Robert Fuest e L'abominevole Dottor Phibes

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e L’abominevole Dottor Phibes storie e misteri di una leggenda del cinema

MarioGerosa

RobertFuest

RobertFuest e L’abominevole Dottor Phibes MarioGerosa

MarioGerosa

Mario Gerosa, giornalista, è redattore capo della rivista “AD Architectural Digest”. Laureato in architettura, nel 1986 ha vinto il “Premio Pasinetti Cinema Nuovo” con un saggio sugli attori di Luchino Visconti. Studioso di new media e di culture digitali, membro dell’OMNSH di Parigi, ha scritto vari libri sulla teoria e l’estetica dei mondi virtuali. Ha pubblicato saggi sui trailer dei videogames, sui registi di Second Life e un libro sul cinema di Terence Young. Insegna Multimedia e paesaggi virtuali al Politecnico di Milano.

€ 19,00

Robert Fuest e L’Abominevole Dottor Phibes

Tra i personaggi più autorevolmente bizzarri del cinema, il Dr. Phibes ha un ruolo di primo piano. Il dottore folle che consacrò la sua vita alla venerazione e alla vendetta della defunta moglie è una figura di culto assoluto. L’uomo che ha portato il Dr. Phibes sul grande schermo, regalandogli le idiosincrasie e l’apparato di invenzioni che l’hanno reso unico, è Robert Fuest. Il regista inglese è l’ironico demiurgo di un antieroe postmoderno che ha precorso i tempi, accumulando in sé decine di personaggi sedimentati nella memoria. In questo libro non si analizza soltanto l’epopea del Dr. Phibes (con i suoi progetti di sequel, i gadgets e gli apocrifi), ma tutta l’opera di Robert Fuest, un autore che merita di essere riscoperto e valorizzato. Fuest è il regista degli episodi più surreali della serie Tv Agente speciale, del Mostro della strada di campagna, “un thriller in pieno sole” e di esercizi di stile come Aphrodite e The Island. Un regista di genio, avaro di opere, come lo fu Vermeer con i suoi quadri: solo dieci film, ma come accade per i quadri di Vermeer, tutte opere dagli infiniti rimandi e dalle grandi suggestioni, che da sole disegnano un mondo originale, visionario e mai scontato.

storie e misteri di una leggenda del cinema

ISBN 978-88-89782-13-2

EDIZIONI EDIZIONI FALSOPIANO

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CINEMA


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RobertFuest e L’abominevole Dottor Phibes storie e misteri di una leggenda del cinema


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Ringraziamenti

L’autore ringrazia per la collaborazione Jane e Robert Fuest, Brian Clemens, la John Adams Fine Art Gallery di Londra e Lawson Bell della Bell Fine Art di Winchester.

In copertina: Vincent Price in Dr. Phibes Rises Again In seconda di copertina: Robert Fuest e Vincent Price durante la lavorazione di Dr. Phibes Rises Again (Courtesy Robert Fuest) In terza di copertina: Robert Fuest, Valli Kemp e una coreografa durante la lavorazione di Dr. Phibes Rises Again (Courtesy Robert Fuest)

Š Edizioni Falsopiano - 2010 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: LaserGroup s.r.l. - Milano Prima edizione - Novembre 2010


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INDICE

Prefazione di Brian Clemens

p. 9

Introduzione Phibes e i suoi fratelli

p. 11

Robert Fuest: la biografia

p. 17

Capitolo primo Trasgressioni televisive

p. 23

Capitolo secondo The Abominable Dr. Phibes

p. 37

Capitolo terzo Dr. Phibes Rises Again

p. 71


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Capitolo quarto L’eredità di Phibes

p. 83

Capitolo quinto Just Like a Woman

p. 89

Capitolo sesto Wuthering Heights

p. 95

Capitolo settimo And soon the Darkness

p. 101

Capitolo ottavo The Final Programme/ The Last Days of Man on Earth

p. 109

Capitolo nono The Devil’s Rain

p. 115


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Capitolo decimo The Island

p. 121

Capitolo undicesimo The Revenge of the Stepford Wives

p. 125

Capitolo dodicesimo Aphrodite

p. 131

“Come un blues in dodici misure�. Fuest racconta Fuest

p. 137

Immagini

p. 143

Sequenze immobili: Fuest pittore

p. 173

Filmografia

p. 183

Bibliografia

p. 207

Webgrafia

p. 213


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Brian Clemens, Fuest e Albert Fennell


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Prefazione di Brian Clemens*

Ho lavorato tante volte con Bob, anche senza conoscerlo! Nel 1961 scrissi con lui il primo episodio in assoluto di The Avengers - Bob è stato lo scenografo di questo e molti altri episodi su cui ho lavorato - ma per molto tempo siamo rimasti due estranei. Dovetti aspettare altri sette anni prima di incontrarlo. Fu nel 1968, quando passò dalla scenografia alla regia, destinato a realizzare molti episodi della serie The Avengers e The New Avengers, e a diventare in breve il nostro regista più assiduo e affidabile. Il suo background nella progettazione di ambienti emerge chiaramente nel suo lavoro: idee all’avanguardia, invenzioni visive folgoranti, un senso dello humour sempre latente sono sempre stati parte del suo corredo. Non a caso i suoi film sono rifiniti con l’occhio del pittore - infatti Bob è un artista completo e molto ricercato, e sono felice di poter dire che possiedo molti suoi lavori. Penso che se Bob non avesse scelto le arti visive sarebbe gravitato nel mondo della musica, dato che è la sua grande passione; una passione dai confini molto ampi - jazz, concertistica, opera, pop, ascolta tutto, con un solo criterio: deve essere buona musica. È un grande scopritore di talenti - spesso il primo a scovare un musicista sconosciuto, che prima o poi diventerà una stella di primo piano. State sicuri che Bob sarà il primo a scoprirlo. Ma nulla di tutto ciò rivela quello che Bob è veramente. Ebbene, è alto, ha una zazzera di capelli ribelli, e una peculiarità che talvolta dissimula le intuizioni di un cervello fino che va sempre a pieno regime - correre troppo rapidamente con idee e pensieri perché la lingua possa stare al passo. Il quadro generale è quello di un eterno ragazzo con un aspetto giovanile e una manciata di idee che possono apparire sconvolgenti per la loro originalità. Ha un gusto per la ricerca tipico di un giovane uomo, che lo tiene sempre uno o due passi avanti rispetto agli altri. E poi, la cosa più bella è il suo sense of humour, la sua risata chiassosa che lo rende uno splendido spettatore! 9


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Bob è un regista di grande talento, con un corpus di lavori che richiede di essere esaminato attentamente, di essere rivalutato, e che forse è ancora in attesa di un dovuto riconoscimento che ha tardato ad arrivare. Sì, è anche un mio amico, e gli voglio veramente bene, e per questo potrei essere accusato di essere di parte, in ogni caso negli anni passati sono stato anche il suo produttore e il suo datore di lavoro. E durante tutti quegli anni tra noi non c’è mai stato un dissidio, mai alcun tipo di acrimonia - è un uomo buono e gentile (come possono attestare molti attori) che cerca sempre la via diplomatica per mettersi d’accordo. Per questo mi sento orgoglioso e privilegiato dovendo scrivere questa prefazione per un libro che spero possa illuminare e celebrare una vita consacrata alle immagini. E all’immaginazione. *co-produttore The Avengers, New Avengers, And Soon the Darkness

