Anima e Terra 2

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numerodue ● ottobre 2012

www.animaeterra.it anima e terra ● psicologia, ecologia, società, immagini del mondo contemporaneo redazione: Via Bobbio 14/b, Alessandria ● registrazione al tribunale di Alessandria n. 2/2012 del 26 gennaio 2012


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A eT direttore Franco Livorsi direttore responsabile Alberto Ballerino segreteria di redazione Via Bobbio 14/b Alessandria redazione Franco Livorsi (Direttore), Alberto Ballerino (Direttore responsabile), Giuseppe Amadio, Anna Benvenuti, Davide D’Alto, Giorgio Grimaldi, Roberto Lasagna

comitato scientifico: Giuseppe Amadio, Alberto Ballerino, Margherita Bassini, Anna Benvenuti, Davide D’Alto, Mauro Fornaro, Marco Garzonio, Giorgio Grimaldi, Roberto Lasagna, Franco Livorsi, Nuccio Lodato, Marina Manciocchi, Riccardo Mondo, Patrizia Nosengo, Giuseppe Rinaldi, Wilma Scategni, Giovanni Sorge, Bruno Soro, Eldo Stellucci, Paola Terrile, Ferdinando Testa, Luigi Zoja, Saverio Zumbo

anno primo, numero due ottobre 2012 versione digitale ISBN 978-88-98137-13-8

francolivorsi@animaeterra.it redazione@animaeterra.it per abbonarsi alla rivista www.animaeterra.it/abbonamenti.html

Edizioni Falsopiano - Ottobre 2012 via Bobbio, 14/b 15121 - ALESSANDRIA per le immagini: copyright dei relativi detentori progetto grafico e impaginazione: Roberto Dagostini e Daniele Allegri


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Editoriale Il mondo tra catastrofe e rinascita

sommario

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Psicologia, Ecologia e Società MARINA MANCIOCCHI Prometeo e Io. Catastrofi originarie e ossessioni patologiche

25

MARCO GARZONIO Immagini di catastrofe e responsabilità personale in Jung. Un’”Apocalisse” per i nostri giorni

35

ANNA BENVENUTI Dopo la catastrofe, oltrepassare il passato: l’apertura all’ulteriorità di senso nel pensiero junghiano

47

GIOVANNI SORGE “Karma Aperto” di Fabrizio Petri: un’opera sull’interazione spirituale e psichica dai Romantici a Internet

59

Ecologia, Psicologia, Società GIORGIO GRIMALDI I Verdi europei e il possibile crollo dell’euro e dell’Unione Europea

65

GIOVANNI SALIO Al di là della catastrofe. Alternative della nonviolenza per superare la crisi del neoliberismo

81

GIUSEPPE AMADIO Una catastrofe mancata: “Il falco pellegrino” di John A. Baker

95

RENZO PENNA Geografia fisica tra armonia e devastazione: “Il bel paese” di Stoppani, “Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia” di Stella e Rizzo e “Paesaggio, costituzione, cemento” di Settis

103

Società, Psicologia, Ecologia PATRIZIA NOSENGO “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler ieri e oggi

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Sommario

GIUSEPPE RINALDI La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino

133

BRUNO SORO Dal caos alla complessità: l’economia nella “terra di mezzo”

159

FRANCO LIVORSI La questione del mancato superamento del capitalismo alla luce del materialismo storico e della psicologia analitica. Note e riflessioni

175

ALBERTO BALLERINO Il mondo futuro tra catastrofe e utopia secondo Jacques Attali

213

Immagini del mondo contemporaneo PEPPINO ORTOLEVA Crisi dei sistemi politici e governo degli “esperti”: il “caso” dell’Italia

219

SAVERIO ZUMBO Morire è troppo. Appunti su “Bella addormentata” di Marco Bellocchio

231

ROBERTO LASAGNA Dalla “fine del mondo” al “mondo senza fine”: strano amore, strana melancholia

235

GIOVANNI SORGE Note sul festival cinematografico di Zurigo del 2012

243

MARIO GEROSA L’arte virtuale e il Kitsch

247

SONIA S. BRAGA Apocalittici e disintegrati: schegge d’arte nella situazione atomica

259

WOLF BRUNO Di crepuscolo in crepuscolo, precipitando

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MARIA LIA MALANDRINO e BETTY MEADS, Il network dei dannati

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Franco Livorsi ● Editoriale

Il mondo tra catastrofe e rinascita

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C’è stato un lungo periodo della nostra vita in cui tutto appariva o immobile oppure come un movimento inscritto in un contesto mondiale, e per ciò stesso anche nazionale, che sembrava poter mutare solo in superficie, ma restando tale e quale in profondità. Era un’epoca, iniziata con gli accordi di Yalta del 1944 tra le grandi potenze che stavano vincendo la seconda guerra mondiale, segnata dal duopolio internazionale russo-americano. Le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, assai presto, presero a contendere all’estremo e a minacciarsi di continuo, sostenendo pure molti veri e propri conflitti tra nazioni appoggiandone talune contro altre ove le guerre o guerriglie si svolgessero fuori o ai margini delle zone mondiali d’influenza politica stabilite appunto a Yalta. All’interno delle zone d’influenza decise allora nessun mutamento sistemico era però ritenuto accettabile, pena la più spietata repressione da parte della superpotenza lì riconosciuta come dominante. E siccome i paesi europei - in cui si era prevalentemente svolta la guerra 1939-1945, nella quale erano morte cinquanta milioni di persone - erano stati i più “spartiti”, qui pareva che nessun mutamento di civiltà in direzione opposta o assai sgradita alla superpotenza dominante sarebbe stato possibile. Valeva da Parigi a Vladivostock. Ma era valso pure in paesi europei come la Grecia, dove un movimento rivoluzionario comunista era stato subito represso nel sangue. Le zone d’influenza non ammettevano deroghe. In quelle aree, nella migliore delle ipotesi, si poteva cercare di riposizionare un poco le forze rispetto alla superpotenza “tutrice”, in modo tanto più pericoloso quanto più si fosse militarmente ed economicamente dipendenti dal grande Stato di riferimento. A molti il far coesistere “pacificamente” - in modo preteso o effettivamente competitivo - i due superstati opposti, evitando l’incombente guerra nucleare, sembrava il massimo risultato possibile ed accettabile. Invece dell’“assalto al cielo” si preferiva quello “fuori porta” rispetto all’impero proprio. Ciò seguitò a valere, a dispetto di ogni destalinizzazione, dal 1956 in poi, oppure a dispetto delle stesse “grandi speranze” dei meravigliosi anni Sessanta (che dal primo all’ultimo sono stati il meglio, in quel mondo “ingessato” russoamericano fondato a Yalta nel 1944). Al culmine di quegli anni Sessanta e oltre ci fu persino un grande e antelucano psicoanalista “politico”, neofreudiano, Franco Fornari, che in un’opera del 1981, La malattia dell’Europa, da un lato vedeva la guerra atomica come incombente, e dall’altro come tenuta a bada tramite il duopolio russo-americano fondato sull’“equilibrio del terrore” (però sempre a rischio di trasformarsi in guerra calda, atomica). A questo contesto


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A e T pacifico ma precario, aperto alla guerra atomica tra superpotenze, da un lato Fornari contrapponeva il mondo precapitalistico delle civiltà arcaiche e contadine (anticipando i Verdi), ossia il mondo in cui l’empatia originaria con la madre equivaleva ad empatia con la Madre Terra; dall’altro, alla fine, un’auspicata rinascita psichica - in Riscoperta dell’anima, nel 1984 - intesa come istanza innata di conciliazione di opposti psichici: opposti segnati altrimenti da un conflitto permanente e intrinsecamente mortale e mortifero. Per lui però l’età delle catastrofi virtuali passava per la fine dell’“imperismo”, o di quelli che dal Sessantotto venivano detti, nella sinistra definita extraparlamentare, i due imperialismi (americano e russo). In sostanza Russia e America del nord, URSS e Stati Uniti, sarebbero stati come il padre-padrone e la madre-padrona, litiganti sì l’un l’altra dal mattino alla sera, ma oppressivi con i figli. La fine del loro stato di superpotenza per Fornari sarebbe stata la via alla liberazione umana (direi naturale e dell’anima)1. Il superamento dei due “imperialismi” pareva impossibile perché questi erano risultati da un cruento scontro di civiltà, come tutti gli ordini mondiali anteriori. Così, dopo la Rivoluzione francese, la Francia di Napoleone Bonaparte aveva cercato di realizzare un ordine mondiale basato sul suo moderno Codice civile e connesse istituzioni “borghesi”, e con ciò il suo primato mondiale di cosiddetta “Grande Nation”. Ma dopo parecchie guerre, non dette mondiali ma che lo erano già perché andavano dall’Europa a Mosca, il formidabile disegno francese e bonapartista era stato sconfitto e le grandi potenze vincitrici avevano stabilito, al congresso di Vienna del 1815, un ordine mondiale che, pur tra molte convulsioni - come il 1848 europeo e la guerra tra francesi e prussiani del 1870 – era durato addirittura per un secolo, sino al 1914. Poi c’era stata la grande guerra,che credo sia stata la “vera” cesura che ha spaccato in due l’età contemporanea iniziata nel 1789: grande guerra seguita dalla pace di Versailles. Ma poi quella pace risultò essere una tregua, e la guerra riprese - a parte l’Italia - sostanzialmente con le stesse alleanze del ’14-18, nel 1939. La potenze germanica (e in tal caso pure giapponese) fu nuovamente e definitivamente sopraffatta e, al convegno di Yalta del 1944 ci fu appunto la già ricordata definizione del nuovo assetto mondiale diviso in zone d’influenza di tipo politico, istituzionale e militare. Questa volta l’assetto mondiale durò più di quarant’anni. Furono certo anni molto mossi, sol che si pensi ai fatti d’Ungheria del 1956, in cui il tentativo di un paese membro del blocco sovietico di diventare neutrale, sia pure all’ombra della bandiera rossa del blocco, fu schiacciato provocando decine di migliaia di vittime tra gli insorti ungheresi; o alla grande lotta per il controllo dell’Indocina detta guerra del Vietnam (che agì da reagente formidabile per la contestazione degli anni Sessanta): o alla la repressione, quasi incruenta, ma sempre

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a base di cingolati sovietici e prigioni, del comunismo di Dubceck, nella Cecoslovacchia del Sessantotto. Ma nell’insieme l’ordine mondiale di Yalta resse sino alla caduta del muro di Berlino, accettata dalla Russia di Gorbaciov, del 1989, e poi sino alla caduta dell’URSS stessa nel 1991. La ragione della “lunga durata”, o di una durata non breve come la volta precedente (1918), di quella pax sovietico-americana fu notoriamente il possesso della bomba atomica da parte di entrambe le superpotenze. Se entrambe le superpotenze non fossero state nucleari, sicuramente - al più tardi nel 1956 - sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale. Il grande crollo del comunismo tra il 1989 e il 1991 è un fenomeno storico grandioso e che certamente farà ancora discutere gli storici molto a lungo. Di esso furono date diverse letture. Molti accreditano l’interpretazione che si potrebbe dire militare, tale per cui l’URSS, di fronte alla volontà dell’America di Ronald Reagan di dotarsi di un immenso scudo spaziale nucleare che avrebbe rotto l’equilibrio del terrore mondiale rendendo possibile l’attacco nucleare al suo territorio senza possibile risposta, si sarebbe sostanzialmente arresa all’avversario sistemico. Ma lo “scudo” era e rimase “idea” e nulla più. Non credo che della “resa” si troverà mai traccia in verbali o memorie dei grandi capi politici o militari sovietici o americani, e pertanto considero tale tesi inattendibile. Altri vedono in quell’opzione un atto di saggezza profetico politica di Gorbaciov. Così Joan Galtung, il più importante pacifista gandhiano della nostra epoca, a un convegno svoltosi a Torino nel luglio 2012 presso il Centro Regis (pacifista e gandhiano) diretto dal nostro collaboratore ed amico Nanni Salio2, vedeva Gorbaciov come una sorta di eroe della “nonviolenza”, che deliberatamente non avrebbe più sottostato ad una logica amico-nemico che bloccava il mondo e isolava la Russia, e ciò anche a costo di perdere l’impero. Per un certo tempo anch’io credetti molto, a caldo, in Gorbaciov. Mi chiedevo persino se proprio quando da quindici anni non ci speravamo neanche più, non fosse finalmente emerso nel mondo, dopo il Lenin giacobino marxista del 1917, un Lenin “liberalsocialista”; anche se segnalavo chiaramente che il tallone d’Achille di quello straordinario tentativo di riformare democraticamente il comunismo era la questione delle nazionalità, ossia delle spinte centrifughe di quel superstato federale autoritario. Se queste fossero state tenute a bada, la tanto attesa riforma democratica del sistema sovietico sarebbe stata possibile; e se no, no3. Infatti non lo fu. Oggi riflettendo sugli eventi del 1989-1991 rimango sempre impressionato, e credo appunto che bisognerà ancora riflettervi e studiarli a lungo. Non mi rammarico affatto per il crollo del preteso comunismo da Berlino a Vladivostock, perché l’URSS, dopo essere stata una grande speranza di giustizia e libertà per tutti i lavoratori del mondo al tempo di Lenin almeno sino al 1920, e


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A e T dopo essere stata un assetto assai produttivista ma spaventosamente sanguinario e totalitario sotto Stalin, era diventata un regime sclerotizzato sin dall’avvento di Breznev alla metà degli anni Sessanta del Novecento: un sistema oltre a tutto carente di merci bastevoli per la gran parte dei cittadini e di beni anche fondamentali, come l’alloggio in uso esclusivo per ogni famiglia, oltre che assai burocratico ed autoritario, privo dei diritti di libertà di parola e sindacali per noi fondamentali. Quello che mi turba ancora e andrebbe spiegato è, piuttosto, lo spettacolo, vistosi allora, di un impero mondiale venuto dopo una grande rivoluzione sociale e poi dopo una costruzione statale segnata da milioni di morti, ed a seguito di una guerra mondiale vittoriosa in cui erano caduti venti milioni di sovietici, che tra il 1989 e il 1991 crollava come se fosse stato una mela marcia. Non credo che sia mai caduto così nessun altro impero in millenni di storia, essendo tutti quanti gli altri imperi caduti o per invasione straniera, per lo più a seguito di guerre perse, o per rivoluzione di popolo, in generale a ridosso di immani disfatte militari. L’ipotesi che a me pare più plausibile per spiegare il tutto è comunque l’ultima, implosiva: è quella che Marx e Engels nel 1848 chiamavano la “comune rovina delle classi in lotta”4. Insomma, l’ipotesi più plausibile mi pare quella più evidente: che tra il 1989 e il 1991 si fosse determinata la fine della lentissima necrosi del sistema, finito come un vecchio novantenne infartato, oppure come un’antica quercia che crolli su se stessa. In seguito alla sclerosi e gerontocrazia burocratica si sarebbe insomma giunti, per lento sgretolamento di quello che Lenin e Stalin - pur tanto diversi l’uno dall’altro - avevano edificato, cioè al crollo sistemico del 1989-1991. Verificatosi il crollo, dapprima il contesto parve segnare la vittoria del polo americano, e in fondo anche liberale-sociale o riformista o socialdemocratico moderato. Sembrava a tutta prima una sorta di trionfo di quello che l’ultimo Karl Kautsky aveva chiamato “ultracapitalismo”5: ipotesi su cui stranamente, ma non troppo, convergono tanto gli apologeti che i nemici giurati del capitalismo e per ciò stesso del “mondo americano”: Fukuyama da un lato e Antonio Negri (con Michel Hardt) dall’altro. Il politologo Francis Fukuyama nel 1995 scrisse un libro significativamente intitolato: La fine della storia e l’ultimo uomo6. Riprendeva, però senza la notoria vis polemica dell’originale, un grande mito del Così parlò Zarathustra di Nietzsche: quello dell’“ultimo uomo”. Lo Zarathustra nietzscheano aveva di fatto cercato di indicare una via d’uscita da quella che potremmo dire la decadenza del mondo borghese-cristiano, o il “tramonto dell’Occidente” di spengleriana memoria7. L’aveva individuata nel télos dell’oltreuomo8, che è per Nietzsche l’uomo che si riconcilia con la Terra e con se stesso armonizzando, ed anzi fondendo in sé, animalità ed humanitas, istinti liberati dall’inibizione “morale” e coscienza umana superiore, “al di là del bene

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e del male”. Ora Zarathustra, prendendo atto della sordità dell’uomo-massa alla rinascita di sé da lui prospettata, aveva provato ad accentuare, e in certo modo ad estremizzare, la visione della decadenza stessa, facendo leva sul sentimento d’identità umana (“orgoglio”) di ciascuno. Aveva insomma delineato la figura archetipica del sotto-uomo, l’opposto del superuomo (o meglio “oltreuomo”), ultimo uomo che sarebbe prevalso qualora non fosse emerso appunto l’oltreuomo evocato. E perciò aveva detto:

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… fra non molto questo suolo sarà addomesticato e povero, e da esso non potrà più nascere nessun albero di alto fusto9. Guai allora! Perché già s’avvicina il giorno in cui l’uomo non getterà più oltre l’uomo lo strale della sua nostalgia, e la corda del suo arco ha disimparato a vibrare. Io vi dico: bisogna avere in sé del caos10 per poter partorire una stella che danzi. Io vi dico: voi avete ancora del caos in voi. Ahimé! Già viene il tempo in cui l’uomo non partorirà più nessuna stella. Ahimé! Viene il tempo dell’uomo più spregevole, che non può neanche più disprezzare se stesso11. Guardate!Io vi mostro l’ultimo uomo. “Che cos’è l’amore? Che cos’è il creare? Che cos’è la nostalgia? La stella?”, ecco ciò che si chiede l’ultimo uomo, ammiccando12. La terra allora sarà diventata piccola piccola13 e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, che rimpicciolisce tutto. La sua razza non può essere estirpata, come quella della pulce; l’ultimo uomo è quello che vive più a lungo di ogni altro. “Noi abbiamo inventato la felicità”, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano. Essi hanno abbandonato le regioni dove il vivere era duro: perché si ha bisogno di calore. In fondo si vuol bene al vicino e ci si strofina a lui, perché si ha bisogno di calore. È per essi peccato diventar malati e l’esser diffidenti, e si procede con piede di piombo. Stupido è colui che ancora inciampa negli uomini o nelle pietre. Un po’ di veleno di tanto in tanto; questo procura piacevoli sogni14. E poi molto veleno alla fine15, per una piacevole morte. Sì, si lavora ancora, perché il lavoro è un divertimento. Ma si fa attenzione che il divertimento non affatichi! Non si diventa più né ricchi né poveri. Entrambe le cose sono troppo difficili. (…) chi sente in modo diverso va di propria volontà al manicomio. “Una volta tutto il mondo era pazzo”, dicono i più furbi, e ammiccano. Si è furbi e si sa tutto ciò che è avvenuto: di modo che non si finisce più di prendersi beffe di tutto. Si litiga ancora, ma ci si riconcilia presto, se no ci si guasta lo stomaco. Ci sono i piccoli svaghi per il giorno, e quelli per la notte; ma si tiene in gran conto la salute. “Noi abbiamo inventato la felicità”, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano”16.


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A e T Qui si ha una sorta di rappresentazione esemplare - qua e là con qualche tratto datato di segno antidemocratico e antisocialista che ora qui non interessa enfatizzare - della cosiddetta società del benessere o dei consumi, poi criticata dalla scuola di Francoforte e da Marcuse: società detta pure neocapitalismo17. Ora Fukuyama, nel 1995, vedendo che questo - che era poi il “modo di vivere americano” - era rimasto il solo grande sistema in campo, affermò per alcuni anni - salvo poi ricredersi - il trionfo dell’“ultimo uomo”. In altre parole il modo di vivere americano, consumista, borghese, occidentale sarebbe stato, ormai, del tutto senza alternative: destinato a durare sine die.18 La stessa analisi, pur con l’attesa di un “arrivano i nostri” finale altrettanto onnipervasivo, si trova nelle opere di Antonio Negri e di Michel Hardt, con particolare riferimento a: Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2000) e Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale (2004)19. E non mi stupisce che in America tali opere siano lette e discusse con tanto fervore. Non mi stupisce perché nelle opere di Antonio Negri più impegnative, non di battaglia politica immediata, siamo al culmine di quella che considero la tendenza più creativa del marxismo contemporaneo (l’operaista e post-operaista). A proposito di essa però va pure detto - a parziale spiegazione del forte interesse degli americani statunitensi - che nessuno ha creduto di più nelle “magnifiche sorti e progressive del capitalismo”, e con argomenti più solidi, di tale corrente, pur impersonata da suoi nemici estremi, che ne predicavano e predicano, e predicono, il necessario superamento tramite un grande balzo storico in avanti: la rivoluzione e la dittatura libertaria del proletariato. Infatti la vera matrice dell’operaismo marxista - anche trascurando le anticipazioni straordinarie dell’anarcosindacalismo sorelliano e del coevo o non coevo sindacalismo rivoluzionario prima della Rivoluzione d’ottobre del 1917, e soprattutto della politica delle masse straordinariamente teorizzata oltre che testimoniata da Rosa Luxemburg specie intorno al 1908 - è il marxismo occidentale di Storia e coscienza di classe (1923) di Lukàcs; e, più oltre ancora, è la scuola di Francoforte di Adorno. Da tali ricche anticipazioni sorse appunto, nell’età della produzione di massa fondata sulle grandi fabbriche, l’operaismo marxista vero e proprio di Vittorio Foa, Raniero Panzieri, Mario Tronti e infine Antonio Negri20. La caratteristica di tale corrente, su cui rifletto e scrivo da cinquant’anni esatti21, era in origine l’dea che ormai il neocapitalismo potesse fare qualsiasi riforma, integrando la gran parte degli oppositori nel sistema (stile “ultimo uomo”), ma non la classe operaia, spontaneamente contro il capitalismo, ora in modo oscuro ed ora manifesto, perché necessariamente sfruttata nella fabbrica capitalistica. Quindi il capitalismo più moderno - prescindendo dall’irriducibile “essere contro” dei proletari - avrebbe avuto una sorta di razionalità in re, che, forzando un

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po’ le cose, potremmo definire una sorta di “armonia prestabilita”. Ma con la stessa logica intrinseca, o razionalità nell’irrazionalità, con cui si organizza naturalmente il sistema, crescerebbe l’antisistema. Sino ad un certo punto ciò era riferito alla classe operaia di fabbrica. Ma dopo la fine delle “grandi fabbriche” (ora dette “fordiste”), il discorso è stato via via socializzato: prima in riferimento all’habitat urbano delle masse, visto come una specie di “fabbrica esterna” e perciò come luogo di rivolta eversiva permanente o rivoluzione proletaria “in atto”; poi alle grandi masse impoverite del mondo. La stessa mano invisibile del capitalismo che per Smith guida il mercato privato, per Negri e Hardt guida le masse, come “sciami di api”, alla rivolta. La rivolta della moltitudine sarebbe immanente alla logica del Capitale, come la vecchia talpa della rivoluzione per Marx. Su tali basi, in fondo deterministiche (seppure di un determinismo più sociologico-economico che economico puro), che vedono una logica intrinseca, ratio in re, sia nell’aggregarsi del Capitale che dell’Anticapitale, Negri e Hardt hanno descritto il sistema mondiale come un poliedro di forze solo apparentemente caotico, in cui le varie forze si compongono in un tutto vivo ed interdipendente, siano esse multinazionali, grandi banche, Stati grandi, agenzie dello sviluppo, e così via, sia pure col verme provvidenziale della moltitudine che deve guastare la mela del Capitale per volar via come farfalla come fa il baco da seta. Quando poi questi neomarxisti si sono trovati Bush jr davanti, con le sue guerre destabilizzatrici e devastanti, lo hanno visto come parentesi: come - disse Negri per TV nella trasmissione “L’infedele” di Gad Lerner - Luigi Bonaparte che con la sua dittatura “reazionaria” sembrava aver affossato nel 1851 la linea rivoluzionaria del Capitale e del suo contrario sorta almeno nel 1789, mentre la “Rivoluzione”, ormai trasformatasi da borghese che era stata in proletaria, seguitava a scavare come “vecchia talpa”22. Invece l’anomia, il caos vero e proprio che resiste alla stessa razionalizzazione economica sofisticata, c’è; e non è affatto escluso che proprio l’anomia provochi l’autosconfitta della potenza americana dopo quella sovietica; ma senza rivoluzione delle masse “in arrivo”. Oggi nel mondo - per la prima volta dal 1500 o 1600 - abbiamo uno sviluppo di cui - almeno in una misura cospicua, forse limitata ma comunque fortissima e in crescita - il sistema degli Stati ha perso il controllo. Io sostengo che a parte tale periodo la politica, nella storia moderna e contemporanea, è sempre stata al primo posto23. Ricordo un mio amico politico di origine proletaria di Alessandria, Angelo Rossa (“Angiolino”), che all’inizio degli anni Settanta, di fronte a me che cominciavo ad avere i primi consistenti dubbi sul “fare politica” vedendone già talune gravi manifestazioni involutive, quasi in un sussurro mi diceva: “Ma si decide tutto lì!” Era vero nel mondo di allora (o ancora allora), ma oggi lo è sempre meno. Adam Smith po-


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A e T teva ben dire che il mercato capitalistico privato si autoregola come se una mano invisibile lo guidasse24. Ma con il suo spirito da grande apologeta del moderno capitalismo nascente non vedeva che esso era invece regolato da una mano visibile chiamata Stato, anche se in quella particolare fase della prima industrializzazione inglese questo aveva trovato conveniente lasciar fare parecchio ai privati. Ma nell’età della rivoluzione elettronica, dove tutti comunicano con tutti, dove ogni televisione e computer arrivano dappertutto, dove tutti finiscono per spostarsi in ogni parte del globo, dove con un clic si spostano milioni di euro o dollari, lo Stato è spessissimo diventato come il mago di Oz del romanzo per bambini, che sembrava un terribile dominatore del reale ed era un povero diavolo25. Gli Stati nazionali regolavano i flussi dell’economia. In genere lo facevano cercando di sviluppare quanto più possibile le forze produttive, conprticolare cura per investitori, tecnici e tecnologie o lavoratori professionali: non già perché fossero gli utili idioti dei “padroni del vapore” come pensava la scolastica “marxista”, ma perché più l’economia andava bene e più forti e solidi erano loro, i detentori del potere politico o generale. Non è più così, oggi, per gli Stati piccoli e medi, e lo è sempre meno per i grandi, che sono i soli ad avere ancora una certa forza “anticiclica”. Ma se allo Stato si toglie il controllo indiretto o diretto dell’economia, e se l’economia dunque va sempre più per conto suo, ogni contrarietà potrà bloccarla per molto tempo26. Come negli ultimi cinque anni. A ciò si connettono poi le altre crisi sistemiche come quella ecologica (sempre più terribile). Ma vi si connette anche la crisi di credibilità collettiva dei paradigmi di pensiero politico vissuto: paradigmi che erano stati pensati per un mondo che in gran parte oggi non c’è più. Infatti tutti gli “ismi”, salvo l’ecologismo, sembrano oggi essere in una crisi più o meno mortale. Tali “ismi”, tutti sorti tra XIX e primi decenni del XX secolo, ci sono ancora, ma sono residui storici del loro più glorioso passato, si chiamassero o chiamino repubblicanesimo e radicalismo, liberalismo, socialismo e comunismo, fascismo e nazionalsocialismo o cristianesimo democratico. Nella migliore delle ipotesi sono come spezie che insaporiscono il piatto, o frutta che conclude il pasto, ma non sono mai la sostanza di quel che sia “in tavola”. Coloro che li avevano messi a punto e che, soprattutto, per essi avevano vissuto non li riconoscerebbero di certo, tanto sono stati “degradati” nei loro stessi costituenti27. Non mi soffermo qui, poi, sull’importantissimo tema delle fedi religiose e morali, tanto spesso connesse per innumerevoli persone che vi avessero creduto o credessero sul serio. Su ciò mi limito a dire che da quando Nietzsche nel 1881 annunciò la “morte di Dio” e dei connessi valori assoluti28, la necrosi del Dio cristiano e delle sue chiese, da lui chiarissimamente diagnosticata, non è mai finita, tanto che la forma più forte di tale tendenza, quella cattolica, appare in ripiegamento e in crisi d’iden-

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tità sempre più grave su tutti i fronti. Roba da Ultimo papa29 o peggio. Si può dirlo senza dimenticare affatto i segni di rinascita della religiosità, in specie psicologizzata, come in Jung30. Siamo dunque nel bel mezzo di una grande crisi epocale. In altre epoche, quando gli assetti mondiali ciclicamente stabiliti tramite grandi guerre e paci, o quando gli Stati o gli stessi rapporti economici, o anche le forme sociali di una cultura, andavano in frantumi, voleva dire che si era in prossimità di nuove catastrofi o militari o sociali, cioè di nuove grandi guerre e di nuove rivoluzioni sociali. L’idea di Marx della rivoluzione come “vecchia talpa” aveva un senso del genere: “la rivoluzione non c’è, ma c’è” o, come diceva lui, “sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo”. Poi in tale logica avrebbe dovuto arrivare il “paradiso”, la rivoluzione vera e propria, l’irruzione del grande magma proletario portatore della società senza classi e senza Stato tramite il potere delle masse proletarie stesse, le sole interessate ad abolire il più possibile la dipendenza. Così concepivano il rapporto tra catastrofe e rivoluzione - scrivendo su ciò pagine imprescindibili - non solo Marx e Rosa Luxemburg, ma anche Lenin e Trockij, Lelio Basso e Vittorio Foa, Bordiga ed ora Antonio Negri (e Michel Hardt). Quello schema era sempre catastrofico e ricostruttivo: o per evoluzione-rivoluzione o per salti (rivoluzione in senso forte). E tale resta. Ma siccome è saltato lo stato del mondo visto come una totalità in divenire mossa dai poli contrari, in cui si potesse o possa riscontrare un ritmo progressivo (per quanto anche tragico); siccome il fenomeno della perdita del patrimonio simbolico della civiltà, o dell’identità profonda sottesa in ciascuno di noi e a tutti noi in un dato spazio-tempo, tanto paventato da Ernesto De Martino sino alla fine31, è risultato ormai imprescindibile; siccome, in particolare, il comunismo è morto, bisogna prendere atto del fatto che sono necessari nuovi orientamenti, in senso profondo. L’idea di Lenin - che nel 1920 definiva la crisi rivoluzionaria come la situazione in cui le classi subalterne non possono più essere governate come in passato, ma anche le classi dirigenti non possono più governare come in passato (ossia come situazioni storiche di crisi in basso e crisi in alto, e senza sbocco)32- è stata confermata ed è confermata come fotografia della situazione (per molti aspetti è addirittura attuale), ma senza che la crisi rivoluzionaria portasse e soprattutto porti al suo sbocco logico, ossia all’avvento, o almeno all’avvio, della rivoluzione proletaria come inizio della formazione - graduale quanto si vuole, ma inarrestabile - di un assetto senza classi e senza Stato. Questo poteva essere per taluni aspetti controvertibile ancora trentacinque o quarant’anni fa, ma è incontrovertibile oggi. A questo punto sembrano essere possibili tre soluzioni. La prima soluzione consiste nello spostare in avanti l’orologio della storia,


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A e T aspettando che il “mondo nuovo” faccia irruzione e preparandosi a ciò con pensieri adeguati ed atti di lotta anche assai limitati, ma comunque esemplari ed antelucani. Ricordo, al proposito, un pranzo in un piccolo ristorante di via Carlo Alberto a Torino dove, in occasione delle riunioni del Comitato Regionale del PSIUP, che aveva la sede lì vicino in via Po, si andava a mangiare. Sarà stato il 1969. Tra noi c’era un vecchio intellettuale ebreo, Adriano Ghiron, che aveva attraversato tutte le famiglie della sinistra, essendo pure stato segretario provinciale alessandrino del partito socialdemocratico di Saragat. C’era pure Lucio Libertini, il vero leader della sinistra del PSIUP33. Ghiron gli ricordò, in presenza di compagni più giovani forse stupiti, tale lungo viaggio che li accomunava totalmente. Libertini dal più al meno rispose: “Sai perché, caro Adriano? È perché il socialismo non è una roba del XX, ma è una faccenda del XXI secolo, mentre i nostri sono stati e sono tutti meri tentativi.” Il XXI secolo è arrivato e siamo sempre qui. Quest’impostazione, che sposta sempre in avanti la “Prospettiva”, è stata e forse è la soluzione del marxismo rivoluzionario, ma ciascuno ha avuto o ha i suoi scenari preferenziali “attesi”, compresi i reazionari. O forse loro persino di più. Si aspetta Godot, ma Godot non arriva. O si aspetta il nemico nel Deserto dei tartari.34 E così via. Mi pare palese, a novantasei anni dalla Rivoluzione d’ottobre del 1917, che in Europa queste siano ormai mitologie consolatorie, non a caso sempre più cariche di tratti scopertamente tali e messianici, con nostalgie francescane, attesa del riscatto di Giobbe, persino prospettive “biopolitiche” che ripensano da sinistra il mutamento antropologico prospettato da Nietzsche, come in Foucault35. Fanno il paio con esse - in quel caso in base ad una visione ciclica del divenire che c’è pure in Spengler36 - le attese “musulmane” che termini il ciclo di decadenza (o del Kalì Yuga) e riprenda un ciclo “imperiale” autoritario (ghibellino, segnato dal Capo assoluto sacralizzato, appunto dell’impero) o di altro genere, e così via, ad esempio in Julius Evola, non a caso traduttore di Spengler37. Con molto rispetto per il messianismo rivoluzionario e qualche attenzione per il suo opposto simmetrico, e soprattutto per il notevole filosofo “politico” Spengler, passerei oltre. La seconda soluzione - formalmente più convincente solo perché è la più forte - è quella dell’“ultimo uomo” del Fukuyama “1995” già richiamato. Ma prescindendo dalla crisi di tale “ragionevolezza” d’Occidente al potere, accettare tale soluzione significherebbe solo accamparsi in attesa della morte (anzi, vivendola da vivi), dato il mondaccio che ci ritroviamo intorno e che tocchiamo con mano di continuo. La terza soluzione consiste nel vedere se per caso la rivoluzione o rinascita intersoggettiva non si configuri come qualcosa che non solo lotta come il feto che vuol farsi neonato e uscire gridando e magari soffrendo molto (lui, o il corpo

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da cui esce) dalla pancia della mamma, come la Rivoluzione per marxisti e neomarxisti “veri”, ma come vita nuova libera e fraterna che si dà quando si dà, nella misura in cui si dà e mentre si dà. Insomma, il futuro desiderato e desiderabile potrebbe non già prepararsi, ma presentarcisi, esserci già: non in embrione ma tutto intero, nel presente, piccolo o grande che sia. Il suo fondamento potrebbe non essere affatto un assetto speciale tutto da fare, ma da un lato un profondo mutamento di sé, una metànoia, una rinascita a partire dall’interiorità; dall’altro il concretizzarsi di esso in una serie di mutamenti straordinari che hanno il loro senso in se stessi. Per il primo aspetto la libertà, come Dio per Agostino, è innanzitutto “in interiore homine”38. La libertà in tal caso si pone, insomma, come una risposta psichica a istanze storiche non più proiettate, o non più solo proiettate, al di fuori, nel sociale, ma semmai introiettate, o già interiori (afferenti a una qualche luce che in noi sia latente da sempre), e solo a tale condizione proiettabili e proiettate, e anzi da proiettare, al di fuori di noi, in modo che il Sé rinato possa compiersi anche nel sociale. In tal caso la disalienazione interiore, anche “sociale” (inter-soggettiva), arriva necessariamente prima di quella “di fuori”, sociale in senso forte. O almeno arriva in parallelo, ma certo non “dopo”. Su ciò, stigmatizzando da un lato l’illusoria proiezione all’esterno dei nostri mali, con pretesa di superarli, e dall’altro cogliendo la centralità politica dell’interiorità, Jung nel 1958 notava efficacemente: Seguendo la predominante tendenza della coscienza a ricercare all’esterno la fonte di tutti i mali, sorge l’esigenza di trasformazioni esterne politico-sociali, da cui ci si aspetta senza vero senso critico che sappiano risolvere anche il problema, molto più profondo, della scissione della personalità. (…) Il futuro dell’umanità non sarà deciso dalla minaccia degli animali selvaggi o dalle catastrofi naturali o dal pericolo di epidemie mondiali, ma soltanto dalle modificazioni psichiche dell’uomo. Basterebbe un turbamento quasi impercettibile dell’equilibrio mentale di alcuni capi per tuffare il mondo nel sangue, nel fuoco e nella radioattività39.

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Naturalmente si tratta poi di vedere se questo stia accadendo davvero, nella misura in cui accade, e se accada in una dimensione tale da “mutare il mondo”. Metto le mani avanti, però, notando che a prescindere da ogni successo sociale, questa via è premio a se stessa da una persona a miliardi di persone, nel senso che è giù vita nuova in atto. In ogni caso in proposito si stanno manifestando tante cose interessanti. Prendiamo ad esempio il fondamentale ambito delle credenze collettive. Quando ero molto giovane io, si faceva già all’amore con “l’amata per davvero”


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A e T (o quella che si riteneva tale), ma ciò accadeva sempre, in specie da parte della ragazza, con vergogna e intimo conflitto; ma dopo il Sessantotto non è più stato così. Quando ero giovane lo sposarsi in Comune era un atto rivoluzionario. Oggi prevalgono le libere “unioni”, che una volta erano dette con sufficienza o disprezzo relazioni tra “associati”. Sono invece famiglie nuove, aperte. Sempre quando ero giovane, dire a qualcuno, anche quando lo era, che era un omosessuale, era rimarcare un’onta, a carico dei famosi “pederasti”, talora trattati con epiteti anche più coloriti e vergognosi. Pasolini, quando io andavo all’asilo, era stato cacciato dal PCI per questo. Oggi non solo non è più così, ma c’è un grande assenso sui matrimoni tra gay o forme unitive equipollenti. C’erano tanti pregiudizi persino verso i neri, che stanno scomparendo persino in America. C’era uno spot di un noto detersivo, nella giovanissima televisione, imperniato su un piccolo papero chiamato Calimero il quale a un certo punto diceva: “Ce l’hanno tutti con me perché sono piccolo e nero”. Al che la massaia buona lo metteva in un mastello versando il detersivo nell’acqua, per tirarlo fuori bianco, dicendogli: “Ma tu non sei nero, sei solo sporco”. E nessuno aveva niente da dire. Si dava retta ai preti su divorzio, aborto, fine della vita, mentre da tanto tempo non è più così. C’erano ancora sacche non piccole di amanti della guerra, che ora non ci sono quasi più. La separazione tra lavoro intellettuale e manuale era secca, quasi che il secondo, per i piccoli borghesi e borghesi, fosse un’onta. Non è più così, anche se la fatica non piace a nessuno. E così via. C’è, è vero, una terribile crisi della politica, vuoi legata alla predetta necrosi delle grandi ideologie e vuoi alla fatale decadenza degli Stati nazionali, in specie non continentali. Ma ciò ha pure taluni tratti positivi. Finisce la paranoia della politica, che avrebbe dovuto dare al singolo quell’empatia che non trovava altrove. Anche se poi invece dell’empatia poteva trovare meschine invidie e anche bassezze innumerevoli, per non parlare dei ladrocinii veri e propri. Oggi, grazie alla crisi della politica, si scoprono dimensioni di pensiero e impegno più “di individui” e “tra individui”, più interiori o solidali, per cui se le grandi appartenenze politiche sono in crisi non c’è per questo il vuoto. Si rivalutano (e rivalutino) i piccoli gruppi d’impegno e di vita, che possono essere innumerevoli, nella politica o meno. Ci sono mille forme di impegno solidale, per chi abbia forti motivazioni ideali (i piccoli ambiziosi possono andarsene alla malora)40. Non è un caso che rinascano i gruppi religiosi, che sono tra i più motivati e spesso “simpatici”: regressivi se guardano indietro, ma che possono pure guardare in avanti, specie quando siano connotati da etiche della nonviolenza41 e del contatto mistico con l’essere come il buddhismo e le varie forme di yoga, Può pure essere rifondato il “fare politica” in senso forte, ma solo dal “nuovo pensiero”, che però, purtroppo, per ora è solo in cammino. Si è costretti ad ac-

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contentarsi di una sorta di pragmatismo di limitata visuale, o progressista o conservatore, specie se si faccia riferimento a gruppi con forte incidenza storica. Inoltre benché la crisi della Forma Stato possa essere una sciagura (e anzi lo sia senz’altro), ha pure qualche tratto positivo. Sì, la globalizzazione, mettendo tutti a contatto e in concorrenza con tutti ridimensiona il Welfare State, ma con esso saltano pure parassitismi e connesse forme di immoralismo che erano e sono indicibili. A mio parere gran parte di quel che in termini di capitale sociale non reinvestito non va “al lavoro” non va neppure ai “padroni”, che sono una minorance négligeable anche se possono dare molto fastidio a tutti, quando lo diano; va, piuttosto, al parassitismo che si annida nello Stato. Ma siccome questo parassitismo nell’età della globalizzazione è diventato via via più insostenibile economicamente, la tendenza ad avere Stati più piccoli e più governati, con taluni diritti fondamentali per tutti in una società di concorrenza, cresce. Da un lato ciò può far perdere vantaggi, che comprensibilmente sono difesi con unghie e denti da chi li avesse o abbia, ma dall’altro può anche significare una progressiva diminuzione di forme di assalto alla diligenza dello Stato che sono state e sono la prima motivazione dell’antipolitica e che comunque, anche se a questi può pure non sembrare, sono a carico dei lavoratori. Si manifestano pure tendenze positive vuoi all’indipendenza economica personale che al cooperativismo, e soprattutto alla continentalizzazione degli Stati (ossia a fare i soli Stati che contino ancora, in vista della futura mondializzaione dello Stato stesso, che era già stata in cima ai pensieri di Kant sin dal 1795, con forti argomenti politologici incredibilmente attuali42). Si rafforza la tendenza a sviluppare diritti individuali validi per tutti. Si espande, soprattutto, una nuova cura per la terra, vuoi in termini contraccettivi (necessaria diminuzione delle nascite), vuoi di tendenza a opzioni vegetariane, vuoi di protezione dell’ambiente, vuoi di gusto per una nuova buona qualità della vita. Vivere nella gioia e nel rispetto reciproco creaturale è un Valore fortissimo ed è “in cammino”. Ma non inneggiamo alle “magnifiche sorti e progressive” perché tutto ciò ha un terribile tallone d’Achille: il fattore tempo, che in politica e storia è sempre decisivo. Per la verità questo è fondamentale persino nel risanamento psichico degli individui, che possono salvarsi solo “in avanti”, e non già crogiolandosi nei loro mali invece di ri-nascere43. Ma lo è tanto più a livello inter-soggettivo. Le forme di vita nuova, come si è accennato, crescono ovunque (sembra dimostrabile), ma persiste pure la grande anomia di cui si è detto. L’Unione Europea è a rischio, nonostante la positiva evoluzione della sinistra socialista e tanto più dei Verdi, anche operanti nel Parlamento europeo44. Manca o è sempre più carente la grande forza di sinterizzazione della vita sociale, ora via via continentaliz-


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A e T zata e internazionalizzata: manca insomma lo Stato, anche in senso nazionale o pseudonazionale, piccolo quanto si vuole, democratico necessariamente, ma con un ruolo imprescindibile. In epoche non “atomiche” tale assenza o carenza o debolezza – sol che si pensi alle crisi di grandi imperi come l’ottomano o cinese o asburgico - portava alle grandi guerre o alla grande barbarie (spesso a tutte e due). Si tratterà di vedere se queste guerre, volte a ripristinare il dominio della politica sulle altre dimensioni, saranno evitabili. Se perdurando una “crisi senza fine” arriveremo alla federalizzazione degli Stati, nei continenti o tra continenti; oppure se non riusciremo ad evitare nuovi immani conflitti, in vista in tal caso di chissà quali Stati-impero o “Reich” sovranazionali. Entrambi gli scenari, quello catastrofico e quello “ragionevole”45, sono aperti, ma solo il tempo potrà dirci se prevarrà l’uno o l’altro. Se non vi saranno grandi guerre, anche in presenza di crisi continua i dati di umanizzazione progressiva delle relazioni vuoi tra persone e vuoi tra Stati, nel lungo periodo dovrebbero prevalere; e se no, no. Siamo insomma come sospesi tra la grande speranza e il fondato terrore. Con la sua assoluta genialità il grande Freud - parola di junghiano - l’aveva intuito benissimo quando, proprio al termine del suo Disagio della civiltà (1929), aveva detto: Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?46

Per parte mia l’eros antropologico di Freud ha più chances (anche se per me è pure un eros infinito ed eterno, immanente in interiore homine, in interiore societate e in interiore Natura, ossia nell’essere, mentre per lui era un po’ manicheisticamente “alla pari” con il suo “fratello nero”, la pulsione antropologica dello thànatos, ossia di morte). Metto nel conto la “possibilità che no”, una grande tragedia incombente su tutti noi, ma ritengo più probabile, anche se niente affatto sicura, la vittoria dell’eros, finito-infinito. La “morte” può esserci o non esserci. L’eros, come nel platonico Simposio47, c’è sempre. Ma su ciò non vado oltre, trattenendo “per le ali” la tendenza mistica, sempre all’opera come fuoco sotto la cenere.

