosofia? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione A proposito dello stile di Seneca, Quintiliano (X 1, 125) parla di corruptum et omnibus vitiis fractum dicendi genus, “stile corrotto e frantumato da ogni tipo di difetto”, per riconoscere però più avanti che i difetti sono dulcia, cioè seducenti. Partendo dalla lettura del passo latino ti sembra si possa confermare che il procedere del periodo spezzato è una caratteristica dello stile nuovo di Seneca? E quali sono i motivi alla base di questa svolta stilistica? Nota la frequenza dell’uso della perifrastica passiva che convoglia l’idea del dovere e della necessità. Individua le antitesi e spiega perché la figura retorica dell’antitesi corrisponde al modo di sentire di Seneca. Individua delle sententiae all’inizio e alla fine del passo. Che periodo ipotetico è quello finale exiret ... si intraret? 3. Approfondimento e riflessioni personali Alcune epistole di Seneca hanno la struttura e il respiro di piccoli trattati, per lo più su argomenti di filosofia morale; altre, più immediate e più brevi come quella di cui hai appena tradotto un brano, prendono spunto da episodi di vita vissuta e riflettono sul comportamento umano. In tutte si sente lo spirito inquieto del maestro che stabilisce una comunicazione profonda con il discepolo. Sai dire per quali motivi Seneca privilegia il genere dell’epistola filosofica? Condividi la sua convinzione che lo studio per essere efficace deve avere una continuità di applicazione?
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Il campo di Teutoburgo PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Breve drammatico racconto del ritrovamento da parte di Germanico del campo della battaglia di Teutoburgo (nell’attuale Westfalia, ma il sito esatto resta incerto): ossa biancheggianti, carcasse di animali, frammenti di armi e teschi infilzati sui tronchi; lì le tre legioni di P. Quintilio Varo – l’esercito migliore dell’epoca, a detta di Velleio Patercolo II 119, 2 – erano state intrappolate e alla fine annientate dai Cherusci guidati da Arminio nella tarda estate del 9 d.C. mentre marciavano dai quartieri d’estate a quelli d’inverno. Eppure Arminio, principe germanico, in precedenza aveva combattutto nell’esercito romano ricevendo per i suoi meriti la cittadinanza. Il suicidio di Varo ebbe luogo il quarto giorno dopo l’inizio della marcia. La disfatta romana segnò la fine dell’espansione in Germania: Augusto dopo Teutoburgo rinunciò alla Germania del nord e stabilì sul Reno anziché sull’Elba il confine tra impero romano e barbaricum. Tam diu Germania vincitur! scrive Tacito nel cap. XXXVII 2 della Germania cioè «da tanto tempo stiamo vincendo la Germania». In realtà il tono è sarcastico come per dire che non la si è domata per niente. L’episodio che stai per tradurre ebbe luogo a sei anni dal disastro. PRE-TESTO
Tutto il territorio che si estende tra i fiumi Amisia e Lupia fu devastato, non lungi dalla selva di Teutoburgo, dove si diceva che giacessero insepolti i resti di Varo e delle legioni. Un desiderio prende allora Cesare (Germanico) di rendere gli estremi onori ai soldati e al comandante, mentre tutto l’esercito presente si muove a pietà, pensoso dei parenti, amici morti, dei casi della guerra e della sorte umana.
Tacito, Annali, I 61
Praemisso Caecina1, ut occulta saltuum scrutaretur pontesque et aggeres umido paludum et fallacibus campis imponeret, incedunt maestos locos visuque ac memoria deformis. Prima Vari castra lato ambitu et dimensis principiis2 trium legionum manus ostentabant; dein semiruto vallo, humili fossa accisae iam reliquiae consedisse intellegebantur. Medio campi3 albentia ossa, ut fugerant, ut restiterant, disiecta vel aggerata. Adiacebant fragmina telorum equorumque artus, simul truncis arborum antefixa ora. Lucis propinquis barbarae arae, apud quas tribunos ac primorum ordinum centuriones mactaverant. Et cladis eius superstites, pugnam aut vincula elapsi, referebant hic cecidisse legatos, illic raptas aquilas; primum ubi vulnus Varo adactum, ubi infelici dextera et suo ictu mortem invenerit: quo tribunali contionatus Arminius4, quot patibula captivis, quae scrobes, utque signis et aquilis per superbiam inluserit.
1 Aulo Cecina era un ufficiale esperto che comandava l’esercito stanziato nella bassa Renania. 2 principia nel linguaggio militare è la parte centrale dell’accampamento, equivalente al nostro “quartier generale”. 3 medio campi: di norma si intende “nel mezzo della pianura” (sott. tra un accampamento e l’altro). Alcuni però, basandosi su un particolare uso di campus = “ac-
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campamento” in Ammiano Marcellino XXVII 6, 5, intendono che il culmine dello scontro fosse avvenuto nella spianata antistante l’accampamento dove gli ultimi superstiti si sarebbero arroccati per l’estrema resistenza. 4 Germanico, figlio di Druso fratello maggiore di Tiberio, sconfiggerà Arminio nel 15 d.C. nella piana di Idistaviso sulla riva destra del Weser vendicando il disastro della selva di Teutoburgo.
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E così l’esercito romano seppelliva le ossa di tre legioni a sei anni dalla strage; se coprivan di terra le reliquie di estranei o di parenti nessuno sapeva: credevano tutti di seppellire congiunti o consanguinei; e con la mestizia cresceva l’odio contro il nemico.
(Pre-testo e post-testo: traduzione di E. Cetrangolo, Sansoni 1988)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Dione Cassio, storico greco del III secolo d.C. dalla buona formazione culturale, visse a Roma dove oltre che avvocato fu politico di carriera entrando in senato. Fu autore di una voluminosa Storia romana in 80 libri (ce ne sono giunti 25, dal 36 al 60, oltre a un’epitome bizantina della seconda parte dell’opera). Agli occhi di un uomo proveniente come lui dal Mediterraneo (era nativo di Nicea, in Bitinia) la Germania si presenta come una vasta distesa di paludi e boschi, un vero e proprio regno della nebbia e del freddo. Dione dedica alla battaglia di Teutoburgo, che si svolse in più giorni, lunghi stralci del libro 56. Ti proponiamo il passo che descrive la prima imboscata e soprattutto i luoghi della strage.
Dione Cassio, Storia romana, LVI 20
Τά τε γὰρ ὄρη καὶ φαραγγώδη καὶ ἀνώμαλα καὶ τὰ δένδρα καὶ πυκνὰ καὶ ὑπερμήκη ἦν, ὥστε τοὺς Ῥωμαίους, καὶ πρὶν τοὺς πολεμίους σφίσι προσπεσεῖν, ἐκεῖνά τε τέμνοντας καὶ ὁδοποιοῦντας γεφυροῦντάς τε τὰ τούτου δεόμενα πονηθῆναι. Ἦγον δὲ καὶ ἁμάξας πολλὰς καὶ νωτοφόρα πολλὰ ὡς ἐν εἰρήνῃ· παῖδές τε οὐκ ὀλίγοι καὶ γυναῖκες ἥ τε ἄλλη θεραπεία συχνὴ αὐτοῖς συνείπετο, ὥστε καὶ κατὰ τοῦτ’ ἐσκεδασμένῃ τῇ ὁδοιπορίᾳ χρῆσθαι. Κἀν τούτῳ καὶ ὑετὸς καὶ ἄνεμος πολὺς ἐπιγενόμενοι ἔτι καὶ μᾶλλόν σφας διέσπειραν· τό τε ἔδαφος ὀλισθηρὸν περί τε ταῖς ῥίζαις καὶ περὶ τοῖς στελέχεσι γενόμενον σφαλερώτατα αὐτοὺς βαδίζειν ἐποίει, καὶ τὰ ἄκρα τῶν δένδρων καταθραυόμενα καὶ καταπίπτοντα διετάρασσεν. Ἐν τοιαύτῃ οὖν δή τινι ἀμηχανίᾳ τότε τῶν Ῥωμαίων ὄντων, οἱ βάρβαροι πανταχόθεν ἅμα αὐτοὺς ἐξαπιναίως δι’ αὐτῶν τῶν λοχμωδεστάτων, ἅτε καὶ ἔμπειροι τῶν τριμμῶν ὄντες, περιεστοιχίσαντο, καὶ τὸ μὲν πρῶτον πόρρωθεν ἔβαλλον, ἔπειτα δέ, ὡς ἠμύνετο μὲν οὐδεὶς ἐτιτρώσκοντο δὲ πολλοί, ὁμόσε αὐτοῖς ἐχώρησαν.
Le montagne presentavano un terreno sconnesso intervallato da rupi e le piante erano molto fitte e alte, cosicché i Romani, ancora prima che i nemici li assalissero, erano duramente impegnati nell’abbattimento della vegetazione, nello spianamento di sentieri e nella costruzione di ponti sui passaggi che lo richiedevano. Portavan con sé sia molti carri sia molte bestie da soma, come in tempo di pace; inoltre, avevano al loro seguito non pochi bambini, delle donne ed anche un cospicuo numero di schiavi, ulteriore ragione che li costringeva a procedere a gruppi separati qua e là. Nel frattempo si abbatterono su di loro anche una violenta pioggia e un forte vento che li dispersero ancora di più; il terreno, divenuto sdrucciolevole in prossimità delle radici e dei ceppi degli alberi, rendeva la loro avanzata molto precaria, mentre le cime degli alberi che si spezzavano e precipitavano a terra li gettavano nello scompiglio. Mentre i Romani, dunque, in quella circostanza si trovavano in una certa difficoltà, i barbari grazie alla loro ottima conoscenza dei sentieri battuti, all’improvviso li circondarono con un’azione coordinata, muovendosi attraverso i passaggi più impenetrabili della selva; in un primo momento li colpivano da lontano, ma successivamente, dal momento che nessuno si difendeva e molti venivano feriti, li assalirono. (Traduzione di A. Stroppa, BUR 1998)
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TERZA PARTE
LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Un campo di battaglia ritrovato a distanza di anni, e il racconto dell’inizio di un’imboscata che non si risolverà in un unico episodio, ma è destinata a ripetersi per altri giorni. Quali differenze intravvedi tra i due resoconti? Tacito si concentra sulle atrocità commesse dai Germani, e nel finale anche sulla sorte dei singoli soldati. In che modo? Dione Cassio insiste invece soprattutto sulla natura impervia e tempestosa, ma offre anch’egli dei particolari umani. Quali? Quale sarà stato lo stato d’animo dei superstiti che rivedevano i luoghi di quell’evento terribile? Mettendo insieme saltus di Tacito e ὄρη καὶ φαραγγώδη καὶ ἀνώμαλα di Dione che idea ti fai del luogo? pianura? montagna? o che altro? Considera che ci sono anche paludi (Tacito). 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Individua nel testo di Tacito alcune caratteristiche dello stile: un caso di variatio, le ellissi della preposizione in negli ablativi di luogo, aggettivi sostantivati seguiti da un partitivo. Dione Cassio scrive in uno stile colorito e vivace dando un certo movimento drammatico alla narrazione. Trovi dei punti di contatto tra il suo modo di rappresentare il paesaggio settentrionale e le concise pennellate di Tacito? 3. Approfondimento e riflessioni personali Lo storico non inventa i fatti. Il suo mestiere consiste nel raccogliere e interpretare fonti e documenti per ricostruire e comprendere avvenimenti del passato; se non ci sono documenti, non c’è storia. Tacito però è attento anche alla tradizione orale, e talvolta per gli anni a lui più vicini testimoni oculari gli riferiscono i particolari di alcuni avvenimenti sui quali lo storico si ripromette di scrivere. Nel caso della battaglia di Teutoburgo ci furono testimoni oculari? (Considera l’ultimo periodo del passo.) Hai incontrato nel corso dei tuoi studi altri casi di eventi storici rilevanti narrati sulla base di testimonianze personali? Dal punto di vista della storia dell’Europa che cosa potrebbe aver significato la rinuncia romana a conquistare la Germania del nord e in generale il territorio tra il Reno e l’Elba?
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Socrate e Seneca sulla ricchezza PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua latina Seneca fu spesso accusato di incoerenza per aver accumulato ricchezze contravvenendo al suo stesso pensiero: aliter loqueris, aliter vivis, “parli in un modo, ma vivi in un altro”. Negli anni in cui frequentava la corte di Nerone Seneca era un uomo ricco: possedeva varie tenute, giardini e ville, un’azienda agricola in Sabina, latifondi in Egitto. Ma quando si ritirò dalla politica intorno all’anno 62 restituì al principe molti dei suoi beni. Tacito racconta (Ann. XV 45,3) che quando un liberto incaricato da Nerone lo raggiunse in campagna col compito di avvelenarlo trovò un uomo dal tenore di vita modestissimo (persimplici victu), che si cibava di frutti selvatici (agrestibus pomis) e beveva acqua corrente; e l’avvelenamento fallì. Il dialogo De vita beata da cui è estratto il presente brano termina con una prosopopea: Socrate, con cui Seneca si identifica, si lancia in una memoria difensiva degna di un avvocato di grido, che ha i toni della diatriba ed è diretta contro chi accusa i filosofi di amare la ricchezza. E nella foga del discorso Socrate cade in un sorprendente anacronismo citando filosofi che vivranno dopo di lui. L’anacronismo è tale da appiattire completamente Socrate su Seneca, il quale per un attimo addirittura si dimentica di chi sta facendo parlare. PRE-TESTO
Ecco che Socrate, da quel carcere che egli, entrandoci, purificò e rese più rispettabile di ogni curia, proclama: « [...] Offrii io un tempo ad Aristofane materia di scherzi, tutta quella schiera di poeti comici effuse contro di me i propri sali avvelenati: la mia virtù fu messa in luce proprio da quei mezzi con cui veniva attaccata; alla virtù conviene essere portata in pubblico ed essere messa alla prova, e nessuno capisce di più quanto grande sia di coloro che ebbero percezione delle sue forze, provocandola: la durezza della pietra non è nota a nessuno più che a coloro che la colpiscono.
Seneca, La vita felice, 27, 3-5
Praebeo me non aliter quam rupes aliqua in vadoso mari destituta, quam fluctus non desinunt, undecumque moti sunt, verberare, nec ideo aut loco eam movent aut per tot aetates crebro incursu suo consumunt; assilite, facite impetum: ferendo vos vincam. In ea, quae firma et inexsuperabilia sunt, quicquid incurrit malo suo vim suam exercet: proinde quaerite aliquam mollem cedentemque materiam, in qua tela vestra figantur. Vobis autem vacat aliena scrutari mala et sententias ferre de quoquam: «Quare hic philosophus laxius habitat? Quare hic lautius cenat?» Papulas observatis alienas obsiti plurimis ulceribus? Hoc tale est quale si quis pulcherrimorum corporum naevos aut verrucas derideat, quem foeda scabies depascitur. Obicite1 Platoni2, quod petierit pecuniam, Aristoteli, quod acceperit, Democrito, quod neglexerit, Epicuro, quod consumpserit; mihi ipsi Alcibiadem et Phaedrum obiectate, o vos maxime felices cum primum vobis imitari vitia nostra contigerit! Quin potius mala vestra circumspicitis, quae vos ab omni parte confodiunt, alia grassantia extrinsecus, alia in visceribus ipsis ardentia? 1 obicite: “rinfacciate pure”. 2 Platoni: è un anacronismo perché qui Socrate parla di filosofi che vivranno dopo di lui, come Aristotele, Epicu-
ro e lo stesso Platone che, quando Socrate era in vita, non era ancora famoso.
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LINGUA E CULTURA LATINA - LINGUA E CULTURA GRECA POST-TESTO
Le faccende umane non sono al punto tale che (quand’anche troppo poco conosciate il vostro stato) voi abbiate tanto disimpegno disponibile, da aver buon tempo per agitare la lingua ad insultare chi è migliore di voi. (Traduzione di G. Viansino, Mondadori 1990)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte Il passo che ti sottoponiamo fa parte del primo dei tre discorsi in cui è articolata l’Apologia di Socrate ed è una vera autodifesa. Socrate proclama di aver agito sempre per disinteresse, invitando a esercitare la virtù e battendosi per la moralità della vita pubblica; ammette di aver anche trascurato i suoi affari domestici pur di salvaguardare l’interesse comune. Non dalla ricchezza nasce la virtù ma dalla virtù deriva ogni ricchezza.
