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Nuove dinamiche del People Management:
l’Employer Branding per la valorizzazione dei talenti COLLANA EMPLOYER BRANDING
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CATANIA
FACOLTA’ DI ECONOMIA Corso di laurea in Economia Aziendale
SAGGIO FINALE IN ORGANIZZAZIONE AZIENDALE
Nuove dinamiche del People Management: l’Employer Branding per la valorizzazione dei talenti
Relatore: Prof. R. Faraci
Candidato: Angelo Anello
Anno Accademico 2007 - 2008
INTRODUZIONE CAPITOLO 1 IL VALORE AGGIUNTO DELLE RISORSE UMANE 1.1-‐ Le Risorse Umane : gli “assi nella manica” delle aziende 1.2 -‐ Gli orientamenti finalizzati allo sviluppo delle competenze 1.3 -‐ Il “Talento”: motore trainante della crescita aziendale 1.4 -‐ La Guerra dei Talenti 1.5 -‐ La gestione dei talenti 1.6 -‐ Il Talent Relationship Management e l’Employee Referrals Program
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CAPITOLO 2 34 L’EMPLOYER BRANDING PER IL RECRUITING E LA RETENTION DELLE RISORSE UMANE 34 2.1 – Le basi dell’Employer Branding 34 2.2 – I driver dell’Employer Branding: i fattori intangibili e i fattori tangibili 36 2.3 -‐ La segmentazione del mercato del lavoro e l’individuazione del target di riferimento 43 2.4 -‐ Lo sviluppo della strategia di Employer Branding: 47 il modello EBGF 47 2.5 Employer Branding, Corporate Branding e Brand Awareness: il BCI index© 55 2.6 -‐ Le nuove opportunità di sviluppo dell’Employer Branding 60 CAPITOLO 3 IL CASO L’Oréal 3.1 – Il gruppo L’Oréal 3.2 – La ridefinizione delle strategie di recruiting e selezione 3. 3 -‐ Le indagine di ricerca sui neolaureati 3.4 – L’Employer Branding in L’Oréal 3.5 -‐ I risultati conseguiti 3.6 – Lo sviluppo futuro del recruitment
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CONSIDERAZIONI FINALI
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BIBLIOGRAFIA
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SITOGRAFIA
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INTRODUZIONE Negli ultimi anni il mercato del lavoro è stato al centro di rilevanti cambiamenti che lo hanno reso alquanto complesso; le nuove tecnologie legate a Internet, alle telecomunicazioni e all’informatica e la globalizzazione dei mercati rendono più confrontabili realtà aziendali di tutto il mondo e provocano l’insorgere dell’esigenza di repliche sempre più efficaci in termini di competitività. L’output di tale processo è stata una progressiva riorganizzazione aziendale interna che ha portato, a sua volta, alla nascita di nuove figure professionali Per diversi anni, le imprese hanno relegato in una posizione di secondo piano l’attenzione per le Risorse Umane quale imprescindibile strumento di vantaggio competitivo; diversi fattori hanno contribuito a mutare lo scenario, primo fra tutti il calo demografico repentino registrato tra il 1966 e il 1979, con il contestuale emergere della cosiddetta “Generazione X”, che si è tradotto nel connesso problema del “workforce shortage”, ovvero nella difficoltà delle imprese di reclutare nuove figure professionali appartenenti a quella fascia di età. Oggi sono, quindi, i “talenti” la risorsa scarsa del mercato e la situazione sembra essere capovolta: non sono più i candidati a “rincorrere” le aziende, ma sono le stesse aziende a “inseguirli” utilizzando come supporto le nuove dinamiche offerte dal People Management . Lo scopo del lavoro è quello di descrivere la relazione positiva tra le Human Resources (Risorse Umane) e le performance aziendali; studi recenti hanno, infatti, evidenziato come il miglioramento del clima interno possa condurre ad un aumento dei profitti aziendali. L’asse portante della tesi è rappresentato dalla descrizione di una particolare strategia di gestione delle Risorse Umane, nata negli Stati Uniti, finalizzata a costruire e sviluppare l’immagine aziendale sia sul versante interno (“retention”, ossia il mantenimento dei dipendenti), sia su quello esterno del lavoro (“recruiting”, il reclutamento di nuove risorse): l’Employer Branding. Il core della filosofia dell’Employer Branding è espresso dal fatto che l’azienda può determinare e implementare le proprie strategie di marketing e branding per il recruitment e la fidelizzazione della forza lavoro con il medesimo impegno con cui lo fa per il cliente, con la consapevolezza che come è possibile perdere un cliente per una
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promessa non mantenuta, allo stesso modo si può perdere la fiducia del proprio dipendente o di un potenziale collaboratore di “talento”, deludendo le aspettative o le promesse a causa di un’inefficace attività di Employer Branding. Molteplici sono i motivi che delucidano l’attenzione riposta in un così tale argomento innovativo; prima fra tutti, la ferma credenza che, anche quando all’interno dell’azienda la tecnologia e l’automazione sono ai loro livelli massimi, l’uomo, le sue capacità, le sue esperienze e, quindi, il suo “talento” rappresentano comunque il perno fondamentale attorno cui ruota l’intero successo competitivo delle organizzazioni. La gestione dei “talenti” dovrebbe, quindi, rappresentare una priorità di ogni vertice aziendale perché il “talento” riesce a “vedere” il mondo con occhi diversi intuendo opportunità, incuriosendosi e informandosi autonomamente; perché il “talento” non vuole plasmare la realtà dei fatti ma intende cambiarla direttamente; perché il “talento” è e produce qualità, contagiando i colleghi che gli stanno intorno e attirando propri simili. E’ proprio tutto questo che assegna all’Employer Branding un fascino che è caratterizzato, oltre che dalle logiche di convenienze economica, da una “lotta” di sopravvivenza, per molto tempo latente, a cui oggi tutte le organizzazioni non possono sottrarsi perché un’azienda senza “talenti” è completa ma solo a metà. La struttura del lavoro è articolata in tre momenti fondamentali. La prima parte, si concentra sull’importanza delle Risorse Umane, intese sia come mezzo finalizzato a creare un vantaggio competitivo stabile in grado di distinguere l’azienda dai suoi competitors, e sia come voce d’investimento anziché di costo; da ciò scaturisce l’interesse riposto nelle tecniche finalizzate allo sviluppo delle competenze, quali ad esempio i
business game e i teamwork,
indirizzati a creare un vigoroso senso di
appartenenza che permette all’azienda di fidelizzare i migliori “talenti” cresciuti al proprio interno. La discussione evolve e converge l’attenzione su una parte ben precisa delle Human Resources ovvero i “talenti”, cioè coloro che hanno un potenziale così elevato da poter fare la differenza e che, proprio per tale peculiare caratteristica, sono al centro di una intensa lotta tra le aziende denominata la “Guerra dei talenti”. Innumerevoli sono gli approcci che è possibile seguire per vincere tale competizione ma si è deciso di concentrare l’attenzione sui cinque “consigli” di Ed Michaels, Helen Handfield-Jones e Beth Axelrod, partners della McKinsey & Co. , finalizzati ad attrarre gli outsider giusti attraverso l’acquisizione, da parte dell’azienda, di una mentalità “talent oriented”,
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creando una proposta di valore vincente per i dipendenti, ricostruendo la strategia di recruiting, facendo dello sviluppo una caratteristica intrinseca dell’organizzazione e, infine, differenziando e valorizzando i collaboratori. La seconda parte del lavoro, interessandosi dell’Employer Branding (EB), rappresenta il cuore della tesi; dapprima, sono messi sotto esame le due categorie di fattori alla base della strategia, ovvero gli elementi intangibili e quelli tangibili, sottolineando l’importanza preminente dei primi nel processo di definizione dell’employer identity e di costruzione dell’employer brand. Successivamente, lo studio si concentra sulla preliminare individuazione del target di riferimento che viene assunta quale base imprescindibile per l’implementazione di una buona strategia di Employer Branding. Il punto focale della discussione è raggiunto con l’analisi del modello concettuale dell’EBGF (Employer Brand Global Framework) che sottolinea gli aspetti più importanti di una strategia di EB; esso si compone di 4 schemi, tra i quali l’EB Action a cui è stata riferita un’analisi prioritaria in quanto individua le 4 azioni (Assessment, Prospective, Monitoring e Development) da svolgere per realizzare una strategia di Employer Branding. Nell’ultima parte del lavoro, muovendo dalla constatazione che uno dei problemi principali che caratterizzano l’accesa polemica sul ruolo strategico delle Human Resources è rappresentato dall’esigenza di misurarne l’effettivo impatto sulla performance organizzativa, anche attraverso l’analisi di casi aziendali, l’attenzione è stata concentrata sul gruppo L’Oréal. La società ha recentemente affrontato un processo di ripensamento delle logiche di fondo del recruitment, grazie all’implemetazione di una efficiente strategia di Employer Branding, il cui output si è collocato in un miglioramento dell’immagine aziendale (e quindi in un miglioramento della coerenza tra quanto dichiarato dall’organizzazione e quanto percepito dai potenziali candidati) e in un rafforzamento della fiducia con i docenti e le strutture di placement degli atenei di riferimento con cui la stessa impresa detiene rapporti di collaborazione
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CAPITOLO 1
IL VALORE AGGIUNTO DELLE RISORSE UMANE
1.1- Le Risorse Umane : gli “assi nella manica” delle aziende In uno scenario economico governato sempre più dall’incertezza e dall’elevata complessità, un elevato capitale finanziario, mezzi strumentali e patrimoniali opulenti spesso non sono sufficienti a garantire la “sopravvivenza” dell’azienda; assicurare continuità produttiva e stabilità significa essere innovativi e investire sulla key factor irrinunciabile per il raggiungimento del vantaggio competitivo: la Risorsa Umana ovvero, utilizzando il termine coniato da Theodore Schultz1, il Capitale Umano.. Il Capitale Umano2 è una particolare combinazione di diversi fattori, quali l’intelligenza, l’energia, l’affidabilità, l’impegno, la creatività, lo “street smarts”( cioè il senso pratico, la capacità di realizzare le cose), lo spirito di squadra e l’orientamento verso gli obiettivi; il Capitale Umano3, secondo l’accezione di Becker4, può essere assimilato ad una combinazione di risorse individuali, tangibili e intangibili, tacite e codificate, le cui principali componenti sono rappresentate dall’istruzione, dall’informazione e dalla conoscenza Il Capitale Umano si connota per essere un sapere privato che si acquisisce (e si perde) con la persona che lo detiene; è dunque cruciale favorirne la condivisione (knowledge sharing) promuovendo i contributi alla conoscenza diffusa e all’apprendimento organizzativo. 1
Economista statunitense, Premio Nobel per l’economia per il contributo dato alla teoria del Capitale Umano e autore di diverse opere e articoli tra cui “Investment in Human Capital”, The American Economic Review, Vol. 51, No. 1 (Mar., 1961). 2 Patemi R. , “Il ruolo del Capitale Umano nelle aziende oggi” (adattato dal libro “The Role of Human Capital” di Jaz Fitz-enz), 2006, www.professionelavoro.net 3 Bramanti A. , Odifreddi D. , “Capitale Umano e successo formativo”, FrancoAngeli, 2006 4 Economista statunitense, vincitore del Premio Nobel per l’economia nel 1992 per «aver esteso il dominio dell'analisi microeconomica ad un ampio raggio di comportamenti e interazioni umane, incluso il comportamento non legato al mercato», autore di diversi contributi alla teoria del Capitale Umano tra cui : “Investment in Human Capital: a theoretical analysis” (1962) , “Human Capital: a theoretical and empirical analysis with special reference to education” (1964)
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La valorizzazione degli individui, delle abilità professionali, del potenziale di creatività e motivazione rappresenta l’aspirazione primaria per l’azione gestionale e si riflette nella delicatezza dei momenti di selezione, gestione e sviluppo delle Risorse Umane; le spese per l’acquisizione, l’addestramento e la formazione del personale non devono intendersi come semplici costi di esercizio, bensì come investimenti. Sono le persone, quindi, ad essere l’essenza dell’organizzazione, ad essere cioè il motore trainante per il raggiungimento dell’obiettivo finale: un adeguato livello di profitto congiuntamente alla soddisfazione di tutti gli stakeholders e al rispetto dell’ambiente; in tal modo, la strategia aziendale, se realmente innovativa e condivisa a tutti i livelli, condurrà al successo per mezzo anche di una ferrea componente motivazionale presente nelle Risorse Umane, che si esprime nel desiderio di perseguire determinati fini con consapevolezza dei propri mezzi e giusta tensione verso gli obiettivi e, quindi, che si esprime nella voglia di partecipare alla vita aziendale e di vivere “esperienze trasformative”. Quando un’azienda è in grado di articolare un ottimo processo di “knowledge building5” (costruzione di conoscenza) può ambire allo sviluppo di competenze chiave per ogni esigenza di breve periodo, per il problem solving, per la pianificazione di lungo termine e per lo sviluppo di capacità manageriali; in tale prospettiva la performance aziendale viene valutata come l’effetto di vantaggi competitivi sempre più legati al know-how interno ed alle competenze acquisite e sviluppate nel tempo. 6
1.2 - Gli orientamenti finalizzati allo sviluppo delle competenze L’attenzione alle Risorse Umane è ormai un aspetto così onnipresente nel mondo organizzativo tale da poter qualificare le persone come il vero patrimonio aziendale; ciò spiega l’attenzione che le aziende hanno riposto negli approcci che sviluppano e consolidano le competenze, tra i quali:
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Termine coniato da Bereiter C. e Scardamalia M. al centro di un loro trattato denominato “Knowledge Building: Theory, Pedagogy and Technology”, Sawyear K., 2006 6 Va precisato che non esiste, comunque, il miglior approccio per incentivare e preservare nel lungo periodo le professionalità delle proprie risorse umane; esiste però un approccio adatto per ogni distinto contesto culturale in cui è immersa la realtà aziendale; ad esempio, in paesi come il Giappone, caratterizzato da un basso livello di turnover lavorativo, si adotteranno soluzioni alquanto diverse rispetto ai paesi occidentali, caratterizzati da un elevato turnover, anche se l’obiettivo finale è e rimane quello di coltivare/investire su risorse ad alto potenziale per garantire un elevato rendimento nel lungo termine
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Project pilot, ovvero progetti pilota innovativi, i cui componenti hanno come obiettivo di progetto quello di conseguire un risultato per l’azienda e come obiettivo formativo quello di apprendere quali strumenti utilizzare nella gestione di un progetto e di quale approccio servirsi per creare un sistema di memorizzazione e condivisione della conoscenza acquisita.
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Bussines game, strumento di simulazione della realtà, basato sui giochi di ruolo, che viene scelto perché affina le capacità decisionali in situazioni d’emergenza, aumenta la competitività e mette in pratica attraverso il gioco ciò che si è appreso nella teoria seguendo il principio del learning by doing (imparare facendo). Il manager viene inserito in spazi di “simulation” nei quali agisce come se fosse in un vero team, consentendo all’azienda di studiare la sua capacità di leadership e di teamwork.
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Outdoor development / Outward bound, metodo che sviluppa la capacità di mobilitazione di tutte le proprie Risorse Umane e che consente di sbloccare schemi di apprendimento in situazioni estreme e inusuali per il soggetto, attraverso l’utilizzo di territori naturali inospitali e difficili (rapide, deserti, ghiacciai) entro i quali vengono assegnati problemi reali al limite della sopravvivenza7.
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Teamwork, ovvero comunità “eterogenee” in cui i membri possono lavorare in squadra guidati e trascinati da una nuova forma di “leadership collettiva” verso il raggiungimento di un fine comune; lo scopo non è competere ma cooperare tramite la continua comunicazione, lo scambio reciproco d’informazioni, la pianificazione di gruppo e la valorizzazione delle competenze di ogni membro del Team. Se un gruppo di lavoro mostra di avere una “coscienza” fa intuire che le Risorse Umane che lo costituiscono sono saldamente coese, soddisfatte dell’ambiente in cui operano e delle persone con cui si confrontano quotidianamente; ciascuno conosce ciò che deve fare e le aspettative che hanno gli altri membri sul suo comportamento nelle molteplici circostanze aziendali. I Team di tal genere possono essere reputati veri e propri “organismi viventi” guidati da modelli mentali così talmente condivisi da far sembrare che le decisioni
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Laveglia S. , “L’importanza delle risorse umane come parte del capitale intellettuale”, www.blogcattedra.info.it , 24/10/2006
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prese siano frutto di una sola mente. Il “punto di vista multiplo” produce idee innovative che accrescono il valore dell’impresa sia in termini di migliori prodotti e processi, sia in termini di sviluppo delle Risorse Umane, le quali, oltre ad accrescere il proprio livello conoscitivo ed esperienziale, maturano anche un forte senso di appartenenza che permette quindi all’azienda di fidelizzare i migliori “talenti” cresciuti al proprio interno. L’errore più comune commesso dalle imprese è rappresentato dal far guidare un teamwork da un leader carismatico, considerato miglior esperto in materia; ciò porterà sicuramente il “capo” a soffocare le idee diverse dalle sue, evitando di farle emergere, portando la risoluzione dei problemi ad un certo livello di conformismo che ne ostacola il miglioramento. Ad esempio, un caso di eccellenza aziendale nella gestione delle HR (Human Resources) è rappresentato dal “Cirque du Soleil”, un’azienda che ha intuito in anticipo rispetto alla concorrenza la centralità e l’importanza del lavoro di squadra. Al “Cirque du Soleil” lo spirito è quello di lavorare insieme per produrre un’unica sinergia, coltivando la creatività non solo degli artisti, ma anche degli artigiani, dei tecnici, degli impiegati; il gruppo si muove in squadra per dare più forza possibile all’esibizione, esaltando l’indispensabilità dell’equilibrio del team. I candidati vengono valutati sulla base delle loro capacità di mettersi in gioco in squadra, di condividere le loro idee e il loro talento, di assumersi responsabilità. L’azienda ha, quindi, puntato sulla creatività e sull’innovazione attraverso investimenti consistenti sulle persone, perché ha compreso che
anche quando la
tecnologia e l’automazione sono spinte al massimo, l’uomo resta sempre l’elemento fondamentale del successo di ogni impresa8.
1.3 - Il “Talento”: motore trainante della crescita aziendale Ogni individuo possiede una peculiare inclinazione, ma solo alcuni hanno quel mix di doti innate, conoscenze, esperienza, intelligenza, carattere e tensione al risultato da essere dei veri “talenti”. Puntare sulla crescita dei “talenti” porta benefici qualitativi e quantitativi alle aziende: consente infatti di far maturare esperienza ai teamwork, rinforza il clima interno e da
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Bianchini M., “Il valore della risorsa umana, fonte di innovazione aziendale”, www.itconsult.it
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fiducia al Capitale Umano, aumentando i livelli di soddisfazione e i profitti. I responsabili delle Risorse Umane si comportano, ormai, come “cacciatori d’oro” che setacciano i “talenti”, inseguendo coloro che hanno un così elevato potenziale da poter far la differenza, strappando anche alla concorrenza il giovane più promettente, perché il “talento” è una risorsa scarsa, quindi sempre più preziosa e contesa dal mercato del lavoro e che necessita di pressanti strategie di comunicazione per essere attirato nell’orbita aziendale.9 Per “vendersi” bene ai giovani occorre costruire una vera e propria strategia di marketing, il cui punto di partenza è costituito dalle esigenze di chi sta cercando lavoro per costruire all’interno dell’azienda un ambiente che appaia il più possibile attrattivo; diversi sono gli strumenti a disposizione, tra i quali: •
Job Meeting, giornate di orientamento al lavoro che rappresentano fondamentali momenti di incontro e confronto tra studenti universitari, laureati e i responsabili delle aziende e degli enti di formazione presenti. Ogni azienda si presenta con uno stand a cui è possibile chiedere informazioni sulle opportunità professionali offerte, sui profili ricercati, sulle dinamiche di carriera; il potenziale candidato ha la possibilità di consegnare direttamente il proprio Curriculum Vitae cartaceo o di compilare le application form predisposti per l’analisi delle candidature. Nel corso della manifestazione alcune aziende partecipanti svolgono dei brevi incontri di presentazione, illustrando dettagliatamente l’organizzazione, i prodotti, i servizi aziendali con la possibilità di interagire direttamente per chiedere chiarimenti su determinati aspetti specifici quali, ad esempio, le politiche retributive10.
