La Guida a Sudafrica 2010 - The Rainbow Nation

Page 1

THE RAINBOW NATION - LA NAZIONE ARCOBALENO

RAINBOW NATION

Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net

Numero 0 • Giugno 201 0


Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net

Gli inglesi si impossessarono del ter­ ritorio solo all’inizio del XIX secolo e abolirono lo schiavismo. Ciò costrinse i contadini olandesi a spostarsi nell’entro­ terra dove fondarono le repubbliche del Transvaal e dell’Orange. L’indipendenza di queste repubbliche, al pari dei posse­ dimenti degli Zulu, ressero fino a che non fu scoperto che il sottosuolo era ricco di risorse aurifere e diamantifere. Attratti da queste materie prime, gli inglesi intrapresero dure e sanguinose guerre tanto con i nativi quanto con gli afrikaner del Transvaal e dell’Orange. Esauritesi le campagne contro gli Zulu e gli Xhosa nonché le guerre boere, nel 1910 fu istituzionalizzata, come domi­ nion britannico, l’Unione Sudafricana. Gli afrikaner restarono sempre la maggioranza bianca nel paese: non ebbe successo il tentativo, per altro blando, di

cricket, imbevuta di caratteristiche mo­ rali come l’ideale di superiorità anglo­ sassone, prevedeva che questo sport potesse essere insegnato solo a chi avesse raggiunto un determinato livello di civilizzazione.

anglicizzazione. L’abolizione dello schia­ vismo non significò l’abolizione dello sfruttamento e con il Native Land Act del 1913 fu limitata drammaticamente la possibilità che i neri potessero possedere la terra. Proprio in questi anni lo sport sudafricano si sviluppò e iniziò la sua istituzionalizzazione. Benché non razzi­ sta come in seguito, la pratica dello sport seguì, almeno inizialmente, linee classiste. Difficilmente infatti parteci­ pavano alle medesime competizioni per­ sone di diverso rango sociale ed eco­ nomico e di conseguenza erano rari anche i confronti fra i diversi gruppi che rappresentavano la società sudafricana. Col tempo, almeno fra i bianchi, ciò divenne sempre più frequente e lo sport (soprattutto il rugby) si trasformò spes­ so in un’occasione in cui gli afrikaner mostravano il proprio odio verso gli

inglesi. Già agli albori del XX° secolo però le preferenze rispetto ai tre prin­ cipali sport britannici sembravano se­ guire un criterio “razziale”; la mag­ gioranza dei neri infatti giocava a calcio, gli afrikaner prediligevano il rugby, men­ tre indiani e inglesi si identificavano maggiormente col gioco del cricket. Cricket Lo sport imperiale

Per tutto il XIX e per buona parte del XX secolo il cricket è stato quasi esclu­ sivamente uno sport per bianchi, agiati e con un tasso d’istruzione elevato. Questo sport, prettamente inglese, ha contrad­ distinto il processo di sviluppo dell’Im­ pero britannico, diventando, in quanto gioco riservato alle élite, funzionale alla sua identità culturale. L’ideologia del

Superata la fase dei match fra Mother country e Colonial born, il cricket suda­ fricano acquisì molto presto una dimen­ sione internazionale. Fra il 1890 e il 1914, la cosiddetta età dell’oro del cricket, i sudafricani disputarono spesso sentite sfide contro gli inglesi e gli australiani. Già nel XIX secolo le élites dei gruppi Xhosa e Zulu appresero il cricket dagli inglesi. Il confronto con i bianchi rimase però raro, tanto che svilupparono autonomamente, al pari degli indiani, un loro stile di gioco.

Fino al 1948 questo sport rappresentò anche un motivo di divisione fra i bianchi diventando un simbolo dell’esclusività e della separazione degli anglofoni dal resto della popolazione. Già dagli anni venti però le differenze iniziarono ad assottigliarsi e a partire dal 1948 anche il cricket cominciò lentamente a tra­ sformarsi in un simbolo dell’alleanza bianca. Nonostante i molti cricketer afrikaner di valore, fra i boeri è sempre rimasta una forte diffidenza verso que­ sto sport. Molto più del cricket fu quindi il rugby ad elevarsi a simbolo sportivo dell’alleanza bianca durante il periodo dell’apartheid.

THE RAINBOW NATION - Storia dello sport sudafricano

Per quanto forme ludico­sportive fossero ovviamente presenti in Sudafrica ben prima dell’arrivo degli europei, l’avvento dello sport moderno, fu un portato principalmente britannico. Lo testimo­ niano oggi gli sport nazionali del paese; calcio, rugby e cricket hanno infatti un’origine britannica. Gli inglesi però non furono i primi europei a colonizzare la regione. Gli olandesi, e nello specifico la Compagnia delle Indie Orientali, si instaurarono già nel 1652 nella zona del Capo di Buona Speranza. Lì fondarono la Colonia del Capo che si reggeva su un’economia agricola e di allevamento basata sull’apporto degli schiavi impor­ tati dal Madagascar, dall’Indonesia e dal Mozambico.

Numero 0 • Giugno 201 0


THE RAINBOW NATION - Storia dello sport sudafricano

Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net

Numero 0 • Giugno 201 0

Rugby La religione degli afrikaner

Per gli afrikaner il rugby è quasi una reli­ gione; rappresenta sicuramente la più importante attività culturale tanto da assurgere a simbolo della white nation sudafricana. Paradossalmente il rugby smise di essere uno sport inglese e di­ ventò uno sport veramente sudafricano con le guerre anglo­boere. Fu proprio l’esercito britannico che diffuse il rugby fra gli afrikaner, in particolare fra quelli arrestati nei campi di prigionia. Dopo la sconfitta militare il rugby divenne per gli afrikaner qualche cosa più di un gioco; rappresentò l’occasione con la quale essi potevano prevalere sugli inglesi. Gli epici scontri fra università inglesi e afrikaner non fecero altro che accrescere questa rivalità. Le divisioni però sparivano di colpo quando si trattava di tifare per la propria provincia o per la nazionale. Passione per la palla ovale e identità nazionale erano legate a tal punto che uno degli ultimi bastioni, da cui scom­ parvero le vecchie bandiere dell’Unione Africana, furono proprio i campi da rugby. Il primo incontro internazionale risale al 1891 mentre il soprannome Springboks nacque nel 1906 in occasione della pri­ ma tournée in Europa. La pratica del rugby si innestò ben presto su linee razziali. Non solo gli Springboks erano formati unicamente da giocatori bianchi ma anche le altre squadre fino al 1971 dovettero escludere giocatori non­bian­ chi quando si recavano in tournée nell’U­ nione Sudafricana. Negli anni Ottanta fu permesso ai meticci di giocare a rugby con i bianchi; ciò provocò conflitti all’in­ terno del National Party e contribuì alla scissione che portò alla nascita del Conservative Party. Il rugby era consi­

derato uno sport nobile e la sua pratica richiedeva necessità maggiori rispetto al calcio che, bandito dalle scuole verso il 1910, ebbe un particolare successo fra la popolazione di colore. Calcio Uno sport per neri?

