David Lynch. Inland Empire

Page 1

DAVIDEMORELLO

DAVID LYNCH INLAND EMPIRE

CNYL D I V A FALSOPIANO LIGHT


FALSOPIANO

eBOOK

Davide Morello

DAVID LYNCH INLAND EMPIRE


INDICE

Prefazione di Giampiero Frasca

p. 7

Introduzione

p. 13

Capitolo primo Mondi Possibili

p. 23

La crisi del soggetto

p. 23

Il soggetto in crisi

p. 38

Il riflesso, lo schermo, il simulacro

p. 53

Soggetto ibrido

p. 64

Poetiche autoriflessive e metalinguaggio

p. 77


Capitolo secondo Figure dell’enunciazione

p. 87

“L’enunciazione impersonale”

p. 87

Soggettiva e interpellazione: i luoghi dell’identificazione e dello straniamento

p. 106

Spettatore, Spettatori

p. 119

Capitolo terzo Forme del visibile

p. 133

Figure classiche alla deriva: il volto, il fuoricampo

p. 133

Figure dell’immersione

p. 155

Spazi multipli e reversibili

p. 162

Luce ed isotopie cromatiche

p. 171

Colore

p. 180


Capitolo quarto Tempi perduti

p. 191

Appuntamenti mancati: l’eterno presente

p. 191

Acronie

p. 205

Ripetizioni

p. 209

Montaggi

p. 217

Capitolo quinto Il fascino indiscreto del sonoro

p. 227

Montaggio verticale

p. 227

Silenzi e fratture

p. 236

Voci dall’altro mondo

p. 245

Musica e video

p. 251

Bibliografia

p. 267

Musiche

p. 271



PREFAZIONE Nello stesso periodo in cui i suoi illustri colleghi si preoccupavano di teste di cavallo mozzate recapitate con le notizie del mattino, di minacciosi monologhi ad uno specchio armato di pistola oppure di anonime autocisterne sfreccianti contro paranoici commessi viaggiatori, lui era intrappolato in una sorta di dimensione parallela nella quale annaffiava strani baccelli gravidi di donne anziane, nell’attesa di creare nottetempo un incubo in chiaroscuro popolato da feti gommosamente amorfi. Intorno, il cinema americano viveva un’esaltante e definitiva rinascita grazie alle nuove leve di una Hollywood più spontanea e meno squillante cromaticamente, ma lui, David Lynch, era completamente assorto nel suo progetto unico e forsennato di fornire dinamismo ai tormenti della sua passione pittorica. Lontano dalle correnti, esterno ai movimenti, estraneo alle convenzioni, indifferente alle mode, ma promotore di uno stile pronto a farsi discorso e a catturare l’attenzione entusiasta di una nutrita schiera di fans che ne condivide le atmosfere rarefatte e allucinate, la perturbante costruzione del mostruoso quotidiano e l’inquietante logica ancorata ad un sistema di valori ulteriore, parallelo e spesso inafferrabile. Allo stesso modo, un po’ per sfida, un po’ per tentare di circoscrivere una rappresentazione magmatica, pronta ad esondare oltre ogni barriera interpretativa posta per delimitarla, un po’ perché, tirando le somme, l’impeto che muove lo studioso è una sorta di amore feticista la cui corrispondenza è verificabile soltanto nella scrittura e in ciò che si presume di dimostrare, Lynch è stato oggetto di una proliferazione di analisi critiche che proprio in virtù (a causa, quando le interpretazioni non tornano) della grande varietà di assi espressivi, percettivi e

