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Contributo per una storia iconogra0ico-iconologica della morte

(II parte)

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Rodolfo Papa

L'

angoscia della morte è sempre in agguato nei pensieri degli uomini, nell'impossibilità di sfuggire al destino naturale comune a tutti gli esseri viventi, come testimonia un drammatico passo del profeta Isaia:

«Io dicevo: "A metà della mia vita / me ne vado alle porte degli inferi; / sono privato del resto dei miei anni". // Dicevo: "Non vedrò più il Signore / sulla terra dei viventi / non vedrò più nessuno / fra gli abitanti di questo mondo. // La mia tenda è stata divelta e gettata lontano, / come una tenda di pastori. / Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, / mi recidi dall'ordito. / In un giorno e una notte mi conduci alla Qine". // Io ho gridato Qino al mattino. / Come un leone, cosı̀ egli stritola tutte le mie ossa. / Pigolo come una rondine / gemo come una colomba» (Is 38, 10-14).

Nel corso della storia, attorno all'orrore della morte si sono prodotti molti sistemi di pensiero e molte visioni del mondo. A volte, è sembrato che l'arte stessa offrisse il rimedio, nel tentativo di volgere, anche solo per un istante, a favore dell'uomo, l'impari lotta con l'annientamento totale che la morte produce. Convinto che la bellezza dei suoi versi gli avrebbe reso l'immortalità, Quinto Orazio Flacco scriveva:

«Ho innalzato un monumento più perenne del bronzo e più alto del regale riposo delle piramidi, che non possano distruggere né la pioggia che corrode, né l'Aquilone sfrenato, né la serie inQinita degli anni, né la fuga del tempo. Non morirò del tutto, ma gran parte di me riuscirà a sfuggire a Libitina: io crescerò rinnovandomi di continuo nella gloria postuma, Qinché il ponteQice massimo con la vergine silenziosa salirà al Campidoglio. Si dirà che io - là dove l'Ofanto violento risuona e dove Daunio povero d'acque regna sui popoli contadini, da umile divenuto grande, abbia per primo trasferito la poesia eolica in ritmi italici. Melpomene, va' orgogliosa di ciò che hai conseguito meritatamente e cingimi propizia con la corona d'alloro delQico la chioma» (Carmina, III, 30) .

In Orazio la fama dell'arte poetica diviene mezzo per raggiungere l'immortalità, l'endecasillabo diviene la forma di un monumento che, stando alle sue stesse parole, non si consuma. La poesia garantisce, Qinché è recitata o letta, l'immortalità del poeta, o forse, dovremmo dire, la memoria ammirata del poeta. Certamente, l'arte percorre una via che può condurre alla fama, ma anche questa, come tutte le cose del mondo, è destinata a perire. La prospettiva cristiana, pur rispettando le arti e il valore della bellezza come mezzo di ediQicazione morale e di cultura, s'interroga sul valore di queste in maniera diversa. L'arte è in sommo grado il luogo della rappresentazione della bellezza e perciò stesso della verità e di ciò che è buono, ma non è il luogo

Figura 1. Monumento funebre di Cangrande della Scala, ingresso laterale della chiesa di S. Maria Antica, Verona.

Rodolfo Papa, PhD. Pittore, scultore, teorico, storico e Qilosofo dell'arte. Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Accademico Ordinario della PontiQicia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Docente di Arte Sacra, Tecniche Pittoriche nell’Accademia Urbana delle Arti. Presidente dell'Accademia Urbana delle Arti. Già docente di Storia delle teorie estetiche, Storia dell’Arte Sacra, Traditio Ecclesiae e Beni Culturali, FilosoQia dell’Arte Sacra (Istituto Superiore di Scienze Religiose Sant'Apollinare, Roma; Master II Livello di Arte e Architettura Sacra della Università Europea, Roma; Istituto Superiore di Scienze Religiose di Santa Maria di Monte Berico, Vicenza; PontiQicia Università Urbaniana, Roma; Corso di Specializzazione in Studi Sindonici, Ateneo PontiQicio Regina Apostolorum). Tra i suoi scritti si contano circa venti monograQie, molte delle quali tradotte in più lingue e alcune centinaia di articoli (“Arte Cristiana”; “Euntes Docete”; “ArteDossier”; “La vita in Cristo e nella Chiesa”; “Via, Verità e Vita”, “Frontiere”, “Studi cattolici”; “Zenit.org”, “Aleteia.org”; “Espiritu”; “La Società”; “Rogate Ergo”; “Theriaké” ). Collaborazioni televisive: “Iconologie Quotidiane” RAI STORIA; “Discorsi sull’arte” TELEPACE. Come pittore ha realizzato interi cicli pittorici per Basiliche, Cattedrali, Chiese e conventi (Basilica di San Crisogono, Roma; Basilica dei SS. Fabiano e Venanzio, Roma; Antica Cattedrale di Bojano, Campobasso; Cattedrale Nostra Signora di Fatima a Karaganda, Kazakistan; Eremo di Santa Maria, Campobasso; Cattedrale di San PanQilo, Sulmona; Chiesa di san Giulio I papa, Roma; San Giuseppe ai Quattro Canti, Palermo; Sant'Andrea della Valle, Roma; Monastero di Seremban, Malesia; Cappella del Perdono, SS. Sacramento a Tor de'schiavi, Roma …)

