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Delle Arti
CARAVAGGIO
Introduzione al suo “enigma” (I parte)
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Rodolfo Papa
Figura 1. Michelangelo Merisi da Caravaggio, Buona ventura. Olio su tela (115x150 cm), 1593-1594, Pinacoteca Capitolina, Roma.
La prima delle questioni da affrontare per inquadrare l’opera di Caravaggio è legata ai termini teorici dell’arte e al loro sviluppo, alla 9ine del XVI secolo. Giacché si parla spesso di un Caravaggio geniale, rivoluzionario e ribelle, bisognerà che si chiariscano i termini in questione per vedere se veramente è stato tutte queste cose e con quale modalità. Occorre cioè analizzare come nasce la leggenda dell’artista geniale ma sregolato, bravissimo e ribelle. All’origine di tutto, c’è una certa letteratura critica contemporanea allo stesso Caravaggio, che ha prodotto, in una interpretazione letterale e decontestualizzata, una serie in9inita di fraintendimenti. Primo tra tutti, Karel Van Mander (1548-1606), uno degli autori “classici” sulla cui testimonianza una certa critica fonda la leggenda di Caravaggio. Van Mander è letto come un testimone attendibile solo perché descrive alcuni tratti caratteriali che si ripeteranno identici nella letteratura posteriore. Nella sua opera Het Leven der Moderne oft dees-Tijtsce doorluchtighe Italiaenische Schilders (Alkmaer 1603) egli scrive:
«Là c’è anche un Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose meravigliose. Egli pure, come il Giuseppe già menzionato [Giuseppe Cesari D’Arpino], è faticosamente uscito dalla povertà mediante il lavoro assiduo, tutto afferrando e accettando con accorgimento e ardire, secondo fanno alcuni che non vogliono rimanere sotto per timidezza e pusillanimità, bensì si spingono avanti franchi e senza vergogna e dappertutto cercano audacemente il loro vantaggio; il che se avviene in modo onorevole
Rodolfo Papa, pittore, scultore, teorico, storico e 9ilosofo dell’arte. Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Docente di Storia delle teorie estetiche presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose Sant’Apollinare, Roma; il Master di II Livello di Arte e Architettura Sacra dell’Università Europea, Roma; l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Santa Maria di Monte Berico, Vicenza; la Ponti9icia Università Urbaniana, Roma. È Accademico Ordinario della Ponti9icia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Presidente della Accademia Urbana delle Arti. Tra i suoi scritti si contano circa venti monogra9ie e alcune centinaia di articoli (“Arte Cristiana”; “Euntes Docete”; “ArteDossier”; “La vita in Cristo e nella Chiesa”; “Via, Verità e Vita”, “Frontiere”, “Studi cattolici”; “Zenit.org”, “Aleteia.org”; …). Come pittore ha realizzato interi cicli pittorici per Basiliche, Cattedrali, Chiese e conventi (Basilica di San Crisogono, Roma; Basilica dei SS. Fabiano e Venanzio, Roma; Antica Cattedrale di Bojano, Campobasso; Cattedrale Nostra Signora di Fatima a Karaganda, Kazakistan; Eremo di Santa Maria, Campobasso; Cattedrale di San Pan9ilo, Sulmona; chiesa di san Giulio I papa, Roma; San Giuseppe ai Quattro Canti, Palermo; Sant'Andrea della Valle, Roma …).