Vuoi perché è necessario solamente un pallone per giocarci, vuoi perché le sue regole sono particolarmente intuitive, resta di fatto che il calcio è sempre stato lo sport più diffuso in Sudafrica. Con la nascita dell’Unione Sudafricana e la con­ seguente urbanizzazione il calcio, che era stato introdotto dai missionari, si af­ fermò definitivamente anche fra i neri. Negli anni venti il calcio era giocato sop­ rattutto dagli operai urbani e dai mina­ tori come occasione di svago e, anche se

per molti restava solamente un gioco di strada, ben presto vennero organizzati dei campionati locali che diedero poi il via alla nascita di federazioni. Intorno agli anni venti e trenta nelle città, nelle campagne e vicino alle miniere sorsero numerose squadre di calcio e non ci volle molto perché queste ultime diven­ tassero le associazioni più popolari all’in­ terno delle rispettive comunità. A partire dagli anni trenta il calcio conobbe un ve­ ro boom. I proprietari delle miniere e delle industrie lo avevano utilizzato co­ me strumento di pace sociale, ma nel momento in cui esplose la richiesta di infrastrutture questi stessi si dimo­ strarono assai reticenti a concederle. La carenza di infrastrutture, unita alla pas­ sione per questo sport, faceva sì che alla domenica, unico giorno libero dei lavo­ ratori neri, si giocassero nei pochi campi a disposizione tornei che duravano dalla

mattina alla sera.

Alla vigilia dell’istituzionalizzazione del sistema dell’apartheid il calcio sudafri­ cano era già organizzato su linee etnico­ razziali. Nel 1951, anche per sfidare la politica segregazionista del National Party, nacque la Federazione Sudafri­ cana di Calcio che, in opposizione alla federazione bianca, così come stava accadendo anche fra i rispettivi partiti politici, riunì neri, indiani e coloured. Proprio dal calcio arrivarono le maggiori sfide all’apartheid sportivo; nel 1977 Vincent Julius fu il primo calciatore nero a giocare in una squadra di bianchi. Fra gli sport di squadra il calcio è stato il primo sport a riequilibrare la disparità fra bianchi e neri creata dalle politiche di apartheid nello sport. Nella Confede­ ration Cup 2009 un solo giocatore su undici, Matthew Booth, era bianco.


Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net

grandi gruppi: African, Coloured, Indian e White e furono creati i Bantustan, ter­ ritori semi­indipendenti dai quali i neri dovevano poi emigrare per cercare lavo­ ro nel Sudafrica bianco. Dopo la seconda guerra mondiale nessun’area della so­ cietà fu immune dal concetto di razza, nemmeno lo sport.

Ben presto la pratica e la fruizione dello sport sudafricano fu divisa fra bianchi e non­bianchi, anche se l’esclusione dei non­bianchi avvenne per gradi e variò da sport a sport. A seconda delle provincie queste politiche ebbero un impatto di­ verso; totale segregazione al nord, men­ tre a Western Cape ci fu più tolleranza.

IL MOVIMENTO OLIMPICO

Nonostante gli avvertimenti del CIO e le pressioni di alcuni paesi, la squadra sudafricana che si presentò a Roma nel 1960 era interamente composta da atleti bianchi. Poiché nei tre anni successivi il Sudafrica non modificò la sua politica razziale in relazione allo sport, alla federazione fu tolto il diritto di partecipare ai Giochi di Tokio. Il Comitato Olimpico nazionale, invece, fu sospeso solamente a partire dal 1966. L’anno successivo, dopo la visita del CIO, all’epoca presieduto dall’ultra­conservatore Avery Brundage, sembrò possibile la riammissione. Evitata questa circostanza, le continue violazioni della Carta Olimpica e le pressioni delle istituzioni politiche e sportive africane portarono, anche se solamente dal 1969, all’espulsione definitiva. Il CIO però non riconobbe mai il SANROC perché lo considerava un’organizzazione politica e senza la legittimazione in campo sportivo il non­racial Olympic Committe poté operare solamente in ambito morale. Benché tardiva, è indubbio che la scelta del CIO di isolare lo sport sudafricano razzista fu importante ed efficace anche perché spinse le federazioni a fare altrettanto. Non appena si cominciò a smantellare i pilastri dell’apartheid, un riconoscimento provvisorio permise la partecipazione di una squadra multirazziale sudafricana alle Olimpiadi del 1992.

Lo sport internazionale invece fu riser­ vato esclusivamente ai bianchi. Alla fine degli anni Cinquanta, con l’emergere di un movimento internazionale anti­apar­ theid, furono costituiti il non­racial South African Council on Sport (SACOS), per sfidare dall’interno la struttura dell’apar­ theid sportivo e il non­racial Olympic Commitee (SANROC) per isolare inter­ nazionalmente lo sport sudafricano. Lo sport diventò strumentale per contri­ buire al processo di isolamento inter­ nazionale del Sudafrica razzista e il boi­ cottaggio divenne l’arma con cui sfidare la discriminazione razziale tanto nello sport quanto nella vita sociale.

Nel lungo periodo questa strategia, supportata dall’ONU, dal CIO e dalle federazioni sportive internazionali, ebbe successo e l’isolamento culturale fu una delle cause che contribuì alla fine dell’apartheid. È indubbio però che nei primi decenni di apartheid lo sport in­ ternazionale non fu mai assente, sia per la reticenza delle istituzioni sportive in­ ternazionali, sia perché gli effetti del boicottaggio furono parzialmente annul­ lati dalla disponibilità di sportivi­mer­ cenari disposti, se ben pagati, a intra­ prendere tournée in Sudafrica.