deQinitivo; essa, infatti, si fa ancillare di una visione ulteriore, e si offre solo come strumento di contemplazione verso realtà veramente eterne. Anche i poeti e i pensatori cristiani hanno raccolto la sQida con la caducità delle cose attraverso il raggiungimento della fama artistica. Petrarca ed Erasmo da Rotterdam ne sono la prova, ma con una diversa coscienza dell’immortalità. Nell'ambito cristiano, infatti, il monumento del condottiero o del principe deve essere letto su più livelli, in quanto la componente politica, seppure importante, non è l'unica. Si potrebbe dire che la rafQigurazione del potere viene iscritta all'interno di una visione religiosa, in cui l'orizzonte morale del buon governo si fonda su istanze teologiche. Pensiamo in questo caso al doppio registro adottato per il seppellimento del ghibellino Cangrande della Scala; infatti, il monumento funebre, che si erge sull'ingresso laterale di Santa Maria Antica, è sormontato dalla statua equestre che lo ritrae in armi con Qiniture da parata, memoria e tributo della città al suo condottiero, mentre, al di sotto della statua, ritroviamo lo stesso identico impianto compositivo di "tipo escatologico" già visto nei monumenti funebri del cardinale Matteo d'Acquasparta e del cardinale Guglielmo Durando. Nella prospettiva pagana, l'angoscia della morte può diventare un ostacolo che impedisce di vivere, tanto che per poter vivere l'uomo dimentica di dover morire, e continua a costruire senza pensare al suo destino, come ricorda ancora Orazio:

La visione cristiana, invece, muta questa angoscia in una consapevolezza di speranza, come scrive san Paolo «la morte è stata trasformata in vittoria» (1 Cor 15,54). Il vivere per se stessi, in cui costruire e morire entrano in contraddizione, come abbiamo visto espresso poeticamente in Orazio, si risolve nel vivere per Cristo stesso, che trasforma il «Il vivere per se stessi, in cui costruire e morire entrano in contraddizione […] si senso della vita e della morte, e dà signiQicato ad entrambe. San Paolo esplirisolve nel vivere per Cristo stesso, che cita proprio questa certeztrasforma il senso della vita e della morte, e za, scrivendo: dà significato ad entrambe» «Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore, siamo dunque del Signore» (Rm 14, 7-8). La vera sapienza del cristiano è quella di morire alla vita, nel senso di rinunciare a vivere per se stessi e di iniziare a vivere per il Signore, come scrive ancora san Paolo «cotidie morior» (1Cor 15, 31), e cioè «muoio un poco ogni giorno». A questo punto, per meglio comprendere il signiQicato dei monumenti funerari, dobbiamo soffermarci su un elemento importante, cioè la presenza dei ritratti dei defunti e dei santi protettori. Proprio al proposito dell'uso del ritratto nelle cappelle private, Aby Warburg, riQlettendo sulla già citata cappella Sassetti in Santa Trinita, metteva in evidenza il senso di questa tradizione:

«II giorno caccia il giorno / la luna nuova viaggia al suo tramonto / tu commissioni tagli ampi di marmi / nell'imminenza della tua sepoltura / e levi case e scordi la tua tomba / sconvolgi coste / argini il mare che percuote Baia / per conQine una spiaggia / è poco signorile» (Carmina, II, 18, 15-22).

