Pasolini sconosciuto

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VIAGGIO

IN ITALIA

una collana diretta da Fabio Francione


EDIZIONI

FALSOPIANO

PASOLINI SCONOSCIUTO

a cura di Fabio Francione


Š Edizioni Falsopiano - 2010 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: LaserGroup s.r.l. - Peschiera Borromeo Prima edizione - Giugno 2010


INDICE

Adriano Aprà Pasolini (quasi) da vicino

p. 11

Parla Pier Paolo Pasolini I. II. III.

Pasolini e l’Orestiade Pasolini e l’India Pasolini e il cinema: al cuore della realtà

p. 19 p. 20 p. 40

Francesco Leonetti Pasolini è stanco eppure si scatena Dieci anni fa la sua voce entrò nella storia Con Pasolini in “Officina”

p. 57 p. 58 p. 59

Franco Cordelli Passaggi tracce marche di un fantasma ridotto a logo

p. 69

Daniele Piccini Su “Trasumanar e organizzar”

p. 73

Federico Fellini Pier Paolo

p. 77


Laura Betti Caro Pier Paolo… Scritti su Pasolini

p. 83

I. II. III. IV.

p. 83 p. 84 p. 86 p. 87

Lettera a Pier Paolo Pasolini, chi si salva l’anima Lettera da un viaggiatore Sì, mi sono divertita

Antonello Trombadori Sul Cinema di Pasolini 1961-1976

p. 101

I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX.

Pasolini e i cattolici Pasolini-Lizzani: Roma dissipata e tragica “Mamma Roma” disperata e tragica Perché è diventato “Rogog” Passione e ragione secondo Matteo Un corvo ideologo finisce mangiato Verso l’uomo Questa Medea manca di sale Abolire il reato di oscenità

p. 101 p. 104 p. 107 p. 110 p. 111 p. 114 p. 116 p. 116 p. 120

Sul teatro e i teatri di Pasolini. Con una nota di Stefano Casi

p. 125

I. II. III. IV. V. VI.

p. 126 p. 129 p. 130 p. 131 p. 132 p. 136

Cesare Musatti. Calderon, Velasquez, Pasolini Luciano Lucignani. Quel suo incontro con la scena Luciano Lucignani. Come nacque questa traduzione Enzo Siciliano. Riflessioni su Affabulazione Vittorio Gassman. Più che il gesto poté la Parola Oliviero Ponte Di Pino. Due spettacoli pasoliniani

Giuseppe Bertolucci Tetralogia pasoliniana I. II. III.

p. 137

Domande p. 137 Dichiarazione sul “Pratone del Casilino” p. 138 ‘Na specie de cadavere lunghissimo (con Fabrizio Gifuni) p. 139


IV. V.

Dichiarazione su Pasolini prossimo nostro La rabbia di Pier Paolo Pasolini nella ricostruzione di Giuseppe Bertolucci

p. 140 p. 140

Per Sergio Citti con una nota di Alberto Pezzotta

p. 143

I. II.

p. 145 p. 146

Pier Paolo Pasolini. Risvolto “Ostia” Pier Paolo Pasolini. Storie scellerate

Carlo Lizzani Il mio attore Pier Paolo Pasolini

p. 149

Roberto Perpignani Il montaggio come questione linguistica. Baragli e Pasolini

p. 151

Anna Zanoli Introduzione a Pasolini e… la forma della città

p. 157

Pasolini e … la forma della città. Trascrizione a cura di Anna Zanoli

p. 164

Cineasti alla prova del cinema di Pier Paolo Pasolini

p. 171

Lino Del Fra Pasolini cerca ancora

p. 171

Bernardo Bertolucci La “vita” di Accattone

p. 173


Gideon Bachman “La ‘Terza alternativa’ ha bisogno di un’ideologia?” Un dibattito con Pier Paolo Pasolini e Jonas Mekas

p. 174

Massimo Mida Puccini Meglio della polemica “Il fiore delle Mille e una notte”

p. 191

Pier Francesco Pingitore Salò-Sade o dell’ipocrisia

p. 193

Franco Citti Parola di Accattone (testimonianza raccolta da D. Bisogni)

p. 196

Marco Tullio Giordana Conoscere Pasolini

p. 200

Antonio Capuano Il mio primo film

p. 201

Guido Chiesa Basta solo un’inquadratura

p. 202

Piero Spila Pier Paolo Pasolini e la critica degli anni Sessanta

p. 203

Goffredo Fofi Pasolini saggista cinematografico

p. 211


Massimo Bacigalupo Lawrence Ferlinghetti traduttore di Pasolini

p. 215

Appendice: Lawrence Ferlinghetti. Tre poesie

p. 223

Quirino Principe Il suono della solitudine. La musica nei film di Pasolini

p. 229

Umberto Fiori Il mondo canzone di Pier Paolo Pasolini

p. 234

Pier Paolo Pasolini È passata la pop art? Torno a dipingere

p. 238

Roberto Chiesi. Dossier Pasolini 1969 - 1972

p. 239

I. II. III.

p. 239 p. 249 p. 258

Le visioni barbare di Medea Il corpo perduto di Alibech Pasolini e l’umiliazione segreta di Chaucer

Alfredo Traversa, Ciro Arcadio e Ivan Petraulo Salò: l’ultima censura

p. 271

Epilogo. Con una nota del curatore

p. 273

Antonio Piromalli L’ultimo Pasolini

p. 279



Pasolini (quasi) da vicino di Adriano Aprà

Cronaca Avevo da tempo familiarizzato con André Bazin, che mi pareva, più di chiunque altro studioso di cinema (salvo i cineasti-teorici), dire qualcosa di procreativo, cioè di produttivo, sia rispetto al cinema del passato sia rispetto a quello che allora cominciava a infiltrarsi e a minare le nostre primitive certezze: le nouvelles vagues di tutto il mondo, Italia compresa. Ero già stato stimolato all’analisi testuale dai saggi di Leo Spitzer ed ero stato introdotto alla semiologia da Galvano della Volpe e dalla sua Critica del gusto (1960). La lettura di Christian Metz, in particolare del suo saggio Cinéma: langue ou langage? («Communications», n. 4, 1964), mi aveva convinto, al di là dell’approccio ontologico di Bazin, della possibilità di un’analisi scientifica dei film con i metodi derivati dalla semiologia: un antidoto, per così dire, al soggettivismo (alla critica delle “impressioni”, per quanto raffinate), che poteva rendere aleatorie certe mie (per quei tempi) azzardate valutazioni; e un complemento se non altro tecnico alle analisi testuali; quindi uno strumento per dimostrare, con spirito didattico, quanto opere e autori considerati in Italia ancora come “minori” (il Rossellini post-neorealista, p. es.), quando non come sottoprodotti (gli americani), andassero seriamente riletti, e ciò facendo mettessero in crisi le “storie del cinema” ereditate dalle generazioni critiche che mi avevano preceduto. Provvidi subito a tradurre un altro saggio di Metz, meno lungo di quello fondatore: A proposito dell’impressione di realtà al cinema 1. Ero stato preavvisato da Bernardo Bertolucci, intervistato con entusiasmo dopo aver visto Prima della rivoluzione, che Pasolini stava preparando per la Mostra di Pesaro (giugno 1965) un intervento che aveva a che fare con i problemi che allora cominciavano a interessarmi. Credo di avere in effetti contattato Pasolini per la prima volta proprio a Pesaro (anche se alcuni del mio “gruppo” lo avevano già intervistato per la rivista nella quale allora scrivevo, il mensile «Filmcritica»), durante il convegno “Critica e nuovo cinema” che aprì col suo intervento, divenuto famosissimo, Il “cinema di poesia”, e di avergli parlato del 11