Platone, Apologia di Socrate, 31bc
Οὐ γὰρ ἀνθρωπίνῳ ἔοικε τὸ ἐμὲ τῶν μὲν ἐμαυτοῦ πάντων ἠμεληκέναι καὶ ἀνέχεσθαι τῶν οἰκείων ἀμελουμένων τοσαῦτα ἤδη ἔτη, τὸ δὲ ὑμέτερον πράττειν ἀεί, ἰδίᾳ ἑκάστῳ προσιόντα ὥσπερ πατέρα ἢ ἀδελφὸν πρεσβύτερον πείθοντα ἐπιμελεῖσθαι ἀρετῆς. Καὶ εἰ μέν τι ἀπὸ τούτων ἀπέλαυον καὶ μισθὸν λαμβάνων ταῦτα παρεκελευόμην, εἶχον ἄν τινα λόγον· νῦν δὲ ὁρᾶτε δὴ καὶ αὐτοὶ ὅτι οἱ κατήγοροι τἆλλα πάντα ἀναισχύντως οὕτω κατηγοροῦντες τοῦτό γε οὐχ οἷοί τε ἐγένοντο ἀπαναισχυντῆσαι παρασχόμενοι μάρτυρα, ὡς ἐγώ ποτέ τινα ἢ ἐπραξάμην μισθὸν ἢ ᾔτησα. Ἱκανὸν γάρ, οἶμαι, ἐγὼ παρέχομαι τὸν μάρτυρα ὡς ἀληθῆ λέγω, τὴν πενίαν. Ἴσως ἂν οὖν δόξειεν ἄτοπον εἶναι, ὅτι δὴ ἐγὼ ἰδίᾳ μὲν ταῦτα συμβουλεύω περιιὼν καὶ πολυπραγμονῶ, δημοσίᾳ δὲ οὐ τολμῶ ἀναβαίνων εἰς τὸ πλῆθος τὸ ὑμέτερον συμβουλεύειν τῇ πόλει.
Non certo un motivo semplicemente umano può spiegar questa mia indifferenza di fronte a ogni personale interesse; questa mia sopportazione, quando lasciavo trascurata per tanti anni la mia famiglia; e d’altra parte la dedizione con cui mi sono occupato delle cose vostre, in ogni momento; quando m’accompagnavo a ciascuno di voi nell’intimità domestica, come fossi un padre o un fratello più anziano, e vi esortavo a coltivare e a esercitar la virtù. E se facendo ciò avessi avuto qualche vantaggio e ne avessi guadagnato una mercede, via, si capirebbe. Oggi invece, vedete voi stessi che gli accusatori pur hanno sfrontatamente detto ogni menzogna nelle loro accuse, ma su questo punto non hanno avuto la faccia tosta di produrre un solo testimonio che cioè io mi sono fatto dei soldi con questo mezzo o che ne ho richiesto qualche volta. Del resto su questo punto, posso addurre un testimonio indiscutibile: la mia povertà stessa. E forse potrà sembrare un fatto non poco strano codesto: nell’intimità della vostra vita m’affatico a dar consigli, e tanta pena mi dò a questo scopo; nella vita pubblica invece non mi decido mai, qui nell’Assemblea, a dare un consiglio alla mia patria. (Traduzione di E. Turolla, Rizzoli 1953)
TERZA PARTE
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Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente © Casa Editrice G. Principato SpA
14 organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Il Socrate senecano è un Socrate insolitamente indignato e aggressivo, un moralista che mette alla berlina chi per pura ingenerosità lo critica. Ma chi sono i suoi interlocutori? Sapresti dire perché dalle parole di Seneca è scomparso ogni riferimento alla “città”? Il Socrate platonico è un politico che riflette senza scomporsi e arriva a mettersi in discussione riconoscendo lui per primo i propri limiti. Alla fine della lettura dei due passi, puoi dire che ci troviamo di fronte a un solo Socrate, univoco, sovrapponibile, oppure il Socrate senecano è Socrate solo di nome? Discuti argomentando. Il passo di Platone tocca due problemi: il rapporto tra il filosofo e la ricchezza – e Socrate proclama orgogliosamente la sua πενία – ma anche, nel finale, il rapporto tra il συμβουλεύειν privato, di cui è generoso, e quello pubblico che egli nega alla città. Il passo di Seneca invece quali temi tocca? Ad esempio, a quale virtù allude il Socrate senecano con l’uso del verbo fero (ferendo vos vincam, riga 3)? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Seneca spesso ricorre a metafore con l’intento di visualizzare un concetto astratto che altrimenti sarebbe più difficile da captare per il suo interlocutore. Individua nel passo le metafore marinare e soprattutto quelle mediche, più insistite, riferite al corpo malato; e spiega queste immagini con parole tue. Individua una sententia cioè una frase che potrebbe vivere di vita propria anche fuori dal contesto, e analizzala dal punto di vista retorico. Ti ricorda massime simili che già conosci? Con quali parole Platone fa dire a Socrate che la sua condotta risulta irragionevole per i comuni mortali? πολυπραγμονῶ: individua l’etimologia di questo verbo. 3. Approfondimento e riflessioni personali Le ultime parole di Socrate furono: «O Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio; mi raccomando, dateglielo e non dimenticatevene». Qualche studioso ha ipotizzato che queste parole siano un ultimo pensiero rivolto alla propria famiglia: all’ultimo minuto il filosofo si ricorda di non aver ottemperato a un voto fatto ad Asclepio per la malattia di un suo familiare, la moglie Santippe o uno dei bambini. Adesso se ne ricorda e in questo modo vuole non solo adempiere a un obbligo personale, ma anche mostrare una volta di più che lui, condannato a morte per empietà, in realtà ubbidisce sempre e comunque alle Leggi della città. Riesci a trovare un possibile aggancio tra questa ipotesi e il passo di Platone nell’Apologia?
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Tema
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Un progetto educativo PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Il discorso Panatenaico può essere considerato una sorta di testamento spirituale di Isocrate. L’orazione fu composta negli anni fra il 342 e il 339 a.C., frutto di una lunga gestazione e di fasi di scrittura diverse e separate anche da lunghi intervalli di tempo, a causa della vecchiaia dell’autore (Isocrate iniziò l’opera quando aveva novantaquattro anni e la terminò che ne aveva novantasette!) e di una lunga e grave malattia che lo costrinse a interrompere il lavoro per tre anni. Per la città sono anni cruciali: siamo nel periodo in cui Atene è guidata da Demostene alla rottura della pace di Filocrate con la Macedonia e all’alleanza con Tebe, che avrebbe condotto nel 338 a.C. alla disfatta di Cheronea. Per il vecchio Isocrate la strada intrapresa da Atene rappresenta il fallimento della politica che egli ha per lunghissimi anni predicato e sostenuto. Il testo del Panatenaico si presenta di notevole complessità, proprio per la stratificazione della scrittura e a causa dei diversi stati d’animo, di abbattimento e sconforto e di rinnovato vigore, di cui l’oratore rende conto al suo pubblico. L’opera non è concepita per una specifica occasione declamatoria. Si tratta di un saggio di oratoria epidittica destinato alla scuola fondata da Isocrate ad Atene (in opposizione all’insegnamento sofistico e a quello filosofico dell’Accademia platonica). Leggiamo un brano tratto dalla prima sezione del discorso, l’exordium, in cui l’oratore coniuga l’esigenza di definire il soggetto del discorso (che consisterà sostanzialmente nell’elogio di Atene) con la difesa del proprio modello educativo. PRE-TESTO
La penso allo stesso modo anche di quelle persone che sanno parlare alla folla, e di quelle che sono famose per il fatto di scrivere discorsi, e insomma di quanti spiccano per conoscenze tecniche, scientifiche e per doti naturali. So infatti che la maggior parte di loro non sa amministrare bene il proprio patrimonio, e che negli incontri tra amici è insopportabile perché sottovaluta l’opinione dei concittadini ed è piena di innumerevoli e cospicui difetti. Tutti questi non ritengo dunque che possiedano l’habitus (ἕξις) di cui parlo.
Isocrate, Panatenaico, 30-32
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Τίνας οὖν καλῶ πεπαιδευμένους, ἐπειδὴ τὰς τέχνας καὶ τὰς ἐπιστήμας καὶ τὰς δυνάμεις ἀποδοκιμάζω; Πρῶτον μὲν τοὺς καλῶς χρωμένους τοῖς πράγμασι τοῖς κατὰ τὴν ἡμέραν ἑκάστην προσπίπτουσι, καὶ τὴν δόξαν ἐπιτυχῆ τῶν καιρῶν ἔχοντας καὶ δυναμένην ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ στοχάζεσθαι τοῦ συμφέροντος· ἔπειτα τοὺς πρεπόντως καὶ δικαίως ὁμιλοῦντας τοῖς ἀεὶ πλησιάζουσι, καὶ τὰς μὲν τῶν ἄλλων ἀηδίας καὶ βαρύτητας εὐκόλως καὶ ῥᾳδίως φέροντας, σφᾶς δ’ αὐτοὺς ὡς δυνατὸν ἐλαφροτάτους καὶ μετριωτάτους τοῖς συνοῦσι παρέχοντας· ἔτι τοὺς τῶν μὲν ἡδονῶν ἀεὶ κρατοῦντας, τῶν δὲ συμφορῶν μὴ λίαν ἡττωμένους, ἀεὶ κρατοῦντας, τῶν δὲ συμφορῶν μὴ λίαν ἡττωμένους, ἀλλ’ ἀνδρωδῶς ἐν αὐταῖς διακειμένους καὶ τῆς φύσεως ἀξίως ἧς μετέχοντες τυγχάνομεν· τέταρτον, ὅπερ μέγιστον, τοὺς μὴ διαφθειρομένους ὑπὸ τῶν εὐπραγιῶν μηδ’ ἐξισταμένους αὑτῶν μηδ’ ὑπερηφάνους γιγνομένους, ἀλλ’ ἐμμένοντας τῇ τάξει τῇ τῶν εὖ φρονούντων καὶ μὴ μᾶλλον χαίροντας τοῖς διὰ τύχην ὑπάρξασιν ἀγαθοῖς ἢ τοῖς διὰ τὴν αὑτῶν φύσιν καὶ φρόνησιν ἐξ ἀρχῆς γιγνομένοις. © Casa Editrice G. Principato SpA
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Ebbene, quelli che hanno un habitus spirituale che si accorda non con una sola, ma con tutte queste qualità, a mio parere sono uomini saggi, completi e forniti di ogni virtù.
(Pre-testo e post-testo: traduzione di C. Ghirga, BUR 1993)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Cicerone si dedicò alla scrittura del trattato De officiis alla fine dell’anno 44 a.C., nello stesso periodo in cui, dopo la morte di Cesare, componeva le orazioni Filippiche, contro Antonio, in un momento di massima tensione per la Repubblica. L’opera, che ha per oggetto l’etica, non ha la consueta forma dialogica tipica di altri scritti filosofici di Cicerone, ma si presenta come un trattato, rivolto al figlio Marco, in cui l’autore indica al destinatario e più in generale a una società in profonda crisi morale il proprio modello di vita, improntato agli ideali di humanitas e decorum, attraverso la discussione intorno all’onesto, l’utile e il possibile conflitto fra questi due valori. Cicerone riprende e amplia le riflessioni del filosofo stoico Panezio, che allo stesso argomento aveva dedicato un trattato Περὶ τοῦ καθήκοντος. Lo sforzo intellettuale di Cicerone, nel trattare la filosofia, consiste, oltre che nel tentativo di conciliare dottrine diverse con il modello etico romano, anche nel lavoro di traduzione del lessico specifico greco nella lingua latina. Nel passo che riportiamo Cicerone definisce le quattro virtù platoniche da cui discende, secondo Cicerone, il concetto di honestum e illustra i doveri loro connessi.
Cicerone, Sui doveri, I 15
Formam quidem ipsam, Marce fili, et tamquam faciem honesti vides, «quae si oculis cerneretur, mirabiles amores – ut ait Plato – excitaret sapientiae». Sed omne, quod est honestum, id quattuor partium oritur ex aliqua. Aut enim in perspicientia veri sollertiaque versatur aut in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique et rerum contractarum fide aut in animi excelsi atque invicti magnitudine ac robore aut in omnium, quae fiunt quaeque dicuntur ordine et modo, in quo inest modestia et temperantia. Quae quattuor quamquam inter se colligata atque implicata sunt, tamen ex singulis certa officiorum genera nascuntur, velut ex ea parte, quae prima discripta est, in qua sapientiam et prudentiam ponimus, inest indagatio atque inventio veri, eiusque virtutis hoc munus est proprium.
Eccoti, o Marco, figlio mio, la forma ideale e, per così dire, la figura dell’onesto, «che – come dice Platone – se la si scorgesse coi nostri occhi, accenderebbe in noi uno straordinario amore per la sapienza». Ma tutto ciò che è onesto origina da una di queste quattro fonti. O consiste nella perfetta e sagace conoscenza del vero; o nel rispetto delle relazioni sociali con gli altri uomini, tributando a ciascuno il suo e rispettando lealmente i patti; o nella grandezza e nella fortezza di uno spirito elevato e invitto; o, infine, nell’ordine e nella misura di tutte le nostre azioni e di tutte le nostre parole, qualità che coincidono con la moderazione e la temperanza. E sebbene queste quattro virtù siano fra di loro saldamente connesse, tuttavia da ciascuna di esse nascono determinate categorie di doveri, come – per esempio – nella prima delle virtù che ho descritto, quella nella quale riponiamo la sapienza e la saggezza, risiedono l’indagine e la scoperta del vero e in ciò consiste il dovere proprio di tale virtù (Traduzione di R. Capel Badino)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento © Casa Editrice G. Principato SpA
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Tema
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Isocrate enuclea quattro virtù che egli considera proprie del buon oratore e del buon cittadino, obiettivo del suo progetto educativo, che, in concorrenza con i metodi e i fini della scuola platonica, si contrappone all’atteggiamento meramente utilitaristico dei sofisti e al loro insegnamento dell’oratoria come pura tecnica, finalizzata al prevalere nel dibattito, indifferente all’etica. L’idea di Isocrate è più ampia e investe la formazione dell’oratore come buon cittadino e come uomo. Anche Cicerone nel De officiis propone un ideale morale elevato. Rivolgendosi al figlio Marco (il quale nella realtà non corrispondeva certo alle alte aspettative paterne), Cicerone avvia lungo un percorso di formazione culturale e spirituale e delinea l’obiettivo di formare l’uomo e il cittadino romano in modo conforme alle virtù che concorrono a costituire l’idea di honestum, al centro del suo discorso etico. Nel passo riportato, rifacendosi alla tradizione platonica e aristotelica, Cicerone categorizza quattro virtù, che in parte corrispondono a quelle individuate da Isocrate. D’altra parte, poiché Isocrate coscientemente mirava a differenziare la propria proposta educativa da quella di Platone, è inevitabile riscontare anche differenze nel modo di definire ciascuna delle virtù fra la classificazione isocratea e quella ciceroniana (di matrice platonica). Confronta le due classificazioni. Quali sono le virtù individuate da Isocrate? Quali quelle classificate da Cicerone? Quali analogie e quali differenze si possono riconoscere? Segui la guida qui sotto per aiutarti nell’analisi. Entrambi gli autori individuano virtù connesse con questi ambiti (non necessariamente nello stesso ordine): 1. conoscenza; 2. rapporti sociali; 3. saldezza d’animo; 4. misura. 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione La struttura dei due testi è molto simile, essendo entrambi impostati sull’elenco e l’enumerazione, che aiutano il lettore a schematizzare il ragionamento. Si possono osservare alcune differenze nelle scelte linguistiche. Il linguaggio di Isocrate sembra meno diretto, ma più attento a cogliere le sfumature. Per definire le virtù ricorre costantemente a uno specifico costrutto grammaticale (modo verbale): quale? In Cicerone prevalgono invece i sostantivi astratti e le definizioni puntuali. Lo sforzo linguistico di Cicerone non deve essere sottovalutato: l’autore mira a introdurre nella lingua latina il rigore e la precisione tipici del linguaggio filosofico greco. Trova la corrispondenza fra le definizioni di Cicerone e i seguenti quattro sostantivi greci: 1. σοφία, 2. δίκη, 3. ἀνδρεία, 4. σωφροσύνη. 3. Approfondimento e riflessioni personali Soffermandoci sulle qualità relative alle facoltà intellettuali e alla conoscenza, notiamo una notevole distanza fra Isocrate e Cicerone, laddove l’uno imposta il discorso intorno alle parole δόξα e συμφέρον, mentre l’altro indica nel verum la meta della tensione umana a conoscere. Tale differenza sottende la polemica fra Isocrate e Platone (al quale si richiama Cicerone nella sua classificazione). Rispondi in sintesi a uno dei seguenti quesiti: 1. In base alle tue conoscenze e alle tue letture, illustra la polemica Isocrate-Platone. 2. Utile o verità? Quale valore è più importante in una società?