• Workshop, eventi di formazione brevi supervisionati da docenti professionisti che hanno lo scopo di far fare esperienza rispetto ad una specifica abilità o tecnica; l’attenzione è quasi tutta sull’aspetto pratico. Un Workshop ha finalità formative ma non consiste in un vero e proprio corso di formazione, poiché i soggetti 9
La competizione per il talento, come fonte di creatività e motore della crescita, è una competizione globale che tocca ogni angolo del pianeta; l’Italia, a differenza di U.K, Irlanda e Stati Uniti, manca di un sistema per promuovere i talenti. Gli U.S.A hanno diversi “Visa Programs” inclusa la lotteria per la Green Card che mette in palio 50.000 visti ogni anno, consentendo ai sorteggiati di avere l’opportunità di richiedere la residenza permanente e quindi di ottenere l’autorizzazione a vivere e a lavorare negli States; in U.K, per favorire l’immigrazione dei talenti, è stato creato un sistema a punti dove vengono preferite le persone laureate e/o con diversi anni di esperienza alle spalle nell’ambito dei lavori altamente specializzati. 10 www.competenza.it
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partecipanti sono già formati e dunque sfruttano tale occasione per mettere in pratica la conoscenza appresa11. • I rapporti con le Università, ovvero intensi legami tra il mondo accademico e quello manageriale che si sostanziano in una maggiore collaborazione dalla quale far nascere investimenti in progetti di sviluppo che facciano degli atenei i motori dello sviluppo aziendale12. L’Eni, ad esempio, ha stipulato una convenzione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore per l’avvio di un Master di secondo livello in “Oil & Gas Law And Economics”, il cui obiettivo è promuovere un profilo di competenze che associ una solida preparazione economica-giuridica a concrete esperienze di training on the job, con prospettive reali di eventuale inserimento nelle realtà industriali di ENI13 La Microsoft ha ideato un’iniziativa, denominata “La tua strada”, studiata per agevolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, promuovendo l’immagine di Microsoft come azienda attenta al sociale verso il target degli studenti universitari; il progetto, che coinvolge alcuni Atenei italiani, punta ad offrire ai più brillanti studenti o neolaureati l’opportunità di compiere un’esperienza professionale presso una società partner, usufruendo di un percorso propedeutico formativo erogato direttamente da Microsoft14. Un ulteriore problema riguarda come assecondare i “talenti” per fidelizzarli; oltre ai benefit tangibili, quali polizze sanitarie, pensione integrativa e distribuzione degli utili, si punta soprattutto su quelli intangibili come asili nidi, palestre aziendali e sconti su viaggi. Ed è proprio questa la filosofia adottata ad esempio dalla Mediaset che, tramite la creazione del Mediacenter, consente ai suoi dipendenti di risolvere tutta una serie di incombenze quotidiane (dalla spesa alle bollette per le utenze domestiche, fino all’acquisto dei regali), comprendendo un insieme di servizi che sono stati messi a punto sulla base dei risultati di una ricerca di mercato volta a capire i bisogni extralavorativi dei lavoratori. Da qui è nato il piano d’azione impostato su tre aree: servizi alla famiglia, 11
www.competenza.it Sacchi A, “Non basta chiedere, le aziende investano nell’università”, Corriere della sera, 1/06/2009 13 www.eni.it 14 Raimondi P. , “La tua strada: da Micosoft Italia un progetto per i giovani”, www.employerbranding.blogspot.com, 26/03/2008 12
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iniziative per salute e benessere e attività che fanno risparmiare tempo e denaro; così, ad esempio, negli uffici di Cologno Monzese è stato creato un centro medico convenzionato con l’ospedale San Raffaele di Milano che offre visite ambulatorie specialistiche e garantisce un accesso privilegiato alle strutture ospedaliere. Sono stati inoltre realizzati un centro fitness, un asilo nido e un presidio farmaceutico dotato di prodotti prenotabili anche online con consegna in ufficio15. Non esistono, quindi, regole fisse nella scelta e nella fidelizzazione dei talenti: tutto dipende molto da segnali che spesso sono difficili da captare, ma che determinano il successo o l’insuccesso di una scelta; fondamentale è intuire cosa si nasconda dietro un formale colloquio di lavoro, ad una giacca e cravatta, ad un curriculum stracolmo di lauree, master, viaggi all’estero, hobby stravaganti, perché il “talento” spesso sfugge all’attenzione del dirigente, non si fa ingabbiare dietro rigidi schemi, non si trasmette da padre in figlio, né si acquista con un titolo di studio: bensì è una “terra promessa” da conquistare giorno per giorno. 1.4 - La Guerra dei Talenti In una economia dove le persone sono il principale fondamento del vantaggio competitivo, la guerra tra le aziende per attrarre i “talenti” giusti è l’attività principe delle imprese di successo. Le forze principali che alimentano la “Guerra dei Talenti”, espressione coniata nel 1997 dalla McKinsey & Company, sono essenzialmente tre: •
Il passaggio irreversibile dall’era industriale all’era dell’informazione. Nella nuova era l’importanza degli asset tangibili, quali macchinari e fabbriche, è diminuita rispetto all’importanza degli asset intangibili, come il brand, il capitale intellettuale e il “talento”; nel 1900 appena il 17% dei posti di lavoro richiedeva la presenza di lavoratori di concetto, mentre oggi sono più del 60%16. Il maggior peso specifico di tale categoria rende assolutamente preminente l’obiettivo di reperimento di “talenti”, perché il differenziale da loro creato è enorme; secondo John Chambers, CEO della Cisco Systems, un ingegnere di livello superiore,
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Dell’Olio L. , “Non dipendenti, ma persone – La filosofia di Mediaset in un’intervista a Panorama”, www.mercurius.it, 14/03/2005 16 Butler P. , “A Revolution in Interaction” , McKinsey Quarterly, n. 1, pag. 8 , 1997
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insieme a cinque colleghi, è in grado di fare meglio di 200 ingegneri per così dire normali17. Poiché l’economia è basata sempre più sulle conoscenze, il valore aggiunto generato dai collaboratori di “talento” continua ad aumentare. •
La pressante domanda di “talenti” manageriali. Il lavoro dei manager è diventato sempre più complesso; la globalizzazione e i rapidi progressi della tecnologia, infatti, cambiano continuamente le regole del gioco in quasi tutti i settori. Oggi le aziende necessitano di manager in grado di rispondere a tali sfide, in grado di assumersi i rischi e di essere al passo con le tecnologie; vogliono dei leader che sappiano ripensare il loro business e ispirare i loro collaboratori. L’offerta di “talenti” manageriali è però limitata e di conseguenza nei prossimi anni le aziende accenderanno un’aspra concorrenza per accaparrarsi tali preziose risorse.
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La crescente propensione dei manager a cambiare azienda. Così come le aziende hanno preso coscienza della necessità di avere dei manager di grandi qualità, i manager hanno preso coscienza dell’opportunità di cambiare azienda. Sono state le ristrutturazioni della fine degli anni Ottanta a rompere per la prima volta il patto tradizionale in cui si scambiava la fedeltà con la sicurezza del posto; a ciò è seguito un fiorire di occasioni di lavoro accompagnate da una ricca pubblicazione su Internet. Nel giro di pochi anni i vecchi tabù contro la pratica di cambiare frequentemente posto sono cadute e possedere un curriculum “movimentato” è diventato un titolo di merito.
Le forze strutturali che alimentano la “Guerra dei talenti” generano due intense implicazioni. Innanzitutto, la regia è passata dall’azienda all’individuo; oggi più che mai, le persone di “talento” hanno il potere negoziale necessario per perseguire efficacemente le loro aspirazioni di carriera. Il prezzo del “talento” è, quindi, in ascesa e le aziende cominciano ad intuire che la “conquista” di “talenti” manageriali richiede un impegno costante e profuso in tutta l’organizzazione. Inoltre la gestione dei “talenti” è diventata una fonte primaria di vantaggio competitivo; le aziende più capaci di attrarre, sviluppare, mantenere e motivare i collaboratori di 17
Byrne J. A. , “Visionary vs. Visionary”, Business Weak, pag. 212, 28/08/2000
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“talento” guadagneranno una quota maggiore di tale risorsa scarsa e quindi miglioreranno le loro performance. Da una ricerca18 della McKinsey & Co. basata sull’analisi del ritorno totale degli azionisti attraverso la costruzione di un indice composto19 per misurare la gestione dei “talenti”, è scaturito che le aziende più brillanti nel “talent managememt” erano quelle che registravano dei punteggi inquadrabili nel quintile più elevato dell’indice, mentre quelle relativamente peggiori nella gestione dei “talenti” si collocavano nel quintile più basso; le prime aziende registravano in media un ritorno per gli azionisti superiore di circa 22 punti percentuali allo standard di settore, le seconde producevano un ritorno uguale o inferiore alla media del settore20. A determinare il ritorno per gli azionisti concorrono anche altri fattori, oltre alla gestione dei “talenti”, ma tali dati dimostrano che un’efficace gestione dei “talenti” si traduce in performance più brillanti. 1.5 - La gestione dei talenti Le aziende che intendono primeggiare nella competizione per il “talento” possono contare su un vasto numero di approcci che la letteratura offre, nessuno dei quali rappresenta la one best way; in questa sede esaminerò i cinque postulati di Ed Michaels , Helen Handfield-Jones e Beth Axelrod, partners della Mckinsey & Co.21: 1. Acquisire una mentalità “talent oriented”. 2. Creare una proposta di valore vincente per i dipendenti. 3. Ricostruire la strategia di recruiting. 4. Fare dello sviluppo una caratteristica intrinseca dell’organizzazione. 5. Differenziare e valorizzare i collaboratori.
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Ricerca effettuata nel 1997 a cui parteciparono 67 grandi aziende americane, attraverso l’invio di tre tipologie di questionari destinati a tre distinti gruppi di rispondenti: top manager, senior manager e direttori delle risorse umane più senior 19 L’indice composto con cui misurare la gestione dei talenti è tratto da otto domande che concernono diverse problematiche di gestione del talento: orientamento al talento, etica della performance, proposta di valore per il dipendente, recruiting, capacità di trattenere i talenti, ambiente aperto e improntato alla fiducia, sviluppo e azioni sui collaboratori mediocri. 20 Michaels E. , Handfield-Jones H. , Axelrod B. , “La Guerra dei talenti”, Etas, 2002 21 Autori del libro “La Guerra dei Talenti”, Etas, 2002, e pionieri della mentalità orientata allo sviluppo del talento.
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1. Acquisire una mentalità “talent oriented” Costruire un pool di “talenti” migliori significa fare in modo che i manager e i responsabili di tutti i livelli acquisiscano una mentalità orientata al talento, ovvero la radicata certezza che, per realizzare le proprie aspirazioni di business, l’azienda necessita di avere a disposizione di grandi “talenti”; e per avere i “talenti” migliori è necessario che tutti i responsabili aziendali siano ugualmente impegnati al perseguimento di questo obiettivo, poiché non rappresenta una responsabilità esclusiva della funzione Risorse Umane. Acquisire una mentalità “talent oriented” non significa, dunque, migliorare la formazione, non equivale né a costituire una funzione Risorse Umane migliore, né ad offrire più stock option. I dirigenti con una mentalità “talent oriented” fanno della gestione dei “talenti” una componente cruciale del loro lavoro; capiscono che non è possibile delegare e dunque investono una parte rilevante del loro tempo e delle loro energie nel rafforzare con passione, coraggio e determinazione il loro pool di “talenti”. Ogni dirigente ha il compito di fissare lo standard di riferimento per il “talento” a cui s’ispirerà tutta l’organizzazione: lavoro che viene svolto giorno per giorno attraverso la qualità di coloro che assume e tramite la definizione dei parametri rispetto ai quali valutare i collaboratori. Lo standard può essere enunciato in modo semplice oppure mediante un elenco articolato che comprenda diverse competenze, quali ad esempio il pensiero strategico e la capacità di comunicazione, con una descrizione particolareggiata dei comportamenti che caratterizzano la performance eccellente, media e scarsa. Le aziende e i dirigenti che hanno una mentalità “talent oriented” sono convinti che il “talento” manageriale appartenga all’azienda nella sua totalità e considerano i loro manager un patrimonio aziendale. Ad esempio, un CEO orientato al talento instilla tale mentalità negli altri in modo tale da diffonderla in tutta l’organizzazione: è profondamente coinvolto nell’impiego, nello sviluppo, nel recruiting e nella motivazione dei propri manager a tutti i livelli e ciò non vuol dire prendere tutte le decisioni finali in materia di assunzioni e promozioni, perché tale comportamento demotiverebbe gli altri dirigenti; significa, piuttosto, condividere le sue decisioni, promuovere e guidare un processo semplice di review dei “talenti”, con il quale analizzare la loro collocazione rispetto alle priorità critiche del business, e infine riesaminare l’intensità della catena di approvvigionamento dei “talenti” nelle diverse business unit
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2. Creare una proposta di valore vincente per i dipendenti Fino ad un ad un decennio fa, la carriera era il mezzo che permetteva di raggiungere il proprio fine: un reddito in grado di soddisfare i propri bisogni e magari un giorno il raggiungimento dell’ambito status di dirigente in una grande impresa. Si entrava in azienda, si svolgeva il proprio lavoro e si scalava la gerarchia interna seguendo una cadenza prefissata; non si arrivava al top dei vertici aziendali se non prima dei cinquant’anni Oggi, i professionisti di “talento” pretendono elevati stipendi e tutti i benefit possibili; ma soprattutto vogliono essere stimolati dal lavoro che svolgono, arricchiti dalle opportunità di carriera e ispirati dalla mission. Sono disposti a lavorare molto, ma vogliono sentirsi realizzati; se non lo sono, tendono fatalmente a lasciare l’azienda perché hanno a disposizione un gran numero di alternative e sanno qual’è il valore che sono in grado di creare. Il prezzo del “talento” è quindi salito alle stelle. L’Employee Value Proposition (EVP) rappresenta tutto ciò che le persone vivono e ricevono nell’ambito del rapporto con l’azienda: la soddisfazione intrinseca del lavoro, l’ambiente, la leadership, i colleghi, la retribuzione; in altre parole è quello che l’azienda fa per soddisfare i bisogni, le aspettative e anche i sogni dei collaboratori. Una proposta di valore per i dipendenti stimola le persone, inducendole a dare il meglio di sé e a legarsi emotivamente al lavoro e all’azienda; una EVP non è materializzata dall’enfasi delle parole dell’opuscolo di presentazione dell’azienda e neanche dall’entità dei benefit, bensì dalle esperienze che gli individui fanno giorno per giorno. La proposta di valore per i dipendenti è molto simile alla proposta di valore per i clienti; sarebbe necessario, allora, che le aziende comincino ad applicare la stessa logica di marketing per attrarre e trattenere i dipendenti. Data la natura dell’Employee Value Proposition, quale strumento a disposizione dell’organizzazione per soddisfare le aspettative e i bisogni dei collaboratori, è utile capire cosa cercano i manager di “talento” quando decidono in quale azienda lavorare. Da un’indagine della McKinsey & Co., rivolta a middle e senior manager, sono emersi quali fattori siano considerati decisivi da un gran numero di dirigenti. In primis, i manager puntano su mansioni stimolanti (59%) e appassionanti (45%); desiderano sentirsi ispirati dalla mission, lanciare nuovi business e nuovi prodotti e
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svolgere lavori importanti che li mettono in grado di dare il massimo. La classe manageriale desidera lavorare per aziende eccellenti, gestite da dirigenti di grande valore, con culture che enfatizzano l’orientamento alla performance e un ambiente aperto e improntato alla fiducia. I dirigenti, ancora, vogliono che il proprio contributo venga premiato e che ci siano buone opportunità di guadagno; pretendono dall’azienda anche opportunità di carriera e un contributo concreto allo sviluppo delle loro competenze, perché oggi l’unica sicurezza lavorativa che possono avere sta proprio nella qualità delle competenze e delle esperienze che hanno da offrire sul mercato del lavoro. Infine, i manager puntano su mansioni che permettano loro di conciliare il proprio lavoro con gli impegni personali e familiari, in modo tale da creare un equilibrio accettabile tra vita lavorativa e vita privata22. Un’Employee Value Proposition vincente parte da un lavoro interessante e stimolante, a cui ci si può appassionare. L’Amgen, ad esempio, è un’azienda leader nel campo delle biotecnologie, il cui business è intrinsecamente entusiasmante per chi ci lavora; l’appeal della sua EVP consiste nel fatto che i suoi farmaci più importanti, Epogen e Neupogen, aiutano i dializzati e i malati di tumore a sopportare meglio gli effetti dei trattamenti a cui sono sottoposti. Per questo il tacito motto dell’azienda è davvero emozionante: “Noi sconfiggiamo la morte”; ciò che quindi attira le persone verso l’azienda è l’idea che l’Amgen aiuti le persone a vivere più a lungo23. Rendere eccitante il proprio business e appetibili le posizioni offerte, sfidare se stessi e i propri collaboratori sono, quindi, gli ingredienti salienti per un’EVP di successo; qualche benefit in più o assicurazioni sanitarie più generose non faranno certo la differenza tra un’EVP solida e un’EVP modesta. Ovviamente il denaro non basta per mettere in piedi una proposta di valore vincente, ma se non si rimane competitivi offrendo una retribuzione di mercato ai migliori “talenti” manageriali, si farà molta fatica a costruire una solida EVP; in effetti è molto raro che le persone accettino la posizione che comporta l’offerta economica più bassa. Le aziende che intendono costruire una efficiente proposta di valore modificheranno, dunque, anche il loro sistema retributivo, in modo da poter remunerare gli high performer24 molto meglio degli average performer25 e quindi in base al valore che 22
War for Talent 2000 Survey, Mckinsey & Company, 2000 www.amgen.com (sezione “Mission & Values” ) 24 Collaboratori che producono elevati risultati, ispirando e motivando i colleghi. 23
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creano; in tal modo è possibile personalizzare la retribuzione, collegandola direttamente al surplus che l’outsider giusto è in grado di produrre senza bisogno di innalzare tutti i livelli retributivi. L’Employee Value Proposition di un’azienda è, dunque, una miscela integrata e composita di cui fanno parte tutti i suoi elementi caratterizzanti (da un lavoro stimolante alla retribuzione); ogni azienda ne ha una propria che la distingue al pari di un’impronta digitale. Una proposta di valore vincente va tagliata su misura, in modo da allinearla alle preferenze e alle aspettative dei gruppi di professionisti che vuole attrarre; essa non può offrire tutto a tutti: chi apprezza quella di un’azienda difficilmente apprezzerà quella di un’altra. Quale sia la situazione che si deve affrontare (avviare una start-up o contrastare un turnover elevato) è fondamentale applicare all’EVP lo stesso rigore metodologico che sarebbe applicato alla proposta di valore per il cliente, valutandone obiettivamente l’efficacia attuale, analizzando il grado di accettazione delle offerte di assunzione, capendo i bisogni del proprio mercato di riferimento, effettuando indagini tra i dipendenti, gli ex dipendenti e quelli potenziali per riuscire a comprendere quali siano gli elementi che li hanno indotti a preferire questa azienda piuttosto che un’altra o che li hanno indotti a ricercare un’altra occupazione; infine, individuando il posizionamento competitivo dell’EVP aziendale, ovvero quali sono i suoi punti di forza e debolezza e quali i concorrenti più prossimi dei “talenti” che si intendono approvvigionare, e scegliendo, quindi, gli elementi da migliorare. Esattamente come i prodotti, anche l’Employee Value Proposition ha bisogno di un messaggio distintivo collegato al marchio, un brand di recruiting che metta in luce gli aspetti più irresistibili dell’EVP; saper comunicare il brand di selezione giusto aiuta ad attirare gli outsider giusti. PeopleSoft, per esempio, ha reclamizzato con successo il suo marchio di recruiting attraverso la campagna pubblicitaria in bianco e nero apparsa sulla rivista Fortune; ogni inserzione presentava un dipendente con un hobby insolito, una storia professionale inconsueta o un curriculum extra-lavorativo particolare (ex campione di nuoto olimpico o ex allevatore di pecore e galline). Il messaggio del marchio era il
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Ottimi lavoratori che soddisfano regolarmente le aspettative ma che hanno spazi di crescita limitati.
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seguente: “Se verrai da noi, potrai lavorare con alcune delle persone più interessanti e qualificate del pianeta”26. 3. Ricostruire la strategia di recruiting La corsa ai “talenti” degli ultimi anni ha sensibilizzato le aziende sull’esigenza di ricostruire le loro strategie di recruiting ed ha stimolato approcci nuovi e creativi in questo campo. Per svariati anni, la scala gerarchica è stata la metafora dominante della carriera aziendale il cui percorso era tradizionalmente lineare, concretizzandosi in una serie di spostamenti verticali all’interno della struttura organizzativa fino a raggiungere la posizione massima all’interno della propria area di competenza; un esempio di carriera lineare nella funzione commerciale poteva essere il seguente: agente di vendita, capo area, responsabile di un’area regionale, vice direttore di funzione ed infine direttore di funzione. Era questo il tacito contratto psicologico tra l’azienda e il lavoratore, ovvero l’insieme delle reciproche aspettative tra l’organizzazione e i suoi membri, e i benefici arrivavano dopo quindici o vent’anni di servizio; in tale sistema era molto difficile che si assumesse dall’esterno un manager esperto e lo si collocasse in una posizione superiore a quella di un veterano con vent’anni di anzianità aziendale27. Il paradigma tradizionale comincia a frantumarsi negli anni Novanta, quando le aziende cominciarono a perdere un gran numero di manager diretti nelle start-up della “new economy”, rendendo
materialmente impossibile la copertura dall’interno di tutte le
posizioni rimaste vacanti. Le aziende iniziarono allora ad intuire i vantaggi dell’immissione di “talenti” esterni ai livelli più elevati della struttura; ovviamente, persone nuove apportano atteggiamenti innovativi, nuove prospettive e nuove idee. Spesso, però, si tende a pensare che la pratica di assumere dall’esterno sia incompatibile con lo sviluppo delle risorse interne; in realtà, coprendo con risorse esterne una quota compresa tra il 10 e il 25% delle posizioni vuote si ridurrà solo leggermente il numero delle opportunità di crescita a disposizione degli interni, in cambio però di nuovi e preziosi modelli di riferimento ai collaboratori meno esperti28.
