La trappola del testo. Sul primo Kubrick

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Saverio Zumbo

Saverio Zumbo La trappoLa deL teSto SUL primo kUbrick

Saverio Zumbo La trappoLa deL teSto SUL primo kUbrick

Saverio Zumbo insegna storia e teoria del cinema presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova. Tra le sue pubblicazioni, saggi dedicati all’opera di Kubrick, Wenders, Hitchcock, Bene, Rouch. Per le Edizioni Falsopiano ha pubblicato Al di là delle immagini. Michelangelo Antonioni (2002) e Cinquecento al cinema. Genere e autorialità nei film tratti da commedie del Rinascimento (2005).

La trappoLa deL teSto ● SUL primo kUbrick

"A meno che non li chiamiamo a esistere". Abbiamo a che fare con dei personaggi-enunciati che, esplicitamente, devono la loro esistenza al fatto che un enunciatore li enunci e un enunciatario ne raccolga l´enunciazione. Questo accade trent´anni dopo i Sei personaggi. Certo. Ma anche quindici prima della Chinoise. Il fatto non mi pare del tutto anodino, trascurabile. Ritengo che l´enunciazione enunciata, in questo film, ma più in generale nel primo Kubrick, sia un elemento da ponderare con attenzione, ben più di quanto si sia soliti fare.

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Saverio Zumbo

LA TRAPPOLA DEL TESTO SUL PRIMO KUBRICK


Š Edizioni Falsopiano - 2012 via Bobbio 14/b 15121 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Falsopiano Prima edizione - Febbraio 2012


INDICE

Introduzione

p. 5

Capitolo primo La preistoria

p. 7

Capitolo secondo “A trick we perform when we’d rather not die immediately”

p. 14

Capitolo terzo Gli orizzonti di Gloria

p. 32

Capitolo quarto Quando si dice il destino

p. 45

Capitolo quinto Strano amore

p. 52

Capitolo sesto La trappola del testo

p. 69

Appendice: I dialoghi di Fear and Desire

p. 86

Filmografia

p. 148

Riferimenti bibliografici

p. 157


Sul set di Lolita

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Introduzione Questo lavoro deriva da un ripensamento della mia riflessione sul primo Kubrick 1, il cui elemento, per così dire, scatenante è stata l’analisi di Fear and Desire, il primo lungometraggio, titolo, com’è noto, per lungo tempo non reperibile e avvolto da un alone di leggenda. Mi pare infatti che quel film rafforzi la mia tesi di una sensibile discontinuità tra i primi film (sino a Lolita) e la produzione successiva. Una discontinuità che ritengo sia stata ampiamente sottovalutata. Essa concerne l’inclinazione autoriflessiva della prima produzione. Inclinazione che non sarà certo assente nei lavori successivi, ma che per frequenza e “qualità” (utilizzo il termine in senso neutro, ossia non implicando un giudizio di valore) non è paragonabile a quanto si può riscontrare nel Kubrick precedente. Si è rafforzata, inoltre, la mia convinzione riguardo alla proficuità dell’approccio “psicoanalitico” per la comprensione dei film in questione. Un approccio che adesso ritengo vada modulato, a secondo dei casi, in riferimento a matrici e correnti diverse, dalla psicoanalisi in senso stretto alla psicologia “del profondo” o analitica. Fear and Desire, ancora, presentando forme e tematiche che sono, a mio avviso, di indubbia derivazione junghiana, ha avuto un ruolo fondamentale nel determinare l’evoluzione del mio sguardo su Kubrick. All’analisi enunciativa, che rimane tutt’oggi la più adatta allo studio delle emergenze metadiscorsive, si unirà perciò, in senso lato, la psico-analisi dei testi filmici. Non tanto perché alla prima si affianchi la seconda, ma soprattutto perché, nelle configurazioni

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più stimolanti, autoriflessione e “psichicità”, come mi sforzerò di mostrare, saranno “facce della stessa medaglia”, andranno di pari passo. Stando allo sguardo analitico scorgere l’una o l’altra. O preferibilmente, ritengo, entrambe ad un tempo.

