Il cinema di Luciano Ligabue

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VIAGGIO

IN ITALIA

una collana diretta da Fabio Francione


FALSOPIANO

eBOOK

IL CINEMA DI

LUCIANO LIGABUE

a cura di Fabio Francione

VIAGGIO

IN ITALIA



INDICE

Introduzione

pag. 7

Luci abbacinanti, ombre ammonitrici: lo spettacolo di Ligabue cineasta di Adriano Aprà

pag. 12

Radiofreccia Crediti, testimonianze, antologia critica

pag. 19

I Film

Da zero a dieci Crediti, testimonianze, antologia critica

Luciano Ligabue: Da zero a dieci: la sceneggiatura

pag. 19

pag. 73

pag. 127

Luciano Ligabue: Note d’autore

pag. 263

Ligabue scrittore di Anna Modena

pag. 285

Indicazioni bibliografiche

pag. 296

Esempio di storyboard Note di sceneggiatura Lista numeri Rimini Appendice: zingarate Soundtrack

Luciano Ligabue: la possibilità di essere normale di Enzo Gentile

pag. 291



Introduzione

Introduzione di Fabio Francione

Luciano Ligabue ha quarantaquattro anni. Nel 1990 ha inciso e pubblicato il primo disco. Sette anni più tardi è uscito il suo primo libro, seguito un anno dopo dalla sua prima regia cinematografica. Il libro è stato bissato nel 2004, il film due anni prima. I dischi, invece, tra incisioni in studio e live sono arrivati a dieci. Dimenticavo: Luciano Ligabue è una star dell’industria artisticoculturale italiana ed è nato a Correggio, città della provincia emiliana che non ha mai abbandonato. Dunque: Ligabue è una contraddizione, lui preferisce ripetere nella nostra conversazione più volte ci torna su - un’anomalia, difficilmente incasellabile, soprattutto per la critica, non per il pubblico e i suoi numerosi fan che accettano la sua versatilità, più apparente perché come dimostrerò si muove su un terreno unico. Anche se, per questo, la sua collocazione più giusta per lunghezza di carriera e contenuti dovrebbe essere quella del cantante e musicista rock. Ma tiene a sottolineare che esiste una distanza, impercettibile, pur esistente, tra la sua musica e il rock. Le sue canzoni non battono sempre sulle solite note; gli accordi spesso giocano e complicano armonie che solo musicisti allenatissimi possono mandare a memoria. L’episodio di un Mick Taylor spazientito dalla difficoltà “brigosa” di imparare la sequenza di accordi di Certe notti, preferendo poi seguire un’improvvisazione bluesy più libera, la dice tutta. Ancora: è un cantante che scrive racconti e romanzi; allora è uno scrittore. Ma oltre a cantare e scrivere gira anche film. Allora, Ligabue è un regista. Quindi, non si può parlare di Ligabue senza tenere a mente che scrive canzoni, le suona e incide; scrive storie, le raccoglie e pubblica; scrive sceneggiature e le realizza. Questa è la vita artistica di Luciano Ligabue e la superficie sulla quale poter pattinare è la scrittura, nelle sue declinazioni novecentesche, mi verrebbe da afferma7


re e lo faccio nel particolare, di “consumo”. Non sto usando il virgolettato in senso negativo; anzi come ci ha insegnato Giuseppe Petronio nei suoi studi sulla società e letteratura di massa, bisogna avere “il senso vivo, plastico, di ciò che è successo e sta succedendo nel mondo”, per poter squadernare sul tappeto il “rimescolamento di tutte le carte, e può piacere o no”. Sempre lo studioso campano aggiunge: “A me, tutto sommato, piace: è il segno dell’emancipazione, della promozione a uomini di miliardi di uomini”. Naturalmente condivido questa posizione, che guarda caso ci è utile nel decifrare le spinte sociali che hanno consentito ad un ragazzo della provincia italiana, pur evoluta come l’emiliana, di poter scalare le vette dello star-system nazionale. Soprattutto di restarci: e sperimentare “dal di dentro” i linguaggi artistici. Forse, la chiave di volta per comprendere l’ascesa di Luciano Ligabue è proprio questa sua appartenenza alla provincia, il suo non volersene distaccare e motivo stesso d’esistenza artistica. Tutta la sua produzione, almeno fino al romanzo La neve che se ne frega è centrata su alcuni nodi fondamentali come la biografia, l’affabulazione, il trarre la vita dalle persone comuni rendendole personaggi del mondo. Comunque: non dico che La neve che se ne frega rappresenta uno scarto dall’itinerario emozionale - altra parola capitale nel lessico di Ligabue - seguito fino ad ora dall’artista emiliano. Tutt’altro La neve che se ne frega - a mio avviso - rappresenta un ircocervo nella carriera di Ligabue: è un romanzo che tenta di esplorare un genere - la fantascienza -, e che nel suo tentativo e non uso a caso le seguenti parole, di mettere in scena “la superscienza dell’uomo” e di sfuggire ad essa e ai suoi codici, sembra scrivere la sceneggiatura del suo terzo film. Lascio cadere il discorso su La neve che se ne frega, per riannodare i fili che portano alla formazione e alla dimensione artistica di Ligabue. La sua “scrittura” totale, pur cresciuta nell’alveo della prosa tondelliana - generazionalmente e geograficamente ci siamo ha più di una sua radice affondata in anni ancor più lontani che si spalmano nell’intero decennio degli anni settanta: nella poetica di Gianni Celati e nell’estetica di Andrea Pazienza. Due direzioni anch’esse geograficamente collocate in zona che inglobano però i movimenti meno ortodossi del mondo felliniano. D’altronde 8


Rimini, non è l’Emilia, ma l’universalità e l’eccezione dei personaggi di Fellini - per non parlare del suo cinema - è riprovata dal fatto di come essi siano entrati nell’immaginario collettivo globale. Banalizzando su tre forme di spettacolo: quanti debiti ha contratto il cinema di Kusturica con Fellini? e alcuni videoclip, per esempio, degli U2? e ancora l’invenzione di tutti i nouveau cirque del mondo quanto è debitrice della marcetta circense - senza animali - di 81/2? Giacinto Spagnoletti così in una sua larga sintesi critica definiva il percorso letterario di Gianni Celati: “Critico e cultore di letteratura angloamericana, Celati prosegue (ovviamente non sul piano formale) certi motivi cari alla narrativa della grande “provincia” nordamericana, di cui adotta anche criteri di stilizzazione cinematografica”. Spagnoletti, da non confondersi col figlio Giovanni - peraltro critico e storico del cinema - qui ha la vista lunga. Infatti, non credo fosse a conoscenza dei film girati da Celati; però ne anticipa le future mosse. I film di Celati spalmati nell’arco di poco più di dieci anni (1991 - 2003) posti a confronto con i due film di Ligabue sono il loro controcanto documentaristico. Il lato no-fiction, la preparazione del “romanzo”. Tenendo a parte, il fuori formato, televisivo e digitale, quindi strumentale, l’affinità tra le due forme avviene sullo stretto piano linguistico-culturale. Mi spiego: accade temporalmente sull’appartenenza geografica, di essere due “voci” della Pianura. Dunque la location come forma da dare alla propria scrittura creativa. D’altronde, la filiazione da Celati (e Pazienza) a Tondelli e infine, a Ligabue prende una strada dapprima “comica”, tutti e tre (ma anche il quarto) non nutrono particolari simpatie per le avanguardie, per poi trasformarsi in “pavesiana”. Le lezioni “americane” al Dams di Bologna tenute da Celati hanno tra gli uditori futuri scrittori come Enrico Palandri e lo stesso Tondelli. Per Ligabue sarà diverso, da autodidatta la lista della “spesa” l’ha fatta da sé. Una bella pagina di Riccardo Bertoncelli racconta la posizione dei suoi dischi, dei suoi libri e delle sue videocassette. Anche una celebre pagina tondelliana raccoglie o perlomeno tenta di inventariare un personale catalogo. Ho usato “comico” per traslato: l’esilarante Guizzardi di Celati è parente di personaggi tondelliani come dei vitelloni da bar di Radiofreccia. Tutti gli Zanardi di Pazienza restano tra parentesi per9