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Michaels E. , Handfield-Jones H. , Axelrod B. , “La Guerra dei talenti”, Etas, 2002 Tosi H. , Pilati M. , Mero N. , Rizzo J. , “Comportamento Organizzativo”, Egea, 2002 28 Michaels E. , Handfield-Jones H. , Axelrod B. , “La Guerra dei talenti”, Etas, 2002 27
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Assumere dall’esterno comporta inevitabilmente dei rischi: i tassi d’insuccesso sfiorano il 30%; poter contare però su un positivo 70% di chance è sempre meglio che non tentare affatto29. Inoltre la stessa percentuale d’insuccesso può essere ridimensionata puntando sull’integrazione culturale dei nuovi assunti, in modo tale che la loro leadership e i loro valori siano allineati con quelli dell’azienda; organizzando un processo di assimilazione ad hoc dei piani operativi e strategici, degli organigrammi e dei processi decisionali per ciascun outsider di alto livello; e infine dando ad ogni neo-assunto l’assistenza necessaria per costruire il proprio network interno e per comprendere le idiosincrasie culturali dell’organizzazione. Ad esempio, The Limited ha lanciato un ambizioso programma d’integrazione di due mesi, denominato “On Boarding”, per aiutare i dirigenti assunti dall’esterno a partire con il piede giusto. In questo periodo d’inserimento, gli outsider incontrano ognuno dei diversi top manager dell’azienda e ne ascoltano le idee sulla strategia, la performance e le sfide, ricevendo anche una ricca documentazione sull’azienda per poter acquisire anche una prospettiva storica; in seguito trascorrono parecchie giornate nei punti vendita, nel centro di distribuzione e nell’ufficio di progettazione. In tal modo, nel momento in cui diventano operativi, i nuovi dirigenti conoscono a sufficienza l’azienda, la loro business unit, la loro funzione e la comunità con cui dovranno interagire30. Per ricostruire la strategia di recruiting, le aziende iniziano ad essere consapevoli che i “talenti” non vanno più cercati nelle tre business school più qualificate o nelle tre aziende eccellenti; oggi cercano altrove, in altri settori, in altre scuole e in altri campi, assumendo, quindi, persone che non hanno il background tradizionale e individuando nuovi canali per raggiungere i candidati. Il mezzo più innovativo è ovviamente Internet; la caccia ai “talenti” informatici, scatenatasi alla fine degli anni Novanta, ha indotto molte aziende a sviluppare delle tecniche creative di recruiting che utilizzano il Web. La Cisco è un esempio eclatante di come poter strutturare il proprio sito per riuscire ad attrarre i potenziali collaboratori; offre, ad esempio, il Cisco Profiler, una spiritosa interfaccia che consente ai navigatori di creare un curriculum da inviare all’azienda; e il pulsante “Ohno-My-Boss-Is-Coming”, un pulsante di emergenza da azionare in caso d’improvvisa
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Business Weak, “ The CEO Trap”, 02/12/2000 Michaels E. , Handfield-Jones H. , Axelrod B. , “La Guerra dei talenti”, Etas, 2002
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irruzione del capo, che fa apparire le “Sette regole del bravo impiegato”31. Nel 1999 la Cisco ha ricevuto per via elettronica più dell’80% dei curriculum, ed ha effettuato due terzi delle assunzioni tramite il World Wide Web32. L’uso di Internet per la gestione del processo di recruiting può anche abbreviare i tempi, il che permette di coprire i posti vacanti più rapidamente e di conquistare i candidati prima che cedano ad altre “lusinghe”; esistono delle applicazioni anche in grado di automatizzare la ricezione elettronica dei CV, di effettuare i test di selezione all’ingresso e le verifiche del background. Grazie a tali strumenti, aziende come la Cisco hanno ridotto il ciclo di recruiting (l’intervallo di tempo che separa il contratto iniziale dalla firma del contratto) di oltre il 60% in tre anni. Internet sarà anche il canale più innovativo, ma il mezzo più efficace per scovare candidati rimane ancora il passaparola; tutti i componenti dell’azienda dovrebbero agire come talent scout. Attraverso la partecipazione ad associazioni, convegni, chatroom, i dirigenti possono riuscire a costituire un loro network di candidati e sfruttare quindi il patrimonio inutilizzato che sta nelle proprie agende Per conquistare i candidati più interessanti, le aziende devono, dunque, giocare le carte migliori di cui dispongono e quindi disporre in prima linea i propri high performer sul fronte del recruiting poiché “la mediocrità non riconosce nulla di superiore a sé stessa, ma il talento riconosce il genio”33 In definitiva, nel mercato dei “talenti” di oggi è l’azienda che si vende al candidato, che lo convince ad accettare l’offerta; tutte le fasi del processo devono tradursi in un abile corteggiamento persuasivo, gradevole e ben studiato con l’obiettivo di far sentire il candidato desiderato ed apprezzato. 4. Fare dello sviluppo una caratteristica intrinseca dell’organizzazione Per vincere la “Guerra dei Talenti” le aziende sviluppano le proprie Risorse Umane; ovviamente non tutti possono essere trasformati in “superstar”. Tutti, però, possono essere impiegati ai limiti delle loro capacità, utilizzando le esperienze sul campo,
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Sorkin R. A. , “Private Sector; for Job Hunters on the Job, a way to keep the Halo”, The New York Times, 23/02/09 32 Useem J. , “For Sale Oline: You”, Fortune, 05/07/1999 33 Sir Arthur Conan Doyle, medico inglese e scrittore; tra i suoi successi letterali si annoverano le storie di Sherlock Holmes
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assicurando un coaching e un feedback costante e facendo del mentoring34 una realtà che attraversi l’intera azienda. Le persone necessitano di nuove sfide e di nuove esperienze per crescere; hanno bisogno di compiti che non sanno ancora affrontare, cioè di incarichi professionalizzanti che mettono strategicamente a dura prova i collaboratori più dotati di “talento”, ma anche di compiti diversificati. Lombardo, McCall e Morrison35 hanno identificato le diverse tipologie di sfide che rappresentano delle significative esperienze di sviluppo, tra le quali: il passaggio da compiti di linea a compiti di staff, la gestione completa di progetti complessi e la ristrutturazione di business in crisi. I progetti speciali, che hanno obiettivi specifici e durano alcuni mesi, rappresentano, ad esempio, delle eccellenti opportunità di sviluppo; in genere richiedono un problem solving mirato, un approccio multidisciplinare integrato, la capacità di lavorare in team ed una leadership persuasiva piuttosto che autocratica. Un’azienda che vuole vincere questa guerra pensa alla mansione, non in termini rigidi ed esplicitamente definiti, ma in termini aperti e flessibili e cioè invitando i collaboratori ad identificare le opportunità per rilanciare un prodotto, a commercializzarlo in nuovo paese, o ad individuare le possibilità di avviare una nuova attività o per migliorare la relazione con un cliente. Il processo di assegnazione alle mansioni dovrebbe coinvolgere tutti i “talenti” dell’organizzazione e dovrebbe avere una funzione esplicita ai fini dello sviluppo; a tal fine il CEO metterà in discussione la pratica tradizionale, per cui si promuove il successore naturale secondo una linea di crescita gerarchica, utilizzando due approcci alternativi per l’assegnazione degli incarichi. Il primo è quello della “scacchiera”, in cui il CEO e il responsabile dello sviluppo professionale identificano, per ogni posizione vacante, una rosa di candidati che sottopongono al responsabile delle assunzioni, al quale competono le decisioni finali. La seconda strategia consiste nell’approccio del “libero mercato”, in cui i candidati interni e i responsabili di funzione si incontrano; i primi individuano le opportunità che
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Relazione tra un soggetto con più esperienza, denominato mentor, e uno con meno esperienza, al fine di consentire a quest'ultimo di essere guidato e protetto da un soggetto di maggiore importanza e rilievo. 35 Membri del “Centre for creative Leadership” della regione statunitense del North-Carolina e autori del libro “The Lessons of Experience: How successful executives develop on the job”, Lexington Books, 1988
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giudicano di loro interesse e offrono la propria disponibilità, mentre i secondi esaminano tutte le candidature e decidono sull’assunzione. La GE, ad esempio, usa l’approccio della scacchiera per le prime 500 posizioni manageriali; quando c’era una posizione vacante, Jack Welch36, insieme al responsabile delle risorse umane Bill Conaty e al responsabile dello sviluppo professionale Chuck Okosky, predisponeva una lista di possibili candidati sulla base delle informazioni e delle indicazioni sviluppate nella Sessione C, la review dei “talenti” che si tiene annualmente in GE. Tale rosa comprendeva i candidati “naturali” ma anche dei candidati inattesi che venivano inseriti proprio per cercare di modificare l’approccio tradizionale alla selezione interna; i tre tenevano anche conto delle più recenti valutazioni delle performance e delle preferenze personali di ciascun candidato. Alla fine, era il responsabile delle assunzioni a scegliere la persona da assegnare alla posizione vuota37. Oltre ad incarichi professionalizzanti, i collaboratori necessitano di sentirsi dire come stanno andando, in che cosa eccellono e in quali aree dovrebbero migliorare la loro performance; la consapevolezza di sé è infatti un fattore determinante per una crescita continua e le aziende che vogliono raggiungere tale obiettivo utilizzeranno feedback continui e coaching sui punti di forza e debolezza dei dipendenti. Il feedback comunica alle persone l’eccellenza e le aree da migliorare; consiste in un giudizio sincero ma non distruttivo sulla qualità della performance del collaboratore. Il coaching è il processo attraverso il quale si aiutano individui e gruppi di persone a realizzare obiettivi che da soli non potrebbero raggiungere in modo veloce ed efficace, sostenendo le loro scelte e offrendo loro gli strumenti per ricercare in sé stessi le risorse necessarie per attuare precisi e mirati piani d’azione per il raggiungimento del successo; obiettivo principale è far emergere le capacità dei collaboratori, non infondendo competenze e informazioni ma accendendo quelle che sono già presenti in loro.
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Jack Welch ha iniziato la propria carriera in General Electric Company nel 1960 e nel 1981 ne è divenuto l’ottavo presidente e CEO; durante il suo lungo mandato, la capitalizzazione di GE è aumentata di 400 milioni di dollari.Welch è attualmente presidente della Jack Welch, LLC, con cui opera in veste di consulente per i CEO di un gruppo ristretto di aziende della classifica Fortune 500, e come conferenziere internazionale.È autore del bestseller Jack: Straight from the Gut, arrivato al primo posto nella classifica del New York Times.
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Michaels E. , Handfield-Jones H. , Axelrod B. , “La Guerra dei talenti”, Etas, 2002
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Un manager che sa utilizzare a 360° il feedback e il coaching da indicazioni verbali sulla performance con una certa frequenza e fornisce feedback scritti un paio di volte l’anno. Feedback e coaching da soli non sono sufficienti a fare dello sviluppo una caratteristica intrinseca dell’organizzazione; i dirigenti punteranno anche sul mentoring, relazione che sussiste tra un soggetto con più esperienza, denominato mentor, e uno con meno esperienza, al fine di consentire a quest'ultimo di essere guidato e protetto da un soggetto di maggiore importanza e rilievo. E’ una pratica che alimenta l’autostima delle persona attraverso elogi, incoraggiamenti e fiducia nella capacità del collaboratore di fare grandi cose; a volte il mentore dà un feedback doloroso ma con profondo tatto, aiutando l’individuo a rientrare in gioco; alcune aziende affidano formalmente i giovani ad alto potenziale a dei colleghi senior, mentre altre si limitano ad incoraggiarli. Ad esempio, l’Arrow Electronics è riuscita ad istituzionalizzare l’idea che i manager debbano dare incoraggiamento, supporto e assistenza ai propri collaboratori, facendo del mentoring una realtà consolidata. L’azienda ha in atto diversi programmi per l’assegnazione formale dei mentori: il programma Worldwide Mentoring, destinato ai top manager, è uno dei più importanti; la chiave del suo successo sta nel processo di assegnazione centralizzato per cui è il senior management, e non il dirigente, che si preoccupa di trovare la massima affinità tra mentore e “allievo”. In Arrow ogni unità è libera di decidere se e quando iniziare un programma di mentoring ed ogni unità ha anche ampi margini di autonomia riguardo alle modalità e ai contenuti del programma. L’azienda ha potuto verificare direttamente che i suoi programmi di mentoring producono svariati benefici: in primo luogo, costituiscono un mezzo efficace con cui la Arrow può mantenere un filo diretto con i collaboratori chiave, attualmente sparsi in trentotto paesi; in secondo luogo, essi offrono ai collaboratori dei vari uffici periferici la possibilità di condividere i valori e la filosofia di leadership dell’azienda attraverso il contatto diretto con altri senior manager38. Ultimo elemento che gioca un ruolo importante nella crescita dei manager è il “training aziendale”; sono due le tipologie di formazione che contribuiscono a rendere lo sviluppo una caratteristica intrinseca dell’organizzazione:
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La formazione manageriale di base, che comprende la conoscenza delle discipline di management (particolarmente utile per i manager più giovani) ma anche il training sulle competenze trasversali, quali la comunicazione o le relazioni interpersonali; essa può essere acquisita in aula o attraverso l’apprendimento autonomo.
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Lo sviluppo della leadership, attraverso programmi di action learning che si sostanziano nella risoluzione di problemi concreti e rilevanti come, ad esempio, valutare l’opportunità per l’azienda di entrare in un nuovo paese.
Sebbene la formazione non coincida con l’apprendimento (e neppure lo garantisca), essa contribuisce comunque alla crescita del manager. E’ necessario sottolineare che, in definitiva, lo sviluppo delle competenze è qualcosa in più della somma di un coaching efficace, di un mentoring istituzionalizzato o di una formazione mirata; lo sviluppo non è sempre lineare, perché le difficoltà si associano inevitabilmente ai progressi. E’ un processo in continua espansione che non conosce fine39. 5. Differenziare e valorizzare i collaboratori La differenziazione dei collaboratori è attuata attraverso un preliminare processo di valutazione delle loro prestazioni e del loro potenziale, a cui segue una classificazione degli stessi in diverse classi, ognuna delle quali è caratterizzata da differenti riconoscimenti in termini di carriera, di retribuzione e di opportunità di sviluppo. Il caso della Royal Air Force40 può far comprendere meglio quali siano i vantaggi conseguenti ad una scelta di segmentazione/differenziazione delle proprie leve. La battaglia d’Inghilterra iniziò nell’estate del 1940, quando i piloti tedeschi attaccarono dal cielo nel tentativo di aprire la strada all’invasione della Gran Bretagna. L’Inghilterra venne colta di sorpresa: la Royal Air Force (RAF) non possedeva un numero sufficiente di aeroplani, ma soprattutto non aveva abbastanza piloti; per contrastare la supremazia aerea del nemico, la RAF decise di suddividere questi ultimi in 39
come scrisse un saggio anonimo : ”Se tutti i cieli fossero pergamene, se tutti gli uomini fossero scrivani e tutti gli alberi della foresta fossero penne, non basterebbero comunque a mettere per iscritto tutto quello che ho imparato dai miei maestri; eppure quello che ho appreso da loro non sono che poche gocce nell’oceano del sapere”. 40 Terraine J. , “A Time for Courage: The Royal Air Force in the European War, 1939-1945”, Macmillan, 1985
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tre categorie: A, B e C. Gli squadroni A erano costituiti dai piloti più bravi in assoluto, gli squadroni B erano meno esperti nel combattimento aereo, ma i comandanti della RAF li incoraggiavano e li addestravano continuamente; gli squadroni C, invece, venivano lasciati a terra il più possibile. Nonostante l’esigenza di avere a disposizione un numero maggiore di piloti, la RAF si rendeva conto che mandare in battaglia i piloti del gruppo C significava mandarli al massacro. Nel giro di pochi mesi, l’aviazione britannica aveva però sviluppato una forza di combattimento ben addestrata e molto motivata e, nel Novembre del 1940, i piloti avevano respinto l’attacco dell’aviazione tedesca41. Come la RAF riuscì a realizzare l’impossibile segmentando la sua forza di combattimento, così le aziende possono ottenere una performance migliore differenziando la propria forza lavoro attraverso un processo di classificazione della stessa in tre classi distinte: gli high performer, gli average performer e i low performer. I primi producono costantemente risultati elevati e ispirano e motivano gli altri; sono determinanti per la performance aziendale e contribuiscono infatti a creare valore per gli azionisti, direttamente o indirettamente, attraverso la capacità di motivare gli altri. Si tratta di persone che hanno bisogno di ricevere un feedback sincero e completo sui loro punti di forza e debolezza, un coaching costruttivo e stimolante, un mentoring adeguato e che, infine, necessitano di compiti sfidanti che mettano alla prova le loro abilità. Tuttavia, differenziare le opportunità di sviluppo rappresenta un punto di partenza; è necessario differenziare anche il sistema premiante e cioè mettere in diretta relazione stipendio e valore creato. Gli average performer sono dei lavoratori affidabili che soddisfano regolarmente le aspettative ma che hanno spazi di crescita limitati; non spiccano quanto gli high performer, ma senza di loro l’azienda rimarrebbe paralizzata. L’obiettivo è accrescerne le capacità, caricarli di energia e trattenerli con un investimento adeguato. I dirigenti dimostreranno di avere fiducia in loro mettendoli di fronte a sfide stimolanti e assegnando responsabilità sempre maggiori; tali azioni potrebbero riuscire a svilupparne la produttività e la soddisfazione e ciò aiuterà molti di loro a riqualificarsi come un high performer.
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come disse Winston Churcill “mai nella storia del genere umano tanti dovettero tanto a così pochi”
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Infine, il low performer è quasi sempre una persona che produce risultati appena accettabili e non crea quasi mai nulla di audace o d’innovativo; nei loro confronti lo scopo è migliorare la loro performance oppure collocarli in altre posizioni in cui possono avere successo o in extremis allontanarli dall’azienda. Per quanto sia oneroso eliminare i low performer, i costi occulti della mancata rimozione sono ancora più elevati; essi, infatti, sono dei pessimi capi: non contribuiscono allo sviluppo dei collaboratori, non sono di esempio, non sanno fare coaching e non accrescono né la produttività né il morale di chi li circonda. I low performer tendono inoltre ad attirare altri low performer; è la cosiddetta regola dei mediocri: i manager scadenti assumono dei collaboratori molto più scadenti perché si sentono minacciati da chiunque sia più bravo di loro. Gestire questa fascia di collaboratori è spiacevole e imbarazzante; molti di loro hanno dato in passato un contributo importante e dunque molti responsabili si sentono paralizzati nel mettere ai margini collaboratori che rappresentavano figure chiavi nei precedenti esercizi. Qual’è allora il miglior modo di agire nei loro confronti? In General Electric, ad esempio, ai low performer si dà tutto il tempo necessario affinché migliorino la loro performance dopo aver ricevuto un feedback esauriente ed un coaching adeguato; se non rispondono a dovere, i dirigenti predispongono un piano di transizione per favorirne l’uscita. L’azienda è convinta che il proprio business si muova troppo in fretta rispetto alla capacità di recupero di queste persone e non crede sia utile ricollocarli da qualche altra parte. Per Intel, invece, il low performer, che in passato era stato un high performer, va spostato lateralmente o assegnato a una posizione di livello inferiore in cui possa dare una performance quantomeno media42. Strettamente collegata alla differenziazione dei dipendenti è la valorizzazione delle prestazioni. Valorizzare significa far sentire i collaboratori apprezzati, riconosciuti e considerati per il loro contributo; la valorizzazione aiuta a migliorare la performance e la soddisfazione professionale delle singole persone. Il principio più radicato nella natura umana è il desiderio di sentirsi apprezzati; quando non lo si è, l’individuo si demoralizza, diventando più incline a lasciare l’azienda. Differenziare e valorizzare i collaboratori vuol dire, dunque, valutarli adeguatamente; uno è il processo da cui non si può prescindere: una rigorosa review dei “talenti”, la quale costituisce la spina dorsale di una proficua gestione delle Risorse Umane. Essa consente 42
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di valutare i collaboratori rispetto a standard di eccellenza nella leadership; rappresenta la base per l’allocazione delle opportunità, per gli interventi retributivi e consente ai dirigenti di scoprire i punti di forza e i punti di debolezza di ogni pool di “talenti” a disposizione delle diverse unità organizzative. Qualsiasi processo di review dei “talenti” potrebbe essere strutturato come segue: 1. La riunione viene aperta con una panoramica degli obiettivi di business e con una discussione strutturata sulle problematiche di gestione del “talento” che ostacolano la funzionalità del business stesso e il perseguimento degli obiettivi di performance aziendali; lo scopo della review è capire qual è il mix di “talenti” necessario per realizzare la strategia di business. 2. Sono quindi definiti i comportamenti che caratterizzano la performance elevata, quella media e infine quella bassa. 3. Per ogni collaboratore vengono discusse le performance e il potenziale, identificando, alla fine, i punti forti, i punti deboli e le esigenze di sviluppo; la valutazione è effettuata sulla base di uno standard ottimale che include le competenze e i valori che si richiedono ai manager della propria organizzazione. 4. I nomi delle persone esaminate sono collocati all’interno di uno schema che, utilizzando uno strumento di valutazione semplice e condiviso dalle diverse business unit, segmenta i collaboratori in high performer, average performer e low performer. 5. Dopo aver classificato i collaboratori sono decise le azioni specifiche da intraprendere verso ognuno di essi; l’obiettivo è fare in modo che dalla discussione derivino delle conseguenze effettive sulla carriera. 6. Per ogni business unit viene messo in atto un processo di valutazione della qualità complessiva dei “talenti” a disposizione di ognuna e sono quindi formalizzati dei piani d’azione specifici per rafforzarne il pool di “talenti”. 7. Infine ogni manager viene responsabilizzato della realizzazione concreta del piano d’azione La review dei “talenti” rappresenta, quindi, il punto di partenza per differenziare e valorizzare i collaboratori. Gli aspetti salienti di questo processo sono la qualità del dialogo, la chiarezza dei piani d’azione e la loro successiva realizzazione; sono questi
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momenti che, se ben curati, potrebbero apportare un contributo positivo alla performance aziendale. La scelta di differenziare e valorizzare i propri collaboratori fa dell’azienda l’ambiente meritocratico che i manager di “talento” ricercano.
