Sat Lavis Piazza Loreto, 3
Febbraio 2016 Numero 1
La colonizzazione (economica) delle vette Ho usato il titolo del Gogna–Blog del 9 febbraio (qui il link
temperatura globale (è un fatto ormai conclamato e dimo-
http://www.banff.it/la-colonizzazione-delle-vette/ ) Alessan-
strato dalle bizze meteo che stanno colpendo un po’ tutto il
dro, come d’abitudine, descrive con sagace ironia, velata di
mondo ma che da molti viene archiviato come ciclico e non
amarezza, le “megalomanie” di Sölden , tanto decantate dai
influente sul divenire dell’ecosistema planetario) Rif. Dolomi-
media grazie anche alle ultime mirabolanti immagini del nuo- ti, patrimonio Unesco ma fino a quando?; vo 007. Purtroppo la montagna non è nuova a questo genere di sfruttamento indiscriminato che, oltre ad essere estraneo all’essenza “dell’andar per monti” è, naturalmente, deleterio sia per l’ambiente che per la psicologia collettiva che tende a minimizzare impegni e rischi di chi ama questo “volar per monti” dove il sudore è un optional e l’unica vetta che si vuo-
-l’avallo dato da molti amministratori pubblici di zone turistiche che vedono nella montagna e nell’ambiente in generale solo il fondale per speculazioni edilizie ed imprenditoriali che giustificano con il fatto che portano lavoro e benessere Rif. Sölden ;
le raggiungere (da parte dei distributori di beni e servizi dislo- -e via dicendo, a slalom tra eliski d’alta quota, reality show assurdi per vendere l’immagine di una montagna facile ed cati in zona) è quella grafica dell’andamento del conto corrente. La polemica è ormai trita e ritrita; laddove c’è il “Dio-
accessibile a tutti (l’ha fatto quello, perché non posso farlo
soldo” non c’è posto per altri pantheon, non ci sono margini
anch’io che sono più allenato di lui...), apertura ai motori su
per lo sfruttamento (brutta parola ma comprensibile da tutti)
sentieri che già faticano ad avere un loro equilibrio idrogeolo-
sostenibile della “Dimensione montana”. Il riferimento è chia- gico, prati e campi incolti che hanno visto spuntare, nella ro anche ad altri eventi, sintomatici di ciò che veramente con- stagione degli incentivi alle energie sostenibili, pannelli solari ta per chi potrebbe cambiare le cose sul pianeta: -la conferenza sul clima di Parigi (solo i più ottimisti possono credere che basti l’accordo formale sottoscritto da tutti i pae-
si del mondo se non suffragato da politiche idonee. Io purtroppo non sono tra questi, Rif. il protocollo di Kyoto che nessuno ricorda più è lì a dimostrarlo) articolo “Internazionale” cliccando qui;
e fotovoltaici. Ed ancora andando e spulciando tra gli articoli dei giornali, spesso passati in sordina in trafiletti sulle pagine periferiche. Lungi da me voler fare il fustigatore di costumi altrui ma vor-
rei esternare queste considerazioni che, parlando con persone che come me hanno a cuore la montagna e l’ambiente, sono da molti condivise. C’è solo da chiedersi se, dopo tutte le traversie economico-finanziarie degli ultimi anni, ha senso
-il continuo tentativo, da parte di imprenditori miopi e senza
ricominciare da capo con lo stesso modello e parametro di
scrupoli di costruire impianti di risalita sempre più faraonici
crescita, basato solo sul valore del denaro e mettendo in pri-
(con soldi molto spesso pubblici) e sempre più impattanti in
mo piano la crescita solo economica o non sia forse tempo di
aree ad alto valore ambientale e paesaggistico, a quote sem-
cominciare a pensare in modo diverso l’economia e lo sfrutta-
pre più basse, nonostante l’innalzamento progressivo della
mento delle risorse a nostra disposizione?
