In una Milano inquietante e senza tempo, Nina, una giovane studentessa universitaria, rimane sconvolta durante una visita al Museo di Malacologia. Qualcosa non la convince in quelle vetrine naggi di quadri famosi, diorami viventi che sembrano sospesi fra la vita e la morte. L’incontro con una donna, ignara testimone sopravvissuta a un esperi-
creare opere d’arte. In pochi giorni, senza lasciare tracce, spariscono nel nulla, oppure vengono assassinati, la direttrice di una clinica privata equivoca e impenetrabile, un giornalista di cronaca nera e Nadia, la migliore amica di Nina. Durante un convegno dedicato all’arte e al suo doppio tutto sembra diventare più chiaro: un’organizzazione criminale, forse finanziata da un oscuro imprenditore farmaceutico e legata al mondo accademico, ha creato un florido mercato sommerso mente operativa del gruppo. Le indagini imboccano un vicolo cieco e solo l’intuito di un commissario milanese della Mobile sembra risolvere il caso. Ma il vero colpevole si nasconde fra i dettagli di un’immagine fotografica che solo Nina è in grado di decodificare. Mario Gerosa, giornalista professionista, è critico cinematografico ed esperto di mondi virtuali. Il collezionista di respiri è il € 16,00
suo primo romanzo.
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gestito e ideato dal Collezionista, vera
IL COLLEZIONISTA DI RESPIRI
mento criminale, conferma la sua ipotesi: qualcuno utilizza materiale umano per
IL COLLEZIONISTA ................... MARIO GEROSA DI RESPIRI
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dove esseri umani incarnano perso-
MARIO GEROSA
IL COLLEZIONISTA ................... MARIO GEROSA DI RESPIRI
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FALSOPIANO
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Mario Gerosa
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Un quadro o una scultura contemporanei sono una specie di centauro, fatto per metà di immagini e per metà di parole. Harold Rosenberg
Prologo Opprimente, nelle ossa, dovunque. Faceva così caldo, tanto caldo, da sciogliere la pelle dei personaggi immortalati nei dipinti. L’afa era insopportabile nel salone delle feste della clinica, le cui porte scorrevoli erano state chiuse ermeticamente. Nell’aria vagava una specie di nebbiolina, una condensa maleodorante, nel cui vapore in sospensione roteavano minuscoli pulviscoli di polvere, e nugoli di insetti, piccoli sistemi solari impazziti che ronzavano attorno alla flebile luce al neon dell’entrata. Nella sala, di dimensioni molto ampie, era stata ricostruita l’aula di una vecchia università, con panche e banchi di legno disposti a semicerchio. Davanti a questo scenografico catafalco era stato montato uno strano e rudimentale tavolo operatorio, su cui giaceva un uomo completamente nudo, inerme. Era sdraiato su un piano inclinato, di modo che avesse lo sguardo rivolto a uno schermo posto di fronte a lui. Scorrevano in totale silenzio immagini di celebri dipinti a soggetto mitologico: Arnold Böcklin, George Frederic Watts, Gustav Wertheimer... naiadi,
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sirene, fauni e centauri si avvicendavano in un carosello frenetico, nevrotico, variopinto. Le palpebre dell’uomo sul tavolo operatorio erano tenute aperte a forza con apposite pinze che non gli consentivano di chiudere gli occhi, aiutati in questo sforzo innaturale da uno speciale collirio dispensato amorevolmente da un infermiere. Tutto dava l’impressione di lievitare in uno spazio ancora più bianco del bianco assoluto, lattiginoso, informe, in cui volumi e geometrie tendevano a sfumare, a cessare di esistere. All’improvviso tutto sprofondò nel buio più assoluto. Dal bianco latteo e asettico del laboratorio, che profumava di alcol, fiori di garofano e medicine, pareva di piombare in una dimensione ovattata, quasi un volo senza meta in un cielo notturno e artificiale. La sensazione era dovuta, almeno in parte, all’ondeggiare flessuoso del tavolo operatorio, dotato di una serie di cuscinetti che permettevano un curioso moto oscillatorio. Un incubo senz’aria condizionata. L’uomo sembrava sul punto di vomitare, ma la bocca era ostruita da una mascherina che gli impediva ogni movimento. Emetteva suoni inarticolati, buffi, tragici. Le mani e i piedi erano assicurati al tavolo d’acciaio con robuste e consunte cinture di cuoio. Nel frattempo lo spettacolo era cambiato: ora balenavano sequenze di comiche di una volta, vecchi spezzoni di Laurel e Hardy, scenette con Ridolini, Cretinetti, Charlot, accompagnate da una musichetta, una scala ripetuta di do maggiore, proveniente da un fortepiano poco accordato sistemato in un angolo della sala, in fondo, che sembrava suonare da solo. Qualcuno armeggiava nell’ombra: un tintinnare di strumenti chirurgici, un suono metallico contrappuntato da un brusio sgradevole di voci indistinte. Poi un getto d’aria gelida, improvviso, arrivò dietro la testa dell’uomo. Quindi un soffio di aria calda. Nei suoi occhi si leggevano paura, terrore, desiderio di dormire, forse di morire, sicuramente di non soffrire. Nel
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mirino della telecamera che lo stava riprendendo pareva si fissassero le sue sensazioni, le sue emozioni senza né voce né sentimento. Il corpo non rispondeva più, regnava l’odore penetrante di calce e di alcol nelle narici, lo stordimento totale. Una decina di minuti dopo, le slapstick si interruppero e cominciarono a scorrere sequenze di famosi film dell’orrore. Erano intercalate da immagini dei dipinti di Giulio Aristide Sartorio, quadri che ritraevano immaginifiche scene ispirate ai grandi miti della classicità. L’uomo tremava, aveva una paura viscerale, un terrore sordo. Temeva di sentire dolore, un indicibile dolore, ora che immaginava gli strumenti chirurgici allineati sul ripiano non molto lontano da lui. Sullo schermo continuavano a passare le immagini: prima Caligari, poi un uomo nudo disteso su un’arpa gigantesca, un insetto con le braccia di un uomo, un orrido lombrico umano, qualche spezzone di un film di Dreyer e poi un orecchio mozzato trafitto da una lama di coltello, Frankenstein, un uomo che suona un flauto con il sedere, immagini bucoliche posticce animate da personaggi d’invenzione. Poi i fotogrammi cominciarono a scorrere più veloci, sempre più veloci, fino a che le immagini non si confusero fra loro dando vita a un macabro balletto meccanico. L’uomo cercava di liberarsi dalle cinghie e di distogliere lo sguardo ma era immobilizzato e non riusciva a guardare da nessuna parte, mentre il suo sconosciuto aguzzino armeggiava seminascosto nello stanzone. Solo e sempre quel nero trafitto di luci intermittenti oltre la sua testa. Il dolore affondava nelle sue ossa, gli sembrava di sentire pungere sulle mani, i muscoli si flettevano, le braccia e le gambe si tendevano in uno spasimo. Il fortepiano intanto aveva smesso di suonare. Ora un coro invisibile intonava litanie simili a salmi, con un andamento monotono e ossessivo. Avrebbe preferito l’assordante silenzio di prima. Pareva volesse
