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Umberto Calamita l Giuseppe Zanlungo
ISBN 978-88-89782-16-3
IL CINEMA DI LOTTA E DI PROTESTA
€ 16,00
È difficile tracciare un bilancio del rapporto tra il mondo del cinema e quello della fabbrica, tenendo conto che, tra i capolavori cinematografici di sempre, hanno un posto di eccellenza molte pellicole sulla classe operaia. Ma, se misuriamo la complessiva produzione cinematografica rispetto all’esiguità numerica dei prodotti con al centro l’ambiente operaio, il risultato è tragicamente evidente: la classe operaia è un soggetto non solo secondario ma scomodo. La produzione cinematografica è in mano a società di capitale che, coerentemente col loro punto di vista e con l’obiettivo del profitto industriale, preferiscono non andare a toccare il nodo della contraddizione tra le classi. Il cinema è una merce ed il suo consumatore-fruitore-spettatore non deve uscire dalla sala con “strane idee”... Quindi, cinema come “evasione controllata”, come occasione di svago per i lavoratori che non devono pensare, ma solo continuare a consumare una merce padronale anche durante il tempo libero.
LA CLASSE OPERAIA NON VA IN PARADISO
Umberto Calamita Giuseppe Zanlungo l
LA CLASSE OPERAIA NON VA IN PARADISO l IL CINEMA DI LOTTA E DI PROTESTA
In appendice i dialoghi di Pelle viva di Giuseppe Fina
LA CLASSE OPERAIA NON VA IN PARADISO
IL CINEMA DI LOTTA E DI PROTESTA Umberto Calamita Giuseppe Zanlungo l
EDIZIONI EDIZIONI FALSOPIANO
FALSOPIANO
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FALSOPIANO
CINEMA
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EDIZIONI
FALSOPIANO
Umberto Calamita Giuseppe Zanlungo
LA CLASSE OPERAIA NON VA IN PARADISO IL CINEMA DI LOTTA E DI PROTESTA
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In copertina: Metropolis di Fritz Lang (1926) In quarta di copertina: Giampiero Albertini in La vita agra (1964) e (in basso) Gian Maria VolontĂŠ in La classe operaia va in paradiso (1971)
Š Edizioni Falsopiano - 2010 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: LaserGroup s.r.l. - Milano Prima edizione - Dicembre 2010
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IndIce Introduzione
pag. 7
La storia, i primi scioperi
pag. 11
Il cinema sovietico
pag. 21
Il cinema europeo tra le due Guerre mondiali
pag. 29
Il cinema statunitense tra New Deal e Secondo dopoguerra
pag. 38
La miniera
pag. 47
Il cinema italiano del boom
pag. 71
La fabbrica, la contestazione (1969-1979)
pag. 97
La ristrutturazione, i licenziamenti, il disagio della classe
pag. 109
Appendice Una storia di pendolari: i dialoghi di Pelle viva
pag. 150
Indice dei film
pag. 225
L’Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico
pag. 231
Bibliografia
pag. 238
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L’uscita dalle officine Lumière, 1895
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INTRODUZIONE L’inizio del rapporto tra il neonato cinematografo e la classe operaia era stato, a dir poco, folgorante: La sortie de l’usine Lumière, brevissimo documento sperimentale, girato da Louis Lumière - stando a quanto racconta Georges Sadoul nella sua monumentale Storia generale del Cinema - tra l’agosto ed il settembre 1894, aveva dato inizio all’era della “celluloide”. Tale breve filmato avrebbe aperto la prima proiezione a pagamento della storia del cinematografo, a Parigi, il 28 dicembre 1895. Scrive Sadoul: “… una sfilata di operaie in gonna a campana e cappellini guarniti di piume e di operai con la bicicletta a mano … dopo il personale venivano i padroni in una ‘vittoria’ con un bel tiro a due. E il custode richiudeva i cancelli”. Al di là di una probabile personale simpatia per gli operai, i fratelli Lumière erano alla ricerca di materiale interessante da proiettare attraverso la loro nuova invenzione e la “massa” uscente dalla fabbrica rappresentava senz’altro un ottimo soggetto, al pari dell’ugualmente famoso ingresso del treno nella stazione de La Ciotat. Ma lo stesso interesse mostrato dagli inventori del cinematografo, per lunghissimo tempo non è stato manifestato da altri autori. Infatti, il soggetto-fabbrica ha dovuto attendere la Rivoluzione russa (escludendo l’esperienza futurista) per riapparire al centro dell’attenzione politica, artistica ed intellettuale. L’operaio massa come simbolo dell’industrializzazione e la produzione in fabbrica come motore dello sviluppo delle nazioni divengono realmente protagonisti nelle filmografie di diversi Paesi industriali, solo a partire dagli Anni Venti. È così infatti che l’operaio, divenuto emblema 7
