Tra le immagini. Per una teoria dell'intervallo

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C’è qualcosa tra le immagini? L’esperienza visiva è davvero solo un semplice flusso compatto e indifferenziato di impulsi, una cascata di fantasmi che ci avvolgono, ci seducono e anestetizzano? Questo libro invita a percorrere un piccolo viaggio negli spazi intermedi che separano un’immagine dall’altra, negli intervalli che le dividono e le uniscono al tempo stesso. Lo spazio vuoto è tra le cose, un rifugio, un luogo in cui lo spettatore impara a vedere, e il cinema dei vuoti è una forma di resistenza all’epoca del virtuale.

Massimiliano Fierro è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Bergamo, dove si occupa principalmente di estetica del cinema sperimentale e documentari. I suoi interessi scientifici riguardano soprattutto la teoria e l’analisi dell’immagine. Direttore artistico di un festival di cortometraggi cinematografici, curatore di rassegne e retrospettive, ha pubblicato diversi saggi e contributi apparsi su riviste accademiche, atti di convegni e libri.

ISBN 978-88-89782-82-8

€ 20.00

FALSOPIANO

€ 18,00

EDIZIONI FALSOPIANO

CINEMA

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massimiliano fierro  TRA LE IMMAGINI     PER UNA TEORIA DELL’INTERVALLO

massimiliano fierro TRA LE IMMAGINI PER UNA TEORIA DELL’INTERVALLO TRA LE IMMAGINI PER UNA TEORIA DELL’INTERVALLO massimiliano fierro PER UNA TEORIA DELL’INTERVALLO massimiliano fierro TRA LE IMMAGINI

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CINEMA


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Ai miei genitori e a mia sorella Elisa


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massimiliano fierro TRA LE IMMAGINI PER UNA TEORIA DELL’INTERVALLO TRA LE IMMAGINI PER UNA TEORIA DELL’INTERVALLO massimiliano fierro PER UNA TEORIA DELL’INTERVALLO massimiliano fierro TRA LE IMMAGINI

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FALSOPIANO


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Ringraziamenti Un ringraziamento va al prof. Alberto Castoldi per il sostegno ricevuto in questi anni di ricerca, nel corso dei quali ho posto le basi per lo sviluppo e l’ideazione del presente lavoro. Questo libro poi non sarebbe stato possibile senza l’appoggio, il sostegno e i consigli di Barbara Grespi, che ringrazio per aver avuto la pazienza e la costanza di credere e di sostenere le mie diverse “scorribande di pensiero”, sperando di averle suggestivamente concretizzate in queste pagine. Un grazie sincero a Peter Tscherkassky, sempre gentile e disponibile nel rendermi partecipe della sua esperienza e della sua professionalità di artista. Grazie, infine, a Giulia, che mi ha supportato nella revisione finale di questo lavoro, dandomi preziosi consigli e suggerimenti.

In copertina: Peter Tscherkassky, Instructions for a Light and Sound Machine, 2005

“Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Università degli studi di Bergamo, Dipartimento di Lettere, arti e multimedialità, autore Massimiliano Fierro”.

© Edizioni Falsopiano - 2012 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini Stampa: Arti Grafiche Atena - Vicenza Prima edizione - Aprile 2012


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INDICE

Introduzione Sentire ancora il Tempo

p. 11

Capitolo primo Sospensioni, aperture, tracce: intervalli

p. 25

1. Al di lĂ del flusso? Primo approccio: intervallo come cronoestesia tra materia e diegesi

p. 25

1.1. Il graffio

p. 31

1.2. La macchia

p. 34

1.3. La stasi

p. 39

2. Verso il secondo approccio

p. 42

3. Al di lĂ del flusso? Secondo approccio: cronoestesie tra sguardo e mondo

p. 44

3.1. Quello che non posso mostrarti: il cinema di Abbas Kiarostami

p. 49


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Capitolo secondo L’intervallo nel cinema di Dziga Vertov