saggio di Metz, che mi sembrava in linea con le sue intuizioni. Fatto sta che poco dopo, con Jean-Claude Biette (giovane collaboratore dei «Cahiers du Cinéma» che allora, per non fare il servizio militare in Algeria, si era rifugiato a Roma), andammo a casa sua, in via Eufrate, all’EUR, per tradurgli Metz (sono ancora sorpreso che Pasolini non sapesse il francese, e ricordo che a volte, dopo i nostri appuntamenti di primo pomeriggio, arrivava una signora a dargli lezioni di quella lingua a me così familiare…). Da allora ho avuto con Pasolini, per alcuni anni, un rapporto intellettuale assai stretto. A metà del 1966, rotti i ponti per dissensi ideologici con «Filmcritica», fondai, con gli altri transfughi dalla rivista di Edoardo Bruno (Maurizio Ponzi, Luigi Faccini e altri), il trimestrale «Cinema & Film», il cui primo numero porta la data inverno 1966-67. Pasolini mi (ci) fu di molto aiuto. Per cominciare, in attesa della nuova testata, ci offrì lo spazio di «Nuovi Argomenti» (n. s., n. 2, aprile-giugno 1966) per pubblicare le nostre recensioni dei film visti a Pesaro in giugno; quindi scelse il titolo fra una rosa che gli sottoposi; ma soprattutto propose al suo editore, Garzanti, di distribuirla (nelle librerie), il che fu fondamentale, e non cessa di sorprendermi: dovemmo solo pagare noi il primo numero (con contributi delle nostre famiglie), poi ci arrivavano da Garzanti i soldi del preacquisto di 800 copie (su 1200 stampate, mi pare) che servivano a pagare le spese di tipografia del numero successivo (cui si aggiungevano qualche abbonamento e scarse pubblicità). Una situazione mecenatesca! Inoltre Pasolini presentò nella sede romana di Garzanti, assieme a Bernardo Bertolucci, il primo numero agli inizi del 1967. Quanto ai suoi contributi, riscrisse completamente un’intervista che gli avevamo fatto io e Faccini, che apre il primo numero col titolo Dialogo I (forse perché, nelle nostre intenzioni, altri avrebbero dovuto seguire) 2. Poi ci concesse alcuni inediti: da “Bestemmia” (n. 2, primavera 1967) 3; E l’Africa? (n. 3, estate 1967) 4; la sceneggiatura non realizzata de Il padre selvaggio (in due parti, nn. 3, estate 1967, e 4, autunno 1967) 5; la sceneggiatura di lavorazione di Che cosa sono le nuvole? (n. 7-8, inverno-primavera 1969) 6; infine contribuì, come altri cineasti a noi cari, alle liste de I migliori film del… nel 1967, 1968 e 1969 7; e inoltre pubblicammo - ma questo non è un inedito -, col titolo Estratto dallo schema grammaticale di Pasolini, un brano del suo Per una definizione dello stile - La lingua scritta dell’azione (n. 2, primavera 1967), cioè della sua relazione al convegno di Pesaro del 1966, “Per una nuova coscienza critica del linguaggio cinematografico” (dove incontrò sia Metz che Roland Barthes) 8: è questo il saggio che prende l’avvio da quello di Metz che con Biette gli avevo tradotto a voce mesi prima. Dalla familiarità “semiologica” con Pasolini nacque anche l’idea di avviare per Garzanti una collana di libri, che Pasolini intitolò “Laboratorio”: diretta da lui, curata da me. Le trattative con Garzanti cominciarono nel 1966 (anche se poi 12


i volumi attesero un bel po’ prima di uscire). C’era una proposta che giaceva negli uffici milanesi: quella di un volume di scritti sul cinema dei formalisti russi (Jurij Tynjanov, Boris Ejchenbaum, Viktor Sklovskij, Osip Brik) fatta da Giorgio Kraiski, un esule russo da anni italianizzato. Accettai subito la proposta, e lavorai con Kraiski per selezionare i testi e per migliorare la sua traduzione (non che conoscessi il russo, ma conoscevo il cinema e ciò di cui si parlava in quei saggi): il libro uscì col titolo I formalisti russi nel cinema nel 1971, riedito nel 1979 9. Proposi quindi, in accordo con Pasolini, gli scritti di Jean-Luc Godard (Il cinema è il cinema, 1971, con una premessa di Pasolini, rieditato con aggiunte nel 1981) 10; di Metz (Semiologia del cinema. Saggi sulla significazione nel cinema, 1972, rieditato nel 1980) 11; e di Bazin (Che cosa è il cinema?, 1973, più volte rieditato) 12. Avevo tradotto e scritto presentazioni per Godard e Bazin; quando si arrivò a pubblicare Metz, si era esaurito in me l’entusiasmo iniziale per le sue teorie (forse proprio il “calore” teorico pasoliniano, oltre a quello di Barthes, aveva minato in me la “freddezza” schematica di Metz, almeno di quei suoi primi scritti; e comunque ero più preso dalla semiotica, da Julia Kristeva e Jacques Derrida, ma anche questi nuovi amori si esaurirono presto, se non altro per la difficoltà che incontravo a penetrarli); fatto sta che feci tradurre una parte di Metz da Franco Ferrini, a cui lasciai il compito di scrivere l’introduzione. Quanto al quinto volume da me proposto, un’antologia di scritti di Jean Cocteau, trovò Pasolini piuttosto scettico, e non insistetti nonostante la mia convinzione. Successivamente, al livello di tracce ufficiali, c’è solo un’intervista che feci a Pasolini al momento di Teorema, nell’autunno-inverno 1968-69, probabilmente per «Cinema & Film», che però nel frattempo avevamo deciso di chiudere; venne pubblicata molti anni dopo da «La Cosa Vista», la rivista allora diretta da Sergio Germani 13.

Memoria Pasolini era una persona dolcissima e generosissima. Si può immaginare che un ragazzo non ancora venticinquenne come me potesse essere intimidito da un artista già molto noto. Timido lo ero, ma la mediazione del cinema mi dava coraggio. Come Rossellini, Pasolini favoriva il dialogo mettendo a suo agio l’interlocutore. Non c’erano distanze percepibili. E inoltre, nei primi incontri, avevo dalla mia il fatto che lo introducevo a qualcosa che io conoscevo e lui no. Invidiabile privilegio. Non era quindi la mia ammirazione per i suoi film a favorirmi, ma il mio interesse per la teoria. Di fatto, devo ammettere che il primo suo film di cui mi innamorai davvero 13


fu Uccellacci e uccellini. Ricordo di averlo visto in copia-lavoro nella saletta di un laboratorio di sviluppo e stampa ai primi del 1966, e che Pasolini mi chiese se aveva fatto bene a tagliare alcune parti (che mi riassunse a voce); gli risposi che mi pareva che il film andasse benissimo così, in quella forma “imperfetta”. (Avrà chiesto, suppongo, il parere a molti altri: ma che lo chiedesse anche a uno come me è segno della sua disponibilità e della sua generosità). Prima, avevo scritto solo una recensione di Comizi d’amore («Cahiers du Cinéma», n. 169, agosto 1965, riproposta in «Filmcritica», n. 161, ottobre 1965), in cui - sospetto per qualcosa che Pasolini mi aveva suggerito più che per mia autonoma intuizione - parlavo di «film-saggio […]: il saggio di un autore sul proprio stile cinematografico», anticipando quindi di molto le mie riflessioni degli anni ’90 su questa particolare possibilità del cinema “post-documentaristico”; dopo, avrei scritto su Uccellacci e uccellini (e in parte su Edipo re), nel paragrafo Pasolini e Godard ovvero la difficoltà di essere del saggio Verso un cinema di risposte? («Cinema & Film», n. 4, autunno 1967), prescegliendolo come uno degli esempi di un ipotetico “cinema dell’armonia”. Ci rimasi male quando, con Gian Vittorio Baldi (con cui allora lavoravo), gli proposi di sottoscrivere il “manifesto” di Rossellini («Vogliamo elaborare spettacoli e programmi che possano aiutare l’uomo a cogliere gli orizzonti reali del suo mondo»), al quale oppose un fermo dissenso ideologico; il che non impedì a Rossellini, nel 1966 a Cannes, di prendere pubblicamente le difese di Uccellacci e uccellini - che dati i tempi ne aveva bisogno -, e proprio ricollegandolo ad alcuni dei temi esposti nel manifesto: il cinema come strumento di «orientamento nel tumulto del progresso incalzante: […] un orientamento intelligente nell’immensità del tempo e della storia» 14. Ricordo anche quando mi chiese se avrebbe dovuto o no accettare la proposta di dirigere un western all’italiana (doveva essere l’epoca in cui aveva interpretato un ruolo in Requiescant di Carlo Lizzani, uscito nel 1967). Mi sembrava assai improbabile e glielo dissi. Ricordo ancora di quando scavalcammo il muro di cinta - lui agile, io impacciato - del Centro Sperimentale di Cinematografia occupato (era il marzo 1967, assai prima del ’68!) per tenere di notte, in moviola, una lezione sul “cinema di poesia” (dove il film “di prosa” messo a contrasto di non ricordo che film moderno “di poesia” era - «Un qualsiasi film americano», aveva suggerito Pasolini a me e a Ponzi che avevamo organizzato l’impresa - Gideon’s Day di John Ford, cioè 24 ore a Scotland Yard nella versione, in bianco e nero - l’originale era a colori -, uscita in Italia…). Questi e altri incontri, soprattutto a via Eufrate, mi mettevano dinanzi a un uomo che si interrogava e che interrogava. Niente maestro e allievo, ma dialogo. Un paio di volte l’ho anche visto girare: nel 1966 in esterni su una spiaggia di 14


