Roberto Faenza. Uno scomodo regista

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Ignazio Senatore ISBN 978-88-89782-39-2

uno scomodo regista

FAENZA “Questa è la seconda volta che giro un film a New York. La prima è stata nel 1983 quando

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ROBERTO

ho realizzato Copkiller. (...) Da allora a oggi le cose sono molto cambiate e fare cinema a

dei nostri sindacati, pronti a inginocchiarsi di fronte a qualsiasi produzione americana che arrivi in Italia. Il tema della reciprocità dovrebbe essere una battaglia da ingaggiare, perché non è

per la prima volta nella parola “clearance”. Alla riunione partecipa un team di avvocati. Da noi uno è libero di girare in esterni, per esempio se voglio girare a Roma davanti al Colosseo nessuno mi verrà a chiedere la liberatoria. Qui non è così. Un edificio, per esempio un famoso grattacielo, può essere soggetto a copyright, un manifesto idem, una vetrina pure. Se voglio girare a Times Square e riprendere le immagini proiettate sugli edifici, devo prima chiedere le autorizzazioni agli aventi diritto. Insomma un incubo. (...) In una scena del film squilla il telefono? La suoneria può essere soggetta a copyright, per cui prima sarà bene sondarne la licenza. Il protagonista preme un campanello? Se la targhetta porta un nominativo va prima eseguita la clearance. In un’altra scena fa una telefonata e compone un numero sul cellulare? Attenzione il numero dev’es-

ROBERTO FAENZA uno scomodo regista

ai tecnici alle maestranze, mentre noi italiani o europei non possiamo far lavorare in America quasi nessuno. (...) In una delle prime riunioni di preparazione di questo nuovo film mi imbatto

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New York è diventato molto più difficile. A causa soprattutto delle union che si oppongono in ogni modo alle produzioni intenzionate a impiegare tecnici e maestranze straniere, a differenza

giusto né leale che le produzioni americane possano far lavorare in Italia chiunque, dagli attori

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sere inventato (...) In pratica tutto ciò che compare anche in un solo fotogramma del film può essere oggetto di contestazione, specie in America dove gli avvocati sono più numerosi delle formiche e dove chiunque può diventare milionario intentando le cause più azzardate”. Da Diario Americano di Roberto Faenza Ignazio Senatore è psichiatra e psicoterapeuta dell’Università “Federico II” di Napoli e presidente della Sezione “Arte, Musica, Spettacolo e Mass Media” della Società Italiana di Psichiatria. Giornalista pubblicista e critico collabora con “Segnocinema” e con “Il Corriere del Mezzogiorno”. È autore di numerosi volumi: ricordiamo L'analista in celluloide (1994), Curare con il cinema (2002), Il cineforum del dottor Freud (2004) e il recente Cinema e terapia familiare con Rodolfo De Bernart (2011). Ha organizzato diverse rassegna cinematografiche ed ideato il concorso “I corti sul lettino. Cinema e psicoanalisi” oltre al sito www.cinemaepsicoanalisi.com. Sono in uscita due sue monografie dedicate a Daniele Luchetti e Giuseppe Piccioni. EDIZIONI FALSOPIANO

€ 22,00

www.falsopiano.com/robertofaenza.htm

EDIZIONI FALSOPIANO


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In copertina: Roberto Faenza in una fotografia di Cosima Scavolini

Š Edizioni Falsopiano - 2011 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini Stampa: Laser Group - Milano Prima edizione - Dicembre 2011


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IndIce

Introduzione di Ignazio Senatore

p. 9

Intervista a Roberto Faenza

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Parte seconda: i Film

p. 135

Escalation H2S Forza Italia! Si salvi chi vuole Copkiller Mio caro dottor Gräsler Jona che visse nella balena Sostiene Pereira Marianna Ucrìa L’amante perduto Prendimi l’anima Alla luce del sole I giorni dell’abbandono I Viceré Il caso dell’infedele Klara Silvio Forever

p. 137 p. 145 p. 151 p. 159 p. 163 p. 171 p. 181 p. 189 p. 197 p. 207 p. 217 p. 231 p. 251 p. 263 p. 279 p. 289

Diario americano di Roberto Faenza

p. 309


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InTROdUZIOne di Ignazio Senatore

Io e Roberto ci siamo incontrati la prima volta nel 2003. Avevo già pubblicato L’analista in celluloide e Curare con il cinema ed organizzato nell’Aula Magna dell’Università “Federico II” di Napoli, la proiezione del film Come due coccodrilli alla presenza di Giacomo Campiotti, di Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni, con Silvio Orlando in veste di ospite d’onore, e de La seconda ombra di Silvano Agosti al Teatro Nuovo di Napoli, con Agosti nei panni dell’anarchico mattatore. Non lo conoscevo personalmente ma, quando seppi del tema che avrebbe trattato in Prendimi l’anima, con un pizzico di sfrontatezza, contattai la Jean Vigo, la sua casa di produzione, presentai le mie credenziali, e proposi loro di allestire l’anteprima del film al cinema Modernissimo di Napoli, alla presenza di psichiatri, psicologi ed appassionati di cinema. Roberto accolse entusiasticamente il mio invito. Ricordo ancora oggi la sala zeppa ed affollata fino all’inverosimile (era una proiezione mattutina!). Erano presenti anche i colleghi giornalisti della carta stampata, delle televisione e delle emittenti radiofoniche locali. L’attesa era enorme. Il clima in sala era piacevolmente effervescente. Dopo i saluti di rito, partì la proiezione della pellicola che al termine fu salutata dal pubblico con un fragoroso e caloroso applauso. Come concordato in scaletta intervenne prima il regista che esordì dicendo: “Questo film ha veramente delle strane coincidenze mandate non so da dove... Ci tenevo molto a presentare un film a Napoli, perché è una città che amo... Poi sei comparso tu con la tua e-mail...”, e rievocò scherzosamente le modalità con le quali l’avevo contattato e come era nata l’idea della presentazione a Napoli. Dopo aver raccontato la genesi del film, qualche aneddoto relativo alla sua realizzazione, passò la parola a Nadia Neri, una psicoanalista junghiana, che affrontò lo spinoso e controverso rapporto tra Jung e Sabina Spielrein. A sua volta Elda Ferri, produttrice di tutte le pellicole di Faenza a partire dal 1978, illustrò le difficoltà incontrate nella realizzazione del film. Infine una emozionatissima Emilia Fox confessò di essersi completamente innamorata del personaggio di Sabina e della passione che Roberto aveva mostrato per quella storia. Regista e ospiti furono sommersi da decine domande e dovemmo concludere 9


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l’incontro, a malincuore, per ovvie ragioni di tempo. Di Roberto quel giorno mi colpirono l’estrema gentilezza, generosità e disponibilità con la quale aveva risposto alle domande che gli erano state poste, (anche a qualcuna particolarmente velenosa di qualche giornalista presente in sala), con l’onestà e la tranquillità di chi non aveva nessuna posizione preconfezionata da difendere e con la sincera curiosità di scoprire, grazie ai loro interventi, qualche aspetto del film che lui stesso aveva messo in campo “inconsapevolmente”. Ci salutammo con la certezza che ci saremmo incontrati in futuro, cosa che accadde l’anno seguente per la presentazione a Roma, in una delle Librerie Feltrinelli, del mio volume Il cineforum del dottor Freud. Gli avevo chiesto di essere al mio fianco e lui, senza pensarci due volte, aderì immediatamente alla richiesta. Discorremmo con i presenti del mio volume ma anche in quell’occasione non si tirò indietro alle numerose domande che il pubblico gli pose sui rapporti tra cinema e psicoanalisi. Lo incontrai nuovamente per la presentazione di Psycho cult, un altro volume che avevo dato alle stampe e che presentai nel 2006 insieme a lui, a Matteo Garrone e a Marco Giusti (autore di una divertentissima prefazione), in una libreria Feltrinelli a Roma. Fu una chiacchierata piacevolissima e discutemmo con il pubblico, tra l’altro, della ricchezza visiva dei B movie italici, delle storiche stroncature che certi critici avevano riservato al cosiddetto cinema di “genere”, del futuro del cinema nostrano. Quando Roberto tornò a Napoli nel 2007 per presentare alla stampa l’anno successivo I Vicerè, il nostro incontro fu fugace perché, per ragioni professionali, dopo averlo intervistato, dovetti scrivere al volo l’articolo per “Epolis - Il Napoli”, quotidiano per il quale collaboravo al tempo. Non l’ho più sentito per un pò (del resto, per ragioni lavorative, in Italia non c’è quasi mai) e l’ho rivisto per la presentazione alla stampa a Napoli, a marzo 2009 del suo ultimo film Il caso dell’infedele Klara. Il film fu accolto male dalla critica locale e quando ci recammo, insieme alla dolcissima Laura Chiatti, alla sede de il quotidiano “Il Mattino” per un “forum” con i giornalisti della testata partenopea, per la prima volta vidi Roberto leggermente accigliato e meno raggiante del solito. Quando organizzai a Napoli nell’aprile 2009, il primo concorso di cortometraggi I corti sul lettino - Cinema e psicoanalisi fu la prima persona alla quale pensai come presidente della giuria. Accettò anche questa volta il mio invito, senza la minima esitazione, e, lontano mille miglia dai lustrini e dai clamori divistici di certi suoi colleghi, volle arrivare a Napoli e ripartire per Roma in treno. Dopo aver visionato accuratamente tantissimi cortometraggi, presenziò alla serata finale insieme agli altri componenti della giuria e discusse con i registi e con 10


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gli attori presenti in sala sulle tecniche da loro adoperate, sulla scelta dei temi, sulla direzione degli attori. Ci rivedemmo qualche mese dopo, a luglio di quell’anno, quando presentò Il caso dell’infedele Klara nell’ambito della Rassegna “Accordi e Disaccordi”, ideata da Pietro Pizzimento, alla quale collaboro da alcuni anni. In quell’occasione ritrovai il Roberto di sempre, pieno di propositi e di energie già in moto per mille progetti futuri. Perché narrare così dettagliatamente le diverse occasioni nelle quali ci siamo incontrati? Per sottolineare, forse, che l’idea del volume-intervista è nata sottotraccia proprio grazie alle nostre “occasionali” frequentazioni di questi anni. Nel corso delle nostre chiacchierate intuivo che l’uomo non amava molto discutere sulle annose questioni relative al cinema nostrano, sui film usciti in sala, né commentare la poetica di un regista o le capacità professionali di un attore o di un’attrice. Non è che non gli piacesse discorrere di cinema: la sensazione che ne ricavavo era che il suo spirito solitario, il suo carattere schivo e riservato, mal si sposava con il commentare le “gesta” dei tanti “compagni di viaggio” che affollano il mondo della celluloide. Non solo. Di lui mi colpiva la sua “insolita” modestia, la sua naturale tendenza a sottrarsi agli elogi che, volta per volta, riservavo alle sue pellicole in uscita. Si scherniva per poi regalarmi, di tanto in tanto, qualche piccolo aneddoto relativo a un suo film. Una cosa però era certa; vuoi anche per la sua carica di ricercatore e docente universitario e/o per la sua frequentazione con gli studenti, era informato su tutto; conosceva benissimo il mondo dell’editoria cinematografica online, il nome dei produttori, anche di quelli a me sconosciuti, ricordava per quale testata scrivesse quel critico e dove e per quale occasione aveva incontrato quell’attore o quell’attrice. Mentre discorrevamo tra un caffè, un primo piatto o un trancio di pizza, come in una sorta di tacito accordo, lasciava scivolare sempre il discorso sui temi legati alla psicoanalisi e alla psichiatria. Mi colpiva in lui la sua genuina ed autentica ricerca della conoscenza, quella ostinata spinta a voler varcare il confine di un sapere (quello psichiatrico-psicoanalitico), di cui si è sempre dichiarato appassionato. Mi chiedeva del mio lavoro di psichiatra all’Università, il tipo d’approccio che utilizzavo in terapia, le patologie dei pazienti che avevo in cura. Ascoltava in silenzio, con attenta partecipazione pronto a rilanciare, subito dopo, con una nuova domanda. Della sua vita privata non faceva mai cenno. Solo una volta si è lasciato “scappare” di non essere sposato, ma padre di due gemelli: l’uno con la passione per i documentari, l’altra architetto e stilista. Ed è proprio in una delle tante appassionate chiacchierate che ho lanciato l’idea di questo volume. Chi lo cono11


