Carmelo Bene. Il cinema delle dépense

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CarmeloBeneilcinemadelladépense

Paola Boioli

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Introduzione di Francesco Ballo

Paola Boioli è nata nel 1982. Vive e lavora a Milano. Si occupa di montaggio e di post-produzione per il cinema e la pubblicità.

CarmeloBeneilcinemadelladépense

L’improbabilità del cinema di Carmelo Bene nasce dallo stesso assunto impossibile che permea il pensiero di Georges Bataille: entrambi ci testimoniano come si vive, cosa succede quando si è immersi nella hybris senza però avere come controparte un Dio che la punisca e che dia senso alla nostra tracotante pretesa di vivere al di là del limite. E se in Bataille questa mancanza sembra essere la fonte principale di angoscia, in Bene l’angoscia diventa sberleffo mondano, indifferente all’alfa privativo di qualsiasi ateologia. Entrambi, in ogni caso, agiscono coscienti del fallimento che una ricerca del genere comporta. Ed è questo ciò che ci interessa più di ogni cosa approfondire. La dépense, allora: un cortocircuito del linguaggio che possa eccedere le forme, sprecando via via i vettori canonici della comunicazione scritta, teatrale, cinematografica per creare altro attraverso sottrazioni progressive. O almeno suggerirlo, da bravo suggeritore klossowskiano. La dépense, dunque: mettere in scena l’impasse del principio classico dell’utilità o, per citare una raccolta italiana di scritti batailliani, il limite dell’utile, che nel cinema di Bene si traduce in un vero e proprio “mostrare lo spreco” volto a far vivere una crisi di senso catartica allo spettatore.

carmelobene

BENE ilcinemadelladépense

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BENE ilcinemadelladépense ISBN 978-88-89782-26-2

EDIZIONI

16,00

EDIZIONI

FALSOPIANO

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FALSOPIANO

LIGHT

una collana diretta da Francesco Ballo


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FALSOPIANO

Paola Boioli

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Non aveva che quanto gli restava, ché gli restava quello che credevano. Così si sopravvive d’interesse: così ci s’interessa a che qualcuno muoia per noi: ché per amare quello in cui si crede noi non crediamo a quello che si ama… In questo modo il volto d’un musicista può esibirsi in moneta corrente: Fortuna nostra che possiamo spendere anche quanto non fu mai guadagnato. Fortunato chi s’intende di musica! Suonare non è mai esser suonato! Non si ha fede nella fede che abbiamo. Tutti credono in quello che non sanno fare. (dal quasi racconto Credito Italiano V.E.R.D.I.)

In copertina: Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi.

© Edizioni Falsopiano - 2011 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini Stampa: Lasergroup - Milano Prima edizione - Marzo 2011


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INDICE

INtroDuzIoNE di Francesco Ballo

p. 9

Avvertenza

p. 11

Capitolo primo «VANIfICAzIoNE sIstEmAtICA DEllA CulturA» p. 15

Capitolo secondo l’EstAsI, lA stAsI

p. 23

Depensamento come senso

p. 25

Inazione come tecnica

p. 28

«Cadute volontarie» o «voli impossibili»

p. 28

Oggetti-impedimento

p. 30

Oggettivazione del soggetto

p. 32

Impossibilità del martirio

p. 33

Benda ferita

p. 35


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Capitolo terzo logICA DEl DoNo

p. 57

sprezzatura

p. 59

Al di qua e al di là della m.d.p.

p. 59

Pellicola martoriata

p. 60

“Totaloni” bruciati in fotogrammi

p. 61

Anticipazione del linguaggio video

p. 62

Citazioni

p. 63

Pazienza

p. 66

Moralità e riscrittura

p. 66

Metodo additivo

p. 69

sprezzo

p. 72

Sottrazione

p. 72

Iconoclastia

p. 75

Vaneggiamento

p. 79

Decostruttivismo

p. 79

Matrice fisiologica e corpo (Warhol e Bacon)

p. 80

Capitolo quarto «A Corto DI CoNtEmPorANEo»: BENE E lE AVANguArDIE

p. 125

méliès e il surrealismo

p. 125

Cinema Indipendente italiano

p. 126

New American Cinema (Warhol e Brakhage)

p. 127

Altri accenni

p. 130


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Capitolo quinto CoINCIDENzA: sErgEj PArAD탑ANoV

p. 140

Capitolo sesto CArAttErIstIChE tECNIChE DEl CINEmA DI BENE p. 150 forte variazione di scala delle distanze

p. 150

Abolizione del percorso

p. 153

Conclusioni

p. 166

Bibliografia essenziale

p. 169

filmografia

p. 174


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Carmelo Bene

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INtroDuzIoNE Dirigere una collana di libri che parlano veramente di cinema. Come è costruito il film di cui si scrive: la composizione dello spazio, la messa in scena, il montaggio, la durata delle inquadrature, il ritmo spaziotemporale. Si può così sperare di pubblicare libri dove le immagini tratte dai film - i fotogrammi - siano determinanti per approfondire la ricerca sullo stile dell’autore trattato. Analisi del film strutturata appunto sugli elementi primari del film stesso. Il cinema come la musica, come l’architettura, analizzato senza approcci contenutistici e di gusto, ma proprio attraverso gli strumenti del suo prodursi e farsi. Carmelo Bene. Il cinema della dépense. Carmelo Bene, l’autore che doppia Borges, e che è rivissuto a Otranto, verso il mare d’Oriente per incontrare l’aleph oltre gli ultimi stretti. Al largo dove l’onda non può infrangersi che contro di te, oramai perduto nei gorghi di un nuovo Maelstrom... Lo studio di Paola Boioli è critico e nello stesso tempo inventivo, molto personale e profondamente curato. Carmelo Bene ne risulta un autore-attore completo. Cinematografico. Autonomo e unico. Come il suo cinema che, se affonda le radici nella sperimentazione attoriale di Bene, dimostra di conoscere profondamente il cinema sotterraneo americano. Partendo da una frase scritta da Paola Boioli si può ingrandire, osservare, mettere a fuoco il fulcro dell’opera di Carmelo Bene, proprio da elementi primari e particolari. Scrive a proposito di Nostra Signora dei Turchi: «L’apertura del film è sul Palazzo Moresco, descritto con immagini sovraesposte, solarizzate, fluttuanti, quasi liquide, come fossero riflessi di un’ottica bagnata. (...) Tutto è colore, luce e movimento, soprattutto quando Otranto si accende dei fuochi d’artificio: il luogo fisico diventa spazio interiore» (p. 127). E qui confronta l’inventiva beniana con opere di Maya Deren, Jonas Mekas e Stan Brakhage. E altrove, a proposito del film Salomè: «Erode vuole l’impossibile perché vuole tutto (il profeta e Salomè, il regno e la felicità) e il senso del film sta nella dissoluzione. Allo stesso