p. 63

1. L’intervallo: passaggio da un movimento all’altro

p. 63

2. Cogliere la vita sul fatto attraverso film che producono film

p. 68

3. Kinoglaz

p. 73

4. L’uomo con la macchina da presa

p. 79

4.1. Postilla: girare la manovella... scorre il treno sulle rotaie

p. 83

Capitolo terzo L’intervallo nel cinema di Peter Tscherkassky

p. 93

1. Peter Tscherkassky e DzigaVertov

p. 93

2. Un viaggio nella materia per raccontare diversamente

p. 111

2.1. Gli operai di luce e buio

p. 111

2.2. Outer Space

p. 112

2.3. Fisicità e de-localizzazione immaginaria

p. 123

2.4. Instructions for a Light and Sound Machine

p. 124


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2.5. Coming Attractions: all’incrocio tra sguardi

p. 126

Conclusione Intervalli, respiri e cuciture del visibile

p. 135

Bibliografia

p. 142


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William Hogarth, Time Smoking a Picture, 1761

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INTRODUZIONE

Perché un’azione che [ha] luogo nel tempo non è esattamente la stessa cosa di un’azione creata dall’esercizio del tempo Maya Deren

Sentire ancora il Tempo Sarà capitato a molti di poggiare un disco in vinile sul piatto del proprio giradischi, di sganciare il braccetto della puntina per farlo scendere lentamente sul tracciato e poi aspettare: un attimo prima che ci si abbandoni all’ascolto, il solito graffio sonoro di assestamento della puntina che, incanalandosi tra i solchi, introduce la registrazione ‘pura’ della musica. Se in questa semplice azione fossimo ancora disposti a sentire all’opera una sorta di doppio ascolto, la musica certo, quella che ci cattura con la sua intensità e la sua immediatezza avviluppante, ma contemporaneamente anche il fruscio discontinuo provocato dal graffio della puntina nella traccia che radica, materializza e che in qualche modo opacizza il nostro stesso sentire (che lo distrae), allora in quel caso saremmo ancora disposti a intraprendere questo piccolo viaggio alla scoperta dell’intervallo che, almeno in prima istanza, non potrà mai essere una definizione da applicare, semmai una sensibilità da (ri)scoprire. Si tratterebbe dunque di recuperare una certa disponibilità a sentire nel flusso (di immagini, di suoni) la presenza incessante di una ‘frattura’, di un momento diastematico che lo aprirebbe e lo esporrebbe a un diverso ascolto, a una diversa visione 1. La questione intervallare, infatti, è direttamente implicata in quella che potremmo chiamare una certa affezione tra evento percepito e sguardo/corpo affetto da quella percezione, tra l’evidenza di ciò che vediamo e il momento decostruttivo che serve necessariamente per contestualizzarla e per comprenderla 2: solo all’incrocio tra una certa immediatezza dell’evento percettivo e una decisa,