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A e T Note 1 F. FORNARI, Psicoanalisi della guerra atomica, Comunità, Milano, 1964; Psicoanalisi della situazione atomica, Rizzoli, Milano, 1970; La malattia dell’Europa, Feltrinelli, Milano, 1981; La riscoperta dell’anima, Laterza, Bari, 1984. 2 Al proposito rinvio al saggio di Nanni SALIO Al di là della catastrofe. Alternative della nonviolenza per superare la crisi del neoliberismo in questo numero di “Anima e Terra”. 3 F. LIVORSI, Socialismo e libertà nel mondo di Gorbaciov, “Il Ponte”, a. XLVI, n. 6, giugno 1990, pp. 19-49. 4 K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. CANTIMORI MEZZOMONTI, Einaudi, Torino, 1948 (e con nuova introduzione di Bruno Bongiovanni, 1998). Qui però cito dall’edizione del 1962, dove il passaggio, che è nella prima pagina del testo vero e proprio, è a p. 100. 5 A. PANACCIONE, L’analisi del capitalismo in Kautsky, in: FONDAZIONE G. FELTRINELLI, “Storia del marxismo contemporaneo”, “Annali Feltrinelli”, a, XV, 1973, Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 3-25. 6 Rizzoli, Milano, 1996. 7 Al proposito, in questo numero di “Anima e Terra”, è da vedere il bel saggio di PATRIZIA NOSENGO “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler ieri e oggi. 8 Oggi gli interpreti più profondi di Nietzsche preferiscono tradurre il termine nietzscheano übermensch con “oltreuomo” invece che con “superuomo”. Infatti quest’ultima espressione evoca il preteso “grand’uomo”, l’uomo forte, il Capo o Duce, ossia l’interpretazione nazifascista del pensiero di questo filosofo, ritenuta falsa. 9 Tra poco saremo troppo sterili interiormente per poter creare qualcosa di più grande di noi stessi. 10 Solo il sentimento di un caos interiore da superare ad ogni costo, ossia il bisogno di armonia frutto della percezione di una suprema disarmonia, può far nascere una grande e lieve (“danzante”) luce (“stella”) che illumini la nostra vita. 11 L’esistenza paga della propria aurea mediocritas non può voler autosuperarsi. 12 Il sorrisetto dei pretesi furbi, che sono poi l’opposto. 13 Ecco la premonizione della “globalizzazione”. 14 Si cerca la gioia nelle droghe o veleni piacevoli. 15 Parrebbe l’eutanasia, anche se l’opera contiene pure un capitolo a favore del suicidio lucido: Della libera morte (pp. 117-120 del testo citato nella nota successiva). 16 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883/1885 e, con la quarta parte, 1892), a cura di L. SCALERO e con Prefazione di R. ESCOBAR, Longanesi, Milano, 1979, pp. 41-43. (L’opera, a cura della stessa, era già comparsa, nella sua integralità, con La nascita della tragedia, del 1872, e con Ecce homo, del 1888 ma postumo 1907, ne “Il meglio” di F. NIETZSCHE, ivi, 1956).

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17 T. ADORNO, Minima moralia (1951), Einaudi, Torino, 1954; ID., Dialettica dell’illuminismo (1947), Einaudi, Torino, 1966; H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, Torino, 1966. 18 F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1996. 19 Impero di A. NEGRI e M. HARDT è stato edito in italiano da Rizzoli, a Milano, nel 2001 (l’ho recensito su “Il pensiero politico”, n. 2, 2003, pp. 398-399); Moltitudine, ivi, 2004. 20 Per l’anarcosindacalismo dottrinario si veda soprattutto: G. SOREL, Scritti politici, a cura di R. VIVARELLI, Torino, UTET, 1963. Sull’autore si veda soprattutto: G. CAVALLARI, Sorel. Archeologia di un rivoluzionario (1993), Jovene, Napoli, 1994 e la riflessione su Sorel fatta da me a partire da tale notevole libro: Sorel rivoluzionario?, “Nuova Antologia”, n. 2195, luglio-settembre 1995, pp. 319-336. Sul sindacalismo rivoluzionario: A. RIOSA, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia, Angeli, Milano, 1976. Su Rosa LUXEMBURG, innanzitutto i suoi Scritti politici, a cura di L. BASSO, Editori Riuniti, Roma, 1967. Sul marxismo occidentale sono da vedere: G. LUKÀCS, Storia e coscienza di classe (1923), Sugar, 1967; tutte le parti su Lukàcs, Korsch, Pannekoek e Ernst Bloch della cit. Storia del marxismo contemporaneo degli “Annali Feltrinelli”. Sull’operaismo marxista vero e proprio: V. FOA, Per una storia del movimento operaio, Einaudi, Torino, 1980; V. FOA, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino, 1991; R. PANZIERI, Dopo Stalin. Una stagione della sinistra. 1956-1959, a cura di S. MERLI, Marsilio, Venezia, 1986; R. PANZIERI, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei “Quaderni rossi”, Scritti scelti a cura di S. MERLI, Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 1994; R. PANZIERI, Lettere. 19401964, a cura di S. MERLI e L. DOTTI, Marsilio, Venezia, 1987; M. TRONTI, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1966; M. TRONTI, Soggetti crisi potere. Antologia di scritti e interventi a cura di A. DE MARTINIS e A. PIAZZI, Cappelli, Bologna, 1980; N. BADALONI, Il marxismo italiano degli anni Sessanta, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, Roma, 1971; L. BOBBIO, Storia di Lotta continua, Feltrinelli, Milano, 1979 e poi 1988; Toni NEGRI, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. POZZI e R. TOMMASINI, Multhipla, Milano, 1979. 21 Rinvio pure al mio primo saggio con “intenzione” scientifico-politica: Lenin in Italia. Le componenti della sinistra di fronte alla concezione leninista della classe e dello Stato, “Classe”, a. III, n. 4, giugno 1971, pp. 1-65, da confrontare con il cap. Socialismo libertario e socialismo riformista. Da Proudhon al liberalsocialismo, nel mio libro Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, 1992, pp. 245-267 e soprattutto con: F. LIVORSI, Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo, Bergamo, Moretti & Vitali, 2010, pp. 148-175. Ma interloquivo con l’operaismo foano e panzieriano già nella mia recensione a LENIN, Sul movimento operaio italiano, a cura di P. SPRIANO, Editori Riuniti, Roma, 1962: Gli scritti di Lenin sul socialismo italiano, “L’idea socialista”, Alessandria, 3 novembre 1962, e in


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A e T una specie di saggio giovanile, critptico per ciò, ma anche perché era il linguaggio mutuato dai “Quaderni rossi”, cui pure non appartenevo: Prospettive di una politica di classe, “L’idea socialista”, Alessandria, a. LXVI, n. 9, 11 maggio 1963 e n. 10, 24 maggio 1963. 22 K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852),, a cura di G. GIORGETTI, Editori Riuniti, Roma, 1964, pp. 204-205. 23 Rinvio, nel presente numero, al mio saggio La questione del mancato superamento del capitalismo dal punto di vista del materialismo storico e della psicologia analitica. Note e riflessioni. 24 A. SMITH, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), a cura di A. RONCAGLIA, Isedi, Roma, 1995. 25 L. F. BAUM, Il mago di Oz (1900), AG, Catania, 2007. 26 Su ciò è da considerare la grande questione delle teorie del caos in economia, trattata in modo approfondito, in questo numero di “Anima e Terra”, nel saggio di BRUNO SORO Dal caos alla complessità: l’economia nella “terra di mezzo”. 27 Proprio su ciò ho provato a fare una vasta analisi nel cap. Correnti del pensiero politico contemporaneo dal XIX al XX secolo e tendenze emergenti nel secolo XXI, specie ai par. 4, 5, 6 Ragioni profonde e stato degli ‘ismi’ tradizionali, nel mio libro: I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 181-359 e soprattutto 216-270. 28 F. NIETZSCHE, La gaia scienza (1881 e infine 1887), al par. L’uomo folle (aforisma 125 dellibro III), Adelphi, Milano, 1965. 29 Nel Così parlò Zarathustra di Nietzsche, cit., al cap. Fuori servizio, pp. 349-354. 30 Su ciò è qui da vedere, nel presente numero di “Anima e Terra”, il bel saggio di MARCO GARZONIO Immagini di catastrofe e responsabilità personale in Jung. Un’”Apocalissi” per i nostri giorni. 31 Su ciò, nel presente numero di “Anima e Terra”, è da vedere il bel saggio di GIUSEPPE RINALDI La fine del mondo. Crisi e storicità in ErnestoDe Martino. 32 LENIN, L’estremismo malatti infantile del comunismo (1920), a cura di A. CECCHI, Editori Riuniti, 1963. Il nesso Stato (borghese), rivoluzione (proletaria), Stato proletario come “estinzione dello Stato”, le cui funzioni di dominio prenderebbero subito ad atrofizzarsi man mano che si procede verso una società segnata da sempre minori differenze di classe, era notoriamente al centro del testo di LENIN Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione (1917, ma 1918), in “Opere complete”, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol. XXV, pp. 361-477. 33 Il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria sorse negli ultimi giorni del 1963, come rottura “da sinistra” del Partito Socialista Italiano, che aveva appena realizzato il governo Moro-Nenni, il primo cosiddetto di centrosinistra. Il piccolo partito (di venticinque deputati), filocomunista e al tempo stesso operaista e libertario, entrò in crisi nel 1970 e si sciolse nel 1972. Era però stato una delle fucine fondamentali del Sessantotto, pur non

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riuscendo mai a dominare la contraddizione tra la vocazione filocomunista, neomassimalista, e quella contestatrice di sinistra. 34 S. BECKETT, Aspettando Godot (1952), Einaudi, Torino, 1956. D. BUZZATI, Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano, 1966. 35 M. FOUCAULT, Biopolitica e liberalismo: detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, La Medusa, Milano, 2001; ID., Antologia. L’impazienza della libertà, a cura di V. SORRENTINO, Feltrinelli, Milano, 2005. Foucault ha dialogato molto con Antonio Negri,e questi con lui, negli anni dell’espatrio in Francia del filosofo politico italiano, che pare lo abbia molto influenzato. 36 Su ciò in questo numero di “Anima e Terra”, è da vedere il bel saggio di PATRIZIA NOSENGO “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler ieri e oggi. 37 Si vedano i seguenti testi di Julius EVOLA, Gli uomini e le rovine, Volpe, Roma, 1972, che è una specie di Uomo a una dimensione di Marcuse alla rovescia: è cioè lo spirito dell’antisessantotto, che vede come barbarie immanente quel che per l’altro è o sarebbe rivoluzione liberatrice in cammino. 38 A. AGOSTINO, La vera religione (390), a cura di M. VANNINI, Mursia, Milano, 1987. Ma un approccio molto simile a questo, che connette il lato negativo dell’Apocalissi con quello positivo (di svelamento dell’essere) si ha, nel presente numero di “Anima e Terra”, nel bel saggio di Marco Garzonio, noto psicologo junghiano milanese nonché curatore di opere del cardinal Martini recentemente scomparso, Immagini di catastrofe e responsabilità personale in Jung. Un’”Apocalissi” per i nostri giorni. 39 C, G, JUNG, Presente e futuro (1957), in: “Opere”, Xvol. 10/2, cit., pp. 101-156. Si tratta del più importante saggio psicopolitico di Jung. Si vedano soprattutto le pagg. 141 e 143 qui citate. 40 Ho provato a riflettere su ciò nel mio saggio: Il politico, l’antipolitico e il postpolitico. Note e riflessioni, “Rivista di psicologia analitica”, n. 29, vol. 81, 2010, pp. 125-144. Ma nel presente numero di “Anima e Terra” è soprattutto da vedere il bel saggio di PEPPINO ORTOLEVA Crisi dei sistemi politici e governo degli “esperti”: riflessioni sul “caso” dell’Italia. 41 Su ciò si veda, anche in questo numero, l’importante saggio di NANNI SALIO Al di là della catastrofe. Alternative della nonviolenza per superare la crisi del neoliberismo. 42 I. KANT, Per la pace perpetua (1795), a cura di N. MERKER, con Prefazione di N. BOBBIO, Editori Riuniti, Roma, 1993. Ma rinvio pure a: F. LIVORSI, Pace perpetua e unione mondiale, in: AA. VV., “Stati e federazioni. Interpretazioni del federalismo”, a cura e con introduzione di E. A. ALBERTONI, Eured, Milano, 1998, pp. 3-31. 43 Su ciò nel presente numero di “Anima e Terra” sono da vedere due notevoli contributi della psicoterapia junghiana: MARINA MANCIOCCHI, Prometeo e Io. Catastrofi originarie e ossessioni patologiche; ANNA BENVENUTI, Dopo la catastrofe, oltrepassare il passato: l’apertura all’ulteriorità di senso nel pensiero junghiano.


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44 Su ciò si veda, nel presente numero, il bell’articolo di GIORGIO GRIMALDI I Verdi europei e il possibile crollo dell’euro e dell’Unione europea. 45 La questione naturalmente è dibattutissima anche in innumerevoli opere cinematografiche, di artisti grandi come Kubrick o meno rilevanti di lui, sin dall’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, come nel presente numero di “Anima e Terra” si può vedere nel bel saggio di ROBERTO LASAGNA Dalla fine del mondo al mondo come fine: strano amore, strana melancholia. 46 S. FREUD, Il disagio della civiltà (1929), in: Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino, 1972, pp. 197-280, ma si veda p. 280. 47 PLATONE, Simposio, in “Opere”, a cura di G. GIANNANTONI, Laterza, Bari, 1967, I, pp. 657-721,

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Marina Manciocchi ● Prometeo e Io. Catastrofi originarie e ossessioni patologiche

Marina Manciocchi Prometeo e Io. Catastrofi originarie e ossessioni patologiche

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Ho visto1 il Prometeo incatenato di Eschilo2 per la prima volta a Siracusa molti anni fa, in occasione di un convegno organizzato da psicologi analisti siciliani. Mi rimase impressa la scena del dialogo tra il Titano e Io: lui, incatenato a una roccia - per aver insegnato agli uomini l’accensione del fuoco, base di ogni civilizzazione, contro la volontà di Zeus - narrava la sua triste storia, la punizione che subiva, l’assalto quotidiano dell’aquila, alla quale non poteva sfuggire; lei, che per parte sua raccontava il proprio altrettanto terribile destino, trasformata in giovenca, costretta a vagare senza fine nell’inutile tentativo di sfuggire al continuo pungolo di un insetto. Quell’immagine del dialogo tra Prometeo e Io mi sembrò separata dal resto della tragedia, utile solo per conoscere le loro storie; però evocava anche qualcos’altro che non riuscivo a decifrare. Nel viaggio di ritorno mi trovai con un’anziana relatrice del convegno, la quale mi chiese, in una maniera spontanea e senza alcun imbarazzo, di sederle accanto in aereo perché il viaggio la rendeva ansiosa. Anche quella imprevista confidenza mi colpì; chiesi un cambio di posto e, per distoglierla dalla preoccupazione per il volo, iniziai a parlarle della coppia Prometeo-Io, ricevendo un incoraggiamento ad approfondire il mio interesse. Quell’esperienza ha continuato a risuonare in me nei suoi tanti aspetti. L’immagine si è collegata alla sintomatologia ansiosa e ora ho l’occasione di approfondire le riflessioni che ne sono scaturite. I racconti mitologici su Prometeo riguardano l’origine della specie umana, e anche la storia di Io appartiene alla mitologia greca più arcaica; il loro incontro è narrato solo da Eschilo in questa opera. Nella scena vediamo due personaggi molto diversi tra loro, anche per il fatto che uno è incatenato e immobile, l’altra vaga senza senso e senza fine; eppure i due sono uniti da molti elementi, poiché entrambi sono privati della loro libertà di movimento, tutti e due soffrono nel corpo per un assillo che arriva dal di fuori, ripetitivo, costante, continuo e inevitabile; sono entrambi impossibilitati a liberarsi da soli e tutti e due costretti a sopportare una punizione decisa dagli dèi. Se trasportiamo tutto ciò su un piano psicologico, vengono alla mente molte situazioni nelle quali le persone soffrono per dei sintomi ai quali non possono sfuggire: pensieri, immagini, sentimenti o azioni percepiti come estranei e sui quali non si può avere alcun controllo; che portano a forzati adattamenti; che producono una sofferenza profonda spesso accompagnata da manifestazioni isteriche o malattie psicosomatiche. Anche quando una malattia colpisce la sfera del no-


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stro corpo, o i nostri processi cognitivi, qualunque forma assuma, viene percepita come un elemento estraneo che prima infastidisce e poi tormenta. La sofferenza nasce con il timore della ineluttabilità che accompagna l’apparire del disturbo e l’ansia che si prova inizialmente, quando si teme di non poter sfuggire alla malattia, può attivare un comportamento irrazionale, scomposto e senza senso, una difesa, un agire confuso che tende alla fuga dal sintomo e dalla sofferenza. Molte sono le sintomatologie che presentano una duplice faccia: pensiamo al disturbo ossessivo che blocca e incatena chi lo vive, spesso accompagnato da una sindrome fobica che spinge la persona a sfuggire in maniera compulsiva dall’ansia che percepisce. Un elemento importante nella diagnosi del disturbo ossessivo è proprio il senso di estraneità che prova il paziente, quando si presenta l’idea o la spinta all’azione ossessiva; questa viene percepita sempre come estranea e incontrollabile, per cui il paziente si sente “costretto” ad agire, per tentare di sfuggirle. Pensiamo anche allo stato depressivo che blocca l’energia del paziente, lo frena nella sua progettualità e nella capacità di sperimentare emozioni e sentimenti diversi, mentre l’opposto versante maniacale spinge la persona a compiere azioni senza possibilità di controllo; anche qui il tentativo è quello di fuggire dall’angoscia che divora internamente. Lo stesso meccanismo si presenta quando le persone sono di fronte a due scelte apparentemente opposte ma correlate l’una all’altra; un conflitto prodotto da un complesso o dal nucleo più o meno patologico che ne è all’origine, è un’esperienza penosa che genera continue oscillazioni da un lato all’altro. Soffermiamoci brevemente sui due personaggi. Io era la figlia di Inaco, re di Argo, sacerdotessa di Era. Il suo nome si collega alla radice eis, il cui significato è “essere agitato, rapido”, oppure si collega alla radice éimi, che significa “andare”, il termine fa riferimento al suo continuo muoversi agitato e scomposto. Il mito racconta che Io venne fermata un giorno da Zeus che le dichiarò il suo amore; spaventata la ragazza fuggì, ma Zeus la inseguì sotto forma di nube, attirando l’attenzione di Era. Per nascondere la ragazza, Zeus la trasformò in una candida giovenca, ma Era si fece donare l’animale e ne affidò la custodia al gigante Argo, che la legò a un palo, sorvegliandola con i suoi cento occhi che non si chiudevano mai tutti insieme. Zeus inviò Ermes a liberare Io da quella schiavitù ed Ermes suonò il suo flauto, una musica così armoniosa che tutti gli occhi del gigante si chiusero e la fanciulla poté fuggire via. Era però la fece inseguire da un moscone che pungeva e tormentava il suo corpo di giovenca, così Io si gettò nel mare che prese il suo nome, Ionio, poi vagò a lungo in Europa, in Asia e in Egitto, dove infine Iside le restituì il suo corpo e Io diffuse la sua conoscenza. Prometeo era un Titano, aveva assistito alla nascita di Atena dalla testa di Zeus e la dea gli aveva trasmesso la conoscenza dell’architettura, dell’astronomia,

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della matematica e della medicina, l’arte di lavorare i metalli, la navigazione e molto altro. Esiodo3 narrava che egli fosse un benefattore degli uomini. Il suo nome significa «colui che riflette prima», era figlio del titano Giapeto e fratello di Epimeteo «colui che riflette dopo», ma anche Prometeo non aveva riflettuto abbastanza sulle conseguenze della sua generosa disponibilità. Gli Orfici4 consideravano i titani come gli antenati dell’umanità, i quali avevano trasmesso molte loro caratteristiche alla nostra specie, tra cui la temerarietà e l’arroganza; però Prometeo voleva anche aiutare e proteggere gli uomini e quando Zeus decise di privarli del fuoco, glielo diede di nascosto5. Fu allora che Zeus decise di bloccarlo definitivamente, facendolo incatenare a una roccia sul monte Caucaso e ogni giorno un’aquila andava appunto a divorargli il fegato, che poi ricresceva di notte6. Passarono tremila anni prima che Eracle arrivasse a liberarlo. Eschilo lo raccontò nel “Prometeo liberato”, un’opera che non ci è pervenuta. Tornando alle varie situazioni patologiche che collego a queste storie, mi soffermerò sul meccanismo ossessivo che possiamo trovare in tutta una sequenza di psicopatologie, dai disturbi nevrotici minori fino alle psicosi; un meccanismo difficile da curare, che crea profonde difficoltà sul piano cognitivo, relazionale, affettivo e comportamentale. La sintomatologia definita DOC dal DSM IV7 comprende il blocco ossessivo e la costrizione compulsiva8. È considerata il quarto disturbo psichiatrico più frequente, con un esordio dei sintomi entro i 20 anni e una durata superiore ai dieci anni, per cui nel 70% dei casi diventa cronica. La terapia farmacologica ha compiuto molti progressi, ma le risposte non sono sempre soddisfacenti. Le ossessioni sono fenomeni egodistonici avvertiti come estranei, incomprensibili, persistenti e tormentosi; l’Io del paziente non li controlla. Le idee ossessive si distinguono da quelle ripetitive che si presentano in situazioni della vita con forte carica affettiva, come un lutto o un innamoramento, perché queste idee sono egosintoniche9 e l’Io le accetta. Si distinguono anche dalle idee fisse ricorrenti nelle persone con un carattere ossessivo e un rigido, scrupoloso comportamento, poiché pure queste idee sono egosintoniche, non vengono avvertite come estranee, né rifiutate. La parola “Ossessione” viene da obsidere = sedere su, assediare. Indica lo stare sempre addosso a qualcuno. Il meccanismo ossessivo è soprattutto un tentativo di adattamento e di difesa di fronte a un’angoscia collegata alla perdita, alla separazione, al cambiamento. Negli anni 1894-96, Freud definì i sintomi della nevrosi ossessivo-compulsiva, la considerò una patologia specifica, indipendente dalle altre e la affiancò all’isteria. Per Freud, il meccanismo ossessivo era una modalità difensiva che utilizza elettivamente il pensiero, allo stesso modo in cui l’isteria utilizza invece il corpo10.


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Marco Garzonio ● Immagini di catastrofe e responsabilità personale

Marco Garzonio Immagini di catastrofe e responsabilità personale in Jung. Un’“Apocalissi” per i nostri giorni

Se sapessi che il mondo deve finire domani, pianterei ugualmente un alberello di melo. M. Lutero Affinché si muti l’intera realtà deve prima mutare l’individuo singolo. C. G. Jung Oggi l’umanità intera è diventata mortale quanto l’individuo. Ma noi non siamo che alla fine di un tempo, non alla fine dei tempi. J. Guitton

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Mentre scrivevo queste note in un’estate dall’aria satura di previsioni catastrofiche sull’economia, mi son trovato testimone indiretto d’un piccolo episodio accaduto a una famiglia ormai ai limiti dell’indigenza, come accade sempre più spesso oggi. Era morto l’uomo di casa, da tempo disoccupato ma che a settembre avrebbe potuto incominciare a riscuotere una modesta pensione. Mentre ci si apprestava a celebrare i funerali il nipotino, un bambino di nemmeno dieci anni, ha voluto porre una bussola nella bara del nonno prima che l’addetto delle pompe funebri fissasse il coperchio sulla cassa. Ha detto il piccolo: “La bussola lo aiuterà a trovare la via del cielo”. Un bimbo, un vecchio, uno sconosciuto, un personaggio storico o letterario che ci parlano sono letti dalla Psicologia Analitica come possibili manifestazioni dell’inconscio. Attualità, memoria e futuro che si danno una mano, insomma. Jung ha dedicato tanti testi alla funzione maieutica di tali figure nei sogni, ai messaggi onirici che suonano come una nemesi, una sorta di contrappasso dell’irrazionale lasciato, o letteralmente buttato fuori dalla porta del nostro mondo diurno. La recente pubblicazione del Libro Rosso ha riepilogato l’universo junghiano1. Ha mostrato le dimensioni di una irripetibile vicenda soggettiva, quella di Jung appunto. Insieme, però, rivelando l’esemplarità di un per-


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corso individuale, ha nei fatti indicato un modo congruo di leggere l’essenza della condizione umana, che - verrebbe da dire - viene esaltata nei momenti di crisi. E cioè come l’uomo abbia in sé un dono, che lo caratterizza rispetto ad ogni altra creatura e che lo rende protagonista più di quanto egli non vorrebbe: la responsabilità personale. Non si può sfuggire. Tutto incomincia di lì e lì riconduce: alla possibilità e alla libertà di rispondere, al farsi carico delle risposte che diamo o che evitiamo di dare, come singoli e come comunità. La dinamica della psiche si esprime e si plasma intorno ad un moto continuo di assunzione o di diniego di responsabilità. Una psicologia che intenda corrispondere ad una simile visione antropologica e ritrovare in essa le ragioni etiche del proprio operare ha un compito: aiutare le persone nelle occasioni che hanno di sperimentare il proprio essere soggetti liberi e responsabili, proprio nei momenti in cui sembra siano solo forze esterne a sovrastare; mostrar loro che quella è una via stretta a cui non esistono alternative credibili se si vuol crescere e uscirne migliori; allenarle a percorrere i sentieri della vita nelle diverse condizioni di complessità personali e collettive. Non è un caso che il nome dato agli inizi da Jung al suo metodo di indagine fosse quello di Psicologia Complessa. Tra l’autunno del 1913 e l’estate del 1914 Jung ebbe una dozzina di visioni terrificanti. I contenuti sono noti: un’inondazione che procura migliaia di morti; una voce che annuncia l’effettivo verificarsi della catastrofe; un mare di sangue che invade i Paesi del Nord; un eroe morto e l’assassinio di Sigfrido perpetrato dallo stesso Jung; il piede di un gigante che cammina su una città e massacri di crudeltà efferata; un mare di sangue e una sterminata processione di morti; la visione della propria anima che emerge dal profondo e gli chiede se accetterà guerra e distruzioni; la stessa anima che gli presenta immagini di devastazione, armi da guerra, resti umani, navi affondate, paesi distrutti, macerie; una voce che sostiene che dappertutto muoiono vittime sacrificali; il sogno (avuto tre volte), nel quale si trova in un paese straniero e deve rientrare al più presto per nave, in quanto sta per sopraggiungere un freddo glaciale. “Come psichiatra incominciai a preoccuparmi”, confidò anni dopo a Mircea Eliade2. Tante immagini, e di tale portata, gli fecero temere di essere sempre più esposto all’invasione dell’inconscio e al venirne travolto. Al pericolo incombente, Jung oppose un argine: intuì che per continuare a vivere avrebbe dovuto continuare a vedere: a tutti i costi. Prese molto sul serio le immagini, nella realtà del loro apparire. Incominciò ad ordinare il flusso dei materiali incandescenti in quello che sarebbe diventato il Liber novus, (l’appellativo corrente di Libro rosso è da ricondursi al colore della rilegatura in pelle del volume manoscritto, com’è noto), cioè il libro della rigenerazione, della rinascita, della vita nuova che sarebbe succeduta alla discesa agli inferi. Ricorse all’aiuto che gli veniva dalle Scritture (non

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va mai dimenticato il dato biografico: Jung era figlio di un pastore protestante) e alla frequentazione, niente affatto casuale nell’occasione, dello Zarathustra di Nietzsche, cui egli si era già accostato in anni precedenti, ma dal quale era fuggito temendo il pericolo di un’identificazione vissuta come pericolosa, destabilizzante. Così, visioni molto personali ma dai contenuti collettivi catastrofici, evocazione dei grandi Profeti (a incominciare da Isaia, letto dai Padri della Chiesa come il tramite fra l’antico Israele e Cristo), il ricorso al Nuovo Testamento, in particolare a Giovanni (il Vangelo del “venne ma non l’accolsero”), la voglia di smentire la “morte di Dio” annunciata da Nietzsche posero Jung nella condizione di cercar la quadra tra la crisi personale, potenzialmente devastante sul piano delle relazioni sociali, col mondo, all’indomani della rottura con Freud, e quel che stava accadendo in Europa. Da una parte un dato soggettivo: la consapevolezza (difficile da accettare all’inizio: per questo l’inconscio, al fine di convincere la nostra riottosità, ricorre alla maniere forti, a immagini impressionanti, come avrebbe detto lo stesso Jung in anni successivi, nei Seminari sui sogni3, il redde rationem della coscienza, la presa d’atto che i vecchi riferimenti erano crollati, che non gli sarebbe più stato possibile fare il “figlio”, così come gli era risultato evidentemente comodo secondo quanto emerge dal carteggio con Freud, che, proprio anche per corrispondere fedelmente a I simboli della trasformazione, l’opera dello scandalo rispetto alla psicoanalisi ufficiale, avrebbe dovuto camminare da solo con le proprie gambe)4. Dall’altra parte il dato oggettivo: i continui e numerosi segnali sinistri che, dagli ultimi scorci dell’Ottocento, incombono sull’Europa posta di fronte al conflitto tra la trasformazione epocale innescata dalla rivoluzione industriale (diritti di chi lavora, giustizia sociale, equa distribuzione delle risorse, rivendicazioni femminili, libertà d’espressione, autonomie locali e partecipazione democratica) e la disperata resistenza al cambiamento di tutti coloro che dagli assetti economici e istituzionali hanno tratto profitto e privilegi, un conflitto che o trova una composizione di tipo politico o è destinato a portare all’“inutile strage”, come in effetti accadrà. Una “guerra mondiale”. E fu soltanto la prima! È una bella, continua battaglia quella che ogni giorno va in scena tra noi che cerchiamo di cambiare la realtà e questa che trasforma noi. Il Libro Rosso è un modello in proposito. Venne concepito e gestito come raccolta d’un magma incandescente di contenuti psichici in forma di immagini che il suo autore accoglieva e rendeva manifeste in forme (visive e scritte), colori, iridescenze, sfumature per cercar di “guarire”, cioè di affrancarsi dal caos da cui temeva d’essere posseduto e per ritrarsi dal baratro verso il quale una vertigine pericolosa lo attraeva sino alla disgregazione distruttiva. Intanto, a mano a mano che prendeva consistenza, il manoscritto divenne una realtà a due facce: il racconto


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del “caso Jung” scritto da lui stesso, in perenne tenzone tra l’intimità più inconfessabile e la voglia di rendere pubblica la propria avventura, di gridarla dai tetti (emblematica l’ambiguità dello psichiatra di Zurigo circa l’autorizzazione alla pubblicazione del testo e delle immagini); insieme, l’indicazione di una verità psicologica dal valore universale: ogni persona umana deve compiere un percorso ben scandito in tappe per passare dallo stato di inconscietà, di dipendenza da fattori esterni o di proiezione su di essi di ogni causa, ad uno stadio in cui si incominciano a riconoscere i condizionamenti (inconsci e consci), soggettivi (a quale tipologia psicologica appartengo), familiari, educativi, culturali. Il “processo d’individuazione” che nasce dall’esperienza junghiana non è una formula, né uno schema rigido, entro cui la persona dovrebbe cercar di ritrovarsi come in un letto di Procuste, ma la riproposizione in termini moderni di un mito antico, il mito dell’uomo che cerca di conoscere se stesso per diventare se stesso. Una meta che non lo isolerà mai dal contesto, che anzi lo renderà solidale col mondo, lo aiuterà a trovare la sua “vocazione” (parola oggi purtroppo in disuso), ciò per cui, appunto, è stato chiamato in vita, e lo metterà in condizioni di assumere le proprie responsabilità nell’opera di partecipazione a quella che possiamo chiamare la “continua creazione del mondo”. Ché, se così non fosse, disperante diverrebbe l’avventura umana: mancherebbe di quella libertà e di quella speranza che danno ragione all’esistenza.

Un atto profondamente politico Il Libro Rosso è un atto di fiducia nella redimibilità dell’uomo e dell’umanità. Da esso spicca una verità psicologica: interiorità e socialità son due facce; l’una non può prescindere dall’altra. La ricerca di sé ha senso in tanto in quanto conduce il soggetto alla consapevolezza che nulla del collettivo gli è estraneo e che, proprio per questo, all’individuo fa capo una responsabilità personale ineludibile verso i destini degli altri. Egli non potrà mai affermare: “Io non c’entro”. Il solo fatto di essere persona umana lo coinvolge. Non è uno scandalo affermare che la coscienza di sé o, se si preferisce la terminologia junghiana, il “processo di individuazione”, è un atto profondamente politico: il ritrovarsi con se stesso, magari dopo il caos o il disagio della sofferenza psichica, è il ritrovarsi nella e con la polis, nella convivenza e nella condivisione. E il collettivo, a propria volta, può affrancarsi dal rischio di venire risucchiato nei vortici dell’indifferenziato e dell’irrazionale, della massificazione come si diceva anni fa, in quanto riesca a rappresentare il punto di composizione e di espressione di tanti individui che possano dirsi liberi e consapevoli nel perseguire la cittadinanza attiva.

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Anna Benvenuti ● Dopo la catastrofe, oltrepassare il passato

Anna Benvenuti Dopo la catastrofe, oltrepassare il passato: l’apertura all’ulteriorità di senso nel pensiero junghiano

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Come junghiani siamo cresciuti nell’apertura all’ulteriore: - un inconscio ulteriore: l’inconscio collettivo; - un’ulteriorità di significati, ovvero un’eccedenza di significati: il simbolo; - una concezione finalistica della nevrosi - a che tende? - cioè un’idea prospettica della sofferenza psichica; - l’attenzione all’immaginazione come capacità di inserirsi nel monoteismo della ragione disgregandone la compagine concettuale, rendendo le cose di nuovo vaghe e imprecise, aperte a ulteriori significati. Per essere padroni del nostro futuro è necessario differenziarci dal nostro passato. Per Jung anche la “guarigione” è un oltrepassamento del passato. Perché il passato non è cancellabile. Come scriveva Borges “Non è possibile che Dante Alighieri non abbia scritto la Divina Commedia. L’ha scritta”. Possiamo però dare al passato la sua qualità di passato, cioè finito, ovvero oltrepassato. Ma qual è lo scenario che oggi abbiamo davanti ? Facciamo un passo indietro. Il XX secolo era appena iniziato quando Freud scrisse L’interpretazione dei sogni e diede avvio a quella rivoluzione che rappresentò per l’essere umano una terza umiliazione. Dopo “l’umiliazione cosmologica” inflitta dalla scoperta di Copernico e dopo l’“umiliazione biologica”, subita per via delle scoperte di Darwin, venne la scoperta dell’inconscio , “l’umiliazione psicologica” che annunciò all’uomo dell’Illuminismo - inflazionato dalla sua fede nella Ragione e convinto di un’espansione senza limiti - che l’Io non era più padrone in casa sua. La scoperta dell’inconscio ha come conseguenza uno spodestamento dell’Io1. Se fino ad allora il limite veniva imposto dall’esterno, cioè dalla realtà della natura, ora si scopre un limite che è all’interno dell’uomo stesso, per cui quest’uomo deve convivere con uno sconosciuto, un non-conosciuto, che può anche opporglisi. Jung chiamò nevrosi il conflitto tra desiderio conscio e desiderio inconscio. Con questa scoperta la psicoanalisi introduce nella civiltà dei lumi una “ cultura del limite”. Non ci si meravigli quindi delle resistenze ad essa. Il ventesimo secolo venne chiamato il secolo della psicoanalisi.


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Il ventesimo secolo è ormai finito, era il secolo scorso. Nel frattempo Nietzsche aveva annunciato, pochi decenni prima dell’Interpretazione dei sogni di Freud, la morte di Dio2. Se la osserviamo più di cent’anni dopo l’apparentemente folle intuizione di Nietzsche fu una profezia. È la storia che ce lo racconta. Abbiamo assistito alle guerre mondiali, all’orrore del Nazismo, a Hiroshima, alla guerra fredda, al terrorismo, al grande dominio della tecnica e all’unico confine che pone un limite al mondo intero: la crisi economica. Della cultura del limite abbiamo già perso le tracce. Di una pulsione di morte abbiamo avuto più che un sentore. Perché la morte di Dio significa psichicamente il ritiro di una proiezione: ciò che era nei cieli cadde sulla terra: e l’Io prese il posto di Dio. Ovvero l’arroganza dell’uomo, la sua convinzione di essere padrone della terra, di dominare sulla natura e di avere il potere di distruggere come e quanto volesse sono i risultati, credo ormai davanti agli occhi di tutti, della morte di Dio. Sulla terra restano “idoli”: quelli dell’uomo che ha creduto di essere dio. Perciò l’uomo ha pensato di surrogare gli idoli di Dio con quelli evidentemente “idolatri”: il dio denaro, la latitanza dell’etica, l’aumento delle patologie narcisistiche, la lenta eclisse del mondo emotivo, il cinismo, la paranoia, la psicopatia. La morte di Dio ci dice che non c’è più ciò che era stato chiamato il Sommo Bene, il sapere ultimo al quale tutti i saperi si riferivano, l’Assoluto. Soprattutto non c’è più una Legge del padre a cui fare riferimento: le tavole della legge consegnate a Mosè sono andate distrutte. A ciò segue l’assenza del Padre, sia il padre simbolico cui ci si riferisce con la formula “In nome del Padre”, sia quello reale, che, non godendo più della valenza simbolica è divenuto pallido, (“padri pallidi” li chiama Charmet 3 lasciando un’emergenza educativa e figli orfani. Credo che ormai sia un fatto acquisito che la psicoanalisi si occupa di una psiche che vive nel mondo, nella società, nel contesto culturale e nel sistema di valori collettivi della sua epoca. In questo senso non siamo figli soltanto dei nostri genitori, ma siamo figli di una storia , del tessuto delle relazioni sociali, culturali e simboliche nelle quali cresciamo. Il lavoro analitico ha a che fare con un mondo che cambia, con richieste di cura che mutano, con un conscio e un inconscio collettivi che si manifestano con fenomeni diversi. La civiltà attuale, detta civiltà della tecnica, evidentemente rappresenta un’epoca particolare dal momento che ha chiamato a scrivere su se stessa tutta la cultura del mondo, dalla filosofia alle scienze sociologiche, dalla psicoanalisi alla psichiatria, alle scienze della comunicazione. Peccato che sia interessante per il disagio psichico che comporta. Jung sostiene che

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Anna Benvenuti ● Dopo la catastrofe, oltrepassare il passato

“… quando nella vita di un popolo o comunque di un vasto gruppo umano si verifica un profondo mutamento di natura politica, sociale o religiosa (…) tale mutamento implica al tempo stesso un mutamento dell’atteggiamento psicologico (…). Io credo che le circostanze esterne siano spesso più o meno delle semplici occasioni nelle quali il nuovo atteggiamento verso il mondo e la vita, preparato inconsciamente, diventa manifesto” 4.

