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Mathias Balbi
PASOLINI
Mathias Balbi Mathias Balbi
SADE E LA PITTURA
Mathias Balbi è iscritto all’Ordine Nazionale dei Giornalisti e al SNCCI. Collabora da tempo con alcuni periodici, tra i quali “Film D.O.C.”, “La Magnifica Ossessione” e “Cinergie”. Ha pubblicato Le ombre della psiche nel western classico (1945-1960) (Graphos, 2001) e ha partecipato alle raccolte La congiura degli hitchcockiani e C’era una volta in America. Cinema, maccartismo e guerra fredda, entrambe pubblicate da Falsopiano nel 2004. www.falsopiano.com/pasolinipittura.htm
SADE E LA PITTURA
PASOLINI
Dalla prefazione di Sergio Arecco
PASOLINI
SADE E LA PITTURA
L’insistenza del rapporto tra immagine pittorica e immagine filmica è sempre stata argomento ineludibile per gli studiosi dell’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini. Pensiamo ai saggi o alle monografie di Brunetta, Marchesini, Galluzzi e dello stesso Zigaina.(...) Chi non conosce il tanto citato parallelismo tra il Cristo Morto di Mantegna a Brera e la ripresa in scurto di Ettore morente nel suo letto di contenzione in Mamma Roma? Chi non conosce la tanto dibattuta quaestio dei prestiti figurativi esplicitati da Pasolini nei primi tre film (il Masaccio di Accattone e Mamma Roma, la Deposizione del Pontormo in La ricotta), quasi a titolo di omaggio al magistero longhiano? Ecco pertanto dispiegarsi nel presente volume (...) il tracciato completo del rapporto tra Pasolini e le arti, dall’affezione quasi morbosa per il “colore” nei disegni di gioventù alla “fulgurazione pittorica” d’epoca universitaria, dalla vertenza critica su una personalità controversa come quella del Romanino (1485 ca.-1550 ca.) alla scoperta, sempre di ascendenza longhiana, del manierismo e del barocco, nonché, per li rami, dei dispositivi della contaminazione e del crossover (o, addirittura, della iteratività warholiana).
ISBN978-88-89782-77-4
€ 19,00
EDIZIONI FALSOPIANO EDIZIONI FALSOPIANO
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FALSOPIANO
CINEMA
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a mia madre
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EDIZIONI
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Ringraziamenti Voglio ringraziare Graziella Chiarcossi per le preziose indicazioni sui materiali d'archivio relativi alle sceneggiature di Salò o le 120 giornate di Sodoma conservati presso l'Archivio contemporaneo “A. Bonsanti” del “Gabinetto Letterario G. P. Vieusseux” di Firenze e presso l'“Archivio Pier Paolo Pasolini” della Cineteca di Bologna. In relazione ai due enti voglio ringraziare per la loro disponibilità nei miei confronti rispettivamente la dott.ssa Eleonora Pancani e il dott. Roberto Chiesi. Alessandra e Giuseppe Zigaina per la loro collaborazione. Il prof. Gianluca Ameri dell’Università degli Studi di Genova.
In copertina: Pier Paolo Pasolini sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
© Edizioni Falsopiano - 2012 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: Arti Grafiche Atena - Vicenza Prima edizione - Aprile 2012
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INDICE
Prefazione di Sergio Arecco
p. 11
Introduzione
p. 17
Nota
p. 29
Scheda filmografica
p. 31
PartE PrIma - Il ProgEtto
p. 33
Capitolo Primo Pier Paolo Pasolini. Nascita e vita
p. 35
Friuli materno e Bologna paterna Parola dipinta. Poesia e pittura Alla corte di Longhi tra scuola e “fulgurazione” Una postilla. Pasolini e le riviste “Il Setaccio” (1942-1943) “Stroligut” (e Academiuta di lenga furlana, 1944-1947) “Officina” (1955-1958)
p. 35 p. 38 p. 42 p. 59 p. 59 p. 63 p. 65
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PartE sECoNDa - Il mIstEro
p. 73
Capitolo Secondo Pasolini, sade e le arti
p. 75
La “fulgurazione” e il pastiche La pittura di Pasolini. Il pastiche e l’alchimia Salò e le arti. Teatro, architettura, musica, voce, suono Teatro Architettura Musica, voce, suono
p. 75 p. 78 p. 84 p. 84 p. 88 p. 92
PartE tErza - la mImEsIs
p. 111
Capitolo Terzo Premessa metodologica
p. 113
Fuori testo. la bibliografia e la didascalia
p. 113
Balla, Boccioni, Duchamp, Léger, (Sironi) Bosch Bruegel il Vecchio Cagnaccio di San Pietro Caravaggio Casorati Daumier (e Goya) Dix (e Nuova Oggettività) Donghi
p. 117 p. 133 p. 141 p. 145 p. 149 p. 155 p. 160 p. 163 p. 169
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Feininger Giorgione Grosz Kokoschka Magritte Mantegna, Masaccio, Piero della Francesca Savinio Signorelli Vermeer
p. 173 p. 175 p. 178 p. 182 p. 183 p. 186 p. 197 p. 200 p. 205
Art-Déco e Liberty Arte bizantina
p. 208 p. 212
appendice. Due tavole fuori testo
p. 215
Conclusione. Pasolini, longhi e Bacon
p. 217
Immagini
p. 219
Bibliografia
p. 237
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PREFAZIONE di Sergio Arecco
Se poi fotogramma, per etimo, significa descrizione di luce e, dunque, anche d’ombra? Di questo ci si convince rilevando che, portate in film, le immagini del Caravaggio e della sua cerchia sembrano girate addirittura dinnanzi a noi su corpi veri, e non dipinti. (Roberto Longhi, Il Caravaggio e la sua cerchia, 1951)
L’insistenza del rapporto tra immagine pittorica e immagine filmica è sempre stata argomento ineludibile per gli studiosi dell’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini. Pensiamo ai saggi o alle monografie di Brunetta, Marchesini, Galluzzi e dello stesso Zigaina. Perché dello stesso? Perché Giuseppe Zigaina, conterraneo, di due anni più giovane e amico intimo di Pasolini fin dall’adolescenza, ha avuto modo di cogliere, più di chiunque altro, la genesi remota della passione figurativa del compagno, fin dai primissimi disegni giovanili in quel di Casarsa, e ha avuto modo di seguirne da vicino (più da vicino di chiunque altro) gli sviluppi successivi, propiziati in ambiente universitario dalla frequentazione assidua delle lezioni di Roberto Longhi presso l’ateneo di Bologna. “A Roberto Longhi sono debitore della mia ‘fulgurazione figurativa’”. Chi non conosce questa dichiarazione (che è anche una dichiarazione d’amore filiale), con la quale Pasolini introduce la sceneggiatura di Mamma Roma (1962)? Chi non conosce il tanto citato parallelismo tra il Cristo Morto di Mantegna a Brera e la ripresa in scurto di Ettore morente nel suo letto di contenzione in Mamma Roma? Chi non conosce la tanto dibattuta quaestio dei prestiti figurativi esplicitati da Pasolini nei primi tre film (il Masaccio di Accattone e Mamma Roma, la Deposizione del Pontormo in La ricotta), quasi a titolo di omaggio al magistero longhiano? Ebbene, Mathias Balbi, il giovane e valente studioso autore del volume, si fa intenzionalmente critico della critica, al fine di ricostruire passo passo, come nessuno ha fatto finora con un simile scrupolo e rigore, la traiettoria di un’arte cine11