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quanto evidente, pratica decostruttiva potrà allora manifestarsi una sensibilità diastematica, capace ancora di sentire e di percepire nel corso della fruizione, così come nel processo compositivo del film, l’azione discontinua e formativa del Tempo 3. Ma quale dimensione temporale è in gioco, o per meglio dire, quale temporalità (pre)suppone la nozione di intervallo cinematografico che qui si intende analizzare? È forse il tempo della diegesi, quello che ad esempio può regolare il rapporto tra fabula e intreccio ad interessarci, o è più semplicemente il tempo effettivo e cronologico della visione del film? È il tempo dell’evento rappresentato, o è quello che si manifesta nella durata stessa della rappresentazione? Questo studio non prenderà in considerazione nessuna delle due prospettive, semmai farà attenzione al loro reciproco incrociarsi e intrecciarsi. Il tempo cinematografico che si intende evidenziare, dunque, non potrà mai essere quello chiuso esclusivamente sulla diegesi, quello cioè che domina l’universo immaginario creato dal film, semmai sarà quello che apre la diegesi al tempo consapevole dello sguardo (all’evidenza del nostro sguardo) 4, al tempo di una ricezione/fruizione che non si fonda unicamente su fenomeni di immedesimazione con personaggi ed eventi, ma su una relazione sempre aperta e disponibile tra sguardi, corpi affetti e processi discontinui e stranianti. Al di là dello stereotipo del puro intrattenimento dunque, il cinema che qui verrà preso in esame sarà quello che metterà in evidenza forme «[…] critico-espressive […] - che inducono lo spettatore - […] ad approfondire ed elaborare consapevolmente il fluire delle immagini» 5. L’intervallo è allora l’elemento decisivo della fruizione cinematografica, intesa non più come semplice flusso ininterrotto (di immagini), ma momento discontinuo provocato dall’intreccio e dall’incrocio tra qualcosa che si offre alla visione e qualcosa che invece chiama in causa la nostra capacità di comprenderlo e di riceverlo. Tra identificazione e straniamento, tra partecipazione e sospensione, tra comprensione e spaesamento: il cinema dovrebbe ancora conservare delle zone di installo (intervalli, appunto), spazi intermedi dove potersi collocare

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come soggetti/spettatori attivi, dotati di uno sguardo critico, affetto e toccato da qualcosa 6. Sarebbe però alquanto presuntuoso voler esaurire in queste pagine tutti gli aspetti e le relative posizioni in gioco. Prenderò dunque in esame solo due possibili manifestazioni, due approcci alla questione intervallare (capitoli 2 e 3) come possibili alternative ad un cinema che troppo spesso smette di problematizzare il rapporto fruitivo, che troppo spesso nasconde e maschera la dimensione processuale e discontinua del tempo che in quello stesso rapporto è in atto e che, infine, mira semplicemente a costruire una macchina diegetica inviolabile, inattaccabile e senza falle 7. C’è stato indubbiamente un regista, e grande teorico del cinema, che più di ogni altro e prima di ogni altro ha sottolineato l’urgenza di questo recupero, l’esigenza cioè di far sentire l’azione del tempo compositivo del film su quello semplicemente passivo e per così dire orizzontale della visione standardizzata: Sergej Michajlovic Ejzenstejn. Nel recente studio The wings of hypothesis. On Montage and the Theory of the Interval 8, dedicato alla nascita e allo sviluppo della nozione di intervallo nel contesto della generale euforia epistemologica degli anni Venti, la studiosa americana Annette Michelson individua proprio in Ejzenstejn e in Dziga Vertov le due principali matrici di questo sviluppo. Il periodo post bellico, secondo la Michelson, creò una serie di ipotesi e di obiettivi generalmente condivisi che misero a disposizione nuovi strumenti cognitivi per accedere al reale con più forza e con più incisività. In quegli anni, infatti, la fascinazione e la diffusione della teoria della relatività eisteiniana aveva fermamente contribuito a detronizzare l’accezione di tempo, ora non più tiranno imposto dall’esterno, semmai una forma e una dimensione piuttosto espandibile (anche spaziale dunque) che non sottostava più alla rigida e apparentemente invincibile regola del prima e del dopo. L’uomo poteva dunque sviluppare e adottare un atteggiamento più attivo nei confronti del tempo, meno passivo di fronte al suo imperioso e inevitabile scorrere. Anche le teorie del cinema, in particolare quelle sovietiche di Vertov e di Ejzenstejn, risentirono di questo clima di euforia epistemo-

