45 2009
QUADERNO DI STORIA CONTEMPORANEA
d’Orsi, Ferraris, Mariuzzo, Meni, Nosengo, Rapetti, Ozzano, Zanette
www.isral.it
Redazione Giorgio Barberis, Giorgio Canestri, Franco Castelli, Graziella Gaballo, Cesare Manganelli, Fabrizio Meni, Daniela Muraca, Renzo Ronconi Federico Trocini, Luciana Ziruolo Quaderno di storia contemporanea semestrale dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria Direttore Laurana Lajolo Direttore responsabile Maurilio Guasco Segretario di redazione Cesare Panizza Anno XXXII, numero 45 della nuova serie Registrazione del Tribunale di Alessandria Via dei Guasco 49, 15100 Alessandria tel. 0131.44.38.61, fax 0131.44.46.07 e-mail: isral@isral.it
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Quaderno di storia contemporanea/45/Sommario
Laurana Lajolo, In questo numero
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STUDI
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E RICERCHE
Enrico Zanette, “...col ferro e col fuoco!”. Natale Della Torre internazionalista
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Andrea Mariuzzo, L’URSS al Congrès international des écrivains pour la défense de la culture
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Luca Ozzano, Il difficile percorso dell’islam politico nella Turchia contemporanea. Dal Milli Görüs alla democrazia conservatrice
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NOTE
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E
DISCUSSIONI
Patrizia Nosengo, La scuola della Gelmini
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Fabrizio Meni, Vittime delle Foibe
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“Eccitare la voglia di sapere”. Intervista ad Angelo d’Orsi , a cura di Cesare Panizza
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PROBLEMI
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E MATERIALI DIDATTICI
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità. Materiali per la riflessione e l’intervento didattico
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INCONTRI
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E CONVEGNI
RECENSIONI
E SEGNALAZIONI
- JUDAICA
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In questo numero
In questo numero
Anche in questo numero continuiamo ad affiancare la presentazione di ricerche di storia locale con studi di carattere internazionale e a presentare alcuni elementi problematici dell’attuale dibattito culturale e educativo. Nella sezione STUDI E RICERCHE Enrico Zanette ricostruisce, dopo un paziente lavoro archivistico, la biografia di Natale Della Torre, pittore alessandrino di origine ebraica e militante socialista internazionalista. Nell’attività propagandistica svolta in città, il Della Torre intende orientare in senso rivoluzionario la nascente classe operaia alessandrina, fino ad allora egemonizzata dai democratici di ascendenza mazziniana. Collabora al gruppo della “Plebe” di Milano, alla quale invia dettagliati articoli sulle condizioni miserabili degli operai alessandrini, e fonda, insieme ad alcuni cappellai della Borsalino, un circolo di propaganda socialista. È sorvegliato dalla politizia come un pericoloso sovversivo per i suoi contatti con Cafiero e, nel novembre 1881, dopo aver dato alle stampe il giornale locale “La Miseria”, viene definitivamente condannato per reato di stampa. Andrea Mariuzzo ripercorre la vicenda del “Congresso internazionale degli scrittori in difesa della cultura”, a cui partecipano militanti comunisti o vicini comunque al movimento comunista internazionale per il ruolo imprescindibile dell’URSS nella lotta antifascista. Il convegno si tiene a Parigi sul finire del giugno 1935 per discutere l’intreccio necessario tra socialismo e cultura al fine di salvare l’Occidente dalla crisi e realizzare pienamente i diritti dell’uomo. Mariuzzo sottolinea come quel consesso costituisca uno dei momenti di massima partecipazione degli intellettuali europei alla mobilitazione internazionale contro il fascismo e si sofferma in particolare sull’immagine dell’Unione sovietica che ne 5
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Laurana Lajolo
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viene veicolata, soffermandosi sugli interventi critici come quello di Gaetano Salvemini e di Magdalene Paz che al congresso sollevano il caso di Victor Serge, confinato da Stalin in Siberia pochi anni prima. Luca Ozzano propone una dettagliata ricostruzione della complessa vicenda dell’islamismo politico in Turchia, mettendo in luce le complesse specificità di quel Paese, dove si assiste a un permanente intreccio tra politica, esercito e religione fino all’attuale governo, che fa riferimento al movimento islamista di matrice moderata. Ozzano dà anche conto delle tensioni e delle contraddizioni aperte sui temi di laicità dello Stato, come quelli recentemente insorti fra il governo di Erdogan e l’esercito, rimasto fedele alla concezione di Stato laico voluta da Kemal Ataturk. Apre la sezione NOTE E DISCUSSIONI un intervento molto documentato e acuto di Patrizia Nosengo sullo stato della scuola. Le disposizioni adottate dal ministro Gelmini, molto diverse tra loro e a volte confuse, non possono essere certo inserite in un piano organico, ma paiono procedere verso un voluto, progressivo degrado dell’istruzione pubblica, anche a causa della riduzione costante di risorse finanziarie. Nosengo analizza il senso del ritorno alla valutazione espressa in decimi nella scuola dell’obbligo, al maestro unico e alla riduzione d’orario, al voto di condotta, come un pericoloso tentativo di restaurazione e di semplificazione, in sintonia con gli indirizzi culturali delle forze politiche di maggioranza, destinato a indebolire la funzione della scuola nella società sia sul piano della trasmissione dei saperi sia su quello della formazione alla cittadinanza democratica. Fabrizio Meni conduce una stimolante riflessione sulla “giornata del ricordo” delle vittime delle foibe e sull’uso ideologico della storia. In particolare vuole mettere sull’avviso circa i rischi connessi quando si suggerisce agli studenti, anche se implicitamente, in un’analoga dimensione di celebrazione, il parallelo fra vittime delle foibe e quelle dello sterminio nazi-fascista. Apre poi la questione della credibilità dei testimoni che, spesso, per ragioni anagrafiche, non sono stati i diretti protagonisti dei fatti, ma 6
In questo numero
Nella sezione PROBLEMI E MATERIALI DIDATTICI Vittorio Rapetti valuta i risultati raggiunti delle esperienze didattiche, che ha coordinato, sui temi della Costituzione, sottolineando come sia diventato problematico il percorso di insegnamento della Costituzione e, in genere, dell’educazione civica in una scuola, che è sempre più orientata verso una specializzazione settoriale e che abdica alla sua funzione educativa complessiva. Inoltre, a causa degli attacchi politici e culturali alla Resistenza che ha favorito il diffondersi di mentalità e comportamenti in stridente contrasto con quei valori, gli stessi docenti, che soffrono una forte crisi di ruolo, incontrano sempre maggiori difficoltà a proporre agli studenti una comprensione critica del nesso tra Resistenza e Costituzione e anche della relazione tra la Carta e la storia nazionale.
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parlano egualmente in nome di tutte le vittime, correndo il rischio di ricostruire a posteriori sul sentito dire o addirittura di deformare la memoria con pregiudizi e posizioni volutamente ideologiche. Per questo, dice Meni, è necessario il filtro della conoscenza storica e l’approfondimento in classe, per evitare che la reazione emotiva degli studenti indotta dai testimoni si trasformi in convinzioni superficiali e non documentate, ma egualmente durature. Angelo d’Orsi ha promosso recentemente all’Università di Torino la “Settimana della politica”, che ha riscosso l’attenzione degli studenti e del pubblico. Con l’immediatezza dell’intervista, condotta da Cesare Panizza, d’Orsi offre alcuni elementi costitutivi della sua autobiografia culturale, dall’impegno civile e politico del docente universitario all’organizzatore di cultura, sulla scia di Gobetti e Gramsci, giungendo alla conclusione di come sia problematico contrastare con la “buona storia” la pseudostoria, che attraverso i mass media influenza il dibattito politico e il senso comune.
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“... col ferro e col fuoco” (*) Natale Della Torre internazionalista
Studi e ricerche
Enrico Zanette
Natale Della Torre è stato per molto tempo una figura marginale sia nelle storie locali alessandrine sia nella più generale storia della I° Internazionale in Italia. Rarissima, infatti, la sua presenza nella letteratura specialistica dove le poche tracce esistenti si limitano per lo più a brevi cenni biografici o a lamentare la mancanza di uno studio più dettagliato. Gli accenni fatti da Vittorio Foa nelle note a piè di pagina delle sue Lettere della giovinezza 1 , da Primo Levi 2, insieme ai rapidi richiami all’attività artistico-politica contenuti in alcune tesi di laurea e nelle parentesi dei pochi saggi di storia locale hanno contribuito a formare attorno al personaggio un’aura di mistero e di fascino. Scopo di questo articolo è quindi gettare uno sguardo più approfondito sulla biografia di Natale Della Torre, pittore internazionalista alessandrino, e attraverso la sua particolare esperienza chiarire alcuni aspetti della diffusione del socialismo in Alessandria negli anni che vanno dal 1874 agli inizi degli anni Ottanta. Chi era stato realmente Natale Della Torre, quello che per alcuni era l’anarchico, per altri il giovane pittore scapigliato, per altri ancora un nonno eccentrico e bizzarro? Aveva sposato veramente la più povera donna del ghetto di Vercelli come si racconta nelle storie di famiglia? È vero che prendeva a sassate i parenti che gli si avvicinavano per scattargli una foto? Perché era scomparso improvvisamente dalla scena politica locale e nazionale verso il 1881? È vero che negli ultimi anni della sua vita stava imparando il russo per raggiungere la patria del socialismo reale? 8
Molte di queste domande che furono il punto di partenza di questo lavoro non potranno tuttavia venir soddisfatte, perché, nonostante una capillare ricerca condotta negli archivi pubblici e privati tra Parigi, Ginevra e Alessandria, non sono venuti alla luce quei documenti che soli potevano chiarire alcuni passaggi fondamentali della vita di Natale Della Torre. Se da una parte questa condizione di carenza documentaria ha rappresentato un ostacolo, essa è stata però lo stimolo fondamentale che ha permesso di recuperare non poche testimonianze orali. Grazie agli interrogatori della polizia e alle relazioni del prefetto di Alessandria, ai due processi presenti nell’Archivio di Stato di Alessandria e ai periodici dell’epoca è stato possibile ricostruire l’intreccio della sua militanza politica, permettendo di arricchire le interpretazioni classiche sulla diffusione del socialismo nell’alessandrino. Molti altri documenti, come le famose cento lettere a Carlo Cafiero sepolte o forse disperse in qualche soffitta, non sono mai state ritrovate, impedendo un’indagine più approfondita degli aspetti quotidiani della militanza nella provincia alessandrina. La mancanza di un’abbondante documentazione archivistica è stata perciò integrata con la memoria e con gli archivi famigliari che hanno contribuito a gettare luce soprattutto sugli ultimi anni della sua esistenza. Premesso questo, nei limiti che sono propri della documentazione disponibile si cercherà di presentare nella maniera più esaustiva la vita e la memoria di Natale Della Torre, cercando di restituire la complessità e la frammentarietà insita in ogni percorso individuale ed evitando di cedere alla tentazione teleologica della traiettoria individuale che spesso alimenta molte biografie.
La famiglia Natale Della Torre 3 nacque in Alessandria il 15 agosto 1855 da Ester Sacerdote e Salomone Della Torre. Le sue prime tracce documentarie datano 1874 quando ventiduenne è già pittore e militante dell’Internazionale “antiautoritaria” 4. Per venire incontro a que9
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sta lacuna e per tentare di avanzare alcune ipotesi sulla sua adesione al socialismo libertario sarà interessante introdurre alcuni elementi riguardanti la famiglia e l’ambiente ebraico alessandrino. Di famiglia ebraica borghese il padre dirigeva una piccola attività economica di sua proprietà, la conceria di corame in Piazza Tanaro (oggi piazza Gobetti), e possedeva due abitazioni, una in centro città al primo piano di via Alessandro III n° 43 e l’altra in aperta campagna. I Della Torre furono “tra i grandi della Comunità la cui storia è strettamente intrecciata alla storia della stessa Comunità” 5. In particolare essa si incrocia con quella dei Vitale dei quali i Della Torre rappresentavano un sotto clan. I Vitale furono protagonisti di una vicenda che ne rese celebri i discendenti: mentre nel 1591 tutti gli ebrei venivano cacciati dai domini del Ducato di Milano (Alessandria rimarrà milanese fino al 1707), quelli alessandrini erano potuti restare dov’erano grazie al rapporto privilegiato dei Vitale con i duchi milanesi. Godevano, tra l’altro, di un particolare potere: “contro il pagamento di tutte le tasse al signore, era stato loro concesso di fornire il beneplacito per ogni nuovo ebreo che intendesse trasferirsi in Alessandria” 6. A partire dal XVIII secolo, con il passaggio sotto il domino sabaudo, la vita della comunità alessandrina si trovava ad affrontare un altro potere, il che comportava altre diplomazie e altre strategie. Ciò che fino a quel momento era stata un’eccezione tollerata nel Ducato di Milano doveva rientrare nella norma con l’obbligo per la comunità ebraica di vivere nel ghetto. Come osserva Attilio Milano, le costituzioni sabaude del 1723 “portarono in particolare dei gravi inasprimenti sia in materia di proprietà immobiliare sia in materia di libertà di residenza” 7. Nel 1729 il ghetto di Alessandria era quasi “un feudo dei Vitale” 8: il censimento del 1734 registra, infatti, 34 capifamiglia Vitale, più 8 Vitale Della Torre, per un totale di 42, contro 16 famiglie con cognomi diversi. La famiglia Vitale continuava, dunque, a ricoprire un ruolo importante nella comunità ebraica alessandrina, sia come mediatrice col potere secolare, sia nell’attività economica. 10
I Della Torre di cui ci occupiamo direttamente, discendono dai Vitale Della Torre attraverso il fratello di Raffaele Vitale Della Torre, tale Israele nato nel 1692. Israele Vitale Della Torre, mercante, figura nei documenti di Renata Segre, come rappresentante dell’Università di Alessandria. Un suo figlio, Leon, nato nel 1734 sarà padre di Isac, nato nel 1770, che a sua volta chiamerà suo figlio, nato nel 1804, Leon. Quest’ultimo, ormai semplicemente Della Torre (senza il Vitale eliminato durante il censimento napoleonico di inizio secolo), sarà padre di Salomone e nonno di Natale. Durante la Rivoluzione francese gli altri ebrei alessandrini aderirono con entusiasmo al nuovo clima di uguaglianza cercando velocemente un’integrazione nel mondo accademico, nell’esercito, nelle cariche pubbliche. Quest’atmosfera di libertà non durò però a lungo: con la Restaurazione tutto ritornava come prima con in più i problemi legati all’espansione demografica e all’aumento delle tasse. Si dovrà aspettare l’emancipazione del 1848 per respirare nuovamente il clima di libertà che aveva entusiasmato molti ebrei durante gli anni della Rivoluzione. Con l’emancipazione gli ebrei alessandrini sfruttarono al meglio le opportunità offerte dallo statuto Albertino, lanciandosi in ogni attività che per secoli era stata loro preclusa. Grazie a questa nuova situazione carica di speranze Salomone Della Torre (padre di Natale) impiantava la conceria di corame che gli permetterà pochi anni dopo una dignitosa vita borghese. Per quanto riguarda invece la madre di Natale (Ester Sacerdote) è giusto ricordare che non era alessandrina bensì originaria del ricco ghetto di Chieri. Primo Levi, uno dei discendenti dei Della Torre, racconta nel Sistema Periodico un episodio divertente, protagonista un fratello di Ester Sacerdote. Si tratta di una vicenda dal sapore surreale in cui questi, detto “barba Bramin”, rimasto a letto tutta la vita perché la madre gli impediva di sposare la domestica cattolica, portò alla rovina gli interessi economici della famiglia 9. Questo racconto ci suggerisce, tramite i contorni leggendari della vicenda, una certa eccentricità del carattere presente nella 11
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famiglia Sacerdote. Non sarà forse la stessa sorte che capitò alla memoria di Natale Della Torre dopo la sua scomparsa? Accanto a questa storia tutta famigliare è possibile aggiungere un altro aspetto, forse più significativo, che potrebbe contribuire alla formulazione di alcune ipotesi attorno al legame tra mondo ebraico borghese e socialismo. Non si può infatti non ricordare come una delle figure dominanti del ghetto di Chieri era in quegli anni David Levi, ricco imprenditore e tra i personaggi centrali dell’adesione ebraica al socialismo. Era un socialista utopista, grande studioso di Saint-Simon, che ebbe un ruolo fondamentale nel Risorgimento italiano e poi tra i primi socialisti. Il suo era un socialismo dai richiami mazziniani, contrario al materialismo e all’ateismo e critico delle tendenze positiviste. Secondo Alberto Cavaglion, David Levi documenterebbe il complesso rapporto dell’ebraismo con il socialismo, a fronte dell’“imponente adesione al primo socialismo di tanta parte di quella gioventù ebraica appena liberata dai ghetti” 10. Questi tre elementi, il socialismo utopistico mazziniano alla David Levi del ghetto di Chieri, una certa eccentricità ereditaria del carattere e il contatto con l’ambiente operaio attraverso l’attività economica del padre, ci sembrano poter contribuire a definire l’ambiente famigliare di origine nel quale si sviluppò la sensibilità artistica e la passione politica di Natale Della Torre. Non si vuole con questo far derivare semplicisticamente la genesi della sua traiettoria individuale da un rapporto deterministico con l’ambiente sociale – tra tutti i suoi fratelli sarà l’unico infatti a impegnarsi politicamente e a dimostrare una sensibilità artistica – ma tentare un abbozzo paesaggistico dentro il quale poté evolvere la sua originalità. Uno sguardo al contesto locale sembra d’obbligo per avanzare altre ipotesi e possibili influenze.
Repubblicanesimo e questione sociale In Alessandria negli anni Cinquanta e Sessanta tra gli esponenti della democrazia radicale si discuteva già di comunismo e sociali12
smo 11. Promosse dalla borghesia liberale e democratica, cominciarono in quegli anni a imporsi come una realtà consolidata molte società operaie attive nelle varie manifatture della città 12. L’organizzazione del movimento operaio sarà dunque in Alessandria abbastanza precoce rispetto ad altre zone d’Italia grazie all’opera dell’intellighenzia alessandrina molto sensibile al radicalismo liberale. Alessandria, infatti, “era considerata dal governo di Torino una città inquieta [...] per la presenza di un ceto politico liberal-democratico costituitosi durante il biennio rivoluzionario [1848-1849] e in seguito protagonista di non poche polemiche con i liberali moderati saldamente insediatisi al potere” 13. Un socialismo, quello di cui si discuteva, che riuniva saintsimonismo e idee mazziniane (come nel caso di David Levi) e che veniva usato spesso in termini provocatori nelle colonne dell’“Avvenire” a difesa delle società operaie e dell’associazionismo in generale 14. L’aspetto più interessante del contesto alessandrino consisteva proprio nella presenza di idee molto radicali unite a una pratica di ravvicinamento al movimento operaio che coincideva con la promozione e il sostegno dell’associazionismo operaio. Tutto ciò darà alla democrazia locale quella connotazione tipicamente operaista che sarà all’origine del successo del Partito operaio negli anni Ottanta. Tra i protagonisti di questa radicalizzazione politica furono senz’altro M. Tarchetti e G. Dossena (per i quali si rimanda ad altri studi) 15 che contribuirono tra le altre cose, alla formazione nel 1863 della Società degli operai uniti di chiara ispirazione mazziniana. È interessante vedere come questo contesto entri in complessa relazione con l’esistenza di Natale Della Torre. Purtroppo, non disponendo di lettere e corrispondenze, non possiamo illustrare al meglio i suoi rapporti con l’entourage politico radicale della città, anche se alcuni episodi ci permettono di abbozzare una certa configurazione. Il primo è un fatto singolare. Di ritorno da Milano, nell’estate del 1874, Della Torre si era trovato ad assistere all’inaugurazione di un monumento in memoria di Andrea Vochieri 16. Presente alla commemorazione pubblica non aveva saputo resistere: “vide nell’omaggio ufficiale di una vittima della 13
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reazione monarchica, un’ipocrisia insopportabile e finita la cerimonia mentre le autorità e la folla stavano per allontanarsi era balzato nel recinto del monumento ed aveva improvvisato la sua personale commemorazione contro la monarchia sabauda persecutrice dei mazziniani e ora dei socialisti, terminando con un inno rivoluzionario interrotto a forza dal commissario di pubblica sicurezza” 17. Si era, quindi, dichiarato rappresentante della “Plebe” 18 e aveva difeso i socialisti come i nuovi perseguitati dall’autorità sabauda, rivendicando una comune tradizione tra i socialisti attuali e i mazziniani di un tempo: il suo intervento era stato accolto dagli applausi fragorosi della gente 19. Questo episodio ci suggerisce il rapporto di Della Torre con il contesto politico locale. Ponendo nel 1874, dopo l’ormai storica polemica tra Bakunin e Mazzini in seno all’Internazionale, repubblicani e socialisti in uno stesso orizzonte rivoluzionario, stava tentando di riunire la consolidata presenza democratica alessandrina al socialismo internazionalista. Per mezzo della difesa di Vochieri, Della Torre tentava di far breccia nel radicalismo democratico dimostrando come i socialisti fossero i discendenti naturali del miglior Risorgimento. Si inseriva così pienamente nel campo politico repubblicano, nel quale era stato formato, frequentando come è probabile la scuola serale di pittura della Società degli operai uniti 20, e cercando al suo interno di spingere verso una radicalizzazione delle idee. Qualche anno dopo in occasione di uno sciopero di falegnami si vedrà all’opera una dinamica simile. Nell’agosto 1880 circa duecento falegnami avevano sfilato per le vie della città durante un lungo sciopero. Uniti nella Società operaia dei falegnami erano in sciopero da circa un mese, impegnati in un dura trattativa con il padronato per l’aumento salariale 21. Il ruolo di Della Torre nella vicenda appare del tutto marginale anche se il suo interesse per lo sciopero sarà notevole 22. Era ormai da qualche anno che militava nell’ambiente dell’Internazionale “antiautoritaria” e questo, come è noto, comportava il rifiuto di qualsiasi azione per il miglioramento della condizione operaia all’interno dell’economia capitalista. Della Torre, però, attento 14
osservatore delle dinamiche della protesta, era pronto a fare leva sul potenziale insurrezionale della contestazione. Parla con gli operai, cerca di distoglierli dalla volontà di formare una cooperativa di lavoro, cerca in poche parole di diffondere all’interno della Società operaia dei falegnami (di chiara ispirazione mazziniana) le teorie rivoluzionarie dell’Internazionale. Anche in questo caso non siamo di fronte a una polemica frontale, ma piuttosto al tentativo di fondere e far evolvere il repubblicanesimo radicale, presente nelle società operaie alessandrine, verso il socialismo rivoluzionario dell’Internazionale. Un altro episodio di poco successivo ci permette di chiarire il campo d’azione di Della Torre e il suo ruolo di rottura nell’ambiente democratico radicale. La polemica che instaurerà col giornale “Il Paese” 23 contro il suffragio universale testimonia l’accoglienza di cui beneficiava Della Torre all’interno della stampa radicale locale. È inutile riportare qui l’andamento della discussione sull’opportunità o meno del ricorso al voto all’interno dell’ordinamento economico borghese. È importante invece sottolineare come la stessa possibilità della polemica rimandi al rapporto esistente, ancorché conflittuale, tra Della Torre e l’ambiente politico alessandrino. Il suo ruolo dimostra la contemporanea posizione da attore interno e esterno nel dibattito politico locale. La conclusione che si può trarre dall’analisi di questo rapporto con il contesto è che Della Torre fu una figura di rottura interna all’ambiente politico radicale alessandrino nel quale con buona probabilità si era formato. Le sue idee più radicali non le aveva trovate in Alessandria bensì negli ambienti dell’Internazionale antiautoritaria e questo chiarisce il suo parziale isolamento. Se è vero infatti che la sua propaganda non risultò efficace nell’ambiente democratico radicale è pur sempre vero che i militanti del Circolo democratico Vochieri (considerato il primo vero e proprio nucleo politico socialista alessandrino) furono in un certo senso suoi discepoli 24. Può sembrare a una lettura veloce e superficiale che la sconfitta di Della Torre si spieghi con la consolidata tradizione repubblicano-democratica interna all’associazionismo operaio di cui 15
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Studi e ricerche
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abbiamo parlato. Se questa realtà ostile aiuta a chiarire il suo relativo isolamento rischia però di far passare in secondo piano la campagna repressiva contro la diffusione dell’Internazionale nella penisola italiana che sola riuscì infine a metterlo fuori gioco. Seguendo più da vicino l’esperienza della militanza di Della Torre ci si renderà conto, infatti, dei timori delle istituzioni locali e nazionali e della sua non marginale azione politica.
Studi e ricerche
L’artista e l’Internazionale Nel verbale di uno degli interrogatori a cui fu sottoposto, Natale Della Torre riferirà quanto segue: “Il biglietto da visita dell’Ing. De Franceschi di Milano mi fu dallo stesso dato il giorno tre a Milano, allorché fui a fargli visita, essendo io suo amico fino dal 1874, allorché mi trovavo all’Accademia di Brera come studente di pittura, e nella quale entrai nel 1873 e ne uscii nel 1875” 25. Stando a quanto si legge i suoi contatti con l’ambiente internazionalista risalivano almeno al 1874. Durante gli studi di pittura all’accademia di Brera conoscerà, infatti, De Franceschi, Cesare Durio, Paolo Valera, Enrico Bignami, Achille Peretti e molti altri, tutti personaggi che troviamo in quegli anni a Milano e successivamente nei congressi dell’Internazionale “antiautoritaria” almeno fino agli anni Ottanta. Sono giornalisti, polemisti, pittori, e più in generale artisti. Tra di loro c’è chi ha già un’esperienza politica nell’ambiente democratico repubblicano e chi sull’onda degli eventi internazionali (la Comune di Parigi in particolare) comincia a professarsi apertamente socialista. Il “Gazzettino Rosa” di Cavallotti ad esempio è tra i pochi, se non l’unico, giornale italiano a prendere le difese della Comune di Parigi. Sono gli anni della Scapigliatura nei quali i giovani artisti reagivano al tradimento dei valori repubblicani e democratici del miglior Risorgimento con un movimento di rottura nei confronti dell’intera società borghese. Anticonformismo, spirito anti-accademico e rifiuto delle convenzioni sociali sono le caratteristiche chiave di una gioventù che spinta dagli ideali risorgimentali non 16
Studi e ricerche
Il militare e la militanza Nel 1875 l’esperienza artistica milanese terminava a causa del richiamo alla leva militare. Della Torre fu costretto a partire per Roma come caporale in un reggimento del Genio. L’allontanamento da Milano e l’esperienza del militare saranno due eventi che segneranno in profondità la sua esistenza. Da una parte per l’incontro con Cafiero, dall’altra perché, proprio all’interno della caserma farà la sua prima azione politica e subirà la prima detenzione carceraria. Quando Della Torre giunse a Roma, della sezione romana dell’Internazionale non v’era quasi più traccia. I pochi internazionalisti attendevano in carcere i processi, gli altri, come ad esempio Gnocchi-Viani, avrebbero lasciato la capitale dopo pochi mesi per unirsi a Milano con il gruppo della “Plebe”. Nonostante questo periodo di riflusso Della Torre incontrò in un café Carlo Cafiero col quale strinse una duratura amicizia 27. Carlo Cafiero era, all’epoca, uno dei massimi esponenti dell’Internazionale “antiautoritaria” italiana. Dalla fine del gennaio 17
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accettava che l’unità d’Italia si fosse risolta in una semplice annessione territoriale. La delusione per un’Italia conservatrice, povera e arretrata, si concretizzava sia nell’atteggiamento bohémien del poeta maledetto sia nell’adesione alle nuove idee socialiste propagandate dall’Internazionale. In questo ambiente artistico-politico avverrà, dunque, l’incontro di Della Torre con il socialismo rivoluzionario, mentre bisognerà attendere qualche anno per vederlo impegnato attivamente come rappresentante della sezione alessandrina dell’Internazionale. Per quel che riguarda più concretamente la sua formazione a Brera si può affermare che la sua produzione artistica, nonostante le poche opere che ci sono pervenute, sia assolutamente significativa. Si tratta per lo più di ritratti famigliari in cui emerge la qualità e la sensibilità del giovane pittore. Tra i quadri conservati spicca il ritratto della sorella Orsola in abiti da odalisca, custodito gelosamente da Stefano Levi Della Torre 26.
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1876 si trovava a Roma per ricostruire la sezione internazionalista locale. L’amicizia con Cafiero sarà, come si vedrà più avanti, fondamentale per la vita di entrambi. Tuttavia dopo pochi mesi di permanenza a Roma, probabilmente a causa delle pericolose frequentazioni fuori dalla caserma, Della Torre veniva trasferito a Pavia. Il distacco da Cafiero, dagli internazionalisti romani e la misura presa dall’esercito non impedirono la sua evoluzione politica. Una volta arrivato a Pavia, infatti, dopo qualche mese era già in contatto con gli internazionalisti locali e partecipava alla fondazione di una sezione dell’Internazionale. In coincidenza con i preparativi del moto del Matese (che sarà il grande tentativo insurrezionale degli anni Settanta), Della Torre veniva accusato di propaganda sovversiva all’interno del suo reggimento. Processato assieme ad altri compagni del circolo di Pavia verrà assolto con dichiarazione di non luogo a procedere, anche se l’intera faccenda gli costò la degradazione a soldato semplice, qualche mese di carcere militare e infine la procrastinazione del congedo 28. Conclusa l’esperienza del militare rientrava in Alessandria con un curriculum da militante di tutto rispetto. Da quel momento la sua esistenza si legherà indissolubilmente con le vicende dell’Internazionale italiana.
Studi e ricerche
L’internazionale in Alessandria Una volta rientrato in città si era presto avvicinato alla Società operaia dei cappellai della Borsalino e con alcuni di loro - Fongi, Giaccheri e Raffale – aveva fondato nell’ottobre del 1878 un Circolo di propaganda socialista. La Borsalino era in quel momento la più grande industria della città, “vanto di Alessandria e d’Italia” 29, con esportazioni in tutto il mondo. Il suo stabilimento, fondato nel 1857 da Giuseppe e Lazzaro Borsalino, sorgeva nei pressi della stazione ferroviaria e poteva contare negli anni Settanta circa un centinaio di operai cappellai. Questi avevano costituito una Società operaia dedita principalmente al mutuo soc18
corso. Un mese dopo la fondazione, il circolo scriveva alla “Plebe” di Milano dei successi che la propaganda stava riscuotendo tra gli operai, nelle officine, nelle adunanze e nei convegni privati. Numerosi aderivano al circolo; la propaganda che non poteva contare su organi di stampa propri, si svolgeva per lo più oralmente, nelle osterie, nelle officine, nei luoghi d’incontro abituali 30. Un nucleo di simpatizzanti dell’Internazionale cominciava, quindi, a formarsi proprio all’interno della Società operaia dei cappellai; eccone brevemente una descrizione. Il presidente della Società, Giacomo Fongi, dal baffo castano chiaro e la barba leggermente incolta che gli contornava il viso pallido, era considerato molto pericoloso come agitatore di scioperi e caratterizzato da una volontà distruttrice: “Vorrebbe che tutto fosse distrutto” si scrive in un rapporto di polizia a fianco al suo nome 31. Giuseppe Rognone (o Rognoni) era “piuttosto alto”, con una barba bionda a pieno viso e pareva “molto influente coi suoi compagni, inquieto e uomo d’azione” 32. Francesco Pistarini, detto Spartaco, non sembrava troppo pericoloso e per la polizia non era troppo fermo nelle sue posizioni, sebbene ci tenesse a mostrarsi intransigente; era, infatti, per la Questura “leggero di mente ma ostinato a farsi credere un temibile avversario”. Luigi Massa, non particolarmente temuto, ma profondamente triste, scontento della sua condizione di miseria e con un notevole spirito di rivincita e riscatto: “Uno tra i più malcontenti del suo stato, vorrebbe essere ricco senza lavorare e perciò grida la croce addosso a tutti gli abbienti, al governo e a chi comanda” 33. Sono tutti giovani tra i venti e i trent’anni e dalla sommaria descrizione della polizia dei veri e propri révoltés. Quasi subito l’attività del circolo fu interrotta da alcuni arresti. Durante uno sciopero dei cappellai di Voghera era stato assaltata la polveriera di Alessandria (il deposito di armi dietro la stazione ferroviaria) con l’intento di rubare armi e esplosivi come supporto alla radicalizzazione della protesta: il sospetto cadeva proprio su Della Torre e compagni 34. Dopo numerose perquisizioni venivano arrestati Della Torre, Fongi e Rognone con l’accusa di “cospirazione diretta ad eccitare i proletari alle armi contro i pos19
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sidenti, nonché di mancato assassinio” 35. Restarono, quindi, in carcere per circa tre mesi, per essere rilasciati il 30 novembre 1879 con dichiarazione di “non luogo a procedimento” 36. Gli operai della Borsalino accolsero i giovani scarcerati con un banchetto di festeggiamento 37. Gli stessi operai nei giorni seguenti verranno schedati scrupolosamente grazie alla collaborazione tra la fabbrica e le forze dell’ordine 38. Dopo questi fatti la situazione alessandrina e in particolare l’operato di Della Torre saranno seguiti con estremo interesse dallo stesso ministero dell’Interno 39. Della Torre per conto suo continuava l’attività di agitatore all’interno del circolo di propaganda socialista con riunioni, ricorrenze (quella della Comune di Parigi il 18 marzo di ogni anno) e la diffusione di opuscoli. Il Prefetto nel frattempo comunicava la viva preoccupazione dell’apparato statale di fronte al nuovo tipo di propaganda che “non avviene tramite le società operaie, che tendono a svilupparsi nell’ambito delle loro norme statutarie, ma nelle gite a diporto, nel vicendevole conversare, nelle conventicole ai pubblici esercizi […] Quando a gente di poca levatura quali sono gli operai si fa risuonare agli orecchi che la proprietà così come oggi è ripartita costituisce la massima delle ingiustizie, che il capitale tiranneggia ed opprime sfruttando a proprio ed esclusivo vantaggio il prodotto delle loro braccia e dei loro sudori, senza di cui la società stessa non esisterebbe, non mi sorprende che gli operai riescano a persuadersi che essi sono la chiave di volta e che bisogna presto finirla con siffatto stato di cose e procurare che cessi lo squilibrio e ciascun prenda al comune banchetto la parte che gli spetta” 40. Per dare un’idea di come le istituzioni temessero l’azione politica di Della Torre, basterà citare il complesso intreccio di controlli che suscitò un semplice biglietto distribuito a Alessandria nel marzo del 1881. In questo biglietto delle dimensioni di un pacchetto di sigarette, si promuoveva il festeggiamento, in Piazzetta della Lega, dell’anniversario della Comune di Parigi 41. La polizia cominciava subito una caccia all’uomo, al fine di trovare i responsabili del biglietto, andando per osterie, botteghe, società operaie, e interrogando chiunque ne fosse venuto in contatto. Questura, 20
Prefettura, carabinieri, coordinati dal ministero dell’Interno, nonostante le scrupolose indagini non erano però riusciti nell’intento dichiarato di incastrare Della Torre e compagni 42. Della Torre collaborava nel frattempo con “La Plebe” dove apparivano le sue lettere di denuncia sulla condizione miserevole dei lavoratori alessandrini 43. Da queste lettere, scritte per il giornale milanese, traspare l’immagine di una realtà locale a dir poco miserevole: massacranti ore di lavoro, il flagello della pellagra, le baracche dove “dormono ammonticchiati come le bestie 4 anche 6 individui sopra giacigli che i cani dei ricchi rifiuterebbero” 44, e il prelibato nutrimento con “certi pesciolini puzzolenti pescati nelle torbide acque d’un canale che scorre vicino al loro accampamento” 45. Nel dicembre del 1880 Della Torre si trovava, quindi, a Chiasso in qualità di rappresentante della sezione alessandrina dell’Internazionale per partecipare al III° Congresso della Federazione dell’Alta Italia. Il congresso, nato per iniziativa dei milanesi, cercava di rilanciare l’opera dell’associazione dopo le polemiche interne e la persecuzione poliziesca seguita al moto del Matese. Nel suo corso a cui parteciparono i rappresentanti di numerose sezioni dell’Internazionale 46, si delinearono le basi per una nuova impostazione mentre il gruppo degli esuli luganesi rappresentati da Cafiero avevano tentato una posizione di intransigenza rivoluzionaria che avrebbe chiuso le porte a chi sosteneva altri mezzi di lotta per l’emancipazione umana 47. Nonostante l’amicizia con Cafiero, Della Torre, come confermerà il resoconto che fece a Anna Kuliscioff il giorno seguente, aveva sostenuto insieme con i milanesi l’idea dell’apertura; prendeva inoltre l’incarico di compilare per la federazione un programma politico rivolto agli operai senza lavoro 48.
“La miseria” e la sconfitta Le persecuzioni delle istituzioni del regno non tardarono presto a dimostrare la loro efficacia. Nel settembre del 1881, infatti, 21
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Della Torre rimaneva vittima di una vera e propria operazione di polizia internazionale. Quest’ultima era il frutto di una serie di rapporti diplomatici tra i governi europei, in particolare tra il governo italiano e il governo svizzero. Da mesi le autorità elvetiche venivano spinte dai gabinetti europei a risolvere il problema “Cafiero”. Si voleva impedire che Cafiero fosse in contatto con i militanti italiani allontanandolo dal Canton Ticino. C’era il timore che l’Internazionale potesse dar vita ad un moto rivoluzionario in Italia e da lì propagarsi nel resto del continente (si noti che nel marzo era stato assassinato lo zar Alessandro II). Per alimentare la pressione sul governo federale svizzero il governo italiano andava sostenendo che Cafiero stesse da tempo pianificando un moto insurrezionale e che a tal scopo stesse introducendo armi nel suolo italiano 49. L’occasione si presentò nei primi giorni di settembre 1881 quando Della Torre (anch’egli come Cafiero considerato ormai tra i più pericolosi internazionalisti italiani) si recava a fargli visita a Lugano insieme ad alcuni compagni 50. Verranno arrestati la notte stessa dalle autorità elvetiche con la pretestuosa accusa di fabbricare bombe e di voler introdurre armi nel territorio italiano. Nonostante la scrupolosa perquisizione non venivano però ritrovate né armi né esplosivi 51. Ciò che invece risultò efficace è l’effettiva riuscita dell’operazione internazionale. Cafiero, infatti, di lì a poche settimane partì per Londra (non sentendosi più al sicuro), mentre Della Torre, consegnato alle autorità italiane, veniva ammonito dal Pretore di Alessandria e intimato a non procedere più nella propaganda di idee sovversive. Un documento ritrovato nell’archivio della Prefettura di Parigi permette di avanzare un’altra ipotesi “sinistra”. In questo documento si parla dell’arresto di Cafiero e Della Torre a Lugano e tra le altre cose si segnala la presenza di un informatore della polizia. L’informatore, secondo tale rapporto sarebbe Cesare Mongini, il quale aveva accompagnato Della Torre nella visita a Cafiero. Il fatto che qualcuno avesse informato la polizia dell’incontro tra Della Torre e Cafiero risulta evidente dalle numerose comunicazioni tra la Prefettura di Alessandria e il ministero, informatissimi 22
sui loro spostamenti. Non è facile però affidarsi a un semplice rapporto della polizia francese per individuare chi aveva venduto i compagni. Nonostante la figura di Mongini come informatore permetterebbe di avanzare alcune ipotesi sulla diffusione del socialismo nell’alessandrino, sarebbe opportuno poter disporre di elementi più documentati 52. Tornando al viaggio di Lugano possiamo aggiungere che il motivo dell’incontro con Cafiero era stato in realtà la fondazione di un nuovo giornale settimanale. Questo periodico diretto da Della Torre doveva uscire in Alessandria e avrebbe avuto la partecipazione redazionale di Cafiero. Il giornale intitolato “La Miseria”, uscì effettivamente il 6 novembre 1881 e subito venne colpito dall’ordinanza di sequestro. Pochi erano riusciti a leggerlo: si trattava del primo giornale comunista-anarchico della città. È un giornale importante per la vita di Della Torre. Il giorno dopo, infatti, sarà costretto a fuggire a Nizza per evitare l’arresto. Il processo, che si concluderà con una condanna in contumacia a tre anni di reclusione per reato di stampa, lo terrà lontano dall’Italia per almeno quattro anni, scollegandolo definitivamente dalla scena politica locale. Dal giorno della sua fuga le notizie sul suo conto sono pressoché inesistenti. Sappiamo che il ministero dell’Interno continuava a segnalarlo a Nizza fino al 1882; che poi nel gennaio 1885 venne arrestato a Ventimiglia mentre cercava di rientrare in Italia e, trasferito nel carcere di Alessandria, scontò con buona probabilità l’intera pena. Il disegno del governo di mettere a tacere Della Torre si era dunque compiuto. Dal 1878, dopo il militare, era stato sottoposto a continua sorveglianza. Dopo tre anni di perquisizioni, controlli e arresti il pericoloso internazionalista alessandrino veniva messo fuori gioco per sempre. L’ultimo atto come abbiamo visto coincide con il sequestro, il giorno stesso della sua apparizione, della “Miseria”. L’ammonizione seguita all’arresto a Lugano era servita da pretesto e le autorità non avevano fatto altro che attendere la mossa successiva 53. Anche Della Torre poteva aspettarsi un simile trattamento e se portò a termine il giornale e la stampa non fu per 23
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ingenuità quanto per estrema coerenza. Bisognava andare fino in fondo, come afferma citando P. L. Courier: “Lasciate dire, lasciatevi biasimare, condannare, imprigionare, lasciatevi impiccare, ma fate palese il vostro pensiero” 54. Nonostante l’assenza di diffusione nel territorio, è tuttavia interessante per chiarire alcune delle idee di Della Torre presentare brevemente il contenuto di questo sfortunato giornale. “La Miseria” usciva in un momento particolare, quando da più parti si cominciava ad abbandonare l’idea di rivoluzione, quando prendeva piede l’idea che il socialismo potesse essere affare di riforme, lenta evoluzione priva di fratture che avrebbe portato dolcemente l’umanità alla sua definitiva liberazione. Si cominciava a dividere socialismo e rivoluzione, fino a quel momento una coppia indissolubile. La rottura di quest’armonia che pareva porsi nei semplici termini dell’allargamento ai più moderati, si rivelerà come il luogo privilegiato di una polemica scissionista. L’incrinatura del piano voluta da Andrea Costa nei primi anni Ottanta porterà col tempo gli internazionalisti italiani verso prospettive riformistiche. La rivoluzione, da istanza romantica e risolutrice, diventerà sempre più impalpabile, sempre più lontana dal presente, relegata in un futuro sicuro e necessario, ma del quale non si intravedeva la concretezza. Spinta a funzione semplicemente ideologica, come concetto necessario nell’economia delle idee, finiva per divenire oggetto di dibattito sulla sua datazione storica. Nella “Miseria” si ritrova, invece, l’appello incessante alla rivoluzione violenta, unica via capace di risolvere il complicato intreccio di ingiustizie presenti: l’umanità, si legge, “ha sinora camminato passando attraverso a fiumi di sangue. Essa deve ancora affogare nel sangue le miserie, le iniquità, le turpitudini del nostro secolo” 55. Il giornale si presentava dunque non solo come mezzo di diffusione di idee ma come strumento di provocazione, e soprattutto di azione. Come ricordava Della Torre: “sarà, per il popolo, guida ed eccitamento alla lotta cruenta per la conquista della massima libertà, del massimo benessere” 56. Composto da un unico foglio piegato in due, conteneva due articoli, tre sezioni dedicate ai martiri della miseria, alla miseria 24
locale, e un diario delle perquisizioni. Il primo articolo sviluppava il programma generale del giornale: dopo aver presentato la miseria come un delitto sociale e nei borghesi i suoi responsabili, esponeva i caratteri essenziali del comunismo anarchico, del nuovo principio regolatore che la rivoluzione sociale avrebbe dovuto realizzare 57. Il secondo pezzo, invece presentava un progetto per la costituzione di una “società di operai senza lavoro” 58. L’idea era di trasformare gli ultimi, i più esclusi dal sistema capitalistico, in un’avanguardia rivoluzionaria. Lo scopo era il medesimo del giornale ovvero proporre costantemente la questione della miseria con ogni possibile mezzo. La società degli operai disoccupati doveva occuparsi di disturbare il quieto vivere dei borghesi, con la loro semplice presenza 59. Il simbolo in tutte queste manifestazioni pubbliche doveva essere, al posto delle bandiere, “un paio di sozze bracacce sfondate: l’insegna dei pezzenti” 60. Questa provocatoria società di “pezzenti” non vedrà mai la luce e rimarrà insieme al giornale l’ultima traccia dell’attività politica di Della Torre in Alessandria; mentre sullo sfondo della sua fuga restava l’amara rappresentazione del tristemente noto quartiere dell’Arzola 61. La leggenda famigliare vuole che Natale Della Torre, uscito di galera, andasse nel povero ghetto ebraico di Vercelli e sposasse la ragazza ebrea più povera, Ernestina Foa (probabilmente già malata di tubercolosi), con la quale ritornò a Nizza. Ernestina gli darà due figli, Michel e Giuseppe, e morirà poco dopo. Della Torre rimasto allora vedovo trascorse parte del suo tempo a Nizza per poi trasferirsi definitivamente a Parigi. La sua scomparsa dagli archivi della Prefettura e del ministero dell’Interno testimonia il fatto che il suo ruolo pubblico si ridimensionò quando si ritrovò padre di due figli in un paese straniero.