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sce sa che è una persona lontana anni luce dal luccichio delle luci della ribalta e da una certa spocchiosità divistica, cara a molti personaggi della cinematografia italica. Ha lasciato decantare un po’ l’idea dentro di sé e poi ha accolto favorevolmente la mia proposta. Del resto, da cinefilo incallito, ritenevo quasi doveroso colmare un vuoto presente nell’editoria del settore e dedicare un volume interamente dedicato a uno dei registi più significativi della nostra cinematografia. Mi sono accostato alle opere di Roberto con il desiderio di offrire, anche ai lettori più giovani, che non conoscono (probabilmente) la sua filmografia completa, con un atteggiamento di grande curiosità e ponendomi di fronte alle sue opere con l’obiettivo di recuperare una sorta di “verginità dello sguardo”. Rivedere dei film di tanti anni fa, scrostare da essi la patina della memoria, non è un’impresa così facile come si possa pensare. Nell’accostarmi nuovamente a queste pellicole, ho ritrovato con piacere dei passaggi narrativi che avevo dimenticato, recuperato immagini, sfumature, dialoghi, ormai seppelliti nell’oblio. Mi sono anche imbattuto in delle zone d’ombra, in quei piccoli nei che costellano la sua ricca produzione di regista. Ma gli eventuali pregi e difetti vanno rivolti al Roberto Faenza regista, soggettista e sceneggiatore? Al Faenza libertario e “rivoluzionario”, autore delle sue prime anarchiche e schioppettanti pellicole; al regista satirico che ha messo alla berlina DC e PCI; a chi (tra i primi registi italiani) ha avuto il coraggio di girare un film in America; all’autore più internazionale dei nostri registi, che ha diretto attori del calibro di Harvey Keitel, Max Von Sidow, Miranda Richardson, Kristin Scott Thomas, Keith Carradine, Daniel Auteil, Claudine Auger e i nostrani Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Laura Morante e Margherita Buy? Al regista che ha appena finito di girare un film interamente “americano”, con una galleria di grandi interpreti, tra cui due premi Oscar, Ellen Burstyn e Marcia Gay Harden, oltre a Lucy Liu, Peter Gallagher, Stephen Lang (il cattivo di Avatar), i giovanissimi Toby Regbo, Deborah Ann Wall e la nipote di Hemingway, la ventenne Dree? Al regista che si è avvalso della collaborazione di costumisti premi Oscar come Danilo Donati e Milena Canonero, di direttori della fotografia del calibro di Giuseppe Rotunno, Tonino Delli Colli, Blasco Giurato, Maurizio Calvesi, di autori di colonne sonore di prestigio come Ennio Morricone, Paolo Buonvino, Franco Piersanti e Andrea Guerra? Personaggio unico e complesso all’interno del panorama cinematografico italiano, Faenza ha avuto il merito di non appiattirsi mai su un filone e di sperimentare sempre nuovi percorsi. Dopo il successo di Escalation avrebbe potuto cavalcare l’onda del regista ribellista e post-sessantottino; dopo la bufera scatenata da Forza Italia! e Si salvi chi vuole vestire i panni del fustigatore della cor12


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ruzione e dell’imborghesimento della classe politica italiana; dopo i fasti di Prendimi l’anima diventare il contro-altare di Marco Bellocchio e proporsi come il regista più psicoanalitico del suolo italico. Faenza si è sempre sottratto alle mode, ai facili incassi al botteghino ed è sempre andato avanti, testardamente, per la propria strada, noncurante delle faziose e “programmate” stroncature da parte di una certa critica che lo attacca, ormai sistematicamente, all’uscita di ogni film. Per confezionare l’intervista presente nel volume ho incontrato Roberto nella sede della Jean Vigo, un luogo caldo e raccolto a due passi dal Colosseo, alle cui pareti campeggiano i manifesti dei suoi film più rappresentativi (compreso uno in giapponese de I Vicerè e quello de La vita è bella di Roberto Benigni, prodotto dalla preziosa e infaticabile Elda Ferri insieme a Luigi Braschi). Qua e là, tra gli scaffali delle librerie, qualche targa e i premi tra i tanti collezionati in carriera, tra cui spicca la candidatura del 2005 a miglior regista europeo per Alla luce del sole o il David di Donatello 1993 per Jona che visse nella balena. Questi riconoscimenti non sono stati messi in bella mostra per un vanitoso rispecchiamento narcisistico, ma solo come silenziosa testimonianza di un percorso artistico compiuto nell’arco di quarant’anni. Durante l’intervista si è concesso come non mai. È riandato con la memoria a degli avvenimenti del passato, rispolverato nomi e personaggi caduti ormai dimenticati e, soprattutto, ha accettato con grande ironia e professionalità le critiche e le annotazioni che gli ho rivolto. Come ha lui stesso sottolineato, si tratta di un autore difficile da inquadrare, un cineasta più amato dalle donne che dagli uomini, un regista che procede a zigzag e in qualche modo “imperfetto”. Il grande François Truffaut affermava: “I film respirano attraverso i loro difetti. Il capolavoro è irrespirabile.” E proprio per quelle scalfitture, crepe, disegualità ed “imperfezioni” che amo il cinema di Roberto.

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Intervista a Roberto Faenza

IS: Ripercorriamo insieme i tuoi primi passi nel mondo del cinema… Vieni a Roma fai il Centro Sperimentale... RF: Lo ricordo come un periodo un pò grottesco. Il Centro avrebbe dovuto essere una scuola con relativo carico di insegnanti, ma la disorganizzazione regnava sovrana. Pochissimi i docenti e quei pochi per lo più assenteisti. Diciamo che noi allievi eravamo lasciati soli. L’unica cosa che funzionava era la Cineteca e dunque il tempo veniva assorbito dalle proiezioni di film. Ovviamente del passato. I film del presente li vedevamo al cinema per conto nostro. IS: Ricordi qualche collega di corso? RF: Vittorio Melloni che poi si diede al teatro e morì tragicamente assassinato in circostanze mai chiarite. Stefano Silvestrini, che diventò poi un documentarista. Loro due erano i miei compagni di corso (allora gli allievi registi erano tre per anno). Poi c’erano gli allievi uscenti del corso precedente. Vittorio Saltini, che scelse la strada della letteratura (già allora scriveva su “L’Espresso”). Franco Brocani che diventò un regista “alternativo” negli anni Settanta. Carlo Morandi, considerato una specie di genio incompreso, di cui non ho più saputo nulla. IS: Hai iniziato con due cortometraggi... RF: Il primo corto l’ho scritto e diretto nel ’65, appena uscito dal Centro, quando avevo ventitre anni. Era un cortometraggio su alcuni giovani della Torino bene che d’estate in vacanza giocavano a fare la guerra. Stavo al mare (Finale Ligure dove mio nonno possedeva un albergo) e c’erano questi diciottenni un pò di destra che si esercitavano a simulare azioni di guerra. Dicevano di farlo per gioco, ma sotto c’era il desiderio di un’esercitazione reale. Il titolo del corto era La guerra bene. Impiegavano armi e bombe finte, un divertimento da squilibrati. Diciamo che il corto intendeva essere una critica di una certa gioventù borghese anni Sessanta. IS: Era un corto autofinanziato o allora c’erano dei produttori? RF: In quegli anni vigeva un sistema per cui i cortometraggi venivano distribuiti nelle sale cinematografiche prima dei film e ricevevano dei premi governativi, cioè finanziamenti piuttosto cospicui. Allora c’era un’industria fiorente del documentari. Ricordo che un pugno di produttori, per lo più agganciati ai carri democristiani e socialisti, si spartiva il mercato: la Documento film, Giorgio Patara, i fratelli Nasso. Quell’industria venne a crollare negli anni Settanta quando sono 15


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venuti meno i contributi. I primi a soffrirne furono soprattutto i documentaristi, che di colpo si trovarono senza committenti. Si spiega così la scarsa vocazione al documentarismo da parte della nostra industria, nonostante i molti talenti che avevamo e che si sono rifugiati a lavorare all’estero. IS: Il tuo secondo corto? RF: Lo realizzai l’anno dopo, prodotto dai fratelli Nasso. Era la storia di una ragazza, un pò ribelle e poco conformista. Non lo ricordo neppure bene, anche perché nel 1966 ero già immerso nella scrittura di quello che sarebbe stato il mio primo film, Escalation. Leopoldo Trieste, attore, regista, drammaturgo, grande amico di Fellini, si era prestato a recitare nel mio saggio di diploma al Centro Sperimentale (ispirato al racconto di Sartre, Erostrato) e mi presentò al produttore che aveva appena finanziato A ciascuno il suo di Elio Petri. Si chiamava Giuseppe Zaccariello e aveva fatto soldi, così dicevano, come industriale di ceramiche a Sassuolo, nel modenese. Ora aveva deciso di investire nel cinema. Trieste gli diede da leggere la mia sceneggiatura. Gli piacque. Decise di farmi debuttare. Budget del film cento milioni di lire. Fu il suo più grande successo, che gli consentì di produrre altri film, che però andarono tutti male. Peccato, perché i produttori di allora erano gente che rischiava in proprio. Per questo erano più liberi e coraggiosi di quanto non siano ora, visto che dipendono in gran parte dal finanziamento della televisione.

Escalation IS: Escalation è un film sarcastico, irridente che tiene ancora oggi magnificamente. È divertente, fresco, ironico. Rivedendolo mi sembra che hai voluto ridicolizzare un pò troppo Lino, il protagonista che appare, sin dalle prime battute, capriccioso, infantile e piagnucolone. Non mi convince la sua rapida trasformazione, in un uomo cinico e crudele, in un marito che, dopo aver scoperto il vero volto della sua amata, si sbarazza di lei senza alcun senso di colpa. Il passaggio tra il Lino sognante, angelico, innocente, ingenuo, in quello mi sembra troppo repentino. RF: È probabile, sì... Ma sai Escalation non è un film realistico, è quasi una favola. Da parte mia non c’è mai stata una grande empatia verso il suo protagonista, che per quanto puro e candido alla fine diventa pur sempre un assassino. Il film è anche un apologo se vuoi sul ’68, un movimento spontaneo, iniziato su basi pacifiste e neppure tanto politicizzato, che sotto il dominio dei cosiddetti gruppuscoli è diventato via via sempre più irriconoscibile e deviato. 16


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IS: Il titolo Escalation fa riferimento ad una scalata che coinvolge non solo Carla Maria ma anche lo stesso protagonista? RF: L’idea del titolo era nell’aria. Allora si parlava di escalation militare. Non dimenticare che l’idea del film fu partorita durante la guerra in Vietnam. Pensai che ci fosse una certa familiarità con la crescita del protagonista verso la violenza, ovvero verso la folle decisione di ammazzare la moglie. Così pure intendevo sottolineare la scalata di Carla Maria, che tradisce la fiducia di Luca, per allinearsi con il padre industriale (un insolito Gabriele Ferzetti). IS: La critica lo osannò. Pochissimi registi italiani hanno avuto un esordio così fulminante e il tuo film è stato paragonato ad altri due capolavori del cinema italiano di quegli anni: I pugni in tasca di Marco Bellocchio ed a Grazie zia di Salvatore Samperi... RF: È vero: il film ebbe un esordio come dici tu fulminante. Quando però rifiutai i premi, tra cui la Grolla d’oro a San Vincent, i critici che prima mi avevano osannato cominciarono a capire che non ero fatto di materiale maneggevole. Da allora cominciarono a guardarmi con sospetto. Grazie zia è venuto dopo Escalation. Il titolo del film l’ho dato io stesso a Salvatore Samperi, dopo averne scritto la prima versione del soggetto, anche se non compaio nei titoli. Samperi frequentava il Centro Sperimentale come uditore e nell’ultimo anno era diventato una specie di mio assistente, nel senso che mi aiutò a realizzare il saggio di diploma. Era cresciuto tra noi un rapporto d’amicizia e a un certo punto mi propose di scrivere un trattamento su una storia che lui aveva in mente, tra una zia e il nipote. A quel tempo mi guadagnavo da vivere scrivendo sceneggiature per terzi, in particolare per il produttore di Zorba il greco, il film con Anthony Quinn. Il suo nome era Anis Nohra. Mi faceva lavorare come “nero”, per abbozzare soggetti, sviluppare sceneggiature, etc. IS: Facevi il ghost-writer? RF: Sì, anche se nessuno di quei progetti venne poi trasformato in film. Samperi apprezzava i miei scritti e decise di affidarmi la scrittura del suo soggetto. Una volta terminato, si era anche messo in testa che dovessi interpretare io il ruolo del protagonista. Mi sono rifiutato non avendo nessuna capacità di stare davanti alla macchina da presa. Odio persino essere fotografato, figurarsi recitare. Samperi ci rimase male perché lo ritenne un atto di sfiducia nei suoi confronti. Per fortuna che la proposta si è fermata lì. Avessi mai accettato, il suo film sarebbe stato un disastro. La scelta successiva, Lou Castel, che tra l’altro frequentava il Centro con l’idea di diventare regista, è stata perfetta, anche se poi i critici rimprovereranno a Samperi di scimmiottare Bellocchio, che aveva appunto esordito con Castel protagonista. 17


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IS: Come mai non compari come soggettista di quel film? RF: Perché più tardi altri hanno scritto la sceneggiatura e se devo essere sincero non ero molto convinto della sua struttura. Allora ero molto pragmatico e il fatto che Samperi mi avesse retribuito, se ricordo bene, con circa trecentomila lire, era per me più che appagante. Basti pensare che vivevo con una borsa di studio mensile del Centro di cinquantamila lire e stentavo ad arrivare a fine mese. IS: C’è molto del film rispetto al tuo trattamento? RF: Ci sono parecchie cose, ma poi il film è diventato stoffa di Salvatore. Io mi sono limitato a mettere in forma di trattamento quello che lui raccontava. Aveva in mente questa storia, non sapeva bene come svilupparla. Io l’ho sviluppata e chiuso lì. IS: Ritorniamo a Escalation... RF: Il film ebbe un notevole successo sia commerciale che di critica, anche all’estero, specie in Inghilterra, Germania e in molti altri paesi, persino in America latina. Credo che nell’anno della sua uscita, 1968, sia stato tra i più grandi successi internazionali di un regista italiano. Per di più esordiente. Avevo allora 25 anni. IS: Perché dipinge il corpo di lei? Lei è morta... Un atto d’amore nei confronti di una donna che l’ha soggiogato e tradito, un prendersi cura di una donna di cui è ancora innamorato, del suo corpo? E la cremazione, un rito purificatore, a conferma che non la odiasse, ma che ne fosse ancora innamorato? RF: Perché la dipinge? Devo dire che sono sempre stato un pò naïf, poco strutturato e spesso più istintivo che razionale. In quegli anni avevo un amico pittore, anche lui torinese, Aldo Mondino (poi diventato tra i pittori più apprezzati della sua generazione). È probabile che sia rimasto influenzato da questa amicizia, come pure di un altro pittore che frequentavo, Mimmo Rotella, già allora ritenuto un grande della pittura contemporanea. Mi ammaliavano le immagini plastiche, i colori spinti, in definitiva l’anima della pop art, di cui apprezzavo soprattutto la rottura con l’arte tradizionale e il rapporto di odio-amore con la società industriale. Di qui, l’idea di affrescare il corpo della psicotecnica, un pò per ricordare il passato hippy del protagonista e allo stesso modo per effettuare una specie di sfregio nei confronti di chi lo aveva portato alla soglia della criminalità. IS: Come è nata l’idea della scena finale del film con il funerale sulla spiaggia sulle note della banda jazz in stile New Orleans? RF: Stavamo girando sulla spiaggia di Rosignano Solvay delle scene. La ricordo con quella sua sabbia quasi rosa e il mare colorato di azzurro per gli scarichi del18