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Introduzione Phibes e i suoi fratelli Dei dieci film girati da Robert Fuest, almeno cinque sono considerati cult movies. E, cosa piuttosto rara, sono riconosciuti come film di culto non soltanto dal pubblico, ma anche dalla critica, che in genere si è espressa favorevolmente nei suoi confronti. Oggi, poi, le quotazioni di Fuest sono ulteriormente in ascesa e i suoi film vengono rivalutati e riscoperti. Si apprezza e si studia la cifra stilistica di un maestro cui si può rimproverare soltanto una cosa, di aver fatto troppo pochi film. Lontano dal set dal 1982, l’anno in cui girò Aphrodite, oggi Robert Fuest si dedica alla pittura, la sua prima passione. Lo fa con successo, i suoi quadri hanno buone quotazioni e sono esposti alla John Adams Gallery, una delle gallerie più influenti di Londra, nella zona residenziale di Belgravia, a poca distanza dall’immaginaria Maldine Square in cui si trovava la residenza dell’abominevole Dr. Phibes. Nei dipinti di Robert Fuest ci sono paesaggi costieri, navi, villaggi. Non cercatevi organisti folli, ampolle demoniache o icone della swinging London. Non li trovereste. Non c’è più il mondo del suo cinema, cristallizzato nei ricordi ma pronto a riemergere, a rivivere nei gesti di un personaggio geniale e generoso che non si lesina mai. Gli occhi vispi, mobilissimi, la risata contagiosa, una gestualità cinematografica, Robert Fuest è un ragazzo di 83 anni che quando parla ti comunica tutta la sua vitalità e la sua energia. Brio e inventiva sono anche alcuni dei modi di essere del suo cinema, che cattura, coinvolge e sorprende. È un cinema dinamico, complesso, ricco di significati possibili, strutturato su differenti livelli di lettura. Non credete mai al cinema di Robert Fuest. Soprattutto non giudicatelo mai dalle apparenze. Non sempre è quello che sembra; però, allo stesso tempo, mantiene sempre più di quello che promette. Ogni suo film è come un concentrato di tanti film, un coacervo di storie e di racconti che si intrecciano e si rincorrono. L’opera di Fuest è sfuggente, è il regno dello scambio delle identità, dove nulla è ciò che si potrebbe credere. Non c’è mai una sola verità nei film di Fuest, nessun luogo è veramente reale o virtuale e nessuno è mai completamente buono o cattivo. I film del regista inglese si discostano regolarmente dalle categorie in cui li si vorrebbe inquadrare, riescono costantemente a dribblare le intenzioni di 11


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chi cerca facili catalogazioni, di chi ha bisogno di trovare scuole e movimenti di riferimento. Fuest non fa parte di nessuna scuola, non vuole e non può essere inscatolato in una definizione da dizionario, è un outsider duro e puro, non di quelli che giocano a essere trasgressivi. Robert Fuest è uno sperimentatore che riesce ad essere all’avanguardia col sorriso sulle labbra, utilizzando lo stile della parodia per affrontare ragionamenti filosofici, riuscendo a centrare sempre il cuore della questione. Il suo è un cinema d’autore che a volte flirta col cinema di genere, senza però perdere la sua aura autoriale, è un cinema denso di problematiche e di implicazioni teoriche che mantiene una naturale leggerezza frutto di una sensibilità mozartiana. Giocato su molteplici canali narrativi, il cinema di Fuest è incline all’estetica del remake, alla destrutturazione colta, alla reinvenzione, ed è strano che non sia stata ancora messa in cantiere una nuova versione de L’Abominevole Dr. Phibes. In questo suo mondo bizzarro, dove le storie seguono numerose biforcazioni e i generi non sono quelli tradizionali, si scopre che L’abominevole Dr. Phibes non è ascrivibile semplicemente al filone dell’horror, che Just Like a Woman in origine doveva essere una specie di film promozionale, e che Il mostro della strada di campagna è un thriller assolutamente rivoluzionario. Inversioni di tendenza, scarti improvvisi, innovazioni impreviste: sono queste le parole chiave per interpretare il cinema di Fuest, che rispecchia un momento magico della sperimentazione e delle illusioni degli anni Settanta. Quello di Fuest è un cinema senza maestri, nato per partenogenesi, senza aver avuto ispirazioni determinanti dall’esterno. A parte qualche omaggio alla maniera di guardare di Peter Hammond e una velata ammirazione per Fritz Lang, Fuest non ha mai reso tributi ai maestri consolidati, ha creato qualcosa di assolutamente nuovo, che non ha una vera continuità con altri movimenti e con altri autori. L’unica ispirazione accertata, che ritorna anche sulla media e sulla lunga distanza, riguarda la serie televisiva di culto Agente speciale. Fuest iniziò a lavorare come scenografo proprio per quella serie e si è sempre portato dietro quel patrimonio genetico, declinandolo di volta in volta in maniera originale e convincente, creando curiose associazioni. Per esempio, Just Like a Woman nasce dalla combinazione delle atmosfere surreali di Agente speciale e del gusto per la Nouvelle vague francese, mentre L’abominevole Dr. Phibes è un’alchimia tra Agente speciale e Il fantasma dell’Opera. Questo gioco potrebbe continuare con altri film ma non renderebbe giustizia alla poetica fuestiana, che è ben più complessa, ricca di molte altre sfumature, di citazioni indirette di altri autori che, anche se non sono stati riferimenti assoluti per un regista fortemente indipendente, hanno 12


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comunque rappresentato importanti passioni artistiche. Passioni che vanno dal Fellini più onirico al surrealismo quotidiano di Marcel Pagnol, al Charlie Chaplin più teneramente romantico, evocato da Phibes che contempla un fiore mentre la sua vittima si schianta con l’aeroplano. Estraneo all’influenza di maestri diretti, il cinema di Fuest ha invece molti discepoli. Tanti si sono ispirati e continuano a ispirarsi ai suoi film, rendendogli omaggio più o meno esplicitamente. Uno per tutti l’argentino Marcos Efron, cui si deve il remake del Mostro della strada di campagna. Di primo acchito Fuest si potrebbe definire barocco, ma in realtà ha una regia molto asciutta: le più belle inquadrature dell’Abominevole Dr. Phibes sono molto grafiche, essenziali. Fuest dice molto, inserisce tanti riferimenti, anche visuali, ma non perde mai di vista un senso dell’immagine formale, di matrice classica. Le sue composizioni sono estremamente curate e tradiscono la sua formazione da pittore. Anche in The Devil’s Rain, dove c’è un grande affollamento di segni, Fuest riesce a mantenere l’ordine, realizzando inquadrature che di volta in volta appaiono come singoli quadri. E forse è per questa ragione che Fuest è tornato a dipingere, perché vede l’attività di pittore come naturale evoluzione di un percorso partito dalla pittura, passato da un cinema spesso confinante con il senso grafico, e poi ritornato alla prima passione, rivisitata in virtù delle esperienze sul set. Attento alla composizione, alla stessa stregua di Peter Greenaway e di David Lynch, altri due grandi registi-artisti del nostro tempo, nei suoi film Fuest rivisita e talvolta scardina il linguaggio cinematografico, contaminandolo con il lessico della televisione, caratterizzandolo con le sue sequenze dinamiche, i primissimi piani e il montaggio concitato. All’interno di questa griglia, Fuest offre sempre vari livelli di lettura: è un regista massimalista che affolla le sue sequenze di storie e di dinamiche interne, accumulando percorsi narrativi ma racchiudendo tutte queste suggestioni entro una grande compostezza formale. Con queste credenziali, Robert Fuest fa parte di diritto del gruppo di registi inglesi visionari che comprende anche Ken Russell e lo Stanley Kubrick di Arancia meccanica. Ma lui è ancor più sbilanciato sul coté dell’insolito, che altri hanno indagato soltanto in alcune fasi della loro carriera. Fuest è un habitué del gusto bizzarro. Nei suoi film aleggia sempre un’atmosfera vagamente inquietante, che risente del surrealismo di Paul Delvaux, degli straniamenti spazio-temporali di Magritte, di una certa malinconia nordica. Quell’atmosfera surreale nelle mani di maestri come Fuest diventa uno stile spesso propenso a virare verso la parodia colta: immagini come quella del Dr. 13


