Il caso Krolevsky

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FALSOPIANO

CINEMA


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FALSOPIANO


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In collaborazione con

Š Edizioni Falsopiano - 2012 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico: Luca Garagiola Foto di scena: Sara Fenu Impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini Prima edizione - Luglio 2012


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INDICE

Krolevsky non a caso di Roberto Lasagna

p. 9

Parte prima Un gioco scenico: biografia dal palco allo schermo

p. 13

Il caso Krolevsky e il caso Max Frisch: condensazioni di sistema di Stefano Donno

p. 15

Scacchi e fantasmi sul palcoscenico della vita. Spunti per un’analisi critica di Massimo Lechi

p. 27

Parte seconda Al di là del gioco scenico: il bianco e il nero

p. 49

La scacchiera cinematografica. Suggestioni intorno al Caso Krolevsky di Giovanni Robbiano

p. 51

Appunti di una Proiezione di Christian Zecca

p. 69

Parte terza Al di là del gioco scenico: Max Frisch e i suoi doppi

p. 87

Il gioco delle maschere. Una lettura filosofica di Nicola Bucci

p. 89

L’arte della memoria di Alessio Gambaro

p. 113

Appendice

p. 129

Le regole del gioco

p. 129

Chi è Krolevsky

p. 170


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Max Frisch

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Krolevsky non a caso di Roberto Lasagna

Il protagonista del film di Alessio Gambaro e Christian Zecca si pone domande a cui crede di poter dare possibili risposte. Le risposte provengono dalle mosse iterate dagli scacchi, ovverosia dalle reazioni innescate dal meccanismo del gioco, metafora e quintessenza della logica che governa la nostra esistenza. Il personaggio è un individuo solitario, un intellettuale che vive la crisi di un rapporto di coppia e, con l’occasione di una nuova conoscenza femminile, sperimenta non tanto la fuga dalla prevedibilità, quanto la messa in chiaro di un meccanismo, quello su cui ruota la drammaturgia reinventata pensando a Biografia di Max Frisch, dove il caso e l’imperscrutabile voce del destino paiono come ricomposti in una traiettoria di ripetizioni e di rimandi, fino al collasso della sincronicità. Il tempo non passa invano, eppure il personaggio ha la possibilità di rivivere ripetutamente i suoi incontri più significativi, aiutato dalla voce e dalla memoria di un “Registratore”, “Grande fratello” acustico che tutto sa ma che scolpisce il tempo con la sua impassibilità tecnologica vestita di vecchi sapori (ad un vinile dalle tinte ipnotizzanti è affidata la banda sonora del coadiuvante amico devoto allo scorrere del tempo). Gambaro e Zecca ambientano il loro film in un ambiente familiare: è l’abitazione del protagonista il luogo in cui scorgiamo le prime immagini: il corpo magro di un personaggio maschile, lo studioso che si trascina nella sua casa-studio, tra i cristalli delle bottiglie che sono vetri mai infranti, ombre lucide di una planimetria seguita dalla macchina da presa di Gambaro con suadente e algida opacità. Poi, la messa in scena dentro la messa in scena. Dentro una sorta di sala d’aspetto, ovvero la stanza del protagonista adibita a tea9


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trino della perenne attesa, si dipana l’incontro reale-virtuale tra il ricercatore in crisi e la ventinovenne desiderosa di ammiccamenti. Il loro dialogo ha movenze surreali, parole sopra le righe, ammiccamenti intellettualistici. La macchina da presa si muove sinuosa, predilige le inquadrature dal basso, coglie la grandezza di questa coppia di anime perse in cerca di un’unione. E l’Unione arriva. Prima dei titoli di testa che sanciscono l’avvio alla parte più complessa del film, quando i piani del racconto si moltiplicano, gli eventi si ripropongono da visuali differenti e con sfumature di senso impercettibilmente mutate. Il “registratore” continua a registrare la vita e il protagonista si mostra mai pacificato, sebbene attraversato da un’ironia che è comune anche alle donne della sua vita, soprattutto all’incontro fatale che però non sembra risolvergli granché. I dubbi amletici del personaggio sono ribaditi dagli “incappucciati” che appaiono a contraltare di una rappresentazione altrimenti moderna, tra i guizzi della camera a mano in stile “nouvelle vague” o “nouveau dogma” e le visioni futuriste dal chiarore iperreale in cui si disputano le partite a scacchi. Quegli “incappucciati” sono come un sottobosco teatrale dal retrogusto antico, a confronto con la rappresentazione vistosamente moderna del teatrino che divora la vita di un intellettuale in cerca di intellettualismi. Film ibrido, intrigante, parte benissimo. La commistione di ambienti e sapori culturali differenti trova una misura espressiva grazie agli eleganti movimenti di macchina, all’ironia e alla freschezza degli interpreti, di cui ci piace segnalare soprattutto la bravura delle figure femminili. A loro è affidata la naturalezza capace di scardinare e sovvertire pienamente quella ricerca di una logica stoica nella scacchiera dell’esistenza: non a caso, lui gioca ed invita a seguire le regole, loro subiscono le regole e preferiscono non mettere in campo tutti i dettagli che potrebbero farle capitolare presto. È il gioco della seduzione e il fascino dell’intelligenza, dissipato talvolta nella pretesa di trovare un senso nel gioco, quando 10