7


simbolici sollecitati si prestano dapprima a stimolare e poi ad accogliere i più disparati modelli interpretativi. Psicoanalisi, semiotica del testo, strutturalismo e poststrutturalismo, meccanismi dell’enunciazione dilatati come un elastico, processi cognitivi sondati attraverso una stratificazione penetrante: il cinema di Lynch, con modalità quasi beffarde, accoglie una gran varietà di ipotesi di studio proprio per la ricchezza di elementi messi in scena e narrati attraverso intrecci costruiti sempre più spesso su uno spiazzante avvolgimento speculare. Beffardo perché lo stesso Lynch, pur rendendo il suo universo denso ed ipertrofico, si trincera dietro un’ideale rete di recinzione wellesiana su cui campeggia il suo personale “No Trespassing”: non un atteggiamento blasé con il quale molti dei cineasti americani usano presentare se stessi e la loro opera, ma proprio una presa di distanza con cui si diffida sardonicamente il soggetto che oltre a guardare intende indagare dall’approfondire con la certezza del comprendere pienamente. Lasciate ogni speranza voi spettatori che scrutate. Basterebbe fare riferimento a due sequenze assolutamente slegate dal contesto come quella delle inquietanti smorfie della pacchiana Lil, apparentemente scomposte e gratuite, in realtà decodificate secondo una logica esclusivamente autoreferenziale (e pleonastica) dal detective Chris Isaak in Fuoco cammina con me, oppure, tanto per ribadire il concetto, come quella ambientata nel Club Silencio di Mulholland Drive, in cui si assiste ad una netta disarticolazione tra soggetto ed emissione sonora, tanto più scollegata quanto più è elevato il grado di partecipazione emotiva. Come interpretare questi segmenti? Soprattutto perché interpretarli? E se lo scopo fosse l’assunzione diretta e la completa partecipazione come unico obiettivo di un ipotetico scambio tra il presentatore/regista e il pubblico/spettatore? «No hay banda: è solo un nastro». Di Moebius, forse, tanto per

8


citare per l’ennesima volta uno dei riferimenti esegetici più abusati circa le strutture del racconto adottate da Lynch, attribuendo ora ad un nome ora ad un altro la primogenitura critica di un richiamo che lo stesso Lynch ha utilizzato spesso nelle interviste rilasciate alle riviste francesi ai tempi di Strade perdute. Una delle poche verità incontrovertibili è che l’universo lynchiano segue logiche interne particolari e distintive, uniche nel panorama cinematografico perché uniche e personali sono le sue tipiche ossessioni, esclusivo il fantasma che le anima in un continuo turbinio di invenzioni, incubi ed enigmi inspiegabili partoriti direttamente dal suo subconscio. Non è un caso che l’unico approccio analitico non ancora praticato per studiare il suo cinema sia quello pragmatico: come negli anni della formazione la sua arte era insensibile agli effetti contestuali della Nuova Hollywood, così, lungo tutta la sua carriera, i mutamenti della società, le cornici ambientali, lo stesso sistema produttivo paiono averlo influenzato impercettibilmente, sicuramente non quanto le sue intime e gigantesche inquietudini. La logica di Lynch è infatti tutta interna al suo ego, indubbiamente disancorata dal referente reale, di cui sfrutta semplicemente l’involucro e i codici elementari del riconoscimento iconico (ma forse, ed è piacevole pensarlo, solo per instaurare un accordo possibile con il pubblico), per soffermarsi su un’assiologia e su un campionario di circostanze ed eventi che si dotano di una spiegazione soltanto facendo riferimento ad un’intimità artistica, alla sua filmografia, ad un cifrario a cui si ha accesso unicamente con la pratica costante di un universo, non certo con la mera applicazione degli strumenti ermeneutici tradizionali. All’interno di ambienti soffocanti, colorati ipertroficamente anche senza il ricorso alla malìa melodrammatica del technicolor, a contatto con figure smaniose, frenetiche e spesso ripugnanti, coinvolti in flashback che spezzano il flusso del