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Capitolo primo La prEIstorIa

A un discorso critico sul cinema di Kubrick che tenti di tracciare le coordinate di un’autorialità ad un tempo evidente e sfuggente, che si concentri nello sforzo di rintracciare costanti formali, concettuali, tematiche che si impongono con tanta più forza quanto più ampio è il loro margine di “apertura”, di variazione, di permanenza nella trasformazione (sforzo che confidiamo possa senz’altro essere più di attenzione che di fantasia, il quoziente di “ineffabilità”, di resistenza all’esegesi dell’opera del nostro non essendo, in verità, affatto superiore rispetto a tanti autori parimenti complessi), a un tale discorso, dicevamo, conviene partire da prima dell’inizio, ossia dalle foto pubblicate tra il ’45 e il ’49 sulla rivista “Look” che di quel cinema rappresentano la preistoria 2. Il dato più appariscente, in effetti, è quello segnalato sin dal titolo nel libro curato da Ghezzi, le fotografie ponendosi spesso come sguardo su sguardi (si vedano in particolare le sequenze relative ai bambini alla partita di baseball e all’approccio nella sala cinematografica). Un altro significato abbastanza esplicito è poi il pensiero. Sia nel caso in cui esso è legato allo stesso tema dello sguardo, sia in altri casi (si considerino ad esempio le foto scattate nella sala d’attesa del dentista), “che cosa pensano?” è infatti una frequente, palese implicazione. Colpisce inoltre l’espressività in qualche modo irrazionale, folle (“quasi animale” per Ghezzi) che sovente marca i volti.

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“Sguardo”, “pensiero”, “irrazionalità” o “follia”. Troppo facile, forse, ma come non ravvisare i segni premonitori del cinema che sarà? I temi sopra esposti convergono nelle foto etichettate “... come appare la gente a una scimmia”. Qui il punto di vista della macchina fotografica viene fittiziamente fatto coincidere con quello della scimmia dietro le sbarre di un giardino zoologico. Soprassedendo sulle imperfezioni tecniche connesse alla realizzazione pratica del concetto (le persone non guardano esattamente “in macchina”), possiamo perciò dire di avere a che fare con una “soggettiva”, con l’animale eletto a soggetto delegato dell’enunciazione. Le convenzioni cinematografiche fanno bizzarramente capolino nella preistoria kubrickiana. Passando dal piano linguistico a quello tematico noteremo poi che, in questa identificazione bestia-macchina, sono preannunciati i temi dell’irrazionalità “bestiale” e della pseudorazionalità macchinica, versanti sui quali la poetica di Kubrick verrà evolvendosi (si pensi, per citare solo i casi più eclatanti, a 2001 o a Stranamore). Il primo risulta del resto impresso nell’oggetto di questa paradossale visione: i volti degli uomini sono contorti in smorfie scimmiesche, e sono loro ad apparirci “dietro le sbarre”. La figura del peso medio Walter Cartier trova la propria connotazione tra analoghe coordinate. Un po’ automa, un po’ orango, il pugile ci appare inespressivo, con le orbite spesso oscurate. L’impressione si rafforza con la foto che riprende, sul ring, Walter e il suo rivale, con quest’ultimo sbilanciato, sbavante, sul punto di collassare. D’altronde fa qui capolino, grazie alla presenza del fratello gemello Vincent in più foto, il topos del doppio su cui la critica, a partire dal primo lungometraggio, il “rinnegato” Fear and Desire, inevitabilmente insisterà.

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Nel servizio fotografico in questione, che porta il titolo di Prizefighter (ovvero “pugile professionista”), esso è giocato un po’ meccanicamente, dando luogo ad una variazione sul tema che genera una serie di opposizioni: un gemello è sveglio mentre l’altro dorme, uno è in tenuta da combattimento mentre l’altro in borghese lo assiste, uno mangia e l’altro gli dà da mangiare, etc. Troviamo infine i due a spasso per il Greenwich Village, senza alcuna possibilità di distinguerli. In quest’ultima immagine, che ci presenta una strada in chiaroscuro, illuminata dalla luce dei lampioni, con le ombre allungate dei gemelli e di un idrante cui uno si appoggia per allacciarsi una scarpa mentre l’altro lo guarda, si fa particolarmente sensibile il maturare di un’estetica da film noir. Tratto, questo, che risulta evidente sin dalle prime inquadrature di Day of the Fight (1949), breve documentario sull’atleta di cui sopra che segna il debutto cinematografico di Kubrick: scorci urbani in cui il volto di Walter compare sui volantini che annunciano il match. Il “doppio” risulta ora situabile al crocevia delle implicazioni antropologiche e psicoanalitiche che ne fanno una manifestazione del senso di morte e del narcisismo primario. Significato, quest’ultimo, che diviene tangibile in alcune immagini, come quelle in cui il gemello Vincent spalma con cura la vasellina prima sul volto poi sul corpo di Walter, ed in alcuni passaggi della voce over, la quale ci informa che, prima del match, “vivono come tanti anni fa, i due ragazzi e il cane di Walter”, o che i due “little boys” si stanno recando alla messa del mattino. Il doppio, dunque, come “manifestazione di uno stato psicologico per cui l’individuo non può liberarsi da quella fase dello sviluppo in cui l’io si ama narcisisticamente” 3.