«si capirà perché ad esempio nella “Conferma dell'ordine” e nel “Miracolo della risurrezione” s'inseriscano cosı̀ vistosi e numerosi i ritratti della consorteria Sassetti: per

Figura 2. Michelangelo Meriai da Caravaggio, Madonna dei pellegrini, cappella Cavalletti, Basilica di S. Agostino in Campo Marzio, Roma.

raccomandarsi alla protezione del santo in un atto di percettibile devozione, il quale potrà sembrare troppo vistoso al puro senso artistico del Rinascimento, ma non poteva lontanamente destare l'idea di una trasgressione profanante dei limiti presso i Qiorentini del tempo; erano pur soliti ammirare devotamente nella SS. Annunziata la folla delle statue in cera in grandezza naturale, offerte in abiti dell'epoca, come voti, da donatori anche di altri paesi» [1].

Ritengo importante mettere in relazione proprio le Qigure in cera esposte nell'Annunziata, messe in evidenza da Warburg, con la pratica romana dei volti in cera degli antenati. I romani, infatti, avevano introdotto l'uso delle imagines, ovvero dei calchi in cera, vere e proprie maschere funerarie, che esposte negli atrii delle case patrizie erano al contempo memoria degli antenati e fondamento giuridico della stessa gens a cui esse appartenevano, come ci ricorda Plinio il vecchio:

«Ben diversi erano i ritratti che si potevano vedere negli atrii degli antenati; non statue, opere di artisti stranieri, né in bronzo né in marmo; erano volti modellati in cera che venivano disposti in ordine in singole nicchie per avere immagini che accompagnassero i funerali gentilizi e ad ogni nuovo morto era sempre presente la folla dei familiari vissuti in ogni tempo prima di lui. Del resto gli alberi genealogici si allargavano con le loro linee ramiQicate conducenti ai singoli ritratti dipinti. Gli archivi di famiglia erano pieni di registri e di documenti relativi alle imprese compiute durante le magistrature. Fuori e intorno alle soglie c'erano altre immagini di grandi animi, con le spoglie tolte al nemico che neanche al compratore era consentito staccare, cosicché le case continuavano eternamente a trionfare anche mutando i padroni. Questo rappresentava un grande stimolo poiché ogni giorno le mura sembravano rimproverare al padrone imbelle di entrare a far parte di un trionfo altrui» [2].

I calchi in cera dei volti dei defunti, conservati negli atrii delle case al Qine di esporli nei funerali, erano segni distintivi delle famiglie della nobilitas. Su queste immagini si fondava di fatto lo statuto giuridico, appunto lo ius imaginum; infatti nell'esibizione dei volti degli antenati veniva mostrata tutta la forza dell'antico lignaggio, formato da personaggi illustri in campo giuridico e militare. La distanza tra la pratica romana dell'esposizione delle imagines degli antenati e il ritratto funebre cristiano è evidente; quest'ultimo, infatti, pur riprendendo la forma antica del ritratto funebre ne muta segno, anzi potremmo dire che annulla quello precedente per rifondarlo nell'ottica teologica della "storia della salvezza". Il defunto non è ricordato solo per il suo successo economico, politico e militare, per il suo impegno nella ediQicazione della civitas umana, ma è rappresentato come membro della civitas Dei, sua vera dimora e luogo della sua pace. Per certi versi si può affermare che nella tradizione cristiana si sia mantenuta la pratica dell'esposizione dei ritratti degli "uomini illustri", ma questa è mutata in una galleria di ritratti di santi, membra di Cristo e gloria stessa di tutto il popolo di Dio. In altre parole, la funzione del ritratto, come fondamento giuridico familiare presso i romani, si estende a signiQicare l'appartenenza al Corpo Mistico della Chiesa, di cui sono parte tutti i battezzati. In questa prospettiva, i ritratti dei santi ricordano non solo da dove veniamo, ma anche la deQinitiva vittoria sulla morte conquistata da Cristo. Come scrive san Paolo nella lettera ai Romani:

«Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, Egli morı̀ al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che Egli vive, vive per Dio. Cosı̀ anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6, 8-11).

Figura 3. Buonamico Buffalmacco, Trionfo della morte, affresco, 1336-1341, Campo Santo, Pisa.