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matografica come quella pasoliniana, intimamente connessa sia con la storia dell’arte italiana tout court sia con la storia dell’arte italiana così com’è ridefinita dalla specifica rilettura longhiana. Per poi finalizzare il tutto alla disamina delle genealogie figurative di Salò o le 120 giornate di Sodoma o, per meglio dire, con un bisillabo che Balbi definisce giustamente “sibillino”, Salò, o tutt’al più, SalòSade: sigillo non solo oggettivamente definitivo dell’opera pasoliniana, ma anche, a prescindere dalle circostanze fatali e fattuali che lo hanno reso tale, sigillo di un percorso creativo al quale, sul finire del 1975, Pasolini stesso intende comunque assegnare un valore conclusivo. Non solo: conclusivo in illo signo, nel segno di un’estetica del pastiche ipernaturalistico maturata fin dalla gioventù – secondo la preziosa testimonianza di Zigaina – e destinata a sublimarsi figurativamente in quell’analogon irripetibile dell’ “universo orrendo”, apparentabile solo a certe pagine non meno irripetibilmente “analogiche” come quelle del cap. 55 dell’incompiuto Petrolio, rappresentato da e in Salò. Ecco pertanto dispiegarsi nel presente volume, grazie all’attenzione davvero capillare di Balbi, il tracciato completo del rapporto tra Pasolini e le arti, dall’affezione quasi morbosa per il “colore” nei disegni di gioventù alla “fulgurazione pittorica” d’epoca universitaria, dalla vertenza critica su una personalità controversa come quella del Romanino (1485 ca.-1550 ca.) alla scoperta, sempre di ascendenza longhiana, del manierismo e del barocco, nonché, per li rami, dei dispositivi della contaminazione e del crossover (o, addirittura, della iteratività warholiana). Pasolini che, assistendo alle lezioni bolognesi di Longhi, ha l’impressione di assistere, contestualmente, a una sorta di messa in scena cinematografica, assicurata dallo scorrere delle diapositive in bianco e nero, dell’arte pittorica di Masaccio e aiuti. Pasolini che propone a Longhi una tesi di laurea sul cinquecentesco pittore friulano Pomponio Amalteo, la cui maestria ha sempre ammirato fin dall’infanzia “cattolica” condivisa visceralmente con la madre Susanna, frequentando la Parrocchia Nuova di Casarsa (Deposizione) o, ancor più, Santa Croce di Casarsa (Storie della Passione e della Vera Croce) – dopodiché, di fronte alle perplessità del maestro, opterà per una laurea in letteratura italiana, con una tesi sulla poesia di Giovanni Pascoli, discussa con Carlo Calcaterra. Pasolini che, in una “Lettera” del 4/10/1962 a Vie Nuove, il settimanale del PCI su cui scrive, si appella ancora a Longhi perché smentisca, con tutta la sua autorità di maestro e di specialista di Masaccio, la derivazione “automatica” dell’immagine dell’Ettore morente di Mamma Roma dall’imago princeps del Cristo morto di Brera: “Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per par12
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lare di influenza mantegnesca!”. Pasolini che s’invaghisce, auspice Longhi, di Caravaggio e dei caravaggeschi, e intraprende un suo tragitto assolutamente personale, che dalla luce accecante dei primi film lo conduce a un elogio progressivo dell’ombra che quella luce nasconde e sottende. Pasolini che, di Longhi (questa volta in concorrenza con Gianfranco Contini), assimila, per una curiosa empatia, lo speciale impasto di tradizione filologica e traduzione metaforica, un metalinguaggio affascinante che fonde insieme lettura del fatto o artefatto pittorico e lettura dell’antefatto storico, in pagine che sono al tempo stesso creazione di un mito figurativo e ri-creazione letteraria del mito in esame. Pasolini che, ritraendo amorosamente la Maria Callas degli anni di Medea e del dopo-Medea, officia quel medesimo rito esorcistico o alchemico che officiava da giovane ritraendo le figure di Casarsa o ritraendo se stesso come – lo sottolinea ancora Zigaina – qualcosa di enigmatico, sondabile soltanto per vie iniziatiche o misteriche. Pasolini che, ogni volta che si mette in campo, mette in campo una “divina mimesis” che è tutt’uno con quell’imitatio Christi e soprattutto quell’imago Christi che si porta dentro da sempre, come disegno archetipico: un’immagine mimetica alla quale finirà per dare definitivamente corpo con l’immagine del proprio stesso corpo morto, vilipeso e oltraggiato. Pasolini che, attraverso il cosiddetto “teatro di parola” fonda, artaudianamente, un’archeologia del verbo fatto carne e sangue, urlo e suono inudibile, in ossequio a un’interpretazione quanto mai estensiva ed estrema del pastiche linguistico, da intendersi in senso non solo figurativo ma anche plastico, letterario e musicale (o a-musicale). Mathias Balbi esamina punto per punto, con un’acribia che non lascia nulla d’inesplorato, tutta questa tessitura di rimandi culturali. E, citando quanto Pasolini scrive in calce alla citata “Lettera” a Vie Nuove a proposito del figurativismo di Mamma Roma – “O che, se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio” –, quasi anticipa un’intuizione che si va proprio in questi giorni concretizzando grazie alla mostra fiorentina “Novecento sedotto”, nell’ambito della quale al fotogramma di Ettore disteso in scurto nel suo letto di morte non viene affiancato il Cristo morto di Mantegna bensì, provocatoriamente, il Compianto sul Cristo morto di Orazio Borgianni (1615, proveniente non a caso dalla “Fondazione Studi Storia dell’Arte Roberto Longhi” di Firenze). Giusto perché si è voluto tener conto, a detta della curatrice della sezione Valentina Gensini, del suggerimento di Pasolini (Masaccio “commisto” a Caravaggio) e del fatto sintomatico che, com’è scritto nel Catalogo 13
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della mostra, “il corpo livido del caravaggesco Borgianni e quello del figlio della prostituta Anna Magnani hanno in comune la ricerca di una bellezza che non ha paura di rappresentare con autenticità il dolore” (laddove il Cristo di Mantegna trasmetterebbe più un senso di dolente costernazione che di smarrita bellezza). Del resto è stato proprio Longhi a tessere, in Il Caravaggio e la sua cerchia, un elogio inaspettato di Orazio Borgianni (1578-1616 ca.): “Per molto pubblico sarà una rivelazione il Borgianni che, in Ispagna, da molto giovane, aveva conosciuto anche il Greco, e, tornato a Roma sui primi del secolo nuovo, diede, se dobbiamo credere alle parole del Baglione, qualche ombra di preoccupazione al Caravaggio stesso”. Con Borgianni, fa capire Longhi, siamo alle soglie del manierismo, se non della vanitas barocca: il tratto visionario sotteso agli intensi effetti luministici e agli squarci improvvisi di nature morte introduce a quel ludico mascherarsi e smascherarsi dei doppi spazi e dei doppi fondi che sarà cifra manieristica per vocazione o elezione; mentre il trionfo della “bellezza del dolore” prelude a quell’illusionistico estetismo della morte che sarà tratto distintivo dell’estasi del capriccio, macabro o fantasmagorico che sia. Inutile nasconderlo: sono epifanie che si riversano come un trauma su una sensibilità già di per sé predisposta come quella pasoliniana e sfoceranno, nel cinema e non solo (la letteratura e la critica pasoliniana del periodo se ne fanno carico in egual misura) nell’esibizione sempre più compiaciuta di un sacro ostentatamente e sistematicamente profanato: un’oltranza che si esalta già in Uccellacci e uccellini e Che cosa sono le nuvole?, attinge un primo vertice in Teorema e Porcile e culmina in Salò. Salò, appunto, o Salò-Sade. E a tal proposito ci piace ricordare una querelle che, all’epoca, divise i due più influenti scrittori del Novecento italiano, Alberto Moravia e Italo Calvino. Quest’ultimo accusò Pasolini di aver fatto un film sbagliato, per non aver avuto il coraggio di prendere a bersaglio se stesso e la propria intrinseca “crudeltà”, il proprio innato “sadismo” in fatto di rapporti sessuali – come se, in ogni suo film, e in Mamma Roma in primis, Pasolini non avesse parlato di se stesso nella forma più autentica e straziata, vaticinando addirittura nella morte mantegnesca o borgiannesca di Ettore la propria stessa morte. Al che Moravia, indignato, ribatté che Salò-Sade non intendeva affatto essere un film “sadico”, bensì “una riflessione cinematografica sull’opera di Sade”, un modo per mettere a nudo i meccanismi del fascismo, consistenti nel dissimulare il “disordine mortuario” sotto un “falso ordine vitale”. Facendo notare che le scene più “sadiche” erano quelle viste attraverso il binocolo dei Signori, per cui tutto finiva per apparire filtrato, calato “in un’aria di sogno, con carnefici e vittime resi muti dalla distanza, in brani separati, come in una nebbia che si squarcia ogni tanto”. Calvino, sulla scia di Michel Foucault – il quale in Sade, sergent du sexe minimizzò la grandiosità necrofila della mise en scène totalitaria della Storia rivendi14