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Phibes vestito da sceicco in Frustrazione o di Sterling Hayden come mercenario guerrafondaio in The Final Programme testimoniano il gusto per la rivisitazione in chiave ironica di personaggi iconici e tratteggiano i lineamenti di un nuovo surrealismo. Grande visionario, abilissimo architetto di inquadrature memorabili, Fuest è anche un solido direttore di attori, che ha sempre avuto la capacità di creare eroi ex novo. Eroi veri e immaginari, star del cinema e personaggi carismatici. Fuest ha tenuto a battesimo (o ha plasmato quando erano agli esordi) interpreti come John Travolta, Valerie Kaprisky, Don Johnson e Timothy Dalton, tutti attori che hanno cominciato ad avere successo dopo aver recitato per lui. Nondimeno nel corso degli anni il regista ha saputo reinventare star già affermate, come Vincent Price, William Shatner, Ida Lupino, regalando loro ruoli insoliti, ideando per loro nuove identità. Ma sono soprattutto i personaggi immaginari di Fuest ad affascinare, primo fra tutti il Dr. Phibes, un criminale che stravolge continuamente le regole del genere. Quando delinea i suoi personaggi, il regista lavora su diversi piani, creando psicologie complesse, tenendo conto dell’evoluzione di varie culture convergenti. Il suo mondo è un crocevia di ispirazioni, dove si incontrano letteratura, pittura, cinema, fumetti e teatro; per Fuest un film è un’opera d’arte totale, in cui il regista talvolta sceglie (o addirittura scrive) le musiche e disegna le scenografie. In quel mondo ha ampio spazio la citazione, che spesso è di matrice letteraria, come testimoniano The Final Programme, Aphrodite, Cime tempestose, ma anche i film di Phibes. Il cinema di Fuest ha anche varie affinità con la musica, che è profondamente connaturata a una poetica originalissima, non solo perché la colonna sonora è importante, con brani spesso scelti dallo stesso regista, raffinato conoscitore di jazz e musica classica, ma perché la struttura dei film è musicale. I personaggi di Frustrazione hanno i nomi di famosi jazzisti, e alcuni protagonisti dei film di Fuest sembrano o ricordano musicisti e compositori. Jon Finch, ovvero Jerry Cornelius di The Final Programme, si atteggia come una rockstar degli anni ’70, Phibes stesso, con i suoi gesti plateali, è una via di mezzo tra un organista ottocentesco e un tastierista alla Keith Emerson, e Scilla Alexander di Just like a Woman è una ragazza molto swinging. Sono tutti personaggi che vivono seguendo un ritmo interno alle loro storie, un ritmo che sfugge alla quotidianità e che spesso riesce a sostituirsi alla vita vera, senza però dare mai l’idea di un’esistenza virtuale posticcia. Personaggi che spesso appaiono volutamente irrisolti, con storie complicate che non trovano sempre una spiegazione, con vicende senza lieto fine che costringono a pensare. Opere aperte, insomma, percorsi senza un tra14


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guardo, trame che terminano con un punto interrogativo, dove Fuest non regala risposte. Così è per tutti e dieci i film di Fuest, ma soprattutto per il suo capolavoro, L’Abominevole Dr. Phibes, che si conclude senza la cattura di quell’antieroe controverso, lasciando aperta la porta ai mille interrogativi sulla storia e soprattutto sull’uomo.

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Robert Fuest

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Robert Fuest: la biografia Robert Fuest nasce il 30 settembre 1927 a Londra. Suo padre, di origini tedesche, lavorava come assistente di linea nelle ferrovie. A 16 anni si appassiona all’arte e alla musica jazz. Frequenta una scuola d’arte a Wimbledon, dove studia pittura e graphic design, e suona la batteria in una band di amici. Come ha spiegato lo stesso Fuest in un’intervista, “ebbi un ottimo maestro d’arte che mi incoraggiò: fu molto efficace nel persuadere i miei genitori che sarei diventato un artista grafico. Per loro era una prospettiva poco allettante, perché avrebbero voluto che diventassi un ingegnere o un meccanico” (Christoper Koetting, Mr. Fuest Rises Again, in “Fangoria”, n. 177, ottobre 1998, p. 12-17), Dopo aver prestato servizio nella Royal Air Force, dove rimane per un breve periodo anche una volta finita la guerra (nel 1946 viene inviato a Berlino), Fuest si diploma all’Accademia di Belle Arti. Dal 1951 al 1955 è lecturer di pittura e litografia al Southampton College of Art, e tra il 1951 e il 1956 espone le sue opere alla Royal Academy di Londra. Nei tre anni successivi Fuest alterna varie esperienze professionali. Dapprima, per un breve periodo suona il piano in un club e lavora per la Decca Records. Poi, a 30 anni, viene presentato a Timothy O’Brien, responsabile della sezione Scenografia della rete televisiva ABC. Scenografo di valore, O’Brien diede un notevole impulso alle carriere di molti giovani artisti, come Brian Eatwell e Philip Harrison, che avrebbero lavorato in alcuni film di Fuest. In quel periodo Fuest si cimenta come scenografo per After Hours, un comedy show che andava in onda in tarda serata, diretto da Richard Lester, un grande amico che gli diede importanti consigli per la sua futura carriera di regista. In quegli anni negli studi dell’ABC c’erano molti scenografi di talento, come Voytek (che lavorò con Polanski in Cul de sac), Ashton Gordon (Blow Up, La donna del tenente francese) e vari registi emergenti, come Ted Kotcheff, Philip Saville, Peter Hammond e Joe McGrath. Nel 1961 gli commissionano le scenografie per nove episodi di The Avengers (Agente speciale), una nuova serie poliziesca, con Ian Hendry e Patrick Macnee, che presto sarà affiancato da Honor Blackman, nota come l’intrigante Pussy Galore di Agente 007 Missione Goldfinger. In questo frangente ha l’occasione di lavorare a stretto contatto con Peter Hammond, un grande professionista della regia di serie televisive, ricordato con affetto e 17