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Ma al narcisismo primario, che accomunerebbe i bambini agli uomini primitivi, sarebbe pure da ricondurre la nascita dell’“anima”: “E’ dunque chiaro che è stato il narcisismo primario che, sentendosi particolarmente minacciato dall’annullamento inevitabile dell’io, ha creato, come prima rappresentazione dell’anima, un’immagine del tutto simile all’io corporeo, un vero e proprio Doppio, per poter negare il pensiero della morte attraverso uno sdoppiamento dell’io (...) Solo con la percezione della morte e della paura di essa, provocata dalla minaccia al narcisismo, sorge il desiderio dell’immortalità che possiamo considerare come un compromesso tra la primitiva, ingenua fede in un’esistenza eterna e l’esperienza della morte fatta dall’uomo in un secondo tempo. La credenza primitiva nell’anima, dunque, non è altro che una specie di credenza nell’immortalità, volta a smentire energicamente la potenza della morte. Tutt’oggi il contenuto essenziale della credenza nell’anima, così come la incontriamo nella religione, nella superstizione e nel culto moderno, non è molto diverso. L’idea della morte diventa sopportabile se c’è un Doppio che dopo questa vita ce ne assicura una seconda” 4. La valenza di doppio-anima di Vincent è resa limpidamente a livello figurativo nella scena in cui i “little boys” prendono la comunione: ad un’inquadratura, con camera inclinata verso destra, di una Madonna con Cristo morto in grembo, ne segue una fortemente chiaroscurata dei due, in piano ravvicinato, inginocchiati che pregano, entrambi con gli occhi chiusi, Walter con le orbite oscurate, Vincent chiare. L’idea che emerge in modo più netto, tuttavia, è quella, strettamente legata alla precedente, del doppio-spirito tutelare 5, o più precisamente, nella fattispecie, dell’angelo custode. Vincent è infatti colui che accudisce Walter prima e dopo il match, gli prepara da mangiare,

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gli fa da manager, lo allena; “è come se i fratelli salissero sul ring insieme”, dice la voce del narratore. Sono poi ravvisabili altri elementi che possono far pensare, al di là del motivo del sosia che ne è parte integrante, al concetto freudiano di “perturbante” 6 cui avremo modo di riferirci nel prosieguo dell’analisi. Così le due statue all’interno e all’esterno della chiesa; della prima si è detto poc’anzi, sulla seconda, posta in alto sulla chiesa, la macchina da presa esita prima di inclinarsi verso il basso per inquadrare, in campo lungo, i gemelli in arrivo. Così la lenta e insistita panoramica sull’attrezzatura di Walter pronta nell’attesa, come a rappresentare un “dramma di oggetti”. L’effetto perturbante, legato alla rimozione delle credenze animistiche proprie dell’infanzia (e delle popolazioni primitive), scaturisce comunque dal doppio. Ancora Rank: “Come nella minaccia che l’amore sessuale muove al narcisismo, così anche nella minaccia della morte ritorna, proprio nella figura del Doppio, quell’idea di morte da cui lui doveva difendersi, perché, secondo credenze diffuse ovunque, il Doppio è proprio un annunciatore di morte (...) Negli stessi fenomeni di difesa, d’altra parte, ritorna la minaccia dalla quale l’individuo si vuole difendere e contro cui vuole affermarsi. Succede così che il Doppio, personificazione dell’amore narcisistico, diventi un rivale nell’amore sessuale e, sorto inizialmente come difesa da una fine eterna molto temuta, ricompaia nelle superstizioni come messaggero di morte” 7. L’ambivalenza protezione contro la morte/presentimento di morte è particolarmente sensibile nel già descritto episodio della comunione. La voce over spiega che per Walter “la comunione è importante nel caso andasse male stasera”. Il tempo dell’attesa si reifica in figura minacciosa: “solo quando vorresti che passasse in