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cando l’origine piccolo-borghese dei fatti più sinistri e disgustosi e attribuendo l’invenzione dei lager alle morbose immaginazioni congiunte di un allevatore di polli, Himmler, e di un’infermiera, sua moglie –, non capì che la chiave di lettura di Salò non poteva che essere quella del “pathos della distanza”, della trasposizione astratta del trauma del fascismo-sadismo, e dei suoi derivati anche personali, nella langue del vocabolario fantasmatico sadiano. Come non rilevare che i molteplici “brani separati” del film sono figurativamente stilizzatissimi? Che l’intero film è il prodotto di una suprema astrazione formale, di una sublimazione retorica che mette in ombra qualsiasi riflesso privato? La luce di Pasolini è, ancora una volta, la luce-ombra riflessa dalle pale d’altare di un suo intimo teatro della memoria pittorica, questa volta esibite con tanto di firma occulta, alla cui decrittazione può molto aiutarci il minuzioso inventario scandito da Balbi nell’ultima parte del volume, addirittura in ordine alfabetico: da Balla a Vermeer, passando per artisti apparentemente lontanissimi tra loro nel tempo e nel canone come Cagnaccio di San Pietro e Daumier, Donghi e Feinenger, Grosz e Magritte, Savinio e Signorelli –, tutti campioni, appunto, di un alto grado di stilizzazione della figura e del tratto. Giusto perché ogni “brano separato” trovi il suo possibile ascendente e il suo possibile codice di riferimento. Balbi, pur tornando opportunamente a evocare in fine Longhi e i Fatti di Masolino e di Masaccio, conclude il suo saggio nel nome di Francis Bacon, “concordanza” troppo suggestiva – in tema di trattamento diretto e indiretto della figura – per non essere richiamata. Quando, esaminando i provini fotografici realizzati negli anni Settanta da uno sconosciuto – forse il compagno – per il pittore irlandese e fondati perlopiù sulla costante di corpi maschili che brutalmente si sfiorano o si torcono o si avviluppano nella lotta, scopriamo un teatro di ossessioni erotiche puntualmente trasformatesi in opere d’arte. Quando visitiamo lo studio londinese del pittore, ora trapiantato pari pari a Dublino, scopriamo un accumulo, casuale e fantasmatico, di spazzatura e fotografie, ritagli e bottiglie vuote di champagne, barattoli di pittura e scatole di conserve, fogli squarciati e polvere. In altri termini, un caos perfettamente organizzato, o un delirio puntigliosamente studiato, pronto per essere trasferito sulla tela in forma antropomorfica. In proposito, Milan Kundera ha scritto in Un incontro che “ciò che [i quadri di Bacon] suscitano non è l’orrore che conosciamo, quello dovuto alle follie della Storia […]. In Bacon l’orrore è del tutto diverso: proviene dal carattere accidentale, improvvisamente svelato dal pittore, del corpo umano”. Ebbene, l’ecce homo di Pasolini, in particolare del Pasolini estremo di Salò, così intensamente scandagliato da Balbi, non ha nulla da invidiare all’ecce homo di Bacon.
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INtROduZIONE
“La morte non è nel non comunicare ma nel non poter più essere compresi” Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità
Una nuova teoria di argomentazioni e dibattiti sopra l’opera pasoliniana ed in particolare sopra il film che più si è (da sempre, da subito) configurato come uno dei testi eccellenti e più metodologicamente nodosi e meno scindibili in parti semplici quali Salò o le 120 giornate di Sodoma, può condurre a qualche perplessità critica. Nel rivolgere intanto lo sguardo all’epoca intensa di Salò, al periodo coincidente con la sua uscita (1975) e a quello appena precedente - il biennio 1973-’74, incipit anche dell’idea-Salò, della sua travagliata e ardita storia produttiva, quanto cornice di una malcelata querelle che ha diviso Pasolini dall’allievo-discepolo Sergio Citti - ci si ritrova a coltivare la convinzione che se, nella storia della cultura, i detrattori hanno solitamente bisogno di occasioni e “testi” spinosi per espletare i loro compiti, mai come nella finale e tragica stagione della vita di Pier Paolo Pasolini questi hanno potuto trovare terreno facile e fecondo. E ciò a più di un livello, due come minimo, e ci riferiamo tanto ovviamente al livello del cinema pasoliniano, quanto a quello intellettuale-critico e giornalistico, a cui si potrebbe allegare la non parentetica attività poetico-letteraria del poeta. Allora, enumerando e identificando con nomi precisi, Salò, gli Scritti corsari e le Lettere luterane (gli interventi giornalistici antologizzati) e, in unione e anticipazione a Salò, il romanzo-fiume Petrolio e l’auto-revisione poetica de La meglio gioventù, con il titolo di La nuova gioventù. Il “Salò-Sade”, per richiamare la sintetica definizione critico-giornalistica con la quale il film fu rapidamente etichettato in quei mesi precedenti e successivi alla sua deflagrante comparsa, muoveva dal riflusso di un periodo molto preciso ed importante per Pasolini, quello iniziato nel 1973 con la collaborazione giornalistica al “Corriere della Sera” e “Il mondo” (e occasionalmente con “Paese Sera”), il cui punto d’arrivo è la confluenza nelle pubblicazioni degli Scritti corsari e delle Lettere luterane. I piccoli e grandi interventi del Pasolini appassionato critico e analista disperato di un’”accanita denuncia, sostenuta da una lucida e tagliente analisi, della 17
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società dei consumi prodotta dalla seconda rivoluzione industriale e dominata dal neocapitalismo tecnologico” 1 costituiscono il romanzo personale della rabbia e della disperazione pasoliniane di quegli anni, coincidenti con la degenerazione della società dell’”ordine orrendo” e dell’”inferno neocapitalista”; ma questi elementi-cardine della presenza intellettuale di Pasolini nell’Italia della metà degli anni Settanta si riformulano, trasportati nell’ambito del cinema pasoliniano e nel quadro della genesi ed elaborazione di Salò, come movente di attualizzazione e presentificazione della realtà codificata in quel cinema. Nelle Lettere luterane Pasolini dice: “Se oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo “corpo” neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone” 2. Da qui, un’ideale gerarchia di temi, condurrebbe ai successivi stadi critici della “mercificazione”, della “omologazione”, della “mutazione antropologica” e, soprattutto, del “genocidio delle culture particolari” (ovvero popolari). L’epistolario di Pasolini con Gianni Scalia (amico e suggeritore occulto della riunione degli ultimi suoi articoli e loro pubblicazione negli Scritti corsari) segue e cronachizza l’applicazione pasoliniana di uno schema marxiano allo studio dell’”Ordine orrendo” di cui parlava in relazione alla società di quel periodo; Scalia dirà in seguito: “Credo che l’ultima ricerca di Pasolini (la sua ‘scoperta di Marx’) sia tutta qui: capire la società del capitale nella sua ultima figura. Insomma Pasolini stava facendo a suo modo, con i suoi mezzi e la sua cultura, attraverso le sue “intuizioni”, un’analisi della società del capitale da marxista, direi, globale ed integrale, in mezzo a marxisti progressisti e storicisti: ritrova l’analisi della totalità del capitale, della sua produzione non solo di merci e di plusvalore, ma di rapporti sociali (di “umanità”, come diceva), totalmente alienati nella “mercificazione” ... Riconosceva, in mezzo a un marxismo endemico, o, meglio, introuvable, l’analisi marxiana, incentrandola in tre grandi questioni: la “mutazione antropologica” prodotta dal capitale nella sua ultima figura di “modernità”; la totalizzazione e socializzazione del modo di produzione capitalistico nel “produttivismo-consumismo”; il “genocidio delle culture” [...] nella produzione culturale capitalistica” 3.