Ciò può significare che solo una parte davvero minima della azioni umane può considerarsi frutto di determinate premesse coscienti, ossia logiche, ma quasi tutte sono connesse a motivazioni irrazionali inconsce. La sfera inconscia viene vista come la matrice stessa della totalità della psiche e in essa rimane l’aspetto dominante. La coscienza si origina dalla follia e l’inconscio, “coscienzializzandosi”, fonderebbe la civiltà. Per questo Jung parla non di essere cosciente,ma di diventare cosciente perché la coscienza è la risultante di “un lavoro”, non è uno stato: è un continuo superamento della nostra follia. Quella dalla quale emergiamo ogni mattina.

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Ciò che rende così spaesata e difficile quest’epoca è il riuscire a muoversi nel contemporaneo esistere di più intrecci critici, perché alla morte di Dio si accompagna la civiltà della tecnica, con la sua potente richiesta di trasformare l’uomo in un meccanismo che deve funzionare sempre e bene. Non è un discorso nuovo: già molti anni fa si parlava del fatto che non c’era più un’autorità paterna a cui obbedire o disobbedire, ma una richiesta sotterranea, una sorta di autorità inconscia che chiedeva di sapere fare tutto e bene. Credo che questo fosse la tecnica. Un Super-io metallico. Non è cambiato nulla. Non meravigliamoci quindi dei problemi narcisistici. Nessuno può essere all’altezza di tale compito. Il passaggio da un Dio che ti comanda di essere buono a una civiltà tecnologica che ti comanda di essere sempre efficiente e perfettamente funzionante continua a far sì che venga mantenuto un comandamento, cioè un ordine che proviene sempre dall’alto, ma che non guarda più agli esseri umani come a persone, bensì come a meccanismi il cui “dovere” è fornire prestazioni. Sembra si oscilli continuamente tra un Super-io che ha preso il posto dell’Io e un inconscio dissociato dalla coscienza, Ma dov’è finito l’Io-coscienza? Nell’inflazione psichica, che ha come conseguenza la perdita di umanità? Nell’identificazione con il ruolo, dove l’Io scompare? “Nell’oppressiva e cieca obesità degli stereotipi?”5. L’Io-coscienza è forse finito nella confusione tra identità e funzione? Di quest’ultima abbiamo un esempio di valore generale. Si verificò quando la donna confuse la sua capacità di svolgere quasi tutte le funzioni maschili con


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una identità maschile, per cui comparirono le donne falliche, le donne “con le palle”, eccetera. Oppure questo Io-coscienza è stato ingoiato da una sorta di infantilismo, per cui, un po’ come nel bambino, predomina il principio del piacere, come piacere immediato, consumato nella non cognizione del tempo, nel tempo puntiforme, per cui dopo un gelato ne voglio subito un altro e poi un altro ancora, fino a volere semplicemente il volere, fino alla voracità bulimica che non è neppure desiderio, ma volontà di potenza e compulsione cannibalesca. Questo bambino, però, ricorda un po’ quella commedia surreale del lontano 1946 di Roger Vitrac Victor o i bambini al potere, in cui il personaggio principale è appunto Victor, un bambino di nove anni alto un metro e novanta6. Nella stanza d’analisi compare sempre più spesso una forte dissonanza tra uno sviluppo intellettivo e uno sviluppo affettivo/emotivo, dove quest’ultimo sembra ancora legato a modalità infantili del sentire, prima tra queste l’intolleranza alle frustrazioni e non ultima la pretesa di un piacere continuo. Bambini senza limiti? Sempre e solo figli? Scrive Jaspers nel 1986: … La perdita della realtà trascendente ha accresciuto la volontà di felicità terrena fino a farne qualcosa di assoluto. Tutte le difficoltà devono essere superate mediante il fare tecnico basato sulla scienza. Questa realtà in cui si è creduto si è però risolta in attività frenetica, fretta, consumo e cambiamento, portando quindi a infinite delusioni…7.

E comunque emerge mancanza di confine. Il confine non solo stabilisce dove ha fine un territorio, ma anche dove inizi una nuova zona. Senza confine non c’è futuro. Anche la rimozione della morte implica assenza di futuro. Questo lo incontriamo in terapia ad esempio nelle varie forme di depressione giovanile, dove assistiamo a una contrazione dell’energia, a un blocco dell’investimento perché nel senza tempo e nel senza spazio non si sa dove collocare quell’oggetto – progetto individuale immaginale - che è un possibile domani. L’assenza di un bene assoluto rischia di trasformarsi in un male assoluto. Viene da pensare a una difficoltà nel progettare un futuro che produce un blocco, che spinge a una regressione così potente che può arrivare fin nel preumano: non verso l’animale, che è ben regolato da schemi innati di comportamento, rispetto all’uomo relativamente libero di sceglierli, ma verso gli spazi più profondi dell’inconscio, dove regna il ghiaccio, ossia negli spazi della psicopatia. Tutto ciò era stato in qualche modo annunciato. Era il 1943 quando Neumann scrisse Psicologia del profondo e nuova etica e parlò di psicopatia 8. La

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Anna Benvenuti ● Dopo la catastrofe, oltrepassare il passato

psicopatia allora veniva ancora chiamata moral insanity, insanità morale . Un esempio venne ben rappresentato un po’ di anni fa nel film Apocalypse Now, un film sulla guerra nel Vietnam. C’è una scena in cui due militari stanno parlando delle efferatezze che il loro capo,che nel film è interpretato da Marlon Brando, sta comandando di fare. Uno dei due chiede “ Ma è pazzo?” E l’altro gli risponde. “No, la sua mente è sana, è la sua anima che è malata” 9. Lo psicopatico è perfettamente capace di intendere e di volere, ma manca della capacità di provare empatia, come gli mancasse un pezzo di qualcosa di specificamente umano, per cui, essendo l’altro soltanto un oggetto qualunque, lo può fare a pezzi, torturare, persino dormire con il suo cadavere a fianco senza sentire la benché minima emozione. Nella psicopatia, ce lo ricorda Galimberti nel suo libro I miti del nostro tempo, “…l’appiattimento del sentimento non è avvertito, perché l’intelligenza non subisce per questo alcun ritardo. Anzi si sviluppa con una capacità impressionante, perché non è turbata da interferenze emotive…”10.

Lo psicopatico può addirittura avere un’intelligenza particolare, quando non superiore alla media, che gli permette, come vediamo bene nei vari casi di criminal minds di attirare la vittima con facilità. La mente può funzionare perfettamente, anche se nella più totale inconscietà e nella più totale assenza di umanità. La denuncia di una cultura che svalutava le emozioni e appiattiva i sentimenti continuò per tutto il secolo. Nel 1965 l’etnopsichiatra Georges Devereux scriveva:

E più avanti: … L’intelligenza serve a poco contro la tendenza a prendere i propri desideri e i propri deliri per realtà (…) Essa interviene di solito soltanto per fornire ingegnose scuse a una condotta non intelligente11.

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Oggigiorno non si ottiene la considerazione altrui (…) se non a condizione di mostrarsi freddamente impersonali e obiettivi (…) di guardarsi da ogni manifestazione di emotività (…) Il prestigio della fredda insensibilità è tale che persino le persone più sensibili, più emotive, fanno mostra di un profondo disprezzo dell’emotività altrui…


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Giovanni Sorge “Karma Aperto” di Fabrizio Petri: un’opera sull’interazione spirituale e psichica dai Romantici a Internet

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Karma Aperto di Fabrizio Petri (Moretti & Vitali, Bergamo, 2012, pagg. 186, 16 euro) è certamente uno dei libri più singolari dell’anno, a cavallo tra saggistica e narrativa, esegesi letteraria e storia della cultura, filosofia, psicologia analitica – e archetipica - e spiritualità. E singolare risulta la scelta dell’autore, Ministro Plenipotenziario di stanza a Roma, già attivo a Parigi e a Nuova Delhi, di inanellare una serie di connessioni a tutta prima inusitate e di sicuro fascino tra la filosofia indù – in particolare gianista e tantrica – e le acquisizioni del movimento Beat e, in seguito, la stagione hippie, tra l’influenza del romanticismo inglese sulla formazione di Gandhi fino all’aspirazione a una società pluralista e, almeno negli intenti, sensibile all’ecologia, al pluralismo, e all’accettazione dell’altro in senso interiore ed esteriore: attraverso le trasformazioni operate dalla psicologia del profondo. C’è da far tremare i polsi al più ardito storico della cultura. Eppure l’ordito di questo singolare saggio-romanzo o romanzo-saggio, che coinvolge tre continenti e si dipana in alcuni lustri della storia del XX secolo, muovendo però da suggestioni derivanti da secolari tradizioni spirituali, affascina e fa riflettere su connessioni finora poco esplorate. In virtù di una notevole familiarità con il pensiero indiano, maturata sia tramite l’esperienza professionale sia grazie a una attenta passione coltivata negli anni, Petri crea un percorso rutilante ed inusitato che si articola su diversi livelli e apre nuove prospettive di lettura sulle relazioni tra Oriente ed Occidente. Sullo sfondo pulsa poi un’altra passione, che dalla psicologia junghiana e hillmaniana trae feconda, creativa ispirazione nell’individuare, in seno alle dinamiche individuali e collettive dei temi trattati, momenti salienti – animici - di un percorso trasformativo i cui frutti – maturi o potenziali – giungono fino all’oggi. Credo sia per questo che l’editore bergamasco, che si distingue per un ricco catalogo attento al pensiero sia del grande maestro elvetico che statunitense, ha scelto di pubblicare un’opera tanto atipica, coraggiosa, sorprendentemente erudita e foriera di sviluppi probabilmente anche inaspettati. Fabrizio Petri individua due motivi portanti nel suo itinerario: il ruolo dell’inconscio, studiato e valorizzato dalle moderne psicoterapie sorte dalla co-


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siddetta “scoperta dell’inconscio”, e il ruolo della nonviolenza, che nei Beat e in particolare in Ginsberg vide altrettanti elementi conduttori verso un una nuova attitudine psicologica ispirata alla preminenza di una dimensione affettiva in senso profondo e quindi di interrelazione. Nel riconsiderare il nucleo emancipatorio e l’afflato etico oltre che visionario dei protagonisti della Beat generation con il loro bisogno di conoscenza e rinnovamento spirituale, l’autore mostra come molti aspetti del pensiero indiano andarono a costituire i germi di una nuova visione dell’individuo e della società. Una nuova coscienza ecologista, la liberazione sessuale e l’emancipazione della donna, i diritti delle minoranze, etniche e per così dire di genere hanno dato, negli anni Sessanta, impulsi tali da cambiare il modo di vedere noi stessi e finanche il volto del mondo. È ciò che Petri considera, a livello globale, un mutamento paragonabile a una sorta di risveglio dell’Anima, risveglio dirompente e quindi anche violento, “selaggio perché profondo”. Ponendosi sulla scia di Isaiah Berlin, che ritiene decisivo il contributo del Romanticismo all’emergere di una società pluralista, Petri vede negli esponenti della Beat Generation “tra i primi catalizzatori di un più generale interesse verso alcuni valori umanistici delle tradizioni orientali, di cui il più importante è quello della nonviolenza, valori che hanno così potuto esercitare una notevole influenza anche in Occidente”. Così, “guardare in quest’ottica agli anni Sessanta, renderci conto di quanto essi siano stati al contempo un movimento di valorizzazione dell’individualità, di rafforzamento dello spirito di collaborazione comunitaria e di rinascita del sentimento di comunione spirituale può aiutarci a comprendere anche il giusto peso da assegnare alle reciproche influenze tra Oriente e Occidente in termini di contributo a una visione più libera e aperta delle nostre società”. A monte di tutto ciò c’è Gandhi che, come ricorda Yogesh Chadha, fu “il primo nella storia umana a trasporre il principio della nonviolenza dall’ambito individuale a quello sociale e politico”. Il Mahatma viene evocato sottolineando l’influenza su di lui esercitata, durante la sua formazione londinese (proprio in seno a quell’impero che avrebbe poi combattuto con armi antiche, ma sino ad allora ignote all’agone della storia), dalla filosofia romantica inglese”, in particolare Percy Bysshe Shelley. “Londra agì da specchio per la sua Anima”, scrive Petri, delineando quindi successivi rapporti con Tagore e il comune operare a favore di un’etica nuova e non violenta. In Karma Aperto, il lettore si trova così proiettato in un itinerario diacronico e geografico, che muove da Roma, dove giacciono, nel cimitero acattolico della capitale, le ceneri di Shelley, accanto alle quali riuscì due secoli dopo a farsi seppellire Gregory Corso. Questi era tornato a Roma dopo aver attraversato l’India delle foci del Gange e di Calcutta, Nuova Delhi e Benares, passando per l’Inghillterra coloniale e infine per Palo Alto; ma nell’itinerario ideale di Karma

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Giovanni Sorge ● “Karma Aperto” di Fabrizio Petri

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Aperto ci sono anche Woodstock, la Summer of Love del 1967, l’opposizione alla guerra nel Vietnam, le marce per i diritti civili, i riti e i mantra recitati davanti al Pentagono. Al contempo, protagonisti della Beat Generation quali Allan Ginsberg e il suo compagno Peter Orlowsky, Gary Snyder e Gregory Corso diventano emblemi di un percorso storico e psicostorico che ha dell’iniziatico – fino ad apparire, se vogliamo, viventi plateau di un inconscio collettivo tuttora operante – e che ha avuto inizio da un cocente bisogno di ricerca spirituale, di un’integrità che l’autore avverte nella quest dietro le peripezie di tali personaggi. In questo percorso assume una valenza paradigmatica la figura di Hope Savage, misteriosa e bellissima poetessa di cui Corso era innamorato, fuggita in India dopo aver lasciato la sua facoltosa famiglia americana; in Karma Aperto la vediamo assurgere – junghianamente – a figura dell’Anima, che accompagna le peripezie spirituali degli altri Beat, metafora di un risveglio del sentimento quale funzione connettiva fra contenuti consci e inconsci, e capace di schiudere nuove prospettive, lei che in India si perderà, o forse ritroverà, scegliendo – o forse non scegliendo – di non fare ritorno in patria. Per Ginsberg, la cui adesione all’etica della non violenza lo renderà una sorta di guru una volta rientrato in America, il viaggio in India fu anche un incontro con l’Anima: è quel che suggerisce Petri, individuando in alcune sequenze oniriche e in certi brani poetici le tracce dell’avvenuta trasformazione in quel Paese; leggiamo, ad esempio, nella poesia Il mutamento: “Ma il sognante Me sotto / stelle fisiche con tenere / lune rosse nel ventre e / il Sole il Sole il / Sole mio padre visibile / che rende il mio corpo visibile / attraverso i miei occhi!”. Del pari, e specularmente, viene individuato un altro momento trasformativo nel poeta Norman Mailer allorché, alla vigilia della celebre marcia di protesta contro la guerra nel Vietnam che inscenò una’occupazione simbolica del Pentagono, cominciò “a percepire se stesso come un uomo in procinto di diventare sempre più modesto”. In tale prospettiva si comprende altresì l’invito a riconsiderare il senso originario sotteso alle sperimentazioni psicotrope di un’intera generazione. “Per i Beat, infatti, l’assunzione continuativa di droghe allucinogene si poneva al crocevia tra il valore di rivolta e di denuncia sociale della loro poetica e la ricerca di misticismo a essa sottesa. La volontà di allargare lo stato di coscienza che i Beat attuavano con le droghe diventava anche la rottura del paradigma alienante imposto dalla nascente comunicazione di massa, dal consumo di massa e dalla massificazione delle stesse coscienze”. Un afflato che non può non far riflettere, di contro, al trend attuale dominato da mortifere droghe di prestazione, e per cui cade opportuno ricordare l’analisi storico-psicologica di Luigi Zoja (che si spinge invero fino all’antichità) in Nascere non basta. Iniziazione e tssicodipendenza (Cortina 1985/2002).


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Petri dunque riesce a far immaginare e re-immaginare luoghi fisici, personaggi e produzioni oniriche e poetiche inserendo il tutto nell’alveo di una trasformazione collettiva che ha investito l’Occidente più di quanto sembri. Ad esempio, i versi del poema Gangalahari di Jagannath, il leggendario poeta indiano che, innamoratosi di una ragazza musulmana, celebrò le onde del Gange in cinquantadue memorabili versi esprimendo così un inno a quella che l’autore individua come l’essenza del tantrismo: l’accettazione gioiosa del vivere, che agli occhi del poeta diventa incarnazione della Grande Madre (Shakti), principio femminino che tutto muove, principio che a sua volta Petri riconsidera alla luce del “fare anima” hillmaniano quale percorso di reintregrazione spirituale del politeismo insito nella natura umana. Nel corso dell’opera si delinea inoltre l’auspicio dell’autore, che, pur apparendo qua e là con discrezione, lascia intendere una valenza programmatica: quella poi sunteggiata dal titolo, che con un apparente ossimoro intende muovere un appello a una atteggiamento di maggiore, rinnovata responsabililtà a partire da un’ interiore consapevolezza a fronte dell’attuale congerie socioculturale e tecnologica, verso un’etica non violenta e di tolleranza nel senso più nobile del termine. In altre parole, verso l’Altro in tutte le sue varianti e quindi, in primis, l’altro psichico quale punto di partenza per una trasformazione effettiva. Pertanto “avere fede psicologica, credere che oltre il proprio ego esistano realtà inconsce e spirituali e che sia nostro dovere accettare la responsabilità morale di agire con esse , ossia di ‘fare anima’, significa anche avere la consapevolezza che al di fuori di noi, ogni volta che interagiamo con un altro essere vivente, dobbiamo riconoscere l’esistenza di valori imprescindibili: quelli che la fede umanitaria ci indica. L’agire non violento diventa la strada più integra per assumersi le proprie responsabilità verso il mondo e vivere in una dimensione davvero compiuta di Karma Aperto”. A conclusione del libro viene riconsiderata l’originaria vocazione etica e squisitamente democratica che avrebbe ispirato la nascita della cosiddetta Società in rete, senza perciò cadere in una idolatrica beatificazione di internet, anzi sottolineandone rischi e possibilità attuali. Accanto a Arpanet l’embrione di internet nato nel 1969 come costola del Defence Department Advanced Reseach Projects Agency (DARPA), Petri individua, sulla linea del saggio La nascita della Società in rete di Manuel Castell, uno spirito germinale ispirato alla flessibilità, all’assenza di un centro di comando e alla massima autonomia (di ciascun centro) e ritiene che, malgrado le prime manifestazioni di protesta verso la tecnologia sentita come spersonalizzante, si fosse andata formando, in vaste frange della controcultura, un’aspirazione a una condivisione del sapere in una nuova sinergia tra l’ambito istituzionale, il DARPA e il mondo universitario: una

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visione, insomma, che attesta come “all’origine della Società in rete vi è stata anche una fede umanitaria: immaginare un mondo dove le tecnologie possano essere poste al servizio delle necessità personali e comunitarie, in un afflato democratico e di mutuo soccorso”. Correda il volume una biografia ragionata in calce al libro offre un prezioso aiuto per un approfondimento dei molti temi trattati e delle loro interrelazioni.


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Per diverso tempo gli ecologisti, e soprattutto i partiti verdi, si sono divisi tra critici e oppositori del processo d’integrazione europea da un lato e fautori dello sviluppo di un’Europa unita e democratica dall’altro, senza peraltro che a questo argomento venisse data priorità nell’agenda politica e di trasformazione sociale di queste formazioni. Le cose iniziarono a cambiare dopo la fine della Guerra fredda. A questo punto le opposizioni più radicali, anticapitalistiche, marxiste e pacifiste presenti all’interno soprattutto dei Verdi tedeschi, i Grünen1, fino a quel tempo influenti e a volte determinanti fra gli ecologisti, vennero progressivamente soppiantate da una posizione più pragmatica e costruttiva che fece emergere dalla metà degli anni Novanta un orientamento tendenzialmente europeista, se non propriamente federalista, soprattutto tra alcuni dei principali eurodeputati e leader dei Verdi a livello continentale2. In particolare dalla nascita del Gruppo Verdi nel Parlamento europeo (Pe), dopo la prima esperienza di un coordinamento ristretto di ecologisti ed alternativi, il Green Alternative European Link (Coordinamento europeo verde alternativo), all’interno del Gruppo Arcobaleno del Parlamento europeo tra il 1984 e il 1989, alcuni ecologisti individuarono nella costruzione di un’Europa democratica, federale ed ecologicamente sostenibile una delle condizioni fondamentali per la crescita di una prospettiva politica di pace e benessere tra gli uomini e tra gli uomini e l’ambiente. A dispetto di posizioni euroscettiche o di rifiuto dell’Europa condizionate da orientamenti nazionali contrari all’integrazione continentale che hanno visto soprattutto i Verdi svedesi e inglesi, nonché per qualche tempo anche i Verdi austriaci e finlandesi, esprimere una radicale contrarietà alle Comunità europee - oggi peraltro modificatesi in gran parte - soprattutto alcuni eurodeputati hanno elaborato un “federalismo ecologico”, volto a reindirizzare lo sviluppo dell’integrazione regionale per raccogliere le nuove sfide del XXI secolo (pace, convivenza tra i popoli, eliminazione delle minacce alla convivenza interetnica, tutela degli ecosistemi, economia solidale, riconoscimento delle autonomie regionali e delle minoranze, eccetera). Tra questi si possono ricordare, in particolare, tra gli italiani, il sudtirolese Alexander Langer3, primo co-portavoce del Gruppo Verdi al Parlamento europeo4, la verde e radicale Adelaide Aglietta, la federalista europea Monica Frassoni attuale co-presidente dei Verdi europei insieme a Philippe Lamberts, ed inoltre Daniel Cohn-Bendit, personaggio assai noto come leader della protesta studentesca del Maggio francese


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nel 1968 e poi divenuto uno dei principali politici e intellettuali ecologisti ed europei dagli anni Ottanta nonché europarlamentare ininterrottamente sino ad oggi dal 1994, e attuale co-portavoce del Gruppo Verdi-Ale (Sinistra Alternativa Europea) al Parlamento europeo, dopo esser stato eletto inizialmente in Germania, ed anche principale artefice della ricomposizione dei Verdi francesi e, dal 2009, della nascita del progetto Europe Ecologie, che si è posto lo scopo di riorganizzare e unificare le anime ecologiste presenti oltralpe. Il mutamento di atteggiamento complessivo dei Verdi rispetto all’integrazione europea è stato forse quello più accentuato fra quelli visibili nelle famiglie politiche europee. Pur essendo queste, nonostante la creazione dal 2004 in poi degli europartiti come soggetti riconosciuti dalle istituzioni comunitarie, realtà ancora piuttosto deboli rispetto ai partiti nazionali, va rilevato che l’azione e la proposta degli ecologisti si è caratterizzata negli ultimi anni come profondamente europeista, sia per il contatto e l’ingresso nelle istituzioni europee (in particolare nel Parlamento europeo, ma anche - con una seppur limitata partecipazione - alla Commissione europea, con una rappresentante, Michaele Schreyer, durante il mandato di Romano Prodi), sia per la consapevolezza della necessità di colmare il deficit democratico dell’Unione europea e superare la pretesa del mantenimento della sovranità nazionale (ormai superata dai fatti) al fine di contrastare l’assenza di garanzie di fronte alla deregolamentazione finanziaria internazionale e al predominio dei poteri economici delle lobby multinazionali, sia per sviluppare politiche europee e globali indirizzate ad affrontare efficacemente i principali problemi globali affrontabili soltanto con istituzioni e politiche mondiali quali il cambiamento climatico in atto, il mantenimento della pace, la riconversione ecologica dell’economia. Da un’altra Europa, dai contorni piuttosto vaghi, neutrale rispetto alle due superpotenze e solidale con il Terzo Mondo, composta di regioni autonome, l’“Europa delle regioni”, i Verdi a livello europeo, nei loro principali manifesti e documenti, pur criticando diverse scelte e contenuti dei Trattati perché non sufficientemente democratici o perché principalmente volti a privilegiare ambiti economici e commerciali a discapito del rafforzamento delle politiche ambientali e sociali, hanno iniziato a chiedere un’Unione europea con un Parlamento europeo dotato di tutti i poteri di un organo rappresentativo della volontà europea, una politica estera comune autorevole e un’apertura ai paesi limitrofi, in particolare quelli dell’Europa centro-orientale e dell’area mediterranea. Pur tra differenze, da un rifiuto dell’Europa comunitaria i Verdi sono decisamente approdati al sostegno di una riconversione dell’attuale Unione europea in un’unione di tipo federale continentale ecologica, pacifica e capace di prevenire i conflitti e contribuire al mantenimento della pace.

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Nonostante l’orientamento di fondo sia a favore di un’integrazione politica dell’Europa e abbia emarginato alcune posizioni differenti tra i partiti verdi nazionali, il consenso e l’azione dei Verdi rimane ancora troppo debole per poter trascinare il Parlamento europeo verso questo obiettivo. Alcuni esponenti ecologisti come Daniel Cohn-Bendit, Isabelle Durant, Monica Frassoni e Joschka Fischer fanno parte del Gruppo Spinelli, movimento politico intitolato al federalista Altiero Spinelli fondato nel 2010 e composto da intellettuali e politici di diversa provenienza impegnati a rilanciare il processo di costruzione federale dell’Europa5. L’inadeguatezza, in realtà, riguarda complessivamente la classe politica europea (incluse quelle nazionali) e soprattutto le aggregazioni politiche più importanti, che godono di un sempre più ridotto consenso a fronte della crescita dell’astensionismo e dell’euroscetticismo, se non del rifiuto tout court dell’Europa da parte di movimenti e partiti estremisti (di destra e di sinistra) ed anche, per lo più, di gruppi e movimenti “nuovi” sorti per porre all’attenzione nuove issues (come il partito dei Pirati che ha ottenuto importanti risultati sia in Svezia entrando anche nel Parlamento europeo nel 2009 con due rappresentanti accolti come indipendenti nel Gruppo Verdi-Sinistra Alternativa Europea e poi anche in Germania) e uniti dall’opposizione ai partiti dominanti (come ad esempio il Movimento Cinque Stelle in Italia promosso dal comico Beppe Grillo e già affermatosi come forza politica emergente, con significativi risultati alle elezioni amministrative e certo alle prossime elezioni politiche, nel caos della politica italiana). Anche i Verdi non sempre sono riusciti a mantenere una rappresentanza politica anche minima in diversi paesi, essendosi consolidati stabilmente soltanto in Germania e in alcuni paesi del Nord Europa, oscillando invece tra alti e bassi altrove e godendo di molto limitati consensi nei paesi dell’Europa centro-orientale membri dell’Unione europea ammessi nell’ultimo allargamento del 2004 e del 2007, travolti invece, questi ultimi, dall’affermazione di forze politiche nazionaliste, scioviniste, prevalentemente di centro-destra o di estrema destra. In realtà, alle ultime elezioni europee del 2009, pur caratterizzandosi come fortemente europeisti, i Verdi europei nelle singole elezioni nazionali hanno nel migliore dei casi guadagnato consensi prevalentemente sottraendoli a partiti di centro-sinistra, pur sottolineando una loro posizione autonoma “né di destra né di sinistra” e fortemente ecologista, a favore di un’economia verde per uscire dalla crisi economica, finanziaria ed ecologica che attanaglia l’intero globo accrescendo le diseguaglianze. Inoltre le faziosità, le divisioni, l’appropriazione dei temi ecologisti da parte di liste di disturbo o in programmi di altri partiti hanno ridotto le chances dei Verdi, pur avanzati in diverse situazioni o riconfermati come un soggetto politico affidabile, innovatore e intraprendente, soprattutto in Germania. In Italia, per esem-


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pio, gli ecologisti da un punto di vista politico sono a rischio di estinzione e impegnati in un laborioso e problematico processo di riorganizzazione nella rete Ecologisti e civici mentre soprattutto la componente rosso-verde ha aderito al neopartito Sinistra, Ecologia e Libertà (Sel) e altre componenti e gruppi si sono sparpagliati in altri partiti (come la componente Ecologisti Democratici all’interno del Partito Democratico o altri ecologisti approdati nell’Alleanza per l’Italia, piccola aggregazione fondata su iniziativa dell’ex verde ed ex sindaco di Roma Francesco Rutelli). L’azione e i risultati più interessanti ottenuti dagli ecologisti sono comunque visibili in Germania (il paese in cui ha avuto origine l’ondata verde espansasi poi negli ultimi decenni in tutto il globo, anche se prevalentemente come avanguardia o presenza politica minoritaria), nei paesi del Nord Europa (attualmente formazioni verdi e rosso-verdi partecipano alle coalizioni di governo nazionali in Danimarca e Finlandia ma si hanno all’attivo esperienze in vari paesi dell’Europa occidentale dagli anni ’90) e, soprattutto, al Parlamento europeo. Qui, infatti, e in seno al Partito verde europeo, è possibile individuare le linee guida e l’apporto comune dei Verdi al dibattito e alla costruzione di una prospettiva politica per uscire dalla crisi, una crisi globale, contemporaneamente economica, sociale ed ecologica, che vede oggi l’Europa e la sua moneta come bersaglio, insieme e per la prima volta, al suo travagliato, ma fin qui mai messo in discussione, processo di integrazione. La debolezza dell’Unione europea, il suo carattere ibrido e il vuoto politico (mancanza di potere sovranazionale soprattutto in campo fiscale, monetario, – una moneta senza Stato – economico e di politica estera) sono fattori fondamentali che insieme ai limiti di intervento della Banca centrale europea (Bce), all’assenza di regolamentazioni bancarie e finanziarie internazionali e alle soluzioni ad hoc messe in campo dal Consiglio europeo, altamente tecniche, provvisorie, complicate e lente ad attuarsi, danno un’idea della gravità della situazione e del perché l’Unione europea, i suoi paesi e la sua società siano nel mirino della speculazione finanziaria, più di altre zone del mondo, egualmente se non più disastrate nei loro fondamentali economico-sociali rispetto al Vecchio Continente. Come si è detto, l’azione dei partiti europei (e nazionali) e della politica in senso lato, non è all’altezza della situazione eccezionale venutasi a creare, diretta conseguenza dei ritardi e delle occasioni mancate di adeguamento delle strutture istituzionali dell’Unione europea alle sfide internazionali e alle necessità di intervento per “governare” la globalizzazione economica in atto. In questo contesto è comunque importante mettere a fuoco brevemente come i Verdi europei, una forza politica di dimensioni medio-piccole che dell’ecologia e del cambiamento del modello di sviluppo ha fatto la propria ragione d’essere, stanno

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cercando di rispondere con la proposta di una strategia integrata alla crisi attuale contribuendo a sviluppare azioni di concerto con altri partiti e forze sociali. Partendo dalle posizioni assunte nel manifesto per le elezioni europee del 2009, va sottolineato come i Verdi intravedessero nella crisi globale un’opportunità per trasformare gradualmente e radicalmente il sistema economico e sociale portandolo sui binari della stabilità, della sostenibilità e della sufficienza. Essi proponevano un Green New Deal basato su autonomia energetica, abbandono del nucleare e sostegno allo sviluppo delle energie rinnovabili (grazie ad una Comunità europea per le energie rinnovabili, o European Community for Renewable Energy, ERENE6) al fine di ridurre o eliminare i danni agli ecosistemi, le emissioni “climalteranti”, nonché su produzioni di beni e servizi più ecosostenibili, creazione di “lavoro verde” (cinque milioni di posti di lavoro in cinque anni) e riconversione dell’economia (agricoltura sostenibile ed ecologica e commercio equo, investimenti in istruzione e ricerca, estensione dei diritti sociali e dei lavoratori inclusi le donne e gli immigrati, regolazione del sistema finanziario ecc.). Oltre a quanto detto, i punti qualificanti del programma per rafforzare l’Unione europea e farle assumere un profilo più autorevole consistevano nella previsione di investimenti infrastrutturali per i trasporti ferroviari e per l’ammodernamento energetico e l’adozione di una politica estera nei confronti del mondo indirizzata alla prevenzione dei conflitti mediante un’azione per il rafforzamento delle organizzazioni multilaterali, regionali e delle Nazioni Unite, e delle capacità di sicurezza e di difesa civile dell’Unione europea attraverso la creazione di Corpi civili di pace7. Già in questa prima sommaria presentazione è evidente come i Verdi rimarcassero nel manifesto politico per le elezioni del 2009 l’opzione per un’Europa federale, contrastando nettamente euroscetticismo, ritorno al nazionalismo e chiusure autarchiche. In questi anni, poi, il contributo alla ricerca di soluzioni, alla critica e alla proposta hanno ulteriormente fatto prevalere un atteggiamento costruttivo finalizzato al rilancio della politica europea e dell’Unione europea. L’Unione europea, democratizzata e rafforzata, può contribuire alla soluzione dei problemi e all’avvio di una svolta globale necessaria per uscire dalla crisi epocale, che affonda le sue radici nel neoliberismo selvaggio e nell’incapacità di un sistema capitalistico predatorio e distruttore dell’ambiente di salvaguardare nel lungo periodo le condizioni per garantire la vita umana sul pianeta e accentua nel frattempo le esternalità negative e l’impoverimento della maggioranza della popolazione mondiale. Questo può essere considerato il “succo”, l’essenza di una prospettiva critica ma europeistica e ottimista in opposizione ad una critica negativa dell’Unione europea, rivolta alla sua demolizione o alla rinuncia del processo di integrazione per sostituirlo con una


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rinazionalizzazione delle politiche che trova diversi consensi nella Sinistra europea e che vede nell’integrazione europea soltanto il frutto di una cospirazione economico-finanziaria delle forze capitalistiche8. Nel novembre 2011, al quarto Congresso del Partito verde europeo, venne approvata una risoluzione che individuava dodici azioni per consentire un’uscita progressiva dalla crisi europea e globale9. Dopo un preambolo nel quale veniva evidenziata la “riscossa” che in varie parti del mondo era suonata contro il modello di sviluppo non sostenibile incentrato sulla crescita economica e veniva intrapresa in varie aree del pianeta (dalle Primavere arabe agli indignados al movimento Occupy, ad iniziative ambientaliste e a difesa dei diritti umani) e si constatavano i limiti dell’architettura dell’Unione monetaria europea messi a nudo dalla crisi che rischiava di portare al fallimento i paesi economicamente più deboli dell’eurozona, i Verdi europei dichiaravano di ritenere necessari provvedimenti urgenti, ma ribadivano come l’integrazione europea avesse un’importanza fondamentale avendo consentito il mantenimento della pace nel continente. Di fronte ad un panorama che vedeva fortemente in difficoltà il mantenimento delle conquiste comunitarie, l’erosione della democrazia partecipativa a tutti i livelli e l’avanzamento di populismo ed estrema destra, l’analisi ecologista si spingeva a formulare quattro constatazioni: a) il rigore di bilancio non poteva essere l’unica strategia per affrontare la questione ed in assenza di altre misure avrebbe invece comportato l’aggravamento della recessione economica e della crisi del debito sovrano; b) la situazione della Grecia era frutto di una profonda e lunga crisi e il paese non avrebbe mai potuto rimborsare il debito contratto; c) l’unione monetaria non avrebbe potuto essere sostenibile e reggere a lungo andare senza un’unione fiscale e politica e qualsiasi politica di semplice coordinamento non avrebbe potuto sostituire una vera e propria integrazione; d) la ragione principale della crisi, infine, era imputabile alla diseguaglianza di reddito e di ricchezza e all’indebitamento e all’ipertrofia del settore finanziario il quale, soggiogato dalla speculazione e appoggiato da garanzie e sostegni pubblici, aveva generato l’aumento del credito e dei rischi fino a livello non più sostenibili. Dopo aver riconfermato la necessità di un New Deal i Verdi individuavano in una reale unità dell’Europa, in una distribuzione più equa delle ricchezze, in finanze pubbliche sane e sostenibili a tutti i livelli di amministrazione, nel recupero del ruolo della politica contro la speculazione selvaggia, nell’applicazione del principio “chi inquina paga” a tutte le attività e nella riduzione del deficit democratico, le linee guida per disegnare un futuro diverso e accettabile per le generazioni future. Le dodici azioni chiave avanzate erano così conseguenti a

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Giovanni Salio Al di là della catastrofe. Alternative della nonviolenza per superare la crisi del neoliberismo

Ci avevano avvertito, ma non li abbiamo ascoltati.Un secolo fa, Gandhi lanciò l’allarme, con grande preveggenza e chiarezza: Questa civiltà è tale che con un po’ di pazienza si distruggerà da sola 1.

E a proposito della sua India disse: Dio non voglia che l’India debba mai adottare l’industrialismo secondo il modello occidentale. L’imperialismo economico di un solo piccolo stato insulare (la Gran Bretagna) tiene oggi il mondo in catene. Se un’intera nazione di trecento milioni di abitanti si mettesse sulla strada di un simile sfruttamento economico, essa denuderebbe il mondo al modo delle locuste2.

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E quarant’anni fa fu il Club di Roma a lanciare nuovamente l’allarme, che questa volta era basato su un modello di analisi quantitativa, prodotto da un autorevole gruppo di scienziati e dirigenti industriali. Nel 1972 pubblicarono I limiti della crescita3. Nell’immediato, il libro ebbe un effetto dirompente, ma negli anni successivi fu criticato e denigrato suscitando varie controversie sia sull’interpretazione, sia sul valore delle previsioni e degli scenari. L’operazione di denigrazione e rimozione venne condotta in grande stile da centri di potere economico e non solo. Il risultato si è tradotto in un ritardo di quarant’anni nell’affrontare per tempo le conseguenze della crisi sistemica. Gli studiosi del Club di Roma utilizzarono il modello World 3, che «tiene conto di grandezze quali “popolazione”, “capitale industriale”, “inquinamento” e “terra coltivata”». Queste variabili interagiscono tra loro in modo non lineare, il che vuol dire che spesso nascono effetti indesiderati e controintuitivi. Negli anni seguenti, il modello venne man mano perfezionato, rivedendo le previsioni iniziali mediante dati più accurati che si resero disponibili. Alla prima edizione del 1972 seguirono due revisioni rispettivamente dopo vent’anni4 e dopo trenta5. In occasione dei quarant’anni dalla prima pubblicazione, uno dei coautori, Jorgen Randers, ha pubblicato un nuovo rapporto, 2022: A Global. Forecast for the Next Forty Years6.


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Ugo Bardi, tra gli altri, ha ricostruito la storia del primo rapporto, mettendo in evidenza gli errori commessi, volutamente o per insipienza, da coloro che lo hanno denigrato7. Di particolare interesse è la sintetica ricostruzione storica fatta da Donella H. Meadows8, che ricorda come questo studio sia nato a partire dall’individuazione da parte del Club di Roma di «66 problemi critici cronici» che furono affrontati a partire dal modello World 2 elaborato da Jay Forrester. Egli sostenne che esisteva una causa primaria dei problemi critici cronici: la crescita esponenziale dell’uso di energia, dei flussi di materiali e della popolazione in contrasto con i limiti fisici della terra. Ciò che tutto il mondo vede come la soluzione ai propri problemi è in realtà una causa di quei problemi [...]. I limiti all’espansione fisica della economia umana sono flessibili, dinamici e interconnessi. Alcuni sono stati spinti al rialzo dalla tecnologia, alcuni sono stati erosi al ribasso dal superamento della capacità di carico, dalla cattiva gestione e dai rifiuti. Non sappiamo dove siano, ma sappiamo che su un pianeta finito i limiti sono inevitabili. Se ne eludiamo uno e continuiamo a crescere, incappiamo in un altro. Noi non abbiamo la possibilità di crescere per sempre, disse Forrester. La nostra unica opzione è quella di scegliere i nostri propri limiti, o lasciare che la natura li scelga per noi.

Interpretazioni e narrazioni Sebbene l’attenzione prevalente del sistema mediatico sia focalizzata sulla dimensione economico/finanziaria (debito delle banche e degli stati), la crisi è in realtà di tipo sistemico, con quattro principali dimensioni tra loro fortemente interconnesse: crisi di sostenibilità economico/finanziaria; crisi di sostenibilità energetico/climatico/ecologica; crisi di sostenibilità alimentare; crisi di sostenibilità sociale/esistenziale/etica/culturale.

Crisi di sostenibilità economico/finanziaria Prendiamo in esame, sinteticamente, alcune delle principali interpretazioni, o narrazioni, proposte da vari autori, cominciando dalle due principali narrazioni presenti nei media (Alberto Burgio, “il manifesto”, 29/7/012) : 1) Tesi neoliberista (o di destra). Ritiene che la crisi fiscale sia dovuta a un eccesso di spesa pubblica - i cosiddetti sprechi - in materia di welfare e di pubblico impiego, e alla sproporzione tra retribuzioni e produttività del lavoro. Da

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Giovanni Salio ● Al di là della catastrofe

qui fa discendere, a catena, la crisi dei debiti sovrani, i severi verdetti delle agenzie di rating e le decisioni dei mercati finanziari. Dopodiché la terapia che se ne evince è scontata: essa impone una «rigorosa» politica di tagli, licenziamenti e blocco delle assunzioni, deflazione salariale, privatizzazioni e alienazione del patrimonio pubblico, riduzione delle tutele e dei diritti del lavoro dipendente. L’idea-base di questa visione (coerente col discorso sulle «compatibilità» che da venticinque anni fa proseliti anche a sinistra) è che da mezzo secolo viviamo (più precisamente: la massa dei lavoratori dipendenti vive) «al di sopra delle nostre possibilità». La speranza che la informa è che il «risanamento» della finanza pubblica «rassicuri» i mercati e plachi la fame degli speculatori. 2) Tesi neokeynesiana (o di sinistra). Sostiene che la crisi sia figlia dell’assenza di regole a carico del movimento del capitale industriale (delocalizzazioni) e finanziario (speculazione), della povertà dei corpi sociali (provocata proprio dalle «terapie» propugnate dalla prima ipotesi) e della socializzazione delle perdite dei privati (a cominciare dalle banche, alle quali gli Stati hanno regalato migliaia di miliardi di euro, 4600 nella sola eurozona). Afferma che, lungi dall’essere giudici imparziali, le agenzie di rating lavorano per la privatizzazione delle democrazie (in quanto i governi obbediscono alle loro decisioni), oltre a spianare la strada alla speculazione. Ritiene che le politiche adottate dai governi servano soltanto a drenare enormi ricchezze verso le oligarchie finanziarie. E suggerisce misure di tutt’altro segno: regolazione dei mercati; una riforma della Banca Centrale Europea che che ne faccia una vera banca centrale (come la Fed e la Bank of England, che dal 2008 acquistano massicciamente i rispettivi titoli di Stato); incremento dell’occupazione (a cominciare dal settore ambientale, dal welfare e dalla formazione) e riduzione dell’orario di lavoro per accrescere la domanda aggregata; equità fiscale (anche per mezzo di prelievi strutturali su patrimoni e rendite); drastica riduzione della spesa militare. Si inserisce in questa tesi l’osservazione di Luciano Gallino che ritiene del tutto sbagliata “l’ interpretazione della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale”:

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In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento ha poi avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico9.