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smettere di udire, di sentire gli odori, di provare qualsiasi tipo di sensazione. Di sicuro avrebbe voluto finirla con tutta quella parata di orrori e dentro di sé urlava, gridava, correva a perdifiato. Ma non emetteva alcun suono. Fu qualcun altro a parlare per lui. - Vede, mio caro signore, lei ha voluto scomodare il Maestro, e adesso deve rendergli un tributo. Lo consideri un piccolo, minuscolo sacrificio. Ho pensato che le avrebbe fatto piacere essere l’oggetto di un tentativo, ancora più ambizioso, ovvero replicare quella bella figura del Combattimento dei centauri di Piero di Cosimo. Ma poi... poi... no, ci abbiamo ripensato, troppo banale, e le abbiamo riservato un’altro ruolo, un’altra personificazione più prestigiosa... Lo sconosciuto gli assestò improvvisamente un colpo secco di martello sui denti. Un rumore sordo, uno strappo. Qualcosa di caldo lungo il collo. Un lamento. Dolore. Una fitta intensa. La voglia impossibile di difendersi. Gli occhi rivolti ancora e sempre solo verso il semibuio. Paura. Il colore nero della paura. Poi, di nuovo quella voce: “Avanti, stia calmo, non vogliamo farle del male, vogliamo solo renderla migliore, diciamo ‘perfezionarla’. Mi scusi se le do del lei, ma è una questione di rispetto. Ma, mi dica, non è contento di diventare finalmente un’opera d’arte?” In quel momento sulla parete di fondo, proprio davanti a lui, apparve, proiettata, l’immagine enorme di un dettaglio di un dipinto di George Frederick Watts, l’eminente pittore vittoriano, che raffigurava un minotauro: un uomo con la testa di toro. L’urlo strozzato nella sua gola raccontava dello strazio e della paura di quell’uomo, un’agonia registrata puntigliosamente dalla videocamera. Senza un sussulto, gelida, non aveva perso neanche un istante di quel supplizio, e lo aveva reso per sempre mortale.
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Prima parte Mercoledì Il quadro, lo strano quadro, ebbe un fremito, si mosse. Il fauno fece ondeggiare leggermente la coda. Nella vetrina del museo era stato ricreato fedelmente l’ambiente del Pan nel canneto, il famoso dipinto di Böcklin conservato nella pinacoteca di Monaco di Baviera. La vegetazione era in parte dipinta e in parte realizzata con arbusti e foglie di resina. All’interno, come nelle altre nove vetrine del Muman, il Museo di Malacologia e Naturalia di Milano, al centro del diorama, c’era una figura. Ma non era un animale, una bestia, non era una capra delle nevi o un orso polare. Era un ibrido, una creatura mitologica con gambe e corna caprine, una creatura totalmente fedele al quadro dell’artista svizzero. Era viva, e, come si puntualizzava nel comunicato stampa, era in uno stato provocato di seminarcolessia, di parziale appannamento dei sensi. Faceva parte di uno dei dieci diorami creati in occasione della presentazione di un ambizioso progetto che sarebbe stato annunciato quella sera stessa nel corso di una faraonica conferenza stampa. Proprio per questo la scelta era caduta su quel museo, storica struttura espositiva allestita con criteri ottocenteschi, ricca di suggestive composizioni in cui è possibile ammirare i brontosauri nel loro ambiente, tutto reso con precisione millimetrica da abili scenografi. Ogni dettaglio pare prendere vita fra quelle quinte evocative: la vita della fauna nella foresta amazzonica, i boschi lombardi, lo uadi sahariano, ogni specie di conchiglia, di mammifero, di mollusco. La società che aveva sostenuto la mostra al Muman aveva temporaneamente affittato gli spazi di un’ala
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lasciata di solito vuota, con i vani dietro le grandi vetrine in attesa di essere riempiti. Una nota agenzia di eventi aveva pensato di allestire all’interno di quelle teche una serie di scene tratte da famosi quadri ottocenteschi a soggetto mitologico. Non le interpretavano statue o manichini ma esseri umani. Come presepi viventi. Anche grazie a un’illuminazione ad effetto, che creava un’inquietante penombra, l’atmosfera era molto coinvolgente. Nelle sale del museo, coperte da volte rivestite in marmo pentelico e arabescato immerse in un’atmosfera sottomarina dai riflessi violaceo giallognoli, sembrava di trovarsi in fondo all’oceano, lo stesso oceano ricreato abilmente nelle ricostruzioni didattiche al piano di sotto. Le figure che animavano i diorami si percepivano appena, dietro i vetri. I figuranti rimanevano immobili per quanto potevano, e ogni tanto facevano piccolissimi gesti muovendosi impercettibilmente, e ciò aiutava a rafforzare l’idea di quadri animati di vita. Lo scenografo si muoveva nervosamente davanti alle sue creazioni, entrava nella composizione aggiustando piccoli dettagli agli stanchi attori di questa strana recita. Un capello fuori posto, un gomito troppo alzato. Si aveva l’impressione di una monumentalità malata, una musicalità inquieta, bizzarra, di emozioni trattenute e pronte a esplodere da un momento all’altro. Nella prima vetrina c’era la sirena dipinta da Louis Loeb. La ragazza, seduta su uno scoglio, aveva un ramo di corallo nei capelli e guardava di lato. Come si apprendeva da una targhetta posta sulla cornice, i costumi erano stati realizzati dalla factory di un grande teatro milanese, i trucchi da un artista degli effetti speciali. Complice il contesto del museo, quelle figure assumevano un’aria animalesca, sembravano fiere ingentilite dai tratti dei loro pigmalioni. E c’era una strana idea di realismo in quei diorami, qualcosa che li faceva andare oltre il riuscito allestimento di una società di eventi. La vetrina successiva era dedi-
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cata a Pan e Venere, un dipinto di AdolpheAlexandre Lesrel. La dea era sdraiata su una pelle di leopardo e sul fondo si scorgevano le rovine di un tempio, meticolosamente ricostruite. Anche qui persone in carne e ossa, quasi immobili, nelle posture esatte dei personaggi del quadro. Ma una cosa, soprattutto, non poteva non colpire i visitatori: anche i volti, i loro lineamenti, erano molto simili, se non identici, agli originali. Come accadeva anche in un altro diorama, dove appariva un centauro dipinto da Giuseppe Maria Crespi, la scena in cui l’eroe istruisce un ragazzo a tirare con l’arco, e in un dettaglio dell’Allegoria dei piaceri, con le sirene dipinte da Henrietta Rae, E ancora con i centauri in una foresta, ispirati al quadro di Wilhelm Trubner, e con il Tritone e la Nereide di Böcklin. Le somiglianze si facevano inquietanti nella vetrina che chiudeva l’esposizione, il diorama ispirato al dipinto di Rubens con Pan e la ninfa Siringa. I diorami non erano che una trovata pubblicitario-culturale per preannunciare il convegno su “Il Mondo allo specchio”, un incontro di tre giorni sull’arte e il suo doppio, in particolare sulle repliche di mondi e persone nel Ventunesimo secolo, durante il quale sarebbero state esposte anche le linee guida di un importante progetto: una serie di parchi a tema ispirati a grandi capolavori dell’arte. Il concept originale contemplava un parco ispirato al Giardino delle delizie di Bosch, da realizzare in Olanda, alla periferia di Amsterdam, una città ideale che riprendesse il tema del famoso quadro esposto a Palazzo Ducale di Urbino, e un parco mitologico da realizzare in Grecia, nel Peloponneso. Se ne sarebbe parlato in un convegno, cui era collegata anche una mostra, “Arte e tassidermia. Dalle vite imbalsamate al ritratto del ritratto”, curata da Caterina Sarnico e in programma alla Fondazione Palma. Il progetto dei parchi era un’idea della società americana Arslogos, mentre il convegno