Certo, si potrebbero segnalare le eccezioni mosse da alcuni al marxismo pasoliniano, nonché, ugualmente frequenti, le obiezioni di banalità e conformismo (quà e là oggettivamente in parte condivisibili) dei giudizi e invettive contenuti negli Scritti corsari 4; ricordando magari, tra gli altri, l’intervento di Leonardo Sciascia, sospeso a metà tra riconoscimento dei difetti conformistici 18
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della polemica pasoliniana e una sua difesa e rivalutazione, in una replica ad un corsivo di André Frossard comparso su “Le Figaro” del 4 novembre 1975 5, a sigillare lo status quo della persistenza di una élite intellettuale schierata comunque a tutela della posizione autoriale di Pasolini, in opposizione ai linciaggi successivi alla morte del regista da parte, in prima istanza, della stampa cattolica 6. L’incunearsi della trattatistica polemica di pasolini nella realtà quotidiana e politica di quel biennio (1973-’75), esercitata sulle colonne del “Corriere della Sera”, si scandiva sui temi sopra elencati; nodali per Pasolini i passaggi relativi agli incubi, anche personali ed intimi, della “mutazione antropologica” e del “genocidio”. Al secondo dei due punti fissati nell’articolo del “Corriere” del 10 giugno 1974 (“Gli italiani non sono più quelli”), Pasolini afferma: che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante ecc.)” 7.
L’inferno a portata di mano, la “fossa di serpenti” in cui l’Italia si era mutata, la “borghesizzazione” e l’”omologazione” erano moventi di un ripiegamento introspettivo sofferto per Pasolini, che portava il suo “vissuto” (come amava definirlo lui) a combaciare con una realtà che aborriva. La ripulsa era il carattere prevalente nel suo rapporto con i nuovi giovani; era un nuovo ordine che per Pasolini toccava e interessava anche una rinnovata poetica (e una realtà) del corpo, elemento dalla presenza discreta ma costante in tutta la produzione letteraria di quel periodo - a partire dalle premesse seminali delle “prove” teatrali di Orgia e Porcile 8. Nell’Abiura della “Trilogia della Vita” la verifica incontrovertibile di questa nuova realtà: pubblicazione che diventa così pietra angolare di una preziosa fibrillazione polemica, per Pasolini sempre più impellente: “[...] nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli anni Sessanta [...] l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali [...]. Ora tutto si è rovesciato: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la realtà dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: tale violenza sui corpi è diventato il dato più macro-
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scopico della nuova epoca umana. Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea” 9.
Un glissement violento ma quasi impercettibile nella realtà contingente: l’ipostasi di un’idea polemica che per Pasolini non rappresentava semplicemente una tesi sospesa e volatile, ma un sempre più stratificato sistema di rituali e di potere: ma il Potere con la “P” maiuscola e la cultura con l’interrogativo assoluto, come comparivano ancora nell’articolo del “Corriere” 24-6-1974 (“Il potere senza volto”), impuntato per di più su un quesito secco e di foggia rivoluzionaria a suo modo: “Che cos’è la cultura di una nazione?” 10. Al Pasolini marxista - quantomeno nell’applicazione di quel metodo alla passionale e ideologica collezione di analisi disseminate e ricollocate negli Scritti non era infine occulta l’intima relazione tra elementi singoli ma convergenti nella cornice (anche semantica) dell’”inferno neocapitalista”: intanto la “spettralità” delle merci del rivoluzionato universo dei consumi (leggi “seconda rivoluzione industriale”), dentro a cui sta la corruzione, che è attigua alla brutalità e poi alla violenza e alla nuova (ma già prima menzionata) ecatombe modernista del corpo e dei corpi del consumo/consumismo, dalle quali si giunge alla finale coscienza della rimozione del sacro e della sacralità così cari a Pasolini poeta e cineasta e uomo, per lui “unica fonte di realtà” 11, come ricorda Conti Calabrese, che sottolinea anche metodologicamente la cogente aderenza tra gli apparati dottrinale e sacrale di questo Pasolini marxiano: “Durante la prima rivoluzione industriale i rapporti sociali, o meglio l’umanità espressa da tali rapporti si trovava (come Marx sostiene) sottoposta al valore di scambio, ma limitatamemte al solo momento della produzione. L’alienazione risultava circoscritta alla sola attività lavorativa che, cristallizzata nella formamerce, appariva come entità sovrasensibile ed estranea ai lavoratori. Convinzione di Pasolini è che durante quel periodo storico i rapporti sociali fossero ancora modificabili, proprio perché la cultura e la vita delle classi subalterne non erano ancora intaccate dalla forma-valore [...] È il periodo denominato Età del Pane, locuzione utilizzata per ricordare un’epoca in cui beni ‘necessari’ radicavano nella vita un chiaro senso di primarietà ed essenzialità: essi cioè la riconducevano sempre a essere un avvenimento prioritario e carico di meraviglia, fenomeno misterioso dove il sacro poteva ancora manifestarsi” 12.
La condensata significazione sociale e semantica di quella meraviglia espressione adattabilissima a tutta l’opera pasoliniana, tra poesia e cinema - lega 20
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la resistenza (difettosa) e la sparizione (incalzante e vincente) della sacralità nella modernità borghesizzata-imbarbarita pasoliniana al discorso dei Calderon e Petrolio da un lato (per quel che attiene a una sorta di sua disperata persistenza) e alle premesse di Salò (per quel che riguarda l’assenza e la morte di un sacro ormai annichilito dentro ad una specie di Mistero medievale, come lo definirà Pasolini13) dall’altro. Quel sacro in forma di tentativo nel Calderon (1973) 14, tentativo di appuramento della sua esistenza, qua disilluso sardonicamente al principio; il triplice sogno del ripensamento pasoliniano sul dramma di matrice seicentesca (da La vida es sueno, di P. Calderon de la Barca, 1635) costituisce lo schema su cui si innerva una lettura in cui è “il tema, soprattutto, ad essere diverso. Il Calderon di Pasolini è infatti una cupa, scabra parabola sull’impossibilità di evadere dall’universo concentrazionario della propria condizione sociale. Tre sogni successivi, tre ambienti: aristocratico, proletario, medioborghese” 15. Dove, più precisamente, l’inabissamento più palese e provato (quello anche più teatrale, per l’appunto) del più piccolo spunto o barlume sacrale? Ancora una volta tra gli estremi del Potere rituale e dei rituali del/sul corpo; Manuel e poi Rosaura ne fanno il controcanto:
“Manuel [...] Quello che conta è che la Borghesia vuole eliminare | il suo recente passato e la Chiesa | sbirra e puttana: da sola essa non era in grado di farlo. | Aveva bisogno di agnelli rivoluzionari; | li ha trovati tra i suoi figli, naturalmente. | Li ha fatti educare dai vecchi Dei dimenticati, | puzzolenti di inutile stallatico, | che li chiamassero a sé, | e li rimandassero poi nel mondo a distruggere tutto” 16.