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logica: Vertov scrive - «Kinoglaz come teoria della relatività sullo schermo», e così Ejzenstejn - «È ormai tempo di smetterla con questa paura d’una quarta dimensione. Lo stesso Einstein ci rassicura […]» 9. Apparvero proprio in questo contesto le prime riflessioni sull’intervallo cinematografico, pensato innanzitutto come passo avanzato della tecnica di montaggio 10. Non scenderò nel dettaglio e nelle questioni sollevate dalla studiosa americana, lasciando al capitolo dedicato a Vertov il compito di analizzare il singolo caso, mi preme per il momento solo sottolineare come l’euforia di quegli anni abbia contribuito a sollecitare una nuova visione del cinema (e di conseguenza di approccio e di approfondimento del reale), un nuovo impatto col Tempo e con lo Spazio dei quali il cinema si fece e si fa a suo modo carico (se non altro come possibile uscita dall’impasse di una narrazione piatta e uniforme legata ad eredità letterarie e teatrali) 11. La complessità del pensiero ejzenstejniano sulla questione è nota, mi limiterò pertanto a presentare alcune linee teoriche guida. Secondo Ejzenstejn, il montaggio, anello fondamentale della catena compositiva, è in grado di esplicitare e di rendere evidente il processo dinamico della creazione artistica, proprio perché riesce a favorire e a provocare quella che si potrebbe intendere come una verticalizzazione anacronistica del tempo compositivo: il tempo cioè, si ritrae dalla semplice successione (di eventi, di cose) che favorirebbe solo l’evoluzione cronologica della diegesi, per ricomparire come istantaneità della composizione, come frattura improvvisa e anacronistica all’interno della continuità del flusso visivo 12. La celebre sequenza della centrifuga ne Il vecchio e il nuovo (1929) è in questo senso esemplificativa: in essa assistiamo al tentativo di introdurre un’innovazione tecnologica (una centrifuga per la scrematura del latte) all’interno di una cooperativa agricola capeggiata dalla contadina Marfa. Inizialmente vediamo Marfa caricare di latte la scrematrice che dovrà produrre più facilmente e velocemente la panna. Ejzenštejn comincia col piano più diretto e rappresentativo, ovvero quello della recitazione e della presenza dei personaggi sulla scena, montando insieme una galleria di volti che

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manifestano l’attesa e, almeno inizialmente, la diffidenza verso la nuova macchina. Successivamente si assiste a una prima verticalizzazione del senso della sequenza (che Ejzenstejn chiama movimento estatico delle immagini), a un primo cambio di registro, perché la sequenza passa a una dominante più astratta: la luce. Gli stessi volti, infatti, vengono illuminati marcatamente e il montaggio si fa via via più rapido e intermittente. Si comincia quindi a percepire che la progressione dinamica e orizzontale del primo ambito, quello informativo (cioè un gruppo di contadini si stringe attorno a una centrifuga in attesa degli sviluppi), si sospende a favore di un movimento che marca gli stati d’animo e le reazioni attraverso dei piani espressivi eterogenei (in questo caso piani contrastati di luce). Ma il processo trasformativo è solo all’inizio: il salto ulteriore (ex-stasi) avviene immediatamente dopo, quando la macchina scrematrice subentra ai personaggi nel ruolo di protagonista. Una goccia di panna, in bilico e sul bordo inferiore del cannello della centrifuga, finalmente si stacca: comincia il processo di crescita. Un’improvvisa verticalizzazione si sostituisce all’andamento progressivo della sequenza; l’evento viene ripetutamente sottolineato da una veloce commutazione e interazione tra vari piani espressivi: la goccia diventa un fiotto di panna che, a sua volta, si alterna alle immagini di un’altra materia estranea e anacronistica, i getti d’acqua che zampillano da fontane. La trasformazione ancora non si esaurisce, perché i getti d’acqua diventano ora fuochi d’artificio, in un crescendo ritmico più volte sottolineato dal movimento rotatorio della centrifuga che, a sua volta, proietta sul volto dei contadini delle macchie di luce. L’ultima trasformazione e verticalizzazione è data dalle cifre che si frappongono all’interno del crescendo ritmico del montaggio, marcando l’idea di quantità attraverso un registro ancora più astratto e decontestualizzato (i numeri): la figura 1 ripercorre a grandi linee questo percorso trasformativo. Ejzenštejn dunque vuole mostrare i processi di meccanizzazione, di ammodernamento e di crescita, che costituiscono i contenuti e il tema della sequenza, attraverso una strutturazione organica e formale del tutto peculiare che lui stesso definisce “drammaturgia