Il caso Georgia-Pacifing Packaging La Georgia-Pacifing Packaging è un esempio emblematico di un’organizzazione altamente competitiva nella “Guerra dei Talenti”. L’azienda produce grandi volumi di scatole in cartone ondulato; nel 1997 ha ricavato da questi prodotti circa 1,4 miliardi di dollari. Le scatole sono prodotte in cinquanta unità produttive sparse per tutti gli USA. All’inizio del 1998, Steve Macdam divenne il nuovo Senior Vice President della divisione “Containerboard & Packaging” della Georgia-Pacific; nei primi mesi del suo mandato Macdam si mise al lavoro insieme al suo team, costituito da cinque regional manager, per il miglioramento di una serie di voci tra cui la produttività, la sicurezza e la qualità. Si capì ben presto che il miglioramento in tutte quelle aree dipendeva dalla bravura dei general manager (gm) delle unità produttive. Macdam esordì chiedendo ai cinque componenti del suo team di riunirsi per valutare i cinquanta gm con sincerità, attraverso accese discussioni che duravano ore, affinché ne classificassero, su una scala a cinque punti, il pensiero strategico, la leadership, l’etica di performance e i risultati finanziari. Macdam visitò tutti e cinquanta i responsabili di unità e li ascoltò con attenzione; il gruppo definì cinque principi per un’efficace gestione del “talento”: sincerità, differenziazione, promozione o allontanamento su basi ragionate, attenzione per le persone e le loro carriere, valorizzazione. In base a questa valutazione, il team decise di sostituire metà dei general manager perché non c’era la possibilità di ricollocarli all’interno dell’organizzazione. Trovare dei nuovi manager significava lanciare una campagna intensiva di recruiting, ma nel giro di sei mesi i nuovi general manager erano già stati assunti: sei venivano dall’interno e gli altri erano stati assunti dall’esterno sulla base di una dimostrabile
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esperienza nel settore; Macdam e il suo team collaborarono direttamente con ognuna delle cinquanta unità produttive per definire gli obiettivi di produttività, qualità, sicurezza e profitto. Ma nonostante l’immissione dei nuovi gm, non fu una cosa facile. Mentre procedeva nell’attuazione dei suoi piani, il gruppo dirigente della Georgia-Pacific cominciò a rendersi conto che sostituire i general manager non significava cambiare faccia al business da un giorno all’altro; prima di poter effettuare un effettivo cambiamento, bisognava affrontare la carenza di “talenti” che penalizzava le singole unità produttive. Il problema era che negli ultimi venticinque anni la maggior parte di quelle unità erano state gestite nello stesso modo dalle stesse persone, ed erano dunque caratterizzate da una forte resistenza al cambiamento; nello stabilimento di Chicago, per esempio, Steve Wells, il nuovo gm, scoprì che occorrevano delle misure estreme: la fabbrica non produceva un dollaro di profitto da più di vent’anni e, anzi, nel 1998 aveva perso 5,3 milioni di dollari. Sotto la guida del suo regional manager, Wells affrontò il problema del “talento” intervistando e valutando tutti i dipendenti chiave; scoprì di avere in generale un gruppo di ottimi lavoratori che mancavano semplicemente di direzione, incentivi e leadership. Una volta messo in piedi il suo team, il nuovo general manager cercò di aprire una linea di comunicazione con i suoi collaboratori fissando una riunione settimanale in cui tutti gli operai gli riferivano sull’andamento del loro reparto. Wells chiese a queste persone di mettere a punto una volta mese la mission e gli obiettivi della fabbrica, attraverso esercizi di team-building che li misero in condizione di dare voce ai problemi senza abbandonarsi a sterili critiche; a seguito di queste discussioni, si crearono delle task force che vennero responsabilizzate sulla soluzione dei problemi riscontrati. I risultati conseguiti da Wells furono gratificanti: nel giro di un anno i lavoratori dell’unità produttiva ricominciarono a formare un team; il bilancio annuale passò da una perdita di 0,4 milioni di dollari nel 1999 ad un profitto di 3,3 milioni di dollari nel 2000. Terry Cinotte, uno dei cinque regional manager, rimase profondamente colpito dai cambiamenti che i nuovi gm, come Wells, avevano saputo realizzare; era abituato a dedicare il 70% del suo tempo a guidare iniziative e a dirigere persone, ma con l’avvento dei nuovi general manager passò il 70% del suo tempo ad inserire manager di “talento” nelle posizioni più critiche delle sue unità produttive. Il “talento” era la chiave di tutto. Prima dell’avvento di Macdam (il nuovo Senior Vice President) i dirigenti non si erano accorti che una migliore qualità dei “talenti” avrebbe fatto una differenza notevole;
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nell’azienda infatti era totalmente assente un processo di review dei “talenti”: non c’era sincerità, non si promuoveva e i low performer non venivano allontanati. Alla conclusione del primo anno del suo mandato, Madcam aveva sostituito 96 dirigenti su 246; con la nuova struttura manageriale il Senior Vice President e il suo team avevano incrementato i profitti da 20 a 80 milioni di dollari in un solo anno, senza ritoccare i prezzi. Messosi alle spalle quel massiccio intervento sui “talenti”, Macdam rivolse l’attenzione al lungo termine; la Georgia-Pacific iniziò a costruire un programma formativo per i manager basato su quattro principi. Primo: collocare sempre la persona più qualificata nella posizione vacante e non solo colui che ha avuto una formazione specifica. Secondo: sono i collaboratori che devono richiedere la formazione spinti dal desiderio di migliorarsi. Terzo: la formazione deve essere tempestiva. Quarto: trovare il modo di misurare l’impatto della formazione. Mcdam disse ai suoi collaboratoti: “Se vuoi diventare un responsabile di unità produttiva, ci sono quattro competenze tecniche e tre competenze di leadership che devi assolutamente avere e noi ti informiamo a che punto sei in ciascuna di esse. Una volta che sai esattamente quali sono i tuoi punti di forza e debolezza, tocca a te. Io ti consiglio di cercare coaching e feedback e di iscriverti ad un programma di formazione.” Il risultato finale fu un aumento dei profitti, l’adozione di un sistema meritocratico, la crescita dell’entusiasmo e della motivazione delle persone e infine l’adozione di un programma di formazione. Un ottimo impatto per essere il primo anno43.
1.6 - Il Talent Relationship Management e l’Employee Referrals Program Una cultura orientata al recruiting può, quindi, facilitare la ricerca degli outsider giusti. Il Talent Relationship Management44 (TRM) è un particolare approccio di recruiting finalizzato a sviluppare un’efficace e stabile relazione con i propri candidati. 43 44
Michaels E. , Handfield-Jones H. , Axelrod B. , “La Guerra dei talenti”, Etas, 2002 Amendola E. , “Il TRM per gestire le relazioni con i propri candidati”, www.monster.it
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L’obiettivo principale di una strategia di TRM è quello di sviluppare un pool di candidati di “talento” da alimentare costantemente e dal quale attingere per ricoprire le posizioni vacanti ma anche e, soprattutto, per quelle che potrebbero liberarsi in futuro; in altre parole, più candidati qualificati un’azienda riesce a conoscere, più opportunità ha di promuovere se stessa e più facilmente riuscirà ad individuare l’outsider giusto da assumere all’interno di un gruppo di candidati potenziali pre-selezionato. Si tratta di un approccio al recruiting non reattivo o legato ad un bisogno emergente ma continuo e sistematico; il TRM consente, quindi, di costruire buone relazioni con i potenziali candidati attraverso le quali l’azienda ha l’opportunità di attivare processi di comunicazione/scambio e di “educazione” destinati a durare nel tempo. Un possibile processo di Talent Relationship Management può iniziare attraverso la registrazione e/o l’invio on line, da parte dei candidati, del proprio Curriculum Vitae; tali dati sono fatti confluire in un database e successivamente esaminati allo scopo di individuare i profili più interessanti. Tra questi solo alcuni verranno selezionati per le posizioni cosiddette “aperte”, mentre gli altri confluiscono nel “Talent Pool” il quale viene poi segmentato secondo particolari criteri definiti dall’azienda in base alle proprie esigenze future di recruitment. Solitamente quando si parla di TRM si pensa allo sviluppo dell’employment web site o all’utilizzo di database oppure a strumenti quali Blog e i Social Network; accanto a tali strumenti ne esistono altri che permettono di raggiungere i medesimi risultati e che, allo stesso tempo, non richiedono investimenti particolari. Si tratta, perlopiù, di semplici strategie con le quali è possibile costruire buone relazioni attraverso, ad esempio, meeting con scuole, Università, associazioni studentesche o con qualsiasi altro tipo di comunità in grado di raggruppare al suo interno persone che possono essere o possono diventare ottimi candidati target. Anche la sponsorizzazione di eventi, siano essi convegni o conferenze, costituiscono una valida opportunità per parlare dell’azienda e avere visibilità nei confronti di un pubblico target; a tali attività di sponsorship si aggiunge anche l’uso di software specifici quali quelli di “contact management” in grado di fornire interessanti benefici per le proprie attività di recruiting nella misura in cui permettono di tenere traccia dei profili dei candidati chiave ed avere tutte le informazioni utili su ciascuno di essi.
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Un efficace TRM non può, inoltre, prescindere dall’uso dei cosiddetti “Employee Referrals Programs”, ovvero dall’uso di programmi specifici di recruiting, accuratamente definiti e sviluppati, che consentono di attrarre ed inserire, all’interno dell’azienda, individui qualificati grazie al lavoro “incentivato” di alcuni dipendenti chiave dell’organizzazione stessa45. Da una recente ricerca condotta del MIT Sloan School of Management risulta che i principali vantaggi connessi allo sviluppo di un Employee Referral Program siano soprattutto collegati alla capacità di reclutare personale in grado di garantire una maggiore produttività sul lavoro; in altre parole i dipendenti assunti attraverso tali programmi tenderebbero ad avere una performance superiore rispetto a coloro che sono stati assunti con l’aiuto di altri strumenti di reclutamento. Tali collaboratori, inoltre, tenderebbero anche a rimanere più a lungo in azienda, il che consente di godere di un vantaggio rilevante legato ad un più basso turn over degli outsider giusti. Ulteriore vantaggio è quello di ottenere una più bassa percentuale di candidature non qualificate e ciò grazie al fatto che l’ Employee Referral Program tende a migliorare il processo di recruiting rendendolo più mirato sui candidati target. L’utilizzo di tali programmi consente, infine, la possibilità di ottenere un elevato ROI e cioè un ottimo risultato in termini di reclutamento di candidati qualificati a fronte del quale la spesa impiegata è assolutamente più bassa rispetto a quella che richiederebbe l’utilizzo di canali alternativi di recruiting46. Attraverso lo sviluppo dell’Employee Referral Program il processo di reclutamento risulta, quindi, molto più rapido ed efficace; i dipendenti, infatti, oltre ad essere più responsabilizzati nel trovare candidature qualificate, sono in grado anche di individuare persone più simili a loro in termini di capacità/skills e cultura, e, quindi, candidati più in linea con il profilo ricercato dall’organizzazione stessa.
45
Il primo esempio conosciuto di Employee Referral Program è rappresentato da un decreto firmato da Giulio Cesare, contenuto all’interno del British Museum di Londra, nel quale si prometteva 300 sesterzi ad ogni soldato che fosse stato in grado di segnalarne un altro che, se ritenuto capace, sarebbe entrato a far parte dei valorosi guerriglieri Romani. 46 Amendola E. ,”Corporate Recruitng”, Anthea Consulting s.r.l., 2008
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CAPITOLO 2
L’EMPLOYER BRANDING PER IL RECRUITING E LA RETENTION DELLE RISORSE UMANE
2.1 – Le basi dell’Employer Branding Il significato di “brand” risale al 1800, periodo in cui il bestiame veniva marchiato a fuoco per consentirne l’identificazione; con il tempo il suo significato originario si è ulteriormente ampliato, rafforzando ancora di più il suo ruolo identificativo. Il brand (marchio), secondo l’accezione di Kotler, è un nome, un termine, un segno, un simbolo, un disegno o una combinazione di questi, che identificano i beni o servizi di un’impresa (product brand) o l’impresa stessa (corporate brand) al fine di differenziarsi rispetto la concorrenza47. Oggi il
brand ha acquisito un significato ancora più
multidimensionale, che comprende non solo gli aspetti distintivi, quali il nome e l’immagine visiva (brand identity), ma anche il livello di notorietà e la fedeltà al marchio (brand awareness), la promessa del marchio (brand essence), le percezioni dei consumatori (brand image)48. Il brand, quindi, è uno strumento indispensabile per raggiungere gli obiettivi di comunicazione che l’impresa vuole realizzare sia a livello di prodotto (product brand), sia a livello di realtà istituzionale (corporate identity); se la creazione della brand identity è così importante per attirare e fidelizzare i clienti (brand loyalty) allora diventa altrettanto importante e possibile assumere lo stesso impegno per attrarre e trattenere Risorse Umane di “talento” attraverso azioni più mirate come l’Employer Branding. L’Employer Branding si può definire come una strategia di marketing finalizzata a creare un’immagine aziendale coerente con l’identità dell’impresa intesa come employer (luogo
47 48
Kotler P. , “Marketing management”, McGraw-Hill, 2005 “Il Marchio: cos’è, perché e come tutelarlo”, www.ismark.it
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di lavoro), in sintonia con il target di riferimento e ben distinta da quella dei competitors, attraverso la quale attrarre, fidelizzare e trattenere le persone di “talento”49. L’adozione di una strategia di Employer Branding sarà tanto possibile quanto maggiore sarà la relazione esistente tra le azioni di corporate branding e la gestione delle Risorse Umane, sia in termini di recruiting che di retention di “talenti”; per comprendere al meglio tali relazioni è utile mettere in relazione due parametri: •
Il ruolo del brand nelle strategie di business
•
Il valore delle Risorse Umane percepito nel processo di branding.
Dall’incrocio delle due variabili derivano 4 contesti50 in cui sono collocate le aziende: •
Nel 1º contesto il brand è visto come un semplice simbolo da associare ai prodotti e/o servizi realizzati dall’azienda; si tratta di casi di aziende molto piccole o startup, nelle quali l’impegno ed il coinvolgimento delle HR (Human Resources) nello sviluppo delle azioni di branding è decisamente ridotto.
•
Il 2º contesto rappresenta aziende che, pur avendo una propria corporate brand e/o logo istituzionale, preferiscono sviluppare e consolidare azioni di branding differenti per ciascuno dei prodotti (o servizi) o perché sono stati acquisiti sul mercato e godono già di una buona reputazione, oppure perché si vuole semplicemente distinguere il valore dei singoli brand di prodotto da quello della corporate brand. Si parla, in questi casi, di “house of brands”; ne sono un esempio aziende quali Unilever (con i suoi brands: Algida, Calvin Klein, ecc) e Procter&Gamble (con Dash, Pringles, Hugo Boss, ecc).
•
Il 3° contesto comprende aziende che hanno deciso di fare leva sulla propria corporate brand per sostenere importanti cambiamenti organizzativi; in questi casi le funzioni Human Resources hanno un ruolo molto più incisivo nel supportare tali processi attraverso, ad esempio, la definizione di programmi formativi e di sostegno in grado di facilitarne lo sviluppo.
•
Infine nel 4° contesto sono collocate aziende che considerano la corporate brand un punto focale della propria strategia aziendale; le direzioni HR assumono, dunque, un ruolo guida nelle attività di corporate branding, nei processi di fidelizzazione dei dipendenti, aumentando il commitment organizzativo (il grado
49
Amendola E. ,”Corporate Recruitng”, Anthea Consulting s.r.l., 2008 Martin G. , Hetrick S. , “Corporate Reputations, branding and people management: a strategic approach to HR”, Oxford, Butterworth-Heinemann
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35
con cui un individuo si identifica con un’organizzazione e si sente in sintonia con essa51) e sviluppando attività più mirate di Employer Branding (ad esempio Virgin, Sony, Google). L’azienda ottiene un efficiente posizionamento sul mercato target del lavoro se, nello sviluppo del proprio employer brand, fa leva soprattutto su quei fattori che al meglio qualificano la realtà aziendale e la distinguono dai competitors; attrarre i propri candidati target o fidelizzare i propri dipendenti di “talento” proponendo, ad esempio, efficaci programmi di formazione (learning&development) e/o un’ottima retribuzione può essere efficace ma non aiuta l’azienda ad ottenere un posizionamento distintivo rispetto alle altre realtà aziendali che possono, ugualmente, usare le medesime leve di attrazione. Un buon ambiente di lavoro (working environment) è molto spesso il risultato di una buona leadership (ledership style), di un saldo sistema interno di valori e di obiettivi chiari (vision, values & purpose); può anche essere la conseguenza di come l’azienda gestisce e sviluppa i suoi “talenti” (talent management e performance management) o della reputazione di cui gode nei confronti dei suoi stakeholders (reputation management)52.
2.2 – I driver dell’Employer Branding: i fattori intangibili e i fattori tangibili L’Employer Branding si basa su un insieme di driver che possono essere classificati in due categorie: •
Fattori intangibili
•
Fattori tangibili
I fattori intangibili I fattori intangibili tendono a giocare un ruolo decisamente più importante nel processo di definizione dell’employer identity (l’identità di una organizzazione in qualità di datore di lavoro) e nella costruzione dell’employer brand; tali fattori comprendono: •
La cultura d’impresa e il sistema di valori interno (vision, value & purpose) Considerando l’evoluzione degli atteggiamenti e delle aspettative del segmento più critico del mercato del lavoro, la cosiddetta Generazione Y (nati tra il 1978 ed il 1983), emerge quanto quest’ultima sia diventata molto più sensibile ai fattori
51 52
Tosi H. , Pilati M. , Mero N. , Rizzo J. , “Comportamento Organizzativo”, Egea, 2002 Amendola E. ,”Corporate Recruitng”, Anthea Consulting s.r.l., 2008
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intangibili rispetto alle generazioni passate; come naturale conseguenza di ciò, gli individui disposti a sacrificare il proprio benessere personale per lavori logoranti rappresentano un esiguo numero. Lo sviluppo personale e lavorativo, la possibilità di avere una prospettiva di lavoro non più orientata alla crescita in senso gerarchico o verticale ma, al contrario, in grado di garantire esperienze che arricchiscono, oltre il piano professionale, il punto di vista umano (buone relazioni interne, buon clima aziendale, alto livello di “bellessere del lavoro”53); la possibilità, quindi, di muoversi in contesti diversi sia all’interno dell’azienda (job rotation) che al di fuori della stessa (mobilità internazionale), la possibilità, altresì, di garantire un maggior bilanciamento tra vita privata e lavorativa e la prospettiva di condividere con l’azienda una più chiara missione sociale (social corporate responsability) sono diventate ormai le principali leve di attrazione dei cosiddetti Y-ers. L’emergere di tali nuovi bisogni potrebbe portare le aziende ad adattare le proprie strategie di Employer Branding a tali cambiamenti, non semplicemente attraverso un cambio del proprio “vestito” ma anche agendo, se necessario, attraverso un radicale mutamento culturale ed organizzativo. Un impegno importante, che segue tale direzione, è senza dubbio il recupero o la valorizzazione, da parte dell’azienda, della propria cultura e del proprio sistema di valori interno; tali fattori sono strettamente connessi con la corporate identity (il termine fa riferimento all’azienda come realtà istituzionale che, attraverso i propri valori e la propria cultura, assume un impegno nei confronti dei propri stakeholders cercando di conquistarne la fiducia) e, se sono sufficientemente forti, possono costituire una valida cornice di riferimento entro la quale l’azienda può definire la propria employer identity e sviluppare una più efficace strategia di Employer Branding. L’attrattività, dal punto di vista aziendale, è configurata come il risultato della congruenza tra l’individuo e l’organizzazione; in altre parole, nel processo di attracting e di selezione dei candidati come gli individui possono essere attratti da organizzazioni con valori simili ai propri, così le organizzazioni tendono a reclutare candidati che probabilmente condividono i propri valori. L’Employer Branding fornisce all’azienda gli strumenti necessari a 53
Termine coniato da Enzo Spaltro (Psicologo del lavoro)
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raggiungere proprio questo risultato e cioè trasferire al proprio mercato una chiara e distinta employer identity al fine di attrarre l’attenzione solo di quelle persone che per valori, atteggiamenti, obiettivi, cultura e comportamenti risultano essere in sintonia con quelli aziendali. •
Engagement e ambiente di lavoro (work enviroment) Le persone di “talento”, siano essi lavoratori o candidati, desiderano avere una retribuzione soddisfacente ma anche sentirsi stimolati dal lavoro che svolgono, far carriera e crescere all’interno dell’azienda. Tali affermazioni sono ampiamente dimostrate da una serie di studi condotti sull’argomento come, ad esempio, l’indagine
italiana
“Job
Satisfaction
2007”54,
condotta
da
Od&M
in
collaborazione con Job24 (inserto sul lavoro del Sole 24 Ore), la quale mostra che un numero elevato di persone dichiara di voler cambiar lavoro e di ricercare nuove opportunità per motivi riconducibili al clima aziendale ed all’ambiente sociale e motivazionale in cui si lavora; le ragioni per cui si decide di cambiare lavoro sono, quindi, sempre più legate alla dimensione “soft” dell’azienda ossia legate ai fattori intangibili. Uno studio condotto da Hewitt Associates nel 2003, denominato “Best Employers, Best Results”55, dimostra che sono ancora poche le aziende che hanno realmente capito questa nuova dimensione; scopo ultimo dell’analisi era quello di aiutare le aziende a migliorare i risultati di business e la motivazione dei dipendenti attraverso l’allineamento fra i processi di gestione del business e i processi di gestione delle persone. In particolare, l’indagine identificava le cosiddette “Best Employers” come quelle aziende che, più delle altre, considerano gli individui un asset strategico o hanno una spiccata cultura orientata al recruiting ed al “talento”; uno dei dati più interessanti che scaturisce da questo studio è proprio legato al clima aziendale e, soprattutto, alla misura di quello che viene comunemente chiamato engagement, ovvero la motivazione dei dipendenti ad avere un maggior impegno rispetto a quello richiesto dallo svolgimento del proprio compito con il conseguente risultato di generare migliori risultati in 54
L’indagine ha coinvolto circa 2000 intervistati tra dirigenti (11%), quadri (27%), impiegati (55%) e operai (7%); è stata riportata ne Il Sole 24 Ore del 16-5-2007 alla pagina 27 55 L’indagine ha coinvolto 96 aziende, oltre 15000 dipendenti, circa 160 CEO e membri del Board, oltre 70 rappresentanze sindacali; www.hewittassociates.com
38
termini di performance e produttività. Dall’indagine scaturisce che sono poche le aziende che misurano l’employee engagement; la maggior parte di esse sono concentrate a realizzare indagini di clima aziendale o di opinione tra i dipendenti. Misurare l’engagement dei dipendenti significa, invece, utilizzare strumenti che permettono di misurare che cosa realmente motiva le persone a dare di più; una volta scoperto questo è possibile agire puntualmente su quei fattori che producono maggiore motivazione e impegno e ciò aiuta l’azienda a qualificare l’ambiente interno ed i fattori che la contraddistinguono come luogo di lavoro56. Un buon engagement interno è una condizione essenziale per lo sviluppo di una efficace employee value proposition ed, allo stesso tempo, è una prova per i propri dipendenti della “bontà” della propria employer brand promise (l’espressione, in chiave comunicazionale, della employee value proposition ovvero la sua espressione sotto forma di slogan o claim). Un esempio in questo senso viene da Microsoft, il cui successo è soprattutto dovuto alla consapevolezza dell’importanza delle Risorse Umane che l’azienda ha saputo esprimere attraverso una particolare employee value proposition formata da quattro pilastri: 1. i dipendenti sentono di far parte di un’azienda che ha cambiato il mondo; 2. l’azienda è leader nelle tecnologie e dà ai collaboratori la possibilità di utilizzarle quotidianamente; 3. vi è una costante ricerca di “talenti” che stimola confronto e apprendimento; 4. l’azienda dà la possibilità ai dipendenti di costruire una carriera premiante e le persone percepiscono, dunque, che possono sviluppare il loro potenziale57. •
Corporate Reputation e l’Employer Attractiveness La corporate reputation rappresenta un’efficiente combinazione tra la corporate image e la corporate identity La corporate image non è altro che il risultato di come l’aziende è vista o percepita dagli stakehoders; la corporate identity si riferisce, invece, al modo con cui l’azienda si autodefinisce ed è strettamente collegata alla vision, ovvero alla
56
www.hewittassociates.com Atti del convegno nazionale sul clima organizzativo delle aziende dal titolo “La Employer Corporate Reputation” promosso da Great Plact Work Institute Italia (marzo 2006). Estratto dell’intervento di Luca Valeri (HR Director Microsoft)
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proiezione di uno scenario futuro che rispecchia gli ideali, i valori e le aspirazioni di chi fissa gli obiettivi (goal-setter), ed è altresì collegata alla propria cultura, fondata sui valori, sui comportamenti e sugli atteggiamenti esistenti all’interno dell’organizzazione. Mary Jo Hatch58 e Majken Schultz59 hanno sviluppato un modello, “The stategic stars”, in grado di esprimere la reputazione sulla base dei fattori descritti precedentemente: la corporate image, la corporate vision e la corporate culture. Essi sostengono che, per costruire una buona reputazione, l’azienda deve assicurare un perfetto allineamento dei tre elementi; eventuali problemi di gap possono, quindi, mettere in serio rischio la propria reputazione. Il primo di questi è il cosiddetto Vision-Culture Gap: si verifica quando il senior management tende a condurre l’azienda verso una direzione che i dipendenti non comprendono o non supportano; la situazione si manifesta solitamente a seguito di cambiamenti interni in base ai quali la nuova vision tende ad essere troppo distante dalla cultura interna esistente, oppure nel caso in cui la vision non rispetti i valori etici tradizionali pre-esistenti. Il secondo gap è definito Image-Culture Gap: in questo caso l’azienda non mette in pratica i propri valori, alimentando confusione tra i consumatori riguardo la propria immagine; ciò è evidente quando la percezione che i dipendenti hanno dell’azienda è abbastanza diversa da quella dei consumatori. L’ultimo gap è il cosiddetto Image-Vision Gap, il quale tende a manifestarsi quando l’immagine esterna dell’azienda è difforme da quella alla quale aspira il senior management. L’analisi di tali situazioni è utile perché consente all’azienda di individuare le aree critiche nelle quali intervenire al fine di controllare meglio la propria reputazione60. La corporate reputation è strettamente legata e incide sull’employer attractiveness, cioè sulla capacità dell’impresa di essere attrattiva nei confronti dei 58
Mary Jo Hatch è docente di “Commerce” alla “McIntire School of Commerce” dell’Università della Virginia; ha pubblicato numerosi articoli di organizzazione aziendale in giornali accademici come l’Academy of Management Review, Human Relations e The Journal of Management Inquiry.