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era supportato da una famosa casa farmaceutica. Era stato tutto pensato per un’anteprima spettacolare. Per un oscuro giro di passaparola nella buona società della Milano che conta e che ci tiene a farsi vedere, quella presentazione era diventata a poco a poco un’occasione mondana, e nessun personaggio influente voleva mancare. Così all’appello avevano risposto tutte le categorie canoniche del momento: i blogger, le influencer, il fotografo di moda coccolato dalle riviste patinate, il moderno dio della danza, i critici d’arte pronti a infiammarsi e un famoso cuoco superstellato. Completavano il parterre le immancabili signore domiciliate nei quartieri alla moda: vestite come a una prima della Scala, per la maggior parte si erano attenute a un dress code animalier. Un altro ibrido, in fondo. Questo consiglio relativo all’abbigliamento non era stato dato dall’ufficio relazioni esterne. Tra whatsapp e telefonate era rapidamente circolato quel messaggio e le mogli dei direttori di banca, dei notai e degli avvocati più in vista della metropoli decisero di inscenare un estemporaneo flash mob, con tutte le loro mise di gusto vagamente animale. C’era chi aveva un total look leopardato, scarpe zebrate, gonne maculate, acconciature stile savana, foulard skull animalier e c’erano un produttore discografico che sfoggiava una stola di leopardo come fosse un console dell’antica Roma e una nota imprenditrice addobbata inconsapevolmente come nelle tavole di Une semaine de bonté di Max Ernst, con tanto di becco e copricapo piumato. Per questo i diorami con i manichini umani acconciati da personaggi mitologici non provocavano più molto stupore. Facevano più effetto le figure che vagavano e parlottavano dall’altra parte della vetrina, fuori dallo zoo mitologico, erano molto più divertenti di quelle figure assonnate, anestetizzate, che non si sa come, dopo ore riuscivano ancora a stare in posa senza crollare esauste per terra.
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La coda del fauno fece di nuovo un leggero movimento. Lo notò il discografico abbigliato in guisa di console, che senza dar troppo peso alla cosa, fece il gesto amichevole di brindare alla sua mitica salute con un calice di Brut. All’anteprima erano presenti anche molti addetti ai lavori, legati al convegno e al progetto dei parchi: ingegneri, architetti, urbanisti, storici dell’arte, scenografi, costumisti. Il curioso allestimento dei diorami con ibridi umani aveva attirato anche l’attenzione di alcuni collezionisti di opere e reperti ispirati alla tassidermia, la tecnica di conservazione dei corpi degli animali. Inoltre c’era un drappello di medici e scienziati, cui si doveva anche lo stato di narcolessia palesato dei manichini umani. La conferenza stampa di quella sera era il preludio al convegno in cui sarebbe stato finalmente presentato il progetto dei parchi. Un convegno che era stato strutturato in maniera scientifica per avvalorare tutta l’operazione: si sarebbe parlato di scenari immaginifici dell’arte e sarebbe intervenuto anche Sergio Serandrei, presidente dell’Istituto Mutinelli e apprezzato esperto di cultura greca antica. Anche l’allestimento del convegno, come quello dell’anteprima stampa, era stato pensato con toni sensazionalistici: la Arslogos, la società che finanziava i parchi a tema, aveva optato per una scenografia ispirata all’arte di Hieronymus Bosch, il grande pittore visionario. L’albergo dove si sarebbe tenuto il convegno, il Grand Hotel Morbelli, si sarebbe così trasformato in una eccentrica dependance del macabro giardino delle delizie del pittore olandese contemporaneo di Leonardo. Quell’allestimento, come la mostra alla Fondazione Palma e come anche la manifestazione al Muman, sarebbe stato solo un assaggio dell’idea dei parchi artistici a tema. Al loro interno ci sarebbero state attrazioni legate alle varie opere d’arte degli artisti o dei vari temi. Per l’Italia era in cantiere un
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progetto curioso: un parco a tema ispirato in parte alle città rinascimentali e in parte ai Caroselli degli anni Sessanta e Settanta. Mancava poco all’inaugurazione e le hostess e gli addetti alla sicurezza avevano preso posto. Per rendere più suggestiva la serata erano stati reclutati, non si sa come, alcuni personaggi dai volti molto particolari. Si aggiravano tra le sale, mescolandosi alla fauna delle signore vestite con sgargianti abiti animalier, una copia in doppiopetto identica al vecchio alla sinistra del Cristo nella Salita al Calvario di Bosch, un clone in maglione girocollo di Giovanni Arnolfini di Van Eyck e un altro che pareva appena uscito da un dipinto di Dalí. Proprio in quel momento, una coppia di cantanti italiani molto famosa negli anni Ottanta stava amabilmente conversando con una replica perfetta, in giacca e cravatta, di un gentiluomo di Lorenzo Lotto. La troupe di un telegiornale si aggirava fra i presenti. Un giornalista stava intervistando Sergio Serandrei, presidente dell’Istituto Mutinelli, che avrebbe presieduto il convegno in programma nei giorni successivi. Era affascinato dall’apparato scenografico e guardava Serandrei con deferenza. - Professore, l’allestimento di questa anteprima è molto suggestivo. Notevole l’idea dei diorami. Ma non si rischia di spettacolarizzare troppo l’arte, di renderla qualcosa di effimero? - Non penso. Per decenni ci hanno insegnato che l’arte è una cosa seria. Non ho nessuna intenzione di metterlo in dubbio. Però nell’epoca dei reality, dei Grandi fratelli e della realtà virtuale, e aggiungerei di tutte quelle vane rappresentazioni del sé che circolano in rete, anche noi storici seri, e sottolineo seri disse allargando la bocca - dobbiamo adeguarci. Se non spettacolarizziamo rischiamo di rimanere indietro, di farci superare da chi propone mondi sintetici rivelati da un visore appiccicato davanti agli occhi.