"Quando fa galeta i perseghi no fa galeta i cavaleri” (da “Antica saggezza dei nostri nonni” di Umberto Raffaelli-2015 Ed. Programma)
Dall’Enciclopedia delle Dolomiti –Protagonisti Leo Aegerter, Le più belle carte
Storie e Storia 1866-2015: la guerra delle croci
delle Dolomiti
(Parigi 1875-Zirl 1953) Cartografo, è autore di una serie di carte delle Alpi orientali che verranno allegate alla Zeitschrift des DOAV; Sassolungo e Sella nel 1904, Marmolada nel 1905, Brenta nel 1908. Aegerter ebbe l’incarico di realizzare nel 1919 la carta ufficiale del nuovo confine del Brennero; per questo e per la drammatica situazione della Germania nel primo dopoguerra la carta delle Pale di San Martino, già pronta verso la fine del conflitto, fu pubblicata solo nel 1931. Le carte di Aeger-
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La discussione iniziata nel 2015 sulla stampa in merito all'erezione delle croci in memoria dei soli militari austroungarici caduti durante la prima guerra mondiale, ricorda quella che fu chiamata la “guerra delle lapidi” del 1866 (quasi centocinquant'anni orsono) sorta al termine della battaglia di Bezzecca nella terza guerra d'indipendenza italiana: ma a parti invertite. Allora, al termine della battaglia che vide i garibaldini padroni del campo, un loro ufficiale volle fosse eretta sul colle di Santo Stefano a Bezzecca, una lapide in memoria dei volontari italiani, morti in quella battaglia: “AI MORTI COMBATTENDO PER LA PATRIA I VOLONTARI ITALIANI” riportava la lapide. Ma il famoso “Obbedisco” interruppe l'approntamento della stele e le truppe italiane si ritirarono in tutta fretta in Lombardia portando con sé anche i feriti per evitare fossero fatti prigionieri e passati per le armi (la Croce Rossa non era ancora riconosciuta da tutti i belligeranti). Il piccolo monumento rimase incompiuto e, fra l'altro, non pagato all'artigiano scalpellino autore dello stesso; la lunga discussione che ne seguì fra l'autorità locale e quella austriaca, termino con l'ordine tassativo della sua distruzione. “L'erezione di un monumento in un luogo pubblico non può seguire se non dietro il permesso della competente autorità….deve essere dunque demolito e ne ha l'obbligo chi lo eresse...” scrisse il 23 ottobre 1866 il Conte Hohenwart. Trent'anni dopo, il 10 ottobre 1896,
Continua da pag. 2
Sopra: Carta topografica del XVIII° secolo
sotto: il monumento sul colle S.Stefano
ter sono monumenti insuperati della cartografia delle Dolomiti. Il sistema delle curve di livello è estremamente preciso; gradevoli i colori, sul rosa pastello e grigio; i rilievi sono disegnati non solo con la precisione dello studioso, ma anche con la curiosità dell’alpinista e la passione del naturalista, testimoniate anche dai disegni preparatori dal vero. Dai rilievi eseguiti Aegerter ricavò una serie di plastici per il Museo Alpino di Monaco, che andarono in buona parte distrutti nella seconda guerra mondiale. Il plastico del Brenta, donato dall’autore al geologo trentino Giovanni Battista Trener, è conservato al Museo di Scienze Naturali di Trento (attuale Muse).