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l’industria locale. Una mattina guardando le ciminiere fumanti alle spalle della spiaggia mi è venuta l’idea che quello scenario tipicamente postindustriale avrebbe potuto costituire una scenografia straordinaria per ambientarvi un funerale grottesco e beffardo all’insegna del fantastico. Come se non bastasse, decisi anche di impiegare una bara di ghiaccio, ultimo atto in vista della presa del potere da parte del giovane protagonista nei confronti della volontà paterna ormai piegata e sottomessa. IS: Nelle tue interviste del tempo sottolinei sempre l’uso del colore, una ricerca particolare... Cito testualmente: “Il colore è molto crudo, crudele, proprio di una società che aggredisce i sensi e l’intelletto”. RF: Sì, sono attento ai colori, alle presenza sceniche, alle forme e al significato delle ambientazioni. Penso che nei film che faccio c’è sempre una particolare attenzione alla presenza estetica. Alcuni, tra l’altro, me la rimproverano, come se questo tipo di ricerca fosse sinonimo di estetismo, il che a me proprio non sembra. IS: Il didascalismo, il calligrafismo, la leziosità… RF: Penso che il cinema debba essere soprattutto un piacere per gli occhi. In Escalation per esempio c’è un tipo di arredamento molto avveniristico, quel letto nuziale triangolare, le pareti della casa ultra colorate, il ruolo del design… Tutto ciò non lo vedo come calligrafismo, ma al contrario come una dominante della struttura narrativa. Mi sembra di ricordare che qualche critico, se non sbaglio Tullio Kezich, aveva accostato la forma del film al fumetto. Paragone pertinente. IS: La scelta degli attori? Lino Capolicchio non aveva fatto prima nessun film.. RF: No. Era stato scoperto dal mio produttore ed esordì insieme a me. In seguito venne promosso a protagonista da Vittorio De Sica nel film sui Finzi Contini, premiato con l’Oscar. IS: Claudine Auger è perfetta... RF: È arrivata all’ultimo momento. Avevo scelto una attrice svedese vista in un film di Ingmar Bergman. Non ricordo se fosse Liv Ullmann o Harriet Anderson, o forse Gunnel Lindblom. Fatto sta che l’attrice arriva a Tirrenia dove avevamo da poco iniziato le riprese del film. Il guaio è che ha appena partorito e porta i segni della gravidanza. Mi resi subito conto che in quelle condizioni non avrebbe potuto girare le scene di nudo che avevo previsto in sceneggiatura. Il produttore insisteva perché la trattenessimo, mentre io mi opponevo. Decisi di affrontare l’attrice e dirle in tutta sincerità il mio pensiero. Credo che la mia sincerità l’abbia convinta. Fu molto comprensiva e decise di tornare in Svezia senza con19


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seguenze contrattuali. A quel punto eravamo però senza attrice. Qualcuno, forse lo stesso produttore, propose allora un’attrice che aveva appena lavorato al fianco di James Bond, la francese Claudine Auger. Non sapevo chi fosse. Ma accettai di buon grado di incontrarla. Si rivelò subito molto simpatica e disponibile. IS: In un’intervista hai dichiarato: “Non credo che si possa far rientrare Escalation nel filone del cinema cosiddetto sessantottesco, almeno per i suoi contenuti. Io credo che l’intuizione più felice del film, sia stata quella di mettere sotto accusa quei gruppi di giovani come gli hippie, che venivano considerati allora i critici che contestavano il sistema… A che serve ritirarsi in campagna o coprirsi di fiori, lasciando poi immutato il potere e le distorsioni della società? (“La Repubblica”, 18 luglio 1981, da Gianni Volpi) Sei ancora d’accordo? RF: Convinto oggi più che mai. Troppo spesso nascono dei movimenti di contestazione che vivono solo il tempo di sfiorire precocemente. Succede specie con i movimenti studenteschi, che partono da rivendicazioni legittime e poi si disperdono perché incapaci di tenuta. Le conquiste importanti non si ottengono in tempi brevi. Lo slogan tutto e subito, tipico del ’68, ha poi partorito il mostro del terrorismo. IS: A chi venne l’idea del manifesto così osè per l’epoca? RF: Venne a me. L’immagine era tratta da un fotogramma del film. Dunque nulla di inventato. Ho sempre dato molta importanza ai manifesti, perché sono la prima cosa che gli spettatori vedono di un film. Un manifesto sbagliato può segnare il suo fallimento. Fu con il manifesto che iniziarono le mie schermaglie con la censura. Venne dapprima sequestrato, ovvero trattenuto dalla Procura delle Repubblica di Roma, poi dissequestrato e affisso per le vie di alcune città. Stessa cosa che accadrà poi con il manifesto di Forza Italia! Anche il film ebbe problemi con la Commissione ministeriale di censura, che pretese il taglio di una manciata di fotogrammi dalle scene di sesso tra Luca e la moglie. Una imposizione ridicola che la dice lunga sul bigottismo dei nostri censori. Hai presente Peppino De Filippo (attore sublime, sottostimato da una critica idiota) in quel grottesco episodio cinematografico di Fellini? Mi riferisco a Le tentazioni del dottor Antonio nell’episodio di Boccaccio ’70 del 1961, dove Peppino interpreta il ruolo del ragioniere moralista e bigotto, ossessionato dal sesso, fino a salire sul corpo gigantesco della donna e lì... IS: Ci sono sempre corpi femminili nei tuoi manifesti anche nei tuoi film successivi... Vedi Prendimi l’anima, Klara. È una scelta di mercato o è una tua scelta precisa? 20


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RF: Ti dicevo prima dell’importanza che attribuisco ai manifesti in quanto prima immagine che vede il pubblico. Anche ne I giorni dell’abbandono domina solo la figura femminile di Margherita Buy. Non solo non si tratta di scelte di mercato, anche se poi si rivelano vincenti, ma in genere gli uffici marketing preferirebbero altre immagini più adatte a chiarire se si tratta di un film drammatico oppure di una commedia, partendo dall’idea che è più importante definire il genere che il personaggio. Io penso invece che gli spettatori scelgano un film non per il genere che tratta, bensì per i personaggi con cui identificarsi. IS: Perché Escalation fu rieditato con il (brutto) titolo L’integrato sessuale. E quanti anni dopo? RF: Ho appreso questa cosa mentre vivevo in America e non ho idea di quando sia successo. Un titolo aberrante che la dice lunga sulla idiozia e la volgarità di chi commercia cinema. Potrebbe essere venuto in mente al produttore, ne era capace. Avrà pensato di imbarcare altri soldi invogliando a comprare il titolo la parte più becera del mercato. IS: È vero che in un primo tempo avevi offerto il ruolo di protagonista a dei cantanti? RF: Sì, in prima battuta a Gianni Morandi, che rifiutò. L’ho incontrato di recente e me l’ha ricordato, aggiungendo che non poteva accettare la parte di un assassino suo malgrado, lui che era l’emblema popolare del bravo ragazzo. Dopo Morandi pensai di offrire la parte al cantante italo-francese Antoine, che aveva appena lanciato la canzone Pietre. L’idea gli piaceva, ma le nostre date confliggevano con il suo tour. IS: Perché l’idea di un cantante? RF: Mi è sempre piaciuta l’idea di lavorare con una rockstar. Vedi la scelta di Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, per Copkiller.

H2S IS: L’ho visto solo oggi ma è un film inguardabile... RF: Concordo. Un film assurdo, frutto di una mente disturbata. Credo fossero le influenze negative del degrado del ’68 che agivano sulla mia mente. A mia difesa non posso opporre neppure che avevo solo 25 anni, pur essendo già al secondo film. Credo che il successo di Escalation, davvero enorme soprattutto perché inaspettato, mi avesse dato alla testa. Non ascoltavo nessuno, ero convinto di 21


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essere un genio. Il Signore giustamente mi ha punito. H2S fu un disastro. Costato un’enormità, venne sequestrato dopo pochi giorni dall’uscita. Ma già alle prime proiezioni il pubblico protestava. In alcune sale si spinse a chiedere i soldi del biglietto indietro, perché essendo l’inizio privo di dialoghi sembrava un film senza sonoro. IS: Perché il titolo? È un acido velenoso. È un riferimento alla corrosività della pellicola (penso alla scena dell’occhio tagliato con il rasoio in Un chien andalou di Buñuel)? RF: Sì, l’idea del titolo venne per indicare che si trattava di una storia corrosiva, come è appunto la formula chimica cui si riferisce. Magari fossimo all’altezza di Luis Buñuel... Qui ahimè si vola molto più basso, rasoterra. IS: Il film fu sequestrato. Dopo quanti tempo ritornò nelle sale? RF: Fu sequestrato pochi giorni dopo l’uscita in pubblico. E non tornò mai più in circolazione. Neppure come dvd. La ragione è semplice: sono stati tagliati dieci o quindici minuti del film dall’originale. Mi riferisco alle sequenze che corrispondevano ai capi di imputazione nell’ordinanza di sequestro. Trattandosi di “corpi” di reato e avendo la produzione “patteggiato” in sede processuale, queste sequenze non avrebbero potuto tornare in circolazione. IS: La cosa che più mi ha colpito è che tu ti sei arrabbiato per l’atteggiamento della critica che non ha difeso Forza Italia!, film di cui parleremo più in là e non perché ti abbiano appoggiato nei confronti di questo film. Vietato ai minori di anni 14, unico esempio in Italia di film dove non si vede neppure un centimetro di pelle, fu sequestrato appena uscì nelle sale e tolto immediatamente dalla circolazione. RF: Il film fu sequestrato dal giudice Vittorio Occorsio, poi ucciso da un gruppo di estrema destra. Occorsio ne ordinò il sequestro con una decina di capi d’accusa, devo dire davvero assurdi. In realtà il giudice aveva visto in H2S una pellicola eversiva di segno politico. Siamo alle spalle del ’69, con i fatti luttuosi di Piazza Fontana, le trame neofasciste, la nascita del terrorismo rosso. Effettivamente il film si chiudeva con il battito di una bomba a orologeria. Ma era un finale favolistico, come del resto l’intero impianto della storia. Nulla a che vedere dunque con le trame eversive di allora. Fatto sta che il film venne sequestrato, processato e mai più uscito in pubblico. Non esiste neppure più una copia intera, perché circa venti minuti, corrispondenti ai capi di imputazione del sequestro, non esistono più, caduti sotto le forbici della magistratura. Essendo corpi di reato, credo che se questi venti minuti ancora esistessero potrebbero essere sol22


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tanto negli scantinati del Palazzo di giustizia a Roma. Non li ho mai cercati perché è un’esperienza che preferisco dimenticare. IS: Dove avevi scelto l’attore protagonista? RF: Denis Gilmore. Lo avevo visto in un film inglese. Come pure l’altro protagonista, Lionel Stander, che avevo apprezzato in un film di Roman Polanski, Cul de sac. Cerco in Internet per scoprire dov’è finito Gilmore e apprendo che di recente è apparso in un film di successo We Want Sex, mentre Stander, che ha lavorato anche con Sergio Leone, è scomparso da qualche anno. IS: Un film assolutamente destrutturato. RF: L’ho appena detto: è il film di una mente spappolata. Intanto ha avuto una serie di vicissitudini già in produzione. Il capo della Paramount, Charles Blühdorn, si era invaghito di Escalation che aveva distribuito nel mondo con ottimi risultati. Aveva dunque deciso di finanziare il mio secondo film, dando carta bianca al produttore italiano, Gianni Hecht, senza neppure leggere la sceneggiatura. Grossolano errore. Sarebbe stato meglio mi avessero fermato, rendendosi conto che la sceneggiatura era inconsistente. Fatto sta che per realizzare il film mi sono trovato in mezzo a dei marpioni, che guadagnavano quanto più il film sforava nei tempi di lavorazione. Le parti invernali della sceneggiatura dovevano essere girate su montagne innevate. Alla fine di ottobre ci trasferimmo con tutta la troupe a Courmayeur, in Valle d’Aosta. Solo che la neve non c’era. I produttori italiani, invece di cambiare location, decisero di aspettare le nevicate. Passano i giorni, passano le settimane e di neve neanche un fiocco. Con la troupe in paga e la cinepresa ferma nel magazzino dell’albergo, credo sia trascorso un mese intero in attesa della neve. Finalmente arrivò alla fine di novembre. Una vera pazzia. Naturalmente la produzione, non sapendo come giustificare una simile follia, pensò bene di addossare la responsabilità a me. Come se un regista venticinquenne potesse decidere al posto della produzione di spendere fior di milioni. La Paramount pagava e quelli si arricchivano. Io intanto, aspettavo, privo del ben dell’intelletto. IS: H2S ha un apparato scenico sontuosissimo; lampadari d’epoca, costumi ricchi e sfarzosi… RF: Gianni Polidori, uno dei nostri grandi scenografi, aveva costruito delle scenografie avveniristiche, l’unica cosa buona del film. La trama era ispirata ad Alice nel paese delle meraviglie, dove Alice era un ragazzo sprovveduto capitato in una scuola dove regna l’ipertecnologia, la repressione e la ferocia. Un tentativo di discorso luddista, ma senza fondamenta. 23


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IS: La contestazione... RF: Devo dire che io stesso ero stato tra i protagonisti della contestazione sessantottesca. Pochi mesi prima di iniziare le riprese, ero stato premiato a Saint Vincent con la Grolla d’Oro per Escalation e con un gesto per quei tempi clamoroso l’avevo rifiutata, contestando premi, premiazioni e compagnia bella. H2S certamente risentiva degli influssi del tempo. Ne era un diretto discendente, ma senza spina dorsale. Pensando a quel film, la sola cosa che può avere senso è di osservarlo con la lente del sociologo. Era il perfetto esempio del velleitarismo di certi contestatori di allora, molti dei quali, avevano scelto la protesta come si dice “without a cause”. Non devo però essere troppo severo con me stesso, né dimenticare che una vena anarcoide ha sempre guidato il mio percorso, il che mi è sempre costata piuttosto cara. L’Italia non è paese per caratteri troppo individuali. Né per spiriti ribelli. È un paese fatto di clan, di consorterie, di conformismi. Chi non ne fa parte non può che aspirare all’emarginazione. Credo che con Forza Italia! prima, I Viceré poi e ultimamente anche con Silvio Forever tutto ciò sia piuttosto palese. Tutti film controcorrente che non piacciono all’establishment, ai salotti buoni e a certi circoli intellettuali.

