Fabrique du Cinéma #18

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LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO ESTATE

2017

Numero

18

OPERA PRIMA

“I FIGLI DELLA NOTTE”

Andrea De Sica e la nascita di una classe dirigente. Spietata

ICONE

FRANCESCO NUTI

Il ragazzo d’oro, ribelle e geniale, della commedia anni ’80

FUTURES

SÄMEN

Dai commercial alla fiction, con una voce già inconfondibile

TOP

P L A Y E R S Come Lino Guanciale i nuovi protagonisti del cinema italiano giocano sul grande e sul piccolo schermo


S

BENTORNATA QUALITÀ

TANTO CINEMA (DIGITALE) SOTTO LA VIA LATTEA

LE WEBSERIE SONO MORTE?

SPAGHETTI CINECOMICS

FABIO MAGNASCIUTTI

SOMMARIO

LINO GUANCIALE

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it

GIADA COLAGRANDE

I PEGGIORI

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Monica Vagnucci DISTRIBUZIONE Simona Mariani Eleonora De Sica MARKETING Federica Remotti REDAZIONE WEB Cristiana Raffa Serena Ardimento AMMINISTRAZIONE Katia Folco Consuelo Madrigali UFFICIO STAMPA Patrizia Cafiero & Partners in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ info@fabriqueducinema.it APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA Press Up s.r.l. Via La Spezia, 118/C 00055 Ladispoli (RM)

SÄMEN

20 OPERA PRIMA /1 IGIOVANIFIGLIPREDATORIDELLA NOTTE CRESCONO

IN COPERTINA Lino Guanciale

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO ESTATE

Numero

18

OPERA PRIMA

“I FIGLI DELLA NOTTE”

Andrea De Sica e la nascita di una classe dirigente. Spietata

ICONE

FRANCESCO NUTI

Il ragazzo d’oro, ribelle e geniale, della commedia anni ’80

FUTURES

SÄMEN

Dai commercial alla fiction, con una voce già inconfondibile

TOP

P L A Y E R S Come Lino Guanciale i nuovi protagonisti del cinema italiano giocano sul grande e sul piccolo schermo

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LA GUERRA DEI CAFONI

ACCADDE UNA NOTTE

TANO DA MORIRE

EMANUELE ALDROVANDI

AUTORITRATTO DI UNO SCENOGRAFO

MOLOCH

ITALIAN GRAFFITI

PEPSY ROMANOFF

PAOLO BUONVINO

LA NOTTE STELLATA NEL VISORE

VELOCE COME IL VENTO

Finito di stampare nel mese di giugno 2017

2017

04 EDITORIALE FABRIQUE 06 PREMIO ROTONDA /1 08 TAVOLA ROTONDA /2 09 TAVOLA 10 ARTSCOVER STORY 14 ART HOUSE 18 OPERA PRIMA /2 22 FUTURES 24 OPERA SECONDA 26 2NIGHT 28 CHICKENBROCCOLI 30 TEATRO 36 MESTIERI 38 ZONA DOC 42 ATTORI 46 VIDEOCLIP 52 SOUNDTRACK 54 REALTÀ VIRTUALE 56 EFFETTI SPECIALI 58 CIAKLIST 61 MAKING OF 62 PICTURES 66 DIARIO 68 DOVE 69 NETWORKING ALL’ITALIANA

32 ICONE FRANCESCO NUTI MADONNA CHE SILENZIO SENZA NUTI

RAPISCIMI

BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI

GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

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E EDITORIALE

BENTORNATA QUALITÀ di ILARIA RAVARINO @Ravarila_DM

I peggiori di Vincenzo Alfieri, un Kick Ass all’italiana sulla scia di Jeeg per proseguire la fondazione di un genere: lo spaghetti cinecomic – non a caso oggetto, come leggerete fra qualche pagina, di una ghiotta tavola rotonda organizzata dal giornale. I figli della notte di Andrea De Sica: un film inquieto, inquietante e soprannaturale, capace di manipolare i generi muovendosi tra thriller, noir e horror (esistenziale). E ancora La guerra dei cafoni di Davide Barletti e Lorenzo Conte, un film di realismo magico ambientato in una Puglia metafisica in cui i bambini sanno essere teneri e feroci, lucidi e infantili, poetici, epici, irrealisticamente reali. Metafore, fantasmi, graphic movie: su questo nu-

mero di Fabrique ecco brillare, in tutta la sua scintillante novità, il lato più pop della medaglia del cine-rinnovamento italiano. Quel tuffo nel fantastico, quello scarto di

fantasia pre-sentito nel 2015 da Matteo Garrone con Il racconto dei racconti e trasformato in successo l’anno seguente dai geniacci dietro al cult Lo chiamavano Jeeg Robot, sono finalmente un’opzione. Il genere? Si può fare. Mentre i registi scoprono il brivido della realtà, tornando

a sporcarsi le mani e a esplorare il mondo senza il filtro del laptop (vedi alla voce: Cuori puri, A Ciambra) anche gli sceneggiatori, liberi dal giogo della verosimiglianza, tornano a fare il proprio lavoro: che non è solo

scrivere le idee degli altri, ma anche e soprattutto immaginare mondi propri.

Si parla molto, con sterile malumore, di quanto il nostro cinema stenti ancora a far cassa. Però si dice poco di quanto velocemente si stia rinnovando, di come necessariamente stia cambiando pelle, di come stia provando a intercettare i gusti di un pubblico a sua volta in (ri) formazione. Eppure un giorno studieremo questo cinemomento seguendo due tracce: il revival del genere e il grande ritorno del teatro come fucina di nuovi attori. Finita l’epoca del “basta un bel faccino”, chiusa l’era degli scandalosi provini in bikini al Centro Sperimentale, il cinema non cerca più volti, ma corpi per abitare le fantasie di autori che hanno in mente universi interi. Attori come Lino Guanciale, cover story di questo numero, che con candore ci dice: «Io senza fare un reading a settimana proprio non so stare». Una frase che segna un’epoca: bentornata, qualità. Ci eri mancata.

«Si dice poco di quanto velocemente il nostro cinema si stia rinnovando, di come stia provando a intercettare i gusti di un pubblico a sua volta in (ri)formazione».

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foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO makeup RAFFAELE SCHIOPPO@SIMONE BELLI AGENCY using ALIKA COSMETICS hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI giacca, pantaloni e stivaletti FENDI

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15 DICEMBRE 2017

FOCUS | FABRIQUE AWARDS

Il presidente è Willem Dafoe

TANTO CINEMA (digitale) SOTTO LA VIA LATTEA Nicola Allieta,

manager della società di servizi per la distribuzione digitale Under the Milky Way, ci rivela l’attenzione che la nostra cinematografia è in grado di suscitare a livello internazionale e le importanti potenzialità del digitale, ancora da esplorare appieno. di SERENA ARDIMENTO

I

l 15 dicembre è la data designata per la prima edizione dei

Fabrique du Cinéma Awards, il contest attivo già da due anni come riconoscimento alla creatività e alla sperimentazione in ambito cinematografico e che il 2017 apre per la prima volta alle produzioni internazionali. Tra i diversi premi in palio per i vincitori,

uno in particolare risalta per il prestigio e le possibilità che offre: il premio distributivo su piattaforme digitali. A proporre questa gustosa opportunità è una giovane realtà internazionale, che distribuisce migliaia di titoli – recenti

e meno – in oltre cento nazioni, con un portafoglio clienti che copre quattro continenti. Si chiama Under the Milky Way, ed è una società di servizi dedicata alla distribuzione digitale e alla commercializzazione di lungometraggi e programmi audiovisivi, con un’attenzione particolare, ma non esclusiva, alle cinematografie indipendenti. Nata nel 2010 in Francia da un’idea di Pierre Alexandre Labelle, Jérôme Chung e Alexis de Rendinger, la società ha mosso i suoi primi passi «con una partnership con Apple per lo sviluppo internazionale di Itunes Film», come ci racconta Nicola Allieta,

CARTA D’IDENTITÀ | UNDER THE MILKY WAY Under The Milky Way lavora con un gran numero di piattaforme VoD e nel 2011 le è stato assegnato lo status di GLOBAL ITUNES PREFERRED AGGREGATOR. La società è pienamente operativa su più di 100 territori e serve tutti i titolari di diritti (produttori, distributori, agenti di vendita) su 13 uffici regionali in Europa, Nord America e Asia. Le attività principali di The Milky Way consistono nell’aggregazione e distribuzione dei diritti internazionali sulle piattaforme VoD globali, assieme allo sviluppo di soluzioni software per il marketing online e social media e al coordinamento di una rete professionale europea che affronta argomenti relativi alla distribuzione digitale transfrontaliera.

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Nel suo terzo anno di vita, il Premio Fabrique si apre al mondo e prende il nome di Fabrique du Cinéma Awards. Un respiro internazionale che allarga l’orizzonte della rivista del nuovo cinema italiano senza tradirne lo spirito: promuovere

la sperimentazione, l’innovazione e la ricerca formale e contenutistica con un’attenzione particolare – ma non esclusiva – per i giovani autori e le opere prime. Sono cinque le sezioni – Miglior Film, Miglior Cortometraggio,

Miglior Webserie, Miglior Documentario e Migliore Sceneggiatura – che vanno ad aggiungersi alle categorie tradizionali dedicate al cinema italiano: Migliore Opera Prima, Migliore Opera Innovativa e Sperimentale, Attore

Rivelazione, Attrice Rivelazione e Miglior Tema Musicale. A ulteriore conferma della vocazione al superamento dei confini nazionali, anche la composizione della giuria, che nelle passate edizioni si è avvalsa di personalità del calibro di

Alessandro Borghi, Valentina Lodovini, Federico Zampaglione, Ivan Carlei, Piero Messina: a presiedere la commissione che quest’anno avrà il compito di valutare le opere in concorso sarà Willem Dafoe, straordinario interprete di tante

pellicole di culto, da Platoon di Oliver Stone a SpiderMan di Sam Raimi, passando per L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, eXistenZ di David Cronenberg e Antichrist e Nymphomaniac di Lars Von Trier.

CINQUE LE NUOVE SEZIONI DEL PREMIO:

MIGLIOR FILM MIGLIOR CORTOMETRAGGIO MIGLIOR WEBSERIE MIGLIOR DOCUMENTARIO MIGLIORE SCENEGGIATURA www.fabriqueawards.com

VoD manager per Regno Unito, Irlanda, Italia, Australia e Asia, raggiunto telefonicamente dalla sede newyorkese della società «e che in breve tempo ha aperto sedi in diverse capitali mondiali: da Milano a Copenhagen, da Bruxelles a Londra e poi ancora a Vienna, Madrid, Sydney, Tokio, Mosca, Los Angeles e New York. Dal 2011 abbiamo guadagnato il titolo di Preferred Aggregator per iTunes, acquisendo al contempo diversi clienti: da Sony Entertainment Network (che fornisce contenuti cinematografici per i suoi servizi a VoD PlayStation, PSP, Media Go e Bravia TV Connected) a Google Play (Youtube/Android) e Amazon Instant Video fino a Netflix e XboX». Il catalogo offre una ricchissima selezione di contenuti che spaziano in tutti i generi: American Hustle di David O. Russell col suo cast all-star, Riddick con Vin Diesel o Cloud Atlas di Lilly e Lana Wachowski convivono con titoli più d’essai come Verso l’Eden di Costa-Gavras o Allacciate le cinture di Ferzan Özpetek, fino a piccoli gioiellini totalmente indipendenti come Spaghetti story di Ciro De Caro o Sugar Man di Malik Bendjelloul che, dopo aver vinto svariati premi in giro per il mondo, ha conquistato l’Oscar 2013 come miglior documentario. Una discreta selezione di titoli è riservata alla cinematografia nostrana, grazie anche alla partnership con la società Blade Runner, con la quale è stata stretta una collaborazione per l'acquisizione di film da produttori italiani per la distribuzione digitale in Italia e all'estero. I membri della rete Under the Milky Way lavorano in contatto con i distributori di ciascun paese servito, in modo che la diffusione dei titoli e il loro marketing su piattaforme siano adattate alle realtà locali di ciascuno di questi mercati. Partner per l’Italia

sono «molte case di distribuzione indipendenti, da Lucky Red a Eagle Pictures, Videa, I Wonder Picture». «Lavorare con il digitale» continua Allieta «permette una certa libertà perché le barriere all’ingresso sono relativamente più basse rispetto a una distribuzione “tradizionale” diretta alla sala cinematografica, soprattutto

a livello di costi vivi sia per quanto riguarda la creazione di file digitali, sia soprattutto per la parte di P&A, in quanto l’advertising gira direttamente sulle piattaforme stesse». Una convenienza che ha permesso quindi una maggiore circuitazione di opere che altrimenti ben difficilmente riuscirebbero a superare i confini di festival e rassegne. «Uno dei prodotti più facilmente esportabili dall’Italia è sicuramente il documentario, che per la sua natura riesce a raggiungere un’audience internazionale. Come è successo ad esempio con Barolo Boys. Storia di una rivoluzione di Paolo Casalis e Tiziano Gaia, che era partito inizialmente con una distribuzione locale (iTunes e Sony Entertainment Network, esclusivamente per l’Italia), per poi espandersi ai negozi VoD americani (specializzati nella vendita di abbonamenti VoD legati alle compagnie di TV via cavo). Il documentario ha avuto un tale successo che alla fine abbiamo avuto la possibilità di venderlo a Netflix, che lo ha tenuto in programmazione per due anni e mezzo». «L’aspetto positivo di lavorare su piattaforme digitali è che ci sono meno protezioni e, in linea di massima – sebbene alcuni colossi come Netflix richiedano spesso delle esclusive –, è più semplice far circuitare un film da una piattaforma a un’altra, rendendo il prodotto on demand il più ampiamente disponibile».

L’attenzione per la cinematografia di casa nostra e la volontà di esportare un genere popolare e dalle grandi potenzialità di mercato su vasta scala si concretizzano attraverso la collaborazione con i Fabrique International Awards. Come spiega ancora Allieta: «Per quanto riguarda il premio che metteremo a disposizione del vincitore dei Fabrique Awards nella categoria Miglior Documentario, che consiste in un contratto di distribuzione su iTunes, Amazon Instant Video e Google Play, noi richiediamo ai nostri partner una finestra di distribuzione di almeno due anni, con una programmazione che partirà simultaneamente in tutto il mondo sulle tre piattaforme».

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- Tavola rotonda/1 -

- Tavola rotonda/2 -

LE WEBSERIE SONO MORTE?

SPAGHETTI CINECOMICS

LE WEBSERIE NON SONO MORTE. AL CONTRARIO, E MOLTO PIÙ DRASTICAMENTE, NON SONO MAI ESISTITE.

È QUESTO IL FUTURO DEL CINEMA ITALIANO?

Sono state un esperimento dettato dai tempi, dall’economicità dei mezzi e dalla incredibile apertura di una piattaforma (Youtube prima, Vimeo dopo).

«Tecnicamente – dice il commentatore medio dell’Internet italiano – i nostri non possono essere definiti cinecomics. Perché alla base non c’è nessun comic, cioè nessun fumetto. Sono solo dei film di genere».

di GIANMARIA TAMMARO foto BRUNELLA IORIO

di GIANMARIA TAMMARO foto MARTINA MAMMOLA

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ono state un passo importante verso l’imposizione – che ancora manca – della creatività di una generazione intera (i trentenni, sempre loro). E hanno rappresentato un “cornerstone”, come lo chiamano gli americani, nel processo che ha portato all’esplosione del fenomeno “intrattenimento sul web”. Oggi i contenuti sono cambiati, come cambiati sono i creators. Non

siamo più nel 2008. Le webserie, con la loro struttura narrativa, le loro puntate, la loro costruzione, non sono più l’avanguardia della rete. Ogni tanto, c’è qualche nuovo

contenuti e li ha raccolti in nuove macro-categorie (i gameplay, i vlog, le challenge). I creators si sono spostati su altri media: la televisione, il cinema, qualcuno sui social. E la grande occasione di Youtube, quella cioè di sostituirsi a un sistema vecchio e, per la sua linearità, obsoleto, è sfumata. No, le webserie non sono morte: hanno fallito. Ci sono casi fortunati come quello di Valerio Bergesio, che con la sua 140 secondi ha ottenuto numeri eccezionali (in televisione, attenzione, non sulla rete). C’è l’esperimento – fallito e definitivamente archiviato – di RAY, che doveva essere una piattaforma alternativa a Youtube (davvero?), e che doveva fungere da punto di raccolta per talent e contenuti. Il suo problema? La mancanza di una vera e propria linea editoriale, di un sistema produttivo stabile che sostenesse i vari creators. La stessa cosa, molto prima e molto più bruscamente, è successa con le webserie: dopo l’incredibile esplosione iniziale,

«NON È PIÙ YOUTUBE LA PIATTAFORMA DI RIFERIMENTO. LO SONO I SOCIAL».

tentativo, qualche pilot che gira online catturando un certo numero di followers (da segnalare Hooked di Luca Vecchi e Qualcosadelgenere); ma di situazioni fortunate, come sono state – e le cito per importanza, non per altri meriti – Freaks, Lost in Google, The Pills (che, a modo suo, rappresenta una felice eccezione), non ce ne sono più. Ne parlano in questi termini anche i creators e la tavola rotonda che si è tenuta qualche tempo fa all’ex-Dogana, organizzata da Fabrique du Cinéma, ne è una testimonianza. Il modo e i tempi di fruizione si sono ulteriormente abbreviati. Le webserie oggi sono pillole di pochi minuti che non seguono una vera linearità, ma che si limitano a richiamare volti, luoghi comuni e tormentoni. Non è più Youtube la piattaforma di riferimento. Lo sono i social, come Facebook e Instagram. La spinta creativa che diede inizio, anni fa, alla “rivoluzione” digitale dell’intrattenimento si è esaurita. Ha preso il sopravvento l’economicità dei mezzi, che ha abbassato la qualità dei

nessuno – tra i piccoli e grandi finanziatori – si è fatto avanti per dare forma e sostanza a questo fenomeno. Che alla fine è collassato su se stesso.

Oggi i video che hanno una produzione più importante alle spalle si reggono sulla presenza di uno o più sponsor o brand. E se da una parte questo può rappresentare uno sviluppo interessante per quella generazione di cui parlavamo prima, per i creators che hanno lanciato le webserie, dal punto di vista editoriale rappresenta ancora una volta una strada senza uscita: una pubblicità resta una pubblicità e alla creatività, purtroppo, viene lasciato ben poco spazio.

Hooked è una black comedy seriale sul mondo delle tossicodipendenze firmata da Qualcosadelgenere e Luca Vecchi.

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l discorso, capirete da soli, è molto più ampio di così. E limitarsi alla diatriba sull’etichetta giusta da affibbiare a un film o a un filone di film, non è utile a nessuno. Piuttosto è importante provare a fare un passo indietro e a capire se, come tutti si ostinano a ripetere, c’è – oppure no – un “nuovo cinema italiano”. Giorni fa, all’ex-Dogana, con il patrocinio di Fabrique, abbiamo provato ad analizzare proprio questo fenomeno (di nuovo: lo è?) insieme ad alcuni dei suoi protagonisti. C’erano registi (Ivan Silvestrini, Vincenzo Alfieri, Sydney Sibilia) e c’erano attori (Lino Guanciale, la nostra cover - ndr). Siamo partiti da I peggiori e abbiamo provato ad

allargare lo spettro delle nostre considerazioni chiamando in causa anche altri titoli e altri autori.