in sostituzione della lapide garibaldina contestata, fu eretto dall'amministrazione austroungarica il monumento tuttora esistente a Bezzecca sul Colle di Santo Stefano, monumento scolpito dall'I.R. Scuola Professionale di Trento con la doppia iscrizione in tedesco e in italiano: “DEN IM GEFECHTE VOM21 JULI 1866 GEFALLENEN OESTERREICHISCHEN UND ITALIENISCHEN KRIEGERN” “ALLA MEMORIA DEI GUERRIERI AUSTRIACI ED ITALIANI CADUTI NEL FATTO D'ARMI 21 LUGLIO 1866” Dopo la prima guerra mondiale, la vicenda ebbe successivi sviluppi e la stele garibaldina ritornò sul colle nel 1919 assieme a quella austroungarica. E' indubbiamente curioso che a distanza di quasi centocinquant'anni si propongono quasi le stesse discussioni: gli Schützen attuali sembrano, infatti, interpretare, a riferimenti invertiti, la parte dei Garibaldini mentre l'Austria di allora sembra aver dimostrato molto maggior equilibrio nell'interpretare la sensibilità dell'intera popolazione. Ogni espressione di pensiero è indubbiamente legittima, ma ricordando le parole di Bertolt Brecht che titolano la stessa esposizione del MART sulla guerra: “La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.” Vien da pensare che, qualora ve ne fosse bisogno, i monumenti dovrebbero essere fatti a tutta la povera gente, soldati e non, italiana e austroungarica. Bruno Santoni Da “Strenna Trentina 2016” 3
Dalla nostra biblioteca FRÊNEY 1961, di Marco Albino Ferrari Premessa Alla fine, dopo mesi di attesa, la telefonata di conferma arrivò. L’appuntamento veniva fissato per un giorno dell’imminente autunno, alle 11.30 in punto, nel palazzo della Commission des Lois, a Parigi. “Si prega la cravatta” concludeva la voce. Quando la porta dell’ufficio si aprì, lo vidi in fondo alla grande sala affrescata. Il Presidente della Commission des Lois (la Corte Costituzionale Francese) era immerso nel suo lavoro alla scrivania. Entrai e mi avvicinai lentamente. “Si accomodi” ordinò Pierre Mazeaud senza neppure alzare lo sguardo dalle sue carte. “Mi chiamo….” Iniziai, “sono qui per….” Avrei bisogno che mi raccontasse del Pilone Centrale del Frêney…”. Cercavo di misurare le parole ripetendo il discorso imparato a memoria davanti allo specchio. Fin quando lo vidi alzare la mano per fermarmi. “Lei aveva quindici minuti, ora gliene rimangono tredici. Se vuole consumare il suo tempo così faccia pure… Altrimenti lasci parlare me” disse con voce risoluta. Mi zittii. Pierre Mazeaud, il compagno di Bonatti durante i fatti tragici del luglio 1961, iniziò il racconto. Partì pacato, un po’ distratto. Ma già dopo poco il tono e l’intensità del suo discorso iniziarono a farsi più decisi. Era chiaro che in lui stava scattando qualcosa. Iniziò a gesticolare e a indicare in alto immaginando la Chandelle del Pilone nella tempesta. Mazeaud sembrava un fiume in piena. Poi prese la cornetta del telefono e sottovoce ordinò di annullare gli appuntamenti successivi. Parlò, parlò a lungo quella mattina. Lo vidi piangere, ricordarsi i suoi compagni morti: Vieille, Guillaume e l’amico Kohlmann. A un certo punto prese un foglio intestato della Commission des Lois (che conservo come una reliquia) e disegnò nel dettaglio la dinamica dell’inizio della bufera, quando il fulmine li aveva colpiti e la storia era cominciata. Lo salutai dopo un paio d’ore. E mi ritrovai da solo nell’immensità di Parigi, con quella voce, con quelle parole che non avrei più dimenticato. Erano i primi anni Novanta, e adesso, due decenni dopo, mi ricordo ancora dei pensieri che si accavallavano mentre vagavo senza meta per le strade