Come un nesso che dialetticamente ispira e prefigura il discorso bipolare di Salò tra Potere e corruzione-degradazione dei corpi è il successivo intervento di Rosaura: “Anch’io sono lì. uno scheletro bianco quasi | senza più capelli, nella cuccia; ho le gambe | scoperte, sottili come quelle di un feto, solo | sono grossi i nodi degli ossi delle ginocchia; | tengo la guancia senza carne contro | la tela del capezzale dove | già mi hanno preceduto tanti che sono morti” 17.
L’infuocato assunto di Salò è l’adattamento consecutivo e la silloge, così, di un unico discorso che muove da eterogenei flussi: la critica socio-politica (Scritti 21
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corsari, Lettere luterane); la poesia (Calderon); la letteratura (Petrolio) 18. Il raccolto filosofico, socio-politico e altresì artistico di appena un biennio (certo particolare e intensamente “corsaro”, rivoluzionario per Pasolini e per la società che illustrava) 19 risiede allora eminentemente ed estremisticamente in Salò e, nondimeno, nel suo prospettarsi a rebours, nel suo relativizzarsi all’immediato precedente cinematografico della Trilogia della Vita, abiurata sintomaticamente riga per riga proprio nella congiuntura di quel biennio vicinissimo a Salò, che Pasolini nell’Abiura trasformava in interrogativo finale 20. Sicuramente, la sottolineatura di trilogie tematiche già esplorate e assodate quali Potere, corporalità e Morte: alla terza delle questioni in ballo è indirizzato il lungo e raffinato saggio di Lino Micciché comparso nel 1978 su “CinemaSessanta”, composita analisi (catalogante al suo interno anche il Mito, altra giuntura fondamentale dell’opera pasoliniana) sulla lunga presenza della Todestriebe nell’universo poetico e anche cinematografico del poeta; la sintesi eletta della considerazione di Salò come “capitolo conclusivo di una Tetralogia della Morte” non può che essere per noi stimolante: “Ecco dunque, per sinteticamente concludere, se non il senso almeno il senso prevalente del Salò-Sade pasoliniano. [...] la storica contaminazione di sesso e peccato, materia e decomposizione, Eros e Thanatos, e sfocia nell’assoluta identificazione di “libido” e “mortido” in un presente dove il sesso è “obbligo e bruttezza” e che, pur iniziato in qualche astorica Salò, è di “questi anni” e anzi ne esprime il “vissuto” 21.
Il “Salò-Sade” inattesa postilla terminale, che diventa meccanismo intruso scardinante la risaputa e chiusa autosufficienza di un progetto (“Trilogia della Vita”) per sottolineare la traiettoria dell’Abiura e diventarla esso stesso con il suo semplice aggiungervisi (e magari sovrapporvisi). E se si volesse restare al saggio di Micciché - nell’ottica di una chiusura del discorso che metta le basi per il seguito - , se ne ripescherebbe l’interrogativo metodologico (“Ma allora, così definito in tutto il suo riduttivismo il rapporto Sade-Pasolini, qual è il senso del pasoliniano Salò-Sade?”) 22 volgendolo nella direzione del finale valore di Salò in quanto oggetto estetico. Lo sfuggente statuto estetico di Salò o le 120 giornate di Sodoma è anche la sommatoria di una pubblicistica plurale e criticamente variegata, istantaneamente sviluppatasi e germogliata nel tempo (con fasi alterne, ma sempre ricorrente) sopra all’”oggetto-Salò”, coadiuvata certo dalla coincidente similitudine dell’assassinio di Pasolini con la scabrosità dell’evento filmico di quello stesso 1975 23. La finalità di questa pubblicazione parte da due elementi definiti e preesistenti: 22
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1) La fortissima e fondamentale importanza, all’interno del cinema pasoliniano, della pittura: importanza primigenia, in quanto alla pittura Pasolini dedica già gli anni dell’infanzia e della giovinezza scolastica, iniziando una piccola carriera ancillare, da pittore e disegnatore, che dall’inizio degli anni Quaranta lo accompagnerà fino alla morte; 2) La considerazione di questo aspetto dentro alla peculiarità di Salò e la presa d’atto della gracile consistenza di una pubblicistica critica concentrata sul coté più strettamente iconografico del film 24, che ha così generato nel corso degli anni lo status complessivo di una sparuta presenza critica su Salò in tale direzione. In sintesi, Salò è il crogiuolo di una variegata e stratificata teoria di suggestioni pittoriche, visive, psicanalitiche, filosofiche e altro; oltre a ciò l’esperienza filmica e visiva del film è anche il fronteggiare la sua oscurità progettuale e semiologica, all’interno della quale il ‘pittorico’ è parte inestricabile e delle cui fonti si propone quantomeno un censimento, indipendentemente da un approfondimento strettamente specialistico. Oscurità voluta e casuale a un tempo per Pasolini che, tra intenzionalità e snobismo intellettuale, anticipava e auspicava che il film non sarebbe stato capito e neanche avrebbe dovuto esserlo 25. Opera, questo Salò o le 120 giornate di Sodoma, frutto anche di un tragitto sofferto e confuso cominciato già nel 1972 nelle mani del discepolo Sergio Citti (iniziale ipotesi di regista) e proseguito con revisioni, riscritture e vuoti di finanziamento (in cui rientra anche il fallimento della casa di produzione PEA) 26. Quale il confronto, poi, dell’autore con questa ‘lettera postuma’ consegnata nelle mani dei posteri con la trepidazione connessa alla percezione della sua importanza relativa (per l’intellettuale-Pasolini e in relazione alla sua, in fondo breve e quasi minore rispetto al resto, opera cinematografica) e assoluta (il sigillo di opera “maledetta”, incatenata, non visibile e poco analizzabile, incunabolo di una maniera scellerata di trattare l’”esperienza del limite” nel testo cinematografico)? La reale qualità del sentimento di Pasolini nei confronti del suo ultimo “testo” avrebbe potuto magari condensarsi - se gli fosse stata concessa vita ancora dopo l’uscita di Salò - nella stessa frase sfuggita in privato a Flaubert parlando del suo Salambò (titolo dalla curiosa somiglianza a Salò): una “truculente facetie”. Non così inopportuno, in fondo, l’accostamento della grande fantasmagoria flaubertiana, opera vulcanica e visuale estremisticamente come, a suo modo, Salò e, inoltre, oggetto di un recupero poetico-stilistico novecentesco affine, per epoca e protagonisti, alle presenze artistiche stratificate nel film: “Questo secondo modo di leggere Salambò ha trovato un primo varco, una prima apertura grazie agli uomini della generazione simbolista e si è andato poi conso-
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lidando fino agli anni della prima guerra, quando il simbolismo da fenomeno francese è diventato europeo e ha esaltato l’illustrazione, la decorazione, il giuoco esasperato delle luci e dei suoni. Un itinerario critico che verrà ripreso più tardi, quando al simbolismo fu sostituito il surrealismo e la letteratura apparve in tutta la sua libertà, come un delirio dell’immaginazione” 27.
Salò allora sperimentale opera a-temporale, ma sotto il segno inverso di una precisissima congiuntura storica, che antologizza parti di teoria dell’arte novecentesca e non, quanto teorie psicanalitiche che vengono fuori dai cascami degli incubi posteriori alla Prima guerra mondiale? Si, e qui la sua utilità: al di là dei dubbi su di essa, sulla linea poetica del Pasolini di Poesie in forma di rosa: “Bisogna deludere. Saltare sulle braci | come martiri arrostiti e ridicoli: la via | della Verità passa anche attraverso i più orrendi | luoghi dell’estetismo, dell’isteria | del rifacimento folle erudito”.
Note G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro. Milano, Jaca Book, 1994, p. 15. È da segnalare che l’autore sottolinea di seguito anche la più volte richiamata somiglianza tra la critica pasoliniana e la “Scuola di Francoforte” che consisteva in una “radicale critica alla modernità, nell’ambito di un marxismo critico, individuando in una ragione ridotta a semplice strumento di calcolo una delle origini del processo disgregativo e disumanizzante di una società dominata dal sistema di produzione capitalistica” . 1
Cfr. Il mio ‘Accattone’ in Tv dopo il genocidio. “Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975, ora in: P. P. Pasolini (da qui in avanti PPP), Lettere luterane. Torino, Einaudi, 1991, p. 155.