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il senso è l’atto stesso del giocare. Il caso Krolevsky propone Max Frisch come testo attuale e ottiene di rendercelo enigmatico, autorefenziale. Ne espone i meccanismi, il gioco a incastri nel quale la finzione contiene un’altra finzione e così via fino all’accettazione di una scena collettiva e finale, nella quale tutti ci agitiamo. È un presagio dei tempi moderni, ovverosia sessantottini (Biografia è di quegli anni) alla luce di una riflessione sul linguaggio audiovisivo ora accattivante, ora più oscura ma sempre e comunque personale. Questo libro è, al contempo, un approfondimento e un compendio: nasce come lavoro autonomo ma si propone di accompagnare un film enigmatico fin dal titolo, Il caso Krolevsky, di cui è materiale sussidiario, utile per chi desideri conoscere le fonti ispiratrici del film, le riflessioni attorno al lavoro di regia, gli argomenti che rendono conto del pensiero di Max Frisch. Nessuna ipotesi di esaustività ha guidato gli estensori del testo, ma l’autentica vocazione a rielaborare e mettere continuamente in discussione un lavoro che esprime il suo senso anche nell’evidenza del suo farsi. Con l’augurio che il lettore curioso di Frisch possa diventare presto anche un curioso delle immagini dei due talentuosi filmmakers.

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Max Frisch

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Parte prima Un gioco scenico: biografia dal palco allo schermo

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Il caso Krolevsky e il caso Max Frisch: condensazioni di sistema di Stefano Donno

È davvero sorprendente come con poco, anzi con niente, Max Frisch abbia manipolato il concetto di esistenza, rivoluzionandolo. E lo ha fatto attraverso i suoi scritti, la sua arte, la sua vita. Nel 1986, quando il romanziere e drammaturgo svizzero Max Frisch ha vinto il Premio Neustadt, il New York Times lo ha descritto come “candidato al Premio Nobel a vita”. Qualche anno dopo muore, ma senza il Nobel. Da anni tento di indagare sul caso Max Frisch, ma chissà come tutti gli indizi portano a Krolevsky. Il problema dovrà essere affrontato in ogni suo minimo aspetto, scandagliando ogni singola parte evitando tutte le aporie del caso... pardon del caso Krolevsky!

La vita Max Frisch nasce a Zurigo, dove conduce poi gran parte della sua esistenza come romanziere, drammaturgo, “diarista” e saggista. La sua celebrità è da attribuirsi all’essere considerato come uno degli scrittori più influenti del ventesimo secolo, come attestano i numerosi premi, riconoscimenti e lauree ad honorem conseguiti in Europa e negli Stati Uniti. Sempre a Zurigo, presso l’ateneo del capoluogo elvetico, studia letteratura, storia dell’arte e filosofia, sentendosi vicino e aderente ai percorsi teoretici di due grandi pensatori come Soren Kierkegaard e Friedrich Nietzsche. Molte delle loro idee sono fortemente presenti nella sua opera. Dopo la morte del padre avvenuta nel 1932, Frisch interrompe gli studi a causa di impedimenti economici, e sopravvive lavorando come 15


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freelance per giornali, riuscendo tra l’altro a viaggiare molto in Europa orientale e sud-orientale. Riesce così a racimolare del denaro, a riprendere gli studi e finalmente a laurearsi in architettura nel 1941. Entrato da subito in un rinomato studio, è così catapultato nel vivo del mondo del lavoro, che non intralcia comunque la sua passione per la scrittura: un momento tuttavia difficile, che lo rende né più né meno che una canna esposta ai quattro venti. Il suo progetto più famoso risulta essere quello di una piscina pubblica per la città di Zurigo. Nel 1942 si sposa con Gertrud Constanze von Meyenburg (divorzieranno nel 1959). Quasi dieci anni dopo, nel 1968 sposa Marianne Oellers (dalla quale divorzierà nel 1979). Il primo dramma di Max Frisch ha per titolo Santa Cruz, con il quale inaugura un percorso creazionale di riflessione e di senso che chiamerà “drammaturgia della permutazione”. In poche parole i personaggi di Frisch tentano di riscrivere o re-immaginare la loro vita: si tratta di una visione che dimostra come il Caso è ciò che guida e regge la vita umana, proprio in quanto Costruttore di infinite possibilità. Ma nonostante questo possa rivelare superficialmente una sorta di abbandonico fatalismo, in realtà nelle opere di Frisch, con grande acume e profondità, vengono esplorate le questioni di identità, in particolare l’alienazione dell’individuo nella società moderna (ricchissimi i punti di contatto con il francese esistenzialista Camus). In ogni suo scritto, Frisch tenta di presentare temi di forte attualità in modo tale da aderire in maniera completa, quasi come imposto da un grande imperativo categorico, al pacifismo più intransigente. A partire dal 1955 questo grande personaggio porta in giro per il mondo le sue produzioni teatrali, visitando molte città in Europa così come negli Stati Uniti, in Messico, a Cuba, e nel Medio Oriente. Dopo essere tornato definitivamente in Svizzera, Frisch si reca in Israele, URSS, Giappone e Cina. Dal 1959 al 1965 vive a Roma, in via Margutta, consumando ire, frustrazioni, fratture in 16