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ammirazione da Fuest, che gli riconosce il talento nell’ideare curiosi punti di vista per le inquadrature. “Peter era capace di filmare la gente dalle imboccature delle grondaie! Era un uomo con un enorme senso visivo”. (Anthony Petkovich, Robert Fuest. He was Making Mad Films, in “Psychotronic” n. 41, 2004, p. 34-40). In quegli anni, dalle conversazioni tra Peter Hammond e Robert Fuest prendono forma molte delle particolarità dell’“Avengers’ touch”, il marchio di fabbrica della serie di The Avengers/Agente speciale. In particolare, Fuest punta sullo straniamento, suggerendo al regista di ambientare dialoghi e situazioni in location anomale, fuori contesto, magari in una sala di obitorio o in un laboratorio di tassidermista, anziché in un ufficio. Fuest e Hammond in quegli anni posero le basi per i set visionari in cui si sarebbero mossi Patrick Macnee e Diana Rigg, ovvero John Steed e Emma Peel, anche se Fuest non ebbe mai la fortuna di lavorare con quest’ultima (curiosamente Diana Rigg avrebbe affiancato Vincent Price in Oscar insanguinato, considerato da molti un Phibes apocrifo, non diretto da Fuest). Dopo aver disegnato le scene di un episodio della seconda stagione di Agente speciale (1962-63), Fuest decise di lasciare l’ABC, poiché non trovava sbocchi il suo desiderio di cimentarsi come regista. Nei quattro anni successivi lavora come freelance, ideando drammi per la BBC e dirigendo spot televisivi con gli amici Richard Lester e Nicholas Roeg. Dal ’63 al ’73 dirige almeno 40 spot pubblicitari per l’agenzia James Garrett and Partners. Inoltre in quel periodo Fuest scrive sketch per Peter Cook e Dudley Moore, impegnati nella fortunata trasmissione Not Only… But Also, che puntava su dialoghi surreali e ospiti importanti, come John Lennon o l’attore comico Leonard Rossiter (noto anche per alcune pubblicità della Cinzano degli anni ’70 e ’80), e per la serie Superthunderstingcar, con i pupazzi creati da Gerry Anderson. Nel 1966 scrive e dirige il suo primo film, Just Like a Woman, che in origine era stato pensato come un documentario commerciale di 15 minuti per una convention di produttori di arredi per il bagno, portato poi a 90 minuti per volontà degli stessi produttori, che si erano entusiasmati al progetto. Il film, che vanta come operatore Billy Williams (che avrebbe poi vinto un Oscar per Gandhi), viene premiato all’Edinburgh Film Festival. Intanto, nel 1967 gli viene proposto di girare un film sul traffico d’armi in Tunisia, che avrebbe dovuto avere come protagonisti Terry-Thomas e Orson Welles. Ma quando la produzione era pronta, scoppiò la Guerra dei Sei giorni e il progetto naufragò. Sempre nel 1967, Fuest viene presentato da James Hill (il regista di Nata libera, di A Study in Terror e di Il capitano Nemo e la città sommersa) a Brian 18


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Clemens e Albert Fennell, i produttori di Agente speciale. Dopo aver visionato un paio di rulli di Just Like a Woman, gli offrono di girare un episodio della serie, allora giunta alla sesta stagione (1968-69). Fuest dirigerà ben sette episodi, tutti con Patrick Macnee e Linda Thorson, più due della serie dei New Avengers (Gli infallibili tre, trasmessi nel Regno Unito nel 1976/77), con Macnee, Joanna Lumley e Gareth Hunt. Tra gli episodi della sesta stagione, firma Game (Puzzle), considerato una delle storie di culto dell’intero ciclo. Nel 1969 Fuest viene contattato da Ringo Starr, il batterista dei Beatles, che gli propone di girare un film su una rapina in banca, ma al regista non piace il soggetto e rifiuta l’offerta. Lo stesso anno Albert Fennell e Brian Clemens gli propongono di dirigere il thriller And Soon the Darkness (Il mostro della casa di campagna), un thriller psicologico ambientato nel Sud della Francia, con Pamela Franklin, l’interprete di The Legend of Hell House (Dopo la vita). Il film, il cui soggetto è firmato da Bian Clemens e da Terry Nation, fece discutere per la sua originalità e venne salutato come un caso anomalo di “thriller in pieno sole”. L’anno successivo gli americani James Nicholson e Sam Arkoff, i produttori dell’AIP, American International Pictures, contattano Fuest per girare una nuova versione cinematografica di Cime tempestose, il romanzo di Emily Brontë, portato sullo schermo nel 1939 da Laurence Olivier e Merle Oberon. Fuest sceglie Timothy Dalton, destinato a diventare famoso nel ruolo di 007, e Anna Calder-Marshall. Il film viene girato in Inghilterra, nei luoghi in cui è ambientata la storia. Subito dopo Fuest avrebbe dovuto dirigere I’ll Massage You With Diamonds, da un soggetto di Patrick Tilley, sceneggiatore di Cime tempestose, ma il progetto si arenò. Intanto negli uffici dell’AIP c’era grande curiosità per The Curses of Dr. Phibes, un soggetto scritto da James Whiton e William Goldstein. Il copione, di circa 400 pagine, viene inviato a Fuest, che lo legge durante una vacanza a Creta. In origine il film doveva essere assolutamente serio, senza il black humour che lo contraddistinguerà, che si devrà alla totale revisione dello script da parte di Fuest. Nasce così The Abominable Dr. Phibes (L’abominevole Dottor Phibes). Girato col titolo di lavorazione The Curse of Dr. Phibes e uscito nel 1971, avrà un’ottima accoglienza al botteghino. Tant’è che dopo pochi mesi l’AIP proporrà a Fuest di girare un sequel, Dr. Phibes Rises Again (Frustrazione), presentato nel 1972. Ma prima del secondo Phibes, l’AIP offre a Fuest un altro copione. Forti 19