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fretta come ora il tempo ti fissa in viso e si muove appena”, recita la stessa mentre Walter sta per essere chiamato sul ring. Il forte senso di inquietudine, pure reso dalla figuratività espressionista, pervade del resto l’intero cortometraggio, essendo il match, per il pugile, realmente una questione “di vita o di morte”. Ed a questo proposito indicheremo in Day of the Fight la prima occorrenza di una costante kubrickiana, quella del duello mortale, della lotta all’ultimo sangue, che accompagnerà, da Fear and Desire a Full Metal Jacket, la sua intera filmografia. La tensione del film, e di Walter, è resa attraverso l’orientazione semi-soggettiva connessa a modalità di ripresa più o meno “insolite” 8. Alcune inquadrature appaiono inclinate lateralmente: quella della statua dentro la chiesa, quella dall’automobile mentre Vincent e Walter si dirigono al palazzetto, mentre Vincent allena Walter. Ma il momento più interessante è, sotto questo aspetto, la sequenza del match. Questo è ripreso con campi medio-lunghi dall’alto inframezzati da piani più ravvicinati (dalla mezza figura, al piano americano, alla figura intera) che sono invece in contre-plongée. Abbiamo poi un’inquadratura dal basso dei due contendenti in primo piano durante uno scontro ravvicinato, cui seguono, alternati, due piani americani in contre-plongée leggera e due campi medi con inclinazione normale; nel secondo campo medio vediamo Walter mettere K.O. l’avversario. Le inquadrature si normalizzano, dunque, man mano che il protagonista viene a prevalere, e viene quindi sciogliendosi la sua tensione di cui l’enunciazione si fa carico. Riepiloghiamo, a questo punto, e andiamo a concludere. Narcisismo primario, dunque, successo come questione di vita o di morte, ambivalenza del doppio. Ma c’è forse, già qui, qualcosa di più. “Mentre si prepara ad entrare nello stadio dove tremila perso-

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ne lo aspettano”, declama il narratore mentre scorrono le immagini del pugile che si allena col fratello, “Walter sta diventando un altro uomo. Questo è l’uomo che non può perdere, che non deve perdere. I movimenti delle sue braccia e dei suoi pugni sono di una persona diversa. Sono del Walter Cartier che la folla vedrà tra quindici minuti”. Il sogno americano di Walter si colora così di alienazione e di spossessamento 9. Questioni, diremo ancora una volta, centrali in Kubrick. Questioni che percorreranno i primi due lungometraggi, Fear and Desire e Il bacio dell’assassino.

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Capitolo secondo “a trICk wE pErform whEN wE’D rathEr Not DIE ImmEDIatELy” Con voce oleata dice Ne extra oleas. Se tenti di andare al di là degli ulivi Atena ti trattiene nera in faccia con l’intera selva con l’ultimo suo ramo per non farti capire che in quella pagina bianca non c’è traccia di leoni non c’è altra belva altro re all’infuori di te. Bartolo Cattafi, Al di là degli ulivi (da L’aria secca del fuoco, Milano, Mondadori, 1972)

Fear and Desire, girato tra il 1951 e il 1952, proiettato per il pubblico nel 1953, il primo lungometraggio di cui Kubrick firma la regia, fu da lui notoriamente rifiutato. Come si sa, fece del suo meglio perché venisse dimenticato e non più riproposto. La critica, dal canto suo, soprattutto col ritorno alla reperibilità