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3) Tesi marxista. Siamo in presenza di una delle crisi cicliche del capitalismo,


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che per riprodurre e far crescere incessantemente il capitale deve continuamente innovare il sistema produttivo e ampliare il “contenitore geografico” nel quale opera, che ormai è passato dallo stato-nazione al mondo intero. È quello che David Harvey chiama “L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza”10. Un altro autore, Prem Shankar ha tracciato un ampio affresco storico nel quale si alternano cicli di accumulazione del capitale caratterizzati da crisi, innovazione, caos sistemico, transizione, violenza, guerra11 . Saremo in grado di superare l’attuale crisi sistemica senza cadere in un’ulteriore guerra mondiale, quella “terza guerra mondiale” di cui siamo per il momento i superstiti, secondo quanto ci invita a immaginare e commemorare anzitempo Günther Anders nel suo “Discorso sulle tre guerre mondiali?12 . 4) Tesi gandhiana. Si basa sugli esperimenti di economia nonviolenta condotti da Gandhi e sul suo “programma costruttivo”, come vedremo più avanti. Ha il pregio di essere formulata in termini estremamente chiari, semplici e incisivi, secondo lo stile con cui egli si rivolgeva alle persone più povere e illetterate, contrariamente a quanto avviene oggi con la voluta confusione mediatica, che mantiene nell’ignoranza gran parte della gente. La concezione di Gandhi si basa su un’etica opposta a quella del neoliberismo e la si può riassumere in due aforismi fondamentali, che qualcuno13 considera i “mantra della nonviolenza”: Il nostro pianeta ha risorse sufficienti per soddisfare i bisogni fondamentali di tutti, ma non l’avidità di alcuni. Vivere semplicemente, per permettere agli altri semplicemente di vivere.

Crisi di sostenibilità energetica/climatica/ecologica Siamo in presenza di una crisi energetica permanente, destinata a protrarsi e aggravarsi nel tempo, di cui facciamo fatica a percepire la gravità. Ci siamo abituati ad usare l’energia, soprattutto il petrolio e il gas, come se fosse qualcosa di perennemente disponibile, abbondante e a basso costo. Improvvisamente ci troviamo di fronte al venir meno di queste fonti e pensiamo che gli allarmi siano ingiustificati, frutto solo della speculazione, o di errori di valutazione per eccesso di prudenza. Ma ora le cose sono diverse rispetto alle crisi precedenti, come quella del 1973. La situazione si è enormemente complicata per un insieme di vari fattori: 1) Stiamo raggiungendo, o abbiamo già raggiunto, il “picco di produzione geofisica del petrolio”, ovvero la massima capacità produttiva a

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basso costo, e d’ora in poi crescerà il divario tra domanda, crescente, e offerta, calante. Dapprima questo avverrà lentamente, ma poi sempre più rapidamente14; 2) L’intenso uso dei combustibili fossili, carbone compreso, ha provocato una crescita di concentrazione di gas serra che, continuando con questo andamento, potrebbe raggiungere un punto di non ritorno che innescherebbe un cambiamento climatico globale con conseguenze imprevedibili ma sicuramente catastrofiche; 3) La crescita della domanda di energia, soprattutto petrolio e gas, da parte dei paesi emergenti (Cina e India e più in generale i BRICS, acronimo internazionale di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) sta creando una situazione di tensione nelle relazioni internazionali che facilmente sfocia in guerre per il controllo delle risorse e può degenerare in una guerra su larga scala; 4) Alcuni tentativi in corso, dalla geoingegeneria ai biocombustibili alle tecniche di estrazione da scisti bituminosi mediante fratturazione idraulica, sono rimedi peggiori del male.

Crisi di sostenibilità alimentare È un aspetto della crisi globale trascurato perché continua a colpire, sotto forma di morte per fame endemica, soprattutto i paesi più impoveriti, ma in realtà colpisce anche le popolazioni dei paesi ricchi attraverso le diverse forme di malattie da iperconsumo e cattiva alimentazione (diabete, obesità). Gli effetti del cambiamento climatico globale e della crisi energetica dei combustibili fossili contribuiscono ad aggravare il problema in gran parte dei paesi, suscitando “rivolte per il pane” e aumento della miseria estrema, della fame e delle malattie connesse. Il sistema di produzione e distribuzione basato sulla zooagroindustria di larga scala e su un ampio consumo di prodotti animali (carne, pesce, prodotti caseari) è responsabile di questa crisi, poiché contribuisce a provocare l’emarginazione dei contadini la cui sopravvivenza si basa sull’accesso alla terra e sulla produzione di sussistenza su piccola scala.

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Anche questo ulteriore aspetto della crisi è sottovalutato. Ma una delle principali cause del “disagio di vivere” è la diffusa e crescente perdita di senso della vita, che sfocia in un pandemia di depressione e di conseguenti suicidi (causa di mortalità violenta superiore agli omicidi e alle guerre, secondo i dati dell’Orga-


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Giuseppe Amadio ● Una catastrofe mancata: “Il falco pellegrino”

Giuseppe Amadio Una catastrofe mancata: “Il falco pellegrino” di John A. Baker Per me è stato un incontro casuale, del tutto imprevisto e imprevedibile, questo vecchio libro che narra invece di incontri voluti, ossessivamente e tenacemente ricercati. Racconta infatti di un uomo che, per tutto un lungo inverno insegue, sorveglia, spia una coppia di falchi venuti a svernare dalle sue parti. Tutto qui. Davvero. A che scopo raccontare una storia simile? O, meglio, perché leggere una storia simile? Due soli sembrerebbero gli scopi possibili: conoscere com’è e come vive quella specie animale, oppure scoprire cosa ci sia dietro la singolare ossessione di quell’uomo. La lettura fornirà in effetti una discreta quantità di informazioni in risposta al primo scopo, poche o nessuna al secondo, ma costituirà soprattutto un’esperienza interiore ed estetica del tutto inattesa, l’incontro con una visionarietà sconvolgente e una straordinaria capacità linguistica di esprimerla e restituirla. “La cosa più difficile di tutte è vedere quel che c’è in realtà”. Questo incipit della seconda parte del volume è assai illuminante riguardo all’obiettivo, cosciente o profondo, dell’autore, e al termine della lettura si ha la netta sensazione che lui ci sia riuscito, abbia visto la realtà, oltre l’apparenza, nella dimensione dell’ineffabile, di ciò che non si può veramente dire, ma che lui riesce a comunicarci, grazie a un’incredibile espressività linguistica, proponendoci le sue visioni. Libro di incontri, dunque, e di visioni; libro di un’ossessione che è l’ossessione per la realtà.

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Il libro si articola in tre parti: due brevi, a carattere introduttivo, e una lunga che costituisce propriamente l’opera. Nella prima parte Baker presenta il territorio delle sue esplorazioni, accenna alle motivazioni che lo mossero, alle modalità delle sue osservazioni, e alla struttura del suo racconto, che narra un unico inverno indefinito, comprimendo e fondendo dieci inverni di ricerche. Tra le motivazioni accennate c’è chiaramente anche quella del timore - assai diffuso a quell’epoca - della scomparsa, dell’estinzione del falco pellegrino a causa dell’inquinamento. La presenza di esemplari di quella specie si era in effetti drasticamente ridotta e il declino appariva irreversibile. Di qui la spinta, quasi la missione, che Baker si dà di testimoniare “prima che sia troppo tardi” la straordinaria bellezza di quello che per lui era “un


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Graal”. Le cose, per fortuna, andarono diversamente. La catastrofe temuta non ci fu. Il falco pellegrino non solo sopravvisse, ma addirittura negli ultimi anni è cresciuto raggiungendo un numero di esemplari che in Inghilterra - dicono gli esperti - non si registrava dal XVII secolo. In questa prima introduzione Baker dà già anche ampia prova della qualità della sua scrittura, della ricchezza e dell’originalità del suo lessico, della sua capacità di descrivere paesaggi, atmosfere e persino suoni. Si veda, ad esempio, come descrive la voce del caprimulgo: Il suo canto è come il suono d’un fiotto di vino che scroscia dall’alto in una botte fonda e rimbombante. È un suono fragrante, come un profumo che sale al cielo silenzioso. Alla luce abbagliante del giorno parrebbe più esile e secco, ma l’ombra della sera l’addolcisce e gli dà corpo. Se un canto potesse avere un odore, questo canto saprebbe di grappoli d’uva pigiati, di mandorle e legna scura. Il suono trabocca, e non se ne perde una goccia. Tutto il bosco ne è colmo. Poi cessa. D’un tratto, in modo inatteso. Ma l’orecchio continua a percepirlo, un’eco prolungata e sempre più fievole, che si sperde, sinuosa, tra gli alberi intorno (Muzzio, 1995, p. 3).

Nella seconda introduzione Baker offre al lettore una sintesi delle informazioni da lui raccolte nel corso dei dieci anni di osservazioni, una sorta di trattatello sui falchi pellegrini: misure, colori, peso, dimorfismo sessuale, anatomia, velocità e tecniche di volo; la loro giornata tipo con l’immancabile bagno, i modi in cui uccidono, in cui mangiano la preda; le specie maggiormente cacciate e altro ancora. Un lavoro documentato e scrupoloso che Baker ha sentito la necessità di stendere al servizio dei lettori più digiuni della materia, ma che chiaramente non lo entusiasma (“L’emozione di vedere un pellegrino che si tuffa non può essere definita mediante l’uso di statistiche”) e che sceglie di concludere, rompendo l’ordine naturale del trattatello, con la descrizione dell’occhio. Questa scelta gli permette di passare insensibilmente dagli aspetti tecnici (come sono fatti e come funzionano gli occhi) a quelli visionari che gli sono più propri, conducendo così, con grande eleganza, il lettore alla parte centrale e sostanziale dell’opera. Lo fa paragonando la vista che ha della terra il pellegrino in volo a quella che ha della costa lo yachtsman quando penetra in un lungo estuario (esperienza che probabilmente visse): una scia d’acqua che recede alle sue spalle, la scia dell’orizzonte perforato che scivola via all’indietro, a dritta e a manca. E così prosegue:

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Giuseppe Amadio ● Una catastrofe mancata: “Il falco pellegrino”

Come il navigatore, il pellegrino vive in un mondo flottante privo di punti d’appoggio, un mondo di scie e d’inclinazioni, di piani strapiombanti di terra e d’acqua. Noi che siamo ancorati e legati alla terra non possiamo neppure immaginare questa libertà dell’occhio. Il pellegrino vede e ricorda disegni di cui non conosciamo neppure l’esistenza: i precisi riquadri dei boschi e dei frutteti, l’infinito variare dei quadrilateri dei campi. Trova la sua strada sulla terra grazie a una successione di simmetrie impresse nella memoria. Ma che cosa capisce? ‘Sa’ veramente che un oggetto che s’ingrandisce avanza verso di lui? O crede nella grandezza che vede lui, per cui un uomo lontano è troppo piccolo per fargli paura e un uomo vicino è un uomo immenso e perciò terrificante? Può darsi che viva in un mondo d’infinite pulsazioni, di oggetti che eternamente contraggono o dilatano le proprie dimensioni. Prendendo di mira un uccello lontano, un bianco frullo d’ali, può darsi che senta - mentre s’allarga sotto di lui come una macchia bianca - di non poter mai sbagliare il colpo. Tutto quello che è, s’è sviluppato in modo da unire l’occhio che prende la mira all’artiglio che vibra il colpo (p. 26).

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La terza parte s’intitola “Vita di cacciatore” e costituisce, come s’è detto, la sostanza dell’opera: un diario che inizia il primo ottobre e termina il 4 aprile, i mesi in cui il cielo notturno del nostro emisfero è dominato dall’inconfondibile costellazione di Orione, il cacciatore, e quelli in cui i falchi pellegrini venivano a svernare nella campagna a oriente della casa di Baker, un tratto di colline, boschi e coltivi, di circa trenta chilometri di lunghezza e quindici di larghezza, percorso da un fiume che sfocia a estuario. Un territorio raggiungibile da Baker in bicicletta e attraversato da una fitta rete di sentieri e strade campestri. Baker si è scrupolosamente impegnato a espungere dai suoi appunti ogni riferimento preciso ai luoghi: si limita ai nomi comuni quali il fiume, l’estuario, l’isola, la diga, il ruscello, i campi, i prati ecc. o inventa improbabili nomi propri quali il Bosco del Nord e quello del Sud. In questo modo, come già ha fatto fondendo in un unico fittizio inverno gli incontri di dieci anni di escursioni, egli crea dagli appunti reali un territorio ideale, un luogo della mente (“una terra, per me, prodiga e gloriosa come l’Africa”), e rende così il suo racconto ovunque e sempre attuale, sempre accessibile alle nuove generazioni (e agli anziani che lo scoprono quarant’anni dopo). In ciascuno dei giorni “diarizzati” s’incontra il pellegrino, ma in modi e contesti sempre diversi. Ogni volta l’ambiente, il clima, la luce, i suoni e i rumori, le piante e gli altri animali osservati, prevalentemente, ma non solo, uccelli, diventano la tavolozza dei colori con cui Baker dipinge una nuova fantasmagorica tela, a tinte forti. Dipinge con le parole, con il suo stile ricco di metafore inattese, di arditi accostamenti, di forzature e invenzioni linguistiche. La sua è


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una prosa impegnativa, non sopporta la lettura veloce e tanto meno distratta, la lettura selettiva che soffermandosi qua e là consente (per molti testi in prosa) di indovinare-ricostruire adeguatamente l’insieme. C’è chi la definisce una prosa poetica: di certo pretende la stessa attenzione, di certo ogni giorno di diario equivale a una lirica. Non c’ è vero sviluppo narrativo, intreccio, ma le diverse “stanze” (le giornate del diario) sono unificate da un’atmosfera di catastrofe imminente, talvolta addirittura già avvenuta, un’acuta melanconia, il rimpianto di una gloria intravista e irrimediabilmente perduta. Un altro elemento caratteristico è dato dal ruolo del protagonista umano, il quale, nonostante costituisca la voce narrante, si riduce ad annotazioni minime ed esclusivamente funzionali al dipinto, alla visione: “ho scavalcato il colle fino a raggiungere l’estuario meridionale”. In realtà il narratore/creatore tende a estinguersi nella sua visione, ad annullarsi nello spettacolo che mette in scena, a diventare l’oggetto della sua scrittura: il falco, ma anche la sua preda, i boschi, le paludi salate dell’estuario, la terra, il cielo. Il desiderio di lasciare/superare la dimensione umana, che il lettore attento ritrova in ogni pennellata dei quadri di Baker, è anche detto e confessato programmaticamente fin dall’introduzione, là dove fornisce istruzioni a chi volesse imitarlo nella sua singolare caccia al pellegrino: Per essere riconosciuto e accettato da un falco pellegrino devi portare la stessa roba, viaggiare per la stessa strada, compiere le tue azioni nello stesso ordine. (...) Impara ad aver paura. Avere la stessa paura è il legame più forte di tutti. Il cacciatore diventi la cosa che caccia. Quel che è, lo è oggi, e deve avere la vibrante intensità di una freccia che si pianta in un albero. Ieri è vago e monocromo. Una settimana fa non eri nato. Insisti, continua, segui, osserva (p. 5).

E di nuovo, al termine della prima giornata del diario: Ovunque vada, quest’inverno, io lo seguirò. Dividerò con lui la paura, l’esaltazione e la noia della vita del cacciatore. Lo seguirò finché la mia rapace forma umana non offuscherà più, dal terrore, il mosso caleidoscopio di colori che macchia la fovea profonda del suo occhio lucente. La mia testa pagana sprofonderà nella terra invernale e ne sarà purificata (p.31).

Siamo evidentemente di fronte a qualcosa che è arduo ricondurre nei limiti dei pur benemeriti studi naturalistici, e men che meno delle guide a quel de-

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Giuseppe Amadio ● Una catastrofe mancata: “Il falco pellegrino”

gnissimo passatempo che oggi si chiama birdwatching. Direi che siamo invece di fronte a un’esperienza esistenziale forte, di natura mistica (l’annullamento dell’Io nell’Altro, l’unione del soggetto e dell’oggetto), comunicata non tanto in questi brevi passi programmatici, quanto nei modi e nei contenuti della narrazione di ogni singola pagina di diario. Un’ultima osservazione. Stupisce, credo, ogni lettore il fatto che in una prosa tanto lussureggiante, immaginifica e creativa (una vera faticaccia per i traduttori), non si trovino praticamente mai citazioni, rimandi, echi, allusioni ad altre opere, ad altri scrittori. Come se l’autore non possedesse alcuna cultura letteraria. Oppure (come credo) avesse volutamente escluso ogni riferimento letterario, così come ha ridotto drasticamente i riferimenti geografici, e quelli sul narratore/protagonista, nello sforzo di realizzare un archetipo puro, spoglio di qualsiasi orpello, accessibile dovunque a chiunque. In verità un’immagine letteraria, una sola a mia memoria, c’è, ed è (guarda caso) shakespeariana. La incontriamo verso la fine del diario, il 28 marzo, in uno degli ultimi incontri, quando il falco si lascia via via sempre più avvicinare da quel suo bizzarro e insistente inseguitore: Nei miei riguardi sembrava ancora indifferente, però mi teneva d’occhio, quando mi spostavo, seguendomi o volando più in alto. Mi ha trovato un senso, ma ignoro quale sia. Sono il suo lento e moribondo compagno, il Calibano del suo Ariele (p. 177).

Sono due personaggi della Tempesta, entrambi prigionieri della propria condizione: la materia, la terra, la gravità per l’uno; lo spirito, l’aria, il volo, ma anche l’impossibilità di provare sentimenti per l’altro. Qui entrambi lentamente moribondi. Come s’è detto il falco pellegrino (come specie) è scampato alla temuta catastrofe; Baker, che aveva scelto di seguire l’insegnamento epicureo del vivere nascosto, altrettanto nascosto è morto, ma il suo libro resta a raccontare sfarzosamente il nostro insopprimibile desiderio di vincere la paura, di guardare in alto, di sollevarsi dalla terra.

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Aggiungo alcune informazioni sul libro e sul suo autore. The Peregrine fu pubblicato nel 1967 dall’editrice londinese Collins e conquistò lo stesso anno il Duff Cooper Prize, un prestigioso premio letterario assegnato prevalentemente a opere storiche e biografiche (nel 1976, per dirne


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una, lo ottenne Denis Mack Smith con Le guerre del duce). La prima edizione italiana, per quanto ho potuto appurare, risale al 1979, quando Rizzoli pubblicò Il falco pellegrino nella collana “L’Ornitorinco” diretta da Ippolito Pizzetti. Lo stesso Pizzetti lo ripubblicò successivamente nella sua nuova collana “il corvo e la colomba” presso l’editore padovano Franco Muzzio, ed è proprio questa edizione del 1995, tradotta da Vincenzo Mantovani, trovata in bancarella tre anni fa, che mi ha fatto incontrare Baker e le sue visioni. Dell’autore, J.A. Baker, si sa ben poco e ancor meno si sapeva quando pubblicò il suo primo libro (The Peregrine) dedicato anonimamente “A mia moglie”. Perfino le iniziali erano oscure. Oggi pare certo che si espandano in John Alec. E oggi conosciamo il nome della moglie (Doreen Grace Coe), come conosciamo quello dei genitori, ai quali aveva dedicato, altrettanto anonimamente, il suo secondo e ultimo libro, The Hill of Summer, uscito nel 1969. Sappiamo che nacque da famiglia modesta nel 1926 nella contea dell’Essex e che visse sempre nella piccola città di Chelmsford, dove morì nel 1987. Nel corso della sua vita e ancora per molti anni dopo la sua morte non si sapeva niente di lui: basti pensare che l’edizione italiana del suo secondo libro, uscita da Gea Schirò nel 2008 con il titolo L’estate della collina, nella traduzione di Salvatore Romano, indica solo la data della nascita, mostrando di non conoscere ancora quella della morte. L’estrema riservatezza sua e della sua famiglia, e l’assenza di notizie biografiche fecero fiorire ipotesi e leggende. Si disse che faceva il bibliotecario (questo avrebbe spiegato la sua ricchezza ed espressività linguistica, straordinaria per uno di cui non si conoscevano titoli accademici né appartenenze a circoli culturali); si disse che avesse scritto il Pellegrino dopo aver avuto notizia di un male incurabile (e questo avrebbe spiegato il carattere ossessivo e l’atmosfera di tragedia imminente del suo libro). La moglie, che gli sopravvisse fino al 2006, negli ultimi anni mise a disposizione i suoi diari e grazie a lei ora possediamo informazioni attendibili. Non fu mai bibliotecario, bensì direttore dell’equivalente del nostro Automobile Club (ironia del destino: lui che non sapeva guidare l’auto e si muoveva solo in bicicletta!) e poi dei magazzini Britvic. Negli anni in cui dedicò il suo tempo libero alle osservazioni naturalistiche da cui nacquero i due libri, non aveva malattie mortali annunciate né in corso. Soffrì successivamente di artrite reumatoide e le cure a cui si sottopose produssero, come “effetto” quanto mai “indesiderato”, un tumore che lo uccise. Le sue opere sono state continuamente ripubblicate in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in molti altri paesi. Nel 2010, ancora con il marchio Collins, è uscita a Londra l’opera omnia di Baker, ovvero The Peregrine, The Hill of Summer e Diaries, dalle cui introduzioni sono ricavate le notizie sopra riassunte.

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Giuseppe Amadio ● Una catastrofe mancata: “Il falco pellegrino”

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Giuseppe Amadio (giuseppe.amadio@gmail.com). Insegnante e sindacalista della CGIL, redattore di numerosi periodici alessandrini come ”Quaderno di scuola”, “La settimana”, “La città”, autore di libri di lettura e sussidiari per la scuola primaria. Già segretario dell’associazione politico-culturale alessandrina Città Futura e primo coordinatore del suo sito, cura attualmente il periodico della Cgil alessandrina “Lotte unitarie” operando nella struttura provinciale del Sindacato pensionati.


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Renzo Penna ● Geografia fisica tra armonia e devastazione

Renzo Penna Geografia fisica tra armonia e devastazione: “Il Bel Paese” di Stoppani, “Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia” di Stella e Rizzo e “Paesaggio, Costituzione, Cemento” di Settis

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Che l’Italia sia - o, come sarebbe meglio dire, fosse - un “Bel Paese” lo sostenevano senza avere dubbi i nostri grandi antenati: Dante, nel canto di Ugolino, parla del “bel paese dove il sì suona”, Petrarca, nel rivolgere le sue lodi a Laura, si compiace che le sentano nel “bel Paese Che Appennin parte e’l mar circonda e l’Alpe”. E de “Il Bel Paese”, sottotitolato “Conversazioni sulle bellezze naturali. La Geologia e la Geografia fisica d’Italia”, scrive e nel 1876 pubblica l’abate Antonio Stoppani1 con un notevole successo editoriale che ne ha fatto “il terzo libro per numero di edizioni, del secolo XIX, dopo I Promessi Sposi ed il Cuore di De Amicis”2. La dimostrazione di quanto a fine Ottocento il libro fosse popolare è testimoniata dalle innumerevoli edizioni e dal suo ingresso nel circuito scolastico. Nel panorama italiano di quegli anni in cui la cultura scientifica risultava decisamente limitata, Stoppani scrive uno dei pochi libri divulgativi che abbiano per oggetto “la cognizione fisica del nostro Paese”. È dalla natura, nella varietà e nella bellezza delle sue forme, che Stoppani attinge ispirazione per la scrittura. Come lui stesso spiega ai lettori - e tra di essi gli uditori privilegiati sono i maestri e le maestre dell’Italia unita - il piano del lavoro è semplice. Senza obbligarsi ad un traccia prestabilita l’autore si cala nelle vesti di uno zio naturalista che racconta ai nipoti le sue escursioni ed i suoi viaggi da un capo all’altro del “Bel Paese” descrivendo le bellezze naturali dei paesaggi italiani insieme alle loro peculiarità. Ogni giovedì sera - per XXIX Serate - i bambini ascoltano con i genitori radunati attorno al camino i racconti che affrontano in modo semplice, ma rigoroso nei dettagli e scientificamente documentato, lo studio della geografia delle Alpi o la geologia degli Appennini e dei vulcani, la storia dei ghiacciai e la fosforescenza del mare o l’importanza dei giacimenti petroliferi italiani. Il tono colloquiale, familiare e autoironico, mai supponente o borioso, cela una conoscenza approfondita degli argomenti trattati da parte di un zio solo apparentemente semplice e bonario: in realtà si tratta dello Stoppani geologo, paleontologo, docente universitario, direttore di museo ed autore di studi di rilevanza internazionale nonché appassionato patriota dell’Italia unita. Ogni


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escursione è motivo per approfondire un argomento scientifico con naturalezza e leggerezza così da suscitare la curiosità ed il diletto dei suoi giovani uditori (tra di essi anche la piccola Maria Montessori3). Per gli alunni dell’Italia da poco unificata il libro di Stoppani presentava l’indubbio vantaggio di offrire un piacevole compendio degli aspetti naturalistici del nostro paese, dalle Alpi, alle Prealpi, agli Appennini, con la descrizione di cascate, laghi, fiumi, torrenti, sino a raggiungere il mare, soffermandosi nel contempo a spiegare alcuni fenomeni naturali come le eruzioni vulcaniche (illustrate attraverso la storia del Vesuvio nelle diverse fasi storiche e dell’Etna) e i più importanti eventi del regno animale, come il letargo e le migrazioni, o i caratteri zoologici e i costumi dei pipistrelli. La narrazione si sviluppa all’interno di una cornice che è occasione di racconto e di insegnamento, ma anche di riunione famigliare facendo coincidere una duplice concezione pedagogica e morale. L’intento è quello di parlare al più vasto pubblico degli allievi delle scuole italiane, quelle cittadine e, a maggior ragione, quelle rurali che, spesso, faticavano a sopravvivere. In un’Italia ancora sconosciuta alla maggior parte degli Italiani è alla scuola che Stoppani attribuisce il compito più importante. Attraverso l’insostituibile lavoro dei maestri l’autore si augura che le sue pagine abbiano fortuna e si diffondano in ogni parte del Paese affinché sia possibile insegnare: “agli abitanti di quelle contrade ad apprezzare un po’ meglio se stessi e le bellezze di cui la natura , ministra di Dio, non fu avara nelle diverse province d’Italia” (Agli Institutori, p. 6)4. E non mancano da parte dello zio-abate, nel commentare i diversi episodi, gli insegnamenti e gli indirizzi di valore da tenere in maggior conto nella vita, come quando a proposito della felicità sostiene che: La felicità non cresce dunque in proporzione all’avere. Il sapere e la virtù, non le ricchezze materiali, sono le vere fonti della felicità: e questa naturalmente tanto più aumenta, quanto quelle sgorgano più copiose (Serata V pag. 84).

Nel 1906, morto ormai da anni lo Stoppani la sua immagine e il titolo del libro, per effetto della loro notorietà, furono utilizzati per dare il nome ad un formaggio. Ci pensò Egidio Galbani ad invadere i mercati con l’etichetta che sulla forma rotonda riproduceva in effigie il celebre abate e il suo titolo più famoso. Col tempo il formaggio, che tuttora esiste, più prosaicamente finì con l’eclissare il libro, uscito dalla lettura collettiva e quasi del tutto dimenticato nel secondo Novecento. L’opera trascurata ed entrata nell’oblio è stata di recente (2009) riproposta dall’Editore Nino Aragno come un ideale tassello della biblioteca degli italiani. L’editore ha integralmente riprodotto l’edizione datata 1876 che si presume sia stata la prima, mentre a presentazione dell’opera vi è

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una ricca e documentata introduzione di Luca Clerici. Dove, da una parte si propone un profilo biografico e scientifico dell’autore e dall’altra si ricostruisce la fortuna del “Bel Paese”, capolavoro della divulgazione naturalistica italiana dell’Ottocento, soffermandosi sugli elementi contenutistici e formali. A emergere è il ritratto di un illuminato uomo di scienza e religione, capace di guadagnarsi dapprima la stima della comunità scientifica come pioniere della geologia regionale, per orientarsi in seguito nella direzione della divulgazione popolare. Infatti fu proprio con Il Bel Paese che l’abate Stoppani raccolse un vasto consenso di pubblico, specialmente tra i nuovi lettori, come donne e fanciulli alfabetizzati grazie alle leggi sulla scolarizzazione obbligatoria. Nel racconto si può riscontrare una seconda coincidenza. Infatti la prospettiva ambientale si salda agli ideali risorgimentali. Non a caso il viaggio è anche un lungo racconto dell’Italia post unitaria. Il punto di vista dell’autore non è nostalgico, ma proiettato al futuro come dimostra la compiaciuta descrizione delle linee ferroviarie che percorrono e collegano la penisola consentendo la visione di scorci di rara bellezza. La conoscenza dell’Italia e delle caratteristiche del suo paesaggio come ideale civile di rispetto dei rapporti tra l’uomo e l’ambiente benché quest’ultimo sia il protagonista assoluto della narrazione. La riproposta di questo testo, doverosa dopo anni di disattenzione, è risultata, in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ancora più opportuna, per ricordarci, come scrive Stoppani con orgoglio, che il nostro Bel Paese è forse il più ricco al mondo “di fenomeni e di naturali bellezze”. L’autore fu un precursore di quella sensibilità nei confronti della bellezza e della varietà dei paesaggi italiani che solo molti decenni dopo si sarebbe insinuata nella coscienza collettiva. Fu una sorta di ambientalista ante litteram, che probabilmente oggi inorridirebbe di fronte alle devastazioni ambientali, all’inurbamento selvaggio, alla progressiva distruzione della straordinaria ricchezza del paesaggio italiano. Ma comunque già attento a denunciare la scomparsa di un “foltissimo bosco” che rivestiva una vasta porzione del fianco del monte Legnone: “caduto ora sotto la scure vandalica che rese ignude e deserte le montagne del Lario e della Valtellina” (Serata XII pag. 207) e a stigmatizzare chi tra i visitatori delle “caverne di Vall’Imagna” non sa rispettare le stalattiti. O a segnalare tra i ghiacciai delle Alpi la regressione e il danneggiamento di quello del Forno, una anticipazione dell’attuale generale fenomeno della riduzione o della scomparsa dei ghiacciai alpini dovuta al mutamento del clima e all’aumento delle temperature. Il Bel Paese che Stoppani percorre in lungo e in largo e descrive presenta grandi spazi e la campagna, dappertutto ben coltivata e irrigata nella pianura lombarda o solo in parte nel territorio di Napoli, quello di Catania e alcuni distretti delle Puglie per la sussistenza del latifondo, è comunque sep-


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arata e distinta dalle città. Così in gran parte dell’Italia meridionale e anche centrale “i borghi e le rade città, cinti di una bella aureola di colti, mi apparvero sempre come oasi in seno del deserto” (Serata XIII p. 227). Spazi che diventano zone impervie e poco battute quando si tratta di inerpicarsi sui monti, salire sui ghiacciai e ridiscendere a valle senza altro aiuto che le proprie forze. Nell’introduzione del “Bel Paese” così l’autore si esprime in una sorta di comparazione-competizione con le caratteristiche del territorio svizzero in allora più conosciuto e “percorso” dai viaggiatori: … ma il mondo fisico della Svizzera, si riduce, possiam dire, alle Alpi; mentre il nostro mondo è assai più vasto e infinitamente più ricco di fenomeni e di naturali bellezze. Alle bellezze ed alle ricchezze scientifiche delle Alpi, noi aggiungiamo quelle così diverse dell’Appennino; e quando avremmo descritto i nostri ghiacciai, le nostre rupi e le gole delle Alpi e delle Prealpi, troveremo altri nuovi mondi da descrivere: le emanazioni gassose, le fontane ardenti, le salse, i vulcani di fango, i veri vulcani o vivi o spenti, il Vesuvio, l’Etna, poi ancora il mare e le sue isole, i climi diversi, le diverse zone di vegetazione, dalla subtropicale alla glaciale e così via discorrendo, ché l’Italia è quasi (non balbetto nel dirlo) la sintesi del mondo fisico (Agli Institutori, p. 3).

Lo Stoppani fu anche un convinto estimatore dei geositi, quei luoghi che non determinano solo la forma peculiare del paese e la varietà dei nostri paesaggi, ma che costituiscono meraviglie della scienza e monumenti della natura di indiscutibile valore culturale. Analizzò a fondo la storia dei grandi ghiacciai e dei loro movimenti nel corso delle ere geologiche. Indagò anche sui massi erratici trasportati dai ghiacciai: fra questi descrisse il famoso e colossale Sasso di Preguda (Lecco), di ben 100 metri cubici di roccia. Il Bel Paese è dunque un viaggio nell’Italia di metà Ottocento, con le sue intatte bellezze naturali raccontate però da un geologo che sa spiegare bene i diversi fenomeni naturali ed è insieme ammirato e appassionato del suo Paese. Naturalmente il Paese che percorre e racconta Stoppani è un paese preindustriale che lavora e vive nell’agricoltura, l’unica industria degna di nota è quella mineraria, la popolazione è meno della metà di quella attuale5 e, per viaggiare, nelle lunghe distanze si va con il vapore, in treno o con il piroscafo a ruota; in quelle intermedie si prende il “calesse”, si noleggia un “prosastico baroccio”, una capace “vettura a due” cavalli o ci si accontenta di un “carro” e nelle situazioni più difficili, se si ha fortuna, si può trovare un “ronzino” o, più sovente, si usano le gambe. È stata soprattutto la ferrovia che, dopo l’Unità, ha contribuito a collegare le differenti realtà dell’Italia. Su impulso di Cattaneo e Cavour

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si è in pochi anni per questa via vinta una sfida ardita per un paese pieno di montagne e già nel 1890 il grosso della rete era ultimato. Come racconta Paolo Rumiz - anch’egli un instancabile camminatore e scopritore del paesaggio italiano - il nostro sistema ferroviario raggiunse l’apice nel 1940: 42mila chilometri di rete, 330 milioni di passeggeri, 190 milioni di tonnellate di merci trasportate. Il fischio del treno raggiungeva ogni sperduto paese. Poi vennero il boom economico, la gomma e la dismissione delle linee.6

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E l’abate di idee liberali che in gioventù è stato un attivo patriota utilizza il moto della ferrovia per descrivere le bellezze dell’italico paesaggio. Così la ferrovia dell’Italia meridionale da Ancona a Brindisi, “forse la più amena tra le ferrovie di Europa, costeggia l’Adriatico per ben 15 ore di furioso cammino. Ridenti colline, fantastiche rupi, castelli pittoreschi, storiche ruine, deliziose città, sfilano (…) sotto gli occhi del viaggiatore, che percorre, a tutta foga di vapore, uno dei grandi lati di questo incantevole giardino che si chiama Italia” (Serata IX, p. 154)”. O partendo in treno dalla stazione di Milano diretto ad Arona “col capo allo sportello” e lo sguardo fisso a settentrione in direzione delle Prealpi si vedono passare in rassegna come un esercito di giganti: “primo il mio Resegone colle creste dentate; poi le due Grigne … poi l’acuto Bisbino, e dietro di lui il massiccio Generoso; poscia il gran dente del Poncione di Ganna, e in ultimo il Campo de’ Fiori, che digrada con una serie di colli sino alla sponda del lago Maggiore” (Serata VII p. 123).” Ma il paesaggio costituito da “l’immenso piano, i colli, le Prealpi e le Alpi” si può gustare anche nella città, a Milano, salendo sul Duomo, sempre che il tempo sia sereno, e non nevichi. Perché allora una abbondante nevicata, nella grande città di fine Ottocento, diviene un avvenimento che richiama eserciti di contadini i quali “vengono dalla campagna a spalare la neve cittadina, lieti che essa prepari loro una grassa giornata.” E lo spettacolo per i bambini ed i ragazzi che escono dalla scuola non manca certo in presenza dei “mucchi di neve allineati dagli scopatori sui due lati della via” da scavalcare, mentre “i carri, i cavalli, sono coperti di neve; i condottieri biancheggiano, anzi tempo canuti, o per la neve che li ricopre, o per una bella fioritura di brina, che si va sviluppando sulle barbe, sui capelli, come una crittogama…” (Serata V p. 80).


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Patrizia Nosengo ● “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler

Patrizia Nosengo Il “Tramonto dell’Occidente” di Spengler ieri e oggi

Molti pensatori del Novecento ebbero il destino ingrato di divenire simbolo di un’epoca e di una corrente ideologica e di essere assunti come “personaggi”, oggetto di generici giudizi politici, più che come studiosi degni di autentica apertura e attenzione intellettuale, sì da scatenare lungamente nei contemporanei e nei posteri passionali attrazioni e altrettanto viscerali repulsioni. Oswald Spengler è stato senza alcun dubbio un personaggio controverso di tal genere, cosicché, nell’approcciarsi alle sue opere fascinose e dense di nodali riferimenti alle crisi plurali dell’epoca sua e della nostra, è d’obbligo fare saldamente appello a quel monito spinoziano - “Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere”1 – che dovrebbe essere l’orizzonte d’ogni riflessione ermeneutica, ma che diviene addirittura guida imprescindibile dinanzi a ciò che, con felice espressione, è stato definito “il caso Spengler”2.

Spengler e la rivoluzione conservatrice

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Quando, nei giorni fatali del 1918, il primo volume del capolavoro spengleriano fu pubblicato, il successo fu immediato e senza precedenti e ai contemporanei l’opera parve essere - e in effetti era - uno di quei testi che sanno cogliere lo spirito di tutta un’epoca. Già il titolo, Der Untergang des Abendlandes, era di per sé affascinante3 e capace di restituire il senso allora diffuso e crescente dell’incombente tragedia e del declinare lento e inarrestabile di un mondo che già nel suo nome, Occidente, le terre della sera, implica l’occaso, la dissoluzione, l’ineludibile fine. Non casualmente, il primo volume dell’opera scatenò un dibattito serrato, che coinvolse non soltanto l’intellighentia tedesca, ma anche importanti studiosi europei4. Esso si inseriva, da un lato, nel panorama delle Lebensphilosophien di cui parla Dilthey in relazione alle posizioni sorte a cavallo tra XIX e XX secolo, dall’altro nel contesto culturale della Germania del primo Novecento, in quella corrente che, con designazione controversa e ossimorica, è stata definita “rivoluzione conservatrice”5 e che, come rammenta Stefan Breuer 6, raggruppava rappresentanti del Bildungsburgertum, il ceto intellettuale borghese tedesco, prodotto dal congiungersi di cultura lu-


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terana e pietistica, educazione classica e onnipresente influenzamento dello Stato sugli intellettuali accademici. Spengler e gli altri esponenti della rivoluzione conservatrice si formarono nel contesto sociale ed economico profondamente lacerato e frammentato di una rivoluzione industriale tardiva, nel quale convivevano e confliggevano reciprocamente parti diverse della borghesia e differenti stadi di modernizzazione, cosicché allo Stato era affidato il compito di conferire e garantire ordine e armonia ad una società civile attraversata e sconvolta dalla modernità e nella quale i progetti culturali e la Weltanschauung del Bildungsburgertum, ossia la concezione del mondo della “borghesia della fase di formazione”, col suo spirito da capitalismo nascente proprio della vecchia Germania, ineludibilmente si sgretolavano sotto l’urto della rapida industrializzazione, di un progresso delle scienze e delle tecniche che rendeva alieni e obsoleti gli studi umanistici, e della nascente società di massa, con le sue omologazioni e la sua estraneità alla cultura e alla tradizione. Nasce probabilmente da ciò quella koinè culturale radicata nella percezione della crisi e del declino che accomuna Spengler , Junger, Schmitt, Boehm, Stapel, Stadtler, Ziegler, von Gleichen, Freyer, Edgar Jung e altri; e della quale il Tramonto dell’Occidente può essere considerato il manifesto più compiuto e certamente più noto. Vi emergono, infatti, tutti i temi cari ai rivoluzionari conservatori: un profondo sentimento di angoscia esistenziale, l’orrore per tutto ciò che è meccanico, l’anti-intellettualismo, il vitalismo, l’attivismo, il comunitarismo tradizionale, la contrapposizione di una nuova unità organica all’atomizzazione della modernità, il senso apocalittico della catastrofe e della fine delle certezze, l’anti-socialismo e il rifiuto del marxismo7. E tuttavia irrigidire la lettura dell’opera di Spengler all’interno delle categorie circoscritte della rivoluzione conservatrice tedesca e dei suoi sviluppi politici8 impedirebbe di comprenderne appieno la molteplicità dei significati e di cogliere, come vedremo, i numerosi elementi di attualità che la contraddistinguono e la valenza lucidamente profetica delle sue visioni di un Occidente giunto sull’orlo dell’abisso.