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La naturale dissoluzione di una repubblica PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Il VI libro delle Storie di Polibio interrompe l’esposizione degli avvenimenti della storia romana per affrontare il tema della teoria delle costituzioni politiche, i generi di costituzioni, le loro caratteristiche, e soprattutto le cause della loro degenerazione. L’analisi di Polibio mira alla trattazione delle strutture dello stato romano (che l’autore, greco a Roma, conosceva da vicino), indicato come esempio di quella μικτὴ πολιτεία, che, attraverso un delicato bilanciamento di poteri, costituisce il fondamento della stabilità e dell’impero di Roma. Il passo che segue sembra incrinare il disegno tracciato nei capitoli precedenti, insinuando l’idea dell’inevitabile mutamento e dissoluzione anche dello stato romano, forse frutto di una più matura riflessione in seguito ai drammatici eventi del movimento graccano (preludio della rivoluzione romana e delle guerre civili). PRE-TESTO
Che in tutte le cose esistenti sia insito il germe della distruzione e del mutamento, quasi non serve nemmeno dirlo: la necessità naturale è sufficiente a garantire un simile convincimento. Due sono i modi secondo i quali naturalmente degenera ogni tipo di costituzione, l’uno di origine esterna1, l’altro interna. Quello esterno segue principi non stabiliti, quello invece che nasce dall’interno dei regimi politici stessi si conforma a una teoria determinata. Abbiamo già detto precedentemente quale genere di costituzione nasca per primo e quale per secondo, e come l’uno si trasformi nell’altro, sicché chi è capace di collegare gli inizi del presente discorso con la sua conclusione potrebbe già anticipare il futuro.
Polibio, Storie, VI 57
Ἔστι δ’, ὡς ἐγᾦμαι, δῆλον, ὅταν γὰρ πολλοὺς καὶ μεγάλους κινδύνους διωσαμένη πολιτεία μετὰ ταῦτα εἰς ὑπεροχὴν καὶ δυναστείαν ἀδήριτον ἀφίκηται, φανερὸν ὡς εἰσοικιζομένης εἰς αὐτὴν ἐπὶ πολὺ τῆς εὐδαιμονίας συμβαίνει τοὺς μὲν βίους γίνεσθαι πολυτελεστέρους, τοὺς δ’ ἄνδρας φιλονεικοτέρους τοῦ δέοντος περί τε τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἄλλας ἐπιβολάς. Ὧν προβαινόντων ἐπὶ πλέον ἄρξει μὲν τῆς ἐπὶ τὸ χεῖρον μεταβολῆς ἡ φιλαρχία καὶ τὸ τῆς ἀδοξίας ὄνειδος, πρὸς δὲ τούτοις ἡ περὶ τοὺς βίους ἀλαζονεία καὶ πολυτέλεια, λήψεται δὲ τὴν ἐπιγραφὴν τῆς μεταβολῆς ὁ δῆμος, ὅταν ὑφ’ ὧν μὲν ἀδικεῖσθαι δόξῃ διὰ τὴν πλεονεξίαν, ὑφ’ ὧν δὲ χαυνωθῇ κολακευόμενος διὰ τὴν φιλαρχίαν. Τότε γὰρ ἐξοργισθεὶς καὶ θυμῷ πάντα βουλευόμενος οὐκέτι θελήσει πειθαρχεῖν οὐδ’ ἴσον ἔχειν τοῖς προεστῶσιν, ἀλλὰ πᾶν καὶ τὸ πλεῖστον αὐτός. Οὗ γενομένου τῶν μὲν ὀνομάτων τὸ κάλλιστον ἡ πολιτεία μεταλήψεται, τὴν ἐλευθερίαν καὶ δημοκρατίαν, τῶν δὲ πραγμάτων τὸ χείριστον, τὴν ὀχλοκρατίαν.
1 Polibio si riferisce a fattori esterni alle istituzioni politiche che possono portare alla dissoluzione di uno stato: guerre, cataclismi naturali, ecc. Tali fenome-
ni, sottoposti al dominio del caso (τύχη) esulano dalla possibilità dello storico di analizzarli dal punto di vista politico.
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Dopo aver trattato la formazione e la crescita di questo stato e, ancora, la sua fase culminante e la sua condizione, e inoltre diversità di ciò che lo contraddistingue in peggio o in meglio rispetto agli altri, possiamo così concludere il nostro discorso sulla costituzione. (Pre-testo e post-testo: traduzione di R. Capel Badino)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Nel proemio della sua monumentale opera, Livio guarda ai modelli della tradizione storiografica, a Tucidide soprattutto, che nella sezione proemiale della Guerra del Peloponneso aveva delineato metodi e funzione dell’indagine e dell’esposizione storica. Livio affida al proprio proemio soprattutto lo scopo di manifesto programmatico di un impegno morale e politico, nel segno della formazione etica della cittadinanza. Lo sguardo al passato vuole essere non una distrazione, ma una cura rispetto al male del presente (si ricordi che nel passato prossimo Livio ha conosciuto le guerre civili) e ai rimedi insufficienti e inadeguati che, a suo giudizio, ha messo in campo Augusto con la sua azione riformatrice. A un passato remoto idealizzato ed esemplare, Livio contrappone un presente corrotto, secondo una visione pessimistica del procedere storico.
Livio, Storie, Proemio
Ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint, per quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit; labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec ad haec tempora quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus perventum est. Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites. Ceterum aut me amor negotii suscepti fallit, aut nulla unquam res publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit, nec in quam civitatem tam serae avaritia luxuriaque immigraverint, nec ubi tantus ac tam diu paupertati ac parsimoniae honos fuerit: adeo quanto rerum minus, tanto minus cupiditatis erat. Nuper divitiae avaritiam et abundantes voluptates desiderium per luxum atque libidinem pereundi perdendique omnia invexere.
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A questo piuttosto vorrei che ciascuno guardasse con grande attenzione, con quale genere di vita e quali costumi, con quali uomini e quali virtù in pace e in guerra sia stato creato e ingrandito l’impero; e più innanzi vorrei che mi seguisse con l’animo, per vedere come venendo meno a poco a poco la disciplina morale i costumi dapprima si siano rilassati, poi sempre più siano discesi in basso, ed infine abbiano preso a cadere a precipizio, finché si è giunti a questi tempi, in cui non siamo più in grado di sopportare né i nostri vizi né i rimedi. Questo soprattutto è utile e salutare nello studio della storia, l’avere davanti agli occhi esempi di ogni genere testimoniati da un’illustre tradizione: di qui potrai prendere ciò che devi imitare per il bene tuo e del tuo stato, di qui ciò che devi evitare, perché turpe nei moventi e negli effetti. D’altra parte, se non mi trae in inganno l’amore per l’opera intrapresa, nessun popolo mai fu più grande e più virtuoso o più ricco di buoni esempi, né vi fu città in cui così tardi siano penetrati l’avidità e il lusso, né dove così grande e durevole onore sia stato reso alla povertà e alla semplicità di vita: come è vero che quanto minori erano le ricchezze, tanto minore era la cupidigia. Recentemente invece le ricchezze hanno trascinato con sé l’avidità, e i soverchi piaceri hanno condotto alla bramosia di rovinarsi e di rovinare ogni cosa tra il lusso e le libidini. (Traduzione di L. Perelli)
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16 TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Nonostante che i due autori, Polibio e Livio, nei due testi qui presentati appaiano accomunati da una medesima prospettiva pessimistica sul divenire storico, risultano distanti nell’approccio alla riflessione metastorica e riguardo alla funzione che attribuiscono all’opera storiografica. Quale dei due autori sembra maggiormente influenzato dal linguaggio filosofico e perché? Quale funzione ciascuno dei due attribuisce all’opera storiografica rispetto all’agire politico? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Sia Polibio sia Livio giudicano che uno dei fattori della decadenza dello stato consista nella progressiva mutazione e rilassatezza dei costumi, come evidenzia la ricorrenza di un medesimo lessico moralistico. Confronta il lessico politico dei due autori e rintraccia i termini che in ciascuno indicano i vizi che corrompono lo stato, riconoscendo le corrispondenze. 3. Approfondimento e riflessioni personali Il brano tratto dalle Storie di Polibio costituisce, già nel II sec. a.C., una riflessione pessimistica intorno al processo di progressiva degenerazione dello stato romano – che per Livio sarebbe culminato con il principato e la corrispondente perdita della libertas repubblicana –, e al contempo offre una critica radicale alla democrazia (τῶν ὀνομάτων τὸ κάλλιστον), destinato a mutarsi nella peggiore realtà politica, l’oclocrazia. Si rifletta in alternativa intorno a uno dei temi seguenti, con opportuni riferimenti ad autori e testi affrontati nel corso degli studi: 1. le cause della fine della repubblica romana; 2. i limiti e le degenerazioni della democrazia.
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Presagi prima della battaglia di Leuttra PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Nel 382 a.C. Sparta aveva imposto a Tebe un governo oligarchico, ma nel 379-378 il regime venne rovesciato da un gruppo di esuli ritornati di nascosto in patria, che restaurarono la democrazia. Seguirono alcuni anni di guerra fra Tebe, con alleata Atene, in una prima fase, e Sparta, che culminarono nella battaglia di Leuttra, il 6 luglio del 371 a.C. Nel passo riportato dalle Elleniche di Senofonte, lo storico ci porta al momento in cui i due eserciti si schierano l’uno di fronte all’altro nei pressi della piccola località della Beozia. Cleombroto, uno dei due re di Sparta, che ha condotto l’esercito lacedemonio in Beozia, è sollecitato ad attaccare battaglia. Anche fra i capi tebani nasce un dibattito e si valuta sull’opportunità di combattere in campo aperto. Alcuni eventi apparentemente prodigiosi e inspiegabili contribuiscono a far prendere una decisione e sembrano indicare da che parte penderà la fortuna. PRE-TESTO
Compiuta questa operazione, il re di Sparta Cleombroto si inoltrò nel paese, allontanandosi dalla costa, e andò a porre l’accampamento a Leuttra, sul territorio di Tespie. I Tebani si accamparono sulla collina di fronte, a non molta distanza; loro unici alleati erano i Beoti. Qui Cleombroto ricevette la visita degli amici, venuti a esporgli il seguente discorso: «Cleombroto, se lascerai andare i Tebani senza ingaggiare battaglia, la città non ti risparmierà la peggiore delle punizioni. Pertanto, se ti preoccupi dei tuoi interessi e desideri rivedere la patria, devi marciare contro quegli uomini». Naturalmente, in seguito a questi discorsi Cleombroto si sentiva impeganto al combattimento.
Senofonte, Elleniche, IV 6-8
Τῶν δ’ αὖ Θηβαίων οἱ προεστῶτες ἐλογίζοντο ὡς εἰ μὴ μαχοῖντο, ἀποστήσοιντο μὲν αἱ περιοικίδες αὐτῶν πόλεις, αὐτοὶ δὲ πολιορκήσοιντο· εἰ δὲ μὴ ἕξοι ὁ δῆμος ὁ Θηβαίων τἀπιτήδεια, ὅτι κινδυνεύσοι καὶ ἡ πόλις αὐτοῖς ἐναντία γενέσθαι. Ἅτε δὲ καὶ πεφευγότες πρόσθεν πολλοὶ αὐτῶν ἐλογίζοντο κρεῖττον εἶναι μαχομένους ἀποθνῄσκειν ἢ πάλιν φεύγειν. Πρὸς δὲ τούτοις παρεθάρρυνε μέν τι αὐτοὺς καὶ ὁ χρησμὸς ὁ λεγόμενος ὡς δέοι ἐνταῦθα Λακεδαιμονίους ἡττηθῆναι ἔνθα τὸ τῶν παρθένων ἦν μνῆμα, αἳ λέγονται διὰ τὸ βιασθῆναι ὑπὸ Λακεδαιμονίων τινῶν ἀποκτεῖναι ἑαυτάς. Καὶ ἐκόσμησαν δὴ τοῦτο τὸ μνῆμα οἱ Θηβαῖοι πρὸ τῆς μάχης. Ἀπηγγέλλετο δὲ καὶ ἐκ τῆς πόλεως αὐτοῖς ὡς οἵ τε νεῲ πάντες αὐτόματοι ἀνεῴγοντο, αἵ τε ἱέρειαι λέγοιεν ὡς νίκην οἱ θεοὶ φαίνοιεν. Ἐκ δὲ τοῦ Ἡρακλείου καὶ τὰ ὅπλα ἔφασαν ἀφανῆ εἶναι, ὡς τοῦ Ἡρακλέους εἰς τὴν μάχην ἐξωρμημένου. Οἱ μὲν δή τινες λέγουσιν ὡς ταῦτα πάντα τεχνάσματα ἦν τῶν προεστηκότων. Εἰς δ’ οὖν τὴν μάχην τοῖς μὲν Λακεδαιμονίοις πάντα ἐναντία ἐγίγνετο, τοῖς δὲ πάντα καὶ ὑπὸ τῆς τύχης κατωρθοῦτο. POST-TESTO
Cleombroto tenne il suo ultimo consiglio di guerra dopo la colazione del mattino e, poiché i membri del consiglio avevano ecceduto nel vino, correva voce che fossero alquanto eccitati. (Pre-testo e post-testo: traduzione di G. Daverio Rocchi, BUR 2002)
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17 SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Il dialogo De divinatione, che si svolge fra Cicerone e il fratello Quinto nella villa di Tuscolo, è inteso come una sorta di supplemento al De natura deorum. Insieme queste due opere costituiscono la summa del pensiero teologico di Cicerone. Cicerone dimostra una certa spregiudicatezza, tipica del suo approccio eclettico alla filosofia e della sua sostanziale adesione al probabilismo accademico, nel confrontare teorie religiose diverse, fra quelle elaborate dalle varie scuole filosofiche greche che si sono espresse sul tema. Nel dialogo si contrappongono i punti di vista di Quinto, che argomenta a favore della divinazione, come capacità di conoscere in anticipo e di predire avvenimenti futuri, sulla base delle dottrine stoiche, dimostrando una fede talvolta irrazionale per i racconti di presagi, profezie, oracoli, sogni, e quello laico e disincantato di Cicerone.
Cicerone, Della divinazione, I 34
Quid? Lacedaemoniis paulo ante Leuctricam calamitatem quae significatio facta est, cum in Herculis fano arma sonuerunt Herculisque simulacrum multo sudore manavit! At eodem tempore Thebis, ut ait Callisthenes, in templo Herculis valvae clausae repagulis subito se ipsae aperuerunt, armaque, quae fixa in parietibus fuerant, ea sunt humi inventa. Cumque eodem tempore apud Lebadiam Trophonio res divina fieret, gallos gallinaceos in eo loco sic adsidue canere coepisse, ut nihil intermitterent; tum augures dixisse Boeotios Thebanorum esse victoriam, propterea quod avis illa victa siliere soleret, canere, si vicisset. Eademque tempestate multis signis Lacedaemoniis Leuctricae pugnae calamitas denuntiabatur. Namque et in Lysandri, qui Lacedaemoniorum clarissumus fuerat, statua, quae Delphis stabat, in capite corona subito exstitit ex asperis herbis et agrestibus, stellaeque aureae quae Delphis erant a Lacedaemoniis positae post navalem illam victoriam Lysandri qua Athenienses conciderunt, qua in pugna quia Castor et Pollux cum Lacedaemoniorum classe visi esse dicebantur, – eorum insignia deorum, stellae aureae, quas dixi, Delphis positae, paulo ante Leuctricam pugnam deciderunt neque repertae sunt. Maximum vero illud portentum isdem Spartiatis fuit, quod, cum oraculum ab Iove Dodonaeo petivissent de victoria sciscitantes legatique vas illud in quo inerant sortes collocavissent, simia, quam rex Molossorum in deliciis habebat, et sortes ipsas et cetera quae erant ad sortem parata disturbavit et aliud alio dissupavit. Tum ea, quae praeposita erat oraclo,
E che? Quale avvertimento fu rivolto agli Spartani poco prima della disfatta di Leuttra, quando nel tempio di Ercole risuonarono le armi e la statua cultuale dell’eroe fu vista sudare! Nella stessa occasione, a Tebe, come dice Callistene, nel tempio di Ercole le porte che erano sbarrate all’improvviso da sole si spalancarono e le armi che normalmente si trovavano appese alle pareti furono rinvenute a terra. E sempre nella medesima circostanza, a Lebadea, mentre si svolgeva un rito in onore di Trofonio, si dice che i galli in tutto il paese cominciarono a cantare così assiduamente da non interrompersi mai. Allora gli auguri beoti dissero che la vittoria sarebbe toccata ai Tebani, poiché quell’uccello è solito tacere quando è sconfitto, mentre canta quando vince. Ancora nel tempo della battaglia di Leuttra, molti segni avvertivano gli Spartani della sconfitta che avrebbero subito. Una corona di erbe amare e selvatiche apparve a Delfi in capo alla statua di Lisandro, che era stato il più eminente degli Spartani; inoltre le stelle d’oro che gli Spartani avevano dedicato a Delfi dopo la vittoria navale di Lisandro sugli Ateniesi (poiché si raccontava che in quella battaglia Castore e Polluce erano apparsi insieme alla flotta spartana)1, ebbene quelle stelle d’oro, simboli delle divinità, che erano state dedicate a Delfi, come ho detto, poco prima della battaglia di Leuttra caddero e non furono mai più ritrovate. Ma il prodigio più grande ricevuto dagli Spartani fu questo: quando inviarono a Dodona una delegazione a interrogare l’oracolo di Giove sull’esito della battaglia e già gli ambasciatori avevano collocato il recipiente che conteneva
1 Si fa riferimento alla battaglia di Egospotami (405 a.C.), in cui Lisandro sconfisse la flotta ateniese.
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sacerdos dixisse dicitur de salute Lacedaemoniis esse, non de victoria cogitandum.