Lo ius imaginum risulta, dunque, ribadito ed esaltato nella prospettiva cristiana, cosı̀ come il concetto di antenato e di uomo illustre viene risolto in prospettiva teologica: il santo dà lustro ed esempio, proprio perché la sua vita rimanda a Cristo. In quest'ottica, non solo comprendiamo il senso teologico che è forma delle chiese, ma anche il senso antropologico che il cristianesimo mette in campo nella propria riQlessione artistica. Una pala d'altare come la Madonna dei pellegrini [3], dipinta da Caravaggio intorno al 1606 per la Cappella Cavalletti in Sant'Agostino a Roma, se osservata con questo sguardo particolare, diviene ben altra cosa da quello che siamo soliti vedere attraverso ricostruzioni iconologiche incomplete. I due pellegrini, ritratto dei marchesi Cavalletti, madre e Qiglio, entrambi defunti al momento della realizzazione dell'opera, sono inginocchiati al cospetto di Maria, nel loro ultimo pellegrinaggio alla santa Casa di Loreto, dove la Vergine li accoglie facendoli benedire dal Figlioletto che tiene tra le braccia. Questo non è semplicemente il ritratto di due nobili romani, ma il testamento in forma di preghiera che essi innalzano alla Vergine in segno di devozione, esprimendo tutta la loro speranza di essere accolti in quella casa, alla quale più volte si sono recati in pellegrinaggio. Entrare nella casa di Maria equivale ad entrare nella casa del Padre, ovvero nel Regno dei cieli, nella beatitudine di Dio, avvolti cioè nell'amore del Creatore. La pala d'altare della cappella funeraria dei marchesi Cavalletti è l'esplicitazione del sentimento religioso dei due defunti lı̀ rappresentati. Essa è la declinazione pittorica della preghiera mariana che hanno recitato durante tutta la vita, nell'occasio-

ne dei pellegrinaggi e in punto di morte; il dipinto è descrizione stessa della preghiera che continuano a pregare anche dopo morti e con la quale invitano i parenti a pregare per loro: «Salve, Regina, Mater misericordiae, vita, dulcedo, et spes nostra, salve. Ad te clamamus, exsules Filii Evae, ad te suspiramus, gementes et Flentes in hac lacrimarum valle. Eia ergo, advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte. Et Iesum, benedictum fructum ventris tui, nobis, post hoc exilium, ostende. O clemens, O pia, O dulcis Virgo Maria». L'iconograQia cristiana è sempre dotta e popolare insieme, unisce la sapienza dei dotti e la saggezza del popolo, è capace di dire cose complesse in modo immediato, è difQicile ma mai astrusa, è sempre decodiQicabile da tutti i battezzati «L'iconografia cristiana è sempre dotta e se in possesso dei requisiti minimi indispensabili popolare insieme, unisce la sapienza dei per praticare con cosciendotti e la saggezza del popolo, è capace di za la propria fede, non è dire cose complesse in modo immediato, è mai esoterica. E cosı̀ anche difficile ma mai astrusa, è sempre per l'iconograQia della decodificabile da tutti i battezzati se in possesso dei requisiti minimi indispensabili morte la chiave d'accesso è la fede. Dunque, inserire il proprio o l'altrui ritratto per praticare con coscienza la propria fede, all'interno di una chiesa è non è mai esoterica» segno di appartenenza al Corpo Mistico che essa stessa rappresenta, riponendo in questo segno il senso più intimo della speranza di salvezza e dell'afQidamento di protezione che, attraverso l'intercessione dei santi a cui si è devoti, si chiede direttamente a Dio. Il ritratto, soprattutto funebre, acquista in questa particolare declinazione devozionale, la funzione di ex voto che, posto all'interno di una chiesa o di un santuario, svolge la funzione di rammemorare la richiesta supplice e di confermare l'appartenenza del fedele al novero di

Figura 4. Giorgione, Vecchia, Gallerie dell’Accademia, Venezia.

