Al cinema da giovani Maurizio Ponzi

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AL CINEMA DA GIOVANI giudizi, amori e insofferenze in compagnia dei film piU ’amati

Maurizio Ponzi (Roma, 1939), sceneggiatore e regista, ha iniziato la sua carriera come critico cinematografico collaborando a “Filmcritica”, “Cinema&Film” e “Cahiers du Cinéma”. Dopo aver diretto alcuni critofilm dedicati a grandi registi italiani, ed essere stato assistente di Pier Paolo Pasolini, esordisce nel lungometraggio con I visionari (1969), primo premio al Festival di Locarno. Tra i suoi film più famosi la trilogia con Francesco Nuti dal 1982 al 1984 (Madonna che silenzio c’è stasera, Io, Chiara e lo Scuro, Son contento), Qualcosa di biondo (1984), Il volpone (1988), Italiani (1996), Besame mucho (1999), A luci spente (2004), Ci vediamo a casa (2012). Intensa la sua attività televisiva, in cui ha diretto commedie, film e serie televisive. Tra le sue regie: La voce della tortora (1974), Mattolineide (1978), Hedda Gabler (1979), Nero come il cuore (1991), Il Bello delle donne (2000-2003), E poi c’è Filippo (2006). Ha lavorato con i principali attori del cinema italiano.Tra gli altri: Lucia Bosè e Sophia Loren, Alida Valli e Virna Lisi, Stefania Sandrelli e Giuliana De Sio, Renato Pozzetto ed Enrico Montesano, Paolo Villaggio e Nino Manfredi.

Maurizio Ponzi

AL CINEMA DA GIOVANI giudizi, amori e insofferenze in compagnia dei film piU’ amati

AL CINEMA DA GIOVANI

Maurizio Ponzi nella sua vita ha avuto la ventura di scrivere con la carta e la pellicola, con buon successo, riuscendo quasi sempre a mischiare, come consigliava Godard, le due modalità: immaginare di fare del cinema scrivendo critiche, recuperare la critica e la riflessione teorica realizzando film. Di certo per lui il discorso con il cinema non si è mai interrotto. Da spettatore-bambino, onnivoro e instancabile, per cui tutti i film erano belli e meritavano di essere raccontati, fino a quando, giovane critico, ha cominciato a scrivere, frequentare festival, fare interviste. Un rapporto col cinema diventato, col tempo, più controllato ma dove la scelta di certi film e certi autori, denotano sempre uno spiccato gusto personale e soprattutto la voglia di andare oltre la mera funzione dell’analista o, peggio, del certificatore di qualità. Dal 1964 al 1970, collaborando con varie riviste, Ponzi ha scritto centinaia di testi, fra recensioni, saggi, interviste e interventi redazionali. In questo volume ne viene riproposta un’ampia selezione, in cui accanto a pezzi dedicati ai Maestri indiscussi (Chaplin, Dreyer, Rossellini, Lang, Welles, Hitchcock, ecc.) ce ne sono altri più laterali e sorprendenti (e sono quelli a cui l’autore tiene in modo particolare), dai capolavori colpevolmente misconosciuti ai film hollywoodiani frettolosamente etichettati come “commerciali”. Il libro scritto da un critico molto “speciale”, pronto a diventare un regista dall’itinerario artistico per molti aspetti esemplare.

Maurizio Ponzi

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€ 20,00 www.falsopiano.com/ponzi.htm

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VIAGGIO

IN ITALIA

una collana diretta da Fabio Francione


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EDIZIONI

FALSOPIANO

Maurizio Ponzi

AL CINEMA DA GIOVANI giudizi, amori e insofferenze in compagnia dei film piU’ amati


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INDICE

Un critico cineasta, onnivoro e sapiente di Piero Spila

p. 11

Il Bello del Cinema. E non solo Conversazione con Maurizio Ponzi

p. 15

AUTORI

p. 41

Orson Welles Impegno politico nello “Straniero” Jack e il principe Hal poi Henry V (Falstaff)

p. 43 p. 47

Jacques Demy Gli amori condizionati di Jacques Demy Le bel indifferent

p. 51 p. 54

Luis Buñuel I diari

p. 55

Fritz Lang Rapporti fra uomo e società nel cinema di Lang

p. 59

Alain Resnais Muriel: le incognite e la costante Le chant du styrène e Toute la memoire du monde

p. 65 p. 68


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Joseph Losey Losey e la morte colpevole dell’uomo contemporaneo

p. 70

Sam Peckinpah Vita e morte nel West di Peckinpah

p. 74

Robert Bresson L’adolescenza di Marie e la vita di Balthazar Su Mouchette e sul cinematografo di Bresson

p. 77 p. 82

Roberto Rossellini Due o tre cose su Roberto Rossellini

p. 87

Michelangelo Antonioni Comportamenti e imprevisti in Michelangelo Antonioni

p. 92

I FILM

p. 95

I fuorilegge del matrimonio (1963) di V. Orsini e P. e V. Taviani

p. 97

Dove vai sono guai! (1963) di Frank Tashlin

p. 100

Va’ e uccidi (1962) di John Frankenheimer

p. 102

Il giovedì (1964) di Dino Risi

p. 105

La vita agra (1964) di Carlo Lizzani

p. 108

Chi lavora è perduto (1963) di Tinto Brass

p. 110

Quella nostra estate (1963) di Delmer Daves

p. 112

I rinnegati dell’isola misteriosa (1958) di Allan Dwan

p. 114

La vita privata di Henry Orient (1964) di George Roy-Hill

p. 116


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Le voci bianche (1964) di M. Franciosa e Pasquale F. Campanile

p. 118

Giulietta e Romeo (1964) di Riccardo Freda

p. 118

Marnie (1964) di Alfred Hitchcock

p. 120

La notte dell’iguana (1964) di John Huston

p. 123

Questo pazzo pazzo pazzo pazzo mondo (1963) di Stanley Kramer p. 125 Baciami stupido (1964) di Billy Wilder

p. 127

Soldato sotto la pioggia (1963) di Ralph Nelson

p. 129

Strano incontro (1963) di Robert Mulligan

p. 129

Mani in alto di Alfred Hitchcock (TV)

p. 131

Pazzi, pupe e pillole (1964) di Frank Tashlin

p. 133

Scandalo in società (1964) di Delmer Daves

p. 136

I cento cavalieri (1964) di Vittorio Cottafavi

p. 139

Comizi d’amore (1964) di Pier Paolo Pasolini

p. 142

Piano piano dolce Carlotta (1964) di Robert Aldrich

p. 144

Gertrud (1964) di C. T. Dreyer

p. 146

Mickey One (1964) di Arthur Penn

p. 149

Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville (1965) di J.L. Godard p. 151 La ricotta (1963) di Pier Paolo Pasolini

p. 154

Ciao, Pussycat (1965) di Clive Donner

p. 156

Ciclone sulla Giamaica (1965) di Alexandre Mackendrick

p. 158

La mandragola (1965) di Alberto Lattuada

p. 160

Prima vittoria (1965) di Otto Preminger

p. 162

Il magnifico irlandese (1965) di Jack Cardiff e John Ford

p. 164


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Bunny Lake è scomparsa (1965) di Otto Preminger

p. 166

Fahrenheit 451 (1966) di François Truffaut

p. 168

Repulsion (1965) di Roman Polanski

p. 170

La contessa di Hong Kong (1967) di Charles Chaplin

p. 173

A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri

p. 177

Une femme mariée (1964) di Jean-Luc Godard

p. 180

Sovversivi (1967) di Paolo e Vittorio Taviani

p. 183

I Cinegiornali del Movimento Studentesco

p. 185

Il circo (1927) di Charles Chaplin

p. 187

Petulia (1967) di Richard Lester

p. 190

Su Hitchcock

p. 192

Notorious (1946)

p. 192

Il caso Paradine (1947)

p. 193

L’uomo che sapeva troppo (1956)

p. 194

Il seme dell’uomo (1969) di Marco Ferreri

p. 196

Quella notte inventarono lo spogliarello (1968) di William Friedkin

p. 199

INTERVENTI

p. 201

I migliori rivoluzionari del 1968

p. 203


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LE INTERVISTE

p. 205

Alexandre Astruc

p. 207

Jacques Rozier

p. 220

Jean-Pierre Melville

p. 231

Joseph Losey

p. 242

George Cukor

p. 251

Roberto Rossellini

p. 258

Alberto Lattuada

p. 274

Bio-filmografia

p. 287

Nota editoriale di Fabio Francione

p. 301


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Maurizio Ponzi

Pier Paolo Pasolini, Ninetto Davoli e Maurizio Ponzi sul set di Il cinema di PasoliniAppunti per un critofilm (1966)

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UN CRITICO CINEASTA, ONNIVORO E SAPIENTE di Piero Spila Cinquant’anni fa, salutando la pubblicazione di “Cinema&Film”, Bernardo Bertolucci, cineasta giovane e un po’ “inquietato dalla novità”, fu tra i primi a dirlo: scrivere di cinema in quel modo era “una maniera di fare il cinema”, ed era esattamente quanto aveva fatto la piccola tribù che stava dietro alla rivista, che con il primo numero aveva girato anche un film dal titolo lunghissimo: “Cinema&Film” anno I numero 1, inverno 1966-67. La differenza ovviamente stava nel materiale impiegato, la carta costava meno e lasciava più liberi, indipendenti, la pellicola costava più cara e veniva razionata, spesso negata. Poco male, erano mondi separati che potevano diventare complementari. Maurizio Ponzi nella sua vita ha avuto la ventura di scrivere con la carta e la pellicola, con buon successo, riuscendo quasi sempre a mischiare, come consigliava di fare anche Godard, le due modalità: immaginare di fare del cinema scrivendo critiche, recuperare la critica e la riflessione teorica realizzando film, sapendo che per certe persone, certe esistenze, filmare è come vivere, e viceversa. Di certo per Maurizio Ponzi il discorso con il cinema non si è mai interrotto, malgrado le inevitabili difficoltà, qualche delusione, i giusti risentimenti. Il cinema è una presenza costante, che ha riempito e arricchito la sua vita. Da spettatore-bambino, onnivoro e instancabile, per cui tutti i film erano belli e meritavano di essere raccontati, fino a quando, giovane critico, ha cominciato a scrivere, frequentare festival, fare interviste. Un rapporto col cinema diventato, col tempo, più controllato ma dove la scelta di certi film e certi autori, alcune sottolineature ricorrenti, i punti di vista e le prese di posizione, denotano sempre uno spiccato gusto personale e soprattutto la voglia di andare oltre la mera funzione dell’analista o, peggio, del certificatore della qualità. Quando scrive di cinema Ponzi non sta mai dalla parte dello spettatore del film ma sempre dalla parte del regista che quel film ha realizzato, quindi non si accontenta di quello che sta sullo schermo ma cerca di cogliere, quando è possibile, ciò che è detto di traverso o sottovoce e rischia di passare inosservato o essere frainteso. È cosi quando parla delle “lentezze stilistiche” di Dreyer in Gertrud, 11