Nella memoria Non ci resta che presentare ora alcuni passaggi tratti dalle memorie famigliari e che hanno contribuito alla formazione del 25
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carattere leggendario di Natale Della Torre. “Mi chiedo spesso che peso la leggenda di zio Natale abbia avuto sulla mia formazione politica”, scrive Vittorio Foa ne Il cavallo e la torre 62. Natale Della Torre era infatti il prozio di Vittorio Foa 63. Non ebbe mai l’occasione di incontrarlo poiché da tempo ormai questi non metteva piede nel territorio italiano, trascorrendo in assoluta povertà gli ultimi anni della sua vita a Parigi. Il vero incontro tra Foa e Della Torre avvenne in circostanze affatto differenti, avvenne nelle pause, nelle tante conversazioni con la madre Lelia, e fu l’incontro con un mito. Un incontro a più puntate, nelle quali la madre, “con tenerezza e ammirazione”, raccontava alcuni momenti della vita tormentata dello zio “alto e biondo, bellissimo”. Proprio la ricerca di una tradizione politica all’interno della sua famiglia lo spingeva ad interrogarsi sulla vita di Natale. Non era tanto la professione, quanto la passione per la politica che lo attirava. Ed è infatti un insegnamento morale quello che Foa riceve dal mito dello zio Natale: “Non un’eredità politica, ma una forte sollecitazione morale mi è invece arrivata tramite mia madre, nata ad Alessandria da una famiglia di nome Della Torre. […] Mi chiedo spesso che peso la leggenda di zio Natale abbia avuto sulla mia formazione politica. Credo che l’influenza sia stata nulla sul piano dell’ideologia e degli indirizzi politici, sia invece stata grande sul piano morale, anche se non ho mai pensato di adottare il suo modello. Ma ho imparato il rispetto per il versante esposto della società e la coerenza tra il pensiero e l’azione […] nessuna influenza reale nel campo delle idee, molta influenza nel campo dell’educazione morale, dello spirito di sacrificio, della militanza” 64. Nulla quindi da un punto di vista ideologico e della pratica politica, ma una grande sollecitazione morale, le virtù della politica. La comunicazione tra queste due generazioni diviene possibile quindi a livello morale. Proprio questo aspetto leggendario e mitico hanno permesso a Natale Della Torre di rimanere nella memoria, di non perdersi nell’oblio. Questa cristallizzazione identitaria in un essere morale gli ha consentito la sopravvivenza, completando la trasformazione da uomo in carne ed ossa ad un complesso mora26
le di valori politici positivi: dedizione alla causa, coerenza nelle idee, abnegazione, sacrificio. Se da una parte Vittorio Foa interpreta l’esistenza di Natale Della Torre all’interno della genesi del sua militanza politica, altra sarà l’immagine che i nipoti conservano del loro nonno “bizzarro”. Claude Della Torre, per esempio, racconta delle passeggiate lungo la Senna dove il nonno passava le sue giornate intento a raccogliere in un taccuino espressioni, movimenti, pensieri di donne e bambini. Il suo racconto come pure quello della nipote Nelly è centrato sull’immagine bizzarra del nonno. Così numerosi sono gli episodi particolari con cui si strutturano i ricordi dei testimoni. Tra gli altri, il fatto che soleva prendere a sassate i parenti che gli si avvicinavano per fotografarlo. A conferma del particolare destino del vecchio internazionalista, Claude aggiunge che si rammendava i vestiti da solo, che riciclava le carte oleate del mercato per scambiarle con un po’ di frutta, così come rifiutava il denaro che la famiglia da Alessandria gli spediva, conscia delle sue difficoltà economiche. Non si allontanava mai dal suo quartiere, e dal Petit Hotel du Jura dove era diventato famoso; la sua barba lunga era stata all’origine di un soprannome, Père Noël, nomignolo che ci rimanda alla stravaganza di un personaggio, buono, gentile, cordiale, e contemporaneamente lontano dal mondo e dagli uomini. Claude racconta commosso che un giorno, sempre sul Quai des Celestins gli aveva insegnato il testo della nona sinfonia di Beethoven, mentre guardando il cielo si perdevano nel guardare le stelle. Mi confida che gli ha trasmesso i valori dell’amore per il prossimo, della giustizia, dell’uguaglianza, l’odio per “le mur de l’argent” 65 come sempre gli andava ripetendo. Anche Nelly, al pari del fratello Claude, ha un affettuoso ricordo del nonno internazionalista. Era sicuramente un personaggio bizzarro, con quella barba lunga e i capelli altrettanto lunghi, che rifiutava ogni sorta di contatto con il denaro. Nelly racconta di come un giorno Michelle, la sorella, si era spaventata all’improvvisa visione del nonno, scappando lungo il Boulevard Saint Michel. Un altro giorno passeggiando per Parigi lui è attirato dal27
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l’acqua che scivola limpida e fresca lungo i marciapiedi della città. Si ferma e le dice: “Non vedi com’è bella l’acqua dei ‘ruisseaux’” 66. Si toglie le scarpe e prende a camminare a piedi nudi nell’acqua. Era dunque così che Natale Della Torre, giovane internazionalista alessandrino, aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita conclusasi il 5 gennaio 1936, quando, veniva ritrovato morto nella sua piccola e fredda stanza del Petit Hotel du Jura. Qualche giorno dopo in un necrologio apparso a Genova si leggeva: ”In una modesta camera di uno di quei palazzi che guardano la Senna, di fronte all’isola della Citè, è morto un vecchio più che ottantenne, un italiano che se fosse ritornato improvvisamente alla città dove aveva vissuto la giovinezza ardente, forse non avrebbe trovato alcuno che lo riconoscesse. Eppure Natale Della Torre era stato fra il 1880-1885 una delle inquiete personalità della nuova Italia. Uno di quei borghesi che parevano accogliere nell’anima assetata di bene e di azione, tutta l’ansia del popolo, tutto il tormento degli ignoti e dei miseri. La vita di questo strano uomo è nel suo disordine romanzesco, la vita generosa che la borghesia italiana ha avuto negli anni che hanno seguito la conclusione del Risorgimento.[…] Ora la pace gli è venuta dalla morte, che ha chiuso la sua strana avventura terrena, lasciando in chi lo ha conosciuto un senso di stupore e di rimpianto. Privilegio di coloro che nel sacrificio vissuto hanno servito un’idea” 67.
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NOT E * Incipit del giornale di Natale Della Torre, “La Miseria”, il corsivo è dell’autore. Un esemplare si trova nell’Archivio di Stato di Alessandria [d’ora in poi ASAL], fondo Tribunale, volume 2946, fascicolo 853, relativo a “Della Torre Natale”. 1. V. Foa, Lettere della giovinezza: dal carcere, 1935-1943 , a cura di Federica Montevecchi, Torino, Einaudi, 1998; p. 161. 2. Discendono entrambi come si vedrà dai Della Torre.
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3. Il suo vero nome anagrafico era Nathan sebbene tutti, famigliari, polizia, compagni di militanza lo conoscevano con il nome di Natale con il quale lui stesso firmava articoli, petizioni e lettere. 4. Per Internazionale antiautoritaria si intende di fatto l’Internazionale italiana tout court. L’influenza di Bakunin come promotore dell’Internazionale in Italia darà a quest’ultima un connotato libertario. È importante sottolineare che sebbene l’Internazionale avesse smesso di funzionare dal 1872 e fosse ufficialmente sciolta dal 1876, la corrente antiautoritaria non riconobbe mai la sua fine e continuò a organizzare congressi a suo nome. 5. S. Ortona, dattiloscritto, fondo Renato Della Torre. 6. A. Milano, Storia degli ebrei in Italia , Torino, Einaudi,1992; p. 307. 7. Idem; p.306. 8. Idem; p.307. 9. P. Levi, Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1994; pp. 17-18. Nonna di Primo Levi fu Adelina sorella di Natale Della Torre. 10. A. Cavaglion, Il socialismo ci renderà felici? Ebraismo e cultura socialista in Piemonte, in P. Audenino (a cura di), Democratici e socialisti nel Piemonte dell’Ottocento, Milano, Franco Angeli, 1995; p. 402. 11. cfr. C. Manganelli, La nascita del movimento operaio in Alessandria: alle origini delle società operaie, in “Quaderno di storia contemporanea”, Alessandria, ISRAL, 1986, a. IX, n. 17; pp. 18-19. 12. R. Botta, Alle origini dell’organizzazione operaia in Alessandria: dal mutualismo alla Camera del Lavoro, in “Quaderno di storia contemporanea”, Alessandria, ISRAL, a. VIII (1985), n. 15; pp. 49-80. 13. Manganelli C., Mantelli B., Colera e consenso. Le epidemie di colera in Alessandria dal 1849 al 1855 , in “Quaderno di storia contemporanea”, Alessandria, ISRAL, a. IX, 1986, n. 18; p. 18. 14. Cfr. C. Manganelli, La nascita del movimento operaio in Alessandria: alle origini delle società operaie, cit. 15. Cfr. idem 16. Dopo circa vent’anni dalla morte, era stata fatto scolpire un monumento a ricordo dell’infame assassinio. Dapprima esposto nel cimitero, esso era stato trasferito in Piazzetta della Lega, luogo di ritrovo usuale della cittadinanza. La dislocazione aveva un chiaro significato simbolico volto a legittimare la dinastia sabauda come erede dell’esperienza risorgimentale. A proposito del mito di Vochieri cfr. C. Manganelli, Il 1848 in
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Alessandria , in “Quaderno di storia contemporanea”, Isral, X (1987); pp. 39-56. 17. Eucardio Momigliano, dattiloscritto tratto da “Il Lavoro”, Genova, 1936, senza indicazione di data, fondo Renato Della Torre. 18. Giornale socialista fondato da Enrico Bignami con sede prima di Lodi, poi trasferito nel 1875 a Milano. 19. “L’Avvisatore Alessandrino”, 7 luglio 1874. 20. Con buona probabilità frequentò i corsi del maestro Pietro Sassi insieme al compaesano Cesare Tallone con il quale fu ammesso successivamente all’accademia di Brera. Cfr. G. Tallone, Cesare Tallone, Milano, Electa, 2005. 21. Per un resoconto dettagliato dello sciopero si vedano i numeri dell’“Avvisatore alessandrino” dell’agosto 1880. 22. Come attestano le lettere pubblicate su “La Plebe” di Milano, a partire dal n. 33 del 16 agosto 1880. 23. Si trattava di un periodico democratico-radicale socialisticheggiante che meriterebbe un’analisi più accurata. Per gli sviluppi della polemica si vedano i numeri de “Il Paese” di maggio-giugno 1881. 24. Tra tutti Cesare Mongini (si veda oltre) più volte segnalato dalla Prefettura come uno dei suoi più fedeli compagni. 25. ASAL, Fondo Tribunale, 2876, Fascicolo 704 relativo a Della Torre Natale, Verbale interrogatorio a Como, 16 settembre 1881. 26. Stefano Levi Della Torre è nipote di Clemente Della Torre fratello di Natale. Per una riproduzione dei quadri si rimanda alla Testi di laurea: Zanette, Enrico, Natale Della Torre: vita di un internazionalista , Tesi di laurea discussa all’università Ca’ Foscari, relatore prof. Levi Giovanni, 2005-2006. 27. ASAL, Fondo Tribunale, 2876, Fascicolo 704 relativo a Della Torre Natale, Verbale interrogatorio a Como, 16 settembre 1881. 28. L’intera vicenda è riportata ne “La Plebe” di Milano tra giugno e ottobre 1877. 29. L. Ratti, Origini del socialismo nell’alessandrino, Tesi discussa alla Facoltà di Lettere e Filosofia, Genova, a.a. 1968-69; p. 20. 30. “La Plebe”, n°42 del 1 novembre 1878. 31. ASAL, Fondo prefettura, I versamento, n. 68, Partiti ostili al governo 1880. 32. ASAL, Fondo prefettura, I versamento, n. 68, Partiti ostili al governo 1880.
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33. ASAL, Fondo prefettura, I versamento n. 68, Associazione Internazionale prospetti periodici, 1880. 34. Questa almeno la versione ufficiale, cfr. “L’Avvisatore alessandrino”, n. 102, 4 settembre 1879. 35. Durante l’assalto, infatti, era stata ferita una sentinella. ASAL, Tribunale di Alessandria, volume 2946, Fascicolo 853 relativo a Della Torre Natale. 36. ASAL, Tribunale di Alessandria, volume 2946, Fascicolo 853 relativo a Della Torre Natale. 37. “La Plebe”, n. 48, 7 dicembre 1879. 38. “L’Avvisatore alessandrino”, n. 142, 8 dicembre 1879. 39. Come attesta l’intensificarsi delle comunicazioni tra Prefettura e Ministero. ASAL, fondo prefettura, I versamento, n° 61, 63, 66, 67, 68. 40. ASAL, Fondo prefettura, I versamento, n°61, 1881. 41. Questo il testo del biglietto: “Venerdì, 18 marzo, dalle ore 8 alle ore 9 di sera, il popolo alessandrino è convocato nella Piazzetta della Lega (Corso Roma) per celebrare l’anniversario della Rivoluzione comunale di Parigi nel 1871 – La glorificazione della Comune è la protesta del povero che lavora contro il ricco che lo dissangua; dell’oppresso contro l’oppressore. Gli operai e gli amici della giustizia sociale non manchino alla festa dei diseredati”. È interessante notare che le 8 di sera era il momento in cui usualmente gli alessandrini uscivano a passeggiare. Il biglietto si trova in ASAL, Fondo Tribunale, 2876, Fascicolo 704 relativo a Natale Della Torre. 42. ASAL, Fondo Tribunale, 2876, Fascicolo 704 relativo a Della Torre Natale. Lettera al ministero sull’anniversario della Comune del 24 marzo 1881. 43. “La Plebe”, n. 34, 30 agosto 1879. 44. Ibidem 45. Ibidem 46. Dall’Italia, in particolare da Milano, erano arrivati: Giuseppe De Franceschi, Gnocchi-Viani, il pittore Cesare Durio, il cronista e letterato Paolo Valera, Gustavo Macchi, l’operaio Ambrogio Galli e Marchi. Dal Piemonte arrivava Della Torre rappresentante del circolo di Alessandria e un non meglio identificato rappresentante del circolo socialista di Torino. Dal Veneto, rappresentante delle sezioni venete, proviene Carlo Monticelli, e Alburno (noto per essere una spia) da Venezia. Poi il poeta Pompeo Bettini, Giuseppe Croce. Dalla Svizzera, in particolare da Lugano, sono presenti: Carlo Cafiero, uno dei leader dell’Internazionale
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negli anni Settanta; Florido Matteucci il giovane rivoluzionario, già incontrato nel ’77 in qualità di rappresentante della sezione pavese durante il II° Congresso dell’Alta Italia; sempre da Lugano erano poi presenti Egisto Marzoli e Gaetano Grassi. Erano, inoltre, convenuti tre rappresentanti della Federation Jurassienne, tali Auguste Spichigger, l’incisore litografo Alfred Jeanrenaud e Bonelli. Infine da Parigi era sceso Tito Zanardelli in veste non ufficiale. Sul numero e i partecipanti vedi: R. Zangheri, Storia del socialismo italiano. Dalla rivoluzione francese a Andrea Costa , Einaudi, Torino, 1993; vol. I, p.507; e le carte custodite presso gli Archives de la prefecture de Paris, Ba 438, L’Internationale en Suisse (1866-1883). 47. Per una ricostruzione del congresso si veda G. Manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi , Roma, Ed. Riuniti, 1973. 48. In quell’occasione Anna Kuliscioff lo descriverà come un uomo molto risoluto e preparato, un vero uomo di partito. A. Kuliscioff, Lettere d’amore a Andrea Costa 1880-1909 , a cura di P. Albonetti, Milano, Feltrinelli, 1976; p. 193. 49. In particolare, dal marzo 1881, il Dipartimento Federale di Giustizia e Polizia raccomandava vivamente alle autorità ticinesi di esercitare una più stretta sorveglianza affinché non venissero portati dalla Svizzera in Italia armi, esplosivi o simili. Nell’aprile seguente, in una lettera alla deputazione ticinese presso le camere federali di Berna, si esprimeva il desiderio che, Cafiero “capace delle più arrischiate imprese, …nell’interesse dei buoni rapporti della Svizzera e del Ticino col Regno d’Italia”, venisse allontanato da Lugano e trasferito in altri cantoni non confinanti con l’Italia. “Questa misura farebbe negli attuali momenti un ottimo effetto presso i Gabinetti Europei”. Dossier Cafiero, a cura di G.C. Maffei, Bergamo, Max Nettlau editrice, 1972; p. 18. 50. Cesare Mongini alessandrino, Camillo Ferrua e Emilio Pezzetti torinesi. 51. La perquisizione accurata non riusciva a rinvenire che due coltelli e una soluzione chimica che si verificò un normale lassativo. Cfr. Dossier Cafiero, a cura di G.C. Maffei, cit. 52. Il rapporto ritrovato nell’archivio della Prefettura di Parigi riporta quanto segue: “Ils [Cafiero, Natale e gli altri] sont encore détenus à Lugano sauf Mangini [Mongini], qui a été reconduit à Milan. Le mercre-
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di 7 il se soit disant évadé, mais voici la vérité a ce sujet: Mangini [Mongini], qui est un agent secret, a vendu ses amies à la Police et on l’a fait évader. Aussi nos sections sont au courant de cette affaire a gare a lui”. Archives de la Préfecture Paris, Ba 438, L’Internationale en Suisse (1866-1883), 17 settembre 1881. Cesare Mongini sarà negli anni successivi fondatore del Circolo democratico Andrea Vochieri e designato dal Prefetto come l’animatore del movimento internazionalista dopo l’allontanamento di Della Torre da Alessandria. In particolare lo studioso R. Botta ritiene che proprio questo circolo politico sia all’origine insieme al Partito Operaio del socialismo nell’alessandrino. Se è vero che il socialismo ad Alessandria si è innestato nella forte tradizione democratica cittadina attraverso le società operaie, il rapporto della polizia francese permetterebbe di avanzare un’altra ipotesi: la diffusione del socialismo nell’alessandrino fu possibile grazie all’eliminazione di un attore dinamico e “estremista” (Natale Della Torre) ad opera di uno dei suoi protagonisti (C. Mongini) in concerto con le forze dell’ordine. Per quanto riguarda l’origine del socialismo nell’alessandrino si vedano: R. Botta, Alle origini dell’organizzazione operaia in Alessandria: dal mutualismo alla Camera del Lavoro, in “Quaderno di storia contemporanea”, Alessandria, ISRAL, n. 15, a. VIII, 1985; pp. 49-80; F. Bove, Diffondere il veleno. Giusto Calvi e gli inizi del socia lismo a Va lenza , in “Quaderno di storia contemporanea”, Alessandria, ISRAL, n. 15, VIII, 1985; pp. 17-48; Manganelli C., La nascita del movimento operaio in Alessandria: alle origini delle società operaie, in “Quaderno di storia contemporanea”, Alessandria, ISRAL, n. 17, a. IX, 1987; pp. 17-39; L. Lorenzini e M. Necchi, Alessandria storia e immagini , Alessandria, Il Quadrante, 1982; e sul contesto politico radicale degli anni Sessanta C. Manganelli, B. Mantelli, Colera e consenso. Le epidemie di colera in Alessandria dal 1849 al 1855 , in “Quaderno di storia contemporanea”, Alessandria, ISRAL, 1986, n. 18, a. IX; pp. 15-28. 53. Il giorno dell’arresto a Lugano, infatti,veniva sequestrata una copia del volantino di presentazione del nuovo periodico. Il volantino dichiarava nello scopo principale della “Miseria” quello di indicare la via più breve all’emancipazione dei salariati. Archivio federale svizzero, fondo E21, Polizeiwesen (1848-1930), serie 5: Politische Polizei 1848-1925, n° 5697. 54. “La Miseria”, ASAL, fondo tribunale, Volume 2946, Fascicolo 853 relativo a Della Torre Natale.
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55. idem 56. idem 57. “Questo principio è appunto quello dell’eguaglianza e della libertà, che può diversamente esprimersi, del Comunismo e dell’Anarchia. Ogni essere umano non può dare più di quanto consentono le proprie forze, sì fisiche che intellettuali, ma ognuno ha diritto di soddisfare ai propri bisogni, perciò la società umana deve riorganizzarsi per garantire l’esistenza di tutti i suoi membri e questa riorganizzazione basata sulla comunione dei beni e dei prodotti del lavoro e sulla solidarietà umana, distruggendo l’attrito degli interessi, distruggerà altresì l’oppressione dell’uomo sull’uomo, ne nascerà così l’anarchia, cioè la libertà assoluta nell’umano consorzio”. “La Miseria”, ASAL, fondo tribunale, Volume 2946, Fascicolo 853 relativo a Della Torre Natale. 58. Questo progetto era in linea con le risoluzioni prese al congresso di Chiasso del dicembre 1880, dove si decise che era compito dell’Internazionale quello di occuparsi degli operai senza lavoro. 59. “Nelle feste pubbliche, nei comizi ed in ogni assemblea popolare, presentarsi in corpo, importuni rappresentanti della fame, spettri disturbatori del piacere, dolore vivente che richiami la discussione sull’ordine del giorno: La Miseria.” “La Miseria”, ASAL, fondo tribunale, Volume 2946, Fascicolo 853 relativo a Della Torre Natale 60. Questo progetto era in linea con la nota “propaganda col fatto” che nell’ampia concettualizzazione originaria consisteva anche in semplici “performace” provocatorie. Più avanti la stessa idea fornirà il quadro ideologico degli attentati dinamitardi anarchici degli anni Novanta. 61. “VIA ARZOLA — In questa via stretta, tortuosa, mal lastricata hanno la loro abitazione molti operai. Sono catapecchie quasi crollanti co’ poggiuoli di legno marcio prospicienti verso sudici cortili e le finestre senza vetri; son cameraccie umide a pian terreno ove dimorano i figli del lavoro. Sappiamo di certe famiglie d’operai composte di quattro od anche sei persone alloggiate in una sola camera e che dormono in un sol letto. La miseria non abbandona mai quei poveri tuguri. La si fa sentire d’inverno come d’estate, la si scorge sui pallidi volti dei lavoratori, sugli abiti logori di cui vanno coperti, sulle scarne membra de’ loro bambini — Ah, non c’è miseria in Alessandria, non vi si soffre la fame? Abbietti speculatori, luridi strozzini che pelate il prossimo col cento per cento, pingui capitalisti che rubate il pane al povero diseredato, degnatevi di varcar la soglia
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di quei poveri abituri, entrate all’osteria del Picolla e del Bersagliere, ove poveri mendicanti, rivenditori gironvaghi, operai disoccupati passano la notte su sacchi di paglia, dove si pranza per otto soldi e si dorme per 10 centesimi, e sosteneteci, se l’osate, che la miseria non esiste, che la fame è una pura invenzione di quei fanatici sovvertitori, di quei pazzi che si fan chiamare socialisti. Ma i ricchi han schifo della canaglia; essi non accostano il povero che per insultarlo colla loro elemosina dopo d’averlo derubato nel lavoro; essi che crepano d’indigestione non posson credere al martirio del digiuno? E sia pure. Non è però lontano il giorno in cui gli oppressi si solleveranno e faran sentire, a colpi di fucile, se essi hanno o no il diritto di vivere.” “La Miseria”, ASAL, fondo tribunale, Volume 2946, Fascicolo 853 relativo a Della Torre Natale. 62. V. Foa, Il cavallo e la torre, Torino, Einaudi, 1991; p. 12. 63. Figlio di Lelia Della Torre, figlia di Vittorio Della Torre, fratello di Natale. 64. V. Foa, Il cavallo e la torre, cit.; pp. 8-12. 65. Il muro del denaro. 66. Tipici scoli d’acqua utilizzati per la pulizia del suolo pubblico. 67. Eucardio Momigliano, dattiloscritto tratto da “Il Lavoro”, cit.
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L’URSS al Congrès international des écrivains pour la défense de la culture
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Andrea Mariuzzo
Il Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, svoltosi al Palais de la Mutualité di Parigi nel giugno del 1935, è da sempre considerato un momento particolarmente significativo, quasi un simbolo dell’impegno politico degli intellettuali tra le due guerre e della faticosa ricerca di una risposta unitaria sul fronte antifascista 1. Nonostante ciò, i riferimenti ad esso si sono fatti negli ultimi anni piuttosto rari. La convocazione venne promossa e firmata da alcuni scrittori e artisti attivi in Francia, appartenenti a varie tendenze politiche ma genericamente accomunati su posizioni antifasciste: essi avevano deciso di “riunire un congresso per esaminare e discutere i mezzi per […] difendere” la cultura, preoccupati dai “pericoli che, in un certo numero di paesi, [la] minacciavano”: nel corso delle sedute si sarebbe discusso di numerosi temi, dall’“eredità culturale”, alla “dignità del pensiero”, al “ruolo dello scrittore nella società” 2. Per quanto il PCF non abbia svolto ufficialmente alcun ruolo organizzativo, che anzi vide l’impegno di una pluralità di soggetti solo in parte assimilabili agli ambienti del comunismo francese, le associazioni legate all’Unione sovietica e alla politica del Comintern risultarono particolarmente decisive 3. In primo luogo, tra i principali e più influenti organizzatori figuravano Henri Barbusse, André Gide, Paul Vaillant-Couturier, Paul Nizan, Louis Aragon, e André Malraux 4, membri di spicco dell’AEAR, la sezione francese dell’Unione internazionale degli scrittori rivoluzionari, creata dagli intellettuali comunisti nel 1932 per riunire in 36
un’unica organizzazione militanti e compagnons de route 5; la rivista dell’associazione, “Commune”, fu l’organo di stampa che garantì il maggior risalto al convegno della Mutualité 6. Inoltre, l’idea stessa dell’evento e della fisionomia che esso avrebbe dovuto assumere nacquero dall’attività dello scrittore e giornalista sovietico Il’ja Ehrenburg, allora corrispondente da Parigi per l’“Izvestija” e agente al servizio del governo sovietico 7. Il ruolo che l’intelligencija legata al mondo comunista poté giocare nel Congresso per la difesa della cultura risulta pienamente comprensibile nell’ambito del contesto politico e culturale di quegli anni. A fronte di una crisi dei sistemi democratici europei che appariva strutturale e definitiva, l’esperienza politica e sociale dell’URSS appariva l’unica solida difesa contro l’avanzata dei totalitarismi di stampo fascista: anche chi non si sentiva in piena sintonia con il dirigismo e la natura repressiva del regime staliniano vedeva nel mondo sovietico un punto di riferimento di cui sempre più difficilmente si poteva fare a meno 8. D’altro canto, il fermento che l’avvento di Hitler aveva suscitato negli ambienti intellettuali apparve funzionale alle esigenze politiche del regime sovietico e del Comintern: proprio intorno 1935 si stava elaborando la “svolta” verso la politica dei “fronti popolari” di matrice antifascista, svolta che avrebbe visto il proprio coronamento nel VII Congresso dell’Internazionale comunista. Il mondo della cultura costituì per i comunisti un terreno di confronto privilegiato nella costruzione di un “fronte unico antifascista”: il convegno della Mutualité non fu un evento isolato, dal momento che nel 1932 e nel 1933 erano già stati organizzati, sempre sotto la direzione di uomini vicini all’Internazionale, i congressi ad Amsterdam e alla Salle Pleyel di Parigi, contro la guerra e il fascismo, mirati al coinvolgimento politico di intellettuali di varia estrazione su temi unitari 9. In Francia, il Partito Comunista appoggiò da subito il cosiddetto “movimento Amsterdam-Pleyel”, e in generale il suo segretario Maurice Thorez si mostrò sempre favorevole alla collaborazione con gli uomini di cultura. Quando la lotta antifascista rese ancora più necessaria una simile cooperazione, i risultati non mancarono: secondo David Caute, autore 37
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del primo grande studio sui rapporti tra mondo comunista e intellettuali antifascisti, “nessun partito beneficiò” della collaborazione degli intellettuali nella lotta antifascista, e dell’influenza che essi potevano avere sulle masse e sulle élites culturali, “più di quello comunista” 10. In particolare le organizzazioni vicine al PCF, come l’AEAR o il Comitato di vigilanza degli intellettuali antifascisti, creato a Parigi dopo la manifestazione antifascista unitaria del 12 febbraio, costituirono il luogo privilegiato di incontro e di collaborazione fra i comunisti e numerosi esponenti di quella che essi avevano spesso definito “cultura borghese” 11. Il condizionamento da parte comunista non fu senza conseguenze sullo svolgimento del congresso della Mutualité, se non altro perché, nel tentativo di garantire all’“Unione Sovietica […] una tribuna sufficientemente imponente dalla quale i suoi massimi scrittori potessero esporre i propri punti di vista”, “per una tacita regola furono esclusi […] gli avversari dichiarati dell’unità d’azione con i comunisti” e in generale gli scrittori “che erano considerati conservatori” 12. Ma alcuni studiosi, come ad esempio Roberto Castoldi, non ritengono corretto ridurre l’evento a un puro e semplice episodio di propaganda, visto che il dibattito si svolse in realtà in modo piuttosto diverso da quanto previsto dai suoi organizzatori, mostrando le contraddizioni e i contrasti interni al fronte antifascista 13. Il congresso, insomma, fu un successo sulla strada della formazione di un fronte popolare, ma fallì nel tentativo di elaborare, sul piano culturale, una riposta al fascismo unanimemente accettata. Per riassumere l’analisi proposta da François Furet, “il Partito comunista” intendeva “fare dell’antifascismo un doppio di se stesso”, nell’ambito di uno “spazio politico […] a due dimensioni”, in cui “l’antifascismo […] era incompatibile con l’anticomunismo e l’odio per Hitler era uno scherzo se si accompagnava all’ostilità per Stalin” 14; al congresso, però, non tutti si adeguarono a una simile logica, e in alcuni interventi trovarono espressione le posizioni di quelle correnti di pensiero che non rinunciavano ad abbinare alla lotta al fascismo la critica al regime sovietico. Si trattava, certo, di posizioni minoritarie negli ambienti antifascisti, e la loro espressione al congresso 38
suscitò reazioni di indignazione o venne passata sotto silenzio dai mezzi di informazione vicini ai comunisti 15, ma la loro presenza dovette apparire significativa anche agli organizzatori del convegno, che di fronte a questo genere di dissidi non ritennero opportuno dar seguito alla pubblicazione integrale degli atti del congresso, data per certa subito dopo la chiusura dei lavori 16. Nel 1936 fu pubblicata una versione russa dei dibattiti, a opera di Ivan Luppol, uno dei delegati sovietici al convegno: si trattava però di un’edizione ampiamente manipolata, scritta nel pieno periodo del terrore staliniano (di cui Luppol stesso sarebbe stato vittima). Nel 1982, in quella che allora era la DDR, Wolfgang Klein produsse poi un’edizione tedesca del congresso, anch’essa caratterizzata da importanti lacune e censure 17: non si trova, ad esempio, l’intervento di Gaetano Salvemini. Le versioni del materiale congressuale pubblicate in altre lingue (se ne contano una in spagnolo e una in giapponese) si sono basate per lo più su quest’ultima edizione. La lacuna relativa a un’edizione davvero completa degli interventi nella versione originale francese è stata colmata solo nel 2005, grazie al lavoro del gruppo di ricerca diretto da Sandra Teroni, con la collaborazione dello stesso Klein 18. Un terreno di analisi particolarmente adeguato per dare un’idea dello spirito che animò l’incontro della Mutualité e del clima in cui si svolse, ma anche dei contrasti che lo caratterizzarono, può essere quello delle prese di posizione e dei giudizi, che riguardavano direttamente l’Unione sovietica e la sua vita politica e culturale 19. La grande maggioranza degli intellettuali convenuti, anche quelli lontani dal mondo comunista, affrontarono un simile argomento mostrando di credere all’esistenza di quella terra di elezione dell’eguaglianza e dell’armonia sociale, immune alle crisi economiche e ai duri confronti sociali, descritta dai delegati sovietici e dai militanti che l’avevano visitata. Come è stato più volte ricordato, questa Russia così tranquillizzante e democratica è bene accetta perché, in quell’estate del 1935, ce n’è bisogno: ce n’è bisogno per provare a costruire una credibile 39
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coalizione internazionale, capace di contenere il dinamismo aggressivo di Mussolini, e soprattutto di Hitler; e ce n’è bisogno per poter fondere i suoi più stretti amici, i comunisti, nel corpo e nel corso tradizionali della democrazia e della sinistra francesi 20. Ma bisogna tenere conto anche degli interventi in cui si cercò di mettere radicalmente in discussione una simile immagine dell’URSS, e in cui si espressero posizioni che non erano affatto assenti dal panorama della cultura antifascista francese, anche prima del famoso Retour de l’URSS di André Gide.
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L’immagine positiva dell’URSS Come si è già accennato, a parte alcune eccezioni, “durante gli anni del Fronte popolare, l’immagine dell’URSS in Francia sembrava fissata in una serie di stereotipi favorevoli – il soldato dell’Armata rossa, il colcosiano, i grandi cantieri, le figure di Lenin e di Stalin… – che ne facevano un modello solo debolmente combattuto […]” 21. Buona parte dell’opinione pubblica di sinistra appariva affascinata dal modello concreto di un mondo, quello sovietico, che sembrava avanzare verso ordine e progresso, soprattutto se visto in contrapposizione alla decadenza socio-economica, ma anche morale, del capitalismo. Simili opinioni, del resto, apparivano suffragate dalle numerose testimonianze dirette di coloro che, spesso senza essere militanti comunisti, visitavano L’URSS e pubblicavano le loro entusiaste impressioni di viaggio: associazioni come quella degli “Amici dell’Unione Sovietica”, fondata a Parigi nel 1927 e controllata dal Comitato esecutivo del Comintern, si dedicavano alla “diffusione di un’immagine positiva del paese dei Soviet”, organizzando viaggi di singole personalità o di delegazioni, “in una cornice strutturata” per “suscitare descrizioni favorevoli della Russia”. Gli enti organizzatori si mostravano assai 40
attenti al comfort e alla gratificazione personale dei viaggiatori, che spesso erano trattati come uomini importanti e ricevuti personalmente da leader russi e visitavano il paese secondo itinerari preparati apposta per loro. L’opinione pubblica di sinistra sembrò credere all’immagine dell’URSS offerta dai visitatori inviati tramite l’AUS e altre organizzazioni orbitanti intorno al PCF: se per i comunisti “presentare un’immagine dell’URSS che non era quella del Partito, significava […] passare ipso facto […] nel campo dei nemici della Rivoluzione”, il pericolo del fascismo dilagante portò “il bisogno di credere” dei compagnons de route “a tacere certe cose viste, lette o sentite per non essere di aiuto ai nemici dei sovietici, e ad accettare lo stile sempre più trionfalistico offerto dall’URSS”, cancellando il “dubbio privato” nel “silenzio pubblico”; come avrebbe poi mostrato Gide, “era necessario rompere per avere il coraggio di testimoniare” 22. Molti dei partecipanti al convegno della Mutualité, come Aragon e Vaillant-Couturier, visitarono l’URSS e pubblicarono le loro impressioni entusiastiche, ma la testimonianza senz’altro più significativa di quel periodo è il Voyage à Moscou di Romain Rolland, il quale firmò la convocazione del congresso, ma non vi partecipò proprio perché nel giugno 1935 si trovava in Russia. Intellettuale da subito interessatosi all’esperimento sovietico, con l’aggravarsi del pericolo fascista Rolland iniziò a giustificare senza riserve la violenza repressiva delle istituzioni rivoluzionarie, che prima non condivideva, diventando uno dei compagnons de route più impegnati nella difesa dell’immagine della Russia 23. Durante la sua permanenza a Mosca lo scrittore, mostratosi tra l’altro sensibile alle “tecniche dell’ospitalità”, vide confermata la sua opinione per cui “il solo vero progresso del mondo era indissolubilmente legato ai destini dell’URSS” 24. Il Congresso degli scrittori, immerso com’era in una simile atmosfera, non poteva non essere “percorso” da “un’immagine mitica dell’Unione sovietica”, dalla “volontà […] di individuare nella soluzione socialista sovietica l’alternativa alla crisi delle politiche democratiche in Europa e […] del movimento operaio europeo”. Come giustamente ha affermato Asor Rosa, 41
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il clima di questo momento storico-culturale è in qualche modo disegnato anche dall’affermazione della superiorità in tutti i campi dell’Unione Sovietica, dunque […] anche in quello letterario, data la congruità per cui il progresso sociale e la migliore organizzazione politica, più egualitaria, più avanzata, non può non produrre una letteratura migliore […] 25. In particolare, se “il nemico della cultura” si identificava con “il volto odioso del fascismo, […] funzionalmente incapace di far nascere una ‘nuova’ cultura” 26, il “baluardo” contro la barbarie rappresentato dal comunismo sovietico era considerato, al contrario, “un rimedio al disagio spirituale che affliggeva l’Occidente” 27. “Il socialismo non faceva correre alcun pericolo alla cultura”, ma anzi agli “scrittori d’Occidente” era indispensabile l’aiuto degli “scrittori dei paesi sovietici […] per […] salvare” la civiltà occidentale dal “pericolo” “di essere rinchiusa […] in un campo di concentramento”, come “i fascisti” volevano fare per impedirne lo sviluppo 28. In primo luogo, alle affermazioni provocatorie di Julien Benda, secondo in quale tra “la concezione occidentale dell’arte letteraria e la concezione comunista” vi era un’autentica “frattura”, dovuta al rifiuto comunista dell’“autonomia […] dell’attività intellettuale in rapporto all’attività economica”, militanti e simpatizzanti comunisti risposero presentando “l’umanesimo proletario” della cultura socialista nata con la Rivoluzione d’ottobre come lo sviluppo naturale, il “compimento” della cultura “borghese” 29. Secondo Nizan, la cultura che affondava le sue radici nella “rivoluzione russa” costituiva il coronamento “d’una immensa, lunga e paziente rivoluzione umanista che è in cammino da che è cominciata la storia dell’uomo” 30. In tutti i periodi della storia troveremo le tracce di una protesta in nome dell’uomo totale, sempre soffocata, sempre abortita, perché ogni protesta i nome dell’uomo totale comporta la messa sotto accusa delle condizioni d’esistenza. La 42
troveremo in Rabelais, in Spinoza, in Diderot. S’esprimerà compiutamente in Mar 31. Stando alle tesi sostenute da molti protagonisti, se davvero “un umanesimo reale esigeva uno sviluppo reale degli uomini”, attraverso “l’accessione di un numero sempre più grande di individui alla coscienza di sé e alla dignità”, allora “solo in una società” “in cui si fosse abolita ogni divisione di classe e di lavoro” “ogni individuo” avrebbe potuto ritrovare “la sua fertilità” e realizzarsi pienamente: in un simile contesto, a “ogni uomo” sarebbe stato possibile raggiungere quella “dignità” che “la schiavitù dei greci consentiva a Platone e agli allievi dell’Accademia” di perseguire. Nel “triste Occidente” capitalista “si era ancora ben lontani” da “una condizione sociale che consentisse la massima realizzazione di ogni uomo, il sorgere e l’irrobustirsi di tutte le sue possibilità” 32: Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo consente di distinguersi soltanto a coloro che hanno la sinistra fortuna d’appartenere alla minoranza degli sfruttatori. Quanto alle condizioni di vita riservate alla massa degli sfruttati, il meno che se ne possa dire è che non giovano quasi all’espressione della loro personalità 33. “La società dell’Unione Sovietica”, invece, “si preoccupava di sviluppare e di fortificare ogni individuo perché le forze creatrici dell’individuo fanno accrescere le forze materiali e spirituali della società e l’aiutano a progredire”: essa “non esigeva dall’individuo, in cambio della sicurezza che gli offriva, nient’altro che lo sviluppo delle sue forze creatrici” 34. In altri termini, mentre “la via senza gioia del capitalismo non sarebbe stata in grado, nel 1935, di condurre i Botticelli della penna o del pennello verso una di quelle spiagge dove altri, in altre epoche, poterono collocare la nascita di Venere”, l’URSS ci offre attualmente uno spettacolo senza prece43
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denti di un’importanza immensa, insperata, ed oso aggiungere: esemplare. Quello di un paese in cui lo scrittore può entrare in rapporto diretto con i suoi lettori. Invece di remare contro corrente, come siamo costretti a fare noi, non deve che lasciarsi trasportare. Può trovare nella realtà che lo circonda, nello stesso tempo un’ispirazione, il suo dettato e l’eco immediata della sua opera 35. Nella “società borghese […] non era previsto un posto per il poeta”, e i “geni” si ritrovavano spesso bloccati da una sorta di “camicia di forza”: essi dovevano abbassarsi al ruolo di “acrobati […] capaci di dare per alcuni istanti alla stagnazione l’apparenza della vita umana”, e la presunta “‘libertà dello scrittore borghese […] non era altro che una dipendenza camuffata’”, poiché le necessità economiche creavano fra l’artista, l’“editore borghese” e il “pubblico borghese”, un rapporto fondato sulla “concussione”.(36) Nel contesto sociale che si andava formando in Russia, invece, una “letteratura” nata dalla lotta “contro la dominazione dell’uomo sull’uomo, contro tutte le forma di schiavitù e di sfruttamento”, “aiutava gli Uomini nuovi a raggiungere la piena coscienza di sé” toccando “tutto il loro essere” e contribuendo a “trasformare la vita” di ogni cittadino.(37) In questo senso, un delegato sovietico notava come “i nostri scrittori […] fossero penetrati” nella “società nuova” e “fossero divenuti il più attivo elemento d’avanguardia” nella sua edificazione.(38) “Ciò che è vero per gli individui è vero anche per i popoli”, sosteneva poi Gide, che “non ammirava nulla così tanto in URSS”
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come quella grande preoccupazione di protezione, di rispetto per le caratteristiche di ogni popolo, di ogni staterello compreso nella grande Unione Sovietica […]. Rispetto che va contro il rimprovero fatto correntemente al comunismo e all’URSS di tentare di eguagliare, di livellare e uniformare tutti gli uomini dell’immensa Russia, nell’attesa di poter operare su tutta la terra 39.
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I delegati sovietici, dal canto loro, inneggiavano ai “popoli resuscitati dall’Ottobre”, ovvero alle nazionalità dell’Unione sovietica: un simile fenomeno storico-culturale appariva così straordinario da essere paragonato alla “leggenda” degli “uomini resuscitati da Maometto e Cristo”. La prigione delle popolazioni della Russia zarista non esiste più. Non esistono più popoli prigionieri e schiavi. I popoli, uguali, liberi, indipendenti, seguono il grande sentiero che conduce al Socialismo 40. Allo sviluppo delle culture nazionali fondato sull’“incontro di culture” e sull’“internazionalismo”, si contrapponeva il soffocamento di un simile sviluppo, operato in alcuni paesi d’Occidente dagli “ideologi del fascismo” e dagli “psicopatici del nazionalismo” 41. E anche una voce allora piuttosto isolata nell’ambito del dibattito congressuale, quale quella di André Breton, sostenne posizioni simili: egli si dichiarò infatti “decisamente contrario ad ogni rivendicazione da parte di un Francese del solo patrimonio culturale della Francia, ad ogni esaltazione in Francia della sensibilità francese”, mentre dal canto suo la lotta al nazismo non avrebbe senz’altro condotto “al soffocamento del pensiero tedesco, […] già così fecondo, di cui non avrebbe potuto non alimentarsi il pensiero tedesco rivoluzionario di domani” 42. Per gli intellettuali comunisti (a parlare è una voce rappresentativa, quella di Louis Aragon) “l’eredità culturale” della tradizione europea era stata “conquistata” con profitto “riprendendo tra le opere degli uomini che ci avevano preceduto, precisamente ciò che rappresentava la parte di luce e di rifiutare le tenebre”, ovvero quella radice dalla quale nacquero le degenerazioni della civiltà occidentale con le quali in quel momento storico “si era impegnati in un’aspra lotta” 43. In questo senso anche Paul Nizan poté affermare che “la civiltà che si aveva l’ambizione di costruire era […] allo stesso tempo un prolungamento e una frattura” rispetto ai “valori occidentali”: in particolare, la risposta elaborata dagli intellettuali sovietici alle degenerazioni di cui la cultura 45
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occidentale poteva essere vittima era riassunta in poche parole:
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Accettiamo della tradizione che si chiama ‘occidentale’ quanto contribuisce alla messa sotto accusa del mondo, al riscatto dell’uomo […]. Respingiamo ogni mitologia umanista che parli d’un uomo astratto e trascuri le condizioni reali della sua vita, che dimentichi che ancor oggi non tutti gli uomini sono uguali nel dolore nella conquista e nella morte 44. Secondo il ragionamento espresso da André Gide, inoltre, alla produzione artistica di una “civiltà artificiosa”, “basata sulla menzogna” perché “degno riflesso e prodotto di uno stato sociale menzognero” e destinata a “portare in sé dei germi di morte”, gli intellettuali filosovietici contrapponevano un’ “arte” che sapesse “riprendere forza e rinnovarsi” tramite “il contatto con la realtà, con la vita” del “popolo”, ovvero della “base” della vita sociale 45. Non è un caso che proprio Gide sia stato tra gli intellettuali occidentali che più si interessarono al Congresso degli scrittori sovietici tenutosi a Mosca tra il 24 agosto e il primo settembre 1934, l’assise nella quale si era data in tali termini completa definizione al realismo socialista . Stando alle conclusioni di tale incontro, il “metodo fondamentale della letteratura e della critica letteraria sovietica”, che avrebbe dovuto garantire il contributo alla costruzione del socialismo e sarebbe stato lo strumento per lo sviluppo culturale sovietico, esigeva “una rappresentazione veritiera storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario” e un impegno alla “trasformazione ideologica e alla educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”. Nelle parole di Andrej Îdanov, proprio rappresentando “contemporaneamente la realtà più quotidiana e più concreta e la visione dell’avvenire più eroica e più grandiosa” lo scrittore avrebbe adempiuto al ruolo sociale di “ingegnere di anime” che Stalin gli attribuiva 46. Oggi si sa bene che la linea del realismo socialista fu elaborata in URSS al termine di un conflitto durissimo, politico prima ancora che culturale, attraverso il quale il sistema staliniano pose sotto il proprio controllo l’intero mondo culturale dell’Unione 46
sovietica; esso finì in pratica per essere completamente subordinato alla politica in nome di un radicamento forzato alla “realtà” politica e sociale 47. In Occidente, le ambiguità a cui si prestava il concetto di “realismo socialista” portarono molti scrittori a interpretarlo come una soluzione al problema, sempre più sentito, della funzione sociale dell’arte e dell’impegno degli intellettuali nell’edificazione del mondo in cui vivevano 48. Già nell’estate del 1934 i lavori del congresso sovietico furono salutati in Francia come “la base di una vera letteratura materialista, che sola avrebbe potuto servire alla causa del proletariato”, e si invitavano gli “scrittori” di tutto il mondo a seguire “la strada luminosa”, “attraverso la quale si sarebbe contribuito a creare la cultura dell’avvenire” e “una letteratura al contempo utile nel senso più elevato della parola, libera ed intelligente” 49. All’incontro della Mutualité, i delegati sovietici e gli occidentali che avevano presenziato alle sedute moscovite indicarono nel realismo socialista l’atteggiamento culturale grazie al quale i “compagni sovietici” avrebbero potuto superare l’”umanesimo limitato” offerto dalle realizzazioni delle “più antiche glorie” della civiltà europea: “penetrando” in ogni aspetto della “nuova società” creata dalla “rivoluzione sovietica”, come “pittori passivi dei loro quadri emozionanti” o come “fotografi docili di figure sconvolgenti”, “gli scrittori sovietici […] avrebbero trasformato la vita” di ognuno, “aiutando l’uomo a saper dire ‘sì’ o ‘no’” 50. E anche Gide, pur augurandosi che “la letteratura” “non si accontentasse di imitare” la società nel “ruolo di specchio”, riteneva che gli sviluppi della cultura sovietica avrebbero potuto “informare” e “proporre”, e avrebbero contribuito a “creare” l’“uomo nuovo”, “aiutandolo a formarsi e a disegnarsi da solo” “liberandosi dalle costrizioni, dalle lotte, dalle ipocrisie” 51. Nella riunione parigina, lo scrittore che più si impegnò a “promuovere la nozione di realismo socialista in Francia” e nella cultura europea fu Louis Aragon. Secondo uno degli studiosi che meglio si è occupato delle sue posizioni politico-culturali, al Congresso egli “da un lato […] recuperava al realismo socialista tutta la tradizione realista francese”, “dall’altro […] dava del reali47
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smo una definizione” in qualche modo “diversa da quella elaborata a Mosca”, presentandolo essenzialmente come “uno stato di rivolta contro la realtà”, e di conseguenza inserendo “nel grande esercito realista” tutto “l’avanguardismo di sinistra” 52. Infatti, in una cultura realmente rivoluzionaria l’unico atteggiamento possibile nei riguardi di “tutti i movimenti della tradizione letteraria, dal romanticismo al naturalismo”, era quello di “riprendere” il loro contenuto di “realismo” “liberandosi dei misticismi e delle ciarlatanerie […] grazie ai quali dei carnefici in carne ed ossa hanno saputo farsi dimenticare in un mondo di nuvole”: una letteratura che “piegava il suo verbo all’indomabile presenza” della “realtà nuova” avrebbe senz’altro esaltato “la classe in ascesa, la classe che faceva della realtà la sua grande preoccupazione, quella che incarnava nel periodo preso in considerazione il divenire storico dell’umanità”. Quando la classe operaia fa […] la sua formidabile entrata nella storia, le nubi che coprivano la realtà sociale si dissipano, e l’eroe cessa di essere Rolando, Carlo Magno o il Cid Campeador, ma lo diventa l’operaio di Belleville […]. Adottando “il realismo socialista” quale “parola d’ordine”, la “letteratura sovietica” avrebbe cessato di essere soltanto “una luce che proveniva dall’alto, una questione per pochi”, ma avrebbe potuto “nascere da ogni cosa, […] sorgere dalla terra, e irrorare e trasfigurare” anche gli aspetti “più quotidiani della vita”:
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Laggiù [in Russia] oggi, come qui domani, […] i fatti prodigiosi non sono più nelle vetrate delle chiese, ma per la strada ed in campagna, nelle mani degli uomini viventi, dei lavoratori 53.