ché rimandano già ad un cinema “povero”, qual è il fumetto. Mentre l’accezione “americana” si sposta a Pavese, più che come si dovrebbe a Calvino, mentore di non poco conto di Celati, perché lo scrittore piemontese ha più di ogni altro fomentato un certo tipo di cinema che ha trovato però compimento più in Antonioni che in De Sica, da lui stesso definito il più “grande romanziere italiano”. Quest’incontro mancato, tra Pavese e il cinema, dovrebbe essere più strettamente indagato, almeno per quanto un suo epigono, qual è Michelangelo Antonioni, abbia influenzato numerosi registi e cinematografie. Ciò mi consente di riaprire la parentesi dedicata in precedenza a La neve che se ne frega, che ribadendo la sua volontà di essere genere, per vari motivi (quelli più scopertamente biografici, ma anche l’adozione di uno stile diretto, puramente emozionale) ne evade come già affermato il codice per aprirsi, mancando l’appuntamento, alla possibilità di diventare cinema e allontanarsi definitivamente dalla poetica della “provincia” e approdare all’universalità dei personaggi. Forse, quest’appuntamento, nemmeno pensato, lasciato cadere ha evitato rischi inutili e sulle sue macerie, forse, aggiungerà un vero terzo capitolo alla famiglia di Benassi. Detto questo: volontariamente non ho fatto io stesso una lista della spesa, che lascio nelle indicazioni bibliografiche. Piuttosto questo sì ancor più volontariamente ho lasciato correre sulla superficie della scrittura creativa di Luciano Ligabue, adunando i materiali che hanno supportato la realizzazione di Da zero a dieci (sceneggiatura, note e curiosità d’autore ed in addenda e apertura questi una cospicua antologia critica sui due film e alcune testimonianze di collaboratori), tre posizioni critiche per così dire di taglio - in particolare di Adriano Aprà per il cinema, di Anna Modena per la letteratura, di Enzo Gentile per la musica - che costruissero per azioni concave e convesse la vicenda artistica e culturale di Ligabue. Fuor e dentro di logica, sono arrivato a dare una risposta al mio progetto di realizzare un libro sul cinema di Luciano Ligabue. Come più volte ha tenuto a dire Enrico Ghezzi, l’impossibilità (spesso la vacuità) di parlare di cinema scarta e fuorvia lo stesso oggetto del discorso. Le due strade possibili - è Lino Miccichè ad indicarle come testamento del suo mestiere di critico - sono la reda10


zione di agili profili biografici e la capacità di allineare al metodo critico discipline diverse, in ultimo gli strumenti critici della filologia letteraria. A queste ne aggiungo una terza, spesso molto più redditizia, da usare direttamente sul campo, come dire più militante, di “montare” il libro come parte integrante di un contesto più ampio. Nel caso specifico, la possibilità di adunare la visione dei film alla monografia. L’omaggio, la retrospettiva, il libro come cura e progetto d’un modo d’intendere il cinema. Insomma: è la cosiddetta forma “festival”. Il risultato, ed è questo un modo di fare critica, è il libro che avete tra le mani.

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Adriano Aprà

Luci abbacinanti, ombre ammonitrici

Luci abbacinanti, ombre ammonitrici: lo spettacolo di Ligabue cineasta di Adriano Aprà

Non è frequente, anche fuori d’Italia, che un cantautore si cimenti come regista (più frequente, ma non ne starò a parlare qui, il caso dei cantanti-attori). Da noi c’è ovviamente Celentano, sul cui cinema è stata scritta una monografia 1; ma si registra anche il caso di Domenico Modugno, Tutto è musica (1963), di Nino D’Angelo, Giuro che ti amo (1987), e recentemente di Franco Battiato, Perdutoamor (2003): film di canzonette i primi due, che non ho visto; film scopertamente autobiografico il terzo, e non privo di un tentativo di stile personale. All’estero mi vengono in mente John Lennon con alcuni corti sperimentali fatti con Yoko Ono, fra cui memorabile, e tutto suo, è Apotheosis (1970), spettacolare overground trip in piano-sequenza da un pallone aerostatico, al di là delle nuvole 2; Serge Gainsbourg con Je t’aime, moi non plus… (1976), Equateur (1983) e Charlotte for Ever (1986), quest’ultimo, con la figlia, narcisisticamente - ho letto - autobiografico; Bob Dylan con Renaldo and Clara (1978), da lui anche interpretato, e anch’esso assai autobiografico, che (specie nella versione integrale) ha i suoi fan 3; Caetano Veloso con Cinema falado (1986), splendido film-saggio che ho avuto occasione di far vedere al Salso Film & TV Festival nel 1987; David Byrne (Talking Heads) con True Stories (1986), “falso” documentario al ghiaccio bollente 4; e ce n’è probabilmente qualcun altro (comunque non tengo conto in questo promemoria dei film-concerto e dei video musicali). La maggior parte di questi film, e comunque tutti i migliori, non sono musicali, non “traducono” banalmente una tecnica artistica in un’altra; ma certamente (penso a Lennon, Veloso, Byrne) sarebbe interessante capire come la personalità musicale si innesti, oltre o senza la musica, in quella cinematografica. Sarebbe interessante capirlo anche nel caso di Luciano Ligabue, autore di film - Radiofreccia (1998) e Da zero a dieci (2001) - che 12