I GIOCHI DEL COMMONWEALTH

Il Sudafrica aveva preso parte fin dalla prima edizione del 1930 ai Giochi del Commonwealth, quando ancora si chiamavano Giochi dell’Impero. Dopo il referendum del 1961 l’Unione Su­ dafricana, diventata repubblica, cessò di essere un dominion britannico e uscì unilateral­ mente dal Commonwealth. La rinuncia ai Giochi di Perth del 1962 fu consequenziale. I Giochi rimasero però centrali nella sfida dello sport internazionale al regime razzista sudafricano. La Nigeria, uno dei paesi più attivi nella lotta internazionale contro l’apartheid, boicottò i Giochi del 1978 come protesta contro la Nuova Zelanda, rea di intrattenere relazioni sportive con il Sudafrica e nel 1986 guidò un boicottaggio più vasto contro l’ambivalente politica verso il Sudafrica del governo Thatcher: ben 32 nazioni non presero parte a Glasgow 1986. IL CALCIO

Il Sudafrica fu una delle quattro squadre fondatrici della Confederation Africaine du Football (CAF). Non volendo schierare una squadra mista, non prese parte nel 1957 alla prima Coppa d’Africa. L’anno successivo, mentre il Sudafrica veniva espulso dalla CAF, la FASA, la fede­ razione dei bianchi, fu ammessa alla FIFA. La FASA vi restò affiliata fino al 1961, quando fu sospesa per discriminazione razziale. Appena sir Stanley Rous divenne presidente, la FIFA cominciò a rigettare tutti i tentativi di espellere il Sudafrica. Nel 1963 la sospensione venne revocata, ma le proteste dei paesi africani e asiatici portarono a una rapida marcia indietro. Successivamente fu rigettata la proposta di una squadra all­white nei Mondiali del 1966 e una all­black nel 1970. Si dovette aspettare il 1976, con il clamore mediatico suscitato dalla rivolta di Soweto, per la definitiva espulsione del Sudafrica dalla FIFA, durata fino al 1991.

THE RAINBOW NATION - L'embargo sportivo

Dopo la seconda guerra mondiale nei paesi coloniali lo sport è diventato uno strumento per far emergere e riaf­ fermare una propria identità. Sconfig­ gere nel loro gioco i propri colonizzatori rappresentava per i colonizzati motivo di orgoglio nazionalistico. In Sudafrica però l’istituzione dell’apartheid rese tutto ciò impossibile. Sebbene la segregazione razziale, supportata dalle tesi antropo­ logiche che avevano contribuito a legit­ timare il colonialismo, fosse iniziata ben prima del 1948, con l’apartheid la sepa­ razione fra bianchi e non­bianchi diven­ ne un sistema legislativo istituziona­ lizzato e compiuto. La popolazione sudafricana venne divisa in quattro

Numero 0 • Giugno 201 0


THE RAINBOW NATION - L'embargo sportivo

Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net IL CRICKET

L’uscita dal Commonwealth del 1961 comportò automaticamente la rinuncia alla membership dell’International Cricket Conference (ICC), ma ciò non modificò affatto la situazione perché il Sudafrica era considerato fondamentale per il cricket internazionale. Nel 1968, Basil D’Olivera, atleta di colore della nazionale inglese, ma di origine sudafricana, venne selezionato per la tournée in Sud Africa. Il governo sudafricano accusò il giocatore di essere un esponente del movimento anti­apartheid e gli inglesi di voler strumentalizzare politicamente l’evento. In realtà, nonostante la contestazione anti­apartheid della società civile britannica fosse crescente, alcuni infortuni resero neces­ saria la sua selezione. Fallita la mediazione, il tour fu cancellato e i rapporti sportivi fra i due paesi si interruppero. Solo l’Australia con­ tinuò le tournée fino al 1970. Negli anni Ottanta, per uscire dall’isolamento, il cricket sudafricano organizzò una serie di tour, noti come “ribelli”, con lo scopo politico e propagandistico di interrompere la campagna di isolamento internazionale e di soddisfare la richiesta interna di sport internazionale. Nel 1990 l’ultimo “tour ribelle”, che coincise con la liberazione di Mandela e degli altri leader dell’ANC, fu caratterizzato da pesanti proteste. LA FORMULA UNO

Numero 0 • Giugno 201 0 IL RUGBY

Buona parte della sfida per l’isolamento culturale del Sudafrica si giocò sui campi da rugby. Per gli afrikaner, definiti dallo studioso David Harrison come la “tribù bianca dell’Africa”, il rugby era un vero e proprio simbolo d’identità nazionale. Più ancora che per le conseguenze del caso D’Olivera, il paese aveva sofferto per la cancellazione della tournée del 1967 degli All Blacks, intenzionati a schierare i māori. I neozelandesi avevano rinunciato ai giocatori māori contro gli Springbok fin dal 1928, ma negli anni Sessanta, dopo il massacro di Sharpville, il vento era cambiato. Dal 1971 il Sudafrica cercò di diventare più accon­ discendente, permettendo alle nazionali straniere di schierare squadre multirazziali, in modo da garantire ai propri cittadini il rugby internazionale. Sarà proprio una tournée neozelandese in Sudafrica, poco dopo i moti di Soweto, la causa del boicottaggio africano alle Olimpiadi del 1976. L’anno successivo il Commonwealth firmò gli accordi di Gleneagles per interrompere ogni relazione sportiva col Sudafrica. A partire dal 1982 gli Springbok non avranno più accesso al rugby internazionale eccezion fatta per due tournée con una rappresentativa sudamericana, una con l’Inghilterra nell’84 e una coi Cavaliers neozelandesi. Il tour segreto dei neozelandesi finì 3­1 in favore del Sudafrica portando una ventata di orgoglio nazionale afrikaner, in un difficile momento di recessione economica. I neozelandesi che parteciparono nel 1986 alla tournée dei Cavaliers non furono squalificati e molti di loro vinsero la Coppa del Mondo l’anno successivo. Negli anni novanta, dopo qualche incertezza iniziale, il ritorno al rugby internazionale fu trionfale.

