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Un soffio d’amore tra le rime

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Compagni di scuola

Compagni di scuola

Gabriele D’Annunzio con i suoi Levrieri

Il cane nella poesia Un soffio d’amore tra le rime

Una breve carrellata nell’universo dei poeti alla scoperta d’un amico comune

Lo scrittore cileno Pablo Neruda con il suo cane Chu Tzu un Chow Chow che lo accompagnò nel suo ultimo soggiorno sull’Isla Negra, era il 1973

Dino Buzzati con i suoi Boxer “Ho gettato il verso nobile ai cani neri della prosa”

Victor Hugo

Il cane! Lo guardi e t’accorgi, d’improvviso, che il suo silenzio è bello da ascoltare. I suoi occhi svelano segreti che solo gli amanti osano confidarsi. A poco a poco, un po’ per volta come percorressero labili sentieri in bilico fra speranze e ricordi. Perché l’affetto è vestito di sensazioni lievi come le prime luci di nuovi giorni. Per questo ha trovato, ha e continuerà ad avere fra i suoi apostoli i poeti più significativi perché, come ebbe ad affermare Joyce poeta e drammaturgo irlandese, “la poesia non cerca seguaci, cerca amanti” Ed il cane in ogni tempo ha ispirato e continua a far scintillare i colori più belli in parole e versi destinati a non subire il declino della memoria. Per questo fu ed è amato dai poeti a cui la sua amicizia è cara perché vestita da silenzi. Il cane nella poesia diventa l’ombra lunga dei sentimenti buoni. Racconta vicende d’amore o di affetto, suscita pensieri devoti e dà voce ai rimpianti. Dice anche di vicende legate ad usuale quotidianità elevandole a significato per tutti. E dimostra quanto sia vera l’affermazione di Ralph Waldo Emnerson (1803-1882) “solo la poesia ispira la poesia”. Una convinzione che significa anche, ingrandita alla lente del cinofilo, che ben pochi altri animali riescono quanto il cane a far scintillare i colori più belli dell’anima. Leggi… ed il pensiero si perde nel ritmo e si smarrisce nella magia delle parole a conferma di quanto ebbe a dire il grande Francesco De Santis (1817-1883) “La poesia è la ragione messa in musica”. Proprio perché è l’arte di far

I MIEI CANI MORTI

Gabriele D’Annunzio

Qui giacciono i miei cani gli inutili miei cani, stupidi ed impudichi, novi sempre et antichi, fedeli et infedeli all’Ozio lor signore, non a me uom da nulla. Rosicchiano sotterra nel buio senza fine rodon gli ossi i lor ossi, non cessano di rodere i lor ossi vuotati di medulla et io potrei farne la fistola di Pan come di sette canne i’ potrei senza cera e senza lino farne il flauto di Pan se Pan è il tutto e se la morte è il tutto. Ogni uomo nella culla succia e sbava il suo dito ogni uomo seppellito è il cane del suo nulla.

collimare, per trasmettere un messaggio, sia il significato delle parole che il suono e quindi il ritmo che dà respiro alla frase. La musica infatti esiste se riesce a trasferire emozioni e stati d’animo in maniera più evocativa e potente della prosa.

Ma la poesia, pur continuando ad essere espressione di sentimenti è mutata meravigliosamente nei secoli riflettendone le immagini come uno specchio semisegreto. Per i Romani era quantitativa, basata sull’alternanza tra sillabe lunghe e brevi: il metro più diffuso - proprio dell’epica - era l’esametro con una scansione a tempo. Poi dal Mille e dall’abbandono del latino, muta e si adegua ai costumi ma continua a dar voce ad un seminascosto orizzonte di sentimenti. Non sempre – ed è notazione d’obbligo - ha significato compiuto come la prosa. C’è infatti, se si legge o si ascolta, una parte che riguarda la comunicazione ed una che si rivolge alla sfera emotiva. Per questo la parola ha funzione di significato e suono, di contenuto informativo ed emotivo e

ODE AL CANE

Pablo Neruda

Il cane mi domanda e non rispondo. Salta, corre pei campi e mi domanda senza parlare e i suoi occhi sono due richieste umide, due fiamme liquide che interrogano e io non rispondo, non rispondo perché non so, non posso dir nulla. In campo aperto andiamo uomo e cane. Brillano le foglie come se qualcuno le avesse baciate a una a una, sorgono dal suolo tutte le arance a collocare piccoli planetari su alberi rotondi come la notte, e verdi, e noi, uomo e cane, andiamo a fiutare il mondo, a scuotere il trifoglio, nella campagna cilena, fra le limpide dita di settembre. Il cane si ferma, insegue le api, salta l’acqua trepida, ascolta lontanissimi latrati, orina sopra un sasso, e mi porta la punta del suo muso, a me, come un regalo. è la sua freschezza affettuosa, la comunicazione del suo affetto, e proprio lì mi chiese con i suoi due occhi, perché è giorno, perché verrà la notte, perché la primavera non portò nella sua canestra nulla per i cani randagi, tranne inutili fiori, fiori, fiori e fiori. E così m’interroga il cane e io non rispondo. Andiamo uomo e cane uniti dal mattino verde, dall’incitante solitudine vuota nella quale solo noi esistiamo, questa unità fra cane con rugiada e il poeta del bosco, perché non esiste l’uccello nascosto, non è il fiore segreto, ma solo trilli e profumi per i due compagni: un mondo inumidito dalle distillazioni della notte, una galleria verde e poi un gran prato, una raffica di vento aranciato, il sussurro delle radici, la vita che procede, e l’antica amicizia, la felicità d’essere cane e d’essere uomo trasformata in un solo animale che cammina muovendo sei zampe e una coda con rugiada.