Lo storicismo atipico di Spengler9 Nel 1922, all’indomani della pubblicazione della seconda parte de Il tramonto dell’Occidente, Ernst Troeltsch ebbe a dire, con lucidissimo quanto severo giudizio, che le epoche “tranquille” favoriscono una contemplazione imparziale della storia e che, al contrario, le epoche “inquiete” tentano “grandi ricapitolazioni e visioni sinottiche”, nelle quali non vi è spazio alcuno per l’oggettività, la precisione e la critica10. E in effetti Il tramonto dell’Occidente, concepito e scritto

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Patrizia Nosengo ● “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler

nell’epoca certo più inquieta e tragica della modernità, si presenta come una voluminosa sintesi, poliedrica e talora contraddittoria nelle riflessioni, negli esiti e nei riferimenti pluridisciplinari, che ambisce alla determinazione di una “prognosi della storia” e vichianamente si domanda se esista una “struttura, diciamo così, metafisica”11 soggiacente agli accadimenti singoli, a partire dalla quale sia possibile inferire gli stadi ulteriori di una civiltà12 e costruire una “storia mondiale”, mediante una “morfologia del mondo inteso come storia”, che abbracci “tutte le forme e i movimenti del mondo nel loro più profondo, ultimo significato […], nei termini […]di una immagine della vita”13. Si tratta, secondo Spengler, di abbandonare la visione tolemaica della storia, in nome della “scoperta copernicana” di un sistema “nel quale l’antichità classica e l’Occidente cessino di avere una posizione privilegiata”14. L’intento di Spengler è quello di costruire una storia mondiale policentrica, multipolare, scardinata dal prospettivismo egocentrico che ha contraddistinto lo sguardo dell’Occidente sull’altro da sé e nella quale diviene centrale la categoria della civiltà. L’atipico storicismo spengleriano si presenta dunque come radicalmente relativistico, nonché vitalistico15: Invece della squallida immagine di una storia mondiale lineare […], io vedo una molteplicità di civiltà possenti, scaturite con una forza elementare dal grembo di un loro paesaggio materno, al quale ciascuna resta rigorosamente connessa in tutto il suo sviluppo: civiltà, che imprimono ciascuna la propria forma all’umanità, loro materia, e che hanno ciascuna una propria idea e proprie passioni, una propria vita, un proprio volere e sentire, una propria morte 16.

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La comprensione della storia si pone allora come comprensione di una simbolica universale, che si rivela all’intuizione e non alle procedure dell’intelletto fondate sulla categoria della causalità: “nessuna ricerca storica pura e profonda cerca dei determinismi causali”17 e “voler trattare scientificamente la storia sarà in fondo sempre qualcosa di contraddittorio […]. La natura va trattata scientificamente, la storia poeticamente”18, cosicché alla morfologia sistematica del meccanico e dell’esteso, che si occupa della legge naturale (“das Gesetze”, ciòche-è-posto ed è dunque forma di una necessità anorganica che non ammette eccezioni), occorre contrapporre la “morfologia dell’organico, della storia e della vita, di tutto ciò che contiene in sé una direzione e un destino”19. Ne consegue una antitesi gnoseologica, sebbene non ontologica, di storia e natura, che è opposizione tra divenire e divenuto, fisso e a-storico, tempo e spazio, anima e mondo, vita e conoscenza, intuizione e intelletto, Sein (essere) e Wachsein (l’essere desto), inteso come “tensione ed estensione”20.


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Morfologia, fisiognomica e storia mondiale Se la storia coincide con la vita e la vita è la realizzazione in atto di ciò che per destino deve realizzarsi21 in un mondo immanente, privo di presupposti e finalità, allora l’approccio alla storia non può avvenire mediante strumenti razionali e linguistici, bensì soltanto in virtù dell’intuizione e dell’istinto22 e mediante uno sguardo “fisiognomico” sul divenire23. Qui la nozione goethiana di morfologia si coniuga con la categoria della fisiognomica, la “scienza” che inferisce dai tratti del volto umano indicazioni relative ai caratteri spirituali dell’individuo. Essa, in quanto “morfologia dell’organico”, si fa, come bene osserva Giurisatti, “fisiognomica del volto della storia”24, vale a dire rimanda al volto particolare, singolare della storia, al suo essere Dasein (esserci) in divenire, al suo comporsi di parti epistemologicamente individuali, che tuttavia sono simboli singoli di una totalità; e conduce al disvelamento dei caratteri spirituali che soggiacciono agli accadimenti, consentendo la costruzione di una sinossi, che è visione eminentemente unitaria e simbolica della realtà diveniente. Ciò significa che è la forma e non la legge a rivelare il contenuto di ogni esistenza storica e di ogni suo carattere, cosicché potremmo parlare di una visione gestaltica della realtà. Tale visione si traduce in una posizione radicalmente relativistica e nichilistica. Spengler osserva che tutto il sapere umano è in ultima analisi una fisiognomica, giacché “in ogni scienza l’uomo racconta di sé medesimo”25 e dunque non soltanto liquida la nozione di oggettività scientifica e pone la verità come situata e relativa26, ma concepisce la stessa Physis come prodotto culturale dell’uomo, un “essere per noi”27 in quanto Wachsein, essere desto, immagine rappresentazionale del divenuto, generata dall’orizzonte culturale all’interno del quale si situa.

La concezione ciclica della storia Spengler rifiuta la rappresentazione lineare della storia, a favore di una concezione ciclica e discontinua, che ritiene capace di illuminare la “struttura periodica” del divenire28. Si tratta di una scelta rivelatrice dello sfondo nichilistico e delle matrici saltazionistiche della sua peculiare riflessione sulla nozione di sviluppo. Anzitutto, la categoria della ciclicità della storia si pone come una sorta di algoritmo della ricorsività, peculiare del radicale immanentismo ontologico della “logica” nichilistica29, secondo cui, in un mondo che non ha altrove e che non può oltrepassarsi, l’unico fondamento dell’essere è la volontà di potenza30. In secondo luogo, all’idea di progresso si sostituisce quella di uno sviluppo privo

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di télos, che non risponde a quel principio di causalità che, con un evidentissimo riferimento a Nietzsche31, è declinato da Spengler nei termini della categoria dell’apollineo: Mediante il concetto di causalità, l’angoscia della vita cerca di difendersi dal destino, creando contro di esso un altro mondo32.

Egli ricusa dunque la teleologia kantiana, il materialismo storico e il darwinismo, che accusa di utilitarismo, ai quali oppone un modello a salti, mutazionistico e catastrofistico dell’evoluzione, secondo cui la comparsa delle specie e di quei particolari organismi che sono le civiltà avviene per discontinuità, in virtù della improvvisa e incausata produzione di nuove mutazioni, sia biologiche, sia spirituali: Troviamo forme del tutto fisse e invariabili in lunghissimi periodi, forme che non si sono sviluppate per adattamento, ma che sono apparse d’un tratto nella loro struttura definitiva, che non si trasformano in altre più adatte all’ambiente ma si fanno invece sempre più rare e infine scompaiono, mentre altre specie, del tutto diverse, si manifestano33.

Tale sviluppo non è il risultato dell’adattamento e della selezione naturale, ma costituisce piuttosto un percorso di auto-poiesi, sulla base di un principio emanatistico di tipo formale di evidente derivazione goethiana. Spengler ricerca l’Urphaenomen, il fenomeno originario, la forma, il principio basilare, a partire dal quale gli organismi realizzano la loro “anima”. E tra tali organismi, in una saldatura tra piano della Physis e piano della storia, annovera le forme storiche per eccellenza, le civiltà.

Civiltà, civilizzazione e anima

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Sebbene il pregiudizio ideologico di cui Spengler è stato lungamente fatto oggetto non lo abbia mai riconosciuto, l’endiadi Kultur-Zivilisation34, che si situa al centro della sua riflessione, è uno di quei concetti particolarmente felici, che riescono a compendiare un’intera teoria e che giustamente si impongono nella storia delle idee come irrinunciabili acquisizioni fondative. E tuttavia, se volessimo applicare a essa il metodo fisiognomico spengleriano, traslando dal piano teorico a quello biografico dovremmo ammettere che vi lumeggiano quella profonda crisi delle certezze, quel senso di declino e di catastrofe, quella disperata


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consapevolezza della fine di un intero mondo che erano allora - e ancora sono condizioni psicologiche collettive dell’Occidente. Frantumazione dello schema unilineare consueto, che distingue i tre successivi stadi antichità-medioevo-età moderna e secondo un modello che, con felice invenzione lessicale, Cacciatore ha definito come “fitologia delle civiltà”35, come se queste ultime potessero essere simili alla morfologia delle piante, Spengler introduce la nozione di civiltà, quale forma elementare e Urphaenomen della storia, come organismo che percorre le stesse fasi della vita umana e del ciclo stagionale: “nasce nel punto in cui una grande anima si desta dallo stato della psichicità primordiale di una umanità eternamente giovane e si distacca, forma dall’informe, realtà limitata e peritura di fronte allo sconfinato e al perenne. Essa fiorisce sul suolo di un paesaggio esattamente delimitabile, al quale resta radicata come una pianta. Una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità […]; essa allora si riconfonde con l’elemento animico primordiale”36.

La storia è intesa dunque come realizzazione di un’anima. Se il mondo è il divenuto e la vita è il divenire, l’anima è ciò che diviene, il principium individuationis di ciascuna civiltà e di ciascun uomo, l’origine dei caratteri e delle possibilità di sviluppo di ognuno. Essa è l’esperienza pura, l’a-priori inconoscibile, l’orizzonte ineludibile entro il quale ciascun organismo forma e ha esperienza di se stesso. Vi è una sorta di Bildung dell’umanità, che, dalla prima infanzia dell’individuo e dalla prima epoca pre-civile, in cui l’uomo è “un animale vagante la cui esistenza, come essere desto, è un inquieto saggiare e toccare”37 si tramuta, dapprima, da predatrice a trasformatrice della natura nella figura del contadino, per giungere, nella seconda epoca, alla civiltà cittadina e declinare, infine, nella fase della civilizzazione. Prima e dopo la civiltà, non vi è radicamento della spiritualità e l’uomo è a-storico, portatore di un destino che cade nel mero quadro della storia zoologica. Spengler concepisce ogni civiltà come monade in sé compiuta, con caratteri specifici e unici, che rendono reciprocamente estranee le Kulturen e illusoria la convinzione di poter comprendere civiltà differenti da quella cui si appartiene, così come è infondata la pretesa di tradurre termini stranieri. Ne discende che ogni aspetto della civiltà e della vita umana è relativo e non assoluto: vi sono molteplici filosofie, molteplici matematiche, molteplici immagini del mondo, molteplici morali, ciascuna corrispondente a una specifica anima e alla civiltà che ne scaturisce e vi si radica. Tale irriducibile differenza è esemplificata dalla distinzione che Spengler fa dell’anima occidentale, che definisce “faustiana”,

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dell’anima “magica” araba e dell’anima “apollinea” dell’antichità. Ma per quanto ciascuna civiltà abbia proprie immagini rappresentazionali del mondo e propri stili di vita, su tutte incombe lo stesso destino di decadenza: l’arco di vita di questi organismi, infatti, inizia la sua parabola discendente nel momento in cui tutte le possibilità della civiltà sono state realizzate e inizia la fase della civilizzazione, che è il momento della cosmopoli, delle grandi masse amorfe, dell’assenza di creatività, della preminenza del cervello e della intelligenza meccanicistica.

Attualità di Spengler

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È soprattutto nella disamina dell’anima faustiana e nella caratterizzazione della civilizzazione che Il tramonto dell’Occidente si presenta ai nostri occhi come testo sorprendentemente acuto e profetico, di straordinaria quanto inaspettata attualità. Con una limpidezza di sguardo che trova l’eguale soltanto ne La dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno, Spengler ha infatti saputo disvelare i caratteri storici della civiltà occidentale, che ha tratteggiato nei termini di un prometeismo intriso di volontà di potenza e di dinamismo, il cui sguardo si estende all’infinito sulla natura, imperativo, dominatore, vorace, predatorio, aggressivo e violento. La modalità stessa di descrizione del processo di formazione della civiltà faustiana è illuminante circa i rapporti dell’Occidente con il resto del mondo. Vi è infatti una totale auto-referenzialità dell’origine, delle forme in cui ogni civiltà si sviluppa - autoponendosi all’interno di un orizzonte vuoto di presenze altre, secondo una prospettiva riduttivistica, che esclude la molteplicità dei punti di vista sul mondo e che assume la diversità come incomprensibile e irriducibile, premessa, questa, della scoperta dell’altro da sé come potenziale nemico38. E’ una visione che benissimo restituisce l’immagine dell’homo faber occidentale che, a partire dal colonialismo, impone al pianeta la propria supremazia e la propria Weltanschauung. Anche la descrizione della civilizzazione è densa di straordinarie intuizioni profetiche e addita i tratti più inquietanti della modernità: i segni molteplici della decadenza, lo svilimento della cultura, la morte dell’arte, il dominio della tecnica e dello scientismo, la vita anorganica e artificiale delle metropoli, la presenza di masse sacrificate alla città assoluta, la cosmopoli, prive di punti di riferimento e incapaci di comprendere la realtà in cui sono immerse. Componenti, queste, di una descrizione dell’Occidente che pare oggi ancor più veritiera di quanto potesse apparire ai contemporanei di Spengler. Già Adorno, del resto, aveva osservato con grande intelligenza critica che l’autore del Tramonto


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dell’Occidente certamente “costringe la storia negli scomparti del suo grande piano”39 e tuttavia C’è in questo un elemento di verità, nella misura in cui la società organizzata in termini di dominio si conforma di fatto a totalità che non lasciano libertà alcuna al singolo […]. Merito della fisiognomica di Spengler è di fissare partitamente lo sguardo sul ‘sistema’ anche là dove esso si presenta all’insegna di una libertà, dietro la quale si cela semplicemente l’universale dipendenza40.

Ed effettivamente, sebbene – come rileva Adorno – astratta, ancorata a una considerazione metafisica dei rapporti tra singolo e totalità e non interessata alle forme concrete, economiche, politiche e sociali di dipendenza, la visione spengleriana della storia riesce non soltanto a illuminare le condizioni di subordinazione e oppressione che l’economia capitalistico-finanziaria impone agli individui, non soltanto a mostrare la pochezza della storiografia positivistica e del perdurante scientismo, ma soprattutto, se è lecito trapassare dal piano teorico al contesto psicologico, coglie e disvela quel senso profondo di incertezza e di disperata ricerca di unità e armonia che pervade la cultura occidentale del primo Novecento e che in quelle pagine spengleriane si riscatta mediante l’istanza di una ricostruzione di senso e di coerenza rispetto alla frammentazione della storia e della società. E, ancora, certamente di straordinario interesse è il relativismo culturale spengleriano che, con la sua nozione di anima e di civiltà e la considerazione delle civiltà come monadi reciprocamente irriducibili e inconoscibili, problematizza, mediante l’indicazione di un circolo ermeneutico ineludibile, l’ottimismo talora superficiale e inconsistente di tanti fautori dell’interculturalità e al tempo stesso anticipa la riflessione dell’epistemologia contemporanea, in particolare di Feyerabend, secondo cui i dati scientifici sono filtrati da uno specifico orizzonte euristico e da uno specifico linguaggio e la scienza non è un sapere privilegiato, ma soltanto una delle molteplici forme del pensiero umano, accanto al mito e alla poesia41. Ma certamente ciò che soprattutto resta vivo del pensiero di Spengler è la sua vaticinante previsione sul destino dell’Occidente, oggi così vivida nelle nostre menti, mentre molte catastrofi incombono su di noi: Il futuro dell’Occidente non sarà un illimitato ascendere e andare avanti nella direzione dei nostri ideali del momento, per spazi fantastici di tempo, bensì un episodio della storia rigorosamente circoscritto e incontrovertibilmente determinato quanto a forma e a durata42.

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Dinanzi a questa visione tragica, Adorno concludeva il suo saggio sul capolavoro spengleriano affermando che Contro il tramonto dell’Occidente non sta la civiltà risorta, ma l’utopia, che muta e interrogativa è racchiusa nell’immagine della civiltà che tramonta43.

A distanza di quasi sessant’anni dalle annotazioni di Adorno, dopo il tramonto di molte delle nostre utopie, Spengler sembra purtroppo ben più persuasivo.

Note

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1 B. SPINOZA, Trattato politico, edizione critica del testo latino e trad. it. a cura di P. Cristofolini, ETS, Pisa, 2011, capitolo I, paragrafo IV. 2 Tale è il titolo di un volume che raccoglie importanti riflessioni sull’opera spengleriana e sul contesto storico-culturale in cui apparve. Si veda A. DEMANDT - J. FARRENKOPF (a cura di), Der Fall Spengler: Eine kritische Bilanz, Bohlau Verlag, Colonia –Weimar-Vienna, 1994. 3 Per quanto indubbiamente corretta, la traduzione italiana di Evola perde in parte le numerose connotazioni di significato del titolo originale, giacché in tedesco “Untergang” (letteralmente “l’andar-sotto”, dunque il trapassare) significa sì “tramonto”, ma anche “decadenza”, “declino”, “naufragio”; e ‘Abendlandes’ sta, letteralmente, per “terre della sera”. 4 Valga per tutti Benedetto Croce, la cui feroce stroncatura de Il tramonto dell’Occidente e de L’uomo e la tecnica è nota. Il filosofo la pubblicò su “La Critica” nel 1920, riproponendola nel suo: Pagine sulla guerra, Laterza, Bari, 1928, con alcune modificazioni. Ma si veda la terza edizione del 1950 alle pagg. 315-317. 5 La dizione fu introdotta dal poeta Hugo von Hofmannsthal nel 1927, ma a partire dal testo di Armin MÖHLER, Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1932 [trad. It. La rivoluzione conservatrice in Germania 1918-1932, La Roccia di Erec, Firenze, 1990] è stata utilizzata per designare i gruppi di intellettuali di destra oppositori della repubblica di Weimar. 6 S. BREUER, La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, Donzelli, Roma, 1995 7 Spengler effettivamente aderisce a tale opzione ideologica e distingue in proposito un socialismo economico, che totalmente respinge, da un socialismo etico, che esprime e compendia a suo avviso l’anima occidentale. Pare tuttavia riduttiva l’interpretazione di Ernst Nolte, che liquida con disprezzo la lettura sociologica della rivoluzione conservatrice [Ernst NOLTE, La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Wei-


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mar, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2009, p. 33] e indica quale fondante elemento unificatore dei teorici della rivoluzione conservatrice la comune identificazione del marxismo e del comunismo come la vera sfida della loro epoca. [ivi, p. 15]. 8 Non vale la pena di soffermarci qui sulle profonde simpatie a tutti note che fascismo e nazismo, a cominciare da Mussolini e Goebbles manifestarono per il pensiero di Spengler. 9 Di storicismo atipico parla Domenico Conte, nel suo volume Albe e tramonti d’Occidente, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2009 10 Ernst Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, Guida, Napoli, 1985, vol.III, p. 15 11 O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano, 2012, pag. 13. D’ora innanzi, per brevità, ci riferiremo al testo con la sigla TdO. 12 In realtà, come bene ricorda Pietro Rossi, il vocabolo tedesco Kultur non trova precisa rispondenza nella lingua italiana e potrebbe più correttamente essere tradotto con “cultura”, per meglio delineare il suo significato in rapporto al termine Zivilisation [cfr. Pietro Rossi, “L’Occidente e il suo destino”, in Pietro ROSSI, Carlo A. VIANO (a cura di), Storia della filosofia, vol. VI, Il Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1999, pag. 303 n.]. Tuttavia, per evitare inutili complicazioni, utilizzerò qui la traduzione ‘civiltà’, ormai comunemente accettata e adottata. 13 TdO, pag. 17. 14 TdO, pag. 35. 15 La definizione è di Domenico Conte. Cfr. D. CONTE, “Oswald Spengler e l’idea di sviluppo”, in Maurizio Guerri, Markus Ophalders, Oswald Spengler. Tramonto e metamorfosi dell’Occidente, Mimesis, Milano, 2004, p. 51; e D. CONTE, Introduzione a Spengler, Laterza, Bari-Roma, 1997, p.19 16 TdO, pag. 40. 17 TdO, pag. 156. 18 TdO, pag.157. 19 TdO, pag. 164. 20 TdO, pag. 660. 21 TdO, pag 92. 22 Scrive Spengler: “il divenire lo si può solo vivere e sentire in una comprensione senza parola. Capire la storia significa essere un conoscitore dell’uomo in senso superiore”. TdO, p. 94. 23 Il tema dello sguardo è fondamentale in Spengler e per taluni versi si presenta come contiguo alle ruiflessioni di Husserl 24 Giovanni Giurisatti, “Il volto della storia. Fisiognomica, morfologia e storiografia in Spengler”, in GUERRI, OPHALDERS, cit., p. 95. 25 TdO, pag. 164. 26 Come ha lucidamente osservato E. CASSIRER, “L’unità e l’unicità, la singolarità, che spetta ad ogni vero fenomeno d’espressione rende caduca la credenza nell’universalità della verità”. Eppure quella universalità “riemerge proprio nel momento in cui si tratta di

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fondare la filosofia della storia e la sua specifica verità. […] Nel tema fondamentale della morfologia è di nuovo posta e riconosciuta la forza, la peculiarità, l’indipendenza del logos” [Ernst Cassirer, Metafisica delle forme simboliche (postumo, 1995), Sansoni, Firenze, 2003, pp. 131-133. 27 Certamente qui è rintracciabile una analogia con Fichte: in entrambi i pensatori natura e storia sono posti dal soggetto. Ma in Fichte il divenire si manifesta anzitutto nella rappresentazione dell’Io che conosce e solo successivamente è azione dell’Io sul non-Io che l’Io ha posto inconsciamente, laddove in Spengler il divenire e l’agire sono fatti coincidere all’interno di una prospettiva nietzscheana, secondo la quale è la volontà di potenza a generare i molteplici orizzonti all’interno dei quali la storia è vissuta e intuita. 28 TdO, p. 48. 29 Si veda in proposito Franca D’AGOSTINI, Logica del nichilismo. Dialettica, differenza, ricorsività, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 129 e segg., in particolare p.131. 30 Nel riprendere Nietzsche, Spengler adotta tale impostazione e anticipa qui in vasta misura tutta la riflessione heideggeriana intorno all’essere e al tempo. 31 In particolare Splengler riprende la nozione di “apollineo” e soprattutto quasi parafrasa quella di “potenze sovrastoriche”, presente in: F. W. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), Adelphi, Milano, 1974, seconda delle Considerazioni inattuali: nozione che, insieme alla categoria della genealogia, può essere considerata, accanto alle concezioni di Goethe e di Lavater, anche come riferimento nodale della morfologia e della fisiognomica storica spengleriana. 32 TdO, pp. 189-190. 33 TdO, p. 694. Spengler riprende queste stesse posizioni in tutte le sue opere successive. 34 È ormai comunemente acquisita la traduzione che Evola fece del temine ‘Zivilisation’ nel vocabolo italiano ‘civilizzazione’ e a essa, sia pure con rincrescimento, per ragioni di semplicità ci atterremo, sebbene paia molto più corretta e adeguata la traduzione proposta da Pietro Rossi ‘civiltà-in-declino’ [cfr. Pietro ROSSI, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Einaudi, Torino, 1956, p. 410 n.] 35 F. M. CACCIATORE, Indagini su Oswald Spengler, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2005, p. 68. 36 TdO, p.173 Lo spazio non consente di riportare l’intero brano, che costituisce una delle pagine più intensamente liriche dell’opera. 37 TdO, p. 775. 38 Si veda in proposito il bel volumetto che Luigi Zoia ha dedicato alla violenza e alle caratteristiche dell’Occidente, per molti versi assai vicine ai tratti della anima faustiana spengleriana [Luigi ZOJA, Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2009]. 39 Theodor W. ADORNO, “Spengler dopo il Tramonto”, in Prismi, Einaudi, Torino, 1972, p.50


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40 Thomas W. ADORNO, op. cit. p. 51 41 Si veda in proposito Paul K. FEYERABEND, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1975. 42 TdO, p. 69. 43 T. W. ADORNO, op. cit., p. 63.

Patrizia Nosengo (patrizia.nosengo@gmail.com). Professoressa di Filosofia e Storia presso il Liceo scientifico “Galilei” di Alessandria. È membro del Comitato Scientifico e della sezione Didattica dell’Istituto Storico per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Alessandria. Collabora alla rivista “Quaderno di storia” e al giornale on line dell’associazione Città Futura di Alessandria, in cui si possono leggere molti suoi contributi di carattere politico e filosofico.

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Giuseppe Rinaldi La fine del mondo. Crisi e storicità in Ernesto De Martino

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Sembra proprio che la fine del mondo sia all’ordine del giorno. Le predizioni del calendario maya che ce l’annunciano sono soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno assai più ampio e pervasivo. Il catastrofismo sta, infatti, diventando un motivo sempre più diffuso nell’odierna cultura di massa, dal cinema, alla letteratura, alle altre arti. Anche presso i leader d’opinione si respira un clima di crisi che produce continuamente dati preoccupanti e previsioni pessimistiche. Negli ultimi decenni, correnti culturali autorevoli hanno annunciato con serietà eventi catastrofici di tutti i tipi. In un elenco sommario, si possono annoverare cose come: la crisi delle scienze europee, la fine delle avanguardie, la fine della metafisica, l’eclissi della ragione, la fine della filosofia, la fine della modernità, la fine della storia, la fine dei valori, la fine dell’arte, la fine della religione, la fine della politica, il dileguamento dell’essere, la fine dell’utopia, la fine della democrazia, la fine del soggetto, la fine dello Stato, la fine della verità, la liquefazione della società, la fine dello sviluppo, la fine del pianeta. E chi più ne ha, più ne metta. Tutti questi epiloghi epocali sono stati presentati come dati di fatto evidenti, oppure come il “compimento” di un destino ineluttabile. Il catastrofismo è ormai talmente diffuso che non fa quasi più notizia, anche se è probabile che, alla fin fine, questo modo di vedere le cose non sia del tutto privo di conseguenze. Vale allora davvero la pena di cercare, al di là del senso comune, una qualche spiegazione del fenomeno, tentando di capire se esso abbia qualche solido fondamento e, soprattutto, quali ne siano le cause. Questi interrogativi hanno un senso, tanto più che, se si considerano le cifre sulle tendenze globali che riguardano parametri come lo sviluppo economico, la speranza di vita, la diffusione dei conflitti, la frequenza dei crimini, il livello d’istruzione, eccetera, e se si fanno le opportune comparazioni con altre epoche, si potrebbe essere indotti a concludere che, in generale, l’umanità non sia mai stata così bene come negli ultimi tempi. Proprio di questo parere, al termine dell’esame di una gran mole di dati, è il sociologo Pino Arlacchi1. Del resto, anche gli storici hanno individuato, nella seconda metà del Novecento addirittura un’epoca d’oro2. A questi dati di fatto, che dovrebbero orientare all’ottimismo, si obietta che non sono tanto le condizioni oggettive che contano, quanto gli aspetti morali, e che, proprio su questo piano, si ha l’impressione di


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una crisi generale, di una netta decadenza3. Arlacchi ha ammesso anch’egli che, accanto a una situazione globale che va, di fatto, verso un netto miglioramento, sembra persistere un’esagerata diffusione di paura, una percezione del rischio del futuro che forse non è mai stata così acuta. Secondo Benasayag e Schmit, staremmo addirittura andando incontro a un cambiamento radicale della nostra concezione del futuro, da un futuro concepito come promessa, a un futuro concepito come minaccia4. A dispetto della crescente diffusione del fenomeno, sono davvero pochi gli studiosi che si sono occupati del catastrofismo in maniera approfondita. Una ragguardevole eccezione è costituita da Ernesto De Martino, uno dei più raffinati intellettuali italiani del secolo scorso. Alla sua morte prematura, nel 1965, ha lasciato una gran quantità di materiali di ricerca che avrebbero dovuto costituire un’opera intitolata, appunto, La fine del mondo5. Etnologo e antropologo di mestiere, De Martino aveva una profonda formazione filosofica e, nel corso della sua opera, ha sempre cercato di tenere unito, per quanto possibile, l’aspetto dell’indagine sul campo con la riflessione teorica fondamentale. Il suo programma di ricerca intorno alla fine del mondo resta uno dei più articolati e argomentati, anche se inserito in una ben precisa prospettiva di filosofia della storia, una prospettiva che oggi il lettore comune fa qualche fatica a identificare. In quel che segue, cercherò di presentare i concetti fondamentali utili a intendere la filosofia della storia di De Martino e, di conseguenza, la sua concezione della fine del mondo. Svilupperò poi alcune osservazioni circa il catastrofismo attuale e il suo ruolo nella cultura contemporanea.

La nozione di mondo usata da De Martino va intesa in modo assai specifico. Essa fu introdotta nel Mondo magico, la sua prima opera di ricerca, seppure non ancora sul campo, pubblicata nel 19486. L’espressione “mondo magico” è di origine filosofica ed è stata concepita in opposizione al “mondo della natura” e al “mondo dello Spirito”. Per cogliere adeguatamente la genesi di questo concetto, occorre tener presente quale fosse il programma di riforma dell’etnologia che De Martino aveva in mente: si trattava di prendere le distanze dal cosiddetto naturalismo, la corrente all’epoca più diffusa e nettamente prevalente a livello internazionale7, per fondare ex novo un’etnologia di tipo storicistico, secondo i canoni della filosofia crociana. Era un progetto alquanto temerario, se si considera che fenomeni tipicamente etnologici, come il mito, la magia e la religione, avevano trovato scarsissima considerazione nell’ambito della stessa filosofia crociana8. De Martino si trovò così di fronte al difficile compito di collocare il campo della nuova disciplina etnologica non più nella natura, ma non ancora compiutamente nella sto-

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ria. Fu indotto allora a individuare, in un primo momento, proprio il mondo magico come un mondo borderline, un vero e proprio momento di passaggio tra la natura e la cultura. Il mondo magico non era più natura, ma non era ancora compiutamente cultura, poiché in esso non si era ancora affermata la storicità, qui intesa, secondo Croce, come dialettica all’interno dei distinti. Nel mondo magico de martiniano, la categoria specifica capace di strutturare l’azione degli individui e delle collettività era la presenza, e la sua dialettica interna era prodotta dalla contrapposizione tra la presenza e il rischio costante della sua perdita. Si trattava di un mondo aurorale, dove lo Spirito, in tutte le sue articolazioni, correva costantemente il rischio di essere sopraffatto e di ritornare nell’indistinto. Il problema fondamentale che costituiva il mondo magico non era ancora tanto legato all’Utile, al Bello, al Buono e al Vero, cioè al problema di cosa fare nella storia, quanto al problema di stare dentro a una storia, cioè il problema preliminare dell’esserci come soggetto storico. Con l’introduzione della categoria della presenza e del correlativo negativo del rischio della presenza, il mondo magico veniva così a trovare una sua fondazione ontologica e diventava disponibile per le operazioni cognitive della nuova etnologia storicistica. Questa operazione poteva essere concepita come una estensione delle quattro tradizionali categorie crociane. Il concetto de martiniano della presenza non ha tuttavia un’origine filosofica, bensì psichiatrica. L’avvento dello Spirito nella storia poteva infatti avere qualche analogia con il problema della nascita e del mantenimento della coscienza nel soggetto individuale. De Martino era stato così indotto ad approfondire lo studio della letteratura psicopatologica e a far propria la teoria che potesse esserci qualche analogia tra gli stati di coscienza dei primitivi e quelli dei malati di mente. La teoria non era assolutamente nuova9. Come i malati di mente apparivano sempre sul punto di perdere la coscienza di sé e il senso della realtà, così i primitivi potevano sembrare sempre sul punto di perdere l’aggancio con il loro mondo, per ritrovarsi precipitati nella pura naturalità. De Martino approfondì con attenzione i meccanismi di strutturazione della coscienza e di perdita della coscienza, così com’erano stati descritti dalla scuola psichiatrica francese; si avvalse, in particolare, degli studi di Janet sulla dissociazione dell’io, sulla perdita di contatto con la realtà, sul misticismo10. Il problema dell’unità della coscienza, i disturbi della coscienza, la derealizzazione, divennero così altrettanti elementi descrittivi che potevano aiutare nell’interpretazione delle caratteristiche fondamentali del vissuto del mondo magico. Basandosi sulla psicopatologia e su numerose fonti etnologiche, De Martino aveva così potuto concentrare la sua attenzione su una singolare, a suo dire, condizione psichica in cui:


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… l’indigeno perde per periodi più o meno lunghi, e in grado variabile, l’unità della propria persona e l’autonomia dell’io, e quindi il controllo dei suoi atti. In questa condizione, che subentra in occasione di una emozione, o anche soltanto di qualcosa che sorprende, il soggetto è esposto a tutte le suggestioni possibili11.

E così proseguiva: Tutto accade come se una presenza fragile, non garantita, labile, non resistesse allo choc determinato da un particolare contenuto emozionante, non trovasse l’energia sufficiente per mantenersi presente adesso, ricomprendendolo, riconoscendolo o padroneggiandolo in una serie di rapporti definiti. In tal guisa il contenuto è perduto come contenuto di una coscienza presente. La presenza tende a restare polarizzata in un certo contenuto, non riesce ad andare oltre di esso e perciò scompare e abdica come presenza. Crolla la distinzione fra presenza e mondo che si fa presente: il soggetto, in luogo di udire o di vedere lo stormir delle foglie, diventa un albero le cui foglie sono agitate dal vento...12

Il rischio della perdita della presenza provocava, a livello individuale, una situazione di disagio psichico, che era definita e descritta come angoscia: Un’angoscia caratteristica lo travaglia: e quest’angoscia esprime la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci. La labilità diventa così un problema e sollecita la difesa e il riscatto: la persona cerca di reintegrare la propria presenza insidiata13.

La nozione di angoscia, che pure era stata elaborata in campo psichiatrico, aveva un suo importante corrispettivo nelle filosofie dell’esistenza e in quella che poi diventerà la psichiatria fenomenologica. La presenza veniva dunque ad assumere una posizione centrale nella visione di De Martino; si trattava di una categoria ad ampio spettro, capace sul piano filosofico di costituire una condizione preliminare all’ingresso nel mondo della storia, di rendere possibile la stessa storicità e, sul piano empirico, di spiegare i vissuti individuali e le credenze che si ritrovavano nel mondo magico: Il fatto negativo della fragilità della presenza, del suo smarrirsi e abdicare, è incompatibile per definizione, con qualsiasi creazione culturale, che implica sempre un modo positivo di contrapporsi della presenza al mondo, e quindi una esperienza, un dramma, un problema, uno svolgimento, un risultato14.

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Nel mondo magico, dunque, il dramma fondamentale era costituito dallo sforzo di mantenere la presenza, di mantenersi cioè al livello dell’operabilità storica. Nelle società primitive, il rischio della perdita della presenza – ed è questo il tema centrale del Mondo magico – veniva affrontato e scongiurato grazie a una serie di risorse culturali che dovevano essere pertanto caratteristiche specifiche del mondo magico stesso e che avrebbero cessato di avere senso qualora il mondo magico fosse stato superato. Si trattava cioè di una serie di tecniche e di istituzioni volte precisamente a dominare le situazioni di crisi e a ottenere il riscatto della presenza. Avviene così che il grande protagonista del dramma del mondo magico sia lo sciamano. Esso è depositario di una tecnica culturalmente elaborata (dunque pertinente al dominio dell’Utile) che è in grado di produrre, nell’ambito della comunità, attraverso appositi rituali, la reintegrazione della presenza minacciata, sia sul piano individuale – lo sciamano è una specie di terapeuta – che su quello collettivo – lo sciamano costituisce e ricostituisce il vissuto del mondo comunitario. Le pratiche magiche che sono operate in riferimento a quel mondo dunque funzionano effettivamente e hanno il senso di contribuire costantemente alla costituzione del soggetto del mondo storico e a impedire lo sprofondamento nella natura. Spiegava De Martino nella conclusione della parte metodologica del suo saggio:

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Qui noi siamo in presenza del primo abbozzo di quel dramma che creò il mondo della magia, nella varietà dei suoi temi culturali. Infatti il semplice crollo della presenza, la indiscriminata coinonìa, lo scatenarsi di impulsi incontrollati, rappresentano solo uno dei due poli del dramma magico: l’altro polo è costituito dal momento del riscatto della presenza che vuole esserci nel mondo. Per questa resistenza della presenza che vuole esserci, il crollo della presenza diventa un rischio appreso in un’angoscia caratteristica: e per il configurarsi di questo rischio la presenza si apre al compito del suo riscatto attraverso la creazione di forme culturali definite. Per una presenza che crolla senza compenso il mondo magico non è ancora apparso; per una presenza riscattata e consolidata, che non avverte più il problema della sua labilità, il mondo magico è già scomparso. Nel concreto rapporto tra i due momenti, nella opposizione e nel conflitto che ne deriva, esso si manifesta come movimento e come sviluppo, si dispiega nella varietà delle sue forme culturali, vede il suo giorno nella storia umana15.

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Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che questa prima nozione del mondo magico sia stata ricavata esclusivamente in base alle esigenze teoriche dello


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storicismo crociano e della psicopatologia. Nel primo Novecento, nell’ambito della filosofia continentale, si erano andate delineando molte nozioni consimili che avevano tentato di cogliere, in modo globale, aspetti dell’esperienza umana che il positivismo aveva trascurato. Basti pensare e all’Erlebnis (il vissuto) diltheyano, al Lebenswelt (mondo della vita) husserliano, oppure al Dasein (esserci) heideggeriano. Si tratta di concetti che erano nati sul terreno delle forme trascendentali e che tuttavia avevano preso ben presto una torsione fenomenologico – esistenziale. Nonostante svariati accenni critici nei confronti di Husserl e di Heidegger, queste nozioni ebbero comunque una progressiva e rilevante influenza su De Martino e vennero da lui rielaborate nel quadro di un esistenzialismo positivo, vicino a quello di Abbagnano16. Questo è il motivo per cui, già nel Mondo magico, la categoria della presenza (che, a rigore, avrebbe dovuto restare rigorosamente formale) aveva acquistato sempre più il carattere di un esistenziale, di un vissuto, cioè di un tratto caratteristico dell’esistenza. Poiché questo concetto era destinato a un’applicazione di tipo etnologico, si è profilata fin da subito anche la possibilità che vi fosse una pluralità di vissuti, che potessero dunque coesistere diversi mondi, diversi modi di esserci, gli uni accanto agli altri, ciascuno dotato di proprie caratteristiche, tanto da rendere difficile l’adozione di un’unica epistemologia, di un’unica teoria della verità. Una conseguenza tipica di questo pluralismo relativistico è costituita dal dibattito riguardante la cosiddetta “efficacia” dei poteri magici, su cui non possiamo però qui dilungarci17.

La sovrapposizione tra categorie formali e concetti fenomenologico – esistenziali e, soprattutto, l’ipotesi di un mondo aurorale, culturalmente costituito, in cui lo Spirito non fosse ancora del tutto apparso nelle sue eterne articolazioni, infastidirono alquanto il Croce e l’ambiente crociano e ciò portò a un’annosa polemica tra Croce e De Martino18. De Martino, nei suoi lavori successivi, formalmente si piegò all’autorità di Croce, facendo una sorta di autocritica su alcuni punti ma, di fatto, continuò a sviluppare le due basilari nozioni di mondo e di presenza sempre più in direzione fenomenologico – esistenziale. Furono proprio queste nozioni che gli permisero di elaborare una sua più matura e compiuta visione dei fenomeni storici e culturali, compreso il suo interesse per le apocalissi culturali. Una decina di anni dopo, in Morte e pianto rituale19, l’autocritica viene esplicitata. De Martino ammetteva ora con chiarezza che il mondo magico era già a pieno titolo un mondo storico e non un mondo a parte, ancora impegnato a risolvere il problema dell’unità della coscienza. La presenza si manifestava se-

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Bruno Soro ● Dal caos alla complessità: l’economia nella “terra di mezzo”

Bruno Soro Dal caos alla complessità: l’economia nella “terra di mezzo”

Analizzare tutto? Va bene. Ma con che? (Bruno de Finetti, L’invenzione della verità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006)

Introduzione

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Nel linguaggio corrente, stranezza e caos hanno come sinonimi stravaganza e confusione, termini che lascerebbero intendere che il caos abbia a che fare con situazioni anomale e non del tutto chiare. Per il Dizionario Italiano Sabatini Coletti (DISC), infatti, e nella sua accezione comune, il sostantivo «caos» indica uno stato di “disordine, confusione, trambusto”, mentre nella teoria dei sistemi complessi esso sta a significare quella “condizione a cui tende un sistema allorché le sue leggi comportano, dopo un certo intervallo di tempo, evoluzioni imprevedibili e irregolari”. Scopo di questa breve nota è di dare conto del fatto, ormai ampiamente documentato, che l’evoluzione della società, della quale l’economia e la politica costituiscono due sottosistemi, può essere condotta, al pari di quanto accade in altre discipline applicate come la fisica, la biologia, la geologia e la meteorologia, con il linguaggio elaborato nel contesto dell’analisi dei sistemi complessi. Prima di entrare nel merito delle questioni relative al caos, ancorché con l’ottica rivolta ai fenomeni economici, mi corre l’obbligo di una breve digressione semantica. Tra le prime nozioni solitamente impartite agli studenti di un corso di base di Economia figurano la differenza tra i concetti di tipo «stock» e quelli di tipo «flusso», nonché la distinzione tra un’analisi «statica» ed una «dinamica». Appartengono ai concetti di tipo stock – per misurare i quali occorre fare riferimento ad un istante nel tempo –, il «capitale» (sia nella sua accezione fisica, ovvero il cosiddetto «capitale reale», che in quella monetaria), il «debito pubblico», la «moneta», la «popolazione» e la «ricchezza». Il Prodotto interno lordo (PIL), la «domanda aggregata» e le sue componenti (il consumo, l’investimento, la spesa pubblica, le esportazioni nette), il «deficit» ed il «risparmio» sono invece concetti di tipo flusso, la cui misurazione richiede un intervallo di


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tempo (un mese, un trimestre, un anno). Un’analisi statica consiste nella descrizione dello stato delle cose in un dato istante, mentre l’analisi dinamica si occupa dell’evoluzione nel tempo delle variabili incluse in un modello utilizzato per descrivere quel particolare aspetto del sistema economico considerato. Tutti questi concetti sono peraltro strettamente collegati tra di loro, dal momento che la descrizione dello stato delle cose in un dato istante è indispensabile (una pre-condizione) per lo studio dell’evoluzione nel tempo del sistema oggetto di analisi. Analogamente, lo stock del debito pubblico, vale a dire il cumulo nel tempo del disavanzo dei conti pubblici, è inscindibilmente legato al flusso del deficit, mentre lo stock della ricchezza è legato al flusso del risparmio.1 Ora, se nel linguaggio scientifico il caos “è il nome che si dà al meccanismo che causa la rapida crescita dell’incertezza nei nostri modelli matematici”2, è bene fin da ora precisare che l’approssimazione in economia, e conseguentemente l’errore che si commette nella misurazione degli aggregati economici, è di gran lunga superiore a quello delle altre discipline applicate.3 Si consideri ad esempio la seguente affermazione: Le grandi tempeste sono preannunciate da un brusco abbassamento della pressione atmosferica: se si dispone dunque di una misura quantitativa della pressione, di come essa varia nel tempo, una tale misura può dare informazioni vitali su ciò che sta per apparire all’orizzonte4.