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- Ancora una domanda: quelle creature nelle vetrine sono ispirate a celebri dipinti legati alla mitologia, ma ricordano anche dei personaggi da videogame. Come spiega lei questa singolare commistione di linguaggi? Un lascito del postmoderno che contamina la nostra cultura visiva? Il giovane cronista era fiero della sua domanda, l’aveva preparata con cura, scrivendola e riscrivendola sul taccuino per formularla meglio. Serandrei fece un’espressione di disappunto. - Allora, non confondiamo. Questa è arte, è cultura. Cultura millenaria. Qui c’è storia, letteratura, lacrime e sangue dei poeti e degli artisti. I videogiochi li lasci ai ragazzini... - Non sono d’accordo, professore - rispose il giornalista deluso, un po’ offeso dalla replica, che non rispondeva a una domanda che gli era sembrata intelligente - ma prendo atto della sua autorevole opinione. Serandrei, come infastidito, cambiò atteggiamento e alzò il tono di voce. - Lei si limiti a registrare la mia opinione, bravo. Lei faccia le domande, io rispondo. Anzi, se la mette su questo piano, non le rispondo più... Prese un bicchiere d’acqua dal vassoio di un cameriere, riprese fiato, e più calmo proseguì. - Per prima cosa faccia domande più intelligenti. Quello che ha detto è di una banalità assoluta... non si offenda. Come può equiparare Böcklin a un videogame? Henrietta Rae a una influencer da social network? Non dica sciocchezze... - D’accordo, professore, era solo un’opinione. Avrò formulato male la mia domanda... - Sarà così. Vuole dare lezioni a me? Il cronista tirò un sospiro e quindi riprese. - Qualche anticipazione sul convegno: cos’è esattamente questa idea dei parchi artistici? Serandrei notò una giovane giornalista vestita in stile
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punk, inviata da una rivista d’arte contemporanea, che stava ammirando la vetrina dove era riproposto il quadro di Pan e Venere. - Venga, parliamone con la sua collega... Serandrei si soffermò subito sulle scarpe in cavallino maculato con tacco alto indossate dalla donna. - Complimenti per l’allestimento, è davvero efficace esordì la ragazza, che indossava una giacca di pelle nera con una maglietta leopardata. Nelle intenzioni, voleva assomigliare a una seduttrice dei fumetti anni ‘40, ma l’insieme era fin troppo scontato, troppo ragionato. Ancora un’occhiata alle scarpe in cavallino maculato, Serandrei pareva conquistato. - Buonasera - disse il professore mieloso, strascicando le vocali, carezzando appena i capelli viola della giornalista, che diede un bacio sulla guancia al vecchio studioso. - Ogni volta lei supera se stesso - disse con un’aria che voleva essere da vamp. - Lei è unico, professore! - Ti ringrazio, e potrei ricambiare facilmente il complimento. Che cosa pensi dei diorami? Ti piacciono? - Favolosi. Molto Lynch. Magari ci avrei messo anche qualcosa di più hard. Anche se... - Se che cosa? - disse Serandrei subito sulla difensiva. - Beh... è molto suggestivo, ma anche è un po’ tetro: mi ha fatto venire in mente un vecchio film, non so se lo ricorda... Il circo degli orrori. - Sì, vagamente. - C’era un impresario di un circo, un pazzo, che ricostruiva scene di famosi omicidi da mostrare al suo pubblico, e utilizzava, come interpreti di quelle scene, criminali che sottoponeva a sofisticati interventi di chirurgia plastica. Uno scultore di carne. Mi è venuto in mente vedendo le comparse in quelle vetrine. Assomigliano a personaggi di quadri mitologici. Ho riconosciuto anche un dipinto di Böcklin... Il giornalista del telegiornale fremeva e cercò di atti-
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rare l’attenzione con un commento. - Professore, quei personaggi non sembrano nemmeno truccati, sembrano proprio originali, reali... - Nell’era di internet chi cerca trova... - rispose Serandrei. - Ci sono banche dati straordinarie, programmi di riconoscimento facciale: è bastato inserire i volti e... L’amica di Serandrei riguadagnò prontamente la scena. - Ho saputo che alla mostra, quella su Arte e tassidermia, è prevista anche una sezione sui tableaux vivants a soggetto animale. Ci sarà anche la famosa installazione di Gaspare Vitale? Ne avevamo parlato anche sulla nostra rivista, mi ricordo, in un dossier su arte e crimine... - Dovresti chiederlo alla professoressa Sarnico, la curatrice... - rispose il professore. - Parli dell’installazione con la ragazza con le gambe amputate, giusto? Quella che Vitale voleva fare assomigliare a un quadro inedito di Khnopff? Ci sono molte testimonianze, articoli... anche un documentario. Su internet girava anche qualche immagine... tutte cose fasulle, montaggi. Finora nessuno ha dimostrato che quell’opera sia davvero esistita... - Tutto ciò ha contribuito a farla diventare un’opera di culto... - Era proprio quello che voleva il povero Vitale. E non credo che ci abbia guadagnato un granché. Ha solo avvalorato la sua fama di artista maledetto. Gaspare Vitale, padre dello storico Giorgio Vitale, era un artista morto qualche anno prima. Aveva avuto una brutta grana a causa di un’installazione ispirata a un inedito di Khnopff, pittore simbolista belga. Si diceva che avesse amputato le gambe di una ragazza per farla posare come sfinge. Vitale se la cavò con una condanna a tre anni che probabilmente non scontò mai. Il giornalista del telegiornale scalpitava. La sua inter-