Innanzitutto: quando è scoppiato questo caso, se – e lo ripeto – di caso possiamo parlare? Secondo qualcuno con Lo chiamavano Jeeg Robot. Secondo qualcun altro, con Smetto quando voglio e secondo qualcun altro ancora con Non essere cattivo. Noterete che solo due di questi tre titoli possono essere associati in qualche modo: i primi due, infatti, hanno segnato – prima ancora di Veloce come il vento di Matteo Rovere, o di Mine di Fabio Resinaro e Fabio Guaglione – il rilancio di una nuova classe di cineasti. E allora, ecco cos’hanno in comune con Non essere cattivo? Sono tutti e tre cinema di genere; tutti e tre, ognuno a modo suo, fa riferimento a una certa periferia e a un certo storytelling.

Tutti e tre si propongono – sia pure con le dovute differenze – come “novità”. Come buon cinema. C’è il racconto del super-uomo,

poco super e molto uomo; c’è il racconto della periferia romana, fetente e inacidita, volgare e polverosa, ma profondamente buona; e ci sono i trentenni, sempre loro, ricercatori ed ex-professori, costretti a darsi allo spaccio per tirare, come si dice, a campare. Insomma: c’è un nuovo cinema italiano? E abbiamo anche noi, finalmente, dei nostri cinecomics? La risposta ad entrambe le domande è unica e piuttosto definitiva: no. Non c’è un nuovo cinema italiano: è sempre lo stesso, solo più ricco e più studiato, con una scrittura migliore, una regia all’avanguardia e attori capaci di concedersi completamente. E resta una promessa, che è anche un po’ una premessa, che riesce a ricongiungere così splendidamente l’Italia e gli Stati Uniti d’America: c’è bisogno di fare gruppo. C’è bisogno, cioè, che questo fenomeno, questo caso, questa esplosione di creatività e di idee, di scrittura e di genere, trovi anche la sua forma. Non una Marvel all’italiana, intendiamoci. Ma una visione che guardi al futuro, che capisca le potenzialità di ogni singola storia; che torni a pensare – e qui la palla passa a critica e a produttori – al pubblico. Perché il cinema è questo che fa: emoziona. E se vuole rimanere in sala deve convincere lo spettatore, irretirlo, appassionarlo. E parte della soluzione, forse, sta qui: sta nel (tornare a) fare genere. Non nel trovare la giusta etichetta.

«PERCHÉ IL CINEMA È QUESTO CHE FA: EMOZIONA».

Ivan Silvestrini, Vincenzo Alfieri, Sydney Sibilia si sono confrontati sul nuovo cinema italiano nell’evento patrocinato da Fabrique il 12 maggio all’Ex Dogana.

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- Arts -

Il Museo della Satira di Forte dei Marmi gli ha appena dedicato una mostra dal titolo eloquente: “CONDONIAMO IL FUTURO”. Quando ci accoglie per l’intervista, IN UNO STUDIO A TRASTEVERE, è intento a lavorare al computer accanto a una vecchia chitarra acustica nera, mentre di nella stanza si diffondono LE NOTE MARCO PACELLA DI UN BRANO DEI TALKING HEADS.

Santi subito www.fabiomagnasciutti.com

Fabio Magnasciutti, illustratore e vignettista di lunga esperienza – in testate come «l’Unità», «Il fatto quotidiano» e «Left» – affianca il lavoro artistico all’insegnamento, sia allo IED di Roma che all’Officina B5 (lo studio di cui sopra), la scuola di illustrazione che ha fondato anni fa insieme a Lorenzo Terranera. Iniziamo con la tua formazione. C’è una persona o un evento che ti hanno spinto verso l’illustrazione? In famiglia sicuramente no, ho una famiglia estranea a qualsiasi forma artistica. Disegnare è però un impulso che ho sempre avuto, prendendo artisti e illustratori come punti di riferimento. Da piccolo

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erano autori di fumetti, che erano le cose che consumavo di più e che mi hanno spinto all’imitazione vera e propria. Si parte sempre così, non c’è niente di male, anzi lo consiglio a tutti gli studenti. Sono autodidatta fino a un certo punto, trent’anni fa circa ho frequentato l’Istituto Europeo di Design. Era una scelta mia, non mi avrebbero mai appoggiato. Sono rimasto sotto le armi per potermi pagare la scuola. Da vignettista sei uno che utilizza quotidianamente i social. A livello tecnico prediligi il digitale? No, sicuramente l’analogico, però per le vignette uso il digitale perché le faccio in dieci minuti e me ne disinnamoro

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Il Museo della Satira di Forte dei Marmi accoglie l’opera originale e visionaria di Fabio Magnasciutti.

Nella pagina precedente alcuni ritratti della serie Laical: Frank Zappa, Lou Reed, Martin Luther King e Anna Magnani.

immediatamente dopo, quindi le fermo subito perché è inutile che ci ripensi. La mia tecnica preferita è l’acrilico. Il software che utilizzo permette una vaga somiglianza con l’acrilico, lo uso in modo pittorico ma non è la stessa cosa: il tempo per fare la vignetta è quanto ci metterei per preparare tavolozza, tubetti… Nel catalogo della recente mostra al Museo della Satira di Forte dei Marmi (Condoniamo il futuro. La dolce amara verità di Fabio Magnasciutti) sia Livio Sossi che Sergio Staino notano nel tuo lavoro un capovolgimento dei punti di vista. In particolare Staino scrive che «le cosine che lui disegna vogliono dirci tante cose ma mai quelle che tu ti aspetti». È un punto che mi interessa moltissimo, perché è un cardine di molte avanguardie e del Surrealismo in particolare. Il rovesciamento crea un corto circuito: se non proprio stupore, sicuramente curiosità. Non amo chiudere i discorsi, i concetti, per cui anche il fatto che rimanga tutto un po’ sospeso e aperto è una cosa che mi piace particolarmente. Come vignettista non sopporto gli autori che emettono sentenze, preferisco suscitare qualche curiosità. Mi piacciono più le domande delle risposte, insomma. A livello tematico, nel tuo lavoro rientrano sia questioni universali – amore, morte, evoluzione, senso della vita – che attuali. Si passa quindi tranquillamente dal generale al particolare. Sì, i temi universali sono i miei preferiti, quelli di attualità se posso li evito. Ovviamente quando ho lavorato per «l’Unità», «Il fatto quotidiano» o «Left», ero tenuto in qualche modo a essere informato e a dare anche una mia visione sull’attualità. Ma i grandi concetti non scadono, sono buoni oggi, domani e dopodomani. Parliamo di Laical: che cos’è? Laical è un progetto iniziato un po’ per scherzo quando collaboravo con «l’Unità». Siccome a livello estetico e spirituale mi piace l’approccio al santino, alla “santità”, pur essendo assolutamente agnostico, ho cominciato a buttare giù dei ritratti di personaggi che per me sono stati importanti, dei “santi laici” che hanno avuto un’influenza nella mia vita, anche negativamente. I protagonisti sono quasi tutti artisti, musicisti, attori. Il giorno in cui dedico ogni ritratto, con la relativa parte testuale in versi liberi, è quello della loro nascita. Ho cominciato a raccoglierne un po’ e chiuderò quando avrò completato i 365 giorni dell’anno. Penso che poi ne farò un libro, fra la poesia e l’illustrazione.

Da diversi anni affianchi al lavoro di illustratore e vignettista quello di insegnante. Quanto insegnare influenza il tuo modo di pensare le immagini? Subito dopo il diploma sono stato chiamato a insegnare da uno dei miei docenti in una scuola che lui stava creando parallelamente allo IED. Appena finito, quindi, sono passato dall’altra parte del banco. Inizialmente era un gioco, anche perché non c’era nessuno scarto d’età tra me e i ragazzi. Ormai sono venticinque anni che lo faccio. L’insegnamento influenza moltissimo il mio lavoro, perché è un arricchimento continuo non solo guardare quello che fanno gli allievi, ma anche percepire le loro risposte al tuo lavoro. Un altro aspetto del tuo linguaggio è quello musicale, visto che suoni da tanti anni. Che rapporto c’è fra la musica che fai, che ascolti, e ciò che disegni? Vanno di pari passo. Durante le lezioni si ascolta sempre musica. Da ascoltatore ho un range molto limitato, vengo dal post-punk e il mio lasso temporale è molto stretto, cinque o sei anni, poi per me potevano anche smettere tutti di suonare [ride]… Come tutti cerco anche ispirazione nella musica, a volte inconsciamente, abbinando un certo tipo di musica a un determinato momento. A livello emotivo, poi, ascolto quasi sempre roba molto malinconica, il mio gruppo di riferimento sono i Joy Division, per cui proprio nichilismo allo stato puro, amore e morte, punto. Ho poi un gruppo musicale da più di vent’anni: siamo partiti suonando blues del Delta e, attraverso uno dei miei gruppi preferiti, i Pogues, oggi suoniamo folk rock. Tornando al disegno e alla pittura, quali sono oggi gli autori che ti ispirano, sia storici che contemporanei? Per quanto riguarda la satira quello che tengo più in palmo di mano è Mauro Biani. Tra i contemporanei, anche se di una certa età, ho guardato molto a Massimo Bucchi: il suo approccio all’associazione fra testo e immagine mi ha sempre affascinato moltissimo, proprio per il fatto che spesso sono totalmente incongruenti. Il mio illustratore preferito invece è sempre stato Ferenc Pinter, certe sue soluzioni mi danno la pelle d’oca per la facilità con cui trovava la sintesi nelle luci e nelle ombre. Infine, la prima volta che ho visto L’impero delle luci di Magritte, quello che mi ha folgorato è stata la luce attraverso gli alberi: Magritte non ha dipinto le foglie, ha dipinto il cielo. Da allora ogni volta guardo le cose in quest’ottica: è il vuoto che crea il pieno, non viceversa, è il vuoto che descrive il perimetro.

«NON SOPPORTO GLI AUTORI CHE EMETTONO SENTENZE, PREFERISCO SUSCITARE QUALCHE CURIOSITÀ». 12


- Cover story -

LINO GUANCIALE

TO LINO WITH LOVE Ha preso botte nei vicoli di Napoli insieme a Vincenzo Alfieri, è stato diretto da Woody Allen e ha prestato il volto a tantissime fiction nostrane. Lino Guanciale si racconta tra grande schermo, televisione e palcoscenico. di CHIARA CARNÀ foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO makeup RAFFAELE SCHIOPPO@SIMONE BELLI AGENCY using ALIKA COSMETICS hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI

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on si risparmia, ripercorrendo le tappe che ne hanno fatto uno dei volti più noti al pubblico televisivo e ora anche a quello cinematografico. Lino Guanciale ricorda che fin da adolescente, in quel di Avezzano, era un grande cinefilo: «I primi film che ricordo di aver visto sono La carica dei 101 e La voce della luna di Fellini. Ero il

più giovane abbonato alle sale d’essai della mia città. Vale a dire, l’unico sotto i 50 anni!».

Ben presto arriva il richiamo del teatro: «Ma tendevo a stare alla larga dal palcoscenico, perché intuivo che calcare le scene avrebbe potuto sconvolgermi la vita. E fu esattamente quello che accadde quando, alle superiori, frequentai un laboratorio teatrale. Ero convinto che avrei fatto il medico, avevo anche superato il test d’ingresso ma, il giorno prima di iscrivermi alla facoltà, ho detto ai miei che avevo cambiato idea». È stato allora che hai iniziato a conoscere il teatro da vicino? Sì, all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma.

Ho capito che la casa dell’attore è il teatro, è lì che ci si mette a nudo attraverso il contatto

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diretto con il pubblico. Si corrono più rischi, bisogna percorrere strade più difficili, e per il passaggio al cinema e alla TV è necessario imparare a calibrare il rapporto con la macchina da presa. Ancora oggi sono un teatro-dipendente: se non faccio almeno un reading a settimana, sto male. Essere diretto da Gigi Proietti in Romeo e Giulietta, quando ero completamente acerbo, è stato il modo migliore per cominciare a rompere il ghiaccio. Lavorare poi con Luca Ronconi e Claudio Longhi mi ha aiutato a capire come costruire un rapporto tra il teatro e lo spettatore. Entrambi puntavano molto sulla formazione del pubblico con laboratori e lezioni nelle scuole. E non posso non ricordare l’incontro con Edoardo Sanguineti, uno dei miei maestri in assoluto. Hai recitato anche nel Fontamara di Michele Placido. Con Michele Placido ci si diverte da morire, è un vero vulcano. E gli devo moltissimo perché, dopo aver interpretato il suo spettacolo, ho avuto l’occasione di prendere parte al suo film Vallanzasca e di incontrare attori visti, prima d’allora, solo sullo schermo. Sul set è nata una bellissima amicizia con Kim Rossi Stuart: riesce a creare sinergia con chi ha attorno. Anche altri

giacca e pantaloni FENDI

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total look FAY

total look FENDI

«LA SFIDA MAGGIORE È STATA CONIUGARE LA COMICITÀ CON L’ACTION».

personaggi noti sono umili come lui: Toni Servillo, Andrea Molaioli… Mi ha sorpreso positivamente accorgermi che, nel nostro ambiente, si tende più alla solidarietà che alla competizione. Dopotutto è un periodo critico per tutti: diciamo che, con buon senso, seguiamo la regola del “damose una mano”. Cosa ti è rimasto, invece, delle esperienze cinematografiche? Grazie a To Rome with Love ho osservato come gli attori americani si avvicinano al set. Sono straordinariamente umili e non me l’aspettavo. Guardare un maestro come Woody Allen all’opera è stato impagabile: ha un’impostazione teatrale, lascia liberi gli attori e lavora tanto di montaggio. Peccato che ho avuto l’impressione che avesse più voglia di fare il turista per Roma e gustarsi una cacio e pepe, che puntare alla riuscita del film. Tutto il contrario per Meraviglioso Boccaccio. I fratelli Taviani erano molto presi dal progetto e ascoltarli battibeccarsi, sempre in maniera fruttuosa, è stato uno spasso. Il film aveva ottimi presupposti, ma una certa tendenza all’autoreferenzialità forse ha penalizzato il risultato. Arriviamo, infine, a I peggiori. Il copione di Vincenzo era travolgente, ha strameritato la candidatura ai Nastri d’Argento. Il buon esito del film è un ottimo segnale per il cinema italiano, indice di una

grandissima vitalità e di un momento favorevole per tornare a produrre lavori di genere. Eravamo maestri in questo, e dovrebbero tornare a costituire l’ossatura del nostro sistema. I produttori fanno bene a credere nel ritorno del genere: è lì il futuro. Girare tutto in sole cinque settimane non è stata una passeggiata. Mi sono cimentato con un registro che non avevo mai toccato né in TV, né al cinema, solo in teatro. In televisione, però, la mia funzione era far ridere facendo l’antipatico. Ne I peggiori si fa leva su tutt’altro. La sfida maggiore è stata godersi il personaggio senza perdere di vista l’obiettivo di base: coniugare la comicità con l’action. È una parodia del genere superhero in cui la macchina ironica funziona con grande coerenza e credibilità. Il film che mi ha aiutato di più per prepararmi è stato I soliti ignoti che, parodiando i canoni del noir e del crime dell’epoca, giocava allo stesso modo la carta dell’ironia. E adesso, quali nuovi impegni ti aspettano? Sono nel cast di La casa di famiglia con Libero de Rienzo, Matilde Gioli e Nicoletta Romanoff. La regia è di Augusto Fornari, attore alla sua prima esperienza dietro la cinepresa. E poi, arriveranno i sequel di varie fiction: L’allieva, La porta rossa. A dicembre sarò al Teatro Argentina di Roma con Ragazzi di vita di Pasolini. Una mole di lavoro che mi preoccupa ma, come sempre, al tempo stesso mi stimola.

Lino Guanciale è nel cast del film in lavorazione La casa di famiglia.

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- Art House -

L

a sua visione, svincolata dalla logica industriale, abbraccia mondi altri e dimensioni invisibili, frutto del suo avvicinamento alla meditazione e alle discipline orientali, innestandovi uno stile ondivago che sembra occhieggiare più alla videoarte che al cinema narrativo. Non fa eccezione Padre, presen-

tato in anteprima al Lucca Film Festival, che nasce dal vissuto della regista sublimando in un lutto fictional la recente perdita del genitore. «Fino a Padre ho sempre soste-

IL MIO

FILM DAI

SOGNI di VALENTINA D’AMICO

GIADA COLAGRANDE

nuto che i miei film non fossero autobiografici» ci confessa Giada Colagrande «anche se sono infarciti di dettagli molto personali. Cinema intimo, ma non autobiografico. Stavolta, però, ho sentito il bisogno di usare l’arte per elaborare la perdita di mio padre, morto pochi mesi prima che iniziassi a scrivere il film». Classe '75, il corpo minuto avvolto in una tunica che ricorda nella foggia quegli stessi mondi lontani incrociati nella sua ricerca spirituale, Giada Colagrande è schietta e appassionata, ma i suoi occhi, profondi e neri come i lunghi capelli, suggeriscono un sottofondo esotico e misterioso. Sarà il calore tutto italiano unito al fascino enigmatico ad aver fatto breccia nel cuore di Willem Dafoe, che Giada ha sposato nel 2005, e che è presente anche in Padre. «Il film è nato su suggerimento della mia produttrice, Gaia Furrer. Eravamo a una proiezione del mio primo film, Aprimi il cuore, girato quindici anni fa a bassissimo costo con una troupe di amici e senza una vera produzione. Gaia mi ha spiegato che secondo lei era importante fare film più strutturati, per prendere confidenza con un sistema più professionale, ma al tempo stesso ha aggiunto che se non avessi fatto un’altra opera in totale libertà come Aprimi il cuore, certi sentimenti sarebbero rimasti inespressi. Questa cosa mi ha colpito e dopo quella conversazione ho iniziato a fare dei sogni in cui vedevo frammenti di quello che poi sarebbe diventato il film. Ho continuato ad avere queste visioni nel sonno o durante la meditazione, così ho iniziato a trascriverle e quando ho raccolto un bel po’ di note ho capito che avevo in mano il film». A interpretare i genitori di Giulia, alter ego di Giada in Padre, è una coppia che farebbe la gioia di ogni artista concettuale. Il padre, che

po’ presa. Mi ha chiesto ‘Ma tu mi vedi davvero così?’» ricorda la regista. «In realtà tutto questo l’ho visto in sogno. Ho sognato una videochiamata con Marina in cui le dicevo mamma e la rimproveravo perché non era venuta al funerale di mio padre». L’elaborazione del lutto, in Padre, passa attraverso un percorso iniziatico che permette a Giulia di entrare progressivamente in contatto con un’altra dimensione. Il film apre squarci metafisici che dirigono la riflessione su temi che fanno parte del percorso spirituale di Giada. «Ho scritto il film totalmente di getto, mai come in questo caso mi sono sentita guidata. Non è qualcosa che ho scelto di fare a tavolino, ma in fase di montaggio mi sono posta delle domande. Una cosa mi era chiara fin dal principio: volevo che le diverse dimensioni apparissero visivamente sullo stesso piano. È la protagonista che all’inizio non vede e poi vede. L’invisibile c’è sempre e per sempre, siamo noi che dobbiamo imparare a connetterci con esso. Cerco di vivere la morte delle persone care come un’occasione di risveglio. Franco

Battiato è stato il primo ad avviarmi alla meditazione, lui è un sincretista, si abbevera a tutte le fonti e mi ha insegnato che ogni cultura possiede una tradizione esoterica comune legata alla morte. È ovvio che a livello personale è dif-

ficile farsi una ragione del dolore, ma cogliere queste connessioni mi sembra lo scopo più importante della vita». Oltre ad aiutarla a superare un dramma personale, Padre ha permesso a Giada Colagrande di tornare a lavorare nella modalità che le permette di esprimersi al meglio: «Per il mio secondo film, Before It Had A Name, ho avuto un budget che per me era stratosferico, un milione di dollari. Il primo film lo avevo fatto a casa mia, a Roma, con sette amici e dieci milioni di lire. Il secondo lo abbiamo girato a New York con una troupe di trenta persone... per me è stato un incubo. Non ho avuto il final cut, il film è stato rimontato e i produttori hanno perfino cambiato il titolo. Alla fine non era più il mio film». Con l’esperienza, Giada ha capito cosa le è necessario per lavorare bene e cosa le risulta, invece, dannoso. «Non mi identifico con il regista che siede sulla sedia e dice agli altri cosa fare. Mi piace la collaborazione, ascolto i consigli. Sul set siamo tutti alla pari. Ci sono artisti straordinari che riescono a fare film d’autore all’interno di sistemi mastodontici come Hollywood. Io sposo la filosofia di Marina Abramovich, il suo mantra è Less is more. Con i soldi perdi la libertà. Meno mezzi significa più lavoro, ma per me l’ingrediente fondamentale sul set è l’intimità. Se manca, si fa fatica. Io sono fortunata a essere circondata da persone speciali, a partire da mio marito. Molti si aspettano che Willem sia una star e non si sporchi le mani. Invece se c’è da montare una mensola, prende il cacciavite e lo fa. Viene dal teatro d’avanguardia, trentacinque anni fa ha fondato la sua compagnia dove faceva di tutto. Oggi so di cosa ho bisogno, la prima cosa sono le persone di cui ti circondi. Quando c’è la collaborazione, il resto passa in secondo piano».