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della pellicola, a partire dagli anni ’90, rileva spesso, più che il carattere “immaturo” e dilettantesco denunciato dallo stesso autore, quello di affettata poeticità, riprendendo così parecchie voci che si espressero in questo senso alla sua prima uscita. Di rado (anzi, a mia notizia, in tempi recenti in nessun caso) tuttavia gli esegeti si sentono di condividere il giudizio estremamente severo, persino sprezzante, del realizzatore. Ora, che l’analista non si senta di concordare con Kubrick, nel liquidare il film come una goffo tentativo espressivo dalle sperticate ambizioni, si può certo sospettare che accada per la riluttanza a vedere frustrato il proprio ruolo, per il desiderio di “attaccarsi a qualcosa”, magari ad un pregiudizio “autoriale”, che spinge a intravedere almeno una pagliuzza d’oro ovunque si sia posato il tocco magico del “genio”. Se così fosse, tuttavia si sarebbe, in questo caso, davvero esagerato. In quanto in Fear and Desire si tende spesso a vedere un big bang che già comprendeva pressoché tutto, la galassia kubrickiana compressa sulla punta di uno spillo. E ad una simile predisposizione critica mi accingo, del resto, posso tranquillamente anticiparlo, ad aggiungere i miei proverbiali due centesimi. Chi sbaglia dunque, o chi bara, il genio o lo stuolo degli esegeti, sopravvalutanti, più realisti del re, iper-interpretanti? Non essendo questa sede per rivendicazioni o difese di categoria, né per autocritiche o autoanalisi, possiamo notare che già Paolo Cherchi Usai, all’atto della riscoperta del film, nella sua descrizione e nella sua analisi condotte con esemplare rigore, formulava l’idea che l’ostentato disprezzo per l’opera prima, e la volontà di occultarla, celassero l’imbarazzo per aver troppo platealmente messo le carte in tavola, per averle scoperte, anticipando in modo ingenuo le linee portanti e le ragioni profonde di una poetica e di

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un percorso espressivo 10. Tenterò di approfondire in seguito il discorso sugli atteggiamenti e le motivazioni dell’ “autore in carne e ossa”. Ora passiamo all’analisi del testo filmico. Cominciando col rilevare che, se le debolezze da più parti segnalate riguardo all’uso estetizzante dei dialoghi e, soprattutto, del monologo interiore, con le nuances di gusto manieratamente esistenzialista, sono effettive 11, pure il film mostra notevoli punti di forza lungo due direttrici dialetticamente connesse. Quella autoriflessiva e quella simbolico-archetipica. In apertura, mentre ci vengono mostrati scorci dell’isola della “guerra qualunque”, la voce over recita: “There is war in this forest. Not a war that has been fought, or one that will be, but any war. And the enemies who struggle here do not exist, unless we call them into being. This forest, then, and all that happens now, is outside history. Only the unchanging shapes of fear and doubt and death are from our world. These soldiers that you see keep our language and our time, but have no other country than the mind.” I personaggi, dunque, non esistono. A meno che non li chiamiamo a esistere. Ritengo che la critica, certo condizionata dal dubbio schermirsi dell’autore, abbia sottovalutato l’importanza di questo radicale gesto antinaturalistico con cui si apre il cinema di finzione kubrickiano. Tanto più che tale radicalità, appena meno appariscente, vibra anche nel Bacio dell’assassino; e a tali vibrazioni, in quel caso ancor di più, gli analisti sono stati quasi sempre pressoché sordi. Del resto, si sa, anche il secondo lungometraggio sarebbe stato, si premurava di informarci il signor K, una bagatella. Appena più scusabile della prima perché meno ambiziosa.

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Ipse dixit. E, si sa, si trattava di un regista wellesianamente demiurgico, lucido. E spietato. Un soggetto cui singolarmente si attaglia il luogo comune della “spietata lucidità”. Poteva, Egli, sbagliarsi; o poteva forse, non voglia Iddio, mentire? Tanto più che nel film pensato come Kiss me, kill me c’è sì un gioco sottile sul doppio, con allitterazioni narrative e simboliche (lo stesso titolo di lavorazione è al riguardo sintomatico), un gioco di rimandi, di sfumature, anche sul versante “sociale” e finanche politico. Ma mancano, appunto, in apparenza, le ambizioni. Manca la ridondanza dei grandi simboli di Shape of Fear (titolo del film finché il distributore, che nel desire vedeva con ogni probabilità una qualche opportunità commerciale, non chiese di cambiarlo). Manca la poeticità scoperta, ostentata della “grande voce che si pronuncia” 12. Nessuna appariscente vetta a cui aggrapparsi. Perché non fidarsi di Kubrick, dunque? Ma torniamo a Fear and Desire. “A meno che non li chiamiamo a esistere”. Abbiamo a che fare con dei personaggi-enunciati che, esplicitamente, devono la loro esistenza al fatto che un enunciatore li enunci e un enunciatario ne raccolga l’enunciazione. Questo accade trent’anni dopo i Sei personaggi. Certo. Ma anche quindici prima della Chinoise. Il fatto non mi pare del tutto anodino, trascurabile. Ritengo che l’enunciazione enunciata, in questo film, ma più in generale nel primo Kubrick, sia un elemento da ponderare con attenzione, ben più di quanto si sia soliti fare. Non solo i personaggi, ma anche gli accadimenti ed il luogo dove essi si svolgono “non esistono”. O meglio, “sono fuori dalla storia”. La storia (story) e fuori dalla storia (history). E lo è in quanto operata da una pratica discorsiva, narrativa. Dal discorso, dalla narrazione, ossia… dal mythos.