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3
G. Scalia, La mania della verità. Bologna, Cappelli, 1978, pp. 39-40.
In merito a questo, si veda la Prefazione di Alfonso Berardinelli agli Scritti corsari: “Anche gli interlocutori meno rozzi gli rimproveravano, nello stesso tempo e come sempre, l’ostinazione passionale e lo schematismo ideologico. Ciò che Pasolini diceva era insomma in larga misura risaputo. La sociologia e la teoria politica avevano già parlato”. Ma Berardinelli ribalta poi il giudizio su Pasolini rammentando l’intelligenza e “l’inventività inesauribile del suo stile saggistico” e la “astuzia socratica della sua arte retorica e dialettica, della sua ‘psicagogia’, che sa far emergere con tanta chiarezza i pregiudizi intellettuali (di ceto, di casta), e spesso l’ottusità un pò meschina e persecutoria dei suoi interlocutori. Che sembrano avere sempre torto. [...] Mentre Pasolini stava cercando di rivelare qualcosa di nuovo, loro non facevano che difendere nozioni acquisite”. PPP, Scritti corsari. Milano, Garzanti, 2007, pp. VII-VIII.
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Cfr. L. Sciascia, Dio dietro Sade. “Rinascita”, n. 49, 12 dicembre 1975, p. 31. L’articolo di Frossard si imperniava su un atteggiamento di ironico sfatamento della “sacra” reputazione di Pasolini-marxista integerrimo, coltivata e riconosciuta anche Oltralpe, guardandola soprattutto in relazione alla riduzione cinematografica delle “Centoventi giornate di Sodoma”, e chiosando sull’impossibilità di “portare il non conformismo più avanti di così senza cadere nell’insignificanza, a forza d’esagerazione” (trad. it. riportata nell’articolo di Sciascia); a ciò Sciascia replicava: “C’è del conformismo nel proclamarsi marxista, e specialmente in Italia; c’è del conformismo e non c’è alcuna originalità nel continuare ad essere cattolico in un paese cattolico, c’è del conformismo e molta banalità nel manipolare per il cinema le care vecchie manie del caro vecchio marchese de Sade: ma questi tre conformismi messi assieme, e vissuti per come Pasolini li ha vissuti, hanno prodotto un tragico, disperato anticonformismo; [...] occorrerà una ferma e seria analisi delle due conformistiche componenti da cui generava l’anticonformismo di Pasolini; e specialmente da quella marxista. E in questo senso si potrebbe anche azzardare una specie d’ipotesi di lavoro; che certe verità dette da Pasolini [...] fossero marxiste in quanto verità, per la capacità e mobilità del marxismo a far propria ogni verità [...] e non lo fossero per estrazione, per adesione, per meditazione”. 5
Per una rassegna più esaustiva dell’articolistica successiva alla morte di Pasolini con riferimento particolare a quella di estrazione cattolica o politicamente avversa allo scrittore, si veda ad esempio la scheda di R. Escobar (Il linciaggio) in: Id., Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma. “Cineforum”, XVI, n. 4, aprile 1976, pp. 183-184; in particolare su Salò si rimanda alla ricca rassegna contenuta in: Da Accattone a Salò. A cura di V. Boarini. Bologna, Compositori, 1982. 6
PPP, Scritti corsari, cit., p. 40 (con il tit.: 10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia). 7
8 Nella “Autointervista” sul “Corriere della Sera” del 25 marzo 1975, Pasolini affermava però: “non sono contento né di Porcile né di Orgia: lo straniamento e il distacco non fanno per me, come del resto la crudeltà”.
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PPP, Trilogia della Vita. Bologna, Cappelli, 1975, pp. 7-8 (corsivo mio).
10 L’articolo muoveva altresì da una piccola querelle di Pasolini con un articolo di Maurizio Ferrara apparso in “L’Unità” del 12-6-1974: “Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori [...] invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante [...] Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile - o, per dire meglio visibile - nel vissuto e nell’esistenziale [...] Oggi - quasi di colpo, in una specie di Avvento - distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere.
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Scrivo Potere con la P maiuscola solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è”. PPP, Scritti corsari, cit., p. 45 (con il tit.: 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo). Ritroviamo nella lunga intervista di Jean Duflot con Pasolini (§ Eloge de la barbarie. Nostalgie du sacré): “Jean Duflot.- On aurait tort de vous reprocher d’etre un profanateur avec Theoreme, dans la mesure ou cette profanation s’exerce contre le profane. Pasolini. - Je defends le sacré parce que c’est la parte de l’homme qui résiste le moins a la profanation du pouvoir, qui est la plus menacée par les institutions de l’Eglise”. J. Duflot, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini. Paris, Belfond, 1981, p. 87. 11
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G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, cit., p. 19 (corsivo mio).
Per una panoramica sulle dichiarazioni di Pasolini relative a Salò (che interesserebbe una bibliografia fin troppo nutrita e qui non segnalabile) si veda in particolare l’”Intervista rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo” dal titolo Conversazione con Pier Paolo Pasolini pubblicata su: “Filmcritica”, XXVI, n. 256, agosto 1975, ora in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, II, pp. 3023-3031, nel quale si può recuperare una precisa definizione di Pasolini in merito al già analizzato Potere maiuscolo: “È un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler [...] istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi, che sono i valori del consumo; avviene quello che Marx definisce il genocidio delle culture viventi, reali, precedenti” (p. 3027); ancora sul film si possono ricordare l’”Autointervista” di Pasolini intitolata Il sesso come metafora del potere in “Corriere della Sera”, 25-3-1975 (sempre in Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., pp. 2063-2067); e ancora: PPP, De Sade e l’universo dei consumi, in: Il cinema in forma di poesia. A cura di L. De Giusti. Pordenone, Cinemazero, 1979, pp. 63-66. 13
14 Calderon seguirà in un certo modo il destino di Salò: la sua prima messa in scena si realizza soltanto nel maggio-giugno 1978, ovvero alcuni mesi dopo la conclusione del lungo processo che incatenò la proiezione di Salò subito dopo l’anteprima parigina del 22 novembre 1975. La prima di Calderon, che andò in scena in due parti, ebbe la regia di Luca Ronconi e le scene di Gae Aulenti. Tra gli interpreti: Gabriella Zamparini, Edmonda Aldini, Anita Laurenzi e Carla Bizzarri.
15 Cfr. Prefazione di G. Davico Bonino a: PPP, Teatro. Calderon, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile. Milano, Garzanti, 1988, p. 11.
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Ibidem, p. 133.
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Ibidem, p. 162.