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fig. 1 S.M.Ejzenstejn, Il vecchio e il nuovo, 1929

della forma”, e lo fa procedendo con una incessante commutazione dei vari piani espressivi a disposizione, senza più preoccuparsi di rispettare una verosimiglianza narrativa. È come se si volesse sospendere l’andamento lineare ed orizzontale della diegesi (la successione temporale e cronologica degli eventi narrativi), a favore di forme sovra-strutturate che fanno letteralmente sentire il tempo della composizione cinematografica, come simultanea e verticale azione di tutti gli stimoli sollecitati 13. Emerge dunque una sensibilità processuale come tratto distintivo di un cinema che può e che deve arricchire le modalità classiche del racconto, facendole interagire all’interno di una vera e propria orchestrazione organica dei vari elementi di cui dispone il linguaggio stesso. Ejzenstejn torna più volte su questo aspetto, si prenda ad esempio il saggio Il cinema in quattro dimensioni 14. Il regista sovietico affronta la distinzione tra montaggio tonale, dunque ortodosso, e quello sovratonale (quello che appunto utilizza tutto il materiale che ha a disposizione).

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«Distinguendosi dal montaggio ortodosso secondo le dominanti particolari, - scrive - “Il vecchio e il nuovo” fu montato in modo diverso. All’aristocrazia di dominanti individualistiche sostituimmo un metodo di democratica uguaglianza di diritti per tutte le provocazioni o stimoli, considerandoli come un insieme, un complesso» 15. Il cinema dunque può e deve poter utilizzare tutti gli elementi (sovratonali) che ha a disposizione: «[p]er esempio, al sex appeal d’una bella diva americana - prosegue - s’accompagnano molti stimoli: quello del tessuto, dato dalla stoffa del vestito; quello della luce, dato dall’illuminazione equilibrata o enfatica della figura; […] In una parola, lo stimolo centrale (diciamo sessuale, come nel nostro esempio) è sempre accompagnato da un intero complesso di stimoli secondari […]» 16. Si tratta di un metodo compositivo molto simile a quanto accade nella musica; scrive infatti Ejzenstejn: «alla vibrazione di un tono dominante fondamentale s’accompagna un’intera serie di vibrazioni analogiche chiamate sovratoni o sottotoni. I loro urti reciproci, […] avvolgono il tono fondamentale in una massa di vibrazioni secondarie» 17. Ejzenstejn sottolinea dunque l’importanza di queste vibrazioni collaterali, di queste vibrazioni della composizione (musicale e visiva), come fossero i palpiti di un flusso che altrimenti risulterebbe indifferenziato, piatto, orizzontale. Questa nuova «sensazione dell’inquadratura», come la chiama Ejzenstejn 18, quest’idea dell’inquadratura come un tutto organico, favorisce una fruizione fisiologica del processo creativo cinematografico: «per il sovratono musicale (un palpito) non è veramente esatto dire: “io odo”. Né per il sovratono visivo: “io vedo”. Per entrambi, deve entrare nel nostro vocabolario una nuova formula ambivalente: “io sento”» 19. Sarà solo nella dinamica processuale (cioè solo nel corso della proiezione per il cinema, e nell’esecuzione orchestrale per la musica) che i sovratoni emergeranno e si faranno sentire: solo cioè quando il sovratono, la vibrazione, emergerà come parte integrante di una quarta dimensione (il tempo della fruizione e dell’esecuzione) che potrà manifestarsi questa processualità in atto e che il vedere e l’udire potranno identificarsi col più profondo sentire. Dalla