«HO SCRITTO IL FILM TOTALMENTE DI GETTO, MAI COME IN QUESTO CASO MI SONO SENTITA GUIDATA ».

compare in forma fantasmatica, ha il volto di Franco Battiato, mentre la madre, presente solo in un paio di Skype call, è la performer Marina Abramovich: «Non è stata una

scelta razionale. Quando ho visto per la prima volta il padre fantasma in sogno era Franco Battiato. È un amico, lo considero il mio maestro, soprattutto per quanto riguarda il mio percorso spirituale, così l’ho chiamato raccontandogli che l’avevo sognato. Lui mi ha incitato a fare il film e si è reso disponibile per il ruolo. Tutto ciò che vedete riguarda il vero Battiato. Sua è l’ossessione per i dervisci, i quadri che compaiono nel film li ha dipinti lui. Questi temi sono suoi prima che miei». Per un Battiato padre defunto, ma sempre presente, Marina Abramovich interpreta una madre assente, lontana. «Mia mamma se l’è un

Padre è il nuovo film di Giada Colagrande ispirato a un evento autobiografico, che è stato presentato in anteprima al Lucca Film Festival.

Ogni nuovo progetto di Giada Colagrande ha il sapore dell’ignoto. Giunta al sesto lungometraggio, il quarto di finzione, la regista abruzzese conserva quello spirito pionieristico da neofita del medium cinematografico che la guida nel realizzare solo opere che sente necessarie.

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- Opera prima/1 -

Protagonisti del film, i giovanissimi attori semiesordienti Vincenzo Crea e Ludovico Succio, accanto al veterano dei fratelli Dardenne Fabrizio Rongione.

Come nasce l’assai suggestiva idea alla base del film? In passato diversi miei amici hanno frequentato dei collegi e così ho scoperto che esistevano numerose scuole di questo tipo in luoghi isolati, dove vanno figli di ricchi in qualche modo allo sbando. Ci sono

adolescenti che già a sedici anni fanno esperienze borderline tra la vita e la morte, pur non essendo figli della povertà e dell’emarginazione. Mi intrigava l’idea di un collegio

I FIGLI DELLA NOTTE

GIOVANI PREDATORI CRESCONO Andrea De Sica (nomen omen) esordisce con un intrigante “racconto di deformazione”, fra thriller e suggestioni paranormali. di LUCA OTTOCENTO foto FEDERICO VAGLIATI

F

iglio del compositore Manuel De Sica e della produttrice Tilde Corsi, Andrea De Sica si è nutrito di settima arte fin da quando è nato. «Non ho un ricordo della mia vita in cui non sia stato presente il cinema, a casa non si parlava d’altro», ci ha comprensibilmente detto. Ma, con un nonno come Vittorio

De Sica, ci si sarebbe aspettati che i principali punti di riferimento cinematografici del trentacinquenne regista romano fossero quelli della gloriosa tradizione italiana.

Invece, quasi paradossalmente, Andrea si è formato soprattutto con il cinema statunitense dei grandi autori degli ultimi quarant’anni, dalla New Hollywood in poi. E in effetti, l’influenza del cinema americano appare evidente nella messa in scena de I figli della notte, stimolante esordio ambientato in un collegio di lusso isolato tra le montagne innevate in cui si insegna a ragazzi disturbati, provenienti da famiglie molto ricche, a divenire la futura, spietata classe dirigente del nostro paese.

I figli della notte è l’opera dal sapore dark che segna l’esordio al lungometraggio di Andrea De Sica, dopo documentari, corti e serie TV.

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che prepara a essere spregiudicati e privi di scrupoli per risultare vincenti. Al contrario di quanto si vede spesso in televisione, però, non mi interessava proporre una visione consolatoria ed edulcorata dei ragazzi, come degli angeli o delle persone che subiscono un destino avverso. Volevo invece metterne in risalto l’enorme energia che già durante l’adolescenza si palesa con forza, in senso anche predatorio. L’intenzione era di fare un film che raccontasse qualcosa di molto diverso da quello cui siamo abituati in Italia ed è anche per questo che mi sono affidato a giovani interpreti sostanzialmente sconosciuti. A proposito degli attori, i semiesordienti Vincenzo Crea e Ludovico Succio offrono delle prove piuttosto intense. Come li hai scovati? Trovare i protagonisti giusti era fondamentale, poiché

il film si fonda sulla capacità dei due interpreti principali di legare e differenziarsi, senza ricorrere a uno scontato registro melodrammatico. Devo davvero ringraziare i miei produttori che,

rale, della messa in scena? Per me era molto importante la costruzione dello spazio. Il rigore geometrico con cui è ripreso il collegio voleva rappresentare il senso di ordine e reclusione proprio di quell’ambiente, trasmettendo però anche una sensazione di inquietudine che desse l’idea di un mondo in grado di precipitare da un momento all’altro. Le scene ambientate nel club notturno seguono invece un regime stilistico completamente differente, con la macchina da presa in continuo movimento che rompe la composizione geometrica lasciando spazio alle emozioni dei due protagonisti. Di solito nei film in cui si raccontano i ragazzi ricchi c’è sempre una freddezza che in qualche modo li giudica, li rende respingenti e antipatici. In questo contesto, sia per quanto riguarda il collegio che il club, a me invece interessava restituire degli ambienti che avessero un loro calore, anche dal punto di vista cromatico e fotografico. Per alcuni aspetti il tuo lavoro mi ha ricordato il rigore e l’oggettività di Kubrick, il cui Shining viene citato a più riprese, e la scelta di lasciare la violenza fuori campo di Haneke. Quali sono stati gli autori più importanti per lo sviluppo della tua sensibilità registica? Hai citato due cineasti che sono per me degli assoluti punti di riferimento. Kubrick è il primo regista ad avermi fatto capire come la macchina da presa potesse essere uno dei protagonisti di un film. In ogni scena di una sua opera c’è qualcosa che ti porta dentro una dimensione che riconosci immediatamente come kubrickiana. Lui è esponente di un cinema che non spiega mai tutto fino in fondo, alimentando un’aura di mistero che alla resa dei conti rappresenta il vero fascino della settima arte. Di questa “famiglia” fa senz’altro parte anche Haneke, il cui Il nastro bianco mi ha ispirato proprio per la volontà di non mostrare mai la violenza. Poi ci sono Coppola, Spielberg, Scorsese e Lynch. Per quanto riguarda i registi della nuova generazione, invece, ammiro Paul Thomas Anderson, di cui adoro Boogie Nights e Il petroliere. Sebbene sia cresciuto nel mito del cinema statu-

«PER ME ERA MOLTO IMPORTANTE LA COSTRUZIONE DELLO SPAZIO».

oltre a lasciarmi sempre la massima libertà, mi hanno offerto la possibilità di fare un casting approfondito. In pratica, ho portato avanti una sorta di workshop in cui ho valutato la capacità di molti giovanissimi attori di entrare non solo nei personaggi, ma anche in un contesto di lavoro che implicava condizioni piuttosto impegnative, con lunghe riprese notturne a dieci gradi sotto zero. All’epoca dello shooting, Vincenzo e Ludovico avevano rispettivamente 16 e 19 anni e sono stati sempre disciplinati e sul pezzo, dimostrando una maturità di gran lunga superiore alla loro età. I figli della notte è un film d’atmosfera in grado di immergere fin da subito lo spettatore in un mondo affascinante e inquietante allo stesso tempo. Come hai lavorato sul piano della regia e, più in gene-

nitense, devo dire però che ultimamente sento la necessità di tornare a respirare il nostro grande cinema italiano. Sono un fan di Alberto Sordi e in questo periodo sto riscoprendo tutti i suoi film, oltre a riavvicinarmi, con uno sguardo differente, al cinema di mio nonno Vittorio.

La vicenda è ambientata in un collegio di lusso in cui giovani ricchi imparano l’arte predatoria per ottenere il successo.

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- Opera prima/2 -

Lino Guanciale e Vincenzo Alfieri sono i protagonisti de I peggiori, opera prima dello stesso Alfieri prodotta dalla Warner con Fulvio e Federica Lucisano.

con Fulvio e Federica Lucisano, il film racconta la storia di due fratelli trentenni (lo stesso Alfieri e Lino Guanciale) trasferitisi a Napoli da Roma, dopo che la madre ha provocato un crack finanziario e si è data latitante, e costretti a sbarcare il lunario per mantenere l’affidamento della sorellina tredicenne. Di fronte alla difficoltà di farsi pagare il lavoro onesto, tentano un furto che finisce per aprire loro un’inattesa fonte di guadagno: soprannominati i “demolitori”, vengono ingaggiati per riparare torti, smascherando ladri e truffatori attraverso la messa in rete delle loro gesta. Sono molti i rimandi e le suggestioni che legano questo film a quelli citati precedentemente. A livello tematico c’è la meritoria voglia di raccontare una gene-

razione in seria difficoltà per assicurarsi un tenore di vita simile a quello di chi li ha preceduti. C’è poi il fondamentale lavoro sul genere, con

I PEGGIORI

I FOUGHT THE LAW

Il racconto rocambolesco di due eroi maldestri, animati dalla voglia di cambiare le regole del gioco, diventa una riflessione morale sulla crisi dei valori che attraversa i trentenni di oggi, senza rinunciare a una buona dose di puro divertimento. di GIACOMO LAMBORIZIO

I

n questi anni in cui riuscire a intercettare un pubblico di massa appare sempre più duro per il nostro cinema, il successo di

cassetta di ogni film italiano è stato sempre accolto con attenzione raddoppiata. La necessità di analizzare i

motivi per cui un film attira una fetta vasta di pubblico è vitale. Questo discorso è diventato ancora più importante da analizzare di fronte a opere che hanno saputo convincere una platea giovane – la più difficile e preziosa –, ottenere un generale plauso della critica, trovare ottimi riscontri al botteghino, toccare corde tutto sommato inedite in termi-

un’attenzione alle suggestioni che vengono da oltreoceano: i cinecomics sono forse il genere mainstream di riferimento mondiale in questo momento e i protagonisti de I peggiori sono “eroi” per niente “super”. Imperfetti e divertenti, inadatti al contesto, costantemente escoriati e tumefatti dalle loro stesse imprese. L’eroe mascherato senza superpoteri è un topos che scende dalle guglie di Gotham City e si è già sciolto nel comico in una graphic novel come Kick-Ass che è certamente uno dei primi punti di riferimento che vengono in mente di fronte a I peggiori. Una suggestione confermata dallo stesso autore: «Questo film è stata una delle prime idee che ho avuto, già al liceo. Ho sempre amato Robin Hood e una

presa sempre in movimento; grandissima cura nella costruzione delle scene d’azione, soprattutto quelle di lotta insieme impattanti e realistiche; una Napoli algida, lontana dagli stereotipi, fitta di grattacieli; un montaggio frenetico e frammentato; un’ottima direzione degli attori, anche con figure che si portavano dietro una storia di interpretazioni sempre uguali (Enzo Salvi, Francesco Paolantoni). I peggiori è un film italiano perfettamente in sintonia con la contemporaneità. Questo non significa che il film sia al riparo da oscurità – la sceneggiatura sceglie di passare leggera pur smuovendo tematiche spinose come la voglia di “onestà” che attraversa la nostra società e la politica, o le dinamiche che governano la popolarità sul web –, ma non può che essere un’altra buona notizia. Gli eroi del film sentono di avere valori diversi da quelli dominanti nella società che li circonda e cercano di imporre i propri: «Io ho trent’anni, tutti quelli della

mia età si sentono un po’ compressi, schiacciati dagli eventi. Ho voluto sdrammatizzare, non

intendevo fare un’opera politica, ma allo stesso tempo raccontare questa sensazione. Sebbene molteplici siano i contenuti del film, al centro c’è soprattutto la famiglia: il potere dei protagonisti deriva dalle responsabilità che hanno nei confronti di quest’ultima, dalla macchia che si portano dietro e dalla forza del loro rapporto. Sono un branco che si aiuta a vicenda.» La risposta del botteghino è l’ultima chiave di lettura per capire se questa nuova via è stata ulteriormente allargata. Vincenzo Alfieri ci racconta le sue sensazioni, a un mese dall’uscita nelle sale è tempo di un primo bilancio: «Il film non ha fatto un grande incasso, ma chi lo ha visto è stato contento. Sono rimasto sbalordito dai messaggi ricevuti sui social da parte del pubblico. Purtroppo siamo usciti in un periodo in cui tutti i film stanno soffrendo di un restringimento di pubblico, la gente mediamente sta andando meno in sala. Alla fine il risultato è buono, se rapportato al fatto che si tratta di un’opera prima, pubblicizzata solo su internet, senza un cast di grandissimi nomi. Sono conten-

«SONO RIMASTO SBALORDITO DAI MESSAGGI RICEVUTI SUI SOCIAL DA PARTE DEL PUBBLICO».

cosa che non mi piaceva dei film americani era come questi eroi rimanessero perfetti anche dopo aver preso un sacco di botte. Amavo Batman perché era umano,

senza superpoteri. L’idea di base era raccontare una storia di persone normali che si improvvisano giustizieri. Crescendo e sperimentando i problemi dei trentenni, come le difficoltà a saldare l’affitto, sono arrivato a immaginarmi eroi a pagamento, dei Robin Hood diventati poveri e che hanno bisogno di quei soldi per vivere». Il principale punto di forza del film è la messa in scena. Vincenzo Alfieri mostra una maturità registica sorprendente (certificata anche dalla nomination come Miglior Regista Esordiente ai Nastri d’Argento), alzando con coraggio il ritmo della narrazione: una macchina da

to che chi l’ha visto, un pubblico di tutte le età, l’abbia apprezzato. Penso che il film necessiti di tempo: tra le arene estive, i passaggi televisivi, l’home video, secondo me avrà una lunga vita».

ni di genere e linguaggio cinematografico. Lasciare che titoli come Smetto quando voglio, Veloce come il vento, Lo chiamavano Jeeg Robot restino casi isolati sarebbe un colossale passo falso per tutta l’industria cinematografica nazionale. Quello che oggi è necessario

e vitale trovare è una nuova via italiana al mainstream di qualità.

I peggiori, opera prima di Vincenzo Alfieri, ha il vantaggio relativo di arrivare dopo queste opere apripista e insieme la responsabilità di tenere aperta questa via ancora stretta e tortuosa. Prodotto da Warner Il film restituisce un’immagine inedita della città di Napoli, insieme algida e caotica, raccontata attraverso scene d’azione frenetiche e realistiche.

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- Futures -

SÄMEN

Sentire. Comunicare.

Vedere i vostri lavori pubblicitari dà un’impressione di grande continuità stilistica, un’impronta molto forte, nonostante la grande varietà di soggetti e brand raccontati. Come lavorate con le agenzie e i brand, quanto mettete di vostro rispetto agli script degli spot e alle richieste dei clienti? Abbiamo sempre avuto la necessità di comunicare attraverso le sensazioni, ricreando atmosfere che siano in grado di coinvolgere l’osservatore e che soprattutto rispecchino la nostra sensibilità artistica come esseri umani. Nel tempo abbiamo capito che le nostre personalità, i nostri diversi modi di rapportarci alla realtà

hanno contribuito a forgiare una cifra stilistica da cui difficilmente riusciamo a staccarci, uno sguardo sottile tra la realtà e la fantasia, tra l’introspezione e l’intensità della vita, in una continua ricerca del bello. Questi sono gli

elementi fondamentali che ci permettono di valutare se vale la pena iniziare una collaborazione con un’agenzia e un brand, percependo sin da subito se ci sia o meno la possibilità di accostarvi la nostra identità, sfruttando i limiti della creatività come delle occasioni per apportare la nostra visione.

Winding Refn nel cinema contemporaneo. Phaos è l’unico cortometraggio di fiction che compare nel vostro portfolio. Qual è la sua storia produttiva? Che tipo di distribuzione e circuitazione ha avuto il corto? Phaos è lo specchio di noi stessi, rappresenta un periodo di transizione sia personale che professionale in cui ci siamo sentiti in mancanza di stimoli e come in attesa di una risposta divina.

Il corto è come un punto in cui passano infinite rette e non un segmento ben preciso, enuncia la tematica della trascendenza, della folgorazione, ma non c’è né un preambolo né una conclusione. È un tema aperto che in futuro potremmo approfondire in un lungometraggio, ma per il momento lo consideriamo importante come atto di sublimazione, una scelta di agire e creare qualcosa di nostro e che ci rappresenti. Probabilmente questa ingenuità nella sceneggiatura ha impedito poi la diffusione, infatti non ha avuto la visibilità in cui speravamo nonostante sia stato iscritto a vari festival. Per quanto riguarda l’aspetto produttivo, abbiamo collaborato con una casa di produzione pubblicitaria che ci

Alla scoperta del giovane duo registico milanese richiestissimo sul mercato pubblicitario internazionale. Dal commercial alla fiction, con una voce già inconfondibile. di GIACOMO LAMBORIZIO Sämen, il marchio fondato da un duo di registi milanesi, ha già conquistato le vette del mercato pubblicitario internazionale.

«SIAMO SEMPRE ALLA RICERCA DELL’AUTENTICO».