59
Majken Schultz è docente di Organizzazione Aziendale alla Copenhagen Business School. e CEO della VCI Holding ApS.
60
Hatch M. J. , Schultz M. , “Are the Strategic Stars Aligned for Your Corporate Brand?” , Harvard Business Review”, 2001
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propri dipendenti attuali e potenziali; tale influenza sarà tanto più forte quanto maggiore sarà l’impegno dell’azienda in attività socialmente apprezzabili. I collaboratori, infatti, si sentono più gratificati e motivati se appartengono ad un’organizzazione con un’elevata legittimazione sociale. E’ importante sottolineare quanto queste relazioni stiano diventando sempre più importanti nella gestione di una strategia di Employer Branding, la cui prospettiva futura di sviluppo è strettamente legata alla capacità dell’impresa di gestire ed integrare al meglio i suoi diversi ruoli: da realizzatore di profitto mediante la produzione di beni e servizi, a realtà socialmente responsabile grazie ad un comportamento sempre più etico, ed infine, a “luogo di lavoro” nel quale i dipendenti attuali e potenziali possono trovare il piacere di lavorare. I fattori tangibili La tendenza prevalente delle aziende, tuttavia, è di sottovalutare i fattori intangibili e di privilegiarne altri che sono molto più pratici e di immediata comprensione e che rappresentano l’insieme degli strumenti che da sempre l’azienda ha utilizzato nelle proprie politiche di recruiting e retention : i fattori tangibili. La retribuzione, i benefits, le opportunità di crescita, la possibilità di lavorare in un contesto internazionale e la formazione sono alcune delle leve con cui le aziende tentano di vincere la competizione per la conquista dei “talenti”; elementi necessari ma non sufficienti a garantire all’azienda un vantaggio competitivo duraturo. Una strategia di Employer Branding aiuta l’azienda a creare un posizionamento sul proprio mercato target, tramite il quale l’organizzazione potrà essere percepita come realtà distinta dalle altre e potrà, altresì, godere di un vantaggio stabile nel tempo. Le leve citate precedentemente sono molto utili se utilizzate per raggiungere finalità di natura tattica più che strategica e solitamente sono legate ad azioni di breve periodo come, ad esempio, la necessità di adattare l’azienda ai cambiamenti di aspettative e/o atteggiamenti del proprio target di mercato; non sono, invece, sufficienti se l’organizzazione vuole realmente distinguere la propria realtà employer da quella dei competitors. Per far ciò sarebbe necessario che l’azienda utilizzi congiuntamente sia i fattori intangibili che quelli tangibili: i primi costituiscono il suo “codice genetico” con il quale l’organizzazione si distingue rispetto alle altre realtà; i secondi, grazie alla possibilità di modificarne la
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natura e l’intensità di utilizzo in base alle necessità di breve periodo, hanno un ruolo complementare e di rafforzamento della strategia di Employer Branding. Da un’indagine61 condotta nel 2008 su un campione di 1200 neolaureati, provenienti dalle diverse aree geografiche del nostro Paese, emergono quali siano i fattori tangibili che l’azienda solitamente utilizza e soprattutto quali sono quelli che maggiormente vengono preferiti dal mercato del lavoro. L’indagine evidenzia che più dell’80% del campione è disposto ad accettare uno stage quale forma contrattuale di ingresso purchè sia retribuito; ciò dimostrerebbe che i neolaureati sono consapevoli che lo stage è sì un’occasione di lavoro ma comprendono anche che lo stesso, spesso, viene utilizzato dalle aziende non per reali necessità di impiego ma per disporre di manodopera qualificata per tempi limitati e per progetti di breve durata. Manca, quindi, una visione di lungo periodo da parte delle organizzazioni che potrebbero intensificare l’uso dello stage, coinvolgendo principalmente gli studenti con i quali è possibile muoversi in una prospettiva
di
eventuale assunzione dopo la laurea; ed è per questo che appare contraddittorio il fatto che alcune aziende lamentino difficoltà nell’attrarre i neolaureati di “talento” quando sono poi tendenzialmente poco propense a trasformare gli stage in contratti stabili. Dall’indagine scaturisce inoltre la piena disponibilità del campione (85%) a cambiare domicilio per motivi di lavoro, non solo all’interno dell’Italia ma anche verso i Paesi esteri (53%); questo dato dimostra quanto sia cambiato l’atteggiamento dei neolaureati nei confronti della mobilità nazionale ed internazionale e ciò è molto importante soprattutto per le multinazionali che, per loro natura e dimensione e avendo filiali anche all’estero, possono più facilmente attuare piani di mobilità internazionale. Discorso a parte va fatto per un altro driver tangibile dell’Employer Branding: la retribuzione. La percezione comune è che siano i manager più giovani, al di sotto dei 40 anni, a mettere ai primi posti la leva retributiva per decidere se intraprendere o no un nuovo percorso professionale; tale scelta è facilitata anche dal fatto che molti giovani manager sono liberi da vincoli affettivi e familiari. Tale dato è confermato anche dall’indagine sui neolaureati: il 73% del campione ha un’aspettativa di guadagno subito dopo la laurea compresa tra gli 800€ ed i 1200€ netti al mese, il 51% aspira ad una retribuzione più alta nei tre anni successivi alla laurea; ma non solo, il fattore retribuzione è considerato una delle leve di maggiore attrattività per più del 32% dei neolaureati 61
Indagine condotta nel 2008 da Anthea Consulting ed Atmen per Randstad
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intervistati. L’atteggiamento nei confronti della leva retributiva può, invece, cambiare per il manager più maturo, il quale ha già raggiunto uno status adeguato al proprio livello ed è, dunque, più interessato a mantenerlo intatto che ad aumentarlo, prestando maggiore attenzione al fattore sicurezza62.
2.3 - La segmentazione del mercato del lavoro e l’individuazione del target di riferimento L’implementazione di una buona strategia di Employer Branding è strettamente legata a una preliminare individuazione del target di riferimento, resa possibile dal processo di segmentazione, ed è altresì legata ad una scelta oculata degli strumenti di comunicazione del proprio employer brand; segmentare il mercato del lavoro equivale a scomporlo in segmenti omogenei di candidati potenziali di cui l’azienda approfondirà i comportamenti e le aspettative per orientare al meglio la propria politica di recruiting. Prima di introdurre le diverse forme possibili di segmentazione è opportuno soffermarsi sulle trasformazioni che hanno inciso il mercato del lavoro, le quali, innescando un capovolgimento dei rapporti di forza tra imprese e candidati, hanno fatto della ricerca dei “talenti” un bisogno particolarmente sentito dalle organizzazioni e, anche, difficile da soddisfare. Le competenze si presentano oggi meno standardizzate e quindi più difficilmente reperibili (skill shortage), la mobilità dei lavoratori è sensibilmente aumentata (dai 20 anni di permanenza in azienda negli anni ’60 ai 5 anni di oggi); a tali fattori se n’è aggiunto un altro di natura demografica: il workforce shortage. Tale fenomeno consiste nella difficoltà di trovare persone qualificate appartenenti alla cosiddetta “Generazione X” (nati tra il 1966 e il 1977) per effetto del forte calo delle nascite registrato nella metà degli anni sessanta, particolarmente rilevante in Italia; nel 2024 si stima che l’età media della popolazione italiana raggiungerà i 51 anni rispetto ai 41 in UK, 47 anni in Germania e 38 anni negli USA. L’entità di questo fenomeno demografico in Italia viene confermato dai dati forniti dall’ISTAT sull’andamento futuro della popolazione residente, richiamati nel Grafico 1
62
Amendola E. ,”Corporate Recruitng”, Anthea Consulting s.r.l., 2008
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Grafico 1 – Previsione della popolazione residente
Fonte: ISTAT, 2008
La natura dei cambiamenti che hanno interessato il mercato del lavoro ha modificato radicalmente, negli ultimi anni, l’atteggiamento che la maggior parte delle aziende aveva verso le Risorse Umane, sollecitando l’acquisizione di nuovi approcci nelle loro politiche di recruiting e di retention dei “talenti”. Una volta introdotti i mutamenti che hanno inciso sul mercato del lavoro, è possibile adesso concentrarsi sulle diverse forme di segmentazione, le quali rappresentano la base per l’individuazione del target di riferimento dell’azienda. Una prima forma di macro segmentazione, basata sull’età anagrafica dei soggetti, consente di individuare tre distinte generazioni: i Baby boomers (nati negli anni ’50), la Generazione X (nati tra il 1966 e il 1977) ed, infine, la Generazione Y (nati tra il 1978 ed il 1983); tali macro categorie provengono da contesti socio-economici sostanzialmente differenti (dal miracolo economico agli anni della crisi, per finire con il periodo dei grandi cambiamenti tecnologici). I Baby boomers sono oggi rappresentati dagli over 50, individui di grande esperienza che hanno dimostrato un’elevata fedeltà all’azienda e che stanno entrando nel periodo del pensionamento lasciando il posto di lavoro ai trentenni o quarantenni; questi ultimi rappresentano la nuova generazione di manager con una più elevata propensione al cambiamento. Infine, sono presenti le nuove leve, i giovanissimi, coloro che stanno entrando adesso nel mondo del lavoro; gli y-ers sono alimentati da bisogni e aspettative più complessi da soddisfare, sono perfetti conoscitori delle nuove tecnologie, sono pronti
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a mostrare le proprie attitudini e capacità attraverso le nuove forme di comunicazione: da Internet ai nuovi strumenti di interazione sociale, quali i blog. Oltre a questa macro-segmentazione di tipo “generazionale” ne esiste un’altra, di stampo americano, che identifica segmenti di job seekers (potenziali candidati) in base al livello di propensione alla ricerca del lavoro; tale segmentazione permette di considerare un target di mercato trascurato dalle tradizionali strategie di recruiting aziendale (solitamente indirizzate ad attrarre i candidati attivi, cioè coloro che stanno cercando opportunità di lavoro), ovvero quello dei cosiddetti candidati passivi, tra i quali spesso si nascondono “talenti” con atteggiamenti pigri nella ricerca del lavoro. Per comprendere al meglio tale specifico segmento di mercato è possibile fare riferimento ad una classificazione proposta da Lou Adler63, mostrata nella Figura 1, nella quale sono identificate tre aree in cui includere i candidati passivi in funzione del loro grado di “passività”: Figura 1 - Classificazione dei candidati passivi
Fonte : Lou Adler
•
I primi rientrano nella zona definita “outer ring” e cioè al confine della passività; si tratta di persone già occupate ma non totalmente soddisfatte del proprio lavoro, perché mal pagate o non apprezzate, e che potrebbero essere interessate ad un nuovo lavoro che soddisfi meglio i loro bisogni. Tale gruppo di candidati passivi
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Lou Adler è il presidente di “The Adler Group”, una società di consulenza che aiuta le aziende a trovare ed attirare i talenti; è autore di diversi best-seller Amazon come “Hire with your head” (John Wiley & Sons, 3rd Edition, 2007).
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rappresenta il primo verso il quale l’azienda può indirizzare i propri piani di recruiting.
•
La seconda area è denominata “middle circle”; in essa si ritrovano candidati “semi-passivi”, ovvero individui pienamente occupati ma soddisfatti del loro lavoro, del team nel quale sono inseriti e delle prospettive di crescita professionale, per cui non considerano l’idea di cambiare lavoro a meno che l’alternativa sia significativamente migliore di quella attuale. Dato il livello elevato di passività, un’azienda interessata ad attrarre tale gruppo può sviluppare efficaci piani di attracting e recruiting, supportati da una campagna aggressiva di networking con la quale l’organizzazione riesce a raccogliere informazioni dettagliate sul profilo di tali persone.
•
Infine nella parte “core” della classificazione di Adler si trovano i veri “candidati passivi” e cioè coloro che sono pienamente soddisfatti del lavoro che svolgono e per nessuna ragione hanno intenzione di cambiarlo. Diversi sono i perché che spingono l’azienda a includerli nella propria strategia di recruiting; innanzitutto perché possono essere molto utili per lo sviluppo del proprio social network (le loro conoscenze, infatti, possono costituire un importante link per conoscere ed, eventualmente, assumere altri candidati passivi) e poi perché le circostanze per cui oggi essi non sono disposti a cambiare lavoro possono radicalmente cambiare.
Adler sostiene che un’azienda con un buon employer brand è più capace delle altre ad attrarre i candidati passivi; godere quindi di un immagine forte come luogo di lavoro è un presupposto indispensabile affinché l’azienda possa svolgere con maggiore efficacia la propria attività di recruiting nei confronti di un target riluttante a cambiare lavoro a meno che l’offerta proposta dall’organizzazione sia particolarmente attraente per cui valga veramente la pena di cambiare64.
64
Adler L., “How to Hire Passive Candidates”, www.ere.net
46
2.4 - Lo sviluppo della strategia di Employer Branding: il modello EBGF Il modello concettuale a cui si fa riferimento per individuare gli aspetti più importanti di una strategia di Employer Branding è il cosiddetto EBGF65, Employer Brand Global Framework, riportato in Figura 2; esso è composto da 4 schemi concettuali. Il primo schema a destra si riferisce all’Employer Brand Experience (EB Experience) e mostra l’influenza dei fattori tangibili ed intangibili sulla qualità dell’esperienza vissuta dal dipendente con l’azienda. I fattori tangibili e intangibili aiutano poi a definire l’employer identity e, soprattutto, a definire l’employee value proposition grazie alla quale l’azienda costruisce la propria employer brand promise e delinea il proprio employer brand positioning, ovvero l’insieme delle iniziative volte a definire le caratteristiche dell’organizzazione come employer (luogo di lavoro) e a sviluppare la strategia di marketing più adatta per attribuire all’azienda una determinata collocazione distintiva nella mente degli attuali e potenziali employees. Quest’ultimo passaggio è contenuto all’interno del secondo schema, al centro della Figura 2, denominato Employer Brand Positioning (EB Positioning). Il terzo schema compreso nel modello EBGF è l’Employer Brand Action (EB Action); esso individua la sequenza delle quattro specifiche attività che possono essere svolte per realizzare la strategia di Employer Branding: Assessment, Prospective e Monitoring (azioni di natura strategica) e Development (azioni di natura operativa legate alle attività di comunicazione dell’employer brand). Infine, lo schema Employer Brand Benefits (EB Benefits) mostra il risultato finale di una strategia di Employer Branding che, se condotta con efficacia, è in grado non solo di migliorare la capacità di attrarre candidati di “talento” ma anche di avere una serie di ulteriori benefici, quali minori costi sui processi di recruiting (cost per hire) e retention, un maggior livello di engagement dei propri dipendenti ed una maggiore produttività della forza lavoro. Tali risultati andranno poi ad incidere, infine, sugli obiettivi di business e sulla crescita del valore aziendale.
65
Amendola E. ,”Corporate Recruitng”, Anthea Consulting s.r.l., 2008
47
Figura 2 - Employer Brand Global Framework
Fonte: Anthea Consulting, 2007
In particolare, maggiore attenzione è riposta sul terzo schema dell’Employer Brand Global Framework denominato Employer Brand Action; quest’ultimo rappresenta, appunto, il punto focale per la realizzazione della strategia di Employer Branding poiché specifica le quattro attività che ne rappresentano il preludio: 1
Assessment.
2
Prospective
3
Monitoring
4
Development
1 Le analisi preliminari dell’Employer Branding: Assessment Una efficiente strategia di Employer Branding (EB) prevede un’azione di lungo periodo caratterizzata da un ampio orizzonte temporale di riferimento, all’interno del quale l’azienda è impegnata a svolgere una serie di azioni di studio e di analisi approfondite che
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mirano a fornire una valutazione chiara ed esaustiva della percezione del brand aziendale, in generale, e dell’employer brand, in particolare. L’azione strategica di EB inizia, quindi, con la fase di Assessment: essa comprende una serie di attività di analisi preliminari dell’employer brand che servono ad identificare qual’è l’attuale posizionamento e/o reputazione dell’azienda sul mercato del lavoro. In questa prima fase l’organizzazione individua le sue caratteristiche principali con particolare riferimento alla sua vision, alla sua mission, ai suoi obiettivi futuri di business, nonché al modo con cui intende raggiungerli; l’azienda cercherà anche di analizzare e comprendere bene la sua cultura ed il suo prevalente sistema di valori e ciò è di enorme rilevanza per un’attività di Employer Branding, perché può costituire un buon punto di partenza per lo sviluppo di una valida employer identity. Le analisi preliminari sono solitamente supportate da ulteriori indagini in grado di fornire informazioni più specifiche alle esigenze di sviluppo della strategia; ad esempio, conoscere come gli attuali dipendenti percepiscono la propria azienda è un tipo di informazione utile soprattutto se proviene da quei soggetti che, per il ruolo coperto, sono maggiormente in grado di promuovere o criticare la cultura aziendale. Si tratta, solitamente, di indagini quali-quantitative, rivolte all’interno dell’azienda, che permettono di: •
valutare la coerenza tra l’immagine aziendale percepita dal neo assunto in fase di recruiting e l’immagine percepita dopo la sua assunzione;
•
comprendere se la promessa fatta in fase di recruiting è stata realmente mantenuta;
•
capire quali sono i bisogni/desideri che il neo assunto vorrebbe vedere realizzati all’interno del proprio ambiente di lavoro al fine di ridurre l’eventuale rischio di turn-over;
•
valutare la disponibilità dei dipendenti a condividere i valori aziendali;
•
valutare il livello di orgoglio e di appartenenza dei collaboratori, il livello di soddisfazione per il proprio lavoro e la fiducia nelle prospettive di crescita professionale;
•
valutare la disponibilità dei dipendenti a promuovere l’azienda all’esterno e la loro intenzione di rimanere nel tempo all’interno dell’organizzazione.