le sorti2, una scimmia, che il re dei Molossi3 teneva per proprio diletto, scompigliò ogni cosa, le sorti e gli oggetti che erano stati disposti per l’estrazione, sparpagliando tutto qua e là. Allora, a quanto si racconta, la sacerdotessa che era preposta all’oracolo disse che gli Spartani non dovevano pensare alla vittoria, ma alla sopravvivenza. (Traduzione di R. Capel Badino)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Il testo di Senofonte presenta i termini di un dibattito interno al campo tebano per valutare sull’opportunità di dare battaglia a Leuttra. Ad argomenti di ordine politico si sommano i presagi. Quali sono le valutazioni politiche che farebbero propendere i capi dei Tebani per la battaglia? In che modo, secondo Senofonte, profezie ed eventi prodigiosi rafforzano gli argomenti a favore dello scontro in campo aperto? Si tratta solo di fede irrazionale nei segni premonitori da parte di Senofonte o l’autore dimostra di saper considerare anche gli elementi psicologici come fattori determinanti dei fenomeni storici? Nel De divinatione Cicerone attinge a fonti molteplici e offre un quadro molto più ricco e curioso dei presagi avanti la battaglia. Evidenzia i tratti comuni e le differenze del catalogo di prodigi di Cicerone rispetto al racconto senofonteo. 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Senofonte è normalmente incline a devozione e rispetto di credenze e riti religiosi, come dimostrano i frequenti riferimenti a oracoli, sogni premonitori e sacrifici (tipicamente nell’Anabasi). In questo caso – secondo te – lo storico accredita l’interpretazione religiosa dei segni prodigiosi o insinua qualche dubbio nel lettore? Da che cosa comprendiamo l’atteggiamento dello storico? È possibile che le ambiguità di Senofonte abbiano a che fare anche con le sue simpatie politiche filospartane? Vedi una diversità di trattamento fra i due campi anche in qualche altro aspetto del racconto? Per quanto riguarda invece il De divinatione, ritieni che l’approccio alla mantica sia razionale e laico o piuttosto acritico? Si tratta di un atteggiamento condiviso dall’autore? 3. Approfondimento e riflessioni personali A partire dai brani che hai letto approfondisci sinteticamente uno di questi due temi a tua scelta: 1. il rapporto di Senofonte e più in generale della storiografia con l’elemento religioso; 2. religione e politica nel mondo greco-romano. 2 Nel santuario di Zeus a Dodona in Epiro, una delle più antiche sedi oracolari della Grecia, menzionata anche da Omero, si praticava la mantica attraverso metodi diversi. La tradizione ne descrive addirittura sette, dall’interpretazione di segni naturali (come il suono delle fronde di una quercia sacra o il gong prodotto dal pas-
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saggio del vento fra calderoni di bronzo) a metodi di divinazione estatica, fino all’estrazione di responsi scritti su laminette di bronzo, come attesta qui Cicerone. 3 Fra il 410 e il 385 a.C. il santuario di Dodona fu sottoposto al controllo del regno dei Molossi (Epiro).
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Epaminonda a Mantinea PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Con il racconto della battaglia di Mantinea (362 a.C.) si chiudono le Elleniche di Senofonte e convenzionalmente si fa terminare il periodo della cosiddetta egemonia tebana sulla Grecia. Mantinea è una località del Peloponneso contro la quale, a causa della sua ribellione, Epaminonda aveva mosso un attacco con un gran dispiegamento di forze tebane e alleate. In soccorso di Mantinea assediata erano giunti aiuti da Sparta e Atene e dai loro alleati peloponnesiaci Arcadi ed Elei. Epaminonda dapprima pensa, approfittando del dislocamento delle forze militari lacedemonie a Mantinea, di rivolgere a sorpresa l’attacco a Sparta stessa, ma il re Archidamo, avvertito per tempo, era riuscito a organizzare la difesa della città e a costringere Epaminonda a ritirarsi a Tegea. Qui Epaminonda deve ora decidere se affrontare i nemici in campo aperto. In gioco c’è il prestigio di Tebe come potenza panellenica. Prima di passare al racconto dello svolgimento della battaglia, Senofonte ricorda, con un certo orgoglio di corpo, lo scontro fra la cavalleria tebana e quella ateniese, in cui prevalse quest’ultima, al costo tuttavia della vita di «valorosi uomini». Fra costoro era forse anche il figlio dello storico, Grillo. L’analisi introspettiva dei moventi che condussero il generale tebano allo scontro campale, è l’occasione di una riflessione sulle virtù morali e militari di Epaminonda. PRE-TESTO
Non appena avvistarono i nemici, mossero all’attacco spinti dal desiderio di riaffermare la gloria degli antenati. Combattendo, riuscirono a fare in modo che tutto ciò che si trovava fuori fosse salvo per i Mantinei, ma tra loro persero uomini valorosi. Da entrambe le parti nessuna arma fu abbastanza corta da impedire di colpirsi a vicenda. Non abbandonarono sul campo i cadaveri dei loro e a seguito di una tregua restituirono alcuni dei nemici.
Senofonte, Elleniche, VII 5, 18-19
Ὁ δ’ αὖ Ἐπαμεινώνδας, ἐνθυμούμενος ὅτι ὀλίγων μὲν ἡμερῶν ἀνάγκη ἔσοιτο ἀπιέναι διὰ τὸ ἐξήκειν τῇ στρατείᾳ τὸν χρόνον, εἰ δὲ καταλείψοι ἐρήμους οἷς ἦλθε σύμμαχος, ἐκεῖνοι πολιορκήσοιντο ὑπὸ τῶν ἀντιπάλων, αὐτὸς δὲ λελυμασμένος τῇ ἑαυτοῦ δόξῃ παντάπασιν ἔσοιτο, ἡττημένος μὲν ἐν Λακεδαίμονι σὺν πολλῷ ὁπλιτικῷ ὑπ’ ὀλίγων, ἡττημένος δὲ ἐν Μαντινείᾳ ἱππομαχίᾳ, αἴτιος δὲ γεγενημένος διὰ τὴν εἰς Πελοπόννησον στρατείαν τοῦ συνεστάναι Λακεδαιμονίους καὶ Ἀρκάδας καὶ Ἀχαιοὺς καὶ Ἠλείους καὶ Ἀθηναίους· ὥστε οὐκ ἐδόκει αὐτῷ δυνατὸν εἶναι ἀμαχεὶ παρελθεῖν, λογιζομένῳ ὅτι εἰ μὲν νικῴη, πάντα ταῦτα ἀναλύσοιτο· εἰ δὲ ἀποθάνοι, καλὴν τὴν τελευτὴν ἡγήσατο ἔσεσθαι πειρωμένῳ τῇ πατρίδι ἀρχὴν Πελοποννήσου καταλιπεῖν. Τὸ μὲν οὖν αὐτὸν τοιαῦτα διανοεῖσθαι οὐ πάνυ μοι δοκεῖ θαυμαστὸν εἶναι· φιλοτίμων γὰρ ἀνδρῶν τὰ τοιαῦτα διανοήματα· τὸ μέντοι τὸ στράτευμα παρεσκευακέναι ὡς πόνον τε μηδένα ἀποκάμνειν μήτε νυκτὸς μήτε ἡμέρας, κινδύνου τε μηδενὸς ἀφίστασθαι, σπάνιά τε τἀπιτήδεια ἔχοντας ὅμως πείθεσθαι ἐθέλειν, ταῦτά μοι δοκεῖ θαυμαστότερα εἶναι. POST-TESTO
Infatti, quando trasmise quello che fu l’ultimo ordine, di prepararsi a una battaglia imminente, i cavalieri cui era stato comandato di imbiancare l’elmo, si accinsero al © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA compito con entusiasmo; con altrettanto ardore gli opliti arcadi dipinsero la mazza sui loro scudi, come se fossero essi stessi dei Tebani. (Pre-testo e post-testo: traduzione di G. Daverio Rocchi, BUR 2002)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Riportiamo la sezione finale della Vita che il biografo Cornelio Nepote dedica a Epaminonda, all’interno della sua opera De viris illustribus (della quale, come è noto, è sopravvissuta integralmente solo la sezione dedicata ai generali stranieri). Nepote narra della morte del condottiero tebano nel corso della battaglia di Mantinea, riportando le ultime parole da lui pronunciate prima di spirare. Il racconto di Nepote si discosta da quello di Senofonte, il quale, esponendo la dinamica della battaglia, non si sofferma sui gesti o le parole di valore di Epaminonda, limitandosi a registrarne la morte sul campo, ma concorda invece con quello riportato dallo storiografo Diodoro Siculo (pressoché contemporaneo di Nepote stesso). Alla morte di Epaminonda Nepote fa seguire una serie di aneddoti e detti esemplari e conclude con un giudizio sintetico sull’uomo politico.
Nepote, Vita di Epaminonda, 9-10
Hic extremo tempore imperator apud Mantineam cum acie instructa audacius instaret hostes, cognitus a Lacedaemoniis, quod in unius pernicie eius patriae sitam putabant salutem, universi in unum impetum fecerunt neque prius abscesserunt, quam magna caede multisque occisis fortissime ipsum Epaminondam pugnantem sparo eminus percussum concidere viderunt. Huius casu aliquantum retardati sunt Boeotii, neque tamen prius pugna excesserunt, quam repugnantis profligarunt. At Epaminondas cum animadverteret mortiferum se vulnus accepisse simulque, si ferrum, quod ex hastili in corpore remanserat, extraxisset, animam statim emissurum, usque eo retinuit, quoad renuntiatum est vicisse Boeotios. Id postquam audivit, «Satis» – inquit – vixi; invictus enim morior». Tum ferro extracto confestim exanimatus est. Hic uxorem numquam duxit. In quo cum reprehenderetur, quod liberos non relinqueret, a Pelopida, qui filium habebat infamem, maleque eum in eo patriae consulere diceret, «Vide – inquit – ne tu peius consulas, qui talem ex te natum relicturus sis. Neque vero stirps potest mihi deesse. Namque ex me natam relinquo pugnam Leuctricam, quae non modo mihi superstes, sed etiam immortalis sit necesse est». Quo tempore duce Pelopida exules Thebas occuparunt et praesidium Lacedaemoniorum ex arce expulerunt, Epaminondas, quamdiu facta est caedes civium, domo se tenuit, quod neque malos defen124
Alla fine, mentre si slanciava contro i nemici a Mantinea, dove aveva con audacia eccessiva schierato l’esercito, gli Spartani riconobbero il generale e, poiché ritenevano che la salvezza della patria fosse riposta unicamente nella rovina di lui solo, attaccarono convergendo tutti contro lui e non cessarono di combattere finché non videro, nell’immensa strage e fra i molti cadaveri degli uccisi, lo stesso Epaminonda, colpito da un giavellotto, cadere con le armi in pugno. A causa della sua caduta, i Beoti furono parzialmente rallentati, ma d’altro canto durarono a combattere fino al completo annullamento della resistenza nemica. Quando comprese di aver ricevuto un colpo mortale e che, se avesse estratto il ferro della lancia che era rimasto conficcato nel corpo, avrebbe esalato l’ultimo respiro, Epaminonda resistette fino a che non gli fu comunicato che i Beoti avevano vinto. Udito ciò, disse: «Ho vissuto abbastanza. Muoio imbattuto». Allora, estratta la punta, subito spirò. Non si era mai sposato. Quando capitò che Pelopida, che aveva un figlio disonorato, lo rimproverasse di ciò, dicendogli che non lasciava figli e che così veniva meno al proprio dovere verso la patria, gli rispose: «Bada di non fare di peggio tu, che lasci un figlio come il tuo. A me non manca una discendenza, poiché lascio la battaglia di Leuttra, che non solo mi sopravvivrà, ma certamente sarà immortale». Nel tempo in cui, sotto il comando di Pelopida, i fuorusciti occu-
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18 dere volebat neque impugnare, ne manus suorum sanguine cruentaret. Namque omnem civilem victoriam funestam putabat. Idem, postquam apud Cadmeam cum Lacedaemoniis pugnari coeptum est, in primis stetit. Cuius de virtutibus vitaque satis erit dictum, si hoc unum adiunxero, quod nemo ibit infitias, Thebas et ante Epaminondam natum et post eiusdem interitum perpetuo alieno paruisse imperio; contra ea, quamdiu ille praefuerit rei publicae, caput fuisse totius Graeciae. Ex quo intellegi potest unum hominem pluris quam civitatem fuisse.
parono Tebe e cacciarono dalla rocca il presidio spartano, fintanto che fu praticata per la città la strage di cittadini tebani, egli se ne rimase chiuso in casa, poiché non voleva né difendere i malvagi né assalirli, per non lordare le mani del sangue dei suoi. Ma poi, quando si cominciò a combattere con gli Spartani sulla Cadmea, fu in prima fila. Delle virtù e della vita di quest’uomo si sarà detto abbastanza, se mi si consentirà di aggiungere solo una cosa, che nessuno contesterà: sia prima della nascita di Epaminonda sia dopo la sua morte Tebe sempre fu soggetta all’egemonia straniera; al contrario, per tutto il tempo in cui egli fu a capo dello stato, esercitò il ruolo di capitale di tutta la Grecia. Donde si può inferire che un solo uomo valse più di un’intera città. (Traduzione di R. Capel Badino)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Entrambi i passi che hai letto contengono giudizi intorno alla figura di Epaminonda come uomo politico: Senofonte esprime una valutazione sul generale in riferimento alla decisione di scendere in campo a Mantinea (un azzardo che sarebbe costato caro); Nepote riporta gesti e parole che testimoniano la virtù di Epamoninoda e infine tira le somme con un giudizio di valore sintetico, espresso in tono quasi proverbiale. Mentre Nepote esalta le qualità morali di Epaminonda, si ha quasi l’impressione che Senofonte si discosti polemicamente da un approccio moralistico nel giudizio storico, per proporre una valutazione fondata su parametri più oggettivi. Prova a spiegare la differenza di prospettiva dei due autori nel giudizio sul personaggio. 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Nell’analisi delle motivazioni che spinsero Epaminonda a prendere la decisione di combattere a Mantinea Senofonte fa largo impiego del discorso indiretto, mentre Nepote riporta in discorso diretto le parole del generale tebano pronunciate in diverse occasioni (morente sul campo, ma anche in circostanze precedenti nel corso della sua vita). Come si possono spiegare queste diverse scelte dei due autori? 3. Approfondimento e riflessioni personali Le differenti prospettive nella valutazione di Epaminonda da parte di Senofonte e Nepote riflettono in parte la distanza che separa il genere della storiografia dalla biografia. A partire dall’analisi dei due brani riportati, illustra la differenza fra storiografia e biografia (scopi, organizzazione della materia, stile, ecc.). © Casa Editrice G. Principato SpA
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Piaceri della campagna PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca La lunga marcia dei mercenari greci da Cunassa fino al mare è terminata, ma il viaggio di ritorno in Grecia è ancora lungo. Sono giunti nella città greca di Cerasunte, colonia di Sinope, dove fra i generali avviene la spartizione del bottino. Senofonte (che, come è noto, riferisce la propria esperienza autobiografica in terza persona) ricorda che la decima parte è consacrata ad Apollo e Artemide. E a questo punto, con un improvviso flash-forward, l’autore ci trasporta ben oltre il tempo narrativo dell’Anabasi, nei luoghi e nel tempo in cui ce lo immaginiamo intento a raccogliere sulla pagina il filo della memoria. Senofonte è esule da Atene (condannato per aver militato con Agesilao e probabilmente per il proprio coinvolgimento nel regime dei Trenta) e nel 390 a.C. ottiene dagli Spartani un podere nella piccola località di Scillunte, a poca distanza da Olimpia. Ecco come, ritornato finalmente in possesso di parte del denaro e del bottino, decide di spenderlo, per onorare il voto promesso alla dea Artemide più di dieci anni prima. PRE-TESTO
La decima parte, che accantonarono in onore di Apollo e Artemide Efesina, fu suddivisa fra i generali in parti uguali perché la custodissero per gli dèi. Senofonte fece fare l’ex voto per Apollo e lo collocò nel tesoro degli Ateniesi a Delfi. Quanto alla parte da devolvere ad Artemide, l’affidò, visto che riteneva di dover affrontare altri pericoli, a Megabizo, guardiano del tempio di Artemide, con l’incarico di restituirgli la somma se si fosse salvato, di offrire invece un dono votivo ad Artemide, nel caso che fosse morto. E quando Senofonte, bandito in esilio dalla sua patria, abitava ormai a Scillunte in un terreno concessogli dai Lacedemoni, avvenne che Megabizo si recasse a Olimpia per assistere ai Giochi e gli restituisse il denaro affidatogli.