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amaha e Nike, Vodafone e Vogue, Lamborghini, Greenpeace e Schoffel. Brand di riconoscibilità globale, molto diversi ma accomunati dalla cura formale di molte campagne pubblicitarie, che spesso non hanno nulla da invidiare al grande cinema. Sono anche i brand che compaiono nel portfolio di Sämen che, a dispetto del marchio dal suono nordico, identifica due giovani registi di Milano. Non sono tanti ad arrivare al cuore creativo dell’identità di brand così importanti, perciò la prima curiosità è quella di chiedervi di raccontarci come avete mosso i vostri primi passi e come questi vi hanno portato nel campo del commercial internazionale. Abbiamo cominciato nel 2009 girando video musicali, a partire dalle band indipendenti fino a collaborazioni con etichette mainstream. Nello stesso frangente, abbiamo inoltre sviluppato

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vari progetti personali come videoarte e cortometraggi. Siamo entrati in contatto con un’agenzia pubblicitaria italiana grazie a un artista con cui abbiamo collaborato, è stato quello il turning point che ha segnato il nostro ingresso nel mondo della pubblicità. Dopo i primi commercial, alcuni agenti e produttori esteri si sono interessati e ci hanno contattati tramite il nostro canale Vimeo, portandoci a firmare i primi contratti fuori dall’Italia, in particolare in Germania e negli Stati Uniti. Lavorando in pubblicità, abbiamo capito subito l’importanza del brand prima che della persona fisica, per questo abbiamo deciso di fondare Sämen, un progetto artistico con un’identità internazionale. Questo ha fatto sì che anche in Italia potessimo lavorare ambendo a impianti produttivi con un sapore internazionale in termini di casting e location. Queste scelte, che sono state apprezzate dalle agenzie, ci hanno permesso di mantenere il nostro stile visivo.

Fin da una prima occhiata al vostro canale Vimeo, ciò che emerge è il forte impatto delle vostre scelte linguistiche: grande cura dell’immagine, fascinazione per il movimento di macchina, una regia dalla fluidità estrema. Quali sono i vostri modelli di riferimento? Io personalmente ho riscontrato un gusto che mi ha ricordato sia Malick che il grande cinema noir/thriller americano, per esempio Michael Mann. Siamo sempre alla ricerca dell’autentico, che possiamo ritrovare in un lungometraggio, in un’opera d’arte, o in un “Vimeo staff pick”. Non ci sentiamo in questo caso di delineare una vera e propria influenza: capita spesso che anche solo un paesaggio, una

melodia, o un viso ci portino ad alimentare la nostra visione. Siamo comunque circondati da artisti che ci hanno lasciato

stimoli fondamentali nell’evoluzione della nostra regia, per esempio, pescando dal passato, ci viene in mente Andrej Tarkovskij o Nicolas

ha supportato economicamente per metà della “torta ”, il resto è stato un nostro investimento e siamo contenti di averlo fatto. Phaos sembra un saggio, una dichiarazione d’intenti su cosa potreste in futuro fare mettendovi alla prova con la fiction. State pensando al lungometraggio? Avete dei progetti nel cassetto in questo senso? In questo momento siamo come una palla di neve che rotola da una montagna e si ingrandisce sempre di più, siamo in balìa della richiesta costante proveniente dal mondo pubblicitario. A oggi

sentiamo di non avere la giusta predisposizione mentale e il giusto respiro per affrontare la nostra opera prima, ma è sicuramente un appuntamento che non vediamo l’ora di prendere, tornando alle origini per raccontare delle storie autentiche attraverso le nostre esperienze.

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- Opera seconda -

Sullo sfondo della lotta fra “signori” e “cafoni” i cambiamenti della società italiana negli anni Settanta.

In questo modo abbiamo ricreato un mondo da favola lasciando proprio ai ragazzi il ruolo di protagonisti all’interno di questa metafora della lotta di classe. L’altro aspetto

LA GUERRA DEI CAFONI

C’ERANO UNA VOLTA SERVI E PADRONI Tra favola e cambiamenti sociali, nel loro secondo lungometraggio i registi Davide Barletti e Lorenzo Conte hanno portato sul grande schermo il romanzo di formazione scritto da Carlo D’Amicis. di TIZIANA MORGANTI

L

a guerra dei cafoni, prodotto da Minimum Fax Media, è riuscito nell’impresa non semplice di seguire il percorso di due diverse storie che, sovrapponendosi e, in alcuni casi, lasciando il passo l’una all’altra, hanno finito con il comporre una sorta di “fiaba” all’interno della quale gli opposti si armonizzano. La prima storia prende in considerazione i cambiamenti sociali vissuti dall’Italia alla metà degli anni Settanta. La seconda, invece, s’identifica con lo sguardo di un gruppo di ragazzi impegnati ad affrontare una lotta di classe atavica tra “signori” e “cafoni” destinata a traghettarli verso l’età adulta. Ad aumentare l’alone di fantastico che accompagna l’intera vicenda, poi, contribuisce anche un’ambientazione che,

nonostante sia rintracciabile tra le bellezze naturali della Puglia, esula da qualsiasi collocazione geografica precisa, trasformandosi nell’isola che non c’è. In questo modo,

dunque, Davide Barletti e Lorenzo Conte hanno dimostrato che è ancora possibile costruire un racconto di formazione purché si sia disposti ad andare oltre una messa in scena preconcetta.

Nella trasposizione del romanzo per il grande schermo quali suggestioni avete mantenuto intatte e quali, invece, interpretate in modo personale? L’anima del romanzo è rimasta, così come le figure dei personaggi di Marinho e Scaleno, i leader degli schieramenti dei signori e dei cafoni. In fin dei conti si tratta della fonte d’ispirazione principale e anche del motivo per cui ci siamo innamorati della vicenda dopo la prima lettura. Oltre a questo, poi, abbiamo lavorato in modo tale da prendere alcuni elementi essenziali per porli ancora di più fuori dal tempo, rendendo il racconto universale. In particolare abbiamo evidenziato l’assenza degli adulti e attutito il realismo. Nel romanzo, infatti, i “grandi” rimangono in secondo piano ma sono comunque presenti. D’Amicis dice di essersi ispirato alle strisce dei Peanuts, in cui sono visibili solo le gambe degli adulti. Partendo da questo presupposto, dunque, il nostro intento è stato quello di realizzare proprio un film a misura di ragazzo, eliminando qualsiasi presenza diversa, fatta eccezione per alcuni accenni come il personaggio di Papaquaremma e di Pedro.

su cui abbiamo agito, poi, è il realismo. Nel romanzo Torrematta è un paese inventato che, comunque, è composto di un piccolo centro. Noi lo abbiamo spogliato delle strutture urbane, trasformandolo in uno spazio ampio e naturalistico. Così si costruisce l’immagine di un Sud diverso, che potrebbe essere ovunque. Un effetto ottenuto soprattutto grazie alla ricerca di luoghi intatti, come le riserve naturali in provincia di Brindisi e di Lecce, dove l’assenza d’insediamenti moderni ha offerto una scenografia capace di lasciare il segno. Al centro della vicenda ci sono dei ragazzi che, durante un’estate di crescita e avventura, continuano a combattere una lotta di classe che sembra accomunare l’Italia intera. Vista in quest’ottica, dunque, la vicenda si svolge su due diversi piani narrativi che, però, hanno come comune denominatore la voce narrante e lo sguardo dei ragazzi. Come avete lavorato per far dialogare queste due anime? Quando ci siamo imbattuti ne La guerra dei cafoni venivamo da un’esperienza professionale complessa e faticosa rappresentata dal film Fine pena mai. In quel caso avevamo tratteggiato il racconto di un’epoca oscura della Puglia e del Salento concentrandoci sull’evoluzione della Sacra Corona Unita durante gli anni Ottanta. Ritrovarsi tra le mani il libro di Carlo D’Amicis è stato come respirare una boccata di aria pura. Tra i vari elementi che hanno conquistato la nostra attenzione c’erano proprio questi due piani narrativi, grazie ai

quali l’affresco sociale di un’epoca viene raccontato e interpretato attraverso le lotte interne di un universo composto essenzialmente di ragazzi. Sullo sfondo c’è la storia sociale del nostro

finire, poi, abbiamo cercato di radicalizzare il confronto tra opposti, come tra bene e male, visto che la realtà dei ragazzi è sottoposta a un principio ordinativo in cui si prevede una divisione netta. E in questa realtà i bambini non risolvono certo i conflitti ma riescono a superarli. Le due bande sono formate da giovanissimi per la prima volta sul grande schermo, capaci però di una recitazione naturale e funzionale per la storia. Alla base di questo risultato non può che esserci un lungo lavoro…. Prima di arrivare ai ventiquattro protagonisti abbiamo visionato un totale 800 ragazzi provenienti da ogni zona della Puglia. Tutti erano alla prima esperienza recitativa e per questo motivo la produzione ha pensato di creare una sorta di laboratorio preparatorio. Qui i nostri protagonisti hanno vissuto insieme nei mesi precedenti alle riprese, conoscendo i personaggi e, soprattutto, imparando a diventare un gruppo. Un particolare, questo, che è risultato essere molto positivo e funzionale durante le riprese. Un altro aspetto fondamentale, che ha contribuito a rendere la loro interpretazione ancora più naturale, è stato l’uso del dialetto. Provenendo da zone differenti del-

la Puglia, ogni ragazzo ha portato sul set un accento diverso che, insieme agli altri, ha formato una sorta di polifonia di dialetti. Certo,

«LA RAGAZZA È UN PERSONAGGIO FONDAMENTALE CHE RIFIUTA LA GUERRA DEI MASCHI».

Paese che registra, ad esempio, l’arrivo della borghesia e l’affacciarsi di una nuova cultura basata sul consumo, oltre alla scomparsa di quell’etica rurale già evidenziata da Pier Paolo Pasolini. Tutto questo, però, s’inserisce con armonia all’interno di un percorso di formazione personale vissuto proprio dai ragazzi. Loro sono in guerra contro l’ipocrisia e l’acquiescenza delle coscienze che hanno caratterizzato la vita del Paese dagli anni Ottanta a oggi. Per ottenere la fusione tra questi due piani narrativi, dunque, abbiamo scelto di formare degli archetipi comportamentali e caratteriali. In questo senso, ad esempio, il personaggio del cugino rappresenta il nuovo che avanza, non più signore o cafone, ma simbolo di una borghesia ignorante. Per

sottotitolare gran parte del film, tra cui il prologo recitato in greco bizantino, potrebbe essere una scelta poco commerciale, soprattutto se si riflette sugli eventuali passaggi televisivi, ma era fondamentale per mantenere il legame con la terra.

Le bande hanno una formazione in prevalenza maschile. Unica eccezione rilevante è rappresentata dal personaggio di Mela. A lei, inoltre, sembra essere affidato il compito di interrompere la consuetudine della guerra. Mela è un personaggio fondamentale. Rifiuta la guerra come concetto e da questo punto di vista si evidenzia un messaggio molto importante secondo il quale il conflitto è un’aberrazione maschile. In lei troviamo il personaggio più libero, fuori dagli archetipi che inchiodano tutti, rendendoli immobili nella loro realtà. A renderla così speciale è

la capacità di vedere oltre l’orizzonte di Torrematta, oltre i confini di un destino che imprigiona. In questa vicenda,

infatti, Torrematta è una specie di galera, nonostante la sua bellezza drammatica. È un teatro dal quale è difficile uscire, visto che ognuno deve recitare il proprio ruolo.

La guerra dei cafoni è il secondo lungometraggio firmato Davide Barletti e Lorenzo Conte, prodotto da Minimum Fax Media.

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2NIGHT

ACCADDE UNA NOTTE

DUE SCONOSCIUTI E UN INCONTRO CHE POTREBBE STRAVOLGERE LE LORO VITE SULLO SFONDO DI UNA ROMA NOTTURNA PIÙ INTRIGANTE CHE MAI. ECCO 2NIGHT: LA FAVOLA GENERAZIONALE DI IVAN SILVESTRINI. di CHIARA CARNÀ

A

cosa che li attrae irresistibilmente. Il mio film di riferimento è stato Before Sunrise, anche se la generazione di 2night è più disincantata, lontana dal romanticismo estremo di Linklater». L’impressione è che ti sia voluto concentrare sulla loro solitudine... «La solitudine è il risultato di un modo di vive-

ispirarmi è stato l’omonimo film israeliano di Roi Werner: racconta la mia generazione in modo delicato, divertente, sexy. La sfida nell’adattamento era creare un atto unico in cui raccontare tutte le fasi di una relazione di coppia in una notte: dall’attrazione travolgente, al conoscersi, ai litigi, fino al superamento degli ostacoli fianco a fianco. Altro aspetto non semplice era mantenere viva l’attenzione, considerando i pochi elementi a disposizione.

re al quale ormai ci sentiamo quasi condannati. Io per primo cerco quotidianamente di reagire

C’è Roma, ci sono due volti eccezionali (Matilde Gioli e Matteo Martari) e una macchina che

li accompagna. Era necessario, attraverso un accurato lavoro di scrittura, rilanciare continuamente la curiosità dello spettatore nei loro confronti». Che ruolo volevi avesse la città di Roma? «Volevo una Roma notturna non troppo battu-

«IL MIO OBIETTIVO PRINCIPALE È L’EMOZIONE».

ta dal cinema degli ultimi anni e, allo stesso tempo, ritrarla in maniera estremamente luminosa. Le tecnologie moderne hanno raggiunto un livello tale da riuscire a dar risalto a dettagli che in pellicola o col primo digitale sarebbero rimasti invisibili. Le luci elettriche di Roma, di base, sono sufficientemente forti per illuminare intensamente i panorami. Noi, lavorando sui rinforzi in primo piano, abbiamo sfruttato una piena profondità senza lasciare neanche un pixel di nero». Cosa vorresti che 2night trasmettesse al pubblico? «In tutto ciò che faccio, il mio obiettivo principale è l’emozione. La cosa più difficile oggi al cinema è dar vita a storie in cui ci si riveda profondamente, al punto da commuoversi. Spero di esserci riuscito. Non si capisce immediatamente che i protagonisti sono fatti l’uno per l’altra. Nella prima parte della storia vediamo due persona-

lità che stridono e hanno evidenti incompatibilità. Sono una coppia profondamente imperfetta, eppure c’è qual28

a un sistema che sembra non aver posto per la nostra generazione. Chi vive la precarietà sul lavoro, ad esempio, secondo me finisce per vivere anche una precarietà esistenziale, che rende difficile instaurare qualsiasi relazione duratura. Quando sono entrato al Centro Sperimentale, una scuola avvolta da un’aura mitica, credevo che dopo avrei immediatamente iniziato a lavorare... ma non è stato così. Ho capito che avrei dovuto fare uno sforzo superiore, ed è lì che è nata Stuck, la mia prima webserie, cui devo tutto». Questo vale anche per la tua esperienza di giovane regista emergente? «Io volevo fare la rockstar! La musica è tutt’oggi fondamentale per me, nel tempo libero continuo a studiarla. Quando penso a una storia, creo subito una playlist in modo da potermi suggestionare mentre scrivo. A segnare la mia formazione sono stati Kubrick, Cronenberg, il Lynch di Mulholland Drive: registi ineguagliabili ma punti di riferimento imprescindibili. Anche Mike Nichols è una costante fonte di ispirazione per quanto riguarda la perfezione nel racconto dei personaggi, a prescindere dal contesto». Quali sono i tuoi prossimi progetti? Sto per cominciare le riprese del mio primo film mainstream: il remake di una commedia francese.


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di SEBASTIANO BARCAROLI

TRAMA: TANO. NON TANO.

TANO DA MORIRE

(1997) DI ROBERTA TORRE; CON CICCIO GUARINO, MIMMA DE ROSALIA… E ALTRI NOMI CHE NON CONOSCETE PERCHÉ ERANO TUTTI ATTORI IMPROVVISATI RACCATTATI TRA LE STRADE DI PALERMO.

V

iviamo un momento storico in cui fa molto figo girare/ interpretare/citare un film con criminali fascinosi, di malaffare ma con onore, coi basettoni e i pantaloni a zampa ma le facce da figli-di-papà. Ormai la criminalità di celluloide è stata masticata, digerita, rigurgitata, reimpiattata e riservita come nuova. Belle immagini, le regala CB ai suoi lettori. Basta che l’attore di turno gridi BANG! «Te scanno, figghiu di bottana!» [Attenzione: disponibile anche in versione bandadellamaglianesca “T’ammazzo apezzodemmerda!” e gomorresca «T’accir’ omm’ e’spaccimm’!»] e tutti lì a osannare quei criminali realmente esistiti che BREAKING NEWS! Ammazzavano le persone! Non erano per niente fighi! Nel 1997 questa moda non esisteva. La mafia al cinema non era cosa così nostra, era più cosa di Michele Placido che veniva fatto colabrodo su RAI1 e mia mamma diceva «certo però che bell’uomo questo Michele Placido!».

Tano da morire fu il primo musical sulla mafia recitato da soli attori non professionisti. Panettieri, manovali,

pescatori, casalinghe da Zisa a Tribunali si fecero coinvolgere in questo folle film da una giovane regista, Roberta Torre, che li mise davanti a scenografie degne di una recita scolastica scalcinata, truccati in maniera equivoca, a cantare e ballare per raccontare la

più pericolosa organizzazione criminale esistente. Nel film, tramite finte interviste, viene ricostruito il vero omicidio di Tano Guarrasi, boss palermitano assassinato nella sua macelleria, che morendo liberava le strade e la famiglia (i figli e le sorelle, non i bravi picciotti) dalla sua morsa di uomo d’onore violento, geloso e patriarcale. Il film è una cornucopia kitsch di strafottenza

criminale e Tano Guarrasi è il Charles Foster Kane della Mafia, tutti l’hanno conosciuto – com’era bello Tano, com’era

mafioso Tano – e tutti mettono il loro pezzettino per ricomporre il puzzle della sua vita. E della sua morte.

Il film inizia con un funerale nero e finisce con un matrimonio rosso sangue, in mezzo tutti i colori di un caleidoscopio psicotropo. Ogni scena rivela una genialità frastornante in cui trovano spazio citazioni pop (indimenticabile la febbre del sabato sera mafioso) e più dotte (il ruolo delle donne dal parrucchiere è proprio quello del coro da tragedia greca), il tutto farcito con un’ironia da applauso. Tano da morire resta di una contemporaneità sconvolgente, ancora oggi sbatte in faccia ai boss (di qualsiasi regione e dialetto) la loro “ridicolaggine” e distrugge il fascino che spesso si portano dietro, soprattutto al cinema, a ritmo di neomelodico rap. Vi farà ballare, vi farà divertire, ma soprattutto vi piacerà tanto. Tanto da morire.

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PERCHÉ NON ESISTE UNA VERSIONE DVD CON TUTTI I CONTENUTI SPECIALI CURATI DA CB E IL PACKAGIN’ DISEGNATO DA IRENE? QUANDO VOLETE NOI CI SIAMO! NESSUNO HA PIÙ FATTO MUSICAL IN ITALIA. BISOGNERÀ ASPETTARE UN FILM SULLA STORIA DEL FESTIVAL DI SANREMO PER AVERNE UNO?

IRENE RINALDI È nata a Roma dove vive e lavora. Collabora con magazine e case editrici italiane e internazionali (Mondadori, Taschen, «Vice US», «ilSole 24Ore») e crea anche progetti indipendenti e autoproduzioni. È ispirata dall’estetica delle illustrazioni anni ’50, dalle stampe xilografiche, dalla poster-art e dalla serigrafia. www.yoirene.com

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- Icone -

FRANCESCO NUTI

«UN UOMO DOLCE, GENEROSO. CON UN TALENTO IMPRESSIONANTE, INTUITO PER LA REGIA, PER LE INQUADRATURE, IL SENSO DEL DOLLY. AVREBBE POTUTO TRANQUILLAMENTE SOLO DIRIGERLI, I FILM».

MADONNA CHE SILENZIO SENZA

NUTI VENTISEI ANNI, IL PRIMO FILM DA PROTAGONISTA. VENTOTTO, IL PRIMO DA AUTORE E PROTAGONISTA. TRENTA, ESORDIO ALLA REGIA. TRENTANOVE: LA CADUTA DOPO DIECI ANNI DI SUCCESSI, TRE DAVID DI DONATELLO, UN NASTRO D’ARGENTO, IL PREMIO AL FESTIVAL DI SAN SEBASTIÁN.

di ILARIA RAVARINO 32


P

iù regista di Troisi, meno colto di Benigni, più scorretto di Verdone, Francesco Nuti ha segnato la coscienza della commedia anni ’80.