La procedura comune per le multinazionali del tabacco, quando il gran carrozzone della Formula 1 si trova a gareggiare in paesi in cui la legislazione locale vieta le sponsorizzazioni legate al fumo, è quella di inventarsi ogni sorta di illusione grafica pur di trasmettere comunque l'identità del marchio. Eppure in Sudafrica successe che le aziende stesse si autocensurarono e tentarono di rendere irriconoscibile il proprio simbolo riprodotto su una vet­ tura di Formula 1. Accadde nel 1985, in occasione dell'ultima prova del cam­ pionato del mondo a Kyalami. Non era una novità gareggiare da quelle parti: era diventato un piccolo classico, e anche l’esistenza di un certo tipo di se­ gregazione razziale applicata a vari livelli della società era una realta ben conosciuta a chi annualmente si presentava sulla griglia di partenza. Solo che in quell'anno la protesta mondiale contro la politica d'apartheid applicata dal governo sudafricano montava più che mai. Interi team, o singoli piloti, boi­ cottarono la gara: Renault e Ligier in primis, su invito del ministro francese dello sport, decisero di non partecipare alla trasferta. Alan Jones si rese indi­ sponibile all'ultimo momento per non creare troppi problemi all’azienda spon­ sor del proprio team, impaurita dalla prospettiva di ritorsioni da parte del consum­tore medio americano. Alla fine Bernie Ecclestone al solito sistemò un po' tutto alla bell'è meglio. Con qualche macchina in meno al via ­ e parecchio nastro adesivo in più sulle fiancate ­ la gara partì comunque.

GLI ALTRI SPORT

Dalla fine degli anni sessanta una serie di risoluzioni dell’ONU contro l’apartheid nello sport sfociarono nella Dichiarazione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport (1977) e nella Convenzione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport (1985). L’appoggio dell’ONU diede maggior sostegno alla lotta delle istituzioni sportive, ma ogni federazione rispose a questi impulsi in modo diverso. Mentre la Federazione Internazionale di Tennistavolo, escludendo nel 1957 la federazione bianca, permise la partecipazione di una squadra sudafricana mista ai mondiali di Stoccolma, la IAAF, presieduta da lord Burghley, si oppose all’esclusione del Sudafrica per tutti gli anni Sessanta. In coppa Davis i tennisti sudafricani, riammessi nel 1974 dopo quattro anni di esclusione, sollevarono la loro prima e unica coppa giocando solamente due partite e vincendo, grazie al boicottaggio dell’India, la finale a tavolino. Benché l’espulsione dal Movimento Olimpico fosse stata spiegata come un complotto comunista e l’esclusione dal cricket, pur lenita dai tour ribelli, fosse stata vissuta malamente soprattutto dalla comunità anglofona, le sanzioni sportive ebbero sui sudafricani un impatto psicologico non secondario soprattutto quando colpirono il rugby. Nel 1988 ogni relazione sportiva con il Sudafrica era ormai interrotta. Un anno dopo la presidenza de Klerk cominciò ad attuare le riforme che abolirono gradualmente la segregazione razziale. Con la fine dell’ultimo grande regime coloniale in Africa, le istituzioni sportive internazionali furono più che felici di riaccogliere fra loro il nuovo Sudafrica.


Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net

Numero 0 • Giugno 201 0

Il drop di Joël Stransky a sei minuti dal termine dei tempi supplementari fu il momento che definì una nazione. Il Su­ dafrica stava assestando una democrazia neonata e instabile, e cercando di libe­ rarsi dal pesante fardello rappresentato dall’apartheid. La Coppa del Mondo di rugby era stata l’occasione per cercare di riconciliare una nazione sotto lo slo­ gan del torneo, ideato da du Plessis: One team, one nation. Il simbolo di que­ sta riunificazione, indelebile nella memo­ ria storica del Sudafrica e del rugby, è il momento della premiazione. François Pieenar, capitano afrikaner degli Spring­ boks, aveva appena rilasciato una di­ chiarazione storica, quando un reporter della SABC gli aveva chiesto quanto avesse contato il supporto dei sessan­ taduemila tifosi dell’Ellis Park di Johan­ nesburg: “Non avevamo solo il sostegno di sessantaduemila tifosi, avevamo il so­ stegno di quarantatre milioni di sudafri­

cani”. A presentare a Pieenar la William Webb Ellis Cup fu Nelson Mandela. Solo quattro anni prima per il Sudafrica Mandela era un terrorista di etnia xhosa che aveva speso 26 anni in carcere per aver fondato Umkhonto we Sizwe, la “lancia della nazione”, l’ala armata del partito politico fuorilegge African Natio­ nal Congress. Ora Nelson Mandela con l’ANC era diventato il presidente di quel Sudafrica, ed era l’uomo che aveva uni­ ficato una nazione, smantellando il bar­ barico apparato segregazionista dell’a­ partheid e tendendo una mano verso i suoi aguzzini e nemici di ieri. L’uomo che la folla dell’Ellis Park acclamava vestiva il

cappellino degli Springboks, fino al gior­ no prima il simbolo che definiva più gret­ tamente l’orgoglio afrikaner, e la maglia numero sei della nazionale, la stessa in­ dossata dal capitano Pieenar. Per le strade anche i neri festeggiavano la vit­ toria della propria nazione, inneggiando alla squadra contro cui si era riversato il loro tifo negli anni bui dell’apartheid.