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o delle gag “straniate” (extra genere) di Chaplin in La contessa di Hong Kong, o del Godard montatore in lotta con il Godard regista in La femme mariée. Un modo di fare critica inusuale che merita di essere segnalato, ma che soprattutto serve a rappresentare un momento formidabile, forse ineguagliabile, del fare critica cinematografica, quando anche in Italia, tra gli anni Sessanta e Settanta, agivano riviste edite avventurosamente eppure capaci di stare al passo delle migliori esperienze straniere (“Cahiers du cinéma”, “Positif”, “Sight&Sound”, ecc.) e c’era una linea di confine permeabile e sottile tra chi faceva cinema e chi lo studiava e ne scriveva. I giovani critici di quegli anni erano in contrapposizione feroce con la critica ufficiale e più paludata, e a loro volta si dividevano in gruppi e scuole di pensiero, ma certamente erano uniti nella passione per il cinema, consumata a volte fino all’oltranza. Insomma, un esercizio del pensiero che in quegli anni ha esercitato al meglio la sua forza e capacità. Questo libro, che raccoglie i testi di un critico “speciale” e di un regista dall’itinerario artistico per molti aspetti esemplare, è dedicato anche a quella generazione lontana e a quel momento irripetibile. Dal 1964 al 1970, collaborando con varie riviste, Ponzi ha scritto centinaia di testi, fra recensioni, saggi, interviste e interventi redazionali. In questo volume ne viene riproposta un’ampia selezione, in cui accanto a pezzi dedicati ai Maestri indiscussi (Chaplin, Dreyer, Rossellini, Lang, Welles, Hitchcock, ecc.) ce ne sono altri più laterali e sorprendenti (e sono quelli a cui l’autore tiene in modo particolare): ed ecco allora, a scelta, un film quasi dimenticato di John Ford (Il magnifico irlandese), capolavori colpevolmente misconosciuti (I cento cavalieri di Vittorio Cottafavi, Giulietta e Romeo di Riccardo Freda), film hollywoodiani frettolosamente etichettati come “commerciali” (Scandalo in società di Delmer Daves, I rinnegati dell’isola misteriosa di Allan Dawn), l’opera prima di un inatteso Tinto Brass (Chi lavora è perduto), e poi certi film di Otto Preminger, Richard Lester, Frank Tashlin... A partire dal 1968 Ponzi inizia la sua carriera di regista, che per qualche tempo affianca all’attività di critico, poi abbandonata del tutto. Eppure vedendo i suoi lavori è quasi impossibile non notare lo sguardo e il sapere del critico cinefilo, e questo vale per i film segnati da un più evidente timbro autoriale (I visionari, Equinozio, Il caso Raoul) come per le commedie più leggere ma non per questo stilisticamente meno avvertite (Io, Chiara e lo Scuro, Volpone, Italiani). È appunto un modo di fare cinema intriso di cultura cinematografica. La critica e il cinema, mondi paralleli e complementari. Susan Sontag, vedendo a Locarno I visionari (film d’esordio premiato col Pardo d’oro), citava Sternberg, ma Ponzi precisava di essersi invece ispirato a Murnau e confessava che per scegliere il giusto tono di luce (e una “certa patina di antico”) era andato a vedere, con il suo direttore della fotografia Angelo Barcella, La donna del ritratto di Fritz Lang, uno dei film più amati. E quando, nella redazione di 12


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“Cinema&Film”, si diceva che il suo film sembrava “danese” (certe inquadrature, certe insistenze alla Dreyer) lui rispondeva di averci aggiunto però un po’ di “tenerezza mediterranea”, che era anche la sua cifra stilistica da critico, ed era già una poetica e forse l’affermazione più politica che si potesse fare in quel momento. Si era infatti nel ’68, quindi sotto la temperie del maggio francese e nel pieno di una spinta rivoluzionaria che sembrava dovesse travolgere tutto e naturalmente anche il cinema. Da allora sono passati quasi 50 anni, la filmografia di Maurizio Ponzi si è arricchita e variegata (una cinquantina di regie fra lungometraggi, documentari, commedie e serie televisive) ma la cifra stilistica che più ritorna è proprio quella particolare “tenerezza”, che poi è attenzione a non sottolineare e a non prevaricare il tema, a non offendere il buon gusto, anche quando farlo sarebbe facile e forse anche conveniente vista la produzione corrente. Nella sua carriera, Ponzi, è rimasto fedele a un’idea di cinema costruita già negli anni della critica cinematografica. Ad esempio, pensando a Lang e Renoir, quando nei suoi film l’attore è una parte della messinscena e non il tutto, l’effetto e mai solo la causa. E se per I visionari si faceva il nome di Dreyer, per una commedia come Io, Chiara e lo Scuro il paragone più plausibile sono certi film di Rohmer, per lo stile e la misura, per il piacere di creare situazioni semplici e poi filmarle come il cinema classico pretende. Per quanto mi riguarda ho collaborato con Ponzi alla sceneggiatura dei suoi ultimi tre film e le nostre riunioni di lavoro sono quasi sempre attraversamenti cinematografici a sorpresa perché non c’è una scena, un’idea, una battuta, il gesto di un personaggio, che non susciti una marea di citazioni tutte assolutamente pertinenti. Maurizio ha una memoria formidabile e un immaginario cinematografico straripante, che va dal miglior cinema italiano di prima della guerra ai capolavori del neorealismo, dalle commedie italiane degli anni Cinquanta al cinema hollywoodiano dagli anni Trenta in poi. Di tutto conserva VHS ormai introvabili, edizioni dvd restaurate, foto di scena, locandine, riviste di cinema. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per scrivere la scena del rifugio antiaereo di A luci spente (2006) abbiamo rivisto una scena analoga di pochi secondi contenuta ne Il ponte di Waterloo (Waterloo Bridge, 1940) di Mervyn LeRoy, ma poi il film era così bello che lo abbiamo rivisto più volte, incantati dalla scena del valzer “che non si può nominare”, con l’annuncio del coprifuoco, i musicisti che spengono le candele e i camerieri che spingono verso l’uscita. Per caratterizzare un personaggio col suo modo di accendere la sigaretta abbiamo recuperato Perdutamente tua (Now Voyager, 1942) di Irving Rapper, constatando che Paul Henreid è davvero irresistibile e scandaloso. Insomma non un lavoro ma un piacere, e scrivendo per il cinema e si finiva col celebrarlo. Non è stato semplice fare la cura di questo libro, non solo per l’antica ami13


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cizia che mi lega all’autore, ma per una sua invincibile ritrosia e per un coriaceo understatement che lo porta a minimizzare gli eventi, i riconoscimenti, certi incontri professionali straordinari che però, a suo avviso, rischierebbero l’autocompiacimento. Ma in questo atteggiamento c’è tutto Maurizio Ponzi, il suo modo di concepire la vita e il lavoro. Nel cinema italiano, tra quaresimalisti e carnevalisti, fautori del rigore e profeti dell’effimero, c’è stato uno spazio di creazione e lavoro che Ponzi, con altri pochi autori della sua generazione, ha saputo occupare con dignità e qualità, non sempre restando compreso. Ripercorrere attraverso le pagine di questo volume una buona parte della sua carriera è anche una forma di piccolo risarcimento, sincero e non richiesto.

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IL BELLO DEL CINEMA. E NON SOLO (conversazione con Maurizio Ponzi)

Ricordi i tuoi inizi con il cinema? Ricordo benissimo, andavo al cinema praticamente tutti i giorni con mia madre, nelle sale cinematografiche vicine a dove abitavamo e dove ero nato, in Via Petrarca, dalle parti di Piazza Vittorio, a Roma. Avevo 5 o 6 anni, e rammento i primi film visti, ad esempio Paisà, al cinema Brancaccio, e c’era anche mio padre. Ricordo Domani è troppo tardi di Léonide Moguy e soprattutto Saratoga di Sam Wood, con Ingrid Bergman e Gary Cooper, un film che mi spaventò moltissimo. A un certo punto smisi di guardare lo schermo e volevo uscire dalla sala, c’era una scena in cui un nano, mentre andava a fuoco la casa, buttava piatti e bicchieri in mezzo alle fiamme. Poi, misteriosamente, Saratoga scomparve dalla circolazione per tanti anni e non ho più avuto occasione di rivederlo, fino a pochi mesi fa, quando è uscito in dvd. L’ho rivisto e ho capito che dovevo essere davvero piccolissimo perché la scena in questione non ha assolutamente nulla di spaventoso, chissà cosa mi aveva fatto scattare nella mente. Poi ci sono stati tantissimi altri film, praticamente tutti quelli che uscivano nelle sale. Sceglievate i film da vedere, oppure vi affidavate al caso? A parte le visioni domenicali, andavamo a vedere principalmente solo i film che proiettavano nelle sale vicine a casa, quindi il Brancaccio, che era una seconda visione, oppure l’Apollo in Via Cairoli. C’è da dire che a quel tempo la programmazione dei film cambiava ogni due giorni, quindi volendo si poteva andare al cinema un giorno sì e uno no. A me i film piacevano tutti, indistintamente. E all’epoca c’era l’abitudine, davvero impensabile oggi, di entrare in sala anche a proiezione iniziata, era considerata una cosa normale ma a me sembrava già molto strana. Capitava così di stare in piedi, in platea, aspettando che qualcuno a un certo punto si alzasse per prendere il suo posto. Le sale erano sempre gremite e ricordo una scena apocalittica al cinema Apollo per vedere La tunica, che poi era un film già uscito da tempo in prima visione. Adesso, dopo tanti anni, al cinema non ci si va quasi più! I film si vedono in tanti altri modi e si è tornati al disordine. Quante volte in televisione si vedono film già iniziati o sul computer in formati microscopici, coi colori alterati... 15