Parafrasando tale affermazione si potrebbe sostenere che le «tempeste finanziarie» sono preannunciate da un brusco gonfiamento di una qualche bolla speculativa. Disponendo di una misura quantitativa della bolla – ad esempio un indice di borsa, l’andamento dei prezzi del mercato immobiliare e/o un indicatore dello stato di fiducia – e della variazione di tale misura nel tempo, essa potrebbe fornire informazioni rilevanti “su ciò che sta per apparire all’orizzonte”. Tuttavia, analogamente al fatto che una variazione della pressione atmosferica dà un’idea del cambiamento in atto nel tempo atmosferico, ma non consente di fare previsioni attendibili circa l’entità dei millimetri di pioggia che cadranno nelle prossime 24 ore in quel determinato luogo5, la disponibilità di una misura quantitativa del gonfiamento di una bolla speculativa non consente in alcun modo di prevedere con esattezza né il momento dell’inversione della tendenza, né tanto meno l’ampiezza della caduta dell’indice. E ciò, non solo perché, a differenza degli indicatori economici, la pressione atmosferica è suscettibile di essere misurata con grande precisione, ma soprattutto perché «l’incertezza della misura» – ciò che separa una misurazione dal «valore vero» dell’oggetto considerato, ovvero quel qualcosa al quale nel linguaggio scientifico viene dato il

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nome di rumore –, dà conto unicamente di uno degli aspetti che caratterizzano i fenomeni caotici: la loro grande sensibilità alla condizione iniziale. L’incertezza della misura dovuta alla presenza del rumore, rappresenta infatti unicamente la violazione di una sola delle proprietà di cui godrebbe il cosiddetto «demone di Laplace», vale a dire quell’entità, quella intelligenza, alla quale “il caos non porrebbe barriere alla previsione”.6 In presenza di fenomeni la cui natura è caratterizzata da una evoluzione caotica (come nel caso delle previsioni atmosferiche e nella maggior parte dei fenomeni economici), la capacità di effettuare previsioni richiederebbe, oltre all’esatta conoscenza delle leggi che governano il fenomeno oggetto di osservazione, l’individuazione di tutti gli elementi che concorrono a descriverne lo stato in quel determinato istante, unitamente ad una infinita capacità di calcolo. Per quanto attiene poi l’applicabilità ai sistemi sociali delle modalità in uso nella descrizione dei sistemi naturali (una convinzione che sta alla base del filone di letteratura economica che trae ispirazione alla meccanica classica), due studiosi che hanno approfondito le tematiche connesse ai riflessi delle teorie del caos alle questioni economiche, hanno fatto osservare come tale applicabilità urti contro insormontabili ostacoli di vario genere. Da un lato, nei sistemi sociali è praticamente impossibile identificare tutte le variabili rilevanti; dall’altro, vi è la difficoltà di misurare gran parte delle variabili individuate; infine, cosa ben più grave, i sistemi sociali non si prestano alla sperimentazione in laboratorio.7

Piccole cause, grandi effetti: il caos in economia

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E’ sufficiente sfogliare un qualsiasi manuale di Macroeconomia, la disciplina che si occupa di descrivere il funzionamento di un sistema economico, per constatare il grande uso che, nella modellistica macroeconomica, si fa del linguaggio formalizzato per descrivere il funzionamento dell’economia reale. Così, ad esempio, nel semplice modello statico keynesiano per la determinazione del reddito di equilibrio8 – un modello all’interno del quale le teorie del consumo, dell’investimento e della liquidità sono quasi sempre approssimate da semplici equazioni lineari9 –, il livello dello stesso viene ad essere individuato dal prodotto tra un moltiplicatore (il cosiddetto «moltiplicatore keynesiano»), ed un moltiplicando. Il primo esprime una combinazione dei legami che intercorrono tra il consumo, la tassazione, le importazioni ed il reddito, e la cui ragion d’essere riposa nel fatto che ogniqualvolta il reddito vari10, anche il valore degli aggregati che da esso dipendono varierà. Ciò mette in moto un processo cumulativo che terminerà con un aumento del reddito pari ad un multiplo della


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variazione dalla quale ha tratto origine il processo del moltiplicatore keynesiano. Il moltiplicando sintetizza invece il valore di tutte le componenti della domanda aggregata cosiddette «esogene», vale a dire indipendenti dal reddito.11 Una simile descrizione del funzionamento del sistema economico rende possibile intervenire sul livello dell’attività economica mediante opportune manovre di politica monetaria e/o fiscale.12 Tale descrizione consente di prevedere, in maniera del tutto analoga a quanto accade nei modelli deterministici della meccanica fisica, l’impatto delle misure di politica economica sul livello dell’attività produttiva. Va da sé che quanto più grande è l’entità della manovra, tanto maggiore sarà l’impatto che essa eserciterà sul reddito di equilibrio (e viceversa). Pertanto, nei limiti in cui tale rappresentazione può valere, essa consente di evidenziare nel contempo sia il nesso di causalità (le variazioni delle componenti autonome della domanda aggregata provocano la variazione del reddito), sia la dimensione quantitativa della manovra (quanto più grande è l’entità della manovra tanto maggiore sarà l’impatto che essa indurrà sul livello dell’attività economica e viceversa). Nel linguaggio economico, quello suesposto è un esercizio di «statica comparata», poiché prevede l’aggiustamento istantaneo tra due diverse situazioni (di equilibrio) a prescindere da ogni spiegazione circa le modalità con le quali tale aggiustamento avviene. In quest’ottica, il funzionamento l’economia viene di fatto ad essere equiparato a quello di una macchina, una macchina molto complicata, ma pur sempre una macchina, il cui meccanismo può essere compreso mettendo insieme con cura e meticolosità i singoli pezzi che la compongono13.

La situazione cambia radicalmente quando, nella descrizione dei fenomeni economici si passi da un’analisi statica ad una che prevede l’utilizzo di relazioni non lineari.14 In tal caso si entra infatti nel mondo del caos. Come giustamente è stato fatto osservare da Bertuglia e Vaio, “i modelli lineari permettono di formulare previsioni precise sul futuro di un sistema, mentre i modelli non lineari, in generale, lo permettono solo con approssimazione tanto peggiore quanto più il tempo cui si tenta di guardare è lontano”.15 Ora, dal momento che la dinamica dei sistemi naturali, così come quella dei sistemi sociali, non è lineare, i modelli non lineari possono, eventualmente, essere utilizzati per “dare conto a posteriori del perché l’evoluzione sia stata di un certo tipo”.16 In una sua nota autobiografica17, Richard Goodwin, l’economista al quale, secondo Alfredo Medio si deve la “prima compiuta analisi non lineare del ciclo economico”18, si domandava quali fossero le differenze tra i problemi dell’eco-

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nomia e quelli della fisica. In risposta a questa domanda egli sottolineava come in economia, non solo non è possibile fare esperimenti, ma anche i singoli avvenimenti o elementi, non sono indipendenti dagli altri. (…) E questo ci obbliga a considerare tutti gli elementi micro e tutte le loro interazioni come un solo problema: nessun lavoro di osservazione e di analisi delle singole parti, per quanto vasto e particolareggiato, riuscirà mai da solo a spiegare il comportamento di tutto il sistema. (…) Un’altra e non meno grave fonte di complicazione è legata al fatto che, nella maggior parte dei casi, gli eventi economici sono sostanzialmente unici, il che implica che solo in casi attentamente delimitati si può ricorrere ad un’analisi in termini probabilistici. (…) Per questi e altri aspetti, l’economia sembra più vicina alla biologia che alla fisica, il che probabilmente significa che dovrà ricorrere ad alcune tecniche relativamente diverse che stanno emergendo, per esempio, alla teoria delle biforcazioni o alla teoria delle catastrofi (…). Anche il concetto di sistemi auto-ordinantisi (self-ordering systems) introdotto dal fisico tedesco Haken – concludeva Goodwin – può fornire un approccio applicabile alle società umane. Gli uomini non sono greggi di pecore sotto gli occhi di un pastore; sono membri del gregge, anch’essi lo osservano e, ovviamente, lo influenzano e ne sono influenzati19.

Questa lunga citazione è una lucida ma sintetica spiegazione del perché l’economia, la politica e la società sono sistemi complessi, la dinamica dei quali andrebbe analizzata con gli strumenti messi a disposizione dal recente filone di studi sull’evoluzione dei sistemi complessi.20

Formiche e farfalle: dal caos alla complessità

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Se è vero che la presenza nel mondo reale di fenomeni che presentano una elevata sensibilità alle condizioni iniziali, unitamente alla loro rappresentazione mediante equazioni dinamiche non lineari, era già stata notata fin dai primi anni ’20 del Novecento, sarà tuttavia solo sul finire degli anni ’60 che la teoria del caos verrà ripresa e studiata in profondità.21 Per restare al campo dell’economia, vale forse la pena di rammentare come già nei primi anni ’50 due economisti viennesi della scuola austriaca, Ludwig von Mises e August von Hayek, Premio Nobel per l’economia nel 1974, individuarono nell’ordine spontaneo che consegue dall’apprendimento e dalla sperimentazione la presenza nel sistema economico di elementi di complessità. Nei primi anni ’60 Herbert Simon, Premio


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Nobel per l’economia nel 1978, metteva poi in luce il fatto che tutti i sistemi complessi, siano essi sistemi sociali, biologici o fisici, presentavano caratteristiche comuni. Sul finire degli anni ’60, infine, Thomas Schelling, Premio Nobel per l’economia nel 2005, riusciva a dimostrare come il fenomeno della segregazione razziale nelle città americane si potesse spiegare quale conseguenza dal comportamento spontaneo di una certa percentuale di abitanti desiderosa di avere vicini di casa persone simili tra di loro.22 Ma com’è avvenuto il passaggio dalle teorie del caos alla prospettiva dei sistemi complessi? In altri termini, quali sono le caratteristiche di un sistema complesso? La risposta a questo interrogativo risiede nell’acquisizione della consapevolezza che le economie, al pari degli aggregati sociali non sono macchine, ma assomigliano maggiormente agli organismi viventi. “Gli individui non agiscono isolati gli uni dagli altri, ma si influenzano a vicenda attraverso modalità complesse”.23 A differenza degli atomi della fisica, gli «atomi sociali»24 sono pertanto in grado di apprendere e di adeguarsi all’ambiente circostante: non dunque «greggi di pecore sotto gli occhi di un pastore», bensì individui il cui comportamento è assimilabile a quello di colonie di formiche alla perenne ricerca del cibo. Al fine di illustrare e comprendere sia alcuni tipici fenomeni economici che importanti fenomeni sociali, lo stesso Paul Ormerod, prendendo lo spunto dai risultati di alcuni studi di entomologi negli anni ’80 e rifacendosi agli studi dell’economista Alan Kirman25, suggerisce uno schema analitico (non formalizzato) che si basa essenzialmente nella suddivisione di una popolazione (sia essa quella delle formiche o degli agenti economici), in tre gruppi sociali distinti, i membri dei quali sono dotati di una maggiore o minore propensione a mutare la propria opinione in relazione al comportamento altrui. Non diversamente dalle formiche, infatti, nell’affrontare le loro scelte, gli agenti economici si trovano di fronte a tre possibilità: 1) continuare a comportarsi come prima; 2) mutare spontaneamente le proprie scelte in seguito all’acquisizione di nuove informazioni; 3) cambiare le proprie scelte osservando ciò che fanno gli altri. Utilizzando questo semplice modello l’autore riesce a spiegare, ad esempio, perché tra prodotti concorrenti prevalgano spesso quelli tecnologicamente inferiori; per quale motivo, dopo un lungo periodo di stabilità, durante il quale gli operatori dichiarano che è una moneta sopravvalutata e tuttavia continuano ad acquistarla, il suo valore d’improvviso crolla; perché dopo lunghi periodi di stabilità, soprattutto nei sistemi elettorali bipolari, si verificano rapidi e sostanziali mutamenti; per quale motivo si osserva una enorme variabilità nello spazio e nel tempo nei tassi di criminalità; e, infine, quale sia il maggiore o minore impatto degli incentivi economici sugli atteggiamenti sociali riguardo ai valori

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Franco Livorsi ● La questione del mancato superamento del capitalismo

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La questione del mancato superamento del capitalismo alla luce del materialismo storico e della psicologia analitica

Validità della critica marxista e socialista al capitalismo, ma fragilità delle “cure” per superarlo

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Ho sempre ritenuto imprescindibile la critica del capitalismo compiuta dal marxismo, proseguita con apporti spesso straordinari dal 1844 a oggi1. L’ho molto apprezzata e ancora l’apprezzo, pur senza considerarla “scienza” in senso forte (o anche “debole”), ma piuttosto come un vastissimo insieme di analisi economico-sociologiche, storico sociali, filosofico politiche e di fenomenologia dell’assetto capitalistico o, se si preferisce, della “civiltà borghese” tuttora dominante. Tuttavia in tale vastissima, imprescindibile e abbastanza unitaria disamina la pars destruens, demolitrice, mi è sempre parsa assai più persuasiva di quella construens, ricostruttiva. In sostanza le argomentazioni relative all’invivibilità del capitalismo mi sono sembrate e sembrano persuasive, tanto più in un mondo come il nostro, segnato dalla fame costante di miliardi di persone, dalle catastrofi ecologiche e dalla crescente anomia internazionale, economica ed anche militare, in cui fanno irruzione crisi difficilmente controllabili, e con possibili conseguenze addirittura spaventose. Per contro le soluzioni alternative al capitalismo sono risultate quasi subito tremendamente inadeguate a superare i mali cosiddetti strutturali del capitalismo (a partire dalla subalternità assoluta dei lavoratori in carne e ossa tanto sui luoghi di lavoro che nello Stato). In molti casi il capitalismo privatistico è stato semplicemente surrogato oltre a tutto solo temporaneamente, come si è infine visto - da un capitalismo di stato non meno oppressivo di quello privatistico, sia pure con la convinzione - diventata assai presto una mera pretesa - di essere l’opposto. In altri casi - in forma di riformismo sociale - il capitalismo “puro” - ammesso e non concesso che sia mai esistito - è stato corretto in senso sociale, ma senza che la sua natura di sistema di sfruttamento basato sul “lavoro sotto padrone” venisse mai meno. Oltre a tutto anche le cure “lenitive” dei mali del capitalismo, compendiate nella formula del Welfare State socialdemocratico (e talora anche cristiano sociale), sono palesemente in grave crisi nell’epoca della globalizzazione economica sempre più incontenibile, in cui merci e lavoratori si vendono su un mer-


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cato mondiale unificato, che distrugge ormai tutte le limitazioni o regolamentazioni poste dagli Stati nazionali, abbassando inesorabilmente il loro prezzo. Ciò è tanto vero che la lotta, nei grandi Paesi europei dotatisi via via di Welfare, sembra concernere più il difficile mantenimento delle conquiste sociali che non la loro pur necessaria espansione. C’è una specie di via gradualistica al socialismo rovesciata di segno, che tende a riproporre o addirittura a realizzare il puro capitalismo privatistico, sia pure cercando . tramite interventi dello Stato - di contenerne taluni effetti più nefasti socialmente (quando la cosa riesca). Chi appare intransigente nel difendere il vecchio Welfare State, sembra addirittura “estremista”2. La ricerca del post-capitalismo, però, deve continuare, ovviamente non solo nel pensiero, ma anche nella prassi sociale. Infatti il tumore sociale di cui si è detto - del o nel capitalismo - è sempre vivo ed operante, più distruttivo che mai. L’importante è non riproporre, per debellarlo, vecchie cure già risultate storicamente sempre perdenti o sempre oppressive (ossia minestre riscaldate). Non si deve insomma essere “reazionari” - nostalgici di mondi superati dalla storia - pretendendo di essere l’opposto. Tanto lo Stato inteso come potere dei lavoratori stessi (tramite loro consigli elettivi o soviet) quanto lo Stato che pianifica l’economia, o che la programma “democraticamente” attraverso una legiferazione volta a determinare i rapporti di produzione, hanno fatto fallimento. La prima via è purtroppo risultata impossibile, essendo stata sconfitta, o subito o prestissimo, innumerevoli volte per un secolo e mezzo. La seconda, non desiderabile socialmente, almeno per i tempi lunghi, è infine stata sconfitta a livello epocale. Tali soluzioni, del resto, non solo si scontrano con i limiti storici dei lavoratori o dei partiti che pretendano di rappresentarne la “volontà generale” come forze di governo, tanto più dell’economia, ma risultano in contrasto irriducibile con un’economia ormai globalizzata, planetaria, in modo evidente. Non è una bella cosa ingannarsi da soli proponendo soluzioni immaginarie sapendo già in partenza che sono tali. Ma perché si è determinato lo scacco delle principali soluzioni proposte dal marxismo, o da un socialismo inteso come alternativa sistemica, a dispetto della critica più che fondata del capitalismo? Lo Stato burocratico per Marx era il primo nemico del potere proletario e socialista Procediamo intanto da quello che si prevedeva e da quello che è effettivamente accaduto. Non pare esservi alcun possibile dubbio sul fatto che il marxismo abbia pensato che il potere dei proletari - ossia dei lavoratori salariati e “salariabili” - in prima persona (da un lato), e la connessa negazione totale o prevalente della proprietà privata (dall’altro) avrebbero necessariamente cam-

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biato il mondo. Avrebbero dato vita ad una civiltà via via senza classi, basata sull’empatia reciproca. Questa nuova civiltà sarebbe stata “logicamente” segnata da un livello decrescente di sfruttamento e di autoritarismo (“estinzione” delle differenze di classe, “estinzione dello Stato”, estinzioni palesemente connesse e da connettere). In base a tale dottrina sociale avrebbe dovuto esservi - grazie al potere proletario e socializzatore - sempre meno sfruttamento, sempre meno autoritarismo, sempre minor dipendenza da altri. Questi “altri” avrebbero dovuto comprendere - come poteri “esterni” alle forze produttive da liquidare sempre di più - anche lo Stato degli apparati, burocratico-poliziesco-militare. Questo, anzi, avrebbe dovuto essere negato risolutamente e “spezzato” preliminarmente, e sostituito da uno Stato appunto “proletario”, fondato sull’autogoverno dei lavoratori stessi. Per questo Marx aveva posto come motto della stessa Associazione Internazionale dei Lavoratori, o Prima Internazionale, il principio per cui l’emancipazione dei lavoratori può essere opera solo dei lavoratori stessi. Anzi, l’auspicato ed auspicabile Stato operaio per Marx e per Lenin, almeno dal 1844 al 1920, era posto in conflitto mortale soprattutto con lo Stato degli apparati, ossia con il potere degli apparati sullo Stato, che definiva il carattere borghese o capitalistico dello stesso Stato da superare3. I proletari perciò avrebbero dovuto operare - in modo tanto spontaneo quanto organizzato - per bandire sempre di più dipendenza e costrizione, giorno dopo giorno, anno dopo anno e paese dopo paese. Sarebbero stati massimamente interessati a ciò non fosse altro che per liberarsi dalla loro stessa dipendenza e stato di costrizione, ossia dal lavoro salariato, dalla subordinazione più o meno costante a padroni come a burocrati e poliziotti (sempre coevi). Questi ultimi - burocrati, poliziotti e militari di professione - erano visti come la polpa, la sostanza, il corpo dello Stato detto borghese (che era poi quello che in generale è detto “Stato moderno”), ed erano considerati non già meglio, ma persino peggio dei padroni o “borghesi” veri e propri, almeno da Marx a Lenin, come sarebbe agevole dimostrare. Ogni battaglia operaia riuscita, ogni guerra di classe vinta (rivoluzione) avrebbero perciò diminuito progressivamente sfruttamento e autoritarismo dell’uomo sull’uomo. In seguito a tali lotte di classe e rivoluzioni proletarie avrebbe dunque dovuto esservi sempre più libertà nella sfera economico-sociale come in quella politico istituzionale, tanto da configurare la stessa dittatura del proletariato, sull’esempio della Comune di Parigi del 1871, come un “semistato” (diceva Engels4), con approccio palesemente del tutto diverso da quello fondato sullo strapotere burocratico-poliziesco, detto “moderno”, e dai marxisti “borghese”. Tutti i burocrati poliziotti e militari - corpo dello Stato moderno o borghese - avrebbero dovuto essere immediatamente proletarizzati, pagati come operai al più specializzati e sempre rimuovibili dalle cariche vuoi politiche e vuoi amministrative dal potere assembleare dei lavoratori. Così era stato fatto nella Comune di Parigi del 1871, durata tre mesi ma


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detta da Marx e Engels forma svelata del governo della classe operaia o dittatura del proletariato. Il tutto avrebbe dato luogo - quando fossero sparite le classi (ossia le differenze di classe) - ad una società senza Stato, vale a dire all’anarchia collettivista. Sarebbe accaduto necessariamente in modo graduale, e non per immediata abolizione dello Stato come sognavano gli anarchici; ma si sarebbe “certo” verificato. E siccome ci sarebbero stati - col potere del proletariato, teorizzato e tentato dai marxisti - sempre meno disuguaglianza tra le classi, sempre meno oppressione istituzionale, sempre meno burocrazia polizia e militari, sempre meno subordinazione ad altri, la stessa fine dello Stato sarebbe stata visibile sin dall’inizio (“deperimento” dello Stato, “estinzione” dello Stato”), garantendo che il fine della società senza classi e senza Stato non fosse una delle tante utopie della Modernità, come l’anarchismo stesso, bensì un processo storico continuo, caratterizzato della sovranità dei lavoratori salariati, segnato dalla diminuzione costante della dipendenza, grazie al potere dei proletari in carne e ossa. Infatti senza dipendenza non c’è Stato, essendo lo Stato ritenuto nient’altro che la macchina di repressione, falsamente super partes (“giuridica”), di una classe economicamente dominante su quelle dominate5. Il nocciolo duro della teoria-prassi marxista e dei marxisti era sostanzialmente quello sin qui illustrato. L’idea che si possano rimuovere “primato dell’economia rispetto alla politica” e “dottrina dello Stato borghese come potere dei burocrati e poliziotti”, senza rimuovere il marxismo, mi pare palesemente infondata. Lo statalismo burocratico ha sempre inquinato radicalmente il comunismo e lo stesso socialismo, risultando però un “male oscuro” costante e non una “degenerazione” o “parentesi” Ma la prassi, in materia, ha troppo smentito la teoria. Infatti autoritarismo e sfruttamento sono seguitati anche dopo la conquista socialista o comunista del potere (fosse o sia essa stata, o sia, parlamentare o dittatoriale cosiddetta “proletaria”). L’idea che col comunismo al potere sia anche semplicemente diminuito lo strapotere burocratico e poliziesco, che per il marxismo sostanziava lo Stato moderno, detto “borghese”, sarebbe persino stravagante tanto è stata ed è controfattuale. La tesi che laddove i lavoratori non potevano protestare liberamente in piazza, dire o stampare quel che loro aggradasse, riunirsi dove volessero, scioperare quando e quanto volessero, e così via, e dove quasi sempre avevano più cottimi e livelli salariali che nei paesi capitalistici, essi stessi fossero “in realtà” al potere, e ciò semplicemente perché era mutato il titolo giuridico di proprietà a favore di un’entità - certo da loro non dominata affatto - chiamata Stato, che era piena come un uovo di burocrati e poliziotti, e che

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Franco Livorsi ● La questione del mancato superamento del capitalismo

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dal marxismo non era e non sarebbe mai stata considerata un’entità “super partes”, è così incredibile da poter essere spiegata solo psicanaliticamente, come bisogno infantile di una “coperta di sicurezza”, di un dogma in cui credere, di un papà duro ma protettivo cui affidarsi, di un dio secolarizzato, e per ciò stesso di una chiesa autoritaria e infallibile di riferimento. Configura il genere di credente per cui il papa conta più di Gesù Cristo. L’unica argomentazione razionale plausibile per giustificare la fede in un tale “monstrum” poteva consistere nel considerare tutto quello strapotere burocratico e poliziesco succeduto al capitalismo privatistico nei paesi del cosiddetto “socialismo reale” come una lunga malattia della crescita, come la degenerazione di un assetto pure post-capitalistico, detto in tal caso “Stato operaio degenerato”, come opinò a lungo il maggior nemico di Stalin, Trockij, anche in esilio, specie ne La rivoluzione tradita (1936)6. Invece di trarre dal potere evidentemente reale non già di una delle forze o classi dell’economia, bensì della burocrazia e polizia e militari di carriera “di Stato”, motivo di confutazione del primato necessario di una classe economica su società e Stato, si deduceva da ciò l’idea che si fosse prodotto un mero bubbone da asportare, una sorta di malattia della crescita dentro il collettivismo post-capitalistico. Siccome la storia aveva smentito clamorosamente la teoria, si diceva che aveva solo deviato, producendo una parentesi. Per un’ironia della storia Trockij, il nemico assoluto di Stalin – da lui fatto ammazzare da un sicario, dopo molti tentativi di riuscirvi, con picconate in testa dopo undici anni di esilio, in Messico, alla vigilia della seconda guerra mondiale - elaborò la sola teoria all’apparenza razionale che potesse giustificare, come parentesi storica “situazionistica”, legata al confinamento del “socialismo” nei paesi arretrati e alla mancata rivoluzione proletaria nei paesi capitalistici avanzati7, lo strapotere burocratico e poliziesco proprio dei comunismi al potere (via via dal primo all’ultimo, dalla Russia alla Cina d’oggi, per non dire di Cuba). Tutti i comunisti critici e socialisti di sinistra del mondo, dicendolo o meno, si servirono di tale modello interpretativo, per decenni e decenni. In Italia ad esempio ciò era trasparente in tutte le sottili analisi del socialista marxista di sinistra Lelio Basso e faceva capolino, nel 1956, con immediato disagio dei sovietici, persino nel già ultrastalinista Togliatti8. Ma il processo di “costruzione del socialismo” nato nel 1917 è morto nel 1991, almeno da Berlino a Vladivostock, senza che la “degenerazione” fosse mai finita. E ciò dura ancora in Cina o a Cuba. Evidentemente quel processo era “generazione” e non “de-generazione”. E la Cina ha persino intrapreso da un buon quarantennio la via capitalistica di tipo privatistico in economia, all’ombra del solito strapotere burocratico-poliziesco detto comunista. Perciò soffermarsi ancora su tali cose sarebbe davvero un fare, senza costrutto, la storia dei se e dei ma; in tal caso addirittura per tutto un processo storico considerato dall’inizio alla fine, dal 1917 (o poco oltre) al 1991, ed anzi sino al nostro 2012. Mi pare ovvio che


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Alberto Ballerino ● Il mondo futuro tra catastrofe e utopia

Alberto Ballerino Il mondo presente-futuro tra catastrofe e utopia secondo Jacques Attali

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Il collasso del nostro mondo, prefigurato realisticamente in ogni possibile variante, viene contrapposto a una speranza nel contempo pragmatica e utopica da Jacques Attali nel libro Domani, chi governerà il mondo? (Fazi Editore, Roma, 2012, pp. 441, 16 euro), opera complessa e affascinante, che si offre a più livelli di lettura. Propone un’interpretazione della storia. È un’analisi molto precisa delle istituzioni internazionali odierne e delle loro numerose debolezze. Traccia un quadro efficace dei pericoli di crollo del sistema socio-economico globale. Descrive un’utopia in termini estremamente tecnici (quasi inserendosi nella grande tradizione del pensiero utopico). Passa dal sogno al pragmatismo con l’elaborazione di un’articolata strategia politica. A dare ancora più interesse al volume è la biografia del suo autore, un intellettuale e un tecnico che ha vissuto da protagonista, in questi anni, le vicende di quelle istituzioni internazionali che con tanta precisione sottopone a critica serrata. Consigliere di stato di Mitterrand, è stato primo presidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, istituzione finanziaria costituita, su iniziativa dello stesso Attali, dai governi occidentali per accompagnare i paesi dell’Europa centrale e dell’ex Unione Sovietica nella transizione verso un sistema economico di mercato. È anche direttore e cofondatore di Organizzazioni Non Governative a favore dei paesi in via di sviluppo come Planet Finance e Action contre la faim. Il vero cuore del libro è proprio la parte in cui Attali si confronta con le grandi istituzioni europee e mondiali, che conosce benissimo, avanzando le sue proposte. Più debole, e tutto sommato non necessaria, la prima parte del volume, che ricostruisce la geografia dei poteri mondiali dall’antichità fino ai nostri giorni. L’autore scrive questi capitoli iniziali perché vuole seguire il filo rosso che porta il mondo a divenire gradualmente un villaggio globale, passando tramite drastiche semplificazioni, attraverso la storia dei grandi imperi e dello sviluppo economico. Ad Attali importa indicare come venga risolto, in epoche diverse, il problema della governance e, contemporaneamente, come venga posto sul piano teorico. Infatti, cerca, in termini sintetici, di seguire l’evoluzione


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nel tempo dell’idea di un mondo unito a pacificato. Si passa così dall’impero qual era concepito da Dante a Kant, dall’utopia linguistica dell’Esperanto al progetto di Costituzione mondiale di Robert M. Hutchins. Una lunghissima premessa per arrivare al tema centrale che occupa la seconda parte del volume, il governo di un pianeta in preda all’anarchia di un mercato globale di fronte al quale il potere anche degli Stati più importanti diventa irrisorio. Gli Stati Uniti rimarranno a lungo ancora la potenza più importante, ma non saranno più in grado di gestire un mondo sempre più complesso, mentre le altre potenze emergenti non saranno in grado di sostituirli. Non esiste nessuno strumento in grado di fare rispettare le regole poste dagli innumerevoli trattati internazionali e dalle tante istituzioni sovranazionali, tutte deboli e impotenti. La stessa Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite), «oggi gioca un ruolo del tutto secondario nella risoluzione dei conflitti e nell‘aiuto allo sviluppo, e un ruolo appena più importante nelle situazioni post conflitto». Anche il Fmi (Fondo Monetario Internazionale) non gode di grande stima da parte di Attali, che ne sottolinea il ruolo modesto nelle grandi crisi finanziarie moderne, ricordando anche che la maggior parte delle sue riserve sono in dollari, cioè in una valuta che non è sotto il suo controllo e viene emessa da un paese i cui disavanzi sono in costante aumento. Questi organismi vengono passati tutti in rassegna con una disanima precisa dei loro limiti, spesso causati dallo squilibrio a favore di una o poche potenze. È il caso, per esempio, dell’Omc (Organizzazione Mondiale del Commercio), la cui «pretesa uguaglianza di trattamento è ovviamente favorevole soprattutto ai paesi ricchi, e in primis agli americani» (p. 231). Le grandi potenze e le istituzioni sovranazionali non sono quindi in grado di adeguarsi a una globalizzazione, che si sta concretizzando solo a livello di mercato. In questo senso Attali teme che stia disgraziatamente per avverarsi a livello pianetario il modello che piace tanto a economisti come Friedman di un’economia di mercato senza Stato. Nella sua analisi, la mondializzazione dei mercati senza quella dello Stato porterà all’insufficienza della domanda, alla disoccupazione di massa, allo sviluppo dei monopoli industriali. Per fronteggiare questi squilibri, si cercherà di suscitare domande artificiali, provocando l’accumulo di debiti privati. Il risultato saranno bolle finanziarie sempre più numerose mentre l’economia finanziaria si impadronirà di una parte crescente delle ricchezze mondiali. Si allargheranno le differenze tra opulenti oligarchie e masse ridotte alla povertà. «Un mercato mondiale senza Stato mondiale può essere soltanto un mercato senza diritto» (p. 270) scrive Attali. L’economia criminale, pertanto, si espanderà, diventando un vero potere politico e controllando intere nazioni. Insomma, questa mercato mondiale potrebbe ridurre il pianeta a una gigantesca Somalia.

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Attali passa in rassegna i pericoli reali che possono presentarsi in qualsiasi momento, di fronte ai quali il mondo non sarebbe in grado di reagire proprio per l’incapacità e la debolezza delle istituzioni internazionali e delle grandi potenze. In un mercato globale, privo di regolamentazione, il rischio di disordini finanziari a catena è grandissimo. Un disastro locale può trasformarsi in una catastrofe mondiale. L’enorme massa di 6 mila miliardi di dollari di liquidità già creata dalle banche centrali e la crescita dei disavanzi pubblici e dei prezzi delle materie prime potrebbero portare a una disastrosa inflazione mondiale. «Né gli Stati Uniti, né il G7, né il Fmi, né il G20 sono attrezzati per evitarlo» (p. 272) scrive Attali. L’incapacità di esercitare un controllo globale potrebbe consentire a istituzioni finanziarie private di collocarsi in paesi in cui è possibile sviluppare operazioni vietate in nazioni con legislazioni più rigide. Il sistema finanziario allora potrebbe assumere sempre più rischi, senza che alcuna istituzione sia in grado di conoscere le sue ramificazioni planetarie. Questo porterebbe a una crescita illimitata dei crediti, spostando tutti i rischi su risparmiatori e contribuenti. I giganteschi profitti attirerebbero altre filiali di istituzioni finanziarie, controllate dalla criminalità. La conseguente crisi finanziaria potrebbe avere conseguenze economiche, sociali e politiche pazzesche per l’intero pianeta e nessuno sarebbe in grado di intervenire. Altro grande rischio è quello demografico. Apparentemente è oggi sotto controllo, ma solo a patto che la fecondità dei paesi del Sud continui ad abbassarsi fino a raggiungere meno di due bambini per ogni donna e che la Cina riesca a mantenere la politica del figlio unico. Sui rischi legati alla guerra, Attali ricorda che i conflitti sono sempre più frequenti in situazioni come quella odierna in cui le armi offensive prevalgono su quelle difensive. Anche se si parla molto di scudi antimissili, a prevalere è il proliferare di armi d’attacco estremamente pericolose che utilizzano tecnologie civili poco costose (biotecnologie e nanotecnologie) in grado di vincere ogni difesa. In una situazione di crescenti conflitti locali, il sistema delle alleanze potrebbe portare a disastri già visti in passato. Inevitabile è che giunga il momento in cui il mondo si troverà a dover fronteggiare il problema della penuria di materie prime, di fronte al quale l’impreparazione è totale. Nel caso particolare del petrolio, il rischio è stato identificato abbastanza chiaramente. È ormai molto vicino il momento del peak oil tecnico, in cui la produzione diventerà temporaneamente inferiore alla domanda a causa dell’insufficienza degli investimenti dedicati alla prospezione. Questo punto critico è reso possibile dal fatto che la crisi economica ha rallentato l’esplorazione,


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riducendo l’offerta a medio termine, mentre la domanda crescerà notevolmente con la ripresa della crescita mondiale e l’incremento di un miliardo nei prossimi dieci anni della popolazione del pianeta.Tutto questo dovrebbe dare un potere notevole agli Stati del Golfo, a meno che i paesi consumatori non operino nei loro confronti forme di ingerenza e condizionamento. Ancora più grave sarebbe il peak oil assoluto, quando la metà di tutte le riserve mondiali di petrolio sarà stata consumata e comincerà davvero l’esaurimento di quelle rimanenti. Non c’è concordia a livello internazionale sulla data in cui si verificherà questo picco: per alcuni già nel 2014-2018, per altri entro il 2030, per altri ancora verso il 2060. Nel momento in cui si verificherà il peak oil assoluto, sarà necessario ridurre di quattro volte la quantità di energia fossile utilizzata per persona per vent’anni, razionandola. Altre crisi di cui si parla da tempo sono quelle naturali, con il fattore climatico a farla da padrone. Nel 2030 le emissioni di gas a effetto serra saranno del 37 per cento più abbondanti di oggi. Se la loro media non scende a 2,5 tonnellate pro capite (contro, per esempio, le 23 degli Stati Uniti), la temperatura media del pianeta aumenterà da 1,7° C a 2,4°C. Il risultato saranno tempeste, siccità, inondazioni e migrazioni di intere popolazioni. Tantissime le specie di cui si prevede l’estinzione. Particolarmente grave quella già in atto del corallo sottomarino, che gioca un ruolo essenziale per l’uomo e il pianeta, ospitando un terzo della specie umana, proteggendo le coste dalle correnti della marea, impedendo la proliferazione del Gambierdiseus toxicus, alga che intossica i pesci. Il 40 per cento delle barriere coralline, soprattutto nell’Oceano Indiano e nei Caraibi, è già deteriorato, mentre il 10 per cento è ormai perduto. Un mondo dove un mercato unico domina incontrastato di fronte a Stati sempre più impotenti, non potrà mai fronteggiare le sfide che l’umanità deve affrontare. Anzi, sarà, anche senza particolari catastrofi, sempre più preda di un’economia criminale che già oggi è potentissima. Tracciato questo scenario, Attali passa a quello opposto dell’utopia: il mondo come dovrebbe essere. È il sogno impossibile contrapposto a una realtà intollerabile, secondo uno schema classico. Basti pensare, per esempio, all’Utopia di Thomas More, in cui alla severa descrizione dell’Inghilterra della prima metà del XVI secolo seguiva la descrizione di un mondo perfetto. Tra l’altro, anche More era un intellettuale che conosceva bene la macchina del potere della sua epoca. L’utopia, d’altronde, non è certo fine a sé stessa ma critica e alternativa all’esistente. E questo vale sicuramente anche per Attali, che traccia con precisione le caratteristiche istituzionali di un governo del mondo, auspicato non per ragioni ideologiche, ma semplicemente di sopravvivenza. Gli Stati non dovrebbero essere cancellati in questo sistema planetario, organizzato su prin-

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cipi federali. Perno dell’utopia di Attali sarebbe un Parlamento tricamerale, formato da un’Assemblea mondiale, un Senato delle nazioni e una Camera della pazienza. L’Assemblea mondiale sarà formata da mille membri, eletti a suffragio universale indiretto a cinque livelli dai cittadini del mondo, riuniti in circoscrizioni di uguali dimensioni. Dovrà votare le leggi generali, in particolare il bilancio destinato a finanziare le operazioni riguardanti i rischi sistemici e la crescita. Il Senato delle nazioni sarà composto da due eletti per ogni nazione, indipendentemente dal numero dei loro abitanti. Dovrà gestire le controversie territoriali, vigilare sul rispetto dell’equilibrio geopolitico e garantire una reale equità nella ripartizione geografica delle risorse. Nella Camera della pazienza emerge l’anima tecnocratica di Attali. Sarà composta da cinquecento membri, reclutati attraverso un concorso e su criteri oggettivi di competenza come il Premio Nobel o altri riconoscimenti internazionali. Suo compito sarà vigilare sul rispetto dei grandi equilibri di lungo termine, sulla sostenibilità dello sviluppo, sul miglior impiego delle tecnologie e delle risorse finanziarie, sull’equilibrio dello Stato planetario, sull’indipendenza e sulla competenza della sua amministrazione. L’Assemblea eleggerà per cinque anni il primo ministro, che sceglierà gli altri componenti del governo del Mondo. Le tre camere nomineranno anche una Corte suprema mentre verrà adottata una moneta unica, sul modello del bancor proposto da Keynes. Questo sarebbe lo Stato federale del Mondo ma è un’utopia. Attali si propone quindi un cammino realistico per permettere all’umanità di gestire in modo ragionevole il proprio futuro. Il primo passo dovrebbe essere la formazione di una presa di coscienza e questo potrebbe avvenire attraverso l’azione di quelli che in precedenti volumi l’intellettuale francese ha chiamato ipernomadi: militanti di associazioni, giornalisti, filosofi, storici, diplomatici, ecc. In pratica, Attali assegna il compito di preparare il terreno al nuovo sistema a quegli intellettuali che operano e ragionano già in termini di villaggio globale. Le grandi rivoluzioni sono di solito precedute da profonde trasformazioni culturali. Sul piano istituzionale, si dovrà procedere gradualmente dagli organi già esistenti. Così, il Consiglio di sicurezza dovrebbe evolvere verso il nuovo Consiglio di governo del mondo, fondendosi con il G20 (Gruppo dei Venti). Questo esecutivo dovrebbe dipendere dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che avrebbe il potere di non approvare le sue decisioni. Fmi (Fondo Monetario Internazionale), Banca mondiale, Omc (Organizzazione Mondiale Commercio), Ilo (International Labour Organization), Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) e Unesco (United Nations Educational Scientific and Cultural) sarebbero posti sotto il controllo diretto del Consiglio di governo. La Banca


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mondiale, motore della crescita, nascerebbe dall’attuale Banca dei pagamenti internazionali, con una valuta fondata su dollaro, euro e yuan. L’equivalente della già citata Camera della pazienza sarebbe una Camera delle funzioni sostenibili, inizialmente di carattere solamente consultivo. Per finanziare tutte queste azioni si dovrebbe ricorrere a un sistema di tassazione da applicare ovunque, paradisi fiscali compresi. Per i reati di frode a essi relativi, sarebbe competente un Tribunale economico internazionale. Passi così decisi però richiedono una volontà popolare, oggi inesistente. Per crearla Attali pensa a quelli che chiama gli Stati generali del mondo. Per la loro costituzione non punta sui governi ma su una spinta che venga dal basso, forte anche della diffusione di massa delle nuove tecnologie informatiche. C’è un aspetto ideologico in Attali, che pensa a un’Alleanza per la democrazia che raccolga le nazioni democratiche, ponendosi il compito di aiutare le popolazioni sottomesse ad abbattere le dittature. Questa Alleanza potrebbe porsi in contrasto con il Governo del Mondo. Anche in questo caso la sua origine potrebbe partire da organismi già esistenti: sul piano militare e politico la Nato, su quello economico l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). A livello più globale, la Comunità delle democrazie e il Fondo delle Nazioni Unite ne sarebbe già un abbozzo. Attali ammette che queste istituzioni hanno oggi lo scopo di rafforzare il dominio degli Stati Uniti sull’Europa e sul mondo, ma ritiene che potrebbero modificare radicalmente la loro natura con l’ingresso delle grandi democrazie del sud del pianeta. Questo dovrebbe essere il progetto più pragmatico, ma in realtà appare decisamente carico anch’esso di utopia. D’altra parte, ne è ben consapevole lo stesso Attali, che ci ricorda come l’impossibilità di grandi cambiamenti spesso dipenda solo da noi: «…la maggior parte di noi è rassegnata, disfattista, incapace di utopia, convinta che le rivolte mondiali non siano possibili. E questa è la sola ragione per la quale non lo sono; basterà pensare che gli stati generali del mondo siano realizzabili perché lo diventino» (p. 343).