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della crescita collettiva, appare in molti film entrati nella memoria storica (Sciopero, Metropolis, Arsenale, Tempi moderni). Nonostante ciò, la cinematografia dei Paesi industrializzati tende però sempre più a privilegiare l’evasione, i “generi” (dal poliziesco al rosa, dal western al peplum, al noir), l’estetismo, la sperimentazione, relegando le problematiche del lavoro a poche, impegnative pellicole. È inoltre evidente che, in nazioni ancora profondamente ancorate all’agricoltura come settore trainante di lavoro di massa, la fabbrica resta un soggetto di nicchia per i produttori cinematografici occidentali. Il mondo contadino ha grande spazio al cinema fino agli anni ’50, perché è ancora il centro della realtà quotidiana ed anzi, spesso, il bracciantato è rappresentato come classe. Basti pensare ai “grandi” film del regime fascista in Italia, all’abbondante produzione statunitense del New Deal, alla filmografia cinese, indiana e sovietica. Un altro gruppo di pellicole va inserito d’autorità nell’elenco dei film “operai” ed è quello che riguarda la miniera, un settore produttivo particolare, in cui le dinamiche sono però del tutto simili a quelle della fabbrica. Va ricordata anche l’anomalia del film Dancer in the Dark, un musical sì d’ambiente operaio, ma sostanzialmente centrato sulle qualità canore di Björk. È difficile tracciare un bilancio del rapporto tra il mondo del cinema e quello della fabbrica, tenendo conto che, tra i capolavori cinematografici di sempre, hanno un posto di eccellenza molte pellicole sulla classe operaia. Ma, se misuriamo la complessiva produzione cinematografica rispetto all’esiguità numerica dei prodotti con al centro l’ambiente operaio, il risultato è tragicamente evidente: la classe operaia è un soggetto non solo secondario ma scomodo. La produzione cinematografica è in mano a società di capitale che, coerentemente col loro punto di vista e con l’obiettivo del profitto industriale, preferiscono non andare a toccare il nodo della contraddizione tra le classi. Il cinema è una merce ed il suo consumatore-fruitore-spettatore non deve uscire dalla sala con “strane idee”... Quindi, cinema come “evasione controllata”, come occasione di svago per i lavoratori che non devono pensare, ma solo continuare a consumare una merce padronale anche durante il tempo libero. I registi che sono riusciti ad imporre la loro particolare sensibilità e la simpatia verso la causa operaia ai propri produttori sono stati, nella storia del cinema, davvero pochi. Tra questi, oltre al gruppo degli “storici” autori sovietici (Ejzenstejn, Pudovkin, Vertov e Dovženko), che avevano lo 8
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Stato socialista come finanziatore, vanno citati gli “occidentali” Widerberg, Ritt, Loach e pochi altri, a cui bisogna aggiungere la categoria dei documentaristi industriali (Ivens, Flaherty, Loach stesso, Cavalcanti, Olmi in Italia ecc.). E nel Belpaese? Qui da noi, anche i registi “di sinistra” si sono guardati bene dall’affrontare in modo organico il legame contraddittorio tra capitale e lavoro e, quando l’hanno fatto, non hanno saputo riprendere l’esperienza, né approfondirla, né riproporla con adesione non formale. Vanno così ricordate le sensibilità dei soli “popolareschi” Monicelli, autore di un paio di discrete pellicole d’ambiente operaio (I compagni e Romanzo popolare), che ha però affrontato, nella sua prolifica e lunghissima carriera, tutti i generi cinematografici, e Paolo Virzì, legato ai tormenti delle famiglie operaie di Piombino-Livorno ed alla rappresentazione della vita precaria dei call center. Sono, invece, di una certa abbondanza gli autori di documentari sul mondo della fabbrica in Italia, legati a due filoni tradizionali, quello della sinistra “istituzionale” (a partire dal Pci-Cgil e dall’Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico) e