L’apartheid era crollato con l’inizio degli anni ’90, un processo simboleggiato dal­ la liberazione di Nelson Mandela l’11 feb­ braio 1990. Le trattative per la costru­ zione di una nuova democrazia non furo­ no affatto facili, minate a ogni passo da

nuovi ostacoli. Da una parte del tavolo c’erano Mandela e l’ANC, dall’altra c’era l’ancien régime del presidente Frederik de Klerk e dell’ex­presidente Pik Botha, ora ministro degli Esteri. Lontani dal ta­ volo però tramavano la destra estremi­ sta afrikaner e il movimento Inkatha, formato da zulu che avevano abbracciato la visione di Grande Apartheid di Hendrik Verwoerd in cambio della semiautonomia dello stato del KwaZulu e che vedevano i propri privilegi messi a repentaglio dalla liberazione di Mandela e dalla fine della segregazione. Gli impi, i battaglioni del­ l’Inkatha, per tre anni attaccarono indi­ scriminatamente le township che circon­ davano Johannesburg, maggiore centro di consenso dell’ANC, con la connivenza della polizia sudafricana. Si arrivò sul­ l’orlo della guerra civile quando, il 10 aprile 1993, due fanatici assassinarono Chris Hani, uomo di vertice dell’ANC che molti vedevano come potenziale succes­ sore di Mandela. Servirono gli appelli di Mandela stesso e dell’Arcivescovo Tutu a prevenire il bagno di sangue e impedire che la nazione si incendiasse. Due mesi più tardi, di nuovo si sfiorò la crisi, quando gli estremisti di destra del­ l’Afrikaner Volksfront assalirono in un’o­ perazione paramilitare il World Trade Center di Johannesburg, dove andavano avanti i negoziati per la creazione di un nuovo Sudafrica. Una dimostrazione di forza, paragonata alla presa della Ba­ stiglia, che dimostrava quali fossero le potenzialità di un colpo di stato da parte dell’élite militare e della destra estremi­ sta. Nonostante tutti gli ostacoli, venne­ ro indette per il 27 aprile 1994 le prime

THE RAINBOW NATION - La RWC 1 995

Abdelatif Benazzi, il gigante franco­ma­ rocchino dei Bleus, piangeva a dirotto. Sotto la pioggia torrenziale di Durban, il terza linea della Francia aveva segnato la meta che avrebbe portato la Francia in finale. Non era stato dello stesso pa­ rere l’arbitro Derek Bevan, che dichiarò la meta non valida, e al fischio finale era stato il Sudafrica a gioire. Benazzi av­ rebbe pianto anche la settimana succes­ siva, assistendo alla finale. L’avrebbe poi raccontato, anni dopo, a Morné du Plessis: “Mi resi conto di quanto fosse giusto che voi foste lì al posto nostro, che c’era in ballo qualcosa di più grande e importante di una Coppa del Mondo di rugby”.


THE RAINBOW NATION - La RWC 1 995

Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net elezioni a suffragio universale nella sto­ ria del Sudafrica, che portarono all’ele­ zione di Mandela. Il rugby, sport dell’oppressore e simbolo del potere afrikaner, definito da Arnold Stofile “l’oppio dei boeri”, vide terminare il suo lungo esilio dalla scena interna­ zionale nell’agosto 1992, quando all’Ellis Park di Johannesburg il Sudafrica affron­ tò la Nuova Zelanda. Louis Luyt, il nuovo controverso presidente della South Afri­ can Rugby Union, aveva ottenuto la pos­ sibilità di far disputare il test match a patto che l’evento non fosse usato come occasione per promuovere i simboli del­ l’apartheid, così strettamente legati al rugby: la vecchia bandiera, che rappre­ sentava il vecchio regime, e l’inno nazio­ nale Die Stem van Suid­Afrika, una cele­ brazione del grande trek con cui gli afri­ kaner si erano imposti, a dir loro per vo­ lere divino, e avevano imposto il loro co­ lonialismo sugli altri popoli che abita­ vano il Sudafrica. Fu un fallimento. Quel­ la che doveva essere un’occasione di ri­ conciliazione si trasformò in una cele­ brazione dell’orgoglio boero, con la con­ nivenza di Luyt e sulle note di Die Stem. Nonostante le polemiche, Mandela conti­ nuò a considerare il rugby un modo per conquistare la fiducia dei boeri: fece in modo che Nkosi Sikelel’ iAfrika, il nuovo inno nazionale, affiancasse Die Stem senza sostituirlo, e ottenne per la sua nazione l’organizzazione della Coppa del Mondo 1995. La nazionale sudafricana per la Coppa del Mondo era composta quasi esclusi­ vamente da giocatori bianchi, con l’unica eccezione dell’ala Chester Williams. Williams sarebbe assurto a simbolo della fine della segregazione, eppure nella di­ visione etnica dell’apartheid non figurava come nero, ma come coloured: un’etnia

in qualche modo privilegiata, più vicina alla realtà boera che non a quella delle township. Williams, come gran parte dei suoi compagni di squadra, era disin­ teressato e ignaro rispetto alle questioni politiche del suo paese. Un disinteresse condiviso anche da François Pienaar, ar­ chetipo dell’afrikaner, flanker con un’a­ dolescenza travagliata e violenta, che aveva fatto il suo esordio in nazionale nel 1993, vestendo dal primo incontro la fascia di capitano che era appartenuta a Naas Botha. Nessuno avrebbe potuto immaginare che un giorno sarebbe di­ ventato l’icona di una nazione unita, né prevedere il legame profondo che av­ rebbe stretto con Mandela durante l’an­ no che passò tra il loro primo incontro e la Coppa del Mondo. Più consapevoli po­ liticamente erano personaggi come l’a­ pertura Joël Stransky, dai cui piedi sa­ rebbe passato il destino di una nazione, e soprattutto il team manager Morné du Plessis. Fu proprio su iniziativa di du Plessis che gli Springboks portarono il pallone della Coppa del Mondo attra­ verso le township del paese, visitarono Robben Island, il carcere per prigionieri politici dove Mandela aveva speso diciott’anni della sua vita, e impararono a cantare il nuovo inno, Nkosi Sikelel’ iAfrika. Il 25 maggio 1995, dopo il lancio del fio­ rino del 1921 usato per sorteggiare palla e campo in un’Inghilterra – Nuova Ze­ landa del 1925 e dopo il fischio di Derek Bevan in un fischietto utilizzato per la prima volta novanta anni prima, l’au­ straliano Michael Lynagh diede il calcio d’inizio della Coppa del Mondo. Quella sudafricana, oltre al particolare signi­ ficato che avrebbe acquistato per un po­ polo, sarebbe stato uno spartiacque im­ portante nella storia del rugby, segnando il confine tra l’era amatoriale e quella del