e senza pregiudizio della cortesia, non è poi tanto da biasimare: la fortuna infatti spesso non si offre a noi; bisogna rovesciarla, stuzzicarla, tentarla. Questo Michelangelo dunque s’è già acquistato con le sue opere fama, onore e rinomanza. […] egli è uno che non tiene in gran conto le opere di alcun maestro; senza d’altronde lodare apertamente le sue proprie. Egli dice infatti che tutte le cose non sono altro che bagatelle, fanciullaggini o baggianate — chiunque le abbia dipinte — se esse non sono fatte dal vero, e che nulla vi può essere di buono o di meglio che seguire la natura. Perciò egli non traccia un solo tratto senza star dietro alla natura, e questa copia dipingendo. Questa non è d’altronde una cattiva strada per dipingere poi alla mèta; infatti dipingere su disegni, anche se essi ritraggono il vero, non è certamente la stessa cosa che avere il vero davanti a sé e seguir la natura nei diversi colori; però occorre che anzitutto il pittore sia così progredito in intendimento da saper distinguere e quindi scegliere il bellissimo dal bello. Ora egli è un misto di grano e pula; infatti non si consacra di continuo allo studio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al 9ianco e un servo di dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare. Le quali cose non si addicono affatto alla nostra arte: infatti Marte e Minerva, non sono mai stati gli amici migliori; d’altra parte, per quanto riguarda il suo stile, questo è tale che piace molto ed è una maniera meravigliosamente adatta per essere seguita dai giovani pittori …».
Karel Van Mander costruisce il suo racconto denigratorio in maniera abile, poiché pone tra i suoi giudizi critici legati allo stile, che allora si diceva “maniera”, alcune note biogra9ico-morali come elemento rafforzativo del discorso teorico. In sostanza van Mander dice che lo stile, ovvero la “maniera” di Caravaggio, è di tipo naturalistico, cioè tutta tesa a ritrarre la natura (“seguire la natura”) senza tener in nessun conto il disegno; lo descrive come abile nel colorire, capace di fare cose meravigliose, ma incapace di saper operare un giudizio sui soggetti da ritrarre desunti dalla natura (“però occorre che anzitutto il pittore sia così progredito in intendimento da saper distinguere e quindi scegliere il bellissimo dal bello”). Van Mander è un artista di non grande qualità che aderisce pienamente ai dettami che nel corso del secondo Cinquecento si sono fatti strada in ambito manieristico. Egli ripone 9iducia non tanto nello studio della natura come fu, per esempio, per Leonardo da Vinci, ma piuttosto nel concetto dell’Idea portato avanti da artisti-teorici come Giovanni Paolo Lomazzo (1538-1600). Lomazzo, nel suo Trattato dell’arte della pittura (1584), afferma che la bellezza può sussistere senza l’ausilio della natura e viceversa: non è tanto la conformità alla natura che legittima il fare dell’artista, quanto piuttosto è lo stile dell’artista che legittima la sua opera. Analogamente propone anche un artista quale Giovan Battista Armenini (1530-1609) che, nel suo De’ veri precetti della pittura, (1587), sostiene una distinzione tra esatta imitazione e buon disegno. Questa distinzione, già messa in evidenza da Leon Battista Alberti nel Quattrocento, diviene per Armenini un discrimine che separa l’imitazione della natura dal buon disegno, tanto che è il disegno in sé, nella sua autonomia stilistica, a superare l’esatta imitazione della natura. Fino a giungere, in9ine, a Federico Zuccari (1542-1609), Reggente dell’Accademia di San Luca e contemporaneamente della Compagnia di San Giuseppe di Terra Santa dei Virtuosi al Pantheon (oggi Accademia Ponti9icia), che con il suo trattato L’Idea de’ scultori, pittori e architetti (1607), giunge a parlare di disegno interno presente nello spirito del pittore, che è il vero principio del processo creativo e sul cui modello il pittore esegue il disegno esterno su carta, tela o parete. L’arte, a suo avviso, non ha