Senofonte, Anabasi, V 3, 7-11
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Ξενοφῶν δὲ λαβὼν χωρίον ὠνεῖται τῇ θεῷ ὅπου ἀνεῖλεν ὁ θεός. Ἔτυχε δὲ διαρρέων διὰ τοῦ χωρίου ποταμὸς Σελινοῦς. Καὶ ἐν Ἐφέσῳ δὲ παρὰ τὸν τῆς Ἀρτέμιδος νεὼν Σελινοῦς ποταμὸς παραρρεῖ. Καὶ ἰχθύες τε ἐν ἀμφοτέροις ἔνεισι καὶ κόγχαι· ἐν δὲ τῷ ἐν Σκιλλοῦντι χωρίῳ καὶ θῆραι πάντων ὁπόσα ἐστὶν ἀγρευόμενα θηρία. Ἐποίησε δὲ καὶ βωμὸν καὶ ναὸν ἀπὸ τοῦ ἱεροῦ ἀργυρίου, καὶ τὸ λοιπὸν δὲ ἀεὶ δεκατεύων τὰ ἐκ τοῦ ἀγροῦ ὡραῖα θυσίαν ἐποίει τῇ θεῷ, καὶ πάντες οἱ πολῖται καὶ οἱ πρόσχωροι ἄνδρες καὶ γυναῖκες μετεῖχον τῆς ἑορτῆς. Παρεῖχε δὲ ἡ θεὸς τοῖς σκηνοῦσιν ἄλφιτα, ἄρτους, οἶνον, τραγήματα, καὶ τῶν θυομένων ἀπὸ τῆς ἱερᾶς νομῆς λάχος, καὶ τῶν θηρευομένων δέ. Καὶ γὰρ θήραν ἐποιοῦντο εἰς τὴν ἑορτὴν οἵ τε Ξενοφῶντος παῖδες καὶ οἱ τῶν ἄλλων πολιτῶν, οἱ δὲ βουλόμενοι καὶ ἄνδρες ξυνεθήρων· [...] ἔστι δὲ ἡ χώρα ᾗ ἐκ Λακεδαίμονος εἰς Ὀλυμπίαν πορεύονται ὡς εἴκοσι στάδιοι ἀπὸ τοῦ ἐν Ὀλυμπίᾳ Διὸς ἱεροῦ. Ἔνι δ’ ἐν τῷ ἱερῷ χώρῳ καὶ λειμὼν καὶ ὄρη δένδρων μεστά, ἱκανὰ σῦς καὶ αἶγας καὶ βοῦς τρέφειν καὶ ἵππους, ὥστε καὶ τὰ τῶν εἰς τὴν ἑορτὴν ἰόντων ὑποζύγια εὐωχεῖσθαι.
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19 POST-TESTO
Intorno al tempio era stato seminato un boschetto di alberi domestici, che davano frutta da tavola per ogni stagione. Il tempio stesso somiglia su scala ridotta a quello di Efeso, e del pari la statua lignea della dea riproduce l’Artemide Efesina, salvo naturalmente ad essere in cipresso anziché in oro. (Pre-testo e post-testo: traduzione di F. Ferrari, BUR 1964)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Plinio indirizza questa lettera all’amico Voconio Romano intorno al 107-108. Il testo consiste in una descrizione di un paesaggio: le fonti del Clitumno. Il luogo, ancora oggi amenissimo, si trova in Umbria, lungo la strada tra Foligno e Spoleto, sul colle Campello, nel territorio che Augusto aveva assegnato alla colonia di veterani Iulia Hispellum (Spello). L’amenità della sorgente ha incantato poeti antichi (Virgilio, Properzio, Stazio, Claudiano) e moderni (Byron, per esempio, e Giosue Carducci). Plinio descrive la fonte, il corso del ruscello che si allarga in fiume, il bosco che lo circonda e i templi consacrati al dio fluviale e ad altre divinità; ci parla degli sport che si possono praticare sulle acque del fiume e delle ville sparse lungo le sue rive. Il testo, che seduce per l’arte con cui è costruito, ma più ancora forse perché partecipa della bellezza naturale dei luoghi che descrive, ha goduto di grande fortuna. Ancora riecheggia la sua memoria nei versi di Carducci, pieni di nostalgia per l’antica Roma: Tutto ora tace, o vedovo Clitunno, / tutto: de’ vaghi tuoi delùbri un solo / t’avanza, e dentro pretestato nume / tu non vi siedi.
Plinio il Giovane, Epistole, VIII 8, 2-6
Modicus collis assurgit, antiqua cupressu nemorosus et opacus. Hunc subter exit fons et exprimitur pluribus venis sed imparibus, eluctatusque quem facit gurgitem lato gremio patescit, purus et vitreus, ut numerare iactas stipes et relucentes calculos possis. Inde non loci devexitate, sed ipsa sui copia et quasi pondere impellitur, fons adhuc et iam amplissimum flumen, atque etiam navium patiens; quas obvias quoque et contrario nisu in diversa tendentes transmittit et perfert, adeo validus ut illa qua properat ipse, quamquam per solum planum, remis non adiuvetur, idem aegerrime remis contisque superetur adversus. Iucundum utrumque per iocum ludumque fluitantibus, ut flexerint cursum, laborem otio otium labore variare. Ripae fraxino multa, multa populo vestiuntur, quas perspicuus amnis velut mersas viridi imagine adnumerat. Rigor aquae certaverit nivibus, nec color cedit. Adiacet templum priscum et religiosum. Stat Clitumnus ipse amictus ornatusque praetexta; praesens numen atque etiam fatidicum indicant sortes. Sparsa sunt circa sacella complura, totidemque di. Sua cuique veneratio suum nomen, quibusdam vero etiam fontes. Nam praeter illum quasi parentem ceterorum sunt mi-
Un colle di modesta altezza si eleva boscoso e ombreggiato da antichi cipressi. Ai piedi di questo nasce una sorgente che sgorga per varie ma disuguali vene e, apertasi la via con un ribollir di acque, si allarga in un ampio bacino così puro e trasparente da poter contare le monetine che vi son gettate o i rilucenti sassolini. Quindi l’acqua avanza non per il pendio del luogo, ma spinta dalla sua stessa abbondanza e dal suo peso. È sorgente ancora e subito diviene ampio fiume, capace di sostener dei battelli, che anche se si incrociano o si dirigono in senso contrario verso punti opposti, la corrente li sostiene e li conduce alla meta, ed è così forte che, benché in piano, i battelli che viaggiano nel senso della corrente procedon veloci senza aver bisogno dei remi, mentre è lor difficile rimontare la corrente anche con l’aiuto di remi e di pertiche. Delizioso per coloro che navigano su e giù per divertimento e per diletto, col mutar del corso alternare la fatica al riposo, o questo a quella. Le rive sono tutte ricoperte di frassini e di pioppi, che il limpido fiume consente di numerare nelle loro verdi immagini quasi fossero sommerse. La freschezza dell’acqua rivaleggerebbe con quella della neve e neppure il colore le cede.
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nores capite discreti; sed flumini miscentur, quod ponte transmittitur. Is terminus sacri profanique: in superiore parte navigare tantum, infra etiam natare concessum. Balineum Hispellates, quibus illum locum Divus Augustus dono dedit, publice praebent, praebent et hospitium. Nec desunt villae quae secutae fluminis amoenitatem margini insistunt.
Lì vicino è un tempio antico e venerato: vi si vede, in piedi, lo stesso Clitumno, rivestito e decorato di toga pretesta; che il nume vi dimori e che riveli gli arcani del destino lo testimonia la presenza delle sorti. Tutt’intorno sono sparsi numerosi sacelli di altrettante divinità. Ciascuna ha il proprio culto, il proprio nome e anche il proprio fonte. Giacché oltre a quello che è come il padre di tutti gli altri, ve ne sono di più piccoli, che hanno una propria sorgente; ma le loro acque si perdono nel fiume, e c’è un ponte che lo valica. Esso è il confine fra la zona sacra e la profana. A monte non è permesso che di navigare, e a valle anche di nuotare. Gli abitanti di Spello ai quali il divo Augusto fece dono di quel luogo, forniscono a spese pubbliche non solo il bagno, ma anche l’ospitalità. Non mancano ville, che, attratte dall’amenità del fiume, sono state costruite lungo le rive. (Traduzione di L. Rusca, BUR 1994)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Il brano dall’Anabasi di Senofonte trasporta in un’atmosfera molto distante da quella che pervade il memoriale, in una natura serena, nella quale l’uomo vive con semplicità e in armonia con l’ambiente e gli dèi. La lettera di Plinio ci offre una descrizione che, sebbene concepita con altri intenti, puramente letterari, presenta notevoli somiglianze con quella senofontea. Individua gli elementi in comune fra le due descrizioni, classificandoli secondo questo schema: 1. componenti del paesaggio, 2. presenza e attività umane, 3. presenza divina e suoi segni. 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione La lingua di Senofonte è un esempio di chiarezza espositiva. Osserviamo la precisione estrema con cui sono descritti gli elementi del paesaggio e le attività che si svolgono nel podere di Scillunte, con la partecipazione affettiva del racconto autobiografico. Senofonte evade dal racconto di guerra e dal ricordo della fatica del viaggio riportandoci in un mondo quotidiano di riconquistata serenità. Al contrario Plinio mira consapevolmente alla ricercatezza formale. Prova a ricercare elementi dei due testi a sostegno di questa lettura. 3. Approfondimento e riflessioni personali In entrambi i testi la descrizione di una natura limpida e serena è accompagnata dalla percezione religiosa di una presenza divina. Spesso nella cultura antica la natura evoca il sentimento religioso. Rifletti intorno a questo tema. Conosci altri testi in cui descrizione naturalistica e senso del divino siano coniugati?
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Tema
L’amore fedele PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Il dialogo Sull’amore (Ἐρωτικὸς λόγος) di Plutarco affronta la questione del primato fra amore omosessuale e amore eterosessuale. Si tratta di un tema platonico, che si trova ampiamente discusso in opere come Simposio e Fedro, e che diviene comune nella letteratura filosofica di età ellenistica e romana. Plutarco confronta le opinioni dei difensori dell’antico ideale platonico dell’amore paidico con quelle di chi sostiene il modello dell’amore coniugale. Il dialogo fra le due opposte fazioni si svolge – nella cornice drammatica che fa da sfondo alla discussione – al cospetto di Plutarco stesso nel corso di un sacrificio che l’autore e la moglie Timossena offrono nel santuario di Eros a Tespie, in Beozia, per propiziare la fertilità del loro matrimonio. Alla fine del dibattito leggiamo parte delle conclusioni a cui giunge Plutarco (autore e personaggio). Nel sancire l’affermazione di una visione che esalta il matrimonio (e con esso la donna e le sue virtù), pur senza rinnegare la tradizione, Plutarco ci fa capire che è ormai avvenuto il superamento dell’etica aristocratica platonica, a cui era connesso il primato dell’amore virile, in favore dell’ideale dell’amore fedele tra uomo e donna, conforme a una dimensione morale e sociale più domestica. PRE-TESTO
Il verbo che indica l’amore dato e corrisposto (στέργειν e στέργεσθαι) si distingue solo per una lettera di differenza da quello che significa «mantenere presso di sé, custodire» (στέγειν); secondo me, questo già dimostra che l’affetto si mescola alla costrizione del legame, col procedere del tempo e della convivenza.
Plutarco, Sull’amore, 767 d-e
Ὧι δ’ ἂν Ἔρως ἐπισκήψῃ τ’ ἄφνω καὶ ἐπιπνεύσῃ, πρῶτον μὲν ἐκ τῆς Πλατωνικῆς πόλεως «τὸ ἐμὸν» ἕξει καὶ «τὸ οὐκ ἐμόν»1· οὐ γὰρ ἁπλῶς «κοινὰ τὰ φίλων»2 οὐδ’ ἐρώντων ἀλλ’ οἳ τοῖς σώμασιν ὁριζόμενοι τὰς ψυχὰς βίᾳ συνάγουσι καὶ συντήκουσι, μήτε βουλόμενοι δύ’ εἶναι μήτε νομίζοντες. Ἔπειτα σωφροσύνη πρὸς ἀλλήλους, ἧς μάλιστα δεῖται γάμος, ἡ μὲν ἔξωθεν καὶ νόμων ἕνεκα πλέον ἔχουσα τοῦ ἑκουσίου τὸ βεβιασμένον ὑπ’ αἰσχύνης καὶ φόβων, «πολλῶν χαλινῶν ἔργον οἰάκων θ’ ἅμα»3, διὰ χειρός ἐστιν ἀεὶ τοῖς συνοῦσιν· Ἔρωτι δ’ ἐγκρατείας τοσοῦτον καὶ κόσμου καὶ πίστεως μέτεστιν, ὥστε, κἂν ἀκολάστου ποτὲ θίγῃ ψυχῆς, ἀπέστρεψε τῶν ἄλλων ἐραστῶν, ἐκκόψας δὲ τὸ θράσος καὶ κατακλάσας τὸ σοβαρὸν καὶ ἀνάγωγον, ἐμβαλὼν δ’ αἰδῶ καὶ σιωπὴν καὶ ἡσυχίαν καὶ σχῆμα περιθεὶς κόσμιον, ἑνὸς ἐπήκοον ἐποίησεν. POST-TESTO
Voi conoscete senz’altro la storia di Laide4, la donna cantata dai poeti e adorata dagli amanti. Essa fece bruciare di desiderio tutta la Grecia, anzi fu contesa da un mare all’altro; ma quando fu toccata dall’amore per Ippoloco il tessalo, allora abbandonò di nascosto la folla degli altri amanti e il folto stuolo delle cortigiane e si ritirò con 1 Platone, Repubblica, 462 c. 2 Massima attribuita a Pitagora (Diogena Laerzio VIII 10). 3 Sofocle, fr. 869 Radt.
4 Etera di Corinto, famosa per la sua avvenenza e i numerosi amanti.
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA discrezione. Una donna onesta, unita da Eros a un uomo leale, preferirebbe subire le strette di orsi e serpenti, piuttosto che lasciarsi toccare da un altro uomo e dividerne il letto. (Pre-testo e post-testo: traduzione di V. Longoni, Adelphi 1986)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Tertulliano, autore cristiano di origine africana (Cartagine, 155-230 circa), dedica tre scritti al tema del matrimonio, elaborati in fasi diverse del suo tormentato percorso dottrinale che lo conduce dall’ortodossia cattolica all’eresia montaniana fino alla fondazione di una propria setta ereticale. Il trattato Ad uxorem appartiene alla fase cattolica. Consta di due libri ed è un’esortazione, rivolta alla propria sposa, alla fedeltà: in una sorta di testamento spirituale, Tertulliano invita la moglie, nel caso fosse rimasta vedova, ad astenersi da altre unioni. Tertulliano discute il tema della superiorità della castità sul matrimonio e passa in rassegna, nel solco delle sacre scritture, argomenti in favore della continenza, come manifestazione di fede e mezzo di santificazione. Il testo si conclude con una lirica esaltazione del matrimonio cristiano. Da qui leggiamo un brano.
Tertulliano, Alla moglie, II 8, 6-7
Unde sufficiamus ad enarrandam felicitatem eius matrimonii, quod ecclesia conciliat et confimat oblatio et obsignat benedictio, angeli renuntiant, Pater rato habet? Nam nec in terris filii sine consensu patruum rite et iure nubunt. Quale iugum fidelium duorum unius spei, unius voti; unius disciplinae, eiusdem, servitutis. Ambo fratres, ambo conservi; nulla spiritus carnisve discretio, atquin vere duo in carne una. Ubi caro una, unus et spiritus: simul orant, simul volutantur, simul ieiunia transigunt, alterutro docentes, alterutro exhortantes, alterutro sustinentes.