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modo, Carmelo Bene vuole l’impossibile attraverso il cinema, cioè tenta di mostrare tutto il nulla. La pretenziosità di Bene sta infatti in una tecnica di ripresa che comprende e tiene insieme primi piani e campi lunghi, particolari e visioni d’insieme, dettagli e totali. A questa si aggiunge un montaggio cadenzato secondo un ritmo rapidissimo, che spezza i movimenti interrompendone la continuità: viene abbreviata la distanza temporale nel tentativo di cogliere una compresenza spaziale di atti diversi, disfacendo così qualsiasi azione» (p. 150). «Come la pittura di Bacon sfugge al figurativo, così il cinema di Bene rifiuta la rappresentazione e la narrazione. Bisogna rinunciare alla violenza dello spettacolo per pervenire a quella della sensazione: l’opera colpisce direttamente il sistema nervoso» (p. 85-86). «“Perché essere difficili quando con un minimo sforzo si può diventare impossibili?”, diceva Buster Keaton. Bene lo prende alla lettera: il “minimo sforzo” consiste semplicemente nel coprire quei pochi centimetri che separano su un set il campo dal fuori campo» (p. 59). La conoscenza degli autori, l’amore per il cinema, il piacere del film sono cardini per questa collana in divenire. Così i prossimi libri saranno relativi ad autori quali Don Siegel e Alberto Grifi. Francesco Ballo, luglio 2010

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AVVErtENzA Il presente libro non parla del rapporto tra il pensiero di Georges Bataille e il cinema di Carmelo Bene. Il biografo più attento, infatti, faticherebbe non poco nel provare che durante la propria parentesi cinematografica, tra il 1968 e il 1973, Carmelo Bene avesse già conosciuto e assimilato il pensiero di Georges Bataille. Eppure, così come è facilmente dimostrabile quanto CB fosse deleuziano ben prima di leggere e incontrare Gilles Deleuze, ugualmente ci piace accostare il Nostro con l’autore della Storia dell’occhio per mettere in luce quanto Carmelo Bene abbia saputo tradurre con immagini in movimento, suoni, performance il concetto chiave della filosofia batailliana: la dépense, intesa come spesa di sé e del proprio agire al di fuori di una logica fondata sull’utile. «Il ciclo della dépense. Immane spreco di energia a dar fondo l’avventura di ben cinque film consecutivi, diretti, prodotti, “scemografati”, decorati, vestiti, calzati, registinterpretati. Cinque film d’“autore”, autore in particolare del proprio disfacimento».

Quindi Amleto, Erode, Don Giovanni come Troppmann de L’azzurro del cielo o Madama Edwarda? Certamente, al pari della narrativa di Bataille, tutta la cinematografia beniana sembra compiersi al di là della dialettica tra il bene e il male. I characters di entrambi incarnano il tentativo - supremo e impossibile - di superare tale opposizione, tenendo ben a mente sia Sade sia la lezione di Nietzsche tesa a mettere in crisi il concetto cristiano di valore etico. In Bataille, come in Bene, l’atto trasgressivo e sacrilego spinge chi lo compie oltre la forma convenzionale per raggiungere culmini depurati da ogni angoscia. Vivere il male senza l’opposizione sotterranea e punitiva del bene, vivere la morte senza il ricatto di essere già morti: è con questa perenne tensione che si muovono i personaggi batailliani e lo stesso uomo Bataille quando, nei numerosi contributi non narrativi, parla di sé.

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Così pure i personaggi del cinema di Carmelo Bene e Bene stesso si muovono animati da un’incessante ricerca di liberazione, ammaliati da una dimensione non più fatta di limiti, di convenzioni, di principi di non-contraddizione, di io psicologici e tirannici. Un’esperienza interiore, questa, oltremodo rara, impossibile da comunicare per qualunque essere umano. Missione ancora più improba (e improbabile) se da testimoniare in immagini e suoni. L’improbabilità del cinema di Carmelo Bene nasce dallo stesso assunto impossibile che permea il pensiero di Georges Bataille: entrambi ci testimoniano come si vive, cosa succede quando si è immersi nella hybris senza però avere come controparte un Dio che la punisca e che dia senso alla nostra tracotante pretesa di vivere al di là del limite. E se in Bataille questa mancanza sembra essere la fonte principale di angoscia, in Bene l’angoscia diventa sberleffo mondano, indifferente all’alfa privativo di qualsiasi ateologia. Entrambi, in ogni caso, agiscono coscienti del fallimento che una ricerca del genere comporta. Ed è questo ciò che ci interessa più di ogni cosa. Con frenetica e a tratti disperata necessità, l’opera dei due ci mostra l’impasse imposta a chi, postosi al di là del limite, prova a mettere a disposizione la propria esperienza a quanti sono rimasti al di qua, comunicando qualcosa che ecceda il linguaggio, ponendosi sì indicibile, ma testimoniando la propria presenza mediante una violenta messa in crisi di chiunque si avvicini per conoscerla. La dépense, allora: un cortocircuito del linguaggio che possa eccedere le forme, sprecando via via i vettori canonici della comunicazione scritta, teatrale, cinematografica per creare altro attraverso sottrazioni progressive. O almeno suggerirlo, da bravo suggeritore klossowskiano. Nella drammaturgia dei film di Bene questo avviene mediante l’utilizzo di innesti esterni che scardinano ogni pretesa di testo originale a monte: l’autore-Dio viene sconsacrato, trasceso, negato. Il testo scritto originale perde ogni valore in sé, prassi svolta a teatro già dai

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primi spettacoli degli anni ’60. Non un altro Amleto, dunque; solo un Amleto di meno. Ogni pretesa “originalità” va in crisi. A livello recitativo, infatti, la tecnica beniana è sempre un controcanto parodico nei confronti del grande attore italiano, una perenne messa in crisi della pretesa rappresentazione e della pretesa epicità di qualsivoglia azione attoriale: Bene filma in prima persona l’estasi del proprio fallire prima come filologo-drammaturgo che svaluta il testo originale, poi come attore che mette in scena l’eroe del testo svalutato. Lo scardinamento poi, viene rivolto verso di sé: il corpo filmato, la fisicità di Bene al di là della macchina da presa è sempre sull’orlo del tracollo, della rovina e del disfacimento. La dépense, dunque: mettere in scena l’impasse del principio classico dell’utilità o, per citare una raccolta italiana di scritti batailliani, il limite dell’utile, che nel cinema di Bene si traduce in un vero e proprio “mostrare lo spreco” per far vivere allo spettatore una crisi di senso catartica. Come rendere tale impasse? Potremmo citare i numerosi “oggetti-impedimento” che ostacolano i personaggi beniani, che li accidentano, obbligandoli a rallentare o a rendere irraggiungibili i loro stessi obiettivi spaziali. Oppure i dettagli inutili (fondoschiena, orpelli, protesi) su cui la macchina da presa e il montaggio a volte indugiano e su cui lo sguardo è forzato a tornare con inquadrature e zoom incongrui, fuori da ogni logica narrativa o, nel caso del corpo femminile, anticipando certo linguaggio cinematografico pornografico in quegli anni ancora a venire. Per il momento, accontentiamoci di questa citazione tratta da un libro di Bene del 1967, Credito italiano V.E.R.D.I., che sembra già inglobare e superare lo stesso concetto batailliano di dépense: «Correva, zoppicando, dalla voglia che aveva della voglia. All’indomani tutto, si augurava, sarebbe stato forse più difficile!».