bisogno della matematica, sono suf9icienti le immagini ideali innate dell’artista, i giudizi ben fondati e la buona pratica. Egli reintroduce il concetto di inganno della pittura, e solo le immagini interne hanno un valore positivo: esse formano un nuovo mondo, nuovi paradisi. Proprio ri9lettendo sulle principali teorie “estetiche” manieriste, si comprende come l’arte prodotta da Caravaggio non solo sia vista con ostilità ma, considerato il successo che incontra nella committenza colta e raf9inata di Roma, anche con invidia. Quando Van Mander descrive Caravaggio come un artista incolto e inelegante nello stile e nei modi (“ora egli è un misto di grano e pula; infatti non si consacra di continuo allo studio”), egli non pone un giudizio critico sulla sua arte e neanche un giudizio morale sui suoi comportamenti, come oggi si potrebbe intendere. Il lettore del tempo informato della diatriba tra le due posizioni teoriche dell’arte coeva, “naturalista” e “manierista”, era invece capace d’intendere molto bene quello che Van Mander voleva dire: Caravaggio in quanto artista “naturalista”, praticherebbe un modo rozzo e incolto di fare arte, perché non tiene in nessun conto la bellezza del disegno in sé. Nella prima biogra9ia particolareggiata su Caravaggio — dopo quella breve e sommaria di Van Mander — , scritta dal medico senese Giulio Mancini, intorno al 1620, troviamo alcune considerazioni sulla tecnica e sullo stile del Merisi, che ancora rimandano alla questione teorica della sua pittura. Scrive Mancini:
«Proprio di questa schola è il lumeggiar con lume unito che venghi d’alto senza re9lessi, come sarebbe in una stanza da una fenestra con le pariete colorite di negro, che così, havendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto scure, vengono a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale, né fatto, né pensato da altro secolo o pittori più antichi, come Raffaello, Titiano, Correggio et altri. Questa schola in questo modo d’operare è molto osservante del vero, che sempre lo tien davanti mentre ch’opera; fa bene una 9igura sola, ma nella composizione dell’historia et esplicar affetto, pendendo questo dall’immaginazion e non dall’osservazione della cosa, per ritrar il vero che tengon sempre avanti, non mi par che vi vagliano, essendo impossibil di mettere in una stanza Figura 2. Michelangelo Merisi da Caravaggio, Buona ventura. Olio su tela (99x131 cm), una moltitudine d’huomini che 1596-1597, Musée du Louvre, Parigi. rappresentin l’historia con quel lume d’una fenestra sola, et haver un che rida o pianga o faccia atto di camminare e stia fermo per lasciarsi copiare, e così poi le lor 9igure, ancorché habbin forza, mancano di moto e d’affetti, di gratia, che sta in quell’atto d’operare come si dirà. E di questa schuola non credo forsi che si sia visto cosa con più gratia et affetto che quella zingara che dà la buona ventura a quel giovinetto, mano del Caravaggio, che possiede il signor Alessandro Vittrici, gentiluomo qui di Roma, che, ancorché sia per questa strada, nondimeno la zingaretta mostra la sua furbaria con un riso 9into nel levar l’anello al giovanotto, et questo la sua semplicità et affetto di libidine verso la vaghezza della zingaretta che le dà la ventura et leva l’anello». Mancini pone, dunque, in contrapposizione due termini: osservazione e immaginazione. Egli, infatti, afferma che il modo di procedere di Caravaggio — ovvero il suo metodo —, perseguendo la ricerca del vero attraverso la copia del modello nello studio, ottiene un risultato non naturale, in quanto la resa dei moti dell’animo non dipenderebbe dall’osservazione della cosa, quanto piuttosto dall’immaginazione. In altre parole, Mancini rivendica il primato dell’immaginazione e della maestria del pittore, sul confronto con il modello reale in studio. Infatti, come massimo prodotto artistico di Caravaggio, cita una delle sue prime opere, La buona ventura, che è del periodo degli esordi, cioè del momento in cui Caravaggio è stilisticamente più vicino alle forme tardomanieriste. Questo giudizio è molto simile a quello espresso da monsignor Giovan Battista Agucchi (1570-1630), che rimprovera a Caravaggio di non perseguire una
bellezza ideale, ma di ispirarsi direttamente alla realtà, con il risultato di produrre una pittura non bella:
«Caravaggio eccellentissimo nel colorire si dee comparare a Demetrio, perché ha lasciato indietro l’Idea di Bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine».