9


racconto creando rivoli metadiscorsivi riferiti ad ulteriori eventualità narrative, attratti da dettagli frastornanti e particolari sgradevoli, turbati da un’oscurità che s’impossessa progressivamente delle superfici e dei corpi, e di certo non consolati da squarci di luce al neon che paiono sempre sul punto di esalare il loro ultimo respiro utile, l’universo caratteristico di Lynch si apre continuamente a conseguenze la cui inspiegabile mancanza di cause determinanti origina uno smarrimento che è autentico sprofondamento negli abissi di una razionalità messa sempre a dura prova. L’impianto cinematografico di Lynch spalanca quindi le sue porte d’accesso, una volta di più, all’imponderabile, alla presenza significante del caso, alle istanze subconscie che tramutano la loro essenza incubica in sostanza del racconto, in materia organica che sulla pellicola (o sull’intangibile flusso del digitale) si trasforma in superficie tattile, corrosa e formicolante, se non addirittura deformata in base al principio caratteristico di un’alterazione raggelante del quotidiano, con lo scopo di generare lo squilibrio da ciò che appare maggiormente familiare. In questa deformazione dell’ordinario a cui concorre il peso considerevole di una casualità spesso imprevista anche in sede di realizzazione (si pensi all’aneddoto più famoso: il Frank Silva che nel pilot di Twin Peaks viene colto per caso dalla macchina da presa dietro la testiera di un letto che stava per riparare e si trasforma in una delle maschere più spaventose del cinema di Lynch, paragonabile alla Clara Calamai nello specchio di Profondo rosso), si affaccia forse l’elemento narrativo peculiare di un cinema basato sull’improvvisa irruzione dello sconcertante e che fa dell’epifania, appunto, il grimaldello in grado di scardinare ogni singolo passaggio narrativo e di inaugurare ogni nuova fase del racconto. Apparizioni spesso inspiegabili, sicuramente inattese, mai preparate da una suspense che è insita nella complessa costru-

10


zione di un’atmosfera guasta e non veicolata al singolo effetto-asorpresa. Apparizioni che rivelano contemporaneamente la presenza di varchi tra il mondo (supposto) reale e l’universo mentale, tra il familiare (seppur snaturato) e l’onirico: tutto il cinema di Lynch può essere letto come un’opera di stratificazione in itinere in cui l’obiettivo perseguito è un autentico abbattimento delle barriere mobili che si frappongono osmoticamente tra una dimensione e l’altra. La fatina di Cuore selvaggio, il palcoscenico su cui si esibisce la donna del radiatore di Eraserhead, i conigli domestici di Rabbits che si saldano ad Inland Empire, i torvi nani di Twin Peaks, un intero intreccio, quello di Velluto Blu, compreso tra un orecchio ritrovato in un giardino come se fosse una margherita e un altro orecchio, di Kyle MacLachlan rilassato nello stesso giardino al termine della pellicola, sono le immagini penetranti di un cortocircuito perenne che si nutre e si esalta soprattutto con ciò che comprende al suo interno. Una messa in scena capace di consacrare gli spiragli di accesso ad un regno dove tutto è possibile e di cui qualunque realtà fa parte, una poetica dell’interstizio nella quale i varchi spazio-temporali di Inland Empire sono, insieme, ossessione d’autore, realizzazione metadiscorsiva, viaggio escheriano nei meandri dell’impossibile, ma anche sfida diretta allo spettatore/analista nel tentativo di spingere ancora oltre l’opportunità di recepire adeguatamente (e compiutamente) il suo cinema.

11


12


INTRODUZIONE Ad una prima visione Inland Empire rivela tutta la sua complessità in quanto testo narrativo caotico, articolato e stratificato, con una serie di livelli diegetici che interagiscono e dialogano reciprocamente senza soluzione di continuità. È un testo eterogeneo che ad una attenta analisi mostra e mette in campo il suo stesso principio compositivo e strutturale all’insegna dell’autoriflessività, del gioco metalinguistico, attraverso contenuti e forme che si prestano a ragionare, in un ottica contemporanea, sul mezzo cinematografico, sulle sue potenzialità espressive e narrative che Lynch adotta in uno stile sempre sperimentale. Il tessuto culturale che fa da sfondo è quello postmoderno in cui il regista si pone all’avanguardia oltrepassando i canoni estetici consolidati e conducendo all’estremo il principio di autocoscienza, in un gioco di specchi la cui articolazione fornisce stimoli per un percorso interpretativo plurimo che passa inevitabilmente attraverso l’analisi di un metalinguaggio in grado di spaziare tra citazioni interne e forti legami intertestuali. Sono i modelli, i cliché, i generi cinematografici i motivi ricorrenti di una tradizione che vengono rielaborati, citati e messi in questione tramite una scrittura e una narrazione che tendono a interrogarsi su se stesse, a rinnovarsi e confrontarsi con uno stile che si afferma simultaneamente come allucinato, surreale e di sperimentazione linguistica attenta ai singoli elementi espressivi che, nel processo di mise en abyme, vengono costantemente tematizzati. È il cinema il vero oggetto del film, ma anche lo stesso linguaggio cinematografico, il patto comunicativo che esso intrattiene con lo spettatore, la sua natura di simulacro, che lo avvicina al processo