coloro che letteralmente abitano (o desiderano abitare) la "casa" del Signore. A questo punto del percorso, possiamo affrontare una ulteriore questione interna al tema della rappresentazione iconograQica della morte, ovvero l'evidenziazione di due registri distinti. Da una parte, abbiamo la rafQigurazione religiosa del defunto, che è solitamente inserita in un contesto escatologico, come abbiamo Qin qui analizzato. Dall'altra però si deve evidenziare la rappresentazione iconograQica della morte come evento naturale, che muta nel tempo e che acquista gradualmente una simbologia che dura Qino ai nostri giorni. La morte viene spesso rappresentata come un angelo distruttore, come possiamo vedere ne Il trionfo della morte, dipinto da Buonamico Buffalmacco nel Camposanto di Pisa intorno al 1350. La morte viene anche simboleggiata attraverso la metafora del tempo, facendo riferimento, in alcuni casi, alla tradizione classica del vecchio alato oppure della clessidra come nell'incisione ad acquaforte realizzata da Pierre Boissard, intorno all'anno 1660, che rappresenta Il tempo che ricompensa il lavoro e punisce la pigrizia. In altri casi, è molto diffusa la rappresentazione della corruzione del corpo e quindi della bellezza, che sottomessa dal tempo, sQiorisce Qino a perdere ogni sua sembianza riducendosi in polvere, come nel caso di Hans Baldung Grien, che agli inizi del Cinquecento, nelle sue opere affronta più volte il tema morale della Fanciulla e la morte. Ancora più famoso è l'esempio della Vecchia [4] di Giorgione, conservata alle Gallerie dell'Accademia di Venezia, nel quale l'introduzione del cartiglio recante la scritta "Col tempo" rafforza il monito che l'anziana protagonista lancia all'osservatore, guardandolo dritto negli occhi mentre con la mano destra indica se stessa. Innumerevoli sono i dipinti, le incisioni e le sculture che rappresentano allegorie dello scorrere del tempo e della fugacità della vita, inserite anche in ritratti, come nel famosissimo Ritratto di gentiluomo di Lorenzo Lotto, conservato nella Galleria Borghese a Roma, che ritrae il principe epirota e uomo d'armi Mercurio Bua, nel momento del dolore per la scomparsa della moglie, e i petali staccati e sparsi sul tavolo sotto la sua mano destra indicano chiaramente non solo la fugacità del tempo, ma la corruzione delle cose belle. InQine, si può rintracciare un Qilone che tenderà a rappresentare sempre più spesso la morte con uno scheletro, o in forma sintetica con un teschio, tanto da divenire, a partire dalla metà del Quattrocento, l'iconograQia più diffusa che continuerà Qino ai nostri giorni. Si possono annoverare moltissime opere che ritraggono uno scheletro come rappresentazione della morte, ad esempio il caso palermitano del Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis, dove la morte in groppa ad uno scheletro di cavallo miete vittime di ogni rango sociale, portando la distruzione degli esseri viventi. Oppure il meno noto esempio degli affreschi conservati nella chiesa della SS. Trinità, nella cittadina di Hrastovlje (Cristoglie) in Slovenia a pochissima distanza dal conQine italiano, realizzati intorno al 1490 da Giovanni di Castua, che mettono in scena una lunga processione di uomini e donne di ogni rango sociale, poveri, storpi, principi, dame, re e

Figura 5. Lorenzo Lotto, Ritratto di gentiluomo, Galleria Borghese, Roma.

Figura 6. Maestro del trionfo della morte, Trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo.

papi che, accompagnati ciascuno da uno scheletro, sembrano "danzare" verso la loro propria Qine naturale, sottolineando la caducità di ogni privilegio, come di ogni sofferenza. Tale affresco è certamente riconducibile al tema letterario dell'“Incontro dei tre vivi e dei tre morti”. L'introduzione dello scheletro e la sua affermazione in campo iconograQico si mescola talvolta con elementi preesistenti, dando origine a composizioni complesse e ricche, come si può notare nella famosissima miniatura nota come La morte del cristiano, inserita nel Libro delle Heures de Rohan, opera realizzata dall'ignoto Maestro delle Ore di Rohan intorno al 1418 (Ms. Lat. 9471-f. 159r Bibliothèque National, Parigi) dove il morto, rappresentato nella fossa e circondato da ossa e teschi, dichiara apertamente in un cartiglio la fede nella misericordia di Dio , che appare in vesti regali con in mano il globo e la spada, simboli consolidati di potere e di giustizia, mentre l'arcangelo Michele, in un combattimento aereo, si avventa su un demone alato, per strappargli dalle grinQie l'anima del defunto, attuando in tal modo l'estrema giustizia della misericordia divina. Tutte queste rappresentazioni non sono altro che estensioni Qigurate di una visione spirituale della morte molto diffusa nel corso di questi secoli. Infatti, sia nelle predicazioni sia nei trattati spirituali, il tema della presa di coscienza della morte è promosso con costanza. L'efQicacia del memento mori nella spiritualità del fedele è costantemente ricordata e caldeggiata come mezzo efQicace per la conversione dei cuori e il cambiamento dei costumi. In tal senso si possono ricordare innumerevoli pubblicazioni, divise equamente tra testi di spiritualità e raccolte di prediche, tutte tese a produrre effetti salutari nell'anima dei fedeli, spronandoli non solo alla preghiera ma alle pratiche di carità e di giustizia, alla rettitudine morale e alla coltivazione delle virtù. Tra Trecento e Quattrocento si diffondono testi letterari dell'arte di ben morire, come attesta la Tyriaca di Galvano da Levanto, che a sua volta ha precedenti illustri nelle opere duecentesche di Jacopone da Todi,

Figura 7. Maestro delle Ore di Rohan, La morte del cristiano, inserita nel Libro delle Heures de Rohan, 1418, Ms. Lat. 9471-f. 159r Bibliothèque National, Parigi).