quello “sessantottino” (in cui emerge il lavoro di Silvano Agosti). Questa pubblicazione prova comunque a tentar di contrastare la scarsa attenzione che, riguardo tale tematica e nella pur abbondante produzione critica sulla cinematografia mondiale, persiste colpevolmente. È evidente che il “genere classe operaia” non attira più di tanto anche la pubblicistica sui film. Gli autori di questo libro restano così del parere che, pur nella limitatezza delle pagine e nell’incompletezza della filmografia qui menzionata (ad esempio, le pellicole citate sono prevalentemente europee e nordamericane), sia stato importante e necessario dare una testimonianza storica attraverso la riaffermazione della centralità del rapporto con la classe operaia anche nel settore cinematografico. L’utilizzo, infine, del mezzo cinematografico per riportare contenuti e testimonianze riguardanti il mondo della fabbrica ad un pubblico spesso inconsapevolmente all’oscuro della filmografia citata nel libro, costituisce un altro aspetto non secondario della presente pubblicazione. La possibilità quindi di attivare cineforum sulla tematica operaia, stimolare dibattiti collettivi, incentivare l’azione documentaria anche di giovani registi e ricercatori ci si augura rappresenti un pungolo per tutti i lettori.
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I compagni, 1963
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LA STORIA, I PRIMI SCIOPERI “Don’t mourn for me: organize!” (“Non piangetemi: organizzatevi!”) (Joe Hill, poco prima della sua esecuzione, 19 novembre 1915) La classe operaia nasce con l’avvento della borghesia capitalistica europea e ad essa fa da contrappeso storico, in contraddizione oggettiva e con episodi di presa di coscienza di sé via via più intensi, organizzati, rivendicativi, rivoluzionari. La storia di questo rapporto, stretto eppur conflittuale, ha ormai passato i due secoli. Ad avvedersi dell’evoluzione storica delle lotte operaie, per il miglioramento della vita e per l’emancipazione, il cinema ha impiegato parecchio tempo, accorgendosi di quanto accaduto nel corso dell’800 solo nel Secondo Dopoguerra. La filmografia “storica” non è quindi nutrita, ma le poche opere citate in questa pubblicazione costituiscono comunque un utile e rappresentativo percorso. Oltre alle pellicole che si sono occupate della lotta dei minatori francesi (La furia degli uomini di Yves Allégret, 1963, e il suo rifacimento Germinal di Claude Berri, 1993), attente soprattutto al testo letterario di Émile Zola e che ritroveremo nel capitolo specifico dedicato alla miniera (v.), vanno segnalati i film legati ad episodi esemplari di lotta e di organizzazione. In quest’ottica sono piuttosto interessanti I cospiratori (The Molly Maguires) di Martin Ritt (1970) e Joe Hill di Bo Widerberg (1971), che narrano le sfortunate gesta protosindacali di operai negli Stati Uniti in “brillante” ascesa capitalistica e chiusi ad ogni mediazione con i lavoratori. Il realismo del sabotaggio degli operai Wobblies e quello della repressione poliziesca è ricostruito con grande padronanza non solo tecnica ma anche emotiva. Ugualmente intensa è la storia antieroica di Joe Hill, personaggio vissuto realmente e che, pur rappresentativo delle istanze operaie, è eliminato con cinismo dall’apparato padronal-sindacale. Vale la pena ricordare che Ritt è stato sulla “lista nera” del senatore Joseph Mc Carthy, è stato indagato dalla Commissione sulle Attività antiamericane, ma non ha mai 11
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I compagni, 1963
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rinnegato il cinema di denuncia sociale. In Europa, il film di Stijn Coninx, Padre Daens (1992), vive abbastanza isolato nella ricostruzione del travaglio esistenziale negli slums operai di fine ’800, con la presenza un po’ debordante del prete socialista e del dibattito parlamentare sui diritti dei lavoratori. È comunque una pagina di storia che affonda le radici nella realtà del nostro Continente. L’interesse per questo film deriva proprio dall’affrontare una realtà comune a tutti i Paesi europei, con un intervento costante ed autoritario delle istituzioni (i partiti, i governi, il Vaticano) e