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Quando hai cominciato a capire che certi film ti piacevano più di altri, che avevano qualcosa di diverso? Quando avevo voglia di rivederli. Ad esempio Le ragazze di Piazza di Spagna di Luciano Emmer, l’ho visto tre-quattro volte, oppure Bellezze al bagno con Esther Williams e Red Skelton. Mi piacevano soprattutto i film italiani in cui riconoscevo il mondo che mi circondava, appunto Le ragazze di Piazza di Spagna in cui c’era una scena girata vicino casa mia, come anche Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. Ma in realtà non avevo preclusioni. Un giorno, uscendo dal Brancaccio, ricordo che chiesi a mia madre cosa voleva dire “regia di”. E lei non me lo seppe spiegare. Avevo capito però che doveva essere una cosa importante, perché quella scritta veniva messa per ultima nei titoli di testa, spesso più grande delle altre. In Ladri di biciclette c’è la scena girata all’edicola di Piazza Vittorio che tu frequentavi... È vero, l’edicola sotto i portici. È la scena in cui si vede la mia giornalaia, la signora Olga, da cui compravo i giornaletti anche a credito. Sono partito dal “Piccolo sceriffo”, che collezionavo insieme a tanti altri, e ho finito, da grande, comprando “Cinema nuovo”. Purtroppo non ho visto girare quella scena di Ladri di biciclette, ma so esattamente quando è accaduto, perché vi si vede la signora Olga che attacca dei giornali con le mollette, e si riconoscono le copertine di Bolero Film, con Anna Magnani, e di Hollywood, con Jacques Sernas. Avendo entrambe le riviste, conosco benissimo la data. Hai parlato di Paisà come tra i primi film che ricordi. Certamente è un film con delle caratteristiche particolari, per il tipo di racconto e per lo stile della rappresentazione. Che impressione ti fece? Lo ricordo, probabilmente, solo per la presenza di mio padre, che era una cosa piuttosto rara. I miei genitori, a un certo punto della loro vita non andarono più d’accordo e facevano vita separata, per cui andare al cinema tutti e tre insieme capitava raramente. Quella fu un’occasione. Un’altra capitò con Domani è troppo tardi, e la ricordo perché chiesi proprio a mio padre come mai sui manifesti fosse stato messo per primo il nome di Vittorio De Sica, che nel film aveva una parte piuttosto piccola, mentre i protagonisti erano Anna Maria Pierangeli e Gino Leurini. Mio padre mi rispose che Vittorio De Sica era l’attore più conosciuto e quindi faceva più richiamo, e io cominciai a capire certe cose della promozione cinematografica. 16


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Hai cominciato presto a collezionare i giornali di cinema? Subito. Compravo un sacco di fumetti e man mano che li abbandonavo cominciavo ad acquistare e leggere i giornali che parlavano di cinema. D’altra parte era un periodo in cui non c’erano altri argomenti, non c’era la televisione, c’era il teatro ma non era facile andarci. Mio padre mi ci portò qualche volta e ricordo almeno un’edizione eccezionale di Filumena Marturano con Titina De Filippo, all’Eliseo. Doveva essere tra il 1946 e il 1947, è un bel ricordo, anche se i posti erano talmente in alto che il palcoscenico si vedeva solo in parte. Fu un’edizione eccezionale perché una delle ultime con Titina De Filippo, che smise di recitare in teatro per i suoi problemi di cuore. Quando è che il cinema diventa per te una vera passione? Come ho detto, leggevo molto riviste come “Novelle Film”, “Hollywood”, anche i fotoromanzi che parlavano di cinema. La cosa cambiò completamente quando comprai il mio primo numero di “Cinema nuovo”, il numero 57 del 1955. Era una domenica, mi trovavo a Frascati in gita e fui attratto da quella rivista perché in copertina c’era Eleonora Rossi Drago in una scena di Le amiche di Michelangelo Antonioni. Avevo 16 anni e da quel momento ho comprato tutti i numeri, poi sono riuscito a recuperare anche gli arretrati. A quel tempo cominciai a leggere regolarmente pure “Cinema”, finita però poco tempo dopo. Poi vennero “Filmcritica”, “Cahiers du cinéma” e tante altre. Cambiò qualcosa nel tuo modo di considerare il cinema? Beh, per me leggere “Cinema nuovo” è stata una specie di shock, certi articoli mi facevano vergognare di amare alcuni film, ero impressionato dalla severità dei giudizi, dall’atteggiamento fideistico, anche un po’ ottuso (ma questo lo capii più tardi) di Guido Aristarco e dei suoi collaboratori. Insomma vissi dei piccoli drammi. Ad esempio, Le ragazze di Piazza di Spagna che a me era piaciuto tanto “Cinema nuovo” lo considerava poco e Luciano Emmer veniva considerato un piccolo artigiano che sprecava il suo talento. Per fortuna ad Aristarco piaceva Lucia Bosè e quindi la metteva abbastanza spesso in copertina. Lucia Bosé è un’attrice che è sempre piaciuta anche a te. Sin da ragazzino... Anche se mi piacevano pure Anna Maria Ferrero, la Mangano, la Rossi Drago, da ragazzino la Bosè era l’attrice che preferivo in assoluto e ogni volta che c’era un film con lei correvo a vederlo. Cronaca di un amore l’avrò visto quattro-cinque volte, mia madre, che mi accompagnava, non ne poteva più. Per non parlare 17


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di Roma ore 11 che conoscevo a memoria. E così Non c’è pace tra gli ulivi, Parigi è sempre Parigi. L’unico suo film che non riuscii a vedere è stato, chissà perché, Sinfonia d’amore di Glauco Pellegrini. Poi a metà degli anni Cinquanta la Bosè lasciò il cinema, andò in Spagna, sposò Dominguin, e la cosa mi dispiacque molto. Passarono parecchi anni e a un certo punto cominciarono a sentirsi delle voci su un suo possibile ritorno al cinema. All’epoca ero in contatto con Pier Paolo Pasolini, che stava preparando il cast di Teorema. Per la parte della madre a me sembrava perfetta proprio la Bosè e gli suggerii il suo nome. Anzi accanto a lei dissi che poteva starci benissimo anche Massimo Girotti, in modo da rifare la coppia di Cronaca di un amore. A Pasolini l’idea sembrò interessante e si attivò subito. Esa De Simone, la storica agente della Bosè, combinò a Roma un appuntamento tra i due. Con Pasolini lavoravo quasi tutti i giorni alla preparazione dell’episodio di Amore e rabbia, e quindi ho seguito la vicenda molto da vicino. Andarono a pranzo e io aspettai il ritorno di Pasolini con ansia. Il suo giudizio fu però sconcertante, disse che Lucia era davvero una donna bellissima, meravigliosa, troppo meravigliosa. In realtà gli sembrava troppo piena di vita, troppo serena, non adatta per interpretare il personaggio della madre in Teorema, che fece poi Silvana Mangano. Scelse invece Massimo Girotti, e quindi il mio suggerimento fu comunque prezioso. Incontrai per la prima volta la Bosè qualche tempo dopo sul set di Sotto il segno dello scorpione dei fratelli Taviani, ci parlai a lungo e cominciò una bella amicizia. Ricordo che in quei giorni partecipò anche a una proiezione di I visionari. Le confessai che avevo pensato a lei come protagonista del film ma che mi era sembrata un’idea impossibile da realizzare. Mi disse che invece avrebbe accettato perché da tempo cercava un’occasione per fare ritorno al cinema. Da quel momento provai più volte a farla lavorare in un mio film, ma sempre senza successo a causa degli impegni concomitanti, finché arrivò l’occasione di Volevo i pantaloni, in cui lei fa la parte della madre un po’ fuori di testa della protagonista. In quell’occasione, ma anche nei precedenti contatti, mi resi conto che la Bosè era veramente una donna molto solare, genuina, autenticamente popolare, molto distante dai ruoli di donna sofisticata oppure ombrosa e in crisi che le erano stati spesso affidati nel cinema. Secondo me il regista che più di tutti l’ha mostrata com’era è stato Luciano Emmer, e anche Pasolini, di ritorno dal suo pranzo. Torniamo a “Cinema nuovo”. Quella rivista ha rappresentato per te il primo incontro con la critica cinematografica militante. Hai detto che certe prese di posizione ti sconcertavano, come hai vissuto quel rapporto? Beh, male, subivo una specie di corruzione, anche perché a quell’età facilmente ci si lascia convincere. Finivo con l’amare le stesse cose che amavano i critici della rivista, quindi ovviamente Le notti di Cabiria, Il grido, Le amiche, mentre 18


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Lea Padovani e Lucia Bosè in Roma, ore 11 (1952) di Giuseppe De Santis

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La copertina del numero 57 di “Cinema Nuovo” di cui si parla nell’intervista e una copertina di “Filmcritica”