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Abbiamo infatti a che fare con “forme immutabili” che, esse sì, sono “del nostro mondo”. In esso infatti hanno un luogo loro proprio, un “paese”. No other country than the mind. Al pari dei personaggi, risiedono nella psiche. O meglio, istanze della psiche regolanti l’esperienza che essa ha del mondo, sostanziano di sé i personaggi, gli accadimenti, l’ambiente. Sicché il film si configura come un viaggio, un percorso di conoscenza, nella psiche. Una concezione archetipica di sicura derivazione psicoanalitica; o per la precisione, “psicologico analitica”. La forma è sostanza. Le forme immutabili, i principi formali, ovvero gli archetipi sono la sostanza stessa del film. La sua sostanza psichica. Quanto più si addiceva al film, dunque, il titolo originario, rispetto a quello voluto dal produttore! 13 Shape of Fear, ossia “l’archetipo della paura”. La soppressione del termine “shape”, e l’opportunistica immissione del “desire” nel titolo, fa cadere l’allusione alla forma (discorso, mythos, archetipo) come “oggetto” del film. Tendendo quindi a sottrarlo alla dimensione dell’enunciazione enunciata. Tendendo a sottrarre l’isola, la foresta, al regno dell’enunciazione psichica. Poiché l’enunciazione enunciata, in questo film, è, appunto, enunciazione psichica 14. Non è, del resto, solo il testo recitato ad alludere, in apertura di film, agli archetipi dell’inconscio. Abbiamo infatti un’immagine dal forte portato simbolico, che riassume in se, spazializzandola, la vicenda sviluppata dal film, il suo tema. Corby, ufficiale a capo della pattuglia sperduta sull’isola, a

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causa della caduta del loro aereo, disegna con un bastone, in terra, una sorta di rudimentale mappa per illustrare ai compagni la loro approssimativa posizione. Spiega che un fiume attraversa la linea del fronte nemico e, curvandosi, finisce dalla loro parte (“That river cuts through the front lines and winds up on our side”). Ecco il disegno che ne risulta.

Una croce il cui braccio verticale si piega a sinistra a formare un cerchio. Si noterà che sia il cerchio che la croce sono, in termini junghiani, simboli del “Sé”. L’archetipo della totalità psichica per tendere al quale è necessario andare oltre l’unilateralità della coscienza, integrando i contenuti psichici inconsci. Ora, fuor di metafora (metalinguistica) il viaggio dei quattro soldati (anche il numero quattro simbolizza, per Jung, la totalità 15) è un viaggio verso il proprio lato oscuro (l’Ombra) alla ricerca di