13


psichico, onirico, e che coinvolge le stesse proprietà di prodotto o oggetto artistico. L’etichetta di pastiche postmoderno o neobarocco è senza dubbio ampia e generica perché permetta di mettere a fuoco le peculiarità di una pellicola che si afferma in quanto testo contenitore o collage postmoderno. Ma nell’articolato impianto testuale del film, l’approfondita analisi delle componenti espressive permette di individuare su più livelli criteri compositivi basati sull’accumulazione, sulla logica a-causale, sulla coesistenza di piani narrativi, dimensioni spazio-temporali e materiali di differente natura, nel costitutivo carattere di testo frammentato che si offre come tale nelle sue microstrutture quanto nel suo complesso. La frammentazione e la singola unità sono i termini di confronto entro cui ruota la considerazione sulle dinamiche narrative, sulla connotazione dei personaggi, sull’identità e sul corpo, sulla costruzione di universi diegetici, sull’impiego dei mezzi espressivi volti a delineare atmosfere drammatiche o stranianti; sull’utilizzo di forme sintattiche che tendono a scomporre e spezzare percorsi diegetici, spazi e flussi cronologici lineari, fino all’astrazione; sulla produzione di frazionate e multiple letture. Indice di tale processo cumulativo di frammenti strutturali è l’incipit che fornisce il punto di partenza per l’approfondimento di numerose componenti tematiche e discorsive offrendosi come sintesi rappresentativa e condensata dei procedimenti linguistici, comunicativi e contenutistici posti in essere dal film, che troveranno ampio sviluppo nell’intricato tessuto narrativo. Esso propone un approccio dai differenti punti di vista che contemplano sia il materiale narrativo dal quale è composto, la discontinuità dello spazio e del tempo, sia l’utilizzo delle luci, dei colori, del suono, che divengono paradigmatici di un sistema che possiede le caratteristiche di

14


una composizione aperta, di un’opera in continuo divenire, che mantiene tuttavia una rigida architettura fatta di richiami, rime, simmetrie e analogie. Il decentramento e la dispersione sono sintomatici effetti e manifestazioni di un sistema instabile e ambiguo nel suo carattere polisemico e nella molteplicità delle isotopie che l’intreccio concorre a formulare. Tutto tende verso la perdita di un equilibrio che passa lungo lacune e omissioni informative, visive, attraverso l’istituzione di paralleli mondi immaginari a scapito della linearità narrativa. Valorizzazione del fuoricampo come dell’ellissi, della disinquadratura tendente al suo massimo livello di astrazione, capace gradualmente di inglobare il testo fino a confondersi con effetti suggestivi di superficie, o immersivi, di pure sensazioni audio-visive. La scrittura e il principio di costruzione si impongono come tali e subordinano i potenziali sviluppi narrativi permettendo alle stesse figure enunciative di emergere come marche autonome rispetto alla coerenza e all’unità dell’enunciato. Infatti ad imporsi in questa estetica del simulacro sono le potenze del falso e ad entrare in crisi il sistema della verosimiglianza. La narrazione procede per smentite e contraddizioni aprendosi alla simultaneità di più storie possibili, dei diversi futuri dischiusi a sviluppi differenti e alternativi, originando una vera e propria antistoria. Ciò è dovuto ai continui e improvvisi salti fra livelli narrativi che tendono a confondersi, alle soluzioni stranianti che conducono lo spettatore all’interno del flusso narrativo, per ricondurlo alla sua posizione esterna tramite un’improvvisa svolta, un meccanismo metalinguistico che gli fa prendere le distanze dal coinvolgimento emotivo. Il referente non è la realtà ma l’atto stesso della simulazione, il processo metanarrativo che giustifica la verosimiglianza all’interno di un testo che si articola secondo i principi del film nel