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Nota: i riferimenti iconografici (indicati nel testo con la dicitura 1, 2, 3…) saranno affiancati da un numero progressivo (da 1 a 274). Nel caso in cui i fotogrammi siano relativi a una stessa inquadratura, verranno chiamati 1a, 1b, 1c… La direzione di lettura è orizzontale. La dicitura “m.d.p.” sta per “macchina da presa”.

A Mattia Canovaro, Tetrarca

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Capitolo Primo «VANIfICAzIoNE sIstEmAtICA DEllA CulturA»

«Se il nostro terzo occhio non si eccita abbastanza lo si masturba un po’ con la messa in scena» (Jacques Lacan) 1

A chi non sa godere, la società dello spettacolo (teatro, ma soprattutto cinema) propone tutte le eccitazioni erotiche compensatrici. Carmelo Bene denuncia questo quietismo per scalzare il collettivo far finta di godere cullandosi in una frustrazione generalizzata: è da prefiggersi la condizione del vero godimento, fosse anche al limite della crudeltà. Una crudeltà come «necessità» e «rigore» 2. Crudele allora è Sade, per il quale l’importante è scavalcare sempre gli ultimi limiti (in un sistema di forza, laddove si verifica un calo di tensione la catastrofe diviene inevitabile), e crudele è Lautréamont, il cui Maldoror supera in eccesso tutti gli eccessi che condanna. Crudele è l’Eliogabalo di Artaud, i cui gesti sono a doppio taglio: «Dappertutto l’ampiezza, l’eccesso, l’abbondanza, la dismisura. La generosità e la pietà più pure vengono a controbilanciare una crudeltà spasmodica» 3.

E crudele è anche la lacerazione sottesa alla visione diretta di Bene, comprensiva dell’esito del XX secolo: il superamento dell’arte come mimesi. «Disdire l’arte come consolazione e disfare l’arte come rappresentazione» 4.

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Altrimenti detto: è impossibile fare e inutile credere. «Sono inconsolabile. Me lo sono guadagnato. Ho meritato questa uscita dal problema della “felicità infelice”. Sono fuori. (…) Di quello che ho visionato non morrei mai, ecco. Dal ridere. Si può morire davvero dal ridere. Non è un modo di dire. È un modo di morire. È proprio questo che rinfaccio all’Arte, tutta l’arte di Stato: d’agghindarsi e decorarmi» 5.

Secondo Bene, «il circolo vizioso dell’estetica contemporanea» si instaura «quando alla dissennata volontà d’esprimersi si coniuga il tarlo ambizioso della comunicazione» 6. Mi riferisco al suo cinema: lo scandalo che ha suscitato alla fine degli anni ’60 non denota soltanto una seminalità di quell’atteggiamento postmoderno che dilagherà vent’anni dopo 7. Il metodo di riscrittura beniano se da un lato comporta conseguenze frammentarie e uso di citazioni, allineabili alla pratica di recupero e assemblaggio di elementi eterogenei che sarà propria di tutti gli anni ’80, dall’altro è un continuo citare senza fonte, rifiutando di indicare l’origine di questa profusione di cultura 8. Inoltre, mentre la caduta delle grandi narrazioni e la convinzione che non ci sia più nulla di nuovo da dire porteranno a un’estenuante ricerca di pubblico e a un esibizionismo insistente, in Carmelo Bene il grande attore (e cioè il non-Attore, quale lui stesso si definisce) non si risolve in un corpo esibito, ma si sa dissolvere in miriadi di atomi: il narcisismo e la soggettività vengono così fatti esplodere nei due aspetti contraddittori di appariscenza e di annichilimento. «La voce onnivora è il tramonto temporalesco dell’insensato protagonismo delle parti» 9.

Di contro all’«autentico strabismo» del «famigerato guardarsi dentro» 10, convinto che il più grande problema dell’arte sia il continuo inciampare nel proprio io, Bene si proclama non più autore, attore o regista, ma «operatore», tanto che Cesare Garboli considererà il suo scandalo non culturale, ma «tecnico» 11. Non viene negato il mestiere, ma rifiutata la parte: Bene

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è il klossowskiano «principe delle modificazioni». «Carmelo Bene comincia dove c’è il vuoto, o meglio anticipa la coscienza del vuoto sulle soglie degli anni sessanta, nel momento in cui troppi continuavano ad esaltare il proprio lavoro, in una direzione storicistica che a poco a poco aveva ristretto il margine di esperienza e di ricerca, per eccessiva fiducia nel rapporto storia-uomo, società-individuo» 12.

Questa è pura anarchia, viva e fertile 13, così vicino all’insurrezione sistematica e sagace che Eliogabalo dirige, prima di tutto, contro se stesso. Artaud spiega: «Egli pratica un’anarchia minuziosa e pericolosa, poiché si scopre agli occhi di tutti. Insomma, giuoca la propria pelle. Il che è da anarchico coraggioso» 14.

Non si tratta di una poetica o di un modo, in cui dimostrare coerenza, accanimento e affinamento, ma di una presa di posizione definitiva: per essere credibile, Carmelo sceglie di rovinarsi. «Attore. Stiamo agli etimi: da agere, atto retorico della bocca. Liberarsi del corpo, anche della voce se necessario; sospendere il pensiero. (…) Soggetto, da subjectum, subire perforati da qualcosa. Non agenti ma agiti. Ciò che importa non è comprendere, ma essere compresi, questo sconvolge una vita. Il mestiere del teatro brucia la vita: pensate a Pasternak: non prove esige dall’attore, ma un’autentica rovina» 15.

Il “soggetto” viene così piegato al senso originario di “sottomesso, prostrato”, libero dal fare piuttosto che di fare. Bene incrocia la critica alla centralità del soggetto elaborata dalla filosofia contemporanea a partire da Nietzsche 16, e l’approccio antiumanistico che da lì desume e fa proprio lo conduce alla distruzione delle ideologie (che in Italia, negli anni ’60, si caratterizzavano attraverso i paradigmi del cattolicesimo, dell’idealismo e del marxismo) 17:

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«Dai trenta ai quarantacinque anni ho letto moltissimo. Cercavo un mio tornaconto continuo, una mia verifica. Una speculazione anche nel senso deteriore del termine, da antierudito, antiumanista 18. La questione è sempre la stessa, togliersi di mezzo, vanificare la lettura consumandola, non per la stolta verifica del “chi sono, da dove vengo, dove vado”, ma per l’esatto contrario: “Chi non sono, da dove non vengo, dove non vado” 19. Vanificazione sistematica della cultura» 20.