Giovane, la forza di un razzo lanciato verso l’(auto)distruzione, ha attraversato senza filtri il decennio più pop del nostro cinema. Non amava fare promozione e non aveva un

agente, non firmava esclusive, si incazzava, litigava, beveva mentre il resto del mondo tirava cocaina, preferiva i fumetti ai libri, si innamorava e veniva regolarmente lasciato. Scriveva cose bellissime, tratte dalla sua vita. E le girava con mano d’autore. Nell’Italia

ubriaca di craxismo fu il primo, nell’epica scena del telaio impazzito di Madonna che silenzio c’è stasera, a prevedere la crisi dei giovani che sarebbero diventati bamboccioni.

Ultimo coraggioso outsider di una commedia all’italiana sprofondata nel conformismo personaggista, Francesco Nuti è oggi ostaggio di una malattia che gli impedisce di parlare. Un grandissimo autore, che Fabrique ha il coraggio di chiamare col suo nome: icona.

NUTI, IL TALENTO

Per Gianfranco Piccioli, suo produttore storico (dal primo film, Madonna che silenzio c’è stasera, fino a Donne con le gonne), «fra di noi non c’era il classico rapporto registaproduttore. Non abbiamo mai avuto un contratto: siamo andati avanti guardandoci negli occhi e capendoci al primo sguardo. Se qualcuno lo cercava, lui diceva: parlate con Gianfranco». Come vi siete incontrati? Un giorno andai a vedere a Roma il gruppo dei Giancattivi a teatro. Mi resi subito conto che nel linguaggio di quel trio c’era qualcosa di diverso e mi incuriosii. Li conobbi, li trovai persone sensibili, intelligenti. E nacque così il loro primo e unico film, Ad ovest di Paperino. Subito dopo fece esordire Nuti. Da solo. Francesco aveva problemi col gruppo. Lo vedevo, durante le riprese, che se ne stava in disparte e scriveva:

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era la bozza di Madonna che silenzio c’è stasera. Era un brogliaccio, ma ci vidi dentro tutto un mondo astratto, perso, pieno tuttavia di valori e sentimenti meravigliosi. Misi in mano quel materiale allo sceneggiatore Elvio Porta e dissi a Francesco: scrivi quel che ti pare, ma se mi dici che vuoi fare il regista vatti a cercare un altro produttore. Prima impara: ora non sei nelle condizioni. E così lo affidai a Maurizio Ponzi, un grande metteur en scène. Nuti era consapevole del suo talento? Gli sono bastati tre film per capirlo. Allora venne da me e disse: ora posso? Un uomo dolce, generoso. Con un talento impressionante: in Casablanca, Casablanca si mise dietro alla macchina da presa con una naturalezza incredibile. Aveva intuito per la regia, per le inquadrature, il senso del dolly. Avrebbe potuto tranquillamente solo dirigerli, i film. Di cosa si nutriva la sua ispirazione?

Lo nutrivano le sue radici, la vita di paese, gli amici che aveva avuto, la figura paterna che era stata importantissima, e che quando mancò fu per lui una perdita quasi insuperabile. Aveva un padre toscano e una madre calabrese, due culture completamente opposte e diverse che non dialogavano, ma in casa c’era rispetto e armonia. In qualche modo questa formazione gli permise di raccontare con i suoi film un’epoca. E per affermarsi ci ha messo tempo, film dopo film, mica come Troisi. Mi ricordo le liti con Pippo Baudo per inserirlo in promozione, diceva che non meritava dieci minuti. E io dicevo Pippo, guarda che ti stai sbagliando...

NUTI SCENEGGIATORE

Malù Di Lonardo è stata amica, assistente alla regia e cosceneggiatrice di Nuti ne Il Signor Quindicipalle e per due soggetti mai girati, Olga e i fratellastri Billi e Solo quando potrò cullare un bambino. «Francesco è stato un artista. Nella vita, prima che nel cinema». La scrittura: da cosa partiva Nuti? Da fatti che gli erano accaduti personalmente:

l’esperienza con gli psicologi in Caruso Pascoski di padre polacco, l’attrazione per una donna omosessuale in Io amo Andrea... Aveva bisogno di uno sceneggiatore perché aveva l’idea di ciò che sarebbe dovuto accadere nella storia, aveva lo spunto, ma da solo non sapeva ordinare il pensiero. Scrivere con lui significava dire cavolate in libertà, con orario fisso. Alle dieci si arrivava in ufficio in Prati, dall’una alle due si pranzava da Settembrini. Si tornava a piedi al lavoro e per una mezz’ora, in preda alla digestione, nessuno connetteva. Io mi mettevo al computer, che Francesco si ostinava a chiamare “macchina da scrivere”, e lavoravamo così fino alle 17.

Aveva un bisogno estremo di affettività».

Si divertiva, ci si incaponiva. Ti chiamava anche alle due di notte per dirti che aveva avuto un’idea geniale. A volte per scrivere una

Com’era Nuti attore? Stare in scena per lui era del tutto naturale, non aveva mai una forzatura. Sul set era un attore fra gli attori. Capiva immediatamente se c’era un problema e arrivava sempre a una soluzione rapida. Se la scena non funzionava, la faceva lui: ma solo per capire cosa non andasse. A volte invertivamo i ruoli, lui faceva me e io lui, per provare a migliorare l’interazione. La sua era una curiosità sana, di ricerca. Essendo anche autore aveva poi una familiarità col testo unica. Ma era in grado di capire che se la scrittura non funzionava, andava modificata. Due tre volte è capitato che accettasse una mia modifica, per esempio in Io Chiara e lo Scuro (“Deambula”) o in Caruso Pascoski (“Ma va va va...”), perché lui stesso si era divertito ascoltandola. Era molto facile stare sul set con lui.

pagina ci si metteva un mese, altre volte scrivevamo venti pagine in un’ora. A volte i personaggi gli diventavano antipatici, e allora non andavano avanti, a volte se li metteva addosso, li plasmava su di sé e bisognava arginarlo. In generale aveva un grande senso della scrittura per immagini: scriveva quel che voleva inquadrare, chiudeva le scene con i dettagli che avrebbe ripreso, alternava spesso interni e esterni perché era claustrofobico. Era regista già in scrittura.

Legava con la troupe? Durante la pausa andava nel suo camper, ma la sera ci vedevamo, spesso guardavamo le partite insieme. Oppure andavamo a cena, ho mangiato tante volte a casa sua. Era uno che aveva bisogno di stare con le persone con cui si sentiva bene, a suo agio. E bisogna anche dire che nella vita ha avuto accanto tanti, troppi, che gli stavano vicino solo per interesse.

Francesco si divertiva a scrivere?

Come si comportava con i collaboratori? Non era un santo, se era convinto di qualcosa bisognava impegnarsi per fargli cambiare idea. Ma non era un ipocrita, e non gli ho mai sentito criticare un collega. Ha incoraggiato Leonardo Pieraccioni, imposto Giovanni Veronesi, scelto di lavorare con me solo perché gli era piaciuta la mia tesi di laurea. Non gli importava che allora non sapessi nemmeno com’era fatto un copione.

NUTI REGISTA E ATTORE

Antonio Petrocelli con Nuti ha girato sei film, e tutti «senza sforzo. Francesco era uno che si affezionava alle persone anche in maniera morbosa, non riusciva a staccarsi dagli amici nemmeno durante la lavorazione dei film.

NUTI, IL FUTURO

«Un film che ha gli ingredienti del cinema di Francesco, un lato malinconico e nostalgico, uno folle e politicamente scorretto. È la storia di Lupo e Max, due fratellastri, e di Olga che è la compagna di Lupo. Erano una banda di ladri, ma decidono di fare l’ultimo colpo prima di ritirarsi». Così Valerio Groppa, già regista dello spettacolo Francesco Nuti – Andata, caduta, ritorno, racconta la trama dell’ultimo film scritto da Nuti, Olga e i fratellastri Billi, per i quali, insieme al fratello di Nuti, Giovanni, sta cercando un produttore. «Nuti andrebbe riscoperto – dice – perché aveva il coraggio di osare. Aveva carisma, personalità, fantasia. Era diverso da tutti gli altri. Malinconico, nostalgico, poetico. E sempre, intimamente, infelice».

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- Teatro Emanuele Aldrovandi si è formato come autore alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano e collabora da anni con il Centro Teatrale MaMiMò.

EMANUELE ALDROVANDI CHE SIA UNA DELLE VOCI PIÙ INTERESSANTI DELLA NUOVA DRAMMATURGIA ITALIANA LO CONFERMANO I TANTI PREMI CHE HA VINTO E IL FATTO CHE I SUOI TESTI SIANO GIÀ TRADOTTI IN NUMEROSE LINGUE.

UNDER 35

M

a Emanuele Aldrovandi, classe 1985, da Reggio Emilia, continua a giocare al ribasso, si schermisce e – sinceramente – si diverte all’idea che i suoi lavori approdino sui palcoscenici di mezza Europa senza troppe difficoltà.

Nonostante l’aria serena del bravo ragazzo di provincia, Aldrovandi scrive vicende emblematiche, sottilmente politiche, decisamente attente alle dinamiche umane e sociali. Senza mai perdere di vista la realtà, infatti, tesse trame dal respiro filosofico, addirittura etico. Per fare qual-

che esempio, in Allarmi! racconta di un gruppo di terroristi di destra alle prese con l’omicidio del presidente dell’Unione Europea, organizzato allo scopo di scatenare una rivoluzione reazionaria. Con Homicide House inventa invece un gioco aguzzo di violenza psicologica e nell’acclamato Scusate se non siamo morti in mare si immagina una situazione paradossale, in un futuro vicinissimo, in cui i cittadini europei sono costretti a emigrare illegalmente in cerca di lavoro in paesi più ricchi. Le sue opere – molte edite da Cue Press – sono dunque squarci sul mondo, che danno un senso alto, civile e pur sempre poetico alla scrittura per il teatro. Ciò non toglie, comunque, che Aldrovandi sia ancora etichettato, da critici e produttori, come un “giovane autore”. Dopo la laurea in lettere, ti sei diplomato alla scuola di teatro “Paolo Grassi” di Milano. E hai scelto la scrittura per la scena. Che effetto fa essere un drammaturgo e per di più giovane? Qualche anno fa mi hanno invitato a parlare in una scuola superiore di Milano e, quando ho detto ai ragazzi che ero un autore teatrale, uno ha alzato la mano e mi chiesto: «Ma sei vivo?». Ecco, più o meno, l’effetto è questo: sei un giovane che si occupa di una cosa antichissima, ancestrale, che esiste più o meno da quando esiste l’umanità. Lo spiazzamento deriva dal fatto che la maggior parte della gente – in Italia più che altrove – fatica a vedere il teatro come una cosa del presente. E la colpa a volte è anche di chi lo fa. Si dice sempre che il teatro è importante, ma non è vero in modo assoluto. Lo è soltanto se chi lo fa non lo dà per scontato. A partire dal gruppo MaMiMò, con cui collabori abitualmente, i tuoi testi sono stati messi in scena da diversi artisti: come ti rapporti agli attori e ai registii?

Un testo è un bambino appena nato, di fronte a sé ha tutte le vite possibili. Uno spettacolo è un vecchio sul letto di morte: ne ha vissuta una sola. Ogni sera può raccontarla in

modo diverso, ma gli elementi fondamentali restano immutati. Il regista ha il privilegio e la responsabilità – insieme agli attori e a tutti quelli che lavorano a uno spettacolo – di scegliere che vita far fare al bambino, l’autore non può che consegnarglielo e dire: «Tieni, fai quello che vuoi». Ma un testo, a differenza dei bambini veri, può rinascere infinite volte in nuovi allestimenti.

Sarebbe interessante capire meglio il tuo lavoro di autore: nei tuoi testi, sospesi tra lucida analisi politica e visioni sul mondo e l’attualità, resta però viva un’eco forte di tradizione, addirittura si evoca la tragedia classica. Da cosa nasce l’idea di un testo? Qual è la molla che fa scattare il racconto? Cerco di non avere un approccio standard, perché non voglio scrivere sempre le stesse cose. A volte parto da un personaggio, a volte da un conflitto concettuale che io per primo non riesco a dipanare, a volte dalla contemporaneità. La molla è sempre diversa. Ma c’è una necessità per te di farti autore teatrale? Quale? Uso la scrittura come strumento di conoscenza. Scrivo le cose di cui mi piace parlare, che non capisco o che generano conflitti nel mondo che mi circonda. Credo che ogni generazione – e nello specifico forse ogni persona – senta il desiderio di creare un proprio linguaggio con cui provare a raccontare il mondo, la realtà, la vita, la morte. Altrimenti, se non fosse così, basterebbe leggere Shakespeare, che ha già parlato di tutto molto meglio di come potremo mai farlo noi. E invece no. È una pulsione primordiale che ha a che fare con l’essere umano. In Scusate se non siamo morti in mare i protagonisti si chiamano Robusto, Morbido, Alto, Bella… E in Allarmi! abbiamo Vittoria, Futuro, Ordine, Democrazia, Punto di vista… Viene da chiedersi cosa sia per te un personaggio. Esiste ancora il Personaggio? Certo che esiste ancora. Perché, esistono ancora quelli che dicono che non esiste più? E che lingua parla?

Il teatro contemporaneo è proteiforme. Coesistono molti generi diversi e molte lingue. Forse fra cento anni diranno: «Questa era l’epoca del…». E le daranno un nome. Chissà quale. Tu che lingua usi per i tuoi testi? Per me è importante essere profondo e allo stesso tempo comprensibile, raccontare cose complesse in modo semplice – che non vuol dire “semplificato”, ma preciso. Affilato. Per cui uso la stessa lingua con cui parlo, cercando però di rifinirla, scolpirla, ridurla all’essenziale e farne emergere anche l’aspetto poetico. Ma senza snaturarla o renderla forzatamente artificiosa. Facciamo un’ipotesi: un adolescente vuole avvicinarsi all’arte (cinema o teatro che sia). Secondo te di cosa ha bisogno per scrivere? Di leggere tanto e di non essere permaloso quando qualcuno gli dirà che quello che ha scritto fa schifo. Ma soprattutto di volerlo fare davvero: scrivere non è uno sfogo estemporaneo per buttare giù quello che hai in mente, deve piacerti l’idea di passare ore sulla stessa frase per cercare di renderla migliore.

«QUANDO HO DETTO AI RAGAZZI DI UNA SCUOLA CHE ERO UN AUTORE TEATRALE, UNO HA ALZATO LA MANO E MI CHIESTO: «MA SEI VIVO?».

di ANDREA PORCHEDDU

Nel 2016 ha vinto il Mario Fratti Award e ha iniziato a collaborare con ERT – Emilia Romagna Teatro.

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- Mestieri -

AUTORITRATTO DI UNO SCENOGRAFO

ILE non MESTIERE DI CHI PROGETTA LO SPAZIO SCENICO. è un mestiere per tutti. Per diventare scenografo è necessaria una spiccata sensibilità artistica ed estetica, avere la capacità di vedere quello che non esiste, di costruire spazi e ambienti che vivono soltanto nella mente del regista e nelle intenzioni narrative dello sceneggiatore. Vi siete mai chiesti cosa c’è dietro quello che sembra solo un set? Ci sono competenze di disegno, pittura, scultura, architettura d’interni e decorazione; attitudine alla valutazione di preventivi che tengano conto dei vincoli finanziari, tecnici e artistici; capacità di gestione, coordinamento e supervisione di tutte le fasi di esecuzione e montaggio.

UNA FIGURA IMPORTANTISSIMA POICHÉ DIVENTA IL PUNTO DI INCONTRO IN CUI SI FONDONO DIVERSE PROFESSIONALITÀ CHE ESPRIMONO GLI ASPETTI PIÙ CREATIVI DEL PRODOTTO FINALE. ECCO QUINDI CHE LO SCENOGRAFO DIVENTA UN RIFERIMENTO NON SOLO PER REGISTA E SCENEGGIATORE, DI CUI SI FA INTERPRETE, MA ANCHE DEL DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA NEL CINEMA O DEL LIGHT DESIGNER NEL TEATRO. L’ARTE DELLO SCENOGRAFO RENDE MATERIA CIÒ CHE ERA SOSTANZA DEI SOGNI, ATTRAVERSO LA CREAZIONE DI TUTTI I MONDI POSSIBILI. E NON È COSA DA POCO. a cura di MONICA VAGNUCCI

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DANIELE FRABETTI

Il mio percorso è iniziato con il liceo artistico e poi con l’Accademia di Belle Arti. Già durante gli studi mi sono avvicinato al mondo dell’audiovisivo con cortometraggi e piccoli progetti. Ho iniziato a fare esperienze sui set, come aiuto scenografo prima, assistente e arredatore poi, fino al 2009, quando ho cominciato a firmare come scenografo per film e produzioni video. Ho avuto la fortuna di lavorare con talentuosi registi come Claudio Giovannesi, Claudio Noce, Lamberto Sanfelice, Alessandro Aronadio,


«BISOGNA NON DARE MAI NULLA PER SCONTATO, EVITARE DI “RISOLVERE LE COSE CON MESTIERE”, STUDIARE PERSONAGGI E SITUAZIONI SOCIALI».

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Stefano Lodovichi, Luca Vecchi e Vito Palmieri e, più recentemente, ho firmato le scenografie dell’ultimo film di Amir Naderi. Spesso capita di dover combattere per realizzare progetti belli ma poveri, con reparti ridotti sempre più all’osso, dovendo aumentare le ore di lavoro per riuscire a mantenere alto il livello. Molti sono però i motivi di soddisfazione, come il piacere di collaborare con persone che condividono lo stesso amore per questo lavoro e vedere lo sguardo da bambino dei registi quando sono di fronte agli ambienti finiti dei loro film. La gioia più grande è realizzare quello che fino a qualche settimana prima era soltanto un disegno su un pezzo di carta.

MAURO VANZATI

Ho sempre studiato arte, prima al liceo artistico e poi all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. Quindi, trasferito a Roma, mi sono diplomato in Scenografia e Costume al CSC, studiando con Piero Tosi e Andrea Crisanti. Proprio con quest’ultimo ho iniziato a lavorare, partecipando a progetti importanti che hanno per me un valore affettivo molto forte, come La polvere del tempo di Theo Anghelopoulos. Conclusi gli studi, ho iniziato l’attività proprio con un film di diploma del CSC, Dieci inverni, di Valerio Mieli, grazie al quale sono

riuscito a proseguire su questa strada, spesso con registi formatisi nella stessa scuola, tra cui Francesco Lagi, Sergio Basso e Roan Johnson. Per molti anni ho lavorato anche come assistente di Marta Maffucci, a cui ho “rubato” tantissimo per film, tra gli altri, di Ozpetek e Vicari. Proprio il suo film Diaz è uno dei progetti per me più importanti, per l’intensità e la partecipazione emotiva che hanno coinvolto tutta la troupe. Non è facile essere sempre ricettivi e creativi, trovare gli stimoli in ogni progetto, farsi incuriosire dalle storie e dai personaggi. Bisogna non dare mai nulla per scontato, evitare di “risolvere le cose con mestiere”, studiare personaggi e situazioni sociali, perché un ambiente è il racconto visivo della storia dei protagonisti. La soddisfazione più grande è costruire una realtà a cui lo spettatore deve essere in grado di credere pienamente.