Forza Italia! IS: Come nacque l’idea del film? RF: Insieme a un gruppetto di cineasti e giornalisti (Marco Tullio Giordana, Marco Bocca, Antonio Padellaro e Carlo Rossella, coordinati dalla produttrice Elda Ferri, che è anche la mia compagna e che definire geniale è dire poco) concepimmo l’idea di costruire un affresco su trent’anni di potere politico italiano a partire dal dopoguerra. Qualcuno ha detto che si trattava di un film contro la DC. È un errore grossolano, perché noi non prendemmo di mira solo la Democrazia cristiana, bensì un intero blocco dirigente, dai democristiani ai socialisti, come si può evincere da una delle scene più spettacolari del film, quella cena grottesca al Quirinale in onore di Richard Nixon offerta dal Presidente Giuseppe Saragat, mentre fuori la piazza grida e protesta contro la guerra in Vietnam. Non fu un caso se tutti i partiti, in primis la Dc, ma anche il Psi e lo stesso Pci, si scagliarono contro di noi con una violenza che non ha eguali nella storia del cinema italiano. La didascalia in alto al manifesto, Il film che i politici vogliono bruciare, si rivelò purtroppo vero. Forza Italia! non è stato solo il primo film di satira politica, ma anche innovativo sul piano del linguaggio. Per la prima volta fonti diverse, come brani di repertorio, spezzoni televisivi, filmati, interviste, materiali di archivio, venivano assemblati insieme per raccontare un terribile trentennio, 24


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sulla falsariga di quanto insegnano gli storici degli Annales che fanno storia a partire da fonti non tradizionali per raccontare la modernità. IS: Effettivamente visto con gli occhi di adesso, il film sembra più un film sull’Italia, sul costume che sulla DC. Lasci intendere, supporre, graffi, stuzzichi, mostri in maniera irriverente dei politici impresentabili, “brutti, sporchi e cattivi”, ma non li “sbatti in prima pagina”… È un film anche gustoso e non è “militante”… RF: Le immagini parlano da sé. Il film fu davvero di rottura: fino allora non si erano mai visti gli uomini politici in carne e ossa sullo schermo cinematografico, portati in primo piano nella loro miseria e scompostezza. Adesso li vediamo tutti i giorni a “Blob” o a “Striscia la notizia”, che in un certo senso molto hanno mutuato proprio da Forza Italia!, specie quanto a stile e tecniche di montaggio. Allora l’esito della nostra pellicola fu talmente prorompente da provocare una reazione che noi stessi non avevamo immaginato. Da una parte il pubblico accorse in massa a vedere il film, presagendo che potesse essere presto tolto dalla circolazione. Il che avvenne poi puntualmente dopo sessanta giorni dalla prima uscita in pubblico. Pensa che solo a Roma incassò più di Qualcuno volò sul nido del cuculo, con Jack Nicholson, premiato con una valanga di Oscar. Dall’altra parte tutti i giorni io e i due sceneggiatori (Padellaro allora scriveva sul “Corriere della Sera”, mentre Rossella lavorava a “Panorama”) venivamo attaccati sul giornale della Dc “Il Popolo”, sul settimanale “La Discussione”, ma anche su “L’Avanti” e persino su “l’Unità”. Arrivarono persino a scrivere che il nostro film era parente delle Brigate rosse, una cosa allucinante. Il rapporto conflittuale che ho maturato con la critica italiana è nato proprio in quell’occasione. Mentre i critici hanno difeso, giustamente, tutti i film censurati, da L’ultimo tango a Parigi alle pellicole di Tinto Brass, nessuno di loro ha scritto una riga sul sequestro di Forza Italia! Salvo citarlo per lo più a sproposito quando è uscito Silvio Forever, molti secondo me senza averlo davvero visto. IS: Ma Forza Italia! non è stato sequestrato? RF: Il film è stato tolto dalla circolazione la sera stessa del sequestro Moro da parte delle Brigate rosse il 16 marzo del 1978. Non si è trattato di una censura ufficiale, quanto piuttosto di un “sequestro bianco”. Molto probabilmente è successo che sia gli esercenti delle sale in cui il film era proiettato che le varie prefetture hanno avvertito il bisogno di ritirarlo dalla circolazione. Posso anche capirlo. Vedere il manifesto in cui campeggiava la figura di Aldo Moro e sapere che con i suoi colleghi di partito era tra i protagonisti della nostra satira poteva essere shoccante. Sta di fatto che per circa vent’anni il film non è più tornato in circolazione. Lo si è potuto rivedere solo nel 1993 grazie a Giancarlo 25


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Santalmassi, che ha osato programmarlo una domenica pomeriggio su Rai3 sfidando le ire della direzione Rai. Durante la messa in onda, il centralino della Rai andò in tilt per le centinaia di telefonate, la maggior parte di plauso. Non si era mai vista una beffa del potere così crudele in televisione. Il giorno dopo la DIA si recò in Rai e chiese di “sequestrare” il film, questa volta con fini non censori, perché voleva verificare se Giulio Andreotti, uno dei protagonisti di Forza Italia!, fosse stato inquadrato, durante una visita in Sicilia, a fianco di esponenti mafiosi. Il film è stato di nuovo dimenticato sino a pochi anni fa, quando prima Medusa Video e poi la RCS lo hanno rimesso in circolazione sotto forma di dvd. La RCS lo ha fatto uscire insieme a un libretto che ne descriveva tutte le vicissitudini subite nel corso di oltre trent’anni, con la prefazione di Gian Antonio Stella. IS: Ripensando a quel periodo, a quei giorni terribili del sequestro Moro, far circolare quel film poteva sembrare… RF: Offensivo per Moro… IS: Destabilizzante per lo Stato, un appoggio alle BR... RF: Infatti ci hanno accusati anche di quello. Ma era una sciocchezza. IS: Sei capitato in una situazione storica dove quel film non poteva più circolare per ragioni obiettive… In quei giorni non si sapeva lo Stato italiano che fine faceva... C’era anche il timore che dopo Moro avrebbero, che so, sequestrato Pertini o Zaccagnini. C’era il PCI, accusato di aver sempre mantenuto una posizione troppo morbida nei confronti della sinistra extraparlamentare… In Cile c’era stato Pinochet, in Italia non si era ancora sopito l’eco relativo al caso Sogno, al generale De Lorenzo e al golpe poi rientrato... RF: Sarebbe vero se gli attacchi al film fossero arrivati in seguito al sequestro delle BR, invece erano stati mossi già all’indomani dell’uscita in sala. Resta il fatto che dopo gli osanna scritti da tutta la critica italiana, non uno di loro scrisse più una riga per spiegare al pubblico le ragioni della sua scomparsa. Gli unici che ne parlarono con un certo stupore furono i giornali stranieri, dal francese “l’Express” al “Wall Street Journal” americano, che ne scrisse diffusamente in prima pagina. Una cosa simile non era mai successa. Credo che il dovere di cronaca implichi rivelare o per lo meno spiegare, non omettere. IS: Dopo che successe? RF: La cosa più grottesca di tutte, al limite dell’incredibile, fu che dopo l’unico a difendere il film fu lo stesso Aldo Moro! Quando due anni dopo la sua morte venne ritrovato nel covo di Via Monte Nevoso a Milano il memoriale autografo 26


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scritto di suo pugno, nelle ultime pagine si legge che proprio lui suggerisce di visionare Forza Italia! per rendersi conto della spregiudicatezza dei compagni di partito. Sembra un gioco dell’assurdo: il film viene ritirato per rispetto a Moro, mentre Moro stesso suggerisce di andare a vederlo. IS: Polemiche storiche a parte, il tuo film, rivisto oggi a distanza di tanti anni, sembra più uno sberleffo che un vero e proprio attacco alla DC. RF:. Ripeto: non era un film contro la DC, ma sulla degenerazione politica del paese, su un certo tipo di potere ormai allo sfascio. Viene fuori una banda di gente impresentabile. Aldo Moro chiese all’allora direttore de “La Repubblica”, Eugenio Scalfari, di ritirare il “tamburino”, cioè la sintesi della critica, estremamente lusinghiera scritta da Tullio Kezich. Una delle recensioni più acute la fece Fortebraccio su “l’Unità”, usando il termine “antropologico” per descrivere il valore del film. Come ti dicevo, mentre la base del Pci accolse il film come un atto di liberazione, i vertici lo attaccarono non meno dei democristiani. Non dimentichiamo che proprio in quell’anno si stava concretizzando il progetto del compromesso storico e dunque il Pci aveva tutto l’interesse a non infierire sul partner del nuovo matrimonio, la Dc. Oltre a Fortebraccio, che peraltro ci aveva anche aiutati a raccogliere materiali sulla Dc, lui che un tempo era stato democristiano, “l’Unità” arrivò all’assurdo di pubblicare due recensioni, una l’opposto dell’altra. La prima, firmata da Ugo Casiraghi, uno dei nostri grandi critici, definì Forza Italia! una pietra miliare nella storia del cinema. Il giorno dopo, da Roma, Aggeo Savioli scrisse invece che era un film fascista. Detto da uno stalinista ha il valore di un cruciverba. Da quel giorno “l’Unità” ha preso ad attaccarci non meno de “Il Popolo”. Maurizio Costanzo, che aveva programmato la messa in onda di alcuni pezzi del film nell’ambito di Bontà loro con una intervista a me, fu chiamato due ore prima della trasmissione e fu obbligato a cancellarci. Scrisse poi che fu l’unico caso della sua vita in cui subì una censura. IS: Quali altre critiche ti furono mosse? RF: Che nel film manca l’opposizione, ovvero la sinistra. In realtà mancava perché già allora cominciava a non essere più tale. L’idea del compromesso storico, che in parole povere significava mettere d’accordo maggioranza e opposizione, è a mio avviso quanto di più antidemocratico si possa immaginare. E difatti si sono visti i risultati… IS: Di chi era l’idea per il manifesto con la scritta “Il film che i politici vogliono bruciare”... RF: Fu un’idea di Marco Tullio Giordana, che ne aveva parlato con un pittore 28


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specializzato in cartelloni. Fu preso il quadro di Rembrandt, Lezione di anatomia e al posto del volto del cadavere furono messi i colori della bandiera italiana, con attorno i chirurghi di Rembrandt, ma con il volto dei nostri politici sorridenti. In cima al manifesto c’era Giulio Andreotti con un gran cappello nero e un paio di pinze in mano aperte sul corpo del cadavere. Più in alto ancora, campeggiava Aldo Moro, pensieroso. Il manifesto venne bloccato per una decina di giorni tra questura e Procura di Roma, pare per una denuncia anonima, poi per fortuna la denuncia fu archiviata. IS: Dove lo proiettasti per la prima volta? RF: Prima di uscire nelle sale ci fu un’anteprima a Firenze nel dicembre 1977 al Festival dei Popoli. Venne proiettato in un auditorium alla presenza di circa duemila persone, per lo più giovani. Appena sullo schermo comparvero i titoli di testa, “con la partecipazione straordinaria di”, ovvero dei nostri politici, ci fu un primo applauso. Poi fu un trionfo di risate e battimani continui. Il distributore allora decise di stampare una quindicina di copie e di uscire in una decina di città capoluogo. In pochi giorni le copie diventarono un centinaio e gli incassi del box office crebbero in misura esponenziale. IS: E la telefonata di Donat Cattin… RF: Era autentica, anche se qualcuno ci accusò di averla doppiata. Nessuno sa come potesse accadere che fosse stata registrata una conversazione telefonica così privata tra un ministro e il Presidente del consiglio. Allora non si parlava ancora di intercettazioni. Lo stesso Donat Cattin ci chiese di togliere la telefonata dal film, cosa che anche volendo ormai non potevamo più fare. IS: Al di là delle polemiche, credo che quello che resterà del film risiedono in alcune tue dichiarazioni di allora e che testimoniano l’originalità culturale dell’operazione. Cito da una tua intervista: “Forza Italia! non è un solo film di montaggio, come si pensa. È un film in cui i materiali che abbiamo reperito, il 90% circa, erano stati girati da altri, mentre una minima percentuale è stata girata da noi stessi. È semplicemente un preconcetto, un pregiudizio pensare che l’informazione originale sia l’informazione vergine. L’informazione tout-court è sempre elaborata. Per cui che io giri il mio film o che prenda dei materiali già girati, che poi comunque verranno rielaborati, è esattamente la stessa cosa. Erano filmati e spezzoni ripescati negli archivi dell’Istituto Luce o delle principali televisioni europee... ripeto: un’opera cinematograficamente innovativa sotto il profilo del linguaggio. L’idea era appunto di impiegare brani di materiali ‘morti’, cioè consegnati al passato, per rivitalizzarli, ovvero portarli a nuova vita nel ten29


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tativo di costruire un inedito affresco dell’Italia, una cavalcata irriverente nei meandri del potere”. RF: Devo aggiungere a proposito di questa citazione, che ho appena letto di George Lucas, che intende comprare i diritti d’immagine di alcuni attori defunti e farci un film. È la stessa idea di cui sopra. IS: Un’operazione che ha fatto per certi versi, alcuni anni, Bob Reiner con Il mistero del cadavere scomparso con Steve Martin… RF: Il mio sogno sarebbe quello di fare un film con Marilyn Monroe. Secondo me questo potenziale del cinema, riportare alla vita ciò che è morto, non è stato ancora sperimentato a fondo. In futuro, grazie alle nuove tecnologie, queste operazioni saranno all’ordine del giorno. Sarà stupendo dare vita a personaggi che non ci sono più e rivederli vivere di fronte a noi.