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L’Unione sovietica messa in discussione Alcuni commentatori considerano il convegno della Mutualité come una sorta di “gigantesco rituale collettivo”, che nell’incontro su posizioni simili, spesso sotteso alla “genericità dei termini ‘cultura’ e ‘rivoluzione”, “consacrò […] la formazione di un Fronte popolare degli intellettuali”; gli scrittori impegnati al fianco dell’URSS, insomma, seppero “fare blocco contro gli scocciatori”, “manovrando al meglio lo svolgimento” del congresso 54. Ciò è vero se si prendono in considerazione le intenzioni di molti organizzatori, ma in realtà nel corso degli interventi non mancò la presenza di posizioni spesso drammaticamente alternative. Emanuel Mounier intervenne al Congresso, unico intellettuale cattolico, per dare inizio a uno dei momenti più significativi nel suo personale dialogo con la cultura marxista, ma nel suo intervento prese le distanze da chi aveva definito “umanesimo socialista” la cultura che stava prendendo vita nell’URSS. Il marxismo, a suo dire, negava “l’esistenza di verità e di valori trascendenti l’individuo, lo spazio e il tempo”, senza lasciare adeguato spazio a quel pieno sviluppo della persona umana che costituiva l’orizzonte teorico e l’idea regolativa morale in cui il pensiero di Mounier aveva preso forma. Le prove di quanto un simile rischio fosse concreto si erano viste, avrebbe concluso il filosofo dopo l’incontro della Mutualité, sul palco stesso del convegno, quando il pubblico si trovò di fronte al “conformismo” e alla “bassezza” dimostrata dai partecipanti sovietici nei confronti del “grande Stalin” e del suo regime 55. Un’altra voce che, ancora più fermamente, si indicò come alternativa alle posizioni espresse dalla maggioranza degli intervenuti al congresso, fu quella di Gaetano Salvemini, invitato per la tenace opposizione al fascismo che lo aveva portato a trovare rifugio negli USA. Innanzi tutto, l’intellettuale italiano si impegnò subito nella confutazione di quello che egli stesso definì “errore intellettuale”, ovvero dell’appiattimento tra fascismo e sistema socio-economico e politico “borghese”, che i comunisti portavano avanti fin dagli anni Venti e che rischiava di annullare ogni dif49
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ferenziazione tra i regimi sul piano dei diritti e delle libertà: egli non intendeva infatti considerare il modello sovietico come unica reale alternativa a un fascismo che nella realtà andava ben al di là della sua interpretazione classista 56. A suo dire,
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vi sono nelle società borghesi dei varchi attraverso i quali un soffio di libertà può manifestarsi, e dove è possibile per esempio tenere questo Congresso, e vi sono delle società borghesi dove tutti i varchi sono chiusi e una sola cultura può svilupparsi, la cultura della menzogna ufficiale. Se le “due specie di società borghesi” fossero state “confuse con disinvoltura”, e identificate senza distinzione con “il nome di fascismo”, si sarebbe “rischiato di lasciar demolire senza resistenza in queste società borghesi, non fasciste, quei frammenti di libertà intellettuale che non erano sufficienti, ma che avevano tuttavia un grande pregio” 57. Ma Salvemini non si fermò a simili constatazioni. Infatti egli, che “era passato attraverso l’esperienza di uno stato totalitario” e “conosceva la degradazione morale cui lo Stato totalitario riduceva”, manifestò l’“odio” e il “disprezzo che ogni Stato totalitario, ogni dittatura suscitava nel suo animo” abbozzando addirittura una comparazione tra fascismo e comunismo sovietico 58. Salvemini rifiutava, non senza un certo sarcasmo, la visione dell’Unione sovietica come di una società che garantiva la libertà intellettuale a tutti i suoi componenti e non solo ad alcuni, e si concentrava sul fatto che “il regime sovietico”, presentato da molti non come “uno strumento provvisorio d’una lotta necessaria” a “consolidare il regime della rivoluzione comunista”, ma come “il regime ideale che i paesi borghesi non fascisti e fascisti avrebbero dovuto adottare”, fosse caratterizzato dalla “soppressione della libertà di espressione”. Il marxismo, che è creazione anti-ufficiale nelle società borghesi, è divenuto tradizione ufficiale nella società sovietica. La libertà di creare è soffocata nelle società borghesi 50
di tipo non fascista. È del tutto soppressa nella società borghesi di tipo fascista. È ugualmente soppressa nella Russia sovietica. Il fatto che nella società nata dalla rivoluzione sovietica “il nemico vinto” non “avesse il diritto di vivere, di pensare, di esprimersi”, che “La Storia della rivoluzione russa di Trockij non potesse essere letta in Russia”, e che proprio “in Russia […] Victor Serge fosse prigioniero”, portava Salvemini all’assimilazione di alcuni aspetti del regime sovietico con il fascismo ed il nazismo: Non mi sentirei in diritto di protestare contro la GESTAe contro l’OVRA fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania vi sono i campi di concentramento, in Italia vi sono isole adibite a luoghi di pena, e nella Russia sovietica vi è la Siberia 59. PO
Proprio il “caso Victor Serge”, tra l’altro, fu da subito un problema latente nell’ambito del Congresso, destinato ad essere vissuto come una sorta di “‘nuovo caso Dreyfus’”. Serge era un militante anarchico, nato presso Bruxelles da genitori russi antizaristi, che aderì alla Rivoluzione d’ottobre, prima di essere minacciato dalle campagne contro il nonconformismo che il regime iniziò a scatenare a cavallo del 1930; nel 1933 fu arrestato e confinato sugli Urali, e da allora numerosi intellettuali ed esponenti politici della sinistra francese iniziarono una campagna stampa per sollecitare la sua liberazione, fino a quando la convocazione del Congresso degli scrittori non offrì agli amici di Serge l’occasione di interpellare pubblicamente altri intellettuali. Gli organizzatori non poterono rifiutare la garanzia che si sarebbe parlato di Victor Serge, ma cercarono di ridurre al minimo gli interventi in proposito; soltanto il riferimento effettuato da Salvemini diede la stura ad una aperta trattazione della questione 60. Fu soprattutto Magdeleine Paz, nel suo intervento al congresso, a proporre il caso della detenzione di Serge come esempio 51
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paradigmatico della necessità di allargare la lotta per la difesa della cultura all’opposizione a qualunque forma di conformismo e di ostacolo al libero sviluppo del pensiero umano. La scrittrice francese, infatti, propose il caso di Victor Serge per illustrare alcuni dei temi fondamentali del congresso, come “la dignità del pensiero”, la “libertà d’espressione” e le “forme dirette e indirette di censura”, con l’intento dichiarato di verificare se gli “scrittori” che si proclamavano “rivoluzionari” lo erano “nella misura” sufficiente per “evitare” non solo “il conformismo di una società agonizzante”, ma anche “il conformismo che trovava posto in seno alla Rivoluzione stessa”:
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L’8 marzo 1933 [Serge] è arrestato, condannato alla deportazione e inviato a Orenburg. Niente processo, niente difensori, nessun testimone, nessuna comparizione dell’accusato: la misura amministrativa è presa dalla GPU, che lo manda a meditare […] sulla sorte promessa allo scrittore quando egli possiede la virtù che Guéhenno sperava di trovare nello scrittore, senza peraltro esigerla: il coraggio. Infatti egli avrebbe potuto, come tanti altri, firmare una dichiarazione di abiura non ha voluto. Ha compiuto la sua scelta. E mentre il Congresso degli Scrittori era “riunito per difendere l’integrità del pensiero, laggiù, alle pendici degli Urali, il pensiero faceva un grande sforzo […] per rimanere sereno e mantenere intatta la sua speranza nella Rivoluzione”, perché uno “scrittore” come Serge era detenuto, e il suo solo “crimine” era quello “di aver fatto pervenire il suo pensiero in alcune lettere ai suoi amici all’estero” 61. La reazione della delegazione sovietica fu durissima, tesa soprattutto a reclamare “il diritto” della “rivoluzione” a “difendersi”, “prendendo tutte le misure necessarie” “persino nei confronti di coloro che l’avevano un giorno servita”, come appunto Serge. Le critiche alla Russia sovietica, inoltre, non avrebbero fatto altro che “distrarre l’attenzione dalla ferocia della guerra che Hitler combatteva contro la cultura”: 52
Quando qualcuno viene qui a parlare della dignità dello scrittore e della libertà di pensiero, non per protestare in favore di Ossietzky, di Thälmann, di Renn, di Mühsan, ma per giudicare la rivoluzione russa, allora gli uomini dell’Armata rossa si levano in piedi. È solamente presso di loro che si trovano i veri difensori della cultura. Anche André Gide arrivò a replicare a Magdeleine Paz che “la riuscita dell’Unione Sovietica era […] più importante di tutto il resto”, e che “la fiducia era la più grande prova d’amore che le si poteva offrire” 62. Per quanto riguarda il discorso di Salvemini, poi, esso venne descritto da Ambrogio Donini come “una nota stonata”, ascoltata “con nausea, se non con sorpresa”: Salvemini, infatti, non avrebbe fatto altro che “ripetere ai congressisti il suo odio notorio verso il comunismo e la sua fiducia reazionaria nelle forze ‘sane’, ‘buone’ della borghesia”, favorendo così l’intervento di “un gruppetto di allucinati e di provocatori trotzkisti” 63. In ogni caso, nelle loro opinioni Gaetano Salvemini e Magdeleine Paz risultavano, nella cultura antifascista europea, meno soli di quanto possa far pensare l’unanimismo dell’incontro alla Mutualité 64. In particolare, nel suo intervento l’intellettuale italiano sosteneva posizioni simili a quelle circolanti negli ambienti politici e intellettuali nell’area di Giustizia e Libertà: proprio sul settimanale del movimento fondato da Carlo Rosselli apparvero alcuni commenti al congresso di Parigi, scritti da Nicola Chiaromonte con lo pseudonimo di Luciano, in cui si plaudiva a Salvemini, mentre le posizioni espresse dalla delegazione sovietica e dalla maggioranza dei delegati erano sottoposte a dure critiche da posizioni simili a quelle espresse dallo storico pugliese 65. Al commentatore, il congresso era apparso “una sfilata monotona di discorsi tanto più applauditi quanto più avevano della declamazione rivolta alla massa, e meno del discorso personale, diretto ai sentimenti e alle facoltà riflessive degli individui”; in particolare, la delegazione sovietica al Congresso degli scrittori ha 53
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spiegato uno zelo compatto a esibire la sua fedeltà al principio della propaganda. I suoi discorsi, quando non prendevano decisamente la forma di elogio del bilancio della pubblica istruzione del governo russo, e relativa misura della ‘produzione libraria’ a quintali, non esaurivano chiaramente che una sola volontà, quella di collaborare alla stasi delle coscienze e all’asservimento degli spiriti. Lo spettacolo di “una delegazione di ‘intellettuali ’” che, “venuta ad annunciare la ‘dignità di pensiero’”, offriva un “pubblico spettacolo” di “declamazione di luoghi comuni”, “contraddicendo e annullando” proprio i valori che intendeva proclamare, appariva agli occhi di Chiaromonte ancora più “miserabile” di alcuni “episodi” accaduti sotto i regimi fascisti, “giacché, in paese fascista, non ci si proclamava, in genere, ‘difensori dell’umanità’” 66. Più in generale, negli ambienti politici in cui vide la luce l’idea del congresso della Mutualité la benevolenza verso l’URSS, seppur prevalente non era inevitabile. Proprio nel giugno del 1935, quasi in contemporanea al Congresso per la difesa della cultura, Boris Souvarine pubblicò il suo Staline 67: una delle più aspre critiche da sinistra dello stalinismo; in tale opera l’autore mostrava la morte della speranza rivoluzionaria sua e di molti “ex”, esponendo la rapida trasformazione del paese delle sue speranze nella patria della verità e della menzogna di stato 68.
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Con Staline. Aperçu historique du bolchevisme, […] Souvarine traccia l’evoluzione degli uomini e delle istituzioni dagli anni di formazione del regime bolscevico. Fin dalle prime settimane della Rivoluzione, il leninismo non ha potuto, secondo lui, mantenersi al potere se non vuotandosi progressivamente della sua sostanza dottrinale. Una volta militarizzato, esso si è messo nelle mani di una oligarchia di dirigenti e poi di un solo uomo, sacrificando l’individuo-lavoratore allo Stato parassita 69. Già sei anni prima, nel 1929, era stata pubblicata, con l’effet54
to di una “bomba” negli ambienti letterari e culturali che avrebbero dato vita al Congresso, un’altra critica impietosa, lucida e radicale al regime sovietico: Vers l’autre flamme. Firmò i tre volumi dell’opera l’ex compagnon de route Panaït Istrati, romeno trasferitosi in Francia, ma contribuirono alla stesura del testo anche Boris Souvarine e Victor Serge 70. A detta di Furet, i tre saggi non ricevettero tutta l’attenzione che meritavano dal grosso del “pubblico di sinistra al quale erano destinati”: probabilmente, i lettori “non accettarono una condanna così completa, fiutando l’esagerazione dell’amore deluso” nel “quadro d’una società in miseria” e nella descrizione di “una dittatura d’un partito corrotto, frequentato da cinici arrivisti” 71. Nonostante ciò, gli autori di Vers l’autre flamme mantennero buoni rapporti con gli ambienti della sinistra francese filosovietica, e restarono inseriti nel dibattito politico-culturale. Istrati, ad esempio, continuò a pubblicare i suoi interventi su “Europe”, la rivista dei compagnons de route, e alla sua morte la redazione gli dedicò un commosso necrologio 72. Per quanto riguarda Victor Serge, anche dopo l’arresto e il confino lo scrittore continuò la sua corrispondenza con alcuni degli esponenti politici francesi più vicini all’URSS, come Romain Rolland 73. E alla Mutualité Magdeleine Paz non rimase completamente inascoltata, visto che il suo intervento contribuì a trasformare la vicenda di Victor Serge in un’affaire dalle risonanze internazionali, e ad approdare alla sua definitiva soluzione 74. Pochi giorni dopo il congresso, subito dopo aver cercato di calmare le acque con la delegazione sovietica, Gide e Malraux si recarono all’ambasciata sovietica per chiarire la situazione, mentre Romain Rolland, durante il suo soggiorno in Russia, ottenne da Stalin in persona la promessa che Serge avrebbe lasciato l’Unione sovietica, cosa che avvenne con la sua espulsione dall’URSS nel corso del 1936 75.
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NOT E 1. Una simile posizione è espressa ad es. nell’importante lavoro di M. Flores, L’immagine dell’URSS. L’Occidente e la Russia di Stalin (19271956), Milano, Il Saggiatore, 1990; p. 235. Tra gli studi storico-culturali in lingua italiana che hanno prestato attenzione al congresso, merita di essere ricordato anche R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , Bari, De Donato, 1978. 2. Un congrès international d’écrivains à Paris, in “Commune”, a. II, n. 20, Aprile 1935; p. 900. 3. Cfr. D. Caute, Communism and French Intellectuals (1918-1960), London, A. Deutsch, 1964; pp. 114-116, e il più recente S. Wolikow, Il Partito comunista francese di fronte all’evento, in S. Teroni (a cura di) Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935 , Roma, Carocci, 2002; pp. 35-37. 4. In particolare, mentre Aragon (1897-1982), Barbusse, (1873-1935), Nizan (1905-1940) e Vaillant-Cuturier (1892-1937) erano membri del PCF, e ricoprivano anche incarichi di responsabilità nel partito, alla metà degli anni Trenta Gide (1869-1951) e Malraux (1901-1976) erano compagnons de route del PCF (su questi due casi emblematici, cfr. soprattutto D. Caute, Communism and French Intellectuals (1918-1960), cit.; pp. 237-247). Per alcune notizie relative ad essi, cfr. le rispettive voci in J. Juillard, M. Winock (a cura di), Dictionnaire des intellectuels français. Les personnes, les lieux, les moments, Paris, Seuil, 1996. 5. Sull’AEAR, cfr. N. Racine, Association des Écrivain er Artistes Révolutionnaires, in J. Juillard, M. Winock (a cura di), Dictionnaire des intellectuels français. Les personnes, les lieux, les moments, cit.; pp. 9293; sul ruolo dei vertici del PCF, e dello stesso M. Thorez, nella creazione dell’associazione, cfr. D. Caute, Communism and French Intellectuals (1918-1960); pp. 237-247), cit.; p. 108. 6. Su “Commune” e sulla trattazione del congresso da parte della rivista, cfr. W. Klein, “Commune”. Revue pour la défense de la culture (19331939), Paris, CNRS, 1988. 7. Per alcune notizie su Il’ja Ehrenburg (1891-1967), e soprattutto per alcune valutazioni del suo ruolo nell’ideazione del congresso, cfr. H. R. Lottman, La rive gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla guerra fredda , Milano, Edizioni di Comunità, 1989;
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pp. 15-16, e M.B. Gallinaro Luporini, Parigi-Mosca. La grande illusione, in Il pericolo che ci raduna. Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , a cura di A.-M. Suzeau Boetti, Milano, F. Angeli 1986; pp. 131-132. 8. Su questo complesso argomento di discussione, i cui contorni sono qui appena abbozzati, cfr. ad es. S. Moravia, La ricerca dell’Altro. I giovani intellettuali francesi e la crisi degli anni ’30 , e A. Asor Rosa, Palcoscenico e quinte del Congresso, in Il pericolo che ci raduna. Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; pp. 86 e 207-214; R. Vivarelli, Parigi 1935. L’intervento di Gaetano Salvemini al Congrès International des Écrivains pour la Défense de la Culture, in “Rivista Storica Italiana”, a. CIX, n. 2, Maggio 1997; pp. 641 e ss.; e F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Milano, A. Mondadori, 1997; pp. 312-321. 9. Sui due congressi che precedettero quello della Mutualité, cfr. H. Lottman, La rive gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla guerra fredda , cit.; pp. 87-92; e F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, cit., pp. 247-252 (entrambi gli autori si soffermano soprattutto sulla figura di W. Münzenberg, agente del Comintern ed organizzatore dei due eventi). 10. D. Caute, Communism and French Intellectuals (1918-1960), cit.; pp. 26, 34-35 e 114. 11. Su questo punto, cfr. soprattutto W. Klein, “Commune”. Revue pour la défense de la culture (1933-1939), cit.; pp. 38-45. Per alcune osservazioni più generali su “la nébuleuse des compagnons de route” e sui loro rapporti con il PCF negli anni della formazione del Fronte popolare, cfr. anche S. Cœuré, La grande lueur à l’Est. Les Français et l’Union soviétique, Paris, Seuil, 1999; spec. pp. 192-204 e pp. 264 e ss. 12. Il giudizio è in H.R. Lottman, La rive gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla guerra fredda , cit.; pp. 134138. L’autore arriva ad affermare (p. 135) che “il gruppo di esclusi […] avrebbe potuto aprire un congresso internazionale dall’altra parte della barricata”. 13. R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; pp. 73-74. 14. F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, cit.; spec. pp. 275 e 313. 15. Sulle reazioni scomposte del pubblico in sala e degli stessi organiz-
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zatori durante e dopo gli interventi di Gaetano Salvemini (1873-1957) e di Magdeleine Paz (1889-1973), cfr. soprattutto H. R. Lottman, La rive gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla guerra fredda , cit.; pp. 147-151. È lo stesso Lottman (p. 147) a riportare che “non fu ‘L’Humanité’, bensì ‘Le Populaire’, il quotidiano socialista, a informare i lettori che Salvemini aveva criticato il trattamento riservato a Victor Serge in Unione Sovietica”. 16. La notizia dell’imminente edizione degli atti venne data in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; p. 1201. 17. Le due edizioni in questione sono I. Luppol (a cura di), Mezdunarodnyj kongress pisatelej v zascitu kultury. Pariz ijun 1935 , trad. di E. Triolet, Moskva 1936, e W. Klein (a cura di), Paris 1935. Erster Internationaler Schriftstellerkongress zur Verteidigung der Kultur. Reden und Dokumentie. Mit Materialen del Londoner Schriftstellerkonferenz 1936 , Akademie-Verlag, Berlin, 1982. 18. Pour la défense de la culture: Les textes du Congrès international des écrivains, Paris, juin 1935 , Dijon, EUD, 2005. Nella presente esposizione si è cercato di mantenere il riferimento alle prime uscite originali delle relazioni congressuali, al fine di rendere note le modalità e i circuiti attraverso le quali esse trovarono immediata diffusione nell’opinione pubblica. 19. Cfr. a questo proposito le posizioni di H. R. Lottman, La rive gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla guerra fredda , cit.; p. 139 (il giudizio sull’atmosfera del congresso è citato dal diario di E. Dabit), e M. Flores, L’immagine dell’URSS. L’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), cit.; p. 237. 20. L. Caredda, Il discorso antifascista in Francia , in S. Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935 , cit.; p. 7. 21. Cfr. M. Flores, L’immagine dell’URSS L’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), cit.; p. 242. 22. Per i giudizi in proposito, cfr. F. Kupferman, Au pays des Soviets. Le voyage français en Union sovietique, Paris, Gallimard, 1979, il testo classico per lo studio dei viaggi in Unione sovietica; S. Cœuré, La grande lueur à l’Est. Les Français et l’Union soviétique, cit., il più recente lavoro d’insieme sul tema delle immagini dell’Unione Sovietica circolanti nel mondo intellettuale occidentale; M. Flores, L’immagine dell’ URSS. L’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), cit., il miglior contributo italiano in materia. Sul problema delle cosiddette “tecniche dell’ospita-
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lità”, elemento fondamentale per la costruzione di un’immagine positiva della Russia nei resoconti di viaggio, cfr. poi il classico P. Hollander, con il suo Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba , Bologna, Il Mulino, 1988; spec. pp. 499-559. 23. R. Rolland, Voyage à Moscou (Juin-juillet 1935) suivi de Notes complémentaires (Octobre-Décembre 1938), Paris, A. Michel, 1992. Per alcune notizie su Rolland (1866-1944) e sullo sviluppo delle sue posizioni politiche, cfr. J.-J. Becker, Rolland Romain , in J. Juillard, M. Winock (dir.), Dictionnaire des intellectuels français. Les personnes, les lieux, les moments, cit.; pp. 998-999. 24. R. Rolland, Voyage à Moscou (Juin-juillet 1935) suivi de Notes complémentaires (Octobre-Décembre 1938), cit.; p. 195. Sulle “tecniche dell’ospitalità” sovietiche, cfr. ad es. p. 121, dove l’autore descrive il suo arrivo a una rappresentazione teatrale: “On me fait un accueil incroyable. On m’a réservé la loge du tsar, d’où l’on a délogé, pour l’occasion, le corps diplomatique. Des ovations multipliées, sur la place, et dans la salle, a l’arrivée […]. Surtuout la foule considerable, qui […] applaudit et acclame ‘notre ami Romain Rolland’. Je serre quelques mains, au hasard; il me faudrait avoir mille mains”. 25. Cfr. A. Asor Rosa, Palcoscenico e quinte del Congresso, in Il pericolo che ci raduna. Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; pp. 217-218 e 220. 26. Le citazioni sono tratte dall’intervento di A. Donini, ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; p. 255, ma sul tema cfr. anche l’intervento di G. Regler, pubblicato con il titolo Culture et national-socialisme in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; pp. 1251-1253. 27. B. Duchatelet, Introduction a R. Rolland, Voyage a Moscou (Juinjuillet 1935) suivi de Notes complémentaires (Octobre-Décembre 1938), cit.; p. 70. 28. Cfr. gli interventi di M. Gold, P. Vaillant-Couturier e A. Malraux, apparsi come La véritable Amérique, La défense de la culture e L’œuvre d’art in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; pp. 1220-1224, 1260-1263 e 1264-1266. 29. Sull’intervento di Benda (1867-1956) al congresso (pubblicato, con il titolo Littéra ture et communisme, in “Le Courrier des Grandes Conférences à Paris”, a. 7/VII, 1935, n. 29; pp. 197-200) cfr. “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; pp. 63-64; S. Maxia, Che fare di Westminster? La
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questione dell’eredità culturale, in S. Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935 , cit.; pp. 165 e ss.; e R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia, cit.; pp. 75-76. Per alcune notizie biografiche su Benda, cfr. C. Prochasson, Benda Julien , in J. Juillard, M. Winock (a cura di), Dictionnaire des intellectuels français. Les personnes, les lieux, les moments, cit.; pp. 134-135. 30. Cfr. R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; p. 75, e l’intervento di J. Guéhenno, pubblicato con il titolo Défense de la culture in “Europe”, 15/VII/1935, n. 38; p. 445. Per alcune informazioni biografiche su Guéhenno (1890-1978), direttore e vera anima della rivista “Europe”, a cui allora collaboravano tutti i più popolari compagnons de route del PCF, cfr. P. Ory, Guéhenno Jean , in J. Juillard, M. Winock (a cura di), français. Les personnes, les lieux, les moments, cit.; pp. 554-556. 31. Intervento di P. Nizan, ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia ; p. 237. 32. Oltre all’intervento di P. Nizan ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; p. 238 e passim; e di J. Guéhenno, Défense de la culture in “Europe”, cit., pp. 449-450, cfr. anche l’intervento di A. Gide, ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; pp. 220-227. Sulla posizione che Gide sostenne negli anni precedenti il suo Retour de l’URSS, cfr. D. Caute, Communism and French Intellectuals (1918-1960), cit., spec. p. 240, e M. Nadeau, André Gide prima del Retour de l’URSS, in Il pericolo che ci raduna. Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; pp. 155-166. 33. Intervento di R. Crevel (letto al congresso da L. Aragon), ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; pp. 227-228. 34. Intervento di A. Tolstoj, pubblicato con il titolo La liberté de créer in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; p. 1215. 35. Cfr. l’intervento di R. Crevel e quello di A. Gide in Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; rispettivamente p. 229 e pp. 225-226. Concordava su questo punto anche T. Tzara, nel suo intervento sempre in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; pp. 240-245. 36. Cfr. l’intervento di A. Tolstoj, La liberté de créer in “Commune”, [i brani citati sono tratti da una citazione attribuita dall’autore a Lenin], e l’intervento di I. Ehrenburg, pubblicato con il titolo Culture bourgeoise et culture révolutionnaire, entrambi riprodotti in “Commune”, a. II, n. 23,
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Luglio 1935; rispettivamente p. 1213 e pp. 1225-1226. 37. Cfr. l’intervento di I. Ehrenburg, Culture bourgeoise et culture révolutionnaire, cit.; e l’intervento di G. Tabidze, pubblicato con il titolo La culture georgienne, entrambi in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; p. 1370. 38. Intervento di M. Koltzov, pubblicato con il titolo Les thèmes et les objets du rire changent, in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; p. 1235. Opinioni sul ruolo dell’artista nella società simili a quelle esposte furono sostenute anche da J.-R. Bloch (il cui intervento fu pubblicato con il titolo Crèation littéraire er société humaine in “Europe”, n 38, 15 luglio 1935; pp. 424-431) e T. Tzara (cfr. il suo intervento, ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; pp. 240-245). 39. Intervento di A. Gide, ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; p. 220. 40. Intervento di G. Lahuti, pubblicato con il titolo La culture et les nationalités en URSS in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; pp. 1242-1244. Può essere interessante notare che “la delegazione degli scrittori sovietici” fosse “formata secondo criteri di omogeneità ideologica e culturale” più che secondo il profilo intellettuale dei delegati: per cercare di rimediare, gli organizzatori del congresso di Parigi richiesero la presenza di M. Gor’kij, che però era ormai “praticamente prigioniero di Stalin”; a congresso già iniziato furono inviati dall’URSS B. Pasternak e I. Babel’, i cui interventi non risultarono però particolarmente significativi (cfr. H. R. Lottman, La rive gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla guerra fredda , cit.; pp. 135-137, M. B. Gallinaro Luporini, Parigi-Mosca. La grande illusione, in Il pericolo che ci raduna. Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; spec. pp. 142 e ss.; e G. Mele, L’antefatto del 1934 e la controversa delegazione degli scrittori sovietici , in S. Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, cit.; pp. 38-39 e 45-46. 41. Intervento di M. Gold, La véritable Amérique, “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935 ; p. 1221. Un altro intervento relativo all’atteggiamento dei regimi fascisti nei confronti delle culture nazionali è quello di A. Chamson, pubblicato sullo stesso numero di “Commune” (pp. 12351241) con il titolo Le nationalisme contre les réalités nationales. 42. Intervento di A. Breton, ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia, cit.; p. 252. Capofila del surrealismo negli anni Venti, Breton (1896-1966) si professava estraneo a ogni appartenenza politica,
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giungendo a rompere con gli ex surrealisti approdati al PCF. Non partecipò al congresso della Mutualité, ed il suo intervento venne letto da P. Eluard “a notte inoltrata”, “tra rumori e richiami del presidente, mentre le luci si spegnevano e il pubblico cominciava ad uscire” (cfr. M. Flores, L’immagine dell’URSS. L’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), cit.; pp. 241-242; e spec. R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia, cit.; pp. 86-93). Per alcune notizie biografiche, cfr. L. B. Dorelac, Breton André, in J. Juillard, M. Winock (a cura di), Dictionnaire des intellectuels français. Les personnes, les lieux, les moments, cit. ; pp. 185-186. 43. Cfr. l’intervento di L. Aragon, ora Le retour à la réalité, in Id., L’Œuvre poétique, vol. VI, Paris, Livre Club Diderot, 1989; p. 315, e l’intervento di A. Malraux, L’œuvre d’art, in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935 ; p. 1265. Sul fatto che la cultura e sovietica “puisait tout ce qu’il y a de meilleur dans le trésors de la civilisation créée par le travail séculaire de la pensée humaine”, cfr. anche l’intervento di G. Tabidze in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; p. 1370. 44. Intervento di P. Nizan ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia ; cit.; p. 236. 45. Intervento di A. Gide in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; pp. 222-223. 46. Cfr. A. Asor Rosa, Palcoscenico e quinte del Congresso, in Il pericolo che ci raduna. Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; pp. 215-216, e G. Mele, L’antefatto del 1934 e la controversa delegazione degli scrittori sovietici , in S. Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, cit.; pp. 40 e 42 (le frasi sono tratte dal resoconto stenografico del Primo Congresso nazionale degli Scrittori Sovietici). Sull’influenza del dibattito congressuale in Occidente, cfr. D. Caute, Communism and French Intellectuals (19181960), cit.; spec. pp. 321-322, e M. Flores, L’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), cit.; p. 231. 47. Cfr. G. Mele, L’antefatto del 1934 e la controversa delegazione degli scrittori sovietici , in S. Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935 , cit.; p. 40; Palcoscenico e quinte del Congresso, in Il pericolo che ci raduna. Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; p. 215, e M. B. Gallinaro Luporini, Parigi-Mosca. La grande illusione, in Il pericolo che ci raduna. Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cul-
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tura. Parigi 1935 , cit., p. 135. 48. Cfr. G. Mele, L’antefatto del 1934 e la controversa delegazione degli scrittori sovietici , in S. Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935 , cit.; pp. 40 e 44-45. Tra “i quaranta ospiti stranieri, […] avevano un grande peso i francesi Malraux, J.-R. Bloch, Aragon, Vladimir Pozner e Nizan”, mentre “Gide aveva inviato una lunga lettera”. 49. Cfr. L’AEAR salue le premier Congrès des écrivains soviétiques, in “Commune”, a. I, n. 11-12, Luglio-Agosto 1934 ; pp. 1154 e 1156, e P. Vaillant-Couturier, Littérature libre d’un pays libre, in “Commune”, a. II, 13-14, Settembre-Ottobre 1934, p. 3. 50. Cfr. l’intervento di A. Malraux L’œuvre d’art, in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935 ; p. 1265; l’intervento di I. Ehrenburg L’œuvre d’art, in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935 ; pp. 1227-1228; l’intervento di M. Koltzov L’œuvre d’art, in “Commune”, a. II, n. 23, Luglio 1935; p. 1255, e l’intervento di P. Nizan R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; p. 239. 51. Intervento di A. Gide in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; p. 225. 52. Cfr. J. Leenhardt, Il realismo socialista. Una parola d’ordine nella tormenta degli anni Trenta, in Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; pp. 95-99. 53. Intervento di L. Aragon ora Le retour à la réalité, in Id., L’Œuvre poétique, cit.; pp 313-315 e 325-326. 54. Cfr. J. Risset, Una voce isolata. André Breton , in Il pericolo che ci raduna. Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; pp. 189-190 (alcuni brani sono citati da R. Shattuck, El Congreso de Paris. Una Pifia de los treintas, in “Plural”, Ottobre 1972, passim); F. Kupferman, Au pays des Soviets. Le voyage français en Union sovietique, cit.; p. 103, e D. Caute, Communism and French Intellectuals (1918-1960), cit.; p. 116. 55. J.-M. Mayeur, Il pensiero cristiano di fronte alla crisi , in Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; pp. 43 e 51-53 (le parole cit. sono tratte dall’intervento di E. Mounier al congresso e da alcuni suoi scritti pubblicati nello stesso periodo sulla rivista “Esprit”, da lui fondata nel 1932). Per alcune informazioni biografiche su Mounier (1905-1950) cfr. J. Roman, Mounier Emanuel, in J.
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Juillard, M. Winock (a cura di), Dictionnaire des intellectuels français. Les personnes, les lieux, les moments, cit.; pp. 812-814. 56. Cfr. spec. E. Collotti Gaetano Salvemini. Una “nota stonata”? , in S. Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935 , cit.; pp. 86 e ss. Sull’elaborazione e sulla diffusione della classica definizione comunista del fascismo, che Dimitrov avrebbe descritto al VII Congresso del Comintern come “la dittatura aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario” cfr. ancora R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1995; pp. 66-71; e F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, cit., passim. 57. Intervento di G. Salvemini, ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; pp. 245-246. 58. Cfr. l’intervento di G. Salvemini, ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; p. 248; e E. Collotti, Gaetano Salvemini. Una “nota stonata”? , in S. Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935 , cit.; p. 86. 59. Cfr. l’intervento di G. Salvemini ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; pp. 246-247. Tra le presentazioni dell’intervento di Salvemini, si ricordi R. Vivarelli, Parigi 1935. L’intervento di Gaetano Salvemini al Congrès International des Écrivains pour la Défense de la Culture, cit. (che comprende, tra l’altro, la versione integrale dell’intervento, nella sua versione originale in lingua francese). 60. Per alcune notizie biografiche su Victor Serge (1890-1948), cfr. M. Dreyfus, Serge Victor , in J. Juillard, M. Winock (a cura di), Dictionnaire des intellectuels français. Les personnes, les lieux, les moments, cit. ; pp. 1050-1052. Per quanto riguarda la sua attività politica e le vicende che dovette affrontare durante la sua permanenza in Unione sovietica, Serge stesso ha lasciato le sue memorie (Memorie di un rivoluzionario, Firenze, La Nuova Italia, 1974), mentre per quanto riguarda il “caso” che la sua detenzione venne a creare negli ambienti della sinistra occidentale, lo studio più completo è senz’altro J.-L. Panné, L’affaire Victor Serge et la gauche française, in “Communisme”, a. III, n. 5, Settembre 1984; pp. 89-104. Alcuni utili riferimenti in proposito si trovano anche in H. R. Lottman, Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla guerra fredda , cit.; pp. 146-152, e F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, cit.; pp. 323-325.
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61. Intervento di M. Paz, ora in “Cahiers Henry Poulaille”, n. 4-5, 1990; pp. 204-212. 62. Cfr. sempre i “Cahiers Henry Poulaille”, n. 4-5, 1990;pp. 214-216 (spec. le risposte di E. Ehrenburg, V. Kirchon e A. Gide). 63. Cfr. l’intervento di A. Donini, ora in R. Castoldi, Intellettuali e Fronte popolare in Francia , cit.; p. 260; e il suo articolo Il Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura , in “Lo Stato Operaio”, a. IX, n. 8, Agosto 1935; p. 539. Donini (1903-1991) era il principale delegato del Partito comunista italiano al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. 64. E. Collotti, Gaetano Salvemini. Una “nota stonata”? , in S. Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935 , cit.; p. 86. 65. Cfr. idem; pp. 84-86 e 88-89. 66. Cfr. N. Chiaromonte, Al Congresso per la difesa della cultura , in “Giustizia e Libertà”, a. II, n. 26, 28 giugno 1935; p. 3; Il Congresso internazionale degli scrittori. I. Letteratura e propaganda , in “Giustizia e Libertà”, a. II, n. 27, 5 luglio 1935; p. 3, e Il Congresso internazionale degli scrittori. II. L’umanismo, in “Giustizia e Libertà”, a. II, n. 29, 19 luglio1935; p. 3. 67. B. Souvarine, Staline. Aperçu historique du bolchevisme, Paris, Plon, 1935. Per alcune informazioni biografiche su Boris Souvarine (18951984), uno dei primi comunisti francesi a uscire dal partito per protesta contro la campagna antitrotzkista iniziata dal 1924, cfr. J.-L. Panné, Souvarine Boris, in J. Juillard. M. Winock (dir.), Dictionnaire des intellectuels français. Les personnes, les lieux, les moments, cit.; pp. 10781079. 68. Cfr. A. Roche, Simone Weil e in non-detto del Congresso, in Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Parigi 1935 , cit.; p. 245, e F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, cit.; pp. 321-323. 69. S. Cœuré, La grande lueur à l’Est. Les Français et l’Union soviétique, cit.; p. 231. 70. P. Istrati, Vers l’autre flamme, Paris, Rieder, 1929, 3 voll. In realtà Panaït Istrati (1884-1935) fu autore solo del vol. I, Après seize mois dans l’URSS, mentre il vol. II, Soviets 1929 , era opera di V. Serge, e il vol. III, La Russie nue, era opera di B. Souvarine. 71. F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo,
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cit.; pp. 167-168. 72. Cfr. “Europe”, n. 38, Giugno 1935; p. 112. 73. S. Cœuré, La grande lueur à l’Est. Les Français et l’Union soviétique, cit.; p. 138. 74. Cfr. D. Caute, Communism and French Intellectuals (1918-1960), cit.; p 103-104; e S. Teroni (a cura di), Difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935 , cit.; p. 66. Anche lo stesso V. Serge (Memorie di un rivoluzionario, cit., p. 467) ricordava quanto gli interventi a suo favore al congresso di Parigi avessero contribuito alla sua liberazione. 75. Cfr. Ibid., D. Caute, Communism and French Intellectuals (19181960); p. 241; R. H. Lottman, La rive gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla guerra fredda , cit.; p. 152; e F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, cit.; pp. 315-316. L’impegno di R. Rolland in Russia per la liberazione di Serge è descritto in R. Rolland, Voyage à Moscou (Juin-juillet 1935) suivi de Notes complémentaires (Octobre-Décembre 1938); pp. 173 e ss.
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Dal Milli Görüs alla democrazia conservatrice
Luca Ozzano
Negli ultimi dieci anni la Turchia è stata una delle realtà più interessanti del panorama internazionale, passando da una rovinosa crisi economica all’attuale fase di sviluppo, e occupando a più riprese le prime pagine dei giornali internazionali a causa del confronto sulla laicità dello stato fra il partito di governo AKP e i militari. Questo articolo esaminerà la storia della repubblica turca, per comprendere più a fondo le ragioni del peculiare rapporto fra laicità, religione e politica presente oggi nel paese e del confronto che ne deriva. Vi sono tuttavia alcune coordinate che è bene accennare preliminarmente per introdurre il lettore al contesto di questo paese, che non sempre è di facile decifrazione per un europeo. L’eredità imperiale. La repubblica turca di oggi è, politicamente, l’erede dell’Impero Ottomano, potenza di prima grandezza che ha dominato fino all’Ottocento il Medio oriente e i Balcani: politicamente, attraverso l’Impero, e spiritualmente, attraverso il Califfato. L’islam turco, di conseguenza (molto più delle forze laiche, che si focalizzano prevalentemente sul nazionalismo) si percepisce come erede di questa tradizione, nonché dell’autentico lignaggio dell’Islam, e come un punto di passaggio fra le diverse civiltà che lo circondano. Questo determina la percezione di un certo distacco dal mondo arabo, accentuato dalla diversa identità etnica. 67
Luca Ozzano, Il difficile percorso dell’islam politico nella Turchia contemporanea
Il difficile percorso dell’Islam politico nella Turchia contemporanea
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Nazionalismo e culto dello Stato. L’attuale repubblica è nata dalla lotta guidata da Atatürk contro le potenze occidentali che avevano smembrato, pezzo a pezzo, l’Impero ottomano. Di conseguenza, essa si fonda su un nazionalismo portato agli estremi (con un rifiuto categorico della concessione di autonomie territoriali, viste come l’anticamera dello smembramento) e un culto dello stato che sono comuni, in misura maggiore e minore, a tutte le forze politiche maggiori (anche per la virtuale eliminazione della sinistra dopo i golpe del 1971 e del 1980). Oggi il panorama politico è dominato dal conservatorismo islamico dell’AKP, dal nazionalismo kemalista del CHP e dall’ultra-nazionalismo dell’MHP. Un altro attore politico di primo piano (nonché custode del dogma nazionalista di Atatürk) è l’esercito, costantemente presente nella vita politica per difendere l’integrità e la laicità dello Stato. Laicità dello Stato. Come si vedrà meglio più avanti, l’attuale assetto della laicità dello Stato in Turchia è un effetto diretto delle riforme imposte dal regime di Atatürk negli anni fra le due guerre mondiali. Questo modello (che in Europa trova qualche somiglianza in quello francese) configura non tanto una separazione fra Stato e religione, ma una predominanza del primo sulla seconda, con un divieto assoluto (di natura costituzionale) rispetto alle manifestazioni esplicite della religione nella sfera pubblica, in particolare in campo politico. Islam di Stato e confraternite sufi. Il panorama religioso turco si presenta diviso fra un islam ufficiale (sotto il controllo diretto dello Stato) e uno cosiddetto “popolare”, duramente represso nei primi decenni del regime kemalista e oggi rinvigorito. Questo è estremamente variegato ed è composto in particolare dalle confraternite sufi, che molta parte hanno avuto nell’evoluzione dell’islam politico nel paese, e dai cosiddetti gruppi testuali, come nur e fethullahci 1.
Dall’Impero alla Repubblica Sia il peculiare assetto della laicità dello Stato in Turchia, sia 68
lo stesso movimento islamista trovano le proprie origini remote nel periodo di decadenza dell’Impero ottomano, tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento: soprattutto in relazione alle radicali riforme imposte nel corso dell’Ottocento dai sultani Mahmud II (1785-1839) e Abdülmecid I (1823-1862). Quest’ultimo fu promotore delle norme dette Tanzimat (nuovo ordine), che sancirono fra l’altro l’uguaglianza di tutti i cittadini dell’Impero e la loro libertà religiosa, oltre a introdurre una legislazione laica che privava di potere, fra l’altro, i tribunali religiosi. L’ideologia sottesa alle riforme era quella dell’ottomanismo, corrente di pensiero “ideata per minimizzare le differenze culturali, etniche e religiose” attraverso un comune senso di cittadinanza ottomana 2. La reazione alle riforme, che innescarono un processo di profondi cambiamenti all’interno della società turca, si manifestò in politica attraverso il movimento dei Giovani ottomani, ispirato ai modelli di società segreta europea dello stesso periodo (e in particolare a Mazzini). Questo gruppo proponeva una versione islamica della modernità, in cui le istituzioni rappresentative occidentali potessero trovare la propria giustificazione all’interno della legge coranica 3. Le sue posizioni, che ebbero un’influenza non trascurabile sulla politica turca della seconda metà dell’Ottocento, furono in qualche misura ricalcate da Abdülhamid II (sultano fra il 1876 e il 1909). Altro evento traumatico del periodo fu il trattato di Berlino, con cui l’Impero perse due quinti dei suoi territori, divenendo una entità statuale a schiacciante maggioranza musulmana. Tale tendenza fu rafforzata dalle massicce migrazioni di musulmani dai territori balcanici perduti, in seguito a violenze e atrocità che ebbero una profonda impressione sulla popolazione ottomana. La realtà di un Impero più compatto dal punto di vista religioso rese così più facile l’utilizzo dell’Islam e del Califfato come armi politiche per governanti sempre più in crisi di legittimità 4. Tuttavia, all’inizio del Novecento fece la sua comparsa nell’impero un nuovo gruppo, definito dei Giovani turchi, che si differenziava dai Giovani ottomani per il suo credo positivista in scienza e ragione e il suo rifiuto della religione. Esso riuscì, nel giro di 69
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pochi anni, a giungere al potere. Nel suo tentativo di rivincita, Istanbul si alleò con la Germania nella Prima guerra mondiale, con la conseguente perdita, in seguito al Trattato di Sèvres 5 del 1920, di quasi tutto il resto dell’impero, fatta eccezione in pratica per la sola Anatolia 6. In questi anni si consumò, fra l’altro, una dura repressione da parte del governo in carica contro tutti gli oppositori politici e, in particolare, contro gli Armeni 7. Fu poi Mustafà Kemal (in seguito noto come Atatürk) che, deposto il sultano, risollevò il morale delle truppe e le guidò nella riconquista della Tracia orientale e di altri territori perduti, finché il Trattato di Losanna (24 luglio 1923) disegnò i confini della Turchia quale noi oggi la conosciamo 8.