LAURA BONI

Dopo la maturità scientifica mi sono iscritta all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, senza le idee ancora troppo chiare; ma è al Centro Sperimentale, qualche anno dopo, studiando e lavorando vicino a grandi professionisti come Crisanti e Tosi che sono rimasta affascinata da questo mestiere. Mi sono presto cimentata in progetti molto differenti fra loro. Film mainstream, tra cui Magnifica presenza di Ozpetek e Maraviglioso Boccaccio dei Fratelli Taviani, ricoprendo vari ruoli all’interno del reparto, e

film indipendenti di cui ho firmato la scenografia, come Il contagio di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, girato in gran parte al Quarticciolo, periferia romana. Per un periodo ho avuto la fortuna di collaborare con la scenografa Francesca Montinaro, che mi ha messo in contatto con il mondo della TV, con programmi come Sanremo 2013, Amici di Maria De Filippi e Invasioni barbariche. In ambito internazionale, ho partecipato a Londra a diversi progetti, tra cui My name is Lenny di Ron Scalpello. Bisogna esserne proprio innamorati di questo mestiere: il tempo delle giornate è scandito dal lavoro, l’intera vita deve essere vissuta al suo ritmo. È un’attività altalenante, ma ognuna delle ansie causate dalle difficoltà vale il momento in cui arriva l’idea brillante. Enormi soddisfazioni si hanno quando si mette in piedi un progetto con un piccolo budget e si realizza quello che sembrava impossibile. Ma la vera magia è quando l’idea si trasforma in realtà.

GASPARE DE PASCALI

Da bambino trascorrevo intere giornate costruendo qualsiasi cosa con materiali di recupero: è sempre stata per me una grande soddisfazione riuscire a dare una forma reale alle mie idee e fantasie. Ho deciso così di percorrere una strada che mi permettesse di coltivare e allenare la mia creatività. Dopo aver terminato gli studi all’istituto d’arte, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Bologna, coltivando sempre più la mia passione per l’architettura, il design e soprattutto la scultura intesa come “stravolgimento” della

materia. Entrato a far parte di Cinecittà Studios, ho lavorato alla costruzione e alla decorazione delle scenografie di progetti cinematografici firmati da maestri come Dante Ferretti, Yohei Taneda, Luigi Marchionne, Francesco Frigeri. Con l’unico obiettivo di non accontentarmi mai, sono riuscito a perfezionarmi nel tempo osservando e “rubando il mestiere” a chi aveva più esperienza. Sono riuscito così, partendo dal teatro, a concludere il mio settimo film. Le difficoltà nella mia professione sono riuscire a interpretare e realizzare le intenzioni dei registi, lavorando in simbiosi con fotografia e costumi, al fine di arrivare a unire il risultato estetico con quello produttivo, traducendo visivamente l’atmosfera dell’opera sul filo del personaggio e della sceneggiatura. Non c’è miglior soddisfazione di vedere i propri bozzetti diventare realtà per far sognare quanto noi, o almeno in parte, lo spettatore.

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- Zona Doc -

Due fotogrammi dal film, che mescola frammenti di video familiari girati negli anni Ottanta nella provincia bergamasca, trovati casualmente dal regista.

tando, rifinendo video musicali, spot pubblicitari, video istituzionali, documentari. Moloch è il suo lungometraggio d’esordio, un film oscuro e affascinante nato proprio dalle ossessioni tecniche del giovane regista, la cui storia produttiva inizia da un fatterello apparentemente minuscolo e insignificante: Testa è un appassionato praticante

di archeologia tecnologica; durante una delle sue esplorazioni in discarica in cerca di apparecchiature video d’epoca, s’imbatte in un mucchio di VHS abbandonati. Dentro, ci trova intere collezioni di video amatoriali di famiglia

MOLOCH

LA TECNICA CHE DIVENTA PENSIERO

Moloch è il lungometraggio d’esordio di Stefano P. Testa, un film oscuro e affascinante che intreccia e stratifica il tempo, le dimensioni del discorso, le tecnologie. di SILVIO GRASSELLI

S

tefano P. Testa, bergamasco poco meno che trentenne, ha studiato al liceo artistico e poi all’Accademia di Belle Arti di Brera. Gli piaceva il disegno; studiando ha iniziato a imparare le tecniche fotografiche e quelle del video digitale applicato alla videoarte (dalla quale si allontana presto e volentieri). Ancora durante l’Accademia, intorno al 2010, Testa conduce uno stage presso Lab80, una cooperativa nata alla fine degli anni Settanta, a Bergamo, come costola di un’associazione di cultura cinematografica già attiva alla fine dei Cinquanta e cresciuta gradualmente fino a coprire tutto l’ar-

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che anonimi, uomini e donne, giovani e vecchi, hanno registrato tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta nella provincia montana di Bergamo. Memorizzati su questi vecchi nastri magnetici ci sono viaggi di gruppo, eventi sportivi, racconti quotidiani con lo sguardo in macchina, momenti intimi di vita familiare e perfino una scena esplicita di sesso coniugale. Stefano li passa in rassegna nei giorni in cui – per la prima volta nella sua famiglia – sta egli stesso registrando una sorta di video memoriale incentrato sugli incontri con lo zio Roberto, bergamasco pure lui, prossimo alla pensione dopo una vita fuori dagli schemi, cultore autodidatta della musica e delle lettere, pensatore libero, vedovo, fumatore accanito. Così nasce l’idea di accostare e alternare i racconti e le riflessioni esistenziali di Roberto – che passa in rassegna le alterne vicende e le fasi salienti della sua vita e poi le riferisce al contesto familiare e sociale che le ha via via sempre più rifiutate e rigettate – ai frammenti sparsi prodotti dai suoi sconosciuti conterranei, in un film che stratifica il tempo, le dimensioni del discorso, le tecnologie. Perché il girato degli incontri con Roberto – che Stefano registra scegliendo punti di vista eccentrici, obliqui, distanti senza mai sembrare retorici – è in digitale, seppur registrato su nastro magnetico (Testa usa ancora una camera minidv), mentre tutto il resto delle immagini, che vengono dal passato, sono tracce puramente analogiche. Attraverso passaggi successivi, l’immagine analogica viene tradotta dai VHS al codice digitale per poi tornare di nuovo analogica; e nel passaggio conclusivo, che serve per ottenere il master digitale del film finito, Stefano mette concretamente le mani dentro il processo, inscrivendo nelle immagini un disturbo che

del film, lunga un’ottantina di minuti, è graffiata, rotta, interrotta e in alcuni punti oscurata dalle perturbazioni magnetiche che infiltrano nello stesso modo immagini del passato e immagini del presente, infondendo anche ai brevi titoli degli undici capitoli un’organica e inquieta vibrazione ondulatoria anacronisticamente analogica. Ecco come nasce il film Moloch (che Lab80 Film ha contribuito a produrre sostenendo le ultime fasi del montaggio e della rifinitura e che poi ha distribuito), che in undici capitoli, senza

didascalie, senza voce di commento, senza narrazione esplicita né espliciti collegamenti tra le diverse raccolte di materiali visivi, stratifica un ritratto critico sulla vita della provincia bergamasca cattolicissima e una volta rurale,

erosa da un’involuzione sociale ed economica, piccola al punto d’essere ottusa, ma riparata anche in modo che ci si possa scavare dentro una nicchia per sfuggire le fauci di Moloch che è un grido e un mostro, il corpo irrazionale di un sistema sociale che tutto inghiotte e tutto distrugge. Una citazione da Allen Ginsberg che affiora tra le molte letture del vecchio Roberto come insegna di una vita e di un pensiero spesi nella ricerca di una libertà e di un’autonomia dignitose. Come dentro un’allucinazione, come dentro uno specchio deformante, (il) Moloch però è forse anche il corpo senza volto del protagonista, lo sguardo inafferrabile del quale sembra sorvolare il film quasi dall’esterno, mutato in voce senza corpo che salta da un tempo all’altro e congiunge l’esistenza del singolo – Roberto – a quella dei molti anonimi che lo circondano. Stefano P. Testa mostra una sottile sapienza d’autore artigiano e un’idea raffinata di montaggio come riscrittura di immagini che si contraddicono e accumulano, in una sinfonia lancinante al contempo strapaesana e universale, lirica e volgare, disperata e malinconica, dolce e ruvida. Una tessitura d’immaginari, un diario che diventa saggio, un ritratto che si allarga a comprendere l’orizzonte, un gioco tecnico che diventa macchina di pensiero. Moloch è un punto in cui la materia dell’immagine, la concretezza del processo e la forza dell’idea s’incontrano e danno luogo a una forma. Scoperto da Visioni Italiane, presso la Cineteca di Bologna, selezionato già sia per il premio Docunder30, sia per i Doc/it Professional Awards, il film ha da poco intrapreso la sua via festivaliera partecipando, nei giorni in cui scriviamo, al Filmfestival del Garda.

«MOLOCH È FORSE ANCHE IL CORPO SENZA VOLTO DEL PROTAGONISTA».

modula, manipolando materialmente le testine di un vecchio videoregistratore. Il risultato è che l’intera superficie

co del possibile cinematografico, dall’esercizio alla produzione e distribuzione: qui avvicina per la prima volta vecchie collezioni di film in pellicola, familiarizza con l’idea di archivio, approfondisce la sua cultura di spettatore e inizia a lavorare come operatore video e proiezionista (occupandosi tra l’altro anche della comunicazione video del Bergamo Film Meeting). Dentro e fuori Lab80, Testa se-

guita ad approfondire alcune delle sue passioni tecniche passando dalla scrittura combinatoria del montatore alla manipolazione cromatica del colorist, dirigendo, mon43



- Attori -

I TAL IAN

GRAFFITI «I PLAY THE STREET LIFE» CANTAVA RANDY CRAWFORD, E COSÌ I NOSTRI SEI GIOVANI TALENTI. IL LOOK TOTAL DENIM, DINAMICO MA SENZA RINUNCIARE ALLO STILE, DÀ VOCE ALLA GRINTOSA DETERMINAZIONE AD AFFERMARE LA PROPRIA PERSONALITÀ ARTISTICA.

creative producer TOMMASO AGNESE foto JACOPO GENTILINI stylist STEFANIA SCIORTINO makeup RAFFAELE SCHIOPPO@SIMONE BELLI AGENCY - using: ALIKA COSMETICS hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI testi a cura di CHIARA CARNÀ thanks to 46

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GIULIO CORSO 27 anni, Palermo Mi avete visto in: • Montalbano di Alberto Sironi • Questi giorni di Giuseppe Piccioni • Nella serie americana The arrangement creata da Jonathan Abrahams • Ho appena finito di girare un docufilm su Paolo Borsellino diretto da Francesco Miccichè • Da settembre sarò in scena al Teatro Nazionale di Milano col musical Flashdance, diretto da Chiara Noschese È fondamentale accettare se stessi, accogliere gli insuccessi e gioire per i successi, piccoli o grandi che siano; nutrire la propria anima durante i lunghi tempi morti tra un lavoro e un altro, costruirsi una famiglia nonostante le circostanze avverse... In breve, amare incondizionatamente un mestiere che, spesso, è un amante ingrato. Prima di affrontare un nuovo ruolo, leggo il testo o la sceneggiatura centinaia di volte; è importante avere cognizione delle circostanze, del periodo storico, della musica che si ascoltava in quel periodo. Poi inizio il lavoro sul mio personaggio, le sue passioni, la sua estrazione sociale, i suoi sogni, il suo background. È un mestiere fatto di meticolose ripetizioni, di ricerca. Siamo artigiani e non è un caso che, spesso, produciamo le cose migliori nella nostra maturità.

«La recitazione è il jazz dell’animo umano». hair styling OSIS SL SALT SPRAY look PATRIZIA PEPE

«Le sfide sono il giusto stimolo per misurarsi con il magico mondo dello spettacolo». hair styling OSIS SL MIRACLE look LEVI’S

BEATRICE BARTONI 20 anni, Roma

ELEONORA DE LUCA 24 anni, Palermo

Mi avete visto in: • È arrivata la felicità di Riccardo Milani in onda sulla RAI • Come diventare popolari a scuola fiction in onda sul portale internet della RAI • Ho appena finito di girare Non c’è Kampo di Federico Moccia

Mi avete visto in: • L’ora legale di Ficarra e Picone • Maltese. Il romanzo del commissario di Gianluca Maria Tavarelli • Sarò al Teatro Quirino di Roma in ottobre con La leggenda del pescatore che non sapeva nuotare

Le sfide sono il giusto stimolo per misurarsi con il magico mondo dello spettacolo. Noi giovani attori siamo chiamati ad affrontarne tante e la più importante da vincere penso sia quella di imporre la propria personalità, seguendo sempre l’istinto e soprattutto facendo attenzione a non cadere negli stereotipi e nella mediocrità. Le sfide legate alla crescita caratteriale sono quelle più importanti, come imparare a metabolizzare la negatività di chi ci circonda e a tramutarla in positività. Per un nuovo progetto mi preparo osservando lo scenario, cercando di assorbirlo al massimo, lo contemplo, lo analizzo e, quando lo sento mio, inizio a viverlo nel migliore dei modi. L’attore deve essere camaleontico, deve saper sviluppare la capacità di modularsi a seconda di ciò che si rende necessario con entusiasmo.

Un giovane attore deve necessariamente essere forte e duttile. Siamo una categoria sensibile e disarmata, il prodotto che offriamo sono i nostri stessi sentimenti e, in un mercato così pieno, bisogna cercare di trovare la propria unicità. Non smettere mai di studiare, vincere le invidie e i malumori e saper trasformare l’ansia in spirito creativo. La sfida più grande è cercare di tenere sempre a mente la gioia per cui si è scelto questo mestiere fantasma. Mi piace documentarmi, osservare e ripetere con entusiasmo qualcosa che è lontano da me sino a quando non diventa mio. Quanto più il ruolo è distante da me, tanto più mi sento libera dopo avere trovato tutte le affinità necessarie. È come imparare a suonare uno strumento: è il jazz dell’animo umano.

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«Il segreto è amare incondizionatamente un mestiere che, spesso, è un amante ingrato». hair styling OSIS SL POWDER CLOUD look LEVI’S stivaletti MARSELL

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«È sempre stato impossibile non considerare il cinema parte di me». hair styling OSIS SL MOLDING PASTE look LEVI’S

«Vi auguro di non incontrarmi mai per la strada mentre sto preparando una parte!». hair styling OSIS SL HAIRSPRAY STRONG, OSIS SL CRYSTAL GEL e OSIS SL COAL PUTTY giacca LEVI’S

CHRISTIAN BURRUANO 30 anni, Torino

MATTEO VIGNATI 29 anni, Pavia

Mi avete visto in: • E la chiamano estate di Paolo Franchi • Dracula 3D di Dario Argento • Non uccidere • Ho da poco concluso le riprese de Il Capitano Maria di Andrea Porporati

Mi avete visto in: • The start up di Alessandro D’Alatri • Braccialetti rossi di Giacomo Campiotti • Don Matteo di Daniela Borsese • Viva la sposa di Ascanio Celestini • L’intrepido di Gianni Amelio

Questo mestiere è un’attesa costante, ma sempre in movimento. Il cinema che amo è quello che mi ha cresciuto: sono fortemente legato a nomi e pellicole che hanno fatto la storia con le loro modalità narrative. Il teatro, il cinema e l’acting in generale sono qualcosa a cui non ho mai visto un’alternativa. Il tempo mi ha insegnato che questa è la definizione di passione: è sempre stato semplicemente impossibile non considerarla parte di me. L’attore è una persona sensibile, non perché “sente” o prova emozioni, ma perché ha una conoscenza di queste emozioni più dettagliata e, soprattutto, perché “ascolta”. I grandi attori sanno inserirsi in un ambiente silenziosamente, riconoscendone le caratteristiche e accordandovisi, componendo una sinfonia di cui si può essere protagonisti in armonia con tutti gli altri. La vera difficoltà sta nel liberarsi della necessità di “essere” un personaggio e vivere con la fiducia che questo approccio sarà d’aiuto alla solidità del ruolo cui si dà vita.

Nell’era dei social il problema di un attore è diventato, paradossalmente, acquisire visibilità. È questa che permette di costruirsi un pubblico, rendendoti finalmente un professionista autonomo. Per ottenerla, però, bisogna raggiungere un alto livello di libertà e di maturità. Internet ha mutato profondamente e rapidamente il modo di fruire l’arte e la cultura da parte del pubblico. Il coraggio non basta mai, tanto da parte di chi potrebbe investire, quanto di chi ha bisogno d’investimenti, ovvero gli stessi artisti. Un attore emergente deve essere consapevole del sistema economico in cui si muove e farci i conti quotidianamente. E non scordare mai che, senza qualcuno disposto ad ascoltarti, parlare è inutile. Tuttavia, credo ancora che il cuore ripaghi più del calcolo. Mi piace lavorare al servizio di una storia, di una visione. Libero l’istinto dietro agli stimoli che parole e immagini mi suggeriscono. Rifletto. Leggo. Corro e parlo da solo... Vi auguro di non incontrarmi mai per la strada mentre sto preparando una parte!

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«Quando studio un nuovo personaggio ballo, canto, rido, piango e mi diverto». hair styling OSIS SL SPRAY MOUSSE, OSIS SL HAIRSPRAY STRONG e OSIS SL HAIRSPRAY FLEX look LEVI’S

LORENA CESARINI 29 anni, Dakar Mi avete visto in: • Arance e martello di Diego Bianchi • Il Professor Cenerentolo di Leonardo Pieraccioni • I bastardi di Pizzofalcone di Carlo Carlei • Mi vedrete in Suburra, la serie diretta da Michele Placido, Andrea Molaioli e Giuseppe Capotondi La sfida più grande per un attore emergente è mantenere, nonostante le difficoltà, la determinazione, la forza e la pazienza di raggiungere il proprio obiettivo senza farsi abbattere. Inoltre, nel mio caso specifico, essere nera in un paese in cui l’integrazione non è ancora ai livelli dei nostri vicini europei non rende il mio obiettivo più facile da raggiungere. È rarissimo che venga scritto un progetto con protagonista una ragazza di colore: in Italia prevale ancora una visione stereotipata. Tuttavia, mi rendo conto che ci sono i margini per un cambiamento. Quando studio un nuovo personaggio è importante che sia completamente rilassata. Faccio molto training fisico, a casa da sola, con il mio corpo e le mie emozioni. Ballo, canto, rido, piango, mi diverto. Poi mi concentro sulla comprensione del testo, sul sottotesto... prepararmi con un coach che possa correggermi mi fa sentire più sicura.

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- Videoclip -

Il video della canzone di Vasco Un mondo migliore ha conquistato il premio come videoclip dell’anno alla 14esima edizione del Premio Nazionale Roma Videoclip.

Giuseppe Domingo Romano, aka Pepsy Romanoff, classe 1977, è oggi uno dei registi di videoclip più apprezzati e richiesti.

PEPSY ROMANOFF

VASCO? LO ODIAVO. POI…

GIUSEPPE DOMINGO ROMANO, IN ARTE PEPSY ROMANOFF, È UN ARTISTA ECLETTICO E POLIEDRICO, SEMPRE ALLA RICERCA DI NUOVI LINGUAGGI ESPRESSIVI E VOTATO A FARE DELLA CREATIVITÀ UN MUST NON SOLO PER IL SUO PERCORSO DI VITA, MA ANCHE AL SERVIZIO DEI GIOVANI TALENTI.