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del successo di Wuthering Heights, i produttori volevano continuare col filone letterario e chiesero al regista di lavorare a una riduzione di The House of the Seven Gables (La casa dei sette abbaini) di Nathaniel Hawthorne, già portato sugli schermi nel 1940 da Joe May, con George Sanders e Vincent Price come attori. Fuest lavorò a lungo sul copione e cercò anche le locations adeguate, coinvolgendo l’amico produttore Albert Fennell, ma alla fine non se ne fece più nulla. Così il regista ritornò al vendicatore pazzo, che questa volta affronta un’avventura in Egitto. Gli offrono poi di dirigere Oscar insanguinato, con Vincent Price nel ruolo di un attore scespiriano incompreso. Fuest declina l’offerta, vuole cambiare genere e dichiara che “dopo aver ucciso 18 persone nei suoi ultimi due film con Vincent Price, la prospettiva di un altro massacro non era così attraente”. Nondimeno, ammette che fu un errore rifiutare quel film. Così Oscar insanguinato viene girato da Douglas Hickox, per il cui lavoro Fuest nutre grande ammirazione. Nei primi anni ’70 Fuest gira molti spot pubblicitari. È anche in Italia, per realizzare alcuni Caroselli, tra cui Il mistero dei diamanti veneziani (1974) in cui si reclamizza la macchina fotografica Kodak Instamatic. Nel 1972 venne interpellato per un possibile terzo episodio di Phibes, che avrebbe potuto chiamarsi The Bride of Phibes, ma anche per un seguito di Cime tempestose, dal titolo Return to Wuthering Heights; però restarono soltanto idee sulla carta. La AIP gli offrì anche di dirigere Legend of Hell House (Dopo la vita) ma Fuest rifiutò e così il lavoro passò a John Hough. Nel 1974 è la volta di The Final Programme, noto anche come Last Days of Man on Earth (Alpha Omega: il principio della fine), tratto dall’omonimo racconto di Michael Moorcock, un film controverso e surreale che si inserisce nel filone del cinema apocalittico. Nel 1975 Fuest gira in Messico The Devil’s Rain (Il maligno), con un cast stellare che comprende tra gli altri Ernest Borgnine, William Shatner, Ida Lupino e John Travolta, al suo debutto nel cinema nelle vesti di un satanista. Nel 1974 vince la Medalla Sitges en Oro de Ley al Catalonian Film Festival di Sitges per Dr. Phibes Rises Again e nel 1976 il premio speciale della Giuria al Festival del cinema fantastico di Avoriaz per The Last Days of Man on Earth. Nel 1977 dirige The Island, una produzione di HTV e Highgate, con John Hurt come protagonista. Poi due episodi di The New Avengers: per l’occasione, lavora ancora una volta con Brian Clemens e Albert Fennell, ma senza più l’entusiasmo della prima serie. Tra i progetti incompiuti di quegli anni, c’è The Coming, un fantasy/hor20


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ror sulla stregoneria con Barbara Bach, Anthony Franciosa e Peter Cushing. Per l’occasione Fuest fece vari sopralluoghi a Nizza con il suo art director Michael Seymour (Alien) e il film fu annunciato al Festival di Cannes del 1979, ma poi saltò. Fuest scrisse anche un soggetto sul sensitivo Uri Geller per Robert Stigwood, ma la cosa non ebbe seguito. Alla fine degli anni ’70, Fuest si trasferì negli Stati Uniti, per lavorare per la ABC TV-Highgate Films. A New York girò sei episodi da 40’ l’uno della serie After School Specials. L’ultimo, The Gold Bug tratto dal racconto di Poe, nell’82 vinse un Emmy Award. Successivamente si trasferì a Los Angeles, dove diresse The Revenge of the Stepford Wives per l’ABC, e poi a San Francisco per The Big Stuffed Dog, tratto da un racconto di Charles Schultz, l’autore dei Peanuts. Nel 1982 gira Aphrodite, tratto dal romanzo omonimo di Pierre Louÿs. Nell’85 dirige alcuni episodi della serie C.A.T.S. Eyes, su un’agenzia investigativa di sole donne, sul genere delle Charlie’s Angels. Nel 1988 Robert Fuest decide di smettere di fare film e si dedica all’attività di conferenziere e di lettore all’università, oltre a insegnare alla London International Film School. Attualmente si dedica a tempo pieno alla pittura. I suoi lavori si possono ammirare alla John Adams Fine Art Gallery, nel centro di Londra, e alla Minster Gallery di Winchester.

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Capitolo quinto JuST LIkE A WoMAN (1967)

Protagonista di questa commedia leggera è Scilla Alexander, una ragazza che abbandona il marito Lewis, dopo essersi stufata delle sue sbornie e delle sue scappatelle. Così decide di andare a vivere da sola: compra un acro di terra e vi costruisce un miniappartamento ideato da un architetto di grido. E poiché l’unica cosa di cui sente veramente la mancanza è il bagno, chiede all’architetto di progettarle una microresidenza dove la vasca sia la protagonista assoluta.

In Just Like a Woman, il primo film di Robert Fuest, vengono anticipati molti dei temi che caratterizzeranno il cinema del regista britannico. In questa commedia che inizialmente doveva essere soltanto un cortometraggio commerciale per una convention di produttori di bagni, Fuest riesce a condensare lo spirito dell’Inghilterra anni ’60 e a introdurre gran parte delle trovate che svilupperà poi nei suoi film. In particolare, Fuest mette a punto qui per la prima volta il suo personale codice espressivo, che coniuga cultura alta e bassa, la Pop Art e la pubblicità, il lessico visivo della televisione di culto e un immaginario che ha metabolizzato i film di Fellini e di Richard Lester. Si delinea un sincretismo cinematografico che funziona in virtù dell’abilità di Fuest nel tenere insieme tutti i pezzi di un ingranaggio dai meccanismi apparentemente disomogenei, dove diversi linguaggi si scontrano e si ricombinano e dove si procede per episodi, per gag e per intuizioni, sacrificando parzialmente un progetto organico e unitario a un film composto soprattutto di trovate. Il film, che ebbe un’ottima recensione su “Sight and Sound” e che recentemente è stato riproposto in dvd, nella collana Digital Classics di DCD Media, entra subito nel vivo dell’azione, con marito e moglie che litigano in un appartamento della Londra anni ’60. Già nei primi cinque minuti c’è tutto: un interior design che in poche stanze e qualche oggetto racconta un’epoca meglio di quanto potrebbe farlo un’intera annata di una rivista d’arredamento (la scenografia è di Brian 89


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Eatwell, che ritroveremo nell’Abominevole Dr. Phibes), c’è il gusto di vivere, raccontato con una regia che anticipa i videoclip degli anni ‘80, il ritmo frenetico, quasi a tempo di ballo, degli attori che interpretano il modo di essere della Swinging London. Come ha spiegato lo stesso regista, “Just like a Woman era un tipico film degli anni ’60: inglesi con pantaloni a zampa di elefante e una marea di union jack, tutti swinging da mattina a sera”. (Dall’intervista di Anthony Petkovich, Robert Fuest. He was Making Mad Films, in: Psychotronic, n. 41, 2004, p. 35). Inoltre si percepisce un retrogusto di Nouvelle vague francese, che rende il cinema di Fuest un po’ diverso da quello di altri suoi connazionali; il primo film di Fuest è leggermente francesizzante, alla maniera del primo Godard, ma senza perdere nulla della sua britishness. I due protagonisti, che si muovono freneticamente, come a teatro, con una mimica straordinaria, sono Wendy Craig e Francis Matthews. Lei, trentatreenne, si era già fatta le ossa con Bette Davis in Nanny la governante e poi con Dirk Bogarde nel Servo di Losey; lui era un volto piuttosto noto della Hammer (gli appassionati lo ricorderanno in Dracula e in Rasputin). Qui la Craig abbandona il registro emotivo triste e malinconico della donna soggiogata da Bette Davis per dar vita a una ragazza degli anni ’60 che si muove come un folletto nella Londra dei Beatles e di Mary Quant. Matthews, dal canto suo, lasciati i panni del caratterista horror, appare a suo agio nel ruolo del marito infedele: agile e dinoccolato, ricorda Jean-Claude Brialy de La donna è donna di Godard. Il film ha un attacco molto coinvolgente, decisamente swinging, assai musicale, con un senso del ritmo proprio delle serie televisive. Wendy Craig è frizzante come Anna Karina di Pierrot le fou: è elettrica, dinamica, pirotecnica, irresistibile, musicale. Scilla Alexander (questo è il nome del suo personaggio nel film) che con i suoi capelli rossi cotonati non stonerebbe in un episodio del Dr. Who, è molto inglese, molto scattante, ma è allo stesso tempo una cugina ideale delle parigine emancipate del nuovo cinema francese: ha una sensualità testarda che altre sue colleghe inglesi, tendenzialmente più concettuali, non possiedono. In virtù di questa presenza leggera ma ingombrante, pian piano il film diventa il film della Craig: Fuest la segue senza sosta, la osserva divertito, la dirige con tono vivace e appassionato, mentre l’attrice si inventa continuamente degli sketch da “one-woman show”. E comunque già la sua presenza scenica è sufficiente, dà senso e valore a ogni inquadratura. Scilla/Craig è un personaggio da teatro, che funziona perfettamente sia da sola, sia in coppia con Matthews. Anzi, con Matthews fa scintille e rischia di 90