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molti film che a me interessavano venivano da loro trascurati o sottovalutati, e per quelli hollywoodiani c’era addirittura l’odio. Si leggevano cose incredibili, tipo che Fritz Lang a Hollywood si era praticamente rincretinito, mentre i suoi film di quegli anni io li trovavo bellissimi. Qualche tempo dopo, crescendo, maturando, ho cominciato a farmi delle domande e anche a reagire. Poi, ovviamente, c’erano anche dei punti di contatto, film su cui condividevo il loro entusiasmo. Ad esempio Senso di Luchino Visconti, un film che tra l’altro piaceva molto anche a mio padre, che non smetteva di invitarmi ad andare a vederlo. Io magari, a tavola, gli parlavo di Anna prendi il fucile, l’ultimo film che avevo visto, e lui: ma vai a vedere Senso, piantala di perdere tempo con queste stupidaggini. Mio padre non era un uomo di cultura, lavorava in un negozio di stoffe, però si interessava e cercava di mantenersi aggiornato, era un uomo intelligente. Leggeva e ogni giorno comperava “l’Unità” e “Paese Sera”. Quando vidi Senso mi piacque molto. Ne parlammo e non fummo d’accordo soltanto sugli attori. Io preferivo la Valli, lui Farley Granger. A quell’epoca risalgono i tuoi primi tentativi di scrivere delle recensioni... Sì, scrissi due critiche per Il ferroviere e Le notti di Cabiria e le mandai a “Cinema nuovo”, a una rubrica di colloqui con i lettori. Qualche settimana dopo mi risposero. Comprai il numero di “Cinema nuovo” dalla signora Olga, e lì per lì non me ne accorsi. Poi, a scuola, sbirciando sotto il banco vidi che c’erano le risposte alle mie recensioni. Erano positive, e non poteva che essere così dato che avevo scopiazzato le cose che scrivevano loro. Avanzavano solo qualche riserva sul finale, considerato un po’ “apodittico”, una parola che non sapevo cosa volesse dire. Comincia così la fase della scrittura? Direi che ci sono due momenti. Il primo risale a quando da ragazzino andavo al cinema con mia madre. Frequentavo molto la portineria del mio palazzo, dove c’era una famiglia molto povera, la portiera, il marito e un figlio. Lei era una donna molto simpatica, si chiamava Giuditta, io tornavo dal cinema la sera e la mattina dopo scendevo in portineria e le raccontavo la trama del film per filo e per segno. Lei ascoltava stando seduta immobile e si beveva beata tutto il racconto. Queste, secondo me, sono state le mie prime recensioni. Forse raccontando il film modificavo qualcosa, magari pensando di abbellire. Più avanti cominciai a tenere un quadernetto su cui scrivevo le mie impressioni sui film visti e su cui incollavo anche delle foto. Erano però giudizi poco validi perché troppo influenzati da quello che leggevo su “Cinema nuovo” o su “Cinema”. 21


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A parte la lettura delle riviste, c’è stata qualche persona che ti ha influenzato culturalmente in quel periodo, un professore, un conoscente? C’è stata una persona per me fondamentale, non solo per scrivere di cinema ma per tutto il resto. Niccolò Gallo, uno degli uomini più intelligenti e culturalmente validi del nostro paese, critico letterario, direttore della collana Narratori italiani della Mondadori e anche mio insegnante di Lettere all’Istituto Tecnico Leonardo da Vinci. Una cosa piuttosto strana perché una personalità del suo valore avrebbe potuto senz’altro insegnare in un liceo piuttosto che in una scuola tecnica, dove aveva solo tre ore a settimana. Qualcuno glielo chiese pure in qualche intervista e lui rispose che invece andava bene così, che lì si sentiva più utile. Gallo era un uomo semplicemente stupendo, molto potente nell’editoria di quegli anni, grazie a lui hanno fatto strada un sacco di scrittori, eppure non lo faceva pesare, era sempre disponibile e generoso. Lui mi aprì molti orizzonti e ricordo che in classe tutte le volte che potevo io cercavo di spingere la discussione sulle questioni del cinema, e lui ci stava. Una volta gli chiesi, sicuramente influenzato da Aristarco, se si potesse dire che La terra trema di Visconti era bello quanto I Malavoglia di Verga. E lui rispose di no, che non si poteva dire. E spiegò anche il motivo. Le sue erano lezioni sempre molto ricche, piene di suggestioni. Un giorno venne fuori il discorso su quanto l’arte fosse importante per la vita dell’uomo, e la questione riguardava evidentemente anche il cinema, e lui diede una risposta di quelle semplici semplici, che però non ho mai dimenticato: «L’Infinito di Giacomo Leopardi ha per l’uomo la stessa importanza dell’invenzione della lampadina». Rimanemmo annichiliti. Senza quella poesia saremmo stati quindi tutti molto più indietro, una cosa così nella mente di un diciassettenne aveva un gran peso. Come sono stati i primi inizi da critico? Io avevo molta voglia di scrivere. Non so per quali conoscenze, entrai in contatto con il Bollettino dell’AIC, l’Associazione dei cineoperatori, e poi con un’altra rivista che si chiamava “Cinetecnica”. Per loro scrissi delle piccole recensioni, pubblicate nell’ultima pagina, di cui però non ricordo nulla. Era anche un periodo molto confuso della mia vita, in cui cercavo una strada quale che sia. Mio padre aveva un amico che si chiamava Sergio Vianello, un regista teatrale. Me lo presentò e lui mi invitò a seguire la messa in scena di una commedia al Teatro Italia di Via Bari, poi diventato cinema Universal. Si trattava di un testo forse di Aldo Nicolai, con degli attori filodrammatici piuttosto modesti. Ricordo che il protagonista era un vecchio attore insopportabile, che si dava molte arie, un vero trombone, che mi capitò poi di riconoscere in un film italiano, dove però aveva solo un ruolo da comparsa. Un’esperienza che non mi piacque per niente. 22


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Qualche tempo dopo, purtroppo, Vianello si ammalò e morì, ma prima mi regalò tutta la sua collezione di “Sipario”, che già compravo per conto mio e che ancora conservo. In quel tempo avevo cominciato a leggere “Filmcritica”, e vicino casa mia abitava un giovane filosofo, Elio Mercuri, che scriveva su quella rivista delle cose di estetica, mi pare di ricordare che fosse un allievo di Galvano Della Volpe. Lui parlò di me con Edoardo Bruno, il direttore, e mi disse che a loro interessava un giovane che scrivesse ogni mese di televisione. Ovviamente ne fui contento. Andai da Bruno, nel suo ufficio di Piazza del Grillo, e ci mettemmo rapidamente d’accordo. Fu così che per un anno e qualche mese ho scritto di televisione. Poi negli stessi giorni, grazie alla frequentazione dei Lunedì del Rialto e del Circolo Charlie Chaplin avevo conosciuto Mino Argentieri e con lui approdai a “Cinemasessanta”, una rivista che già usciva da un paio di anni. Lì ho pubblicato le mie prime vere recensioni, e la prima in assoluto riguarda La dolce ala della giovinezza di Richard Brooks. Avevo 23 anni. Intanto all’interno di “Filmcritica” avevo cominciato a farmi conoscere, e quindi scrivevo critiche di film, facevo interviste. A quel punto hai cominciato a fare veramente il critico cinematografico. Bisogna però chiarire una cosa. Io non ho mai fatto il critico cinematografico perché non sono mai stato pagato da nessuno (tranne una piccola eccezione), in più tutte le volte che sono andato al cinema, quindi migliaia di volte, ho sempre pagato il biglietto di tasca mia, perché non scrivendo sui quotidiani non mi è mai stata data la tessera Agis. Quindi posso dire di non aver mai svolto la professione di critico. Gli unici proventi della mia attività li ho avuti dai “Cahiers du cinéma”, per cui scrivevo piccole cronache da Roma e loro mi pagavano, poco ma puntualmente. Negli anni in cui scrivevo di cinema su “Filmcritica” e “Cinemasessanta” avevo un impiego all’Olivetti. Tornando a “Filmcritica”, si facevano delle riunioni di redazione, Edoardo Bruno dava qualche indirizzo su cosa scrivere? No, eravamo liberissimi. Io sceglievo i film su cui mi piaceva scrivere, mi accertavo che non ci fossero sovrapposizioni con altri colleghi e lo facevo. In breve tempo mi ero conquistato molto spazio e devo dire che almeno per gli anni 1964 e 1965 la rivista è stata fatta quasi completamente da me e Adriano Aprà. Eri agli inizi della carriera di critico però hai dimostrato subito un gusto spiccato, ad esempio nella scelta di certi film, certi autori. Un regista su cui torni spesso è Dalmer Daves, come mai? 23


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Non solo Delmer Daves ma un’infinità di autori americani. Ho sempre amato molto il cinema americano perché era fatto da persone - registi e sceneggiatori di grande intelligenza. Parlo al passato perché oggi qualcosa è cambiato e si fa più della bella televisione che del bel cinema. A Hollywood si lavorava costretti all’interno di una gabbia censoria che riguardava soprattutto l’aspetto economico delle produzioni, bisognava fare dei film in qualche modo commerciali che accontentassero la committenza e il mercato. Però la forma di certi film era sicuramente sviante perché bastava andare oltre la superficie, togliere un po’ di glassa, per scoprire cose importanti e profonde più di quanto ci si potesse immaginare. Questo capitava in una miriade di film americani, e io una delle cose che più rimproveravo alla critica ufficiale del tempo, soprattutto di sinistra, era di non provare neppure per un attimo a scavare un po’ invece di fermarsi sempre all’apparenza. Forse per paura di vedere la luna a mezzogiorno... Puoi fare qualche esempio? Beh, Douglas Sirk. Lo specchio della vita e soprattutto Secondo amore. A vederlo sembra semplicemente la storia di una donna di mezza età che cerca di rifarsi una vita con un uomo molto più giovane, che nel suo ambiente non è accettato perché fa il giardiniere. In realtà il film affronta una molteplicità di temi: la famiglia, il sesso, i conflitti di classe, il razzismo. E all’interno del film c’è pure una delle invettive più violente contro la televisione, quando i figli per cercare di distrarre la madre e convincerla a sopportare la sua vedovanza le regalano un televisore. Ecco, Secondo amore è il tipico film che avrà certamente soddisfatto i capi della Universal, ma al cui interno ci sono molti veleni. E così anche Magnifica ossessione, Come le foglie al vento. Scoperte di questo tipo continuo a farle ancora oggi, vedendo o rivedendo certi film. Ad esempio mi è capitato di rivedere poco tempo fa Light in the Piazza di Guy Green, con Olivia De Havilland, un film che all’epoca, se avessi potuto avrei senz’altro recensito, un film però che forse piace solo a me, perché tutti ne hanno scritto malissimo, anche di recente. Mi sono chiesto perché ne sono tanto attratto e la risposta è sempre la stessa, perché dietro una patina rosa, tipicamente hollywoodiana, si dicono cose importanti un po’ di traverso, su cui lo spettatore è chiamato a riflettere. Il piano finale di Olivia De Havilland è, secondo me, assolutamente geniale, ed è rivelatore della grandezza di quel cinema. Ma la De Havilland è una delle attrici più brave di ogni tempo. E qui cito un altro film che amo, L’ereditiera di William Wyler, tratto da un romanzo bellissimo di Henry James. In questo discorso rientra anche Jerry Lewis, molto amato dai Cahiers du Cinéma, ma anche da riviste come “Filmcritica” e “Cinema&Film” dove scrivevi tu. 24