Ostia o Fiumicino, per La Terra vista dalla Luna; nel 1967 negli studi De Laurentiis, credo per Edipo re; e lo ricordo calmo, paziente (come del resto Rossellini): disposto a lasciarsi “influenzare” dalla realtà di un set, come dalle persone che accoglieva nella sua cerchia. Negli anni successivi ho avuto solo rapporti sporadici con Pasolini, forse anche perché i suoi ultimi film “in costume” mi convincevano meno dei precedenti, e non mi sembrava di avere nulla da dirgli o da chiedergli. Fui folgorato, come tutti, apprendendone la morte violenta. Ero assieme a Paolo Brunatto: ci stavamo proiettando in privato un lunghissimo Super-8 di Tonino De Bernardi, mostrato quel giorno al Filmstudio 70, La cerchia magica. Lo interrompemmo: troppo forte l’emozione. Mi confusi nella folla del funerale a Campo de’ Fiori, e ascoltai la vibrante orazione di Alberto Moravia. Pochi giorni dopo vidi Salò o le 120 giornate di Sodoma. Ho scritto un ricordo di quell’esperienza su richiesta di Flavio De Bernardinis; non mi resta che trascriverlo: Nella palazzina all’EUR, sede del produttore Grimaldi, ero stato invitato per una proiezione molto privata di Salò. Non erano certo le migliori condizioni per una visione “oggettiva”. Ne uscii sconvolto. Mi parve un film “indigeribile”: «O con me o contro di me», senza alternative, sembrava dire. Non potevo certo essere “contro”: troppe cose mi legavano a Pier Paolo, nonostante certi dubbi sui suoi film “in costume”. Ma essere davvero “con” voleva dire fare un esame di coscienza profondo, mettere in gioco se stessi, scegliere radicalmente, come radicale era il film. Per un po’ l’ho “dimenticato” (ma non chi lo aveva fatto). E del resto in Italia il film era diventato, per le note vicende, invisibile. Anni dopo, a Parigi, in occasione di una rassegna curata da Laura Betti, alla quale avevo contribuito (L’univers esthétique de Pasolini, 26 novembre-31 dicembre 1984), rividi “a freddo” Salò. Adesso potevo dire, col necessario distacco: «Sì». E quando mi si chiese di elencare i “10 migliori film del cinema italiano” (per il mensile «Bianco & Nero») non esitai a includerlo ai primi posti 15.

Coda Può anche darsi che abbia incrociato Laura Betti assieme a Pasolini, ma non ho ricordi precisi. So invece che mi ha telefonato attorno alla prima metà degli anni ’80 per coinvolgermi nel “suo” Fondo. Non nascondo - non sono certo stato il primo - di avere avuto con lei rapporti assai difficili: io mite, lei aggressiva (e segretamente indifesa). Ma ho anche passato serate meravigliose in casa sua, dove le chiacchiere quotidiane si mescolavano (complice l’ottimo cibo) a considerazioni intellettuali alte. Ho cercato di resisterle, anche perché la ammiravo: 15


come persona, come attrice, come studiosa. Mi sono lasciato coinvolgere, un po’ passivamente, nel Consiglio di amministrazione del Fondo, per poi senza preavviso esserne escluso. (Ma questo non ha avuto per me, né ha ormai, alcuna importanza). Con Laura, senza che davvero se ne parlasse, ho ricevuto di riflesso un’immagine di Pasolini altrettanto “vero” uomo di quanto lei era “vera” donna. Con persone di tale livello non conta avere buoni rapporti, conta sentirsi spinti a dare il meglio di sé, per casomai vedersi rifiutare. È la vita vissuta giorno per giorno come sfida oltre il limite. (Questo scritto prende lo spunto da un intervento alla giornata di studi Pasolini a Roma (ancora) oggi dell’Università di Roma “Tor Vergata”, Facoltà di Lettere e Filosofia, 8 novembre 2005)

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Note «Filmcritica», n. 163, gennaio 1966 (L’impression de réalité au cinéma, «Cahiers du Cinéma», n. 166-167, maggio-giugno 1965). 1

Testo ripubblicato nel 1972 in Empirismo eretico col titolo Battute sul cinema; ora in Tutte le opere, edizione diretta da Walter Siti: Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e Silvia De Laude, Mondadori (“I Meridiani”), Milano, 1999, tomo primo, pp. 1541-1554. 2

Ora, col titolo Appendice a “Bestemmia”, in Tutte le opere, cit.: Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Mondadori (“I Meridiani”), Milano, 2003, tomo secondo, pp. 1111-1115. 3

4

Ora in Tutte le opere, cit.: Tutte le poesie, cit., tomo primo, pp. 1394-1396.

5 Poi, assieme a E l’Africa?, ne Il padre selvaggio, Einaudi, Torino, 1975; ora in Tutte le opere, cit.: Per il cinema, a cura di W. Siti e Franco Zabagli, Mondadori (“I Meridiani”), Milano, 2001, tomo primo, pp. 267-313.

6

Ora in Tutte le opere, cit.: Per il cinema, cit., tomo primo, pp. 935-966.

Le riporto qui, anche perché non sono mai state ripubblicate: (n. 4, autunno 1967, p. 514) «(Senza ordine): La cinese (Godard), Persona (Bergman), La contessa di Hong-Kong (Chaplin), Sovversivi (P. e V. Taviani); (non ha visto: La passeggera [Munk], Made in USA [Godard], Mouchette [Bresson])»; (n. 7-8, inverno-primavera 1969, p. 218) «Usciti e non usciti: Chronik der Anna Magdalena Bach (Straub), Dillinger è morto (Ferreri), I visionari (Ponzi), Partner (Bertolucci), Play Time (Tati), Falstaff (Welles), Il maschio e la femmina (Godard)»; (n. 10, inverno 1969-70, p. 134) «Antonio das Mortes è una memorabile disavventura per la critica italiana: mentre veniva proiettato nelle condizioni che poi Glauber Rocha ha precisato, la critica lo presentava al pubblico come un capolavoro, costringendo la gente ad ammirare un’opera così spudoratamente manomessa [dal distributore italiano] (io e Moravia, dopo averlo visto insieme, ci siamo guardati negli occhi allibiti. Solo il giorno dopo Bertolucci ci ha detto come stavano le cose). La via lattea [Buñuel] è uno dei film più felici ed eleganti che abbia mai visto. Queimada [Pontecorvo] mi sembra faziosamente un po’ snobbato dalla critica più aggiornata: mentre l’impressione che resta dentro del film (un sole stralunato e molta umidità sugli stracci dei negri) è poetica, misteriosamente poetica; per quanto costretta e anche manipolata la realtà viene fuori per quello che è, è sempre suo l’ultimo recupero. Del Satyricon [Fellini] e della Caduta degli Dei [Visconti] posso dire che oggettivamente costituiscono un’operazione di “reazione”; per quanto riguarda i loro autori, però, non sono accusabili direttamente di questo: in definitiva sono stati fedeli a se stessi. Non ho visto nessun altro film. Aggiungo che queste pagelle di fine d’anno sono terroristiche e terrorizzanti: e pregherei la redazione di “Cinema & Film” di rinunciarci intelligentemente fin da ora per l’anno prossimo». 7

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La relazione è stata pubblicata per intero, col titolo La lingua scritta dell’azione, in «Nuovi Argomenti», n. s., n. 2, aprile-giugno 1966; poi, col titolo La lingua scritta della realtà, in Empirismo eretico, cit.; ora in Tutte le opere, cit.: Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., tomo primo, pp. 1503-1540. 8

Anni dopo è uscita in francese un’antologia più completa (anche se con Brik in meno), Les formalistes russes et le cinéma. Poétique du film, a cura di François Albera, Nathan, Paris, 1996, che esplicitamente riconosce il debito verso la nostra pionieristica impresa. 9

Si tratta di una scelta, con alcune aggiunte, da Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Belfond, Paris, 1968. Inizialmente Pasolini, per la sua premessa, aveva pensato a un’intervista a Godard, che avvenne a Venezia durante la mostra del 1967, presenti io e Biette, ma che risultò inutilizzabile (anche perché l’incontro si svolse confusamente durante un pranzo all’aperto). 10

11

È la traduzione di Essais sur la signification au cinéma, Klincksieck, Paris, 1968.