Alberto Ballerino, giornalista del trisettimanale “Il Piccolo” di Alessandia, membro del Comitato Scientifico dell’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea (ISRAL) di Alessandria, redattore del “Quaderno di storia contemporanea” dello stesso Istituto, è autore dei seguenti libri: Nonsolonebbia. Teatro, cinema, vita culturale ad Alessandria, Falsopiano, Alessandria, 2002; Anni rimossi. Intellettuali, cinema e teatro ad Alessandria dal 1925 al 1943, Le Mani-ISRAL, Genova-Alessandria, 2006; L’idea e la ciminiera. Riformismo, cultura e futurismo ad Alessandria. 1899-1922, ivi, 2010.

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Peppino Ortoleva ● Crisi dei sistemi politici e governo degli “esperti

Peppino Ortoleva Crisi dei sistemi politici e governo degli “esperti”: riflessioni sul “caso” dell’Italia

Questo articolo, scritto per una rivista francese, “Hermès”, mira principalmente ad esplorare il concetto di “governo dei tecnici” nell’accezione che l’espressione ha assunto nell’Italia di questi mesi: un’espressione il cui significato troppo spesso si dà per pacifico e perfino ovvio, mentre non lo è affatto; e le cui implicazioni ideologiche non coincidono con quelle legate ad altri usi di derivati della parola tekhné (a cominciare da “tecnocrazia”), ma sono legate ad una specifica fase storica, della democrazia italiana e di una crisi economica internazionale di cui non si vede la fine.

Premessa

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La formazione, nel novembre 2011, del Governo presieduto da Mario Monti, professore di Economia ed ex-Rettore dell’Università Bocconi, un ateneo privato di Milano, può sembrare un caso classico di “governo dei tecnici”. Ma può essere anche un caso da manuale di quello che oggi si può intendere con tale espressione, assai più ambigua di quello che possa sembrare. Quello che cercherò di vagliare, in questo breve contributo, è, in effetti, il sistema di valori, positivi e negativi, che la definizione “governo dei tecnici” può comportare, in particolare nel caso italiano. Come vedremo, questi valori, in gran parte, hanno solo una relazione indiretta con le competenze dei ministri considerate in se stesse. L’associazione mentale tra l’idea di un governo degli esperti e un sistema di valori che possiamo riscontrare nel caso del governo di Mario Monti è per un aspetto frutto di una situazione specifica (la lunga crisi della democrazia italiana, di cui questo governo è al tempo stesso il sintomo e il più recente tra i tentativi di cura), ma per un altro è il segno di un fenomeno più ampio, che può aiutarci a comprendere i fenomeni dei “tecnici al potere” anche al di là del caso italiano.


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Governo tecnocratico, post-politico, di emergenza Sette dei tredici ministri del governo di Mario Monti sono professori universitari, compreso il presidente. Elsa Fornero, il ministro che ha attirato l’attenzione più insistente dei media, è essa stessa professoressa di Economia e si è occupata per molti anni, in termini teorici, dei temi che le sono ora stati affidati dal governo: i problemi legati alle politiche del lavoro, dei contratti e dell’assistenza sociale. Oltre ai sette professori universitari c’è, tra gli altri, un ambasciatore, un ammiraglio, un giudice. Il ministro dello sviluppo economico era sino alla sua nomina il CEO (come si dice in gergo di origine americana ormai divenuto di uso corrente, questa è una crisi che parla inglese e importa l’inglese come lingua obbligata a chi dichiara di volerla curare) della più grande banca del Paese. Nessuno dei ministri può essere definito un politico di professione. L’opposizione tra governo “tecnico” e governo “politico” non potrebbe essere più forte. Per accelerare la transizione dal quarto governo di Silvio Berlusconi al nuovo, il presidente della Repubblica, Napolitano, ha utilizzato una delle sue prerogative nominando Mario Monti, l’11 novembre 2011, “senatore a vita”, e motivando la nomina in riferimento alla sua opera scientifica e al suo lavoro nella Commissione Europea. Così Monti è diventato membro del Parlamento, ma totalmente al di fuori dell’ordinaria vita dei partiti: non soltanto non può essere ricollegato ad alcun partito, ma i partiti per parte loro non hanno avuto alcun modo di intervenire nella procedura che l’ha portato in Parlamento. Dopo una settimana, Napolitano gli ha affidato la Presidenza del Consiglio. In questo modo il governo è stato, dal punto di vista istituzionale, assimilato alla tradizione dei governi d’origine parlamentare: a presiederlo è pur sempre un senatore. Ma dal punto di vista dell’immagine, è assolutamente un’alta cosa, se non addirittura l’opposto: siamo di fronte a un governo del Presidente della Repubblica, fondato sulla sua fiducia personale e soprattutto tecnica su una persona, e sulla fiducia tecnica dell’uno e dell’altro nei ministri, che hanno scelto insieme. La grande maggioranza del parlamento e il sistema dei partiti non hanno potuto che prenderne atto, ivi compresi i due partiti maggiori, che dopo essersi confrontati molto duramente per quasi vent’anni trasformando la politica italiana in una lunga lotta tra “berlusconiani” e “antiberlusconiani” si sono trovati ad appoggiare insieme il nuovo governo. Se avevano ancora la forza numerica per votare contro, non avevano più la legittimità (nel senso weberiano) per farlo. Il governo “degli esperti” ha mutato totalmente il quadro politico. Se da un lato ha costretto gli antichi nemici ad una sorta di alleanza al fine di sostenerlo, d’altra parte ha messo ai margini qualunque opposizione. Si è imposto innanzitutto

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come il solo governo possibile, come il governo reso necessario dalle circostanze, e ha concluso di fatto l’esperienza del “bipolarismo” italiano. Il mandato che il governo Monti ha ricevuto, è in effetti strettamente legato a due realtà che si sono espresse in forma drammatica nell’estate - autunno 2011: da un lato la crisi finanziaria del paese, la necessità di ritrovare una credibilità presso gli altri maggiori paesi europei, sotto la minaccia di una caduta verticale dell’Italia di tipo greco, ma di dimensioni molto meno sopportabili per l’economia europea e globale; D’altra parte, cosa che dal punto di vista strettamente nazionale può essere più importante, la crescente impopolarità non solo di Silvio Berlusconi come Primo Ministro, ma anche, e ancor più, di tutti i politici di professione e del sistema dei partiti in generale. Il “governo degli esperti” è presentato da una parte come il governo dell’oggettività e delle cifre, il governo capace di rendere conto all’Unione Europea e al sistema finanziario internazionale; dall’altra come il primo governo indipendente dai partiti. Sarebbe un errore parlare di tecnocrazia in uno dei significati che quest’ambigua parola ha assunto nel corso del XX secolo. Nel caso del governo Monti la “tecnica”, più che un valore in sé, è un anti-valore: tecnica come antidoto nei confronti della politica tradizionale, come identità professionale alternativa per accedere al potere e per avere la legittimazione a restarvi.

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Il rifiuto del sistema dei partiti, che è cresciuto a lungo sino a esplodere nell’ultimo anno, non concerne soltanto la politica tradizionale di partiti come il Partito Democratico (nato, non dimentichiamolo, dall’unificazione del vecchio Partito Comunista, chiamato poi Democratici di Sinistra, e dell’ala sinistra della vecchia Democrazia Cristiana), e l’Unione Democratica di Centro o UDC (nata dall’ala di centro-destra della Democrazia Cristiana), ma anche i cosiddetti “partiti nuovi” come la Lega Nord e il Popolo della Libertà, la coalizione berlusconiana. Ciò può apparire paradossale,visto che la Lega Nord alla fine degli anni Ottanta e la formazione politica berlusconiana (che originariamente si chiamava Forza Italia, e non ha mai avuto la parola “partito” nel suo nome a partire dall’exploit del 1994) si sono sempre presentati come i nemici dei politici di professione. Essi sono stati sin dall’inizio forze politiche “personali”, incentrate sui loro creatori: Umberto Bossi per la Lega Nord e naturalmente Silvio Berlusconi per Forza Italia – Popolo della Libertà.


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La loro legittimazione e la loro popolarità erano derivate dalla prima grande crisi della politica parlamentare che si è manifestata all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, e se essi hanno esercitato la loro egemonia sulla politica italiana per diciassette anni (senza interruzione, anche durante i periodi di governo della sinistra) è stato anche per la loro posizione tanto interna quanto esterna al sistema politico tradizionale. Per non citare che un esempio, in quella che si può chiamare la sfera pubblica ostentativa e che è assolutamente strategica in particolare nella vita politica italiana, Silvio Berlusconi non ha quasi mai partecipato ai talk-show televisivi che, sera dopo sera, oppongono i politici “ordinari”. Non si è mai presentato alla televisione come un uomo, neppure come un capo, di partito. Mentre nella normalità del “teatrino della politica” si faceva rappresentare da personalità minori di Forza Italia o del Popolo della Libertà, nelle occasioni particolari in cui si presentava agli italiani era solo. Non era un politico come gli altri, bensì Silvio Berlusconi, “Sua Emittenza” o la televisione allo stato puro, che occupava uno scranno in cui egli era naturalmente padrone, da cui poteva escludere tutti gli oppositori e tutti i giornalisti con le loro domande impreviste. Il suo alleato Umberto Bossi, si era costruito tutta per sé una personalità mediatica aggressiva e volgare, ma anch’essa unica, senza discussioni e senza scambio d’idee con gli altri politici, che disdegnava, come disdegnava i giornalisti se essi ponevano quesiti che non amava, sino a insultarli tramite parole e gesti, ed anche sino a minacciarli fisicamente. La parola “carisma” è senza dubbio eccessiva, anche perché Berlusconi stesso nelle sue cerimonie da monarca amava piuttosto una retorica in stile “Io sono come voi”, ma si può quantomeno dire che il partito berlusconiano come la Lega Nord, e la politica italiana in generale, abbiano sistematicamente evocato e simulato il modello della leadership carismatica. Il gioco ha funzionato per quasi vent’anni, molto più di quanto ci si potesse attendere; ma alla fine la delegittimazione traumatica della politica negli anni dell’ultimo governo Berlusconi (maggio 2008 - novembre 2011) ha investito e sconvolto i partiti personalisti di Berlusconi e Bossi non meno degli altri. Ciò è stato naturalmente conseguenza di una realtà economica inesorabile nella sua gravità, e di una caduta di consensi legata in particolare alla condizione delle nuove generazioni; ma è pure stato determinato dalla percezione crescente che si tratti di politici “come gli altri”. La rappresentazione della classe politica nel suo insieme come una “casta”, secondo una formulazione di successo lanciata dai giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, è in realtà molto deformante: non si tratta affatto di uno strato sociale chiuso in se stesso; per contro esso vive di cooptazioni, scambi e compromessi con le altre forze dominanti del Paese, visibili o meno visibili (dalla

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Saverio Zumbo ● Morire è troppo

Saverio Zumbo Morire è troppo. Appunti su “Bella addormentata” di Marco Bellocchio

Quand on a pas d’imagination, mourir c’est peu de chose, quand on en a, mourir c’est trop. L.-F. Céline, Voyage au bout de la nuit

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L’ultimo Bellocchio presenta una serie di vicende che corrono parallele alla tragedia degli ultimi giorni di Eluana Englaro. Vicende ad essa legate dal nesso tematico della vita (vitalità, eros, consapevolezza, sentimento di se stessi e dell’altro) e del suo contrario (ascetismo dell’ossessione ideologica o religiosa, inflazione dell’io che porta ad annullarsi in una causa o in un rapporto parentale malsano di dipendenza, nichilismo autodistruttivo). Le polemiche circolate intorno al film sono fuori luogo. Bella addormentata non è un film a tesi e non si presta a diventare una bandiera per nessuno. La sua sottigliezza e lucidità, il suo sarcasmo, non risparmiano alcuna presa di posizione convenzionale, e tanto meno schieramenti ideologici, politici o partitici. Le verginelle della religione e quelle del razionalismo scientista, della destra e della sinistra, della parrocchia o della protesta, avrebbero di che sentirsi disturbati, se potessero o volessero comprendere. Ma è sottile, il cinema bellocchiano, forse troppo non solo per la grana grossa corrente del cinema “commerciale”, ma dello stesso “cinema artistico”. Se c’è un partito preso, è quello per la preservazione scrupolosa, religiosa arrivo a dire, della preziosa vitalità che dimora nelle pieghe umide e umbratili dell’ambiguità e dell’ambivalenza. Qui è dato riscontrare un tratto distintivo della poetica dell’autore: il suo particolare modo di essere “pro-life”. Bella addormentata è soprattutto, bellocchianamente un film di immagini e sulle immagini. Sull’immaginazione sottesa a comportamenti, pulsioni, visioni delle cose. Immagini televisive e mediali. La propaganda di regime che trasforma la tragedia in farsa. La proiezione di bandiere piene di vento sui corpi appiattiti a due dimensioni dei parlamentari. E sulle loro anime ridotte a una.


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Nell’Ade illuminato a luce di candela di immaginarie terme parlamentari Roberto Herlitzka dà forma ad un demoniaco psichiatra che rifila panacee dal nome ridicolo, ma non proprio improbabile (“Serenesse”) alle anime perse degli eletti dal popolo. Al senatore Uliano Beffardi che si propone, per ragioni di coscienza, di votare contro la legge anti-eutanasia a costo di farsi espellere dal partito-azienda, propone un farmaco leggero, un “equilibratore”. Il riduzionismo biologico è servito. Il materialismo positivista è declinato rozzamente in campo psichiatrico come una sorta di vendetta dal diabolico terapeuta, che intende così difendersi dalla “noia” che la banalità della “malattia di mente” dei politici gli procura (non passare in televisione è per loro la più tremenda delle sventure). Si risolve perciò ad annientare la loro dimensione psichica. Positivismo non come luce che scaccia le ombre della superstizione. Ma, sarcasticamente, come accidia, male, diabolicità, inferno. (Non sarà un caso che il regista, accettando con riserva il premio assegnatogli dalla UAAR, abbia voluto sottolineare la propria diffidenza nei confronti del “razionalismo” e la propria convinzione che quanto di più prezioso c’è nella dimensione umana risieda nell’irrazionalità). Altre immagini-fantasie di annientamento si configurano nell’ossessione religiosa, nell’autodistruttività nichilista, nel compiaciuto cedimento al “sacrificio” ascetico e all’altrui vampirismo psicologico. La grande attrice che rinuncia alla vita per rinchiudersi in una prigione mentale di simboli, litanie e letture religiose nell’attesa vana che la figlia si risvegli dal coma. Conscia peraltro della qualità nevrotica della sua apparente devozione. Confessa di essere priva di vera fede e convinzione ad un prete che, per tutta risposta, la invita a interpretare la Madonna dei Sette Dolori. Fissarsi, anestetizzarsi, annullarsi in un’immagine stereotipica. Ma la “purezza” gioca brutti scherzi anche dall’altra parte della barricata. La furia ideologica del giovane psicopatico che si scaglia violentemente contro i manifestanti anti-eutanasia. Il cui carattere patologico è pure sottolineato dall’affiorare dall’inconscio delle rappresentazioni in cui si riconosce la parte avversa: Eluana vista come “Cristo in croce per diciassette anni”, la richiesta di lasciarla andare “in paradiso”, la fascinazione per la frase con cui Wojtyla chiedeva che non fosse ostacolato il suo ritorno alla “casa del Padre”. Mortifera è anche la male intesa e malvissuta dedizione che il fratello maggiore ha per lui. Identificandosi narcisisticamente in un’agiografia di salvatore laico cede alla feroce richiesta di oblazione di sé che il ragazzo disturbato gli rivolge, divenendo a sua volta da lui dipendente e rinunciando alla vita e all’amore “veri” per tornare a rinchiudersi nelle spire di una patologia familiare che rimanda ai Pugni in tasca. Un perfetto contraltare di “follia religiosa” in ambito cosiddetto laico. La tendenza di Bellocchio a inquadrare la fenomenologia religiosa in termini psi-

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cologici si manifesta altresì nella figura del figlio della grande attrice, a sua volta aspirante attore. Ossessionato dal “talento” della madre (cui evangelicamente rimprovera, appunto, di sprecare i propri talenti) le intona Il pianto della Madonna di Jacopone da Todi che sta preparando per l’esame alla scuola di recitazione. Verso il padre, pure lui attore, mostra viceversa disprezzo. Lo considera un mediocre. Tutto ci fa invece pensare che sia un buon padre (segue con calore la performance recitativa del figlio, alla quale la madre resta invece apaticamente fredda), e non necessariamente un cattivo attore. La sua “mediocrità” agli occhi del ragazzo risiede proprio nella sua “umanità”, nel suo essere estraneo, ed anzi simbolicamente alternativo, alla numinosità malata del complesso materno. Al polo opposto immagini di vitalità, vivificanti. Immagine dell’Anima (dell’“inconscio mare calmo”, nei termini di Fagioli) è la giovane tossicodipendente con la sua bellezza e fragilità. Nel suo mondo interiore le pulsioni suicide si dileguano per fare spazio a un’istanza di contatto umano e comunicazione profonda. Nel momento in cui il giovane medico, col suo innamorarsi, sì spoglia delle sue sembianze istituzionali e di potere. Trasformazione resa simbolicamente dalla sequenza in cui la ragazza gli toglie le scarpe mentre dorme, rinunciando alla tentazione del “salto nel vuoto”. Ma è nella vicenda amorosa della ragazza cattolica militante e del fratello maggiore del giovane psicopatico che il nucleo tematico dell’immagine psichica si sviluppa nel modo più strutturato e complesso. La giovane si sottrae alla veglia dimostrativa contro l’eutanasia, e quindi alla sua nevrosi (Bellocchio ci mostra la sua militanza come frutto di un trauma personale: il padre, il senatore Beffardi, ha ceduto alla tragica richiesta della moglie, cattolica, di mettere fine alle sue sofferenze), per abbandonarsi agli amplessi col ragazzo nella stanza d’albergo di lui. Il nome della ragazza, Maria, rimarcato come non casuale in alcuni passaggi, fa certo pensare a un’intenzione blasfema. Ma se così è, di “sacra blasfemia” (come nel celebre passaggio dell’Ora di religione) si tratta. L’amore anche fisico è lo Spirito che scende sulla donna aprendola a una dimensione di vita più intensa e profonda. E consapevole. Assunta in anima e corpo nel paradiso immanente dell’amore, Maria diviene capace di comprendere se stessa e ciò che la circonda. La visione carpita attraverso la porta socchiusa di una stanza d’ospedale che tanto l’aveva turbata, il padre chino sul corpo della madre, le si rivela per quello è stata, e che d’ora in poi continuerà ad essere: un abbraccio, e non un soffocamento. La comprensione del mondo dipende, dunque, dal maturare dell’immagine interiore. Ancora, la differenza tra i rapporti di dipendenza-oppressione e quelli di amore è quella che intercorre tra un soffocamento e un abbraccio. Capace di guardare e di guardarsi è adesso Maria, mentre l’attrice madre sof-


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focante chiede ai domestici di togliere tutti gli specchi (la risposta: “in un secondo tempo”, data alla domestica che le chiede se vanno tolti anche quelli del bagno, segnala probabilmente il diaframma che la separa da un auto-annientamento anche fisico). La sua nuova consapevolezza non scemerà neanche con la fine del rapporto, da imputarsi all’inettitudine sentimentale del ragazzo. (Quando si reca per l’ultima volta all’albergo, dove non lo troverà più, sente le campane suonare a morto per Eluana; ma, per correlativo oggettivo, è la relazione che muore…). “L’amore non rende ciechi” - dice al padre - “ma in grado di vedere”. In conclusione, non mi pare che il culto del numinoso “in interiore homine”, praticato da Bellocchio sia, come all’autore piace probabilmente pensare, “un atto di ateismo” (nuovamente, L’ora di religione). Lo stesso ricorso, benché più o meno critico e paradossale, a concetti e simbologie religiose porta a non pensarlo. Con ciò non si vuole, magari in buona compagnia, immaginarlo come un artista ben instradato sulla via di Damasco. Buñuel racconta che, da giovane, guardando il cielo, si diceva “è bellissimo e lassù non c’è niente”. Mentre in vecchiaia si limitava a dire: “è bellissimo” (si veda L. Buñuel, Dei miei sospiri estremi, SE, Milano, 2008) . Ecco, la mia impressione è che Bellocchio sia, forse, ancora troppo cattolico per poter non essere anti-cattolico. Ma forse non è neanche questo il punto. Rispetto alla chiesa, ciò che lo urta, non è tanto la trascendenza, ma il potere. Quel potere in rapporto al quale non ha mai cessato di considerarsi in quanto uomo, intellettuale, artista. Senza sconti e compiacimenti di sorta per nessuno. Basti pensare che, a fronte delle facili, ma non per questo meno doverose, bordate nei confronti dell’allora presidente del consiglio, in questo film il personaggio che più assomiglia a un eroe positivo è un ex socialista, confluito in Forza Italia, ingiustamente accusato ai tempi di tangentopoli. Non certo una strizzatina d’occhio al proprio target di pubblico. Né tanto meno ai settori della politica che, plausibilmente, più potrebbero essergli propizi. Ma tant’è. Si veda, ancora una volta, il fondamentale L’ora di religione. La sfortuna di Bellocchio, e la sua fortuna, è non avere mai davvero imparato a non ridere del conte Bulla.

Saverio Zumbo (saverio.zumbo@unige.it) insegna storia e teoria del cinema presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova. Tra le sue pubblicazioni, saggi dedicati all’opera di Kubrick, Wenders, Hitchcock, Bene, Rouch. Per le Edizioni Falsopiano ha pubblicato Al di là delle immagini. Michelangelo Antonioni (2002); Cinquecento al cinema. Genere e autorialità nei film tratti da commedie del Rinascimento (2005); La trappola del testo. Sul primo Kubrick (2012).

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Roberto Lasagna ● La redenzione della psiche

Roberto Lasagna Dalla “fine del mondo” al “mondo come fine”: strano amore, strana melancholia

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Ci sono registi talmente personali i cui film riflettono le inquietudini del loro tempo modulate attraverso una sensibilità e un gusto fuori da ogni facile classificazione. È quanto accade a Kubrick e Von Trier, autori difficilmente assimilabili, artefici completi del loro lavoro, indipendenti irriducibili e di ambizioni non comuni. Ogni accostamento forzato non convince, e non è questo l’intento del nostro intervento. Ci interessa guardare ai tempi in cui vengono realizzate alcune opere illuminanti sul senso della catastrofe incombente in epoche e generazioni lontane sebbene non sideralmente irraggiungibili. Gli anni Sessanta de Il Dottor Stranamore. Il duemiladodici di Melancholia. Il cinema torna periodicamente a confrontarsi con la disfatta della ragione, e la ragione è protagonista di questi due film apodittici sul senso o non senso del presente vissuto lontano dal chiarore armonicistico del lume naturale. In Kubrick l’uomo vive male la sua pretesa di ergersi a garante della ragione, si impegna in enigmatiche macchinazioni finendo in perpetui “cul de sac”. Si chiude in albergo per scrivere un libro autobiografico finalmente riparatore della propria psiche disturbata e invece viene risucchiato in un vortice di violenta non-cultura, in un azzeramento della lucidità, e lascia emergere una furia arcaica cercando la morte di moglie e figlio, ovverosia dei legami sociali e degli affetti (Shining); proiettato in un costante altrove; l’individuo alienato da se stesso tenta di trovare nuove improbabili identificazioni e sconcertante accudimento in una truppa destinata a implodere (Full Metal Jacket) o a combattere contro i propri fantasmi (Fear and Desire); tenta un’improbabile indentificazione nelle truppe di eserciti che obbediscono a rituali di morte anche in altre epoche (Orizzonti di gloria, Barry Lindon); cerca nel futuro o in una notte brava la fuga dal reale che possa offrirgli un’alternativa euristica allo stallo conoscitivo, esistenziale, o all’inedia (dapprima 2001: Odissea nello spazio, poi Eyes Wide Shut). In von Trier, viceversa, l’uomo ragiona troppo poco, e la donna è sovente la vittima designata di un mondo di crudeltà (Dogville, Le onde del destino). I personaggi che conosciamo con i film del regista danese non reggono l’ambiente sociale e lavorativo nel quale tentano di fuggire con l’aiuto dell’immaginazione (Dancer in the dark), e la carica istintuale dei personaggi qualifica una temperatura emotiva “ebbra”, che scontorna figure umane pronte a


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venire dissolte nell’acido dell’indifferenza (Idioti, Antichrist). Non c’è amore per le donne di von Trier, eroine che cercano il sentimento e l’identificazione con il loro prossimo ma ricevono in cambio uno “strano amore”, cioè il supplizio annunciato quasi programmaticamente dal regista alle sue eroine sacrificali invitate a rituali sadiani di incomprensione e brutalità. Kubrick è sardonico, spiazzante, oggettivante. Von Trier è uno spiritato solista della camera a mano che cerca di cogliere l’emozione sul nascere, la sbavatura, l’imperfezione che ha il colore della naturalezza. Kubrick e la sua ossessiva perfezione cercano lo straniamento, che vediamo nello sguardo di Alex o di Jack Torrance (Arancia meccanica, Shining). Von Trier, con la sua ostentata e ricercata “naturalezza” riconduce il cinema ad un’artificiosità reinventata con gli orpelli del realismo radicale. I due registi giudicano il loro tempo e invocano quel sentimento morale che lo spettatore sente ridestare dentro di sé quando, sollecitato dal racconto delle immagini, è invitato a fare i conti con identificazioni “scomode”. Ne Il Dottor Stanamore gli anni Sessanta di Kubrick sono i tempi della catastrofe atomica troppo spesso annunciata come imminente. Il mondo è un teatro regolato dalla partita a scacchi tra le superpotenze nucleari, disposte a dialogare malcelando una tensione divenuta presto insostenibile. La macchina militare è la protesi meccanica di una planimetria governata dai computer, nella stanza dei bottoni del Pentagono come nella sala rossa del Kremlino. I generali sostengono i presidenti dei loro stati e gli scienziati sono folli, deprivati di qualunque barlume umanistico o umanoide, fantocci automatizzati privi del controllo di loro stessi. Incapaci di rigore, personaggi come il “dottor stranamore” nascondono origini compromettenti (lui, transfuga della Germania nazista e adesso gioiello dell’intelligence statunitense) e se il mondo è avviato all’autodistruzione lo si deve al fatto che il sistema atomico su cui si sviluppa l’escalation è frutto della stessa (s)ragione, cioè dell’irrigidimento del pensiero autoriferito a acritico, che percepiamo nelle mosse goffe e irritate dello scienziato sulla sedia a rotelle interpretato da un grandissimo Peter Sellers. Kubrick ci mostra un’America schiava delle multinazionali, dell’irriducibilità delle convenzioni; un paese accecato dalla corsa al dominio, dalla paranoia che colora di tinte irrazionali il presente, irretito in comportamenti che palesano l’attitudine dei militari e dei potenti a farsi alfieri di una condotta esemplare, nella sua stolida noncuranza, mai contraddetta dal lume del pensiero libero. È un mondo destinato a farsi fuori da solo, soggiogato dall’estetica bellica che nel film risuona nelle sagome libranti, come dei cartoon, degli aerei in volo, ondeggianti figure di una natura “naturalmente” ibridizzata con la tecnologia. È l’apoteosi del sentimento estetico wagneriano e glorificante, nel risvolto morale capovolto di una scena atomica in cui la parcellizzazione dei rapporti e il rimarcare

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protesi e arti meccanici quali suppellettili della natura obbedisce ad un giudizio severo per quanto beffardamente divertito della condizione umana (o semi umana, ovverosia semi “macchinina”, ovverosia “umana-macchinica”). Nell’America di Stranamore il mondo è l’alba di un nuovo “pianeta delle scimmie” e il film di Kubrick si colloca centralmente in quel filone cinematografico dell’anti-utopia che ha tuttavia il suo senso detonante quale ispiratore di una carica progressiva evidente. Anti-utopia ancora più disarmante nell’ultimo film di Lars Von Trier, che palesa quella “fine del mondo” che in Stranamore si annunciava sulla musica di Vera Lynn che presagiva: “ci rincontreremo, in un giorno di sole”. In Melancholia non c’è quasi ironia. Il distacco critico kubrickiano, palesato dallo sguardo divertito e cupo, lascia il posto alle immagini dolenti di un’anteprima dell’apocalisse dalle tinte autunnali. Le immagini obbediscono ad una sinfonia grave, e l’antefatto musicale, in cui il volto della giovane Justine (nome sadiano) è raggelato in pose estatiche e cineree, annuncia la dimensione interiore della protagonista, monade assoluta, presenza sensoria di una scena in cui tutti i personaggi rimangono calati nelle convenzioni, mentre solo lei sente che il mondo è prossimo all’estinzione. Dove in Kubrick la rappresentazione dei rituali e delle consuetudini si fa teatro sconcertante e beffardo di animi svuotati, come paralizzati dal ruolo che li assorbe, in von Trier la scena delle nozze di Justine è l’occasione per la messa in mostra di una società classista, l’esibizione di una alta-borghesia nord-europea che non ha tempo che per il denaro e le convenzioni. Justine è un animo inquieto e Melancholia non ci offre molte spiegazioni pregresse del suo disagio. La vediamo mentre, con il marito, arriva in ritardo alla sontuosa cerimonia di nozze allestita come regalo dal cognato e dalla sorella. All’arrivo della coppia, i cerimonieri prendono delle precauzioni: chiedono a Justine se sia felice della festa, quali siano le sue intenzioni in proposito; in altre parole, si assicurano che la festa possa svolgersi confermando la regola di parata rappresentativa e sostanzialmente vuota. Il Settecento illuministico di Kubrick, secolo delle inquietanti opposizioni al suono della logica in Barry Lindon, cede il passo al Duemila consueto della rappresentazione esornativa e al contempo anonima, dove ciascuno è chiamato al suo ruolo di adepto per la sopravvivenza della specie. Durante il lungo pasto con i convitati, Justine ritrova il padre e la madre, ma sembra che nessuno sia realmente disposto a scendere a patti con un po’ di altruismo: la madre, anticonformista ma non per questo generosa, inscena un discorso rivolgendo ai convitati il suo verbo di disgusto per le cerimonie e i matrimoni; il padre, un giocherellone viziato e indolente, non possiede la sensibilità di assecondare il desiderio della figlia che lo vuole vicino a sé in quella casa-castello in cui è stata preparata la sua notte di nozze; il suo datore di la-


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voro, che le annuncia pubblicamente il passaggio di carriera quale regalo di nozze, la assilla anche in questo momento “idilliaco” suggerendole di trovare per lui lo slogan di una campagna pubblicitaria. Justine, che al lavoro realizza comunicati per il linguaggio pubblicitario, mostra in maniera definitiva ed esasperata la sua estraneità ad un mondo di formule convenzionali. Mentre ne Il dottor Stranamore nessuno si ribellava alla logica autodistruttiva creata ed alimentata dalla tensione tra le superpotenze, perché il film di Kubrick è una riproduzione delle beffarde declinazioni in chiave suicida inerenti la bellicosità della tribuna sociale in un’epoca storica determinata, in Melancholia la “ribellione” del personaggio di Justine consiste nel suo sottrarsi individuale al ruolo previsto di sposa serena e beata nell’eden di una borghesia per nulla illuminata. La sua nausea e il suo sgomento per i convenuti si palesano nel disagio con il giovane marito, il quale rimane in attesa della sua disponibilità, che però non sopraggiunge. Justine sente l’arrivo di Melancholia, il pianeta che secondo gli scienziati si nasconde dietro il sole e si avvicinerà moltissimo alla terra creando qualche squilibrio temporaneo ma nulla di più grave. Se per il cognato di Justine bisogna avere fiducia nelle parole degli scienziati, per Justine invece i giorni sono contati. Il pianeta Terra diverrà cenere, la stessa che lei ritrova nel sapore del polpettone che la sorella le prepara dopo lo smantellamento della sontuosa festa. Una festa che finisce con la partenza di tutti i convitati, perfino del marito, il quale lascia Justine quasi senza sgomento, abbandonandola, ingenerosamente, al suo destino di donna insoddisfatta. Strano, anzi, stranissimo amore, per un marito che si diceva molto innamorato, ma presto illuminato, anzi accecato, dal suo egoismo. Lui forse aveva capito che la bella e misteriosa ragazza era un’estranea per quel mondo, che il suo dolore significava anche lontanzanza da quella terra di convenzioni e soprusi ai danni del più debole; eppure non fa nulla per lei; resta quasi inebetito, e lei, giustamente, gli rivolge queste parole: “ma cosa ti aspettavi?”. La meschinità più che la doppiezza pare disegnata sul volto dei personaggi di Melancholia, e in questo von Trier è fedele a tutto il suo cinema più recente. È un mondo in cui alcuni, pochissimi personaggi anelano a congiungersi con una dimensione più alta e assoluta del vivere. Il conflitto tra scienza e spiritualità è declinato in chiave empirista, per così dire. I personaggi, clamorose anime bambine di un cinema dai tratti melò, sono in contatto con la loro sensibilità che vede riflesse nel mondo terreno sprazzi di una vita differente. Gli animali, gli alberi, i fiumi, si colorano di significati aurorali o apocalittici (o entrambe le cose contemporaneamente), proprio come in Antichrist, mentre la visione del pianeta Melancholia è anticipazione di una congiunzione con una dimensione altra, che potrà significare morte o resurrezione. Non a caso Justine si porterà nuda tra le tinte naturaliste del grande giardino antistante l’abitazione della sorella e

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del cognato, quale vittima sacrificale, agnello d’oro risplendente bellezza, al cospetto del pianeta che diviene per lei il padrone del suo destino. In questa prospettiva, la monade Justine, punto di osservazione del futuro cosmico, palesa l’esaltazione di un senso estetico che si congiunge con il sentimento morale. Von Trier conferisce alle sue immagini pittoriche, qui più composte come già nel precedente Antichrist, la lentezza contemplativa che suggerisce il valore di una visione esteticamente significativa: la violenza della realtà quotidiana, rimarcata dalla camera man mano che coglie le sbavature e i saltellamenti che si celano nell’apparente “normalità” della tribuna sociale, cede il passo ad una tentazione assolutoria, ad una visione pittorica estatica e non meno sconcertante, dove Justine si trova calata in un destino in cui la materialità del mondo sembra fondersi con la visione “spirituale” che la pervade. In Stranamore il mondo è visto in maniera astratta dai potenti razionalisti che comandano il pianeta. In Melancholia lo sguardo esistenziale di Justine si colora di tinte moderne: lei è la sonda capace di guardare a quel pianeta, simbolico e forse reale, che porterà alla fusione la terra con l’immaginazione. Che senso ha allora vivere se la catastrofe pare annunciata e gli uomini sulla terra non se ne curano? I registi, almeno quelli citati, non invocano e non hanno mai invocato l’Apocalisse. Ma di catastrofe hanno avuto il sentore. Catastrofi umane e sociali. Disastri nelle relazioni tra i simili. Sopraffazioni sistematiche. Smarrimento del senso e del significato delle azioni quotidiane. Un senso di dominio razionalista connota le ambizioni spaesanti dei personaggi di Kubrick. Un vuoto di comunicazione e di sensibilità sprona le urla e le preghiere delle eroine sacrificali del regista di Dogville. I due registi, dunque, non sono paragonabili. Ma i loro film ci mostrano da apici differenti come il mondo sia cambiato e, almeno a tratti, sia rimasto da lunghi anni sempre lo stesso. Il senso di catastrofe che l’uomo contemporaneo vive passivamente, quasi non avvertendolo, rendendo anzi l’individuo un fantoccio nelle mani di un sistema che fa implodere le contraddizioni sociali e perfino politiche, era in Arancia meccanica, ma anche in Full Metal Jacket e addirittura in Eyes Wide Shut. Quello di Kubrick è un cinema che rinvia al contesto culturale di riferimento, per cui diventa impossibile giudicare i marines fantoccio di Full Metal Jacket senza un rinvio alla macchina bellica statunitense, pronta ad alimentare con l’ignoranza e il credo nel corpo-patria, una schiera di giovani nullatenenti glorificati dal culto della sopravvivenza astratta del plotone suicida. Quello di von Trier è un cinema in cerca di un equilibrio che non arriverà probabilmente mai, manierato e intransigente, esploratore grazie al suo eccentrico autore di territori solitamente poco frequentati dalla scena contemporanea. Soprattutto questo rilievo ce lo rende interessante. Chi altri avrebbe potuto realizzare un film d’autore sulla fine del mondo calcando in stile

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moderno territori tematici che ci riportano al confine tra il Medio Evo e il Rinascimento? In un altro momento storico Melancholia avrebbe forse potuto irritare, e non poco. Oggi che il regista ha fatto platealmente harakiri al festival di Cannes mostrando uno humour nero in sintonia con il suo film “finale” (si è professato simpatizzante dei nazisti dinanzi ad una platea internazionale di giornalisti, ma come non cogliere la brusca auto-ironia danese? Von Trier non è Breivik…), Melancholia ci appare un film beffardo su una fine del mondo che suona come monito a chi sa guardare oltre le regole ufficiali e le convenzioni. C’è un mondo di persone diverse da quanto ci viene descritto dalle rappresentazioni pubblicitarie (il lavoro di Justine, che rinuncia anche a tutto e perfino alla carriera). Ci sono persone che sentono la cenere intorno a noi e che vivono la realtà come un flusso di percezioni spirituali ovverosia esistenziali. Il pianeta, vero o immaginario, che si chiama Melancholia, non si chiama così per caso. Questo sentimento pervade Justine, le rende impossibile adattarsi perfino alla convenzione di un pasto riparatore con i parenti. Quella che può sembrare una forma di disadattamento o di anoressia (Justine rifiuta tutto, e se guardiamo bene, anche la madre sembra aver rifiutato lei, ovverosia di starle vicino come fa anche suo padre) è colta in chiave filosofica come una dimensione di “luccicanza”: Justine, dentro di sé, possiede una specie di “shining”, sa vedere con il suo dolore il mondo nel suo vero destino. In fondo, la “luccicanza” è questione di predisposizione, ma anche di cultura. Come in Kubrick, la simbologia è in primo piano. Laddove il grande regista americano è un perfezionista della rappresentazione enigmatica e siderale, von Trier è più grossolano, ma in Melancholia come nel precedente Antichrist il racconto procede spedito verso la denuncia dell’abiezione. Qui i personaggi sperimentano sulla loro pelle la meschinità e l’isolamento di una scena sociale in cui le persone, collocate in ruoli, non osano un passo al di fuori di essi, pena la morte in terra. Ma la morte può venire anche quando si ha la pretesa di poter controllare tutto, e così facendo ci si autoinganna. La pretesa degli scienziati di scongiurare il passaggio di Melancholia con gli studi matematici più aggiornati, sembra la battaglia persa degli astronomi contro le leggi immutabili e preordinate del cosmo. La visione beata, armonicistica, degli uomini devoti al culto della scienza, si scontra con la visione, forse anch’essa armonicistica, ma in un altro senso, di Justine, la cui fusione estatica con il cosmo significa ridare un senso pieno all’esistenza, come parte di un tutto significante ed esteticamente appagante. Attendendo Melancholia, Justine ha il sentore che la morte pioverà dal cielo, ma questa morte le pare forse una liberazione. Il ricomporsi con la natura, con un’armonia prestabilita, a cui gli individui non sanno più guardare. In questo senso il film di von Trier ci riporta a Leibniz ma forse ancor di più ad una tradizione di cinema d’au-


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tore coraggiosamente “ingenuo” e naif, ovverosia impegnato a parlarci dell’individuo che ha smarrito il senso del suo girovagare. Ha la forza di parlarci con disarmante schiettezza del mondo che si disfa mentre tutti sono presi dall’alienazione che è diventata gretta sopraffazione a cui gli individui hanno in definitiva il piacere di partecipare. Qui il nome sadiano della protagonista non è solamente beffardo. E l’autore che si “diverte” a far collidere la terra con il pianeta Melancholia è un provocatore, qui forse al suo apice di urgenza espressiva. Dalla “fine del mondo”, annunciata e vista in Stranamore e in Melancholia, alla rivendicazione di una vita più umana e relazionale, dove le persone si riappropriano del senso del loro cammino, su questa terra. Le simbologie, per una volta, hanno il valore di un suggerimento inequivocabile, almeno nella barocca visione del regista danese in preda alle sue visioni e, come al solito, alle sue nevrosi (talvolta imbarazzanti e autolesioniste, come a Cannes 2012).

Roberto Lasagna è saggista e critico cinematografico. Ha preso parte alla Giuria del premio “Adelio Ferrero”. Cura la rubrica “La scena atomica” per il mensile “Duellanti”. Tra i suoi libri: I film di Stanley Kubrick, Falsopiano, 1997; Martin Scorsese, Gremese, 1998; Lars Von Trier, Gremese, 2003; Russ Meyer, Castelvecchi, 2005; I film di Dario Argento, Falsopiano, 2008; Walt Disney. Una storia del cinema, Falsopiano, 2011.