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un terribile e complicato rapporto con la scrittrice Ingeborg Bachmann. Figlio di architetto, è, prima di diventare uno scrittore tout court, egli stesso architetto prima, e giornalista poi, respirando tutta quella cultura dal retrogusto anti-moderno dei prima anni trenta del Novecento. Muore di cancro nel 1991, consacrandosi tra i più grandi esponenti della letteratura elvetica del ’900. La Zecca federale Swissmint, per il centenario della sua nascita, gli ha dedicato una moneta in argento commemorativa, realizzata dal losannese Daniel Frank. Un valore di 20 franchi, in cambio di un simbolo eterno. Venendo alle opere principali, Fogli dal tascapane del 1945 e Svizzera senza esercito? Una chiacchierata rituale del 1989 sono idealmente collegabili per il focus sull’esercito svizzero e sui punti di vista della Svizzera sulla guerra. Si legge nei Fogli dal tascapane: “Nei momenti cruciali sembra proprio che il mondo, questo insieme di misteri, non sia nelle mani dell’essere umano”. Si è nel settembre del 1939 e il militare Frisch si esprime così nel diario che deve compilare, per ordine di un superiore, durante i mesi della mobilitazione in Ticino: “Non c’è mai stato un Dio buono, neanche nel Novecento - continua ad annotare -, ma siamo più vicini a Dio, all’interno, proprio quando intorno a noi tutto crolla, quando la sua lontananza ci spaventa”. Sull’esercito e sulla pace Frisch non smette di porsi e di rivolgere domande, in rivolta perenne contro la certezza che “il Signore sta dalla parte della Svizzera”. Tematiche forti che occupano gran parte della pubblicistica in ambito politico e della narrativa di Frisch. Il teatro è l’arte che consegna “chiavi in mano” a Frisch la fama a livello internazionale: Don Giovanni o l’amore per la geometria (1953), Omobono e gli incendiari (1958), Biografia - Un gioco scenico (1968) e Trypticon (1978). Parliamo nelle opere appena citate di una fenomenologia attoriale e di una strutturazione del 17


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contenuto teatrale incentrata sul tema della liquidità e del doppio come elementi congeniti all’uomo e alla sua esistenza, ovvero uno scandaglio profondo dell’Io e del suo essere - con e per l’altro - come ombra, voce, oggetto in perenne conflitto lungo i perimetri di una realtà che nella maggior parte dei casi impedisce l’autentico estrinsecarsi della vita stessa. Impossibile non citare per un’adeguata ricostruzione bibliografica dei lavori di Max Frisch l’acidulo Guglielmo Tell per la scuola (dai primi anni ’70 con Einaudi) e la serie dei Tagebuch (diari), pubblicati dalla Feltrinelli. Una parte importante e ingombrante di questo prezioso tracciato biografico risiede nell’amicizia/inimicizia turbinosa con Friedrich Dürrenmatt, che non mancava mai di attaccare Frisch, definendolo in più di qualche occasione come un individuo desideroso di circondarsi solo di persone devote e di essere obliquamente incline alla facile lusinga. Parole dure, ma frutto di un legame pre-destinale in campo storico-letterario.

Il pensiero Potrebbe essere condensata così tutta l’opera di Max Frisch, sintetizzata dunque in maniera totale, proprio in questa massima: “Vivere è noioso, faccio esperienze soltanto quando scrivo”. Che cos’è la vita, come la concepisce Max Frisch? Può considerarsi come la stesura di un testo infinito, dove il cadere in Errore diventa una costante ineludibile nel processo di scrittura ontica dell’Esistere? E soprattutto l’intero percorso portato avanti dall’autore esiste solo in quanto fallibile nel suo svilupparsi, o una struttura modulare che preveda vie d’uscita alla fine sarebbe in grado di scongiurare varie ed eventuali derive? Christa Wolf associava (e non lo faceva di rado) il termine “Fallibilità” al percorso immaginifico di Max Frisch. Un camminamento semantico e rappresentativo irto di difficoltà soprattutto in quanto aderente 18


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alla concretezza atroce dell’accadere, sardonicamente sublimata nella posa di un Grottesco e di un Comico pervasivo in ogni caratterizzazione realizzata dall’autore elvetico. Ed è in questo aspetto che si manifesta la sua grandezza. Max Frisch è un personaggio della storia della cultura mondiale che ha posto ai suoi interlocutori domande senza posa, e in questo suo procedere interrogativo aveva come solo, esclusivo ed unico obiettivo quello di evitare piagnistei auto-consolatori rispetto alla miseria della quotidianità, e tra le righe tentare di spiegare come la sola idea di appartenenza a qualsiasi entità di carattere religioso, politico, sociale contenesse già in sé il tarlo dell’Errore. Un esempio specifico? Walter Faber protagonista di Homo Faber (1957), è un uomo concreto e con i piedi per terra. Un uomo che non è in grado di fare nulla se non attraverso lo scandaglio imperturbabile della razionalità. Un uomo che crede nella sicurezza dei dati e di tutto ciò che è misurabile. Un uomo, Walter Faber, che stima l’amore come un elemento perturbante la sincronìa del vivere secondo ragione. Quasi aritmìa e morbo. Ma accade qualcosa. Qualcosa di imprevedibile che per il protagonista della vicenda dovrebbe non esistere, ma in realtà viene a configurarsi come superamento del concetto stesso di tragedia. Conosce l’amore per una figlia ventenne che non immagina di avere, e per giunta ne viene ricambiato in un turbinìo di sentimenti che si traducono inesorabilmente in uno scacco angosciante e orribile che travolge i protagonisti. Un sistema dinamico ma fondamentalmente caotico che si presenta come pura “Imprevedibilità” in ogni sua parte e manifestazione. In un discorso tenuto a Francoforte nel ’76, il Nostro dichiara con forza: “È nota la previsione secondo cui il conflitto con l’ambiente assumerà, per il genere umano - in seguito allo sviluppo della sua tecnologia, che è irreversibile -, dimensioni più ampie rispetto a un qualsiasi altro conflitto ipotizzabile fra le nazioni... Non so se la volontà di 19


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sopravvivenza della specie basti a trasformare le nostre società in una sola che sia in grado di volere la pace. Lo speriamo. I voti per la pace non ci liberano dall’obbligo di porre la questione riguardante il nostro atteggiamento politico nei confronti di questa speranza, che è così radicale. La fede nella possibilità che la pace si realizzi (e, dunque, che l’umanità sopravviva), è una fede rivoluzionaria”. Un atteggiamento non solo smaliziato e feroce, ma profondamente decostruzionista che procede “more geometrico” sino alla demolizione dei fondamenti stessi della realtà. A dieci anni dalla sua scomparsa le domande che Frisch pone ai suoi ideali interlocutori non hanno ancora trovato risposta, forse... Almeno sino ad oggi.