Si tratta di una scelta dai quattro volumi di Qu’est-ce que le cinéma?, Ed. du Cerf, Paris, 1958, da cui avevo già tradotto tre saggi, Ontologia dell’immagine fotografica (1945), Il mito del cinema totale (1946), L’evoluzione del linguaggio cinematografico (1950-1955), in «Filmcritica», n. 122-123, giugno-luglio 1962. 12

Nel n. 2, 1985; ora in Tutte le opere, cit.: Per il cinema, cit., tomo secondo, pp. 29372942. 13

Il “manifesto” (sottoscritto da Gianni Amico, Adriano Aprà, Gian Vittorio Baldi, Bernardo Bertolucci, Tinto Brass e Vittorio Cottafavi) è stato pubblicato, col titolo Manifeste, nel “petit journal du cinéma” dei «Cahiers du Cinéma», n. 171, ottobre 1965, pp. 7-8; la difesa di Uccellacci e uccellini da parte di Rossellini era inclusa nel press-book quadrilingue del film, destinato agli stranieri, distribuito a Cannes, e l’ho tradotta per la rivista di Giovanni Spagnoletti «Close-up», n. 3, gennaio 1998, p. 39, col titolo Per Pasolini. 14

Ora in “Salò” 1945-1975-2005. Trenta e ancora più trenta, a cura di F. De Bernardinis, «Segnocinema», n. 134, luglio-agosto 2005, p. 17; l’ultima frase dell’originale è stata omessa. 15

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PARLA PIER PAOLO PASOLINI

I. Pasolini e l’Orestiade Il poeta traduttore che in questi anni è stato al centro delle più accese discussioni è stato certamente Pier Paolo Pasolini, in primo luogo per la sua versione dell’Orestiade di Eschilo messa in scena da Vittorio Gassman a Siracusa. Che ricordo ha Pasolini di questa esperienza? La traduzione dell’Orestiade allora è stata in un certo senso casuale come spesso succede cioè è giunto da me Gassman e mi ha chiesto di trargli qualcosa per il suo teatro popolare. Ma non è stato un caso che io abbia scelto 1’Orestiade perché la traduzione dell’Orestiade è propriamente il pezzo del teatro greco che io amo di più o per lo meno che ho amato di più in quel periodo. Io credo che sia meno interessante forse dirle le ragioni tecniche che mi hanno guidato nella traduzione, proprio le ragioni tecnico-linguistiche che adesso sono molto chiare. Ho cercato di ridare al testo greco, non attraverso una traduzione letterale che è impossibile perché certi significati delle parole cambiano in maniera irrecuperabile, e non ho cercato nemmeno una mediazione classicistica, ho cercato cioè di fare una traduzione un po’ come si dice “per analogia”, un po’ come poi ho ricostruito, per esempio, nel fare Il Vangelo l’ambiente, non l’ho ricostruito archeologicamente e filologicamente ma l’ho ricostruito per analogia cioè ad un villaggio, un paese, un castello dell’antica Palestina ho sostituito un villaggio, un paese, un castello dell’odierno Mezzogiorno d’Italia che sono simili per analogia. Da allora ho cominciato ad avere per il teatro greco un amore che è rimasto per molto tempo come sopito in me ed è improvvisamente rifiorito con violenza, addirittura con irruenza in questi ultimi anni, in questi ultimi due anni in cui ho scritto io stesso per il teatro e scrivendo per il teatro sono stato incapace di uscire dallo schema del teatro greco. Rifacendo il teatro io, ora mio come autore, ho seguito fedelmente lo schema della tragedia greca. La seconda esperienza teatrale di Pasolini sui classici fu il Miles gloriosus di Plauto dà lui ribattezzato Il Vantone e messo in scena da Franco Enriquez. Nel Vantone, lei Pasolini, ha autorizzato un linguaggio popolare in gran parte fondato sul dialetto romanesco, inoltre ha adottato un verso lungo a rime baciate che ricorda da vicino l’alessandrino francese specie nella forma che assunse nella commedia di Molière. Quali le ragioni di questa scelta linguistica e metrica? Anche per Il Vantone le dirò posso ripetere più o meno quello che le ho detto a 19


proposito della traduzione sull’Orestiade e cioè ho fatto una traduzione che fosse analoga, ho cercato cioè un linguaggio che non fosse la traduzione letterale dell’antico latino di Plauto ma fosse in qualche modo un linguaggio analogo, ma nello scegliere il romanesco non ho scelto il romanesco puro che ho adottato per esempio per certi brani dei miei romanzi, perché lì parlava della gente reale veramente del 1968 e parlavano dei sottoproletari. Il mondo di Plauto è un mondo già teatrale è già un mondo per capocomici, direi, e quindi ho cercato un dialetto romano che fosse un po’ vicino a quello che si dice linguaggio dell’avanspettacolo ecco. Quanto alla rima le dirò questo, i latini non conoscevano la rima, noi invece neolatini siamo ormai abituati a non prescindere più dalla rima quando pensiamo alla poesia soprattutto naturalmente quando pensiamo alla poesia classica. Quindi ho adottato la rima che è un procedimento prosodico che è nelle nostre abitudini e l’ho adottato per un testo come quello di Plauto che la rima non ce l’ha per ragioni storiche. Perentoriamente ormai noi quando storicamente pensiamo a Plauto non possiamo pensare a Plauto più di duemila anni di studi su Plauto se non possiamo pensare a Plauto più il Rinascimento italiano, più Molière ecc. ecc. Intervento di Pier Paolo Pasolini sulla traduzione dell’Orestiade e del Vantone dalla rubrica radiofonica a cura di Ruggero Jacobbi Le belle infedeli, ovvero i poeti a teatro, Rai, gennaio 1968.

II. Pasolini e l’India Operatore Tv (OP), Pier Paolo Pasolini (PPP), Ninetto Davoli (ND), Traduttore (T), Voce della Troupe (VT), Romano Costa (RC), Accompagnatore (A), Intervistato (INT) Il programma di questa sera, un montaggio libero di voci e ambienti indiani ha due protagonisti: Pier Paolo Pasolini e l’India; singolare autore in “nagra”, il registratore professionale portatile perfetto. Il “nagra” ha fatto tutto da sé; riproposte da lui sono le musiche dei templi di Jaipur, le voci dei bambini di Rishikesh, le opinioni dei contadini sul problema demografico, quello degli operai sull’industria, l’urbanizzazione e la coscienza di classe, il giudizio degli industriali italiani in India sulle maestranze indigene, i “si gira” di Pier Paolo Pasolini. Infine i pareri sul problema della lingua e delle caste. Chi ha curato il programma di suo ha messo soltanto una lunga pazienza per scegliere 50 minuti di India su oltre 300 minuti registrati dal “nagra”.

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RC. Pier Paolo, senti, ma dov’è che adesso andiamo? Un miglio a piedi su per il Gange, arriviamo in Cina! PPP. Sto facendo dei sopralluoghi per un film, non ho mai fatto documentari in tutta la mia vita e non saprei neanche farli, quindi l’unico modo per farli è fare questi sopralluoghi che sono una specie di traccia, di filo conduttore nella scelta delle inquadrature, nella scelta delle piccole sequenze ecc… RC. È il tuo primo lavoro che fai così, diciamo, giornalistico, in un certo senso, è la prima volta. Hai sempre fatto soltanto dei film, non hai fatto delle cose del genere, questo è un po’ un reportage anche perché se va per la rubrica “Tv7” dovrà avere anche un taglio particolare oppure di questo tu non ti interessi? PPP. No, non mi interesso di questo, penso proprio veramente di fare i sopralluoghi per il mio film, e se poi questo verrà anche un documentario tanto meglio. In quanto al lavoro giornalistico si è il primo che faccio, ho fatto qualche articolo per dei giornali molti anni fa e quanto al cinema ho sempre fatto del cinema quello che si chiama il cinema di finzione, il cinema con delle storie, però ho fatto un film che si chiama Comizi d’amore che è un po’, in un certo senso, un documentario, più che un documentario insomma, comunque, quello era un film inchiesta. RC. Il film ha già una traccia, ha già un soggetto, qualcosa o hai in mente soltanto così un’idea generale? PPP. No, per il film ho in mente una traccia ma è completamente astratta perché l’ho pensata a tavolino, a casa mia, per puro caso e quindi adesso sono qui a verificare se tutto quello che ho pensato in astratto può essere realizzabile, può essere vero, può essere attendibile, in questo consiste appunto il documentario; adesso, per esempio, stiamo camminando per questo bosco, lungo il Gange, andiamo a cerare un monaco, il capo dei monaci di questo convento a cui voglio sottoporre delle domande perché, per esempio, la prima idea del film è questa: c’è un Maharajah il quale un giorno andando per i suoi possedimenti coperti dalla neve vede un gruppo di tigrotti che stanno morendo di fame e allora offre il suo corpo in pasto a questi tigrotti, per disprezzo della propria carne, per pietà insomma, cioè per ragioni proprio assolutamente religiose. Questa cosa qui me l’ha detta, per caso, Elsa Morante una sera a cena, che l’aveva letta in un libro di religione indiana appunto, e da qui mi è nata l’idea del film. Il primo episodio appunto racconta questa storia che ti ho detto, adesso vado da questo monaco, poi andrò anche da un maharajah e poi lo chiederò anche alla gente per stra21


da se questa, se questo fatto, se questa storia è attendibile ancora oggi oppure è un fatto nella tradizione puramente leggendaria. RC. Quindi, per il momento, non è che ci sia una storia di finzione appunto come dicevi te, non sarebbe un film come quelli del passato a parte Comizi d’amore. PPP. No, continua ad essere una storia, una vera e propria storia perché c’è la storia di questo maharajah che in un epoca, diciamo, idealmente preistorica, mettiamo prima che gli inglesi se ne andassero dall’India, fa questo che ti ho detto, dopodiché la sua famiglia rimane sola, la moglie con dei figli, gli inglesi partono, il primo anno dell’indipendenza dell’India è un anno di carestia suppongo io, è una pura invenzione questa però mi sembra abbastanza attendibile, e in questa carestia, questa famiglia che si reca in viaggio verso Benares piano piano scompare in mezzo alla miseria, cioè ad uno ad uno i membri di questa famiglia muoiono di stenti e di fame. Insomma più che un’idea è un ritmo che ho in testa. RC. E questo ritmo potrebbe essere cambiato da questo sopralluogo, non so da queste interviste, sentendo, vedendo, oppure è un ritmo che intendi mantenere pur cambiando qualcosa? PPP. Se io mi accorgo che quello che ho pensato è assurdo allora rinuncio a fare il film, ma se mi accorgo che quello che ho pensato è in qualche modo credibile allora questo ritmo lo mantengo perché questo ritmo è l’idea formale del film e quindi il suo vero contenuto. Allora, ho capito, gli dica che noi conosciamo la leggenda in cui un maharajah, un santo, un santo maharajah ha visto dei tigrotti che morivano di fame e allora ha dato il suo corpo da mangiare a questi tigrotti, ecco, gli chieda se qualcuno di questi monaci di cui lui è servo, che lui serve, sarebbe capace di fare così, di fare che vedendo dei tigrotti morire di fame sarebbe capace di dargli il suo corpo da mangiare. OP. Tutto il libretto? PPP. Sì, ma però non vorrei che stringessi, capisci? OP. No, sto fermo, sto fermo. PPP. Cioè parte con un obiettivo. OP. Parto così, con una grandezza adesso c’ho… e tutto il libro, e il primo piano, così, sì. 22