non partono dalla sua musica; al massimo, nel caso del primo, dalla sua biografia. Ma non sono io la persona adatta a farlo. È bene essere subito chiari: non conosco Ligabue cantautore; peggio, non conosco la musica (si dice ancora “leggera”?) degli ultimi decenni, e non ho neppure il giradischi; non ho mai ascoltato le radio libere; non ho frequentato discoteche se non per sbaglio. Questo per dire che parlerò dei suoi film al buio, per così dire; o meglio alla luce soltanto dei film in quanto film (non ho letto interviste, non ho la sceneggiatura di Radiofreccia pubblicata da Fandango né i racconti di Ligabue da cui è tratto il film, e non so che cosa contiene il libro in cui questo saggio appare). Aggiungo che ho visto il secondo film per caso e non per scelta (il primo l’avevo saltato), col pregiudizio che ho nei confronti del nostro recente cinema “commerciale” e dei suoi tentativi di attirarsi un pubblico. Sono rimasto sorpreso, e ho subito recuperato il precedente, che ha confermato la mia impressione positiva (condivisa, mi par di capire, da ben pochi colleghi). È vero però che c’era da essere prevenuti, non certo all’idea che uno di un altro territorio facesse cinema, ma di fronte al “carinismo” giovanilistico e al “come eravamo” dei temi prescelti. La prevenzione deriva anche dal fatto che nella nostra produzione odierna le vere riuscite sono al di fuori di un cinema mainstream, quello che inutilmente proclama il proprio debito, o semplicemente la propria nostalgia, verso la “commedia all’italiana” (mescolando miopemente, e rivalutando col senno di poi, la supposta “medietà” di Risi, Comencini, Monicelli, Lattuada o Germi); o, peggio, indulge con incoscienza, superficialità e confusione, come è accaduto nella recente retrospettiva veneziana, alle glorie della spazzatura. Contemporaneamente, e non casualmente, questo cinema “per tutti”, e la critica che lo accompagna, imbalsama nel Pantheon dei cadaveri l’opera di Fellini, Pasolini e Visconti, e fa finta di non ricordarsi di Rossellini e di altri meno facili da santificare. Il miglior cinema italiano di oggi è in direzione o di una narrazione messa seriamente in questione o di una sperimentazione forse di nicchia ma estremamente vitale. Un’eccezione a queste (assai schematiche, e volutamente polemiche) asserzioni mi era parsa l’avventura registica di Alessandro Benvenuti, il migliore dei “comici” pas13


sati (anche) dall’altra parte della macchina da presa, dotato di personalità autoriale soprattutto in Zitti e Mosca e Ritorno a casa Gori, ma non sempre coerente con se stesso, troppo attratto (peraltro con scarso esito) dalle lusinghe del benedetto pubblico. Che il successo non sia, eccezionalmente, un male lo dimostra adesso Ligabue, con due film dove sa superare con stile le tematiche banali prima evocate (responsabili in primis, presumo, di tale successo).

Al centro di Radiofreccia e di Da zero a dieci c’è il gruppo degli amici: cinque nel primo (con varie appendici femminili e maschili), quattro nel secondo (e relative amiche); vitelloni aggiornati, passano il tempo a scherzare con la vita mettendo fra parentesi le angosce, con l’illusione di “non farsi prendere” e di godere di una libertà assediata dalle leggi del quotidiano piccoloborghese. In Radiofreccia attorno a loro c’è il “borgo”: Correggio; da esso, in Da zero a dieci, il gruppo fugge per sospendere il tempo durante un week-end nel circo Barnum di Rimini. A far da filo conduttore è nel primo caso la creazione di una radio libera, Radio Raptus International; nel secondo il rituale dei (falsi) compleanni dove scatenare con una messa in scena tutto ciò che si sarebbe voluto fare in un week-end di vent’anni prima. Radiofreccia è ambientato nel 1975-77 e raccontato in flashback nel 1993 da Bruno (Luciano Federico); Da zero a dieci si svolge ai giorni nostri come prosecuzione ideale del film precedente, con Giovanni Benassi detto Giove (Stefano Pesce) - fratello minore dell’Ivan Benassi detto Freccia dell’altro film (Stefano Accorsi), e a lui incredibilmente somigliante - a condurre i giochi. In entrambi i casi non siamo di fronte a narrazioni lineari ma a frammenti di un’ipotetica continuità, segmentata da siparietti che scandiscono pseudoepisodi (la corona sospesa in cielo, “La regina del Po”, “Altro giro altro regalo”, “Chi è?”, “Miss Carpi ’77” nel primo) o le avventure del weekend (da “giovedì primo giorno” a “domenica ultimo giorno” nel secondo). Questo procedimento della frammentazione è ulteriormente elaborato al livello del montaggio, che sospende i vari momenti del racconto, isolati fra di loro e interrotti sul più bello, e quindi li spezzetta come specchi che continuano a riflettere in frantumi la loro luce da caleidoscopio. In 14


Radiofreccia l’isolamento dal contesto è attenuato da tracce di un’esistenza esterna a quella dei protagonisti (il bar Leika gestito dallo stalinista non pentito Adolfo, che è, emblematicamente, Francesco Guccini; i vari lunatici che abitano la bassa padana: Kingo, Virus, Bonanza, Pluto, il cameriere: altrettante ipotesi di destino per i nostri eroi 5; le famiglie rimosse ma ossessivamente presenti; la fabbrica dove lavora Freccia); in Da zero a dieci si parte da un residuo realistico (gli home movies “rimessi in scena” da Giove, lo studio medico di Biccio) per deviare rapidamente per la tangente e inventarsi uno spazio mentale. La messa fra parentesi della quotidianità è comunque palese in entrambi i film: i personaggi vivono per “momenti”, che vorrebbero essere, nel bene e nel male, “momenti di gloria”; come tali sospesi, sognati, spettacolarizzati: messi in scena. Ciò che vediamo è il residuo di una continuità e di un realismo impossibili, perché altrimenti, reinseriti nel quotidiano, quei momenti non sarebbero che banali conati di banali giovanotti. Invece Ligabue prova a filmare i suoi vitelloni come “eroi”, accesi da uno stile così incandescente da proiettare in un concerto di suoni e luci i loro frammenti di vita e interrompere l’identificazione dello spettatore con ciò a cui assiste. È forse proprio questa accensione dello stile, così insolita nel nostro cinema, così americana potremmo anche dire, l’altra ragione del successo di questi due film assai poco “provinciali” nonostante i temi: la capacità di epicizzare il banale con colori decisi, illuminazioni antinaturalistiche, timing sapientemente sincopato del montaggio, tanto nelle velocizzazioni quanto nelle improvvise decelerazioni; o al contrario con piani-sequenza sorprendenti (quello inziale di Radiofreccia nel bar Leika) o movimenti di macchina inusuali (le varie gru a piombo). Quanto alla musica, poca è quella di commento scritta da Ligabue e molte le canzoni altrui selezionate da intenditore, a cui aggiungere le proprie: in Radiofreccia, sopra i titoli di coda, Ho perso le parole; in Da zero a dieci, a ritmare la scena del musical all’aperto, Libera uscita (cantata da Cecco Signa, che dà qui voce a Stefano Pesce), poi ripresa nei titoli di coda (stavolta cantata da Ligabue) subito dopo Questa è la mia vita: e i loro versi sono come una sintesi didascalica dei film che abbiamo appena finito di vedere. 15