I fatti Chissà quanto tempo è passato. Un anno, due anni... poco importa. Immaginiamo testo e contesto di una serie di incontri voluti per l’appunto dal Caso. Qualcuno dice che sia stato di maggio, il mese delle rose, qualcun altro sostiene che da tempo incalzava prepotente la torrida estate... comunque sia, gli “attori” sul palco ci sono, le storie da raccontare anche. Partiamo dal maggio 2006. Una specie di grado zero. Primo incontro tra Zecca da ora in poi Z, e Gambaro, da adesso in poi G, avviene quando ancora il primo lungometraggio di G (impresa all’arrembaggio di una povertà di mezzi donchisciottesca), non è ancora terminato. Z (presidente a Genova della scuola di recitazione “La Quinta Praticabile”) è stato selezionato per interpretare uno dei protagonisti. Naturalmente riprese a costo zero, perché la produzione non ha un centesimo bucato. Z si lascia comunque sedurre dal progetto perché G sembra essere uno a posto, preparato e che sicuro sfonda. Anche perché ha studiato cinema in America. Maggio 2006, si 20


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diceva. Z vuole fare il Suo, di film. Da tempo sta lavorando con due soli attori ad un progetto teatrale molto ambizioso (guarda caso, Biografia di Max Frisch). Z pensa a G come ad un operatore che dovrebbe riprendere le varie fasi di questo lavoro teatrale facendone una sorta di documentario. Z è un regista teatrale, non ha le idee molto chiare sul cinema. All’idea iniziale di film-documento su Biolet (chiamato così da Z perché già contaminava Frisch e Shakespeare in quanto Amleto e Kurmann sono due eroi moderni molto simili tra loro in quanto, a suo dire, brillanti nella vita ma entrambi incapaci di decidere) G, rilancia con una contro-proposta alzando la posta in gioco. Z, accetta. G chiosa: “Si può fare, a patto sia chiara la questione diritti”. A detta di Z, nessun problema. Si prosegua... Luglio-agosto 2008. A riprese abbondantemente iniziate, G si è accorto nel frattempo che i diritti sull’opera non sono affatto di Z (e come avrebbero potuto!), ma dell’ “Archivio Max Frisch” in comproprietà con la nota casa editrice tedesca “Suhrkamp Verlag”, il cui responsabile di settore è tale Zeipelt (non aggiungiamo un’altra Z, ma lasciamo Zeipelt: quindi Zeipelt da adesso in poi, Zeipelt). G e Z dopo le public relations d’obbligo per un’avventura imprenditorial/cine/editoriale di questo tipo, partono per Francoforte. Un singolare individuo italo/tedesco che però si fa chiamare “John” (da G conosciuto in occasione della partecipazione del corto di un comune amico al festival di Darmstadt) vive e affitta camere proprio nell’area di interesse dei due registi. John non fa pagare né G né Z (forse perché sa che ai genovesi non si può chiedere di pagare alcunché), e addirittura offre cene a base di salsicce e vino (a lui, decidono G e Z in quell’occasione, sarà dedicato il terzo Oscar). Ciliegina sulla torta, prima del grande giorno, si gioca - questa volta per gli Europei - Italia-Francia. L’Italia, come da copione, vince e non si può non festeggiare con John (fervente tifo21


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so italiano), la sua amica-compagna, e ragazzine ridenti e ubriache (figlie di John? della compagna? delle banlieu di Darmstadt? Non importa. Se festa dev’essere, festa sia...): si gira in macchina suonando un clacson modello “il sorpasso” per tutta la notte. La mattina successiva G e Z non hanno una buona cera. Impreparati all’incontro decisivo della loro vita, e trascinandosi quasi carponi dopo gli ettolitri di birra assunti la sera precedente, i due attendono che Zeipelt esca per la pausa pranzo davanti alla bella casa editrice tedesca, mentre passano belle e giovani editrici tedesche che salutano cortesemente e si dileguano con belle e silenziosissime biciclette tedesche. Pranzo con Zeipelt. Seppure Z finga appeal e a gesti si mostri molto interessato alle frasi che Zeipelt gli rivolge, a stento intuisce la portata di tutto ciò che viene detto in quell’occasione. Quasi alla fine del pranzo, l’editore si alza dal tavolo per andare in bagno. Z a G: “allora, li abbiamo questi diritti?”. In Italia, a cavallo tra il 2008 e il 2009. Incontro in un bar di Lecce, nel Salento. Il bar per l’esattezza è lo storico bar Alvino, al centro del barocco del capoluogo salentino. Pieno agosto, lo ricordo bene, nessun caldo torrido, l’aria mite. Il sottoscrivente siede con i registi G e Z ad un tavolo sorseggiando del caffè in ghiaccio con latte di mandorla. Con Z non è la prima volta che i nostri destini si incrociano. Forse il Salento è diventato la sua seconda casa. Mi espongono le ambizioni del progetto Il caso Krolevsky. Ne resto entusiasta, anche se per me in genere la cautela è sempre d’obbligo, soprattutto quando si parla di sperimentazione, perché è così che in fondo mi viene presentato il “pacco”. Mi espongo addirittura a proporre una pubblicazione che contenga sia il Frisch conosciuto dalla storia della cultura istituzionale, sia la “loro” versione di Frisch. L’idea piace. Occorre attendere però la fine delle riprese, l’eventuale promozione attraverso la partecipazione a festival indipendenti. 22