di Ugo di Miramors e di Innocenzo III, precursori appunto del genere di “scire mori”. Tra il 1350 e il 1450, si sviluppano e si intrecciano almeno cinque tipi differenti di "ars moriendi" che solitamente per convenzione si fanno corrispondere ai nomi di Suso, Petrarca, Gerson, Rickel e l'anonimo autore dell'Ars moriendi illustrata [5]. Suso e Petrarca inseriscono nei loro trattati la promessa di salvezza nel pentimento e nella Qiducia nel CrociQisso, mentre Gerson si rivolge in particolare al moribondo sofferente, consigliandogli di inscrivere con sopportazione paziente i dolori dell'infermità e della morte nell'imitazione della croce, come lavacro dei peccati e remissione delle pene del Purgatorio, e rivolgendosi direttamente al moribondo Gerson scrive: «virtù dello strazio presente, entrerai certamente in Paradiso» [6]. Rickel nel suo De quattuor novissimis, al punto della divisione tradizionale tra uomini naturali e uomini spirituali, propone una distinzione sulla base del loro atteggiamento di fronte alla morte. L'uomo naturale è, infatti, quello che brama vivere e godere e teme l'annullamento Qisico come teme i dolori che lo precedono, mentre il virtuoso, il perfetto e il santo sono soliti desiderare la morte che pone termine alle miserie terrene e schiude la porta della felicità eterna nella gloria di Dio. In questa tradizione, ci sono anche componimenti che potremmo deQinire ironico-allegorici, come la Stultifera navis mortalium di Sebastian Brandt che, nella xilograQia della Morte del peccatore, nel fol. 40, irride al tardivo pentimento del fedele, che in vita si è comportato come un folle, rappresentandolo già entrato con i piedi nelle fauci del mostro infernale, che dal basso sale a divorarlo in un sol boccone. Del resto, possiamo ricordare all'interno di questo Qilone letterario anche le caustiche e goliardiche novelle del Decamerone di Boccaccio che, attraverso un complesso e articolato sistema di racconto, offrono un mezzo di riQlessione morale sulla vita in vista della morte. Parimenti, i TrionFi del Petrarca, poema incompiuto in terzine di endecasillabi a rima incatenata, rappresentano una riQlessione sulla vita attraverso un ricco complesso allegorico. In esso il poeta rappresenta in successione la contemplazione della visione del trionfo di Amore, della Pudicizia, della Morte, della Fama, del Tempo ed in Qine dell'Eternità. Nel Triumphus Mortis, Laura affronta la morte con virtù e con fede, e la morte viene rappresentata come "una donna involta in veste negra". Nella successione dei trionQi, la morte appare vinta dalla fama della virtù, che però a sua volta è logorata dal trionfo del tempo, solo l'Eternità trionfa su tutto e deQinitivamente; ma in questa catena di trionQi, il primo a dover essere vinto è la concupiscenza. Dunque, Petrarca invita a praticare le virtù in vista dell'eternità: la donna, bella e amata, è "trionfante" in quanto entrata nell'eternità. A questo tipo di modello letterario, potremmo associare il famosissimo monumento funebre di Ilaria del Carretto, realizzato tra il 1406 e il 1413 da Jacopo della Quercia, nella Cattedrale di San Martino a Lucca. La giovane è rafQigurata adagiata su un catafalco funebre, ritratta come se dormisse, rappresentata nello splendore della sua bellezza, come se la morte non l'avesse segnata. Il cane, che è rafQigurato adagiato ai suoi piedi, fa la guardia al suo corpo ed è non solo allegoria della fedeltà coniugale, ma anche metafora della pudicizia che, in quanto attributo morale, crea un ponte ideale tra Ilaria e la Laura di Petrarca. La bellezza della giovane è eternata nel marmo per vincere momentaneamente il trionfo della morte su di essa, e consolare quanti in vita l'hanno amata, ma anche a questo capolavoro dobbiamo dare la giusta interpretazione ponendolo in luce in prospettiva escatologica. Ilaria attende serena la risurrezione della carne per entrare nello splendore dell'eternità, grazie alle virtù possedute e coltivate, al cospetto del sommo Giudice nella gloria della Trinità. Del resto il modello a catafalco a cui fa riferimento la tomba realizzata da Jacopo della Quercia trova un

Figura 8. Jacopo della Quercia, Monumento funebre di Ilaria del Carretto, 1406-1408, Cattedrale di S. Martino, Lucca.