Il giudizio di monsignor Agucchi nel suo Trattato d’arte (1607c.), ripropone, per certi versi, un ideale di bellezza molto simile a quello raccontato da Raffaello al suo amico e ammiratore Baldassar Castiglione, nella famosissima lettera del 1514:
«[…] le dico che per dipingere una bella mi bisogneria veder più belle, con questa conditione, che V. S. Si trovasse meco a far scelta del meglio. Ma essendo carestia de buoni giudicii e di belle donne, io mi servo di certa Iddea che mi viene nella mente».
Figura 3. Giuseppe Cesari detto Cavalier d’Arpino, Diana e Atteone. Olio su tavola, 1603, Musée du Louvre, Parigi.
L’idea di bellezza, che si afferma nei trattati manieristi, appare quasi di tipo eclettico, ovvero composita, come si può evincere dalla descrizione del “quadro ideale” offerta da Lomazzo nel capitolo XVII suo trattato Idea del Tempio della Pittura pubblicato nel 1590. Tale dipinto ideale è costituito da due parti: nella prima è raf9igurato un Adamo, disegnato da Michelangelo e dipinto da Tiziano, costruito secondo le proporzioni di Raffaello; nella seconda è rappresentata una Eva, disegnata da Raffaello e dipinta da Correggio. Nella visione teorica proposta da monsignor Agucchi, Caravaggio appare privo di qualunque tensione alla bellezza ideale, quindi a una propria “maniera”, e si dedica alla parte per Agucchi meno nobile dell’arte pittorica, quella cioè che ricerca la “similitudine” ovvero l’imitazione della natura, coltivando solamente una parvenza di bellezza determinata dal colore. Questi giudizi saranno ripetuti identici nel corso del tempo, da quegli artisti o conoscitori d’arte che aderiscono incondizionatamente alle istanze manieriste. Le considerazioni proposte da Van Mander e da monsignor Agucchi divengono un vero e proprio cliché, una sorta di topos letterario detrattorio, che si ripete uguale. Ad esempio, Agucchi propone un paragone tra la pittura di Caravaggio e l’imitazione della natura dello scultore ellenistico Demetrio, che puntualmente verrà riproposto identico dall’abate Giovan Pietro Bellori nel suo trattato biogra9ico-teorico Le Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, pubblicato a Roma nel 1672. O ancora nel testo di Van Mander si legge:
«Michelangelo dunque s’è già acquistato con le sue opere fama, onore e rinomanza. Ha fatto una storia per San Lorenzo in Damaso accanto a quella di Giuseppino (Giuseppe Cesari d’Arpino), della quale s’è parlato nella Vita di questi. In essa ha messo un nano o mostro che guardando verso la storia di Giuseppe tira fuori la lingua, come se così volesse beffeggiarla: perché egli è uno che non tiene in gran conto le opere di alcun maestro; senza d’altronde lodare apertamente le sue proprie. Egli dice infatti che tutte le cose non sono altro che bagatelle, fanciullaggini o baggianate — chiunque le abbia dipinte — se esse non sono fatte dal vero, e che nulla vi può essere di buono o di meglio che seguire la natura. Perciò egli non traccia un solo tratto senza star dietro alla natura, e questa copia dipingendo».
Questo stesso racconto viene riproposto, leggermente deformato, dal pittore tedesco Joachim von Sandrart (1609-1688), che scrive la biogra9ia di Caravaggio nel suo trattato Accademia Nobilissimae Artis Pictoriae (1683). Sandrart, infatti, scrive:
«Benché egli, per l’eccellenza della sua arte, fosse ritenuto degno di grande onore e fosse lodato da molti, tuttavia era assai dif9icile avere rapporti con lui, non soltanto perché non teneva in alcuna considerazione le opere degli altri maestri [benché poi egli non magni9icasse pubblicamente le proprie], ma anche perché era molto litigioso e strambo, e spesso cercava lite. Spinto da questa sua cattiva abitudine, si mise in urto anche con il pittore Giuseppe d’Arpino, che allora era al massimo della fama ed era tenuto in grande considerazione per la sua arte, per la sua cortesia e per la sua grande ricchezza. Il nostro pittore non si limitò ad attaccarlo con acri satire, ma per lo scherno di lui, avendo il predetto Giuseppe dipinto una certa scena a San
Lorenzo, egli vi aggiunse un gigante nudo che tirava fuori la lingua in segno di scherno verso l’opera di Giuseppe d’Arpino».