Bene diffida delle masse 21, lavora sul limite del corpo e sull’autodistruzione dell’io. In tutti i suoi film, infatti, Carmelo Bene non può essere protagonista poiché manca la caratteristica principale: la capacità di essere centro dell’azione. Come ha puntualizzato Cosetta G. Saba, «si tratta di far emergere “la terza dalla prima persona”» 22: il soggetto sceglie di oggettivarsi, in altro da sé o in una proliferazione di altri, e può così soddisfare la propria aspirazione all’inettitudine con un solipsismo estremo. Carmelo Bene si dà, ma chiuso nella privatizzazione più esasperata. Tutto il suo cinema allora non è altro che questa teoria della solitudine, solitudine che attiva l’immaginazione fino a confondere «reale» e «immaginario», «presente» e «passato», «attuale» e «virtuale» 23. E l’inizio di tale percorso critico risale a prima di Nietzsche. Bene infatti si rifà soprattutto a Schopenhauer, in particolare al concetto di «corpo interno-esterno» contenuto ne Il mondo come volontà e rappresentazione: dall’esterno il corpo è rappresentazione tra le rappresentazioni, mentre dall’interno è immediata volontà. Dopo la demolizione del procedimento saggistico della mise en scène, non rimane che negare anche la volontà fino alla noluntas. Preciso le conseguenze di questa graduale rinuncia. Da una parte l’idea che ogni arte sarebbe senza opera («autore che non ha opus»), e forse senza artista («opus che non ha autore»): l’artefice non è mai autore di una propria opera, ma è semmai, di per sé, un capolavoro vivente, e vice-

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versa «l’opera non è che una ricaduta residuale, un escremento (dall’etimo “ciò che si separa”)» 24, una traccia lasciata dal genio. Dall’altra parte, invece, la contemplazione del nulla e l’ascesi.

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Note Citazione di C. Dumoulié in Omaggio a Carmelo Bene, “poeta increato del soffio”, in A CB. A Carmelo Bene, Editoria & Spettacolo, Roma 2003. 1

Nella prefazione di J. Derrida ad A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1964. 2

3 A. Artaud, Eliogabalo o l’anarchico incoronato, Adelphi, Milano 1969.

4 P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 1997.

C. Bene intervistato da G. Dotto in Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998. 5

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C. Bene in Quattro momenti su tutto il nulla - momento 4 (arte), 2000.

7 La condizione postmoderna di Lyotard è del 1981. In ‘l mal de’ fiori, Autointervista dell’autore (maggio 2000), Bene storna l’equivoco di chi lo ha considerato un «innovatore di linguaggio»: «Mi hanno definito così gli altri, non è una mia ideuzza. (…) Volevo sgomberare il campo dagli equivoci del postmoderno».

«Questa sera non vi darò le fonti: morirete di sete!», dice Bene. A questo va aggiunto il dichiarato riferimento alle “reinvenzioni d’identità” di Borges (in C. Bene, L’orecchio mancante, Feltrinelli, Milano 1970). Ritengo invece il citazionismo leggero di Derek Jarman quello che meglio chiarifica il postmoderno, che si libera dalla devozione riverita per il passato: in film come Sebastiane (1976) o Caravaggio (1986), infatti, la storia diventa un serbatoio cui attingere elementi ripescati da inserire con disinvoltura nel discorso. 8

C. Bene, La voce di Narciso, Il Saggiatore, Milano 1982. Bene si accanisce: «Millantatori del vitalismo scenico, mentecatti, bestiacce, attricette di arte concettina…» (in Quattro momenti su tutto il nulla momento 3 (eros), 2000). 9

10 C. Bene in Quattro momenti su tutto il nulla - momento 2 (coscienza e conoscenza), 2000.

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Citato da P. Giacchè in Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, op. cit. 11

12 Giuseppe Bartolucci, La scrittura scenica, in Opere con l’Autografia di un ritratto, Classici Bompiani, Milano 1995.

13 «Il puro anarchismo di CB non è una sterile scimmiottatura del genio romantico e sregolato, di una scapigliatura masochistica, scioccamente attratta dal miraggio della propria rovina. No, niente di mortuario» (Franco Cuomo, Trentasei Manhattan per un Faust disperato, in A CB. A Carmelo Bene, op. cit.).

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A. Artaud, Eliogabalo o l’anarchico incoronato, op. cit.

15 C. Bene citato da Lisa Ferlazzo-Natoli in 1999, il seminario, in A CB. A Carmelo Bene, op. cit.

16

Intendo soprattutto Bataille, Foucault, Blanchot e Deleuze.

17 E questo avviene proprio nel momento in cui, a livello internazionale, le ideologie stavano implodendo nel “ciclo della protesta” con la rivolta del Movimento studentesco del 1968. Si è fatta derivare da questa sintonia una storicizzazione dell’opera di Bene, limitandone la validità ai presupposti di quel determinato contesto: «Se la rivoluzione di forma, di stile e di linguaggio svolta da Carmelo Bene con Nostra Signora dei Turchi assumeva ieri un chiaro significato, oggi, dopo i fatti del ’68 e dopo il rinnovamento contenutistico che il cinema ha dimostrato nell’intervento sui temi politici e civili, non ha invece più alcun senso» (da “Rivista del cinematografo”, n. 8-9, agosto-settembre 1972, in Enrico Baiardo e Fulvio De Lucis, La moralità dei sette veli. La Salomè di Carmelo Bene, Erga, Genova 1997). Ma a torto, tanto che Bene stesso definisce Nostra Signora dei Turchi (1968) un «film dichiaratamente anti ’68», in disprezzo non solo a quel «maggio italo-gallico», ma a tutti i «maggi socialmondani della Storia in saecula saeculorum» (in Vita di Carmelo Bene, op. cit.).

M. Grande spiega: «La “macchina attoriale” è il nome che CB ha dato all’antiumanesimo dell’attore-macchina che si smemora di sé e di ogni epifania del soggetto nel “teatro-senza-spettacolo”». 18

«Codesto solo oggi possiamo dirti. Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»: nella poesia Non chiederci la parola, Montale cita pedis19

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sequamente La gaia scienza di Nietzsche. 20

C. Bene intervistato da G. Dotto in Vita di Carmelo Bene, op. cit.

«È la folla come fallo, è l’errore di massa. Non l’erranza. (…) Dove c’è qualità si muore. (…) Ma la gente comune è un luogo comune. Il buon senso non può mai essere comune. È sensibilitudine, delicazzitudine» (C. Bene intervistato da G. Dotto in Vita di Carmelo Bene, op. cit.). Quella di Bene è un’ostilità ammessa contro il concetto di democrazia: a poco serve smagnetizzare i suoi anatemi pubblici sotto la rassicurante etichetta di “provocazione”. 21

Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, Il Castoro, Milano 1999. L’autrice prosegue poi specificando che «la formula rimbaudiana del “JE est un autre” si complica: l’altro non è un soggetto, bensì un “oggetto”». 22

G. Deleuze parla appunto in questi termini dell’«immagine-cristallo» che caratterizzerebbe i film di Bene (in G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989). 23

C. Bene cita Derrida alla lettera in Quattro momenti su tutto il nulla - momento 4 (arte), 2000. E ancora, intervistato da E. Ghezzi in Discorso su due piedi (il calcio), Bompiani, Milano 1998: «Ci sono le opere. L’autore non esiste. Non deve esistere. (…) Perché l’opera, se tale è, è senza autore. Se no è residuale. Se no son tracce. Lascia scorie». 24

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Capitolo Secondo l’EstAsI, lA stAsI A fondamento della «posizione filosofica» di Carmelo Bene viene indicata una «derisione funebre della volontà d’essere» 1, lontana però dalla prospettiva esistenzialista. «Non parlo mai a chi mi rompe i coglioni con l’essere e con l’esserci! Non voglio parlare dell’ontologia! Abbasso l’ontologia, me ne strafotto! Parli con il professor Heidegger, non con me!» 2.