mirabile esempio di poco antecedente nella Tomba di Filippo l'Ardito, realizzata tra il 1390 e il 1406 in Borgogna da Claus Sluter, conservata nel Musée Archéologique di Digione. Il gusto ancora fortemente gotico e la ricerca di un realismo plastico fanno di questo monumento funebre uno dei massimi capolavori scultorei del Quattrocento Qiammingo. La sequenza dei Pleurants, monaci piangenti in preghiera, evidenzia l'atmosfera di cordoglio attorno al feretro del Duca, che letteralmente è sorretto dalle preghiere claustrali, mentre la fortezza, allegoricamente rappresentata dal leone che riposa ai suoi piedi, è attributo imprescindibile per rappresentare le virtù del regnante defunto rafQigurato con la mani giunte strette attorno alla spada, simbolo evidente del suo governo, con il capo incoronato adagiato dolcemente sopra un cuscino mentre due angeli sono in procinto di velare il volto con il sudario. Et interessante concludere questo percorso nell'“ars moriendi", ricordando Pietro Barozzi, vescovo di Belluno e poi di Padova, che scrisse, intorno al 1480, De modo bene moriendi, in cui tesse l'elogio della peste, perché, a causa dell'estrema mortalità recata da questa malattia, coloro che ne sono affetti, in particolare i giovani, avendo una bassa speranza di guarigione, dispongono l'animo al pentimento. Pietro Barozzi, operando una considerazione di carattere antropologico, afferma che l'uomo, non potendo volere il proprio annientamento Qisico, è indotto a sperare oltremodo nella guarigione, mentre il miglior modo di predisporsi ad una buona morte è dubitare della guarigione. La riQlessione del vescovo Barozzi pone in evidenza il ruolo dell'amico devoto, che il fedele deve essersi coltivato in vita proprio in vista dell'agonia, in quanto tale amico deve svolgere la delicata funzione di annunciare al malato l'inevitabilità della morte. La consapevolezza della malattia del corpo dovrebbe ingenerare un percorso di guarigione spirituale. Alla luce di quanto Qin qui detto, si possono comprendere anche monumenti funebri che solitamente vengono ricordati nella storia dell'arte per altri motivi ed in altri ambiti di ricerca. Il primo è la monumentale Tomba di Alessandro VII Chigi, realizzata tra il 1671-78 da Gian Lorenzo Bernini e dai suoi collaboratori, all'interno della Basilica di San Pietro in Vaticano, sul lato destro del passaggio tra la cappella della Madonna della colonna e il transetto di sinistra. Il monumento funebre è commissionato direttamente dal ponteQice nei primi anni del suo pontiQicato, ma alla sua morte, il 22 maggio 1667, i lavori non avevano ancora avuto inizio. Clemente X Altieri volle rispettare il desiderio del suo predecessore, incoraggiando il cardinale Flavio Chigi, nipote di Alessandro VII, a Qinanziare i lavori e quindi portare a termine l'impresa. Bernini costruisce uno spazio architettonico attraverso la scultura e, collocando il monumento al di sopra di un passaggio verso l'esterno della basilica, enfatizza ulteriormente il senso escatologico della composizione. Infatti, il ritratto del ponteQice viene collocato inginocchiato sopra un piedistallo in alto, sormontando

Al centro, proprio sopra la porta, il panneggio è sollevato da uno scheletro alato, rafQigurazione della morte che annienta e vince tutti i legami dell'uomo, che in mano porta una clessidra, metafora del tempo che corrompe tutte le cose, in una rappresentazione della "mors omnia solvit", intesa non solo in senso giuridico, ma anche in senso antropologico. Il signiQicato complessivo di questo monumento funebre è racchiuso proprio nelle tre Qigure frontali, giacché la morte apre la strada: Mors est ianua vitae. Qui, letteralmente è presente una porta. La morte dell'uomo virtuoso è dunque una porta verso l'eternità. Il monumento allora risuona ancora oggi come un trattato dell'arte di ben vivere e di ben morire, ultimo lascito di un ponteQice che nel pensare la propria sepoltura costruisce un testamento morale e spirituale, che sembra parafrasare le imperiture parole di san Paolo:

un immenso panneggio realizzato in travertino romano e ricoperto di diaspro di Sicilia. Il panneggio è circondato da quattro statue allegorie di virtù: la Carità posta a sinistra di chi guarda in primo piano, poi, dietro, la Giustizia e la Prudenza ed in Qine sul lato destro, in primo piano, la Verità che fa splendere la sua luce e illumina il mondo dal quale si erge radiosa. Si potrebbe dire che questo monumento funebre non solo ha sapore escatologico, ma è anche rappresentazione del Salmo 84 che recita:

«La sua salvezza è vicina a chi lo teme / e la sua gloria abiterà la nostra terra. / Misericordia e verità s'incontreranno, / giustizia e pace si baceranno. / La verità germo-

glierà dalla terra / e la giustizia si affaccerà dal cielo. // Quando il Signore elargirà il suo bene, / la nostra terra darà il suo frutto. / Davanti a lui camminerà la giustizia / e sulla via dei suoi passi la salvezza». «Quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria (Is 25, 8). Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? Figura 9. Gian Lorenzo Bernini, Monumento funebre di Alessandro VII, 1672-1678, Basilica di (Os 13, 14). Il pungiglione della morte S. Pietro, Città del Vaticano. è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1 Cor 15, 54-57). Questo monumento funebre, come del resto altri eretti dai ponteQici, deve essere visto non alla luce di una interpretazione sfarzosa, ma all'interno di una visione complessa quanto ricca di signiQicato spirituale e salviQico, come fosse l'estrema "enciclica" scritta da un ponteQice sul tema della morte cristiana, e quindi sulla vita eterna e sui mezzi con cui conseguirla. L'altro monumento, o meglio gruppo scultoreo, che in conclusione è interessante prendere in analisi è la

Figura 10. Michelangelo Buonarroti, Pietà Bandini, 1547-1555, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze.

Pietà Bandini, realizzata tra il 1550 e il 1555 da Michelangelo Buonarroti come monumento funebre per la sua sepoltura, oggi conservata nel Museo dell'Opera del Duomo a Firenze. Michelangelo pensa a questo gruppo statuario in vista della collocazione sulla sua tomba. L'artista si autoritrae nei panni di Nicodemo mentre sorregge il corpo morto di Gesù Cristo, deposto dalla croce, collocato tra un angelo e Maria. In questo modo Michelangelo costruisce sapientemente un inno a Cristo salvatore del mondo, esprimendo di fatto tutta la sua fede, declinandola con un linguaggio artistico articolato, ma nel contempo sintetico. Infatti Nicodemo, ricordato dalla tradizione come “protoscultore” di un CrociQisso [7], diviene Qigura dello stesso Michelangelo che, rappresentando ancora il proprio nome nelle fattezze dell'angelo dolente al Qianco del corpo morto di Cristo, si ritrae come artista a servizio di Cristo e della Chiesa, implorando cosı̀ la misericordia divina per tramite di Maria. Collocando questo gruppo statuario sull'altare della sua tomba, egli progetta una perenne preghiera di supplica che, sopravvivendogli nel tempo, sia capace di lucrare, nell'intenzione della fede con la quale l'ha realizzata, la remissione dei peccati per giungere più rapidamente al cospetto del Creatore nello splendore della vita eterna. Nell'opera di Michelangelo, troviamo dunque radunati tutti i signiQicati del monumento funebre: ricordo della persona, memento morale, monito, ius imaginum cristiano, preparazione alla morte, preghiera di intercessione, apertura alla vita eterna.

Bibliografia e note

1. Warburg A., Le ultime volontà di Francesco Sassetti (1907). In La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, raccolti da Bing G., Lipzing-Berlin 1932, trad. it. Cantimori E., La Nuova Italia, Scandicci 1966 (rist. 1991), p 224. 2. Plinio, Storia Naturale, trad. it. Corso A., Muggellesi R.,

Rosati G., Einaudi, Torino 1988, vol. V, libro 35, 6-7, pp. 298-299. 3. Riguardo la Madonna dei pellegrini del Caravaggio, cfr.

Papa R., Caravaggio pittore di Maria. Ancora, Milano 2005; Id., Caravaggio. L'arte e la natura, Giunti, Firenze 2008; Id., Caravaggio. Lo stupore dell'arte, Arsenale,

Verona 2009. 4. Cfr. Gentili A., Giorgione. "Dossier Art" n. 148, Giunti,

Firenze, 1999, pp. 19-21. 5. Cfr Tenenti A., Il senso della morte e l'amore della vita nel

Rinascimento. Einaudi, Torino 1989, cap. III, pp. 62-89. 6. Gerson G., De scientia mortis. In Opera, Parigi 1606, vol.

I, parte II, col. 281. 7. Cfr. per esempio Jacopo da Varazze, Legenda Aurea, a cura di Vitale Brovarone A.L., Einaudi, Torino 1995, pp. 753-754.

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