49
Le informazioni ottenute dalle analisi interne vengono poi confrontate con quelle ottenute da analisi quantitative rivolte al target esterno ovvero a quei potenziali candidati verso i quali l’azienda rivolge particolare attenzione; si tratta cioè di valutare quali siano, secondo gli intervistati, le principali caratteristiche che tendono meglio a qualificare l’azienda/employer. Tali caratteristiche contribuiscono, poi, a definire i fattori tangibili e intangibili che costituiranno la employee value proposition aziendale. Le analisi permettono, anche, di individuare quali sono le principali aziende concorrenti e quali sono i canali maggiormente utilizzati dagli intervistati per raccogliere informazioni sulle offerte di lavoro e sul profilo employer dell’azienda; tali informazioni, infine, forniscono un quadro sintetico ed esaustivo sull’attuale employer brand positioning ed aiutano a comprendere meglio se l’azienda possiede o meno una buona brand personality, presupposto essenziale per un’efficace strategia di Employer Branding. 1
Lo sviluppo dell’employer brand: Prospective
Il secondo passo previsto dallo schema di azione (EB Action) dell’EBGF consiste nella costruzione del proprio employer brand, partendo proprio dai fattori individuati nella fase precedente e che, si ritiene, possano qualificare di più l’azienda, conferendole personalità e rendendola, quindi, differente dalle altre realtà (employer brand positioning). In tale fase, denominata Prospective, l’organizzazione ha necessità di comprendere a fondo il mercato del lavoro ed il segmento al quale ci si rivolge in funzione degli obiettivi prefissati; l’azienda cercherà anche di valutare le precedenti scelte di comunicazione sia a livello corporate, sia quelle già effettuate nell’ambito delle attività di recruiting, con riferimento particolare agli annunci pubblicati sui quotidiani e al tipo di informazioni che l’azienda trasferisce attraverso la career section del proprio employment web site. Ciò serve a definire e delineare in modo ottimale la campagna di comunicazione del brand, il cui obiettivo è valorizzare l’immagine della società come luogo di lavoro66. La fase di Prospective rappresenta, quindi, la fase più creativa dell’intero processo di sviluppo dell’employer brand, detto anche employment advertising, nella quale l’azienda definisce
la
propria
employer
brand
promise
ovvero
trasforma,
in
chiave
comunicazionale, la propria employee value proposition. In termini più operativi si procede alla definizione di una linea grafica virtuale e visuale, il più coerente possibile con l’employer identity, da utilizzare nel processo di creazione 66
Amendola E. ,”Corporate Recruitng”, Anthea Consulting s.r.l., 2008
50
del materiale di comunicazione; tale step è, solitamente, accompagnato da un’attenta analisi dei contenuti e dalla definizione di uno slogan (claim) attraente. In particolare, il piano di sviluppo del materiale di comunicazione potrà comprendere la semplice brochure di presentazione dell’azienda, sia sotto l’aspetto employer che sotto l’aspetto corporate, ma anche altri strumenti tradizionali quali poster, postacrds, newsletter, newspaper advertising e gadget; potrà comprendere anche strumenti più interattivi come, ad esempio, lo stand, usato principalmente durante la partecipazione alle Job Fair che sono oggi destinate a diventare luoghi di scambio sempre più virtuali, garantendo, quindi, una maggiore flessibilità di utilizzo ed una migliore efficacia comunicazionale. Una volta definita la linea di comunicazione da sviluppare essa andrà concordata con chi si occupa della comunicazione sia interna che esterna del gruppo; si tratta di un passaggio importante perché, spesso, si traduce nel cercare di integrare l’attività di Employer Branding (EB) con le attività di sviluppo della comunicazione a livello corporate. Tale necessità di integrazione potrebbe portare l’azienda a dover assimilare l’EB ad un’attività collaterale a quella corporate, con il rischio di bloccarne il processo e compromettendo l’efficacia della strategia. Ciò dipenderà in gran parte dal potere contrattuale delle singole funzioni ed, in particolare, dal potere della funzione HR (Human Resources) e da quello detenuto dalla funzione Marketing e Comunicazione. Alcune criticità che possono manifestarsi in questa fase estremamente delicata sono le seguenti: •
La direzione Marketing e/o Comunicazione ha più potere della direzione HR. In tal caso la negoziazione tra le due funzioni è diseguale; la funzione HR ha maggiori difficoltà nel portare avanti la propria idea di employer brand. La funzione Marketing, quindi, detiene le redini del “gioco” e tenderà, probabilmente, a privilegiare un approccio consumer piuttosto che employer nello sviluppo della strategia comunicazionale.
•
La direzione Human Resources ha maggiore potere contrattuale della direzione Marketing; ciò contribuisce a gestire la negoziazione in modo più efficace e consente di delineare un processo di sviluppo della strategia più autonomo e mirato.
51
2
La comunicazione dell’employer brand: Development
L’attività di comunicazione dell’employer brand, denominata Development, consiste nel pensare a come comunicare la propria immagine sia ai dipendenti attuali che a quelli potenziali; è importante sottolineare come la comunicazione verso il primo gruppo ha la stessa importanza di quella rivolta al secondo gruppo: retention e recruitment sono, infatti, facce della stessa medaglia. Un’azienda che intende attrarre e assumere giovani “talenti” cerca di creare una condizione di coerenza tra i valori base della coalizione dominante, le manifestazioni della cultura organizzativa, le modalità di implementazione (che rappresentano i tre fattori correlati per il formarsi di una cultura organizzativa stratificata secondo un approccio multidimesionale e multilivello)67 ed il messaggio che la stessa organizzazione rivolge ai dipendenti potenziali, in modo tale che l’immagine comunicata possa esprimere la cultura aziendale. L’azienda, quindi, svilupperà un’efficace comunicazione interna, focalizzandosi sugli aspetti organizzativi e culturali e facendo in modo che i dipendenti possano sentire l’organizzazione come una realtà propria (senso di appartenenza) nella quale vogliono continuare a lavorare, congiuntamente ad una comunicazione esterna, necessaria per raggiungere il proprio target di riferimento. Esempi di strumenti utilizzabili nella comunicazione interna sono: il wellcome book, utile nella fase di inserimento dei candidati; le newsletter, le brochure. Tali strumenti sono, spesso, accompagnati da una serie di driver gestionali in grado di rafforzare l’immagine nei confronti dei dipendenti; sviluppare, ad esempio, delle politiche di riconoscimento del valore dei singoli lavoratori può essere un ottimo modo per rinforzare il brand con i dipendenti. Lo sviluppo di programmi di erogazione di benefit può, altresì, rappresentare un efficace metodo per attirare l’attenzione intorno all’ambiente di lavoro; ad esempio, offrire sconti per entrare nei fitness club o fornire più giorni di vacanze sono tutte politiche che possono rinforzare l’immagine dell’azienda. Per quanto concerne gli aspetti della comunicazione esterna, l’organizzazione, per raggiungere il proprio target, valuterà attentamente sia il livello di intensità con cui vuole comunicare il proprio employer brand, sia il bisogno di copertura geografica con particolare riguardo agli strumenti da utilizzare; l’output di tali azioni consisterà in una
67
Tosi H. , Pilati M. , Mero N. , Rizzo J. , “Comportamento Organizzativo”, Egea, 2002
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vera e propria strategia di contatto che permetterà all’azienda di raggiungere con facilità il target di riferimento. Un modello concettuale utile a questo scopo è l’Employer Brand Contact Approach (EBCA); esso mette in evidenza la stretta connessione che esiste tra la segmentazione del mercato del lavoro e gli strumenti di comunicazione e recruiting utilizzati dall’azienda, come mostrato nella Figura 3. Figura 3 - Employer Brand Contact Approach
Fonte: Anthea Consulting, 2007
Nella parte sinistra del grafico viene presentato uno schema di segmentazione che nasce dalla correlazione tra due parametri: la “propensione a cercare lavoro” e il “livello di esperienza”; tale relazione consente di individuare due aree principali relative ai candidati attivi e a quelli passivi (parte superiore ed inferiore del grafico) ai quali vengono associati alcuni segmenti particolari del mercato del lavoro: dagli students (candidati passivi) ai recent graduates (candidati attivi), ai cosiddetti young professionals (con almeno 3 anni di esperienza lavorativa) e senior manager (con più di 3 anni di esperienza) che possono essere considerati tanto attivi (insoddisfatti e in cerca di un nuovo lavoro) quanto passivi (soddisfatti del proprio lavoro, non in cerca di altre opportunità).
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In relazione a ciascuno di tali segmenti e, quindi, in funzione del livello di esperienza e della propensione a cercare lavoro vengono, poi, individuati i “recruiting methods”, ovvero quegli strumenti di comunicazione e di recruiting che consentono di raggiungere il target in modo ottimale. E’ interessante constatare che quanto più passivo è il candidato tanto più attivo è lo strumento utilizzato dall’azienda per comunicare l’employer brand e, quindi, il mezzo di attracting del candidato stesso; ad esempio, la partecipazione a Job Fair è sicuramente una buona occasione per rafforzare e comunicare il proprio employer brand, ma la sua efficacia sarà maggiore se tale evento è utilizzato per raggiungere principalmente i recent graduates. Così come l’utilizzo di social network
può essere efficace per attrarre
candidati passivi, siano essi young professionals che senior manager, allo stesso modo lo sviluppo di programmi di class guest speaking (interventi di manager aziendali nei corsi universitari) possono costituire valide opportunità per coinvolgere soprattutto gli studenti, soggetti che sono ancora impegnati a proseguire gli studi e, quindi, oggi poco motivati a cercare lavoro ma che saranno pronti a farlo una volta concluso il percorso scolastico. Anche l’organizzazione di party, cocktail o convention e/o la sponsorizzazione di eventi possono
essere
considerati
ottimi
brand
communication
tools
(strumenti
di
comunicazione del marchio) in grado di attirare l’attenzione del proprio target di riferimento. 3
Le analisi di controllo dell’employer brand: Monitoring
La fase finale dello schema di azione dell’EBGF è quella del monitoraggio, ovvero del controllo dell’efficacia di quanto sviluppato nelle fasi precedenti: dal piano di sviluppo e costruzione dell’employer brand al processo di comunicazione. Un primo feedback può essere ottenuto dal numero dei Curriculum Vitae ricevuti in linea con il target di riferimento; quanto più alta è la percentuale di CV “utili” sul totale dei CV ricevuti, tanto più efficace risulta essere stata l’attività svolta in precedenza. Tuttavia è necessario integrare queste prime e semplici informazioni con indicatori di efficacia più analitici che richiedono l’adozione di strumenti di analisi più complessi; a tal fine l’azienda si avvarrà di alcune indagini (ad esempio l’EBPS68) svolte periodicamente
68
Strumento di indagine quantitativa il cui fine è analizzare il posizionamento dell’employer brand di alcune delle principali aziende su tre principali segmenti di mercato: recent graduates, youg professionals e senior managers.
54
e che costituiranno il principale strumento di monitoraggio dell’Employer Branding (EB). Tali indagini permettono di raggiungere i seguenti obiettivi: •
studiare le valutazioni e le aspettative di alcuni segmenti critici del mercato del lavoro al fine di migliorare le proprie strategie di EB;
•
monitorare l’evoluzione delle percezioni dei segmenti target sulle attuali offerte di lavoro e sul brand aziendale;
•
conoscere il livello di notorietà del corporate brand ed il posizionamento dell’employer brand sui segmenti di mercato individuati;
•
conoscere chi sono i competitors diretti rispetto ai segmenti ed il grado di competitività interno;
•
valutare l’efficacia delle azioni di Employer Branding grazie all’utilizzo di strumenti di valutazione in grado di fornire informazioni sull’evoluzione del posizionamento dell’employer brand sui segmenti di mercato identificati.
Queste informazioni permettono all’azienda di conoscere la propria posizione come best employer of choice, cioè come organizzazione preferita come luogo di lavoro, e conoscere, anche, la propria posizione come strong company, ovvero come azienda capace di integrare in maniera coerente le diverse forme di comunicazione sia a livello corporate che a livello employer. 2.5 Employer Branding, Corporate Branding e Brand Awareness: il BCI index© Nello sviluppo di una strategia di Employer Branding (EB) è importante tenere in considerazione alcuni aspetti essenziali riconducibili alla notorietà del brand (brand awareness) ed al grado di apprezzamento di cui gode l’azienda da un punto di vista istituzionale (corporate brand); a ciò si aggiunge l’identificazione del target che può essere unico o, meglio, coincidente, oppure differente. Comprendere, infatti, se il target delle proprie politiche di EB coincida con quello delle attività di comunicazione corporate e/o di prodotto ha delle forti implicazioni sia sulla notorietà del brand, sia sul modo in cui le due forme di comunicazione (employer e corporate branding) possono interagire reciprocamente. Se è vero che l’Employer Branding gioca un ruolo importante nell’attrarre e mantenere le persone di “talento”, allo stesso tempo può generare un effetto positivo in grado di supportare efficacemente le politiche di corporate branding rivolte al cliente; questo è
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vero, ad esempio, per quelle aziende che si rivolgono ad un mercato del consumo dove spesso il potenziale e/o attuale cliente corrisponde al potenziale e/o attuale employee. Aziende come Vodafone, Tim e Fiat ne sono un valido esempio; è molto probabile, infatti, che l’acquirente di un servizio di telefonia mobile, offerto da Vodafone o Tim, sia anche un potenziale candidato a lavorare presso tali aziende e che, allo stesso modo, l’acquirente di un’auto Fiat possa essere anche interessato a lavorare presso l’azienda medesima. Esistono, comunque, situazioni in cui la sinergia tra le due forme di comunicazione è, invece, molto più lieve e meno interrelata; è il caso di aziende come Abb, Bosch, Accenture, il cui mercato del consumo è costituito, prevalentemente, da aziende ed è ben distinto dal mercato target del lavoro. Questa maggiore differenziazione dei target permette all’azienda di definire la propria strategia di Employer Branding muovendosi in un terreno, per così dire, “vergine”, ovvero non particolarmente intaccato dalle attività di comunicazione corporate e/o di prodotto. Per comprendere meglio tali aspetti è possibile fare riferimento ad un indicatore grafico semplice ed efficace denominato BCI index©. (Brand Communication Interactive Index)69; l’indice consente di capire in che modo le due forme di comunicazione (corporate e employer branding) interagiscono tra di loro e, soprattutto, quali sono gli effetti in termini di posizionamento del brand sul mercato target e rispetto alle aziende concorrenti. Il BCI index è anche in grado di esprimere sinteticamente il grado di interazione tra la notorietà (brand awareness) e l’employer brand; l’indice è, quindi, il risultato di tre principali analisi: •
La corporate brand analysis, con la quale si ottengono informazioni sul grado di apprezzamento
dell’immagine
istituzionale
dell’azienda;
essa
si
fonda
essenzialmente sulla domanda: “quale azienda, tra quelle del settore, ha l’immagine più accattivante?”. •
L’employer brand analysis, tramite la quale si ottengono informazioni sul grado di apprezzamento dell’azienda come employer of choice, ovvero come datore di lavoro ideale in cui andare a lavorare; essa scaturisce dalla domanda “in quale azienda del settore vorresti andare a lavorare?”.
69
Il BCI Index è uno indicatore depositato presso la Siae a nome di Eugenio Amendola, pertanto ogni qualsivoglia utilizzo deve necessariamente essere autorizzato
56
•
La brand awareness analysis, che permette di ottenere informazioni sul grado di notorietà del brand, ovvero su quanto è realmente conosciuto.
Il risultato dell’incrocio di queste tre analisi viene espresso attraverso due indicatori grafici come, ad esempio, quelli riportati di seguito70.
Grafico 1 - BCI Index© 1 (Brand Awareness VS Employer Brand)
Fonte: indagine EOC Survey 2007
70
I due grafici scaturiscono da una indagine condotta nel 2008 da Anthea Consulting e Atmen su 1200 neolaureati.
57
Grafico 2 - BCI Index© 2 (Corporate Brand VS Employer Brand)
Fonte: indagine EOC Survey 2007
Il grafico 1 (BCI Index© 1) mostra la relazione tra il brand awareness e l’employer brand; i valori evidenziati sull’asse delle ordinate del grafico si riferiscono al numero dei laureati che conoscono il brand aziendale (notorietà del brand), mentre i valori evidenziati sull’asse delle ascisse si riferiscono al numero dei laureati che hanno interesse ad andare a lavorare nelle aziende di riferimento; per comprendere il suo significato interpretativo è possibile fare riferimento ai due principali casi estremi, riconducibili ai quadranti A (il primo in alto a sinistra) e C (in basso a destra).
58
L’azienda sul quadrante A (caso Ras e Blockbuster) ha un livello di notorietà più elevato delle altre ma il campione di laureati non ne apprezza sufficientemente l’immagine come employer e ciò rappresenta un risultato negativo; l’organizzazione dovrebbe, quindi, ridefinire la propria strategia di Employer Branding o svilupparne una nuova nel caso in cui non sia mai esistita. L’azienda X posizionata sul quadrante C71, pur essendo meno conosciuta dal campione totale dei neolaureati rispetto alle altre aziende con le quali è stato effettuato il confronto, tende, da quei pochi soggetti che la conoscono, ad essere comunque apprezzata come employer. Tale dato dimostrerebbe che esiste comunque una buona posizione (latente) dell’employer brand, vantaggio che l’azienda potrebbe, eventualmente, estendere ad un maggior numero di laureati se si impegnasse a sviluppare un piano di comunicazione finalizzato ad acquistare una maggiore notorietà. Il grafico 2 (BCI Index 2) mostra, invece, la relazione tra il corporate brand e l’employer brand; i valori evidenziati sull’asse delle ordinate si riferiscono al numero dei laureati che hanno espresso il proprio apprezzamento nei confronti dell’immagine istituzionale, mentre i valori evidenziati sull’asse delle ascisse del grafico si riferiscono al numero dei laureati che hanno manifestato interesse ad andare a lavorare nelle aziende di riferimento. Il quadrante A (caso Blockbuster) si riferisce alle cosiddette “best corporate”, ovvero ad aziende con un basso livello di appeal come employer ed un alto livello di gradimento per la propria immagine istituzionale: la politica di Corporate Branding risulta molto incisiva mentre meno efficace risulta quella di Employer Branding (EB). Il quadrante B (caso Unicredito e Danone) identifica, invece, la migliore posizione e raggruppa le cosiddette “strong company”, cioè aziende con un alto livello di gradimento della propria immagine istituzionale ed un alto livello di appeal come employer: le strategie di Corporate Branding ed Employer Branding tendono ad essere molto incisive, integrate e in grado di produrre un effetto di rafforzamento reciproco. Nel quadrante C rientrano le cosiddette “best employer” (caso Adecco), ovvero aziende con un alto livello di appeal come employer ed un basso livello di gradimento della propria immagine corporate: la strategia di EB è efficace, mentre la politica di Corporate Branding è poco invasiva.
71
Lo studio al quale è riferito il grafico non ha prodotto nessun caso di azienda collocata in questo quadrante
59
Il quadrante D, infine, mostra le cosiddette “weak company”, cioè aziende con un basso livello di appeal come employer ed un altrettanto basso livello di gradimento della propria immagine istituzionale: le strategie di Corporate Branding e/o Employer Branding, se esistenti, si sono rilevate poco efficaci. Il grafico BCI Index© 2 mostra un corposo numero di aziende collocate in questo quadrante come la Banca Sella, la Kpgm, la Vedior e così via; la posizione più delicata e svantaggiata rispetto alle altre del settore di riferimento può costituire, quindi, un chiaro allarme ed uno stimolo ad impegnarsi di più nello sviluppo di azioni di comunicazione capaci di provocare spostamenti del proprio brand verso posizioni più competitive rispetto ai concorrenti diretti del settore.
2.6 - Le nuove opportunità di sviluppo dell’Employer Branding Un’azienda può sviluppare e consolidare la propria strategia di Employer Branding (EB) anche attraverso le nuove tecnologie e il Web, rivolgendosi ad un pubblico diverso dai fruitori dei media classici e disponendo di canali di comunicazione innovativi e dalle potenzialità ancora inesplorate; ciò equivale a comprendere quali sono le peculiarità dei canali, calibrare messaggi e linguaggi, adattare ad arte lo stile comunicativo. Diverse sono, dunque, le possibilità di sviluppo dell’EB offerte dal Web, con riferimento in particolare all’uso dell’ e-recruiting, dell’employment web site, dei social media, dei bolg e dei social network.
L’e-recruiting Per quanto riguarda specificamente la ricerca di personale via Internet, gli strumenti a disposizione sono molteplici. Un primo strumento di Employer Branding on line è rappresentato dalla possibilità di pubblicare sui siti di e-recruiting degli annunci di lavoro; diversamente da quanto accade con i mezzi tradizionali, Internet presenta una serie di tratti distintivi dall’elevato potenziale comunicativo. In primo luogo, la redazione della stessa offerta avviene con criteri molto diversi dagli annunci cartacei: non esistono limiti spaziali o cromatici, esiste la possibilità di inserire degli elementi multimediali, le modalità di candidatura sono immediate e intuitive. Questo significa che grazie alla pubblicazione on line dell’offerta un’azienda ha molto più spazio e modo di raccontarsi e di entrare nel dettaglio della
60
posizione vacante, con la possibilità, quindi, di implementare una strategia di EB fin dal primissimo passaggio del processo di selezione (l’annuncio, appunto); inoltre, la “categorizzazione” dell’offerta consente al candidato di individuare immediatamente l’annuncio più vicino al lavoro desiderato, permettendo al datore di ricevere candidature più in linea, “targettizzando”, quindi,
fin da subito la propria comunicazione. La
pubblicazione on line di un annuncio su un sito di recruiting consente poi di dare visibilità alla propria offerta nei cosiddetti aggregatori (siti che raccolgono inserzioni da più fonti) e soprattutto in motori di ricerca quali Google e Yahoo, raggiungendo una platea vastissima di internauti. Un secondo strumento di Employer Branding, reso possibile dal recruiting on line, è legato alla possibilità di pubblicare, sempre on line, il proprio profilo aziendale, collegandolo alle offerte di lavoro di volta in volta rese note; si tratta forse del più completo mezzo di EB su Internet perché da modo alle imprese di costruire un dialogo attivo con chi cerca lavoro. All’interno di un profilo aziendale, infatti, trova spazio una pluralità di contenuti che rimandano al sistema di valori interno dell’azienda, alla sua mission, alla sua struttura organizzativa, alle sue politiche di sviluppo, alle sue opportunità di crescita e di formazione, alle sue politiche in termini di Risorse Umane. Quanto più dettagliato e fruibile sarà il profilo aziendale, tanto più elevate saranno le possibilità di attrarre candidati in linea con il proprio target di riferimento. Un ulteriore strumento di Employer Branding on line è la sezione “Lavora con noi”, costruita all’interno del proprio sito aziendale, dedicata alle opportunità professionali; tale mezzo potrà essere utilizzato efficacemente a due condizioni: che le ricerche di personale siano frequenti nel corso dell’anno e che ci sia un adeguato corredo informativo. In altre parole, avere un’area riservata alle offerte perennemente vuota o non offrire al visitatore le informazioni che si aspetta di trovare non può che risultare controproducente dal punto di vista della comunicazione ai lavoratori, siano essi già inseriti nell’organizzazione, siano essi potenziali collaboratori. Un ultimo possibile strumento è il cosiddetto “career site” aziendale, ovvero un sito esclusivamente dedicato ai percorsi di carriera effettuabili in una data azienda. Siti simili sono solitamente sviluppati da grandi imprese che operano a livello internazionale e che per il loro elevato turnover si appoggiano alle società di recruiting on line per gestire la piattaforma tecnologica.