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vista era in sospeso. Fece un cenno per richiamare ancora una volta l’attenzione di Serandrei. - Al convegno ci sarà qualche anticipazione sui parchi? - irruppe il giornalista esasperato. - Qualcosa... un trailer di qualche minuto, ancora un po’ di pazienza e saprete tutto - continuò mentre prendeva il braccio sinistro della ragazza, per esaminare da vicino un tatuaggio: “Capro espiatorio”, scritto in caratteri gotici. - Le piace? L’ho fatto fare apposta per questa sera. Sa... è per il dress code animalier... - Vediamo cosa possiamo fare per renderlo un po’ più concretamente credibile - disse Serandrei sorridendo maliziosamente. - Ne riparliamo... In sottofondo c’era la musica dolcemielosa dei Preludi di Debussy e del Carnevale degli animali di Saint-Saëns, che contribuivano a sprofondare le sale in un’atmosfera da liquido amniotico, dove le belle signore milanesi leopardate e i loro eleganti accompagnatori sembravano galleggiare. Le sale cominciavano a riempirsi, con una folla eterogenea di persone che piluccavano dai vassoi di finger food, con catering a cura dell’immancabile quanto famoso telechef. In fondo al corridoio spuntò Giuliana Colesanti, la responsabile comunicazione della Clinica Salus, una nota struttura ospedaliera privata specializzata in trapianti di organi e ricostruzioni di arti, con protesi molto evolute. Era in compagnia della figliastra Nina, studentessa di restauro a Firenze. Le due si assomigliavano come due gocce d’acqua. Erano alte e magre, con il volto ovale. Entrambe avevano gambe lunghe e slanciate e una vita sottile. Sembravano sorelle. La dottoressa Colesanti era una donna concreta, elegante ma dai modi un po’ bruschi. Aveva uno sguardo acuto, penetrante, che risaltava dagli occhi stretti, incorniciati da un caschetto castano, che seguiva i lineamenti di un viso regolare di gusto nor-
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dico, dovuto all’eredità genetica della madre finlandese. Indossava una giacca su un abito corto stretch nero. Nina, ventidue anni, mostrava il suo fisico atletico e i boccoli color mogano che si srotolavano su un abito lungo in seta a motivo pantera. La vera madre di Nina, la prima moglie di suo padre, era morta una decina d’anni prima. Il padre, imprenditore del settore petrolifero, era morto invece da due anni e aveva lasciato alla figlia una fortuna, gestita formalmente da un amministratore. Grazie all’eredità, Nina poteva permettersi di fare una vita agiata, studiando restauro a Firenze e programmando una serie infinita di viaggi durante l’anno. Ma da un po’ di tempo non viveva bene, non era felice. La sua passione, l’arte, era diventata anche un assillo, una fastidiosa ossessione. Da qualche mese le era presa l’abitudine di cercare fra la gente che incontrava, al bar, sui mezzi pubblici, all’università, somiglianze con le persone ritratte in dipinti famosi. Era diventato una specie di tic fastidioso, di seccante necessità. Con sé teneva sempre un’agendina su cui annotava la data e le relative somiglianze. Ogni mese si era inventata anche una specie di classifica, evidenziando così quali erano i pittori più presenti nella sua vita. Era una cosa che non si sapeva spiegare e della quale avrebbe voluto parlare con qualcuno. Nelle ultime settimane aveva notato un’inquietante prevalenza del Pitocchetto, un pittore milanese del Settecento che ritraeva soprattutto gli ultimi, la povera gente, gli emarginati della società. Nell’agendina, densa di appunti, aveva anche incollato alcune immagini di suoi quadri prese da internet. Sembrava una fissazione come un’altra, uno strano modo di collezionare visi altrui, semplici volti comunque ignari di vivere nell’opera di un artista. Ma da qualche tempo, quell’occupazione rischiava di diventare, da semplice passatempo, anche un’insana forma di intrattenimento nevrotico. Sentiva una forma di dipendenza sempre più forte da quelle
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somiglianze, tendeva a immaginarsi piccole sequenze, quasi cinematografiche, nelle quali i doppi erano pronti a interpretare la loro parte. Quei volti e quelle scene si affollavano nella sua mente, si sostituivano lentamente alla realtà. Aveva preso corpo un fastidioso scollamento tra vita vissuta e vita inventata, con strane sovrapposizioni di volti e ritratti, di vita quotidiana e dipinti nascosti nella sua memoria visiva. Erano come estranei che si facevano largo a forza nelle sue giornate, inquilini che non se ne volevano andare e che avevano messo radici sempre più solide nel suo immaginario. Il divertimento degli inizi era diventato un obbligo: associare un clochard a un dipinto del Pitocchetto o una distinta signora a un quadro di Rosalba Carriera stava diventando un riflesso condizionato noioso, ripetitivo e soprattutto ossessivo. Una mania. Era sempre più sgradevole assecondare quelle improvvise visioni, quei flash in cui scorrevano davanti ai suoi occhi gli alter ego dei dipinti che amava di più. Così ne aveva parlato con sua madre, che aveva liquidato la questione dicendole di un suo amico psicologo. Non aveva capito se scherzasse o se dicesse sul serio. In ogni caso, per evitare problemi, non le aveva detto più nulla. Ma quelle che lei chiamava “le visioni” rimanevano. Sulle scale del museo, madre e figlia avevano incontrato Nadia Parini, un’amica di Nina che studiava architettura a Bordeaux, nipote dell’ingegner Brandano. Rispetto alle due Colesanti, Nadia era più semplice, anche se aveva un’eleganza innata, non apparente. Qualche minuto più tardi tutti gli invitati si erano già accomodati nell’aula magna del museo, dove stava per iniziare la conferenza stampa. Il primo a parlare fu Serandrei. - Perché questi parchi possano prendere forma, ci vogliono grossi stanziamenti - disse. - Si avvera un sogno. Avete presente i romanzi, i film che parlano di