E infatti in Bene l’eccesso è dato sotto forma di rigurgito (quasi un controdesiderio), e non di nausea. «Eccedere le forme. Per muovere i primi passi, devi uscire dal tuo cammino, smarrirti, rinunciare al tuo modo, se vuoi pervenire a ciò che non ha più modo. Evadere ogni forma d’Arte o, quanto meno, avvertirne l’imbarazzo» 3.

A questo proposito, Carmelo fa riferimento all’esuberanza barocca della scultura del Bernini, al marmo che coglie all’infinito pieghe che non si piegano più con il corpo, ma con un’avventura spirituale capace di infiammarlo. Forse è davvero solo il fuoco a poter render conto delle pieghe della tunica della Beata Ludovica Albertoni 4 e di Santa Teresa, che testimonia come l’anima in trance sia pervasa da inesprimibili delizie. La beatitudine spirituale pare mescolarsi agli spasimi di uno stravolgimento erotico. Nella sua Autografia, Bene inserisce l’episodio usato da Schopenhauer per chiudere il capitolo sull’arte nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione. Nel dipinto di Raffaello, Santa Cecilia (cieca) abbandona i suoi strumenti musicali e si lascia trascinare in cielo dagli angeli, fuori dalla tela stessa:

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«Che se ne fa delle armonie degli angeli, quando ha trovato gli angeli in persona?».

È la fine dell’arte. Non più gli artisti, ma i santi possono meritare l’incantamento di quest’attimo di grazia assoluta. Non bastano più le immedesimazioni e i dialoghi con i poeti 5: è necessario inseguire il modello dei santi. E riguardo all’estasi di Santa Cecilia Borges aggiunge: «Il corpo infatti non c’era più. Era una pornografia degli angeli».

Nella quiete del porno, il soggetto smette di esistere, o quantomeno è contenuto nell’oggetto (Bene parla di «carne senza concetto»). Si eccede l’erotismo, cioè il desiderio, e così vengono meno gli affanni, gli equivoci, i fraintendimenti. Questo è osceno 6. «Capisco oggi quanto avesse ragione Dalí a presagire e a insegnarmi, in pieni anni ’70, il “genio” come al di là della “sofferenza”» 7.

Da un lato Carmelo Bene aspira all’annichilimento estatico dei mistici (Santa Teresa d’Avila, Santa Teresa di Lisieux, Santa Caterina da Siena, San Giovanni della Croce), dall’altro tende all’imperturbabilità atarassica degli stoici, declinata nella «visionaria accidia» 8 dell’Italia meridionale, nel «sud del Sud dei santi». E sono due i santi minori 9 presi ad esempio. Santa Margherita d’Otranto, la “Nostra Signora dei Turchi”, è la soccorritrice invocata, che arriva in aiuto agli altri, impaziente di perdonare e guarire 10. Anticipazione dell’Ofelia di Un Amleto di meno, ama infermieristicamente («ti cambio le bende…»), eppure fa sesso, sta a letto discinta sfogliando “Annabella”, fuma e risparmia sulle bollette telefoniche. Ferma un temporale e scende dal cielo a prendere il suo amato per una gita in barca. «Quella santa è una donna» 11, e conserva solo schegge dell’iconografia sacra (le vesti e l’aureola dondolante). Giuseppe Desa da Copertino, «Frate Asino», il santo che non ha il senso della gravità e perciò levita. «Illetterato et idio-

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ta», maldestro, irresponsabile, inetto. «Evita il prossimo suo come se stesso» 12 e se ne sta con la bocca spalancata, «non sappiamo se in attesa della brodaglia, o di una estasi» 13. Gianni Turchetta semplifica con efficacia: Giuseppe Desa «vola perché ha le piaghe sul culo ed è santo perché è un deficiente» 14. Questi due esempi sono la celebrata apoteosi dell’inazione e del depensamento: «Il piatto fatalismo o l’incolore apatia con cui svogliatamente si tratteggia l’immagine della plebe meridionale, passano dal piano degli stereotipi generici alla dignità di atteggiamenti eletti. (…) Non per questo il depensamento raccoglie e nobilita ogni stupita “boccaperta”, né l’inazione cataloga e giustifica ogni gratuita frenesia, ma l’una e l’altra assorbono e assolvono in sé i comportamenti di chi davvero apprezza la beatitudine dell’annichilimento, ovvero di chi è sul serio preda di una entusiastica insoddisfazione» 15.

Ed è proprio nel suo cinema che Bene rinvia il senso al depensamento, mentre adopera l’inazione come tecnica. Depensamento come senso Bene brama l’abbandono immaginifico del mistico. Il suo è quindi il cinema di un visionario che non crede più alle visioni, ma le attraversa: «Fingere visioni per poi interrogarle» 16, da «cretino che la Madonna non l’ha vista mai». Riporto parte del monologo della voce off di Bene nel film Nostra Signora dei Turchi: «Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai. Tutto consiste in questo, vedere la Madonna o non vederla. (…) I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di

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posare ricadono come se un tale, avendo i piombi alle caviglie e volendo disfarsene, decide di tagliarsi i piedi e si trascina verso la salvezza. (…) I cretini che non hanno visto la Madonna hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne, in convenevoli del quotidiano fatti preghiere, e questo porta a miriadi di altari. Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio. L’umiltà è conditio prima. I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi, come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere più gentile dei più gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione».

Questo disincanto si ricollega alla crisi del concetto di soggetto agente («Noi non ci apparteniamo» 17), verso un oltre che cancella il rapporto staccato tra chi vede e cosa vista nella sensazione brutale 18 di chi «vede la vista». «Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono. È l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu. Divina è l’illusione. (…) È così che un santo perde se stesso, tramite l’idiozia incontrollata. (…) Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro. Miracolo è la trasparenza. Sacramento è questa demenza. (…) E gli occhi hanno visto la vista. (…) I cretini che vedono, vedono in una visione se stessi (…). E dinanzi a questo alter ego si inginocchiano come davanti a Dio. Si confessano a un secondo peccato. Divino è tutto quanto incon-

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sciamente hanno imparato di sé. Hanno visto la Madonna. Santi».

Del resto, data l’equivalenza soggetto-oggetto, Bene si trova a «sentirsi la Madonna a sette anni» (pur senza ricevere la grazia di vederla) e poi sostiene che il 31 luglio 1981, a Bologna 19, sia lui stesso «apparso alla Madonna». «Parlare (al)la Madonna. Questa parentesi è l’abisso» 20.

Come rimarca Deleuze 21, la cosa e la percezione della cosa sono una sola e stessa cosa, una sola e stessa immagine. «Se il mondo fosse la visione che ne abbiamo e non quella che il mondo ha di noi saremmo forse più riservati» 22.

Il guardante e il guardato coincidono, il campo e il controcampo sono complementari: prima viene mostrato qualcuno che guarda, poi ciò che vede. Così, per lo stesso principio, il culto delle sue «splendide madonne bionde» 23 ha trascinato Bene dalla parte del femminile: «Io mi sono così indonnato, indominato (a) da ritrovarmi semmai “ragazza libera, semiselvaggia”» 24.