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Ancora in Italia, qualche mese più tardi. Il sottoscrivente parte per Genova e alloggia da Z, in una casa a cui manca un pezzo di soffitto, il pavimento e l’impianto elettrico è volante nel senso letterale del termine, in condizioni igieniche disperate che incarna il concetto stesso di Deriva. Gli amici di Z la chiamano “Casa Rhomberg”, perché nessuno ancora si è preso la briga di staccare dal campanello il nome del precedente inquilino: tutta rivestita di tnt bianco, invasa di fari da cinema, un carrello autocostruito e bizzarre forme geometriche. La casa è completamente adibita a set cinematografico: la cucina è diventata la sala trucco, la camera da letto, riverniciata per l’occasione di colore rosa e ocra rossa, è stata improvvisata sala regia e ogni altra stanza riveste una qualche funzione operativa. Eppure, è anche lo spazio vitale di Z. Mi chiedo dove cazzo sono capitato. La fiducia nei due registi cala nel sottoscrivente in maniera drastica. A questo sconforto si aggiunge la constatazione tragica e dolente che per passare dalla camera alla cucina un certo rito impone di infilare delle pattine azzurre per non sporcare il set. Il sottoscrivente si auto-risponde che è nella merda sino al collo ma, almeno, impara che il mondo del cinema divide i tecnici dagli attori (e quasi tutte le attrici sono molto carine). Kafka subentra poi in maniera prepotente nella nostra storia: mentre un’attrice prova una scena con una tuta superaderente stile Cat Woman, nota una macchia nera sul pavimento bianco chiedendo spiegazioni. “Nulla”, risponde sbrigativamente un operatore, e la nasconde. La macchia era uno scarafaggio. I tecnici lo sapevano, le attrici no. La casa era invasa. Bisognava fare presto.

Speculazioni Ma a questo punto, uscendo da questa “promenade sulla circonferenza” utile a solleticare il risus aneddotico, 23


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le considerazioni di carattere speculativo sono forse molto più proficue allo scopo di questo scritto. La determinazione spaziale sul piano della Visione non prevede né limiti né confinamenti tali da creare compressioni di geometrie e traiettorie all’interno del girato. Si parte da una dimensione dalle cromìe eteree, quasi a voler far risaltare sei strutture geometriche, e una scala di colore nero. Si erge in tutta la sua definizione un uomo che “guerreggia” con una scacchiera adagiata su un cubo. È la Ragione, questa rappresentazione, pronta a dispensare suggerimenti e giudizi su tutto e tutti, ma che poi cela nel suo sguardo il terrore dell’avvenire. C’è l’induzione a riflettere sull’oscuro ignoto metafisico. L’uomo dinanzi a alla scacchiera non è più un Individuo che si perde nel guazzabuglio delle sue angosce e delle sue inquietudini, ma è fede indomita e cieca in un “nulla eterno”. Quell’uomo, nel suo silenzioso dialogo con quella scacchiera, è Kurmann. Cinquantenne. In piena crisi esistenziale. Vorrebbe poter riscrivere la sua vita. Una voce ipnotica e anodina dirige i pluriversi come un’abile burattinaio, fuoriuscendo da un vinile in perenne rotazione su di un giradischi posto in cima ad una piramide. Quella voce è lo “stargate” che riscrive l’intera esistenza di Kurmann. Il film di Z e G è un’opera frastornante che seppellisce l’importanza delle parole, a favore di un lavoro sul Silenzio che sembra il frutto di effetti metanfetaminici, un vero e proprio delirio visivo, che regala meraviglie. Per niente ricco di barocchismi, i due registi lavorano sul sovraccumulo di tonalità e pause, che riempiono gli occhi, la scena, la mente. Il prodotto finale può assurgere al rango di capolavoro sia per l’onnipresente voce del Registratore che sostituisce quasi le voci degli attori, sia perché la parola viene considerata come unico tenue legame col testo di Max Frisch, sia per il tentativo di un adattamento post-moderno all’opera dello scrittore elvetico che vuole essere estremo e all’avanguardia, provocazione 24


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di alta poesia di chi si vanta di poter manipolare e distruggere a suo piacimento qualsiasi forma d’arte, atomizzandola. Certo ci sono Kierkegaard e Nietzsche, c’è Kafka, c’è Frisch ma c’è soprattutto Albert Camus in tutta questa tensione rappresentativa della destinalità umana da parte dei due registi italiani. Un lavoro che studia, attraverso la resa filmica, i turbamenti dell’animo umano di fronte all’esistenza, quasi a voler testimoniare un sovraumano sforzo di sopravvivenza dell’uomo a se stesso proprio come quello compiuto da Sisifo per tornare sempre allo stesso punto. Si tratta fondamentalmente di un progetto che parte dall’idea di decomplessificazione di una biografia consueta, dilaniata dall’eterna lotta tra Caso e Necessità. Kurmann desidera poter essere in qualche modo artefice di continue modificazioni alla sua vita, ma la supervisione registica non glielo permette, perché la metafora potente del teatro diventa “buco nero” che risucchia le potenzialità inespresse prima della chiusura definitiva del sipario. E tutta la narrazione diviene soprattutto un nonluogo al riparo da qualsivoglia Storia: diviene intestimoniabile, ovvero chiunque assiste a questo racconto, non potrà mai raccontare ciò che ha udito, ciò da cui è stato posseduto nel suo abbandono ad una verità ... una delle tante raccontata dal grande Max Frisch.