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Kemalismo e laicità dello Stato L’elenco delle riforme operate dalla nuova amministrazione repubblicana (che operò per oltre due decenni in un regime di partito unico, mediante il Cumhuriyet halk partisi - Partito Popolare Repubblicano, CHP) è effettivamente impressionante e rende più l’idea di una vera e propria rivoluzione che di un percorso riformista. Queste le principali tappe: abolizione del Sultanato (1922), del Califfato, del Ministero degli Affari Religiosi, delle scuole e dei tribunali religiosi (1924); trasferimento della capitale da Istanbul ad Ankara (1923); abolizione di monasteri (tekke), confraternite (tarikat), e titoli religiosi, proibizione dell’uso di turbanti e fez e dell’adorazione delle tombe dei santi (türbe) (1925); istituzione del codice civile svizzero, del codice penale tedesco e di quello commerciale italiano (dal 1926) che diedero diritti fino ad allora impensabili alle donne; abolizione del riferimento costituzionale all’Islam come religione di stato e abbandono dell’alfabeto arabo a favore di uno di derivazione latina (1929); obbligo del richiamo alla preghiera in turco e non più in arabo e istituzione delle “case del popolo” (halk evi ), che 70
avrebbero dovuto rimpiazzare le istituzioni religiose come agenti di socializzazione (1932); voto alle donne e imposizione dell’uso di cognomi all’europea (1934); imposizione del calendario occidentale e della domenica come giorno festivo ufficiale al posto del venerdì (1935) dichiarazione costituzionale dello Stato laik, laico (1937); proibizione della creazione di una associazione o partito su base religiosa (1938) 9. Il regime si caratterizzò inoltre per una rivalutazione (che in alcuni casi diventò una vera e propria invenzione della tradizione) del passato turco pre-islamico, a scapito dell’eredità ottomana 10. Con la lotta contro gli occupanti stranieri, oltre al mito di Atatürk (la dogmatica e incondizionata devozione verso il quale è stata assimilata da Gülalp 11 a un vero e proprio culto religioso) si creò anche quello dell’esercito. Da allora, fino a oggi, l’apparato militare è sempre stato visto come “un’istituzione sacra che protegge i sacri valori dei Turchi” 12; tale legittimazione gli ha permesso di intervenire ripetutamente nelle vicende politiche del paese, senza scatenare diffuse reazioni di ostilità da parte della popolazione. L’imposizione della Repubblica e delle sue riforme non fu tuttavia esente da resistenze e rivolte (particolarmente aspre nell’Anatolia rurale e nelle regioni curde, in cui si fondevano istanze religiose e nazionaliste), nelle quali si distinse per il suo attivismo la confraternita naksibendi. Essa riuscì poi a sopravvivere alle repressioni e a divenire un agente della reislamizzazione del paese nel secondo dopoguerra. Proprio uno dei suoi esponenti, Said Nursi, diede inoltre origine a quelle che oggi sono definite “comunità testuali”. Infatti, intorno alla sua opera, Risalei Nur (Lettere sulla luce) si raccolse una comunità di seguaci (denominati nurcu , seguaci della luce) che si riunivano in luoghi segreti denominati dershane per leggerla e discuterla 13. Dopo le aperture degli ultimi decenni del Novecento, la comunità dei nurcu sarebbe riemersa dalla clandestinità come una delle più potenti forze dell’Islam turco (in particolare attraverso la sua filiazione guidata da Fethullah Gülen). A prosperare sotto il regime kemalista fu invece la minoranza alevi (che oggi ammonta a circa 71
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15 milioni di persone), più moderata e affine allo sciismo (nonché in odore di eresia secondo l’ortodossia sunnita dell’Islam turco), che si inserì proficuamente nella struttura istituzionale imposta dal regime e, dopo la democratizzazione, costituì un importante nucleo all’interno dei partiti di sinistra 14.
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Democratizzazione e nascita dell’Islam politico La svolta per lo sviluppo e la diffusione dell’Islam politico in Turchia si ebbe all’inizio del 1946, allorché la giunta al potere, sotto la guida di Ismet Inönü, permise la creazione di un secondo partito politico nazionale, il Demokrat parti (Partito Democratico, DP). Più vicini al mondo dell’Anatolia rurale, i Democratici sperimentarono che l’enfasi sulla libertà religiosa era la parte più gradita alla popolazione del loro programma elettorale, e le diedero una maggiore importanza; per controbattere, anche il partito di governo CHP rilassò il regime di laicità, reintroducendo corsi di religione nelle scuole, scuole per predicatori (imam hatip) e una Facoltà di Teologia ad Ankara, nonché riaprendo le tombe di alcuni santi, e allentando le restrizioni sui viaggi alla Mecca 15. Alle elezioni del 1950 il DP tuttavia stravinse, conquistando 470 dei 539 seggi, e inaugurando una nuova fase politica in Turchia. Dopo la vittoria il DP tolse il bando al richiamo alla preghiera in arabo (precedentemente punito con la reclusione da 3 a 6 mesi); permise a radio e televisione di trasmettere letture dal Corano; rese l’educazione religiosa parte del regolare curriculum di scuole primarie e secondarie; raddoppiò i fondi alla Direzione degli affari religiosi; permise la costruzione di nuove moschee e scuole religiose; ed eliminò alcune restrizioni su attività legate alle confraternite (che rimasero però ufficialmente bandite) 16. La maggior parte delle restrizioni sulle attività religiose rimase, comunque, in vigore. Gli anni immediatamente successivi alla prima liberalizzazione politica testimoniarono, inoltre, i primi tentativi di creazione di partiti islamisti: nel 1945 il Partito di sviluppo nazionale (Milli 72
kalk›nma partisi); nel 1946 il Partito conservatore Turco (Türk muhafazakar parti); e nel 1951 il Partito democratico dell’Islam (Islam demokrat partisi). Tutte queste formazioni ebbero tuttavia scarso successo o furono bandite dalle autorità dopo pochi mesi di vita: destino condiviso, negli stessi anni, anche dal Partito della purificazione e della protezione (Ar›tma koruma partisi) e dal Partito per la difesa dell’Islam (Islam koruma partisi). Più fortuna ebbe il Partito della Nazione (Millet partisi), fondato nel 1948 da un maresciallo eroe di guerra, che adottava un approccio più dissimulato (precursore di quello adottato da Erbakan due decenni più tardi): esso sopravvisse infatti – cambiando due volte nome per sfuggire ai tentativi di interdizione – fino al colpo di stato del 1960 (anno in cui, alleandosi con un partito contadino, aveva ottenuto il 13,9% dei voti nazionali nelle elezioni) 17. Il DP si mantenne al potere fino al 1961, allorché il suo governo fu rovesciato dall’esercito, ufficialmente intervenuto in difesa della democrazia: il partito fu bandito e i suoi leader arrestati (e in tre casi, fra cui quello del Primo ministro Menderes, impiccati). I militari, sotto la guida di Cemal Gürsel, bandirono tutti i partiti e promulgarono una nuova Costituzione, la cui principale innovazione fu quella di creare un Consiglio di sicurezza nazionale (ancora oggi esistente) che assegnava permanentemente ai militari un ruolo ufficiale in politica. Dopo il ritorno alla democrazia (con una nuova legge elettorale proporzionale), l’anno successivo al golpe, il vuoto lasciato dal DP venne preso dal Partito della giustizia (Adalet Partisi - AP) di Süleyman Demirel (che sarebbe risultato vincitore delle elezioni nel 1965 e nel 1969). La nuova formazione fu tuttavia più cauta del DP nel proprio approccio verso la religione, e trovò invece il proprio principale compito nel tentativo di integrazione delle masse di emigranti che dalle campagne e delle province stavano affluendo nelle città 18.
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Nascita e sviluppo del milli görüs Nel frattempo, era in rapida crescita, di fronte al disorientamento prodotto dal rapido mutamento socio-economico del paese, il primo embrione del movimento islamista, che trovò il proprio leader, sul finire degli anni Sessanta, in Necmettin Erbakan. Ingegnere proveniente dal mondo rurale, figlio di un giudice (kadi ) ottomano e seguace dello sheikh Kotku della confraternita dei Naksibendi, egli aveva iniziato la propria carriera all’interno dell’AP 19. La sua posizione entrò tuttavia presto in conflitto con quella del partito, sia per i suoi riferimenti all’Islam e alla tradizione ottomana, sia per la sua difesa dei piccoli commercianti in qualità di segretario dell’Unione delle camere di commercio 20. Dopo essere entrato in Parlamento nel 1969, presentandosi come indipendente a Konya, egli fondò all’inizio dell’anno successivo – con la benedizione di Kotku – il Milli nizam partisi (Partito dell’ordine nazionale - MNP). Il programma del partito ricalcava quelle che erano state le posizioni dei gruppi islamisti a partire dagli anni Cinquanta, con richiami all’ordine, alla moralità e alla giustizia sociale, al rispetto dei costumi tradizionali, all’antioccidentalismo e alla polemica anti-massonica. Esso non polemizzava direttamente contro la laicità (definita nel documento “garanzia della libertà di religione e di coscienza”), ma contro il suo utilizzo “come un mezzo di pressione contro la religione”, e proponeva un’intensificazione dell’educazione religiosa nelle scuole 21. Gli equilibri politici erano tuttavia in evoluzione a causa dell’emergere di una polarizzazione ideologica fra sinistra (in ascesa soprattutto nelle università) e destra nazionalista. Quest’ultima si era sviluppata in particolar modo dopo la nascita, nel 1969, del partito di estrema destra Milliyetçi haraket partisi – Partito di azione nazionalista, MHP – guidato da Alparslan Türkes e connesso strettamente con i terroristi Lupi Grigi 22. All’incapacità del governo di rispondere ai crescenti disordini di segno islamista, marxista e nazionalista, l’esercito rispose con quello che fu definito dai commentatori “colpo di stato tramite 74
memorandum”. Con un ultimatum presentato al governo il 12 marzo 1971, le forze armate chiesero le dimissioni dell’esecutivo, la creazione di un “governo forte”, e l’adozione di misure per porre termine all’“anarchia”. Uno dei primi provvedimenti del nuovo governo fu la chiusura del MNP, con Erbakan costretto a fuggire in Svizzera. Il paese rimase sotto legge marziale per due anni, durante i quali 3.300 persone vennero processate da tribunali speciali e furono introdotte limitazioni all’attività in campo politico, associativo e sindacale 23. Alla ripresa dell’attività politica, il CHP si presentò nell’inedito ruolo di sfidante, contro un AP in stretti rapporti con l’élite militare. Nelle elezioni dell’ottobre 1973, il Partito repubblicano riuscì a riconquistare la maggioranza relativa, anche grazie allo spostamento di molti voti islamisti dall’AP verso il neonato Milli selamet partisi (Partito di salvezza nazionale - MSP). Questo partito, fondato nell’ottobre 1972 da collaboratori di Erbakan estranei al MNP 24 aveva infatti ottenuto un significativo 11,9% dei voti, e 48 seggi parlamentari 25. Il partito si fondava su una ideologia elaborata da Erbakan e conosciuta come milli görüs 26; essa – dovendo trattare il tema della religione in modo dissimulato, per evitare le censure del potere – presentava i simboli islamici in quanto parte della cultura nazionale turca 27. L’enfasi veniva posta da Erbakan sulla necessità di un “nazionalismo islamico” (islam milliyetçiligi ), e sul recupero di “mille anni di storia” (con riferimento al passato ottomano, e l’indicazione implicita del proposito di riportare in vita norme legate alla legge islamica), in quanto unica ricetta in grado di salvare “la continuità dell’esistenza della nazione” 28. In questi anni (in particolare dopo la fondazione nel 1970 del gruppo conosciuto come “focolare degli intellettuali”) andava, del resto, prendendo corpo la “sintesi turco-islamica” (più tardi fatta propria dalla giunta militare autrice del golpe del 1980), una ideologia che legava in modo indissolubile nazionalismo e religione islamica, e che indicava il comunismo come principale nemico. I pensatori aderenti a questa corrente puntavano innanzitutto all’unità delle destre, in modo da creare un fronte compatto filo-occidentale e anti-comunista 29. La destra islamista, in particolare nel 75
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suo segmento più giovane, era tuttavia anche sempre più influenzata dalla lettura dei classici del fondamentalismo islamico: in primo luogo Mawdudi, Qutb, e il teorico della rivoluzione iraniana Ali Shariati 30. Il programma del MSP, oltre a ricalcare i principali temi proposti dal MNP in campo sociale e morale, si presentava in modo del tutto innovativo per il suo ripudio dell’anti-modernismo e la proposta di un vasto progetto di rinnovamento del paese e delle sue infrastrutture 31. Erbakan poté tentare di mettere in pratica queste proposte fra il 1975 e la fine del 1977, quando il MSP fece parte di due successivi governi di coalizione, ottenendo la posizione di vice primo ministro e diversi ministeri. Oltre ad aumentare il budget del Ministero degli affari religiosi, una volta al potere il partito promosse campagne per la moralità (contro alcool, pornografia, e capi di abbigliamento come le minigonne), oltre a moltiplicare le scuole per imam: delle 300 scuole presenti nel paese nel 1979, ben 270 furono create in questi anni 32. Il partito, che ottenne l’8,6% dei voti nelle elezioni del 1977, traeva in questi anni la propria principale fonte di sostegno nelle aree periferiche e rurali, e in particolare nelle province curde (i cui abitanti esprimevano attraverso una simbologia religiosa la propria opposizione all’establishment), e in quelle a maggioranza alevi (dove la minoranza sunnita sosteneva il MSP per mettere in evidenza la propria identità) 33. Verso il finire del decennio, di fronte a una nuova ondata di instabilità politica e di disordini sociali, si fece tuttavia strada nelle forze armate l’idea di un nuovo pronunciamento militare, messo infine in atto il 12 settembre 1980, data in cui il Parlamento fu sciolto e tutti i partiti politici banditi. In tre anni di legge marziale furono condannate 230.000 persone, di cui 517 a morte (con 50 esecuzioni effettivamente eseguite); 300 persone morirono inoltre in circostanze non chiare e 800 risultarono disperse; quasi 4.000 insegnanti furono costretti a ritirarsi dall’attività e una pesante censura colpì tutti i media 34.
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Questa volta, la giunta militare non era guidata semplicemente dal bisogno di porre fine all’“anarchia”, ma da un desiderio di riorientare e riorganizzare le basi stesse della società turca. Vedendo come principale nemico le forze di sinistra (saldamente impiantate nelle province curde e alevi), il Generale Evren (che era tra l’altro figlio di un imam) decise di utilizzare l’Islam al fine di neutralizzarle, e aprì la strada a una maggiore liberalizzazione religiosa. Durante i tre anni di giunta militare furono aperti nuovi corsi di Corano e assunti nuovi predicatori; la religione divenne una componente obbligatoria del curriculum scolastico; ma, soprattutto, i militari adottarono la “sintesi turco-islamica” come parte della propria ideologia, ed iniziarono una stretta collaborazione con il “focolare degli intellettuali” 35. Questa politica, realizzata con l’intenzione di cooptare le forze religiose senza politicizzarle, avrebbe avuto invece come conseguenza non prevista sul lungo periodo l’ascesa al potere dell’Islam politico. Dopo l’introduzione nel 1982 di una Costituzione che aumentava ancora di più il peso del Consiglio di sicurezza nazionale, nel 1983 si tornò alle urne. A sorpresa, sui due partiti “ufficiali” sostenuti dai militari, vinse, con il 42% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, l’Anavatan partisi (Partito della madrepatria - ANAP) di Turgut Özal. Questi, un tecnocrate che aveva avuto un ruolo chiave nelle riforme economiche liberiste promosse dalla giunta, rivelò tuttavia dopo la vittoria attitudini non sospettate verso la religione. Esse derivavano soprattutto dalla sua adesione alla confraternita dello sheikh Kotku, il quale poco prima della morte, avvenuta nel 1980, si era allontanato dal MSP – giudicato eccessivamente estremista e autoritario – per benedire i progetti politici di Özal e del fratello Korkut (che nel 1978 aveva invano sfidato Erbakan per la leadership del MSP) 36. Gli anni Ottanta divennero così, inaspettatamente, il periodo più proficuo vissuto fino ad allora dall’Islam turco nella storia della Repubblica. L’ANAP rivalutò infatti l’eredità islamica e quella ottomana, neglette dal kemalismo, e fece un esplicito uso delle 77
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Il golpe del 1980 e gli anni del Refah
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reti delle confraternite per realizzare i propri progetti sociali. Özal affidò, inoltre, diversi ministeri (compreso quello dell’istruzione) a seguaci naksibendi e a membri del disciolto MSP, con una ricaduta sia sull’educazione religiosa (con un incremento del numero di corsi di Corano, di scuole imam hatip e di altri istituti religiosi), sia sulla penetrazione nella società di una nuova élite economica rispettosa della religione 37. Nel 1991, Özal realizzò inoltre il sogno degli islamisti, abolendo l’articolo 163 del codice penale sul bando alle confraternite (provvedimento che tuttavia non mutava i relativi dettami costituzionali sulla laicità, che rimasero in vigore). Soprattutto, il primo ministro segnalò il mutato atteggiamento verso la religione, compiendo un discusso viaggio alla Mecca e istituzionalizzando le cene di fine ramadan come vetrina per la nuova élite legata al suo governo. In questi anni la Turchia conobbe uno sviluppo economico senza precedenti, in coincidenza con una seconda ondata migratoria verso le città fra il 1985 e il 1990. Sul piano internazionale, il governo Özal perseguì una politica marcatamente europeista (e filo-americana, con una discussa adesione alla prima guerra del Golfo) oltre a proiettarsi – specie dopo il crollo dell’URSS – verso l’Asia Centrale e il Caucaso turcofoni 38. Di questo clima marcatamente pro-islamico approfittò anche Erbakan, che nel 1983 creò un nuovo soggetto politico, il Refah partisi (Partito della prosperità o del welfare - RP). Il partito rappresentava una continuazione della linea MNP/MSP, ma con alcune evoluzioni significative. Innanzitutto, esso sempre più rappresentava “non la reazione della tradizione ma la protesta di coloro che volevano un [più] ampio ruolo politico ed economico nel mondo in espansione della modernità”, con un’espansione verso i giovani, le donne e tutti coloro che soffrivano le conseguenze del liberismo degli anni di Özal, con una ricerca “di identità e sicurezza economica” 39. Alle tematiche religiose, i programmi e la retorica del partito aggiunsero non solo promesse di sviluppo, ma anche (coerentemente con il nuovo nome) di equità di distribuzione delle risorse e giustizia sociale, portando il RP verso il centro, con un abbandono delle precedenti tendenze di estrema destra 40. 78
All’inizio degli anni Novanta, in particolare, il discorso di Erbakan si incentrò primariamente sulla proposta di un “giusto ordine economico” (adil düzen ): superate le idee protezionistiche degli anni Settanta, ora il RP proponeva “sviluppo spirituale, protezione dell’ambiente, eliminazione della corruzione, amministrazione decentralizzata, promozione dell’impresa individuale, e ritiro dello stato da tutte le attività economiche”, senza dimenticare la lotta contro “sfruttamento, capitalismo, imperialismo e sionismo” 41. Dal punto di vista identitario, il RP proponeva quello che Yavuz definisce “neo-ottomanismo”, con un anti-occidentalismo nostalgico del passato imperiale e la presentazione della Turchia come Stato difensore dell’Islam e naturale guida per il mondo musulmano; la religione veniva inoltre proposta come una cura per i conflitti che laceravano la società turca, primo fra tutti il problema curdo 42. Il messaggio del partito era, comunque, estremamente modulato in funzione delle caratteristiche sociali delle diverse regioni della Turchia: nelle regioni anatoliche, il RP era così difensore dell’identità sunnita contro gli Alevi; nelle regioni del Mar Nero, rappresentante della borghesia mercantile; portavoce dei kurdi sunniti nel sud-est; forza di tendenza social-democratica nella regione intorno a Istanbul 43. Il punto di forza che permise al partito una sorprendente ascesa non era probabilmente il suo messaggio populista, che metteva insieme proposte difficilmente conciliabili, ma la sua organizzazione e la sua strategia, che gli permisero di occupare un vuoto nello schieramento politico. Definita “modello tesbih” (dal nome dei comitati provinciali e distrettuali di 33 membri, in corrispondenza ai 33 grani del rosario islamico), la struttura del partito – secondo Zarcone assimilabile al modello della confraternita religiosa – era infatti basata su una penetrazione capillare nella società, che giungeva fino ai “rappresentanti di strada”, incaricati di raccogliere informazioni sul vicinato e sulle sue esigenze. Il RP promuoveva infatti una rete di attività sociali e di welfare, che fornivano aiuto materiale e finanziario ai più bisognosi. Alla mobilitazione non sfuggivano i giovani, né le donne, a cui erano dedi79
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cate specifiche organizzazioni dall’intensa attività; una parte essenziale dell’attività del Refah era inoltre svolta dai legami internazionali, sia con gli immigrati turchi in Europa, sia (negli anni Novanta) con i musulmani di paesi in guerra come Cecenia e Bosnia 44. Negli anni Ottanta il secondo grande fenomeno nel mondo dell’Islam turco oltre al Refah fu il movimento guidato da Fethullah Gülen, che emerse come il più significativo dei gruppi basati sulle idee di Said Nur. Promotore di una linea occidentalista e filo-democratica e vicino a Özal – ma sospettato comunque dai laici di propugnare il fondamentalismo e l’islamizzazione dello Stato – Gülen avrebbe, nel corso di due decenni, fondato un impero mediatico ed educativo potentissimo in patria, e con propaggini in quasi tutti i paesi islamici (in particolare in quelli turcofoni del Caucaso e dell’Asia Centrale), con un ruolo essenziale di promotore della cultura e dell’Islam turco 45. Durante quasi tutti gli anni Ottanta il RP fu politicamente messo in ombra da Özal, non essendo ammesso a partecipare alle elezioni del 1983, e non ottenendo seggi in quella del 1987 (pur con il 7% dei voti) a causa della nuova legge elettorale con sbarramento al 10% 46. Solo verso la fine del decennio, esso ritornò a ottenere risultati elettorali soddisfacenti, sia grazie al voto degli esclusi dalle politiche liberiste governative, sia per una progressiva laicizzazione dell’ANAP, a seguito dell’ascesa di Özal alla Presidenza della Repubblica (1989) e alla sua morte (1993). Il RP, nelle elezioni del 1991 strinse un’alleanza tattica con il MHP e un partito minore, superando così la soglia di sbarramento e ottenendo 40 dei 62 seggi della coalizione. Successivamente, nelle prime elezioni dopo la scomparsa di Özal, le municipali del 1994, il Refah ottenne 300 municipi, fra cui quelli di Istanbul (con il futuro premier Erdogan) e Ankara. Il partito capitalizzò questo straordinario successo, da un lato presentandosi ancor più come forza moderata di centro; dall’altro beneficiando di un ritorno di immagine positivo grazie alla buona prova fornita nelle amministrazioni locali. Nei municipi guidati dal Refah la maggioranza dei cittadini riconosceva infatti una 80
maggiore efficienza e una riduzione della corruzione, rispetto alle precedenti amministrazioni formate da partiti laici 47. Nelle elezioni politiche del dicembre 1995 il RP confermò la propria crescita, assicurandosi la maggioranza relativa dei suffragi con oltre il 21% dei voti e 158 seggi. Nel giugno dell’anno successivo Erbakan raggiunse un accordo con il Dogru yol partisi (Partito dell’autentico cammino – DYP) di Tansu Çiller, che permise al leader del RP di divenire il primo premier della storia turca proveniente da un partito di orientamento islamista. Tale esito fu tuttavia mal tollerato dai militari, in particolare dopo che Erbakan inaugurò una politica estera filo-islamista (con viaggi in Libia e Iran e la creazione del D8, un’organizzazione di paesi musulmani destinata a contrapporsi al G8). Ad essa si aggiungevano le politiche identitarie perseguite nelle municipalità, con significativi interventi sulla simbologia e sulla toponomastica ispirati all’Islam e al passato ottomano 48. Le forze armate intervennero così, ancora una volta, il 28 febbraio 1997, con la sottoposizione al governo di una serie di “raccomandazioni” – azione definita dagli osservatori “golpe postmoderno” – che comprendevano soprattutto misure di restrizione alle attività religiose (fra le principali: applicazione dei dettati costituzionali sulla laicità; controllo statale su tutte le attività educative religiose; irrigidimento delle relazioni con paesi islamisti; controllo sulle risorse economiche degli enti religiosi). Erbakan, dopo un tentativo di resistenza, fu costretto alle dimissioni nel giugno successivo, e fu successivamente bandito dall’attività politica per cinque anni insieme ad altri dirigenti, allorché il RP fu cancellato dalla Corte Costituzionale nel gennaio 1998 49.
Entra in scena l’AKP Il movimento islamista aveva tuttavia già provveduto a cautelarsi con la creazione di un nuovo partito, il Fazilet partisi (Partito della virtù - FP), che riuscì a ottenere il 15% dei voti già nelle elezioni del 1999. Esso entrò comunque in un periodo di dissenso 81
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interno e di crisi, che coinvolgeva sia la linea politica del partito, sia la sua gestione da parte di Erbakan, considerata da molti troppo personalistica e autocratica. Lo scontro iniziò ufficialmente allorché Abdullah Gül (esponente della giovane guardia, appoggiato anche dal popolarissimo ex-sindaco di Istanbul, Recep Tayyip Erdogan) sfidò nel 2000 l’uomo di Erbakan, Recai Kutan, per la leadership del partito, venendo sconfitto di stretta misura. Quando, l’anno successivo, la Corte Costituzionale chiuse anche il FP 50, la scissione fra i due gruppi giunse a maturazione, con la fondazione del Saadet partisi (Partito della felicità - SP) da parte dei sostenitori di Erbakan, e dell’Adalet ve kalk›nma partisi (Partito della giustizia e dello sviluppo - AKP) da parte della fazione opposta 51. L’operazione dei moderati – insieme al rifiuto dei partiti tradizionali di una parte dell’elettorato e all’aura di martire aleggiante intorno a Erdogan – risultò evidentemente vincente nelle elezioni del novembre 2002, in cui l’AKP si affermò con il 34% dei voti, conquistando la maggioranza assoluta in Parlamento, mentre il SP si fermò a poco più del 2%. Questa vittoria elettorale non fu tuttavia soltanto frutto di un voto di protesta o della congiuntura politica. Essa coinvolse invece, in modo più profondo, le basi stesse del movimento islamista e della società turca, entrambi passati attraverso un difficile processo di modernizzazione. Infatti, l’AKP è apparso fin dalla sua fondazione come un’assoluta novità all’interno della destra religiosa turca, sia per il suo richiamo al DP e all’esperienza di Özal, sia per le sue posizioni conservatrici filo-democratiche e filo-europeiste (che lo hanno fatto paragonare ai partiti cristiano-democratici europei) 52. Anche il SP, tuttavia, pur riaffermando la propria adesione alla filosofia del milli görüs e proponendo un programma ancorato a basi identitarie – mentre l’AKP preferisce proporsi in termini di “pluralismo e cittadinanza” – avanza discorsi su democrazia, libertà e diritti umani in termini sconosciuti ai partiti islamisti del passato 53. Secondo Yavuz, questa metamorfosi – in particolare per l’AKP – non sarebbe semplicemente un processo top-down di adattamento determinato dall’intervento dei militari, ma anche il prodotto di 82
una base borghese urbana i cui network si sono mobilitati per definire il partito come rappresentante del centro politico. Il partito di Erdogan è infatti oggi espressione non semplicemente del tradizionale movimento islamista, ma di una complessa base sociale (solo una parte della quale vota spinta da motivazioni religiose). Questa comprende buona parte delle nuove classi sociali emerse dopo le riforme promosse a partire dagli anni Novanta: sia i “vincenti” della nuova borghesia islamica (che trovano una propria espressione nella potente organizzazione MÜSIAD e adottano in molti casi uno stile di vita che ha fatto parlare di “yuppies islamici”), sia i “perdenti” (che abitano a milioni le bidonvilles – gecekondu – delle periferie urbane e si appoggiano agli islamisti sia per le loro attività di welfare sia per una necessità di riconoscimento identitario) 54. Il successivo governo – formato dal solo AKP e guidato da Erdogan a partire dall’inizio dell’anno successivo 55 – ha governato il paese dal 2002 fino ad oggi (con una netta conferma elettorale nel 2007 che lo ha portato al 46% dei voti). Esso ha mantenuto le promesse europeiste, non soltanto attraverso l’impostazione della sua politica estera (che ad esempio ha cercato una soluzione costruttiva al problema di Cipro) 56, ma soprattutto con una serie di provvedimenti legislativi di riforma, che hanno toccato in modo significativo l’economia e la trasparenza dell’apparato statale, ma anche difficili questioni come i diritti delle minoranze. La relazione con l’esercito – che insieme ai partiti laicisti ha paradossalmente preso una posizione più o meno velatamente anti-europeista – si è mantenuta tesa, con l’esecutivo accondiscendente verso molte richieste dei militari, ma anche pronto a riaffermare in molte occasioni la propria autonomia e, talvolta, a operare vere e proprie provocazioni 57.
Uno scenario incerto Lo scontro fra i due schieramenti, parzialmente sopito nei primi anni di governo dell’AKP, si è riacceso nel 2007, allorché 83
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l’AKP ha tentato di eleggere Abdullah Gül, contestato dai laici e dai militari per il suo passato islamista, alla Presidenza della Repubblica. Questo confronto – che ha portato a una situazione di stallo politico visto il boicottaggio del partito di opposizione CHP – ha condotto alle nuove elezioni del 2007, la cui campagna è stata caratterizzata da un clima politico particolarmente acceso. Dopo la vittoria, L’AKP È infine riuscito a eleggere Gül e, successivamente, ha appagato i desideri di una parte considerevole dei suoi votanti abolendo il bando al velo islamico negli uffici pubblici e nelle università. Questo provvedimento è stato tuttavia annullato dalla Corte costituzionale, che ha inoltre avviato un processo contro l’AKP che non si è concluso con la chiusura del partito per un solo voto di scarto. Contemporaneamente, un altro processo ha messo alla luce la vicenda di Ergenekon, un gruppo golpista formato da militari e membri dell’intellighentzia laica che intendeva abbattere il governo di Erdogan attraverso un complesso piano che comprendeva anche attentati terroristici (compresi probabilmente quelli, già portati a termine, di Hrant Dink e del sacerdote cattolico Andrea Santoro) da manipolare mediaticamente in modo da giustificare un golpe. La situazione appare oggi, pertanto, estremamente fluida ed incerta. Infatti, da un lato, l’avvento al potere dell’AKP sembra avere segnato una riappacificazione della Turchia con il proprio passato islamico e ottomano e la propria eredità culturale, oltre a rispecchiare più fedelmente un nuovo assetto sociale. D’altra parte, ciò avviene in un Paese ancora estremamente polarizzato e diviso al proprio interno fra islamisti e secolaristi, oltre che segnato da difficoltà di carattere socio-economico e di convivenza fra diversi gruppi etno-religiosi. È probabile quindi che proprio l’esito dei negoziati per l’accesso della Turchia nell’Unione europea (rispetto ai quali alcuni paesi europei pongono ostacoli, percepiti in modo estremamente negativo in Turchia) rappresenti un passaggio decisivo per determinare il consolidamento delle istituzioni democratiche e l’instaurazione di una maggiore pace sociale; oppure una ricaduta nei conflitti e nell’instabilità.
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1. Per un discorso più approfondito sul panorama dell’Islam turco, cfr. T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, Paris, Flammarion, 2004; e M. Introvigne, La Turchia e l’Europa. Religione e politica nell’islam turco, Milano, Sugarco, 2006. 2. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, New York, Oxford University Press, 2003; pag. 41-42. Come si vedrà, questa tradizione è stata ripresa dagli islamisti turchi contemporanei, nonché dallo stesso AKP, al cui proposito si parla di una corrente di pensiero “neo-ottomanista”. 3. T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, cit.; pag. 79. 4. Cfr. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pagg. 43-44; e F. Georgeon, Abdulhamid II: Le Sultan Calife, Paris, Fayard, 2003; pag. 197. 5. Non casualmente, la paranoia nazionalista e il terrore della disgregazione dello Stato manifestati oggi da una parte consistente della classe politica e dell’opinione pubblica turca sono definiti da molti studiosi “sindrome di Sèvres”. cfr. M. Guida, The Sèvres Syndrome and Komplo Theories in the Islamist and Secular Press, in “Turkish Studies”, vol. 9, 2008, n. 1; pp. 37-52. 6. A. Biagini, Storia della Turchia contemporanea , Milano, Bompiani, Milano, 2002; pagg. 39-54. 7. Vicenda oggi risollevata da chi vorrebbe l’attribuzione a essa dell’etichetta di genocidio. 8. A. Biagini, Storia della Turchia contemporanea , cit.; pagg. 55-57. 9. cfr. D. Shankland, Islam and Society in Turkey, Huntingdon, UK, The Eothen Press, 1999; pag. 19; T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, cit.; pagg. 139-142; M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pagg. 48-49. 10. Idem; pag. 51. Questa fase politica (kemalismo di Stato) proseguì, secondo Zarcone, fino al 1946, anno in cui sarebbe iniziata una seconda fase caratterizzata, dal punto di vista politico, dal passaggio al pluripartitismo e, dal punto di vista religioso, da un rilassamento della repressione. Ad essa sarebbe seguita una terza fase, iniziata nel 1973, caratterizzata dall’ascesa dell’Islam politico [T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, cit.; pag. 132]. 11. H. Gülalp, Enlightenment by Fiat: Secularization and Democracy in
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Turkey, in “Middle Eastern Studies”, vol. 41, n. 3, 2005; pp. 351-372. 12. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pag. 49. 13. Idem, cit.; pag. 155; T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, cit.; pagg. 145-146. 14. J.P. Touzanne, L’islamisme turc, Paris, L’Harmattan, 2001; pagg. 165169. 15. idem; pagg. 121-122. 16. O. Taspinar, Kurdish Nationalism and Political Islam in Turkey, New York/London, Routledge, 2005; pagg. 123-124. 17. T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, cit.; pagg. 183-185. 18. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pag. 65. 19. J.P. Touzanne, L’islamisme turc, cit.; pagg. 30-31. 20. La difesa della piccola imprenditoria provinciale di fronte al grande capitale sarebbe rimasta una costante dell’Islam politico in Turchia anche nei decenni successivi. 21. T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, cit.; pagg. 189-191. 22. A. Çinar, B. Arikan, The Nationalist Action Party: Representing the State, the Nation, or the Nationalists? , in R. Barry e M. Heper, Political Parties in Turkey, London/Portland, Frank Cass; pagg. 25-27 23. Cfr. H. Türsan, Democratisation in Turkey: The Role of Political Parties, Brussels, Presses Universitaires Européennes, 2004 ; pagg. 165166; P. Tank, Political Islam in Turkey: A State of Controlled Security, in “Turkish Studies”, vol. 6, 2005, n. 1; pagg. 3-19; J.P. Touzanne, L’islamisme turc, cit.; pag. 31. 24. Erbakan sarebbe entrato ufficialmente nel partito solo più tardi, al ritorno dal suo esilio svizzero. 25. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pagg. 209-210. 26. Letteralmente: “punto di vista (o visione) nazionale”: questo è il nome anche del movimento fondato da Erbakan durante l’esilio europeo, che non solo sarebbe stato egemone nell’Islam politico turco fino alla fine degli anni Novanta, ma sarebbe anche diventato il principale rappresentante degli emigranti turchi in Europa (grazie anche all’attività svolta da Erbakan durante il suo esilio in Svizzera). 27. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pag. 212. 28. G. Cetinsaya The Muslim World, vol. LXXXIX, 1999, n. 3-4; pag. 373. 29. Idem; pagg. 373-374. 30. T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, cit.; pag. 199.
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31. Idem; pag. 193. 32. Idem; pagg. 198-199. 33. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pagg. 210-211. 34. L. Ünsaldi, Le Militaire et la Politique en Turquie, Paris, L’Harmattan, 2005; pagg. 110-111. 35. Ibidem; M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pagg. 69-73. 36. F. Atacan, Explaining Religious Politics at the Crossroad: AKP-SP, in “Turkish Studies”, vol. 6, 2005, n. 2; pag. 191. 37. Questa nuova borghesia islamica avrebbe trovato una propria espressione corporativa nel 1990 con la creazione del MÜSIAD, organizzazione imprenditoriale nata per contrapporsi al TÜSIAD, espressione delle vecchie élites e del grande capitale. 38. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pagg. 79-93. 39. Ü. Cizre Sakallioglu, Parameters and Strategies of Islam-State Interaction in Republican Turkey, in “Internazional Journal of Middle East Studies”, n. 28, 1996; pagg. 241-243. 40. D. Vardar, Le nouveau visage de la droite islamisante, in “Les Annales de l’Autre Islam”, n.6, 1999; pagg. 308-309. 41. H. Gülalp, Political Islam in Turkey: The Rise and Fall of the Refah Party, in “The Muslim World”, vol. LXXXIX, 1999, n. 1; pag. 27. 42. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pagg. 224-225. 43. M. H. Yavuz, Political Islam and the Welfare (Refah) Party in Turkey, in “Comparative Politics”, vol. 30, 1997, n. 1; pagg. 78-79. 44. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pag. 228; H. Yavuz, Political Islam and the Welfare (Refah) Party in Turkey, cit.; pag. 79; M.G. Cajoly, La modernité sous le voile? Les voix féministes du parti Refah; in “Les Annales de l’Autre Islam”, 1999, n. 6 ; pag. 35; T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, cit.; pagg. 223. 45. M. H. Yavuz, The Gülen Movement, in M. H. Yahuz e J. L. Esposito, Turkish Islam and the Secular State: The Gülen Movement, Syracuse, Syracuse University Press, 2003; pp. 19-47; F.J. Besson, L’action des Fehtullahci en Azerbaïdjan , in “CEMOTI ”, 2004, n. 38; pagg. 176-177. 46. D. Shankland, Islam and Society in Turkey, cit.; pagg. 90-91. 47. M. H. Yavuz, Political Islam and the Welfare (Refah) Party in Turkey, cit.; pag. 72; H. Gülalp, Political Islam in Turkey: The Rise and Fall of the Refah Party, cit.; pag.37. 48. F. Kentel, Ferhat, L’expérience du Refah au gouvernement: un con-
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servatisme entre démocratie et islamisme, in “Les Annales de L’Autre Islam”, n. 6, 1999; pag. 302; T. Zarcone, La Turquie Moderne et l’Islam, cit.; pagg. 215-220. 49. L. Ünsaldi, Le Militaire et la Politique en Turquie, cit.; pagg. 122-123; S. Vertigans, Islamic Roots and Resurgence in Turkey: Understanding and Explaining the Muslim Resurgence, Westport, Praeger, 2003; pag. 69. 50. In questo caso, il pretesto per la chiusura del partito era stato fornito dal caso di una deputata del FP, Merve Kavaci, che aveva tentato di presenziare velata alla seduta inaugurale del Parlamento. 51. F. Atacan, Explaining Religious Politics at the Crossroad: AKP-SP, cit.; pag. 193; H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pag. 250. 52. W. Hale, Christian Democracy and theAKP: Parallels and Contrasts, in “Turkish Studies” vol. 6, 2005, n. 2; pag. 293. 53. F. Atacan, Explaining Religious Politics at the Crossroad: AKP-SP, cit.; pag. 194. 54. M. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.; pag. 257; S. Özel, After the Tsunami , in “Journal of Democracy”, vol. 14, n. 2, 2003, pp. 80-94: 84; J. White, Islamist Mobilization in Turkey: A Study in Vernacular Politics, Seattle/London, University of Washington Press, 2002, pp. 47-49. 55. Erdogan era stato bandito dalla politica per cinque anni – oltre a essere incarcerato per alcuni mesi – per avere recitato durante un comizio una poesia che secondo i magistrati incitava all’odio religioso. Solo dopo l’ascesa al potere del suo partito, un referendum popolare gli consentì di ritornare nell’arena politica. 56. L. Ozzano, Fra europeismo e neo-ottomanismo. La politica estera della Turchia durante il governo dell’AKP (2002-2007), in “Biblioteca della libertà”, a. XLIII, 2008, n. 191; pagg. 21-33. 57. B. Oran, Baskin, National Sovereignty Concept: Turkey and its Internal Minorities, in “CEMOTI”, 2003, n. 36; pagg. 61-62; G. Bertrand, Chypre: un enjeu stratégique pour la candidature turque à l’Union europeenne, in “CEMOTI”, 2003, n. 36, pagg. 178-179; E. Dogan, The Historical and Discoursive Roots of the Justice and Development Party’s EU Stance, in “Turkish Studies”, vol. 6, 2005, n. 3; pag. 422; M. Heper, The Justice and Development Party Government and the Military in Turkey, in “Turkish Studies”, vol. 6, 2005, n. 2; pagg. 220-229.