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questo tipo di creazioni? Fino a ieri erano fantascienza. Bene, ora siamo nella fase due del sogno. Non è più letteratura, ma realtà. Dagli Stati Uniti è arrivato un grosso investitore, e anche in Italia ci sono visionari, più piccoli ma solidi e significativi, come l’ingegner Egidio Brandano, uno dei nostri sostenitori più appassionati. Molti di voi lo conosceranno per la sua straordinaria residenza a Modena, con un’ala ispirata a un videogame degli anni Novanta. Presto ci saranno i grandi parchi artistici di Arslogos, parchi che rivoluzioneranno per sempre l’idea di parco a tema. La Colesanti scattò un paio di foto ai relatori, dietro ai quali campeggiava un grande manifesto con la mappa dettagliata di un parco a tema. Serandrei entrò così nei dettagli, descrivendo per sommi capi la struttura del parco delle delizie, ispirato al Giardino delle delizie di Bosch, sottolineando l’apporto fondamentale dei consulenti artistici, quindi si dilungò sul progetto del parco mitologico nel Peloponneso. Durante la conferenza, Giuliana Colesanti non perdeva d’occhio la figlia, e le lanciava sguardi pungenti. Era una perfezionista: dai gesti fino alla postura, nulla le sfuggiva. Le dava fastidio ogni minimo dettaglio fuori posto. Le luci si spensero. I diorami sprofondarono nel buio e una musica gregoriana subentrò ai gocciolii armonici di Debussy. Nina avrebbe detto che si sentisse anche profumo d’incenso. Una vera atmosfera sacrale. Il professor Serandrei era salito su un piccolo palco in prossimità dei diorami, con l’autore dell’allestimento, l’architetto Lorenzo Giusti. I due erano illuminati da una luce giallastra. Fecero una breve introduzione, spiegando che quei diorami rendevano omaggio all’arte mitologica e alla tassidermia, celebrate nel convegno e nella mostra in programma in quei giorni. La voce andava e veniva nel microfono. Fecero una breve spiegazione, elogiarono i valori della cultura e dell’arte, mentre la gente gradualmente si spo-
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stava di nuovo verso il buffet, dove erano comparsi i primi piatti. Finalmente fu il momento delle domande. Un giornalista chiese se fosse in programma anche un parco a tema ispirato ai quadri del Canaletto, da realizzare ovviamente a Venezia, magari a Mestre. Un collega propose qualcosa legato all’arte di Magritte, nei dintorni di Bruxelles. Un terzo domandò se quei parchi volevano essere una risposta alla realtà virtuale. - Certo, come portare Second Life nella vita di tutti i giorni - disse, guadagnandosi una risposta approssimativa se non scortese di Serandrei. Nadia, che stava partecipando a un progetto per la realizzazione del nuovo Centro Studi Proust a Cabourg, chiese se in futuro ci fosse in programma qualcosa ispirato alla leggendaria Balbec della Recherche, su cui tanto era stato scritto. Quindi Massimo Trezzi, redattore di un giornale di inchiesta, uno dei pochi rimasti, si alzò e domandò se a quella spettacolarizzazione eccessiva non sarebbero seguite altre trovate pensate solo per attirare il pubblico. Affermò di avere sentito strane cose, tipo scommesse su corse di centauri, intesi proprio come le creature mitologiche. Chiuse con un riferimento a un paese esotico. - Non è che in quei parchi dobbiamo aspettarci di vedere cose bizzarre, come quelle? Siamo certi che tutto resterà nella legalità? L’addetto stampa dell’organizzazione scoppiò in una sonora, incontenibile risata. Rispose che era una bella idea, ma che al momento i parchi a tema non erano case da gioco clandestine e non c’era in programma niente del genere, solo leggende metropolitane. Il giornalista insistette, replicò che non erano fantasie. In rete si erano già viste e lette cose simili. Venne liquidato da uno storico di fama che intervenne infastidito e che disse, platealmente, che erano solo fandonie, “sono fake news, come si dice oggi”.
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- Ancora una cosa, gentilmente... - aggiunse il giornalista. - Nell’Ottocento, all’epoca dei cosiddetti zoo umani, esistevano eccentrici collezionisti di uomini. È ipotizzabile, oggi, che ci sia ancora qualcosa o qualcuno del genere in circolazione e che tutto questo possa riguardare i parchi in costruzione? Magari gente che ama collezionare persone, magari con il corpo modificato dalle biotecnologie? Nessuno rispose. Tempo scaduto, disse qualcuno dal tavolo delle autorità. Sui visi dei presenti, Giulia Colesanti per prima, era sceso come un velo di sottile imbarazzo. Ricominciò così il momento riservato alle pubbliche relazioni. Nina raggiunse subito Trezzi per chiedergli se tutte quelle provocazioni avevano un fondamento. L’aveva incuriosita soprattutto il fatto che da qualche parte ci potesse essere gente capace di collezionare esseri umani. - Diamoci del tu - le disse Trezzi, guardandosi intorno come se qualcuno lo ascoltasse - Cosa vuoi che ti dica? O ci si crede o no. C’è chi dice che ci sia in giro addirittura uno strano personaggio. Avrebbe addirittura un sito nel deep web. D’accordo, sembra un personaggio da romanzo. Infatti c’è chi dice che siano storie senza senso, invenzioni... ma io non ne sono così convinto. - Dici davvero? - Ma ti sembra così strano? Non ti guardi intorno? Non ti rendi conto in che mondo viviamo? Trafficanti di uomini, gente che sparisce senza lasciare traccia, centinaia ogni anno, senza che nessuno dica niente. E poi c’è la rete. Non è mai stato così facile, se ci pensi, creare un commercio di questo tipo, e anche una bella collezione del genere... - Ma ci sono prove? - chiese Nina sempre più incuriosita da un tema dai contorni allucinanti. Le faceva ribrezzo e paura soprattutto il fatto che anche lei, in qualche modo, fosse una collezionista di persone. Le
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sue semplici e innocenti associazioni mentali potevano quindi essere l’anticamera di una malattia? - Ascolta, questo signore avrebbe una collezione di persone con i connotati di personaggi tratti da dipinti famosi - riprese Trezzi guardando Nina negli occhi. - Gente che sarebbe stata sottoposta a pesanti interventi chirurgici. Volontariamente o meno non lo so. Si dice che circoli un catalogo in rete, anonimo, da cui scegliere l’attore giusto. Hai presente i book fotografici dei modelli e delle modelle? La ricerca della perfezione a tutti i costi fa dei brutti scherzi a noi semplici esseri umani... - Stai scherzando, vero? - replicò Nina. - Se mi vuoi impressionare ci sei riuscito! Proprio in quel momento si materializzò davanti alla ragazza una sorta di quadro vivente: il suo interlocutore era diventato il San Matteo del Caravaggio, con l’angelo accanto. Un quadro con un significato di premonizione, un dipinto che preludeva a qualcosa, a qualcuno. E dietro, sullo fondo, c’era lei, Nina, che osservava tutto in silenzio. - Mi stai ascoltando? - disse il giornalista seccato, stupito dallo sguardo assente di Nina, persa nelle sue fantasie pseudoartistiche. - Scusami - disse lei riprendendosi. - Ho un mal di testa terribile... Certo che ti ascoltavo. - Non mi sembrava. Mi pareva che stessi pensando ai fatti tuoi... Infastidito, Trezzi tagliò corto congedandosi da lei, le disse che se voleva poteva lasciargli la sua mail, che le avrebbe inviato qualche ritaglio per saperne di più. Pochi passi e Nina raggiunse Giuliana e Nadia, che proprio allora erano state avvicinate da Caterina Sarnico, la professoressa curatrice della mostra alla Fondazione Palma. La donna competeva degnamente con la Colesanti e la figlia: sembrava una scultura classica vestita con un tubino di pizzo bianco. - Nina... Nadia, questa è la professoressa Sarnico. È