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Jerry Lewis è un altro caso eclatante. In realtà io avevo amato Jerry Lewis sin da ragazzino, e non era una cosa molto comune perché erano altri i comici più seguiti. Ricordo di aver visto più di una volta Quel fenomeno di mio figlio, e mi identificavo nella sua goffaggine, nelle sue gaffes. Era un film che adoravo, per cui quando più tardi, a “Filmcritica”, ho cominciato a occuparmi criticamente di Lewis quel ricordo mi ha aiutato molto. Era chiaro che in quella comicità apparentemente ingenua c’era una condanna feroce ad una certa organizzazione della società americana, l’efficientismo, il matriarcato, l’arrivismo. Eppure in Italia eravamo in pochi a scriverlo. Questo è interessante, perché in quel periodo riviste come “Cinema nuovo” e anche “Cinemasessanta” avevano un’impostazione ideologica molto forte. Poi c’erano i critici cinematografici dei giornali di sinistra che avversavano per principio un certo tipo di cinema, specialmente americano e di genere, mentre voi a “Filmcritica” e poi a “Cinema&Film” difendevate i melò di Douglas Sirk, la comicità di Jerry Lewis. Come vivevate questa situazione? Pur essendo anche noi di sinistra, eravamo abbastanza detestati. Lo vedevo da come ci guardavano alle proiezioni per la stampa e anche da come si sono poi vendicati, quando è uscito il mio primo film, I visionari, premiato a Locarno e stroncato da “l’Unità”. Però il mio film piacque a Pasolini, a Moravia, alla Morante e anche a Lotte Eisner, la grande studiosa del cinema espressionista tedesco, che mi chiese addirittura una copia della sceneggiatura per conservarla alla Cinémathèque Française di cui era vicepresidente. In genere con i critici di sinistra c’erano differenze marcate, ma anche punti di congiunzione importanti. Ad esempio al tempo di “Filmcritica”, quindi all’inizio degli anni Sessanta, io amavo molto e difendevo Francesco Rosi. Consideravo il suo Mani sulla città un capolavoro, però mettendolo alla pari di Tutti gli uomini del re di Robert Rossen o L’ultima minaccia di Richard Brooks, perché aveva lo stesso taglio duro e sociale di un certo cinema americano. Che rapporti avevi con Edoardo Bruno, il direttore di “Filmcritica”? All’inizio buoni. I miei pezzi venivano pubblicati senza nessuna obiezione, voleva dire che eravamo in sintonia. Tranne una volta in cui ci fu invece un dissidio aperto, ma eravamo ormai alla fine del nostro rapporto di collaborazione e quindi c’era da parte sua un evidente pregiudizio. La recensione riguardava Bunny Lake è scomparsa di Otto Preminger, un autore che mi è sempre piaciuto e su cui ho scritto più volte e positivamente. In quel caso avanzavo alcune riserve su un certo rischio formalistico per alcuni eccessi di virtuosismo nella regia e Bruno, ed era la prima volta che lo faceva, volle postillare un suo breve intervento solo 25


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per dire che non era d’accordo. Ma, ripeto, eravamo alle strette di una collaborazione ormai finita, e quella fu l’ultima recensione che scrissi per “Filmcritica”. Poi venne “Cinema&Film”. Prima di arrivare a “Cinema&Film”, vorrei tornare un attimo ai “Cahiers du cinéma”. Che rapporti avevate con la rivista parigina. “Cahiers du cinéma” è stata per molti anni il nostro punto di riferimento. Gli autori che loro amavano erano anche i nostri: Alfred Hitchcock, Howard Hawks, John Ford, Fritz Lang, ma anche Jerry Lewis e Blake Edwards, Walsh e Minnelli, Murnau e Renoir. E poi, ovviamente, Godard e la nouvelle vague, le avanguardie che si affermavano nel mondo. C’era un legame culturale profondo, basato sulla cinefilia e su un certo modo di vedere il cinema, ma anche un rapporto personale. Incontravamo alcuni redattori dei “Cahiers” ai festival che frequentavamo insieme, poi li andavamo a trovare a Parigi durante le nostre visite alla Cinémathèque. Con alcuni è nata una vera amicizia, ad esempio con Bernard Eisenschitz che veniva a Roma per intervistare Cottafavi e Matarazzo, autori che in Italia erano ignorati dalla critica ufficiale. In certi casi, eravamo però noi a dare informazioni utili ai “Cahiers”, che poi loro erano bravi a fare proprie e a sviluppare, penso al Bernardo Bertolucci di Prima della rivoluzione, ma anche a Marco Ferreri o allo stesso Pier Paolo Pasolini che in Francia, all’inizio, era visto con un po’ di sospetto “Cinema&Film” nasce dalla rottura con “Filmcritica”. Cosa accadde di preciso? Il motivo della crisi fu che a un certo momento Edoardo Bruno fece entrare nella rivista, dandogli molto spazio, un personaggio come Armando Plebe, un professore di filosofia con parecchia prosopopea e con idee sul cinema e sul modo di fare critica esattamente opposte alle nostre. Scriveva cose che non condividevamo e che sembravano destrorse, anche se all’epoca Plebe si professava marxista, ma poi, non a caso, finì con essere eletto senatore del MSI-DN. La questione precipitò quando io, stando in tipografia a preparare il numero di “Filmcritica” in uscita, mi trovai tra le mani le bozze di un saggio di Plebe di cui Bruno ci aveva tenuto all’oscuro, dal titolo La magia nera dei sacerdoti della critica. In quel testo, irritante e chiaramente scritto di proposito, si faceva dell’ironia sprezzante su un certo modo di fare critica, si sparava a zero contro autori che noi difendevamo e si portava come esempio di cinema autenticamente popolare un film come Le voci bianche che proprio io avevo stroncato in un numero precedente. Ne parlai al telefono con Aprà e poi con gli altri redattori della rivista e tutti insieme decidemmo di chiedere a Bruno di spostare l’articolo di Plebe sul numero successivo e di accompagnarlo con una nostra replica. Bruno, che era evidente26


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mente legato a Plebe da interessi personali e universitari, respinse la proposta dicendo che non poteva accettare censure di quel tipo. Allora presentammo in blocco le dimissioni, sicuri in cuor nostro che non sarebbero state accettate. Non fu così e di colpo ci siamo ritrovati senza rivista. Per un po’ siamo stati ospitati da “Nuovi Argomenti”, grazie alla disponibilità di Pasolini ed Enzo Siciliano, dove pubblicammo alcuni testi che avevamo già scritto, ricordo alcune recensioni dalla Mostra di Pesaro, in cui tra l’altro parlavamo per la prima volta di film di Jean-Marie Straub e André Delvaux. “Cinema&Film” inizia le pubblicazioni alla fine del 1966, praticamente quasi alla vigilia del ’68. “Cinema&Film” nasce dalla nostra voglia di continuare a scrivere di cinema e di farlo a modo nostro, mantenendo le nostre posizioni. L’unico modo era fondare una nuova rivista e un aiuto fondamentale arrivò da Pier Paolo Pasolini che non solo ci regalò un suo testo molto importante per aprire il primo numero, ma ci procurò e caldeggiò il contatto con l’editore Garzanti, che assicurò la distribuzione nelle librerie e un minimo garantito, per noi fondamentale. L’interesse di Pasolini si spiega anche col fatto che la rivista portava avanti certi studi semiologici sul cinema che in quel momento lo coinvolgevano molto. Lo stesso titolo della rivista, “Cinema&Film”, allude al binomio Langue&Parole e fu concordato con lui. Tuttavia, nessuno di noi poteva immaginare il successo ottenuto dalla rivista. Per i primi numeri stampavamo 1200 copie che andavano tutte esaurite. Evidentemente era stata colta la novità che rappresentavamo, per le cose che scrivevamo e per le collaborazioni importanti, anche internazionali, che ospitavamo. Inoltre la rivista aveva un aspetto grafico assai originale, che in qualche modo si imponeva. Ricordo che all’epoca nelle riviste di arredamento e design, eleganti e patinate, capitava di vedere in bella vista, nelle foto delle librerie esposte, la copertina di “Cinema&Film”. Cosa che anni dopo succedeva magari con le copertine dei libri Adelphi. Insomma la rivista faceva tendenza, ma purtroppo durò poco. Troppi numeri doppi, spesso dovuti ai nostri dubbi: aggiungevamo, riaggiustavamo continuamente. Una rivista è una rivista, anche se non è perfetta bisogna comunque farla uscire con regolarità. “Cinema&Film” è durata quattro anni, dal 1966 al 1970, lo stesso periodo che si impiega per laurearsi. È stata la mia università. Pasolini era una presenza costante nella rivista? Sì, ma anche laterale. La cosa curiosa era che la maggior parte dei film che a noi piacevano a lui non interessavano minimamente. Sul cinema aveva delle idee abbastanza tradizionali: Chaplin, Ejzenstejn, Dreyer, certo non Hitchcock di cui credo non abbia mai visto i film. Diceva di noi che eravamo dei “critici puri” e 27