Si salvi chi vuole IS: Come è nata l’idea del film? RF: L’abbiamo realizzato contando sulla legge di finanziamento dell’Articolo 28. Avevamo fatto le domande per il finanziamento del film prima ancora che si abbattesse su di me l’onda censoria di Forza Italia! Si trattava di una storia sull’imborghesimento del Partito Comunista Italiano, che ha acuito ancor di più la mia “impoliticità”. Prima avevamo attaccato la Dc, adesso era la volta del Pci. Credo che più incosciente di così non si potesse essere, in un paese dove queste due chiese esercitavano sul paese un dominio pressoché assoluto, soprattutto in ambito culturale. E difatti ho pagato questa incoscienza col fatto che praticamente per vent’anni non ho più potuto realizzare film italiani. Dal 1978 al 1997 ho diretto solo film stranieri. Il mio primo film italiano dopo Si salvi chi vuole è infatti Marianna Ucria, appunto del 1997. IS: Si salvi chi vuole non è più in circolazione da tempo... RF: Non è in circolazione perché l’ha prodotto la Titanus di Goffredo Lombardo, che ha cambiato connotazione, passando dal cinema alla televisione. Si troverà una copia certamente in cineteca. Il film è un pò il pendant di Forza Italia! Lì c’era il ritratto della DC, qui compare un deputato del Pci di Bologna, al centro di una famiglia sgangherata. Nel contesto entra un personaggio “eversivo”, il fidanzato della figlia adolescente del deputato, che mette il coltello nella piaga di una evidente caduta di valori e di ideali. Una storia interessante, anche se realizzata solo a tratti. 30


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IS: La scelta di Claudia Cardinale, in un ruolo se vogliamo insolito rispetto a quelli che aveva interpretato fino ad allora? RF: Il nome della Cardinale l’aveva proposto Lombardo. Con lei aveva prodotto Il Gattopardo di Visconti mettendola al fianco di Alain Delon. Si salvi chi vuole è anche stato il mio omaggio al regista anarchico francese Jean Vigo, l’unico cineasta con cui mi identifico in pieno. Il finale con i cuscini lanciati in aria che devastano il salotto del deputato, le piume che volano al rallentatore, i ragazzi che fanno baldoria in sua assenza… si ispirano allo splendido finale di Zero de conduite di Vigo. Non a caso la società di produzione che dal 1978 ha prodotto tutti i miei film si chiama appunto Jean Vigo. Anche quella è una pellicola con parecchie ingenuità e certe asperità. A parte i limiti di struttura e di sceneggiatura, l’idea di mettersi contro i due moloch di questo paese, democristiani e comunisti, era di per sé un’azione suicida. E infatti... IS: Il rischio è l’accusa di qualunquismo…. RF: Chiamalo qualunquismo se vuoi, come direbbe Lucio Battisti. Ripeto la mia convinzione di sempre: l’immobilismo del nostro paese è dovuto proprio alla combinazione di queste due potenze, la cui associazione non consente margini di dissenso. Lo stesso mondo della cultura ne ha sofferto e ne continua a soffrire. Non sarà un caso se in Italia si producono così poche opere coraggiose sia al cinema che in letteratura. IS: C’erano allora delle condizioni storiche diverse rispetto a oggi e delle spiegazioni sul perché il partito di maggioranza e quello di opposizione erano diventati chiese… RF: Sì, ma anche oggi non manca la marginalizzazione di chi non ha un pensiero omogeneizzato. Certo godiamo di una maggiore e ben più diffusa libertà di informazione. Ma guarda cosa ci propina ogni giorno la televisione… IS: Fu un film che incassò, piacque alla destra, alla DC? RF: Non andò male, ma neanche bene. Certo non ebbe il successo di Forza Italia! E non mi sembra che sia neppure mai passato in televisione. IS: Oggi un film così non lo finanzierebbe più nessuno. RF: Le ragioni per cui il cinema italiano, secondo me è così debole, è perché non ci sono finanziamenti adeguati e soprattutto “liberi”. Il disagio del nostro cinema dipende dal fatto che deriva in gran parte dal finanziamento pubblico, vuoi di fonte televisiva o ministeriale. In America se fai i soldi puoi dire qualsiasi cosa. Michel Moore in Italia non credo proprio che potrebbe operare. Te lo immagini 31


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un regista italiano che fa un film contro il Presidente della Repubblica o contro il Papa? È vero che Sabina Guzzanti ha fatto dei film coraggiosi, ma li hai mai visti in televisione? IS: In Italia Sandro Tummolini ha diretto un film Un altro pianeta che è costato mille euro. Hanno recitato tutti gratis, dagli attori ai fonici… RF: Con mille euro non ci compri manco la pellicola…. Ma va bene, poi chi lo distribuisce? IS: Non ci sono i soldi per i passaggi televisivi e per quelli per i canali a pagamento? RF: Di solito SKY paga i film in base al box office sala. Se incassi che so 100, SKY ti paga il film 2 e così via. Quanto ti va bene, ma devi incassare molto in sala, arrivi a quattrocento-cinquecentomila euro per i diritti ceduti. Vuoi sapere come un film italiano viene finanziato? Supponiamo costi tre milioni. Un milione te lo dà il Ministero (se ha i fondi, cosa che oggi appare sempre meno probabile), un milione circa te lo dà la televisione (che compra il film a fronte dei diritti antenna), il resto può venire dai vari meccanismi di detassazione, dall’home video, da SKY, etc. Insomma devi faticare parecchio per racimolare quanto ti serve a produrre. Oggi poi queste cifre vanno sensibilmente diminuendo, solo in parte sostituite dai benefici del tax credit. Ovviamente questo discorso non vale per quel pugno di film, per lo più dei comici, che partono sicuri al botteghino. Ma si tratta di cinque sei film all’anno, quando va bene. In realtà questo sistema di finanziamenti, fortemente centralizzato (due sole concentrazioni televisive e due sole grandi distributrici nazionali costituiscono un regime di duopolio), fa sì che esista una forma di autocensura già prima di immaginare il film che vuoi realizzare. Parlo di autocensura perché gli autori e i produttori sanno che certe storie non le possono raccontare, pena di non accedere ai fondi dello stato o delle reti televisive. Il divo fa eccezione. Fare un film su un politico vivente, anche se fuori dai giochi come Andreotti, comporta comunque del coraggio. Infatti hanno rischiato per realizzarlo e la televisione, ad eccezione de La7, a tutt’oggi non lo ha comprato. Se questi sono i meccanismi produttivi, il problema non è più la censura, ma l’autocensura. L’autore conosce ciò che non è gradito allo Stato o alla televisione e dunque non lo propone perché verrebbe bocciato. In Francia invece c’è un sistema finanziario molto indipendente. Già trent’anni fa i francesi hanno messo in piedi una serie di finanziamenti di tipo pubblico gestiti in assoluta autonomia dal cinema, senza favoritismi o clientelismi. In Italia i politici hanno pensato bene di istituire un sistema rigido di controllo. La verità è che quando non c’è autonomia finanziaria non c’è neppure libertà. 32


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IS: Come mai nel film compare il prof. Celli nel ruolo di psicologo? RF: Abbiamo girato il film a Bologna e in quell’occasione ho conosciuto Giorgio Celli, un personaggio pieno di forza vitale e senso dell’ironia. Mi sembrò perfetto per quel ruolo.

Copkiller IS: Come hai scovato Hugh Fleetwood, un autore in Italia abbastanza sconosciuto? RF: Dopo Forza Italia! mi sono trovato in una situazione di non poter più lavorare in Italia. Il film suscitò una reazione talmente virulenta da parte sia del potere politico che televisivo da non lasciarmi spazio per trovare finanziamenti e realizzare nuovi progetti. Diciamo che mi sono ingegnato e ho dovuto far di necessità virtù. Non potendo lavorare in Italia, ho cominciato a cercare soggetti da girare all’estero. Conoscevo Fleetwood, un giovane scrittore inglese, perchè insegnava a Roma. Si era fatto vivo con la nostra casa di produzione per proporci un altro romanzo molto interessante, ambientato tra l’Italia e l’Inghilterra. Titolo: The Girl Who Passed for Normal. Poi leggemmo un altro suo romanzo The Order of Death e piacque parecchio a tutto il nostro gruppo. Intanto mi sembrava un buon noir, mi attirava l’idea di cimentarmi con un tipo di film molto diverso da quelli fatti sinora. A tutto ciò aggiungi che, avendo vissuto alcuni anni in America (ho insegnato dal 1969 al 1973 al Federal City College di Washington, D.C.), la proposta di girare il mio primo film americano non poteva che conquistarmi. Il fatto che fosse ambientato fuori dall’Italia, nella fattispecie a New York, avrebbe inoltre permesso di scavalcare la condizione censoria. Un buon progetto per uscire dall’impasse nella quale ero scivolato mio malgrado. IS: Con questo film ti cimenti per la prima volta su un thriller. Non sposi però gli stilemi e i codici iconografici del genere, ma sembri più interessato alla storia che al modo con cui illustrarla. Non costruisci un percorso visivo, tipico del thriller e mostri l’assassino nelle prime battute... RF: Questa storia del genere... A parte che non ho mai capito cosa significhi davvero. Non credo di aver mirato a un genere preciso. Ho semplicemente raccontato una storia con delle parti oscure, in parte drammatica, in parte dominata da un plot pieno di mistero. IS: È certamente il film più cupo, malsano, senza speranza che hai diretto nella tua carriera. I protagonisti sono fortemente disturbati e autodistruttivi... Per 33


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amplificare l’effetto claustrofobico hai girato questa specie di incubo dai risvolti ossessivi nell’appartamento di Fred. Come mai è vuoto e non è abitato? RF: Perché i due poliziotti l’hanno comprato come investimento. Poi uno dei due comincia a vederlo come un rifugio dal senso di colpa. Allora il loro sodalizio comincia a incrinarsi. È abbastanza tipico dei poliziotti corrotti di New York investire in attività immobiliari. Comprano e rivendono cinque anni dopo guadagnando un bel pacco di quattrini. IS: Come mai Leo per mesi si mette sulle tracce di Fred, il poliziotto corrotto, lo punta, lo spia? Se Fred è un poliziotto “corrotto”, “cattivo” e “senza scrupoli”, quando comprende che il ragazzo vuole incastrarlo, perché non si sbarazza di lui? Trovo poi confusiva la relazione omosessuale tra Fred e Bob... RF: Relazione omosessuale? Mai pensato a qualcosa del genere. Devo però dire che spesso a noi registi manca il “terzo” occhio, quello dello spettatore. Se tu hai visto nella loro relazione qualcosa di torbido, vorrà dire che dei segnali ci sono. IS: Ma è la stessa Nicole Garcia che lo esplicita a Fred e glielo chiede… RF: Lei glielo chiede perché non si spiega come mai i due poliziotti, Fred e Bob, sono così uniti. Ovviamente nulla sa dell’appartamento, né della loro corruzione. Ripeto: tieni presente che quello che pensa il regista non sempre è quello che pensa lo spettatore. Le obiezioni che fai con il senno di poi mi sembrano aver senso. È vero, quadrano. Non si capisce perché il ragazzo abbia puntato il poliziotto. Dove lo ha scovato? Come fa sapere dell’appartamento segreto? Non so rispondere. È probabile che nel film ci siano dei punti neri. Perché no? Nulla è perfetto. IS: È un film totalmente al maschile... RF: Direi di sì. Le poche donne presenti sono piuttosto secondarie rispetto ai due protagonisti. Qui devo aprire una parentesi sulla mia stessa psicologia, ammesso che la conosca davvero. Questa nota ha a che vedere con il rapporto relativo ai personaggi femminili, ma non solo. Diciamo subito che il mio percorso cinematografico è tutto meno che lineare. Nel cinema ci sono autori che raramente sbandano dalla propria strada, vedi Fellini, Antonioni, Visconti, tanto per fare qualche nome. E ci sono registi che procedono a zig zag, ovvero che fanno film molto diversi uno dall’altro. Penso a Stanley Kubrick, che passa dal dramma alla commedia, al grottesco, al noir, al film in costume. Ecco, senza volermi paragonare a maestri simili, appartengo a questa seconda scuola. Procedo sulla retta storta, se mi è consentito un ossimoro. Posso spiegare questa mia forma mentale citando il brano iniziale de I Viceré (nella versione delle due puntate tv, diversa da quella della versione per il cinema), quando il protagonista, per definire la sua 34