In Radiofreccia gli amici condividono tutto meno l’essenziale: il loro “privato”; e quando si provano a farlo il loro rapporto incespica (Bruno non farà mai vedere la sua fidanzata Ilaria; Freccia tiene dentro di sé l’inferno dell’eroina, la materna Marzia, la sessuale “miss Carpi” Cristina; Iena non reagisce al tradimento degli amici durante il banchetto di nozze con Nadia; Tito tace del padre incestuoso e dei mesi passati in carcere per il parricidio fallito; e quanto a Boris, vive la sua apatica superiorità senza bisogno apparente di altre dimensioni). In Da zero a dieci il privato, al contrario, è esibito. Le confessioni, che nel film precedente erano riservate al monologo (Freccia che si registra da solo nello studio di Radio Raptus o che risponde alla provocazione “in diretta” di Bruno), qui tentano la via del gioco dialogico (la seduta con voti nella falsa Venezia di Rimini) o quella dello spettacolo (le “feste di compleanno”: il concerto rock per Giove, il carro carnevalesco per l’omosessuale Biccio, la “quadrupletta” femminile per Baygon, la roulette russa automobilistica per Libero); ma al fondo l’essenziale lo si intravede appena (la quieta vita familiare di Giove con figlio in vista, i tardi adescamenti di Biccio, le prodezze sessuali di Baygon, il rimorso per l’amico morto alla stazione di Bologna di Libero); e per contrasto, quanto più autenticamente libere, mature e padrone di sé appaiono le figure femminili! Questi giovani dunque, già meno giovani nel secondo film, vivono la vita per interposto spettacolo; e questo filma Ligabue. È uno spettacolo anche allegro, perfino comico, dove si parla per battute e si agisce per gag; lo spettatore si diverte, e condivide il frenetico ritmo che scandisce i film. Ma questa vitalità esibita è minata da una malinconia, da una tristezza (il blues…), che cresce ad ogni interruzione, ad ogni isolamento e frantumazione delle varie scene, fino a sfociare nella morte, che del resto era lì, implacabile, sin dall’inizio. Radiofreccia si apre con un primissimo piano di Virus, gli occhi allucinati, che proclama l’eliminazione nella vita dei “tempi morti”, “come al cinema”, cui segue la spiegazione del soprannome di Ivan su una gru a piombo sul suo cadavere; in Da zero a dieci, dopo i filmini famigliari (in cui en passant si rievoca il fratello di Giove, “che se n’è andato qualche anno fa”), la prima scena è quella di un macabro scherzo di Biccio a Libero, al quale fa 16


credere, per un istante troppo lungo, che la sua malattia è in fase terminale; e scopriremo solo alla fine che è davvero gravemente malato e che deve ricorrere quotidianamente alla dialisi. La morte, sia come “interruzione” della continuità filmica, sia come evento narrativo, per di più nella forma terribile del suicidio (di Freccia per overdose, di Libero con la roulette russa automobilistica), è la morale amara di Ligabue, il “contenuto” dei suoi film; ma il suo cinema, la “forma”, riesce a rendere fisico, percettibile nell’illusione della proiezione 6, un vitalismo altrimenti velleitario. Privilegio dello stile, trionfo dell’arte sulla vita, è questa possibilità di creare un mondo che, senza mentire, accenda ancora la speranza. Note

Aldo Fittante, Questa è la storia… Celentano nella musica, nel cinema e in televisione, Il Castoro Cinema, Milano, 1997. 2 Se ne veda una descrizione in Amos Vogel, Film as a Subversive Art, Random House, New York, 1974, p. 309. 3 Vedi Davide Ferrario, scheda di Rinaldo e Clara, “Cineforum”, n. 190, gennaio 1980, pp. 749-755. 4 Possiamo farcene un’idea sfogliando la versione-libro: D. Byrne, True Stories, con fotografie di William Eggleston, Len Jenshel, Mark Lipson e D. Byrne, Faber and Faber, London-Boston, 1986. 5 Questi lunatici mi fanno pensare a certi personaggi di contorno di Prima della rivoluzione (con cui Radiofreccia condivide, da tutt’altra prospettiva, l’ansia di fuga dalla provincia) e de I lupi dentro di Raffaele Andreassi, nonché, ovviamente, a La voce della luna. 6 Assai meno in quella della visione in VHS o in DVD, specie nel caso di Da zero a dieci, girato in scope (bigger than life) e trasposto elettronicamente - i produttori di DVD dicono “ottimizzato” - in panoramico, secondo una pratica abnorme assai diffusa, che dipende, anche in epoca di televisori 16/9, dal “complesso delle bande nere”, dal timore cioè di veder aumentare le bande sopra e sotto e diminuire lo spazio dell’immagine. Si ricorre quindi, per comprimere l’immagine 2.35:1 nel panoramico 1.85:1, allo stratagemma (tanto il pubblico non se ne accorge…) di “oblungare” l’immagine 1

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(ovvero, tecnicamente parlando, di telecinemare la pellicola con un obiettivo dal rapporto di disanamorfizzazione 1.5 invece che 2) oppure, piÚ drasticamente, come in questo caso, di tagliare a destra e a sinistra l’immagine scope per ottenere lo stesso risultato (meno l’oblungamento).

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Crediti, testimonianze, antologia critica

Radiofreccia

Radiofreccia

Regia: Luciano Ligabue Interpreti: Stefano Accorsi (Freccia), Luciano Federico (Bruno), Enrico Salimbeni (Tito), Roberto Zibetti (Boris), Alessio Modica (Iena), Francesco Guccini (Adolfo), Patrizia Piccinini (Marzia) Genere: Drammatico - Origine: Italia - Anno: 1998 - Soggetto: Dal racconto Fuori e dentro il borgo di Luciano Ligabue Sceneggiatura: Luciano Ligabue, Antonio Leotti - Collaboratore alla regia: Antonello Grimaldi - Fotografia: (Panoramica / a colori) Arnaldo Catinari - Musica: Luciano Ligabue - Montaggio: Angelo Nicolini. Durata: 116’ - Produzione: Domenico Procacci - Fandango Distribuzione: Medusa Film ( 1998) Le voci

II libro è stato un po’ un azzardo che mi son sentito di fare, ma comunque una mia scelta, perché uno deve raccontare le cose che conosce. È per quello che io anche nelle canzoni muovo in un territorio tutto sommato limitato, che però è quello che conosco bene. Quindi una volta stabilita questa cosa, io mi son mosso sempre così. E mi sono mosso così sia per il libro che per questo film. In effetti l’esperienza del film è un esperienza folle, anche poco sana se vogliamo, nel senso che i film li deve fare chi ha fatto le scuole, chi ha frequentato i set. Non è molto sano che uno che non ha avuto esperienza, all’improvviso affronti questa cosa qua. C’è il rischio di un po’ di leggerezza. Per scrivere la sceneggiatura ero affiancato da Antonio Leotti. Io dovevo preoccuparmi di raccontare la storia, dei dialoghi, di fare in modo che rimanesse intatto l’accento, il sapore e lui si preoccupava che tutto questo avesse una forma cinematografica. Procacci, il produttore, chiaramente mi chiese di occuparmi 19