Lo scontro tra Caravaggio e il Cavalier d’Arpino viene riportato quasi senza variazioni, rispondendo alle necessità di un topos letterario: da una parte il maestro anziano nobile, gentile d’animo, ben educato e ricchissimo, dall’altra parte l’artista giovane, irriguardoso, maleducato ed oltraggioso, che sbeffeggia l’autorità che rappresenta la “bella maniera”, con sberlef9i degni di una maschera della commedia dell’arte, per esempio un Arlecchino o un Pulcinella. E visto che molte altre volte nelle biogra9ie successive viene citato lo scontro tra il Cavalier d’Arpino e il Merisi, si può proprio dire che sia divenuto un racconto mitico, capace di rappresentare il con9litto e la divergenza tra coloro che “perseguono la maniera” e quelli che “seguono la natura”. In questo racconto mitico, il cavalier d’Arpino è 9igura del nobile rappresentante del “Disegno” dell’Idea, mentre Caravaggio è il manigoldo che contadinescamente cerca di farla in barba a tutti, scimmiottando la natura. Leggendo ciò che scrive nelle Vite de’ pittori.. (1642), un altro biografo detrattore del Merisi, il pittore Giovanni Baglione (1566-1643) suo rivale e acerrimo nemico, si comprende ancora meglio la questione 9in qui delineata:
Figura 4. Michelangelo Merisi da Caravaggio, Vocazione di San Matteo. 1599-1610, Cappella Contarelli, Chiesa di S. Luigi dei Francesi, Roma.
«Michelangnolo Americi fu huomo Satirico, et altiero; ed usciva talora a dir male di tutti li pittori passati, e presenti per insigni che si fussero; poiché a lui parea d’haver solo con le sue opere avanzati tuti gli altri della sua professione. Anzi presso alcuni si stima, haver esso rovinata la pittura, poiché molti giovani ad esempio di lui si danno ad imitare una testa del naturale, e non studiando ne’ fondamenti del disegno, e della profondità dell’arte, solamente del colorito appagansi; onde non sanno metter due 9igure insieme, né tessere istoria veruna, per non comprendere la bontà di sì nobil arte».
La critica alla pittura di Caravaggio si fa invettiva feroce, rivelando non solo la chiara volontà di denigrare e di sbeffeggiare la teoria naturalista alla quale Caravaggio aderisce innovandola, ma anche il sapore acre della vendetta per pareggiare le umiliazioni subite nello scontro personale trent’anni prima. O ancora, sulla corrispondenza dello stile artistico e la stravaganza e trasandatezza dell’uomo, a riprova di una eccentricità funesta, che svaluta l’esito stilistico del nostro, si può leggere come ennesimo esempio la biogra9ia di Caravaggio nelle Vite del Bellori. Procedendo da una visione teorica opposta a quella di Caravaggio e dell’ambiente da lui frequentato, e da un generale disprezzo per la pittura dal naturale, egli così descrive le abitudini di Caravaggio:
«Non lascieremo di annotare li modi stessi nel portamento e vestir suo, usando egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un habito, mai lo tralasciava, 9inché non gli cadeva in cenci. Era negligentissimo nel pulirsi; mangiò molti anni sopra la tela di un ritratto, servendosene per tovaglio mattina e sera».
Certamente alcuni di questi tratti sono veri, ma occorre leggerli nel contesto per poterli interpretare non come gesti di un pazzo, ma come scelte di vita. Intorno all’opera di Caravaggio, sembra dunque addensarsi il confronto e addirittura lo scontro tra “bella maniera” e “imitazione della natura”. Entrambi i contendenti sostengono una “parte” della verità.