15


film, in cui tutto si raddoppia, si stratifica e che permette la compresenza di più storie interrelate, che comunicano a più livelli e si compenetrano: il film originale, il suo remake, il film di grado inferiore, che si presenta ancora, nella costruzione ambigua, come l’oggetto di un’ulteriore visione. Procedure di occultamento e di smascheramento che coinvolgono i blocchi narrativi quanto le singole immagini, attestano la natura simulacrale, illusoria della stessa macchina cinema, del suo artificio, capace di creare suggestioni, variazioni testuali infinite, che trovano la perfetta aderenza in un sistema governato dalle leggi dell’immaginario, del sogno e dell’incubo. Emblema di una tale costruzione è la figura dell’ipnosi che non svolge solo la sua rilevante funzione tematica e culturale, ma diviene metafora di un processo comunicativo che si instaura fra il film e il suo spettatore, in cui la stessa suggestione assume connotazioni diverse: in quanto manifestazione della cura ipnotica, come relazione di identificazione, frustrazione, vincolo comunicativo fra il film e il suo destinatario e come strumento di persuasione tipico di un certo cinema contemporaneo, che come quello della storica avanguardia, promuove sensazioni pure in una concezione del tempo indirizzata al presente e al simultaneo. La crisi del soggetto concerne dunque l’identità di personaggi dal carattere talmente fluttuante da diventare doppi distribuiti indistintamente lungo le ingarbugliate maglie di un intreccio che a sua volta subisce le interferenze e le distorsioni all’interno della sua catena significante. Altro indice di tale proprietà dispersiva è infatti la crisi del soggetto narrativo, del principio di causalità, è l’imporsi della relatività, del regime del falso e della contraddizione, della sua dominante e costitutiva natura ibrida. Il criterio cumulativo, l’eterogeneità dei contenuti e delle forme

16


fanno di questo testo singolarmente postmoderno un luogo in cui l’effetto estraniante concilia una scrittura classica, una moderna e una iperreale, in una sorta di unione metanarrativa contemporanea. La narrazione forte del cinema hollywoodiano, quella debole antinarrativa confluiscono in un sistema riflessivo che mette in campo le dinamiche della comunicazione e chiama in causa uno spettatore disincantato o frastornato come lo è quello contemporaneo. Il noir, l’horror, il mistery, il melodramma, il musical, la poetica surrealista, con le loro peculiarità espressive, si trovano amalgamati e sapientemente elaborati in un contesto che tende verso la frammentazione e la conseguente accumulazione postmoderna, ma che passa anche attraverso una concezione errante e decostruttiva, soggettiva, della modernità. Da un punto di vista testuale i simulacri riguardano le figure dell’enunciazione, le entità che a livello profondo riguardano i poli della comunicazione. L’enunciatore e l’enunciatario sono messi in scena rispettivamente come principio ordinatore che presiede al testo filmico e come destinatario della comunicazione tramite un procedimento metalinguistico che non solo esibisce il processo costitutivo del film, il suo stesso meccanismo di costruzione, ma che moltiplica le istanze narrative e ricettive, i narratori e i narratari incarnati dai personaggi. Confluiscono due approcci differenti dell’analisi, quello di Casetti che vede il film come sistema comunicativo che ruota intorno alle figure della deissi e la formula impersonale di Metz, in cui l’enunciazione corrisponde al testo stesso, che si dà come artificio e impianto comunicativo attraverso le sue stesse figure riflessive. Gli schermi secondari, gli specchi, il film nel film sono elementi mimetici della mise en abyme, ma anche la scrittura, le relazioni che si instaurano fra i vari strati della narrazione permettono di indagare il

17


principio organizzativo del materiale filmico, in cui l’enunciazione si confonde con l’enunciato, la forma e lo stile divengono oggetto del racconto e stimolano il gioco interpretativo. Marche esplicite dell’enunciazione costellano il film in un articolato intreccio metanarrativo le cui metafore e le componenti strutturali del racconto sono oggetto della narrazione. I segni d’interpunzione perdono la loro funzione di punteggiatura, i flashback il loro carattere esplicativo, la soggettività il suo centro focale. Oggettive irreali, o iperreali, soggettive aperte e interpellazioni più o meno simulate, rimandano a figure dell’assenza, a mancate chiusure del racconto. L’ambiguità che ne scaturisce si riscontra su più livelli di indagine, compreso il flusso informativo che il film articola, il sapere che filtra in direzione del suo destinatario. I narratori che si moltiplicano nella diegesi non sono altro che doppi dello stesso regista che confondono i percorsi di lettura e ingarbugliano i fili dell’intreccio, sono inattendibili e i relativi destinatari diegetici, i narratari, non fanno che replicare la figura del destinatario reale in sala. Le dinamiche della focalizzazione e dell’ocularizzazione producono così cortocircuiti percettivi e cognitivi orientati e disseminati all’interno del testo. Lo spettatore è quindi plurale, continuamente attratto e respinto dai processi messi in atto dalla pellicola, destinatario di informazioni devianti e contraddittorie, costretto a trovare costantemente una sua posizione, spinto a godere del suo ruolo di percezione attiva, di stimoli interpretativi cui si affida e che rimette in questione, in balia di immagini e suoni pirotecnici che valorizzano ed enfatizzato l’istante e l’effetto immersivo, complice dell’ambiguità dell’opera. Il suo stato di frustrazione è dovuto, tra l’altro, all’affermarsi di un’estetica del dettaglio che oltre all’oggettiva iperreale mette in campo una serie di configurazioni del primo piano, dello spazio