Numero 0 • Giugno 201 0 Dal 1976, dopo i disordini accaduti nella principale township di Johannesburg, Soweto, il mondo aveva chiuso le proprie porte al Sudafrica. Anche il rugby fu isolato dal boicottaggio internazionale, in quello che fu considerato il colpo più duro per gli afrikaner, che nello sport eccellevano. Le poche occasioni internazionali che venivano concesse ai sudafricani erano puntualmente affari controversi. Il tour del 1981 in Nuova Zelanda fu costellato da proteste e disordini pubblici che portarono alla cancellazione di una partita e all’episodio delle bombe di farina durante il match finale all’Eden Park di Auckland. In quella che si rivelò una partita tesa e nervosa, giocata in un’atmosfera irreale, un superleggero volò sopra lo stadio, sganciando fumogeni e bombe di farina sul terreno di gioco mentre l’incontro era in corso, e colpendo in testa l’All Black Gary Knight. Quattro anni più tardi Arnold Stofile, ex­rugbista e membro dell’ANC, condusse una campagna di successo e convinse il governo e la federazione neozelandese ad annullare il proprio tour in Sudafrica. Fu così che nel 1986 venne organizzato il tour ribelle dei Cavaliers, una formazione All Black sotto mentite spoglie, che causò scalpore al punto di spingere alcune nazionali a minacciare di boicottare la Coppa del Mondo inaugurale del 1987 se fossero stati ammessi i giocatori che avevano partecipato alla tournée. Tra i personaggi più importanti e più dimenticati del dibattito sportivo sulla riconciliazione ci fu Danie Craven, giocatore e poi allenatore del Sudafrica e infine presidente della federazione rugby nazionale. Craven, in un tentativo di smuovere lo stato di isolamento internazionale della sua federazione, intavolò nel 1988 dei negoziati con l’ANC, allora ancora fuorilegge, per la creazione di una federazione unitaria che comprendesse bianchi, coloured, indiani e neri. Le reciproche differenze e diffidenze tra gli afrikaner della federazione rugby e i neri dell’ANC resero le trattative molto accidentate, portando infine alla fondazione della South African Rugby Football Union a inizio degli anni ’90. Il Sudafrica, nel frattempo, non aveva potuto partecipare ai Mondiali nel 1987 e nel 1991. Danie Craven, morto nel 1993, non avrebbe mai visto la sua nazionale disputare una Coppa del Mondo. professionismo e animando il dibattito che portò alla modernizzazione del gioco riguardo agli aspetti relativi alla tutela dei giocatori e al ricorso all’ausilio della tecnologia per coadiuvare le decisioni arbitrali. Il Sudafrica che scese in campo al Newlands di Città del Capo contro l’Australia era tutto bianco: Chester Williams, fermato da un problema tendi­ neo, non aveva potuto far parte della squadra. Il protagonista della giornata fu Joël Stransky: il giocatore, che in passa­ to aveva giocato per L’Aquila e San Donà di Piave, mise a segno una full house,

ovvero andò a segno in tutti i modi possibili (meta, trasformazione, punizio­ ne e drop), trascinando la sua squadra a una vittoria 27­18 sui campioni uscenti, ottenuta nonostante la pessima presta­ zione in rimessa laterale. La convinzione e il morale ottenuto grazie a questa vit­ toria non durarono a lungo: gli Spring­ boks, pur vincendo 21­8 faticarono a mettersi alle spalle la Romania. Non si aspettavano certo nemmeno la battaglia che li avrebbe attesi contro il Canada, l’outsider che quattro anni prima aveva stupito tutti qualificandosi ai quarti. La


Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net

La semifinale contro la Francia fu di­ sputata a Durban. Per la seconda volta, dopo il match con il Canada, i suda­ fricani corsero il rischio di vedere la par­ tita assegnata a tavolino. Le condizioni del campo di gioco erano pessime: il terreno era completamente allagato

dalla pioggia torrenziale che stava sfogandosi sulla regione del Natal. Una delle immagini rimaste nella memoria collettiva è l’esercito di donne nere che, spazzoloni alla mano, libera il terreno del King’s Park dall’acqua in eccesso. Se la partita non si fosse disputata il Mondiale del Sudafrica sarebbe finito: il regola­ mento della Coppa del Mondo stabiliva che in questo caso sarebbe stata elimi­ nata la squadra che aveva subito più espulsioni durante il torneo. In quel mo­ mento, il cartellino rosso di Dalton con­ tro il Canada pesava come un macigno. Le contingenze e la volontà di non far saltare una partita di Coppa del Mondo però forzarono la mano agli ufficiali e all’arbitro Derek Bevan e l’incontro, no­ nostante il campo fosse ancora in condi­ zioni di pessima praticabilità, cominciò ugualmente. Finì 19­15 per i sudafricani, con la meta annullata da Bevan a Benaz­ zi e con le lacrime dell’uomo dalle tre patrie, la Francia, il Marocco e il rugby. 24 giugno 1995, Ellis Park: la finale di Coppa del Mondo si apre con la visita di Nelson Mandela allo spogliatoio sudafri­ cano. Indossa il cappellino e la maglia della nazionale, la numero sei di François Pienaar, il gesto con cui conqui­ sterà definitivamente la fiducia degli afrikaner. L’emozione è fortissima in tut­ to lo stadio, e quello che avviene ad Ellis Park è qualcosa che solo due anni prima sarebbe stato impensabile: i neri tifano per la nazionale dei bianchi, i bianchi intonano Shosholoza, canzone tradizio­ nale del Sudafrica nero, lo stadio intero inneggia a Mandela. I neozelandesi sono i favoriti, schierano all’ala Jonah Lomu, 110 kg di velocità, una delle prime ali pesanti della storia del rugby. I suda­ fricani invece impostano la loro partita sulla difesa, sulla compattezza di una squadra che ha saputo superare un