dei borghesi benpensanti nella richiesta di emancipazione dei lavoratori. Alla stessa epoca si rifanno due film italiani, I compagni (1963) di Mario Monicelli e Metello (1970) di Mauro Bolognini, ambientati nella città che si trasforma, diviene industriale e attira i giovani dalle campagne. Gli scioperi per la riduzione della giornata di lavoro provocano confronti traumatici, repressione e nuova organizzazione. Gli operai italiani di fine ’800 sono drammatici, comici, ironici, umani, ma anche determinati e, talvolta, ideologizzati. Monicelli e Bolognini, anche se con note tecniche e mano registica molto differenti, espongono le loro storie (quella di Metello è letteraria e proviene direttamente da Vasco Pratolini), componendo affreschi d’epoca d’un certo spessore formale. Ma oltre a queste pellicole citate, il vuoto. La storia della nascente classe operaia non interessa il mondo del cinema e gli unici ad accorgersi pienamente delle potenzialità del mezzo cinematografico per propagandare il proprio punto di vista sono proprio i padroni delle fabbriche. Gli industriali, infatti, utilizzano la pellicola – ed i migliori, spesso giovani, cineasti – per diffondere i propri prodotti. Ben prima di “Carosello”, il padronato ha assoldato registi di tutto rispetto (Joris Ivens, Alberto Cavalcanti, Robert J. Flaherty, Michelangelo Antonioni tra gli altri) per propagandare la bontà delle proprie imprese industriali. I risultati, dal punto di vista estetico e d’intensità drammatica e narrativa, sono talvolta notevoli.
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I compagni, 1963
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I COSPIRATORI (The Molly Maguires) di Martin Ritt, Usa 1969, col., 108’, con Richard Harris, Sean Connery, Samantha Eggar, Frank Finlay, Art Lund, Bethel Leslie, Anthony Zerbe. Tratto da un romanzo di Arthur H. Lewis, sceneggiato dallo stesso Ritt con il produttore Walter Bernstein, ambientato nel 1876, racconta le gesta dei Molly Maguires, società segreta che cercava di migliorare le condizioni di vita dei minatori irlandesi in Pennsylvania. Sotto la guida di Jack Kehoe (Connery), alcuni minatori si riuniscono per compiere atti di sabotaggio, ma tra loro si infiltra un detective (Harris). Ritt mostra un atteggiamento ambivalente verso i metodi degli operai radicali Wobblies fatto di riprovazione (palese) e approvazione (nascosta). Colpisce del film l’anomalo finale, volutamente antihollywoodiano.
JOE HILL (Joe Hill) di Bo Widerberg, Svezia 1971, col., 114’, con Berggren, Ania Schmidt.
Thommy
La ballata popolare cantata da Joan Baez, fa da preludio ed epilogo al film sulla vita di Josef Hillström (Berggren), operaio svedese emigrato nei quartieri poveri di New York nel 1902. Il cantastorie Joe Hill aderisce agli IWW (Industrial Workers of the World, i celebri Wobblies) e diventa ben presto un pioniere delle lotte sindacali Usa. Ma il giovane idealista svedese verrà ingiustamente condannato a morte per rapina a mano armata e omicidio e giustiziato nel 1915, a soli 34 anni. Forse Widerberg eccede in manierismo e sentimentalismo a discapito dell’analisi della presa di coscienza del personaggio, ma il film resta pur sempre valido, tanto da meritarsi il premio speciale della giuria a Cannes. La colonna sonora è di Joan Baez e Stephen Grossman.
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I compagni, 1963
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PADRE DAENS (Daens) di Stijn Coninx, Belgio, Francia, Olanda 1992, col., 138’, con Jan Decleir, Gérard Desarthe, Wim Meuwissen, Antje De Boeck, Michael Pas. Ispirato al romanzo “Pieter Daens” di Luis Paul Boon, racconta una di quelle storie che difficilmente si trovano sui manuali scolastici. Ad Aalst, città delle Fiandre sconvolta dalle lotte degli operai tessili sfruttati ed in mezzo alla povertà, il sacerdote belga Adolf Daens (Decleir), influenzato dall’enciclica Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII, fonda il Partito cristiano democratico e viene eletto in Parlamento grazie all’appoggio dei socialisti e dei liberali. Le pressioni dei conservatori cattolici e il Vaticano lo spingeranno a scegliere tra il ministero sacerdotale e i poveri, tra l’obbedienza e la giustizia.