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Scacchi e fantasmi sul palcoscenico della vita. Spunti per un’analisi critica di Massimo Lechi

Film anomalo, Il caso Krolevsky di Alessio Gambaro e Christian Zecca. Sperimentale e colto, di forte impianto teatrale e, al contempo, profondamente cinematografico; un’opera di finzione che, nella sostanza, si discosta per temi, realizzazione e struttura da gran parte della produzione italiana corrente. Un’estraneità, un essere nobilmente - e del tutto volontariamente, va detto - fuori dal coro che sfida le consuetudini del tempo presente e affonda le radici in una derivazione letteraria curiosa e vagamente demodé: alla base del progetto vi è infatti Biografia, testo teatrale dello svizzero Max Frisch datato 1967, complessa riflessione sulle possibilità di manipolazione consapevole dei percorsi biografici, fosca metafora del riflesso della personalità umana sulle azioni che compongono, volenti o nolenti, le nostre storie individuali. Ma indipendentemente dal contesto, regista, si sa, è colui che sa fare di necessità virtù nel tentativo di trovare vie espressive compatibili con i mezzi ed il materiale umano a disposizione; ma è anche colui che riesce a costruire una narrazione, a rendere sul piano visivo un’idea - quale che sia la provenienza del soggetto. In questo caso il cuore dell’idea, per così dire, risiede in una materia incandescente, un groviglio di riflessioni ad evidente carattere esistenziale, calato in un susseguirsi incalzante di salti temporali lungo le arterie principali di un’esistenza segnata dal morbo dell’infelicità. Frisch, del resto, oltre che scrittore (suo il famigerato romanzo Homo Faber), era architetto: inevitabile quindi che le svolte narrative siano inserite in una struttura di fredda perfezione, forse meccanica, sicuramente elaborata e precisa. Ed è proprio su questa sommo gioco di incastri temporali che verte l’intera sfida registica. Si cerca perciò di mettere in immagini 27


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la solenne impalcatura eretta dall’autore, aggirando la letterarietà concettosa tipica dei drammaturghi novecenteschi di lingua tedesca (un richiamo alle labirintiche trame del contemporaneo Durrenmatt è più che lecito), nonché la teatralità di ciò che, pensato per la scena, finisce con l’invadere lo schermo cinematografico con l’abituale corredo di suoni, immagini, parole e suggestioni visive proprie della settima arte. Insomma, un travaso da un contenitore all’altro, un riplasmare i contorni della materia di partenza (storia, vicenda, intreccio e personaggi presi in considerazione, molto banalmente) in base alle esigenze del nuovo mezzo prescelto. Risulta insomma evidente come la difficoltà primaria sia innanzitutto di messinscena: trovare un efficace corrispettivo filmico ad una parola teatrale la cui resa al di fuori dell’angusta dimensione del palco si presta - ed è in fondo la storia del Cinema a dimostrarlo - a molte clamorose incognite. È quindi importante ragionare sulle scelte di regia, al contempo chiare e significative. Scelte che coinvolgono forma e sostanza di un film sicuramente collocabile nell’alveo della sperimentazione intellettuale, costruito dal punto di vista visivo ricorrendo alla riproposizione progressiva di due elementi ricorrenti, due costanti simboliche: la partita a scacchi e il palcoscenico. Dopo le primissime inquadrature, infatti, viene offerta l’immagine chiave del film, quella cioè di un uomo seduto di fronte ad una scacchiera, immerso in un bianco accecante (inizialmente difficile da motivare), con un vecchio registratore a svolgere il ruolo di interlocutore. L’uomo è Kurmann, il professore con un debole per il whisky ed una spiccata tendenza al cinismo caustico di cui verranno ripercorse parti di biografia, con il dichiarato intento di riscrivere una storia già saldamente collocata sui binari amari del dramma. Emergono le prime domande: chi è Kurmann? perché gli è stata data la possibilità di modificare la propria biografia? dove si trovano realmente i personaggi? Ma i dubbi sono destinati a restare tali, mentre si definisce subito il senso dei ruoli e soprattutto l’entità della posta in gioco. 29