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questo per lui era sufficiente per volerci bene e stimarci. Però le cose fondamentali gli piacevano. Noi aprimmo il primo numero di “Cinema&Film” con la copertina dedicata a La presa del potere di Luigi XIV di Roberto Rossellini, che lui considerava un capolavoro, una “colata di miele” fu la sua definizione. Mi disse di non aver mai visto un film così “fluido”. Poi però nello stesso numero della rivista noi scrivevamo che Red Line 7000 era un capolavoro altrettanto importante. Questo magari lo faceva ridere o gli faceva saltare quelle pagine. Ma andava bene così. Qualche volta sei andato al cinema con Pasolini. Che spettatore era? È capitato un paio di volte. Ricordo soprattutto quando lo accompagnai a vedere Vampyr di Dreyer, un autore che amava ma di cui non aveva visto quel film che invece io conoscevo bene e gliene parlavo di continuo. Un’estate, il film venne programmato per qualche giorno al Salone Margherita, nel periodo in cui lavoravo con lui per 12 dicembre. Glielo dissi e ci recammo insieme al penultimo spettacolo. Ricordo ancora il suo stupore davanti alla meraviglia del film, non smetteva di commentare a voce alta, ma in sala eravamo pochissimi e non davamo fastidio. Soprattutto l’immagine del vecchio con la falce che attraversa il fiume lo mandò in visibilio. Era davvero entusiasta e io ero orgoglioso per avergli fatto conoscere quel capolavoro, ma uscendo dal cinema mi gelò dicendo che però Giovanna D’Arco era migliore. Poi abbiamo visto seduti accanto, a Venezia, Bella di giorno di Buñuel, un film che lui trovava invece orrendo. E non smetteva di dirmi che Buñuel era diventato pazzo, che erano brutti gli attori, brutti i colori. Poi il film vinse il Leone d’oro. Mentre scrivi su “Cinema&Film” cominci a pensare di passare alla regia. In realtà io non avevo nessuna intenzione di fare il critico cinematografico, non mi interessava e poi avevo capito che quell’attività non mi avrebbe dato da vivere. Quindi se volevo continuare a stare nell’ambiente dovevo inventarmi qualcosa d’altro, ed è stato lì che ho cominciato a pensare di dirigere dei film. All’inizio ho realizzato dei piccoli documentari per la Corona Cinematografica, che però erano in qualche modo ancora legati alla critica cinematografica. Si chiamano critofilm (un nome inventato da me, anche se non tutti lo riconoscono), opere in cui analizzavo certi film utilizzando il linguaggio del cinema, provando a fare delle mimesi stilistiche. Ho fatto quattro critofilm dedicati a Rossellini, Pasolini, Visconti e Fellini. Nello stesso periodo ho fatto l’aiuto regista di Pasolini per l’episodio La sequenza del fiore di carta e per i titoli di testa del film che avrebbe dovuto contenerlo, poi uscito con il titolo Amore e rabbia. Titoli di testa che purtroppo rimasero inutilizzati quando venne a mancare l’episodio girato da Valerio 28


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Zurlini, presentato come lungometraggio. Andò tutto perduto ed è un peccato perché era un materiale bellissimo. In quei giorni, infine, mi capitò, favorita dai fratelli Taviani, l’occasione della cooperativa di Giuliani De Negri, con cui presentai il progetto di I visionari, il mio primo lungometraggio. Inizia così la mia attività di regista che per un certo breve periodo ho affiancato alla critica. È stato un periodo felice, dal punto di vista creativo? I visionari è ancora oggi uno dei miei film preferiti, fui molto felice di realizzarlo, di ricevere il primo premio al festival di Locarno, di avere buone critiche da parte di persone che stimavo. Però si capì subito che il film era abbastanza ostico per il pubblico e ne avrebbe attirato poco. Cominciò quindi un periodo difficile. È stato detto tante volte, ma vale sempre la pena ripeterlo: il cinema è un’arte che costa cara, e in Italia lo è ancora di più. Il cinema non ha mai interessato più di tanto i nostri governanti e ha ricevuto sempre poca protezione. La conseguenza è che montare un film diventa sempre un’impresa difficile, spesso impossibile. Per andare avanti, in quei primi anni, ho affiancato la mia attività cinematografica a quella televisiva, anche con buone soddisfazioni. Hai fatto anche esperienze col montaggio, ad esempio con Pasolini. Sono sempre stato affascinato dal lavoro della moviola. Al punto che, dopo aver girato I visionari e Stefano Junior, arrivai a chiedere a Roberto Perpignani se mi faceva seguire il montaggio di un film a cui stava lavorando, proprio per fare un po’ di pratica. Lui disse di sì e mi fece andare nel laboratorio dove stava montando la versione italiana di La battaglia della Neretva, un film iugoslavo lungo più di sei ore, noiosissimo, che bisognava ridurre a due ore. Bisognava tagliare e spostare le scene, c’era una marea di attori, da Orson Welles a Yul Brinner, a Sylva Koscina. Insomma c’era un grande lavoro da fare e Perpignani mi mise invece a “numerare” il materiale, che è la cosa più mortificante che si potesse fare nel montaggio. Anni dopo quel lavoro si faceva con una macchinetta, ma a quei tempi bisognava farlo a mano, con l’inchiostro bianco indelebile. La pellicola si faceva passare su un supporto e ogni dieci fotogrammi si metteva il numero del ciak. Io dovevo fare questo dando le spalle a Perpignani che intanto lavorava alla moviola. Avrei imparato ben poco. Me ne andai in fretta. Comunque, tutte le volte che ho potuto, ho montato i miei film da solo. Il primo vero grande montatore che ho conosciuto, la persona che mi ha fatto constatare che era possibile apportare un contributo ulteriore in quella fase, è stato Sergio Montanari, un vero maestro. Con lui ho fatto Madonna che silenzio c’è stasera e tanti altri film. Poi, con Pasolini e 12 dicembre la mia voglia di moviola fu soddisfatta. Ci 29


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restai più di un anno, circondato da migliaia di metri in 16 mm e per giunta pagato puntualmente ogni venerdì. Torniamo a I visionari. Come è stato quell’esordio? Diciamo che lo devo alla mia attività di critico. Avevo scritto su “Filmcritica” una recensione per I fuorilegge del matrimonio di Paolo e Vittorio Taviani. Qualche giorno dopo mi telefonò Vittorio, per ringraziarmi, dicendomi le cose su cui era d’accordo e quelle in cui lo era meno. Nacque tra noi un’amicizia e furono loro a dirmi che se avevo una sceneggiatura pronta l’avrei potuta dare a Giuliani De Negri, che stava per presentare dei progetti al Ministero per il finanziamento. In quel periodo era infatti entrato in vigore l’art. 28 e il mio film sarebbe stato poi il primo a beneficiare di quella norma di legge. Mi affrettai a scrivere la sceneggiatura di I visionari, ispirata alla messa in scena di una commedia di Musil, I fanatici. I soldi erano pochi e il cast fu difficile. Ma ebbi la fortuna di incontrare Jean-Marc Bory, l’attore che più ho amato fra tutti quelli con cui ho lavorato. Da regista ti è passata la voglia di scrivere recensioni? Non mi sembrava una cosa tanto giusta, ho continuato a scrivere su “Cinema&Film” ma molto di meno. Forse avrei continuato, ma quando la rivista interruppe le pubblicazioni lasciai perdere. Facendo il regista è cambiato il tuo modo di vedere il cinema? Molto. Quando facevo critica cinematografica, parlo per me, ero abbastanza incosciente. Facendo il cinema mi sono trovato spesso davanti a tantissimi problemi, che probabilmente erano gli stessi che avevano incontrato i registi dei film di cui avevo scritto. Se avessi continuato a fare critica avrei avuto sicuramente molte più remore. Ripensandoci, trovo che certi nostri articoli erano davvero terroristici, pochi per fortuna. Comunque io non ho avuto bisogno di rivalutare un certo tipo di cinema rispetto a un altro. Forse avevo riserve solo con il genere horror, ma perché mi faceva paura. Poi ho capito facendo cinema che certe corde erano per me più congeniali. Ad esempio, la commedia leggera. Questo è avvenuto soprattutto dirigendo certi lavori per la televisione. È stato un lungo periodo, dal 1972 al 1975, in cui ho fatto la regia di Philadelphia Story, un testo che ha dato vita a un paio di importanti film americani, poi La voce della tortora. Erano commedie cosiddette sofisticate e bisognava dirigerle, come si faceva a quel tempo, utilizzando tre telecamere in presa diretta e montando mentre si girava, perché il montaggio in Ampex non era possibile. Lì, staccando da una telecamera all’altra, dando il ritmo e seguendo l’azione. La mia passione per il montaggio mi aiutò. 30


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Hai parlato prima di certi atteggiamenti addirittura “terroristici” contro certi film, certi autori. Tu non eri uno che indugiava in questi atteggiamenti, eppure su “Cinema&Film” hai scritto forse la stroncatura più cattiva contro un film italiano, A ciascuno il suo di Elio Petri. In una riunione di redazione per il numero due di “Cinema&Film” emerse il discorso sull’uso sconsiderato dello zoom che si faceva in certi film. Una cosa che a me dava fastidio più che agli altri, forse perché già ragionavo da regista, mi sembrava una specie di peste. Comunque i colleghi furono d’accordo sulla necessità d’intervenire. In quei giorni c’era in circolazione un film di grande successo in cui lo zoom veniva usato in quel modo, Un uomo e una donna di Claude Lelouch, e poi ce n’era un altro, italiano, appunto a Ciascuno il suo, con un’altra valanga di zoomate. Scegliemmo di occuparci del film italiano e toccò a me scriverne, anche perché mi ero dimostrato il più astioso verso quel modo di girare. Scrissi un articolo in effetti esageratamente cattivo, non per la parte che riguarda l’uso dello zoom, che potrei confermare per intero anche adesso, ma per le altre cose che affermavo e che francamente mi potevo risparmiare, ad esempio a proposito dell’intervento di Micheline Presle in certe scelte di regia nell’Assassino, cose così. Petri se la prese enormemente, qualcuno me lo disse e io rimasi sbalordito da quel fatto, il suo film aveva avuto un grande successo di pubblico, aveva ottenuto ottime critiche sui principali quotidiani, cosa gli poteva mai importare di una stroncatura pubblicata su una piccola rivista come la nostra. E invece era il segno che “Cinema&Film” era più importante di quanto pensassimo. Una sera, durante una riunione all’Anac, presso la sede di Piazza Colonna, vidi Petri che parlottava con qualcuno e mi indicava, poi si avvicinò e mi chiese se ero io ad aver scritto quell’articolo, mi prese per il bavero e mi sbatté contro il muro, fuori di sé. Poi per fortuna si rabbonì e dopo qualche tempo mi ha addirittura invitato a pranzo a casa sua. In seguito ci siamo frequentati con assiduità, lui mi era molto simpatico e io lo ero a lui. Un’altra conferma dell’importanza che aveva “Cinema&Film” mi arrivò qualche settimana dopo con una telefonata di Laura De Marchi, un’attrice che conoscevo. Si trovava in Sicilia, sul set di Il giorno della civetta, e al telefono mi disse che c’era Damiano Damiani accanto a lei e voleva dirmi di stare tranquillo perché aveva fatto togliere lo zoom dalla macchina da presa. Io pensavo a una presa in giro, ma da lontano sentivo la voce di Damiani che confermava. In effetti nel film non ci sono “zoomate”. “Cinema&Film” era una rivista nota in Italia per essere stata la prima ad applicare certe metodologie di analisi: la linguistica, la semiotica, lo strutturalismo. Tu che atteggiamento avevi verso quelle cose? Ero molto estraneo. Non mi interessavano, e in un certo senso credo che avessi 31