Essere è essere percepiti. Esse est percipi. A ciò si aggiunge la spensieratezza di un Amleto così a lungo frequentato che confessa di preferire mettere in versi la sua vicenda piuttosto che viverla in prima persona e di voler partire per Parigi con Kate 25, primadonna di teatro, invece di rimanere a Elsinore a occuparsi delle sue «repellenti preoccupazioni domestiche». In questione non c’è più la legittimità o meno di vendicarsi, ma l’annientamento dell’Io, il dimenticarsi di se stessi come unica via di autenticità. Il disimpegno dell’“eroe del dubbio” è scusato anche da un rifiuto edipico della vendetta (colui che ha ucciso suo padre ha in realtà realizzato il suo desiderio inconscio e quindi non può ucciderlo) 26. È l’oblio di quei sentimenti (ira, dolore, sdegno)

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legati al suo ruolo di figlio, fino all’approdo gozzaniano dell’«ed io non voglio più essere io». E Bene aggiunge un ulteriore slittamento di senso. Pur sconvolto per aver assistito alla “scena primaria” e all’omicidio del padre 27, Amleto vorrebbe utilizzare il suo dramma familiare solo quale occasione di argomento per un’opera estetica 28, ma il suo disinteresse è tale da minare anche qualsiasi velleità rappresentativa. È la crisi dell’artista (come già accadeva, prima di Un Amleto di meno, per il poeta di Capricci): Amleto si ritira e fugge dopo i fischi e le ingiurie per il suo monologo d’attore davanti a una platea virtuale e, pugnalato a morte da Laerte davanti alla tomba di Ofelia, sentenzia: «Qualis… artifex… pereo!» 29.

Inazione come tecnica «Cadute volontarie» o «voli impossibili» Il «cretino vocato e apocalittico» 30, di cui Nostra Signora dei Turchi è l’apologia, tenta ripetutamente di autodistruggersi. La pratica principale di cui si serve consiste nelle «cadute volontarie» o «voli impossibili», allusione alle levitazioni estatiche di San Giuseppe da Copertino (ma anche alle acrobazie dello Zarathustra nietzscheano). Dopo la sparatoria iniziale in stile gangster, il film riapre su un balcone affacciato al mare (FOTOGRAMMA 1), il cui azzurro fa da secondo schermo a circoscrivere la silhouette in figura intera di Bene in controluce. Lui è arrivato di spalle, fuma (FOTOGRAMMA 1a), si mette a cavalcioni sulla balaustra del balcone (FOTOGRAMMA 1b) e si getta nel vuoto. Stacco. Ventitré fotogrammi di vuoto. Stacco. Ripresa da sotto del corpo sospeso in aria (FOTOGRAMMA 2). Stacco. Stessa scena ripresa dall’alto (FOTOGRAMMA 3), con movimento della m.d.p. inverso a quello della caduta, quindi in allontana-

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mento dal suolo: Bene già a terra (FOTOGRAMMA 3a), dolente di un dolore simulato, tanto che, nell’inquadratura successiva, si rialza e se ne va (FOTOGRAMMI 4 e 4a).

È la «morte raccontata da un vivo» 31, un vivo inetto a tal punto da mancare di continuo la propria morte, nonostante il suo infaticabile autolesionismo: si butta dal balcone, si scotta, si procura ferite fino a ridursi a una mummia completamente bendata. Il suo è un corpo sfinito, sempre acciaccato, malconcio o ubriaco, inabile a distinguere lo stato di veglia dall’essere dormiente, senza però mai riuscire a meritarsi la prefissata demenza 32. Il cerimoniale di stordimento cui Bene si sottopone in Nostra Signora dei Turchi trasforma il più banale inciampo in una vera e propria occasione di sfacelo corporale. Ma queste gesta sono svuotate di senso a causa della loro reiterazione liturgica, tanto che il corpo si perde spesso nelle procedure del rituale. E il fermarsi ai preamboli degenera in una «sincope del gesto» (aprassia) e in un «guasto della parola» (afasia). Tale frantumìo, risolto cinematograficamente attraverso la mancata sovrimpressione tra immagine e sonoro, è il «buco nero» del linguaggio. Rimangono allora i bisbigli, i soffi, i grugniti, i rutti, gli attacchi di tosse convulsa, gli spasimi, le urla. Suoni appena percettibili oppure assordanti. Una voce sempre altrove rispetto al corpo 33 (voci singole o polifoniche, asincrone, doppiate da voci altre o da rumori e suoni), che vuole essere feroce e divertita «parodia della vita interiore». Deleuze riconduce il balbettare di Bene alla sua capacità di «essere straniero, ma nella propria lingua» 34. Quando in Nostra Signora dei Turchi si affaccia al balconealtare, Bene parla a se stesso nel proprio orecchio, ma sulla piazza pubblica 35: all’ossessiva volontà di diventare cretino, si affianca la nolontà di essere fatto santo in quanto martire scampato alla strage compiuta dai Turchi nel 1480 (prima di affrontare, benedicente, la folla di turisti adoranti, Carmelo si dà forza con un sorso di Hepatos b 12, un lassativo).

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All’inizio, dopo la presentazione in esterno del Palazzo Moresco, si passa ai carrelli verticali (dal basso verso l’alto) all’interno della cappella-ossario della Cattedrale d’Otranto. Sovrimpressione tra il volto di Bene e un teschio (FOTOGRAMMI 5 e 5a). Corrispondenza tra il martire che ha conservato gli occhi e il martire mancato (FOTOGRAMMA 5b). Dissolvenza del volto di Bene a lasciare un cranio uguale agli altri del mucchio (FOTOGRAMMA 5c).

Oggetti-impedimento Non solo i gesti, ma anche le cose sono sistematicamente spossessate delle loro funzioni: gli oggetti non servono o, se servono, non si trovano, o ancora, se si trovano, non riescono a svolgere il loro compito. In Hermitage, la stanza 805 è minata da elementi che intralciano gli spostamenti e da oggetti che resistono al loro impiego: i movimenti del protagonista risultano dunque troppo rigidi o eccessivamente fiacchi. Il corpo di Bene si chiude nel privato del bagno di una camera d’albergo per faticare in rituali inconcludenti e in atti compiuti a vuoto. Nella sequenza delle pulizie di Nostra Signora dei Turchi, Bene si scaglia contro gli oggetti all’interno della stanza per distruggerli; poi, calmatosi di colpo, inizia ad aggiustare le sedie, a riordinare i fiori nel vaso e a pulire con la scopa. Tenta di riassettare, ma invano: le cose si sottraggono ai loro usi, cadono, si rompono, ostacolano il lavoro e fanno perdere tempo. Nella preparazione del tè, prima strategia cui Don Giovanni ricorre per sedurre la bambina, il tintinnio delle tazze e dei piattini è amplificato e risulta straniante nella mancata sincronia con le immagini. In più, Don Giovanni continua a scottarsi, mentre l’ex-amante rovescia il tè versandolo senza tenervi sotto la tazzina. I costumi di scena di Un Amleto di meno sembrano dei rigonfiamenti, delle deformazioni dei corpi (e dunque

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una ridicolizzazione dei ruoli): mettono in difficoltà, frenano i movimenti invece di agevolarli. Amleto ha un costume colorato in modo arlecchinesco e con imbottiture ingombranti a forma di sfera (FOTOGRAMMA 6) o di cubo; il padre defunto indossa un grosso copricapo cornuto; Claudio ha una gobba rossa; Gertrude si orna di veletta e tulle nero (FOTOGRAMMA 7); Ofelia ha un’enorme cuffia bianca da monaca-infermiera (FOTOGRAMMA 8); le cortigiane - e talvolta anche Ofelia stanno immobili dietro gonne gigantesche a forma di semisfera (FOTOGRAMMA 9); Kate porta sempre dei cappelli a larghe tese laterali (FOTOGRAMMI 10 e 11); Fortebraccio è addirittura un’armatura senza corpo (FOTOGRAMMA 12). Anche la scenografia è fatta di stoffe pesanti e di pizzi avvolgenti, con forme rigidamente geometriche e voluminose, d’impaccio a qualsiasi spostamento: Rosencrantz e Guildenstern, “giocando” con Amleto, fanno capriole sui palloni di varia misura che lui fa rotolare (FOTOGRAMMA 13), mentre Gertrude, poco prima dell’uccisione di Polonio, è sdraiata sulla rotondità di un grande gomitolo nero.