anche del commento sonoro, sempre per far in modo che venissero sottolineati in maniera precisa certi umori. E pure quello l’ho fatto di buon grado. Poi però un giorno mi disse una cosa che mi ha fregato. Mi disse: “Credo che comunque, nonostante il lavoro d’equipe, l’impronta del film dipenda veramente dalla visione di una persona sola. Anche se mi reputerai un pazzo, questo film lo devi far te”. E lì mi ha messo nella merda. Perché comunque, come fa uno che ha la passione per il cinema a dire no? Poi, per il resto della propria vita, pensa: “Cazzo, un film fatto a casa mia, sceneggiatura che ho scritto io, faccio anche le musiche, quando capita più”. Del resto, credo che mi limiterò a questa esperienza, che aveva senso soltanto perché è una storia che conosco bene, cioè ci sono delle condizioni speciali. Un giorno, per dire una stronzata, dissi: “Questo film è Un mercoledì da leoni senza l’oceano”. Senza voler fare dei raffronti imbarazzanti, perché poi qua il problema è che io sono consapevole dei miei limiti e non posso parlare di ispirazioni, di modelli, perché faccio ridere. Posso parlare semplicemente di cose che mi son piaciute. Un mercoledì da leoni è per me uno dei film della vita perché l’argomento è uno degli argomenti che più mi piace vedere nei film: la linea d’ombra. Anche questo è un film sulla linea d’ombra. Era quello che volevo raccontare. Credo che sia una fase importantissima dentro ognuno di noi e credo che ogni tanto bisogna cercare di ricordarsi che, se si può, bisogna rimarcarla all’indietro. Per avere il gusto di ripassare un’altra volta dopo, ma soprattutto per ricordarsi anche un po’ com’era dall’altra parte. Credo che la regia abbia a che fare con l’ossessione. Sono ossessionati da questa storia, dal volerla rispettare. C’è sempre la preoccupazione di essere sufficientemente all’altezza e voglio assolutamente raccontarla bene come regista. Antonello Grimaldi ha avuto e sta avendo un ruolo fondamentale, ma anche una grandissima discrezione nel fare in modo che l’impronta sia veramente mia in modo pesante. Con lui abbiamo fatto uno storyboard, non lo stiamo usando, ma l’abbiamo fatto più che altro per aiutarmi ad affrontare meglio il fatto teorico. È stato cruciale mettersi lì per capire che comunque per una scena hai bisogno di un certo numero di cose. Poi le regole sono fatte anche per esse20


re infrante, però prima devi conoscerle. Rispetto a questo film ho un’idea di regia circolare, cioè in ogni caso la storia compie un cerchio che si chiude. È la sceneggiatura che mi ha fatto emergere quest’idea. L’unità della storia, forse, dipende proprio da questa circolarità. Se guardi dentro ci sono una serie di cerchi concentrici e molte volte siamo attorno ai personaggi, circoliamo attorno a loro. Lavorare con gli attori è forse l’aspetto che più mi ha interessato e mi sta interessando perché credo che la messa in scena abbia il suo cuore proprio lì. Abbiamo fatto diverse letture, sistemato un po’ il registro di ognuno di loro e la caratterizzazione del personaggio, prima di cominciare. Dobbiamo fare pochissime prove sul set perché in realtà abbiamo lavorato moltissimo prima. La passione è una cosa che possiamo garantire, nel senso che c’è una molla fortemente passionale di rispetto per il cinema, per la storia, per un’idea di regia. Sono partito dal fatto che potevo dare l’opportunità a chi lavorava con me, dal direttore della fotografia allo scenografo, eccetera, di essere per una volta più propositivi rispetto al solito. Credo che ognuno di loro si senta più padrone di questo film che di altre esperienze. Un’altra cosa di cui sono piuttosto contento è poi il fatto che c’è una certa tranquillità, una certa serenità sul set, che è, per antonomasia, il posto per schizofrenici, almeno da quel che mi si racconta. Di fondo credo che negli emiliani ci sia una discreta brama di comunicazione, una grossa voglia di raccontare. Anche se non siamo riusciti ad avere fino in fondo una caratterizzazione linguistica fortissima, il film è strettamente legato a questi posti. Alcuni dei personaggi sono frutto di leggende e altri sono veramente esistiti. Continuo a essere affascinato da questo contesto, da questo ambiente. Sono trentotto anni che ci vivo e non a caso tutto ciò nel film c’è di brutto: davvero il film è personaggi-ambiente, personaggi-ambiente. C’è moltissima macchina da presa a terra per far sentire la terra, un richiamo all’ambiente costante, continuo. È forse una sottolineatura eccessiva, ma era quello che mi serviva. Luciano Ligabue

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Era un po’ che cercavo qualcosa che raccontasse la provincia e le canzoni di Ligabue mi pareva che lo facessero bene. Poi lui ha scritto questo libro e da lì è nato il progetto. In sede di sceneggiatura Luciano aveva talmente tante idee; aveva talmente chiara la sua idea del film, come lo avrebbe voluto vedere, che mi è venuto spontanea proporgli di fare anche la regia. In realtà non pretendevo che diventasse come poi è diventato così bravo tecnicamente. La mia sorpresa più grande è stata quella di vederlo lavorare con tanta professionalità e passione nel rapportarsi a un mezzo apparentemente distante da lui. Penso che sia raro per il cinema italiano che in un film ci sia una colonna sonora così importante e costosa, ma in questo caso, dove oltretutto si parla di una radio diventava una cosa indispensabile.

Domenico Procacci

Io rifuggo dalla fotografia “realista” o “naturalista“. Credo che non abbia senso oggi come oggi fare qualcosa che sia conforme alla realtà. La cosa interessante del nostro lavoro è quella di interpretare la realtà, quindi cercare di costruire attraverso la luce una realtà che sia la realtà del film, usando la luce come fosse un’altra attore e ricreando con la luce il percorso narrativo del film stesso. Cioè un film è fotografato, però la fotografia non serve solo per far vedere il film, ma per narrare. Mi piace parlare di luce avere qualcosa che non solo fotografi, impressioni sulla pellicola, ma che sia un po’ più in là. Una fotografia che non sia oggettiva ma che sia soggettiva in rapporto al film. Lavorare con Luciano è molto interessante. Con lui mi sono trovato molto bene perché c’è una libertà creativa totale. L’importante è far confluire le libertà creative di ognuno e credo che da questo punto di vista lui sappia prendere spunti da ognuno di noi e farli stare sempre dentro allo stesso binario. Arnaldo Catinari

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II mio lavoro è cominciato mesi prima. Mi sono fidato della mia memoria, perché io quegli anni li ho vissuti, integrandola poi con ricerche in biblioteche e materiale fotografico. II bar Laika, dove si svolgono molte scene; è stato interamente ricostruito con tutti pezzi originali. Negli anni Settanta eravamo brutti, eravamo proprio squallidi. Dal punto di vista dell’abbigliamento la dominante era il marrone, e questo è presente, anche se poi il film è impostato molto anche sul rosso. Stefano Giambanco

Mi piace molto questo personaggio. Mi ci sono affezionato e sento di averci parecchi punti di riferimento, visto che è un personaggio di una terra che è la mia terra e visto che, comunque, anche Luciano, ce l’ha molto chiaro in testa. Sul set c’è un bel gruppo di persone che si divertono nel senso che lavorano bene con passione. Forse dipende anche dalla storia, ma comunque è bello, perché senti sempre che tutti partecipano. Stefano Accorsi