18 Come anticipato all’inizio, si deve includere anche l’esperienza poetica in forma dialettale de La nuova gioventù (1974), relativamente in particolare alla Seconda forma de “La meglio
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gioventù”: come giustamente sottolinea G. Santato “Salò è l’equivalente cinematografico della Nuova gioventù [...]”; l’autore rimanda inoltre all’inclusione nel film del canto popolare Il ponte di Perati, “da cui era tratta la citazione che apriva il Volume secondo della Meglio gioventù, anche nella ristampa del 1975”. Cfr. G. Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera. Vicenza, Neri Pozza, 1980, p. 263. Il contatto ribadito tra poetica del corpo e poesia nel Pasolini di quel periodo è presente già nell’”Introduzione” de La nuova gioventù: “Se duciu i zòvins | comunis’c a si tajassin | i ciaviej, ghi colarès la mascara ai zòvins fassis’c. [...] ‘na frangeta | o ‘na baseta, un rissul tajàt [...] fassis’c ta l’anima e tal cuàrp” (“Se tutti i giovani comunisti si tagliassero i capelli, cadrebbe la maschera ai giovani fascisti [...] una frangia o una basetta, un ricciolo tagliato [...] fascisti nell’anima e nel corpo”). PPP, La nuova gioventù, Torino, Einaudi, 1975, p. 161 (corsivi nel testo). Si potrebbero inevitabilmente porre riferimenti anche nel passato dell’opera pasoliniana degli anni Cinquanta, localizzando le suggestioni di un’ossessione del corpo e della corporalità incredibilmente disseminata e sempre in presenza; si veda la forte, intima contiguità di corporalità e ministero della Chiesa in L’usignolo della Chiesa cattolica: “IV. Martire. Vergine, anche il Tuo occhio impallidisce col mon | do. Che cosa guardi in noi? Altro Martire. Ecco il petto, il grembo, le spalle: che cosa | guardi in noi? | Vergine. Figlio, figlio stringiti al mio cuore. Quei due spettri | sono scuri di carne. | Martire. Sto fermo nella mia tomba, nudo, rosso di ferite. | Altro Martire. Sotto il cielo vivo stanno le mie carni ferite!” E ancora: “La Chiesa ferita si è aperta le piaghe con le Sue mani, e un | lago di sangue le è caduto ai piedi. Ed essa prima di morire ha | fatto di quel lago uno specchio, e un lampo ha illuminato la Sua | immagine dentro il sangue. [...] Ah bestemmie ed eresie, unica dolce memoria di Cristo... [...] Cristiani, e voi detergete col sangue la polvere dai nomi. | Un usignolo canta, vuole morire: prendete il suo sangue...”. Cfr. PPP, L’usignolo della Chiesa cattolica. Torino, Einaudi, 1976, pp. 26, 30. 19
“[...] Sto dimenticando com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti - pian piano senza più alternative - il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (“Salò”?)”. PPP, Trilogia della Vita, cit., p. 11.
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L. Micciché, Pasolini, la Morte e la Storia. “CinemaSessanta”, XIX, n. 121, maggio-giugno 1978, pp. 8-17 (15). Il saggio in questione rielabora precedenti interventi di Micciché sull’argomento già comparsi su “CinemaSessanta” (n. 105) e in: Id., Il cinema italiano degli anni 60. Venezia, Marsilio, 1976, pp. 151-171. 21
22 Nell’appuntarsi sul “Salò-Sade” come problema estetico Micciché dice: “Il testo pasoliniano ha, infatti, una sorta di fredda e distaccata continuità descrittiva, dove si perdono quasi interamente i valori dell’iterazione sadiana, trasformata in pura ridondanza [...] Nel cinema, l’inevitabile realismo fotografico rende la “inimmaginabilità” del gesto non già un “impossibile realistico”, ambiguo se non altro perché, anche nella fiction cinematografica, vi è il dato realistico del “profilmico””. L. Micciché, Pasolini e la Morte, cit., pp. 14-15.
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Proseguendo sulla linea delle aderenze tra poesia e prefigurazione del suo destino tragico, si
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può recuperare l’epitaffio inequivocabile che Pasolini inserisce in Per una “Nota dell’editore”, in chiusura alla Divina Mimesis: ”Ma moltissimi appunti, specie quelli più brevi, [...] sono stati reperiti fuori dal corpo dattiloscritto dell’opera [...] Un blocchetto di note è stato addirittura trovato nella borsa interna dello sportello della sua macchina; e infine, dettaglio macabro ma anche - lo si consenta - commovente, un biglietto a quadretti [...] riempito da una decina di righe molto incerte - è stato trovato nella tasca della giacca del suo cadavere (egli è morto, ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l’anno scorso)”. PPP, La Divina Mimesis. Torino, Einaudi, 1993, p. 61. Segnaliamo due estremi in senso cronologico: una breve e approfondita analisi si può ritrovare nel recente S. Murri, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma. Torino, Lindau, 2007, pp. 153-161 (§ Il quadro iconologico. Volti, figure e ambiente. A cura di F. De Paolis); uno dei primi accenni si può invece recuperare in un articolo di Mario Verdone immediatamente successivo all’uscita del film che si puntualizzava, in una breve parentesi, sulla presenza dell’Avanguardia in Salò: “Nella ‘Villa Triste’ i quadri futuristi sono una citazione temporale [...] I quadri futuristi sono efficaci? Si, e questo va a vantaggio della messinscena. Sono efficaci perché in primo luogo servono a datare il film. Sono efficaci anche perché sono falsi, e quindi il peso della loro presenza arriva attutito. Non si tratta dei veri ciclisti di Boccioni o delle vere strisce colorate di Balla. Sono imitazioni - almeno così risultano - che non disturbano, proprio perché sono false. Fossero stati veri avrebbero scomposto i piani del regista. Ed anche in questo calcolo trovo un merito di più della realizzazione”. Cfr. M. Verdone, Riesame di “Salò-Sade”. “La Fiera letteraria”, 1 agosto 1976, p. 6. 24
Si vedano alcune dichiarazioni di Pasolini in un’intervista rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo il 2 maggio 1975, durante le riprese di Salò: “Facendo un film di questo genere tu ti muovi su un terreno pericoloso, nel senso non soltanto di non essere capito ma anche di essere mal capito: non ci pensi? No, perché il mio è un mistero; è quello che si chiama mistery, il mistero medioevale: una sacra rappresentazione, e quindi è molto enigmatica. Non deve essere capita. Certo che rischio di essere capito male o non capito, ma questo è intrinseco al film stesso”. De Sade e l’universo dei consumi, in: Pier Paolo Pasolini. Il cinema in forma di poesia, cit., ora in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., II, pp. 3019-3022 (3020). 25
In merito all’articolata genesi della sceneggiatura a più mani di Salò, si rimanda al dettagliato articolo di A. Sebastiani, Per le sceneggiature di Salò o le 120 giornate di Sodoma, contributi preliminari. “Palazzo Sanvitale”, n. 5, febbraio 2001, pp. 111-116; l’articolo muove da un’interessante comparazione dei testimoni conservati presso la Cineteca di Bologna e presso il Fondo Pier Paolo Pasolini nell’Archivio contemporaneo Bonsanti del “Gabinetto scientifico letterario G. P. Viesseux” di Firenze. 26
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Cfr. Introduzione di C. Bo a: G. Flaubert, Salambò. Milano, Rizzoli, 1989, p. III.
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Nota dell’autore
L’approfondimento del presente saggio, che, come anticipato nell’introduzione, si focalizza su una disamina dei rapporti tra inquadrature e sequenze del film e loro riferimenti pittorici, propone una scansione organizzata su di una partitura sinottica che viene mutuata da quella contenuta nel recente saggio di Serafino Murri su Salò 1, per la completezza e l’esaustività del dettaglio informativo. Per quel che riguarda la titolazione delle parti della pubblicazione è opportuno un breve chiarimento: le denominazioni “Progetto”, “Mistero” e “Mimesis” hanno provenienza interamente pasoliniana e specificamente sono derivate dall’ambito letterario e poetico dell’opera di Pasolini. I primi due titoli rimandano a Petrolio (1972-1992) e precisamente richiamano le considerazioni progettuali di Pasolini, relative al processo di elaborazione e composizione del poema: “Come spiega Pasolini nell’“Appunto 43. Lampi sul ‘Linkskommunismus’”, in una prima stesura il testo era composto da una serie di appunti, seguiti ognuno dalla dicitura “Dal Mistero”, oppure “Dal Progetto”. Alle pagine rifinite Pasolini aveva infatti dato originariamente il nome di “Misteri”, e alle pagine in abbozzo quello di “Progetti”. I testi appartenenti all’ordine del “Mistero”, cioè le pagine perfettamente compiute (al momento di quella prima stesura ancora molto frammentaria) erano pochissime; erano di conseguenza preponderanti gli appunti veri e propri, quelli cioè appartenenti all’ordine del “Progetto”. Tutta l’opera era ad ogni modo concepita come una vivente coesistenza di quel “Mistero” che doveva essere, e del suo “Progetto”” 2.