18


contratto che enfatizza e delinea quella tendenza alla ricerca del disorientamento e del decentramento restituita anche sul piano iconico e il cui ambiente frammentato nega la continuità, la trasparenza e il carattere inglobante. Il volto è il luogo della sperimentazione visiva, simbolo della disgregazione, della moltiplicazione e distorsione che il cinema, come le altre arti figurative, ha condotto all’insegna della frantumazione e della scomposizione del corpo. Ma il decentramento, la perdita di un equilibrio è caratteristica di tutta una concezione dello spazio, della stessa costruzione di mondi intercambiabili, dinamici, mai restituiti nella loro globalità, mondi immaginari che si danno come paralleli, in qualità di un fuoricampo limitrofo. Le soluzioni classiche di continuità e di una lineare scrittura subiscono incrinature che, come i racconti aperti, le visioni, tendono a non raccordarsi, o svelare, tramite procedimenti usuali, profonde lacune, buchi, incompatibilità nella strutturazione degli universi diegetici. La soluzione del campo e controcampo, ad esempio, nella sua fluidità, e nel ridondante utilizzo della sintassi convenzionale, è condotta all’estremo e come il trattamento del volto, subisce una deformazione, uno stravolgimento che pone in questione la natura delle relazioni spaziali che si instaurano fra le inquadrature, le quali, a loro volta, giocano e mettono in evidenza i criteri di composizione, una dialettica fra ricerca della superficie, esaltazione della bidimensionalità e strutturazione prospettica accuratamente messa in scena. Si produce così, in seno alla tracciabilità di uno spazio definito, una continua apertura che verte sul raccordo e sullo spazio sempre inatteso relegato a lato dell’immagine, che si afferma come indice di spaesamento e sorpresa, la cui contiguità è data dalla frammentazione, nella quale tutto si uniforma ad un livello altro, quello delle possibilità e delle libere associazioni. In questi termini, il fuoricampo, nella varietà di soluzioni a cui dà adito, si relaziona con quelle figure dell’assenza

19


che sono le interpellazioni e le soggettive senza soggetto come conseguenza di marche stilistiche condotte, come molte altre, all’eccesso e inserite all’interno di una riflessione sulla scrittura e sulle possibilità poetiche del patto comunicativo. Le figure dell’immersione rientrano a pieno titolo in un utilizzo di procedimenti stilistici marcati che subordinano la logica narrativa all’effetto o fuoco d’artificio formale, così come è individuato da Jullier nel suo studio sul cinema postmoderno. La carrellata, lo zoom, la prospettiva e la superficie, l’effetto clip dal montaggio serrato e discontinuo sono i sintomi di una scrittura che cerca le suggestioni e si concentra sulle sensazioni procurate dagli effetti visivi e acustici cui è attribuita anche una funzione ludica. La luce come il colore sono altri importanti elementi di una composizione visiva e tematica che permettono di individuare un’ampia varietà compositiva che tiene conto della stratificazione del materiale diegetico pronto ad interagire e a spaziare dall’utilizzo drammatico, espressivo, simbolico, straniante o indifferente della luce e dei valori cromatici, i quali, a tratti, non si affermano se non come pura referenza. Anche sotto questo aspetto il film sembra offrire quell’esercizio di stile che gioca sulle variazioni sul tema, sul collage che accorpa valenze alternative, classiche e sperimentali atte a condurre ad un’attenta elaborazione della tessitura dell’immagine filmica. Procede fra iperrealismo e astrazione, contribuisce ad accrescere il potenziale polisemico e di ambiguità dell’immagine, o devia, si emancipa da un ruolo significante rivendicando una propria autonomia, imponendosi nel discorso filmico come elemento dissociativo, a sé stante, svincolato dalla produzione di senso. Gli ambienti reversibili, comunicanti nella loro analogia, costituiscono un labirinto in cui i passaggi fra mondi rappresentati producono quello scarto e quella frattura tipica dell’apertura del rac-