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sé. Un viaggio autoriflessivo nelle immagini e delle immagini. Poiché, se l’immagine simbolica si denuncia, nel suo essere non naturalistica (e talvolta platealmente anti-naturalistica), nel suo ostentato “significare”, in quanto immagine, essa, in virtù della sua natura archetipica, inerisce all’interiorità dei personaggi. Del resto, l’equiparazione tra la mappa, immagine schematica, bidimensionale, e il mondo diegetico del film, realtà fittizia resa in termini di tridimensionalità solo illusoria, è operata nelle parole del generale nemico. “Sometimes, as I look at these maps, I wonder if my own grave isn’t being planned. Here... or here... or here”. Il generale sta per essere ucciso. Lo sarà pochissimo dopo aver detto quelle parole. Ancora la mappa è una mise en abîme. Non semplice segno iconico, ma spazializzazione simbolica di una realtà spazio-temporale fittizia (diegesi). La “mappa” sulla quale la morte del generale è stata prevista (planned, pianificata, messa in piano) è la sceneggiatura, la mappa (map, ma anche, appunto, plan) del film. Il “piano dell’opera” cinematografica è figurativizzato da una messa in piano del film. Si allude così ad esso come processo significante e come produzione materiale. Sia implicando il testo scritto (lo script) che fissa su carta la narrazione, sia, al contempo, la sua bidimensionalità; la sua natura, appunto, di “film”, pellicola. Si svela così il “dispositivo”. Ma se è intaccata l’illusione di realtà, la “trasparenza” classica, ciò accade in quanto la realtà cui si tende, che si intende rendere, è simbolica, e non naturalistica. Ancora, la mappa è anche una trappola. Corby comincia il disegno con l’affermazione “once you understand how a mouse trap works, if you’re clever enough, you can use it as a springboard” e lo termina dicendo: “Now, as I see it, we could use our recondi-

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tioned mouse trap on the river”. Il generale, immediatamente prima della riflessione sulla mappa, riflette sul proprio essere “intrappolato” (trapped): “Frankly, I still become uneasy when I find myself trapped directing the courses of frightened men (...) I’m trapped”. The Trap, ancor prima di Shape of Fear, era stato il titolo di lavorazione del film. Il fiume, nella mappa simbolica del film, sta certo, come è stato giustamente notato, per lo scorrere del tempo. Ma è altresì il fiume infernale, che scorre tra il regno dei vivi e quello dei morti, ovvero tra il regno della coscienza e quello dell’inconscio. Non deve sfuggire, in questo quadro, la figura del cane, che si muove lungo il fiume e attraversa il confine del fronte. Il cane che i quattro naufraghi incontrano quasi subito dopo il loro atterraggio di fortuna sull’isola. Il cane è, com’è noto, figura universale dello “psicopompo”, il conduttore dell’anima (psiche) nei territori incogniti dell’oltre mondo (inconscio). Fletcher, in un momento di scoramento, invidia le sue prerogative: superare i confini, andare oltre. “I’d give anything to trade places with that dog we chased yesterday. Seems like whenever people get in a hole they get to get jealous of dogs.” In termini psicologici, la psiche, nell’impasse che sta patendo (in a hole, ancora il tema dell’intrappolamento) anela al movimento, all’attraversamento del limite della coscienza attuale, alla trasformazione. Un’altra impronta mitologica riguarda il nome di quello che scopriremo essere il cane del generale. Questi lo chiama “Proteus” e, come si trattasse proprio del dio oracolare, si rivolge a lui come

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se l’animale fosse in grado di fornire informazioni rilevanti per l’azione militare. Nel suo discorrere con lui di “spiriti”, d’altronde, evoca il mondo incantato della Tempesta scespiriana già richiamato nel delirio di Sidney. I flussi di coscienza, talvolta sovrapposti, che rendono conto dell’interiorità dei quattro soldati, se concorrono a sottolineare la natura arty del film, pure rimarcano la qualità psichica del mondo e della vicenda che ci viene presentata. Mentre a incrinare il regime classico di rappresentazione provvedono talune modalità nontrasparenti di ripresa e montaggio. L’espediente “arcaico” della tendina usato per indicare microellissi narrative, contre-plongées con riflessi del sole sull’obiettivo. Ma soprattutto talune soggettive “aberranti”. Durante l’assalto ai soldati nemici sorpresi mentre consumavano il pasto, vediamo il pugno di mac dirigersi per cinque volte contro l’obiettivo. La mano di Mac, più, avanti, verrà ad oscurare la soggettiva non di un morituro, ma addirittura di una morta. Accade quando il suo palmo passa davanti agli occhi della giovane prigioniera uccisa da Sidney ormai folle (non per chiuderli, tuttavia, come a taluni è sembrato). Dinanzi ai cadaveri dei soldati Corby riflette (monologo interiore): “We spend our lives running our fingers down the lists and directories, looking for our real names, our permanent adresses. No man is an island? Perhaps that was true a long time ago, before the Ice Age. The glaciers have melted away and now we’re all islands, parts of a world made of islands only.” Si allude, certo, al tema pirandellisticamente abusato dell’iden-

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