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Al palcoscenico di cui sopra - e quindi all’elemento teatrale - è sicuramente legato il Registratore (maiuscolo stavolta), che, citando le parole dello stesso Frisch nella Nota dell’autore, se “rappresenta una qualche autorità, è l’autorità del teatro, che consente ciò che la realtà non consente: ripetere, provare, cambiare.” Voce monocorde ed insinuante, sorta di incrocio demiurgico tra il serpente biblico e l’HAL 9000 di kubrickiana memoria, esso incarnerebbe perciò le caratteristiche fondanti e più riconoscibili del teatro, ovvero la possibilità di ripetizione, i meccanismi di reiterazione della finzione scenica sia in termini di rappresentazione di fronte al pubblico sia in termini di prova - laboratorio infinito in cui tutto può essere rivissuto e riproposto con variazioni micro o macroscopiche, secondo nuove angolazioni o, più semplicemente, con nuove ed imprevedibili intenzioni. Dal dialogo costante con questa entità meccanica proteiforme (capace di trasformarsi, all’occorrenza, in un bambino dallo sguardo obliquo) si produce la spinta di Kurmann a muovere gli scacchi, e quindi la tensione che sospinge il film attraverso l’articolato susseguirsi di sbalzi temporali a partire dal presente da cui prende le mosse il racconto. Il “presente” - del tutto relativo e nebuloso, naturalmente -, ovvero l’asse spazio-temporale intorno a cui ruotano i vari piani, è il vuoto lattiginoso luogo di questo scambio dialettico incalzante, un bianco inquietante da cui emerge, con la disposizione plastica tipica di certe installazioni d’arte contemporanea, una scenografia essenziale, composta da forme smussate e dominata da una scacchiera. Qui, in questo scenario metafisico privo di riferimenti precisi, non-luogo in cui passato, presente e futuro si incontrano cercando di intrecciare le proprie traiettorie, Kurmann è messo a confronto con la vita vissuta, con gli eventi salienti che lo hanno condotto a diventare ciò che è. Lo spazio bianco che avvolge il protagonista è quindi innanzitutto luogo di incontri con le controfigure delle donne della sua vita, in base ad un principio (pienamente 32


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condivisibile) secondo cui sarebbero appunto proprio gli incontri - in questo caso con un universo femminile conturbante e ambiguo -, pi첫 che gli avanzamenti di carriera o gli incidenti sempre in silenzioso agguato, a determinare realmente il corso delle nostre vite.

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Donne in calzamaglia nera, dagli occhi spalancati, incastonate in primi piani che ne fissano gli sguardi e tendono a fotografare la sospensione apparentemente immobile in cui si trova a parlare ed agire Kurmann. Donne che emergono dal bianco che tutto avvolge e soffoca salendo o scendendo, di volta in volta, i solitari gradini di una scala persa nel nulla. Se solo fossimo in una dimensione filmica intrisa di surrealismo nostalgico, si potrebbe rievocare la distribuzione a livelli dell’harem felliniano di Otto e mezzo, con i fantasmi femminili di una vita intera che salgono ai piani superiori una volta passati di moda, ma al cospetto del mondo freddo e ambiguo de Il caso Krolevsky questo campionario di immagini in bianco e nero risulta solo un’incrostazione cinefila, una similitudine vaga e forzata che si esaurisce presto, data l’evidenza arguta della scrittura di Frisch. Il senso delle apparizioni, sottolineate da inquadrature plastiche, è infatti legato al gioco in atto: chi è chiamato in causa sembrerebbe comparire riemergendo in dissolvenza dal passato che l’ha inghiottito. Qui i due registi, ben ancorati alle meticolose corrispondenze interne del testo, puntano visivamente sull’apparizione misteriosa, sulle suggestioni di controfigure - sorta di “doppi” attoriali, a riconferma della teatralità di fondo - che, strappate dall’oblio a comando, si materializzano per interagire con l’uomo che in passato ha attraversato e influenzato le loro esistenze. Materializzatasi l’interlocutrice “alternativa” di Kurmann, ha quindi inizio la partita, mentre la camera ruota intorno alla scacchiera interrompendo spesso la routine meccanica del campo-controcampo. A contare sono le parole, parole suggerite, estorte, pronunciate fuori dai denti: è qui, con esse, che si gioca la partita vera, che la riflessione sulla riscrittura del vissuto individuale si cementa in un blocco dialogico che la regia cerca di penetrare indugiando soprattutto sul volto scavato del protagonista e sul girare ossessivo, continuo nella sua lentezza, del disco che alimenta la voce del Registratore, vero grande 34


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regista interno. Un regista che sembra conoscere il copione e suggerisce perciò ritmi e direzioni da intraprendere, proprio “come negli scacchi, quando ricostruiamo le mosse decisive di una partita persa, curiosi di scoprire se e dove la partita si sarebbe potuta giocare in maniera diversa.” E ad ogni mossa, ad ogni movimento delle pedine corrisponde un avanzamento verso la conclusione scritta - e da riscrivere - del percorso di Kurmann. La mossa implica perciò una svolta vera e propria, ed ecco quindi cambiare anche l’immagine, l’angolazione attraverso cui la frazione di mondo - e di memoria - selezionata viene proposta. Il flashback, ovvero il “passato”, ha invece tutt’altra impostazione, e, anche in questo caso, la scelta della tecnica di ripresa si rivela assai significativa. Sin dal principio il meccanismo, riproposto poi con minime variazioni, è chiaro: Kurmann guarda la scacchiera e rievoca episodi del proprio passato su sollecitazione del Registratore; attraverso le caselle bianche e nere, grazie ad un gioco di sovrimpressione, compare l’immagine traballante del passato, un passato svelato seguendo appunto l’incedere ondivago della camera che registra e proietta in soggettiva una realtà lontana nello spazio e nel tempo. Kurmann perciò ricostruisce, rivive brevi capitoli di biografia “con gli stessi occhi d’allora” come sottolinea con intento didascalico una battuta del dialogo -, scoprendo (o riscoprendo, meglio) il suo vissuto insieme allo spettatore. La soggettiva permette proprio questo: far sì che l’occhio del protagonista e quello di chi guarda il film coincidano, determinando una sovrapposizione di prospettive perfettamente geometrica. Lo svelamento diventa simultaneo, e lo spettatore piomba letteralmente nella biografia da riscrivere con esiti di profondo straniamento.