Da dove potremo trarre la forza per narrare la felicità di quel matrimonio che la Chiesa unisce, che l’offerta conferma, che la benedizione segna, che gli angeli annunciano, che il Padre ratifica? Infatti nemmeno nelle varie terre i figli possono sposarsi secondo il rito e secondo il diritto senza il consenso paterno. Che coppia è quella di due fedeli di una sola speranza, di un solo desiderio, di una sola disciplina, di uno stesso servizio! Tutti e due fratelli dello stesso padre, tutti e due servi di un solo padrone; non c’è alcuna separazione nello spirito e nella carne; al contrario sono veramente due in una sola carne. Dove la carne è una, uno è lo spirito; insieme pregano, insieme si prosternano, insieme osservano il digiuno, dandosi reciprocamente insegnamenti, esortandosi l’un l’altra, sostenendosi l’uno con l’altra. (Traduzione di E. Giannarelli, Edizioni Dehoniane, 2008)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Il brano di Plutarco offre un bellissimo elogio della fedeltà fra due amanti. Tale valore per l’autore è il frutto di una sanzione religiosa e legale o l’esito di una tendenza naturale? Il
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20 testo di Tertulliano, che ci trasporta nel mondo dell’etica cristiana, rivela molti punti di contatto. Su questo punto, ritieni che ci sia accordo? Quale forza unisce gli amanti per Plutarco? È la stessa che rende felice il matrimonio cristiano per Tertulliano? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Entrambi i testi ci offrono dell’unione amorosa l’immagine di una fusione spirituale completa. Confronta le seguenti espressioni: ἑνὸς ἐπήκοον e ambo conservi (“tutti e due sevi di un solo padrone”, nella traduzione italiana che perde molto della stringatezza espressiva del latino di Tertulliano). In che cosa si assomigliano? Ritieni che siano del tutto equivalenti? 3. Approfondimento e riflessioni personali Il confronto fra i due testi permette di osservare come nell’ecumene romana, per la quale si diffonde il messaggio del Cristianesimo, esistano una lingua comune, una comunione e una circolazione di valori, che, elaborati nell’ambito della filosofia pagana, sono reinterpretati nel nuovo sistema etico e religioso dei cristiani e ricevono una nuova codificazione secondo il linguaggio della nuova religione. Se Plutarco e Tertulliano usano espressioni simili per esaltare lo stesso valore della fedeltà, non possiamo non notare che i fondamenti morali sono mutati, così come i riferimenti culturali. Plutarco cita la poesia e la filosofia antiche come modelli, mentre in Tertulliano si riconosce il valore autoritativo di un altro genere di scrittura (la citazione biblica non è esplicita nel testo selezionato, ma ben riconoscibile: duo in carne una). Proponi una riflessione, sulla base del confronto fra i due testi che hai letto inerenti l’etica amorosa e collegandoti ad altri testi e autori che hai letto, intorno al rapporto e al passaggio fra la cultura dei gentili e quella dei cristiani.
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Locus amoenus PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Il giovane Fedro ha appena assistito a un esercizio retorico del logografo Lisia, che la mattina si è esibito in un discorso paradossale sull’amore. Mentre cammina tenendo sotto il mantello una copia scritta del discorso, Fedro si imbatte in Socrate, che è curioso di sapere di che cosa si sia parlato da Lisia. Fedro a sua volta è ansioso di mostrare a Socrate i suoi progressi nella tecnica retorica e di sottoporre l’invenzione di Lisia al giudizio del filosofo. I due si avviano così fuori dalla città, lungo le sponde del fiume Ilisso, in cerca di un luogo adatto per la lettura e la conversazione. Questa a un di presso è la cornice drammatica del Fedro di Platone. Leggiamo la descrizione del luogo che fa da sfondo al dialogo. È una delle descrizioni di paesaggio naturale più belle della letteratura greca, in cui al dato naturalistico si uniscono significati simbolici. PRE-TESTO
Socrate: Ma, a proposito, amico mio, non era questo l’albero verso il quale stavamo andando? Fedro: Proprio questo.
Platone, Fedro, 230 b-d
ΣΩ. Νὴ τὴν Ἥραν, καλή γε ἡ καταγωγή. Ἥ τε γὰρ πλάτανος αὕτη μάλ’ ἀμφιλαφής τε καὶ ὑψηλή, τοῦ τε ἄγνου τὸ ὕψος καὶ τὸ σύσκιον πάγκαλον, καὶ ὡς ἀκμὴν ἔχει τῆς ἄνθης, ὡς ἂν εὐωδέστατον παρέχοι τὸν τόπον· ἥ τε αὖ πηγὴ χαριεστάτη ὑπὸ τῆς πλατάνου ῥεῖ μάλα ψυχροῦ ὕδατος, ὥστε γε τῷ ποδὶ τεκμήρασθαι. Νυμφῶν τέ τινων καὶ Ἀχελῴου ἱερὸν ἀπὸ τῶν κορῶν τε καὶ ἀγαλμάτων ἔοικεν εἶναι. Εἰ δ’ αὖ βούλει, τὸ εὔπνουν τοῦ τόπου ὡς ἀγαπητὸν καὶ σφόδρα ἡδύ· θερινόν τε καὶ λιγυρὸν ὑπηχεῖ τῷ τῶν τεττίγων χορῷ. Πάντων δὲ κομψότατον τὸ τῆς πόας, ὅτι ἐν ἠρέμα προσάντει ἱκανὴ πέφυκε κατακλινέντι τὴν κεφαλὴν παγκάλως ἔχειν. Ὥστε ἄριστά σοι ἐξενάγηται, ὦ φίλε Φαῖδρε. ΦΑΙ. Σὺ δέ γε, ὦ θαυμάσιε, ἀτοπώτατός τις φαίνῃ. Ἀτεχνῶς γάρ, ὃ λέγεις, ξεναγουμένῳ τινὶ καὶ οὐκ ἐπιχωρίῳ ἔοικας· οὕτως ἐκ τοῦ ἄστεος οὔτ’ εἰς τὴν ὑπερορίαν ἀποδημεῖς, οὔτ’ ἔξω τείχους ἔμοιγε δοκεῖς τὸ παράπαν ἐξιέναι. ΣΩ. Συγγίγνωσκέ μοι, ὦ ἄριστε. Φιλομαθὴς γάρ εἰμι· τὰ μὲν οὖν χωρία καὶ τὰ δένδρα οὐδέν μ’ ἐθέλει διδάσκειν, οἱ δ’ ἐν τῷ ἄστει ἄνθρωποι. POST-TESTO
Mi pare invece che tu abbia trovato il farmaco per farmi uscire. Come quelli che guidano le bestie affamate scuotendo innanzi a loro un ramoscello o un frutto, così, srotolandomi davanti agli occhi discorsi scritti sui libri, ho l’impressione che mi porterai in giro per tutta l’Attica e dovunque vorrai. Ma per il momento, ora che sono arrivato qua, credo che mi metterò sdraiato. Tu scegliti la posizione più comoda per leggere e leggi. (Pre-testo e post-testo: traduzione di R. Velardi, BUR 20103)
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21 SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Anche il De oratore di Cicerone (composto nel 55 a.C.) presenta una cornice drammatica simile a quella dei dialoghi platonici. La scena è posta nella villa di Lucio Licinio Crasso a Tuscolo, dove l’ex console e grande oratore decide di ritirarsi, insieme ad alcuni amici e sodali (Marco Antonio, Quinto Mucio Scevola e i giovani Publio Sulpicio e Gaio Cotta) per sottrarsi alla situazione convulsa in cui versa la città. È il 91 a.C., l’anno della morte di Crasso stesso, alla vigilia della guerra sociale e del conflitto civile fra Mario e Silla, in cui sarebbero morti anche altri protagonisti del dialogo. Sul cenacolo che si raccoglie a Tuscolo incombe dunque una minaccia di morte: Roma lontana in tumulto, la guerra e la rovina imminenti, che contrastano con l’atmosfera di serenità e di amicizia in cui si muovono i personaggi. Col testo di seguito riportato ci troviamo all’inizio del dialogo. L’imitazione platonica è esplicita.
Cicerone, Dell’oratore, I 27-29
Cum igitur vehementius inveheretur in causam principum consul Philippus Drusique tribunatus pro senatus auctoritate susceptus infringi iam debilitarique videretur, dici mihi memini ludorum Romanorum diebus L. Crassum quasi conligendi sui causa se in Tusculanum contulisse; venisse eodem, socer eius qui fuerat, Q. Mucius dicebatur et M. Antonius, homo et consiliorum in re publica socius et summa cum Crasso familiaritate coniunctus. Exierant autem cum ipso Crasso adulescentes et Drusi maxime familiares et in quibus magnam tum spem maiores natu dignitatis suae conlocarent, C. Cotta, qui [tum] tribunatum plebis petebat, et P. Sulpicius, qui deinceps eum magistratum petiturus putabatur. Hi primo die de temporibus deque universa re publica, quam ob causam venerant, multum inter se usque ad extremum tempus diei conlocuti sunt; quo quidem sermone multa divinitus a tribus illis consularibus Cotta deplorata et commemorata narrabat, ut nihil incidisset postea civitati mali, quod non impendere illi tanto ante vidissent. Eo autem omni sermone confecto, tantam in Crasso humanitatem fuisse, ut, cum lauti accubuissent, tolleretur omnis illa superioris tristitia sermonis eaque esset in homine iucunditas et tantus in loquendo lepos, ut dies inter eos curiae fuisse videretur, convivium Tusculani. Postero autem die, cum illi maiores natu satis quiessent et in ambulationem ventum esset, dicebat tum Scaevolam duobus spatiis tribusve factis dixisse «cur non imitamur, Crasse, Socratem illum, qui est in Phaedro Platonis? Nam me haec tua platanus admonuit, quae
Nel tempo in cui il console Filippo si scagliava con forza contro la causa degli ottimati e il tribunato di Druso, assunto in difesa dell’autorità senatoria, sembrava incrinarsi e vacillare, ricordo che, nei giorni di festa dei Ludi Romani, Lucio Crasso raccontava di essersi ritirato nella sua villa di Tuscolo quasi allo scopo di rinfrancarsi. Nello stesso luogo – si diceva – convennero anche Quinto Mucio Scevola, suo suocero, e Marco Antonio, sodale di Crasso nelle questioni politiche e a lui legato da profonda amicizia. Con Crasso partirono anche due giovani, amici stretti di Druso, nei quali il senato riponeva allora grandi speranze per la tutela del proprio prestigio, Gaio Cotta, che era candidato tribuno, e Publio Sulpicio, che si pensava avrebbe aspirato alla stessa carica in seguito. Il primo giorno conversarono a lungo, fino alle ultime luci, dei tempi che stavano vivendo e della situazione in cui versava lo stato, che era la ragione per cui si erano riuniti. Cotta riferiva che nella loro conversazione quei tre ex consoli rammentarono e lamentarono molti fatti con ispirazione divina, tanto che in seguito non si abbatté sulla città nessun male che essi non avessero con tanto anticipo veduto incombere. Poi, al termine di quella conversazione, Crasso dimostrò una tale gentilezza che, dopo essersi prima lavati e poi distesi sui letti, scacciarono la costernazione dei discorsi precedenti, e tale fu la gaiezza dell’uomo e la gradevolezza delle sue parole che, se la giornata che avevano trascorso assomigliava a una seduta del senato, la cena fu ben degna di Tuscolo.
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non minus ad opacandum hunc locum patulis est diffusa ramis, quam illa, cuius umbram secutus est Socrates, quae mihi videtur non tam ipsa acula, quae describitur, quam Platonis oratione crevisse, et quod ille durissimis pedibus fecit, ut se abiceret in herba atque ita illa, quae philosophi divinitus ferunt esse dicta, loqueretur, id meis pedibus certe concedi est aequius». Tum Crassum «immo vero commodius etiam»; pulvinosque poposcisse et omnis in eis sedibus, quae erant sub platano, consedisse dicebat.
Il giorno successivo – raccontava –, quando i più anziani si furono riposati e dopo una passeggiata, compiuto due o tre volte il giro, Scevola disse: «Crasso, perché non imitiamo Socrate, il personaggio del Fedro di Platone? Mi ci ha fatto pensare questo tuo platano, che distende i suoi ampi rami dando frescura al luogo non meno di quello che con la sua ombra attrasse Socrate, quel platano che, a mio parere, crebbe innaffiato non tanto da quel ruscelletto che si descrive nel dialogo, quanto dalle parole di Platone. E giacché colui, coi suoi piedi induriti, si degnò di distendersi sul prato e parlò di cose che, a parere dei filosofi, poté dire ispirato da un nume, a maggior ragione lo stesso si potrà concedere ai miei piedi». Allora Crasso rispose: «Senz’altro e più comodamente». Richiese dei cuscini – prosegue il racconto di Cotta – e tutti sedettero sulle seggiole sotto al platano. (Traduzione di R. Capel Badino)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione La cornice del Fedro, con la descrizione naturalistica del prato ombroso sulle rive dell’Ilisso, diviene un topos letterario imprescindibile: il locus amoenus che farà da sfondo a molte pagine della letteratura di ogni tempo. Cicerone dichiara esplicitamente il modello platonico nella costruzione del locus amoenus in cui ambienta il suo dialogo De oratore. Riconosci gli elementi in comune e, basandoti sui riferimenti diretti al Fedro, rifletti su quali motivazioni possono aver condotto Cicerone alla scelta del modello. 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Nel brano che hai letto dal Fedro emerge un contrasto fra città e campagna. Prova a spiegare in che cosa consiste. Se il locus amoenus è lo sfondo perfetto per la conversazione tra Fedro e Socrate, perché Socrate dichiara di preferire le strade della città ai romiti sentieri della campagna? Anche nel De oratore si evidenzia un forte contrasto fra la città di Roma e la serenità di Tuscolo, ma di segno diverso rispetto a Platone. Che cosa cercano gli interlocutori in villa? Perché si allontanano da Roma? Come è rappresentata la vita cittadina? Che sentimenti produce la villa nell’animo dei personaggi? 3. Approfondimento e riflessioni personali Sulla base delle tue conoscenze, illustra la fortuna del topos del locus amoenus in letteratura.
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I Romani e il greco PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Aulo Postumio Albino fu un personaggio eminente della classe dirigente romana alla meta del II sec. a.C. All’incirca coetaneo di Scipione Emiliano, combatté nella Terza guerra macedonica, entrando in contatto diretto con il mondo greco, del quale fu sempre grande ammiratore. Esponente del partito filellenico nella Roma degli Scipioni, si interessò di filosofia e di letteratura greca. Postumio Albino fu autore di poesia e di una storia romana in lingua greca, apprezzata da Cicerone come prova della sua cultura. Fra i suoi avversari fu Marco Porcio Catone, che non mancò di ridicolizzare proprio la scelta di Postumio di scrivere in greco. Sulla discussa personalità di Postumio e la polemica che lo contrappose a Catone si incentra il brano del XXXIX libro delle Storie di Polibio (giunto a noi solo in forma frammentaria). Dell’episodio ci forniscono versioni molto simili anche altri autori, dei quali Gellio (XI 8, 2) preserva la citazione letterale (tradotta in latino) dell’avvertenza al lettore allegata da Postumio davanti alla propria opera storiografica, quella che gli attirò il sarcasmo di Catone: Nam sum homo Romanus, natus in Latio, Graeca oratio a nobis alienissima est. PRE-TESTO
Un uomo degno di nota fu Aulo Postumio, come dimostra ciò che si dirà di seguito. Era un romano di rango e di famiglia illustre, ma di natura loquace, chiacchierone e particolarmente vanesio. Amantissimo fin dall’infanzia della cultura e della lingua greca, era anche oltremodo molesto e pedante in questo campo, tanto da attirare sullo studio del greco l’ostilità dei Romani più vecchi ed eminenti.