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tenere tutto il film su un livello di brio fin troppo elevato, al punto da diventare indistinto. Così Fuest le affianca il pacato John Wood, flemmatico gentiluomo inglese che impersona John Martin, l’amico del cuore della Craig, che si rifugia da lui dopo aver abbandonato il marito troppo amico delle donne e della bottiglia. Fin dal suo primo film Fuest, che applica il meglio della tecnica appresa in televisione e in pubblicità, dimostra di avere un senso innato del ritmo. Potenzialmente Just Like a Woman è un musical, nel senso che ogni sequenza ha un suo tempo specifico, ogni movimento segue un’ideale partitura. È un film gioioso, lieve, mozartiano, scandito da una musicalità interna, e alcune sequenze ricordano il ballo improvvisato nel bistrot in Vivre sa vie di Godard e anticipano lo spirito di Un sogno lungo un giorno di Coppola. Il sottofondo musicale è sempre presente nel film, dove tutto sembra un balletto, compresa la scena in cui Scilla è sola e sconsolata nella sua micro-casasala da bagno. Nella sua opera prima Fuest racconta la vita quotidiana di una ragazza inglese degli anni ’60 -un po’ come fece Richard Lester con The Knack infondendo fantasia e ritmo nella vita di tutti i giorni, ispirandosi alla recitazione da telefilm, ma nobilitandola, trasformandola, come se dovesse affrontare un esercizio di stile, una variazione sul tema, mostrando anche un gusto per la comicità brillante, alla Mike Nichols. Questa prerogativa, che dà vita a una regia da pièce teatrale brillante, si coglie soprattutto quando John porta a casa la nuova fidanzata e Scilla compare dopo essere stata nascosta nel bagno. Tutto il film è pervaso da un forte senso grafico, che tradisce la formazione di Fuest come pittore e scenografo. Un’attenzione notevole alla conformazione degli ambienti, che a volte sfocia anche in un minimalismo totale per esempio nelle sequenze girate nello studio televisivo, dove non ci sono scenografie, ma solo spazi bianchi e dove gli attori in un vuoto irreale. In certe sequenze Fuest strizza l’occhio al linguaggio pubblicitario (è il caso della scena in cui Scilla si reca allo showroom dell’arredobagno, in altre punta sul cinema d’autore e crea scene di ispirazione felliniana, come quella immaginata da una Scilla sognante, memore di Giulietta degli spiriti o dello Sceicco bianco, che si figura il marito in un ambiente candido e immacolato, rannicchiato in una seduta sospesa di Nanna Ditzel, circondato di splendide donne vestite di bianco. In un altro caso ancora Fuest privilegia il tema della gag da serie televisiva. Ci riferiamo alla scena di culto in cui viene presentato l’architetto Fischer, cui Scilla si rivolge per il progetto del microappartamento. Fischer è un per92


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sonaggio degno di un episodio di Agente speciale: nello studio dell’eccentrico progettista uno degli impiegati disegna sullo spartito di un pianoforte posto su una pedana girevole e, come se non bastasse, quando l’architetto esce dal suo studio, su una lussuosa auto d’epoca, viene preceduto da microcar Messerschmidt guidate da uomini vestiti da piloti da caccia. Una curiosità: per l’occasione Fuest si cimentò anche come paroliere e firmò i testi delle canzoni Let’s take a chance e Just like a Woman.

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Wuthering Heights (1970)

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Capitolo sesto WuTHERINg HEIgHTS (1970) CIME TEMPESToSE Il soggetto, tratto dal romanzo di Emily Brontë, racconta la storia di Wuthering Heights, una residenza nella campagna inglese i cui si sono intrecciati vari destini. Domina la trama la storia d’amore tra il giovane Heathcliff, e Catherine Earnshaw, la figlia del padrone di casa. Amore osteggiato dal fratello di lei, Hindley, al punto che Heathcliff se ne andrà a Londra e Cathy sposerà il nobile Edgar Linton. Alla fine Hindley si indebiterà giocando e sarà costretto a vendere la residenza a Heathcliff, mentre Cathy, dopo essere quasi impazzita per l’amore impossibile per Heathcliff, muore in giovane età.

Robert Fuest si è spesso cimentato nelle rivisitazioni, nelle variazioni sul tema, riprendendo e modificando i linguaggi, perseguendo una sua personale sperimentazione. A volte questo lavoro l’ha fatto “dall’interno”, misurandosi con i canoni tradizionali del cinema e modificandoli; altre volte ha scelto una scala di riferimenti più ampia, considerando anche altre forme narrative o visive. In questo senso, Cime tempestose rappresenta un esempio interessante da analizzare, in quanto qui Fuest si misura innanzitutto con la letteratura (il romanzo di Emily Brontë), ma anche con la pittura (l’atmosfera del film è mutuata dall’immaginario di alcuni grandi pittori inglesi del ’700 e ’800 e con i film tratti dal medesimo romanzo che l’hanno preceduto). Partiamo dal fondo, dal discorso puramente cinematografico. All’inizio degli anni ’70 erano due i riferimenti obbligati per chi si cimentasse con una trasposizione di Cime tempestose: Wuthering Heights di William Wyler del 1939, presentato in Italia col titolo La voce nella tempesta e Abismos de pasión di Luis Buñuel, del 1954. Il film di Buñuel, ambientato in Messico, con i protagonisti ribattezzati Catalina e Alejandro, è molto caricato, la recitazione appare forzata, c’è un’eccessiva derivazione letteraria. Invece il film di Wyler è un utile punto di partenza per definire il film di Fuest; in particolare, Laurence Olivier, che ha caratterizzato il suo personaggio con una decisa brutalità, appare come il prototipo dell’Heathcliff interpretato da Timothy Dalton. 95


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Wuthering Heights (1970)