Anche nella sceneggiatura di A boccaperta (pubblicata nel 1976, ma mai diventata un film), Bene dà chiare indicazioni a riguardo: «Gli oggetti tra le mani del bambino (ciotole, cucchiai, scope, piatti, pane, anfore, ecc…) si dovrà costruirli di piombo (oltre ad ingigantirli) truccato poi da terra cotta. Sollevarli costerebbe almeno un’ernia a qualsivoglia volenteroso piccolo interprete».

Ogni impedimento è cercato e voluto per nullificare qualsiasi fare. «Devi crearti delle trappole in cui poi tu devi cadere. Come faccio io quando sono in scena. Mi creo degli handicap in modo da precipitarmi nell’immediato, nell’atto, che è il contrario dell’azione, che sgambetta l’azione. È l’auto-sgambetto» 36.

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Oggettivazione del soggetto A un’inutilità del fare corrisponde una vanità del dire: lo scopo è raggiungere uno stato di inconsapevolezza inorganica e santa. Si realizza nella versione cinematografica di Hermitage ciò che veniva solo annunciato in un passaggio dell’omonimo racconto 37: Bene guarda ed è a sua volta guardato da un vaso di rose azzurre. Montaggio alternato tra il piano medio (FOTOGRAMMI 14 e 20) o il primo piano (FOTOGRAMMI 16 e 18) del volto calcinato di lui, mentre fuma e fissa con insistenza i fiori (silenzio), e il primo piano del vaso (enfatizzato da un innesto musicale preso da Un ballo in maschera di Verdi) 38 (FOTOGRAMMI 15, 17 e 19). Il controcampo di Carmelo è quindi un oggetto che a sua volta simula una soggettiva sull’attore. A questo punto, Bene si alza (FOTOGRAMMA 21), sposta il vaso di rose (FOTOGRAMMI 21a e 21b) e lo sostituisce salendo lui stesso sul tavolo ed entrando in un fascio di luce celeste proveniente dall’alto (FOTOGRAMMA 21c). Stacco. Particolare dell’oggetto messo al posto del soggetto, tra il bianco dei cuscini del letto (FOTOGRAMMA 22).

Il soggetto diventa oggetto e, in quanto tale, viene visto 39. Mentre in Hermitage il corpo si oggettiva sostituendosi a un oggetto (cioè mettendosi fisicamente al posto di un vaso di fiori), in Nostra Signora dei Turchi, invece, diviene oggetto accanto a un altro oggetto (ancora un vaso di fiori), entrambi posti sullo stesso tavolo. Nella sequenza del “monologo dei cretini”, Bene è avvolto in bende bianchissime ed è immerso nello spazio-tempo sospeso di una camera blu fosforescente. Intralciato dalle garze stesse, si trascina fino al tavolo su cui ha visto un vaso di fiori e ci sale sopra in piedi. La m.d.p. riprende soggetto e oggetto insieme, poi isola l’attore e gli inquadra il volto, ora illuminato dall’alto come se fosse lui il vaso di fiori.

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Impossibilità del martirio Nel cinema di Carmelo Bene sono frequenti le allusioni a martiri mancati, a santi svogliati o a crocifissi schiodati, a partire dall’«impossibilità del martirio in un mondo presente, non più barbaro, ma esclusivamente stupido» 40. In Nostra Signora dei Turchi, il sopravvissuto al massacro di Otranto ha una forte passione per le corone di spine 41 (con cui si trincera il letto (FOTOGRAMMA 23)), non fa altro che cadere dalla finestra e ripartire, si atteggia a San Sebastiano e si trascina in una relazione con Santa Margherita. All’inizio di Capricci, nell’atelier del pittore Clarke, c’è un vecchio che posa a braccia spalancate, come fosse appeso alla croce. Parallelamente, in una periferia piena di auto dismesse e frequentata da prostitute, il poeta sperimenta diversi incidenti progettando lo scontro perfetto in cui si ammazzerà. In Don Giovanni, per sedurre la religiosissima bambina Bene si traveste da Cristo (prima sanguinante, legato a una colonna con i fili delle marionette (FOTOGRAMMA 24), e poi in tunica lunga e capelli sciolti). Nella Salomè, la decapitazione del Battista è sostituita dal taglio ripetuto di un’anguria da parte del boia (FOTOGRAMMI 25 e 26).

Credo sia fuorviante lo slittamento di senso che Moravia insinua parlando di «impossibilità della rappresentazione del martirio» 42, da cui deriverebbe l’uso della parodia nell’opera beniana. Non vedo in Bene alcuna premura di resa formale né tanto meno la preoccupazione di una messa in scena “seria” della tragedia del Golgota in seguito al «fallimento di una luciferina rivalità con il Cristo» 43. Questa questione era già stata liquidata dall’autore stesso nell’incipit de L’orecchio mancante: «Non sono Gesù. Sono la Madonna».

Soprattutto la parodia non investe il sacrificio della religione cristiana in sé, ma la rielaborazione di questo data dalla vio-

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lenza del sadomasochismo. Martirizzarsi non è dato e non dà piacere perché c’è sempre qualcuno che, inconsapevole, interviene per impedire il compiersi di tale procedura. In Nostra Signora dei Turchi, una serie di campi e controcampi piuttosto improbabili alterna la figura intera di Bene che si sporge dal balcone (FOTOGRAMMI 27 e 29) e il piano medio di qualcuno (Vincenzo Musso) che vuole fermarlo: sta fumando (FOTOGRAMMA 28), ma, appena si accorge delle intenzioni del suicida, butta la sigaretta e si precipita a ostacolarlo (FOTOGRAMMA 30). Camera-car a precedere la corsa estenuante per intercettare la tragedia; la velocità del movimento di macchina all’indietro non è uniforme, per cui il personaggio è ripreso inizialmente in primo piano (FOTOGRAMMA 32), poi in campo lunghissimo (FOTOGRAMMA 32a), quindi ancora in primo piano. Carmelo assiste senza scomporsi (FOTOGRAMMI 31 e 33), prende un narciso e lo addenta (FOTOGRAMMA 35). Fine della corsa: Vincenzo Musso si avvicina alla m.d.p. (passando dal campo medio al primo piano), rallenta e ansima per la fatica tenendosi la milza (FOTOGRAMMA 34), per poi crollare sfinito, senza più respiro, sulle strisce pedonali (FOTOGRAMMA 36). Bene, sempre con il fiore in mano (FOTOGRAMMA 37), è così costretto a ritirarsi dal balcone e, alquanto scocciato, torna in casa (FOTOGRAMMA 38) lasciando il quadro vuoto.