I COMPAGNI di Mario Monicelli, Italia, Francia, Jugoslavia 1963, b/n, 128’, con Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Annie Girardot, Folco Lulli, Bernard Blier. In una fabbrica tessile torinese alla fine dell’Ottocento il professor Sinigaglia (Mastroianni), si mette alla testa dello sciopero dei lavoratori per ridurre l’orario di lavoro da 14 a 13 ore. Scontri, crumiri e l’arrivo della polizia fanno fallire lo sciopero, ma gli operai prendono coscienza della propria forza. Sceneggiato da Monicelli insieme ad Age e Scarpelli, il film, non in sintonia con l’esagerato ottimismo dell’Italia del boom, fu bocciato al festival di Venezia, ma ottenne due candidature all’Oscar per soggetto e sceneggiatura. Per il lancio pubblicitario del film, furono utilizzate interviste a vecchi quadri operai.
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La madre, 1926
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METELLO di Mauro Bolognini, Italia 1970, col., 111’, con Massimo Ranieri, Ottavia Piccolo, Lucia Bosé, Frank Wolff, Tina Aumont. Nella Firenze d’inizio ’900, il muratore Metello Salani (Ranieri) prende parte alla lotta politica del movimento socialista. Arrestato per istigazione alla rivolta, saprà in carcere della vittoria dei compagni. Adattato dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini del 1955, dallo stesso Bolognini con Luigi Bazzoni, Suso Cecchi d’Amico e Ugo Pirro, il racconto accompagna la partecipazione alle lotte operaie di Metello con la vita sentimentale del medesimo, tra l’amore per Viola, il matrimonio con Ersilia e il tradimento con Idina. Ottime la Piccolo, le musiche di Ennio Morricone e la fotografia di Ennio Guarnieri, che utilizza le foto Alinari dell’epoca.
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Sciopero, 1925
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IL CINEMA SOVIETICO
“Non riprendere me, tovarisc, riprendi la gente” (Lenin all’operatore Eduard Tissé, il 1°maggio 1918) “Rifiuto gli attori professionisti, li cerco nelle fabbriche, per le strade, negli uffici!” (S. M. Ejzenstejn, preparando Sciopero, 1925) Il tema della fabbrica, all’interno dell’edificazione dello Stato socialista sovietico, è centrale, predominante per un lungo periodo, denso di significati simbolici ed estetici. L’Urss, nata dalle ceneri del feudalesimo, arretrata economicamente, gretta ed antimodernista, pone la costruzione dell’apparato industriale di Stato e lo svecchiamento delle strutture produttive come obiettivo prioritario. In quest’ottica, si rende necessaria la formazione di una classe che, nell’epoca precedente, appariva pressoché esigua numericamente: la classe operaia. La neonata Unione utilizza il meglio del suo apparato intellettuale e così scrittori, fotografi, pittori, attori e registi di teatro si mobilitano affinché l’ideologia e le necessità di sviluppo economico abbiano simboli riconoscibili e veicolabili tra le masse lavoratrici. Il nuovo mezzo d’espressione, che sta imponendosi nell’Europa occidentale, è il cinematografo e la spinta creativa rivoluzionaria coglie al volo la potenzialità dello strumento. Ma le necessità ideologiche e politiche del nuovo Paese socialista vengono affrontate, criticate, elaborate da una gioventù rivoluzionaria che è fondamentalmente creativa. Bastano i nomi di Vladimir V. Majakovskij, di Vsevolod E. Mejerchol’d e Lev V. Kulešov, tutti profondamente calati nelle arti visive, letterarie, teatrali, a far comprendere che il loro interesse per il cinema è innanzitutto creazione, rottura col passato, ricerca di espressività, arte a tutto tondo. Essi stessi sperimentano brevi pellicole e teorizzano sul nuovo mezzo d’espressione, arrivando a far nascere movimenti artistici intorno a gruppi futuristi e nuove testate di critica cinematografica. 21
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Sciopero, 1925