PPP. Allora io dico, io non sono qui in India, quando sto dicendo in…, lei va giù. OP. … metti un 35, c’è il sole in macchina. Attenzione che panoramico. ND. Guarda quanto è bello… gli avvoltoi. Guarda come. OP. Gli avvoltoi ci stanno, sono scappati tutti, mannaggia!!! PPP. Lei deve chiedere agli adulti non ai bambini che non capiscono… T … ah no, non volevano, però mi sembra che poi si siano convinti. PPP. le deve chiedere, deve dire anzitutto che secondo noi il problema più grave dell’India, è un problema della sovrappopolazione che è stato presentato un disegno di legge che propone la sterilizzazione volontaria degli uomini. Noi vogliamo chiedere a loro che cosa ne pensano, chi è favorevole a questa legge deve dire sì e chi è contrario deve dire no. Guarda, guarda, ma guarda, proprio lì devono stare! Perché non vanno sulla torre, non ho capito cosa aspettano ad andare sulla torre! VT. Ci siamo messi nel posto peggiore! Qui arrivano. Ci metteranno… PPP. Non ci sono le maestra e il maestro, ci sono? VT. Sì, stanno lì. PPP. Chi è quello bianco lassù... (continuano dei brevi dialoghi, tra i componenti la troupe, non comprensibili)

RC. Pier Paolo, è vero o mi sbaglio che ti stai divertendo a fare il giornalista televisivo? PPP. Veramente non avrei mai creduto che fare i documentari fosse così bello. Non capisco bene ancora perché sia così bello ma probabilmente questo senso di piacere nel fare il documentario è dovuto all’estrema libertà in cui ci si trova, cioè tutto può andar bene, tutto è giusto, tutto è bello, tutto è necessario e quindi quello che posso registrare, che posso fissare con la pellicola è infinito praticamente ma, al tempo stesso però, il fare un documentario come idea, così dicia23


mo come struttura di quello che sarà poi il documentario invece costringe ad essere estremamente essenziale più che nel film, perché in fondo nel raccontare una storia tocca spesso mettere dei particolari prosaici tanto per spiegare come le cose vanno avanti, nel documentario tutto questo è inutile. Quindi da una parte i documentari sono infiniti, dall’altra sono estremamente ristretti, estremamente sintetici. Sono due piaceri contrastanti ma ugualmente profondi. VT. Pier Paolo… PPP. Là, là, là, c’è il cadavere, ci sono gli avvoltoi. VT. Son scappati tutti! ND. Mannaggia! RC. Ora tornano và, se aspettiamo un momento. VT… i corvi. Ma non sono corvi! Eccoli! Eccoli! Non sono corvi! Ma dov’è il cadavere? PPP. Dov’è la carogna? ND. Eccolo là vede? VT. Ce n’erano… lì vicino gli avvoltoi. T. … È che devo… ND. Ce stanno un sacco de… Ndo’ stanno quell’uccelletti laggiù! Segua il corso dell’acqua come senso dico e poi… troverà. VT. Mi… Sempre. Vabbè… e niente so’ scappati. Se… c’ha il vaiolo guarda! ND. C’ha il vaiolo! VT. È tutto chiuso… non vedi la faccia? È tutto stretto. (Segue breve brano in indiano) PPP. … Le chieda se può chiudere un momento la radio.

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VT. Dentro è nero, è scuro, scuro… VT. … sono tutti ragazzini. Mannaggia. PPP. Chiama gli uomini. PPP. Da quell’uomo con gli occhiali lì a destra in poi. PPP. Comincia a fare, a spiegarglielo bene, glielo dica due o tre volte, chiedi se loro credono che ci sia qualche differenza tra gli operai che lavorano nelle fabbriche e loro che continuano a lavorare la terra. Andiamo motore. Stop, stop. Facciamo la terza domanda, chiediamo ai ragazzi se loro preferiscono fare i contadini oppure vogliono andare a lavorare in qualche fabbrica. T. Desiderano lavorare, vogliono lavorare nella terra. PPP. Nella terra? Ah sì? T. Desiderano lavorare la terra. PPP. Domanda se ce n’è uno che vorrebbe andare a lavorare nella fabbrica. Aspetti, vada, vada… il motore. T. Questi desiderano lavorare nella fattoria, nella fabbrica. PPP. Nella fabbrica. T. Nella fabbrica, sì. PPP. Loro tre. Ma non sono quelli che hanno risposto… T. Ma i bambini, quelli sono stati influenzati, qualcuno ha detto ha detto… VT. … bene nel campo. PPP. Non si riesce a sapere la verità! VT. Forse i bambini poi si trovano bene anche nei campi non capisco.

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T. E no perché per i bambini è una questione sentimentale insomma. PPP. Perché c’ha due bambini poi riesca a… tutti quelli più grandi. Allora voi sapete che nell’India ci sono tante persone, tanti milioni di persone e non c’è abbastanza da mangiare per tutti ecco, allora la gente muore di fame, di stenti, sta male, allora si sta facendo una legge, chiedendo agli uomini di farsi sterilizzare cioè gli spieghi come funziona, di fare in modo che dopo avere fatto tre figli non ne possano fare più. T. Il family planning... PPP. Il family planning, se loro ne hanno mai sentito parlare di questo, prima domanda, prima cosa; seconda cosa se sono a favore o se sono contro. Glielo dica come vuole, faccia il giro di parole. Ecco avanti, faccia il discorso, bene, chiaro. VT. Silenzio adesso eh! T. Dato che non tutti sanno l’hindi quindi è necessario che lo spieghi a lui poi lui lo spiegherà in marathi. (Segue la traduzione di quanto poc’anzi domandato da Pasolini). VT. Il fatto qui è stato questo, non hanno saputo rispondere, si rifiutano, non capiscono niente. RC. Tu in questo viaggio chiedi anche a questi abitanti del villaggio che mi pare siano analfabeti e gli fai delle domande tipo appunto sulla sterilizzazione, i problema della sterilizzazione e anche dell’industrializzazione, credi che le capiscano, cioè concettualmente capiscano quello che tu vuoi che gli rispondano? PPP. Qui ci sono delle fabbriche, in queste fabbriche ci sono degli operai e dei tecnici, intono alle fabbriche con tecnici e operai c’è un dato che è diverso dal resto del mondo indiano cioè del mondo contadino. Quindi è chiaro che se io faccio queste domande a degli operai, a dei tecnici e a chi vive intorno al mondo industriale queste mie domande sono capite. Fino a che punto non lo so ma almeno alla lettera sono capite. E infatti le risposte che mi hanno dato fin ora sono risposte di gente che si è resa ben conto del problema e le mie domande invece non sono capite, nemmeno alla lettera, forse, dai contadini più arretrati. In certi villaggi proprio assolutamente 26