Quando la Fandango ha comperato i diritti del libro Fuori e dentro il borgo Procacci si è messo a riflettere sulla persona a cui poteva affidare la sceneggiatura e ha pensato a me. Ci conoscevamo, avevamo già fatto cose insieme. Mi hanno offerto il lavoro e mi hanno detto che dovevo scriverlo con Luciano Ligabue, che poi sarebbe stato il regista di quello che doveva diventare Radiofreccia, il suo primo film. Quando l’ho saputo ho pensato anzitutto che non ero un fan di Ligabue. A me piace tutt’altra musica, poi con la musica ho un rapporto strano. Ma l’idea mi incuriosiva, anche perché era un modo per mettere in gioco la professione. Certo il film all’inizio presentava chiare le sue difficoltà. Dovevo scrivere con una persona che non conoscevo per nulla e che nemmeno era del settore. Poi, però, tutto si è appianato, anche perché Luciano è una persona aper23


ta, disponibile e assolutamente malleabile. Il film, inoltre, ha coinciso con un periodo in cui aveva deciso di restare tranquillo e fermo a casa, quindi non abbiamo avuto difficoltà legate al suo impegno di musicista e al suo ruolo di rockstar. Il lavoro non è stato poi così complicato, anche perché sono abituato a scrivere sceneggiature a più mani. Si è trattato di un lavoro normale, che ha richiesto del tempo, ma è giusto così perché una sceneggiatura deve impegnare per almeno un anno per dare dei risultati apprezzabili. All’inizio Ligabue non sapeva da che parte cominciare, ma ha imparato in modo fulmineo e dopo un mese lavorava già da solo. Io mi sono trasferito per un anno a Correggio e il nostro modo di lavorare è stato subito chiaro. Non c’erano regole scritte ma ci affidavamo alle nostre abitudini. Ebbene Ligabue lavora bene di notte e dorme molto la mattina, io, al contrario, sono più produttivo di mattina. Così io scrivevo la mattina le cose che lui revisionava la sera e revisionavo di mattina quello che lui aveva prodotto di notte. Alla fine discutevamo insieme delle pagine scritte, affrontando a quattro mani i passaggi più complessi. È stata un’esperienza piacevole, che mi ha permesso di avvicinarmi ad un personaggio davvero interessante. Antonio Leotti

I tappa: Fuoco cammina con me!

II lungo collo di giraffa meccanica della sky king troneggia nell’erba di fronte a un casolare dalle parti di Novellara. È il paese dove era nato Augusto Daolio, leader storico dei Nomadi, che forse ora benedice dal cielo le fatiche del suo collega e quasi compaesano Luciano Ligabue, impegnato nelle riprese di Radiofreccia. L’inquadratura da girare è abbastanza complessa, un piano sequenza con un tuffo dall’alto e ritorno, a pelo sopra la capote di una macchina, una di quelle che il protagonista Ivan “Freccia” Benassi ha rubato per amore e brucerà per la rabbia di non essere corrisposto. Ce ne vogliono un po’ prima di quella buona. Poi il fuoco potrà salire alto, alimentato da un esperto di effetti speciali, un luciferino pro24


fessionista di incendi chiamato per l’occasione, a regolare la temperatura non solo emotiva della scena. E Freccia si siederà a contemplare il rogo di purificazione (la stessa a cui è stata sottoposta tutta la stirpe di quei “santi sognatori” che erano gli eretici), in mezzo alle fiamme delle due macchine, stretto tra due fuochi, prima del contrappasso dell’acqua del fosso in cui verrà ritrovato il suo cadavere. Questa è l’ultima scena del film e, paradossalmente, comincia proprio da qui questo viaggio, avendo davanti agli occhi come prima immagine quella che sarà 1’ultima nel montaggio finale. Intanto però le gomme scoppiano per il calore, il fuoco sale davvero alto e, oltre alla notte, rischiara anche le traiettorie delle zanzare più fameliche del mondo lanciate verso i loro bersagli. II tappa: Parole e musica

La copia della sceneggiatura che mi danno è rimpicciolita, ma lo stesso sufficiente da leggere e oltretutto più comoda da trasportare. Dentro c’è il racconto di un gruppo di amici, dei loro percorsi di iniziazione alla vita, di come hanno messo in piedi una radio libera (“ma libera veramente / vale un po’ di più perché libera la mente”) e di come hanno deciso di chiuderla prima che compisse il diciottesimo anno di vita, confinandola così in un’età definitivamente preadulta. La storia è bella, magari appena un po’ retorica, come però è giusto, forse sacrosanto, che sia, quando qualcuno ha qualcosa di importante da dire e ci crede veramente in quello che dice. Anzi diventa effervescente in alcuni personaggi secondari, nati dalla realtà e potenziati dalla fantasia, e comunque pur sempre animati da un’appassionata vitalità, che pare caratteristica della terra in cui il film sarà così fortemente radicato. Del resto, molti degli attori sono originari dell’Emilia e sono stati scelti anche con il desiderio di dare una precisa forza linguistica alla storia. Sono voci di una terra. Voci che si sentono, si diffondono, si propagano dai microfoni dell’emittente (perché le onde radio altro non sono che la dilatazione di un suono nello spazio) anche attraverso le canzoni trasmesse, un altro modo per dire scegliendo qualcuno che parli per noi. 25


E infine le musiche, la colonna sonora. Titoli-cult degli anni Settanta e non solo, i cui diritti scoraggerebbero qualsiasi produttore (Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd, Run through the Jungle dei Creedence Clearwater Revival, Love is the Drug dei Roxy Music, Rebel Rebel di David Bowie, Don’t Stop dei Fleetwood Mac, My Sharona dei Knack e altre), ma che qui diventano elemento irrinunciabile. In più inediti e temi composti dallo stesso Ligabue. In sintesi l’idea, per il momento se non l’altro l’idea, di un film che prima ancora di farsi vedere, comincia già a “farsi sentire”.

III tappa: II mio piede sinistro

Con il destro un po’ me la cavo, ma il mio piede sinistro, in realtà, non è mai stato granché. II capoccione di Vieri invece, che contro l’Austria infila il pallone che spalanca all’Italia le porte degli ottavi di finale, vale molto di più. La troupe di Radiofreccia che assiste alla partita lo accoglie con ovvio entusiasmo, mentre il fotografo di scena commenta le smorfie di Del Piero con gemitini degni della Gialappa’s. Sul set del film, in effetti, di calcio si parla parecchio. Non solo perché ci sono in corso i Mondiali, non solo perché Ligabue va in giro indossando la maglia di Ronaldo, non solo perché nel copione ci sono scene ambientate sul campo, negli spogliatoi o con un pallone fra i piedi. Forse perché il calcio è probabilmente la massima espressione concreta di una forma di vitalità davvero a stretto contatto con la terra. O forse magari perché l’atmosfera che si respira su questo set è rilassata, del tutto simile a quella di uno qualsiasi di tutti i bar dello sport sparsi sulla penisola, dove il calcio è il più importante, se non l’unico, argomento serio di discussione.