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psicologia, dice che sente un tumulto dentro di sé, come se in lui convivessero più persone in conflitto tra di loro. In questo viaggiare zigzagando, compiere scelte spesso contraddittorie, può accadere che nei miei film una volta le figure femminili siano marginali e un’altra volta appaiano invece dominanti e centrali. Devo dire che questa mia tendenza a svicolare e a sbandare probabilmente costituisce la ragione per cui una certa critica mi osserva con sospetto. Quando di una persona non si capiscono bene i contorni, è inevitabile che nasca la diffidenza, se non il rifiuto. Tu hai fatto questa sottolineatura sulla dominanza maschile di Copkiller. Hai ragione. La tua osservazione mi fa distinguere almeno due periodi che attraversano il mio lavoro. Come nel campo della pittura, anche i film possono appartenere a periodi diversi, a volte addirittura contrastanti. Effettivamente, guardando ai film che ho diretto nel corso di questi anni, le figure femminili passano da una connotazione quasi misogina (è il caso di Escalation e H2S) a una presenza dominante. Vedi Prendimi l’anima oppure I giorni dell’abbandono, oppure ancora Marianna Ucria, tutte pellicole dove le donne emergono come protagoniste assolute e i maschi appaiono deboli, meschini, subordinati, incapaci di passioni. Come dice Sabina in Mio caro Dr. Gräsler, uomini incapaci d’amare. Questa dicotomia nei confronti della donna è ben presente in tutto il cinema italiano. Sino a Riso amaro di Giuseppe De Santis possiamo affermare che la donna è più che altro un corollario. Con De Santis la donna del cinema italiano spezza le sue catene e comincia un percorso da protagonista. Ma poi nella commedia all’italiana, dove dominano i mattatori maschi, da Sordi a Gassman a Tognazzi, torna secondaria e ancillare. Lo stesso Marco Ferreri in un primo periodo fa un cinema piuttosto misogino, per poi cambiare radicalmente rotta. E anche Fellini nella sua immaginazione visionaria identifica la donna come un oggetto di desiderio, distante, irraggiungibile. Vedi Anita Ekberg, che scivola via di continuo ne La dolce vita. Ho fatto questa digressione per chiarire il senso della contraddizione presente nel mio cinema. Volendo dare una data al cambiamento di percorso, la situerei verso il 1990 quando realizzo Mio caro Dr. Gräsler e poi soprattutto qualche anno dopo, quando passo a dirigere Jona che visse nella balena, con quello stupendo personaggio che è la madre di Jona, la quale aspetta di mettere in salvo la sua creatura e subito dopo impazzisce. IS: Come sei giunto alla scelta di Harvey Keitel? RF: È un attore forse più amato in Europa che in America. Mi aveva molto colpito ne La morte in diretta di Bertrand Tavernier. Ricordo ancora che ho visto quel film al cinema Metropolitan di Roma insieme alla mia produttrice Elda Ferri e subito abbiamo trovato in lui l’interprete ideale per Copkiller. Siamo riusciti a contattarlo, gli è piaciuta la storia, siamo volati a New York per incontrarlo. 35


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Lavorare con lui non è stato facile. Keitel appartiene a quella categoria di attori che seguono il metodo dell’Actors Studio. Oggi ne è co-presidente insieme ad Al Pacino e Ellen Burstyn (quest’ultima è tra i protagonisti del film al quale sto lavorando ora, ispirato al romanzo di Peter Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile). Nell’Actors Studio ci sono due tipi di attori: uno è ortodosso, usa il metodo e da quello non deroga. Poi ci sono quelli che credono nel metodo, ma sono più elastici. Harvey appartiene al primo tipo. Per esempio, dovendo interpretare il ruolo di un poliziotto, è stato parecchi mesi in un distretto di polizia a “imparare” la parte. Entrare in un ruolo a partire dalla realtà è alla base del metodo. Harvey usciva in pattuglia con i veri poliziotti e alla fine era quasi diventato uno di loro. Al punto che sul set si sarebbe sentito davvero poliziotto solo se avesse avuto la pistola con il corpo in canna. Per un regista il problema di lavorare con questo genere di attori è che ti chiedono in continuazione spiegazione su tutto, anche sui minimi particolari. Vuoi che vadano dal salotto alla finestra? Bene, loro vogliono sapere perché. Magari tu hai deciso così solo perché è comodo per la macchina da presa. Se non sai dargli una spiegazione razionale, quelli non si muovono. Tutto ciò pone il regista in una posizione “scomoda”. Devi trovare a tutto una spiegazione, una motivazione, una ragione. E non è facile. Tanta era la mia preoccupazione, il nervosismo e le mie crisi d’ansia sul set, che quando ho finito di girare il film avevo perso i capelli. Essere attore “Actors Studio” comporta qualche problema anche per gli attori che lavorano al suo fianco e che non seguono lo stesso metodo. Sia Nicole Garcia che Sylvia Sidney, le altre interpreti di Copkiller si irritavano quando Harvey si impuntava su qualcosa o durante le estenuanti discussioni con me. Un giorno la Sydney, un mito della Hollywood del passato (era stata la protagonista di Fury diretto da Fritz Lang e di Sabotage diretto da Alfred Hitchcock), prese in disparte Keitel e con il sarcasmo di cui era capace gli chiese a bruciapelo: “senti un pò Harvey, ma secondo te se devo interpretare il ruolo di una puttana dovrei prima andare a battere sul marciapiede”? IS: E la scelta di Johnny Rotten? RF: John Lydon, più noto come Johnny Rotten, il fondatore dei Sex Pistols insieme a Sid Vicious, fu la vera rivelazione del film. Keitel mi aveva presentato a Bonnie Timmermann, “casting director” di molto film famosi (oggi è anche produttrice). Aveva accettato di aiutarci nella scelta degli attori che mancavano a completare il cast. Devo dire che prima di allora non sapevo neppure che cosa fosse il cast director. Da noi questo genere di lavoro lo faceva di solito lo stesso regista insieme al suo aiuto. In America invece, dove gli attori sono a migliaia, la figura esisteva già da tempo e nessun film poteva farne a meno. Fatto sta che Bonnie, letto il copione, propose subito Johnny Rotten, di cui io ignoravo l’esi36


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stenza, non essendo mai stato un patito di quel genere di cantanti. Le chiesi perché aveva pensato al leader dei punk. Rispose che era perfetto per il ruolo: un ribelle, un irregolare, un ragazzo che non usciva di casa e trascorreva le ore a guardare la televisione. Rotten era l’idolo di una folla di giovani e aveva fama di personaggio intrattabile. In passato gli avevano proposto vari ruoli che lui aveva sempre rifiutato. Per cui parve improbabile che volesse accettare ora con un regista italiano sconosciuto. Invece si innamorò del suo ruolo, anzi disse che era tagliato su misura per lui e accettò senza indugio. A quel punto nacque un primo problema: le compagnie si rifiutavano di assicurarlo durante la lavorazione del film. Il suo compagno della band, Sid Vicious, si era appena suicidato con la sua compagna in una stanza del Chelsea Hotel di New York (dove tra l’altro alloggiavo proprio io) e le assicurazioni temevano che Rotten potesse fare chissà cosa. Una banda di drogati, questo pensavano. Decidemmo di dare fiducia a Johnny e iniziammo lo stesso il film senza copertura assicurativa. Il che per le regole di una produzione è cosa del tutto inconsueta, parecchio rischiosa. Rotten ripagò la fiducia con una condotta esemplare. Si dimostrò un ragazzo intelligentissimo, pieno d’ironia e di sarcasmo. Sul set non ha mai creato dei problemi, non ha mai disertato una sessione, mai arrivato in ritardo. Un solo neo: ruttare in continuazione forse per la troppa birra che ingoiava. Una sera fummo invitati a cena da Martin Scorsese (grande amico di Keitel, con cui aveva girato sia Mean Streets che Taxi Driver) e portammo con noi anche Rotten. So che in seguito Scorsese propose un ruolo a Johnny ma, incredibile a dirsi, lui rifiutò. Copkiller (questo il titolo italiano, mentre in America è uscito come Corrupt e in Inghilterra con lo stesso titolo del romanzo cui è ispirato, Order of Death) ebbe una notevole diffusione in tutto il mondo, specie in America, Inghilterra e soprattutto Germania. Poca visibilità ebbe invece da noi, perché la società che lo distribuiva qui, la Gaumont Italia allora guidata da Renzo Rossellini aveva appena chiuso i battenti, lasciando il cinema italiano in crisi (come al solito). Ancora oggi il film è ritenuto una specie di cult, soprattutto per la presenza di Keitel, ma forse ancor più di Rotten, che continua a essere molto amato dai giovani. Devo aggiungere che ho girato Copkiller a New York tra il 1982 e il 1983. Che differenza tra l’America di allora e quella di oggi! Il mio secondo film americano l’ho appena finito di girare e siamo tra il 2010 e il 2011. Allora sedeva alla Casa Bianca il repubblicano Ronald Reagan. Oggi siede il democratico Obama. Allora l’America era un paese in piena espansione economica, oggi batte in ritirata. Allora la Cina era davvero distante e l’America poteva guardarla con sufficienza dall’alto della sua supremazia. Oggi la Cina possiede l’intero debito degli americani, che se non stanno attenti rischiano di fallire. Durante la lavorazione di Copkiller ho anche avuto il mio primo incontro-scontro con i sindacati americani. Fortissimi nel 37


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difendere i loro associati, ma durissimi nell’escludere i precari, sono una vera piaga per una produzione straniera non abituata a una miriade di regole e divieti ai quali in Europa non siamo abituati. Nel corso degli anni sono diventati ancora più restrittivi. Ne parlo per esteso nel diario americano in fondo a questo libro. IS: La scelta di Silvia Sidney... RF: Ho sempre avuto l’ambizione di avere nei miei film i divi del passato. La Sidney era una specie di monumento del cinema di Hollywood, avendo fatto la protagonista con registi del calibro di Alfred Hitchcock e Fritz Lang. La stessa ambizione che ho cercato di appagare nel film americano al quale sto lavorando ora. Anche in questo caso si è trattato di scegliere una grande vecchia. Sono stato incerto tra Lauren Bacall e Ellen Burstyn. Io avrei scelto la Bacall, il cui agente letto il copione ci ha subito chiamato entusiasta. Poi la mia casting director, Avy Kaufman, si è battuta per la Burstyn. La trovava più giusta per il personaggio. E mi ha convinto. IS: Per Copkiller ha lavorato alla sceneggiatura Ennio De Concini, uno degli sceneggiatori più prolifici del cinema italiano, premio Oscar con Divorzio all’italiana di Pietro Germi. Spesso i registi lavorano in coppia per anni con lo stesso sceneggiatore; Zavattini e De Sica, Age & Scarpelli con Monicelli, Ugo Pirro ed Elio Petri. Tu ti sei sempre affidato a numerosi scrittori e sceneggiatori: da Fleeetwood a Tabucchi, ad Andrea Porporati a Giampiero Rigosi ai fratelli Gentili a Sandro Petraglia... RF: La verità è che in Italia, fino alla fine degli anni Settanta abbiamo avuto davvero dei grandi sceneggiatori. La generazione dei Suso Cecchi d’Amico, Rodolfo Sonego, Ennio Flaiano, Tonino Guerra… si sono praticamente esauriti con l’epoca di Visconti e di Fellini. Credo sia questa la ragione per cui a partire dagli Anni Ottanta pochissimi nostri film hanno avuto una sceneggiatura degna di quei maestri. I nostri film cosiddetti d’autore sono quasi sempre scritti dal regista, magari associato a qualche sceneggiatore. Cosa che non capita quasi mai in America, dove la scrittura per il cinema è un mestiere praticato dal fior fiore di scrittori. Quando un regista si mette in testa di scrivere anche il copione a mio avviso cominciano i guai. E infatti passando le nostre pellicole alla radiografia, appaiono per lo più carenti sia dal punto di vista drammaturgico che, soprattutto, nei dialoghi. Se metti a confronto un nostro copione con uno americano ti accorgi della loro abilità nello scrivere i dialoghi e della nostra debolezza. Là il dialogo è una lingua parlata, immediata, come la senti parlare ogni giorno al bar, in ufficio, a casa, per la strada. Da noi hanno la pesantezza della letteratura, sanno di scritto a tavolino, se non di bizantinismo o peggio di fumisteria. Geni del cine38