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Straniamento che i due registi mantengono nella breve e fulminea proiezione in avanti, nel futuro che Kurmann riesce a vedere per concessione del Registratore, poco prima che il film volga al termine - nei modi, e colori, che vedremo. La scelta ricade stavolta non sull’immediatezza della soggettiva, ma su una serie di inquadrature ampie, che rompono parzialmente la continuità visiva del film, segnalandosi come una specie di momento a parte in cui lo spettatore assiste insieme al protagonista - ma senza che vi siano sovrapposizioni - a ciò che avverrà. Ai primi piani che tanta importanza svolgono nell’economia del film si sostituiscono totali fissi, in interni, attraversati da forme umane semi-trasparenti e ravvivati da voci lontane: sono - passateci il gioco di parole - quasi dei flash al rallentatore, grazie a cui si intuiscono gli eventi che potrebbero segnare il resto della vita di Kurmann.

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Resta da parte la “riscrittura”, universo temporale alternativo reso attraverso un insieme di sequenze in cui, ancora una volta, l’immagine cambia e si adatta intelligentemente seguendo i movimenti interni e le esigenze del racconto. È qui che l’elemento teatrale si mostra in maniera più netta, immediata, didascalica: i tentativi di modificare il passato sono infatti ambientati tra le mura ovattate di un appartamento illuminato da luci artificiali, uno spazio borghese in cui il protagonista e le attrici riemerse dal passato sono sbattuti a provare le situazioni da ricostruire. I discorsi fatti spontaneamente in una realtà ormai lontana diventano perciò le battute di una pièce, il passato si trasforma in testo drammatico, mentre i fantasmi femminili si incarnano in corpi di attrici senz’anima. In tutto questo turbinio di prospettive dilatate e stravolte, la macchina da presa - rigorosamente a mano - giostra in maniera convulsa da un primo piano grandangolato all’altro, in un ping-pong estenuato che mira a ricreare la frammentazione tipica della prova teatrale, con tanto di regista e relativi assistenti svelati dalle giravolte dell’operatore. Il meccanismo meta-teatrale viene quindi dichiarato apertamente. Questo punto è estremamente importante. Esplicitare l’elemento scenico, drammaturgico persino - con la scrittura drammatica che tramuta sé stessa in riscrittura della vita, e viceversa -, si rivela infatti dal principio una scelta deliberata che arricchisce il racconto, lo complica, lo stratifica, diventando il tratto distintivo di un’opera filmica in cui il continuo cortocircuito spazio-temporale è veicolo di rimandi e scarti che non riguardano solo le coordinate di riferimento della narrazione. In un clima costante di tensione la presenza visiva, fisica di palchi, citazioni shakespeariane e prove - appunto - teatrali legittima e giustifica tutto il contrappunto oscuro che attraversa la vicenda, ovvero le sequenze ambientate nel buio di un limbo immaginario, dimensione parallela che affiora qua e là squarciando la de-costruzione biografica in atto dai primi istanti della pellicola. Spuntano volti dal nulla, si odono 41


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brandelli di monologo, un principe di Danimarca recita le sue battute sibilando in primo piano; si definisce progressivamente, all’interno del film, un contrasto cromatico fortissimo e primordiale. Un contrasto tra due universi bloccati e sospesi, tra il bianco di un nulla solitario ma dominato dal dialogo e un nero popolato da figure meste e abbandonate, prigioniere di un’eternità che sembra essere caratterizzata solo dalla parola teatrale. Chi è, infatti, questo Amleto livido e tenebroso? chi sono le figure incappucciate che, una volta accertato il fallimento della riscrittura, sotto gli occhi di Kurmann e del Registratore “bambino”, si svelano durante una sorta di viaggio nell’Ade accompagnato dal volteggiare di una steadycam? perché il loro mondo e quello del protagonista si incontrano nell’ambiguità di un pre-finale misterioso, alla luce di una sola vecchia lanterna? Ancora domande destinate a perdersi nella suggestione, sembrerebbe, con i fantasmi contraffatti di un passato individuale che lasciano il posto a spettri letterari, fantocci di parole drammatiche senza storia e, soprattutto, apparente ed immediata attinenza con la sorte del protagonista. Ma finzione cinematografica e letteratura sono qui tutt’altro che corpi estranei, e il loro abbraccio si compie proprio nel finale, con l’Amleto oscuro che prende il posto di Kurmann, riproponendo sul palco di un teatro deserto il primo incontro con la moglie, quella vera stavolta, divenuta nel frattempo anche lei giocatrice alla scacchiera. L’interferenza continua tra i due mondi trova quindi l’espressione più evidente in un ribaltamento plateale che sorprende e getta retroattivamente una luce chiarificatrice sull’intera pellicola, definendo con precisione la natura dei piani narrativi - con il limbo come grande e astratto serbatoio “teatrale” da cui il Registratore-regista preleva corpi d’attore per rievocare fantasmi privati - e, più in generale, quella del racconto - intriso di una tragicità che, visti i riferimenti letterari, appare inevitabile.

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FALSOPIANO

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NOVITĂ€

Massimiliano Fierro Tra le immagini. Per una teoria dell’intervallo

Mathias Balbi Pasolini Sade e la pittura

Oreste De Fornari I filobus sono pieni di gente onesta. Il sorpasso: 1962-2012

Letizia Rogolino Il mito del viaggio nel cinema americano contemporaneo

Lino Aulenti Il cinema di Bob Fosse

In libreria e su www.falsopiano.com (le spese di spedizione sono gratuite)


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