Demotivante è quindi l’incoscienza di chi si mette in mezzo a un già difficile rituale di reificazione e annullamento. A questo va aggiunto, nel caso specifico dell’autocrocifissione, un particolare logistico: Nella Salomè, l’aspirante Cristo si inchioda da solo i piedi (FOTOGRAMMI 39, 40, 41, 42 e 43) e la mano sinistra (FOTOGRAMMI 44 e 45) alla croce, ma non può più trafiggersi anche l’altra mano, che gli rimane

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libera (FOTOGRAMMA 46). Disperato, la utilizza allora per sfondarsi il cranio a martellate 44 (FOTOGRAMMA 47).

L’unico vero martire nei film di Bene è il Tetrarca: nelle vesti di Onorio, viene trasformato da pagano in peccatore dalla Santa Cortigiana, subisce il Cristo-vampiro (che organizza l’orgia) e, alla fine, viene scorticato vivo da Salomè senza nemmeno aver visto la danza. Fin dall’inizio del film è oppresso da segni che premoniscono l’imminente rovina (dei suoi dèi, della sua regalità, del suo potere e di se stesso), ma nonostante la paura non vi si sottrae: riesce a farsi strumento della propria disfatta e del proprio annientamento. E Carmelo dice di assomigliare in tutto a quel suo Erode che, smanioso nell’attesa che Salomè lo compiaccia, muove senza senso i pezzi della sua scacchiera di ghiaccio finché tutto si scioglie e gli scivola via dalle mani. «E Antipa, il matto, lo dà al se stesso re» 45.

Benda ferita Dicevo che Erode vede ovunque i presagi della catastrofe: nel pallore di Salomè, nel freddo improvviso, nella luna divenuta rossa, nel vino come sangue, nel sangue, nei petali di rosa come sangue (FOTOGRAMMA 48): «Come sono rossi questi petali. Sembrano macchie di sangue sparse sulla tovaglia. Ma non bisogna trovare simboli dappertutto, la vita diventerebbe impossibile» 46.

È estraneo a Bene sia alludere sia condensare e rendere implicito. Non ci sono simboli, insomma, semmai correlativi oggettivi. Il richiamo al sangue è indiretto, anche se costante: il corpo di Carmelo Bene è «performatico» 47, però non si sofferma sull’analisi della propria ipersensibilità o delle proprie anestesie. Cosetta G. Saba precisa che «in ciò consiste la distanza, rispetto ai temi dell’inorganico, dall’arte estrema (Body Art e Scuola

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di Vienna) (…). Nel cinema di Bene le ferite sono inventate» 48. Rilevo due tipi di malesseri nel cinema di Bene, uno narcotico e uno nevrotico, tra loro corrispondenti. In caso di narcosi non viene dato credito al dolore e perciò si persevera nelle pratiche autolesioniste 49. In Nostra Signora dei Turchi, il protagonista si butta dal balcone, ma la caduta non si vede: lui rimane illeso e quindi ci deve riprovare. Si lascia curare da Santa Margherita e indossa tutti i suoi medicamenti (FOTOGRAMMI 49, 50 e 51), ma non vuole farsi guarire. In Capricci, lo scontro automobilistico viene ripetuto più volte perché mai dannoso: le lamiere non tagliano e la carne non si sfalda (incrostata di sangue, la prostituta sorride al poeta, suo compagno, e gli porge la tenaglia per tagliare i freni della macchina e ritentare l’incidente). L’Erode di Salomè continua a bearsi nel suo festino anche quando, verso la metà del film, si ritrova senza ragione con un braccio fasciato.

Nella nevrosi sono invece ostentati malori inesistenti. Hermitage termina con Bene inerte, o più semplicemente sfiancato dal vino (FOTOGRAMMA 52). Alla fine di Nostra Signora dei Turchi, il protagonista sembra assumere una posizione consona al venir meno, ma forse si è soltanto addormentato. Il poeta di Capricci si avvolge la mano con una garza già insanguinata e, in fin di vita, ha comunque la forza di ricercare la postura più adatta per morire e spira solo dopo averla trovata. In Salomè, le natiche a inizio film sono arrossate dal trucco e non dalla flagellazione. Inoltre, le copiose lacrime della guardia siriaca non sono dettate dal dolore per la morte di Narraboth, ma indotte dal collirio (FOTOGRAMMA 53). La pelle grattata al Tetrarca, infine, è l’esfoliarsi dell’immagine, non del corpo. In Un Amleto di meno, l’uccisione di Polonio è solo un

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telo che sanguina lacerato dal pugnale di Amleto, mentre i danni arrecati a Rosencrantz e Guildenstern (con il gatto a nove code, la frusta e la spada) sono risolti prima nelle escoriazioni posticce su bocca e occhi (FOTOGRAMMI 54 e 55) e poi nelle vistose bende intorno al capo e nelle grosse grucce su cui i due si appoggiano. «Il “sangue” denso dell’autocrocifissione in Salomè, le ferite aperte sui volti di Rosencrantz e Guildenstern in Un Amleto di meno sono la parodia del gore, del “trucco” che irride l’effetto speciale» 50.

Anche la sceneggiatura di A boccaperta è ricca di questi equivoci: «Giuseppe, bendato, inciampa nel cadavere del pastorello investito da chissà che… (…) Il sangue era colore, come quello, del resto, sulle bestie “ferite” che si trascinavano per la semplicissima ragione d’avere le zampe imbrogliate e legate da fili di canapa. Un’agonia dipinta».

Il cinema deve essere disagio: non ci si salva se non attraverso una disgrazia o una difformità 51. Si oscilla tra «vere ferite» e «piaghe dipinte». Bisogna guastarsi, e valgono anche protesi e sbreghi inventati come stimmate. Tutto è contraffatto, calcato, posticcio. Non si può fraintendere: si sa che il sangue non è sangue, ma rosso. Vero e proprio manifesto di questa finzione è la macchia sul lenzuolo e sulla garza intorno al braccio di Bene nel Macbeth. Ancora il rosso e il bianco della ferita e della benda 52 (anzi, della benda ferita). «Ecco. Un braccio bendato. Una ferita? E svolgi questa benda, svolgi, svolgi: bianco bianco men bianco un po’ di rosso rosso rosso più rosso (è qui la piaga?) Svolgi svolgi men rosso meno rosso meno rosso Bianco bianco più bianco e via la benda Niente. Ferita era la benda e non il braccio. Che sia questa e nient’altro la malinconia (?)»53.

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Quello di Bene è un classicismo di sangue e panneggio. Il sangue non scorre, da liquido è diventato solido, è seccato e si è appiccicato a una garza. Da classico, Carmelo «deve cercare di essere un morto tra i vivi» 54.

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FALSOPIANO

NOVITĂ€

Andrea Antolini hitchcock umanodisumano

Umberto Calamita e Giuseppe Zanlungo la classe operaia non va in paradiso. Il cinema di lotta e di protesta

Mario Gerosa robert fuest e l’Abominevole Dottor Phibes

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