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In definitiva, saper approfittare delle caratteristiche intrinseche del e-recruiting equivale a mettere le basi per una strategia all’avanguardia di attrazione dei candidati, migliorando al contempo la propria immagine di employer of choice su un pubblico di massa. L’employment web site Lo sviluppo dell’employment web site gioca un ruolo importante e decisivo nel rendere efficace una strategia di Employer Branding. Internet è ormai diventato uno strumento che consente di avere, con maggiore rapidità, un’enorme visibilità verso l’esterno. Un’azienda che, disponendo di un proprio sito, crea una sezione72 interamente dedicata alle opportunità di lavoro, può aspirare ad aumentare la propria attrattività nei confronti dei potenziali candidati in cerca di lavoro. Tuttavia, non basta avere una sezione informativa che spieghi sinteticamente chi è l’azienda e quali profili stia cercando per attrarre i candidati di “talento”; occorre, altresì, una vera e propria strategia di sviluppo che tenga conto di alcuni consigli ben precisi che consentano di rendere il proprio employment web site un luogo amichevole con il quale il candidato possa efficacemente interagire. Secondo Silvia Zanella73 le best practice da seguire, per rendere efficace il sito web aziendale, sono le seguenti: 1. Il link di accesso alla pagina “careers” deve essere facilmente individuabile dal candidato e quindi posizionato nella home page e, in particolare, in alto a sinistra (solitamente è proprio questo il punto dove l’occhio del visitatore va inizialmente). Un esempio di web site che rispetta questa prima best practice è quello di Deloitte nel quale il link “careers” è in home page in posizione dominante74. 2. Le pagine web della sezione “careers” devono essere facilmente comprensibili; ciò dipenderà dal fatto che il testo, i links e i titoli delle pagine abbiano lo stesso stile. Il rispetto di tali caratteristiche consente di ottenere una struttura visibilmente coordinata e coerente che permetterà al candidato di leggere e comprendere facilmente le informazioni contenute sul sito.
72
Le denominazioni più usate dalle aziende per identificare tale sezione sono: “careers”, “job opportunities” oppure, in versione italiana, “Lavora con noi”. 73 Marketing Director in Monster Italia. 74 www.deloitte.com
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3. Nelle pagine web dedicate al lavoro deve essere chiaro ed evidente il rispetto da parte dell’azienda delle norme sulla privacy e della sicurezza dei dati personali. A tal fine può essere utile inserire il link di accesso alla legge sulla privacy proprio sulla pagina di candidatura, come nel caso del web site di Enterprise Rent a Car75; in tal modo sarà difficile, per il candidato, dimenticarsi di leggerne il testo. 4. Uso dei link “email a friend” in ogni pagina del proprio employment web site; tale link è frequentemente utilizzato nelle pagine dei siti istituzionali per incentivare l’utente a segnalare l’opportunità di lavoro agli amici che corrispondono esattamente al profilo ricercato. Un esempio eccellente è visibile sul sito di Johnson&Johnson, nel quale il link “email a friend” è stato inserito in ogni job posting76. 5. Il candidato deve poter accedere agevolmente alle pagine in cui sono pubblicate le offerte di lavoro (job posting). La facilità di acceso ai job posting dipende dall’assenza di una procedura di registrazione al sito aziendale (che potrebbe essere percepita dal candidato fortemente invasiva e fastidiosa da provocare l’immediato abbandono del sito web), dal numero dei link che il soggetto dovrà cliccare dall’home page prima di poter vedere le offerte pubblicate dall’azienda (la maggior parte dei candidati qualificati tiene molto in considerazione il tempo impiegato per la loro attività di ricerca), dal modo in cui i job posting vengono presentati al candidato (la maggior parte di essi vengono scritti con un linguaggio arido e distaccato, capace di esprimere solo i bisogni dell’azienda ma incapace di parlare direttamente ai bisogni del candidato). 6. Un efficace employment web site, per attrarre i candidati migliori, contiene necessariamente informazioni sulla cultura e sui principali valori aziendali; informazioni del tipo la descrizione dell’ambiente di lavoro, lo stile manageriale, l’insieme dei benefits, le opportunità di formazione e crescita aiutano certamente il candidato a delineare meglio il profilo dell’azienda come employer. Tali indicazioni sono solitamente inserite in una specifica sezione del sito denominata “Life at azienda x”. 75 76
www.erac.com www.jnj.com
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Un valido esempio è la sezione “Life at Microsoft” dell’employment web site della Microsoft; visitandola si comprende come l’azienda tenti di avvicinare il più possibile il candidato alla propria cultura avvalendosi di una serie particolare di tecniche efficaci. Innanzitutto ogni tipo di informazione fornita e/o discussione aperta è diretta al candidato; poi, attraverso una specifica area denominata “Meet Our People”, vengono mostrate circa 50 foto di dipendenti provenienti dalle diverse funzioni aziendali: il candidato ha la possibilità di cliccare sul nome di ciascun dipendente e leggere la storia della sua esperienza professionale in Microsoft77. Questo raccontarsi (story telling) da parte del dipendente, è utile perché consente al candidato di avere un primo confronto con chi sta vivendo l’esperienza lavorativa da dentro e permette di conoscere facilmente alcuni degli aspetti della cultura dell’azienda; il candidato, quindi, costruirà nella propria mente una prima immagine di quello che potrebbe essere il suo futuro ambiente di lavoro e ciò permette di iniziare a vivere una prima forma di employer brand experience, anche se solo virtuale. Social media, blog e social network Tra gli strumenti di Talent Relationship Management, discussi alla fine del primo capitolo, ne sono presenti alcuni che si dimostrano estremamente efficaci soprattutto per attirare i candidati passivi e che, inoltre, non richiedono ingenti risorse finanziarie; si tratta dei blog e dei social network. Sono strumenti di comunicazione nati allo scopo di condividere, con il maggior numero di persone possibili, esperienze, scambio di informazioni, discussioni su argomenti specifici o che semplicemente permettono di stringere nuove amicizie. I Blog, ad esempio, consentono di attrarre potenziali candidati con l’invito a prendere parte ad una discussione in corso su argomenti di grande interesse; una sorta di rete in cui l’attenzione del candidato potenziale, mosso semplicemente dalla curiosità o dal desiderio di esprimere la propria opinione su un tema specifico, viene catturata innescando un meccanismo in grado di alimentare il dibattito virtuale allargando, sempre più, la dimensione della comunità coinvolta. Un caso di successo che va in questa direzione è quello di Microsoft USA; l’azienda aveva difficoltà ad attrarre candidati di “talento” e decise, quindi, di usare il blog come 77
www.microsoft.com
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strumento di attracting, riuscendo ad incentivare l’apertura di numerosi blog da parte dei dipendenti e creando un link diretto con il proprio career web site. Tale meccanismo consentì ai dipendenti, che agivano come testimonials dell’azienda, di sviluppare ampie discussioni sui temi più svariati ed, allo stesso tempo, permise di diffondere la cultura Microsoft più rapidamente; in breve tempo la comunità che si venne a creare crebbe esponenzialmente, attirando soprattutto l’attenzione di numerose persone il cui profilo era esattamente in linea con le esigenze dell’azienda. Oltre ai blog, i recruiters più proattivi hanno cominciato ad accorgersi anche dell’efficacia dei cosiddetti “social network”, cioè reti virtuali tra più persone con il desiderio di allargare il proprio ambito di relazioni ed affermare il proprio senso di appartenenza ad una comunità in evoluzione; il fattore principale di criticità di tale strumento è la completezza delle informazioni associate ai profili delle persone facenti parte del network. Linkedin raggruppa 17 milioni di persone collegate tra di loro, tra cui i dirigenti di tutte le prime 500 aziende, secondo il settimanale americano Fortune; il principale vantaggio di questo network è la sua funzionalità, in quanto è capace di creare un ambiente nel quale diversi “professionals” (persone con esperienza) possono facilmente accedere e cercare lavoro senza che venga proposta, in maniera palese, la propria candidatura. In altre parole, una volta dentro, il social network agisce autonomamente mettendo in atti meccanismi che consentono ai diversi profili di diffondersi attraverso le maglie della rete dei
contatti.
Ogni
profilo
può
anche
essere
accompagnato
da
personali
“raccomandazioni” rilasciate dalle persone del proprio network che agiscono, quindi, da mezzo promozionale rafforzando la credibilità delle persone “candidate”. Il sistema Linkedin consente, inoltre, di conoscere il profilo di coloro che sono collegati indirettamente al proprio network e di chiedere un collegamento diretto con quella persona di cui si nutre un particolare interesse; Linkedin, infine, ha recentemente lanciato una nuova home che permette, tra le altre cose, di avere subito sotto controllo le offerte di lavoro più interessanti sulla base del proprio profilo, consentendo una ancor più stretta integrazione tra recruiting e web. Un ulteriore valido strumento di social networking è Facebook; è caratterizzato da un’elevata velocità, da una facilità d’uso e contiene circa 35 milioni di profili collegati. Una delle funzioni più interessanti è forse rappresentata dal News Feed che permette di
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visualizzare una serie di informazioni riguardanti gli amici collegati al proprio network, ovvero cosa stanno facendo, a quali gruppi appartengono, quali applicazioni hanno scaricato oppure semplicemente quali messaggi hanno inviato, facendo di Facebook un mezzo di passa parola di grande efficacia. Nonostante sia contraddistinto da funzionalità valide e veloci, le informazioni sulle singole persone collegate sono limitate e non approfondiscono
le
esperienze
accumulate;
inoltre,
non
è
possibile
“raccomandazioni” come nel caso di Linkedin e, dunque, tali insieme di
usare
fattori lo
rendono uno strumento meno efficace per il recruiting. Un’esperienza vincente, dal punto di vista dell’utilizzo degli strumenti messi a disposizione dal Web e dell’utilizzo dei social media, è stata realizzata negli USA da una delle più grandi società di consulenza, la Deloitte; la società ha coinvolto i suoi 150 mila dipendenti in una sorta di concorso, chiedendo loro di realizzare un cortometraggio nel quale descrivere la loro esperienza di lavoro all’interno di Deloitte. L’evento, denominato Deloitte Film Festival, ha visto la realizzazione da parte dei collaboratori di più di 370 filmati, il tutto al di fuori del normale orario di lavoro; i filmati sono stati poi inseriti nella intranet aziendale, votati da tutti i dipendenti e i migliori 14 sono stati postati su YouTube78. L’obiettivo dell’azienda era di usare tali contributi per cercare di avvicinare all’organizzazione le nuove generazioni di “talenti”, in particolare i giovani universitari, che rappresentano un target sempre più difficilmente raggiungibile con i media tradizionali; il punto che in questa sede preme maggiormente sottolineare è la capacità di una società come la Deloitte di riconoscere l’importanza dei social media come parte integrante della vita delle giovani generazioni, la capacità di utilizzarli per le proprie attività di Employer Branding e la consapevolezza che i social network non sono più dei semplici tools, ma un vero e proprio new media che occorre usare e integrare nelle proprie politiche di attrazione dei “talenti” in azienda. L’esplosione dei social network come YouTube, Facebook, o MySpace è indicativa dello sviluppo della cosiddetta cultura della partecipazione tipica delle nuove generazioni
78
Ricceri F. , “Employee Generated Content: l'esempio di Deloitte.”, 17/03/2008, www.employerbranding.blogspot.com
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CAPITOLO 3
IL CASO L’Oréal
3.1 – Il gruppo L’Oréal L’Oréal si i colloca come leader nel mercato cosmetico mondiale, agendo in tutto il mondo e avvalendosi di oltre 52.000 collaboratori. Il core business è strutturato su 4 cluster di attività: hair-care (shampoo, dopo shampoo, styling e colorazione), skin-care (prodotti per il viso e per il corpo, creme solari), maquillage e profumi. I marchi al suo interno hanno origini diverse e sistemi di valori differenti; alcuni esempi sono L’Oréal Paris, Vichy, Garnier, Lancộme e Giorgio Armani. Il modello organizzativo adottato è di tipo divisionale e consta di quattro divisioni, diversificate per canale distributivo, raggruppate in Italia rispetto a tre società: L’Oréal Saipo SpA (Divisione Prodotti Grande Pubblico e Divisione Prodotti Professionali); L’Oréal Prodotti di Lusso SpA (Divisione Profumeria Selettiva) e Cosmetique Active Italia SpA (Divisione Prodotti Dermocosmesi)79. L’Italia è il terzo paese nel gruppo con maggior fatturato e rappresenta un fondamentale bacino di reclutamento interno a livello mondiale; mediamente, ogni anno circa trecento manager italiani sono collocati in modo stabile all’estero e, contemporaneamente, quasi 1500 nel mondo realizzano un’esperienza lavorativa al di fuori del proprio Paese di appartenenza. La composizione del gruppo L’Oréal è prosperata celermente nell’ultimo decennio grazie all’acquisizione di alcuni brand strategici; nel 1997 viene inglobato il marchio Maybelline New York, nel 1998 Redken 5th Avenue NYC, nel 2000 Matrix, nel 2002 Kiehl’s e nel 2006 Skinceutical. L’espansione della dimensione aziendale manifesta
79
Bagnato G. , Provera B. , Boromei P. , “La gestione strategica del recruitment; il caso L’Oréal”, Economia&Management Nr. 3 del 2006
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l’esigenza di creazione di una struttura corporate che sia capace di armonizzare ed integrare modus operandi differenti collegati a sottomercati diversi, cercando di fronteggiare con coerenza i problemi comuni alle società del gruppo. Nel 1998 nasce, quindi, la società Holding L’Oréal Italia con lo scopo di dare una risposta univoca e coerente alle esigenze di sviluppo di un’immagine omogenea delle divisioni del gruppo in Italia e coordinando anche funzioni staff, quali la comunicazione corporate, gli aspetti finanziari e legali comuni, il training e il recruiting. L’Oréal intende sviluppare e diffondere una forte cultura internazionale, malgrado la caratteristica di azienda “francese” legata alle sue origini; l’obiettivo è quello di mirare alle Human Resources come elemento di differenziazione, per evidenziarne la creatività e lo spirito di innovazione, con percorsi di carriera rapidi ed eterogenei. Il network di rapporti personali e la capacità di interazione sono apprezzati come veri e propri mezzi di lavoro e come una pregiata fonte di informazione all’interno di un sistema di comunicazione “destrutturato”, caratterizzato dall’assenza di iter burocratici, gerarchie articolate e sistemi predefiniti; tale contesto rende basilare la presenza di un patrimonio di know-how tecnico-specialistico e di capacità relazionali, di autogestione e di autorganizzazione. L’Oréal evidenzia come ciascun dipendente debba qualificarsi artefice del proprio successo, da perseguire anche con approcci e metodologie che nascono dalla libera iniziativa individuale e dalla propria creatività; per il gruppo, le Risorse Umane devono quindi essere in grado di “edificare” giorno per giorno l’ambiente circostante tramite processi di responsabilizzazione innescati fin da subito. I percorsi di carriera sono realizzati ad hoc, sulla base delle inclinazioni e delle attitudini dei singoli, con l’obiettivo di incentivare la creazione di specifici “talenti” individuali; le politiche di sviluppo del personale sono mosse da un rapporto di complementarietà con il precedente fine, prevedendo, quindi, la mobilità interna tra divisioni, funzioni aziendali, brand e paesi. 3.2 – La ridefinizione delle strategie di recruiting e selezione A cominciare dal 1995, L’Oréal avvia un processo di ripensamento della politica di reclutamento delle leve, sorto
dal bisogno di allineare le logiche di recruitment e
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selezione del gruppo agli intensi mutamenti riscontrati negli scenari interni ed esterni all’azienda. La congiuntura economica favorevole, la bolla di Internet, il mutamento del mercato del lavoro a causa della nascita, della scomparsa e della ridefinizione dei profili professionali e le nuove esigenze di recruitment, sono alcuni dei più significativi cambiamenti repentini che hanno caratterizzato l’assetto socio-economico dei primi anni novanta. Percorsi di carriera orizzontali, trasversali ed interaziendali si accostano alla classica carriera verticale; la crescente mobilità internazionale e la differente distribuzione anagrafica della forza lavoro implicano cambiamenti penetranti nel contratto psicologico sottinteso che lega l’individuo all’organizzazione. Nel complesso, tali cambiamenti hanno accentuato la natura competitiva del mercato del lavoro, generando un marcato fabbisogno di “talenti” nelle aziende leader dei propri settori. Nel contempo, L’Oréal impiega una politica di acquisizione dei marchi con posizioni di leadership in mercati locali con l’obiettivo di renderli globali e con la conseguente esigenza di conformare competenze e strutture organizzative alle necessità di business. Da un’impostazione basata su ruoli contraddistinti da know-how standard, L’Oréal si orienta verso un modello in cui le competenze manageriali, i valori e i comportamenti trasversali sono finalizzati ad armonizzare gli individui con la cultura organizzativa. Alle porte del nuovo millennio, le attività di recruitment sono riprogettate secondo logiche di marketing, transitando da un focus sulla ricerca dei “talenti” ad un focus sull’attrazione degli outsider giusti, coerentemente all’evoluzione del contesto competitivo che prima celebra e valorizza il prodotto e il servizio e poi dà risalto all’eccellenza del management quale fattore critico di successo. In termini operativi, L’Oréal mette in atto il cambiamento segmentando il mercato del lavoro ed individuando il target di candidati potenziali, con l’intenzione di riposizionarsi verso un segmento più qualificato e di gestire in modo armonico e integrato le restanti attività di Human Resources. All’interno di un contesto competitivo dinamico, L’Oréal predilige di focalizzare l’attenzione su peculiarità quali la creatività e l’innovatività delle proprie Risorse Umane, privilegiando il segmento dei neolaureati quale bacino di riferimento. L’obiettivo strategico non consiste più nel procurarsi conoscenze e tecniche precise dall’estero, ma un complesso di competenze manageriali, anche potenziali, in modo tale
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da poter allineare l’insieme dei valori, degli atteggiamenti, delle motivazioni individuali con il sistema culturale e valoriale aziendale. L’elevata importanza data, dall’evoluzione dei percorsi di carriera, alla mobilità interdivisionale, interfunzionale e internazionale, rende la versalità del management un presupposto essenziale per un’organizzazione che intende creare un macthing ideale tra offerta esterna ed offerta interna; a tal fine L’Oréal intraprende un processo metodico di ridefinizione delle competenze chiave, richieste a livello corporate, per riuscire a determinare un identikit standard, e flessibile allo stesso tempo, di un’ideale collaboratore L’Oréal. L’output di questo processo è rappresentato dalla “Carta delle competenze chiave”, emanata su scala internazionale e resa omogenea in tutti i paesi in cui il gruppo opera dal 200180. Al fine di realizzare un sistema integrato di leve Human Resources (attrazione, selezione, valutazione, formazione e sviluppo personale), all’inizio del 2002 lo schema di competenze dei possibili candidati è allineato ai fattori critici di successo su cui è basato il nuovo sistema di valutazione della performance. In particolare, le competenze su cui il recruiting e la selezione si concentrano sono rappresentate dalla innovatività, cioè dall’apertura mentale e dalla capacità di pensare “fuori dagli schemi”, dalla imprenditorialità, ovvero dallo spirito d’iniziativa e dal coraggio, dalla passione, cioè dalla sensibilità ai cambiamenti nei trend e negli stili di vita, dalla leadership, ovvero dalla capacità di raggiungere gli obiettivi organizzativi attraverso l’influenza sull’azione altrui81, e, infine, dal desiderio di affermazione, cioè dallo stimolo a dare sempre e comunque il massimo.