non hanno capito quello che volevo chiedergli. Ma però ho pensato che non avessero voluto capire che fosse il loro un rifiuto totale che non avessero voluto capire che fosse il loro un rifiuto totale non a una domanda specifica ma alle domande in generale. Ho avuto un’altra idea ieri conoscendo tutti questi industriali italiani lì dal console di fare un altro documentario, di restare un giorno in più, e cioè sul problema dell’industrializzazione in India. Le domande che mi sono fatto sono tre: cioè se per una nazione che si chiama in via di sviluppo per industrializzarsi sia necessario che si occidentalizzi, perché pare che sia una specie di luogo comune, di cosa non critica per cui una nazione in via di sviluppo si debba industrializzare e debba anche occidentalizzarsi. Mi chiedo se questo è vero o no. La seconda domanda che mi sono fatto è questa: se in India si è avuto qualche caso di violenza, di protesta violenta cioè manifestazione di studenti a Calcutta, tumulti a Madras, cioè un tipo di cosa abbastanza nuova all’interno dell’India, cioè se quando gli indiani sono stati violenti per ragioni religiose, mettiamo per una guerra religiosa oppure per l’indipendenza non lo so, ma all’interno della loro nazione mi sembra che sono i primi casi questi o no di protesta violenta, cosciente da parte di studenti. A. Sì pensano forse di sì, ma dovrebbe approfondirlo con questo economista. PPP. No, no questo fa parte di questo secondo documentario di cui le sto parlando per cui mi occorreranno persone che poi le dico, ecco allora volevo chiedermi se per caso questo tipo, questi nuovi sintomi appena registrabili di violenza sono dovuti all’inizio dell’industrializzazione cioè il passaggio da un mondo puramente agricolo e religioso ad un mondo invece industriale e laico, non so come dire. E poi la terza domanda che mi sono fatto è questa: il problema linguistico, se risolvere il problema linguistico in modo nazionalistico, sia nazionalistico indiano, sia nazionalistico locale, sia una forma di occidentalizzazione oppure un rifiuto all’occidentalizzazione perché si presenta come un rifiuto all’occidentalizzazione cioè rinunciare all’inglese, adottare l’hindi, le lingue nazionali, locali, sembrerebbe un rifiuto all’occidentalizzazione cioè rinunciare all’inglese, adottare l’hindi, le lingue nazionali, locali, sembrerebbe un rifiuto all’occidentalizzazione in realtà invece è una forma di nazionalismo piccolo-borghese tipico dell’Occidente almeno fin ora. Ecco, queste sono le tre domande chiave che vorrei fare. A. Ecco questa potrebbe farla a questa signora, a questa signora che viene adesso perché ha detto che, può darsi che sia eletta fra non molto come sindaco di Bombay, è eleggibile quella carica, potrebbe.

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PPP. Su queste cose insomma lei è informata, non ci sono problemi di… Io potrei fare tutte e due le interviste, una che mi serve per il primo documentario cioè sul problema delle caste e qui mi occorre veramente qualcuno di coraggioso perché in generale gli indiani quando si parla di caste fanno finta di niente, fanno finta che non ci sono. Allora mi serve una persona coraggiosa che mi dica fino a che punto questo è ancora un problema o non lo è ecc… ecc… capito. Allora potrei farle questa domanda qui per il primo documentario e poi quest’altra per il secondo. A. Per la signora sarebbe molto più indicato il secondo documentario, per il primo le darà forse molti consigli, ma dato che Bombay si trova un po’ alla punta non della (penisola) indiana, quindi potrebbe aiutarla molto nel secondo documentario. PPP. E poi vorrei mettermi in rapporto con questi industriali italiani che ho conosciuto ieri perché mi facessero un po’ da guida, per esempio ce n’è uno che ha una fabbrica qui vicino mi ha detto, è quel piemontese un po’ basso di statura nato però a Vicenza, è proprio il problema delle caste. Per esempio negli hotel, mettiamo qui in albergo, quando scendi in un hotel, si sente che ognuno ha una sua funzione e che non potrebbe, che gli è impedito da qualcosa di fatale di fare, di eseguire qualcosa che non è nelle sue mansioni, non so come dire, una conseguenza del… delle caste questa, cioè quello che pulisce i pavimenti non potrebbe mai portare la colazione, non so come dire, capisce. Può darsi che le caste nel senso tradizionale delle quattro caste non ci siano più, però una mentalità castale forse rimane ancora nelle mansioni della gente. A. Dunque lei ha citato adesso un caso particolare di uno degli intoccabili che è uno dei ministri del gabinetto di Bombay. Prima aveva parlato del problema delle caste cioè come l’aveva impostato lei, cioè nel senso più moderno della parola, ha detto che ogni componente di una determinata casta si sente come vincolato con la casta degli altri, perché gli altri impongono di non poter scavalcare quella barriera che si è creata intorno a lui e quindi lui si sente, non si sente affatto libero come governante… cerca di convincere la gente a poter scavalcare, cioè ci sono i mezzi legislativi per poter scavalcare questa barriera. PPP. Sì, questo lo so, sì lo so, io so che le leggi, tutte quante, tutto è aperto a scavalcare tutto questo, io volevo chiedere fino a che punto invece la tradizione è più forte delle leggi e della democrazia, ecco, capito, sono problemi anche italiani questi intendiamo, non è che siano problemi indiani. Va bene, allora io direi che possiamo farla questa intervista, andiamo là con la camera e io le fac28


cio le domande su questi argomenti, lei dovrebbe cercare di essere concisa, rispondere con una certa concisione, esattezza, e l’ultima domanda che le farò, farò queste due o tre domande cioè una cosa che riguarda il film in generale, una cosa che riguarda invece il problema oggettivo, storico delle caste in India, quello che ho risposto adesso più o meno, e l’ultima domanda, cioè la tre, l’ultima domanda che le farò sarà se lei camminando per le strade saprebbe indicarmi ecco quello è un “pari”, quello è un “intoccabile”, quello è un “bramino”, cioè se sono riconoscibili, non dico nei vestiti ma se li riconosce dallo sguardo, dal modo di fare, se li saprebbe individuare o no, ecco se potesse indicarmeli, per esempio in Italia superata la differenza tra Italia del nord e Italia del sud però se io vedo un italiano del sud lo riconosco subito; io le dirò se questo è possibile lei mi indica qualcuno. RC. Scusa Pier Paolo, ma la musica un po’ lontana non darebbe mica fastidio ai fini dell’intervista. PPP. No, per cortesia, se è possibile tagliarne un pezzetto perché poi si sente e non si sente… la facciamo venire da più lontano e la facciamo fermare più sul mare, ancora ecco... va bene, siete pronti?... la facciamo prima dell’intervista, tanto qui è muto. VT. Ah, questo è muto da fare... PPP. Ve lo dico io motore, aspettate, motore! VT. Stop, stop. PPP. Cos’è successo? VT. C’è stato lui in campo, s’è trovato lui qua! PPP. Non dite mai niente alla gente, non dite mai niente alla gente. Ok, ok, thank you. Va bene così. Prepariamo l’intervista (n.7) e scrivete bene sotto il suo nome però. Avete preso sempre bene i nomi della gente? VT. Sì, sì. PPP. Ecco, la prima la facciamo così, direi sono tre domande, tre o quattro e cambiamo angolazione.

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VT. Ah, cambiamo proprio angolazione? PPP. Sì, prendiamo anche contro le navi là, la prima domanda è quello che abbiam detto cioè questa famiglia del maharajah, caduta in miseria che si trova nel Bihar in un momento di fame e carestia terribile, secondo lei conserva la sua mentalità castale o no e fino a che punto la conserva, le rifacciamo la domanda, può darsi che lei la modifichi un po’, allora digli pezzettino per pezzettino in modo che è più chiara. Allora voi andate quando vi dico io via. Pronto? Quando dico via io andate, quando dico motore andate. Ecco devi fare la domanda da qui, da qui vicino a me. Siete pronti, posso cominciare la domanda, vi dico io motore eh. Allora, secondo lei, la famiglia di un maharajah morto, caduta in miseria, nella più estrema miseria, che si trova nel Bihar in un momento di terribile carestia conserva ancora mentalità castale o no? PPP. Stop. Dunque, più o meno, com’è la risposta? T. Dunque, la risposta è questa. PPP. Ecco, ho cambiato un pochino angolazione. T. In risposta alla domanda ha detto solo questo che il maharajah, cioè la famiglia del maharajah, è conscia di essere tra i suoi sudditi e non sa che doveri ha verso questi suoi sudditi e poi ha naturalmente la sua situazione personale cioè quella della fame sua da dover considerare. PPP. E allora posso passare alla seconda domanda, cioè fino a che punto conservano questo irrigidimento castale, fino a che punto, cioè le faccio l’esempio dell’altra volta, nel caso che stia morendo di fame un intoccabile le dà un pezzo di pane, mangerebbe questo pezzo di pane o no ecco. Attenzione eh, allora ho avvicinato il microfono, vi dico io motore eh. (Nino) lascia stare sempre la gente dove sta, quante volte devo dirlo, lasciatela sempre dove sta. PPP. Ma questo sarebbe un grave dolore, una cosa angosciosa per loro oppure lo vivono con una certa naturalezza? PPP. Stop, ho cambiato angolazione, si ho capito più o meno, è stato molto doloroso ma con tutte le difficoltà dovrebbero farcela. Mettiamo la macchina più in qui. Adesso passiamo alla seconda domanda e cioè nella situazione politica indiana attuale il problema delle caste, malgrado le leggi che danno la totale libertà ecc… ecc… 30