affollate di Parigi. Mi persi, rimuginando sulla storia che avevo appena udito. E ripensavo anche a quella montagna magnifica, rossa di granito luccicante, il Pilone Centrale del Frêney, che avevo salito l’anno prima. Mi ricordavo che quando ero passato nel punto del bivacco dei sette alpinisti sotto la Chandelle avevo sentito un brivido lungo la schiena: lì si era consumata la tragedia più impensabile e beffarda dell’intera storia dell’alpinismo: gli italiani, guidati dal più forte alpinista del mondo, avevano incontrato una cordata di francesi che era diventata l’altro filo di un cortocircuito. Mi ricordavo le quattro successive lunghezze di corda, i passaggi chiave della via vissuti con il mio compagno di allora, Marco Villa, l’uscita in cima al Pilone al tramonto, e i passi nel ghiaccio sulla calotta sommitale del Bianco sotto il cielo ormai pieno di stelle. Quel pomeriggio, vagando per ore prima di riprendere il treno che alla sera partiva per l’Italia, avevo capito: dovevo provare a scrivere la storia della tragedia del Pilone. Il mio lavoro di redattore alla rivista Alp mi lasciava qualche spazio e così avrei potuto almeno arrischiare un tentativo. Iniziai ad accumulare documenti, vecchi giornali e interviste dei testimoni oculari, alle guide alpine, ai soccorritori, alla gente di Courmayeur, ai familiari dei protagonisti, ai giornalisti che trent’anni prima si erano dedicati al caso. Passai molto tempo a parlare con Walter Bonatti. Fui ospite per più giorni nella casa di Dubino: lui e la sua compagna Rossana Podestà mi avevano preparato una comoda sistemazione per la notte. La primissima edizione del libro uscì nel giugno del 1996. Bonatti, ricevuta la prima copia, mi scrisse che approvava il risultato, ma che avrei “assolutamente” dovuto apportare alcune correzioni sulla prima ristampa: la “tenda” di cui avevo scritto doveva essere sostituita con la dicitura più corretta “sacco-tenda”. E aggiungeva qualche altro irrinunciabile ritocco. Già dopo poche settimane ci fu la prima ristampa. Il libro ebbe poi decine di ristampe e venne pubblicato nel 2009 da Corbaccio. Negli anni, il rapporto con Walter Bonatti, fitto fitto prima dell’uscita del libro, si allentò: e ci perdemmo di vista. Nel 2002 accettò di scrivere un articolo sul
Tu fe riv se Ri ric do ch m pe na ric A Co fe ill sa di tr pi Dr tu pr Le qu Q gi Ita in no To pr “D de N “d da te ne ta tic di co gr sp ra m ch e 19 al pi gr So m za
Tunnel del Monte Bianco, e invitava a manifestare “un corretto ma fermo rifiuto, a fare insomma barriera civile”. Poi tornò rare volte sulla rivista a dar voce alle sue opinioni, sempre nette e decise. Morì il 13 settembre 2011, dopo una fulminante malattia. Ripenso a tutto quanto con un po’ di nostalgia mentre scrivo queste riche per la nuova edizione del libro. Ripenso a Walter Bonatti, e lo vedo nei colori sbiaditi del Kodachrome, nel bianco e nero di un tempo che non è il mio tempo – gli anni Cinquanta e Sessanta – quando le montagne non erano assediate dal turismo e serbavano ancora spazio per nuove esplorazioni. Si sa, la nostalgia porta a rifugiarsi nell’immaginazione; e pensando a Bonatti immagino la montagna in un tempo più ricco di ideali, più ingenuo, più incantato, che continua a farmi sognare. A volte, d’estate, in certe fortunate mattine senza nuvole, quando da Courmayeur si risale la strada che porta ad Entrèves, può capitare di fermarsi a osservare la cima del Monte Bianco. Da est, i raggi del sole illuminano la complessa bastionata superiore. E’ una cattedrale colossale di granito rosso: un caos di seracchi, di pareti, di creste, di pilastri divisi tra loro da sottili strisce di ghiaccio azzurro e bianco. Là in mezzo, tra rocce e neve, nel punto culminante dell’intera montagna spunta un pilastro dalla forma davvero particolare, è il Pilone Centrale del Frêney. Dritto come una candela e leggermente inclinato verso il vuoto. Non tutti però riescono a vederlo: è, si, il pilastro più imponente, più impressionante e lineare dell’intero versante, però è difficile da vedere. Le dimensioni, il gioco delle ombre e le prospettive distorte delle alte quote lo nascondono agli occhi di molti. Quando il Pilone era entrato tra gli obbiettivi dell’alpinismo di punta, i giovani vivevano sulla prospettiva di un futuro carico di promesse. In Italia si sentivano gli effetti del “boom economico”, si viveva un mondo in cambiamento, un mondo miracoloso e nevrotico: nelle case entravano le lavastoviglie, gli oggetti di plastica, i settimanali e le schedine del Totocalcio. Ma in quel mondo schizofrenico c’era chi (qualche anno prima) aveva condannato alla residenza coatta Giulia Locatelli, la “Dama Bianca”, colpevole di adulterio con Fausto Coppi. Nei termitai dell’edilizia