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La scuola della Gelmini
Due sono gli ostacoli che si incontrano nel voler comprendere la cosiddetta riforma Gelmini: anzitutto, lo stato di “fluidificazione” dell’attività ministeriale, che rende inafferrabile e per così dire viscoso l’insieme dei provvedimenti deliberati, costantemente variabili in virtù di una serie di riadeguamenti per prova ed errore, orientati dalle reazioni immediate dell’opinione pubblica; in secondo luogo, una mistura perversa di fatti e opinioni, che contraddistingue sia i disposti governativi, a mezzo tra motivazioni economiche e motivazioni ideologiche tradizionalistiche e fortemente restaurative, sia i giudizi dell’opposizione politica e sindacale, in costante slittamento tra il piano delle soluzioni oggettivamente adottate dal governo e quello ancora indeterminato e nebuloso delle ipotesi di indirizzo, vagliate per di più senza un reale sforzo di oggettività. Per seguire dunque nel loro tortuoso sviluppo gli effettivi percorsi della riforma, occorre anzitutto osservare che i quattro fondamentali testi normativi della trasformazione in atto si incentrano non su un progetto coerente di riforma, bensì su un provvedimento di tipo finanziario, il Decreto Legge 112 del giugno 2008, poi convertito in Legge 133/08, in cui quattro articoli modificano strutturalmente l’assetto istituzionale della scuola, dell’università e della contrattazione. Due articoli, l’art. 16 (che consente alle facoltà universitarie di trasformarsi in fondazioni) e l’art. 67 (che modifica la contrattazione) stabiliscono modificazioni delle quali al momento non conosciamo ancora l’esatta declinazione, mentre l’art. 15 impone un rivolgimento di cui nessuno, fino a oggi, pare aver colto la portata, vale a dire l’adozione, già a partire dal 89
Patrizia Nosengo, La scuola della Gelmini
Patrizia Nosengo
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prossimo anno, di manuali scolastici con parti scaricabili da internet, per giungere entro il triennio all’utilizzo di soli testi on-line. Imposizione, questa, che suscita allarme, giacché, se da un lato assicura alle famiglie minore costo dei libri di testo, dall’altro implica il rischio di forte impoverimento culturale in un Paese come il nostro, in cui soltanto il 5,8% della popolazione legge più di sette libri all’anno e ben il 44% degli adolescenti dichiara di non leggere mai un libro diverso da quelli di studio 1. Ma il vero fulcro attorno cui ruotano tutte le trasformazioni normative successive è l’art. 64, che prefigura un radicale stravolgimento della scuola in ogni suo aspetto 2: pianifica l’incremento del rapporto alunni/docenti, stabilisce una diminuzione del 17% del personale non docente rispetto alle dotazioni organiche del 2007-’08, prospetta una ridefinizione dell’assetto organizzativo-didattico dei Centri di istruzione per adulti, preannuncia un intervento radicale sull’organizzazione didattica della scuola elementare e prevede una revisione delle classi di concorso (che dovrebbe introdurre una “maggiore flessibilità nell’utilizzo dei docenti”), dei quadri orari e dei curricoli per tutti gli ordini di scuola. Il tentativo di nobilitare tali interventi mediante il richiamo ai criteri di efficacia e di efficienza e alla finalità “di una migliore qualificazione dei servizi scolastici e di una piena valorizzazione professionale del personale docente” 3 non nasconde l’intento cruciale del legislatore, che è quello di una ingentissima economia di spesa 4, che dovrebbe scaturire dalla drastica diminuzione del personale, valutata in 87.400 insegnanti e 44.500 tra impiegati delle segreterie e collaboratori scolastici. Il successivo DL 137 (poi convertito, con un iter di approvazione insolitamente rapido e il ricorso alla fiducia, in Legge 169/08 e intitolato “Disposizioni urgenti in materia di istruzione e di università”) presenta molteplici sfaccettature, non sempre reciprocamente coerenti. Se infatti l’introduzione, sia pure problematica dal punto di vista organizzativo 5, della nuova disciplina “Cittadinanza e Costituzione” costituisce un fattore positivo di rafforzamento dell’educazione alla cittadinanza e alla democrazia, le altre parti del testo introducono tre modifiche fortemente 90
restaurative: il ritorno alla valutazione espressa in decimi nella scuola dell’obbligo, il ritorno al maestro unico e alla scuola elementare di 24 ore settimanali e la valutazione in decimi del comportamento, che entra a far parte a tutti gli effetti del calcolo della media finale dei voti. Indubbiamente nell’intenzione del legislatore quest’ultima norma si pone come risposta alla vasta eco suscitata da numerosi episodi di bullismo nella scuola, né stupisce dunque l’accoglienza positiva che riceve, almeno in un primo momento: in generale non soltanto molti opinionisti 6 si affrettano a plaudire alle nuove misure, ma sono numerosissimi i docenti che le elogiano, in quanto strumento almeno iniziale per imporre attenzione, impegno e rispetto e annullare in tal modo il progressivo sfilacciamento della disciplina e dell’interesse in ogni ordine di scuola. Tuttavia, con il trascorrere dei mesi l’iniziale approvazione viene illanguidendosi, fino alle recenti campagne di stampa, che problematizzano le conseguenze di queste misure normative, sia in relazione all’alto numero di voti insufficienti registrati al termine del primo quadrimestre, sia per quanto riguarda il merito stesso delle misure adottate 7. Queste oscillazioni dell’opinione pubblica provocano continue modifiche della normativa successiva riguardante i criteri dell’assegnazione del 5 in condotta e al tempo stesso pongono in luce le incoerenze e le difficoltà applicative di un provvedimento che non propone scale coerenti di valutazione e che, nel computare il voto di condotta tra le valutazioni che concorrono alla media finale, non considera che in tal modo comportamenti tutt’altro che ineccepibili - e dunque sanzionati con voti appena discreti (un 7, ad esempio) - finiscono con l’innalzare anche consistentemente la media conclusiva, con conseguenze involontariamente premianti sull’assegnazione dei crediti scolastici e sull’ammissione all’esame di Stato. Ma è l’art. 4 della legge a stravolgere riforme della scuola dell’obbligo ormai consolidate da decenni: con la legge 517 del 4 agosto 1977, infatti, la valutazione in decimi era stata sostituita da schede di valutazione con giudizi non numerici 8; mentre la legge 820 del 1971 aveva istituito classi elementari a tempo pieno, con 91
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due insegnanti per classe, che si dividevano l’area matematica e linguistica; e infine gli artt. 4 e 5 della Legge 148 del 1990 avevano eliminato definitivamente dalla scuola italiana il maestro unico, sostituendolo con moduli organizzativi costituiti da tre docenti ogni due classi, che si ripartivano gli ambiti disciplinari linguistico, matematico e storico-sociale. È appunto nel confronto tra la legislazione precedente e i nuovi testi di legge che emerge una chiave di lettura efficace per comprendere la cosiddetta riforma Gelmini. Sia la legge 517/77, sia la 820/71 introducevano infatti un modello di scuola fondato sul pensiero di Dewey e sui postulati del Mastery learning, secondo cui l’azione didattica può ottenere l’apprendimento efficace della quasi totalità degli allievi, a patto di avere a disposizione tempi congrui e di utilizzare la valutazione come strumento di correzione e riorientamento, anziché come mezzo di selezione. A partire da tale contesto dottrinale, con l’estensione pomeridiana dell’orario di lezione e la disponibilità di ore di compresenza dei docenti, utilizzabili per la suddivisione delle classi in piccoli gruppi, la scuola a tempo pieno si propose come la risposta più coerente alle istanze democratiche di costruzione di pari opportunità di partenza per tutti gli alunni; e in essa si sperimentarono modelli di coinvolgimento democratico delle famiglie nell’azione educativa e nuove tecniche didattiche, soprattutto di derivazione strutturalista e costruttivista. Lo stesso Ministero della Pubblica Istruzione progettò e monitorò sperimentazioni di scuola a tempo pieno nelle aree industrializzate e a forte immigrazione, sulla base del presupposto che un simile modello di scuola avrebbe potuto favorire l’apprendimento dei bambini appartenenti a famiglie operaie, favorendone la crescita culturale e l’integrazione in aree geografiche profondamente differenti da quelle di provenienza. Simili furono le istanze che condussero all’istituzione di classi a tempo prolungato nella scuola media inferiore. D’altro canto, la legge 148/90 fondò il modello organizzativo modulare sulle teorie bruneriane e della psicologia cognitivista di Miller, Galanter, Pribram, Neisser e Gibson, cui erano già stati ispirati i Nuovi Programmi per la scuola elementare del 1985; e orientò 92
l’insegnamento elementare verso una pluralità di discipline, considerate nelle loro specificità epistemologiche, con una considerevole complessificazione dei contenuti dell’apprendimento. Nulla di tutto ciò nei testi di legge dell’era Gelmini, che non fanno riferimento a teorie pedagogiche o psicologiche di sorta e si limitano a coniugare istanze pragmatiche di contenimento della spesa con considerazioni generiche e confusamente tradizionalistiche, sia pure a partire da un’analisi dell’attuale condizione della scuola in Italia non molto differente da quella presentata dal “Quaderno Bianco sull’istruzione” voluto dal Governo Prodi: entrambe, infatti, richiamano i dati OCSE, che, nel confronto tra spesa sostenuta per l’istruzione e livelli di apprendimento raggiunti dagli allievi, dimostrano l’inefficacia dell’attuale sistema formativo; e sottolineano oggettivi e certo inconfutabili elementi di debolezza della scuola italiana, dall’alto numero di insegnanti scaturito dall’istanza sindacale di incremento dei livelli occupazionali, allo spreco e all’uso incoerente delle risorse, alla povertà degli esiti di apprendimento, alla incoerenza e asistematicità di tutti gli interventi del passato. Ma da tale valutazione non scaturisce affatto un progetto unitario e coerente di trasformazione del sistema scolastico e anzi ne riemerge piuttosto l’elemento ideologico cardine del governo Berlusconi, vale a dire la tendenza alla sottostima dei problemi, alla semplificazione delle soluzioni e all’uso disinvolto del lessico, che finisce con il confondere il senso e il significato dei termini utilizzati. Non casualmente lo Schema programmatico del 1° ottobre 2008 adopera sistematicamente la parola essenzializzazione, giocando sulla ambiguità semantica di essenziale, che designa sia ciò che è riferibile alla “parte fondamentale, sostanziale di un ente”, sia ciò che è “ridotto ai minimi termini”. Vi si parla infatti di “essenzializzazione dell’intero quadro normativo, ordinamentale, organizzativo e operativo”; di “essenzialità, coerenza e continuità dei contenuti dei curricoli e dei piani di studio”, di “riduzione degli indirizzi e dei carichi orari di insegnamento”; di razionalizzazione dell’impianto dei piani di studio dei licei “in termini di massima semplificazione”; e di “attribuzione alle scuole di 93
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un organico essenziale” di personale non docente. È evidente, dunque, che l’auspicato “processo di modernizzazione” e “razionalizzazione” è qui declinato in termini univocamente di massima semplificazione e riduzione di ogni aspetto del sistema scolastico attuale, senza alcun discrimine scientificamente meditato tra parti fondamentali e parti accessorie. L’unico criterio di cernita che pare emergere è infatti un paradigma ideologico peculiare in parte dello schieramento cattolico moderato, che individua nella figura del docente elementare una sorta di succedaneo della figura genitoriale, soprattutto materna, e rivendica alla famiglia il ruolo educativo fondamentale; in parte ispirato alla subcultura tecnicistica, che destituisce di valore ogni sapere teoretico. Tale schema ermeneutico bene emerge dalle istanze di semplificazione dei curricoli della scuola secondaria e dei corsi di istruzione per adulti, così come dalle affermazioni secondo cui “nell’arco della vita intercorrente dai sei ai dieci anni si avverte il bisogno di una figura unica di riferimento con cui l’alunno possa avere un rapporto continuo e diretto” e di conseguenza il modello didattico-organizzativo delle classi elementari con maestro unico e orario settimanale di 24 ore “appare più funzionale ‘all’innalzamento’ degli obiettivi di apprendimento, con particolare riguardo all’acquisizione dei saperi di base, favorisce l’unitarietà dell’insegnamento soprattutto nelle classi iniziali, rappresenta un elemento di rinforzo del rapporto educativo tra docente e alunno, semplifica e valorizza la relazione tra docente e famiglia” 9. Tuttavia, a prescindere dalla debolezza delle argomentazioni addotte, le critiche gelminiane non sono del tutto infondate, giacché le innovazioni degli ultimi decenni effettivamente presentavano alla prova dei fatti alcuni elementi di indiscutibile criticità, dalla polverizzazione degli indirizzi di studio della secondaria superiore, provocata dall’applicazione indiscriminata della Legge Brocca, alla secondarizzazione della scuola elementare seguita alla frammentazione di contenuti e tempi didattici imposti dai moduli, agli esiti del tempo pieno, sia in termini di socializzazione prolungata e omologata, sia in termini di fragile acquisizione delle strumentalità di base, sia, infine, in termini di progressivo 94
deterioramento, giacché oggi, ben lungi dall’essere il luogo della sperimentazione pedagogica e didattica, questo modello organizzativo è spesso caratterizzato da lunghe pause ludiche, che di fatto annullano il vantaggio educativo del raddoppio dei tempi di permanenza a scuola 10. Difficile, allora, se vogliamo prescindere dalla questione sindacale del precariato e del mantenimento degli attuali livelli occupazionali, valutare quanto critici ed estimatori dello stato attuale della scuola abbiano fondate ragioni a sostegno delle loro tesi, soprattutto perché nel nostro Paese nessuno ha mai avuto la volontà, la capacità e il coraggio di verificare scientificamente i risultati delle sperimentazioni introdotte nel sistema scolastico, né coloro che vollero il tempo pieno e poi i moduli, né oggi il ministro Gelmini, le cui valutazioni sono ancora una volta meramente assertorie e funzionali unicamente alle necessità di taglio della spesa pubblica. In ogni caso, a partire dall’autunno la protesta degli studenti ottiene lo slittamento, sia pure di un solo anno, dell’ancor confuso piano di riforma della scuola media superiore e dell’Università, mentre la grande mobilitazione della categoria degli insegnanti elementari e del mondo sindacale ottiene ben presto alcuni ripensamenti da parte del Ministero, cosicché i successivi Regolamenti previsti dall’art. 64 del DL 112/08 e approvati il 27 febbraio 2009 affidano alle famiglie la possibilità di scegliere orari di 24, 27, 30 oppure 40 ore settimanali, col risultato prevedibile, considerate le esigenze di servizi assistenziali e la forte mobilitazione del mondo della scuola, di una massiccia richiesta di orari prolungati. Si pensi che in questi giorni i dirigenti scolastici piemontesi sono in attesa di chiarimenti relativi agli organici che verranno assegnati alle loro scuole, giacché nella nostra Regione non funzioneranno, stando alle richieste dei genitori, classi con orario antimeridiano e maestro unico e, dunque, non saranno possibili risparmi di personale da reinvestire nelle classi con orario prolungato. A tutt’oggi possiamo comunque identificare una serie di trasformazioni già attuative, che vanno radicalmente mutando il volto della scuola italiana. 95
Patrizia Nosengo, La scuola della Gelmini
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Anzitutto, è stato definitivamente deliberato un innalzamento del rapporto alunni/docenti dello 0,20 per il prossimo anno scolastico e ancora dello 0,10 per ciascuno dei due anni successivi. A questo proposito, occorre rammentare che già il ministro Fioroni aveva identificato varie cause dello scostamento dalla media OCSE della spesa per singolo alunno: l’estensione degli orari di funzionamento della scuola, il modello organizzativo modulare e la presenza nella scuola elementare di insegnati aggiuntivi di lingua inglese, l’orario ridotto dei docenti rispetto ai loro colleghi europei, l’integrazione dei disabili con la relativa necessità di docenti di sostegno, l’insegnamento della religione cattolica, con i regolamenti capestro relativi alla composizione delle classi 11, la dimensione delle classi stesse e la distribuzione degli insediamenti scolastici, con una forte dispersione sul territorio nazionale. La Legge Finanziaria 2007 prevedeva pertanto di incrementare il valore medio nazionale del rapporto alunni/classi dello 0,4, operando sulla dimensione dei gruppi-classe e assumendo di conseguenza il tempo scuola come costante. Al contrario, la nuova Finanziaria sceglie un diverso parametro, vale a dire quel rapporto alunni/docenti, che è un criterio più globale, sensibile anche alla variabile della durata del tempo scuola e sul quale incidono, ai fini del contenimento di spesa, numerose possibili scelte: l’aumento del numero di alunni per classe, la riduzione dei quadri orari, la riduzione delle discipline di studio, la compressione o l’annullamento delle compresenze, la razionalizzazione delle sedi scolastiche. Il Piano programmatico del governo le contempla tutte contemporaneamente. Da qui lo stravolgimento completo dell’attuale assetto del sistema istruzione. Peraltro, come è stato osservato dalla Conferenza unificata delle regioni e delle province autonome, i dati ministeriali addotti a giustificazione delle istanze di risparmio non sono di perspicua valutazione, giacché, da un lato, non è chiarito se le cifre riguardino la spesa pubblica (che in Italia rientra pienamente nella media OCSE ed è comunque giustificata dal minore apporto della spesa privata), o quella complessiva; dall’altro si utilizzano dati risalenti al 2003, ignorando che nei quattro anni successivi la 96
spesa dello Stato per l’istruzione è passata dal 3,1% al 2,8% del PIL. Un secondo fattore fondamentale è costituito dalle nuove regole di composizione delle classi. Fino allo scorso anno scolastico, la normativa prevedeva un tetto massimo di alunni per classe, computato in 25, con una riduzione a 20 in caso di presenza di allievi disabili. I nuovi regolamenti gelminiani introducono invece il computo di valori minimi e massimi, in modo da incrementare sia il rapporto alunni/docenti, sia il rapporto alunni/classi. Concretamente questo significa che la costituzione delle classi iniziali di ciclo avverrà sulla base del numero degli iscritti, con l’accoglimento di ulteriori alunni soltanto nei limiti dei posti disponibili. Per fare un esempio, se – come pare – il numero minimo di studenti per poter costituire una classe di secondaria superiore sarà di 18 allievi e il numero massimo di 30 (ulteriormente incrementabile fino a 33), nel caso in cui vi fossero da una a diciassette domande di iscrizione eccedenti il numero delle classi assegnate e saturate a 33, sia in prima classe, sia in terza vale a dire a corso di studi già avviato - questi studenti sarebbero obbligati a scegliere una diversa scuola, o, se non vi fossero nel luogo di residenza scuole dello stesso tipo, una diversa città, o un diverso tipo di studi. Terzo elemento di forte modificazione è la riduzione del tempo scuola, invocata (sebbene poi impedita dalla reazione sindacale e delle famiglie) per la scuola dell’infanzia ed elementare, imposta alla scuola media inferiore e prefigurata, per il momento ancora nell’ambito di mere ipotesi, per la scuola media superiore, con forti riduzioni soprattutto nei tecnici e nei professionali. Tale scelta scaturisce sostanzialmente da due presupposti: l’idea che vi sarebbe una “società della conoscenza”, in cui sarebbe possibile “apprendere ovunque e comunque” e che pertanto renderebbe ridondante un prolungato tempo scolastico; e la considerazione che un maggiore tempo scuola non corrisponda a un migliore profitto. Evidenti sono qui il richiamo alla proposta Bertagna, che addirittura diminuiva le ore scolastiche a 23 settimanali e il rifiuto di una delle caratteristiche portanti della scuola (soprattutto di quella dell’obbligo, ma non solo) emersa dalle 97
Patrizia Nosengo, La scuola della Gelmini
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teorizzazioni pedagogico-didattiche degli anni Settanta, vale a dire il valore educativo che allora si volle attribuire alla refezione, alla ricreazione, alla socializzazione in genere e l’assunzione della scuola come luogo di accoglienza delle diversità e di valorizzazione dei talenti individuali. Ma soprattutto emerge il baratro che oppone due idee di scuola e di rapporti tra scuola e territorio, giacché la decostruzione del sistema scolastico operato dalla Gelmini rovescia la precedente considerazione della scuola come strumento fondamentale di decondizionamento e di recupero dello svantaggio sociale, secondo una concezione democratica del diritto allo studio, che intendeva inserire l’intero ambiente scolastico nel territorio e non affidare alla casualità delle relazioni individuali e all’appartenenza di ceto la crescita delle giovani generazioni. Ultima, ma non meno fondamentale trasformazione è l’abbandono dell’idea stessa di Programmi e di Indicazioni nazionali, a favore di un’autonomia scolastica che faccia riferimento ai cosiddetti “livelli essenziali” di apprendimento, secondo una prospettiva peraltro già presente anche nei ministeri dei governi di centro-sinistra, dal ministero Berlinguer, fino a quello Fioroni. Tale istanza si intreccia con l’ipotesi di accorpamento delle classi di concorso e di composizione di cattedre della scuola secondaria inferiore e superiore, che prevede per la scuola media inferiore l’aggregazione delle discipline nelle tre aree umanistico-letteraria, scientifico-tecnologica e linguistica e per la scuola media superiore la fusione delle classi di concorso “con una comune matrice culturale e professionale”, per ottenere “maggiore flessibilità nell’impiego dei docenti” ai fini del processo di “essenzializzazione dei curricoli”. Ora, se è pur vero che è possibile e anzi auspicabile un riordino delle classi di concorso, soprattutto per quanto concerne i docenti di laboratorio, e se al contempo è certamente necessario rivedere la polverizzazione e moltiplicazione degli indirizzi di studio determinata dai Progetti Brocca, è tuttavia fortemente preoccupante il prevalere della mera istanza di riduzione, senza alcun riferimento di sorta a parametri qualitativi adeguatamente inseriti nel quadro di una riforma complessiva del sistema scolastico. Se poi si considera che, non soltanto si preve98
de la sparizione dei manuali scolastici, ma da un lato si prefigura il sostegno allo sviluppo di sistemi di istruzione a distanza (il che fa paventare la distopia dal sapore orwelliano di un Grande fratello dell’istruzione, che elide il rapporto diretto tra docenti e studenti e omologa l’insegnamento), dall’altro già nella scuola elementare si sta elidendo la specializzazione disciplinare dei docenti e si sta attuando il passaggio dalla figura dell’insegnante specialista di lingua inglese all’utilizzo di tutti i docenti su questa disciplina, previo un corso obbligatorio di formazione della ridicola durata di 150-200 ore, ecco che si configura il rischio di un forte impoverimento della scuola statale, ridotta negli orari, nelle opportunità culturali e nella qualità dell’insegnamento. Non possiamo allora non rammentare ciò che nel lontanissimo 1950, con la straordinaria lucidità che lo contraddistingueva, Piero Calamandrei ebbe a dire: “Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza: in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. […] L’operazione si fa in tre modi: 1) […] rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. 2) attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. 3) dare alle scuole private denaro pubblico” 12. A distanza di sessant’anni questa lugubre previsione rischia di realizzarsi. 99
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NOT E 1. Stime Istat riferite al 2008. 2. Mutamento radicale che peraltro non è compreso dalle opposizioni politiche e sindacali, che, nelle secche dell’estate, non muovono alcuna obiezione e paiono ignorarne il significato e il valore profondamente restaurativo. 3. D.L. 112/’08, art. 64, comma 1. Con un sensibile peggioramento rispetto alla Riforma Moratti (che, con i Piani Educativi individualizzati, quanto meno prevedeva una individualizzazione dell’insegnamento) questo testo di legge in modo alquanto bizzarro e contraddittorio adduce l’esigenza di incrementare il numero di alunni per insegnante in nome di un miglioramento dei servizi e di una valorizzazione della professionalità docente, sebbene tutte le ricerche docimologiche e pedagogiche abbiano stabilito la correlazione alta tra successo scolastico e possibilità di articolazione dell’attività didattica per piccoli gruppi di allievi. 4. D.L 112/’08, comma 6: “Fermo restando il disposto di cui all’articolo 2, commi 411 e 412, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, dall’attuazione dei commi 1, 2, 3, e 4 del presente articolo, devono derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 456 milioni di euro per l’anno 2009, a 1.650 milioni di euro per l’anno 2010, a 2.538 milioni di euro per l’anno 2011 e a 3.188 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012”. 5. Il decreto 112 prevede 33 ore annuali di insegnamento, all’interno del monte ore complessivo di Storia, il che equivarrebbe a 1/3 delle ore complessive previste nel triennio del classico e addirittura a metà delle ore previste per la terza e la quarta classe del liceo scientifico. L’inapplicabilità di fatto di tale scansione indurrà la normativa successiva a limitarsi a un generico invito all’insegnamento dei contenuti previsti dal decreto. Recentemente, il 4 marzo, il MIUR ha approvato il “Documento di indirizzo per la sperimentazione di Cittadinanza e Costituzione, nel quale si afferma che la sperimentazione sul nuovo insegnamento sarà attivata a partire dal prossimo anno scolastico. 6. Si pensi, ad esempio, a Ricolfi, ma anche a scrittrici come Margherita Oggero e Paola Mastrocola. 7. Emblematico è ad esempio l’articolo di Michele Serra sul quotidiano “La Repubblica” del 5 aprile 2009, nel quale l’autore rammenta come il
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vero problema della scuola non sia costituito dai pochi bulli, bensì dalla maggioranza degli studenti, disamorati e indifferenti nei confronti della cultura e di ogni attività scolastica. 8. Nella scuola elementare, l’art. 4 della L. 517/77, impone la compilazione di “una scheda personale dell’alunno contenente le notizie sul medesimo e sulla sua partecipazione alla vita della scuola nonché le osservazioni sistematiche sul suo processo di apprendimento e sui livelli di maturazione raggiunti”; nella scuola media, l’art. 9 prescrive la redazione di “una scheda personale dell’alunno contenente le notizie sul medesimo e sulla sua partecipazione alla vita della scuola, nonché le osservazioni sistematiche sul suo processo di apprendimento e sul livello di maturazione raggiunto sia globalmente sia nelle singole discipline. Dagli elementi registrati sulla scheda vengono desunti trimestralmente dal consiglio di classe motivati giudizi analitici per ciascuna disciplina e una valutazione adeguatamente informativa sul livello globale di maturazione”. 9. Schema programmatico, cit., passim. 10. Tra le più significative, le critiche di Citati, che qualche anno fa scrisse un “elogio del tempo vuoto”, additando “l’orrore della socializzazione forzata dei bambini in una scuola di otto ore” [Pietro Citati, Elogio del tempo vuoto, in “La Repubblica”, 12 febbraio 2004]; e di Luca Ricolfi, che più recentemente ha obiettato ai critici della Gelmini che “il sospetto è che la scuola elementare di oggi, pur essendo perfetta come luogo di socializzazione e di ricreazione, sia ben poco capace di trasmettere conoscenze e formare capacità, ivi compresa la capacità di concentrarsi, di ordinare le idee, di autovalutarsi, di mettere impegno in attività non immediatamente gratificanti”; e ha sottolineato che i test internazionali “indicano che il declino dei livelli di apprendimento fra i 7 e i 16 anni è costante e inizia già nelle elementari (in quarta i bambini vanno sensibilmente peggio che in seconda)”, soggiungendo “forse la cattiva fama della scuola media inferiore e dei suoi insegnanti è in parte immeritata: è vero, i risultati dei ragazzi delle medie sono pessimi, ma forse lo sono proprio perché la scuola elementare - con la sua impostazione ludica non li prepara alle prove che dovranno affrontare quando entreranno in un mondo vero, meno protetto, in cui ci sono anche frustrazioni e si deve essere capaci di studiare da soli (cosa che molti bambini non imparano mai a fare: un effetto perverso del tempo pieno?)”[ Luca Ricolfi, Il mito della scuola elementare, in “La Stampa”, 25 settembre 2008].
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Patrizia Nosengo, La scuola della Gelmini
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11. In Italia, i docenti di IRC (Insegnamento Religione Cattolica) sono utilizzati in ogni singola classe anche in presenza di un solo allievo che segua tale insegnamento, senza accorpamenti tra gruppi appartenenti a classi differenti. 12. Calamandrei, Piero, 1950, Difendiamo la scuola democratica , in “Scuola democratica�, (Roma), IV, supplem. al n. 2 del 20 marzo 1950, ora in P. Calamandrei, Difendiamo la scuola democratica , in Per la scuola , Palermo, Sellerio, 2008; pagg. 93-95.
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Vittime delle foibe
10 febbraio: Giornata del ricordo. Si commemorano, per decisione istituzionale, le vittime delle foibe. Come d’altra parte, si commemorano, il 27 gennaio, le vittime della Shoah. Bene. Per decisione istituzionale, significa che nella scuola di ogni ordine e grado, è “ doveroso” organizzare eventi per sensibilizzare i ragazzi a non dimenticare la tragedia delle foibe. Bene. Cosa significa? Che non ci si limita soltanto alla tradizionale manifestazione delle organizzazioni di destra che, puntuali come i manifesti a lutto che ricordano i “martiri della RSI” il 25 aprile, promuovevano in passato provocatorie (nel senso buono del termine) evocazioni a non dimenticare. D’altra parte da qualche anno, uomini politici e simpatizzanti della destra hanno a Casale, come credo in tutte le altre città italiane, una piazza o una via intitolate alle “vittime delle foibe” in cui riunirsi, ormai con piena legittimazione politica e anche storica. Bene. Ecco, allora, la celebrazione anche nella mia scuola: una dettagliata esposizione, ricca di informazioni e di dati, sulla storia del confine orientale a partire dagli insediamenti di popoli nei secoli passati, arrivando alla storia del Novecento per descrivere, con scrupolo minuzioso, quanto è accaduto nel corso della Seconda guerra mondiale, foibe ed esodo su tutto. Bene. A seguire il pezzo forte: il testimone. Un autorevole esponente (autorevole per cultura e impegno) della comunità degli “esuli” (quello è il termine che – così ci dice – va usato) che racconta in prima persona la tragedia vissuta: l’infoibamento di un suo parente prete, la persecuzione e l’odio etnico degli slavi, l’infoibamento del padre e infine l’esilio 1. Bene. La platea dei ragazzi ammutolita. 103
Fabrizio Meni, Vittime delle foibe
Fabrizio Meni
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Ragazzi commossi trattengono le lacrime: “Sa, prof, è una delle cose che più mi rimarranno impresse della scuola”. Ricordo indelebile. Le foibe non saranno mai più dimenticate. Bene. Anzi, benissimo. Però qualcosa non quadra. Ed è ciò che spinge a riflettere sull’uso pubblico o/e politico che oggi si fa della storia. La reazione di fronte al racconto in prima persona del testimone, deve essere, come del resto è stata, di pietà. Questo è ciò che, comunque sia e innanzitutto, ci deve spingere nella considerazione di quei tragici eventi. Pietà, certo, è ovvio. Ci mancherebbe. Tuttavia: da chi a all’epoca di quei fatti aveva sette anni, a ben rifletterci, ci si può attendere una ricostruzione a posteriori, su letture, su documenti e su ricerche. Può essere al massimo uno storico. Ma non è così che si presenta. Lui è il “testimone”: “Ho visto, ho vissuto”. Cosa poi? E da chi? Un esule vittima delle foibe. Ci basta questo. D’altra parte le foto che ci vengono mostrate (le solite poche foto sulle riesumazioni) sono evidenti: quelli sono italiani infoibati “solo perché italiani”. Ci basta. Non ci interessa sapere quando e da chi sono state fate quelle foto e di chi sono effettivamente quei corpi (1943, 1944, 1945 è lo stesso, quella era la guerra. Poco importa. Non occorre dire agli studenti presenti che dopo l’8 settembre le truppe yugoslave presero possesso del territorio istriano per perderlo però una ventina di giorni dopo con l’occupazione nazifascista e che si stima che le vittime dell’“ordine” nazista riconquistato furono circa tredicimila. Forse è un azzardo sostenere, come fa Cernigoi, che “i servizi segreti nazisti, in collaborazione con quelli della RSI, iniziarono a creare la mistificazione delle foibe” 2, forse è scorretto inferire che in molte fosse comuni andarono quelle vittime, unitamente a tutte le vittime dei bombardamenti a tappeto a cui la zona era sottoposta. Forse è esagerato sostenere come fa Giacomo Scotti che “nelle voragini, vecchie cave ed altre fosse comuni accomunate col nome di foibe […] furono gettati anche cadaveri di soldati tedeschi rimasti uccisi negli scontri del 13 settembre e, alcune settimane dopo, numerosi cadaveri di partigiani e civili uccisi dai tedeschi e da essi abbandonati per le 104
campagne”. Certo è esagerato, forse, sostenere come fa il professor Zic, citato da Scotti, che “il fatto che i tedeschi procedettero alla fucilazione di ‘ribelli’ nelle cave di bauxite, come fecero nei medesimi giorni i partigiani per eliminare i loro prigionieri è stato ‘provvidenziale’ per la storiografia fascista. Successivamente […] furono attribuite ai partigiani pure una parte della repressione tedesca” 3. È qualcosa altro a non convincerci. A cominciare dalla frase che fa ammutolire la sala: “io sono qui esattamente come un superstite della Shoah, loro mostrano il loro numero tatuato io ho le parole per raccontarvi gli orrori delle foibe”. A partire da dove? Il sacerdote infoibato col filo di ferro ai polsi, corona di spine conficcate in testa, testicoli tagliati, il padre prelevato all’alba e infoibato. Un sacerdote trucidato in quel modo. Ma proprio in quel modo? Sì è possibile che molti sacerdoti in quella zona fecero quella fine. Del resto non è un sacerdote l’eroe sacrificato nello sceneggiato tv dedicato alle foibe La luna nel pozzo? Scrive al riguardo, in una lettera inviatami, Claudia Cernigoi: “La storia dei testicoli in bocca e del capo cinto di spine viene riferita da decenni, peccato però che nella testimonianza del vigile del fuoco Arnaldo Harzarich (disponibile presso l’archivio dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione di Trieste), che procedette ai recuperi dalle foibe istriane, non risulti nulla di tutto ciò. Aggiungo che anche un altro “teste”, rispettivamente figlio e nipote di due “infoibati” recuperati dalla medesima foiba, parlò di testicoli in bocca per i suoi parenti, ma anche qui Harzarich non fece parola di questa circostanza, né del fatto che questa persona avrebbe riconosciuto i propri congiunti”. E poi il padre infoibato. Come infoibato? Si sa che molti parenti delle vittime di quel periodo usano il termine “infoibato” per modo di dire, per indicare l’arresto e la morte per mano dell’esercito yugoslavo. Anche Raoul Pupo, del resto, scrive che “per foibe, intendiamo sinteticamente le violenze di massa – a danno principalmente – ma non elusivamente – di italiani, […] e ciò a prescidendere dalle modalità con cui avvennero le uccisioni e le inumazioni”, anche se precisa subito dopo che “il significato 105
Fabrizio Meni, Vittime delle foibe
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estensivo che viene frequentemente adottato nel linguaggio politico italiano – non più solo di destra – e che copre tutte le vittime italiane cadute per mano del movimento di liberazione sloveno e croato […] ha una valenza ideologica e non storica, e impedisce di comprendere la specificità dei fenomeni verificatesi nei due momenti di violenza di massa” 4. Tutto può allora essere accaduto, dato che non è mai stato rivenuto il corpo. Tuttavia cosa passa alla platea di studenti? Comunque l’infoibamento, fili di ferro ai polsi, gettati vivi, a centinaia, legati l’uno all’altro. Come nel film per la TV, come nei discorsi sempre più numerosi delle orazioni ufficiali di uomini politici di destra e talvolta di sinistra. Arrestato perché? Con tutto il rispetto e con la pietà dovuta per la tragica vicenda, comunque a noi non ci viene detto. Ci importa? Può essere stato arrestato per una serie di motivi che vanno dall’area della legalità a quella della resa dei conti, a quella delle vendetta personale, sino alle motivazioni più criminali dell’odio etnico. Ci importa saperlo? No. Ci basta sapere che è una delle “migliaia e migliaia” di vittime delle foibe. Migliaia e migliaia? È vero non è giusto in questi casi fare il conto dei numeri. Si ripete giustamente, a proposito di ogni massacro della storia, che uno, dieci, cento o un milione, non modifica il senso dell’orrore. Bene. Allora perché parlare sempre di migliaia e migliaia? Che siano poche centinaia (come afferma Cernigoi) o che siano decine e decine di migliaia come si va oggi ad affermare a livello pubblico o politico, sempre di fatto esecrabile si tratta. Ma se della storia si fa un uso pubblico e politico forse il numero conta. Se Cernigoi, incrociando le liste e confrontando le fonti (comprese quelle fasciste) dimostra che gli “infoibati” nel territorio triestino furono cinquecento, e che spesso negli elenchi utilizzati, vi sono i nomi degli scomparsi, (anche di coloro che furono arrestati e successivamente rilasciati), perché ripetere che furono “migliaia e migliaia”? Non certo per alimentare un sentimento anticomunista, come si fece allora (non ce n’è bisogno oggi). Forse passa meglio il messaggio: foibe uguale a Shoah? Rimane il dubbio che mettere sullo stesso piano cri106
mini nazifascisti e crimini comunisti (Shoah e foibe) conduca alla stessa logica della equiparazione tra combattenti per la Resistenza e combattenti per la RSI. Non è un caso che la prima ondata di pubblicazioni e di denunce sulle foibe coincida con il periodo in cui si affrontarono i processi per i crimini della Risiera di San Sabba e che i principali promotori provenissero tutti dalle organizzazioni di estrema destra? È un sospetto che però non ci deve portare a condividere quanto afferma la già citata relazione del professor Zic: “all’epoca alcuni degli ‘studiosi’ fascisti che oggi blaterano di italiani trucidati dagli slavi, collaboravano con i tedeschi nel massacro di loro conterranei, italiani e slavi” 5. Leggiamo piuttosto i testi degli storici “accreditati”. E allora veniamo a conoscere una realtà certo drammatica ma dai contorni più complessi. Raoul Pupo sottolinea ad esempio che gran parte delle vittime fu costituita da militari appartenenti alle forze armate della RSI che furono fucilati o che perirono nei campi di prigionia o nelle marce di trasferimento verso i campi, a causa soprattutto della fame e delle malattie che dominavano l’intera Yugoslavia in quel fine guerra: “le autorità yugoslave non erano dunque in grado di far fronte all’emergenza alimentare e dirottarono le poche risorse secondo necessità politiche: ma nella scala delle priorità la sopravvivenza delle decine di migliaia di prigionieri di guerra caduti nelle mani dell’Esercito popolare di liberazione si trovava certamente all’ultimo posto. Stessa sorte toccò lungo la Vistola e la linea Oder Neisse, ai prigionieri tedeschi” 6. Per quanto riguarda gli italiani, vi furono “atti di giustizia sommaria nei confronti di soggetti che si erano distinti nella lotta antipartigiana o che si erano macchiati di colpe nei confronti della popolazione civile. La morte fu anche la sorte che attese chi si proclamava, o veniva ritenuto, fascista convinto, ma in altri casi invece sembra si possa parlare piuttosto di capri espiatori, scelti casualmente fra i prigionieri, in base alla logica della colpa collettiva”. Non bisogna dimenticare che a Trieste vi era la Risiera di san Sabba e che il collaborazionismo assunse livelli tali da sorprendere persino Christian Wirth, l’organizzatore del lager e dello 107
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sterminio degli Ebrei. Infine occorre considerare la logica che sta alla base di un processo rivoluzionario quale fu quello del movimento di liberazione yugoslavo: quella della “epurazione preventiva” di quelli che avrebbero pututo essere “i nemici del futuro, cioè quei soggetti che si sarebbero potuti rivelare pericolosi per il consolidamento del nuovo ordine” 7. Insomma, senza dover necessariamente ricorrere, in un’operazione altrettanto semplicistica, alla tesi della risposta ai crimini italiani nel confine orientale, ci pare di capire che comunque sia non ci fu nessuna pulizia etnica per gli storici 8. Anzi sembrerebbe il contrario se pensiamo al tentativo di pianificare una politica di “fratellanza italo – yugoslava” di Tito o ai racconti di come i soldati italiani, dopo l’8 settembre, trovassero comunque aiuto in molti casi nella popolazione civile slava, nonostante la precedente responsabilità nell’esecuzione della politica di occupazione fascista. Non per l’uso pubblico e politico della storia, per il quale fu pulizia etnica: “infoibati perché italiani”. Ma si sa è lo spirito del tempo. Uno spirito del tempo che sembra condizionare anche l’esposizione degli storici di sinistra. Se fino a qualche anno fa parlando delle foibe si era molto attenti a sottolineare la precedente criminale occupazione fascista, ora, beh, sì certo, tuttavia ampio spazio alla repressione titina. E poi s scivola dalla “resa dei conti” contro il fascismo (esecrabile certo) a repressione contro gli antifascisti ma anche anticomunisti, fino ad arrivare alla vulgata odierna, che guarda caso coincide con quella diffusa solo dall’estrema destra negli anni del conflitto: “migliaia furono infoibati perché italiani”. Ecco la novità. Ora si comprende il significato della autodefinizione del testimone: “io sono esule”. L’esilio lo vive chi è lontano dalla propria nazione. L’Istria italiana. Quindi la logica conseguenza del messaggio trasmesso è che l’evento foiba e l’evento esodo sono tutt’uno: stessa matrice, la volontà di pulizia etnica degli slavi comunisti. L’altro evento di cui ci viene narrata la testimonianza in prima persona è proprio relativo a questo: l’odio nazionalista slavo nei confronti degli italiani che generò la tragedia di Vergarolla, durante la quale, molti giovani 108
radunatesi per una manifestazione sportiva in mare o semplicemente in spiaggia per una giornata estiva d’agosto, saltarono in aria all’esplosione di alcune mine. Ora quali siano state le cause di tale attentato è ancora oggetto di discussione tra gli storici. Senza arrivare a condividere la dubbia ipotesi prospettatami da Cernigoi, che attribuisce l’attentato ai gruppi nazionalisti italiani, “cui lo stato dava un notevole appoggio e che, da loro stessa dichiarazione, organizzavano ‘atti di sabotaggio’ nei territori ex italiani” (ma Piazza Fontana e le stragi della strategia della tensione possono non rendere remota anche questa tesi), preferendo piuttosto dar credito all’ipotesi terroristica del nazionalismo slavo (ipotesi che recentemente nella stampa neoirredentistica istriana individua in un agente dell’OZNA – Giuseppe Kovacich, l’attentatore) rimane un fatto che le prove, false o vere che fossero, non sono state trovate. Ma se il nostro testimone dichiara di averla vissuta (anche se a otto anni) e ci racconta che fu un vile attentato contro una manifestazione per “l’orgoglio italiano”, e che il terrore suscitato ha indotto la sua famiglia unitamente a quella di migliaia di altre a “farsi esule”, è chiaro ed evidente a tutti: fu pulizia etnica. Punto e basta. Non stiamo a complicare inutilmente le cose. Magari ricordando alcune questioni che forse sono fondamentali: che in quel periodo il territorio di Pola era sotto la responsabilità dell’amministrazione britannica, che agli inglesi spettava l’organizzazione dello sminamento degli ordigni bellici, che le mine erano dell’esercito italiano e che forse in spiaggia, al mare, in una giornata d’agosto, tra la popolazione civile non potessero soltanto esserci italiani (a meno che Kovacich abbia avvertito uno ad uno tutti i croati residenti). È un fatto che dopo l’attentato, a Pola si sollevò una ventata di odio nei confronti degli occupanti inglesi che avrebbero dovuto rimuovere le mine e rendere la spiaggia sicura. In conclusione: malgrado gli storici ci avvertano che dopo l’8 settembre avvenne piuttosto “una decapitazione di classe dirigente e non una mattanza indiscriminata o un tentativo di sterminio etnico” 9, e che certamente fu in atto una guerra rivoluzionaria anche contro tutti coloro che, per idee politiche o solo per 109
Fabrizio Meni, Vittime delle foibe
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appartenenza sociale, potevano essere considerati nemici di classe; tuttavia, a tutti viene trasmesso un altro messaggio: pulizia etnica nei confronti degli italiani, in una sorta di neoirredentismo 10 che promosso dalla sinistra ha come immediato effetto di aggiungere un importante tassello al ridimensionamento della Resistenza, fino a una involontaria (solo per la sinistra certo) riabilitazione del fascismo. Basta riflettere solo sul fatto che si parli sempre dei “partigiani comunisti” di Tito, e non dell’esercito di liberazione yugoslavo, quasi a voler indirettamente confermare tutto il male che sulla Resistenza - che “si sa fu fatta da i partigiani comunisti” - si racconta oggi (dal sangue dei vinti versato alla grande bugia della sinistra della costruzione della propria falsa mitologia). Certo scrivere queste cose provoca un certo imbarazzo: la pietà, si è detto, prima di tutto. E la pietà per chi ha subito tali atti criminali è davvero un sentito atto dovuto. Ma non è in discussione la criminalità della repressione yugoslava e dell’esodo forzato della popolazione italiana del confine orientale. È opportuno ribadirlo anche se, nel clima politico di oggi, il revisionismo o il dubbio sulla Shoah appare meno pericoloso del dubbio o del revisionismo sulle foibe, in un momento in cui i vertici della Chiesa danno voce a un proprio vescovo negazionista e in un Paese nella cui capitale viene intitolata una strada ad Almirante (redattore della rivista razzista e antisemita “La difesa della razza”). Ciò che mi pare debba essere posto all’attenzione è l’uso strumentale che delle ricostruzioni di eventi storici viene oggi fatto a livello pubblico e politico. Se poi si vuole, a destra, porre rimedio al presunto deficit in mala fede dei libri di testo e dei docenti di storia, con operazioni come queste, non si può che constatarne l’efficace risultato: gli studenti presenti alla commemorazione della Giornata del ricordo se ne sono tornati a casa senza alcun dubbio: foibe ed esodo furono il risultato della volontà di pulizia etnica contenuta nell’ideologia comunista dei partigiani di Tito.
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1. Scrittore, artista poliedrico, giornalista, ciò che conta è che sia un esule, presidente dell’associazione culturale giuliano-dalmata, a lungo direttore dell’Arena di Pola, organo degli esuli italiani d’Istria. L’Arena di Pola? Quella che ha pubblicato nel 1986, L’ultima bandiera, Storia del reggimento “Istria”, di Luigi Papo - Luigi Papo - Quello che nel dopoguerra, fu il primo a parlare, a scrivere e a denunciare il fenomeno delle foibe contro gli “italiani”, sotto il falso nome di Paolo de Franceschi, perché il suo nome era inserito tra i 750 criminali di guerra di cui la Yugoslavia aveva chiesto l’estradizione - Reggimento Istria - Cioè il 2° Reggimento “Istria” della Milizia Difesa Territoriale (sotto il diretto comando tedesco dell’Adriatisches Kunsteland) responsabile di eccidi e rastrellamenti (tra cui il raccapricciante fatto di Montona, dove una ventina di questi miliziani trucidarono un partigiano davanti agli occhi della figlia sedicenne, per poi violentarla a turno concludendo dicendo “chi l’avrebbe detto che una partigiana era ancora vergine”? Quello stesso reggimento, cioè, posto sotto il comando di Libero Sauro che propose al comando della SS di “trasferire” in Germania tutta la “popolazione allogena” della Slovenia? 2. “Basta dare un’occhiata ai giornali dell’epoca e agli opuscoli propagandisti nazifascisti per rendersi conto di come l’entità delle uccisioni sa stata artatamente esagerata per suscitare orrore e terrore nella popolazione in modo da renderla ostile al movimento partigiano. Esempio di questa manovra, proprio in quei primi mesi dell’occupazione nazifascista, di un libello dal titolo Ecco il conto! , sia in lingua italiana che in lingua croata, contenente alcune foto di esumazioni di salme e basato fondamentalmente su slogan anticomunisti”. C. Cernigoi, Operazione foibe, tra mito e storia, edizioni Kappavu, Udine, 2005; pag 65. Forse è da questo libello che ha preso spunto il sindaco di Roma Alemanno per l’opuscolo distribuito nelle scuole romane sulle foibe con in copertina una vittima incatenata in una falce e martello? Al di là di ciò, scrive Paolo Parovel in Analisi sulla questione delle foibe, inviata al ministero degli Interni: “i servizi della X Mas assieme a quelli nazisti organizzarono la riesumazione propagandistica degli uccisi, con ampio uso di foto raccapriccianti dei cadaveri semidecomposti e dei riconoscimenti da parte dei parenti. Le prime pubblicazioni organiche di propaganda sulle foibe
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sono due: Ecco il conto edito dal comando tedesco già nel 1943 e Elenco degli Italiani istriani trucidati dagli slavocomunisti durante il periodo partigiano in Istria, redatto nel 1944 per incarico del comandante Junio Valerio Borghese, capo della X Mas e dell’on. Luigi Bilucaglia, Federale dei Fasci Repubblicani dell’Istria, da Mara Pasquinelli con l’ausilio di Luigi Papo ed altri ufficiali della X Mas”. 3. G. Scotti Foibe e Fobie (citato in C. Cernigoi, Operazione foibe, tra mito e storia, cit.; pag. 126). Scrive Cernigoi: “leggiamo sulla stampa dell’epoca, a proposito dei recuperi dalla ‘foiba’ di Suranai […]: nella foiba sono state ritrovate, oltre ad alcuni indumenti militari, 17 bustine con la stella rossa che dovevano appartenere ai massacratori […]. Perché i ‘massacratori’ avrebbero dovuto gettare nella foiba le proprie bustine, dopo aver ucciso tutte quelle persone? Sembrerebbe più logico che le bustine fossero state trovate nella foiba perché c’erano dentro anche i cadaveri dei loro proprietari”. C. Cernigoi, Operazione foibe, tra mito e storia, cit.; pag. 127. 4. R. Pupo, Il confine scomparso, saggi sulla storia dell’Adriatico orientale nel Novecento, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2008; pag. 99. 5. C. Cernigoi, Operazione foibe, tra mito e storia, cit.; pag. 127. 6. R. Pupo, Il confine scomparso, saggi sulla storia dell’Adriatico orientale nel Novecento; pag 102. 7. idem; pag 111. 8. Per questo si rimanda a Italiani senza onore, i crimini in Yugoslavia e i processi negati , a cura di Costantino Di Sante, Ombre Corte, Verona, 2005. 9. R. Pupo, Il confine scomparso, saggi sulla storia dell’Adriatico orientale nel Novecento, cit.; pag 101. 10. Senza voler arrivare a simili sospetti, sembra però innegabile che spiri da più parti un’aria neoirredentista, se pensiamo che la procedura per l’istituzione di processi contro i crimini delle foibe, a distanza di più di sessant’anni, è partita da persone come l’avv. Augusto Sinagra, piduista che, in merito, affermò che ciò importa è che grazie a questi processi si possa ricostruire una “coscienza nazionale” per terre che “piaccia o non piaccia a qualcuno, in futuro torneranno alla madre patria italiana”.
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“Eccitare la voglia di sapere” Intervista ad Angelo d’Orsi A cura di Cesare Panizza
Considerato l’interesse suscitato dalla recente Settimana della politica, abbiamo rivolto ad Angelo d’Orsi, docente di Storia del pensiero politico presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Torino, alcune domande in merito alla sua attività di organizzatore di cultura.
È un rivista internazionale, molto seria, ma che vuole essere anche di battaglia. Vanno in controtendenza anche le scelte dell’editore, Franco Angeli, che ha avuto fiducia in questa iniziativa fino al punto di realizzarcela completamente gratis. Abbiamo infatti due anni di “bonus”. Se il bilancio fra due anni non sarà soddisfacente, Franco Angeli ci chiederà di garantire un numero minimo di copie, tipo 200, che non sono poi una cifra mostruosa. La rivista sarà affiancata da una collana, anch’essa non a pagamento (la BHM, la Biblioteca di Historia Magistra). Debbo dire che la redazione di Franco Angeli che si occupa delle scienze sociali e umane è un ottimo gruppo. E che le persone che seguono le cose storiche hanno molto entusiasmo, sono bravi, seri e professionali. 113
Intervista ad Angelo d’Orsi
Da sempre affianchi alla tua attività di studioso quella dell’organizzatore di cultura. Comincerei con il chiederti di parlarci dell’ultimissima tua iniziativa, la rivista Historia magistra di cui è appena uscito il primo numero. Un’esperienza che si annuncia interessante e che va un po’ in controtendenza, vista la vita stentata che oggi menano le rivista di storia.
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La Settimana della politica. Prima edizione quest’anno che mi sembra abbia avuto un buon successo. Un successo insperato. È stato un azzardo pazzesco...
Iniziativa tua con l’appoggio della Facoltà di scienze politiche.
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Idea mia, mia proposta, mia organizzazione con il sostegno economico della Facoltà, o meglio, tecnicamente, del mio Corso di lauree. Io come presidente del Corso di laurea ho infatti un bugdet annuale: quando Tremonti ha deciso di riprendersi tutti i fondi non impegnati prima del 31 dicembre, un meccanismo assurdo che induce a spendere piuttosto che a risparmiare, ci rimanevano solo 10 giorni per scegliere come investire questo denaro. A quel punto, vista l’urgenza, ho ripreso un’idea che in realtà avevo in testa da due anni. L’avevo proposta infatti al Dipartimento, ma poi l’avevo ritirata per le difficoltà che erano insorte una volta costituitasi la commissione ad hoc. Questa volta invece ci siamo riusciti perché il Preside della Facoltà, il collega Franco Garelli, mi ha dato carta bianca. C’erano 82 invitati e ci sono state solo sette assenze. Ha funzionato tutto alla perfezione perché avevo creato una struttura dell’evento, sempre una relazione introduttiva con due correlazioni e poi degli interventi programmati con dei tempi determinati. E c’erano sempre tre quarti d’ora, un’ora, di discussione libera con un dibattito molto vivace, con domande e interventi interessanti. E vi hanno partecipato persone che all’Università non hanno mai messo piede.