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una grande studiosa ma anche una cacciatrice di razza... amante del bello, s’intende. Dico bene Caterina? - esordì la Colesanti sfoggiando un sorriso e guardando con aria complice e di sfida quella venere bianca. - Cacciatrice? - disse lei modesta, guardandosi la spalla destra, come se avesse qualcosa che l’infastidisse, mostrando in quel modo il collo slanciato. - Parlo di belle fanciulle, meglio dirlo subito. È un monito per queste due principianti. La mia figliastra è proprietà privata. Per la sua amica non garantisco... - Così lei è la curatrice della mostra su arte e tassidermia, giusto? - domandò Nina. - Sì, certo. Ci ho lavorato molto. Ci sono più di quattrocento pezzi, poi dovrebbe girare, in Europa e anche in America. L’ha già chiesta qualche museo. Ma dammi del tu, per piacere, non sono mica così vecchia. Tu sei... - ... Nina, la mia figliastra. È figlia della prima moglie del mio ex marito - spiegò Giuliana, spostando i capelli di Nina dietro le orecchie. - Fatti vedere bene... - Ma dove la tenevi nascosta? - riprese la Sarnico squadrando Nina da cima a piedi, ostentando consenso e ammirazione. Poi, con un sorriso malizioso, si rivolse a Nadia. - Piacere, Sarnico. - Questa è Nadia, è una mia amica - s’intromise Nina. - È di Milano, ma in questo periodo è a Bordeaux. Studia architettura. Nadia era una bella ragazza castana in apparenza acqua e sapone, con un maglione scuro e i capelli finto-spettinati e un bel sorriso. Un’italiana che aveva preso i modi della francese. La Sarnico notò di essere osservata da Nadia, ma non diede peso alla cosa e si rivolse alla figlia dell’amica. - E tu, cosa fai nella vita, Nina? - Studio. Mi ero iscritta a Medicina ma era una palla, così ho cambiato e adesso frequento il laboratorio di
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restauro, a Firenze. - Restauro? Che meraviglia! - Sì, soprattutto dipinti di antichi maestri, Quattrocento, Cinquecento. Stiamo restaurando un Botticelli che era stato per anni nei depositi degli Uffizi... io faccio la mia piccola parte... devo imparare ancora tanto. - Nina ha sempre avuto una buona predisposizione per l’arte. - intervenne la matrigna, aggiustando i capelli della figliastra. Nina fece un gesto di insofferenza e si scostò. - Sì, ma adesso sto frequentando un seminario sull’imbalsamazione umana. - disse lei - Penso che prenderò quella direzione, come mia zia, Loredana Colesanti, è una grossa esperta del settore. - E tu Nadia, sei a Milano per il convegno? O anche tu sei appassionata d’arte? - le chiese la Sarnico. - Sono iscritta ad architettura, e sto collaborando al progetto del nuovo Centro Studi Proust. Oltre a studiare all’università, faccio la stagista in un museo di antropologia criminale a Parigi. Intanto la matrigna di Nina, richiamata da Serandrei, si allontanò scusandosi. - Allora devi assolutamente vedere la mia mostra su arte e tassidermia. - la consigliò la professoressa. - Non mancherò, è sicuro. Nina, ossessionata dalla sua mania per i ritratti, non vedeva Caterina Sarnico ma Simonetta Vespucci ritratta da Piero di Cosimo nelle vesti di Cleopatra. Perché l’aveva immaginata come una donna di potere. Nella sua testa le immagini apparivano sfocate, sovrapposte. Questa inaspettata visione, sgradita, la disturbava, la distraeva. Si avvicinò Egidio Brandano, tra gli sponsor del convegno. Era seduto sulla sua carrozzina. - Questo è mio zio - disse Nadia. - Noi ci conosciamo già - disse la Colesanti. Nina e la Sarnico si presentarono. Brandano era un uomo grande e grosso che ispirava 26
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una certa bonomia. - Zio, premesso che la trovata dei diorami è molto bella, non trovi che ci sia un’atmosfera un po’ morbosa, un po’ malata. - chiese Nadia - Non lo dico in senso negativo, non è una critica. - Malata? Non direi. Sono scelte molto originali, questo sì... - intervenne la Colesanti. - Boh, mi sembra esagerato mettere le persone al posto delle statue, riprodurre così i quadri. - replicò Nadia. - Ma lo sai che c’è gente che ha una passione davvero devastante per l’arte, che non si accontenta più di ammirare i quadri, che vuole farne parte, che ricerca la perfezione? - concluse la Sarnico. - Ah ecco. Come le comparse di questi diorami. È quello che dicevo anch’io. - continuò Nina, che mentre partecipava alla conversazione annotava mentalmente tutti i volti dei personaggi che si avvicendavano nella sala. - No, non è proprio così. In questi diorami c’è gente che assomiglia vagamente ai personaggi dei dipinti spiegò la Sarnico, studiando nel contempo la mise di Nadia, che indossava una collarette di piume e un abitino corto a palloncino che lasciava libere le lunghe gambe magre. Unica concessione al dress code animalier, una borsa zebrata. - Ma forse c’è gente a cui non basta un naso perfetto, un seno rifatto... gente che vuole assomigliare a tutti i costi a quei dipinti, che non esita a spendere capitali in chirurgia plastica per diventare uno dei personaggi del proprio quadro preferito. C’è una differenza sostanziale fra somiglianza e immortalità... - precisò. - Nadia, ti ricordi di Lucrezia. Non è uguale alla sirena, quello del diorama con il mare in tempesta? intervenne Nina, che si trattenne a stento dal fare riferimento all’uomo misterioso di cui le aveva appena parlato Trezzi. - È vero. È uguale. Avrebbero potuto prendere lei.