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ma come Fellini, Visconti, Antonioni, Leone, Germi… partecipavano alla scrittura del copione, ma non scrivevano. A scrivere erano Tonino Guerra, Suso Cecchi d’Amico, Enrico Medioli, la coppia Benvenuti e De Bernardi, lo stesso De Concini... Poi siamo venuti noi, qualche generazione dopo. E abbiamo cominciato a voler scrivere da soli o al più con qualche collaboratore. Da una parte, secondo me, la nostra pretesa “autorialità” ha reso più debole l’impianto drammaturgico dei film, dall’altra ha fatto sì che molti scrittori di cinema si siano rivolti altrove: alla televisione, oppure a firmare racconti e romanzi. La televisione li pagava meglio e più a lungo, specie per le serialità. E la letteratura gli procurava quel prestigio che non si acquista con le sceneggiature. Questo venir meno di una preziosa collaborazione tra due professioni tanto diverse, scrivere e dirigere, ha indebolito la nostra produzione. L’ha resa più monoteista (il dio regista), meno aperta alla realtà. Inoltre il rarefarsi della categoria di sceneggiatori di cinema ha fatto sì che quelli bravi siano sempre di meno e quando un regista si accorge che non può farcela da solo non sa più a chi rivolgersi. Io stesso, quando devo progettare un film, non so mai chi chiamare. Così spesso mi arrangio da solo, salvo poi invitare a collaborare quei pochi che trovi liberi. Oggi i bravi li contiamo sulle dita di una mano. Una volta erano decine, uno più abile dell’altro. Prendiamo il caso di Hereafter, di Clint Eastwood. Ogni volta che vedo un suo film, mi chiedo come ha fatto un ex attore cowboy a diventare un genio del cinema. La sceneggiatura di Hereafter, film stupendo, è un capolavoro di perfezione, scritta dallo sceneggiatore drammaturgo britannico Peter Morgan. Ecco ditemi: dove lo troviamo in Italia uno sceneggiatore così? Se ci fosse lo scritturerei a vita. IS: Tu parli di dialoghi? RF: Nei dialoghi siamo davvero mal messi. Come pure nell’impianto delle storie. IS: Vuoi dire la struttura… RF: La struttura, le componenti della storia, il suo evolversi, la definizione dei personaggi, la loro personalità. Insomma scrivere una sceneggiatura non è un’arte che un artista può fare da solo come un bricolage. È un mestiere. Richiede esperienza, allenamento, pratica continua, un sano rapporto con la quotidianità. IS: È vero che Abel Ferrara ha copiato a mani basse Copkiller per il suo Il cattivo tenente? RF: Somiglianze ce ne sono, sì. Del resto tieni presente che il suo poliziotto è lo stesso Keitel che ha interpretato quella parte la prima volta con me. Una sera apro la televisione e vedo Keitel in bagno prendersela con la sua vittima. Che strano, penso, non sapevo che ci fosse Copkiller in televisione. Era il film di 39


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Ferrara. Stesso interprete, stessa azione, stesso ambiente, stessi colori. Del resto, ho letto una sua intervista in cui citava il mio film. Lungi dall’essere geloso, la cosa mi ha fatto piacere. Tutti noi dobbiamo qualcosa a qualcuno. Nessuno inventa da zero. Basta pensare agli influssi esterni dell’intera opera di Shakespeare... IS: Ho letto che la traccia musicale che ti era stata proposta da Johnny Rotten è stata poi utilizzata nove anni dopo nel film Hardware di Richard Stanley.. RF: Non lo sapevo. Come diavolo fai a scoprire tutte queste cose! Johnny aveva preparato una traccia per qualche musica, poi Ennio Morricone, che era il musicista del film, disse di no e non le abbiamo usate. IS: Il cinema americano ha colonizzato il nostro inconscio, dice Wim Wenders. Questa sembra perfetta per spiegare Copkiller... RF: È piuttosto vero. Nessuno può sottrarsi all’influenza di quel cinema, anche se sarebbe preferibile non lasciarsi troppo condizionare dai colonizzatori. IS: Come hanno accolto in America un regista italiano che gira negli States. Prima di te, credo sia stato solo Antonioni con il suo indimenticabile Zabriskie Point a lavorare con attori americani? RF: Non ho avuto difficoltà. Eccetto qualche problema sindacale, come dicevo prima. Tieni presente che in America gli italiani sono molto apprezzati e amati. Ci ritengono più avanti di loro non solo nella moda e nella cucina, ma anche nelle arti, nel design e persino nel cinema (più del passato che, ahimè, del presente).

Mio caro Dottor Gräsler IS: Il film è tratto dal racconto di Schnitzler, Dottor Gräsler, medico termale. Perché è stato aggiunto nel titolo quel “Mio caro”? RF: Il titolo originale del film, che ho girato in inglese, è The Bachelor, lo scapolo. La versione italiana prende spunto da una lettera che Sabina, la giovane donna che Gräsler avrebbe dovuto sposare, gli invia al termine di un tormentato fidanzamento. La lettera inizia appunto con “Mio caro Dottor Gräsler ”. Perché ho scelto Arthur Schnitzler, un autore così lontano da noi? Perché è uno scrittore che ha una complessità, un impianto drammaturgico e una visione psicoanalitica che mi ha sempre affascinato. Dai suoi racconti erano stati tratti vari film. Il più bello probabilmente La ronde di Max Ophüls, del 1950. Sapevo che Stanley Kubrick aveva acquistato i diritti di Doppio sogno, da cui anni dopo avrebbe trat40


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to il suo ultimo film, Eyes Wide Shut. Come è noto anche Sigmund Freud era un grande ammiratore di Schnitzler. Eppure i due, pur vivendo in quel periodo nella stessa città, Vienna, non si sono mai voluti incontrare. Come se uno, incontrando l’altro, si rispecchiasse troppo profondamente in se stesso. Pensando al film mi viene in mente un episodio buffo. Nella fase di ricerca dei finanziamenti inviammo la sceneggiatura alla Paramount. Ci sbellicammo dalle risate quando il lettore americano rispose che si trattava di un copione interessante, ma non era del tutto convinto della sua struttura. E ci chiese cosa ne pensasse l’autore del racconto. Rispondemmo con educazione che, ahimè, il signor Schnitzler era morto da circa 60 anni, per precisione nel 1931. IS. Credo sia uno dei tuoi film migliori che fa da perfetto contraltare a Copkiller; grandi spazi, un protagonista fragile ed indeciso, melanconico, fermo, bloccato, incapace di prendere contatto con le proprie emozioni tutto l’opposto dell’eroe corrotto e malsano del tuo film precedente. L’indecisione che attanaglia il dottor Gräsler mi rimanda, per certi versi, ai protagonisti de L’uomo che non c’era di Joel ed Ethan Coen e anche a Quel che resta del giorno di Ivory... RF: Il tema dell’indecisione dei maschi compare in molti miei film, anche in Prendimi l’anima. In quel film, che io amo più di tutti, Carl Gustav Jung appare con una personalità molto simile a quella del dottor Gräsler. Sono entrambi indecisi, timorosi nei confronti della passione, incapaci di amare, come appunto rimprovera Sabina al medico delle terme. Con Mio caro Dottor Gräsler , ormai “lanciato” dal buon esito internazionale di Copkiller e dimenticata, al pari del nostro sommo poeta, l’Italia, “non donna di province ma bordello”, cominciai a battere bandiera straniera. Trovammo un produttore coraggioso, Mario Orfini, lo aiutammo a raccogliere i finanziamenti necessari e mettemmo in piedi un cast davvero eccellente: Keith Carradine (lo avevo apprezzato come attore e cantante scoperto da Robert Altman), Kristin Scott-Thomas (in seguito molto apprezzata sia in Europa che a Hollywood), Miranda Richardson (certamente la più estrosa attrice inglese molto apprezzata da Spielberg), Max von Sydow (insieme a Mastroianni l’attore più generoso che ho incontrato), Mario Adorf (contava le pagine del copione e si lamentava che il suo ruolo ne aveva meno di Max von Sydow). Orfini che veniva da vari successi tutti italiani, con Renzo Arbore, Luciano De Crescenzo e Roberto Benigni, ebbe la felice intuizione di affiancarmi due premi Oscar: Peppino Rotunno (il direttore della fotografia di Visconti e Fellini) e Milena Canonero (allora premio Oscar per i costumi di Barry Lyndon, ne avrebbe poi vinti altri due). Il film venne girato interamente in Ungheria. È forse il film più fastoso e costoso che ho girato sinora.

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IS: Gräsler sembra un personaggio simile ad Adolphe, il protagonista dell’omonimo romanzo di Benjamin Constant. C’è qualche correlazione con quel romanzo? RF: Non conosco il romanzo di cui parli. Adesso che me lo dici vado a cercarlo. IS: Dopo la parentesi americana di Copkiller, ti riallacci alla grande tradizione della cultura europea e ti metti in contatto con un grande perlustratore dell’inconscio come Schnitzler. In una tua intervista hai dichiarato: “Con Sostiene Periera sono diventato vecchio, in Jona un bambino…”. Mi chiedevo come mai eri passato dalle atmosfere cupe di Copkiller a quelle più ovattate di Gräsler. RF: Come sai sono di origine ebraica, al pari dello stesso Schnitzler. Mia madre è ebrea e per quanto io sia non credente, ho certamente mutuato da lei influssi di quella cultura. Con Gräsler ho probabilmente cominciato quel percorso d’affinità con la storia ebraica. Dopo è venuto Jona che visse nella balena, L’amante perduto, Prendimi l’anima, tutti film che hanno a che vedere con la storia ebraica più o meno recente. Devo dire che se non me lo facessero notare gli altri, io neppure ci penserei che sono storie di ebrei. Le ho scelte perché mi interessavano in quanto storie. Poi se rifletto, devo ammettere che non sarà stato un caso se sono anche storie di matrice ebraica. Se ci penso però, credo che si tratti di una affinità più inconsapevole che palese. Come direbbe Freud, qualcosa che ha a che vedere con il mio inconscio. Del resto l’“amico” Freud è stato anche il mio primo referente per una tesina che mi affidò da sviluppare Norberto Bobbio quando studiavo Legge all’Università di Torino. Si trattava di uno studio su guerra e psicoanalisi dal titolo La guerra in Freud. Iniziò lì il mio incontro con la psicoanalisi. Ricordo che Bobbio mi mandò a Milano per chiedere lumi a Franco Fornari, grande studioso sia di psicoanalisi che di storia della guerra. Ho sempre provato una grande attrazione per l’analisi (per realizzare Prendimi l’anima ho impiegato più di 20 anni). Anche se non comprendendola a fondo, la ammiro in quanto narrazione, più che come disciplina. Per esempio mi piace leggere Freud scrittore più dello studioso della psiche. IS: Quello dell’indecisione maschile che attanaglia il protagonista è un tema molto moderno e attuale... RF: Certamente ne sai più tu di me, visto che sei uno psichiatra. Gräsler è un uomo che non riesce a rinunciare. E chi non sa rinunciare, non sa scegliere. Scegliere significa appunto rinunciare a una cosa per averne un’altra. Il medico termale del film è un uomo che per paura di impegnarsi emotivamente, perde le occasioni d’amore più belle e finisce per accasarsi con la donna peggiore che poteva incontrare. La scena più bella del film credo sia proprio quella in cui Miranda Richardson, donna navigata e con prole, attira Gräsler nella sua rete, facendogli credere che sarà lui a comandare, quando invece accadrà l’esatto 42


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opposto. In questo c’è la modernità di Schintzler che sottolineava una caratteristica dell’uomo del suo tempo ma che penso valga anche per il nostro: l’indecisione, l’incertezza, lo spaesamento. Sono convinto che tale comportamento sia tipico dei maschi. Al contrario della fermezza e della capacità di decidere tipico delle donne, le quali soprattutto in materia d’amore sono molto più coraggiose, più risolute e determinate di noi. IS: È anche un personaggio figlio del suo tempo... RF: Certo... Gräsler come emblema di un declino anche storico. Vive in un periodo, la cosiddetta “finis Austriae”, che coincide con la caduta dell’impero mitteleuropeo. Non a caso ho collocato la vicenda del film negli anni immediatamente antecedenti la prima guerra mondiale, con quel tintinnìo di armi che già si percepiva negli anni Dieci dello scorso secolo. In quegli anni domina l’insicurezza del futuro. Forse è questo un altro elemento che fa sentire quella trama non lontana da noi. Di sicuro, neppure noi viviamo in un tempo di quiete. IS: La critica ha accolto abbastanza bene il film. C’è chi lo ha accostato all’estetica viscontiana chi, invece, l’ha accusato di un eccesso di calligrafismo, a un Ivory minore. RF: Non credo sia il mio film migliore. Ha dei tempi lunghi, è un film che se potessi rimonterei. La critica italiana fu piuttosto favorevole, molto di più fu quella inglese e americana. Leonard Maltin, autore della celebre guida cinematografica, lo colloca tra i suoi preferiti. Al Festival di Londra dove venne presentato ebbe un notevole successo e poi fu venduto in America. IS: Come andò nelle sale? RF: Il film non ha avuto vita facile perché fu distribuito dalla Titanus, la quale pensò bene di chiudere dopo che il film era appena uscito in sala. Cosa che influì ovviamente sulla precarietà della distribuzione. Si ripeteva la vicenda di Copkiller. Là chiudeva la Gaumont Italia, qui la Titanus (nel frattempo ceduta da Goffredo Lombardo al Gruppo Romagnoli, che la tenne pochi anni e poi la dismise per imprese più lucrative). Questa storia delle case di distribuzione italiane che chiudono va avanti sempre uguale da decenni. Un tempo c’era la Cineriz, poi il Cifid, poi fu la volta della Euro dei fratelli Cicogna... Brillano qualche anno, quindi spariscono divorate dai debiti o dalla rapacità dei loro maggiorenti, oppure per l’incapacità di rinnovarsi. IS: Come ti sei trovato a lavorare con attori di diversa nazionalità; dall’immenso Max Von Sidow, attore feticcio di Ingmar Bergman, a Keith Carradine che 43