Nessuno può dire che questo nome d’arte non gli abbia portato fortuna, considerando gli artisti con cui Pepsy ha lavorato negli ultimi anni: Club Dogo, Marracash, Guè Pequeno, Ezio Bosso, Pino Daniele, Verdena, Samuele Bersani, Franco Battiato e la lista potrebbe continuare fino ad arrivare al più grande, Vasco Rossi. «Odiavo Vasco prima di conoscerlo. Colpa d’Alfredo, Liberi liberi, Fegato spappolato… era musica che non capivo. Ci siamo incontrati grazie a Sky Arte per una serie, Ogni volta Vasco: siamo solo noi. Mi ero documentato su di lui, ma non sapevo tutto e forse anche grazie a questo è nata un’alchimia speciale tra di noi e ho capito perché le persone non possono fare a meno di seguirlo: ha un’aura particolare, un carisma dal quale non puoi scappare, oltre a essere un grande professionista». Un incontro che ha favorito la crescita della

sua carriera, portandolo a curare la regia del concertoevento di Vasco Rossi dell’1 luglio a Modena.

Per Pepsy tutto parte proprio dall’artista, dalla sua estetica e dal suo modo di sentire la musica: da qui inizia a scrivere i videoclip. «Per me è importante capire cosa pensa l’artista, quale idea ha seguito quando ha scritto la canzone per proporre immagini che non siano didascaliche, ma rappresentino la sua visione, il suo mondo». Un artigiano del suono e delle immagini, così Pepsy ama definire se stesso e il suo lavoro, e con questa stessa idea ha dato vita a una casa di produzione, la Except, fondata nel 2007 insieme a Maurizio Vassallo, fucina di creatività e linguaggi artistici. Del concerto di Modena dice: «L’ambizione è quel-

la di raccontare quarant’anni di musica, mostrare quello che le canzoni di Vasco hanno rappresentato». Un progetto importante, che vede Pepsy come

art director affiancato da un altro nome importante, quello di Giorgio Testi (Blur, Killers, Rolling Stones), «un punto d’arrivo, un misto tra teatro, musica, cinema e spettacolo». Fondamentale il team di professionisti con il quale si confronta ogni giorno. «Il rapporto che ho con la mia squadra è simile a

quello di due amanti: si discute, si trovano punti in comune. Nel live siamo tutti registi: per il concerto di Vasco sono pre-

viste 26 camere, 26 regie diverse, 26 punti di vista differenti». Lo sguardo di Pepsy non si ferma solamente dietro la macchina da presa, guarda al futuro e soprattutto ai giovani. Per loro ha fondato Nativa, una scuola di formazione per il mondo dell’audiovisivo. «È un progetto vincente e di nicchia perché ci consideriamo artigiani professionisti. I giovani di oggi non hanno voglia di studiare e di sacrificarsi: pensano che per fare questo mestiere basti un diploma. Invece non è così: bisogna partire dal basso, vivere il set. Il percorso va disegnato, costruito giorno per giorno: solo così si arriva in alto. Sicuramente oggi i ragazzi di vent’anni hanno una capacità d’apprendimento maggiore di quella della mia generazione, quello che manca è il saper fare e spesso il rapportarsi con le persone con cui si lavora. Compito del regista credo sia proprio creare un’empatia con gli altri». Dalla “bottega” di Nativa sono usciti alcuni professionisti che hanno lavorato con Pepsy e la sua squadra, per poi continuare la propria carriera. In tutto ciò, Pepsy ha trovato anche il modo di creare uno spazio dedicato esclusivamente alla creazione: Avantguardia. Un progetto innovativo fondato con Ok Rocco e Dj Shablo, composto da un collettivo di produttori italiani che, attraverso musica e immagini, vuole trovare la massima libertà espressiva. Una

sorta di archetipo artistico che racchiude l’essenza della videoarte: il valore delle immagini unito alla musica. Un contenitore cosmopolita dove esprimersi senza limiti.

Tecnica, passione e creatività: Pepsy Romanoff è riuscito a unire queste tre caratteristiche nel suo lavoro dando vita a una carriera professionale intensa e apprezzata. Nonostante questo la sua evoluzione continua, per il suo futuro ha altri progetti: un lavoro tra cinema e teatro con l’attore Vinicio Marchioni (già protagonista del videoclip di Un mondo migliore) e una serie TV. Nuovi stimoli e nuove sfide da affrontare per arrivare di nuovo a quel particolare momento: «Quando spingo il tasto

REC è come se anche io facessi un live vero e proprio, come se la telecamera fosse uno strumento musicale nelle mie mani».

Ringraziamo per la collaborazione FRANCESCA PIGGIANELLI e ROMA VIDEOCLIP

«Compito del regista credo sia proprio creare un’empatia con gli altri».

di ELENA CIRIONI foto SHA RIBEIRO

U

n viaggio da iniziare, qualcosa o qualcuno da raggiungere in quella parte di mondo migliore che tutti sognano di trovare. Questo è il racconto d’immagini scritto da Pepsy Romanoff per il video della canzone di Vasco Rossi

Un mondo migliore, premiato come videoclip dell’anno alla 14esima edizione del Premio Nazionale Roma Videoclip. Di strade Giuseppe Domingo Romano ne ha attraversate parecchie prima di diventare uno dei registi di videoclip più premiati e ricercati d’Italia. Nato a Torre Annunziata (NA) nel 1977, inizia pro-

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prio dalle immagini, dalla grafica pubblicitaria, per poi scoprire la fotografia e infine approdare nel mondo dei videoclip in un’evoluzione continua caratterizzata da differenti linguaggi creativi ed espressivi.

Tutto nasce quasi per scherzo nel 2009, quando Alioscia, leader dei Casino Royale, presenta Giuseppe a Pharrell Williams. Il rapper americano è a Milano con i N.E.R.D. per un concerto, c’è bisogno di un bravo regista. Peppe sembra perfetto ma, secondo Alioscia, ha bisogno di un nome più internazionale, così nasce Pepsy Romanoff.

Caratteristica del lavoro di Romanoff è la manipolazione di differenti linguaggi, passando attraverso le immagini.

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- Soundtrack -

È

PAOLO BUONVINO

LA MUSICA COME DESTINO Ha scritto celebri colonne sonore per registi come Muccino, Veronesi, Verdone e Placido. Lavora con artisti italiani e internazionali e fra i suoi amici più cari c’è Franco Battiato, di cui è stato giovane assistente. di ROBERTA FORNARI

Fra le collaborazioni più note di Paolo Buonvino quelle con Elisa, Skin, Carmen Consoli, Negramaro, Dolores O’ Riordan, Jovanotti.

la «predisposizione per la commistione tra linguaggio colto con linguaggio popolare», unita alla voglia di sperimentare, che lo ha condotto ad esempio a comporre hit come Eppure sentire interpretata da Elisa e la più recente Renaissance per Skin, colonna sonora della serie Medici. Ci accoglie nel suo studio vicino al Colosseo, ma è in un bar, davanti a una spremuta e un caffè, che Paolo Buonvino comincia a riflettere assieme a noi su cosa significhi comporre musica oggi. L’epoca della frenesia dei like, del dinamismo

tecnologico e della smania di arrivismo: «Questo impoverimento lo sentiamo più o meno tutti. È come se ogni giorno ci nutrissimo di cibi precotti: probabilmente di fronte a un piatto fatto in casa avremmo all’inizio delle resistenze, ma ci accorgeremmo presto della differenza. Forse è necessario attraversare questo medioevo per riprendere davvero coscienza di noi stessi; nessuno ai giorni nostri è esente dal rischio di produrre materiale vuoto, e questo non vale solo per chi fa arte. Secondo me chi ha la consapevolezza di trovarsi male in questa situazione, deve contribuire a creare le condizioni giuste per sé e per gli altri, anche a costo di andare controcorrente». È a questa autenticità e verità a cui Paolo Buonvino aspira quando compone musica: la verità di se stesso, del proprio

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lenza precisa nella nostra cultura, ti fa sentire a casa, nel Benin invece suona come uno strumento etnico!». Identificare quale, tra fattori innati e influenze culturali, determini in maggior misura una reazione emotiva all’ascolto della musica, è difficile da dire. Non c’è una regola universale, «la musica interviene su ognuno di noi evocando immagini e sensazioni diverse». A riprova di ciò, assistiamo a un esperimento “in vitro” che Buonvino presenta spesso anche all’università. Ci fa ascoltare un suo brano a tracce separate chiedendoci di esprimere le nostre sensazioni. Iniziamo con la parte ritmica, per poi aggiungere l’armonia, la linea melodica e infine ascoltiamo il brano in multitraccia. In tutti i casi, le nostre reazioni si presentano diverse e variegate, se pur con dei punti comuni. «Quello che emerge da questo esperimento non è altro che la combinazione tra fattori culturali ed elementi psicologici innati che intervengono diversamente su ciascuno di noi. Per questo il musicista deve essere vero ed efficace. Magari toccherà corde diverse, così

Nel 2008, Buonvino riceve il David di Donatello e il Nastro d’Argento per la colonna sonora di Caos calmo di Antonello Grimaldi.

sentire, per armonizzarsi, attraverso le note che compone, con le emozioni dell’ascoltatore.

All’attività di compositore, Buonvino affianca anche quella di formatore, in particolare con il progetto GoodLab Music, nel quale i giovani allievi vengono posti subito di fronte a opportunità di lavoro concrete.

sfrutta un imprinting inconsapevole che tutti abbiamo già da prima di nascere, uno dei sensi che si sviluppa presto è proprio l’udito. La relazione tra udito ed eventi esterni è molto forte in noi. Questa capacità innata si arricchisce poi con le esperienze e l’ambiente sociale in cui viviamo: per esempio il pianoforte ha una va-

«LA MUSICA ARRIVA SENZA CHIEDERE PERMESSO».

La grande maestria di questo compositore nel tradurre sensazioni e sentimenti in suono non sfugge all’esordiente Gabriele Muccino, il quale dopo averlo ascoltato ne La piovra 8 lo scrittura per il suo primo film Ecco fatto e per quello successivo Come te nessuno mai, grazie al quale Buonvino riceve la prima candidatura al David di Donatello. «Non sapevo nulla di questo premio! Venendo dal mio paesino di Scordia e conoscendo poco il cinema, chiedevo: “Ma è un premio importante?”». Da subito tra il compositore e il regista nasce una grande affinità che consente di dare forza narrativa, l’uno con la musica e l’altro con le immagini, al complesso mondo emotivo dei protagonisti dei film, al punto che il pubblico si trova inevitabilmente coinvolto nel racconto: «Come te nessuno mai ad esempio parla di adolescenti che fanno la loro prima occupazione. Gabriele mi spiegò: “Dobbiamo fare in

modo che lo spettatore si senta un quindicenne, l’irruzione notturna a scuola deve essere l’inizio della seconda guerra mondiale!”. Io con la musica e lui con le immagini doveva-

mo rendere l’epicità di una situazione in grado di coinvolgere anche un adulto. Un meccanismo perfezionato ne L’ultimo bacio, tant’è vero che se accosti la colonna sonora alla scena di una battaglia vera, ci si adatterà perfettamente. Anche in quel caso infatti dovevamo rappresentare una guerra, quella psicologica fra i protagonisti». La forte personalità musicale di Buonvino si esprime liberamente nei film e si fa notare, diventando un elemento significante della scena. «La musica arriva senza chiedere permesso. Bypassando l’intelletto

come è diverso il mondo interiore di ognuno di noi, ma se davvero proverà determinate emozioni, sarà più facile per lui sintonizzarsi con la mappa emotiva delle persone che ascoltano. È la differenza che passa tra un sorriso vero e uno di circostanza: se rido davvero la mia risata probabilmente sarà contagiosa». La ricerca introspettiva è

per il compositore uno studio costante e consapevole al pari della preparazione tecnica e teorica. Un sapere

che trasmette agli allievi del suo laboratorio di musica per immagini, il GoodLab Music, ponendosi l’obiettivo di incoraggiare liberamente la creatività dei musicisti in un contesto di forte condivisione artistica, al fine di creare una condizione di scambio e sostegno reciproco. La stessa cosa accade quando si confronta con la produzione di brani per i grandi artisti della musica italiana e internazionale: «L’incontro con gli altri artisti mi è sempre utile, così anche la composizione di canzoni perché mi permette di cambiare: se facessi solo film e mai una canzone, entrerei in un circuito di abitudine che preferisco evitare». Insomma Paolo Buonvino è un artista completo che con professionalità e dedizione ha superato quella che definisce la sfida più importante: riuscire a realizzare il suo sogno. «Vengo da un paesino di 16mila abitanti, con a mala pena due cinema. Non conoscevo nessuno nell’ambiente musicale. Sembrava impossibile farcela. Invece ho sempre pensato che sarei riuscito perché tutti noi facciamo parte di un “ingranaggio” che ci vuole bene, e ci dà la libertà di volerci bene a nostra volta, quindi se sappiamo orientarci, quel bene prima o poi arriva. “I tuoi desideri sono il tuo destino”, diceva Schopenhauer, bisogna saper riconoscere i propri desideri e convincersi che possano avverarsi… perché si avverano!».

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- Realtà virtuale Oniride è un’azienda romana innovativa specializzata nella realtà virtuale e nel mixed reality per beni culturali ed entertainment.

LA NOTTE STELLATA NEL VISORE

Hanno sviluppato il primo fumetto al mondo realizzato in ambiente virtuale, Magnetique. Hanno applicato le nuove tecnologie al patrimonio culturale del paese, offrendo servizi a musei, siti archeologici, esposizioni. di ILARIA RAVARINO

avendo ancora il know-how – volevo realizzare un sogno: camminare dentro a La notte stellata di Van Gogh. Con quel prototipo ho cominciato ad andare in giro e così ho conosciuto Mitchell, che poi è diventato il mio socio, oltre che uno dei miei migliori amici. Mitchell Broner Squire Io ho lavorato come avvocato per otto anni, occupandomi di diritto societario e commerciale nel contesto di operazioni di M&A e Private Equity, anche nell’ambito delle telecomunicazioni e della tecnologia, per la quale ho sempre nutrito una grande passione. Andrea e io siamo due anime diverse che lavorano insieme, una gestionale e l’altra più artistica. E credo che questo sia esattamente quel che fa la differenza sulla concorrenza. Cosa vi ha insegnato l’esperienza con Expo? MBS Ci ha convinti a seguire la direzione dell’offerta di servizi ai beni culturali: era un’esperienza di valorizzazione dell’eccellenza del territorio della Regione Lazio all’interno del Padiglione Italia. E ci ha dato la credibilità di cui avevamo bisogno sul mercato corporate. Dettaglio non da poco, perché quel che facciamo non è economico: good VR is not cheap, and cheap VR is not good. AG La nostra vittoria iniziale, fin da quel progetto, è stata rendere il linguaggio della VR accessibile all’analfabeta digitale, anche alla “signora Maria” che magari ha paura solo a indossare un visore...

E

Come è nata Oniride? Andrea Giansanti La società si è costituita nel 2014, ma i primi passi li abbiamo mossi l’anno successivo. L’idea iniziale era quella di sfruttare le nuove tecnologie nell’ambito dei beni culturali: da appassionati del settore abbiamo visto “arrivare” la realtà virtuale in un momento in cui il treno delle app su mobile sembrava essere definitivamente passato.

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Vi conoscevate? AG No. Sono stato messo in contatto con Mitchell e lui, che pure aveva già un buon lavoro ben pagato, ha deciso di mollare tutto per rimettersi in gioco. Il nostro primo grande progetto è stato sviluppato per Expo.

Su cosa puntate adesso? MBS Continuiamo con la vocazione iniziale: servizi per

aziende, siti archeologici, spazi espositivi, valorizzazione dei musei, digitalizzazione dei contenuti. Poi abbiamo anche una parte di comunicazione e promozione per le aziende. Questa è l’attività che ci sostiene e ci permette di fare ricerca e sviluppo. Lavoriamo anche a contenuti da pubblicare sugli store, ma a oggi è più difficile: chi usa il visore, e quanto a lungo? Che contenuti cerca? Oggi i visori sono più comodi, ma serve un contenuto all’altezza. La mancanza di un mercato scoraggia lo sviluppo di contenuti, e viceversa. Vi interessa lo storytelling in VR? AG Sì, lo storytelling in VR è la tendenza del momento. Ce ne siamo occupati per l’ultima campagna della Nissan Italia. All’inizio

le pubblicità in VR consistevano semplicemente nel mostrare il prodotto in un ambiente virtuale. Adesso le aziende chiedono di creare un contenuto, una storia.

E poi è arrivato Magnetique. Perché un fumetto in VR? AG Semplicemente perché il nostro capo programmatore è anche uno sceneggiatore di fumetti... E così abbiamo deciso di provare: firmammo un’esclusiva di sei mesi con un editore italiano e portammo il progetto a Lucca Comics & Games nel 2015. Uscimmo con la app su piattaforme “normali” per Android e iOS, andammo bene ma non fu un vero successo. La svolta è arrivata quando

Nell’ultimo progetto abbiamo quindi inserito un narratore e qualcuno – un piccolo robottino – che aiuti lo spettatore a spostarsi nello spazio, a muovere la testa nell’ambiente virtuale. In questo periodo stiamo inoltre lavorando a un progetto per un’esibizione dell’Istituto Modigliani sulle opere del maestro presentate in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto. L’aspetto più difficile in questi progetti è trattenere l’attenzione dell’utente, perché basta anche il minimo lag (un ritardo nella visione, ndr) per “violare la distanza estetica” e distruggere così l’effetto di immersione.

internazionale, il riconoscimento come primo fumetto in VR al mondo. Abbiamo capito che se il pubblico italiano non era pronto,

L’esperimento Magnetique continuerà? AG Certo. Uniremo i primi tre capitoli in un’unica intro di 24 tavole. Gli altri sette capitoli li distribuiremo a partire da ottobre a cadenza mensile. Nonostante i 20.000 download che abbiamo all’attivo, vorremmo raggiungere ancora tanti altri lettori...

Oculus ha aperto la sua piattaforma su GearVR, legata a Samsung, e Magnetique è finito su uno store dedicato: uno spazio pensato per un pubblico che cercava esplicitamente un contenuto in VR. E là è arrivato il successo

hanno assunto otto persone. A tempo indeterminato. A Roma. Hanno 31 e 32 anni Andrea Giansanti e Mitchell Broner Squire, fondatori di Oniride, ex startup diventata azienda, nata da un sogno vagamente hippie («Camminare nella notte stellata di Van Gogh») e cresciuta fino a diventare una delle rarissime eccellenze nel campo della realtà virtuale italiana.

quello globale sì: la sfida ora è fargli arrivare il prodotto.

«VOLEVO REALIZZARE UN SOGNO: CAMMINARE DENTRO LA NOTTE STELLATA DI VAN GOGH». www.oniride.com

Da quali esperienze professionali arrivate? AG Io lavoravo già nel settore dell’IT per alcune aziende, tra cui Apple. A 22 anni mi sono ritrovato con un po’ di soldi e ho pensato di usare le nuove tecnologie per fare l’artista. Così per dieci anni ho fatto teatro come scenografo, occupandomi di video mapping e ambienti sensibili nei teatri internazionali. Poi però la VR mi ha suggerito un nuovo orizzonte. Ricordo che

investii poco più di 300 dollari su Kickstarter per comprare un prototipo di visore, con il quale – pur non

Oniride nasce da un’idea dei giovani fondatori Andrea Giansanti e Mitchell Broner Squire.