Pensare che basti una Coppa del Mondo a risolvere i problemi di un paese attraversato da mille contraddizioni e che ha appena superato una condizione di divisione e segregazione è impensabile. La vittoria degli Springboks non fu del tutto una favola. Alcuni giocatori neozelandesi vomitarono a bordo campo durante la finale, spingendo l’allenatore Laurie Mains ad insinuare che gli All Blacks fossero vittime di un’intossicazione alimentare deliberatamente causata da una misteriosa cameriera. Né alla cena della finale mancarono le polemiche e le controversie: il crasso commento del presidente della federazione sudafricana Louis Luyt svuotò la sala. Luyt disse che nel 1987 e nel 1991 aveva sostenuto che le Coppe del Mondo non erano veritiere, in quanto il Sudafrica non aveva partecipato, e che la vittoria degli Springboks dimostrava la sua ragione. Dopo aver parlato con il terza linea neozelandese Mike Brewer nell’immediato seguito dell’episodio, la stampa chiese a Luyt se si fosse trattato di una conversazione o di una confronto a muso duro: “Dipende da come interpretate le parole Grosso bastardo afrikaner”, fu la risposta. L’indelicatezza di Luyt durante quella sera non si limitò a quell’episodio: il presidente della federazione sudafricana regalò un orologio d’oro a Derek Bevan, definendolo “il migliore arbitro del torneo”, gesto quantomeno controverso, visto che Bevan aveva salvato in ben due modi la semifinale contro la Francia, evitando la sconfitta a tavolino del Sudafrica per le condizioni del campo e annullando la meta dubbia di Benazzi che avrebbe qualificato i Bleus alla finale di Johannesburg.

Le controversie del rugby sudafricano sarebbero continuate a lungo. Nel 2007, quando il Sudafrica vinse per la seconda volta la Coppa del Mondo schierando a pilone Os du Randt, un componente della squadra del 1995, la squadra sfoggiava sulle maniche della propria maglia la scritta 466664, il numero del prigioniero Mandela a Robben Island, e l’ex­presidente sudafricano si unì ai festeggiamenti della squadra, di nuovo indossando la maglia verde­oro. Non erano ancora risolti, né lo sono tuttora, i problemi legati alla violenza che circonda il gioco in alcune regioni della nazione, alla percezione dello springbok come simbolo dell’apartheid e all’annosa questione delle quote razziali nella squadra nazionale. Solo quattro anni prima le cronache avevano svelato l’orrore di Kamp Staaldraad, l’inumano campo di addestramento cui furono sottoposti i giocatori prima della Coppa del Mondo 2003, e la disputa tra l’afrikaner Geo Cronjé e il coloured Quinton Davids, entrambi espulsi dalla squadra per la Coppa del Mondo dopo che il primo si sarebbe rifiutato di dividere stanza e doccia con il secondo. cammino accidentato per arrivare alla finale, sulla passione e sul desiderio di coronare il sogno di una nazione. È il gioco degli Springboks a imporsi, e la partita si riduce a una sfida di calci tra Joël Stransky e il neozelandese di origine

sudafricana Andrew Merthens che porta per la prima volta una partita di rugby a tempi supplementari e che mantiene la gara sulla parità fino a sei minuti dalla fine. Fino a quel drop di Stransky.

THE RAINBOW NATION - La RWC 1 995

tensione al Boet Erasmus di Port Eliza­ beth era altissima: per il Sudafrica una vittoria voleva dire qualificarsi ai quarti evitando di incontrare subito corazzate come Inghilterra o Nuova Zelanda, la sconfitta avrebbe voluto dire la fine ingloriosa del torneo. Dopo l’esecuzione degli inni nazionali, con l’arbitro David McHugh in procinto di fischiare l’inizio del match, le luci dello stadio si spensero improvvisamente, per via di un cavo danneggiato. La tensione accumulata esplose sul campo di gioco: i Sudafri­ cani, grazie a una difesa rocciosa, si im­ posero per 20­0, ma a sette minuti dalla fine, dopo uno scontro di gioco tra Pieter Hendriks e Winston Stanley, sul campo scoppiò la rissa. McHugh fu costretto a mostrare tre cartellini rossi, uno dei quali verso il tallonatore sudafricano James Dalton. Dalton fu sospeso per trenta giorni: il suo Mondiale finì, insie­ me a quello di Hendriks, squalificato in seguito alla visione delle registrazioni della rissa da parte del comitato organiz­ zatore. Se il Sudafrica perdeva l’ala che aveva segnato una meta decisiva nella gara d’esordio contro l’Australia, la squa­ lifica riapriva le porte della nazionale a Chester Williams, che sarebbe diventato l’eroe del quarto di finale contro le Samoa Occidentali, segnando quattro mete. Finì 42­14 per gli Springboks che però pagarono lo scotto di un confronto fisico durissimo. A farne le spese fu l’e­ stremo André Joubert, che giocò le ulti­ me due partite del torneo con una mano rotta.

Numero 0 • Giugno 201 0


THE RAINBOW NATION - Costruendo una nuova Nazione

Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net

Nel periodo più buio della storia del Sudafrica, quando i principali leader del movimento anti­apartheid erano impri­ gionati a Robben Island, lo sport, nello specifico il calcio, contribuì ad accrescere la consapevolezza che i neri potevano autogovernarsi. Dopo che nel 1965 fu permesso ai detenuti di giocare a calcio all’interno del carcere, nacque la Makana FA, un’associazione sportiva che gestì per alcuni anni un vero e proprio cam­ pionato di calcio fra i detenuti. A Man­ dela e a Sisulu non fu però mai permes­ so di prendere parte o assistere a questi incontri, mentre l’attuale presidente Zu­ ma era un arbitro. Giocare a calcio non era solo un espediente per sopravvivere, ma contribuì anche ad accrescere un sentimento di dignità e uguaglianza non­ ché a stemperare le divergenze nate in seno al movimento anti­apartheid. Molti leader del’ANC erano stati atleti; fra questi Nelson Mandela comprese prima e meglio di altri che lo sport poteva rap­ presentare un’eccezionale strumento di riconciliazione per il nuovo Sudafrica, nonché un fondamentale viatico per pro­ muovere e generare una nuova identità nazionale. Se è vero che l’apice della ri­ conciliazione nazionale attraverso lo sport fu raggiunta nel 1995 quando Mandela consegnò a François Pienaar la Coppa del Mondo vestendo la maglia degli Springboks, storicamente simbolo dell’identità afrikaner, non vanno però dimenticati altri avvenimenti sportivi che hanno contribuito alla creazione identi­ taria della Rainbow Nation. Nel 1991 la nazionale di cricket era rientrata nell’ICC consentendo ai Proteas

Numero 0 • Giugno 201 0

liazione. L’atteggiamento di Mandela du­ rante i Mondiali segnalò che i desideri di vendetta erano stati riposti e che la Truth and Reconciliation Commission of­ friva realmente una catarsi da cui poter ripartire. Spinti dal carisma del neopre­ sidente del Sudafrica, i neri smisero di tifare contro gli Springboks e si unirono ai bianchi per sostenere una squadra in cui, accanto a 14 bianchi, giocava anche il coloured Chester Williams. Sempre nel 1995 il cricket sudafricano ottenne un’importante vittoria contro l’Inghilterra che rafforzò ulteriormente il processo di inclusione sociale e di riconciliazione portato avanti da Nelson Mandela.