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aveva già interpretato con Robert Altman I compari, Gang, Nashville, I duellanti con Ridley Scott e Pretty Baby con Louis Malle? RF: Tra gli attori di origine italiana e quelli stranieri c’è, purtroppo per noi, un abisso. Un grande limite del cinema italiano sta secondo me nel fraintendimento di cosa sia stato realmente il neorealismo. Credere che gli attori possano essere presi dalla strada, che tra l’altro il neorealismo non ha mai fatto, è la causa della nostra mancanza di grandi attori. Se pensi ai nostri vicini di casa, i francesi, possono pescare su un vastissimo “parco attori”, intesi come protagonisti. Noi al massimo ne abbiamo una decina e pochissime attrici (secondo me il cinema italiano è un cinema misogino in cui la donna raramente ha il ruolo di protagonista). In America ne hanno mille volte tanto. Alcuni scellerati si sono inventati questa idea idiota che si possono trovare i protagonisti per la strada. Magari ha funzionato in qualche caso, ma per il resto si sono visti magri risultati. Il neorealismo non ha mai preso gli attori per la strada. Anna Magnani era un’attrice che veniva dal teatro. Aldo Fabrizi idem. Dopodichè, Mastroianni, Gassman, Giannini e con loro tantissimi altri sono venuti fuori dalla stessa fucina. Ciononostante, continuiamo a credere in quell’idea malsana. Il risultato di tutto ciò è che abbiamo vissuto per decenni illudendoci che si può essere attori senza scuola, senza esperienza, senza apprendistato. La conseguenza è che se tu oggi cerchi un protagonista di 50 anni non sai dove trovarlo, oppure devi accontentarti di quei due o tre volti che sono sempre gli stessi. Per fortuna le giovani generazioni si sono accorte dell’inganno e della trappola pseudo-neorealista e hanno cominciato a frequentare l’Accademia, il Centro Sperimentale, le molte scuole disseminate nel paese. All’Università Sapienza di Roma, dove dirigo l’Osservatorio di cinema, il portale Cinemonitor.it ne ha registrate oltre trecento! Per fortuna stanno cominciando a uscire giovani preparati, che non vengono scelti perché hanno un bel di dietro o delle tette prosperose, ma perché hanno imparato il mestiere. Pensa che in America ci sono oltre 4.500 università che sfornano ogni anno migliaia di giovani che hanno frequentato un corso di recitazione. Ecco perché poi vengono fuori tanti attori nuovi e bravissimi. La recitazione fa parte dell’insegnamento in tutte le scuole del mondo anglosassone. Dovremmo cominciare a imitarli. Tra l’altro recitare è una cosa molto buona anche per i bambini, che si abituano a comunicare con gli altri, a interpretare, a gioire, a piangere, insomma a frequentare “la vita degli altri”. Quando ho iniziato a incontrare attori del peso di Keitel, Carradine, Max von Sidow, Miranda Richardson. Kristin Scott-Thomas… ho cominciato a confrontarmi con un mondo straordinario da cui ho molto imparato e al quale devo molto.

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IS: Che giudizio dai del film che vanta un Premio David per la migliore fotografia al grandissimo Giuseppe Rotunno? RF: È un film complesso, come dicevo con delle lentezze. Qualcuno l’ha definito “viscontiano”, forse proprio perché Rotunno era il suo direttore della fotografia preferito. Ogni volta che c’è una cornice scenografica forte (alla quale io dò molta importanza e infatti ai miei film collaborano scenografi di grande tradizione, da Giantito Burchiellaro a Francesco Frigeri al grande Danilo Donati), salta fuori il nome di Luchino Visconti. Può essere un complimento, ma al tempo stesso una critica che implica formalismo e/o estetismo. Per quanto riguarda Gräsler, la ricchezza delle ambientazioni e la sontuosità delle scene derivano innanzitutto dalla scelta dei luoghi (le fastose terme austro-ungariche), dal periodo (il primo Novecento), dalla ricchezza degli abiti (firmati appunto da Milena Canonero insieme ad Alberto Verso). Aggiungo che la componente estetica è implicita nei film in costume, specie quando la ricercatezza delle immagini rappresenta lo stile e il cuore della storia che si intende raccontare. IS: Perché Miranda Richardson nel doppio ruolo di Friederike, la sorella di Gräsler e della vedova Sommer? Psicoanaliticamente, vista la storia, è comprensibile e sembra rimarcare l’attaccamento di Gräsler verso la sorella suicida… RF: Dopo la sua brillante interpretazione in Ballando con uno sconosciuto, sommersa di premi, Miranda Richardson aveva ricevuto valanghe di offerte. Spielberg l’aveva chiamata a Hollywood ed era riluttante a fare il ruolo della vedova nel film che stavamo preparando. Miranda è una donna piena di dubbi, enigmatica, non proprio calorosa. Non era del tutto convinta della nostra proposta. Pensa che sul set litigò con Rotunno, in pieno agosto, chiusi a Budapest in un teatro di posa a 50 gradi, perché non voleva che si uccidessero le mosche (sciami di mosche ci impedivano di girare). Un’animalista un pò troppo estremista… Al primo incontro con me, presente il suo agente a Londra, mi esplicitò che il ruolo offerto non era proprio entusiasmante. A un certo punto, pur di averla, mi venne l’idea di proporgliene due: la vedova e anche la sorella di Gräsler. Sapevo che Miranda era capace di trasformazioni eccezionali. Si mise a ridere. Guardò il suo agente e mi disse: ok, accetto. Fu poi talmente brava a interpretare entrambi i ruoli che nessuno tra il pubblico se n’è mai accorto. E ha fatto tutto senza trucco, senza niente di tutto ciò che siamo soliti fare per invecchiare o cambiare i connotati di un attore. Semplicemente, prima di girare la scena della matura sorella di Gräsler e dopo aver girato le scene della vedova, ben più giovane, si chiuse due giorni in albergo. Due giorni durante i quali nessuno la vide. Quando uscì, io stesso stentai a riconoscerla. Camminava un pò chinata in avanti, lentamente, l’espressione stanca, gli occhi spenti, le mani tremanti. Insomma non era 45


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più la giovane vedova maliziosa e intrigante. Si era trasformata davvero in un’altra persona, stanca della vita, che di lì a poco avrebbe dovuto impiccarsi (scena che abbiamo girato nell’isola di Lanzarote). IS: Nel film c’è il prezioso contributo di Milena Cononero, costumista di Barry Lyndon, Arancia meccanica, Shining, Momenti di gloria, Il padrino... RF: Ha fatto tre film con me, l’unico regista italiano ad averla mai chiamata. In quest’ultimo film americano che sto finendo appare come co-produttrice, avendo affiancato Elda Ferri. Ha fatto la supervisione artistica a tutto, costumi, scenografie, look degli attori. È stata la mia spina dorsale. Vedi il ritratto che ne faccio nel Diario americano, in fondo al libro.

Jona che visse nella balena IS: Ho letto il romanzo di Jona Oberski che, secondo me, non ha la potenza del tuo film. È il tuo terzo film tratto da un romanzo. Che rapporto hai con la pagina scritta? RF: Preciso subito che a me non interessa il valore letterario di un’opera. Mi interessano i romanzi solo in quanto fabbrica di storie. I miei rapporti tra scrittura e film si limitano alla trama, alla fonte d’ispirazione, al plot. In realtà, l’autore di un film prende dal romanzo cui si ispira solo uno spunto, per poi muoversi verso una direzione autonoma rispetto al racconto di partenza. Lo stesso vale per il rapporto tra sceneggiatura e film, dove lo script è solo uno strumento tecnico che preesiste al film. Realizzato il quale, a nessuno viene in mente di parlare dei confronti tra film e copione, o amenità varie. Proprio perché le pagine scritte sono destinate a diventare un oggetto trasformato e superato dal prodotto finale, il film. A un certo punto il film prende la sua piega, va per la sua strada. E lo scritto, che è precedente, non conta più nulla. Trovo ridicolo che si continui a parlare di rapporto tra cinema e letteratura. Così come sarebbe altrettanto risibile parlare di rapporto tra film e sceneggiatura. Aggiungi un particolare non indifferente, ovvero che l’autore del romanzo non è l’autore del film. Sono così distanti le due figure e infatti il primo ha venduto al secondo i diritti della sua opera. Così come si potrebbe cedere qualsiasi cosa, che so un’automobile, un appartamento, un mobile. L’hai venduto, diventa proprietà di un altro, grazie e tanti saluti. Ha ragione William Faulkner quando, richiesto di esprimere la sua opinione in merito al circuito letteratura-sceneggiatura-film, risponde che il rapporto è inesistente, perché lo scritto che precede il film, quale esso sia, muore quando l’altro inizia a vivere. Del resto letteratura e cinema non hanno in comune la compatibi46


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lità. Sono incompatibili perché la prima evoca, il secondo mostra. Partendo da questo presupposto, la fedeltà al testo di origine diventa un discorso astratto, di pura accademia. Non è vero che il cinema difetta di originalità quando si ispira alla letteratura. Un regista che parte da un romanzo non è un autore di scarsa invenzione. Semmai è vero il contrario. Vedi l’esempio di Kubrick, che è quasi sempre partito da un racconto già pubblicato. Negli ultimi decenni la letteratura è diventata sempre più ancillare rispetto al cinema. Sono gli scrittori che avvertono il fascino del cinema e non solo viceversa. Non conosco scrittore il quale non desideri che il suo romanzo diventi un film. Molti scrivono pensando a questo e moltissimi romanzi somigliano sempre di più a delle sceneggiature vere e proprie, pronte per essere filmate. IS: Perché il titolo di Jona fa riferimento a un episodio Bibbia senza essere attinente alla vicenda del film? RF: Non abbiamo pensato alla storia biblica. Non lo so perché abbiamo cambiato il titolo del romanzo di Jona Oberski, Anni d’infanzia, che ha ispirato il film. Forse perché qualcuno ha ricordato che c’era la strofa di una canzone che raccontava di Giona nella balena. Probabilmente è stato un errore, anche perché non è un titolo azzeccato. In Francia è uscito con quello originale, Anni d’infanzia, tradotto in francese. IS: Nel vedere il film si ha come una sensazione di una ricostruzione del campo di concentramento “finta”, da “studios”. È stata una tua scelta voluta? RF: Ho cercato di costruire il campo di concentramento come visto dagli occhi di un bambino, quindi non troppo realistico, non troppo misero, non troppo tragico. C’è la neve, le casupole sono di legno, la stanza dell’infermeria in cui padre e madre fanno l’amore è calda. Lì per l’ultima volta Jona vede insieme madre e padre. Sono arrivati lì per fare l’amore un’ultima volta e Jona non capisce perché debba stare di spalle, in silenzio, finchè non avranno finito. La ritengo una scena tra le più forti che io abbia mai immaginato. Jona ricorda del campo solo le cose migliori, perché se ricordasse quegli orrori non potrebbe sopravvivere. Lo sovrasterebbero, lo annienterebbero. Per sopravvivere, deve dimenticare il peggio e ricordare il meglio: la mamma, il papà, il loro calore, il loro affetto. La stessa scena in cui Jona prende in giro le SS con i cani lupo è forse un sogno che lo aiuta a ricordare se stesso vincente, non soccombente, come sarebbe stato nella realtà. IS: La scena più bella del film è quando Jona si perde nel lager di BergenBelsen. L’ho trovata molto poetica perché lì è l’inconscio del bambino che prende il sopravvento sulla realtà. 47


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RF: Mi sembra che confermi quanto ho appena detto. Ho seguito il film nelle scuole e ancora oggi lo vedono tantissimi ragazzi, specie quelli della stessa età di Jona, tra gli otto e i dieci anni. Una volta a Milano abbiamo fatto una proiezione per ragazzini delle scuole elementari insieme a ragazzi del ginnasio della stessa scuola, dai quattordici ai sedici. Durante la proiezione i ragazzi più grandi ridevano in certe scene, mentre i più piccoli piangevano. Quando poi si sono aperte le luci e le maestre hanno iniziato a far parlare i ragazzi, c’è stato un ragazzino di quarta elementare che si è alzato e ha detto a uno di quindici seduto accanto a lui che rumoreggiava: “Stai zitto tu che non sai nemmeno piangere”. L’ho trovata una frase stupenda. È vero, Jona racconta una storia talmente intensa, da obbligare molti di noi a respingerla. Tocca le corde più profonde del nostro essere. Piangere non è maschile, non è da adulti, non è da veri uomini. È più facile ridere che commuoversi. IS: Come mai il film si chiude con il piccolo protagonista mentre allucina solo il padre che nel corridoio di casa sta battendo sulla macchina da scrivere. Come mai manca la madre? RF: Non saprei... Chiedo perdono, non so spiegare tutto. Mi piaceva finire il film con una immagine tenera e poetica. La madre lui l’ha vista impazzire. Il padre invece è sparito nel nulla della deportazione. Jona ricorda il padre quando lo faceva giocare con la bicicletta. Ho pensato che quella immagine gli è rimasta impressa. È un ricordo bello, che lo riporta a sorridere dopo tanto soffrire IS: Jona... è uno dei tuoi film più premiati ma, provocatoriamente, vorrei chiederti: di fronte a storie così ipersature di sofferenza (un campo di concentramento, un bambino strappato all’infanzia, al calore domestico…) non si rischia di raccogliere dei facili consensi da parte di critica e pubblico? Tra i due preferisco di gran lunga Mio caro dottor Gräsler... RF: Capisco la tua osservazione, ma c’é una grande differenza fra Gräsler e Jona. Gräsler non è un film che ti emoziona. È un film un pò freddo, distaccato, così come lo è il suo protagonista. Jona al contrario è un film che quando lo vedo a distanza di anni (l’ho girato nel 1993) ancora oggi mi provoca delle emozioni fortissime. Sono sensazioni che non mi capitano con nessun altro film. Sai che quando la Rai lo ha proiettato la prima volta in televisione ha avuto un indice d’ascolto enorme, che nessuno si aspettava? Un piccolo film senza attori conosciuti, con un tema difficile, ha letteralmente sbancato l’audience. Mi è stato detto che dopo la proiezione in tv ci sono stati addirittura dei ricoveri di donne al pronto soccorso con attacchi di panico. È un film che ha una potenza emotiva davvero unica. Capisco la tua nota ma non la condivido. Ci sono dei temi inattaccabili, è vero, non 48


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