Pier Paolo Pasolini: A Film Maker’s Life (1971) di Carlo Hayman-Chaffey

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T. Attuale? PPP. Attuale, attuale, di adesso, malgrado le leggi che danno libertà e cioè hanno abolito queste cose qui, la mentalità castale è ancora molto forte o no, fino a che punto la tradizione è più forte della buona volontà dei dirigenti. Siete pronti? Ecco, motore. PPP. Thank you. Stop. Facciamo la terza domanda da un’altra angolazione. Dunque, volevo appunto. T. Quel caso particolare di lei che cercava di convincere le donne più umili. PPP. Sì, lo facciamo nella terza domanda. T. Ah, una terza domanda. PPP. Sì, sì, una terza domanda. Allora stringiamo ancora un pochino. Sì, sì, ecco allora la terza domanda è dire, va bene, nei villaggi questo problema è ancora fortissimo ed è quasi rimasto come prima ma nelle grandi città meno, ma però nelle grandi città lei, guardandosi intorno, distingue gli individui delle varie caste o no, sono distinguibili o no e in questo caso, dopo, le indica qualcuno. RC. Pier Paolo, tu dici che l’India è un paese senza speranza, in che senso dai questa definizione di questo popolo? PPP. Ma io ho detto un paese senza speranza avendo dentro di me l’idea che m’ero fatto dell’India nell’altro viaggio che avevo fatto in India cinque o sei anni fa, e allora mi era nata questa definizione così, questa definizione un po’ generica devo dire la verità; dicevo che era senza speranza perché non vedo quale forma politica, democratica o socialista possa risolvere i problemi dell’India perché sono insolubili di per sé, non sono insolubili perché sia cattiva o mediocre la forma di governo indiano o diciamo così la vita politica indiana, e cioè il problema della sovrappopolazione e della fame è un problema sorto, forse un governo formato soltanto da scienziati che abbiano soltanto quel problema a cui pensare possono risolvere. Neheru parlava sempre dell’energia atomica usata attualmente per scopi pacifici come dell’unica possibile speranza indiana, quindi il salto dall’era preindustriali addirittura all’era atomica. VT. ... monumenti equestri, ne succedono di tutti i colori, sempre imprevedibili... perdere mezz’ora. Eh, ma lui... 32


PPP. Beh, no, veramente essendo una guida dovrebbe capire che i turisti vogliono vedere i templi, i palazzi antichi, non vogliono vedere i monumenti equestri, non capisco. Si vede che Nardelli ha tradotto letteralmente la mia parola monumento, monumento in senso muratoriano “monumenta”. RC. Qui potrebbe essere il palazzo dove… PPP. No perché non piace a me, potrebbe anche essere ma non mi ispira. Per quello che riguarda la casa o il palazzo dove dovrebbe abitare il maharajah del mio film, il rajah sta nel Gujerat cioè la regione che stiamo percorrendo, mi pare che, no, no, mi hanno un po’ deluso; perché i palazzi che abbiamo visto sono bellissimi anzi forse il palazzo rosa di Jaipur è una delle cose più belle che abbia mai visto nel viaggio, però è immerso dentro una città moderna, invece ho bisogno di qualcosa di più preistorico, di più mitico, di più lontano nel tempo, di più fantastico insomma; loro continuano sempre a pensare o a Golconda nel centro dell’India oppure ad Agra che è a due trecento chilometri da Nuova Delhi verso il Bihar, la quale Agra è una città morta perché è stata costruita molti secoli fa e poi si sono accorti all’ultimo momento che non c’era acqua nei dintorni e non potevano averla e quindi l’hanno abbandonata così come l’avevano costruita, è rimasta intatta, perfetta, perduta così nel tempo, nel silenzio. Durante il viaggio, la notte, durante un felicissimo viaggio di notte, temendo di aver sbagliato strada così, quindi abbiamo impiegato tutta la notte fino all’alba, non c’è stato un momento che aprendo gli occhi non si vedesse una vacca, due vacche con un carrettino oppure qualcuno che camminava non si sa mai dove vanno, dove vanno alle tre di notte, dei vacchi, aprendo gli occhi si vedeva un vecchietto che passo passo camminava, tre o quattro carri con delle vacche. Senta, qual è la percentuale di operai che lavorano nelle fabbriche rispetto all’intera popolazione che lavora? INT. La popolazione che lavora in India può essere calcolata sui duecento milioni di cui soltanto il tre per cento cioè sei milioni lavorano in fabbrica. PPP. Senta, ho sentito dire da molti industriali che lavorano qui che non sempre sono soddisfatti del rendimento dell’operaio indiano. C’è qualche ragione di questo secondo lei? INT. Manca, sempre secondo me, ripeto, la spinta, l’ambizione personale che è tipica degli operai dei paesi occidentali. PPP. Secondo lei è assolutamente fatale, necessario che una nazione come 33


l’India, che si sta industrializzando, si debba anche occidentalizzare, cioè industrializzazione o occidentalizzazione sono inseparabili. INT. Secondo me inseparabili. PPP. Ma non sarà una nostra abitudine diciamo razionale, di uomini bianchi che crediamo che il mondo debba essere per forza come noi lo concepiamo? INT. Potrà essere anche così, comunque siamo noi che dettiamo la strada per il progresso industriale. PPP. I casi di violenza che si sono verificati in India, di violenza voglio dire, di contestazione interna, all’interno dello stato indiano, sono dovuti in parte, secondo lei, all’industrializzazione o no? INT. Attualmente parte di queste dimostrazioni sono dovute a ragioni, diciamo, di ostilità tra stato e stato e soltanto una piccola parte sono istanze sociali chiamiamole così, e di questa piccola parte io direi che è strettamente legata all’industrializzazione. PPP. Grazie. INT. Prego. VT ... no, no, no, riprendi un gruppo poi panoramichi su loro. PPP. Gli chieda per favore se sentono che c’è molta differenza tra quelli che continuano a lavorare nei villaggi come contadini e loro che lavorano qui come operai. T. A ciascuno di loro. PPP. No, insieme, gli faccia una domanda, allora, andiamo, andiamo, via, motore. No, mettete un 50. PPP. Thank you very much. Questi operai; in genere, quelli che... come operai come le sono sembrati in genere? INT. Azzeccato fino ad un certo punto perché prima di tutto mi sembra che la domanda sia estremamente difficile, cioè potrei rispondere qual è la differenza tra un operaio che è stato avvicinato dalla civiltà industriale e il contadino, per 34


l’operaio stesso mi pare che sia quasi impossibile, in sostanza loro sono degli operai occasionali perché evidentemente sono venuti a lavorare nell’industria per interesse economico, hanno sempre i legami col paese nativo dove vanno regolarmente e penso che non ci sia un abisso, una barriera tra quello che hanno lasciato al paese e quello che hanno trovato qua. PPP. E però a vederli così fisicamente, se la presenza fisica ha un significato, la presenza fisica parla in modo assolutamente diverso da come parla la presenza fisica di un abitante di un villaggio. INT. Ah bè, esteriormente sì perché è logico che avvicinandosi ad una società industriale ne subiscono tutte le conseguenze almeno esterne. PPP. Sì ma lei pensi adesso quando tornano nei loro villaggi si sentano sincronizzati con gli altri, coi loro fratelli. INT. Ma io penso di sì. Adesso loro continuano a ripetere che c’è molta differenza ma se poi lei va a fondo e chiede che differenza trovano continuano a ripetere che la differenza è che l’operaio lavora con le macchine e il contadino lavora nella campagna. PPP. Sì, ma però quando ho chiesto se c’erano differenze sulla religione, su problemi politici anche lì hanno detto che c’è molta differenza. INT. Sì, quello ha detto che credono in un altro... in altri dei, adesso io non sono al corrente delle sottili distinzioni tra Dio e Dio e tra adorazione e adorazione ma non vedo perché improvvisamente l’accostarsi alla civiltà industriale debba cambiare il tipo di religione, il tipo di interessi religiosi. PPP. È quello che è sempre successo però, sempre la fabbrica è una mentalità laica, diciamo così, lei pensi un cattolico mettiamo di Milano e un cattolico di Canicattì, benché tutti e due abbiano le stesse idee, l’atteggiamento religioso è molto diverso. Poi, probabilmente, voteranno in modo diverso. INT. Questo non lo saprei. VT. Mettiamoci contro... no ma è bene che si veda... lì dietro eh! Aspetta. Se vuoi possiamo andare su... verde, ci sono un po’ di alberi, di fiori. È bello che si veda quel fondo così. Sì così.