popolare, sorti come funghi nelle periferie delle città del Nord, le casalinghe leggevano le prime riviste femminili col mito della “donna moderna”: tutta casa, elettrodomestici e figli. E i cattolici mandavano migliaia e migliaia di cartoline alla Rai perché, nell’unico canale televisivo, alle 18 di ogni giorno venisse recitato il Rosario. La televisione, nata nel 1954, entrava nelle case e nei bar ed era portavoce di un’Italietta perbene e moralista. I giornali, in pochi anni, aumentarono vorticosamente le tirature: era il trionfo della cronaca, della cronaca nera, di quella rosa, del gusto per lo scandalo, dei titoli sbraitati. La “nera”, con le grandi fotografie e i titoloni, appassionava le masse e riempiva grossi spazi nei quotidiani, appassionava le masse e riempiva grossi spazi nei quotidiani, soprattutto quelli del pomeriggio e nei giornali radio che detenevano il primato di ascolto e di rapidità nel dare informazione. L’inviato componeva il suo pezzo (sul modernissimo apparecchio di registrazione Nagra-Kudelski) che poi veniva trasmesso a Roma e lì messo in scaletta per il primo radiogiornale. In quei giorni del luglio 1961, la radio, i giornali e la televisione dedicheranno amplissimi spazi alla cronaca della tragedia del Monte Bianco: La Stampa di Torino riempirà tutta la prima, la seconda e la terza pagina con gli articoli e le fotografie del dramma. Sono anni di nuovo benessere, nascono nuovi divi, nuovi miti, nuovi modelli da imitare. E’ un’Italia che ha bisogno di nuovi eroi per catalizzare i suoi sogni: ed è proprio in questo mondo onirico che Walter Bo-
ra epoca. L’uomo che conquista spazi ancora sconosciuti, che sale verso l’alto toccando cime mai toccate in tutte le parti del mondo. L’uomo che contribuisce a riscattare l’immagine dell’italiano medio, ancora oppressa dall’eredità della guerra e delle tragedie del fascismo. L’alpinismo ha un consenso sociale altissimo. Walter Bonatti è tra gli uomini più invidiati. I suoi occhi vedono cose che nessuno può vedere. Gli alpinisti non sono dei pazzi: Walter Bonatti non è un pazzo, è un sognatore e fa sognare la gente. Quando rimane appeso per sei giorni filati sui seicento metri strapiombanti di un picco di granito sopra Chamonix, la gente sogna. Quando attraversa tutte le Alpi con gli sci in sessanta giorni, riposandosi solo sei e avanzando nella tempesta per ventitrè, la gente sogna. Già negli anni Cinquanta, le cime delle Alpi erano state in gran parte salite anche dai versanti più difficili: l’alpinismo cercava obiettivi diversi, pilastri più remoti dall’accesso difficile, linee logiche ma nascoste e rimaste ancora territorio vergine. Il Pilone Centrale del Frêney era un simbolo di questo alpinismo, una sfida formidabile, un pilastro dalla struttura rettilinea, elegante. Era l’ultimo grande problema delle Alpi. Negli ultimi otto anni avevo respinto diversi tentativi (compreso uno di Bonatti), e la sua scalata avrebbe simboleggiato il compimento di un’epoca. I francesi, gli svizzeri, gli italiani, i tedeschi, gli inglesi, i polacchi, gli americani, tutti volevano salire per primi il formidabile pilastro. Qui di seguito si racconta di quelle pagine di storia che sconvolsero l’opinione pubblica, ma che fecero anche capire un po’ meglio – a dispetto del pessimo lavoro dei giornalisti, eccetto quello di Andrea Boscione della Radio Rai – lo spirito di quell’attività chiamata alpinismo. Molti oggi a Courmayeur hanno ancora il ricordo del dramma di quei giorni del luglio del 1961, ma pochi sanno spiegarsi il vero motivo che portò alcuni uomini, i più forti alpinisti dell’epoca, a tendere la mano alla morte in modo tanto assurdo. Questo libro narra la storia di un’impossibile follia, diventata uno dei fatti di cronaca più clamorosi di quegli anni. E’ una storia di destini incrociati, un momento simbolico che racchiude lo spirito di una grande epopea umana.
Proposte di cammino... In collaborazione con “Itinerari e
Scialpinistica Cima di Terento (2378 m.) 12 marzo
Luoghi” una proposta per la visita (a piedi) di un luogo particolare. Questo mese due montagne che hanno sempre avuto, e tuttora hanno, il fascino discreto della leggenda.