D’altronde portare l’Università fuori dai recinti accademici era l’obiettivo che ti eri proposto. E di portare la società dentro l’Università e viceversa.
Molti i giovani, gli studenti? Studenti non ce ne erano tanti. Abbiamo previsto la possibi114
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lità di inscriversi per acquisire crediti ma era complicatissimo perché implicava stendere una relazione e seguire senza fare assenze tutti gli incontri. Qualcosa come 40 ore di lezione in una sola settimana. In totale gli iscritti erano 25, poi c’erano altrettanti studenti che venivano senza essere iscritti e poi tutti gli altri...un centinaio di persone circa. La sala era sempre piena. C’era tantissima gente mai vista all’Università con una grande voglia di partecipare: il sindacalista, l’insegnante, l’imprenditore, l’impiegato. Il dibattito è stato sempre notevole. Alcune relazioni sono state bellissime, di altissimo livello. E abbiamo avuto un buon riscontro di stampa. E senza spendere poi molto: 6500 euro per tutta la parte organizzativa. In totale attorno ai 15000 euro (dando dei gettoni ai relatori esterni all’Ateneo di Torino).
Ci sono tre facce nella mia attività. C’è quella dello studioso. C’è quella dell’intellettuale militante. Io sono uno che si espone, come è noto, non sono uno che cammina rasente ai muri. Cammino alla luce del sole, faccio delle scelte che rendo pubbliche e di cui mi assumo la responsabilità. Intellettuale militante che interviene nel dibattito pubblico attraverso una serie di manifestazioni o di eventi, articoli giornalistici, appelli, che partecipa a conferenze, che fa il giro d’Italia continuamente. E infine c’è una terza attività che è quella di organizzatore di cultura. Devo dire che è una cosa che ho sempre fatto, fin da ragazzo, quando ho fatto rinascere il giornale della scuola, del liceo Gioberti, che era morto da tempo. E poi ho creato riviste, associazioni. In anni più recenti ho creato l’associazione “Il libro ritrovato” da cui poi sono andato via, ho creato “Nuvole”, da cui pure mi sono allontanato. Ho abbandonato molte delle mie creature. Ho creato infine l’associazione “Historia Magistra” in collaborazione con un gruppo di studenti e di neolaureati. Essa nasceva dall’esigenza di tradurre l’attività universitaria in qualcosa di più presente nel 115
Intervista ad Angelo d’Orsi
Approfondiamo allora questa tua attività di organizzatore di cultura che ti caratterizza al di là della tua attività di storico, che peraltro conosciamo assai bene.
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dibattito pubblico, ma anche in qualcosa di più strutturato sul piano della formazione. L’idea veniva infatti dai ragazzi insoddisfatti dalla formazione storiografica (e culturale, in senso più ampio) ricevuta. “Historia Magistra” ha una natura un po’ mista perché ha un significato di approfondimento didattico volto a insegnare i modi e i metodi e le tecniche della ricerca e a discutere le questioni teoriche del fare storia, coniugato però a una forte dimensione civile.
Note e discussioni
In un certo senso questa tua attività di organizzatore di cultura rinvia ai personaggi di cui ti sei occupato come studioso. Sì, certo, rinvia un po’ ai personaggi di cui mi sono occupato. Forse è stato un inconscio spirito di emulazione, si parva licet componere magnis. Tutti sono stati grandi suscitatori di cultura, Gramsci, Gobetti, Ginzburg eccetera. Tutti hanno avuto questa passione. Non è che ci abbia riflettuto, non è che abbia detto voglio fare da grande il Gobetti, però effettivamente credo di aver introiettato quella lezione. Per esempio, quando io ho creato “Nuvole” ho detto ai miei sodali di voler fare una rivista gobettiana. Di volerla fare gobettiana anche nella facies. E abbiamo fatto una rivista grande, sobria, bianco e nero come “La rivoluzione Liberale”, come il “Baretti”. Andato via io, la rivista è diventata “normale”. Si è inserita nel mainstream tipografico… Ma al di là di questa tradizione torinese di cui, effettivamente, mi sono un po’ intrinsecato, credo di aver sempre avuto doti organizzative. E ho sempre avuto un forte senso pratico (confortato dalla frase di Gramsci: “io sono un uomo eminentemente pratico”), nel senso che mentre le persone parlano io sto già traducendo le parole in operatività. Conta poi anche molto il mio temperamento che mi spinge a buttarmi direttamente nelle cose. Mi viene in mente quella pagina di Gobetti in cui descrive l’editore ideale che lavora 18 ore al giorno, torna a casa e si legge le bozze, e poi la mattina va a portare i pacchi alla posta, intanto ha già scritto quindici lettere ai collaboratori e ancora passa in libreria a vedere come vanno le vendite. È chiaro, devi essere un 116
uomo un po’ futurista, un po’ moltiplicato. Gobetti muore giovane e credo che muoia giovane non perché ucciso dai fascisti, muore giovane perché si consuma in questo attivismo che era la voglia di fare, di lasciare un segno. È il suo modo di fare politica attraverso la cultura. E questo è il grande lascito di Gobetti, non tanto le sue idee che non sono così originali. Non è che io voglia fare come Gobetti, o come Ginzburg o come Gramsci, però credo di avere imparato da loro innanzitutto a non considerare, come molti miei colleghi, tutto questo bassa cucina, qualcosa che un po’ svilisce il lavoro della ricerca che deve essere puro. Così come non è bassa cucina l’attività di intellettuale militante, di giornalista. Io sono iscritto all’Ordine dei giornalisti dal 1971: ero veramente giovane, però avevo già creato riviste, facevo già collaborazioni pagate - erano altri tempi - ed ero redattore capo di - Resistenza” (il mensile nato dal glorioso quotidiano “Giustizia e Libertà”), con uno stipendio mensile, per uno studente universitario all’epoca tutt’altro che disprezzabile. Lavoravo molto, però intanto studiavo, e mi sono appassionato a questo genere di attività, che non era solo il lavoro di redazione della rivista, era un lavoro anche organizzativo. Ho così accumulato un patrimonio di competenze notevole. Per questo insieme di ragioni ho sempre considerato un valore aggiunto sia le capacità organizzative sia la militanza, non ho mai creduto al professore che fa solo lo studioso, così come non ho mai apprezzato quelli che fanno un lavoro alla volta. Non riesco a concepire quelli che per tutta la vita studiano un frammento, di cui sanno tutto. Io ho un’altra figura di intellettuale in testa, che sia innanzitutto uno studioso, certo, con un retroterra solido, ma che poi non deleghi ad altri l’impegno, lo assuma su di sé con tutte le responsabilità e i rischi e che non consideri uno svilimento della sua figura la parte organizzativa, perché credo che le idee hanno bisogno di gambe su cui marciare. Anche in questo io mi considero gramsciano. E sono molto monocratico: sarà un limite, ma debbo dire che ho sempre sperimentato che se non c’è uno che assume le responsabilità direttamente non si produce efficienza. 117
Intervista ad Angelo d’Orsi
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La tua attività rimanda a una figura di intellettuale difficile da interpretare oggi, quasi fosse ormai “fuori moda”. Assolutamente sì. Oggi questo tipo di intellettuale è scomparso. Oggi vanno per la maggiore personaggi di altro tipo, gli intellettuali da salotto televisivo. Io ho rifiutato più volte di partecipare al Costanzo Show e a Porta a Porta. Perché credo gobettianamente che ci sono delle cose che ci debbono impegnare a salvare la dignità. L’invito di Gobetti a salvare la dignità prima della genialità mi è rimasto impresso a lettere di fuoco. Vorrei che tutti ce lo ricordassimo. Per quanto desueta possa sembrare, io poi credo davvero a questa figura di intellettuale totale. Certo implica spendersi molto. Un po’ lo faccio per sentirmi vivo, un po’ lo faccio perché non faccio politica attiva. E questo è il mio modo di fare politica. Peraltro ogni elezione ricevo una proposta di candidatura. Da varie parti; naturalmente nell’area della sinistra. Ho sempre rifiutato perché ritengo che la politica sia un mestiere, sia una professione. La “Settimana della politica” era anche un modo per ricordare che i politici debbono essere formati.
Note e discussioni
Fra le tue iniziative relativamente recenti vi è anche la Fondazione Salvatorelli e il Festival Storia. Ero stato invitato a fare una conferenza su Salvatorelli a Marsciano, una località di cui ignoravo tutto, tranne che Salvatorelli vi era nato. Alla fine della conferenza scoprii che c’era la tomba, la casa di famiglia in cui c’erano delle carte e una biblioteca. Allora suggerii al sindaco – Gianfranco Chiacchieroni, una notevole figura di amministratore della “scuola PCI” – di creare una Fondazione. Il sindaco sposò l’idea e mi incaricò di realizzarla. Era il giugno del 2000, nel maggio del 2002 è nata la Fondazione. Però mi è stato dato tutto in mano. Ho dovuto pensare tutto, gli statuti, il comitato scientifico, il consiglio di amministrazione, i programmi, i progetti, i testi costitutivi, il sito, le ragioni sociali. Il fatto che ci sia ancora oggi, nonostante difficoltà 118
Note e discussioni
Il tuo tentativo di fare divulgazione, in modo alto ma rivolto a un pubblico non accademico, di alimentare un circuito diverso da quello dei mass media, della televisione è indubbiamente difficile. Mi sembra che tu lo faccia utilizzando forme comunicative molto diverse da quelle tradizionali, che tendono, o così potrebbe sembrare, a spettacolizzare le forme tradizionali con cui si dibatte di questi argomenti. C’ è dell’ironia in questo? Penso per esempio ai “processi allo storico”... Sì certo, vogliono essere anche ironiche rispetto alla comunicazione televisiva. In questo caso che cosa voglio dimostrare? Voglio innanzitutto tradurre in atto quella cosa che io ho teorizzato, nello statuto di Historia Magistra, cioè il diritto alla storia come diritto fondamentale degli esseri umani. Allora se è un diritto fondamentale non lo puoi riservare nelle aule universitarie, ma devi creare delle occasioni per fare scoprire la storia, per farne apprezzare l’importanza. Perché io credo davvero che senza 119
Intervista ad Angelo d’Orsi
enormi e crescenti, e che sia una delle poche realtà a dare un sostegno ai giovani studiosi non è un fatto disprezzabile. Abbiamo anche una collana editoriale. E abbiamo appena pubblicato gli atti del convegno su Salvatorelli. È curioso, anche nel caso di Salvatorelli ritorna una figura multipla di studioso, testimone, giornalista. L’idea di “FestivalStoria” mi è invece venuta nel 2003. Ci ho messo due anni per realizzarla. Anche qui pressoché da solo. C’è un Comitato scientifico internazionale ma il suo contributo è assai limitato, perché non siamo in grado di dare un gettone per le riunioni, e non possiamo permetterci riunioni frequenti dati i costi dei viaggi e dei soggiorni. I fondi assai scarsi non lo permettono. Tra l’altro ora siamo a rischio di chiusura perché la Regione Piemonte che è molto esposta su certi fronti, lesina sui finanziamenti, valutando “FestivalStoria” una cosa seria, ma troppo di élite, di nicchia. A mio parere sbagliando e tradendo una concezione della cultura basata sulla visibilità cui corrisponde una concezione della politica basata sulla ricerca del consenso.
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conoscenza storica non c’è vera cittadinanza. E quindi non c’è politica, non c’è possibilità di fare la politica e di capire la politica. La storia deve dare uno spessore. A questo credo profondamente e l’ho sempre pensato a prescindere dalla mia attività di studioso. Nelle mie iniziative voglio poi anche dimostrare che si può intrattenere e quindi essere, per così dire, leggeri senza sbracare, che si può fare una divulgazione alta, che esiste una nobiltà della divulgazione. Perché non dovrebbe essere nobile lo sforzo di farmi capire da un impiegato? Non voglio fare il populista, ma ricordo che ci sono stati anche degli operai che hanno partecipato intervenendo al dibattito, quando abbiamo fatto il Convegno del novembre 2007 sul “Nostro Gramsci”, un’altra mia invenzione. Così come, da sei anni ormai, mi sono inventato intorno al 27 aprile (data della morte di Antonio Gramsci, avvenuta nel 1937), la “Giornata Gramsci”, con partecipazione sempre di studiosi e studiose gramsciani: un’occasione per tenere in circolo il pensiero di questo gigante della cultura del Novecento. Vedi che se uno si inventa delle cose è possibile rompere certi steccati, è possibile uscire dai canoni stabiliti. Anche qui viene fuori la mia concezione olistica del ruolo degli intellettuali e del ruolo della comunicazione che sta insieme alla ricerca, insieme all’organizzazione, insieme alla milizia delle idee. Forse perché ho una concezione olistica della vita.
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La tua però è una fatica improba, che rischia però di sembrare lo scontro fra Davide e Golia. Oggi leggevamo Romain Rolland in classe, un passo in cui dice di essere quasi solo a combattere contro l’incanaglimento bellicista (siamo durante la Prima guerra mondiale), però sa che esiste la possibilità esistano altre persone in Europa che leggendolo potrebbero dire “anch’io la penso così” e diventare dei focolai per diffondere una idea diversa rispetto alla guerra. La mia speranza è questa. E poi se io ho qualcosa da dire non posso limitarmi a scrivere sui libri che quelli che vengono a sentire le mie conferenze magari non leggerebbero mai. A gennaio sono 120
Note e discussioni
andato a parlare a Fasano di Brindisi, pioveva, era sera, c’era una sala strapiena e io ho parlato di Palestina. Questa è gente che non solo non compra libri, ma non legge neanche i giornali o comunque ne legge uno, e magari non tutti i giorni. Se tu a cento persone hai acceso una lampadina e hai suscitato la voglia di sapere, hai ottenuto un risultato enorme. Questo è il nostro compito, eccitare la voglia di sapere. Tutte le iniziative che io faccio sono tutte finalizzate a questo.
Un obiettivo polemico però in tutto questo se vogliamo c’è ed è il “rovescismo”, come tu stesso lo hai denominato, quell’uso politico della storia smaccato con cui ormai da molti anni, almeno da Craxi in poi, dobbiamo confrontarci. Sì, la deriva è iniziata lì, alla fine degli anni Settanta.
C’è una fortissima domanda di storia e c’è una contraddizione fra questa forte domanda di storia e un’offerta di storia che è solo di cattiva storia. La mia scommessa è di andare incontro a questa domanda, però provando a invertire questa corrente, proponendo una storia decente che serva come nutrimento, come lievito. Le mie iniziative sono anche molto criticate. Accusate anche da colleghi autorevoli che pure vi partecipano, di banalizzare il discorso, offrendo una forma di evasione che non incentiva la lettura. Non è così. Lo constato dalla partecipazione a “FestivalStoria” di molti studenti delle Medie superiori che poi chiedono di fare tesine sugli argomenti ascoltati. Oppure dal successo del bookshop che curo io direttamente, selezionando accuratamente i libri. Così come i fogli di sala in cui ci sono gli abstract degli interventi e delle bibliografie ragionate.
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Intervista ad Angelo d’Orsi
Il fatto che però questa cattiva o pseudo storia abbia così presa sulla gente, sull’opinione pubblica, fa pensare che una domanda di storia vi sia ancora nella nostra società e che quindi uno spazio ci sia anche per la buona storia.
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Note e discussioni
Sembra che la storia oggi sia più in sofferenza rispetto ad altre discipline, come se in generale si ricercassero delle risposte agli interrogativi del nostro presente in altre forme del sapere. Mi sembra che essa abbia perso quella funzione di disciplina ordinatrice delle altre che invece aveva fino a qualche decennio fa, divenendo in qualche modo una disciplina ancillare. Anche questa è una curiosa aporia, da una parte c’è una forte richiesta di storia, dall’altra parte la storia non è più considerata uno strumento che aiuta a capire il presente, e si preferisce ricorrere alla filosofia, alla letteratura, alla psicologia, alla psicanalisi. La storia è considerata, al contrario, un elemento superfluo e non l’elemento fondamentale, dirimente, per penetrare i problemi della realtà. Non è un caso che nelle “Settimane della politica” io abbia voluto inserire sempre un approccio storico in ciascuna delle sezioni, senza fare l’imperialismo dello storico, nell’ottica di equilibrare questa situazione. Senza storia non c’è profondità, tutto rimane appiattito. È vero che oggi quando il dibattito pubblico affronta dei problemi raramente viene in mente di affrontarli in chiave storica, oppure si prende uno storico e gli si fa fare un pezzo sulla prima volta in cui è stata fatta o è capitata la tal cosa, relegando di nuovo la storia in una dimensione puramente erudita, come una curiosità, tipo guarda come vestivano, come si acconciavano le nostre nonne, come erano curati i bambini allora. Non hanno capito che la storia serve per capire l’oggi, non hanno capito che la storia è maestra. Come dice Gramsci, “la storia è maestra, ma gli uomini sono cattivi allievi”. In questo senso la rivista Historia Magistra vuole essere provocatoria, proprio perché vuole rivendicare l’importanza fondamentale della storia, come essenza stessa del sapere critico. Io credo da questo punto di vista che la storia sia la scienza delle scienze, il faro che illumina ogni nostra conoscenza e per questo sia irrinunciabile. Noi discutiamo di cellule staminali, però io debbo sapere come è andata sviluppandosi questa disciplina, la genetica o la biogenetica, in relazione a quali fatti si è andata evolvendo, quali sono stati i condizionamenti pubblici e quelli privati. Questo ci aiuta a capi122
Note e discussioni
re perché in Inghilterra questa ricerca è libera, perché in Spagna stia diventando libera e in Italia no. Gramsci raccontava il suo “garzonato universitario” ricordando che aveva apprezzato soprattutto quei professori che al di là della disciplina che professavano gli facevano capire il lavorio attraverso i quali nei secoli quella disciplina si era andata sviluppando, perfezionando, e “io stesso come studente mi andavo scaltrendo, andavo migliorando, penetravo i meandri di questa disciplina”. Il sapere storico è fondamentale anche per fare matematica. Effettivamente è un’idea oggi assolutamente desueta. Nelle stesse Facoltà di Scienze politiche la storia viene considerata una materia residuale. Valgono le materie che si occupano dell’oggi, l’economia che viene poi matematizzata, addirittura semplicemente numericizzata, la sociologia che viene ridotta in formule, la politologia anch’essa ridotta in formule astratte che debbono andar bene per tutti, formule che però hanno un senso solo se tu le collochi storicamente.
Credo di dedicare molto tempo ed energia all’insegnamento e di farlo con molta passione. E credo di comunicare questa passione ai miei allievi. Debbo dire che quest’anno il numero degli studenti ai corsi sta crescendo invece di diminuire. Sarà perché le mie lezioni sono anche molto “teatrali”, e ogni volta è una sorpresa. Cerco sempre di far capire che l’Università, nonostante sia quello che sia (con dei bilanci disastrati), è una grande occasione e che se si vuole sfruttare questa occasione si deve viverla in maniera completa. È il luogo e il momento in cui si costruiscono amicizie importanti, rapporti decisivi, anche affettivi. Ed è il momento in cui si crea la propria biblioteca, in cui si costruiscono relazioni coi libri, con gli autori. Credo fortemente nella figura dell’insegnante come maestro. Ho scritto un libro intitolato Allievi e maestri , mettendo al primo posto gli allievi e non è casuale. Perché credo davvero nell’inter123
Intervista ad Angelo d’Orsi
Un altro aspetto della tua attività che ti connota fortemente è quello del maestro. Se vogliamo anche qui è una caratteristica un po’ desueta.
Note e discussioni
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scambio. Io ho sempre lavorato coi giovani. Il convegno che abbiamo fatto su Gramsci nel novembre 2007 è stato considerato da tutti il convegno più originale fatto nell’anno gramsciano. Ed era un convegno fatto di giovani, perché volevo sentire delle voci nuove e dare delle possibilità a persone che non ne hanno facilmente. Preferisco lavorare con i giovani, perché sono più vergini e quindi puoi esercitare meglio il tuo ruolo che è quello non già di dare dei contenuti, ma di sollecitarli a porti delle domande. Un collega non ti pone delle domande, pensa di sapere già tutto, fare domande per un collega significa diminuirsi, invece un giovane ti fa delle domande, non si sente sminuito. Ed ogni domanda è una sollecitazione, è uno stimolo, è una occasione di approfondimento. L’insegnamento è bilaterale oppure non è. Non funziona l’insegnamento in cui il professore, il maestro, come dice ancora Gramsci, considera gli allievi “vasi vuoti da empire e stivare di nozioni, di date e di dati di cui egli poi si servirà facendone una barriera fra sé e il mondo. Snocciolandole in ogni occasione. Pensando che questo sia cultura. Questo non è cultura, è pedanteria, non è intelletto, ma intellettualismo bolso e incolore, che ha creato tra noi tutta una caterva di saputelli più deleteri per la società di quanto non sia la sifilide o la tubercolosi per il corpo umano”. Ho un gruppo molto bello di ragazzi che lavorano con me, che mi sento in dovere di aiutare, tanto più in una situazione difficile come l’attuale. Probabilmente lavorando con me hanno certi vantaggi ma anche certi svantaggi, essendo io un professore molto esposto (oltre che molto esigente con i suoi allievi). Io faccio un enorme investimento, anche affettivo, negli allievi e credo che solo se fai questo investimento affettivo puoi davvero compenetrarti di loro. Sentire come tue le loro esigenze, le loro richieste, prevenirle. Ci sono state anche delle rotture con qualche allievo e queste rotture mi pesano perché le vivo come sconfitte, perché evidentemente non sono riuscito a farmi capire. Qualcuno mi ha anche rimproverato di investire troppo su di loro rischiando poi inevitabilmente di averne delle delusioni. Ma non potrei fare diversamente. Io cerco davvero di essere, come dice Massimo Mila di Augusto Monti, il professore compagno. 124
Questo significa essere maestro innanzitutto nell’esempio. Devi essere onesto, devi essere corretto e, ma non è sempre facile, devi cercare di beneficiare i migliori e tener conto delle differenze di partenza, perché il metro non può essere uguale per tutti. Questo me lo ha fatto capire il giovane Marx. La legge uguale per tutti è certo oggi un principio da difendere visto che viviamo in un periodo in cui la legge è piegata a favore dei potenti, ma Marx ci ricorda che la legge non può trattare allo stesso modo chi ruba per necessità, per fame e chi ruba per altri motivi. Allo stesso modo, debbo tener conto dei punti di partenza, non solo delle capacità dei miei allievi, debbo tener conto che alcuni sono nati in una famiglia borghese con una biblioteca, che è fondamentale, altri no, altri hanno tre libri in casa, il padre che fa l’operaio, la madre disoccupata. Mi pongo anche il problema di dare a quelli che partono più svantaggiati un’occasione di riscatto sociale. Nell’attribuire le borse di studio se vedo uno che ha già vinto diciotto borse, venticinque premi, che è il figlio di un barone, che ha tutte le strade aperte, siccome non gli cambia nulla non vincere questa borsa, cerco di preferirgli uno che magari arriva da Reggio Calabria, che capisco provenire da un ambiente sociale difficile, che si è fatto con le unghie e coi denti. Anche se vedo che la sua bibliografia non è perfetta, ma tu sei lì per insegnarli a perfezionarla. Non è l’unico modo di fare il professore, ma sarebbe difficile per me altrimenti dare un senso a questo lavoro, un senso che mi soddisfi. Io per esempio sono soddisfatto da una buona tesi di laurea. Sanno che con me debbono lavorare, ma alla fine ne sono soddisfatti anche e soprattutto loro. Si rendono conto che hanno scritto un libro. Poi non so... Dixi et salvavi animam meam.
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Intervista ad Angelo d’Orsi
Note e discussioni
Quaderno di storia contemporanea/45
Dalla Costituzione all’educazione alla legalità Materiali per la riflessione e l’intervento didattico
Problemi e materiali didattici
Vittorio Rapetti
Le note che seguono nascono dalla riflessione su diverse esperienze vissute in questi anni, sul versante propriamente scolastico e dell’aggiornamento docenti, oltre che su quello culturale e civile 1. Il punto decisivo - comune ai diversi ambiti - riguarda l’attualità ed il valore della Costituzione oggi . Il rilancio del suo insegnamento/apprendimento nelle scuole e quindi l’interesse per un aggiornamento professionale dei docenti in questa direzione, si è intrecciato con un triennio ricco di anniversari (a 60 anni dal cruciale periodo 1946-1948) e col dibattito riguardante le proposte di riforma costituzionale, culminato col referendum che ha respinto tali proposte, ma che si è recentemente riacceso. Il tutto nel mezzo di uno dei passaggi della storia politica (ed economica) italiana più perigliosi per il futuro della democrazia nel nostro paese, ma anche intrecciato col processo di unificazione europea, con il contrastato percorso di elaborazione di una Costituzione sovranazionale, mentre si ricorda – e con quale attualità – l’anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Si potrebbe pensare a un “ingorgo”, quasi a un sovraccarico per le deboli spalle della scuola italiana e per la frammentata cultura che si vive in periferia, sotto l’offensiva della comunicazione mediatica, pervasiva di gran parte degli spazi culturali disponibili alla maggior parte dei cittadini (divenuti “pubblico”, “utenti”, 126
Problemi e materiali didattici
La “questione costituzionale” a scuola, nonostante sia stata costantemente richiamata da varie direttive e indicazioni legislative, da governi di diverso segno (ultima quella del ministro Gelmini in merito alla educazione costituzionale), resta quanto di meno scontato e praticato nell’effettivo svolgersi dell’azione formativa, sia rispetto agli studenti dei diversi ordini e gradi di scuola, sia relativamente alla formazione dei docenti. D’altro lato non sono mancati tentativi di rilievo per concretizzare – attraverso progetti specifici o inserimenti della didattica ordinaria – la rinnovata attenzione alla Costituzione, anche grazie alla elaborazione di nuovi strumenti. Alla base dei tentativi e delle difficoltà a porre in atto quella che in senso generale possiamo chiamare “educazione costituzionale” o “educazione civile”, stanno almeno tre ordini di questioni: la prima è di ordine storico-culturale; la seconda attiene alla dimensione educativa e scolastica; la terza riguarda i progetti, i percorsi e la strumentazione a disposizione. Tutto ciò, da un lato ha sollecitato numerose e degne iniziative, offrendo anche risultati confortanti (specie nell’ambito della scuola dell’obbligo), dall’altro segnala anche il tipo di incertezze e contraddizioni che questa educazione costituzionale incontra. Senza alcuna pretesa di tracciare un bilancio di questi percorsi, l’intento è quello di riaprire una riflessione tra insegnanti e istituzioni, considerando anche le novità introdotte dal MIUR, consapevoli di quanto sia alta la posta in gioco.
Riferimenti e nodi storico-culturali L’educazione costituzionale si trova in primo luogo a doversi misurare con alcuni nodi storico-culturali: Il rapporto tra Costituzione e storia nazionale (in particolare il rapporto con la Resistenza e la Costituente) si presenta come il 127
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
“consumatori”… “clienti”, essi si scoprono di nuovo un po’ più “sudditi” e assai meno “principi”).
Problemi e materiali didattici
Quaderno di storia contemporanea/45
primo e cruciale problema. Le vicende della sua lenta attuazione, e ancor più il clima di accentuata revisione politico-storiografica degli ultimi 15 anni, hanno posto in evidenza che la Costituzione non è percepita come una base realmente conosciuta e condivisa. Da più parti è stato posto in discussione il rapporto tra Resistenza e Costituzione, la concezione democratica e antifascista è messa in dubbio, almeno a riguardo della sua attualità. Va riconosciuto che le generazioni precedenti vissute nel dopoguerra hanno goduto degli orientamenti e dei valori costituzionali ma non sono riusciti (o non hanno percepito la necessità) di “tradurli” per le generazioni successive. Questo mancato apprezzamento del rapporto tra Costituzione, vita democratica e sviluppo sociale nei decenni post-bellici ha caratterizzato il rapporto tra le generazioni, allontanando la Costituzione stessa dalla formazione culturale e civile degli italiani. E non è un caso che molti, e non solo giovani, coltivino l’impressione che gli orientamenti costituzionali non siano idonei a gestire la durezza e la complessità dei problemi di oggi: la “carta è vecchia!”. Esito piuttosto paradossale per una Costituzione in realtà assai “giovane” e da tutti gli esperti considerata moderna e ottimo riferimento per altre leggi fondamentali. Considerata un po’ superficialmente come un patrimonio scontato, lasciata sullo sfondo della formazione scolastica fors’anche per il timore di ricadere in quel modello di “stato etico” (e di scuola di regime) incarnato dal fascismo, essa è divenuta più di recente oggetto di un acceso dibattito, che ha finito per minarne la “sacralità” e finanche la legittimazione, a fronte di una diffusa e pesante ignoranza del suo contenuto e della sua funzione. Divenuta terreno di scontro politico per quanto concerne i temi dell’organizzazione dello Stato (in particolare in ordine al federalismo), la Costituzione rischia ora di essere delegittimata anche per tutta quella parte fondamentale (i principi, la prima parte), che è punto di riferimento essenziale per tanta parte della legislazione ordinaria, specie per quanto riguarda i rapporti civili, sociali, economici, guarda caso messi oggi in forte tensione dalla trasformazione della nostra società. 128
Di conseguenza, appare necessario in ambito scolastico porre una chiara distinzione tra dibattito politico e intervento educativo-didattico. L’insegnante si trova nella situazione di dover proporre come principi di riferimento per la convivenza civile e per l’organizzazione politica, orientamenti e norme che sono oggetto di discussione politica. La deontologia professionale lo porta quindi facilmente ad astenersi dall’entrare nel merito, anche perché il rischio di “far politica in classe” resta un fatto reale e sovente riscontrato. D’altro lato, proprio l’attualità di molte discussioni che chiamano in causa principi costituzionali (si pensi al razzismo, alla famiglia, all’integrazione, al valore del lavoro, alla funzione dell’impresa, alla guerra) offrono una notevole opportunità per evidenziare il valore della Costituzione e la “concretezza” dei temi costituzionali . Non è così astruso individuare il rapporto tra ciò che i ragazzi leggono nella Costituzione e quanto vivono. Il fatto problematico è che il contenuto costituzionale viene fortemente contestato anzitutto in nome di un “atteggiamento realistico” verso i fenomeni sociali e politici che lascia poco spazio all’apprezzamento di valori e ideali. Il punto chiave risulta essere la (mancata) comprensione della nostra Costituzione come una legge fondamentale che non solo prescrive, ma orienta e promuove un certo quadro di valori e di comportamenti. Insomma è una realtà da attuare, da costruire. Ciò però – aldilà delle remore ideologiche o delle simpatie neofasciste di una minoranza - risulta problematico, in quanto l’attenzione dei ragazzi e dei giovani è in larga misura catalizzata dai problemi della sicurezza e della identità. In particolare: l’ansia per i problemi della sicurezza, amplificata dai mass-media, pone un serio problema di analisi dei problemi sociali e una certa freddezza verso le norme di libertà, solidarietà…; il giudizio drasticamente negativo verso la politica (e verso lo Stato in quanto tale) depotenzia l’interesse verso le norme democratiche, di cui di fatto i ragazzi non fanno quasi mai esperienza, facendoli propendere per una visione della politica dominata dai rapporti di forza e dall’assenza di regole certe e di 129
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
Problemi e materiali didattici
Problemi e materiali didattici
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rapporti corretti (facilmente l’avversario politico diventa il nemico, il modello dominante quello mafioso o comunque basato sullo “scambio”); infine la cruciale (e ambigua) questione dell’identità tocca al cuore la funzione della Costituzione, una identità che per i giovani sempre più assume connotati di appartenenza di gruppo e di territorio, di difesa rispetto a ciò che è “altro”; così i temi dell’uguaglianza e della dignità di ciascun individuo sono colti un po’ come astratti, poco praticabili, espressione di ingenuità e di scarso realismo. D’altra parte, proprio la Costituzione è in grado di offrire quella consapevolezza della nostra identità nazionale senza la quale diventa difficile anche l’incontro e il dialogo con gli “altri”. La cultura della scuola e la sua funzione educativa si ispirano al mandato che alla scuola stessa viene assegnato dalla Costituzione: contribuire a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”(art. 3). Allo stesso modo appare del tutto centrale l’obiettivo previsto dai nuovi programmi per la scuola dell’obbligo, in cui si parla di: “Collocare l’esperienza personale in un sistema di regole fondato sul reciproco riconoscimento dei diritti garantiti dalla Costituzione, a tutela della persona, della collettività e dell’ambiente” (Asse storico-sociale, pp. 2628). Obiettivo che potrebbe utilmente essere posto anche per la scuola superiore. Una analoga considerazione riguarda il forte rapporto che lega Costituzione ita lia na , la Costituzione europea , la Dichiarazione universale dei Diritti , ma anche gli statuti regionali , elaborati nel corso degli ultimi anni. Anche questi sono riferimenti di grande rilievo per la costruzione della identità culturale del cittadino che è sollecitato a vivere identità plurime, sotto il profilo territoriale, dal locale, al nazionale, all’europeo e ad apprezzarne il valore (nonché i vantaggi!). L’esperienza della scuola superiore pone seri dubbi circa l’atteggiamento positivo dei ragazzi verso questa identità a più dimensioni. Anche in que130
sto caso, le polemiche politiche di basso profilo (ad es. rispetto all’introduzione dell’euro) hanno spianato la strada a una relazione “diffidente” (quando non ostile) all’identità europea, contraddicendo lo storico europeismo degli italiani. Anche in questo caso per l’insegnante – specie nella scuola superiore – risulta problematico evidenziare il valore di ciò che è messo in discussione sul piano politico, talora in modo pretestuoso. Proprio alla luce di questi nodi storico-culturali, la scuola è dunque direttamente interessata dalla Costituzione, a ogni suo livello, e particolarmente oggi anche per il processo di mondializzazione in atto, per la trasformazione della società in direzione multiculturale, per il processo di integrazione europea. Proprio le linee che emergono dalla riflessione su scala continentale orientano a pensare le caratteristiche della educazione alla cittadinanza in base ai principi della Carta e alle trasformazioni in atto; pertanto – come ha sintetizzato Gusso 2 – l’educazione alla cittadinanza chiede di essere: democratica, attiva/partecipata/responsabile (fondata sull’equilibrio tra riconoscimento dei diritti e assunzione di responsabilità), globale/interdisciplinare (poiché riguarda i diversi diritti - umani, civili-politici, socio-economici, culturali, ambientali - essa richiede il concorso e la relazione tra più discipline); plurale/interculturale (in quanto deve considerare diversi ambiti geografici, le differenze di genere e di generazione, quelli di religione e di origine culturale, quelle di provenienza); infine una buona educazione alla cittadinanza sollecita una consapevolezza storica in grado di storicizzare i processi socio-politici. Questo approccio, che potremmo definire di carattere umanistico-democratico (peraltro sotteso anche al Quadro di riferimento europeo) 3 deve però misurarsi con quel modello di scuola informativa e settorializzata che – a dispetto delle enunciazioni ufficiali - nei fatti si è introdotto anche nella nostra scuola e che finisce per scontrarsi con un’idea dell’uomo e del cittadino che è il nucleo stesso della Costituzione. Infatti, in questo modello il sapere è di carattere funzionale per “stare in società” e magari per avere un lavoro, il sapere è ridotto a nozioni utili (per il lavoro, l’Università, i test di ammissione, i concorsi pubblici o i quiz tele131
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Problemi e materiali didattici
Problemi e materiali didattici
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visivi!), il lavoro di insegnamento/apprendimento diventa addestramento, il docente si trasforma in un tecnico addestratore, il rapporto educativo una “relazione pericolosa”, troppo impegnativa e vissuta con una qualche diffidenza dai diversi soggetti. Sono invece del tutto ai margini il valore propriamente culturale del sapere, il legame della conoscenza con il proprio orizzonte esistenziale o con il proprio partecipare in modo consapevole e responsabile alla vita sociale. Il modello di “cultura funzionale” porta a ritenere che la scuola stessa in quanto istituzione e luogo concreto di vita non sia davvero un posto reale, ma il palcoscenico di una gigantesca recita collettiva, nella quale i più abili si adattano alla propria parte: la vita vera è altrove, i processi che costruiscono effettivamente la mentalità giovanile sono fuori, qui al massimo ci si può permettere qualche “simulazione” (nonostante vi sia – e ci auguriamo che resti - una forte domanda implicita di cultura, di educazione, di significato, di socialità). Forse, quindi, non è un caso che siano pochi i docenti che considerano rilevanti e praticabili questi obiettivi di educare alla cittadinanza nell’ambito del proprio insegnamento e nell’operazione collettiva di un gruppo di docenti rispetto a un gruppo di studenti. Tali obiettivi nella prassi scolastica appaiono relegati all’ambito di qualche “progetto” (di fatto piuttosto marginale tanto nella considerazione dei docenti, quanto nella percezione degli studenti) o affidati a qualche insegnante (in genere di lettere) “appassionato” di tali questioni, o in futuro (secondo le ultime indicazioni ministeriali) affidate a uno specifico insegnamento di un’ora settimanale. È evidente che una tale situazione rende davvero poco probabile perseguire obiettivi così complessi, alti e “scomodi”. Il nodo in questo senso non è tanto la buona volontà del singolo docente, quanto il fatto che la stragrande maggioranza degli insegnanti (almeno nella scuola media e superiore) non ha alcuna formazione né aggiornamento in merito a questi obiettivi, considerati fondamentali a parole, ma di fatto non progettati e perseguiti in forma approssimativa e molto personale. Pesa in modo considerevole la crisi del ruolo docente nella scuola secondaria, che – lasciato a una gestione del tutto individualistica del 132
singolo insegnante e delegittimato rispetto al rapporto con le famiglie - pare ormai aver smarrito il compito educativo e largamente perduto il controllo della mediazione dei saperi (in particolare proprio di quelli legati a questioni di senso e di valori, com’è appunto l’educazione costituzionale) a vantaggio di altri sistemi in-formativi, scarsamente controllabili da parte del docente, il quale individualmente ben di rado riesce a competere con i media. La questione nel suo insieme meriterebbe forse una specifica indagine tra gli insegnanti, che – specie nella scuola superiore – hanno ben poche occasioni per riflettere su tali problemi e sono ben poco sollecitati a trovare le modalità per un lavoro coordinato (e magari condiviso).
Riferimenti e nodi educativi- scolastici Quest’ultima considerazione ci conduce direttamente all’interno del mondo della scuola, nel quale non sono certo mancate le elaborazioni e le proposte, più o meno organiche che afferiscono al vasto ambito della “educazione civile”. Anzi, possiamo constatare che proprio attorno a questo “asse educativo” si sono moltiplicati i progetti che hanno affiancato e di fatto sostituito la tradizionale “Educazione civica” che in passato introduceva alla formazione costituzionale e alla conoscenza di Stato e di società. Compaiono così l’educazione alla cittadinanza democratica o alla “convivenza civile”, dedicata ai temi della dignità, diritti/doveri del cittadino (in questo caso con un collegamento specifico con le competenze affidate all’obbligo scolastico), alla questione dei diritti umani (come nel recente caso del 60° anniversario della dichiarazione universale). In occasione del 60° della Costituzione repubblicana sono stati poi attivati progetti specifici, ancora in atto, tra cui il più rilevante per la scuola superiore è quello patrocinato dal Parlamento, Dalle aule parlamentari alle aule scolastiche. Lezioni di Costituzione: una visita alla pagina del sito che riassume i progetti presentati e selezionati (http://www.progettocostituzione.net/progetti60/progetti60c.ph) 133
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
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offre una panorama ricco e di notevole livello culturale, presente su tutto il territorio nazionale. Di avvio recente è il progetto per la prima edizione della Biennale Democrazia , appena conclusasi a Torino nel 2009 (vedi www.biennaledemocrazia.it e http://www.biennaledemocrazia.it/imparare/). In connessione con l’educazione civile e costituzionale fin dagli anni Ottanta si sono avviati molteplici percorsi e iniziative riferite alla “educazione alla legalità” , che si possono riferire a due filoni principali: - percorsi di tipo psicologico-relazionale prevalentemente intrascolastici, vedi la questione del bullismo, dell’integrazione del diverso, o indotte dai consumi (es. educazione stradale) o da problemi alimentari, di dipendenza da alcool e droga (educazione alla salute, con una significativa connotazione interdisciplinare tra geografia, diritto, scienze) - percorsi di carattere sociale e culturale (con apertura della scuola al territorio), in primis la questione della mafia e del lavoro, ma anche sull’uso critico dei media, sulle pari opportunità. Un progetto di particolare rilievo che collega Costituzione, educazione alla legalità e lotta alle mafie, racket e usura è il Progetto legalità della fondazione Paolo Borsellino che ha una specifica sezione didattica (http://www.progettolegalita.it/it/home/) 4. Ancora nel variegato panorama dell’educazione civile si evidenziano negli ultimi anni i percorsi connessi all’educazione interculturale e interreligiosa 5, all’integrazione degli studenti stranieri non solo sotto il profilo linguistico. Si tratta forse di uno dei terreni più significativi, di forte “rilievo costituzionale” e ricchi di novità, che hanno posto in campo competenze e professionalità diverse e che più si sono giovate di approcci interdisciplinari (storia/geografia/lingue/scienze; storia/diritto/filosofia, storia/economia, diritto/lingue; storia/religione…). Le numerose iniziative e progetti inerenti alla educazione alla pace e alla mondialità , con varianti su globalizzazione, commercio equo e solidale, sviluppo sostenibile, arricchiscono il quadro che tocca tutto l’arco degli studi dalle elementari alle superiori. 134
Faticosamente, invece, affiorano iniziative legate alla educazione alla cittadinanza europea e in genere ai temi della unificazione europea; mentre di notevole diffusione sono i molteplici percorsi dedicati all’educazione ambientale (con in evidenza i problemi dell’acqua, dell’ inquinamento, del risparmio energetico, dei rifiuti e delle raccolte differenziate…). L’emergere di “problemi sociali” ha via via indotto la scuola a farsi carico di percorsi mirati a tematiche specifiche e le “educazioni” si sono così moltiplicate, affidate prevalentemente – nella scuola media e superiore – a progetti brevi, sovente con l’intervento di esperti, talora con l’affidamento ad agenzie esterne di veri e propri “pacchetti formativi” (in qualche caso con un raccordo ai percorsi didattici ordinari da parte dei docenti curricolari). Il tutto segnato da una notevole fragilità e con difficili connessioni operative e di significato (ad es. la questione dell’orientamento scolastico-professionale è tema di forte rilievo costituzionale eppure di rado tale connessione e prospettiva viene posta in luce nelle iniziative di orientamento che gran parte delle scuole attuano). Una fragilità certo non irrobustita dal variare di indicazioni provenienti dal ministero, che in questi ultimi anni (gestione DeMauro, Moratti, Fioroni, Gelmini) hanno più volte spostato il tiro 6, in particolare alternando l’impostazione di una educazione civile “trasversale” e intrecciata con le diverse aree disciplinari , a un’altra che la lega strettamente a specifiche discipline, fino alla norma introdotta dalla riforma Gelmini, che prevede una disciplina autonoma (con un monte ore annuale di 33 ore, ricavato però dall’area storico-sociale). Quest’ultima scelta, riducendo di fatto il tempo da dedicare all’insegnamento della storia (nelle superiori è attualmente di circa 60-70 ore annuali) e affiancandogli una nuova disciplina autonoma, rischia in realtà di contrarre ulteriormente il tempo di insegnamento/apprendimento su tutte queste tematiche (tanto quelle storiche, quanto quelle educative legate all’attualità). Ma soprattutto ratifica una tendenza negativa, purtroppo già ampiamente presente nella scuola superiore, che in sostanza assegna ai soli insegnanti di lettere (e 135
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secondariamente a quelli di filosofia e diritto) il compito di provvedere alla educazione civile, mentre tutti gli altri insegnanti non hanno più alcun motivo per occuparsene (neppure con la semplice collaborazione a cedere qualche ora del loro insegnamento per attività non direttamente connesse alla loro disciplina). Di fatto si restringe nell’ambito di una disciplina particolare (che avrà tra l’altro scarsissimo peso nell’economia dei curricola) ciò che è l’asse portante della formazione del cittadino. D’altro lato c’è anche chi nota come la nuova normativa introdotta dal DL. 137 del 2008 legittima ufficialmente l’insegnamento costituzionale (che prima restava spesso ai margini delle discipline storico-giuridiche e del curricolo scolastico ordinario) e prevede “azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale finalizzate all’acquisizione nel primo e nel secondo ciclo di istruzione delle conoscenze e delle competenze relative a ‘Cittadinanza e Costituzione’”; in tal senso non resta che verificare quali azioni saranno effettivamente avviate (la circolare 100 del dicembre 2008 accenna a una “fase di approfondimento ed elaborazione progettuale in modo da avviare il nuovo insegnamento in forma sperimentale diffusa, a partire dall’anno scolastico 2009-2010”). Si registra comunque – già col DM 137 del 2007 - un cambiamento di ottica, in chiave europea, che evidenzia maggiormente il termine “cittadinanza” e le “competenze chiavi di cittadinanza”, legando questa iniziativa alle raccomandazioni del Parlamento UE circa la formazione giovanile contenute nel Quadro di riferimento europeo. In tal testo le competenze sociali e civiche comprendono “competenze personali, interpersonali e interculturali e riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare in modo efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa, in particolare alla vita in società sempre più diversificate, come anche risolvere conflitti ove ciò sia necessario. La competenza civica dota le persone degli strumenti per partecipare appieno alla vita civile grazie alla conoscenza dei concetti e delle strutture socio-politiche e all’impiego a una partecipazione attiva e democratica” 7. 136
Il confronto con le esperienze di altri paesi europei è sicuramente interessante per la pluralità dei modi con cui l’attenzione alla cultura costituzionale viene veicolata nella scuola, ma per l’Italia resta a mio avviso determinante la specificità dei problemi storico-culturali italiani sopra segnalati, che costituiscono il terreno sui quali ogni tentativo didattico si impianta e con cui deve fare i conti: in primo luogo il contrastato rapporto con la nostra storia nazionale e la debolezza dell’identità nazionale stessa, in secondo luogo la presenza sul territorio (non solo del sud) di diffusi fenomeni di illegalità (anzitutto la malavita organizzata e poi di corruzione politica) che rendono stridente il contrasto tra i valori proposti a scuola e la realtà sociale vissuta, specie in alcune zone, caricando la scuola stessa di un compito enorme, quella di essere uno dei pochi “presidi civili” operanti sul territorio. Formare i giovani alla cultura dello Stato e delle istituzioni è una delle “consegne” esplicite e ricorrenti tra quanti – talora di ispirazioni ideologiche assai differenti - hanno speso (e dato) la vita per l’attuazione dei valori costituzionali, si pensi – tra i tanti – a Vittorio Bachelet o Paolo Borsellino. Il discorso vale a maggior ragione se dalla cittadinanza italiana si passa a quella europea : come aveva ben chiarito il presidente Ciampi “un senso di appartenenza all’Europa e alle sue istituzioni non sostituisce la cittadinanza nazionale ma ne è naturale sviluppo; rafforza il richiamo ai doveri della cittadinanza e la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini nelle singole realtà nazionali”. Però, questo orizzonte di formazione culturale al senso dello Stato e alla cittadinanza italiana/europea in che misura è percepito, considerato praticabile e praticato nella scuola? Anche in questo caso sarebbe assai utile una indagine seria in proposito, ma l’impressione è che gran parte del personale della scuola si senta o inadeguato o non disponibile a porsi in questo orizzonte: ciò non contraddice il grande impegno posto da tanti insegnanti nel condurre i molteplici progetti che si realizzano nelle nostre scuole e di cui ci apprestiamo a fornire qualche esempio 137
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significativo. Segnala, però, alcune questioni piuttosto serie, che andrebbero considerate con schiettezza e senza atteggiamenti retorici e consolatori da parte di dirigenti, responsabili politici e dagli stessi insegnanti e genitori: - gli insegnanti che operano in questi progetti educativi appartengono quasi esclusivamente a una sola area culturaledisciplinare (quella umanistica), hanno una età mediamente alta, si impegnano in forma ampiamente volontaristica, sono considerati dai colleghi con un misto di stima e di compatimento per questo genere di operazioni culturali, giudicate a volte eufemisticamente “poco concrete”; - vi è infatti la sensazione che – a fronte di prodotti scolastici anche ben fatti – l’incidenza dell’attività didattico-educativa sulla cultura dei ragazzi sia minima, vuoi per motivi di carattere generale circa il rapporto scuola/cultura diffusa, vuoi per motivi specifici riconducibili alla gestione politica e della politica scolastica e per quanto giunge ai ragazzi tramite i mass media: nei fatti si indicano altre priorità; se c’è una realtà dalla quale anche gli studenti dei nostri territori si sentono distanti (e talora ostili) è proprio lo Stato e le sue istituzioni, lo stesso dicasi per l’Europa; - l’aggiornamento dei docenti in ordine a questi temi è quasi del tutto autoformazione; l’istituzione scolastica promuove in misura limitata (o non promuove affatto) la formazione in merito (talora neppure sul piano della semplice conoscenza delle nuove normative), e in particolare non pare in grado di assumere un impegno stabile e continuativo in ordine alle questioni di fondo che riguardano la formazione culturale dei giovani. Specie nelle scuole superiori la riduzione dell’educazione costituzionale “a contenuto” di carattere normativo svolta da un docente apposito o tramite “pacchetti” estemporanei (es. l’educazione stradale, svolta dei vigili urbani o l’educazione al soccorso sanitario proposta dai militi della CRI), dice in modo abbastanza chiaro lo scarso peso reale che si attribuisce alla meta della educazione civile. - Sotto il profilo pedagogico, il passaggio dalla “educazione ai valori costituzionali - alla “acquisizione di competenze di cittadinanza” non è molto chiaro, e comunque implica una formazio138
ne/aggiornamento dei docenti ancor più complesso, perché sottintende una didattica che – specie nelle scuole superiori – è assai poco praticata. Quando si richiama opportunamente il ruolo decisivo della didattica laboratoriale, funzionale a creare un clima idoneo a vivere una esperienza di educazione alla cittadinanza, si trascura facilmente il fatto che l’alto rapporto numerico docente/studenti, il tempo realmente a disposizione, la strumentazione mediamente utilizzabile nelle scuole, la scarsa esperienza dei docenti con tali metodologie rendono difficilmente praticabile tale tipo di didattica. L’esito rischia perciò di essere una ulteriore discrasia tra le enunciazioni ufficiali e la pratica scolastica: è a volte lo stesso linguaggio utilizzato in questi documenti a risultare lontano dalla formazione culturale della gran parte dei docenti. - Ovviamente le soluzioni tecniche sono opinabili e la ‘trasversalità’ dell’educazione civile non è un dogma, ma il tratto più evidente è che di queste cose nelle scuole si discute ben poco, né si è operata una seria verifica di quanto è stato realizzato negli ultimi 10-15 anni, prima di porre mano a una questione che dovrebbe coinvolgere in qualche modo gli operatori della scuola. L’impressione è quella che ci si sia rassegnati all’impraticabilità di un obiettivo “alto” (l’educazione civile, costituzionale) e ripiegati su uno scopo più funzionale alla gestione della scuola: il contrasto al bullismo, l’insegnamento – specie agli stranieri – di norme che orientino a comportamenti legali, l’autonomia e l’orientamento nella vita sociale. Se tale impressione fosse confermata, questo segnerebbe una sconfitta evidente di tutto il sistema educativo scolastico. È infatti piuttosto palese che se non si costruisce una cultura costituzionale (basata sui principi fondamentali della Carta, sull’apprezzamento dei valori in essa contenuti) capaci di motivare e fondare i “doveri inderogabili di solidarietà sociale, economica e politica” (Costituzione, art.2) e di far cogliere – anche in forma esperienziale – il senso della partecipazione civile e democratica, l’insegnamento di norme e codici non raggiungerà un obiettivo formativo della coscienza dei giovani, ma – per ben che vada – gioverà a un apprendimento di regole, prevalentemente funzionale all’autoprotezione e all’auto139
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
Problemi e materiali didattici
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nomia individuale. La stessa finalità attribuita alla scuola proprio dalla Costituzione sarebbe messa profondamente in discussione.