IV tappa: Duel (ovviamente)

II selciato del centro storico di Correggio è fatto di sassi. Qualcuno li ha contati secondo una stima approssimativa e, divi26


dendo per il numero degli abitanti, ha stabilito che a ogni cittadino del paese ne spettano di diritto quarantadue. Quelli di Corso Mazzini, la via principale che taglia in due il borgo, sono forse i più prestigiosi. È su quelli infatti, davanti alla ricostruzione del bar (saloon?) Laika, che si gira la scena del facsimil duello western-padano. Bonanza contro Freccia: quello che vive la sua vita come se fosse un film contro quello la cui vita sta diventando un film. E l’epica emiliana si consuma qui, con i sassi al posto della polvere e gli spari finti al posto di quelli veri, mentre nella notte aleggiano lievi i fantasmi di Peckinpah e Leone e sulla pellicola si imprimono i riflessi del loro sguardo: i ralenti del primo, i dettagli del secondo. Ha studiato Ligabue, ha amato e studiato, e nella parodia discreta che gli serve per la sua storia rende comunque omaggio ai maestri. Intanto le comparse sciamano dopo la consumazione del rito, le luci si spengono e la scena del duello si svuota. Ma alle sei di mattina, mentre gli attrezzisti stanno smontando il set, il regista sta seduto in un angolo della piazza, occupando la sua quota di sassi, con l’ultimo numero di “Duel” aperto fra le mani. Forse non lo sa, ma qualcuno, passando, potrebbe scambiarlo per lo sceriffo del borgo.

Federico Calamante, Ligabue. Fuori e dentro il film. Tra la Via Emilia e il West, da Novellara a Correggio, un viaggio a tappe sul set di Radiofreccia, “Duel”, n. 62, 1998

Intelligente puntata dietro la macchina da presa del rocker Luciano Ligabue. Opera-prima (chissà se ce ne sarà una seconda) sensibile e nel suo rétro conoscitivo puntuale e acuta, Radiofreccia è un graffiti calettato con variegata distensione di sguardo e di memoria non bozzettistica, scorcio motivato sul piano culturale, del costume e generazionale negli anni Settanta della provincia emiliana. Anni dello sbocciare delle radio libere e private, momenti e luoghi di incontro e coagulo musicale, controculturale, di comunicazione ed espressione di una generazione di ventenni oggi quarantenni che ripensano con tenerezza emozionale e distanziata amarezza. Narrando e a ritroso nel tempo la storia di una di queste radio, 27


sorte in stanzette e locali di fortuna dalle pareti foderate di contenitori di uova, si raccontano quei giorni e anni, quelle avventure di musica, quelle amicizie, quei valori giovanili, anche quei drammi. Li si racconta in flash-back proprio nel giorno della chiusura per sempre della mitica Radiofreccia, nominata così in ricordo d’un ragazzo del clan, detto freccia, persosi in un rapporto sentimentale ambiguo che lo introduce alla tossicodipendenza. Tanta musica, amicizie e amori, illusioni e sconfitte in una commedia d’epoca venata di dramma. Un film che rammenta graffiti cinematografici americani od operazioni nostrane altrettanto fragranti nel memoriale culturale/generazionale tipo “Il Grande Blek”. Operina, dunque, leggera e piena di humus, di sentimenti e passini. Parecchia la musica da godersi, fotografia calda del tempo di Catinari, angoli di provincia scovati con attenzione da una macchina da presa non banale, momenti in cui si riassumono i sentimenti di tutta una generazione come nella vita della radio o al funerale di Freccia o nel classico bar/ritrovo gestito da un Francesco Guccini (gustosa apparizione interpretativa) burbero e paterno, allenatore di calcio nonché confidente di tutti quei ragazzi. Stefano Accorsi nel ruolo di Freccia è davvero (anche dopo Piccoli maestri) uno dei nuovi volti importanti (ad esempio, con Valerio Mastandrea) del nostro cinema. Renzo Gilodi, “CinemaSessanta”, n. 238, 1997

La furbizia di Radiofreccia, il film che segna l’esordio della popstar Luciano Ligabue dietro la macchina da presa presentato ieri dal nostro alla stampa musicale, dopo che era già apparso fuori concorso alla Mostra di Venezia - è che può essere letto in mille modi: come una pellicola sull’amicizia, sulla forza della musica, una nostalgia degli anni Settanta e della giovinezza, sul passaggio dall’adolescenza alla maturità (la famosa “linea d’ombra” di Conrad) e perfino sul bisogno di credere in qualcosa. Nel film, infatti, c’è tutto questo. E, volendo, anche altro: dal ruolo dei bar di provincia nella formazione dei ragazzi alla droga (Freccia, uno dei quattro ragazzi muore per overdose), sino ad una visione del mondo adulto rappresentato come fallimentare (con 28


mamme traditrici e padri che abusano delle figlie) o assente. A fare da collante, come già forse saprete, c’è la storia di quattro ragazzi emiliani e della loro radio libera che viene chiusa proprio un minuto prima di compiere 18 anni; prima cioè che entri nell’età “adulta”, perdendo lo spirito libero e anarcoide degli inizi. “II mio non è un film sulla nostalgia per un’epoca - ha esordito Ligabue - ma sul normale affetto che tanti come me provano per il periodo della propria vita che va dai 10 ai 20 anni. In fondo è lo stesso tema che torna sempre nelle mie canzoni e che c’era anche nel mio libro Fuori e dentro il borgo che ha ispirato il film”. Per ora questa, sottolinea la popstar, rimarrà un’opera unica. “II mio è un bersaglio piccolo: raccontare le cose che vedo, che sento e che mi stanno a cuore. Difficile trovare un altro soggetto che mi appartenga come questo”. In più il film celebra quell’amore per la musica, viscerale e un po’ esagerato, tipico di certi appassionati. E lo fa così a fondo che per la colonna sonora sono stati spesi quasi 600 milioni di lire a fronte dei 10 milioni che vengono solitamente investiti dalle produzioni medie italiane (questa, in tutto, è costata circa 5 miliardi di lire). “Volevo a tutti i costi certi brani che hanno davvero caratterizzato la nascita delle radio libere: da Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd a Long Train Running dei Doobie Brothers. Purtroppo abbiamo dovuto rinunciare ad alcune canzoni dei Rolling Stones perché costavano troppo”. Per celebrare l’importanza della musica in questo film, sul mercato arriveranno da oggi ben due compact disc: uno con le canzoni del film e l’altro, a prezzo speciale, con l’intera colonna sonora; e cioè con le canzoni più le strumentali e l’inedita Ho perso le parole, composta per l’occasione da Ligabue. Dal 16 ottobre, poi ci sarà il responso delle sale cinematografiche. “Non so se piacerà ai 15enni - dice Ligabue - ma sono sicuro che toccherà il cuore di chi ha tra i 25 e i 40 anni”. Chiediamo: qual è la cosa che più la intenerisce degli adolescenti di oggi, dei “coetanei”, cioè dei protagonisti del suo film? “II fatto che stanno vivendo in un periodo ancor più difficile del nostro. Ma li invidio perché quest’età difficile è anche ricca di ingenuità, purezze, aperture e sogni”. Dei suoi protagonisti, Ligabue sente più vicini Bruno 29


(I’ideatore della radio) e Freccia (il tormentato): “Mi sento idealista come il primo e inquieto come il secondo, anche se sono riuscito a tenermi sotto controllo nei momenti più caldi (leggi: non cadere nella droga - N.d.R.)”. A proposito di droga. Nel film se ne parla e la si racconta in maniera corretta (compresa la difficoltà di uscirne) ma senza dare giudizi. Perché? “Perché non volevo fare un film che esprimesse giudizi. Ma raccontare la storia di quattro ragazzi, alternando sorrisi e momenti tragici”. E il bisogno di credere? Lei a Freccia fa elencare le cose in cui crede, ma sono tutte minime come le evoluzioni di Boninsegna o i riff chitarristici di Keith Richards. Non è poco? “Forse, ma non tutti si possono permettere il lusso di credere in cose importanti. In ogni caso, penso che il credere, in qualunque cosa, non debba mai diventare un ostacolo alla comunicazione degli esseri umani”. Gigi Ranciglio, “Avvenire”, 8 ottobre 1998