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PPP. Dunque eravamo rimasti agli dei della pioggia e ai monsoni no... Secondo lei certe... Se la parola religione coincide, grosso modo, con l’India tradizionale, mentre questo nuovo atteggiamento religioso coincide con l’India moderna, l’India industrializzata, a proposito di questo vorrei farle questa domanda: secondo lei, per una nazione come l’India che si sta industrializzando, è fatale che questo comporti anche un’occidentalizzazione o no? INT. Non necessariamente perché se per occidentalizzazione intende che l’uso dei mezzi di produzione che l’Occidente ha avuto negli ultimi cent’anni modifichi la struttura mentale degli indiani in tutti gli aspetti della sua vita no, perché rimane attaccata a delle forme che non penso possano essere eliminate nell’immediato futuro, due, tre generazioni, rimarrà come è adesso. Non penso che l’industrializzazione possa modificare l’atteggiamento spirituale indiano, insisterei molto sull’aspetto religioso, perché la religione come manifestazioni esteriore esiste, la religione come analisi, introspezione è al di fuori della portata di questa gente. PPP. Quindi si potrà avere un’India industrializzata ma non occidentalizzata. INT. Senz’altro, cioè ci sarà un paese completamente nuovo che potrà avere anche uno sviluppo industriale all’avanguardia ma con caratteri e con fenomeni di individualità completamente diversi dai nostri ai quali noi siamo abituati, nostri tradizionali in sostanza. PPP. Senta Tealdo un’ultima domanda. Secondo lei certi casi di violenza, non dico di violenza in guerra, mettiamo la guerra col Pakistan ecc…, ma la violenza all’interno di una nazione cioè della violenza contrapposta all’ideale della non violenza di Gandhi, questi episodi che si sono verificati a Calcutta, a Madras ecc…, sono in qualche rapporto con l’inizio dell’industrializzazione in India o no? INT. Lo escluderei signor Pasolini. Queste manifestazioni di violenza sono legate a fatti storici preesistenti a qualsiasi forma di industrializzazione. Il problema linguistico è nato prima ancora dell’indipendenza dell’India, altri problemi che hanno creato invece recenti atti di violenza sono essenzialmente legati coi bisogni principali degli indiani che è il cibo, un tetto sulla testa e un pezzo di cotone con cui vestirsi. PPP. Sì, ho capito ma di fronte a queste necessità l’indiano ha sempre reagito, diciamo così, con la non violenza, con la mitezza, con la rassegnazione, questa forza improvvisa che è venuta in certi sporadici casi non s’era legata a quella nuova mentalità di cui parlavamo prima.. 36


INT. Non so come risponderle signor Pasolini perché sostanzialmente il limite di sopportazione che l’indiano sia esso operaio o agricoltore ha dimostrato nei confronti di moltissimi aspetti di difficoltà nella vita quotidiana avrebbero giustificato ben maggiori violenze, ben maggiori reazioni, quindi la situazione non penso abbia portato nuovi componenti alla violenza locale, e anche la non violenza è una forma di protesta, non è mai stata interpretata come non violenza a tutti i costi, non violenza fino a che non si può ottenere con altri sistemi bene, poi dopo anche la violenza. PPP. Ho capito, comunque si dà il caso che proprio adesso se succede succede che la reazione sia violenza. È un caso voglio dire? È un caso? INT. Penso non si possa dire, perché in fondo le manifestazioni di violenza in Madras dove l’indice di industrializzazione è inferiore a quello di Bombay non sono legati evidentemente ad un fenomeno di industrializzazione, particolarmente l’oggetto della violenza è un problema linguistico, non è legato alle condizioni economiche, né è legato alle condizioni politiche. PPP. Va bè, Gramsci però diceva che ogni volta che sorge in una nazione il problema linguistico vuol dire che c’è un problema sociale dietro cioè si è coscienti del problema linguistico soltanto nei momenti in cui albeggia, comincia a porsi una questione sociale, è strattamente legato. INT. Bè, evidentemente il problema sociale e linguistico indiano oggi è legato alla possibilità, non so nel Sud, di accedere ai posti di governo, sì non solo all’impiego pubblico come conoscenza dell’hindi come lingua ormai quasi obbligatoria per gli atti pubblici. Questo può esser, son certo, a... di realtà, ma anche quello non è legato all’industrializzazione, è legato ancora alla macchina burocratica del paese. PPP. E secondo lei? INT. Sì, no, la violenza di questi ultimi casi, soprattutto di Calcutta, secondo me non ha niente a che fare con lo sviluppo industriale, ne è prova il fatto che Bombay, che ha uno sviluppo industriale notevolissimo fino adesso non ha rivelato nessuna esplosione di violenza. PPP. Vuole dire che il moto rivoluzionario cioè la protesta portata sulla piazza, insomma così, a mano armata, nasce a questo punto dell’industrializzazione generalmente. 37


INT. Qui esistono invece quei caratteri peculiari di una determinata popolazione come quella di Calcutta che sono forse preponderanti sul fatto che ci sia o non ci sia l’industrializzazione nella zona. Però, allo stesso punto, anche in America, allo stesso punto di industrializzazione sono scoppiati i moti. PPP. Sì è un po’ tipico di tutto il mondo, allora io chiedevo, appunto, se anche l’India si inserisce in questo ciclo, diciamo. INT. L’abbandono di valori spirituali tipo la non violenza, cioè il testamento spirituale di Gandhi gradualmente dimenticato. PPP. Per questo dico non solo nell’India ma in tutto il mondo, per esempio il mito della non violenza avrebbe in America adesso si sta… INT. Di conseguenza, a conclusione, l’India si sta occidentalizzando, si sta mettendo a livello di tutto il mondo. Certo che se come occidentalizzazione siamo riusciti ad esportare la violenza in India non ha nessun motivo di essere proprio... da questa... PPP. Che nesso c’è tra i moti dei negri INT. No, no io parlavo dei moti in America all’inizio dell’industrializzazione in America, fine ’800, allo stesso livello di qua, anche là ci furono dei moti di piazza paurosi con dozzine di morti. PPP. Cioè Malcom X quando parla in quel suo bellissimo… del suo potere nero parla dei negri d’America come gruppo leader di tutti i popoli sottosviluppati, di tutti i popoli preindustriali, cioè i negri d’America si pongono un po’ all’avanguardia di tutti i moti di violenza, di tutti i popoli sottosviluppati, ne hanno coscienza di questo i negri. Infatti si vede che c’è un certo nesso, misterioso ma c’è. RC. Senti Pier Paolo, tu l’altro giorno, quando siamo stati dai santoni, mi dicevi che cercavi una verifica in queste interviste che fai, una verifica di questo ritmo, di questa idea che tu hai in mente per il film che girerai o che pensi di girare, sono 15 giorni, 20 giorni che stiamo girando e tu stai intervistando, hai avuto risposte ecc…, hai potuto vedere meglio e forse verificare questi fatti. A questo punto tu credi di poterlo ancora fare il film? PPP. Sì, devo dire che la verifica ha ottenuto un risultato favorevole, cioè tutti i punti che per me erano problematici sono stati confermati dalle mie inchieste, 38


dalle mie interviste; qualche scetticismo l’ho trovato presso qualche intellettuale a Bombay, ma non profondo; in conclusione quando gli ho chiesto di darmi qualche consiglio come sceneggiatore me l’ha poi dato, me l’ha poi dato e anche abbastanza intelligente, abbastanza acuto. Quindi la leggenda del Maharajah che si dona alle tigri ecc… ecc… prima, e poi questa morte di fame dei membri della famiglia sono due fatti attendibilissimi anche nei particolari che man mano sono andato chiedendo. Potrei dire alla fine di questa mia indagine che ho talmente verificato la possibilità di realizzare questo film che addirittura non ho più voglia di farlo. Mi è venuto in mente un nuovo film, in un certo senso mi sono accorto, nel fare questo film inchiesta su un film da farsi, che questo film da farsi l’ho esaurito, ho esaurito la curiosità, l’entusiasmo, la passione di farlo, cioè potrei lavorare in India ancora moltissimo ma non più a questo film e allora mi è venuta un’altra idea appunto di un altro film tutto formato di tanti sopralluoghi o inchieste su molti film da farsi non soltanto su uno. Per esempio ho pensato a fare un’indagine, un’inchiesta come questa in Arabia, nel mondo arabo, un’altra nell’America del sud, un’altra nel mondo negro africano e un’altra nel mondo negro degli Stati Uniti. RC. Quindi siamo sempre nel terzo mondo anche perché i negri degli Stati Uniti anzi credo che siano gran parte del terzo mondo in senso politico, in senso come forza no? PPP. Sì, questo film dovrebbe intitolarsi per l’appunto “Pagine per un poema sul terzo mondo” o “Appunti per un poema sul terzo mondo”. Sarebbe costituito appunto da questi cinque sei viaggi inchieste su dei film a soggetto, il cui soggetto naturalmente sia ben chiaro, limpido e preciso un po’ come era il soggetto del film sull’India. Naturalmente il film sull’India è fondato su un problema fondamentale ma in un certo senso generico cioè la fame, mentre questi altri film abbandonerebbero questa vastità di interesse che in qualche modo appunto è generica e un po’ approssimativa e affronterebbero problemi particolari, per esempio la ricerca, nel mondo arabo, avrebbe come tema preciso cioè il confitto tra Israele e terzo mondo arabo, mentre la ricerca, diciamo, negli Stati Uniti considererebbe un possibile film sulla biografia di Malcom X e allora tenderebbe ad appurare quanto i negri d’America sono consapevoli di essere i leader di un movimento rivoluzionario particolare dell’intero terzo mondo ecc… In India con Pier Paolo Pasolini. Serata a soggetto a cura di Romano Costa (registrazione integrale). Rai febbraio 1968.

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