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semplice percezione alla più profonda affezione fisiologica: Ejzenstejn colloca esattamente in questo passaggio l’importanza della quarta dimensione, il tempo ‘sentito’ e verticale del processo formante. Per semplificare la questione, travisando un po’ l’impostazione ejzenstejniana ma anche centrando un aspetto decisivo per questo studio, si tratterebbe di pensare al rapporto tra l’orizzontalità e la verticalità della composizione alla luce di quello tra prosa e poesia: come scrive Maya Deren, una delle maggiori rappresentanti della seconda avanguardia americana, ciò che distingue la poesia «è la costruzione (ciò che intendo per struttura poetica) che nasce dall’esplorazione di una situazione in verticale preoccupandosi di percepirne la qualità e la profondità in quel momento; la poesia non si preoccupa di quello che succede, ma delle sensazioni che provoca e del loro significato […]. Può anche esistere al suo interno l’azione, ma il suo sviluppo ha un andamento che chiamerei verticale diversamente dallo sviluppo in senso orizzontale del dramma che passa, all’interno di una situazione, da un sentimento ad un altro […]. [N]ello sviluppo orizzontale della narrazione la logica è quella delle azioni. Nello sviluppo verticale è la logica di un’emozione o un’idea che funge da fulcro e attrae a sé le immagini più disparate […]. [I]l cinema, credo, si presta particolarmente all’espressione poetica, perché è essenzialmente montaggio» 20. Sottrarre il tempo dall’orizzontalità della cronia rappresentativo-narrativa: è proprio sotto questa luce che è possibile pensare inizialmente la nozione di intervallo come possibile reintroduzione di una certa sensibilità nei confronti dello scorrere discontinuo (simultaneo, sospensivo) del tempo, come possibilità che il flusso filmico diventi sì più denso (come avrebbe voluto Ejzenstejn, ovvero composto da registri e elementi che devono poter essere orchestrati e organizzati), ma anche sempre aperto e disponibile a virate, a interruzioni, a vuoti, a pause e a silenzi. Se dunque lo spettatore, fuori da una condizione fruitiva abituale e narcotizzata, deve condividere con l’autore non solo ciò che è rappresentato, ma anche il processo della rappresentazione, si

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potrebbe azzardare, ma solo per via approssimativa, che l’intervallo sia innanzitutto il frutto e al tempo stesso il mezzo di questa condivisione, il risultato di una dinamica differenziale che include il tempo come elemento decisivo. Condividere una processualità temporale è dunque adottare una forma resistenziale alla passività fruitiva indotta da un tempo esclusivamente schiacciato sulla diegesi, non disposto a rimettere continuamente in discussione la posizione dello spettatore e le sue coordinate rispetto a ciò che vede. Sarà solo all’interno di questa angolazione che inquadrerò il ruolo e la funzione dell’intervallo, consapevole che si tratta di un problema molto più vasto e che meriterebbe anche altre considerazioni, ma che in questa sede non è possibile approfondire. Se dunque per certi versi e in alcuni frangenti si tratterà di vedere all’opera una sorta di rivisitazione di un modello pseudo-formalista, racchiuso in questa libera parafrasi tratta da Tjnianov “abbiamo abbandonato da poco l’uso di far della critica discutendo (e giudicando) i personaggi dei romanzi (e dei film) come se fossero persone vive”, non si potrà allo stesso tempo dimenticare che nel cinema si attua un incessante andirivieni tra realtà e finzione, tra chiusure della diegesi e necessarie aperture che accolgono il nostro sguardo e che attestano la nostra stessa e fondamentale presenza attiva. Si tratta dunque di aspetti complementari e strettamente interdipendenti, che ruotano attorno ad una questione comune, quella che vede l’intervallo cinematografico come esposizione del tempo diegetico ad un’azione processuale e discontinua. Ecco dunque lo spunto dal quale avviare una ricerca che, ripeto, non vuole restituire definizioni da applicare, semmai contribuire a recuperare una certa sensibilità nei confronti di quella che Gillo Dorfles definisce cronoestesia, ovvero la nostra sensibilità per il passare del tempo e per la discontinuità del suo stesso procedere 21. Non il tempo che si esprime estensivamente, ma quello che si dispiega intensivamente attraverso apparizioni, epifanie, choc, sospensioni, silenzi. Non il tempo cronologico che si misura con l’orologio (né tantomeno, o solo, quello chiuso della diegesi), ma quel-