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Non c’era da cambiare una virgola, è identica! - Ma davvero c’è in giro gente così?- chiese Nadia alla Sarnico. - Deve essere un problema anche nella vita di tutti i giorni. A diventare un gentiluomo del Bronzino, poi non si passa inosservati... - Beh, sai, in genere chi potrebbe fare queste cose non lavora in un ufficio - specificò la Sarnico, insofferente per una domanda che per lei era quasi scontata. - Non sono impiegati. È gente facoltosa, che si può permettere queste stranezze. A loro nessuno oserebbe dire niente. - Curioso... ma mi pare improbabile... - notò Nina. - Studiando antropologia criminale, non ti è mai venuto in mente di conoscere meglio queste cose? disse la Sarnico a Nadia. - Sinceramente no - rispose la ragazza, colta alla sprovvista mentre addentava un salatino. - Peccato. Forse ti divertiresti. Forse inconsciamente vorresti che ci fosse qualcuno che decidesse per te. - Avete sentito cosa dicevano prima dei centauri? Corse clandestine... scommesse... Ma vi pare possibile? - disse Nadia, che non aveva voglia di raccontare troppo di sé e delle sue passioni. - Che cosa? I centauri o le corse? - replicò Nina, mentre Brandano si stava dirigendo verso il buffet. - Beh, tutti e due - specificò Nadia. - Soprattutto il fatto che qualcuno pianifichi quegli ibridi, gli innesti chirurgici... non penso che la legge lo permetta... diventare un centauro... E poi il fatto che possano usarli per scopi biecamente commerciali, come le scommesse clandestine. - In effetti è abbastanza assurdo, ma non è diverso da mille altre cose. Con l’ingegneria genetica in teoria si può fare tutto - commentò la Sarnico, succhiando disinvolta un’ostrica da un cucchiaino - c’è stato qualche caso del genere. Non se ne parla, ma qualcosa è stato fatto di sicuro. - L’isola del dottor Moreau due punto zero... - sen-
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tenziò Nadia con un tono da erudito. - Tu scherzi, ma c’è davvero gente così... - notò la Sarnico indispettita guardando Nadia con aria di sufficienza - o almeno c’è stata in un passato nemmeno tanto lontano. Ne ha accennato anche un giornalista in conferenza stampa. Nell’Ottocento in Giappone un collezionista aveva fatto montare la testa di un toro su un cadavere di un uomo, e in Scozia, nel pieno dell’entusiasmo vittoriano, qualcuno aveva creato un laghetto con delle sirene vere, ragazze in carne e ossa con il corpo da sirena. Negli anni Venti, in Svizzera, un altro appassionato aveva creato un giardino con dei fauni, creature che poi cacciava nel tempo libero... - The Most Dangerous Game, certo, - notò Nina. - Scusate ma questi discorsi mi fanno senso - disse Nadia, che dava l’idea di essere un po’ turbata. - Per fortuna è da anni che non si parla più di queste cose - la tranquillizzò la Sarnico - forse c’è maggiore controllo. Pazzi di quel genere sarebbero abbastanza facili da individuare oggi. Al massimo qualcosa esiste nei mondi virtuali e paralleli. Ma lì, almeno in teoria nessuno fa male a nessuno... - Professoressa, lei vede questi parchi come una risposta ai mondi virtuali? - domandò Nina. - In parte sì. Penso anzi che potrebbero avere un grosso successo. - rispose lei. - Ma dammi del tu, per piacere. Mi fai sentire vecchia... - Ma non è una cosa un po’ kitsch? - disse Nadia con una smorfia di disgusto. Per lei tutto doveva rispondere a un ordine classico, era il suo riferimento di gusto, e in questo era in sintonia con la matrigna di Nina. - E chi se ne frega. La gente vuole questo - disse Caterina, mentre salutava con la mano un relatore del convegno a qualche metro da lei. - E questi diorami che cosa c’entrano con i parchi? Dici che anche lì ci saranno personaggi del genere,
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truccati per assomigliare a personaggi tratti da dipinti famosi? - chiese Nina alla matrigna. - E chi lo sa? Non so ancora bene come hanno intenzione di sviluppare questa idea. Anch’io sono curiosa. Bisogna aspettare di sentire quello che diranno gli organizzatori. Per ora non è trapelato niente. - Comunque, se vi interessa, venerdì sera è in programma una conferenza su questi temi in una villa appena fuori Milano - intervenne la Sarnico. - In anteprima sveleranno qualche dettaglio del parco a tema che devono realizzare in Italia, in Umbria. Al momento di andare, la Sarnico, che aveva messo gli occhi su Nadia, le disse che sapeva che in una biblioteca universitaria c’erano documenti inediti su un carteggio di Marcel Proust con un architetto milanese, cose che forse la potevano interessare. Si sarebbero potute incontrare là il giorno dopo, le avrebbe evitato tutta la noiosa trafila delle richieste burocratiche. Sono passati molti anni. Arrivai alla clinica che avevo diciannove anni. Mio padre era il custode. All’inizio quel posto non mi piaceva per niente. Lo trovavo sinistro, asettico. Poi piano piano cominciai a capire e ad apprezzarlo. Iniziò a diventare un teatro di gioie e di paure. Da allora ho imparato a gustare fin nel più infimo recesso quelle emozioni apparentemente così diverse. Ancora oggi non mi stanco di fissare quei muri bianchi dall’odore di anestetico. Conosco ogni crepa, ogni striatura del marmo delle colonne, ogni fessura della sala verde, ogni anfratto dei corridoi. Dopo due anni che mi trovavo lì ho cominciato a sentirmi un altro, come beatificato. Era una specie di convento, dove pareva non succedesse mai niente. Ma lentamente mi sono reso conto che accanto alle apparenze tangibili coesisteva una realtà più profonda, fatta di odori acri e di geometrie nascoste. Cominciavo a notare una certa regolarità in quelle
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litanie. Capii che per trovare il significato di quei suoni li dovevo memorizzare e coordinare tutti insieme, come feci poi con i ritratti. Suoni di arpa e di violoncello, di altri strumenti, colpi sordi e rumori metallici, urla sciocche di dolore e di gioia, poi silenzi interminabili. Cominciavo a cogliere le differenze. Fino ad allora tuttavia non avevo partecipato alla vita degli ospiti: avevo percepito che conducevano una vita isolata, di cui non potevo far parte. Ma mi affascinavano. E mi chiedevo cosa si dovesse fare per essere ammessi in quel consesso, unito dalla malattia o dalla presunta fede in una malattia. E intanto adoravo la clinica. Ci rimasi pressoché recluso per quasi tre anni. Là tutto era rarefatto: l’aria era più calda e i getti di vapore che emanavano dai rubinetti sistemati in ogni camera creavano un’atmosfera di chiuso molto rassicurante e confortevole, che fuori non esisteva. Mi accorsi per questo delle disarmonie che c’erano all’esterno. Disarmonie di suoni, di odori, soprattutto di volti. Tutte quelle facce diverse una dall’altra che si vedevano per le strade. E invece in clinica c’era un bellissimo ordine, con le facce identiche ai quadri alle pareti. Avrei voluto anch’io diventare un ritratto, diventare per sempre “qualcuno” e non “qualcosa” ma me l’hanno sempre impedito. Volevo trasformarmi in Mercurio. Ma niente, non mi hanno accettato. Mi hanno detto che forse mi avrebbero preso più avanti, ma non è mai successo. Provo invidia per tutti quelli a cui ho cambiato i connotati. Una volta arrivai a sfregiarmi, usando i ferri per trasformarmi in altro da me. Ma presto ho capito che era più importante essere regista e collettore piuttosto che interprete.
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Mario Gerosa Il collezionista di respiri Progetto grafico Studio MalaMente Impaginazione: Daniele Allegri Prima edizione - Dicembre 2019 ISBN 9788893041706 www.foglivolanti.red via Bobbio, 14 - 15121 - Alessandria