Polibio, Storie, XXXIX 1, 1-12
Τέλος δὲ καὶ ποίημα γράφειν καὶ πραγματικὴν ἱστορίαν ἐνεχείρησεν, ἐν ᾗ διὰ τοῦ προοιμίου παρεκάλει τοὺς ἐντυγχάνοντας συγγνώμην ἔχειν, ἐὰν Ῥωμαῖος ὢν μὴ δύνηται κατακρατεῖν τῆς Ἑλληνικῆς διαλέκτου καὶ τῆς κατὰ τὸν χειρισμὸν οἰκονομίας. Πρὸς ὃν οἰκείως ἀπηντηκέναι δοκεῖ Μάρκος Πόρκιος Κάτων· θαυμάζειν γὰρ ἔφη πρὸς τίνα λόγον ποιεῖται τοιαύτην παραίτησιν. Εἰ μὲν γὰρ αὐτῷ τὸ τῶν Ἀμφικτυόνων συνέδριον συνέταττε γράφειν ἱστορίαν, ἴσως ἔδει προφέρεσθαι ταῦτα καὶ παραιτεῖσθαι· μηδεμιᾶς δ’ ἀνάγκης οὔσης ἐθελοντὴν ἀπογράψασθαι κἄπειτα παραιτεῖσθαι συγγνώμην ἔχειν, ἐὰν βαρβαρίζῃ, τῆς ἁπάσης ἀτοπίας εἶναι σημεῖον, καὶ παραπλησίως ἄχρηστον ὡσανεί τις εἰς τοὺς γυμνικοὺς ἀγῶνας ἀπογραψάμενος πυγμὴν ἢ παγκράτιον, παρελθὼν εἰς τὸ στάδιον, ὅτε δέοι μάχεσθαι, παραιτοῖτο τοὺς θεωμένους συγγνώμην ἔχειν, ἐὰν μὴ δύνηται μήτε τὸν πόνον ὑπομένειν μήτε τὰς πληγάς. Δῆλον γὰρ ὡς εἰκὸς γέλωτα τὸν τοιοῦτον ὀφλεῖν καὶ τὴν δίκην ἐκ χειρὸς λαμβάνειν· ὅπερ ἔδει καὶ τοὺς τοιούτους ἱστοριογράφους, ἵνα μὴ κατετόλμων τοῦ καλῶς ἔχοντος. POST-TESTO
Analogamente Postumio per tutta la vita imitò il peggio dei Greci. Era infatti edonista e scansafatiche. Questa caratteristica appare evidente considerando alcuni fatti attuali. Trovandosi in Grecia per la prima volta nel tempo della guerra della Focide, simulò una malattia per andarsene a Tebe e così scansare il pericolo. Quando la battaglia fu © Casa Editrice G. Principato SpA
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA terminata, fu il primo a scrivere al senato della vittoria, descrivendo dettagliatamente ogni cosa, come se vi avesse preso parte.
(Pre-testo e post-testo: traduzione di R. Capel Badino)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Gli Academica priora costituiscono la prima redazione di un’opera che Cicerone dedicò alla discussione della teoria della conoscenza nella filosofia greca. Oggi ne sopravvive solo il secondo libro, dedicato a Lucio Licinio Lucullo, che ne è anche l’interlocutore principale, come portavoce delle dottrine gnoseologiche del filosofo platonico Antioco di Ascalona. Nei primi capitoli del dialogo, Cicerone presenta il personaggio, cui era legato da amicizia, e ne tesse l’elogio. Ricorda il rapporto personale che lo legò al filosofo Antioco e soprattutto ne loda la dottrina in materia di cultura greca, sia letteraria sia filosofica (vale la pena ricordare che, come ci informa Plutarco, Lucullo a Roma fu tra i primi a possedere una vasta biblioteca e ad aprirla al pubblico). Il testo ci presenta in ottima sintesi la questione del rapporto controverso tra le due culture greca e romana. I Romani seppero recepire dal mondo greco le straordinarie conquiste intellettuali, ma non senza resistenze.
Cicerone, Academica priora, 4-5
Sed quae populari gloria decorari in Lucullo debuerunt, ea fere sunt et Graecis litteris celebrata et Latinis. Nos autem illa externa cum multis, haec interiora cum paucis ex ipso saepe cognovimus. Maiore enim studio Lucullus cum omni litterarum generi tum philosophiae deditus fuit quam qui illum ignorabant arbitrabantur, nec vero ineunte aetate solum, sed et pro quaestore aliquot annos et in ipso bello, in quo ita magna rei militaris esse occupatio solet, ut non multum imperatori sub ipsis pellibus oti relinquatur. Cum autem e philosophis ingenio scientiaque putaretur Antiochus, Philonis auditor, excellere, eum secum et quaestor habuit et post aliquot annos imperator, quique esset ea memoria, quam ante dixi, ea saepe audiendo facile cognovit, quae vel semel audita meminisse potuisset. Delectabatur autem mirifice lectione librorum, de quibus audiebat. Ac uereor interdum ne talium personarum cum amplificare velim, minuam etiam gloriam. Sunt enim multi qui omnino Graecas non ament litteras, plures qui philosophiam, reliqui, etiam si haec non improbent, tamen earum rerum disputationem principibus civitatis non ita decoram putant. Ego autem, cum Graecas litteras M. Catonem in senectute didicisse acceperim, P. autem Africani historiae loquantur in legatione illa nobili, quam ante censuram obiit, Panaetium unum omnino comitem fuisse, nec 136
D’altra parte quelle azioni che nella carriera di Lucullo meritarono l’onore di un pubblico riconoscimento, sono state ben celebrate in letteratura sia in latino sia in greco. Ma è pur vero che noi condividiamo la conoscenza di quelle sue gesta esteriori con molti, mentre della sua vita intima siamo messi a parte insieme a pochi altri da lui stesso; giacché Lucullo si dedicò alla letteratura di ogni genere e alla filosofia con impegno maggiore di quanto pensavano le persone che non lo conoscevano, e non soltanto da giovane, ma anche successivamente, per parecchi anni, quando esercitava la carica di proquestore e in guerra, quando l’impegno del servizio militare normalmente è così grande che a un generale non resta molto per il riposo nemmeno sotto le coperte. E invece, poiché tra i filosofi Antioco, allievo di Filone, aveva reputazione di eccellenza di intelletto e di dottrina, egli lo volle al proprio seguito quando era questore e, dopo un certo numero di anni, generale, e, avendo quella memoria prodigiosa di cui ho parlato precedentemente, si può capire quanto facilmente, con l’ascolto frequente, apprese quelle cose che avrebbe potuto ricordare a un singolo ascolto. Inoltre si dilettava straordinariamente alla lettura dei libri di cui sentiva discorrere. Ma temo talora, volendo amplificare la gloria di simili personaggi, di sminuirla. Ci sono molti che non amano per niente la letteratura greca, ancora di più che non amano la filosofia. Tutti gli altri, se anche non le disapprovano, tuttavia ritengono
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22 litterarum Graecarum nec philosophiae iam ullum auctorem requiro.
che non siano attività degne degli esponenti della classe dirigente romana. Per parte mia invece, sapendo che Marco Catone studiò la letteratura greca in vecchiaia e che – a quanto attestano gli storici – Scipione Africano, nella famosa ambasceria cui attese prima di accedere alla carica di censore, ebbe come unico collaboratore Panezio1, in difesa della letteratura greca e della filosofia non ho bisogno di altri modelli. (Traduzione di Roberto Capel Badino)
SECONDA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Con la figura di Aulo Postumio Albino lo storico Polibio ci presenta un carattere. Quali sono le qualità messe in evidenza? Tratto determinante della sua personalità è la passione per la cultura greca, ma l’autore, greco di nascita, lingua e cultura, sembra assumere una posizione equidistante nella disputa fra filelleni e tradizionalisti. Quali aspetti della cultura greca (o del modo di interpretarli da parte di Postumio) sono giudicati da Polibio deteriori? Il brano di Cicerone è invece tutto volto all’elogio del protagonista Lucullo. Quale giudizio viene espresso sulla cultura di Lucullo? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione In entrambi i testi che hai letto compare la figura di Marco Porcio Catone. Polibio gli attribuisce un detto salace nei confronti di Postumio. La battuta di Catone è giocata intorno a una figura retorica: quale? Lo stesso personaggio è proposto da Cicerone come modello esemplare. Il Catone di Cicerone ti sembra coerente con il Catone di Polibio? 3. Approfondimento e riflessioni personali Arnaldo Momigliano considerava l’episodio di Postumio Albino esemplare del diverso approccio che Greci e Romani assunsero nel relazionarsi allo straniero. Proprio Polibio, che fu il greco più vicino al circolo degli Scipioni, ridicolizzava la “grecomania” di Postumio. Egli, che fu il primo a intuire il ruolo egemone di Roma, non ritenne mai di dover parlare latino né trovò mai strano che membri illustri della classe dirigente romana si impadronissero del greco come seconda lingua. Sottolinea Momigliano: «I Greci rimasero orgogliosamente monoglotti», mentre al contrario l’aristocrazia romana «fu educata a pensare e parlare in greco come parte delle sue funzioni imperiali». Insomma, a dispetto del luogo comune, che vede nella conquista militare della Grecia da parte di Roma la premessa della vittoria culturale di Atene sull’agreste Lazio, Momigliano ci invita, a partire da racconti come quello di Polibio, a pensare che forse fu la capacità di Roma di appropriarsi della cultura greca a fornirle uno strumento intellettuale di dominio. Basandoti da queste considerazioni, presenta una sintetica riflessione su uno dei due temi seguenti, a tua scelta: 1. l’influenza della cultura greca sulla letteratura romana; 2. la contaminazione culturale come fattore di crescita di una società. 1 Riferimento all’ambasceria di Scipione Emiliano in Oriente forse nel 140-139 a.C.
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Tema
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA
La favola di Cleobi e Bitone PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca Il libro I delle Storie di Erodoto è quasi interamente occupato dal cosiddetto λόγος lidio, il lungo excursus dedicato alla descrizione del regno di Lidia e alle vicende del suo ultimo re, Creso, fino alla sua conquista da parte dei Persiani, guidati da Ciro il Grande, nel 546 a.C. Per Erodoto si tratta di una premessa fondamentale per lo sviluppo del suo racconto storico sulle guerre persiane, dato che la fine del ricco e potente regno asiatico segna una tappa fondamentale dell’espansione persiana verso occidente e prelude alla conquista delle città della Ionia e allo scontro con la Grecia. La caduta di Creso inoltre assume per Erodoto un valore esemplare, paradigma dell’instabilità della sorte e di quel senso morale che lo storico ricerca nella realtà che descrive. Infatti al centro dell’excursus sulla Lidia Erodoto inserisce un racconto di carattere romanzesco con funzione edificante: il viaggio che conduce il saggio legislatore ateniese Solone dapprima in Egitto e poi alla splendida corte di Creso nella capitale della Lidia, Sardi. Qui il re, dopo averlo condotto a vedere le ricchezze strabilianti dei suoi tesori, pone a Solone, che ha «per amore del sapere con cura visitato gran parte della terra», una domanda su chi sia l’uomo più felice al mondo. Solone con la sua risposta sorprende il sovrano, poiché diversa è l’idea di felicità che l’ateniese propone. Per Solone l’uomo più felice che abbia conosciuto è il suo concittadino Tello, che, giunto in vecchiaia, senza aver mai conosciuto il lutto né di figli né di nipoti, è morto cadendo in battaglia contro i Megaresi presso Eleusi, dove ancora gli Ateniesi lo onorano. Ecco come prosegue il dialogo fra Creso e Solone. PRE-TESTO
Quando Solone, esaltandone a lungo la felicità, ebbe rivolto alle vicende di Tello l’animo di Creso, questi gli chiese quale degli uomini che avesse visto poteva essere secondo dopo di quello, convinto che il secondo posto, almeno, sarebbe stato per lui. Ma Solone disse: «Cleobi e Bitone. Erano infatti costoro di stirpe argiva e godevano di sufficienti mezzi di vivere e in più di una vigoria fisica a tutta prova; poiché ambedue allo stesso modo erano stati vincitori di pubbliche gare e si racconta di essi anche questo episodio.
Erodoto, Storie, I 31
Ἐούσης1 ὁρτῆς2 τῇ Ἥρῃ τοῖσι Ἀργείοισι ἔδεε πάντως τὴν μητέρα αὐτῶν ζεύγεϊ κομισθῆναι ἐς τὸ ἱρόν3, οἱ δέ σφι βόες ἐκ τοῦ ἀγροῦ οὐ παρεγίνοντο ἐν ὥρῃ· ἐκκληιόμενοι4 δὲ τῇ ὥρῃ οἱ νεηνίαι ὑποδύντες αὐτοὶ ὑπὸ τὴν ζεύγλην εἷλκον τὴν ἅμαξαν, ἐπὶ τῆς ἁμάξης δέ σφι ὠχέετο ἡ μήτηρ, σταδίους δὲ πέντε καὶ τεσσεράκοντα διακομίσαντες ἀπίκοντο5 ἐς τὸ ἱρόν. Tαῦτα δέ σφι ποιήσασι καὶ ὀφθεῖσι ὑπὸ τῆς πανηγύριος6 τελευτὴ τοῦ βίου ἀρίστη ἐπεγένετο, διέδεξέ τε ἐν τούτοισι ὁ θεὸς ὡς ἄμεινον εἴη ἀνθρώπῳ τεθνάναι μᾶλλον ἢ ζώειν. Ἀργεῖοι μὲν γὰρ περιστάντες ἐμακάριζον τῶν νεηνιέων7 τὴν 1 Ἐούσης: forma ionica del participio presente, gen. femm., di εἰμί (ἐών, ἐοῦσα, ἐόν). Cfr. sotto. 2 ὁρτῆς: forma ionica per l’attico ἑορτῆς. 3 ἱρόν: forma ionica per l’attico ἱερόν. Cfr. sotto. 4 ἐκκληιόμενοι: forma ionica per l’attico ἐκκλειόμενοι.
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5 ἀπίκοντο: ionico per ἀφίκοντο. 6 πανηγύριος: genitivo ionico dei sostantivi della terza con tema in ι (att.: πανηγύρεως). 7 νεηνιέων: forma ionica del gen. pl. di νεανίας (att. νεανιῶν). Cfr. sotto una forma analoga.
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23 ῥώμην, αἱ δὲ Ἀργεῖαι τὴν μητέρα αὐτῶν, οἵων τέκνων ἐκύρησε. Ἡ δὲ μήτηρ περιχαρὴς ἐοῦσα τῷ τε ἔργῳ καὶ τῇ φήμῃ, στᾶσα ἀντίον τοῦ ἀγάλματος εὔχετο Κλεόβι τε καὶ Βίτωνι τοῖσι ἑωυτῆς8 τέκνοισι, οἵ μιν ἐτίμησαν μεγάλως, τὴν θεὸν δοῦναι τὸ9 ἀνθρώπῳ τυχεῖν ἄριστόν ἐστι. Μετὰ ταύτην δὲ τὴν εὐχὴν ὡς ἔθυσάν τε καὶ εὐωχήθησαν, κατακοιμηθέντες ἐν αὐτῷ τῷ ἱρῷ οἱ νεηνίαι οὐκέτι ἀνέστησαν, ἀλλ’ ἐν τέλεϊ τούτῳ ἔσχοντο. Ἀργεῖοι δέ σφεων εἰκόνας ποιησάμενοι ἀνέθεσαν ἐς Δελφοὺς ὡς ἀνδρῶν ἀρίστων γενομένων. POST-TESTO
Solone dunque a questi giovani assegnava il secondo premio della felicità; e Creso, un po’ stizzito, esclamò: «Ospite di Atene, la nostra felicità è da te così considerata un nulla, che non ci stimi degni di rivaleggiare nemmeno con dei semplici cittadini privati?». (Pre-testo e post-testo: traduzione di L. Annibaletto, Mondadori 1956)
SECONDA PARTE
Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Anche Cicerone, nelle Tusculanae disputationes, offre una versione della storia di Cleobi e Bitone, insieme ad altri racconti analoghi spesso proposti dai pedagoghi nelle scuole dell’antichità, come esempio capace di illustrare un insegnamento morale.
Cicerone, Tuscolane, I 113-114
Deorum inmortalium iudicia solent in scholis proferre de morte, nec vero ea fingere ipsi, sed Herodoto auctore aliisque pluribus. Primum Argiae sacerdotis Cleobis et Bito filii praedicantur. Nota fabula est. Cum enim illam ad sollemne et statutum sacrificium curru vehi ius esset satis longe ab oppido ad fanum morarenturque iumenta, tum iuvenes i quos modo nominavi veste posita corpora oleo perunxerunt, ad iugum accesserunt. Ita sacerdos advecta in fanum, cum currus esset ductus a filiis, precata a dea dicitur, ut id illis praemii daret pro pietate, quod maxumum homini dari posset a deo; post epulatos cum matre adulescentis somno se dedisse, mane inventos esse mortuos. Simili precatione Trophonius et Agamedes usi dicuntur; qui cum Apollini Delphis templum exaedificavissent, venerantes deum petiverunt mercedem non parvam quidem operis et laboris sui: nihil certi, sed quod esset optimum homini. Quibus Apollo se id daturum ostendit post eius diei diem tertium; qui ut inluxit, mortui sunt reperti. Iudicavisse deum dicunt, et eum qui-
I retori sono soliti proporre i giudizi degli dei immortali riguardo alla morte, e non li inventano da sé, ma li traggono da Erodoto e da molti altri. Al primo posto si racconta la storia di Cleobi e Bitone, i figli di una sacerdotessa di Argo. La favola è nota. Poiché il rito prescriveva che, nel tempo convenuto di un sacrificio solenne, ella fosse portata su un carro dalla città al tempio, che era abbastanza distante, e poiché le bestie indugiavano, allora quei due giovani che ho citato, spogliatisi della veste, si unsero il corpo di olio e si posero al giogo del carro. Così trasportata fino al tempio sul carro trainato dai figli, si dice che la sacerdotessa pregasse la dea di concedere loro, in cambio della loro devozione, la cosa più grande che potesse essere concessa a un uomo da un dio; terminato il banchetto rituale insieme alla madre i due giovani si abbandonarono al sonno e la mattina furono trovati morti. Si racconta che simile fosse anche la preghiera di Trofonio e Agamede. Costoro, dopo aver edificato il tempio di Apollo a Delfi, supplicando il dio chiesero un compenso
8 ἑωυτῆς: forma ionica del pronome riflessivo di terza persona (att.: ἑαυτῆς).