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lo trascorso che si sente con la coscienza dell’atto fruitivo, quello che avvertiamo solo nella consapevolezza del passaggio, dello scarto e del movimento estatico tra immagini, così come nel loro lascito e ‘ricordo’ (perché apparizioni fugaci), o nell’attesa, nell’addensamento e nella sospensione del loro rapporto 22. È in questo gioco di protenzioni e ritenzioni che il tempo fa il suo corso discontinuo, che il flusso (della visione) sente su di sé l’irruenza dell’intervallo come momento di sospensione/apparizione e anacronismo assoluto, dove il lontano si incontra con il vicino, il dentro con il fuori, la forma con il contenuto, il continuo con il discontinuo, la rappresentazione con il rappresentato, la cosa vista con l’atto del vedere, il dato con il costruito, la presenza con l’alterità, l’illusione con la verità 23. Il presente lavoro non smetterà di misurare la portata di queste riflessioni, e l’urgenza di questo recupero, anche alla luce della contemporaneità: che ne è infatti di questo tempo nell’era dell’immagine di sintesi e virtuale? Come poter ancora sentire il suo anacronismo se l’immagine mi costringe non a sentire la frattura e la scissione, ma a ricercare in essa i tratti di una rincorsa assurda alla perfezione che la rende senza più ombre, intoccabile e inviolabile all’ennesima potenza? Il progressivo processo di anestetizzazione del sensibile (e più in generale dello stesso atto fruitivo, spesso confuso per attivismo interattivo), messo in atto dall’avvento sempre più incisivo dell’immagine di sintesi, provoca una altrettanto progressiva perdita di una dimensione intervallare di fondo, verso una fruizione esclusivamente emotiva e/o di intrattenimento che rende l’immagine (e di conseguenza l’immaginario) inviolabile all’ennesima potenza (‘senza più cuciture’, secondo una bellissima definizione di Serge Daney). Non ci sono più spazi per il vuoto e per la pausa, ma solo per rincorse alla trasparenza, all’immediatezza (senza più filtri) e alla pienezza visiva. L’apparire delle immagini non porta più con sé alcuna duplicità, tutto è già pienamente visibile e udibile, non c’è più un vuoto, né più un silenzio e né più alcun intervallo da sentire 24.

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«Il nostro tempo non è mai pieno; anzi è carico e disseminato di pause, di iati. Ma noi non siamo più in grado di assaporare questa ‘disponibilità’ temporale perché abbiamo smarrito la libertà, l’apertura che ci veniva dalla presenza cosciente dell’intervallo» Gillo Dorfles Note 1 διάστημα - diastema, ovvero quel qualcosa che separa due eventi, due oggetti, due note musicali, due immagini.

2 Il presente lavoro è debitore delle riflessioni e del pensiero del filosofo Pietro Montani. Per un approfondimento e una problematizzazione di queste specifiche relazioni si rimanda ai testi: Pietro Montani, L’immaginazione narrativa, Guerini, Milano, 1999; Pietro Montani, Bioestetica, Carocci, Roma, 2007; id., L’immaginazione intermediale, Editori Laterza, Roma-Bari, 2010.

Si leggano a tal proposito alcune considerazioni sul montaggio e sulla ‘successione differenziale’: Tjnianov, “Le basi del cinema” in Giorgio Kraiski (a cura di), I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano, 1971, pp. 55-85. 3

4 Per l’accezione di “evidenza dello sguardo” si legga il saggio di Nancy sul cinema di Kiarostami: Jean-Luc Nancy, Abbas Kiarostami, Donzelli Editore, Roma, 2004.