IL CANE

Giovanni Pascoli

Noi mentre il mondo va per la sua strada, noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l’affanno, e perché vada, e perché lento vada. Tal, quando passa il grave carro avanti del casolare, che il rozzon normanno stampa il suolo con zoccoli sonanti, sbuca il can dalla fratta, come il vento; lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia. Il carro è dilungato lento lento. Il cane torna sternutando all’aia.

BUONGIORNO, CANI, CIAO

Dino Buzzati

Buongiorno, cani, ciao cagnolini cagnolini cagnazzi misterioso dono della natura a noi carogne. Perché? Incantevoli compagni di viaggio che ci fissate negli occhi con esagerata. Belli come boschi come il vento girano su e giù per la casa come fiumi come rupi come nuvole innamorate. Belli quando ronfate fate bave spazzate immondizie. Egoisti, sporchi, noiosi rompiscatole, puzzolenti, ingordi, sudicioni, petulanti, tangheri, Dio vi benedica.

MARIÙ PASCOLI: “ECCO LA STORIA VERA DI GULÌ’”

Gulì divenne membro della famiglia Pascoli il 4 giugno 1894. Fu un dono del padre di Antonio De Witt illustratore delle poesie del poeta. Il cucciolo aveva cinque mesi. Accolto da Mariù, sorella del poeta divenne subito membro della famiglia, Lui, amato da tutti era amorevole con ciascuno ebbe a scrivere la sorella che così descrive l’ingresso in famiglia del cucciolo. “Aveva appena cinque mesi, era un incrocio di due razze assai diverse essendo figlio di una canina levriera e di un bracco...Il pelame aveva raso, lucido e morbido come velluto; nero sul mantello e nella testa, ma bianchissimo nel petto, sul collo, in parte del muso e nei quattro piedi e nella punta della lunga coda. Era un gran bel balzanino, snello, elegante ed aristocratico. Ma quale nome poteva convenirgli?Proprio in quei giorni il Pascoli aveva ricevuto in dono un vassoio di dolciumi spedito da alcuni ex alunni con sopra stampigliato il curioso nome del pasticcere, tale Emanuele Gulì da Palermo e proprio nel mentre che pensa e ti ripensa tutti riflettevano sul nome da dare al nuovo amico a quattro zampe l’occhio del poeta cadde proprio su quel vassoio: - Ecco trovato il nome! Gulì!- E subito le sorelle Mariù e Ida cominciarono a chiamarlo con quel nome. Da quel momento fu parte integrante della famiglia, era considerato la punta del triangolo familiare, praticamente quella bestiola divenne come un figlio. Molti schizzi e disegni fatti a penna dal Pascoli rimangono ancora oggi, dove viene ritratto Gulì che passeggia con il padrone, Gulì sul divano e altri ancora e a quanto sembra il piccolo cane era “laureato”, su alcune cartoline conservate a Castelvecchio si ritrova la firma “dottor Giulì”. quindi sintassi e ortografia possono variare (licenze poetiche) se opportuno per la comunicazione complessiva. Tutto questo per dire che, abbandonato il linguaggio aulico, la poesia non poteva non ispirarsi anche ai cani con una “comunicazione” valida per la gente senza riferimenti a razze e caratteristiche particolari. Ed è un altro aspetto, forse, a ben pensarci, il più suggestivo perché supera le razze eguagliandole in un simbolo meraviglioso. E lo dimostra una rapida carrellata nell’universo dei poeti. Da Giovanni Pascoli, poeta del cuore, dei tramonti, delle lacrime di nostalgia all’anarchico Pablo Neruda i cui versi venivano declamati nelle vie di Parigi al romano Trilussa che dice, sorridendo, probabili verità, al delicato Umberto Saba. E dopo di lui il geniale D’Annunzio ed il Nobel Eugenio Montale e Giuseppe Ungaretti con il suo amato Pechinese. E su tutti una frase, inaspettata e stupenda, di Giacomo Leopardi, il poeta senza cielo e senza speranza. “La facoltà di compatire non è propria dell’uomo. In casa mia v’era un cane che dal un balcone gettava del pane ad un altro cane sulla strada”.

Rodolfo Grassi

NEI MIEI PRIMI ANNI

Eugenio Montale Nei miei primi anni abitavo al terzo piano e dal fondo del viale di pitòsfori il cagnetto Galiffa mi vedeva e a grandi salti dalla scala a chiocciola mi raggiungeva. Ora non ricordo se morì in casa nostra e se fu seppellito e dove e quando. Nella memoria resta solo quel balzo e quel guaito né molto di più rimane dei grandi amori quando non siano disperazione e morte. Ma questo non fu il caso del bastardino di lunghe orecchie che portava un nome inventato dal figlio del fattore mio coetaneo e analfabeta, vivo meno del cane, e strano, nella mia insonnia.

Eugenio Montale

Giovanni Pascoli con il mitico Giulì

Giuseppe Ungaretti fotografato a Napoli con il suo Pechinese

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