CIVETTA E MARMOLADA
Itinerario poco frequentato e selvaggio sopra la Val di Fundres. Si parte da Fundres e si sale nel vallone del Rio Semanza fino alla Malga Pietrabianca (1768 m.), si continua nel bosco e poi in campo aperto sotto la cima di Terento sino ad una sella a quota 1612 m. Da qui si scende verso sud per 100 m. e si costeggia la cresta est fino alla cima. Discesa: per l’itinerario di salita Partenza: Loc. Fundres Dislivello in salita: 1680 m. Tempo complessivo: 5-6 ore Difficoltà: BS
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Ciaspolata alla Cima Sattelberg (2113 m.) 13 marzo Comoda, facile e frequentata escursione invernale, aperta anche agli scialpinisti nella prima valle a sx. del Passo del Brennero in Austria, la Obernbergtal. La meta è la Cima Sattelberg, situata sul confine italo-austriaco. Presso la Malga Sattelberg (1600 m. un po’ discosta dall’itinerario) vi è la possibilità di consumare un pasto caldo. Rientro sullo stesso itinerario di salita, mentre gli scialpinisti possono scendere su una ex pista dismessa.
Partenza: Passo del Brennero (1370 m.)
Dislivello salita: 900 m. circa
Tempo complessivo: 4-5 ore circa
Difficolta: EAI F
"Sul tompestà no val benedizion” (da “Antica saggezza dei nostri nonni” di Umberto Raffaelli-2015 Ed. Programma)
Angolo della Poesia Mi padre me diceva Mi’ padre me diceva: fa attenzione a chi chiacchiera troppo; a chi promette a chi dopo èsse entrato, fa: “permette?”;
a chi arribarta spesso l’opinione e a quello, co’ la testa da cojone, che nu’ la cambia mai; a chi scommette;
pe’ di’ de sì e offrisse come amico; a chi te dice sempre “so’ d’accordo”; a chi s’atteggia come er più ber fico; a chi parla e se move sottotraccia; ma soprattutto a quello – er più balordo – che quanno parla, nun te guarda in
a chi le mano nu’ le strigne strette;
faccia.
a quello che pìa ar volo ogni occa-
Aldo Fabrizi ( 1905-1990)
sione
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Importante: Il Trofeo Caduti della Montagna, inizialmente previsto per il 28 febbraio si svolgerà il 6 marzo a Campo Carlo Magno. Iscrizioni in sede possibilmente entro la settimana entrante. Da “Escursioni con le Ciaspole in Dolomiti” (Stimpfl-Oberrauch)
Proposte di Stagione—Ciaspole Dal Lago di Carezza a Obereggen
Tempo 2.30’ ore totale
Dislivello quasi nullo
Diff. Facile
Dal parcheggio del Lago di Carezza (1525) si scende per 350 m. lungo la strada in direzione di Bolzano fino a incrociare una seconda strada forestale sulla sinistra (indic. Geigerhof, segnavia 8). Questa via, chiamata anche “Templweg”, si addentra nel solitario bosco invernale ai piedi del leggendario Latemar offrendo continui e suggestivi colpi d’occhio sulle torri dolomitiche: la Foresta di Carezza/ Karerforst costituisce uno dei boschi più belli e meglio conservati di tutto l’Alto Adige. In neanche un’ora su strada forestale prevalentemente pianeggiante si giunge ai prati della Kölbistall (1487). Sempre sul n°8, dopo 10’ di moderata salita si perviene a un’altura, quindi per prati in direzione sudovest al Bewallerhof (1500 no bar rist.). a questo punto si imbocca il sentiero n°9 a fianco della strada carrozzabile, seguendolo fino alla Sella di Obereggen/Obereggen Sattel. Poco più di 200 m. separano ora dal trambusto dell’area sciistica di Obereggen (1550), dotata di impianti di risalita, alberghi e vari punti di ristoro. Chi avesse raggiunto in autocorriera il punto di partenza del Lago di Carezza, può rientrare da Obereggen a Bolzano sempre con i mezzi pubblici. Altrimenti ritorno al parcheggio sulla via dell’andata.
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