Problemi e materiali didattici
Percorsi e materiali per insegnanti e studenti La vastità di materiali elaborati in questi anni e di risorse oggi messe agevolmente a disposizione anche grazie al web, rischia effettivamente di disorientare. D’altro lato ogni materiale/progetto didattico, anche il più raffinato richiede comunque la mediazione attiva dell’insegnante. Tra i diversi modelli e molteplici attività e progetti (alcuni segnalati nelle schede seguenti) possiamo distinguere anzitutto tra i materiali e i percorsi didattici, e la presenza di diversi approcci: - un primo ricalca quello della educazione civica costituzionale con la presentazione dei temi istituzionali e politici; in vario modo questo taglio è assunto da numerosi manuali per le scuole medie e superiori; - un secondo approccio privilegia la prospettiva storico-politica (origine, nascita, attuazione della Carta) e punta sui valori della democrazia e sulla conoscenza degli istituti dello Stato e del loro funzionamento; - una terza prospettiva è connessa alla attuazione dei principi costituzionali rispetto ai problemi sociali di oggi, anch’essa punta sui valori/parole chiave, intorno a cui organizzare percorsi; - infine è presente un orientamento più legato alla partecipazione attiva dei ragazzi, alla dimensione ludica ed esperienziale, che può tradursi anche in attività extrascolastiche di sensibilizzazione verso la città (teatro, filmati, momenti collettivi…) Concretamente alcune esperienze risultano anche combinazione (più o meno progettate) di diversi modelli, alcune prospettano una dinamica più “scolastica” legata allo studio/apprendimento, altre puntano più sull’attività, sull’apprendimento per esperienza e simulazione in cui è più coinvolta la dimensione relazionale. 140
Una prima significativa proposta si basa sulla rielaborazione del progetto pensato da Patrizia Vayola in Insegnare la Costituzione, una mappa per temi, che suggerisce tre percorsi possibili, con forti agganci a questioni attuali: - il primo – storia-memoria-attualità – mette a fuoco due valori chiave, la democrazia e la libertà, a ciascuno dei quali vengono connessi in forma di problema/ricerca la questione del “chi decide e come”, l’analisi delle libertà civili e politiche a confronto con alcune situazioni in cui la libertà è messa in discussione (assenza di regole, presenza di mafie, schiavitù, dittature….); la connessione con l’insegnamento della storia è evidente e diretto, e può essere ulteriormente sviluppato con una ricerca storica locale sugli anni della Costituente, l’analisi dei giornali dell’epoca per conoscere le vicende politiche elettorali del 1945-48. - il secondo percorso “legalità ” è centrato sulle parole chiave diritti/doveri e lavoro; propone come temi di espansione l’inserimento nella società, la solidarietà, il diritto alla studio, il valore e la funzione sociale del lavoro, il problema del lavoro minorile. - Il terzo percorso “cittadinanza ” si concentra sulla questione dell’identità/differenza/uguaglianza (sangue o cultura? chi eravamo e chi saremo? razzismo e violenza come espressioni di una distorta espressione dell’identità; i rapporti e i pregiudizi tra “diversi”, l’emigrazione/immigrazione e l’incontro tra culture, la diversità uomo/donna, l’handicap). Materiali e suggerimenti di attività, approfondimenti per i docenti utili per questi percorsi sono proposti nella pubblicazione a stampa 8 e sul sito curato da P. Vayola (www.bibliolab.it) e sulla sezione apposita del sito dell’ISRAL; alcuni di questi materiali costituivano i contributi di base per gli itinerari elaborati nell’ambito del progetto Orizzonte Costituzione 9 curato dalla commissione didattica dell’ISRAL. A partire da un passaggio chiave (“il bene comune mi riguarda”), gli itinerari si strutturano per temi: giovani e Costituzione, la cittadinanza al femminile, scuola e costituzione; Stato-chiesa/chiese; i tipi di costituzione e le teorie della società giusta; il potere e la sua legittimità; le forme di governo; famiglia/famiglie; in guerra e in pace. 141
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
Problemi e materiali didattici
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Problemi e materiali didattici
Lo sviluppo di questa prospettiva, particolarmente dedicato alle scuole superiori, è il recente Senza Patria. Forme e modi della cittadinanza contemporanea curato per l’ISRAL da Massimo Cellerino. Si tratta di un ipertesto organizzato in forma di lessico elementare della cittadinanza, che si propone di fornire una presentazione storico-critica dei termini e dei concetti più ricorrenti nella discussione pubblica circa i molteplici significati dell’essere cittadini nella società contemporanea 10. La prospettiva storica di approccio alla conoscenza della Costituzione si può giovare di un ottimo strumento quale la Piattaforma didattica sulla Costituzione curata dal Parlamento italiano nel 2007. Essa si articola in diverse sezioni che approfondiscono anzitutto gli aspetti della formazione della Carta: gli atti della Consulta nazionale del 1945, del referendum istituzionale del 1946, dell’Assemblea costituente (di cui sono visibili anche materiali fotografici e filmati); a ciò si aggiungono i materiali dello Statuto albertino e l’Archivio delle costituzioni storiche italiane. Una seconda sezione della piattaforma è dedicata agli aspetti giuridici e raccoglie la giurisprudenza della Corte costituzionale (con i testi delle sentenze della Corte dal 1956, il periodico telematico Consulta on-line, la giurisprudenza sul Titolo V sul contenzioso regioni-Stato dal 2001 al 2008). Una terza sezione è dedicata alle riforme costituzionali e ai percorsi delle commissioni bicamerali, mentre una quarta sezione è dedicata alle costituzioni delle altre democrazie, alla comparazione degli ordinamenti tra i paesi europei, ai trattati dell’Unione europea e ai rapporti tra norme costituzionali nazionali e dell’UE. Una sezione dedicata agli approfondimenti offre una ricca bibliografia ragionata e percorsi di ricerca sulla Costituzione italiana e sulle costituzioni straniere. Tra i molteplici strumenti didattici utili per inquadrare il significato e il contesto storico in cui nasce la Costituzione, segnaliamo due mostre costruite sul nostro territorio: la mostra Tra storia e attualità: dalla Costituente a oggi. I principi base della Costituzione elaborata per le scuole medie e superiori (curata da V. Rapetti per la commissione distrettuale di Acqui, ora disponi142
bile on-line sul sito dell’ISRAL), e la mostra Dalla Resistenza alla Costituzione. La Costituzione a scuola che raccoglie una serie di elaborazioni dei ragazzi delle scuole elementari, medie e superiori di Canelli, Acqui T., Rivalta B.da, Visone (curata da R. Penna, I. Toselli, A. Ottomanelli, R. Rossi, V. Rapetti per l’Associazione Memoria Viva di Canelli, la commissione distrettuale di Acqui, il Circolo culturale “Galliano” di Acqui) 11. Di particolare significato e di buona efficacia è il video che accompagna la registrazione originale del Discorso sulla Costituzione di Pietro Calamandrei, utile per gli studenti di scuola superiore e per gli adulti a cogliere anche i riferimenti alla storia nazionale dei contenuti fondamentali della Carta 12. Tra gli strumenti che possono utilmente sostenere diversi percorsi didattici nei diversi ordini di scuola ci soffermiamo su tre testi in cui emerge soprattutto il taglio educativo, la metodologia attiva, la immediata fruibilità per il lavoro dei docenti. - Il primo è il volume di Raffaele Mantegazza, Sana e robusta Costituzione. Percorsi educativi nella Costituzione (Ed. La Meridiana, Molfetta, 2005); questo testo (di cui presentiamo una scheda analitica) è organizzato per unità didattiche che, in modo ordinato e organico, affrontano le principali parti della Carta: a partire dal tema costituzionale di base (ad es. la democrazia) si propone una articolazione didattica del contenuto, una o più attività da svolgere con gli studenti, finalizzate a un obiettivo cognitivo e/o comportamentale. I punti di forza di questa proposta sono – a mio avviso – numerosi: anzitutto l’organicità del percorso, ma anche la possibilità di sviluppare solo alcune delle attività con una coerenza di contenuto e obiettivo; la fruibilità delle diverse attività per un arco di età assai ampio (dai 7-8 anni per quelle più semplici, fino ai 16-17 per quelle più raffinate) che consentono di adattare il percorso alla condizione concreta del gruppo classe; l’uso di una “didattica attiva” basata più sui giochi di ruolo che sull’uso di documenti, con l’applicazione del metodo di decontestualizzare le norme e le situazioni trattate e ricontestualizzarle in ambiti più vicini ai ragazzi; l’approccio semplificato al linguaggio giuridico, politico, economico (e alcuni tenta143
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
Problemi e materiali didattici
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Problemi e materiali didattici
tivi di rielaborazione); l’avvio all’insieme dei grandi temi costituzionali, superando la parzialità di argomenti specifici. Lo schema di Mantegazza, specie per le scuole superiori potrebbe essere integrato/sviluppato con alcuni temi, oggi anche piuttosto dibattuti (con una messa in discussione dei valori stessi che alla norma costituzionale sono sottesi) quali ad esempio: il ruolo internazionale e la limitazione della sovranità a favore di istituzioni sopranazionali (UE, ONU in particolare); il ruolo dell’esercito e le missioni di pace all’estero (e l’uso dei militari per l’ordine pubblico); la funzione della proprietà privata; il legame di solidarietà sociale, politica ed economica da evidenziare a proposito del ruolo della politica e dei partiti e della questione fiscale; la “difficile” democrazia contemporanea: dalla società di massa alla società virtuale (come si costruisce il potere oggi e come si mantiene); il rapporto Stato centrale e federalismo, Stato nazionale e Unione europea; il confronto con altre costituzioni e sistemi politici, anche in relazione alla educazione interculturale 13; la questione della laicità dello stato, il rapporto con la Chiesa e le religioni e – anche sotto il profilo storico – la relazione tra cattolici e Costituzione, il tema delle riforme costituzionali 14. Il secondo testo che richiamiamo è lo “storico” libretto di Mario Lodi, Costituzione e ragazzi (Marietti-Manzuoli, CasaleFirenze, 1988); esso presenta una esperienza didattica che pone al centro la questione del linguaggio giuridico, che risulta difficile o incomprensibile a ragazzi (e adulti). È quindi una vera e propria “riscrittura” del testo costituzionale a misura dei ragazzi (1014 anni), con una introduzione sulle tappe storiche che hanno condotto alla elaborazione della Carta. Il testo è accompagnato da un fascicolo che riproduce le attività svolte per capire meglio gli articoli studiati: schemi sui diversi diritti/doveri, diagrammi di flusso sul modo di elaborazione di una legge, la ricerca di testimonianze di chi ha vissuto negli anni di elaborazione della Carta, questionari di conoscenza della Costituzione, traccia per la riflessione su temi riguardanti il rapporto tra ragazzi e Costituzione (emarginazione sociale, famiglia, lavoro minorile, immigrazione, 144
Problemi e materiali didattici
Il terzo testo è curato da Elena Capra, Dallo gnomo Mirtillo alla Costituzione (Ed. Impressioni Grafiche, Acqui, 2008). Anche questo volume (con prefazione di A.M. Poggi preside di Scienze della formazione all’Università di Torino) parte da una serie di esperienze sul campo, attuate sul nostro territorio (circolo didattico di Canelli) nell’arco di età dalla scuola dell’infanzia all’ultimo anno della scuola primaria, proponendosi anche di chiarire in modo dettagliato le motivazioni delle scelte culturali e metodologiche e di offrire anche la completa strumentazione didattica per sviluppare i percorsi. La riflessione muove proprio dalle indicazioni ministeriali del DM 137 del 2007 circa l’inserimento della educazione civile nel curricolo, per evidenziare l’urgenza di promuovere i presupposti della convivenza civile. Il primo punto chiave della ricerca e della sperimentazione è la questione della identità/differenza (“un viaggio attraverso l’altro alla ricerca della propria identità”); vengono presentate le schede descrittive dei percorsi attuati nella scuola dell’infanzia attraverso l’incontro con un personaggio fantastico (appunto lo gnomo Mirtillo) e nel primo anno della scuola primaria (“diversi ma uguali”). Il secondo nucleo – elaborato ancora per il primo segmento della scuola primaria – investe il nodo delle emozioni e delle paure, con un percorso in classe e un laboratorio teatrale. Il terzo nucleo – rivolto alle classi 4° e 5° – riguarda l’educazione ambientale, con particolare riferimento al tema della responsabilità verso l’uso dell’acqua, la conoscenza del fiume (il Belbo). Ai ragazzi più grandi delle classi 4° e 5° sono destinati gli ultimi due percorsi che sviluppano il tema della cittadinanza consapevole (“i nostri bisogni, diritti e doveri: un cammino verso la Costituzione”) e dei diritti umani (“un viaggio attraverso la libertà”) con un richiamo speci145
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
ambiente, rispetto dei bambini, salute, diseguaglianze, libertà), analisi di testi che riportano esperienze per individuare quali norme della Costituzione sono state violate, esempi per la discussione in classe, eccetera. Se l’elaborazione del testo può sembrare datata, la freschezza e concretezza del metodo proposto da Lodi restano a nostro avviso davvero esemplari.
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fico all’esperienza dei bambini nell’Olocausto. Il volume comprende anche una sezione dedicata agli strumenti di valutazione delle competenze e del progetto, una ampia bibliografia ragionata, nonché due inserti a colori che riproducono una selezione dei lavori grafici dei ragazzi. Per offrire una panoramica - che senza pretesa di completezza intende solo segnalare la varietà della produzione - utile al lavoro docente, ma anche alla memoria di quanto si è messo in atto in questi anni, propongo quindi in allegato al saggio alcune schede: - una riassume alcune delle principali iniziative sull’educazione costituzionale riguardanti la scuola, - un’altra segnala una serie di relativi riferimenti bibliografici e sitografici, - una comprende una sintetica presentazione di alcuni percorsi e strumenti per i diversi ordini di scuola che possono servire da orientamento per la scelta da parte del docente. Infine una serie di materiali per l’aggiornamento docenti [saranno disponibili sul sito dell’ISRAL].
Problemi e materiali didattici
Tra scuola e territorio: l’esperienza di Canelli con la “Costituzione in vetrina” Percorso non unico, ma sicuramente esemplare per molti aspetti, è quello sviluppato nell’arco degli ultimi quattro anni a Canelli, dove a partire dai temi resistenziali e della Giornata della memoria si è realizzata una ampia serie di iniziative culturali che hanno visto un significativo intreccio tra scuola dell’obbligo, istituzioni e associazionismo locale. Si tratta di un esempio di didattica che esce dalle aule ed entra in relazione con la città, mentre la scuola diventa parte attiva di un progetto che coinvolge diversi soggetti, in questo caso riuniti nell’“Associazione memoria viva” 15. Il punto chiave è ben riassunto da Liliana Gatti: “Proporre un percorso formativo di accostamento alla Costituzione significa assumersi, come scuola e come formatori, il compito di attrezza146
Problemi e materiali didattici
Tra le diverse attività svolte ha specifica attinenza al nostro tema il progetto chiamato Costituzione in vetrina e attivato tra il 2007 ed il 2008 tra le scuole le scuole dell’obbligo (elementari e medie) e le associazioni dei commercianti della città, in collaborazione con il Comune, l’Azione cattolica delle parrocchie di Canelli, L’ANPI, l’ISRAT 16. Questi in breve i passaggi principali di questo percorso. L’iniziativa è stata introdotta da due convegni pubblici, che – alla presenza delle autorità e di parecchi cittadini - hanno presentato i principali contenuti della Costituzione, le modalità della sua nascita e i nodi oggi in discussione in merito alle riforme dell’ordinamento statale. La Costituzione in vetrina : dal 1° dicembre 2007 al 6 gennaio 2008, i commercianti canellesi espongono nelle loro vetrine un quadretto con un articolo o un comma del testo della Costituzione italiana. Ognuno è libero di esprimere a suo modo e integrare col resto della vetrina il pannello con l’articolo. Percorrendo le diverse vetrine le persone hanno modo di ricostruire i principali articoli della nostra Carta Costituzionale. A questa iniziativa si collega Il Gioco dell’oca della Costituzione: un’attività per tutti i ragazzi delle scuole elementari che, insieme alle loro famiglie, hanno visitato i negozi aderenti all’iniziativa e qui hanno trovato e raccolto una carta con gli stessi articoli esposti in vetrina. Una volta raccolte le carte possono essere giocate in un semplice gioco dell’oca che prevede, fra l’altro, la lettura dei vari articoli della Costituzione, man mano che si procede lungo le caselle. In parallelo si svolge La caccia al tesoro della Costituzione: 147
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
re i ragazzi più giovani di uno sguardo interessato e partecipato alla nostra Carta, da conoscere come un oggetto storico vivente e soprattutto presente nella vita di tutti e di ciascuno. Pur prendendo spunto da un evento celebrativo (i 60 anni della Carta Costituzionale), abbiamo cercato, attraverso un approccio laboratoriale di restituire ai ragazzi il senso di continuità fra ciò che è legge fondante la democrazia e la convivenza civile e ciò che vivono quotidianamente” (dalla premessa al progetto Costituzione in vetrina ).
Problemi e materiali didattici
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un’attività dedicata ai ragazzi delle scuole medie per permettere loro di trasformare in ricerca quello che è un gioco, appunto la caccia al tesoro, dopo una riflessione svolta a scuola sul tema. La possibilità di procedere nel gioco ovviamente dipende dalla conoscenza dei punti principali della Carta, riguardanti temi concreti quali il lavoro, l’immigrazione, la guerra e la difesa, la legge, l’estradizione, la pena di morte, eccetera. L’attività di studio e di riflessione dei ragazzi e delle famiglie ha trovato un ulteriore riscontro esterno con il concorso bandito dalle associazioni dei commercianti per premiare il miglior elaborato dei ragazzi e/o delle famiglie; infatti è stato favorita sia l’attività svolta dai ragazzi, ma anche incoraggiato il lavoro svolto a casa insieme alle famiglie. Tappa ulteriore del percorso è stata la elaborazione di una mostra A 60 anni dalla Costituzione: dei lavori dei ragazzi delle scuole dell’acquese e del canellese. Una mostra originale quanto semplice perché - in una ventina di pannelli - abbina alcuni riferimenti storici all’esperienza dei ragazzi che si sono calati nei panni dei nostri “costituenti” e hanno provato a riscrivere la Costituzione “a loro misura”. L’insieme del progetto ha avuto un ottimo riscontro di partecipazione sia tra i ragazzi che tra la cittadinanza che ha partecipato numerosa ai diversi appuntamenti. Non è mancato il riscontro sulla stampa locale e nazionale, ma l’attestato più alto è giunto dal Presidente della Repubblica. L’attività propriamente scolastica, che ha posto le basi e/o si è collegata al progetto della Costituzione in vetrina ha registrato – grazie all’impegno di diverse docenti con una solida esperienza professionale - una significativa spinta progettuale, innovativa e documentata, che ha il pregio di essere essenziale e come tale riproducibile/rielaborabile. Per quanto riguarda la scuola elementare o primaria , i progetti sono più numerosi e diversificati. È il caso, ad es., di quelli realizzati da: R. Penna, classi prime, progetto laboratorio su diversità e convivenza, produzione ipertesto sull’educazione alla convivenza, Il bruco cantastorie (vedi scheda allegata); M. A. Balbo, classi prime, Un nome per ciascuno. A ciascuno il proprio nome; 148
Problemi e materiali didattici
Per quanto riguarda la scuola media o secondaria di I grado, sono da segnalare quelli curati da: L. Gatti, Educazione Costituzionale, tre percorsi per le classi 1°-2°-3° (vedi scheda allegata): a) le regole come presupposto della convivenza civile (tutte le classi); b) la Costituzione e la sua storia (classi terze); c) i diritti e l’educazione alla democrazia (tutte le classi); e da A. M. Tosti, Educazione alla convivenza democratica (per una classe 2°). Anche in questo caso vi è stata un produzione grafica su cartellone (con testi, disegni e foto) e su computer (presentazione in power point delle principali istituzioni statali). Inoltre un’attività di laboratorio teatrale, Il tesoro ritrovato, si è trasformato in un filmato riprodotto su dvd. Le progettazioni e i materiali cui ci siamo riferiti, insieme a un’altra serie di contributi, sono state raccolti a cura della Commissione distrettuale docenti di storia e per l’educazione interculturale di Acqui T. in due cd, il primo nel 2007 A scuola di Costituzione. La Costituzione a scuola ed il secondo alla fine del 2008 Attualità della Costituzione. Materiali didattici e di studio per l’educazione costituzionale che è articolato in diverse sezioni contenenti: materiali per i docenti; linee guida e progetti didattici; materiali e strumenti didattici; testi per l’approfondimento dei docenti sui temi dell’educazione costituzionale; una selezione di documenti ufficiali. In conclusione, anche da queste esperienze, pur in presenza di un 149
Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
A. Pipolo, Diversità e uguaglianza ; M. G. Stocchi, classi 4°, Alla scoperta della libertà nella Costituzione; M. G. Binello, G. Borgogno, classi 5°, nascita e caratteristiche della Costituzione, Un tesoro ritrova to; C. Lovisolo, classi 5°, Na scita della Costituzione; A. Vassallo, La nostra Costituzione: valori guida per il mondo; R. Penna, M Perazzo, G. Bielli, classi 5°, La nostra Costituzione. Scoprire come nasce una costituzione attraverso l’attività di simulazione dell’Assemblea Costituente. Tutti questi percorsi, svolti nel corso di 3 anni hanno prodotto un ricco materiale che si è trasformato in mostre esposte al pubblico e in alcune presentazioni multimediali documentate su cd.
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quadro istituzionale ondivago, emerge la ricchezza e serietà del lavoro scolastico di base, che tocca in maggior misura la scuola dell’obbligo. Resta da comprendere se e quanto di tale ricchezza di esperienze, sarà considerata a vantaggio dei futuri ordinamenti.
Scheda 1 – S TR UM E NT I DI DAT T IC I Sana e robusta Costituzione – percorsi educativi per ragazzi e giovani – dal testo di Raffaele Mantegazza, ed. la Meridiana, 2005 (scheda a cura di V. Rapetti) Le attività proposte presentano varie caratteristiche e differenti livelli di complessità; possono perciò adattarsi alle diverse fasce di età (dai 7-8 anni ai 17-18);
Problemi e materiali didattici
Tema di base Articolazione didattica (obiettivo cognitivo, comportamentale)
Attività con gli studenti
LA NASCITA DELLA COSTITUZIONE Costruiamo una città: le regole come carta di identità del gruppo Assemblea Costituente Le regole del gioco Il sogno di una cosa (elaborare il regolamento) (le regole rappresentano il gruppo umano che le costruisce) (l’identità presente e futura) E se disobbedisco? Il problema delle sanzioni In prigione! In altre parole (come punire) (come esprimere i divieti) Il compromesso necessario Un processo tra i banchi Le matite della discordia Il gioco del girasole (gestione costruttiva dei conflitti)
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Problemi e materiali didattici
* diritti/doveri cittadinanza Cittadino d’Italia (artt. 2-3): identità e cittadinanza La fila impossibile AAA. Cercasi Italiani E’ un mio diritto che … (che cos’è l’italianità) (conoscenze e comportamenti per diventare cittadini italiani) (come “rimuovere” gli ostacoli per una piena cittadinanza) Cittadino del mondo: il diritto internazionale (art.10) Palazzo di vetro Welcome stranger (risolvere problemi con la collaborazione internazionale) (cosa sapere dell’Italia: istruzioni per accogliere uno straniero) * la tutela delle minoranze Dalla parte dei pochi (art. 6) Extraterrestre (come raccontare l’identità umana / gioco sul linguaggio) * laicità e religioni I volti di Dio (artt. 7, 8, 19) Una settimana da Dio Ai tempi di Kennedy (organizzare un incontro tra i rappresentanti delle diverse religioni) (conoscere i diversi calendari) * la tutela dell’ambiente Democrazia cosmica (art.9) Dove non passa l’uomo… (educazione ecologica) * la pace L’avventura senza ritorno: la guerra (art. 11) (art. 78) L’isola e l’AIDS Avventura senza ritorno (gestione costruttiva/distruttrice dei conflitti) (in quali casi deliberare lo stato di guerra)
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Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
PRINCIPI FONDAMENTALI * la democrazia Mettiamoci insieme (art.1) Gli inizi degli altri Quest’Italia che profuma (confronto con i primi articoli di altre costituzioni) (esprimere in sintesi identità/essenza dell’Italia)
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I RAPPORTI CIVILI * le libertà individuali e collettive Quel che posso fare: le libertà individuali (artt. 13,14,15,16) Giù le mani! Una mappa a colori Parole sotto schiave Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori (perquisizione) (domicilio) (tutela della comunicazione personale) (limitazione agli spostamenti)
Problemi e materiali didattici
Quel che possiamo fare: le libertà collettive (artt. 17, 18, 19, 20, 21) Ritrovarsi o no? Ritroviamoci! Parole grosse Parole taciute Che scandalo! Capelli lunghi non porta più (il valore del riunirsi e associarsi liberamente; giudicare gli scopi del gruppo/associazione) (libertà di espressione) (censura/rispetto – uso corretto della lingua) (che cosa è contrario al “buoncostume” in diverse epoche e culture) giudizio e limiti all’abbigliamento La responsabilità personale e il garantismo (art. 27) Curve pericolose Quail pene /Sei minuti all’alba (individuare le responsabilità personali) (sulla pena di morte)
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Problemi e materiali didattici
I RAPPORTI ETICO-SOCIALI
Sto bene grazie: la salute (art.32) Come si cambia (per non morire) Una mappa per star bene Sto male solo a leggerli Star bene per forza Effetti dei comportamenti a rischio sull’immagine della persona Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro Uso consapevole delle medicine Il trattamento sanitario obbligatorio /malattia mentale, malattia terminale…
Democrazia tra i banchi: arte, cultura e scuola (artt. 33-34) L’isola dei colti Processo alla scuola La scuola mi cambia? Quale idea di cultura Valore e utilità della scuola
RAPPORTI ECONOMICI Su le maniche: l’organizzazione del lavoro (artt. 35-47) Ma quando tocca a me? Avanti, c’è posto Cinema Italia Diario di bordo Quanto, quando, come…
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Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
La società in miniatura: la famiglia (artt.29-30-31) Semaforo rosso! Letti da rifare Figli a rischio Regole differenziate e punizioni in famiglia Collaborazione e ruoli di genere M/F – lavori da imparare Patria potestà – rapporti genitori/figli
Quaderno di storia contemporanea/45
Ma il sindacato è un gruppo di sindaci? Supermercato o lager? Le parole sono pietre Alla ricerca del limite Storie di disoccupazione Richieste e ingresso nel mondo del lavoro Caratteristiche del mondo del lavoro oggi Studenti che lavorano: quale giudizio sull’esperienza Diritto-dovere al riposo Valore e Ruolo del sindacato, regole interne ai luoghi di lavoro, sciopero Conoscere/tradurre il linguaggio giuridico Valore e limite della proprietà privata
RAPPORTI
Problemi e materiali didattici
POLITICI Un uomo, un voto: le elezioni (art. 48) La partecipazione politica Election day Rappresentanza in crisi
Analisi documento Criteri per la rappresentanza ed elezione Riflettere sul tema della rappresentanza Riflettere sulla partecipazione politica, considerando la costituzione di Weimer e l’ascesa del nazismo Amici da proteggere: la difesa della patria art. 52) Cosa si intende e come si difende la patria Siamo un pò fiscali: le tasse (art. 53) Funzione e utilità delle tasse
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Problemi e materiali didattici
L’ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA
Età e condizione per eleggere e per essere eletti Perché i Senatori a vita Durata del mandato Sedute segrete delle camere Che cosa può dire un parlamentare senza essere perseguito I costi della democrazia Come si fa la legge: il potere legislativo (artt. 71-82) La tua parola è legge Tra no e sì Questioni di coscienza Redigere un testo di legge/chi tenere in considerazione, come mediare diverse esigenze (idem per progetto di referendum) Amnistia e indulto Sopra le parti: il presidente della Repubblica (artt. 83-91) Un presidente per amico Qualità e “controindicazioni” per un presidente Chi tiene il timone (artt. 92-96): il governo Governo fai da te? Caratteristiche della composizione di un governo Qualcuno mi può giudicare (artt. 101-110): la magistratura Signor giudice
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Vittorio Rapetti, Dalla Costituzione all’educazione alla legalità
Chi fa le leggi: il Parlamento (artt. 55-69) Chi vota e chi no Chi è votato e chi no Tu non puoi entrare Per sempre lassù Long parliament, short parliament Top secret Se la pensi così E io pago
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Senza interferenze L’ardua sentenza Carta d’identità di un giudice La divisione dei poteri Individuare/Scrivere motivazioni di sentenze Più vicino a noi: le Autonomie locali (artt. 114-133) Moltiplicare gli enti Tocca a te! Unire e dividere Come suddividere il territorio da amministrare Orientarsi tra le competenze dei diversi enti Stereotipi e regioni di fantasia Scheda 2 - P R OGET TI / E SP E R I E NZE DI DATT I CH E - S CUOL A E L E M ENTAR E Laboratorio su diversità e convivenza
Problemi e materiali didattici
Circolo didattico di Canelli - scuola primaria Umberto Bosca CLASSI 1A –1B - INSEGNANTI PENNA ROSANNA – MARISA CASALE a.s. 2006-2007 L’esperienza oggetto della presentazione è stata svolta nell’ambito del laboratorio di educazione alla convivenza portato avanti per tutto l’anno in due classi prime del plesso scolastico U. Bosca. L’idea del laboratorio si inseriva in un progetto proposto dall’associazione canellese “Memoria viva” finalizzato alla scoperta dei valori della Costituzione (art. 3). Il laboratorio aveva la durata di un’ora settimanale, si svolgeva in classe, o nella biblioteca della scuola e l’attività si articolava quasi sempre con lo stesso schema: -lettura dell’insegnante di un libro scelto per la tematica affrontata e per le illustrazioni o visione di un film -attività - gioco per interiorizzare personaggi,sequenza dei fatti e messaggio discussione (con registrazione dei singoli interventi) su situazioni analoghe accadute ai bambini -attività di produzione “creativa ” individuale su proposta specifica del-
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Alla fine il percorso è stato documentato in una serie di prodotti diversi: - un cartellone a forma di bruco con immagini e testi scelti in ogni fase del lavoro per la partecipazione a Crearleggendo e al concorso Dalla Resistenza ai valori della Costituzione - un piccolo dossier cartaceo individuale con gli elaborati personali e alcune schede si sintesi - un cd con la presentazione al computer elaborata nelle ore di informatica con il supporto tecnico dell’insegnante (consegnato a ogni bambino) Il laboratorio è risultato molto gradito dagli alunni e ha prodotto interessanti riflessioni (vedi interventi dei bambini) che però fanno fatica a tradursi in un reale mutamento degli atteggiamenti. Si è però instaurata in classe la “sana abitudine” di discutere e di elaborare in modo collettivo la soluzione ai problemi che man mano emergono. Elenco dei libri- film utilizzati: Didier Levy, Il bacio, ed. Larus; Maria Enrica Agostinelli, Sembra questo, sembra quello, Emme edizioni; Walt Disney, Dumbo. Scheda 2 - PR OGE T TI / E SP ER I E NZE DI DAT T I CH E - S CUOL A M E DI A Progetto: la Costituzione in vetrina Scuola Secondaria di I grado Carlo Gancia – Canelli prof. Liliana Gatti - Destinatari: tutti gli alunni della Scuola - a s. 2007/2008
Premessa Proporre un percorso formativo di accostamento alla Costituzione significa assumersi, come scuola e come formatori, il compito di attrezzare i ragazzi più giovani di uno sguardo interessato e partecipato alla nostra
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l’insegnante L’obiettivo principale del laboratorio era quello di aiutare gli alunni a riflettere sulla propria diversità per superare, per quanto possibile, una situazione di pregiudizio presente in classe nei confronti di alcuni di loro.
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Carta, da conoscere come un oggetto storico vivente e soprattutto presente nella vita di tutti e di ciascuno. Pur prendendo spunto da un evento celebrativo (i 60 anni della Carta Costituzionale), abbiamo cercato, attraverso un approccio laboratoriale di restituire ai ragazzi il senso di continuità fra ciò che è legge fondante la democrazia e la convivenza civile e ciò che vivono quotidianamente. Il lavoro eseguito in classe avrà una prima applicazione pratica con la partecipazione a un gioco legato all’iniziativa La Costituzione in vetrina : poiché un gruppo di commercianti di Canelli ha aderito all’iniziativa di esporre in vetrina gli articoli della Costituzione nel periodo natalizio, si organizzerà nel mese di dicembre una caccia al tesoro sulla Costituzione a cui parteciperanno tutti i ragazzi della scuola. (cfr. allegati) Finalità – Costruire e condividere una conoscenza dei principi, dei diritti e delle responsabilità individuali presenti nella Costituzione.
Problemi e materiali didattici
Obiettivi specifici di apprendimento La cittadinanza e le regole: riflessioni su vincolo, regola, sanzione. La nascita della Costituzione: il contesto storico (dove, quando, chi). La Costituzione e lo Statuto albertino. I diritti e i doveri: libertà ed educazione al senso del dovere. Attività – Le varie attività svolte durante l’anno si focalizzeranno attorno a tre percorsi fondamentali: A -Le regole come presupposto della convivenza civile (tutte le classi) B -La Costituzione e la sua storia (classi terze) C -I diritti e l’educazione alla democrazia (tutte le classi) Percorso a: le regole come presupposto della convivenza civile Sul piano educativo il problema delle regole si configura come presupposto indispensabile per la costruzione della convivenza civile. Attività correlate: Lavoro in classe o per classi aperte con i docenti. Gioco di simulazione del processo normativo dove lo Stato è rappresentato dall’ambiente Scuola all’interno della quale si muovono e si scontrano interessi divergenti. Dalle discussione di proposte di legge verrà redatto un Regolamento/Costituzione, basato sulla mediazione.
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Problemi e materiali didattici
Realizzazione di attività laboratoriali impostate con criteri di lavoro che mettano a confronto strutture e concetti nella relazione temporale fra il “prima” e il “dopo”, fra il “presente“ e il “passato”. Così il confronto fra la prima Costituzione italiana concessa dal re Carlo Alberto nel 1848 e la Costituzione repubblicana del 1948 offre l’opportunità di rilevare la diversa struttura e le funzioni dei due ordinamenti statali, i differenti centri di effettivo potere politico, le caratteristiche di flessibilità-rigidità nell’azione di deroga o modificazione delle norme. La transizione dal fascismo alla Repubblica democratica, poi, evidenzia la trasformazione politica, in cui la democrazia ridisegna radicalmente il sistema di relazioni fra i cittadini e lo Stato. Presenteremo la Costituzione come frutto di ricerca di equilibri fra ideali talvolta in conflitto fra le forze politiche, per indurre nei ragazzi la riflessione sulla capacità di dialogo e di gestione non violenta dei conflitti. Attività correlate: Laboratorio del tempo presente: dall’esame dettagliato dei primi 12 articoli della Costituzione, si passa alla raccolta ed esame di situazioni reali tratte da quotidiani e notizie radiotelevisive per cogliere e valutare la tenuta del Patto costituzionale.
Percorso c: la Costituzione spiegata dai ragazzi ai ragazzi Riteniamo importante affrontare il tema dei diritti come cardini della democrazia soprattutto con ragazzi che nella democrazia sono nati e che potrebbero considerarla un dato naturale piuttosto che una scelta da rinnovare e difendere. Attività correlate: Ogni classe lavora su un diritto e studia i relativi articoli della Costituzione che lo definiscono: li analizza, li ricerca nell’ambito del tempo presente e li interpreta in diverse forme espressive (teatro, grafica, musica, poesia, ecc.). La restituzione complessiva degli esiti del lavoro permette la condivisione degli approfondimenti sul testo costituzionale fra i ragazzi delle diverse classi e gli adulti.
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Percorso b: la Costituzione e la sua storia
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Scheda 3 - progetti/esperienze didattiche - scuola media Scuola Media Carlo Gancia, Canelli Prof. Tosti Annamaria Anno scolastico 2008/2009- Classe 2C
Problemi e materiali didattici
Percorso di educazione alla convivenza democratica Obiettivi: - Coinvolgere e responsabilizzare i ragazzi nei confronti del patto di corresponsabilità redatto dalla scuola all’inizio dell’anno scolastico (allegato a) - Rendere consapevoli i ragazzi dei meccanismi che regolano l’applicazione delle sanzioni disciplinari tabulate dalla scuola affinché esse diventino un momento di crescita formativa (allegato B) – Ricreare all’interno della classe, una repubblica democratica, studiando teoricamente i meccanismi che fanno funzionare lo Stato italiano per riproporli in piccola scala nella nostra realtà. Attività: Fase teorica – Studio (ricerca sul Web e creazione di un ipertesto) allegato C dei seguenti concetti: - Stato moderno in parallelismo con il programma di Storia del 1400 - Organizzazioni statali europee in parallelismo con il programma di geografia Allegato D - Potere Legislativo, Potere Esecutivo, Potere Giudiziario - I meccanismi che regolano lo Stato italiano: elezioni, formazione del governo, iter legislativo… - Funzioni delle cariche e delle istituzioni: Camera dei deputati, Senato, Presidente Repubblica, Presidente Consiglio, Governo, magistratura - Cartellone n. 1 (lo schema riprodotto è stato ingrandito e appeso in classe) Attività: Fase pratica - Suddivisione alunni, a seconda dell’età anagrafica, in deputati e senatori (mantenendo le proporzioni) 5 alunni vengono nominati magistrati - Elezione del Presidente della Repubblica - il capoclasse - (seguendo il modello americano): presentazione candidature – discorso elettorale – votazione segreta su schede predisposte. - Dopo una giornata di riflessione il Presidente della Repubblica nomina
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il Presidente del Consiglio (esponendo le motivazioni di tale scelta) - Il Presidente del Consiglio sceglie il Presidente della Camera e del Senato, successivamente pubblica la lista dei ministri: Istruzione, Belle Arti, Giustizia, Esteri, Finanze, Interni e definisce le competenze all’interno della classe ripartendole nel seguente modo: - istruzione: normativa relativa alla vita culturale della classe (prestiti libri…) - belle arti: cartellonistica, richiami relativi a ordine e pulizia della classe… - Esteri: rapporti con altre classi, servizio di posta... - Finanze: raccolta fondi o materiali per le iniziative intraprese… - Interno: normativa relativa alla vita civile della classe (creazione di cartelloni per tabulazione dimenticanze di materiali, controllo firme, ritiro avvisi…) - Giustizia: rapporti con la magistratura Ogni ministro ha scelto un sottosegretario - Regolamentazione compiti dei magistrati. Presa visione del codice di riferimento:tabella infrazioni disciplinari Coloro che hanno ricoperto cariche istituzionali, hanno scritto e-mail ai loro reali corrispondenti dello Stato italiano, porgendo domande, esplicitando dubbi e chiedendo suggerimenti per svolgere adeguatamente il lavoro (alcuni ministri hanno risposto). Terminata la costruzione dell’apparato istituzionale, il sistema è partito. I ministri hanno proposto leggi che hanno seguito l’iter con votazioni a camere separate (sfruttando i momenti di compresenza) Le leggi approvate, dopo la firma del Presidente della Repubblica, sono state pubblicate su una gazzetta ufficiale di classe e appese perché tutti ne potessero prendere visione. La magistratura ha spesso dovuto dirimere questioni facendo riferimento al codice (apportando se necessario alcune modifiche)
Valutazione: Ogni alunno è stato valutato sia per quanto riguarda la parte teorica, attraverso schede predisposte, sia per come ha saputo ricoprire la carica assegnata Valutazione del progetto: le attività proposte hanno ottenuto risultati davvero soddisfacenti, tenendo conto che la classe, per sua natura, si è rive-
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lata sempre molto problematica e polemica. Spesso nascevano momenti di controversia, di disaccordo difficili da dirimere. Questa forma di autogestione li ha resi sicuramente più consapevoli, più responsabili. Durante le attività abbiamo avuto modo di notare come, in piccolo, tutti i comportamenti sociali, accettabili e non, sono emersi. Abbiamo avuto i franchi tiratori, che hanno promesso il voto ai compagni e poi in segreto non lo hanno dato, ci sono stati ministri sfiduciati, magistrati frustrati… Su queste e altre tematiche, abbiamo avuto modo di riflettere, discutere e maturare opinioni. 4 - L I NE E GUI D A E P R OGET T I D EL M I NI S TE R O – P R OGET T I DE L L E AS SOC I AZ I ONI
Problemi e materiali didattici
SCHEDA
linee guida del MPI sulla cittadinanza democratica e la legalità del 16.10.2006 intervento del MPI programma nazionale La Pace si fa a scuola del 4.10.2007 sull’educazione alla pace, Programma nazionale per l’anno dei diritti umani promosso dal Ministero della Pubblica Istruzione, Tavola della Pace, Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, Regione Marche, Provincia di Ancona, Comune di Ancona, Ufficio Scolastico Regionale per le Marche. Il progetto nazionale Educare alla cittadinanza e alla solidarietà: cultura dei diritti umani avviato nel 2001 Sito MIUR (ricognizione del 17.2.09). http://iostudio.pubblica.istruzione.it/web/guest/costituzione: progetti ministero, testo della Costituzione in 9 lingue straniere per il collegamento con l’educazione interculturale; esperienze, ecc. http://www.pubblica.istruzione.it/news/2006/lapacesifascuola_06.shtml: su ed. alla pace vedi anche http://www.scuoledipace http://www.pubblica.istruzione.it/dgstudente/intercultura/intercultura.sh tml: su integrazione studenti stranieri e didattica interculturale. http://www.progettocostituzione.net/progetti60/progetti60c.php concorso scuola superiori
A scuola di Costituzione. Progetto di educazione alla legalità. Concorso di idee per una cittadinanza attiva, con l’obiettivo di realizzare, nel quadro dell’attività didattica, percorsi curricolari finalizzati a
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esplorare, praticare e imparare a “leggere” la Costituzione italiana (iniziativa CIDI)
Atlante: educare ai diritti umani nell’era della globalizzazione Progetto di rete delle scuole veneziane “Rete Irene”, progetto internazionale europeo. Educare alla cittadinanza in un mondo globale, piano di formazione proposto da CRES-Mani Tese
Verso una scuola amica delle bambine e dei bambini. Il progetto di educazione ai diritti umani proposto da UNICEF Italia offre percorsi e materiali didattici gratuiti alle scuole e l’opportunità di svolgere, nel corso dell’anno scolastico, attività sul tema dei diritti dell’infanzia, in Italia e nel mondo, in occasione del XVIII anniversario della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia. http://www.unicef.it Promuoviamo l’anno dei diritti umani - Nell’ambito del programma nazionale per l’anno dei diritti umani La mia scuola per la pace. http://www.perlapace.it/index.php?id_article=128 -
5 - SE L E ZI ONE R I SOR S E DI DAT T IC H E SUL WEB – PE R TE M I E AM BI T I
SCHEDA
Cittadinanza e convivenza Educazione alla Cittadinanza- Community referenti dei progetti dell’USR Piemonte http://educit.usr-piemonte.net. Sul sito le esperienze in formato digitale delle scuole delle regione. L’educazione alla convivenza civile: il ruolo della scuola http://puntoedu.indire.it/europa/
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I diritti umani: approccio CLIL Diritto-Inglese http://www.indire.it/lascuolasiamonoi/progetti/index.