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Sull’onda del dibattito, i documentaristi scendono in campo e testimoniano le trasformazioni in atto nel Paese, in campagna, in città, in fabbrica. Tra di essi emerge il genio di Dziga Vertov che impone alla pellicola non solo di trasmettere ciò che si vede (kinoglad, il cinema-verità), ma di farlo poeticamente e programmaticamente, piegando la materia filmata, attraverso il montaggio, al servizio dell’ideologia. I suoi numerosi documentari si affermano come innovatori anche formalmente e fanno scuola ben al di fuori dell’Urss. In fabbrica egli ha girato tra l’altro Entusiasmo (o Sinfonia del Bacino del Don, 1930), vero e proprio inno contrappuntistico, sonoro, sinfonico, alla produttività della nuova classe operaia, elemento centrale della crescita del Paese. Ma il movimento intellettuale sovietico non è univoco, non tutti i giovani artisti sono d’accordo. C’è chi non si ferma al documentario, ponendo l’accento sul cinema come insegnamento politico e storico, lavorando, in particolare, alla realizzazione teorica e pratica d’una filmografia d’impegno sociale, lasciando così, con i suoi migliori esponenti, una decisa e profonda traccia nella storia del cinema: Serghej M. Ejzenstejn, Vsevolod Pudovkin, Aleksandr Dovženko danno un contributo fondamentale all’arte cinematografica e, nello stesso tempo, un apporto notevole alla costruzione del socialismo. Tra i loro capolavori, alcuni sono ispirati alle lotte operaie come i notissimi Sciopero, Arsenale, La fine di San Pietroburgo, La madre. In particolare, Ejzenstejn sperimenta il “montaggio parallelo” e offre contributi teorici di alto spessore alla storia del cinema. Al termine degli anni ’20, con l’affermarsi del regime staliniano e la fine della spinta rivoluzionaria e creativa, il cinema sovietico diviene puramente “cinghia di trasmissione” del potere, pur mantenendo qualità espressiva e formale. Contropiano (1932), di Fridrich M. Ermler e Sergej I. Jutkevič, girato in gran parte in fabbrica, è un efficace esempio di realismo socialista sotto Stalin e deve la sua fortuna soprattutto alla musica di Dmitrij D. Šostacovič. Nel 1934, per legge, il cinema viene definitivamente piegato alla ragion di stato. Anche all’inizio della Seconda Guerra mondiale, in Urss la classe operaia svolge una funzione centrale e riconosciuta e la cinematografia ufficiale non disdegna di continuare ad occuparsene, con ottimi risultati. In questo ambito si inserisce, ad esempio, il bel film di Mark S. Donskoj Le mie università (1940).
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Arsenale, 1929
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SCIOPERO (Stačka) di Sergej M. Ejzenstejn, Urss 1925, b/n, 97’, con Grigorij Aleksandrov, Aleksander Antonov, Maksim Strauch, Michail Gomarov. Siamo nel 1912, nella Russia ancora governata dallo zar. Un giovane operaio viene accusato ingiustamente di furto e amareggiato si impicca in fabbrica. I compagni allora organizzano uno sciopero di protesta. I padroni assoldano spie e provocatori per incastrarli. Esasperati dalla fame e dalle cariche delle forze dell’ordine armate di idranti, si ribellano quando un agente a cavallo frusta una donna. Cosicché la polizia si scatena e li massacra con le loro famiglie. Il primo lungometraggio di Ejzenstejn è impregnato di spirito rivoluzionario ed esuberanza giovanile.
LA MADRE (Mat) di Vsevolod I. Pudovkin, Urss 1926, b/n, 84’, con Vera Baranovskaja, Nikolaj Balatov, Aleksandr Cistjakov, Anna Zemstova. Dall’omonimo romanzo di Maksim Gorkij, che approvò con qualche reticenza la versione cinematografica, il film è ambientato a Tvera, nel 1905. Palageja Niloyna (Baranovskaja), vedova di un operaio alcolizzato ucciso in uno scontro a fuoco in fabbrica, teme per la vita del figlio Pavel (Balatov), militante rivoluzionario, e rivela alla polizia dove ha nascosto le armi. Arrestato, il giovane muore dopo un tentativo di evasione in occasione della festa del 1° maggio. Sarà la madre, raccolta la sua bandiera rossa, a porsi alla testa del corteo, ma anch’ella verrà uccisa dai dragoni a cavallo e lo sciopero domato. È stato considerato per anni uno dei migliori film della storia del cinema, anche se oggi subisce i colpi del “revisionismo” critico.
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FALSOPIANO
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