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ragione io. Nel numero 2 di “Cinema&Film” furono pubblicate delle analisi alla moviola di una sequenza di Viaggio in Italia utilizzando gli schemi di Pasolini e Metz. Ebbene, alla fine, che risultati hanno portato? Ben pochi e hanno solo confermato quello che già sapevamo sul film. Per quanto mi riguarda, vivevo il fare critica in modo molto personale, forse impressionistico, sulla base delle mie conoscenze, della mia cinefilia. Non avevo punti di riferimento particolari, a parte forse i “Cahiers du Cinéma”. Poi, sempre dalla Francia, mi piaceva seguire certe follie di “Presence du cinéma”, poi le posizioni di “Positif” altrettanto interessanti. Tra i colleghi critici italiani c’era qualcuno che seguivi? Nessuno in particolare. C’era Pietro Bianchi, che stimavo. Leggevo le recensioni di Giovanni Grazzini, Giulio Cesare Castello, che trovavo molto preparato. Più che altro mi piacevano quelli che parlavano di cinema senza essere dei critici cinematografici, ad esempio Giuseppe Marotta, che mi divertiva soprattutto quando si arrabbiava, oppure Alberto Moravia, sempre molto acuto e intelligente. Poi Pasolini, stupendo quando scriveva sui film che gli erano piaciuti. Da critico hai anche scritto dei libri. Nel 1972 ho scritto una monografia su Pier Paolo Pasolini per una collana edita dall’Arci, poi ripubblicata dall’Aiace. Anni dopo l’editore Gremese, per la sua collana “Le stelle filanti” mi propose di scrivere un libro su Gina Lollobrigida. Accettai ed è stata un’esperienza piacevole anche perché mi ha consentito di conoscerla e passare con lei alcuni giorni, superando la sua diffidenza. Una volta consegnato il lavoro, scoprii però che la Lollobrigida aveva rimesso le mani sull’intervista, eliminando tutti i giudizi piuttosto saporiti che aveva espresso su certi “mostri sacri” con cui aveva lavorato e che io ero riuscito a strapparle. Nella tua carriera ci sono degli incontri molto importanti, anche a livello umano. Ad esempio Francesco Nuti, con cui hai girato una trilogia di grande successo. Poi tra voi ci fu un’interruzione. Ne vuoi parlare? Non è facile per me parlare di questo stranissimo rapporto. Ho conosciuto Francesco negli uffici del produttore Gianfranco Piccioli, con cui stavo preparando un film che poi non si fece. Mi dissero che aveva scritto un copione insieme a Elvio Porta, e un giorno Umberto Angelucci, che era socio di Piccioli, mi chiese se avevo voglia di leggerlo e, nel caso, di fare la regia. La sceneggiatura era scritta in modo piuttosto ingenuo, poco professionale, evidentemente Porta aveva dato solo un contributo di idee ma a scrivere era stato Francesco. Però la storia era simpatica e poi conoscendo Nuti era facile capire che tipo di film pote32


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Francesco Nuti e Maurizio Ponzi durante la lavorazione di Son contento (1983)

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Maurizio Ponzi e Sophia Loren sul set di Qualcosa di biondo (1984)

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va uscirne fuori. Per me era un’occasione, forse l’ultima per tornare al cinema dopo una lunga assenza, accettai e partì da quel momento un rapporto molto affettuoso tra noi. Una cosa strana è che anni dopo, nelle rarissime volte che nelle interviste mi ha nominato, Francesco racconta che all’inizio era sospettoso nei miei confronti, dato che avevo fatto film con dei titoli strani, I visionari, Equinozio. Detto da uno che aveva scritto un copione col titolo Madonna che silenzio c’è stasera è buffo. In realtà la cosa andò subito bene, soprattutto quando siamo andati insieme a Prato, da soli, a scegliere i luoghi dove girare. Mi piaceva la città, il suo modo di fare, e lui si è affidato a me completamente. Il secondo film, Io, Chiara e lo Scuro è nato invece con criteri molto più professionali. Siamo andati ancora una volta a Prato, da soli, per scrivere il soggetto. Avevamo di fronte un’alternativa: il biliardo, che a lui piaceva molto, o il ciclismo di cui era altrettanto appassionato. Io non avevo dubbi: scartare il ciclismo che ci avrebbe portato verso un film itinerante che non sentivo nelle mie corde, e puntare sul biliardo, che in fondo, a parte Lo spaccone di Rossen, era stato poco visto al cinema. Francesco si convinse. Durante la preparazione ho dovuto vincere però alcune battaglie. La prima riguardò la scelta della protagonista femminile, perché né Nuti né Piccioli volevano Giuliana De Sio. Per loro era antipatica, troppo televisiva, e mi proponevano in alternativa le attrici più assurde. Finché un giorno convinsi Giuliana a presentarsi in ufficio vestita di nero e con un sassofono, a quel punto non ci fu più partita. Mi diedero ragione. L’altra battaglia fu per il titolo. Nuti voleva chiamarlo Bella boccia, che a me faceva letteralmente schifo. Cominciai a fargli delle proposte alternative, tutte bocciate. Poi, giocando sul nome dello Scuro, mi venne in mente di chiamare Chiara il personaggio femminile, che invece in origine aveva un nome maschile, Andrea. La prima ipotesi di titolo era Chiara e Scuro, che però non suonava bene, soprattutto per Francesco, che in quel modo veniva escluso. Pensando a certi titoli italiani dei film di Buster Keaton aggiunsi allora un “io”, e il titolo venne immediatamente accettato. Un bel colpo perché quel titolo ebbe un gran successo diventando addirittura un tormentone. Mentre accadeva tutto questo capivo, specie sul set di Io son contento, che Nuti era preso dall’ambizione sfrenata di fare il regista. Chissà poi perché? Lui prendeva tanti premi, i giornali parlavano di Francesco, molto meno di me. Ma evidentemente non era soddisfatto e colse l’occasione per mettermi di fronte ad un aut aut per la realizzazione del mio Qualcosa di biondo. Inizialmente per quel film c’era un ruolo anche per Nuti, il personaggio di uno dei tre partner di Sophia Loren era stato scritto proprio per lui. A un certo momento però lui diede forfait dicendo che il film non gli interessava più e questo creò enormi problemi. Nel progetto c’era già il coinvolgimento della Loren? 35


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Sì, ed era stato un colpo di fortuna, ma per Francesco evidentemente non bastava. Un colpo di fortuna perché inizialmente la protagonista doveva essere Monica Vitti, che però si ritirò. Per sostituirla a me venne in mente subito Sophia Loren, che poteva partecipare anche con il figlio. Piccioli fu d’accordo, anche se un po’ incredulo sulla possibilità di averla, parlammo con l’agente della Loren, che era anche la mia, l’avvocatessa Cau. Le inviammo il copione e lei rispose dopo soli tre giorni dicendo che avrebbe fatto il film molto volentieri. A quel punto il progetto produttivo cambiò profondamente, subentrò Carlo Ponti con il figlio Alex e, successivamente, una società americana e questo significava girare il film in lingua inglese. Avremmo dovuto a quel punto comunque sostituire Francesco Nuti. Ponti, lontano da molti anni dall’Italia, non aveva il quadro esatto della situazione e accettava suggerimenti da chissà chi, facendo le proposte più bizzarre. La scelta di Ricky Tognazzi alla fine fu per me quella più facile, era stato il mio aiuto regista in alcuni film, aveva già fatto qualche esperienza d’attore e soprattutto parlava benissimo l’inglese, praticamente la sua lingua madre. Infatti andò benissimo, Ricky prese addirittura il David di Donatello per quell’interpretazione. E Nuti? Lui voleva fare a tutti i costi il seguito di Io, Chiara e lo Scuro. Io non capivo quella sua fissazione, avevamo tante altre idee da sviluppare, perché tornare a un tema già sfruttato? Chiesi solo di aspettarmi che finissi Qualcosa di biondo. Lui non era per niente d’accordo e mi chiedeva invece di rinunciare al progetto, tanto con Ponti non avevo ancora firmato il contratto. Ovviamente era una cosa che non potevo fare, eravamo già molto avanti nella preparazione del film e poi avevo piacere a lavorare con la Loren e con una produzione come quella. Dissi di no e a lui non parve vero. Da quel momento cominciò a lavorare per conto suo. Non mi ha più cercato, neppure al telefono. Come è stato lavorare con Sophia Loren e Carlo Ponti? Un’esperienza molto bella. Qualcosa di biondo è stato il mio film più costoso e più lungo. E anche quello più visto nel mondo. Carlo Ponti era un uomo abbastanza pieno di sé, però aveva simpatia per me, nata anche dal fatto che io ricordavo benissimo tutti i suoi film. Cosa che accadde anche con Mario Cecchi Gori, con cui ho fatto quattro film e che ricordo con affetto. In questi casi viene fuori tutta la mia cinefilia e con Ponti, quando ci incontravamo, non smettevo di interrogarlo sui film prodotti ai tempi della Lux. Ponti è stato davvero un produttore di cinema importante, e come tutti i produttori è stato anche capace di fare cose tremende, come con Ferreri o Godard. Sophia è una donna e un’attrice deliziosa, 36