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Per certi aspetti Fuest ha impostato la sua personale rilettura di Cime tempestose basandosi direttamente sul film di Wyler, piuttosto che sul romanzo della Brontë. Il film di Buñuel tendenzialmente non aveva tenuto conto del fondamentale precedente fissato da Wyler e aveva scelto la strada della fonte originale. Fuest invece ragiona in termini cinematografici, si riferisce alla fonte secondaria, e cerca di far progredire il discorso fissato da Wyler, trasformandolo secondo la sua sensibilità. Il metalinguaggio di Fuest quindi prescinde dal soggetto primario, il romanzo, e punta direttamente al film. È una scelta coraggiosa e importante, che si affianca ad altre decisioni inedite, per esempio al desiderio di stravolgere sequenze del romanzo: la differenza più rilevante riguarda Hindley Earnshaw, che qui non è visto esattamente come l’oppressore di Heathcliff. L’altra grande ispirazione è la pittura. I paesaggi che nel film di Fuest fanno da sfondo alla passione di Heathcliff e Catherine hanno la stessa potenza dei quadri di Turner e di Gainsborough. Il film, in cui si respira la stessa atmosfera della grande pittura inglese romantica, evocata anche grazie al lavoro del direttore della fotografia John Coquillon, punta su una sintassi visiva lineare: ci sono suggestivi campi lunghi alternati a primissimi piani (una delle sequenze iniziali è una panoramica con primissimi piani dei volti delle persone che assistono al funerale di Catherine) e a ritratti di interni memori della pittura di genere. Per esempio, nella carrellata all’indietro nella prima sequenza dopo i titoli di testa c’è un interno di campagna che pare un dipinto di Wright of Derby, immerso in luci e ombre drammatiche. Il film, prodotto da Arkoff e Nicholson -gli stessi produttori dei film di Phibes - è come un insieme di tableaux vivants tratti da quadri della pittura inglese d’epoca romantica: è come se i quadri si animassero e prendessero vita. Cime tempestose di Fuest ha una struttura ciclica. Si apre e si chiude con il funerale di Catherine. Quindi è pensato come un lunghissimo flashback che ci porta indietro negli anni, a ripercorrere tutta la vicenda della tormentata storia d’amore di Catherine e Heathcliffe. In tal modo è come se Fuest avesse cristallizzato tutta la storia che sta tra le due visioni del funerale, quella iniziale, con la panoramica sulla gente che piange davanti alla tomba, come in The Final Programme, e quella finale, con le sequenze in cui Heathcliff vaga come un pazzo credendo di vedere la fidanzata, che appare come un fantasma, prima di essere ucciso da Earnshaw. Significativo che il film si apra col ritorno alla terra: questo è un film sulla natura, molto presente, e sugli uomini che si mantengono fedeli e vicini alla natura, contrapposti a chi invece rinnega questa discendenza e diventa schia97


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Wuthering Heights (1970)

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vo delle convenzioni sociali. Heathcliff cerca disperatamente di resistere al cambiamento che gli viene imposto dalla società, è un ribelle che non voleva recidere il cordone ombelicale con la natura. Anche Phibes, un altro grande personaggio fuestiano, era un ribelle, ma molto diverso da Hethcliff: Phibes era l’uomo artificiale, tutto costruito, l’uomo che si era allontanato completamente dalla natura. Successivamente Fuest avrebbe messo in scena un ulteriore esempio, cioè l’uomo reinventato dagli scienziati di The Final Programme. Il lavoro di Fuest sui metalinguaggi e sulle implicazioni filosofiche del film è supportato da un ottimo cast. Il giovane Timothy Dalton, che qualche anno dopo vestirà i panni di James Bond, è più che convincente: ha una recitazione molto istintiva, aggressiva, possiede un magnetismo animalesco. In tutto il film c’è il gusto per una passione istintuale, dove ci si tocca, ci si annusa, ci si ama senza compromessi, c’è una fortissima voglia di naturalità, lontana dalle convenzioni che prescrivono di mantenere le distanze. E Dalton interpreta perfettamente questo modo di essere, riprendendo la lezione di Olivier e spingendosi anche oltre, giocando ad arte sul concetto di istintualità trattenuta, in una serie di grandi prove d’attore. Si disegnano così una serie di rapporti interpersonali e di relazioni più o meno rispettosi delle convenzioni, che danno vita ad altrettanti modi di vivere lo spazio dell’altro, in un discorso affine alle teorizzazioni di Goffman. È un tema caro a Fuest, che nel Mostro della strada di campagna fece un grosso lavoro sulle distanze interpersonali da mantenere. In quel film si tendeva a creare delle barriere invisibili invalicabili, in Cime tempestose invece è il contrario, si cerca di elidere le distanze, anche se naturalmente la società inglese dell’epoca prescriveva di mantenerle ben definite. Heathcliff cerca disperatamente di infrangere le convenzioni e di eliminare quelle barriere. Lo stesso istinto animale, il bisogno di vivere senza essere domata né addomesticata, è reso magistralmente da Anna Calder-Marshall, un’attrice che si era vista in Pussycat, Pussycat…Ti amo e che poi avrebbe lavorato soprattutto in televisione. La Cathy di Anna Calder-Marshall e Heathcliff di Dalton sono splendidamente animaleschi, quando litigano, quando fanno l’amore nel fienile, quando fanno le boccacce dietro la porta vetrata, mentre Frances suona il piano e i padroni di casa gli aizzano contro i cani. Heathcliff è come un selvaggio, è sempre sporco, cerca il contatto fisico. Cathy invece vuol diventare pulita, asettica come i suoi padroni. Così a un certo punto Cathy perde la sua animalità e diventa elegante, mentre Heathcliff rimane ancora per un po’ sporco e brutale e sarà trattato come un 99


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animale braccato. Però quando Cathy è sulla buona strada per il suo cambiamento e Heathcliff scappa, la ragazza si ammala e tende a riappropriarsi del suo aspetto selvaggio. Poi si riprende e si forza di essere pulita ed elegante, e si lega a Edgar. Nella metamorfosi finale vediamo Heathcliff trasformato in un gran signore. Ed è questo il momento cruciale della storia: quando si ritrovano soli, dopo tre anni, Cathy (sposatasi con Edgar) e Heathcliff non sanno più come toccarsi, quale distanza sociale tenere tra loro. C’è comunque un ritorno di fiamma, un’altra ondata di istinto animalesco, ancora più forte perché sopito, quando Heathcliff si scaglia contro Edgar che aveva origliato dietro la porta. Pregevole il lavoro degli altri attori: Edgar è Ian Ogilvy, il barone Von Curt dell’episodio di The Avengers They keep killing Steed, Hugh Griffith, il dottore, è il rabbino dell’Abominevole Dr. Phibes. Molto brava anche Hilary Dwyer (già vista nel Grande inquisitore con Vincent Price) che interpreta Isabella. La musica è di Michel Legrand.

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Capitolo settimo AND SooN THE DARkNESS (1970) IL MoSTRo DELLA STRADA DI CAMPAgNA Due ragazze inglesi, Cathy e Jane, vanno in vacanza in Provenza. Durante un’escursione in bicicletta, Cathy sparisce nel bosco. Jane cerca di scoprire che fine abbia fatto l’amica e si imbatte in una serie di personaggi ambigui. Quando crederà di essere al sicuro, trova il cadavere dell’amica e rischia di essere uccisa lei stessa da un gendarme, che si scopre essere il maniaco assassino.