Sintonizzatevi su RadioFreccia, è per tutti. A oltre un mese dalla “prima” di Venezia, e senza il ridicolo divieto ai minori di 14 anni, ecco nei cinema il debutto cinematografico del più popolare rocker italiano. Luciano Ligabue l’ha scritto e diretto (con la collaborazione alla regia di Antonello Grimaldi, e con la cura assidua del produttore Domenico Procacci) ispirandosi ai racconti del suo libro Fuori e dentro il borgo. L’esito è sorprendente soprattutto dal punto di vista della confezione: in un periodo in cui molti film italiani sono di una sciatteria senza pari, non stava scritto da nessuna parte che l’esordio nella regia di un cantante dovesse essere così impeccabile. Fermo restando che il successo dovrebbe arridere ai film belli, non ai film italiani o americani o turcomanni, è forte la sensazione che RadioFreccia possa risollevare le sorti commerciali della pattuglia di pellicole nostrane uscite da Venezia. L’attesa è forte e persino le polemiche sulla censura, chissà, potrebbero provocare curiosità. E poi c’è la musica, tanta musica: il film ci porta nel mondo delle radio libere degli anni Settanta, e la 30


colonna sonora oscilla fra il recupero di quel tempo (con pezzi di Bowie, Reed, Iggy Pop, Creedence, Doobie Brothers...) e i brani composti dal “Liga” per l’occasione (con la canzone inedita, e bellissima, Ho perso le parole). La storia è quella di Freccia, giovane di provincia (siamo a Correggio, nella bassa reggiana, fra la via Emilia e il West) bruciato dai sogni e dall’eroina; e dei suoi amici Tito, Bruno, Jena e Boris che nel ’75 sentono parlare per la prima volta delle radio messe su con quattro soldi da ragazzi come loro. Il sogno diviene realtà, mentre il tempo passa e i cinque attraversano la fatidica “linea d’ombra” che separa l’adolescenza dalla maturità. C’è musica, c’è ironia, c’è un copione (di Ligabue e Antonio Leotti) romantico e divertente. C’è un messaggio forte contro la droga, c’è un affresco della provincia emiliana che, sia pure in un bozzettismo non originalissimo, rimanda a modelli illustri, da Guareschi (si passa da Brescello, paese di Don Camillo) a Zavattini fino ad Amarcord. I cinque ragazzi sono Stefano Accorsi, Alessio Modica, Luciano Federico, Enrico Salimbeni, Roberto Zibetti; il loro padre putativo, il barista che filosofeggia sul calcio e tiene appeso dietro il bancone il ritratto di Stalin (“per voi fighetti ci vorrebbe uno come lui”), è Francesco Guccini: un cammeo simpatico che è un po’ l’anima del film. Alberto Crespi, “L’Unità”, 16 ottobre 1998

Se troppi dei film italiani passati per Venezia non hanno poi incontrato il favore del pubblico nelle sale, si profila una sorte molto diversa per Radiofreccia, esordio registico (o, come preferisce dire lui, “unico film”) di Luciano Ligabue presentato con successo in chiusura della Mostra. Radiofreccia esce ed è già un “caso”. Il divieto ai minori di 14 anni, poi tempestivamente ritirato, ha stupito Ligabue e il produttore Procacci; proiettato al Salone della Musica di Torino, il film ha richiamato migliaia di giovani. Fa piacere dire che, al di là dei rumori della cronaca, si tratta di un debutto sorprendentemente buono: per il tono sincero, il modo di raccontare fluido, le scelte felici del cast e di una colonna sonora da David Bowie ai Weather Report, da Lou Reed a Iggy Pop - usata 31


in funzione significante, non solo atmosferica (su queste pagine, Gino Castaldo lo ha definito “il primo vero film rock italiano”). La storia è narrata a ritroso, partendo dal 1993, quando una radio privata della provincia emiliana chiude per sempre le trasmissioni e lo fa, simbolicamente, un minuto prima di diventare maggiorenne. Nata col nome di Radio Raptus, la piccola stazione ha cambiato nome in onore di Ivan (Stefano Accorsi), detto Freccia per la forma di una voglia sulla tempia. Freccia era un giovane leale strafottente su un fondo di autentica disperazione; troppo sicuro di sé (al punto da flirtare con l’eroina credendo di potervi rinunciare in qualsiasi momento) e, insieme, tanto insicuro da lasciarsi morire per amore (è una delusione d’amore a produrre la ricaduta definitiva nella droga). Radiofreccia è girato “on location” a Correggio, il paese di Ligabue, tra il bar gestito da Adolfo (Francesco Guccini), punto di ritrovo di Freccia e dei suoi amici, la stazione radio e altri luoghi canonici della vita di un borgo. Quasi senza parere, ma con sicuro senso della storia sociale recente, il neoregista ci racconta un periodo di transizione epocale, che introdusse rivoluzioni nel costume quella sessuale - e nella comunicazione, ma diffuse anche flagelli come la droga, resa micidiale dal mix di tabù e disinformazione che la circondava. Ligabue, che ha adattato il film dalla propria raccolta di racconti Fuori e dentro il borgo, sceglie di sparire dietro la storia che, pur con momenti francamente divertenti, lascia un persistente sapore di amaro (nel suo disperato squallore, la scena incriminata in cui Freccia e la ragazza si bucano è l’esatto opposto di una istigazione a drogarsi). E mette a segno un bel colpo, che nel nostro cinema non riesce a molti: rappresenta la vita dei giovani, la provincia, la droga senza mai cadere nel giovanilismo, nel provincialismo, nel patetismo. Roberto Nepoti, “La Repubblica”, 16 ottobre 1998

Un film a tutta bandiera gialla, ma con il rosso sangue degli anni Settanta. II mondo delle radio libere ricordato e raccontato dal Liga. Stefano Accorsi è Freccia, leader di una radio che diffondeva sogni 32


Radiofreccia (1998)


Radiofreccia (1998)

Radiofreccia (1998)


Radiofreccia (1998)


VIAGGIO

IN ITALIA

è una collana diretta da Fabio Francione Ringraziamenti: Paola Tramezzani, Mapi Bellinzoni, Piercarlo Mattea, Mauro Parazzi, Graziella Gattulli, Filippo Negri, Enrico Balconi, Antonio Corsano, Vincenzo Dossena, Eleonora Bagarotti. Un ringraziamento particolare a Domenico Procacci e alla Fandango Film e a Massimo Recine e Katia Rapagnetta della Warner Music Italia. In ultimo, e non perché lo siano, un rigraziamento speciale a Claudio Majoli, Chico De Luigi e a Luciano Ligabue.

© Edizioni Falsopiano - 2008 via Baggiolini, 3 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Falsopiano


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