(soprannome dei cricketer sudafricani) di prendere parte alla Coppa del Mondo che fu co­organizzata da Australia e Nuova Zelanda tra febbraio e marzo del 1992 in contemporanea con la campagna refe­ rendaria in Sudafrica. Il 17 marzo i su­ dafricani bianchi furono chiamati alle urne per decidere se sostenere o meno le riforme di de Klerk, la fine dell’a­ partheid e il proseguimento dei colloqui per la nuova costituzione. I Proteas, che nel torneo ben figurarono arrivando fino alle semifinali, si schierarono a favore del si che ebbe la meglio ottenendo il 68,8% dei voti. Lo stesso anno segnò il rientro del paese alle Olimpiadi. A Bar­

cellona la delegazione sudafricana, dopo aver marciato dietro alla bandiera del riammesso Comitato Olimpico, ottenne due medaglie d’argento nei 10.000 metri femminili e nel doppio di tennis ma­ schile. Un anno dopo le prime elezioni mul­ tirazziali del 1994, in cui l’ANC ottenne una schiacciante maggioranza, si disputò la Coppa del Mondo di rugby. Mandela intuì che proprio dallo sport degli afri­ kaner si sarebbe dovuti ripartire per ri­ costruire la nuova nazione arcobaleno. Lo slogan One team, one nation segnò simbolicamente l’inizio della riconci­

Dopo i successi nel rugby e nel cricket mancava solamente il calcio. Fallita la qualificazione a USA 1994 per via anche del continuo valzer di allenatori in pan­ china, la Coppa d’Africa del 1996, orga­ nizzata peraltro in casa, rappresentò la rivincita. I Sudafricani dovettero però fronteggiare il boicottaggio della Nigeria, campione in carica, reduce dall’exploit mondiale e capace in quella stessa estate di vincere la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Atlanta. Mandela ave­ va cercato di instaurare buoni rapporti con la Nigeria, seconda potenza regio­ nale dell’Africa sub­sahariana, ma quan­ do il regime militare nigeriano fece uccidere nove attivisti dei diritti umani, fra cui lo scrittore Ken Saro Wiwa, il Sudafrica fu in prima linea per espellere il paese dal Commonwealth. Una delle rappresaglie della Nigeria fu il boicot­ taggio sportivo. L’assenza delle Super A­


Pianeta Sport • www.pianeta-sport.net

Ovviamente la simbologia sportiva non è riuscita a risolvere tutti i problematici retaggi dell’apartheid sportivo. Ancora negli anni Novanta molti sudafricani

bianchi credevano al cliché secondo cui i neri avevano imparato a giocare a cricket o a rugby solamente nell’ultimo decennio. Come in molti altri campi i bianchi hanno mantenuto il controllo dei posti chiave dello sport sudafricano soprattutto del cricket e del rugby. I neri hanno invece via via assunto il controllo del calcio e del Comitato Olimpico. An­ che se inferiore alla media africana, at­ tualmente rimane molto forte l’influenza della politica nello sport soprattutto sulla questione delle quote razziali all’interno delle squadre. Alcuni politici infatti, per esigenze meramente elettorali, tendono a insistere strumentalmente sulla neces­ sità che le nazionali di rugby e cricket debbano avere una quota riservata ai giocatori neri, tralasciando però il fatto che la popolazione di colore preferirebbe

che essi si occupassero meno dello sport d’élite e si impegnassero maggiormente invece a garantire un accesso facilitato alle infrastrutture e alla pratica sportiva. Malgrado tutti questi problemi siano ancora parzialmente irrisolti la Rainbow Nation sudafricana ha già una lunga storia di organizzazione di grandi eventi sportivi alle sue spalle. Nel 1997 Città del Capo ha avanzato la propria candi­ datura per le Olimpiadi del 2004, vinte poi da Atene. Nel 1999 Johannesburg ha organizzato gli All African Games, men­ tre nel 2003 il Sudafrica ha ospitato i Mondiali di cricket. I Mondiali di calcio rappresentano quindi il traguardo di quel cammino di ricostruzione dell’identità nazionale che lo sport ha percorso di pari passo alla società sudafricana. Un

punto d’arrivo quindi, ma anche un’oc­ casione per ripartire. I problemi econo­ mici, il crescente divario fra ricchi e po­ veri e i problemi sociali, fra cui una cri­ minalità urbana in costante aumento e un tasso drammatico di sieropositività, costituiscono le sfide del Sudafrica del nuovo millennio. I prossimi Mondiali di calcio saranno un’eccezionale vetrina per il paese. Se il Sudafrica avrà la forza di non nascondere dietro ai cartelloni pub­ blicitari e agli stadi scintillanti le sue contraddizioni e cercherà invece di risolverle sfruttando il momento di visi­ bilità internazionale, allora potrà vera­ mente affermare di aver vinto i suoi Mondiali.

THE RAINBOW NATION - Costruendo una nuova Nazione

quile pesò molto riducendo il valore as­ soluto della competizione, ma tutto som­ mato facilitò il successo finale dei Bafana Bafana. Anche la nazionale Sudafricana di calcio, trascinata da Mark Fish, Doc Khumalo, Shaun Bartlett e John Mo­ shoeu, ottenne quindi il suo grande ri­ sultato. Tutti i sudafricani sostennero l’entusiasmante percorso dei Bafana Ba­ fana verso il trionfo. Così come nel 1995 il rugby aveva smesso di essere sola­ mente lo sport degli afrikaner e il cricket quello degli inglesi, anche il calcio nel 1996 smise di essere uno sport esclusi­ vamente per neri.

Numero 0 • Giugno 201 0


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.