Le condizioni meteorologiche avverse spesso sono un valido aiuto per definire l’atmosfera dei film thriller, come dimostrano i tanti “gaslight dramas” di gusto vittoriano, con gli attori perennemente avvolti nelle nebbie, o Seven di David Fincher, dove una pioggia incessante definisce una sorta di scenografia psicologica che funziona molto bene ai fini della narrazione. Nel Mostro della strada di campagna, Fuest ha voluto invece andare controcorrente, evitando ogni possibile ausilio, mettendo in scena un omicidio che si svolge in pieno sole. L’idea fu di Brian Clemens, uno degli ideatori della serie The Avengers, che pensò di cambiare per una volta le regole di un genere, evitando la nebbia, la pioggia, il buio, e creando un contrasto netto e deciso tra una vicenda oscura e una giornata sfavillante. Nacque così un film insolito, scritto da Clemens con Terry Nation, un altro grande autore della tv britannica, e reclamizzato come un “sun-drenched nightmare”, “un incubo immerso nel sole”. Come abbiamo già notato, per Fuest, che nasce come scenografo, gli spazi sono fondamentali ai fini dell’azione, e spesso arrivano a condizionarla, se non a determinarla: un certo décor è sempre funzionale alle decisioni che vengono prese dai personaggi. La scenografia per Fuest è tanto un’estensione degli interpreti quanto una specie di prologo della storia, sintetizzata in un racconto architettonico, come avviene con l’inquietante residenza londinese del Dr. Phibes. Qui le cose cambiano. Almeno per la prima parte del film Fuest accetta di buon grado sia di non avere costruzioni ben definite che facciano parte del 101


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As Soon the Darkness (1970)

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p. 145 Vincent Price e Valli Kemp in Dr. Phibes Rises Again. p. 146 Valli Kemp nel ruolo di Vulnavia in Dr. Phibes Rises Again. p. 147 Vincent Price interpreta il Dr. Phibes durante il viaggio in Egitto in Dr. Phibes Rises Again. p. 148 Vincent Price nel ruolo del Dr. Phibes in Dr. Phibes Rises Again. p. 149 Valli Kemp interpreta Vulnavia in Dr. Phibes Rises Again. p. 150 Il Dr. Phibes all’organo in The Abominable Dr. Phibes (Courtesy Robert Fuest). p. 151 Vincent Price e Valli Kemp in Dr. Phibes Rises Again. p. 152 Un momento della lavorazione di The Abominable Dr. Phibes (Courtesy Robert Fuest). p. 153 Fuest spiega una scena a Joseph Cotten e a Peter Jeffrey sul set di The Abominable Dr. Phibes (Courtesy Robert Fuest). p. 154 Milton Reid in Dr. Phibes Rises Again. p. 155 Vincent Price e Alex Scott in The Abominable Dr. Phibes. p. 156 Vincent Price e Robert Fuest in Dr. Phibes Rises Again (Courtesy Robert Fuest). p. 157 Vincent Price e Robert Fuest in Dr. Phibes Rises Again (Courtesy Robert Fuest). p. 158 Valli Kemp e Vincent Price in Dr. Phibes Rises Again. p. 159 Joseph Cotten e Vincent Price in The Abominable Dr. Phibes. p. 160 Valli Kemp, Robert Fuest e Vincent Price in Dr. Phibes Rises Again (Courtesy Robert Fuest). p. 161 Peter Jeffrey, Joseph Cotten e Robert Fuest in The Abominable Dr. Phibes (Courtesy Robert Fuest). p. 162 Robert Fuest sul set di And Soon the Darkness (Courtesy Robert Fuest). p. 163 Valli Kemp come Vulnavia in Dr. Phibes Rises Again. p. 164 Robert Quarry e Vincent Price in Dr. Phibes Rises Again. p. 165 Valli Kemp e Vincent Price in Dr. Phibes Rises Again. p. 166 Vincent Price e Valli Kemp in Dr. Phibes Rises Again. p. 167 Vincent Price, il Dr. Phibes, in Dr. Phibes Rises Again. p. 168 Fiona Lewis, Vincent Price e Valli Kemp sul set di Dr. Phibes Rises Again. p. 169 Virginia North durante la lavorazione di The Abominable Dr. Phibes. p. 170 Robert Fuest spiega una scena a Pamela Franklin sul set di And Soon the Darkness (Courtesy Robert Fuest). p. 171 Un disegno giovanile di Robert Fuest (Courtesy Robert Fuest). p. 172 Robert Fuest.

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Sequenze immobili: Fuest pittore di Mario Gerosa Negli ultimi anni Robert Fuest, lasciata la macchina da presa, si dedica soprattutto alla pittura, che poi è il suo primo amore. Infatti all’Accademia ha studiato pittura, prima di dedicarsi alla scenografia e quindi al cinema. Appare quindi come un percorso ciclico quello dell’autore de L’Abominevole Dr. Phibes, un itinerario che paradossalmente potrebbe comportare anche una totale rilettura della sua opera e del suo mondo, alla luce di questa grande passione, vista come fulcro per una serie di scelte creative. A quel punto certe movenze e certi modi di atteggiarsi di Phibes, riportati in ambito artistico e ovviamente epurati del coté criminoso, potrebbero fare pensare al lifestyle e alla megalomania estetica di un genio e un istrione come Salvador Dalì, e sempre rimanendo in tema di epopea phibesiana, si potrebbe azzardare un’identificazione tra Vincent Price attore e Vincent Price cultore delle belle arti, in un complesso gioco di specchi. A questo proposito, va ricordato che Vincent Price, grande collezionista e esperto d’arte, scrisse anche alcuni libri di una certa importanza, come I Like What I Know. A Visual Autobiography (1959), dove raccontò e analizzò molte opere della sua raccolta, e The Vincent Price Treasury of American Art (1972). Rimandando ai capitoli dedicati al Dr. Phibes per la trattazione del concetto dell’assassinio come una delle belle arti - un discorso ripreso anche da Hickox in Oscar insanguinato - qui sottolineiamo invece la forte ciclicità del discorso sulla pittura, che ritorna periodicamente a informare, in diversi modi, l’opera di Fuest. In verità il regista non ha mai abbandonato la sua passione originaria e la specificità della pittura ritorna in tutti i suoi film, con rimandi più o meno decisi. Just Like a Woman è un film impregnato di Pop art, inglese ma anche americana (Scilla Alexander, la protagonista, per certi aspetti pare l’incarnazione di un quadro con fumetto di Roy Lichtenstein); lo stesso The Final Programme ridefinisce cinematograficamente alcune trovate e invenzioni dell’arte contemporanea, strizzando l’occhio a Lucio Fontana e agli architetti della Space Age, mentre in altri frangenti Fuest punta sul classico: esemplari sono Wuthering Heights, che risente molto dell’influenza della pittura inglese del ’700, e Aphrodite, che appare come una rivisitazione postmoderna della pittura vittoriana di Leighton e Alma-Tadema. La pittura appare quindi come un imprescindibile motivo dominante per Fuest, che non di rado ha dato ai suoi film una costruzione artistica vicina a 173


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The Boat, olio su tela, cm 92 x 152, (courtesy John Adams Fine Art, Londra).

The Church, olio su tela, cm 76 x 137, (courtesy John Adams Fine Art, Londra).

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