L’assegnazione di queste denominazioni alle prime due parti del saggio è volta ad una medesima caratterizzazione dei momenti della vita e dell’opera di Pasolini, quali sono richiamati all’interno dei singoli capitoli. Per quel che riguarda invece la terza parte, la “Mimesis” (ovvero l’emulazione della pittura operata da Pasolini attraverso il cinema, come viene intesa nel presente studio), anche troppo immediato è il riferimento al lavoro poetico ‘rivisitatore’ della Divina Mimesis (1975), anche questo lavoro finale di Pasolini che, al pari di Petrolio, confluisce idealmente e progettualmente nel discorso cinematografico di Salò o le 120 giornate di Sodoma, sorta di loro complemento e integrazione, nella cornice dell’ultimo periodo dell’opera pasoliniana precedente alla morte dello scrittore. 29
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Note Cfr. S. Murri, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma. Torino, Lindau, 2007, pp. 65-68.
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2 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura. Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 160.
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SALO’ O LE 120 GIORNAtE dI SOdOMA (1975)*
Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Collaborazione alla sceneggiatura: Sergio Citti, Pupi Avati. Direttore della fotografia: Tonino Delli Colli. Operatori alla macchina: Carlo Tafani, Emilio Bestetti. Aiuto operatore: Sandro Battaglia. Assistente operatore: Giancarlo Granatelli. Scenografia: Dante Ferretti. Costumista: Danilo Donati. Aiuto costumista: Vanni Castellani. Musica (consulenza): Ennio Morricone. Esecuzione al pianoforte: Arnaldo Graziosi (Edizioni musicali Eureka). Musica: J. S. Bach, Pastorale in fa maggiore BWV 590 (eseguita alla fisarmonica); F. Chopin, Preludio op. 28 n. 4, Preludio op. 28 n. 17, Valzer op. 70 n. 2, Valzer op. 34 n. 2; Carl Orff, Carmina Burana; Salvatori-Puccini, Inno a Roma; Son tanto triste, di Ansaldo-Bracchi; Tu amore, di Ansaldo-Bracchi; Tu sei la musica, di Ansaldo-Bracchi; Fiori d’arancio, di D’Anzi-Galdieri; Il maestro improvvisa, di D’Anzi-Bracchi; Dormi bambina, di Pintaldi-Bonfanti; Valzer di mezzanotte, di Amodio-Cittadino; Quel motivetto che mi piace tanto, di Casolaro-Galdieri; Settembre ti dirà, di AlaMoretti; Torna piccina mia, di Cesare Bixio-Andrea Bixio; La canzone del platano, di Barzizza-Morbelli; Stelutis alpinis, di Enrico Zardini; canto militare Sul ponte di Perati. Montaggio: Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi. Assistente al montaggio: Ugo De Rossi. Aiuto regia: Umberto Angelucci. Assistente alla regia: Fiorella Infascelli. Segretaria di edizione: Beatrice Banfi. Interpreti e personaggi: Signori: Paolo Bonacelli (il Duca: Blangis), Giorgio Cataldi (Il Vescovo, doppiato da Giorgio Caproni), Uberto Paolo Quintavalle (Sua Eccellenza: Curval, doppiato da Aurelio Roncaglia), Aldo Valletti (il Presidente: Durcet, doppiato da Marco Bellocchio). Narratrici: Caterina Boratto (signora Castelli), Elsa de’ Giorgi (signora Maggi), Hélène Surgère (signora Vaccari, doppiata da Laura Betti), Sonia Saviange (la pianista). Vittime (maschi): Sergio Fascetti, Bruno Musso, Antonio Orlando, Claudio Cicchetti, Franco Merli, Umberto Chessari, Lamberto Book, Gaspare Di Jenno. Vittime (femmine): Giuliana Melis, Faridah Malik, Graziella Aniceto, Renata Moar, Dorit Henke, Antinisca Nemour, Benedetta Gaetani, Olga Andreis. Figlie: Tatiana Mogilansky, Susanna Radaelli, Giuliana Orlandi, Liana Acquaviva. 31
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Militi: Rinaldo Missaglia, Giuseppe Patruno, Guido Galletti, Efisio Etzi. Collaborazionisti: Claudio Troccoli, Fabrizio Menichini, Maurizio Valaguzza, Ezio Manni. Ruffiane e serve: Paola Pieracci, Carla Terlizzi, Anna Maria Dossena, Anna Recchimuzzi, Ines Pellegrini. Produzione: PEA (Roma)/Les Productions Artistes Associés (Paris). Produttore: Alberto Grimaldi. Organizzatore generale: Alberto De Stefanis. Direttore di produzione: Antonio Girasante. Ispettori di produzione: Alessandro Mattei, Renzo David, Angelo Zemella. Segretario di produzione: Vittorio Cudia. Pellicola: Kodak Eastmancolor. Formato: 35 mm., colore, 1:1.85. Macchine da presa: Arriflex. Durata: 111 min. Riprese: 3 marzo-9 maggio 1975. Teatri di posa: Cinecittà, teatro n. 15. Esterni: Lombardia: Salò; Mantova. Emilia: Gardelletta, frazione di Vado. Gli interni della villa dei “Signori” girati a Mantova (Villimpenta) e Villa Arrigoni (Ponte Merlano). La facciata della villa dei “Signori”: Bologna, Villa Aldini. * La scheda del film è ripresa, con leggere modifiche, da quella contenuta in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, II, pp. 3351-3352.
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Parte prima - Il Progetto
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Capitolo Primo PIER PAOLO PASOLINI. NAScItA E VItA
Friuli materno e Bologna paterna “Parma, un viale e il riso di mia madre” 1. A sancire la continuità intima-sentimentale tra radici e arte in Pasolini sono l’implacata reiterazione di un movimento all’indietro e la predominanza della localizzazione fisica e poi della identificabilità nominale del suo impulso poetico: nella multiforme costellazione dei ‘nomi’ Pasolini declina e legittima (intenzionalmente e no) grande parte della sua opera, e quella poetica in particolare. Seppure la biografia pasoliniana dei primissimi anni di vita e dell’adolescenza sia toccata da una grande mobilità geografica 2 sarà uno soltanto il nome eletto della memoria e del più intimo affetto: Casarsa, paese natale della madre Susanna. Casarsa, locus fondamentale per il Pasolini uomo e per la sua opera intellettuale, è in fondo l’origine di tutto: nel 1921 il padre Carlo Alberto vi presta servizio come ufficiale e la madre, Susanna Colussi, vi lavora come maestra elementare. Nel loro primo incontro, sotto il segno paterno del “piglio militaresco, il monocolo incastrato nell’orbita sinistra e l’aplomb degli ufficiali di carriera, sublimato nei futuri film di Erich von Stroheim” si racchiude il destino di due caratteri che collideranno per un’intera esistenza matrimoniale, ovvero la forte passione amorosa del padre e la distaccata spigolosità della madre, che determinerà il rapporto molto difficile tra i due e il cui movente principale sta nella difformità del sentire politico e religioso di Susanna. Entrambi, però, figli di illustri famiglie fiorite attraverso le generazioni: “Carlo Alberto appartiene a una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini dall’Onda, nobili degli Stati della Chiesa, che per tradizione hanno sempre assolto importanti incarichi in Vaticano. [...] Si sposano nel dicembre del 1921. Susanna ha trentun anni, uno più del marito, ma ne dimostra molti di meno. La sua famiglia appartiene al clan numeroso dei Colussi, che sei secoli prima hanno partecipato alla fondazione di Casarsa. Il paterfamilias Domenico da anni si è allontanato dalla servitù dei campi costituendo un primo nucleo industriale con delle trebbiatrici e un laboratorio per la distillazione dell’acquavite” 3.
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FALSOPIANO
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