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Mario Pezzella, Estetica del cinema, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 7.

Recupero l’idea di uno sguardo “alterato” da Marco Dinoi, Lo sguardo e l’evento, Le Lettere, Firenze, 2008. 6

7 Avrò modo di sottolineare come sia proprio su questa forma e idea di inaccessibilità che lo strapotere dell’immagine virtuale (di sintesi) il cinema degli effetti speciali, per intendersi - mostra la sua potenza e indipendenza.

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Annette Michelson, The wings of hypothesis. On Montage and the

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Theory of the Interval, in Matthew Teitelbaum (edited by), Montage and Modern Life: 1919-1942, Mit Press (Institute of Contemporary Art), Boston, 1992, pp. 61-81. Rispettivamente in Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione, Pietro Montani (a cura di), Mimesis, Milano-Udine, 2011, p. 75, e in Sergej M. Ejzenstejn, La forma cinematografica, Einaudi, Torino, 1986, p. 75. 9

«It was then, as well, that the major theoretical systems of modernity became the focus of cinematic projects. Marxism, pshychoanalisis, and the general theory of relativity were concretely considerer for cinematic articulation»: Annette Michelson, The wings of hypothesis, op. cit., p. 62. 10

11 Si leggano i numerosi slogan di Dziga Vertov sul Kinoglaz. Si veda il capitolo secondo del presente lavoro.

Faccio riferimento al saggio di Maurizio Grande, Simultaneità e verticalità: la sintesi del tempo, in Roberto de Gaetano (a cura di), Maurizio Grande, Il cinema in profondità di campo, Bulzoni, Roma, 2003. 12

13 Per un’analisi dettagliata della sequenza e per un approfondimento del pensiero ejzenstejninano, rimando ai diversi contributi raccolti in: Pietro Montani (a cura di), Sergej Ejzenstejn: oltre il cinema, Edizioni Biblioteca dell’Immagine - La Biennale, Venezia, 1991.

S. M. Ejzenstejn, “Il cinema in quattro dimensioni”, in S. M. Ejzenstejn La forma cinematografica, op. cit., pp. 69-76. 14

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Ivi, p. 71.

16

Ibidem.

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Ibidem.

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Ivi, p. 72.

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Ivi, p. 76.

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Dichiarazione fatta nel corso di una conferenza dedicata al rappor-

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to tra cinema e poesia, ora in Paolo Bertetto (a cura di), Il grande occhio della notte, Torino: Lindau, 1992, pp. 263-72. 21

Gillo Dorfles, L’intervallo perduto, Torino, Einaudi, 1980.

Devo questa bellissima definizione di ‘tempo della coscienza’ a Paolo Cerchi Usai, “Cinque pixel a forma di pera”, Segnocinema, 154, novembre-dicembre 2008, pp. 13-15 («manca [all’immagine digitale] […] il senso della durata, tipico della proiezione di immagini fisse intervallate a cadenza regolare da un’impercettibile oscurità [l’intervallo]. Non parlo in termini cronometrici: dieci secondi su pellicola sono (quasi) uguali su pixel. Mi riferisco piuttosto alla durata psicologica, a quella sensazione del tempo trascorso che si misura con la coscienza anziché con l’orologio[…] il pixel non [ha] ancora imparato ad invecchiare […] non posso fare a meno di prendere atto dell’immagine digitale come entità priva di memoria interiore. La sensibilità è un fenomeno analogico»). 22

23

Vedi nota 2.

Basta semplicemente considerare il fatto che l’immagine di sintesi, tagliando i ponti con il ‘reale’, non riconosce più l’alterità come fonte e sorgente donativa: non importa cosa ci sia davanti alla macchina da presa, perché l’immagine nasce e si sviluppa a prescindere, e in totale assenza di speculatività. 24

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Stan Brakhage, Reflections on Black, 1955. In basso Abbas Kiarostami, E la vita continua, 1992

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