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- Effetti speciali -

Corse mozzafiato, rischio e adrenalina a gogo. Ingredienti stimolanti e tutt’altro che banali. In che modo questo progetto è arrivato sulla tua scrivania? Veloce come il vento mi è stato proposto dal nostro partner Andrea Marotti, che si occupa di visual effects anche per film americani. Rovere voleva effetti analogici, assolutamente non evidenti. Una scelta coraggiosissima e, credo, uno dei motivi principali per cui abbiamo vinto il David di Donatello. Artea Film è una realtà

molto piccola, che esiste dal 1999 e si occupa di post produzione e visual effects. Abbiamo ini-

VELOCE COME IL VENTO

MOTORI RUGGENTI

ziato a lavorare nel cinema, che era il nostro obiettivo sin dall’inizio, con Ti ho cercata in tutti i necrologi di Giancarlo Giannini. Vedere finalmente premiato il nostro lavoro di squadra ci ha reso felicissimi.

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Entriamo nei dettagli. Come avete lavorato per ottenere effetti non visibili? Nelle scene più importanti abbiamo inserito auto in 3D accanto a macchine reali. Avremmo potuto girarle dal vivo ma, in fase di montaggio, ci siamo resi conto che era necessario ricostruirle virtualmente. Abbiamo

eseguito un tracking 3D della scena e ricreato la camera, perché dovevamo poter compiere gli stessi movimenti che la macchina da presa eseguiva nella realtà. A questo punto, siamo passati

alla ricostruzione della pista e dei suoi bordi per avere riferimenti precisi dello spazio su cui far muovere l’auto in 3D. In parallelo, i modellatori ricreavano i

veicoli protagonisti del film: le due Porsche e la Mustang.

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Il cult diretto da Matteo Rovere ha tagliato un importante traguardo per il cinema italiano sotto tanti punti di vista. Non ultimo, quello degli effetti speciali per i quali ha vinto il David di Donatello. Carlo Tosi, VFX executive producer di Artea Film, ne svela gli invisibili segreti. di CHIARA CARNÀ BEFORE

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www.ciaklist.com

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NETWORKING ALL’ITALIANA

Veloce come il vento si è aggiudicato il premio per i Migliori Effetti Speciali al David di Donatello 2017.

Una macchina da corsa è chiaramente diversa da una tradizionale. Per animarla, bisogna tener conto di ogni minimo dettaglio, dal modo in cui la luce colpisce la carrozzeria e restituisce un determinato effetto, a tutti i materiali che la compongono (compresi livrea esterna, disco freni ecc). Un lavoro meticoloso, che è partito da foto di scena e che, in termini di tempo, richiede almeno una settimana. La fase finale è il compositing, che coincide

«SCOMMETTERE SU CHI È ANIMATO DALLA PASSIONE NON PUÒ CHE PORTARE ALLA VITTORIA».

con la sfida più ardua: far sì che la macchina in 3D risulti esattamente integrata alla scena e non sia riconoscibile. L’obiettivo era eliminare la sospensione

dell’incredulità, privare del tutto il film di quella spettacolarizzazione hollywoodiana dell’effetto. In generale, quando si creano effetti speciali, dar vita a un elemento surreale garantisce più libertà e meno vincoli con la realtà. Ma qui non ci potevamo permettere nulla di tutto questo. Puoi farci qualche esempio? C’è una scena in cui la Porsche della protagonista sta per essere superata sotto la pioggia dalla macchina amaranto e grigia... che è digitale! C’è un camera car a precedere e poi il testa coda. Anche nella sequenza in cui la Mustang picchia contro la BMW e la fa ribaltare, la prima è completamente digitale e tutto è inquadrato in soggettiva, dall’interno di un’altra automobile. Veloce come il vento ha fatto fare un bel passo avanti ai visual effects italiani, così come altri film recenti, ad esempio Mine. Gli effetti speciali potrebbero e dovrebbero

APPRODA ONLINE CIAKLIST.COM, INNOVATIVO PORTALE DEDICATO AI PROFESSIONISTI DELL’AUDIOVISIVO. COME FUNZIONA IL SOCIAL DI CHI IL CINEMA LO FA?

Perché, secondo te, raramente in Italia si punta sugli effetti speciali? Produttori e registi hanno paura di rischiare e sono convinti di dover per forza sacrificare grossi budget. Abbiamo tecnici italiani incredibilmente competenti ma con poche occasioni. Chi ha successo nel campo degli

effetti speciali ha scelto questa strada per passione, rimboccandosi le maniche. E scommettere su chi è animato dalla passione non può che portare alla vittoria. Inoltre il supervisore, figura fondamentale per chi fa il nostro lavoro, abbatte notevolmente i costi di produzione perché, anticipando eventuali problemi, consente all’équipe di lavorare bene e serenamente. Io ho capito qual era la mia strada ammirando i grandi film che hanno fatto la storia degli effetti speciali, come Star Wars o Blade Runner. Negli anni, ho avuto la fortuna di partecipare come VFX producer a grosse produzioni come On the Milky Road di Emir Kusturica, gli horror It follows e The Nightcrawler con Jake Gyllenhal. Purtroppo oggi capita spesso di vedere film al servizio dell’effetto pur di andare incontro ai gusti del pubblico. Io però credo sia

imprescindibile un equilibrio tra storia avvincente, regia scrupolosa ed effetti grandiosi. Arrival di Villeneuve è un

esempio perfetto.

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a cura di CHIARA CARNÀ

L’

idea di fondare il portale web cinematografico Ciaklist. com viene, nel 2015, all’aiuto regista Antonio Le Fosse e a Claudio Croccolo, Nicola Fiorentino e Filippo Mancini. L’obiettivo è rispondere all’esigenza di far incontrare domanda e offerta di lavoro per affermati addetti ai lavori. Adesso ciò

è possibile attraverso uno spazio online in cui questi ultimi possono dialogare con i professionisti del futuro e sviluppare insieme progetti cinematografici, realizzando le aspirazioni sia del pubblico che dei creativi.

Per i giovani aspiranti, come da prassi in ogni social network efficace e intuitivo, è necessario creare un Profilo, gratuito e accessibile, in cui presentare progetti e competenze. Nella sezione Note è possibile plasmare un archivio personale di utenti con cui si è collaborato, ma, naturalmente, la funzione più interessante è la possibilità di cercare e contattare, in base a caratteristiche e disponibilità, le società o le figure professionali necessarie per trasformare un progetto in realtà. Ciaklist, dunque, sulla falsariga dell’arcinoto IMDB, nasce soprattutto per dar spazio e offrire concrete opportunità a idee originali, dando la possibilità di illustrare un progetto visibile a tutti e di pubblicare annunci per rintracciare i collaboratori appropriati affinché lo schizzo, una volta divenuto opera completa, possa arricchire il profilo di nuove referenze, ampliando le connessioni con gli esperti del settore. A tal proposito, alle società è riservato invece il Profilo Business: un canale privilegiato, a pa-

gamento, per raggiungere nuovi clienti e rafforzare l’immagine dell’azienda pubblicizzando la propria attività e mettendo in evidenza prodotti e servizi negli spazi che il portale dedica al business. Non mancheranno iniziative collaterali per stimolare i neofiti a mettersi alla prova. Recentemente, è stato lanciato il primo Contest, rivolto a piccole troupe, per la realizzazione della pre-produzione di un cortometraggio cinematografico. I finalisti accederanno a una giornata di pitch, che si terrà a novembre, con le più attive società di produzione cinematografica di cortometraggi. Queste, insieme a un team tecnico composto da uno sceneggiatore, una regista e un organizzatore di produzione, andranno a comporre la giuria che designerà il vincitore. Ma non è tutto: sono previsti Workshop tenuti dai professionisti per migliorare le proprie competenze e un canale costantemente aggiornato per iscrivesi a festival nazionali e internazionali. Ciaklist è un progetto realizzato grazie al Fondo della creatività per il sostegno e lo sviluppo d’imprese nel settore delle attività culturali e creative, ottenuto nel 2014 dalla Regione Lazio. Nel 2016 è stato selezionato come progetto vincitore del premio speciale Giffoni Innovation Hub e ha partecipato al Giffoni International Film Festival come progetto partner. Il marketing, la ricerca di sponsor e la consulenza in ambito cinematografico sono affidati al partner dispàrte, società di produzione fondata a Roma nel 2015 da Alessandro Amato e Luigi Chimienti per dare voce ad autori emergenti, locali e internazionali, e raccontare i nuovi talenti.

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www.artea.net

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trovare uno spazio maggiore nel nostro cinema. Sono curioso, a questo proposito, di vedere il sequel de Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores.

Ciaklist.com nasce con l’obiettivo di far incontrare i professionisti del settore cinematografico sul web.

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- Making of -

SINOSSI Dopo averla combinata grossa ed essersi inimicati tutto il paese, quattro disoccupati calabresi si danno alla fuga nel bosco. Obbligati a trovare una soluzione per ripagare il danno fatto, uno di loro è convinto di avere avuto un’idea geniale che, a suo dire, li farà svoltare. La mano del destino intreccia le sue trame e i quattro ragazzi si troveranno coinvolti in una storia rocambolesca dai risvolti tragicomici e assolutamente inaspettati. NOTE DI REGIA «Rapiscimi è una commedia giovane, lontana dai soliti stereotipi italiani, nonostante l’argomento sia assolutamente italiano, anzi, regionale. Un film per sdrammatizzare e far sorridere sia sulla condizione della disoccupazione giovanile al Sud, sia su un tema delicato come la ’ndrangheta. Ciò che più amo della sceneggiatura è l’atmosfera western che spesso si respira in quel

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IL REGISTA Gianluca Gargano, nato in Calabria nel 1975, ha realizzato cortometraggi, lungometraggi, documentari e spot pubblicitari, vincendo negli anni diversi festival con i suoi lavori. Attualmente vive in Francia. Rapiscimi è la sua opera prima.

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Macchina da presa in posizione zenitale per ripresa plongée.

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RAPISCIMI

Sud dimenticato da Dio. I silenzi, le sospensioni temporali, gli sguardi a volte di sfida o di complicità, la desolazione della strada principale del paese sono tutti elementi che si fondono con l’azione del film e l’irrequietezza di alcuni personaggi. E poi c’è il bosco, altro personaggio importante. Il bosco nasconde insidie e sorprese e opera come una mano proveniente dall’alto che muove i fili del destino dei personaggi. Infine la scelta di dare un respiro internazionale è fondamentale per esportare il film fuori dal confine italiano».

4x4 bianco a copertura del sole, Arri m18 di controluce all’interno dell’imbarcazione; astralight con softbox da terra per i finestrini della barca.

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Postazione DIT, Davinci resolve; comando diaframmi remotati.

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Braccio elevatore con Arri m40 per l’illuminazione del fiume in una scena notturna.

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REGIA Gianluca Gargano SCENEGGIATURA Gianluca Gargano, Vincenzo Di Rosa, Alessandro Pondi, Paolo Logli, Umberto Carteni SUONO Gianfranco Tortora SCENOGRAFIA Alessandro Rosa COSTUMI Paola Nazzaro MUSICHE Turi MONTAGGIO Maurizio Baglivo PRODUZIONE Sandro Frezza per ALBA Produzioni, Gianluca Gargano per ARBALAK, Vincenzo Di Rosa per ARBALAK COPRODUZIONE Check the Gate - Portogallo DISTRIBUZIONE WHALE Pictures NAZIONALITÀ Italia/Portogallo CAST Pietro Delle Piane, Paolo Cutuli, Carmelo Caccamo, Vincenzo Di Rosa, Rocco Barbaro, Alexia Degremont, Massimo Olcese, Paulo Pires, Virgilio Castelo

a cura di DAVIDE MANCA 62

Scena in mare, il trasbordo del materiale dalla barca di appoggio alla barca di scena.

Il regista in macchina controlla la scena, alle sue spalle Arri m40 riflesso su polistirolo 2x1.

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«CIÒ CHE PIÙ AMO DELLA SCENEGGIATURA È L’ATMOSFERA WESTERN CHE SPESSO SI RESPIRA IN QUEL SUD DIMENTICATO DA DIO.».

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Il regista parla con gli attori prima del ciak, l’attrezzista di scena è pronto a intervenire.

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Il capo macchinista sul tetto per fissare un ultrabounce 4x4.

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In scena gli attori, di sfondo il regista che dà indicazioni.

Camera in plongée su slider 3m.

UN’ESTETICA AGGRESSIVA CON RED DRAGON E COOKE S4 Il regista e il direttore della fotografia hanno deciso di dare uno stile dinamico e aggressivo all’estetica del film, usando la camera in posizioni estreme per avere inquadrature che sfruttassero al massimo la profondità e la prospettiva e supporti leggeri per permettere molti movimenti di macchina anche in location poco spaziose e scomode. In questo senso la camera più adatta è la Red Dragon, sia per le sue dimensioni contenute e la facilità di ancoraggio in spazi ridotti, sia per la sua funzione HDR che permette un’esposizione tripla contemporanea, una soluzione molto utile nelle scene tipiche del western. Le ottiche utilizzate sono state le Cooke s4, per la loro capacità di catturare la luminosità e non dare aberrazioni anche nelle situazioni più estreme di luce in macchina e poca profondità di campo. È stata impiegata molta “macchina a mano” nelle scene meno concitate per dare un flow continuo alle battute e quindi alla commedia, e invece molta camera fissa nelle scene più action e nelle sparatorie.

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PICTURES

Da sempre attenta a quello che accade nel mondo del disegno e del colore, Fabrique ha dato vita a una collaborazione con Officina B5: a ogni numero la rivista pubblicherà un’illustrazione frutto di un apposito contest proposto agli allievi della scuola. Come nello scorso numero la vincitrice è Martina Manna, che ha reinterpretato un famoso titolo del cinema italiano, Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola (1976).

BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI Officina B5 è una scuola di illustrazione nel cuore di Trastevere, fondata nel 2005 da Fabio Magnasciutti e Lorenzo Terranera. Si propone come un laboratorio continuo di illustrazione in tutte le sue componenti, dall’acquisizione delle tecniche alle questioni legate alla professione, come una moderna “bottega rinascimentale”. I docenti sono tutti professionisti con differenti specializzazioni. L’intento è preparare gli studenti al lavoro sul campo.

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DIARIO

NEWS

GLI EVENTI DI FABRIQUE

12 MAGGIO 2017

SPAGHETTI CINECOMICS

7 DICEMBRE 2016

CINQUE VOLTE FABRIQUE

Esiste un “nuovo cinema italiano”? Fabrique ha provato a dare una risposta a questa domanda con una Tavola Rotonda tenutasi presso i locali dell’Ex Dogana. Da Lo chiamavano Jeeg Robot a I peggiori, l’evoluzione di un genere tutto italiano sul modello dei supereroi americani. Nel corso dell’incontro, moderato dal critico Francesco Alò, sono intervenuti il critico cinematografico Gianmaria Tammaro, il regista di Smetto quando voglio Sydney Sibilia, il regista di Monolith Ivan Silvestrini, Vincenzo Alfieri e Lino Guanciale, rispettivamente regista e attore de I peggiori.

Per celebrare il suo quinto anno di vita, Fabrique du Cinéma si concede una festa in grande stile all’Ex Dogana di Roma, ambiente versatile in cui il fascino della storia si fonde con le nuove tendenze contemporanee.

GIUGNO-SETTEMBRE 2017

SALOTTO CINEMA Ospite d’eccezione della serata è stato Giovanni Veronesi con il suo nuovo film Non è un paese per giovani prodotto da Paco Cinematografica, con un cast tutto giovanissimo rappresentato da Filippo Scicchitano, Sara Serraiocco e Giovanni Anzaldo. La serata evento apre i battenti con la Tavola Rotonda intitolata “Morte di una webserie - Trasmigrazioni e mutazioni di un genere e dei suoi talent” per riflettere su come oggi il grande e il piccolo schermo attingano dal web per creare nuovi prodotti e protagonisti [vedi articolo a pag. 8]. Significativi gli interventi di Valerio Bergesio, ideatore della serie 140 secondi e regista di Complimenti per la connessione, Luigi di Capua, membro dei The Pills e sceneggiatore di Smetto quando voglio – Masterclass, Janet De Nardis, direttrice artistica del Roma Web Fest, Lorenzo Tiberia e Leonardo Bocci, del duo Actual. Moderatore del dibattito, Gianmaria Tammaro, giornalista ed esperto di serie TV. Protagonista della serata è stata come sempre anche la musica, con il concerto de La Pingra che ha presentato il suo ultimo lavoro, il duo italiano di musica elettronica dei Lapelle che hanno portato un live set inedito e la band ComeMammaMhaFatto, una

jam session di musicisti che amano sperimentare e fondere basi elettroniche con strumenti classici come flauto traverso, sax, violino, conga, chitarra e tromba coordinati dall’esperienza del dj polistrumentista Max Scoppetta. A coronare lo straordinario panorama musicale, il guru dell’elettronica e del clubbing internazionale Craig Richards, con un finale di serata tutto da ballare attraversando molti generi, dalla house ipnotica alla dark disco, electro e minimal techno. Uno spazio d’eccezione è stato riservato all’arte, con le esposizioni di Annalaura Di Luggo e il suo progetto fotografico-performativo Occh-IO/Eye-I, Elena Pizzichelli che ha presentato un “paesaggio di segni” in cui si fonde la dimensione virtuale con quella reale, Camilla Cattabriga che ci ha raccontato un po’ del suo piccolo mondo attraverso la fotografia e Matteo Casilli che ci ha portato fin nella provincia di Crotone con il progetto HUMANS. In questa serata densa di emozioni, Fabrique ha celebrato anche la sua collaborazione con Intersos, realtà in prima fila per portare aiuto alle vittime di guerre, violenze e disastri naturali.

Un’estate all’insegna del buon cinema con il Salotto Cinema, la rassegna proposta da Fabrique con pellicole d’autore e incontri con registi, critici e attori sui divani dell’ex Scalo merci di San Lorenzo. Un nuovo spazio dove potersi godere il cinema informalmente, tra divani e poltrone, drink e stuzzichini, con il meglio della cinematografia contemporanea vissuta in tutto relax. Salotto Cinema è parte della rassegna estiva Condominio San Lorenzo, il nuovo esperimento di co-living e socialità di Ex Dogana. Un condominio con relativa corte e apertura tutti i giorni a ingresso gratuito. Un cortile attrezzato di 3000 mq, un cocktail bar con happy hour, una sala espositiva, una libreria con bookcrossing e gli immancabili biliardini, ping pong e giochi da tavolo.

DOVE

Come e dove Fabrique

ROMA CINEMA BARBERINI | 06.42010392 | Piazza Barberini, 24/26 CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 KINO | Via Perugia, 34 NECCI | Via Fanfulla da Lodi, 68 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 IED | Via Giovanni Branca, 122 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 CINEMA ELISEO | Via Torino, 64 CINETECA MILANO | c/o Manifattura Tabacchi, Viale Fulvio Testi, 121

TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FABRIQUE DU CINÉMA

L’Ex Dogana di San Lorenzo è la suggestiva location scelta per festeggiare i cinque anni di Fabrique du Cinéma. LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO ESTATE

2017

Numero

18

OPERA PRIMA

“I FIGLI DELLA NOTTE”

Andrea De Sica e la nascita di una classe dirigente. Spietata

ICONE

FRANCESCO NUTI

Il ragazzo d’oro, ribelle e geniale, della commedia anni ’80

FUTURES

SÄMEN

Dai commercial alla fiction, con una voce già inconfondibile

TOP

P L A Y E R S Come Lino Guanciale i nuovi protagonisti del cinema italiano giocano sul grande e sul piccolo schermo

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM

WWW.FABRIQUEDUCINEMA.IT Like us www.facebook.com/fabriqueducinema

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FIRENZE CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25

FESTIVAL Cortinametraggio Festa del Cinema di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

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