20


conto del suo meccanismo di incassamenti e vertiginosi salti fra livelli. Transizioni avvertibili nella continuità e raffigurati spazialmente dal materiale passaggio attraverso i varchi, le porte, le scale: autentiche soglie, rappresentanti visivamente e diegeticamente la saldatura e la connessione fra universi e piani del racconto apparentemente inconciliabili. Come avviene per le coordinate spaziali, anche quelle dell’asse cronologico si sfaldano, divengono labili, anzi lo stesso indice di schizofrenia della cultura postmoderna si manifesta come collasso della linearità temporale in cui le categorie di passato e futuro si comprimono in un eterno presente, a favore delle coordinate spaziali, che assumono la loro valenza autonoma. La conseguenza di questo stravolgimento è la crisi della catena significante, del principio di causalità e il consolidamento di una frattura consequenziale degli eventi e della storia al plurale. I riferimenti cronologici perdono la loro validità e si impongono come emblematici di un enigma irrisolto, la memoria subisce il suo scacco e la dispersione si manifesta attraverso analessi e prolessi che tendono a confondersi, proliferazioni interne di biforcazioni temporali, flashback all’interno di flashforward che valorizzano le figure retoriche dell’anacronia, sintagmi atemporali, acronie che si insediano attraverso specifici procedimenti linguistici quali sintagmi paralleli e cumulativi, a graffa, tramite un montaggio analogico, formale, connotativo, e tramite la figura della ripetizione tematica e discorsiva, che sovverte, annulla e dilata il tempo della storia e quello del racconto, si svincola dalla soggettività per costituire quella valenza frammentaria dell’intreccio e, naturalmente, per affermarsi come artificio e marca enunciativa che riconduce al principio organizzativo che sottende il patto comunicativo. Altro mezzo immersivo che adempie, in questo contesto, alla valorizzazione di un pre-

21


sente continuo della fruizione e al sovvertimento della contiguità cronologica. Il carattere specificamente temporale del suono, della musica, l’articolazione complessa del montaggio all’interno dell’economia del film permettono alla colonna sonora di assumere un ruolo di rilievo a partire dai rumori, dalla loro assenza, dal silenzio e dalle musiche impiegate da Lynch nella composizione di una vera e propria orchestrazione di elementi audiovisivi in cui, come nell’effetto clip e nel musical, il suono veicola le immagini, assolve al compito di connotare gli sviluppi drammatici, di rendersi autonomo e farsi carico della funzione significante in luogo del visivo. Anche il suono riveste un ruolo empatico con il dramma e la dinamizzazione delle immagini secondo un principio di logica interna, in accordo con una certa classica concezione del montaggio verticale, e contemporaneamente produce forme di dissonanza e contrasto che si impongono come flusso continuo marcato da cesure e sospensioni. Il missaggio audio operato da Lynch e dai suoi collaboratori permette di ottenere variazioni e arrangiamenti che si integrano ad una colonna sonora fedele alle leggi e ai principi fin qui delineate del pastiche e della simultaneità espressiva. Numerosi effetti sono ottenuti con la sovrapposizione di differenti elementi sonori coesistenti, che si richiamano in una strutturazione di rime e alternanze, o vengono isolati nel silenzio perché esibiscano anch’essi il loro statuto simulacrale. Come altri elementi della colonna audio, le voci sono strumenti di comunicazione fra livelli del racconto, mezzi di raccordo fra mondi incompatibili e fluttuanti, che si compenetrano e instaurano un rapporto dialettico e dialogico fra le dinamiche dell’ascolto e quelle dello sguardo.

22


FALSOPIANO

eBOOK

© Edizioni Falsopiano - 2009 Via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Prima edizione - Novembre 2009


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.