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Giovanni Sorge Note sul Festival cinematografico di Zurigo del 2012

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Si è conclusa con bilancio decisamente positivo l’ottava edizione dello Zurich Film Festival (dal 20 al 30 settembre), rassegna giovane e densa di iniziative che si sta creando una nicchia di rispetto a fronte di festival ben più noti, dalla vicina kermesse locarnese a quelli di Venezia e Cannes. Circa 58.000 visitatori sono giunti al Festival, che quest’anno ha presentato 120 pellicole da 22 paesi, fra cui nove premières mondiali, e ha visto un parterre di ben 350 invitati fra i quali Richard Gere, Susan Sarandon, John Travolta, Emmanuelle Riva, John Hawkes, Carlos Leal, Julia Jentsch, Herbert Grönemeyer, Tom Tykwer, Oliver Stone, Asghar Farhadi e Jerry Weintraub. Certo non bastano i prestigiosi (e facoltosi) sponsor a spiegare il crescente successo della manifestazione zurighese. E anche se alla serata di gala capita d’incontrare un’impiegata dell’amministrazione cantonale la quale - cocktail alla mano e tacchi a spillo - riferisce – e pare voler assecondare – accigliate lamentele a proposito di eccessivo glamour e paillettes, non si può negare che l’evento non dia spazio anche a temi e autori “non allineati”. Soprattutto, esso si rivolge alle nuove generazioni “dal primo al terzo mondo”, dice Nadia Schildknecht, direttrice artistica e cofondatrice della manifestazione insieme a Karl Spoerri. La responsabile del Festival ci ricorda che l’idea di esso si concretizzò nel 2004, quando Spoerri decise di portare a Zurigo il Festival digitale britannico Onedotzero_adventures in moving images. L’anno successivo prese avvio la prima edizione. “Zurigo – continua la Schildknecht – ci è sembrata perfetta: dispone di molti cinema e di un’infrastruttura ottimale, si trova al centro dell’Europa e ha un pubblico estremamente interessato al cinema; ma non avevamo idea di quanto tempo sarebbe stato necessario per crescere. Abbiamo iniziato, semplicemente, e con questa visione sapevamo di dover creare e raggiungere un significato per le nuove generazioni. Non sapevamo però quando ciò si sarebbe realizzato, perciò siamo contenti dei risultati, e continuiamo a impegnarci con passione; il successo va conquistato e per questo bisogna continuare a lavorare”. Negli scorsi anni il Festival ha omaggiato registi “scomodi” come Constantin Costa Gavras, autore del memorabile Z – L’orgia del potere (1969), di Mis-


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sing (1982) e Amen (2002), insignito nel 2008 del premio alla carriera. Medesimo riconoscimento è andato nel 2011 ad Alejandro Gonzàlez Iñárritu, per aver saputo dimostrare - così la laudatio - “come si può raggiungere e toccare in profondità il vasto pubblico con film complessi e intelligenti”. Salito alla ribalta internazionale nel 2000 con il lancinante Amores Perros (che ha segnato il debutto cinematografico di Gael García Bernal), il regista, sceneggiatore e compositore messicano, autore di 21 Grammi (2003), Babel (2006) e del recente Biutiful (2010), ha sottolineato l’importanza dei festival cinematografici perché consentono di manifestare “la propria autoespressività anziché quella dell’industrializzazione” e si è detto grato di un premio che considera “un invito a continuare a lavorare”. Ancora nel 2011 è stato premiato l’attore e regista Sean Penn, l’’eterno ribelle’ (come lo ha definito la “Neue Zurcher Zeitung” ricordando anche il suo impegno privato a favore dei meno fortunati) e si è infine consegnato il premio a Roman Polanski che due anni prima, nel settembre 2009, appena giunto all’aeroporto di Zurigo-Kloten proprio per ritirare il premio, era stato arrestato su mandato internazionale emesso dalle autorità statunitensi per via dell’accusa di violenza sessuale risalente al 1977; Polanski aveva poi trascorso gli arresti domiciliari nel suo chalet di Gstaad, nell’Oberland bernese, monitorato da un congegno elettronico oltre che da un’infaticabile andirivieni di curiosi e giornalisti, fino al rifiuto svizzero della domanda d’estradizione negli Stati Uniti. Ricco e variegato, il programma di quest’anno e ha dato spazio a numerose piccole produzioni, a una vasta scelta di documentari e a pellicole più adatte al vasto pubblico. Culmine della serata delle premiazioni è stato il conferimento del premio alla carriera al regista e produttore Tom Tykwer, autore di Lola corre (1998), Profumo - Storia di un assassino (2006), adattamento del romanzo di Patrick Süskind, e nel 2009 The International, un thriller politico intorno al potere di banche e multinazionali. Il regista ha detto di considerare l’onorificenza “un prix d’encouragement pour les 20 prochaines années”. Fra i molti riconoscimenti del festival zurighese, i cosiddetti “goldene Auge” (“occhi d’oro”) dedicati alle diverse sezioni tematiche ricordiamo quello al miglior film internazionale, andato a Broken del britannico Rufus Norris (con un ottimo cast che comprende Tim Roth, Cillian Murphy, Robert Emms, Zana Marjanovic, Eloise Laurence e Clare Burt), già premiato quest’anno a Cannes; e quello al miglior documentario internazionale, conferito a The Imposter dello statunitense Bart Layton. Fra le numerose proiezioni mi limito a tre segnalazioni. Costituisce una buona analisi e una critica attenta dell’attuale sistema finanziario Four Horsemen di Ross Ashcroft (con Noam Chomsky, Herman Daly, Camila Batmanghelidjh, Ha-Joon Chang); il riferimento ai quattro cavalieri dell’Apocalisse rimanda alla preoccupante situazione dell’attuale crisi finanziaria

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mondiale, e dell’ancor più preoccupante struttura del sistema stesso: il titolo allude così ad altrettanti tratti “apocalittici” del sistema attuale: un’economia ingannevole, la violenza organizzata, la distruzione delle risorse naturali e l’impoverimento di una fascia sempre più estesa della popolazione. Il film si addentra nelle (s)ragioni della crescente e apparentemente inarrestabile sperequazione tra ricchezza e povertà e propone diverse riflessioni e suggerimenti per voce di ventitré pareri provenienti da esperti di finanza, scienza ed economia che delineano un bilancio e tentano di proporre soluzioni o correzioni di rotta. Notevole, inoltre, il film (fuori concorso) The Words (2012) scritto e diretto dai giovani debuttanti Brian Klugman e Lee Sternthal. Ambientato tra la Parigi del dopoguerra e la New York di oggi, il film vanta un cast d’eccezione, da Jeremy Irons a Dannis Quaid a Zoe Saldana e Bradley Cooper. Film che gli autori hanno iniziato a concepire nel lontano 1999 e che merita a mio parere particolare attenzione, perché presenta un riuscito connubio fra una sceneggiatura ben scritta e articolata e un ritmo incalzante, pur trattandosi di una storia per molti aspetti intimistica e certo non di un thriller. Incentrata su un plagio letterario, essa porta il protagonista, Rory Larsen (Bradley Cooper) assurto a fama e successo grazie a un romanzo non suo, ad incontrare l’anziano autore Ben Barnes (uno straordinario Jeremy Irons), e trovarsi così di fronte a colui che quelle parole, per lui divenute immeritata fonte di guadagno e autostima, aveva concepito sotto il peso di un tragico destino. Sangue del suo sangue, sottrattegli per un caso del destino, esse ritornano a entrambi sotto nuove fattezze, e mettono il giovane di fronte a quel che sta dietro le parole, e - attraverso l’inaspettata presenza fisica del suo autore – forse anche di fronte a se stesso e alla sua vanità, e inducono il vecchio a ricordare il suo tragico passato e la colpa di aver amato le parole più della donna che le aveva ispirate.. Alla domanda sul prossimo film gli autori si sono limitati ad augurarsi che “possa venir realizzato presto”. Un altro lavoro frutto di altrettanto annosa gestazione è il documentario Paul Bowles. The Cage Door is Always Open (2012) di Daniel Young. Il film ricostruisce la complessa vicenda umana e intellettuale dell’autore di The Sheltering Sky (1949) da cui Bernardo Bertolucci ha tratto una mirabile trasposizione cinematografica con il Thè nel deserto, (1990). A Tangeri, lo scrittore e compositore statunitense, insieme alla moglie Jane Auer, divenne punto di riferimento per molti espatriati americani come Truman Capote, Tennessee Williams, Gore Vidal e molti protagonisti della Beat Generation (da Allen Ginsberg a William S. Burroughs, da Gregory Corso, Jack Kerouac). Ripercorrendo vita e ricordi dello scrittore, il documentario ne offre un convincente ritratto a partire da una intervista condotta da Young nel 1998, l’anno prima del decesso, integrata da diverse altre testimonianze fra cui quella di Gore Vidal, Edmund White, Ira


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Cohen, John Waters e lo stesso Bertolucci. Gran parte della colonna sonora è costituita da registrazioni musicali effettuate da Bowles, che con la sua instancabile attività di ricercatore ha salvato dall’oblio una enorme quantità di musiche popolari e tradizionali marocchine, con ciò contribuendo, come il film mette in evidenza, in misura decisiva alla coscienza della identità culturale musicale nordafricana. Il prossimo appuntamento è fissato dal 26 settembre al 6 ottobre 2013.

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Mario Gerosa ● L’arte virtuale e il Kitsch

Mario Gerosa L’arte virtuale e il Kitsch

Come si evince dalla teoria delle catastrofi messa a punto da René Thom, la catastrofe non ha un’accezione del tutto negativa: il termine ha anche un significato di passaggio da uno stato all’altro e può essere visto anzi come l’indice di una trasformazione in corso. Questo concetto interpreta bene la situazione dell’arte dei primi anni del ventunesimo secolo, e soprattutto dell’arte virtuale, una categoria ampia che racchiude tutta una serie di espressioni, i cui parametri sono ancora in via di definizione. Un’arte in trasformazione che ha un gran numero di diramazioni, tra cultura alta e mainstream e culture generate dal basso. In particolare, un filone consistente dell’arte virtuale - quello sviluppatosi nell’humus dei social network e dei siti internet pensati come vetrine per creativi - risente di influenze Kitsch, un fenomeno che oggi non è più considerato anti-arte, come era consuetudine fino a qualche tempo fa, ma un’interessante deformazione dell’arte stessa, svuotata dell’originario significato di veicolo di cattivo gusto. In questo senso, anche il Kitsch, come l’arte, è stato oggetto di una lenta e progressiva trasformazione durata più di un secolo, che ha cambiato il valore assoluto di tale fenomeno. Finché l’arte era classificabile e catalogabile in modo pressoché univoco, il Kitsch, oggi ampiamente rivalutato, si prestava a una immediata riconoscibilità. Ora che i contorni dell’arte sono più sfumati, l’atto del giudicare è assai più complesso: si è attuato un vero e proprio capovolgimento, una “catastrofe” che ha mutato i valori estetici, e si rendono necessari nuovi parametri per fare un discrimine sul gusto, in particolare quando si parla di nuovi media, influenzati dalla cultura pop e dalle varie espressioni del Kitsch1. Quindi, prima di esaminare da vicino il discorso dell’arte virtuale, è utile vedere come si è modificata la personalità del Kitsch, concetto determinante per quel tipo di modalità creativa.

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Fino a venti o trent’anni fa, il Kitsch era facile da definire. Si diceva Kitsch


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e venivano in mente tre o quattro esempi classici: il macinino da pepe a forma di Tour Eiffel; la gondola dorata con le luci elettriche a intermittenza, parente stretta delle decorazioni dell’albero di Natale che trasformava virtualmente ogni giorno in un giorno artificiale di festa; lo gnomo da giardino che imitava in modo approssimativo i nani di Disney (non certo quello ironico e colto del design di Philippe Starck), e le operette nostalgiche della Mitteleuropa di provincia. Era un Kitsch vintage, che sembrava non potesse e non dovesse mai rinnovarsi. Sotto questo Kitsch (che collocheremmo tra i media “freddi” della celeberrima categorizzazione di McLuhan) non c’era niente o poco più: da un’icona bisognava inventarsi tutto. L’importante per i seguaci di tale fenomeno era dare un segno esteriore di appartenenza all’élite della cultura, e lo si faceva moltiplicando citazioni casuali riprese da esempi famosi: la Gioconda sulla t-shirt, la statuina della sfinge, il piatto con l’immagine del castello di Ludwig. Prima il Kitsch era Kitsch e basta. Si diceva Kitsch e si pensava a qualcosa di cristallizzato, alle boules de neige col Duomo di Milano, alle canzoni strappalacrime, ai manifesti della corrida personalizzati col proprio nome al posto di quello del cordobès, ai cofanetti delle caramelle degli anni ’70, che oggi vengono contesi su eBay dai collezionisti. Tutte cose datate, che facevano e fanno sembrare il cattivo gusto come un reperto da museo, innocuo, perché sempre uguale a se stesso. Tra gli estimatori di quel tipo di Kitsch c’erano (e ci sono) anche i collezionisti consapevoli, che disseminavano nella propria casa anche qualche oggetto curioso, per creare un contrasto e per far vedere agli altri che si può riuscire a tenere a bada e ad addomesticare il cattivo gusto, sempre sotto controllo. Per loro, sfoggiare la parola Kitsch additando manufatti di varia natura, equivaleva a darsi un contegno da connaisseur. L’oggetto Kitsch veniva citato tra tanti oggetti di buon gusto, come fosse una pietra di paragone, e non veniva mai metabolizzato. Quel termine veniva usato spesso a sproposito, inflazionato da chi sentiva il bisogno di ostentare l’ambigua etichetta, tracciando con presunta sicurezza i confini del bello e del brutto. Grosso modo la linea di demarcazione era quella del bon ton: o si stava da una parte o dall’altra. L’eccesso e la trasgressione si avvicinano al Kitsch; l’ordine e la presunta piacevolezza al buon gusto. Una forzatura, che oggi porterebbe al discutibile assioma secondo cui, per esempio, il minimalismo non può essere Kitsch. Negli anni Trenta si parlava di Kitsch e di cattivo gusto come di qualcosa di moralmente disdicevole: lo scrittore austriaco Hermann Broch diceva che il Kitsch è il male nel sistema dell’arte. A prescindere da un giudizio di merito, è

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interessante notare che il Kitsch ha un suo valore etico assoluto che cambia a seconda dell’osservatore. Il cattivo gusto sussiste da solo, il Kitsch invece implica una relazione con lo spettatore, che deve dare un suo giudizio personale, interloquendo in qualche maniera con l’opera. Anche per questo oggi c’è un forte recupero della cultura Kitsch, soprattutto nell’ambito dell’arte virtuale: nell’era degli universi sintetici e dei social network si è affermata una visione che implica il coinvolgimento dell’utente, che si trasforma in partecipazione a tutti gli effetti. C’è voluto parecchio tempo perché si arrivasse a una tale rivalutazione. Negli anni ’70 prevaleva un atteggiamento da snob, negli anni ’80 del Postmoderno aumentò la confusione tra le categorie e il Kitsch venne anche storicizzato, negli anni ’90 si rivalutò, anche sull’onda del recupero della trash culture. Oggi se si definisce il Kitsch una banale questione di buono o cattivo gusto, si rischia di andare fuori strada. Cerchiamo allora di fare chiarezza, definendo innanzitutto un inquadramento cronologico, dato che il Kitsch è una creatura mobile, camaleontica, che non rimane mai uguale a se stessa. Prendiamo le mosse dagli inizi del ’900: in quell’epoca si sviluppa il protokitsch, che equivale grosso modo all’idea che tutti hanno di quel termine. A quel tempo il cattivo gusto cerca una propria identità, non ha ancora alcuna coscienza di sé e oscilla tra cultura alta e cultura bassa. Tantoché per il Kitsch di quel periodo troviamo opere assai diverse tra loro: si va dai dipinti di maestri che stanno in bilico tra il simbolismo e l’eccesso decorativo fine a se stesso (volendo, anche certe opere di Klimt risentono della poetica del primo Kitsch), alle cartoline illustrate, che coprono un repertorio sterminato di fantasie e suggestioni, percorrendo tutti i territori del gusto. La Belle Epoque amava il Kitsch e non perdeva occasione per corteggiarlo e per incentivarne la produzione. Basti pensare che quel periodo vide nascere l’Art Nouveau, con la sua allure funeraria, connotazione che curiosamente ritorna, ciclicamente, un secolo dopo, nel Kitsch dei primi anni del XXI secolo. Allora si indulgeva molto sul sentimento sottolineato all’eccesso. Il protokitsch dei primi del ’900 era svenevole e mieloso, con le fragili donnine di Mucha, le lampade in pasta di vetro, i romanzi degli emuli di D’Annunzio. Il Kitsch dei primordi ha un atteggiamento estatico, di presunta venerazione, è il dubbio gusto che sta sempre a bocca aperta, che ama convincersi di sbalordirsi, è il Kitsch che si commuove e che ha un atteggiamento un po’ triste nei confronti della vita. Il protokitsch, che vive perennemente con gli occhi sgranati, ha molto in comune con l’atto della venerazione e in questo senso spiega anche la sua natura pseudo-sacrale. Come ha scritto Denis Dutton, “il perfetto esempio di


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Sonia S. Braga ● Apocalittici e disintegrati

Sonia S. Braga Apocalittici e disintegrati. Schegge d’arte nella situazione atomica

“Parecchie giustificazioni ebbe per noi all’inizio il termine nucleare. Anzitutto ci sentivamo artisti di un’epoca in cui l’indagine atomica e nucleare spalancava nuovi infiniti orizzonti: artisti quindi, più che nucleari, di un’“epoca nucleare” 1.

Antefatto Ben prima che l’obelisco di Trinity Site identificasse il ground zero dell’esplosione del primo Gadget atomico2, sintetizzandone la forza distruttiva in un’oscura piramide di pietra lavica, la portata rivoluzionaria dell’era nucleare aveva già suggestionato qualche artista3 tanto da spingerlo a concepire una qualche forma di rappresentazione. La figurazione moribonda era sempre meno adatta allo scopo. Il senso della fine era per la prima volta il controsenso di un inizio-fine assoluto. Il 3 settembre del 1948, a Livorno, presso la Scuola d’Arte Amedeo Modigliani un gruppo di artisti guidati dal pittore Voltolino Fontani rivendicava un’arte attuale in piena rottura con il passato, rinnovata dal punto di vista etico e capace di fondere la sensazione di inquietudine insita nel nuovo progresso nucleare con le speranze per un nuovo mondo responsabile e pacificato. Sorprende la chierezza di intenti del loro Manifesto4:

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È bene tuttavia precisare che il movimento non esalta l’era atomica, tremenda e malefica, né si ispira al fenomeno di quel tragico progresso umano che l’ha generata nei suoi aspetti esteriori e meccanici. L’Eaismo esprimerà la tragedia del XX secolo ispirandosi al senso di quella tragedia, cioè al senso dell’uomo in quanto tuffato a vivere in essa, nutrito di essa, cercando di scoprire di nuovo nell’uomo, e tradurlo in opere, l’equilibrio infranto dell’equazione uomo-mondo”.

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L’esperienza eaista era destinata ad esaurirsi nel giro di pochi anni, lasciando solo qualche eredità polemica5 e poche opere pressoché invisibili. Ma la strada era tracciata.


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Nel 1952 Enrico Baj e Sergio Dangelo lanciano da Bruxelles il Manifesto della Pittura Nucleare: I NUCLEARI vogliono abbattere tutti gli ‘ismi’ di una pittura che cade invariabilmente nell’accademismo, qualunque ne sia la sua origine. Vogliono e possono reinventare le pittura. Le forme si disintegrano: le nuove forme dell’uomo sono quelle dell’universo atomico, le forze sono cariche elettroniche. La bellezza ideale non appartiene più a una casta di stupidi eroi né al robot. Ma coincide con la rappresentazione dell’uomo e del suo spazio6.

La pittura dei Nucleari, che da un punto di vista fenomenologico rientra in un clima informale, si pone in antitesi agli “accademismi” imperanti, costituisce un’opposizione nitida e consapevole alle posizioni e alle teorie più accreditate che in quegli anni circolavano nel mondo artistico. Nello specifico, il bersaglio polemico della loro critica è l’armonia di forme, colori e linee celebrata tanto dai pittori “ufficiali” dell’astratto-geometrico quanto dagli esponenti dell’astrazione post-cubista: un’indagine, in entrambi i casi, ritenuta sterile, poiché limitata alle qualità intrinseche del fare pittura. Ad essere messo in discussione è anche l’informale autre teorizzato e sostenuto dall’artista e critico Michael Tapié, il quale, nel 1951, organizza presso lo Studio Paul Facchetti di Parigi le due mostre Signifiants de l’Informel 7 e che, nel marzo del 1952, chiude la sua rassegna con la celebre Une art autre. Tapié è un personaggio di spicco della critica d’arte d’avanguardia degli anni Quaranta-Cinquanta. Come i Nucleari rifiuta l’astrazione geometrica e l’ufficialità artistica, cercando di “attualizzare”, recuperandola, la cultura dadaista della tabula rasa, tentativo che, nel suo caso, diventa speculazione teorica sulla possibilità di un “rovesciamento dei valori nell’alterità”8. Solo nella dimensione “autre”, cioè fedele all’eidolon (in senso aristotelico) piuttosto che alla pura rappresentazione, si possono trovare nuovi spazi per l’avventura del moderno. Molti quindi i punti in comune con la poetica dei nucleari, nonostante questi ultimi dichiarino la loro distanza dal gruppo: Per questo fummo sempre avversi all’informel di Tapié e alla sua art autre, la quale altro non ha finito per proporre che un accademismo astratto informale sostituendosi al precedente accademismo astratto geometrico9.

I Nucleari vedono in entrambe le manifestazioni l’instaurarsi di una pericolosa quanto aborrita minaccia stilistica, laddove la nozione di “stile” assume una connotazione negativa, implicando, in potenza, l’infinita ripetizione di un’arte ormai vittima del retaggio della maniera. Una pittura priva di enfasi sperimentale, che opprime la vita vera dell’arte e le sottrae il suo più autentico ca-

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Enrico Baj, Lo scoppio viene da destra, 1952

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Manifesto invito, Associazione Amici della Francia, Milano, 1952


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rattere epistemologico. Un altro rifiuto coinvolge la matrice astratta, intendendo con questo termine l’idea di un’arte separata dalla vita e dalla variegata problematicità degli aspetti del reale. Tutte considerazioni che riportano a un background culturale che va ben oltre i confini del panorama artistico milanese in cui il movimento nasce, poiché come ha sottolineato Arturo Schwarz: (…) non ultimo uno dei meriti storici del Movimento Nucleare fu quello che gli derivò dalla ferma e tenace volontà di stabilire e sviluppare contatti stretti e vivacemente attivi con i movimenti d’avanguardia d’ogni dove, dall’Europa all’Asia10.

I contatti e le collaborazioni internazionali riguardano, innanzitutto, il dialogo con gli esponenti nord-europei dell’ormai disciolto Gruppo CoBrA. Dei compagni nordici ricalcano soprattutto le attitudini, il linguaggio dai toni perentori e decisi, la necessità di mantenersi autonomi rispetto all’ufficialità. Se ne distanziano invece dal punto di vista formale, proponendo una pre-figurazione tachiste, depurata delle connotazioni iconiche di matrice espressionista. Come si deduce dagli intenti e dalle dichiarazioni dei Nucleari, la rivendicazione di un’arte a tutti gli effetti sperimentale, lontana dalle pieghe della cultura ufficiale, incapace di rinnovarsi, e quindi, per antitesi, più vicina all’uomo, sono presupposti che - già fatti propri dagli artisti CoBrA - si ritrovano ora alla base dell’attività di Baj e compagni. I primi contatti d’oltralpe risalgono al 1952, anno in cui Dangelo organizza a Bruxelles, presso la Galleria Apollo, la seconda mostra di pittura nucleare firmando con Baj il Manifesto della Pittura Nucleare (1 febbraio 1952). La parentesi belga è un’occasione per conoscere l’artista e poeta Dotremont, personalità di spicco del Surrealismo Rivoluzionario, poi vivace animatore e “polemista” del gruppo CoBrA. E anche Pierre Alechinsky, che con la sua iconografia infantile e favolistica, insieme ironica e grottesca, suggestionerà un certo immaginario post-nucleare di Baj, animato da crudi profili di sagome umane. Nel 1953 Baj e Dangelo entrano in contatto con Jorn (nel 1954 i Nucleari aderiranno al M.I.B.I.) e già da questo primo incontro s’instaura un rapporto di dialogo e di reciproca collaborazione: Attraverso Jorn si svilupparono maggiormente i contatti con gli artisti Sperimentali del Nord-Europa, così come ebbero inizio le prime relazioni concrete con l’avanguardia parigina e con il critico Edouard Jaguer11.

Il riferimento alla figura di Jaguer, artista, poeta e critico d’arte di formazione surrealista, fondatore della rivista d’arte e letteratura «Phases» (1954-1961), è importante perché permette di comprendere a fondo l’internazionalismo che informava

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Sonia S. Braga ● Apocalittici e disintegrati

il clima delle ricerche di quegli anni. Non a caso, il primo numero della rivista dei Nucleari, «Il gesto», è pubblicato in occasione di una collettiva presso la Galleria Schettini di Milano - in collaborazione con «Phases» - nel giugno del 1955. La mostra, fulminea scheggia di dibattito entro l’articolato panorama artistico europeo, intende porsi come momento “attivatore” piuttosto che “attrattore”, facendo luce sulle tendenze più aggiornate dell’avanguardia artistica del secondo dopoguerra12. Conferma la sua partecipazione Jaguer, che, per l’occasione, scrive un saggio incluso nella rivista. Le ricerche del gruppo milanese varcano i confini nazionali e interessano anche gli interventi della belga «Phantomas», fondata nel 1953 da Koenig, Marcel Havrenne e Joseph Noiret. Tra le sue pagine troviamo interventi entusiasti dedicati alle vicende della pittura nucleare. Gli Incontri Internazionali della Ceramica di Albisola, complice la fiorente attività della manifattura di ceramiche di Tullio Mazzotti, offrono, a loro volta, altri momenti di confronto e contatto fra gli artisti. Proprio nel 1954 fanno visita al laboratorio ligure Koenig e Jaguer. Il riferimento a queste riviste, che risentono di un clima culturale ancora segnato dall’esperienza dell’avanguardia surrealista, torna utile per capire come la reazione a un certo tipo di pittura affermatasi nel secondo dopoguerra (l’astrazione geometrica, in particolare) avesse portato alla riconsiderazione delle pratiche automatiche di ascendenza surrealista. Un automatismo che tralascia, però, qualsiasi legame con i fondamenti psicoanalitici della “traduzione artistica” delle pulsioni inconsce, che da semplice partitura dell’es, diventa creatività liberata attraverso il puro automatismo del gesto e l’esplosione della materia pittorica. Gli stessi artisti CoBrA, la cui formazione negli anni che precedono la fondazione del Gruppo si compie in ambiti culturali vicini al Surrealismo, avevano preso le distanze dall’automatismo psichico, ritenendolo uno sterile esercizio di autocompiacimento finalizzato all’estroflessione del funzionamento del pensiero. In altre parole, una metafisica congelata, legata alla percezione individuale dell’artista. Il pensiero dialettico, in un’ottica marxista come quella di Jorn e compagni, non può non tenere conto del reale, un’asserzione che, tradotta in termini estetici, assume il significato di un confronto ineludibile con la concretezza della materia pittorica e l’immediatezza comunicativa e liberatoria del gesto. Jorn esprime con chiarezza la posizione di CoBrA riguardo quest’aspetto:

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(…) Che cosa si deve intendere per ‘automatismo psichico puro’? Queste tre parole bastano per esprimere una concezione la cui contraddizione interna è insolubile. Non ci si può esprimere in modo puramente psichico. Il fatto d’esprimersi è un atto fisico che materializza il pensiero. Un automatismo psichico è dunque legato organicamente all’automatismo fisico. Persino l’automatismo psichico che si può immaginare all’interno dell’uomo non è puramente psichico. I surrealisti di Breton


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vogliono esternarsi. E che cosa vogliono esternare? Il pensiero puro. Cioè il solo modo metafisico, la riflessione. Ma dal punto di vista materialistico il pensiero è una riflessione della materia, come si dice degli specchi. (…) La funzione reale del pensiero è di trovare mezzi propri a soddisfare le nostre necessità e i nostri desideri13.

Il concetto esposto da Jorn secondo cui l’unico automatismo possibile riguarda la spontaneità del gesto, è un principio che si ritrova nell’Action Painting e nel tachisme, un termine coniato nel 1954 dal critico francese Charles Estienne ad indicare, non a caso, anche la pittura nucleare14. Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: cosa c’entra Pinot Gallizio in tutto ciò? In che modo le coordinate del suo percorso artistico si intrecciano con il nostro discorso? L’artista piemontese, autodidatta per formazione, inizia a dipingere piuttosto tardi, all’età di cinquant’anni. L’amicizia con Jorn è decisiva: il loro incontro risale al 1955 e fin da quel momento l’intesa è immediata. Il Laboratorio Sperimentale di Alba, centro della libera creazione artistica e piattaforma italiana di supporto al M.I.B.I., viene fondato nel 1956 da Gallizio con il figlio Giorgio Melanotte e Piero Simondo15 che sostengono i colleghi della Bauhaus Immaginista nella critica contro i funzionalisti: I razionalisti e costruttivisti sono reazionari – perché la ragione è astrusa e pertinenza dei verbalismi dell’analisi del linguaggio presupponendo un’élite capace di barare sulle parole per aver sempre ragione e non per la Ragione. L’Esperanto del colore o del suono o della forma – è popolare e spontaneo della fantasia e della poesia – Loro vogliono la società dei Robot dominati e sorvegliati dagli infallibili cervelli ragionanti delle élite – che mai nulla hanno creato ma sempre ragionato sul bello sul brutto sul buono e sul cattivo16.

Sono proprio concetti come quelli di produzione seriale, di omologazione delle forme, conseguenti all’instaurazione di metodologie progettuali di stampo tecnicistico, che conducono allo svilimento generalizzato dell’attività creativa e della sperimentazione. Per Gallizio, come per i Nucleari, la pura libertà espressiva è il valore artistico più autentico, da cui il rifiuto di qualsiasi atteggiamento sterile e dogmatico. Entrambi muovono da una presa di coscienza delle mutate condizioni di percezione della realtà sensibile. Per i Nucleari il desiderio di raggiungere la raffigurazione di una nuova realtà è la conseguenza del dibattito, sempre vivo, sull’infinitamente piccolo e sull’intima essenza delle cose. Le nuove scoperte scientifiche in campo atomico, la loro applicazione in campo militare e civile, li spingono in una direzione di attiva speculazione del reale:

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Wolf Bruno Di crepuscolo in crepuscolo, precipitando Demolizioni. Annotazioni sinestetiche

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Non vorrei parlare delle stranezze degli uomini, anche perché non mi piace correre il rischio di rendere troppo evidente la mia normalità, una delle tante virtù alle quali non tengo. Mi è difficile tuttavia ignorare gusti, inclinazioni, comportamenti di cui il genere umano si rende irragionevolmente colpevole compromettendo la propria coerenza, minacciandola coi mezzi stessi delle sue consolidate convinzioni. Che dire, per esempio, di afrori usualmente ritenuti ripugnanti quando si ritrovano poi emancipati nei sapori della “buona tavola” come succede con certi formaggi? E che sono tutti i pudori che circondano le flatulenze quando per spasso, soprattutto se rumorose, rafforzano la compagnia? E la “fica”? Non corrisponderebbe forse a una laida fessura se solo la si isolasse dai suoi contenuti così squisitamente umani e così spudoratamente allettanti? Penso anche a ciò che con fantasia mista a malafede, e non senza superbia, sono stati chiamati “i diritti”, positivi o naturali che si vogliano. Nel primo caso si sono riempiti pochi fogli di carta e innumerevoli bocche di tutta quell’ampollosa vacuità di cui sono capaci gli avvocaticchi una volta che dopo aver perso la strada del successo professionale si pongono alla testa, per un risarcimento che non gli è dovuto, di una qualche ragione per la quale esortano altri a rischiare, pronti al momento opportuno a epurare costoro se la loro azione, o qualche parola di troppo, non coincide il tutto e per tutto ai loro gelosi cartigli. Degli altri, se sono “naturali”, non ha nemmeno senso parlare. C’è piuttosto qualcosa di sfacciatamente gelido nel pensarli, come se la natura ci tutelasse invece di pervaderci fino all’orrore. Comunque sia ci si comporta come se tutto questo (e molto altro ancora, naturalmente) avesse un senso. Vivere è questo compromesso. De Sanctis diceva che Guicciardini, nel consigliare i più discutibili accomodamenti, separava la coscienza dalla persona. Non tutto quel che ci riguarda è d’altronde mondo morale. Ad Amburgo, il 16 settembre del 2001, pochi giorni dopo l’attentato alle torri gemelle di New York, nel corso di una conferenza stampa, la già criptica ma ormai stanca tiritera di Karlheinz Stockhausen sconcertò il mondo (“vi prego di sintonizzare i vostri cervelli” disse il musicista) con l’affermazione che si era trattato della più grande opera d’arte della storia. L’estetica - o, come avrebbe preferito chiamarla Hegel, la filosofia dell’arte - è una brutta e imprendibile bestia, soprattutto per chi la vorrebbe


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moralmente fondata, col bello equivalente al bene. Ciò nondimeno Karl Rosenkranz, azzardando l’Estetica del Brutto, rappresentò un combattimento fra angeli e demoni attraverso il quale l’opera d’arte prenderebbe vita, poiché senza confrontarsi col maligno, con la negatività, con le disfunzioni morali, essa non potrebbe aver luogo. Sade, presentando Le 120 giornate di Sodoma, avvisava il lettore di predisporre lo spirito al “racconto più impuro mai scritto”. Edmund Burke colse nel “sublime” le più forti emozioni dell’anima, quindi anche “tutto ciò che in un certo senso è terribile”. Su questa base, il terribile evento americano possedeva a tutti gli effetti i requisiti necessari per azzardare una dichiarazione, benché sgradevole, come quella di Stockhausen, il quale tuttavia non fece passar molto tempo per scusarsi di averla pronunciata (frattanto negli Stati Uniti erano finiti annullati i suoi previsti concerti). Per altro, se l’immediata e universale copertura mediatica dell’evento terroristico era stata di per sé sensazionale, non mancavano episodi anche recenti che si sarebbero prestati a riflessioni analoghe, basti citare i bombardamenti dei “liberatori” su tante antiche città (come si suol dire “d’arte”) nel corso del secondo conflitto mondiale. Ma nel 2001 per un artista la cui fama si era consolidata a mezzo di controverse sperimentazioni “d’avanguardia”, la situazione dell’arte e il ruolo da svolgervi, anche appartenendo alla generazione dei “maestri” del moderno, erano tali da poter suscitare smarrimento. Quella che comunemente - e semplicemente - si chiama arte moderna e contemporanea (quella “esposta”) aveva disperso il suo potenziale di distinzione allorché, entrata nei gusti delle classi medie, dovette fare i conti con una diffusione che la sospingeva alla banalità. Per qualche tempo la stessa banalità aveva potuto servire da ispirazione e spacciarsi come stile, ma non poteva durare. Per giunta - particolare che mi sembra sia sfuggito agli studiosi - non era difficile fabbricarsela autonomamente - compiendo in tal modo uno degli obiettivi dell’avanguardia - e conferire agli ambienti delle proprie abitazioni quello stesso sapore moderno che altri realizzavano attraverso costosi acquisti. “Apparire” non richiedeva più, come a tempi di Balzac, “cabriolet, stivali lucidati, aggeggi vari, catene d’oro, guanti bianchi di daino per la mattina e gialli per la sera”. Con un paio di blue jeans si era ormai accettati in società. Gli artisti della fine del XX secolo non facevano niente di diverso, salvo in certi casi conferire maggiore scenografia ai loro “progetti”, avendo la possibilità di farli finanziare dalle gallerie, dai musei, dalle istituzioni pubbliche. Ciò che questi organismi consideravano i valori estetici dominanti altro non erano che stupide sciocchezze, se non vere e proprie idiozie, che avevano perso del tutto la temerarietà e la sfrontata ironia che fu di certa avanguardia. Nessuno sembrava tuttavia stupirsi. Nemmeno un crocifisso affogato nelle urine destava scandalo o morboso interesse, a meno di non appartenere alle impettite sottoculture

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censorie che si annidavano nei centri del potere, del resto con idee poco chiare. Che tutta questa prudenza fosse una delle priorità dei destinatari di tale messaggio epuratorio è dubbio, d’altra parte bastava guardare in faccia uno a caso degli artisti dominanti l’epoca (stupida, volendo dar conto alla stupidità dell’arte quando avesse voluto rifletterla) per rendersi conto che non si trattava di un grande peccatore. Identica piega avrebbero preso l’arte e gli artisti del nuovo secolo. Con loro, affiancati in un comune destino, stavano i critici e i curatori delle mostre. Da questi – che i francesi amano chiamare “commissari” - veniva da tempo la rivendicazione di un’attività ugualmente “creativa”, vale a dire pari a quella degli artisti. Era patetico assistere al sovraccarico di senso che si voleva addossare a una parola che di fatto riguarda la vita di ogni giorno e gli assortimenti di ognuno. Ancora peggio era constatare che alcuni soggetti andavano fatti rientrare - ma, per fortuna, con un’enfasi sempre più declinante - in una categoria specifica, quella dei “creativi”. Maggior garbo lo dimostrava viceversa la letteratura, tornata massicciamente a una narrativa alla mano e ben insediata nella gamma popolare senza per questo perdere prestigio, semmai acquisendone perdendo quell’aria di lettura da viaggio in treno che si era sempre attribuita ai generi. Anche nel caso della letteratura non mancavano però i soliti tracotanti tentativi di riconoscere “il capolavoro”, e ci si arrischiava trionfalmente a individuarlo in quel che di più vacuo e inconcludente offrivano gli scrittori (un nome per tutti: David Forster Wallace). Ma il libro che fece più sensazione nel nuovo millennio fu un magari caotico romanzo del mistero – infittito di esoterismi già noti da un ventennio per via di una saggistica fantasiosa - che incontrò il favore dei lettori e, cosa tutt’altro che nuova, lo sfavore (talvolta prudente) della critica. Il libro si intitolava Il Codice Da Vinci e l’autore (Dan Brown) ebbe lo sciagurato vezzo di far sembrare la piccante materia con la quale aveva confezionato l’opera come si trattasse di verità che lui stesso, in sollecite ricerche, aveva avuto modo di accertare. Ciò diede la stura a una parallela letteratura di commento solo in parte omologa agli argomenti dello scrittore, ma per l’altra orientata alla loro demolizione. La speciale premura messa da preti e opinionisti cattolici nell’individuare strafalcioni, falsità, paralogismi e invenzioni fu massiccia, come se temessero da questo romanzo (che metteva in una luce sinistra l’Opus Dei) la minaccia alla fede delle anime semplici. Si accusava l’autore di non credere che Dio si è manifestato in Gesù, che il Vangelo ha origini divine. “Dan Brown”, si sentenziava, “ha un sistema di pensiero opposto a quello cristiano”. Alla resa dei conti, si dava l’impressione di voler procedere a un sacrificio piuttosto di sviluppare l’appropriata critica a un’opera di fantasia. È nota la teoria di René Girard sul capro espiatorio secondo la quale se in epoche buie le comunità si ricompattavano dopo un sacrificio, col cristia-


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nesimo arrivò la luce dal momento che lo stesso fondatore della religione era la vittima. Il sospetto che una simile teoria possa essere venuta in mente a quest’autore in ragione della nascita, essendo nato il 25 dicembre – giorno che tradizionalmente, dopo aver significato la rinascita del sole, indica quella di Gesù - l’ho accarezzato. Ovvio che l’origine del mio sospetto sia superstiziosa, cosa che per me non costituisce un problema, dal momento che potrei essere accorpato agli idolatri. Non vedo niente di diverso tuttavia nello stabilire che a un certo punto della storia, nemmeno troppo lontano, l’umanità sia stata redenta. A guardare le vicende dell’ultimo secolo si potrebbe pensare il contrario. Individuare dietro la condizione umana una cospirazione atta a sconvolgerne l’intima costituzione, come nei romanzi alla Dan Brown, è non solo comprensibile, ma coerente, a parte significativi dettagli, con quelle premesse redentrici. In qualche modo, per giunta, tali racconti riverberano meglio di tante elevate opere – rappresentandone nel contempo il trionfo - quella sgomenta sensazione di un’egemonia del prodotto sull’uomo. La fine di uomini e cose decretata dagli scopi morali di alcuni ha corrisposto, come si è visto, ai fini estetici di altri. Per decenni, lungo il XX secolo, al seguito di incoraggiamenti tipo “Picasso è con noi”, si poteva pensare che fini estetici e fini morali coincidessero. Che l’arte fosse un fine morale. La verità è che quelle altro non erano se non frasi strumentali il cui significato stava tutto nel convincere della bontà di una merce politica. Era il prestigio di chi veniva richiamato e non l’arte in sé a lusingare (lusinghiera era semmai la vita degli artisti di fama). Coi sapienti del postmoderno e con la loro più recente variante colorata Pop, il dissequestro dell’estetica dall’etica si effettuava ormai attraverso numerose e infine disinvolte asserzioni di concepirlo come un fine conveniente. Personalmente simpatizzo per questo fine ma per ragioni diverse da quelle dei sapienti. Mi dice francamente poco l’intenzione di abbellire la vita, e non perché - come succedeva in certe deprimenti controversie novecentesche - mi disturbi l’orpello, è vero semmai il contrario. Il mio innocuo, ininfluente, probabilmente individualistico, forse inverecondo, comunque intellegibile proposito è una volta di più non tanto quello di far bella la vita, quanto l’aspirazione - con tutto ciò che di ripugnante possa portare con sé - di far la bella vita. Wolf Bruno è uno degli eternonimi adoperati da uno scrittore di nessuna notorietà per riempire di fittizi collaboratori i siti e le pagine cartacee che lo coinvolgono direttamente. Attualmente cura il quadrimestrale scapigliato “Fogli di via”, in cui si pubblicano recensioni e riflessioni sull’editoria “alternativa” ed il costume contemporanei. Ha pubblicato numerosi saggi di critica d’arte e testi inclusi in cataloghi di mostre tra i quali ricordiamo La decomposizione dell’avanguardia in This Was Tomorrow. Pop da stile a Revival, Electa Milano 1990, con Sandro Ricaldone, un saggio fondamentale sul Lettrismo in occasione della mostra Sentieri interrotti (Charta, Milano, 2000) e nel 2011 G8 graffiti, De Ferrari, Genova.

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Il network dei dannati


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Maria Lia Malandrino (marialia.malandrino@hotmail.com) illustratrice, studia Magazine Publishing alla University of the Arts a Londra. Oltre a collaborare come illustratrice con una serie di riviste italiane e inglesi, lavora a progetti artistici originali, specialmente fumetti e graphic novels. Maria Lia è anche attiva nel campo del graphic design, applicato all’ambito della promozione musicale.

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Beth Meads (beth.meads@hotmail.co.uk) scrittrice, studia Magazine Publishing alla University of the Arts a Londra. Lavora come PR e consulente multimediale all’agenzia di base londinese The Bridge. Si occupa anche di promozione e programmazione musicale a Londra e Chichester con il franchise chiLIVE and ldnLIVE. Attività artistiche di scrittura e video-editing si accompagnano al lavoro di PR.


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