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bravissima e anche incredibilmente umile. Stavamo per fare un altro film insieme, poi ahimé naufragato. Comunque il ricordo è bellissimo, capita raramente in questo ambiente. Perché dici così? Perché quello del cinema è un ambiente difficile e anche tremendo. Si incontrano migliaia di persone che frequenti una trentina di giorni e non rivedi più nella tua vita. Sono fiammiferi che si accendono e si spengono miseramente. Non rimane niente. Quasi sempre va a finire in questo modo e in molti casi è meglio così. Certo, se avessi continuato a fare l’impiegato all’Olivetti difficilmente avrei incontrato persone belle come Rossellini, Pasolini, oppure Anna Banti, che mi regalò un suo bellissimo racconto per Equinozio, Elsa Morante che disse cose bellissime su I visionari, Natalia Ginzburg, che diede i diritti di un suo racconto per Valentino, una miniserie televisiva che ho girato nel 1983. Poi c’è un altro fatto da sottolineare e che riguarda in particolare gli attori. Per una serie di problemi sono persone difficili, con cui spesso è problematico interagire. Ci vuole molta esperienza, molta pazienza. Io ho fatto lavori nella mia carriera in cui ho avuto a che fare con decine di attori tutti insieme, come ad esempio per le tre prime stagioni di Il bello delle donne: 23 puntate di un’ora e mezza, con quindici protagonisti, e sono riuscito sempre a cavarmela tranquillamente. Ho lavorato nell’occasione con attrici importanti come Virna Lisi e Stefania Sandrelli, ma anche con attrici che ho scoperto molto più brave di quanto immaginassi, come ad esempio Antonella Ponziani, magnifica, ma anche Nancy Brilli, che per me è stata una bella sorpresa. Ennesima dimostrazione che quando guardi da fuori il mistero del cinema rischi di dare dei giudizi superficiali, non veri. In quell’occasione ho anche capito quanto mi era congeniale lavorare con la lunga serialità televisiva, un fenomeno diventato oggi dominante. Tra i tuoi film quali sono quelli che preferisci? Io ho fatto venti film per il cinema, più una cinquantina di altre regie tra televisione e documentari. A parte I visionari, di cui abbiamo già detto, e Stefano Junior per la TV, quelli che amo di più sono Io, Chiara e lo Scuro, Italiani e Ci vediamo a casa, il mio ultimo film, che credo sia, per come oggi concepisco il cinema, quello che ha raggiunto i risultati più precisi. Ripensandoci mi accorgo che i film che preferisco sono anche quelli realizzati con produzioni piccole e anche avventurose, come è stato certamente il caso della mia opera prima, I visionari, fatto con una cooperativa, ma anche Io, Chiara e lo Scuro prodotto da Gianfranco Piccioli, e Ci vediamo a casa, che sono riuscito a fare grazie all’intraprendenza di un giovane produttore, Damiano Andriano, che si è intestardito 37


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a farmi fare il film a tutti i costi, e c’è riuscito. Degli altri miei film, ce ne sono alcuni, fortunatamente pochi, che invece non avrei dovuto fare. Ma tutto questo non riguarda questo libro. A un certo punto della tua carriera, diciamo a partire da Madonna che silenzio c’è stasera, hai lasciato un itinerario d’autore più severo, penso a film come I visionari, Equinozio, Il caso Raul, e hai cominciato a fare la commedia, anche con molto successo. Che rapporti hai avuto con i tuoi colleghi più “impegnati”? Hai notato un po’ di distacco? No, da parte dei colleghi no. Magari invidiavano gli incassi di Io, Chiara e lo Scuro, davvero notevoli. Semmai le reazioni ci sono state da parte di certi critici, che in genere amano incasellare gli autori e preferiscono non avere sorprese. Un regista che di colpo cambia registro li sbalordisce, non hanno voglia di approfondire. È mai riuscito un critico, diciamo di tipo tradizionale, a capire come un regista come quello di Metropolis abbia potuto girare Il grande caldo o Il covo dei contrabbandieri? Eppure è sempre Fritz Lang, assolutamente. Questo, ovviamente, senza fare paragoni inammissibili. Girando i tuoi film quanto ti è stata utile la tua esperienza di critico cinematografico? Sicuramente mi è servito essere stato uno spettatore così assiduo... Fra i miei film preferiti c’è Aurora di Murnau, La finestra sul cortile di Hitchcock, Un uomo tranquillo di Ford, Europa ’51 di Rossellini, ma sono dentro di me, insieme a tanti altri. Per esempio, per tornare al montaggio, il mio punto di riferimento è I gioielli di Madame de... di Max Ophüls, un film, cioè, dove il montaggio c’è ma non si vede. Un desiderio di fluidità. Che vuoi che ti dica? Certo per I visionari ho pensato all’espressionismo tedesco, ma se continuiamo con questo discorso devo dirti che girando Noi uomini duri ho avuto molto presente le strisce di Bibì e Bibò e capitan Cocoricò che leggevo sul “Corriere dei piccoli”… Meglio non proseguire. Hai fatto anche dei documentari importanti, in cui la tua conoscenza cinematografica ha contato parecchio. In particolare due documentari, Cinecittà e Mattolineide. Il primo è la storia dello stabilimento raccontata in sei puntate. Un lavoro che ho fatto con grande piacere perché nell’occasione sono riuscito a entrare in contatto con delle persone splendide, con le quali purtroppo, per ragioni di età e anche di budget, non sono mai riuscito a lavorare. In particolare ricordo un’intervista a Mario Chiari, sce38


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nografo meraviglioso, che mi parlava di film come Le notti bianche, Carosello napoletano e del loro modo straordinario di lavorare. Per Mattolineide, nel ripercorrere la lunga carriera di Mario Mattoli, ho incontrato degli straordinari professionisti, come Age e Scarpelli, Aldo Fabrizi... Fabrizi era notoriamente un uomo difficile da intervistare. Come si è comportato con te? È stato molto diffidente. Mattoli mi aveva però avvertito, cercalo al telefono ma vedrai che non risponde. Però sta in casa e ascolta la segreteria telefonica, cerca di convincerlo. Io provai parecchie volte ma senza successo, finché un giorno lasciai alla segreteria un messaggio un po’ più lungo. Dissi che avrei voluto spiegargli cosa intendevo fare con il documentario, che volevo sottolineare come in alcuni film di Mattoli ci fossero echi di regie di Fabrizi. Ad esempio in Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi c’è un cambio di abito da cerimonia tra i protagonisti che cita chiaramente Marsina stretta, un film di Aldo Fabrizi. A quel punto, improvvisamente, Fabrizi prese la comunicazione, chiese, volle capire meglio, e alla fine il nodo si sciolse. Prendemmo gli accordi necessari e andammo a casa sua per l’intervista. Diciamo che in quel caso l’ho preso con la vanità. Anche con la cinefilia? Usata un po’ biecamente, ma fino a un certo punto, perché Marsina stretta, episodio di Questa è la vita, è un film che mi piace davvero. E poi c’è anche Lucia Bosè. Tornando al tuo lavoro da critico cinematografico, in questo libro sono raccolte gran parte delle cose che hai scritto e che dopo tanti anni avrai avuto modo di rileggere. Che giudizio dài, quali ti piacciono di più? Alcune sono commoventi. Mi convince un articolo su Rossellini, la recensione su La contessa di Hong Kong di Chaplin, secondo me giusta, piuttosto acuta, su un film detestato e boicottato praticamente da tutti, mi convince poi il tono affettuoso con cui ho scritto di Falstaff di Orson Welles, certi pezzi su Bresson, Demy... In quegli anni hai fatto anche tante interviste a personaggi illustri del cinema, anche quelle pubblicate nel libro. Lavorando nelle riviste di cinema io credevo molto nelle interviste ai registi, secondo me materiali importanti e sempre rivelatori, ma devono essere fatte da gente che conosce bene il cinema e soprattutto l’autore intervistato. I “Cahiers” 39


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mandavano Godard a fare le interviste a Renoir, e lui sapeva tutto del suo cinema. Le altre riviste italiane non usavano sempre questo metodo, fummo noi a “Filmcritica” ad adottarlo, e poi a “Cinema&Film” a perfezionarlo, sull’esempio proprio dei “Cahiers” che pubblicavano interviste sempre bellissime. Tra le interviste che pubblichiamo ce ne sono alcune assai curiose, ad esempio quella con Jean-Pierre Melville che dall’inizio alla fine spara a zero sugli autori della Nouvelle vague e in genere su un certo cinema che voi invece difendevate a spada tratta. Al punto che l’intervista fu pubblicata con una vostra nota in cui prendevate le distanze. I film di Jean-Pierre Melville mi piacevano così tanto che lui poteva dire quello che voleva. Di quelle interviste in realtà ricordo poco, tranne l’ambiente in cui si svolgevano. Melville lo intervistammo nella sua casa-studio, situata un po’ fuori Parigi. Era un edificio costruito completamente di legno, adibito anche a suo personale teatro di posa. Durante tutta l’intervista apparivano e scomparivano nella stanza delle bellissime ragazze nere. L’intervista con Joseph Losey la ricordo perché a un certo punto apparve, con una grazia e una magrezza straordinarie, Dirk Bogarde, a Roma anche lui per la promozione di Per il re e per la patria. Si presentò e poi si mise in un lato della stanza, in silenzio, ad ascoltare. Una presenza molto forte e io facevo fatica a non guardarlo. George Cukor fece invece l’intervista in una suite dell’Hotel Excelsior di Roma, perfettamente a suo agio, indossando un’elegante vestaglia rossa e con accanto un magnifico ragazzo, il suo segretario. Ma in realtà, quando vengono intervistati, i registi sono sempre simpatici e disponibili. Ricordo Alessandro Blasetti, che era noto per il brutto carattere e invece fu con me gentilissimo. Ma io andavo preparato a quegli incontri, conoscevo tutti i loro film, e questo veniva apprezzato. Tra i personaggi che hai intervistato chi ti ha colpito di più? Sicuramente, oltre a Rossellini, George Cukor. Era a Roma per promuovere My Fair Lady e mentre ci parlavo sentivo che dietro di lui c’era un altro mondo. Una persona meravigliosa, che aveva un rapporto giusto con i film che aveva fatto, un vero grande regista hollywoodiano. In quell’occasione ho sentito che il cinema che lui rappresentava era quello che amavo di più, quello per cui ero più portato. Un’idea di cinema che qualcuno considerava però limitata. Ricordo che una volta un amico, che purtroppo non c’è più, disse di me con un po’ di disprezzo: «Quello tutt’al più vuol diventare come Lattuada». Io l’ho sempre preso come un complimento. (a cura di Piero Spila) 40


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Maurizio Ponzi

AL CINEMA DA GIOVANI © Edizioni Falsopiano - 2019 via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri In copertina: Maurizio Ponzi e Giuliana De Sio Prima edizione - Giugno 2019


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