9 τὀ: forma ionica del pronome relativo nom./acc. neutro sing. (att. ἐκεῖνο ὅ).
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LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA
dem deum, cui reliqui dii concessissent, ut praeter ceteros divinaret. Adfertur etiam de Sileno fabella quaedam; qui cum a Mida captus esset, hoc ei muneris pro sua missione dedisse scribitur: docuisse regem non nasci homini longe optimum esse, proximum autem quam primum mori.
non modesto dell’opera e della fatica loro: nulla di preciso, ma la cosa che fosse la migliore per un uomo. Apollo rivelò che l’avrebbe loro concessa dopo due giorni; all’alba del terzo giorno, i due furono trovati morti. Dicono che il dio abbia così giudicato, proprio il dio al quale gli altri dei avevano accordato la speciale prerogativa di divinare. Si racconta anche una storiella su Sileno; sta scritto che egli, quando fu catturato da Mida, in cambio della propria liberazione, abbia fatto al re questo dono: insegnargli che la cosa migliore per l’uomo è non nascere affatto, in secondo luogo morire il prima possibile. (Traduzione di R. Capel Badino)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi, relativi alla comprensione e interpretazione dei brani, all’analisi linguistica, stilistica ed eventualmente retorica, all’approfondimento e alla riflessione personale. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Il racconto di Erodoto costituisce il prototipo di un mito che ai tempi di Cicerone è ormai assunto al livello di una conoscenza comune, tanto da essere proposto nell’insegnamento elementare ai fanciulli per il suo carattere di edificazione morale. Qual è il “sugo” della storia, secondo Erodoto? Quale insegnamento, che tuttavia il re non sembra comprendere, vuole trasmette Solone a Creso? La morale che si può desumere dal racconto di Solone sulla felicità e dalla vicenda paradigmatica della caduta di Creso in che modo può essere riferita alla grande storia delle Guerre persiane, oggetto del racconto erodoteo? Quale ti sembra l’atteggiamento di Cicerone verso questo tipo di racconto? A quali altri racconti lo accosta? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Il testo di Cicerone costituisce una parafrasi talvolta letterale del testo di Erodoto. Individua le corrispondenze precise. Nonostante la stretta corrispondenza testuale, si notano anche alcuni dettagli che Cicerone aggiunge al racconto erodoteo: quali? È possibile osservare anche una differenza di registro e di stile fra le due versioni del racconto? 3. Approfondimento e riflessioni personali L’insegnamento morale della favola di Cleobi e Bitone è sintetizzato da Erodoto al centro del racconto e coincide con la sentenza di Sileno riportata da Cicerone. Offri una sintetica riflessione su come questa morale intorno alla felicità umana sia stata affrontata in altri testi della letteratura antica, con speciale riferimento al genere della tragedia.
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Tema
Un lutto inconsolabile PRIMA PARTE
Traduzione di un testo in lingua greca La vita di Plutarco e di sua moglie Timossena è sconvolta da un lutto improvviso, la morte della figlia di appena due anni. Plutarco non è a casa insieme alla moglie, ma riceve la notizia mentre è in viaggio, quando, sulla via del ritorno verso Cheronea, sosta a Tanagra, in Beozia, presso una parente. Plutarco riversa le proprie riflessioni sulla pagina scritta, in una lettera commossa indirizzata alla moglie. Ne nasce un opuscolo che si distingue per intensa e profonda umanità e insieme controllata riflessività sul dolore, aprendo uno spiraglio sui sentimenti più intimi della vita domestica e matrimoniale. Lo scritto morale di Plutarco si inserisce nel genere, molto praticato in Grecia come a Roma, della consolazione. Lo stesso Plutarco è autore di una Consolatio ad Apollonium. Ma nella lettera rivolta alla moglie, composta nell’urgenza del lutto familiare, la riflessione si svolge attraverso un discorso misurato ma vibrante, che unisce la speculazione intellettuale intorno al mistero della morte alla tenerezza del ricordo e alla solidarietà nel dolore con la moglie. PRE-TESTO
Plutarco saluta la moglie. L’uomo che hai mandato ad avvisarmi della morte della bambina mi ha mancato, pare, lungo la strada e ha proseguito per Atene: così io, giunto a Tanagra, ho saputo da mia nipote. Le esequie credo che siano già avvenute e nel modo, mi auguro, per te meno straziante, ora e nel tempo a venire; ma se c’è qualcosa che volevi e non hai fatto perché aspetti il mio parere, se pensi che possa alleviare il tuo dolore, fallo, evitando pratiche strane e superstiziose, che ti sono completamente estranee.
Plutarco, Consolazione alla moglie, 608 b-e
Μόνον, ὦ γύναι, τήρει κἀμὲ τῷ πάθει καὶ σεαυτὴν ἐπὶ τοῦ καθεστῶτος. Ἐγὼ γὰρ αὐτὸς μὲν οἶδα καὶ ὁρίζω τὸ συμβεβηκὸς ἡλίκον ἐστίν· ἂν δέ σε τῷ δυσφορεῖν ὑπερβάλλουσαν εὕρω, τοῦτό μοι μᾶλλον ἐνοχλήσει τοῦ γεγονότος. Καίτοι οὐδ’ αὐτός «ἀπὸ δρυὸς οὐδ’ ἀπὸ πέτρης» ἐγενόμην· οἶσθα δὲ καὶ αὐτὴ τοσούτων μοι τέκνων ἀνατροφῆς κοινωνήσασα, πάντων ἐκτεθραμμένων οἴκοι δι’ αὐτῶν ἡμῶν, τοῦτο δέ, ὅτι καὶ σοὶ ποθούσῃ θυγάτηρ μετὰ τέσσαρας υἱοὺς ἐγεννήθη κἀμοὶ τὸ σὸν ὄνομα θέσθαι παρέσχεν ἀφορμήν, οἶδα ἀγαπητὸν διαφερόντως γενόμενον. [...] Αὕτη δὲ καὶ φύσει θαυμαστὴν ἔσχεν εὐκολίαν καὶ πραότητα· [...] Ἀλλ’ οὐχ ὁρῶ, γύναι, διὰ τί ταῦτα καὶ τὰ τοιαῦτα ζώσης μὲν ἔτερπεν ἡμᾶς, νυνὶ δ’ ἀνιάσει καὶ συνταράξει λαμβάνοντας ἐπίνοιαν αὐτῶν. Ἀλλὰ καὶ δέδια πάλιν, μὴ συνεκβάλωμεν τῷ λυποῦντι τὴν μνήμην [...]. Πᾶν γὰρ ἡ φύσις φεύγει τὸ δυσχεραινόμενον. Δεῖ δέ, ὥσπερ αὐτὴ πάντων ἥδιστον ἡμῖν ἄσπασμα καὶ θέαμα καὶ ἄκουσμα παρεῖχεν ἑαυτήν, οὕτω καὶ τὴν ἐπίνοιαν αὐτῆς ἐνδιαιτᾶσθαι καὶ συμβιοῦν ἡμῖν πλέον ἔχουσαν μᾶλλον δὲ πολλαπλάσιον τὸ εὐφραῖνον ἢ τὸ λυποῦν· POST-TESTO
Se c’era qualche utilità nei discorsi che in più occasioni abbiamo rivolto ad altri, ha senso che si offra anche a noi in questo frangente, e non ci abbattiamo e non ci rinchiudiamo in noi stessi, ricambiando quei momenti felici con uno strazio mille volte più grande. (Pre-testo e post-testo: traduzione di G. Pisani, Bompiani 2017)
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Tema
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SECONDA PARTE
LINGUA E CULTURA GRECA - LINGUA E CULTURA LATINA Confronto con un testo in lingua latina, con traduzione a fronte Nel 45 a.C., a soli trentatré anni di età, muore a Tuscolo l’amatissima figlia di Cicerone, Tullia. Il dolore per Cicerone è inconsolabile e lo colpisce in un momento in cui anche la situazione politica è critica. Come altri intellettuali prima e dopo di lui, anche Cicerone prova a mettere in ordine le riflessioni intorno al tema della morte e compone una perduta Consolatio ad se ipsum, ispirata al fortunato trattato Περὶ πένθους, Sul lutto, del filosofo greco Crantore. Della Consolatio ciceroniana non resta che un frammento, ma del dolore conseguente alla perdita della figlia rimane traccia nell’epistolario, per altro in una forma – dato il tipo di comunicazione – più personale e sincera. In particolare leggiamo la lettera che Cicerone invia all’amico Servio Sulpicio, valente intellettuale e fine giurista. Questi aveva indirizzato a Cicerone da Atene un’epistola consolatoria, ricorrendo a vari argomenti di maniera. Nella sua risposta Cicerone ci parla dell’impossibilità di trovare sollievo nelle proprie forze intellettuali o tantomeno nell’attività politica.
Cicerone, Lettere ai familiari, IV 6,1
M. Cicero s.d. Ser. Sulpicio Ego vero, Servi, vellem, ut scribis, in meo gravissimo casu adfuisses. Quantum enim praesens me adiuvare potueris et consolando et prope aeque dolendo facile ex eo intellego quod litteris lectis aliquantum acquievi. [...] Sed opprimor interdum et vix resisto dolori, quod ea me solacia deficiunt quae ceteris, quorum mihi exempla propono, simili in fortuna non defuerunt. Nam et Q. Maximus, qui filium consularem, clarum virum et magnis rebus gestis, amisit, et L. Paulus, qui duo septem diebus, et vester Gallus et M. Cato, qui summo ingenio, summa virtute filium perdidit, iis temporibus fuerunt ut eorum luctum ipsorum dignitas consolaretur, ea quam ex re publica consequebantur. Mihi autem, amissis ornamentis iis quae ipse commemoras quaeque eram maximis laboribus adeptus, unum manebat illud solacium quod ereptum est. Non amicorum negotiis, non rei publicae procuratione impediebantur cogitationes meae, nihil in foro agere libebat, aspicere curiam non poteram, existimabam, id quod erat, omnis me et industriae meae fructus et fortunae perdidisse. Sed cum cogitarem haec mihi tecum et cum quibusdam esse communia et cum frangerem iam ipse me cogeremque illa ferre toleranter, habebam quo confugerem, ubi conquiescerem, cuius in sermone et suavitate omnis curas doloresque deponerem. Nunc autem hoc tam gravi vulnere etiam illa quae consanuisse videbantur recrudescunt. Non enim, ut tum me a re publica maestum domus excipiebat quae levaret, sic nunc 142
Marco Cicerone saluta Servio Sulpicio. Davvero, Servio, avrei voluto, come tu mi scrivi, che mi fossi stato accanto nel frangente gravissimo che mi ha colpito. Infatti quanto avresti potuto con la tua presenza aiutarmi, attraverso sia la consolazione sia la comunione quasi del dolore, ben lo comprendo anche solo dal fatto che un po’ di ristoro ho trovato già dalla lettura della tua lettera. [...] Eppure mi sento talvolta oppresso e a stento resisto alla sofferenza, poiché mi mancano quei conforti che invece non mancarono in simili frangenti ad altri, di cui spesso mi propongo gli esempi. Infatti anche Quinto Massimo, che perse un figlio ex console, uomo celebre già autore di grandi imprese, e Lucio Paolo, che perse due figli in appena sette giorni, e il vostro Gallo e Marco Catone, che perse un figlio di sommo ingegno ed eccelsa virtù, tutti costoro vissero in tempi tali che il loro stesso prestigio li consolava della loro perdita, quel prestigio che veniva dallo stato. A me invece, perduti quegli onori che anche tu menzioni e che avevo conseguito con grandissime fatiche, restava solo quel conforto che ora mi è stato strappato. Né le faccende degli amici, né la cura dello stato impedivano i miei pensieri, non trovavo piacere alcuno nel foro, non potevo neppure vedere la curia del senato, ritenevo, come effettivamente era, di aver perduto tutti i frutti e del mio impegno e della fortuna. Ma anche quando pensavo che questa condizione mi accomunava a te come ad altri e mi forzavo e mi costringevo a sopportare le mie disgrazie con pazienza, avevo
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24 domo maerens ad rem publicam confugere possum ut in eius bonis acquiescam. Itaque et domo absum et foro, quod nec eum dolorem quem e re publica capio domus iam consolari potest nec domesticum res publica.
da chi rifugiarmi, dove trovare pace. Ogni preoccupazione, ogni dolore deponevo nella conversazione con lei, nella sua dolcezza. Ma ora, in seguito a questo colpo così grave, si riaprono anche tutte quelle ferite che sembravano essere sanate. Allora la casa mi accoglieva afflitto dalle vicende della vita politica, offrendomi un conforto; adesso al contrario, desolato in casa, non posso trovare sollievo nella politica, per avere un po’ di pace nelle soddisfazioni che offre. Sicché sono assente tanto da casa quanto dal foro, giacché né la casa è in grado di consolarmi dei dolori che mi procura la politica, né viceversa. (Traduzione di R. Capel Badino)
TERZA PARTE
Tre quesiti, a risposta aperta, formulati su entrambi i testi proposti in lingua originale e sulle possibili comparazioni critiche fra essi. Il limite massimo di estensione è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo. 1. Comprensione/interpretazione Plutarco apre uno spiraglio sulla vita domestica. Che cosa apprendiamo della sua famiglia? Dalle parole che l’autore le rivolge, emerge anche il legame che univa Plutarco alla moglie. Che cosa possiamo dire di questa donna? Quali sono invece i sentimenti che suscita la piccola bambina nei genitori? Anche Cicerone nella lettera a Sulpicio ci parla della sua dimensione domestica. Che cosa ci dice della sua casa? 2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione La Consolatio di Plutarco è un trattato in forma epistolare. Il testo di Cicerone invece costituisce una vera e propria lettera. Entrambi i testi dunque corrispondono alle convenzioni del genere epistolare. Prova a riconoscere alcune caratteristiche formali di questo tipo di comunicazione. La forma epistolare e il destinatario influiscono anche sul modo in cui i contenuti sono affrontati, che risulta più personale. Questo si traduce nella condivisione dei ricordi e dei sentimenti di tenerezza e nella possibilità di confessare apertamente la propria fragilità. In quali punti dei due testi traspaiono questi atteggiamenti? 3. Approfondimento e riflessioni personali Entrambi gli autori richiamano a una sorta di disciplina del dolore. La risposta di Plutarco al lutto proprio e della moglie non è la fredda imperturbabilità del saggio stoico (ἀπάθεια), ma un più realistico atteggiamento di moderazione nella manifestazione delle passioni (μετριοπάθεια), un regime di autocontrollo, diremmo. Anche Cicerone sembra condividere questo atteggiamento, sebbene confessi che, nella situazione storica a lui contemporanea, sia difficile conformarsi ai modelli e ai precetti. Proponi una sintetica riflessione intorno al tema della misura (μετριότης), così centrale nell’etica antica. © Casa Editrice G. Principato SpA
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Griglia di valutazione per l’attribuzione dei punteggi Indicatore (correlato agli obiettivi della prova)
Comprensione del significato globale e puntuale del testo
Nulla
0,5
Scarsa
2
Parziale
3
Sufficiente
4
Discreta
5
Completa
6 1
Approssimativa
2 3
Sicura
4
Nulla
0,5
Sufficiente Discreta Buona Eccellente
Ricodificazione e resa nella lingua d’arrivo
Pertinenza delle risposte alle domande in apparato
1,5 2 3
Insufficiente
1
Sufficiente
1,5
3
2
Discreta
2,5
Efficace
3
Assente
0,5
Parziale
1
Sufficiente
2
Adeguata
2,5
Completa
3
Profonda
4
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3
2,5
0,5
Mediocre
4
1
Gravemente insufficiente
La sufficienza si ritiene ottenuta al raggiungimento di un punteggio di 12/20.
144
2,5
Più che sufficiente
Parziale Comprensione del lessico specifico
0,5
Insufficiente Sufficiente
6
4,5
Buona Del tutto insufficiente Individuazione delle strutture morfosintattiche
Punteggio max per ogni indicatore (totale 20)
Livello e relativi punteggi
4