3. 3 - Le indagine di ricerca sui neolaureati Contemporaneamente alla ridefinizione delle competenze chiave, L’Oréal intraprende un ciclo di osservazione e di studio che tende a fornire una valutazione chiara ed esauriente della percezione del brand aziendale, in generale, e che rappresenta il punto di partenza dell’Employer Branding (e del modello EBGF) ovvero la fase di Assessment82 (vista nel secondo capitolo); a tal fine, il gruppo avvia su scala locale ed europea indagini annuali e 80
Bagnato G. , Provera B. , Boromei P. , “La gestione strategica del recruitment; il caso L’Oréal”, Economia&Management Nr. 3 del 2006 81 Tosi H. , Pilati M. , Mero N. , Rizzo J. , “Comportamento Organizzativo”, Egea, 2002 82 Attività di analisi preliminari dell’employer brand necessarie ad identificare l’attuale posizionamento e l’attuale immagine dell’azienda sul mercato del lavoro
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biennali sulla popolazione universitaria, per riuscire a capire e ad analizzare la percezione dell’immagine del gruppo e il sistema di valori, esperienze ed aspettative che qualifica gli studenti e i neolaureati. Una delle principali indagini, denominata L’Oréal-Abacus, palesa come nel 2001 gli studenti richiedano, in primis, un rapporto equilibrato tra vita privata e vita professionale che consenta loro di dedicarsi ad ulteriori interessi extraprofessionali; in secondo luogo, la ricerca mostra l’ambizione a lavorare all’interno di un’azienda con un’elevata reputazione, contraddistinta da un marchio riconosciuto. Inoltre, sulla base delle analisi emerse, viene a delinearsi un ambiente di lavoro ideale, cioè aperto, interessante, in cui i colleghi danno nuovi stimoli e aderiscono ad un sistema di valori comune; aspetti più materiali, quali remunerazione e benefits, che in passato hanno ricoperto il ruolo di importanti variabili di scelta di un contesto lavorativo piuttosto che un altro, sfilano in secondo piano rispetto alle possibilità di carriera internazionale e in ambiti multiculturali. L’indagine evidenzia come gli individui aspirano ad acquisire informazioni tangibili e il più possibile prossime alla realtà organizzativa, apprezzando positivamente occasioni di contatto quali presentazioni aziendali, testimonianze di manager dell’azienda, stage e progetti in aula. Le informazioni più considerevoli non concernono ineluttabilmente la storia e i successi dell’impresa, ma la cultura aziendale, le occasioni di formazione e sviluppo, il profilo ideale ricercato nei candidati, i valori condivisi; il peso centrale è assunto dalla richiesta di armonia tra quanto enunciato dall’azienda e l’effettiva realtà. La ricerca procura al gruppo un utile mezzo diagnostico, poiché traccia una descrizione meticolosa dei rischi e delle opportunità relative all’immagine di L’Oréal in qualità di employer. Dall’indagine scaturisce la vigorosa notorietà del marchio, malgrado non del gruppo nel suo complesso, inteso come portafoglio di prodotti collocati su canali distributivi eterogenei, con particolare riguardo ai beni di lusso indirizzati alle profumerie e alle farmacie; soltanto il mass market è ravvisato come business prevalente83. Più precisamente, l’immagine delineata da L’Oréal-Abacus è di un’organizzazione prettamente “francese”, femminile, fashion e avvolta da una patina di “frivolezza”, poco indirizzata verso la tecnologia; un’immagine accentuata visibilmente da mezzi di comunicazione scarsamente efficaci che esaltano in modo marcato componenti in parte coerenti e in parte contraddittorie con l’identità del gruppo. Le rassegne realizzate nelle 83
Bagnato G. , Provera B. , Boromei P. , “La gestione strategica del recruitment; il caso L’Oréal”, Economia&Management Nr. 3 del 2006
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università alla fine degli anni novanta sono, infatti, inquadrate su informazioni squisitamente economiche, sul posizionamento dei prodotti e sono più che altro condotte da testimonials femminili; il prodotto è sempre in primo piano, la componente francese è del tutto predominante. Il gruppo non possiede, quindi, un’efficiente brand personality, presupposto essenziale di un’efficace strategia di Employer Branding.
3.4 – L’Employer Branding in L’Oréal L’azienda acquisisce la consapevolezza che la comunicazione è la chiave basilare di accesso al target dei candidati potenziali e il mezzo attraverso il quale i punti di forza e debolezza aziendali si manifestano. Di conseguenza, L’Oréal stabilisce di progettare ed impiantare una vera e propria strategia di Employer Branding (EB) rivolta ad attrarre gli individui più interessanti per l’azienda, comunicando un’immagine più leale e coerente rispetto
alle
effettive
caratteristiche
e
alle
reali
opportunità
di
sviluppo
dell’organizzazione; definita l’esigenza di riposizionare il recruitment, L’Oréal compie delle scelte che, fino ad oggi, si sono rivelate gratificanti e che vengono racchiuse nella seconda fase (Prospective) di una strategia di EB. Il primo passo è stata la realizzazione di una struttura di reclutamento intenzionalmente concepita per promuovere la consapevolezza dell’immagine del gruppo nelle realtà universitarie e reclutare giovani “talenti”; all’interno della funzione Human Resources, ciascuno è incaricato della responsabilità di uno o più atenei, rinvigorendo il presidio nelle università e diffondendo la presenza del gruppo verso nuovi sedi. In secondo luogo, l’offerta di lavoro viene segmentata secondo matrici a due variabili, la “qualità degli studenti” e il “livello dei servizi di placement”, all’interno delle quali sono posizionati gli atenei e le singole facoltà; sulla base di tale segmentazione sono fissate politiche di recruitment più o meno analitiche. Tale processo conduce all’individuazione di tre categorie di atenei: •
Partners, università che offrono forme avanzate di placement e possiedono prestigio e orientamento internazionale, con le quali L’Oréal instaura un rapporto consolidato (in Italia sono solo quattro gli atenei partner).
•
Associates, università con cui la relazione di partnership è in via di sviluppo e in cui il gruppo ripone un’aspettativa di perfezionamento dei servizi di placement.
72
•
Growers, atenei qualificati come potenziali “nuovi mercati”, ovvero che rappresentano facoltà non economiche e localizzate geograficamente lontane dai consueti poli di business (come Milano, Roma e Torino).
Per ciascuna di tali categorie sono stati stesi dei piani di marketing con un orizzonte temporale di dodici mesi, ridefiniti per ogni anno accademico. Contemporaneamente, la funzione HR nel 2001, a livello corporate, disegna una campagna di comunicazione internazionale, integrata e articolata (in grado di valorizzare l’immagine dell’azienda come luogo di lavoro) che include codici di comunicazione omogenei in tutto il mondo; è la fase più creativa (Prospective) del processo di sviluppo dell’employer brand, nella quale il gruppo determina la propria employer brand promise ovvero trasforma, in chiave “comunicazionale”, la propria employee value proposition. Per realizzare l’intento di comunicazione dell’employer brand (fase di Development), L’Oréal utilizza come testimonials i manager in posizione di successo al proprio interno84; adotta uno slogan (o claim) basato sull’appartenenza ai valori del gruppo, “It’s My L’Oréality”, in cui ciascun manager racconta la propria esperienza evidenziando di volta in volta aspetti differenti; sceglie in modo rigoroso la lingua inglese come veicolo di comunicazione e, infine, si avvale di brochure e presentazioni che citano tutti e 17 i marchi globali per evidenziare la diffusione mondiale del portafoglio prodotti. La campagna accosta al materiale tradizionale (volantini, poster, brochure e cartoline) il ricorso alle opportunità offerte da Internet, con la creazione di un sito di reclutamento appositamente progettato, e l’utilizzo di attività di Public Relation per mezzo di stampa e Televisione. Il fine di tali azioni è rafforzare un’immagine omogenea del gruppo che non sia unicamente collegata ai singoli brand di prodotto. Oggi la campagna di comunicazione nell’ambito del recruiting rappresenta un impulso energico che L’Oréal ridefinisce regolarmente in un’ottica strategica, coerentemente con l’immagine e le esigenze del mercato di riferimento85. Dalla fine del secolo scorso, il gruppo intraprende la progettazione e il potenziamento di piani di stage destinati a studenti e neolaureati, con l’obiettivo di arricchire aspetti quali formazione, fidelizzazione e reclutamento.
84
Si tratta dell’Employee Generated Content, ovvero dell’utilizzo dei propri collaboratori come
testimonial dell’azienda, intesi come promotori dell’employer experience aziendale 85
ad esempio, nel 2004 la strategia cambia veste e diventa “L’Oréal – to build Beauty we need Talent”
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Per concludere, L’Oréal elabora e lancia due tipologie di competizioni internazionali imperniate sulla sfida tra gruppi di studenti, la “L’Oréal Marketing Award” (oggi Brandstorm) e la “E-Strat Challenge”, che realizzano nuove prassi di recruitment e di diffusione della nuova immagine. La prima delle due competizioni realizza un’esperienza di brand management e costituisce un’opportunità per mettere alla prova il potenziale degli studenti all’ultimo e al penultimo anno, rendendo partecipi unicamente le università partner; il programma disciplina la partecipazione ad un programma di marketing strategico, in gruppi di tre persone. In palio, oltre a premi di natura economica, anche l’opportunità di inserirsi nell’organizzazione. A pochissimi anni dal lancio, il Marketing Award si è rivelato un’interessante mezzo di recruitment; nel 2000, infatti, il 28% dei neolaureati assunti nella funzione Marketing arrivava direttamente da questa via. L’E-Strat Challenge è invece un business game on line che si sviluppa in circa ottanta paesi, svolto da gruppi di studenti che ipotizzano di essere alla guida di una società multinazionale di cosmetica e di dover fronteggiare situazioni di mercato in tempo reale, per un periodo di due mesi, perseguendo l’obiettivo di conseguire una posizione di leadership rispetto ai competitors. Gli studenti dovranno affrontare, quindi, politiche di prezzo, problemi a livello di produzione, di finanza, di marketing, di R&S, di pubblicità e di posizionamento del marchio 3.5 - I risultati conseguiti La fase finale (Monitoring) dello schema EBGF si concentra sul monitoraggio, ovvero sul controllo dell’efficacia di quanto sviluppato nelle fasi precedenti. Gli effetti delle politiche attuate sono monitorati sistematicamente grazie all’indagine “Universum”, condotta ogni anno in tutti i principali paesi europei, e all’indagine “Abacus”, commissionata da L’Oréal in Italia con frequenza biennale, che offrono indicatori rilevanti per controllare il grado di visibilità dell’azienda. Le iniziative di miglioramento hanno permesso di consolidare la relazione di fiducia con i docenti e le strutture di placement dei diversi atenei di riferimento; una delle principali testimonianze del forte legame che si è creato tra L’Oréal e le università è rappresentata dal fatto che, in alcuni atenei Partner italiani, la partecipazione al Marketing Award
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rappresenta ormai parte integrante dell’esame ed è soggetta a voto per tutti quegli studenti che giungono alle semifinali della competizione. Grazie ad un’eccellente nuova strategia di comunicazione e al perfezionamento del target di riferimento, L’Oréal è oggi capace di selezionare individui con un rapporto “candidati assunti vs. candidati incontrati” pari a 1:8, un dato al di sotto di tre volte a quello del 2000, quando per ogni posizione disponibile venivano effettuati venticinque colloqui86; ciò manifesta una maggiore coerenza tra quanto dichiarato dal gruppo e quanto percepito dai potenziali collaboratori, con la conseguenza che i soggetti che si propongono a L’Oréal sono solo coloro che avvertono di essere in linea con il profilo “ideale” ricercato dall’organizzazione. Reclutare in un’ottica di attraction (attrazione), perseguendo un obiettivo di congruenza tra l’individuo e l’organizzazione, consente pertanto di amplificare considerevolmente efficacia ed efficienza del processo di selezione; il “selezionatore” opera, infatti, su un bacino di candidati coerenti con il gruppo e, di conseguenza, la sua azione è più finalizzata e meno dispendiosa in termini di tempo, di energia e di risorse utilizzate. Inoltre, anche la campagna di comunicazione indirizzata a riequilibrare l’employer image di L’Oréal, rispetto alle dimensioni di “francesità”, femminilità ed eccessiva enfasi sul marketing, ha generato dei risultati; rispetto a dieci anni fa, il gruppo, infatti, è più abile nel rispettare un equilibrio costante tra uomini e donne nel processo di recruitment e inoltre, se nel 1996 il 75% degli assunti era destinato ad una carriera nel Marketing, nel 2003 il 56% dei nuovi collaboratori inseriti opera in funzioni quali la Logistica, la Finanza e le Risorse Umane87. Il recruitment ha raggiunto più intensi livelli di efficienza anche tramite ad un approccio metodologico differentemente calibrato; all’intervista individuale, L’Oréal accosta anche un colloquio di gruppo che permette di analizzare tra gli otto e i dodici candidati in un arco temporale di tre ore, valutando le competenze trasversali quali la capacità di parlare in pubblico, l’interazione tra le persone, l’abilità di lavorare in team e le capacità negoziali.
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Bagnato G. , Provera B. , Boromei P. , “La gestione strategica del recruitment; il caso L’Oréal”, Economia&Management Nr. 3 del 2006 87 Bagnato G. , Provera B. , Boromei P. , “La gestione strategica del recruitment; il caso L’Oréal”, Economia&Management Nr. 3 del 2006
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Le università Partner sono divenute il fondamentale canale di selezione; se nel 1999 il peso di tale via di reclutamento era pari al 12% del totale, oggi il 26% dei neolaureati introdotti nell’organizzazione arriva da tali atenei88. Infine, dal 2003 il gruppo ha raddoppiato il numero di inserimenti in stage, ampliando quindi l’efficacia del processo di selezione grazie all’opportunità di valutare on the job gli individui, analizzando la crescita del know-how individuale e, in particolare, l’integrazione e l’allineamento con la cultura e il sistema di valori dell’organizzazione.
3.6 – Lo sviluppo futuro del recruitment Ad oggi, il centro della riflessione è indirizzato verso le problematiche che susseguono a questo primo processo di ripensamento delle logiche di fondo del recruiting; uno dei rischi più allarmanti, conseguenza di un reclutamento mirato esclusivamente ad un gruppo ristretto di campus prediletti, è l’omologazione dei profili reclutati, con una preponderanza di background di matrice aziendalistica. L’omogeneità nei percorsi universitari, infatti, può condurre ad una calo di diversità in termini di approcci, esperienze e radice territoriale; il rischio è ancora più consistente se si pensa al fatto che proprio l’eterogeneità delle persone rappresenta il fattore chiave di una cultura internazionale e multirazziale come quella che L’Oréal intende conseguire, all’interno della quale si intende favorire il confronto individuale in termini di innovazione, sperimentazione e creatività. Per porre rimedio a tale rischio, dal 2003 il gruppo ha intrapreso un programma di diversificazione delle fonti del recruitment indirizzato alle facoltà di stampo umanistico del Centro-Sud e finalizzato a verificare la conciliabilità tra profili ad alto potenziale creativo e le necessità manageriali dell’organizzazione, grazie all’aiuto di successivi stage. Un’ultima attenta valutazione riguarda la continua e rapida evoluzione dei valori e delle esigenze della popolazione universitaria che produce impatti considerevoli sulle scelte e sulle offerte aziendali; tale fattore si riflette sugli aspetti di comunicazione e immagine istituzionale che L’Oréal stabilisce periodicamente di adottare a livello corporate e che necessitano, quindi, di essere sottoposti ad un continuo aggiornamento a causa della
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Bagnato G. , Provera B. , Boromei P. , “La gestione strategica del recruitment; il caso L’Oréal”, Economia&Management Nr. 3 del 2006
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rapida obsolescenza delle informazioni su cui si basa la strategia di Employer Branding in concomitanza delle mutevoli condizioni dell’ambiente di riferimento.
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CONSIDERAZIONI FINALI L’interesse per le Risorse Umane è, quindi, divenuto un aspetto di fondamentale rilevanza del mondo organizzativo; sono gli outisder giusti, ovvero i “talenti”, a rappresentare il vero patrimonio aziendale in grado di distinguere, in modo stabile e duraturo, le organizzazioni rispetto ai propri competitors. Le persone sono, dunque, il fondamento basilare per il conseguimento di un vantaggio competitivo e, proprio a causa di tale ruolo, i “talenti” sono al centro di una competizione sfrenata da parte delle imprese, perché il “talento” è comunque una risorsa scarsa, detenuta preziosamente da pochi “eletti”. Tali riflessioni motivano l’attenzione da parte delle aziende verso le nuove dinamiche che scaturiscono dal People Management, ovvero dalla gestione strategica delle Risorse Umane, con particolare riferimento al ruolo specifico che i processi di recruitment assumono all’interno di tale contesto e alla tecnica dell’Employer Branding, una peculiare strategia di marketing finalizzata, appunto, ad attrarre, fidelizzare e trattenere i “talenti” all’interno delle organizzazioni. In conclusione, i punti chiave del recruiting strategico sono, quindi, rappresentati dalla ricerca, dall’attrazione e dall’autoselezione. Il recruitment in un’ottica di ricerca si esprime laddove il mix competenze-motivazioni è individuabile e riconducbile ad un ruolo professionale in essere; la ricerca è sviluppata attraverso realtà ben identificate, ovvero scuole e università per i ruolo cosiddetti junior e imprese concorrenti per i ruoli senior. Il recruitment in un’ottica di attrazione e autoselezione, invece, consiste nella ricerca di coerenza negli atteggiamenti, nelle passioni, nei valori e nelle motivazioni degli ipotetici candidati rispetto al sistema valoriale dell’organizzazione. La gestione strategica delle attività di recruitment rappresenta, quindi, un valore aggiunto per le aziende; tuttavia, è propizio valutare come tali iniziative possono imbattersi in difficoltà e problemi di attuazione e sviluppo ragguardevoli; in linea generale, le strategie di Employer Branding sono determinate dai vertici aziendali mentre le problematiche che si possono riscontrare si rivelano solitamente nell’implementazione: da una parte, le
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risorse allocate possono essere inadatte e, dall’altra, sorge l’esigenza di rendere partecipi i responsabili di linea nello sviluppo delle attività di recruitment. Sovente tali ostacoli possono essere addossati alla ridotta importanza attribuita alla funzione Risorse Umane dall’organizzazione interna, la quale da sempre ha relegato le HR (Human Resources) in una posizione di secondo piano rispetto alle altre leve di vantaggio competitivo; trovare una soluzione a tale problema potrebbe equivalere a sviluppare un sistema di metriche quantitative che permettano analisi più approfondite dell’influsso delle politiche di Employer Branding sui processi di recruitment, selezione, sul livello di coerenza tra individuo e organizzazione e, quindi, che consentano valutazioni più precise sull’impatto di tali attività sulla performance aziendale complessiva. L’esistenza di adeguati casi di eccellenza, come quello L’Oréal, rappresentano degli esempi tramite i quali il concetto di gestione strategica delle Risorse Umane guadagna una condizione di legittimazione e di autorevolezza all’interno delle organizzazioni; solo in questa ottica è possibile spiegare l’insieme degli impegni organizzativi e degli investimenti occorrenti a convertire la gestione delle Risorse Umane in un mezzo di vantaggio competitivo. Se la funzione Human Resources non realizza tale obiettivo corre il rischio di assumere una natura tecnica e marginale e quindi di essere potenzialmente soggetta all’esternalizzazione mediante operazioni di outsourcing, precludendo la possibilità di far leva sulle sue capacità di costruire un vantaggio competitivo durevole per l’azienda. E’ necessario, inoltre, aggiungere, che nonostante l’Employer Branding raccolga un numero crescente di consensi, non mancano critiche e limiti; una rapida panoramica alla realtà del mondo del lavoro, infatti, ridimensiona drasticamente la portata del fenomeno. Le logiche su cui poggia, infatti, sembrano trovare terreno elettivo in un contesto definito da scarsità di risorse (forza lavoro) ed eccesso di domanda; condizioni queste che certo non descrivono l’attuale situazione del mercato del lavoro italiano, caratterizzato, invece, da un eccesso di offerta sulle effettive dimensioni della domanda di lavoro. Inoltre, un tale meccanismo si giustifica all’interno di organizzazioni molto vaste in cui sono delineati ruoli e funzioni ad hoc, mentre poco si adatta all’universo aziendale italiano, tradizionalmente composto da piccole e medie imprese (PMI).
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Come già anticipato nell’introduzione, il fine ultimo della tesi è quello di rendere palese una congrua relazione tra le Risorse Umane e le performance dell’azienda; tale relazione è stata ampiamente dimostrata grazie all’analisi del caso L’Oréal. Il gruppo, nell’ultimo decennio del secolo scorso, ha iniziato una politica di acquisizione di brand strategici che hanno indotto una crescita esponenziale delle dimensioni aziendali, generando una necessità di integrazione tra sottomercati differenti e, dunque, generando il bisogno di una cultura fortemente internazionale, a scapito della sua caratteristica di azienda prettamente “francese”, ormai divenuta inconciliabile con le nuove esigenze del business; per realizzare l’intento, L’Oréal ridefinisce le competenze chiave, richieste a ciascun collaboratore, determinando un identikit standard, valido su scala internazionale, del potenziale dipendente, cercando di creare un macthing perfetto tra offerta esterna ed offerta interna. Il gruppo, inoltre, acquisisce la consapevolezza che la comunicazione rappresenta il mezzo basilare
di accesso al target potenziale e decide, quindi, di
realizzare una struttura di recruiting orientata a promuovere l’immagine del gruppo nelle realtà universitarie, grazie, anche, al lancio di due competizioni internazionali tra studenti: la“L’Oréal Marketing Award” e la “E-Strat Challenge”. L’Oréal, tramite il perfezionamento della propria strategia di comunicazione e del processo di recruiting, è riuscita, rispetto al 2000, a migliorare il rapporto “candidati assunti vs. candidati incontrati”; se all’inizio del nuovo millennio erano necessari 25 colloqui di lavoro per assumere 1 collaboratore (1:25), oggi ne sono necessari soltanto otto (1:8). Ciò manifesta una maggiore coerenza tra quanto dichiarato dal gruppo e quanto percepito dai potenziali collaboratori e il tutto ha consentito, pertanto, di potenziare in modo rilevante l’efficacia e l’efficienza del processo di selezione. Gli addetti alla selezione dei candidati operano, infatti, su un bacino di collaboratori potenziali coerenti con il gruppo e, di conseguenza, le loro azioni sono più finalizzate e meno dispendiose in termini di tempo, energia e risorse utilizzate, realizzando, dunque, migliori performance nella fase selettiva, performance che si traducono nella scelta degli outsider più giusti e coerenti con il sistema valoriale aziendale; scelta che a sua volta si ripercuote in un miglioramento del clima interno, in un aumento dei livelli di soddisfazione, in un perfezionamento del lavoro svolto, in una qualità più elevata del prodotto/servizio offerto e, dunque, in un ridimensionamento dell’inefficienza con effetto positivo sul flusso dei profitti.
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