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http://www.indire.it/content/index.php?action=read&id=1278 Un percorso formativo che rilegge il concetto di cittadinanza focalizzando l’attenzione dall’educazione civica all’azione civica attraverso le tematiche dell’intercultura, dell’appartenenza e dell’identità culturale nazionale ed europea, dei diritti umani e dell’educazione alla pace.
Aspetti storico-giuridico-istituzionali Piattaforma Didattica sulla Costituzione - Sito Parlamento Italiano http://www.camera.it/eventicostituzione2007/ http://www.quirinale.it/costituzione/costituzione.htm La rinascita del Parlamento “Dalla Liberazione alla Costituzione? (2006) con Dvd-Rom presso il - Punto Camera? tel. 06.67604954. http://fondazione.camera.it/attivita/790/homeattivita.asp da questo indirizzo è possibile vedere la mostra su pc, con foto, documenti e selezione filmati
Problemi e materiali didattici
L’Assemblea Costituente – svolgimento dei lavori – documentazione completa scheda e dettaglio sul sito della camera http://legislature.camera.it/ Sito RAI educational http://www.educational.rai.it/lemma/testi/istituzione/costituzione.htm Sito RAI – “La storia siamo noi” (a cura di G.Minoli) http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=521 Centro Risorse. guida alle risorse per la didattica – area Costituzioni http://www.didaweb.net/risorse/singolo.php?id=71 Sulle riforme costituzionali vedi anche: Sito del coordinamento nazionale “Salviamo la Costituzione? http://www.referendumcostituzionale.org/ e Sito del Comitato Acquese per la Salvaguardia della Costituzione http://web.tiscali.it/com.sal.cos.acqui/
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Problemi e materiali didattici
1. Il riferimento è principalmente all’esperienza acquese del coordinamento distrettuale dei docenti di storia (avviata dal 2000), del coordinamento dei comuni dell’Acquese per il 60° della Resistenza (avviatosi nel 2004), del comitato acquese per la salvaguardia della Costituzione (partecipe del comitato provinciale e nazionale, dal 2005). Alcune di queste considerazioni sono state discusse nell’incontro per insegnanti dedicato a “La Costituzione a scuola” (Acqui T., dicembre 2007, coordinato dal prof. A. Arata). Un ringraziamento particolare alle colleghe insegnanti Liliana Gatti e Rosanna Penna per il loro lavoro e per la collaborazione. 2. Maurizio Gusso, Educazione alla cittadinanza e storia, fra didattica e politica scolastica , tenuto al convegno organizzato dall’ISRAL su La cultura civica degli italiani a sessant’anni dalla Costituzione (Alessandria settembre 2008). Sul rapporto tra cittadinanza e Costituzione vedi G. Arena, Cittadini attivi, Roma-Bari, Laterza, 2006 e P. Costa, Cittadinanza, Roma-Bari, Laterza, 2005. 3. Strumento elaborato a cura del Consiglio d’Europa negli anni Novanta per diverse aree, in particolare per l’apprendimento linguistico, volto a rendere omogenei i criteri di valutazione per chi apprende una seconda lingua. Vedi il sito del Consiglio d’Europa, sezione educazione: http://www.coe.int/T/DG4/Portfolio/documents//http://www.pubblica.i struzione.it/argomenti/portfolio/allegati/griglia_pel.pdf 4. Sul rapporto tra educazione civile e giustiza cfr. G.C. Caselli L.Pepino, Ad un cittadino che non crede nella giustizia , Roma-Bari, Laterza, 2005. 5. Per una serie di materiali e un quadro sul territorio locale cfr. ad es. l’esperienza acquese e ovadese proposta in Commissione docenti di storia di Acqui Terme (a cura di F.Ferraro, V.Rapetti, G.Rinaldi, R.Schiavon), Andiamo a scuola insieme? L’inserimento scolastico degli alunni di origine straniera. Risultati dell’inchiesta e Atti del Convegno, Acqui EIG, 2004-2005. 6. Una sintesi in proposito nell’intervento di Maurizio Gusso, Educazione alla cittadinanza e storia, fra didattica e politica scolastica , cit.; pagg. 1-2. 7. Allegata al DM 139/2007 è la scheda che definisce le “Competenze chiave di cittadinanza da acquisire al termine dell’istruzione obbligatoria”: “L’elevamento dell’obbligo di istruzione a dieci anni intende favorire il pieno sviluppo della persona nella costruzione del sé, di corrette e
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NOT E
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significative relazioni con gli altri e di una positiva interazione con la realtà naturale e sociale”. [Per questo occorrono]: Imparare ad imparare, Progettare. Comunicare (comprendere messaggi di genere diverso e di complessità diversa; rappresentare eventi, fenomeni, principi, concetti, norme, procedure, atteggiamenti, stati d’animo, emozioni, ecc. utilizzando linguaggi diversi…). Collaborare e partecipare. Agire in modo autonomo e responsabile. Risolvere problemi. Individuare collegamenti e relazioni. Acquisire ed interpretare l’informazione: acquisire ed interpretare criticamente l’informazione ricevuta nei diversi ambiti ed attraverso diversi strumenti comunicativi, valutandone l’attendibilità e l’utilità, distinguendo fatti e opinioni. 8. P. Vayola (a cura di), Insegnare la Costituzione. Laboratorio di didattica , ISRAT, Asti, 1999, con contributi di A. Foco, L. Lajolo, M. Varvello, P. Villani, A. Fassone, A. Argenta, F. Tosetti, E. Angelino, G. Marino. Un recente aggiornamento e sviluppo in P.Vayola, La Costituzione a scuola. L’esperienza della scuola superiore e della formazione docenti , relazione multimediale al convegno “Cittadinanza e Costituzione”, Canelli 18 aprile 2009, con interventi di P. Stanga, G. Contino, P. Bogetto, V. Rapetti, M. Miravalle, E. Capra, R. Penna, L. Gatti, G. Miroglio, M. Stroppiana 9. G. Canestri, L. Ziruolo (a cura di), Orizzonte Costituzione, ISRAL, Alessandria, 1998, con contributi di C. Campese, G. Gola, G. Gaballo, A. Ferraris, M. Cellerino, C. Barberis, A. Gorrone. 10. L’ipertesto si compone di 65 pagine web; ciascuna presenta una trattazione dedicata a uno o più concetti chiave delle scienze sociali, storiche e umane; sono inoltre riprodotte la Costituzione italiana,e la sentenza n. 556 del Consiglio di Stato del 13 febbraio 2006, l’edizione 1996 della Convenzione (1951) e del Protocollo (1966) dell’ONU sulla condizione dei rifugiati; la bibliografia generale delle opere utilizzate. Ogni trattazione è accompagnata da una o più immagini e da brevi riferimenti bibliografici, e tramite link consente al lettore di scegliere come organizzare la propria consultazione. 11. Le mostre (costituite rispettivamente da 15 e 20 pannelli) sono state esposte nel corso del 2008 ad Acqui, Canelli, Colle del Lys, Asti, Cisterna (quest’ultima nel marzo 2009 nell’ambito del percorso di sensibilizzazione del territorio sui temi della cittadinanza attiva promosso dalla Direzione didattica di S. Damiano d’Asti). Di entrambe queste mostre è disponibile la versione su pannello a scuole o enti che ne facciano
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richiesta alla Commissione distrettuale storia di Acqui o all’Associazione “Memoria Viva” di Canelli. 12. Il video è stato rielaborato dall’ANPI di Cinisello Balsamo e pubblicato su dvd, insieme a una serie di documenti riguardanti Calamandrei e Morganti (per contatti http://anpicinisello.blogspot.com/). Una sintesi autorevole della prospettiva storico-giuridica in V.Onida, La Costituzione: legge fondamentale della Repubblica , Bologna, Il Mulino 2004, il testo illustra le origini ottocentesche, la elaborazione nel dopoguerra, le modificazioni recenti, spiegandone l’architettura e i concetti chiave. Ancora sulla prospettiva storica è utile il volume introdotto da U. Levra, 1848-1948. Dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana , Torino, 1998, ed il cd-rom didattico L’alba della Repubblica. Uomini ed eventi che hanno portato alla nascita della democrazia in Italia , Rai Educational. 13. Il rapporto tra educazione interculturale ed educazione costituzionale si è fatto in questi anni sempre più evidente e ha dato origine a diversi progetti, anche sul nostro territorio provinciale, tra cui quello patrocinato dalla Prefettura di Alessandria, in collaborazione con Provincia e Laboratorio per il dialogo tra le Culture di Tortona, riguardante la traduzione della Costituzione in 5 lingue e del testo costituzionale corredato dalla Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione (Alessandria 2004-2008). Un interessante volume in edizione multilingue, rivolto a tutti i ragazzi a partire dai 10 anni, anche stranieri, che vivono in Italia e centrato sui valori della Costituzione italiana è quello di E. Luzzati-R. Piumini, Il grande libro della Costituzione Italiana. (ediz. Multilingue), Ed. Sonda, Casale M.to, 2007; pp. 190): la prima parte propone i primi dodici articoli della Costituzione italiana in 15 parole chiave che permettono di sintetizzare i valori della Carta; la seconda parte propone i 54 articoli che costituiscono la prima parte della Costituzione; la terza parte (a cura di M. Boncristiano e P. Olmo) propone una serie di attività ludiche ed espressive ampiamente sperimentate con i ragazzi; in dodici lingue: albanese, arabo, cinese, ebraico, francese, inglese, portoghese, rumeno, russo, spagnolo, tedesco, italiano. Anche di taglio storico-educativo sono i volumi di L. Violante, Lettera ai giovani sulla Costituzione, Casale M.to, Piemme, 2006, e di G. Ambrosini, La Costituzione spiegata a mia figlia , Torino, Einaudi, 2006. 14. Tra i numerosi contributi in merito cfr.: G. Dossetti, Costituzione e
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Problemi e materiali didattici
Resistenza , Roma, Ediz. Multimediali, 2007; G. Dossetti, I valori della costituzione, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Quaderni del trentennale,n. 5/2005, pref. F.C.Casavola, ora anche in G. Dossetti, I valori della costituzione, Napoli-ed. La Città del Sole, 2006; F. Malgeri, E. Preziosi, Chiesa e azione cattolica alle origini della Costituzione Repubblicana , Roma, Ed. AVE, 2005; R.Balduzzi, La Carta di tutti. Cattolicesimo italiano e riforme costituzionali, Roma, AVE, 2008; Istituto “Vittorio Bachelet” per lo studio dei problemi sociali e politiciOsservatorio sulle riforme Dossier a cura di V. Antonelli, M. Vergottini, E.Vite, Le riforme costituzionali. La riforma delle Istituzioni europee,, Roma, ACI, 2006-2008. 15. Per una presentazione dell’attività dell’associazione vedi http://www.memoriaviva-canelli.it/sito/ e l’intervento di M. Stroppiana, Da liberati a liberi: dalla resistenza alla Costituzione, in V. Rapetti (a cura di), Memoria della resistenza , resistenza della memoria nell’Acquese, Acqui EIG, 2007; pagg. 35-36. Per il ruolo della scuole vedi il sito della Scuola media statale C. Gancia http://www.mediagancia.it/ Sull’attività di ricerca storico-didattica della scuola primaria canellese G.B. Giuliani vedi R. Penna, Resistenza, resistenze. Ebrei deportati e partigiani a Canelli dal 1938 al 1945 , in “Iter”, n.7/2006; pagg. 97-116. 16. Per il dettaglio dell’iniziativa vedi il sito del Comune http://www.comune.canelli.at.it/servizi/gestionedocumentale e l’ articolo di R.Penna, La Costituzione in vetrina. Tracce di un viaggio tra storia e futuro, in “Iter”, n.14/2008; pagg. 155-160.
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Incontri e convegni
La cultura civica degli italiani a sessant’anni dalla Costituzione Alessandria, 23 ottobre 2008, Palazzo Guasco
Antonella Ferraris
Il Convegno organizzato dall’ISRAL per i sessant’anni della Costituzione ha affrontato un tema centrale nel rapporto tra democrazia e istituzioni: quello della cultura civica, un indicatore essenziale per giudicare il livello di salute di una democrazia compiuta. In Italia, dove le istituzioni democratiche sono più recenti rispetto ad altri paesi europei (in Gran Bretagna esistono dalla seconda metà del Seicento), la cultura civica è carente e non può essere costruita a tavolino, in maniera artificiale; essa è il risultato dell’interazione delle istituzioni politiche e sociali con i comportamenti quotidiani dei cittadini, sino a diventare un habitus che condiziona ogni tipo di comportamento pubblico; non a caso nei paesi di democratizzazione più antica questo capitale sociale ha avuto modo e tempo per sedimentarsi. Così Giuseppe Rinaldi, in apertura del convegno, sintetizzava le ragioni e il filo conduttore di una discussione che i ricercatori dell’ISRAL hanno iniziato utilizzando gli strumenti di una corposa bibliografia che spaziava dalla sociologia alle scienze giuridiche e filosofiche. Valerio Onida e Loredana Sciolla, tra gli altri, hanno acconsentito a partecipare ai lavori, condividendo con il folto pubblico i risultati dei loro più recenti studi. Valerio Onida, insigne costituzionalista e già Presidente della Corte costituzionale, ha analizzato la nozione di “patriottismo costituzionale”. Il termine “patriottismo” si presta a differenti 169
Incontri e convegni
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interpretazioni, alcune delle quali anche ambigue: se lo si intende come il riconoscimento dell’appartenenza a una patria, la propria, lascia intendere anche la possibilità di esaltare tale appartenenza in senso nazionalistico. In Italia, tuttavia, la terminologia è stata introdotta ed utilizzata da Giuseppe Dossetti e Leopoldo Elia, nessuno dei quali può essere sicuramente accusato di nazionalismo. Il patriottismo costituzionale dunque valorizza le particolarità contenute nella nostra Carta costituzionale, in particolare i diritti e i doveri, proprio perché opera di uno Stato particolare, della sua storia, della sua tradizione giuridica. Il patriottismo giuridico, e questo è un tema di dibattito molto recente, sia in Europa, sia negli Stati uniti, si confronta però con le necessità del diritto internazionale. Da questo punto di vista la nostra Costituzione si è aperta sin dal suo apparire alle necessità di una concezione universale con il dare attuazione alle norme del diritto internazionale e al ripudio della guerra (gli articoli 10 e 11). In tal modo si è data la possibilità della partecipazione agli organismi europei e dell’accoglimento di una cittadinanza europea, comune a tutti gli Stati membri della Comunità. In tal modo è possibile riconoscere le legittime differenze tra gli Stati pur nell’ambito di un’umanità che si riconosce in valori comuni (ad esempio quelli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo). Loredana Sciolla ha evidenziato come la particolarità italiana di uno scarso senso civico fosse emersa, sebbene in modo semplificato, già negli anni Cinquanta. L’anomalia dell’italiano individualista e diffidente nei confronti dello Stato, specie se confrontato alla più radicata cittadinanza presente nelle culture anglosassoni, si è in questi ultimi anni trasformata in un comportamento molto più diffuso. L’americano medio non è più quello descritto da Tocqueville a metà Ottocento: Putnam ha descritto in Bowling Alone (2000) un americano molto più simile all’italiano, interessato al locale piuttosto che al generale, ai propri interessi piuttosto che all’interesse comune (ciò che negli anni Ottanta si chiamava “familismo amorale”) [cfr. Robert Putnam, Bowling alone, the collapse and revival of American community, New York, Simon & Schuster, 2000: il bowling, gioco popolarissimo negli 170
Incontri e convegni
Stati uniti, si gioca solo in squadra]. Posto che la cultura civica non è un fattore sempre omogeneo e coerente, e che essa dipende da più elementi, fra cui l’età, ci sono tre fattori che vanno presi in considerazione: la virtù morale, la fiducia, il rapporto tra individuo e Stato ossia la vita associativa. Partendo da quest’ultimo troviamo che i giovani italiani (nati negli anni Ottanta e Novanta) non sono differenti dai loro coetanei europei: circa il quaranta per cento di loro fa parte di una qualche associazione (dati del 2003). Per ciò che riguarda la fiducia nelle istituzioni essa risulta inferiore a quella verso la famiglia, su una scala da 1 a 10 arriva appena a 3, ed è calante al Nord, meno al Sud (gli adulti fanno registrare valori non molto diversi). In particolare, la fiducia è declinante verso le istituzioni tradizionali, per es. la scuola. I giovani poi considerano ingiustificabili (cioè non-virtuosi) comportamenti come l’assenteismo, l’evasione fiscale o il non pagare il biglietto sui mezzi pubblici: un conto però è la desiderabilità di una pratica, un altro la sua reale attuazione. Ciò che colpisce è che i tre fattori della civicness restano distinti tra di loro, quando invece solitamente si implicano. Alcuni fattori sono facilmente spiegabili: la delusione al Nord è sicuramente connessa alle maggiori aspettative che si hanno nei confronti di istituzioni che solitamente funzionano bene; questo tipo di delusione, infatti, non è apatia; al contrario promuove una maggior capacità di critica e di impegno. La transizione dal riconoscimento di una cittadinanza nazionale a un modello di appartenenza europea nasce dopo la fine della Seconda guerra mondiale, contro la guerra “che torna”, come sosteneva Carlo Rosselli che già prima del conflitto avanzava l’idea degli Stati Uniti d’Europa, da sviluppare secondo un’ottica simile a quella dell’America: istituzioni ed esercito comuni, liberazione delle colonie, frantumazione delle frontiere politiche esistenti. La prospettiva di Rosselli non è stata attuata, ricordava Corrado Malandrino: la costruzione dell’Europa, non meno di quella della nazione, ha utilizzato elementi artificiali. Il denaro, l’amministrazione, le libertà commerciali hanno tuttavia 171
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meno presa sul singolo cittadino degli elementi di “tradizione” o costituzionali dell’idea di nazione che i singoli Stati hanno sin qui incarnato, con l’ironia di un paese di forte patriottismo costituzionale, la Gran Bretagna, che pure non ha in senso stretto una costituzione, che è particolarmente scettico sulle prospettive dell’unità europea. Le relazioni del pomeriggio, se si esclude quella del prof. Ermanno Vitale, hanno toccato temi più direttamente legati al mondo della scuola. Il prof. Vitale ha affrontato la questione del diritto di resistenza. Tale diritto è presente in varie costituzioni europee in modo più o meno esplicito (in quella francese del 1947, in quella portoghese, in quella tedesca). Resistenza intesa come conservazione, non in senso politico, della legittimità costituzionale o legale nel momento in cui vi fossero dei tentativi di violarla (tramite un colpo di stato) o piuttosto di svuotarla. Naturalmente bisogna distinguere tra veri delinquenti e coloro che per un vantaggio personale cercano di minare alcuni principi stabiliti dai costituenti (soprattutto in materia giudiziaria oppure nelle modalità correnti di approvazione delle leggi). L’avvocato Raffaello Salvatore ha documentato una serie di iniziative locali in difesa della Costituzione, mentre la prof.ssa Antonella Ferraris, ricercatrice dell’ISRAL ha ricordato l’attività didattica dell’istituto con le scuole della provincia di Alessandria, a partire non tanto dalle esperienze vissute quanto dalle prospettive didattiche. Per contestualizzare l’origine della Costituzione e nello stesso tempo renderla attuale rispetto ai vissuti degli studenti, la metodologia che è stata utilizzata è quella del laboratorio didattico, caratterizzata da una varietà di fonti cartacee e multimediali. Anche Maurizio Gusso, Presidente di IRIS, istituzione di ricerca e didattica storica ha messo in evidenza come la Costituzione vada insegnata attraverso una pluralità di discipline, non soltanto il diritto o la vecchia educazione civica. Molti comportamenti che si evidenziano attualmente nell’opinione pubblica come l’ostilità verso il diverso sono frutto di un analfabetismo democratico che inizia a scuola, in particolare della mancanza di un autentico discorso di cittadinanza interculturale. Occorre armonizzare le 172
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competenze storiche, didattiche e anche politiche di chi dovrà insegnare la nuova disciplina della Costituzione, almeno secondo l’ultima riforma della scuola che è stata approvata. Aurora Del monaco, Presidente della Commissione formazione dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione, ha concluso il convegno su una nota più ottimistica. I giovani, attraverso la fiducia che danno alle persone, mostrano di avere fiducia anche nelle istituzioni che queste rappresentano. In una società globalizzata, dove lo spazio dell’io si è ristretto e dove le comunità cosiddette naturali stanno riprendendo vigore, il ruolo della storia è fondamentale per comprendere e fondare una cittadinanza interculturale.
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Pietro Porta, Ho sognato l’estate in montagna Milano, ExCogita, 2008; pp. 176, Euro 13,50. “Quante volte l’avevo sognata, l’estate, quando veniva ad annunciarla il sole sulla piana del Tozzo, schiacciando la nebbia alle valli, e sui dossi, sulle rive spoglie dei fossi occhieggiavano le prime viole e i fiori del cucù. Quando le rosse flemmatiche nei loro telai d’ossa scarnite si appiattivano come vele al vento del mare, sullo sfondo di nuvole tese come stendardi”. Ecco un saggio della scrittura per stilemi personalissimi dell’autore. Il “diminuito” Baldino di Baldo, sedicenne, assembla memorie resistenziali dei sette mesi trascorsi in montagna seguendo il diffidente fratello Aldo, di otto anni più grande, e dall’“antifascismo di radice e non di foglia e di frutto” come quello del ragazzo protagonista. Tra i ribelli dell’immaginario distaccamento Bracco a “scammellare”, corriere-mulattiere in compagnia della fida Bettina, a “svallare” a culate giù per rivoni di faggete – “sentieri d’infanzia” – braccato nell’inverno stralunato da “tedesco e repubblica”, in Appennino tra Genova e Po, area della mitica sesta zona. Pietro Porta, alessandrino di Tortona, ove vive, si dedica a ricerche di storia sociale e cultura popolare. Pur non avendo ancora avuto la fortuna di conoscerlo personalmente me lo figuro un Ceronetti locale, tant’è il suo particolare interesse per il teatro di figura di tradizione. Ha infatti pubblicato: Gente di Sarina. Il burattinaio Peppino Sarina e le comunità del tortonese e dell’Oltrepò pavese nella prima metà del Novecento, (Diakronia 1997) costato dieci anni di cura, più di 120 testimonianze, che rendono le piazze, il repertorio, la messa in scena, le stratificazioni socio-culturali del pubblico, l’interazione con esso e la profonda vocazione pedagogica del teatro di strada. È seguita nel 2000, nella collana da lui diretta dei 174
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Quaderni dell’Associazione Peppino Sarina, l’Autobiografia di un burattinaio, il novantenne Gualberto Niemen, decano dei burattinai italiani, recante la sua esperienza artistica e umana dal 1905 al 1964 (con la precisazione che la compagnia dei prestigiosi Niemen fu di casa nelle scuole del circolo di Carpignano Sesia negli anni Ottanta quando sedevano tra i banchi anche gli scolari sinti e chi scrive ne era il direttore didattico). L’autore ha quindi curato per l’Archivio della teatralità popolare anche la storia individuale di Franco Gambarutti. Una vita appesa ai fili (Bergamo, Junior 2005), ultimo esponente di una famiglia di tradizione marionettistica, tra le prime ad approdare alla televisione. Porta è inoltre curatore con Maria Rescia dell’autobiografia di una militante politica di base, la tortonese Elisa Leoncini, Vite di giusti, per la memoria spese (Milano, ExCogita 2002). Dopo lontane pratiche musicali e poetiche giovanili, la prima prova letteraria di Porta, pubblicata nel 2005 da ExCogita, è I ragazzi dell’Ovest, ambientato nel 1943 a Tortona, il cui protagonista Franco, quattordicenne, coi compagni della banda omonima, sceglie istintivamente ma con determinazione, di stare dalla parte degli operai, dei proletari, dei coetanei partiti per l’avventura partigiana. Si crea in tal modo un costante parallelismo, non soltanto per gli aspetti “militari” ma soprattutto per quelli morali e civili, tra la guerra per bande come gioco di ragazzi e quella guerriglia (preconizzata da Pisacane e Garibaldi) e attuata nella Resistenza antinazista e antifascista e che poi, a ben riflettere, è tema centrale del primo grande romanzo sulla Resistenza: Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino. Quest’ultima prova di Porta non è la prevedibile ricostruzione di un’esperienza partigiana poco più che adolescenziale, ma, come egli ben dice, i suoi sono “ricami partigiani” che quasi “gli saltano in sogno a rinverdirgli la memoria”, “una voce da sogno” (a spiegare così anche il titolo). Il racconto si muove in andirivieni dall’infanzia del protagonista, gli anni Trenta, a un dopoguerra dilatato che comincia a “intorbidirsi nella politica” mentre ancora si compongono cadaveri per funerali che sono “tota-
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li raduni” e il “mondo sta ancora stropicciandosi gli occhi dalla sorpresa”. Va oltre quel 25 aprile “giorno che ha inchiodato il tempo al capolinea della storia, prima di provare a farla rigirare su se stessa… ché la verità vera sulle città del Venticinque nessuno la saprà mai”, giorno in cui suo padre sentenzia: “adesso ci toccherà rimettere in piedi il mondo”. Baldino sembra vivere quasi tangenzialmente l’epopea resistenziale dall’“ingaggio epico” e “dalla chiamata della storia” di quei “poveri fanti di polvere e cristallo dell’Armir”, intrattenendosi prevalentemente attorno al quadro solidale del contesto generale del territorio in rivolta dal “silenzio rabbioso”, le donne di montagna “bimbi scossi in braccio”, “prese tra il vento freddo delle porte aperte sulle due valli”, lo sguardo piegato “ad una smorfia d’afflizione perpetua, rassegnata… pronta sempre ad accogliere chi bussa alla porta”, montanari dai fumigginosi abituri e cascinanti dalla “vita stenta” che sanno dare tutto a rischio di rappresaglia, “stallazzi con paglia”, “meligacci verdi per lettiere” dove buttarsi lunghi. I molinari “tra il virulare delle pulegge”, carbonai, castagnai, cacciatori, cercatori di funghi, ma anche “marpioni” e persino campioni di ballo a coppia e foxtrot coi suonatori che “spingono gli strumenti” e anche lì ineffabile un burattinaio “scavalcaconfini”. Salvo un’unica battaglia partigiana e un rastrellamento in quella “terra di pendice pettinata a filari”, prevale nel racconto la quotidianità partigiana, che ha in Gianino l’estroso bozzettista a carboncino: il poco mangiare, il poco dormire, il vegliare, lo “scrocchiare di scarponi su neve fresca”, lo “stradone brillante di ghiaccio”, il “chiudere il guscio a difesa” del distaccamento garibaldino, armi più vantate che brandite per quanto con esse ci si senta immortali, la realtà è purtroppo “come andare a caccia di aquile con una batteria di fionde”, la contraerea cerbottana, i compagni di avventura giocosi in finte fucilazioni e “canzoni trivie” o impenetrabili come Enea “figlio di leggera” e Miriam “rivoluzionario solitario”, entrambi colpisti di una notte per i carrugi di Genova, gli stessi “spaccamontagne” “sanguinari dell’autonomia” che non si faranno scrupoli a 176
rapare la bionda Delfina che li aveva denunciati mettendo in serio pericolo la loro sopravvivenza. Il partigiano, sintetizza Porta, è “un po’ come la lepre del primo amore, che ricalca sempre le sue orme”, “l’animale che si espone alla luna… che sempre fugge e non muore mai”. Come anticipato un aspetto che si evince prepotente dal libro è la straordinaria qualità della scrittura. Un’oltranza linguistica e stilistica. Una scrittura vicina al parlato, propria del narratore dal basso, tipica del cultore dell’oralità contadina, a volte secche frasi martellate a versi. Morfologicamente caratterizzata dall’ordine libero delle parole, marcato, enfatico per anastrofi e ipèrbati, in cui le subordinazioni prevalgono sulle coordinazioni, in un periodare che tuttavia pedina il modulo classico, lungo. Strategia per frasi spezzate. Verbo e soggetto quasi sempre in ultima posizione. Un articolarsi complesso ma sempre aderente all’immagine viva che riesce a suscitare con rara efficacia. Francesco Omodeo Zorini
Il settimanale “di guida e coltura” per fanciulle La piccola italiana , che uscì regolarmente tra il 1927 e il 25 luglio 1943 e che si proponeva di formare ed educare le ragazzine ai valori di “Dio, Patria, Famiglia e Lavoro”, è assunto in questo libro, da Anna Balzarro (che vi rielabora la propria tesi di dottorato) come osservatorio privilegiato sull’educazione femminile durante il ventennio. Nonostante le numerose e ricche ricerche sul regime fascista, infatti, come sottolinea la stessa autrice, sono molto rari gli studi espressamente dedicati alla vita delle bambine nel ventennio e all’organizzazione del loro consenso alla politica del regime: per questo la rivista qui esami177
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Anna Balzarro, La storia bambina. “La piccola italiana” e la lettura di genere nel fascismo Biblink editori, 2007; pagg. 184, Euro 19,00.
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nata si rivela fonte preziosissima per lo studio dei rapporti tra fascismo e bambine, delle modalità con cui il regime lavorava per creare il consenso delle future donne, delle immagini e dei modelli usati per costruire un’identità di genere. La rivista, che nel 1941 diventa il settimanale ufficiale della Gioventù italiana del littorio, si pone come obiettivo primario la formazione politico-patriottica, religiosa e morale delle bambine ma si occupa anche di preparazione scolastica e domestica: la sua fortuna di pubblico è infatti strettamente legata al mondo della scuola, non solo perché molte collaboratrici, e lo stesso primo direttore e fondatore, Angelo Tortoreto, sono maestri, ma anche perché spesso le insegnanti usano il periodico come strumento didattico, con cui integrare i manuali di testo, dal momento che la rivista offre materiali e consigli utili, ad esempio, per la preparazione all’esame di ammissione alla scuola media. Accanto a significative rubriche per l’educazione ai lavori domestici (Donnine di casa, ad esempio, dedicata al cucito - promosso con la gara dei corredini per le bambole al lavoro a maglia, ai consigli pratici per cucinare, tenere ordinata la casa o badare a un bambino), altre rubriche fisse sono dedicate alla grammatica, alle scienze, alla storia, alla geografia e alle poesie, attraverso delle domande di cui si forniscono le risposte nel numero successivo del settimanale. E l’impostazione didattica è, ovviamente, quella fascista: la storia, cui il periodico dedica ampio spazio, è ad esempio, quella riassuntiva e aneddotica che fa fuoco soprattutto su due momenti forti della memoria collettiva, il Risorgimento e la Prima guerra mondiale, enfatizzati ogni volta che è possibile celebrarne ricorrenze e anniversari. Al centro della narrazione storica ci sono i cosiddetti “medaglioni” di illustri personaggi, soprattutto risorgimentali, che vengono presentati e letti come, in qualche modo, precursori del fascismo. Ma non manca, visto il pubblico cui la rivista si rivolge, la presenza di figure femminili con cui le giovani lettrici possano identificarsi o che possano assumere come modelli cui ispirare la loro condotta: si tratta di donne che hanno servito la causa patriottica com178
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battendo con coraggio o usando le armi dell’astuzia e dell’intelligenza; tra esse, ad esempio, Anita Garibaldi, alla cui memoria negli anni Trenta era stato dedicato un monumento al Gianicolo, ma anche Bianca Milesi che, non potendo militare in prima persona con i volontari italiani, riuscì comunque a sostenere la causa risorgimentale trasmettendo nelle sue lettere messaggi politici con un sistema originale da lei escogitato, che le permetteva di sfuggire alla censura postale. Numerose, naturalmente, le figure delle madri dei grandi uomini (da quella di Mazzini e di Nazario Sauro a Margherita di Savoia e, ovviamente, a Rosa Maltoni, la madre del Duce) coerentemente con la concezione fascista per cui la massima realizzazione della donna, cui le Piccole Italiane devono tendere, avviene a pieno solo nella dimensione materna. Ma lo sguardo dei redattori non è rivolto solo al passato e la rivista è sempre in prima linea in tutti i passaggi più rilevanti della vita del regime: viene dato ampio spazio, soprattutto, agli eventi militari, dalla campagna di Etiopia (nel periodo della guerra in Etiopia, vengono fatte stampare centomila cartoline della “Madonnina d’Oltremare” da spedire ai soldati italiani, “i prodi legionari”) all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, ma trovano collocazione in queste pagine anche il mito delle origini, la battaglia del grano, la bonifica delle paludi pontine, la costruzione di nuove città e la politica assistenziale del regime. L’analisi condotta da Anna Balzarro non solo sulle vicende complessive del settimanale e sui messaggi più esplicitamente politici e patriottici, ma anche sui modelli - positivi e negativi - tesi a incidere sulla costruzione dell’identità delle bambine e sul loro futuro di donne, si rivela molto interessante, così come interessanti sono anche le conclusioni, in cui si sottolinea come non sia certo un caso che molti autori che hanno lavorato alla realizzazione di questa rivista, in primis il fondatore, e la sua più stretta collaboratrice, Maria Tulli Sacchi, abbiano poi continuato a pubblicare libri per ragazzi e per insegnanti fino agli negli anni Cinquanta e Sessanta, muovendosi all’interno della cultura cattolica. Alcuni nuclei forti della
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formazione femminile, infatti, sono arrivati al fascismo attraverso la cultura cattolica e, sempre attraverso questa, dopo la fine del regime, sono passati pressoché intatti nell’Italia del dopoguerra: e bisognerà aspettare la pubblicazione di Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti, nel 1973, perché si diffonda la consapevolezza di tutti questi condizionamenti e modelli e dell’importanza di intervenire fin dai primi anni di vita delle bambine per riuscire a cambiare la percezione che le donne hanno di sé. Graziella Gaballo
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Anna Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto Laterza, Bari 2008, pp. 322, Euro 15,00. In questo suo ultimo lavoro Anna Bravo ritorna su alcuni temi già oggetto della sua riflessione storica, per ripensarli dentro la cornice del Sessantotto (anzi, per usare la sua efficace espressione, mutuata dalla storiografia francese, degli “anni 68”) e per fare i conti con il rapporto fra storia e memoria. Quella che Anna fa qui – affrontando quel periodo ricco e contraddittorio e i suoi vari aspetti (la cultura, i comportamenti, la protesta, l’amore, ma anche il dolore, i lutti e la violenza) con uno sguardo trasversale e con attenzione alle diverse temporalità che si intrecciano e anche all’eredità, a ciò che quelle generazioni hanno lasciato – è un’operazione molto lucida, che nulla cede ai rimpianti e alla nostalgia: la continuazione di un percorso iniziato qualche anno fa, quando un suo intervento sulla violenza insita nell’aborto, apparso sul numero III del 2004 di “Genesis”, oltre ad aver rotto un tabù, ha dato vita a un dibattito e a molte reazioni, non tutte controllate e pacate. Gli otto capitoli in cui si struttura il libro costituiscono un vero e proprio albero tematico di quegli anni e la molteplicità e ricchezza delle fonti usate – atti di convegni, raccolte di materiali dell’epoca, giornali, fonti letterarie, storiografia, testimonianze, 180
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memorie personali, racconti, archivi – consente di dare visibilità a tutti quegli elementi (dal rapporto tra generazioni alla sessualità, dal femminismo alla ribellione e alle contaminazioni culturali) capaci di dar conto della dimensione originaria e in buona parte pre-politica da cui quel movimento ha preso l’avvio, di quelle radici plurime dei movimenti misti, dai primi segni di malessere e ribellione al distacco dalla società adulta. E ci viene qui restituito anche tutto il ricco ventaglio delle possibili alternative, di segno diverso, che hanno costituito la ricchezza e la complessità di quegli anni: non era scritto da nessuna parte che le cose sarebbero andate come sono andate è una delle tesi forti del libro. Nello stesso tempo, però, nonostante la grande capacità di sintesi e l’ampiezza e profondità dello sguardo con cui Anna Bravo ha saputo abbracciare tutto quel periodo, non ritroviamo qui, a differenza di quanto avviene in parecchie delle tante pubblicazioni uscite in questo anno di “anniversario”, nessuna ambizione e nemmeno la tentazione di voler fare una “storia del Sessantotto”: queste pagine vogliono essere delle “storie del Sessantotto” (o, meglio ancora, come è stato notato, storie dal Sessantotto), costruite intorno a quella parola chiave, cuore, che compare da subito nel titolo e che è così importante, perché rimanda non solo alla soggettività, all’emotività, alla partecipazione di chi sta scrivendo anche di sé, ma perché il cuore e i sentimenti sono considerati una imprescindibile chiave di lettura per cogliere e capire quegli anni, fatti, come dicevamo, di amore, dolore e violenza (e, non a caso, queste parole sono anche il titolo di tre capitoli). E anche il lettore è chiamato a mettere in gioco i suoi sentimenti e il suo cuore, perché non è possibile attraversare queste pagine senza sentirsi chiamati in causa e invitati a riflettere; per questo, il libro non è di facile, né tantomeno di veloce lettura: perché, come osserva su “Leggendaria” Anna Maria Crispino, è ad altissima densità, pieno di emozioni e di sapienza. E di passione.
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Judaica a cura di Aldo Perosino
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Riccardi R., Sono stato un numero. Alberto Sed racconta, Firenze, Giuntina, 2009; pp. 165, Euro 15. “Un giorno io e un altro prigioniero ci trovavamo vicini ai carretti per il trasporto dei bambini. Dovevamo farne salire a bordo alcuni, fino a completare un carico. Una SS si avvicinò, indicò con il dito un bimbo di un paio di mesi e disse al mio compagno di lanciarlo sul carretto. Per rendere l’ordine più chiaro, mimò il gesto con le braccia, disegnando un volo molto ampio. ‘Lanciarlo?’ chiese il mio compagno, sbigottito. Il tedesco insisté. Gli puntò contro il fucile, urlò, e a lui non rimase che eseguire. In un istante che durò un’eternità, la SS sollevò la sua arma, prese la mira e sparò al piccolo mentre era in aria, come fosse al poligono di tiro. Lo centrò in pieno. Un suo collega, che osservava la scena da vicino, imprecò. Meno male, pensai, c’è ancora qualcuno che ha nel cuore un po’ di umanità. Ma presto quello che aveva brontolato si calmò, si mise una mano in tasca e prese dei marchi. Accennò a un sorriso sforzato, strinse la mano all’altro e gli consegnò il denaro. Impiegai un po’ per capire. Su quel tiro avevano scommesso, ecco spiegata la delusione del perdente. Lo vidi fare più volte. Ogni volta eravamo noi a dover portare i bambini ai loro carnefici. Noi a lanciarli in aria, sotto la minaccia delle armi, con le SS che si esercitavano a colpirli mentre erano in volo…” Questo brano è tratto da Sono stato un numero, di Roberto Riccardi, ufficiale superiore dei carabinieri. Il libro narra la storia di Alberto Sed, che nel 1944, ad Auschwitz divenne A-5491. Solo un numero, in cambio di un’identità e un’umanità violate, fatte a pezzi, cancellate. Alberto aveva 15 anni quando fu catturato per una soffiata (la vita di un ebreo 182
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valeva allora cinquemila lire, tremila se donna, mille se bambino) insieme alla madre Enrica (39 anni) e alle sorelle Angelica (17), Fatina (13) ed Emma (8) a Roma, in un magazzino in cui la famiglia si era nascosta. Dopo un breve periodo nel centro di raccolta di Fossoli, fu messo a forza su un treno piombato e condotto a Birkenau. La madre e la piccola Emma furono uccise il giorno stesso dell’arrivo: la prima selezione le giudicò inabili al lavoro e le destinò al gas. Gli altri superarono la prova, ma qualche mese più tardi Angelica fu sbranata dai cani, aizzati contro di lei dalle SS per un sadico divertimento o per noia. Era domenica, nei lager non si lavorava e non si torturava, bisognava trovare un modo per passare il tempo. Fatina, costretta ad assistere alla scena, sottoposta nel lager ai crudeli esperimenti del dottor Mengele, tornò a casa segnata da cicatrici profonde. Le torture dell’“angelo della morte” le avevano salvato la vita: a 13 anni se non l’avessero scelta per gli esperimenti l’avrebbero uccisa. Ma la sua esistenza fu irrimediabilmente segnata. Non si è mai ripresa fino alla sua morte, avvenuta molti anni dopo. Alberto è sopravvissuto a numerose selezioni, alle torture e agli stenti. Nel lager dovette adattarsi a lavori faticosi e a mansioni terribili, come sistemare i bambini che arrivavano al campo sui carretti che li portavano al crematorio. Fu in quei giorni che vide lanciare i bambini in aria, su ordine delle SS, che si divertivano a fare il tiro a segno. Per un periodo, Sed accettò di fare il pugile: incontri che avvenivano la domenica, un momento di svago per gli aguzzini, per i quali riceveva in premio qualche buccia di patate o di mele. Quando i tedeschi, pressati dall’Armata rossa che avanzava, ripiegarono dai lager polacchi verso il centro della Germania, affrontò la terribile prova delle marce della morte: chilometri a piedi nella neve, indosso solo la povera tuta a righe e un paio di zoccoli. Scampò all’ultimo appuntamento col destino quando gli Alleati bombardarono il campo di Dora, dove era stato portato. Un tenente della Marina italiana, prigioniero di guerra, lo trasse in salvo nascondendolo sotto la carcassa di un aereo abbattuto.
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Alberto oggi ha ottant’anni, tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti. Ha una famiglia numerosa e felice, che riunisce ogni venerdì sera in casa propria per la cena che per tradizione dà avvio alla festa ebraica settimanale. La moglie Renata cucina i carciofi alla giudìa, una delle figlie è specializzata nei dolci e nel pane del sabato. Ma i suoi traumi A-5491 li porta con sé: non può prendere in braccio i pronipoti Giulia e Benjamin, di nemmeno due anni: se solo prova a sollevare un bambino, sente ancora la voce della SS che gli grida: lancialo! Una storia vera, triste e angosciante come la Shoah, bella come il cuore di Alberto e dei personaggi descritti. Da leggere con attenzione la lettera che Riccardi scrive ad Alberto: sono pagine commoventi, strazianti, da meditare e soprattutto da trasmettere a chi ci seguirà.
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Foa A., Diaspora. Storia degli ebrei nel novecento, Bari, Laterza, 2008; pp. 284, Euro 19,00. Con questa sua ultima opera, significativamente titolata “Diaspora” – una delle parole chiave per costruire una mappa della storia degli ebrei nel Novecento – l’autrice ci offre un percorso critico che fa iniziare nel 1880 col fenomeno dell’emigrazione di massa degli ebrei dell’est europeo verso occidente e, soprattutto, verso gli Stati Uniti. Da questo rimescolamento di carte, molti processi si sarebbero innescati, non da ultimo la costruzione dello Stato di Israele. Il tema di fondo, allora come adesso, è il rapporto che le comunità ebraiche hanno intrattenuto con quel complesso di fenomeni, idee, pensieri, atteggiamenti ecc. che noi chiamiamo modernità. Modernità che è cambiamento continuo, trasformazione perenne delle condizioni di esistenza degli esseri umani, la loro evoluzione, ma anche a volte la loro involuzione. Gli ebrei del Novecento si sono dovuti confrontare con questo incessante travaglio, pieno di speranze, ma anche di paure, in bilico tra l’idea dell’alba di una nuova umanità e il delirio della 184
barbarie. Ma hanno dovuto fare anche i conti con l’eredità ricevuta da secoli di sostanziale immobilità, dovuta dall’essere stati costretti a dei ruoli sociali imposti dalle società circostanti, a subalternità non cercate né volute, ma certo interiorizzate. Non a caso l’Emancipazione precede di poco nell’Europa occidentale la grande trasformazione che coinvolge tutto l’ebraismo continentale. Foa, per aiutarci a sciogliere i nodi storici e culturali che si accompagnano a questo sviluppo di fatti, protagonisti, eventi, situazioni ecc., istituisce un collegamento di significati attraverso i capitoli del suo libro: dal confronto tra due diverse idee di Europa, quella borghese e ai limiti dell’assimilazionismo presente nelle comunità occidentali e quella tradizionalista dell’Est europeo, al consolidarsi di antisemitismi vecchi e nuovi, passando per il sionismo, l’immane catastrofe causata dai nazifascismi, la nascita di Israele e infine i giorni nostri. A unire i diversi passaggi sono le mai risolte questioni che si accompagnano ai molti modi di “essere ebrei” alla pluralità di identità che distinguono i moderni dagli antichi.
“Ho fatto solo il mio dovere. Se puoi salvare la vita di qualcuno, è tuo dovere provarci”. Con questa semplicità disarmante Jan Zabiriski, direttore dello zoo di Varsavia negli anni della Seconda guerra mondiale, ha parlato della straordinaria impresa grazie alla quale lui e la moglie Antonina sottrassero alla furia nazista più di trecento ebrei. È il 1939, i bombardamenti tedeschi devastano lo storico zoo della capitale polacca: Jan e Antonina reagiscono allo sgomento e salvano gli animali superstiti. Ma ben presto il razzismo nazista si accanisce sugli uomini: quando iniziano i pogrom contro gli ebrei, i due coniugi non esitano a trasformare lo zoo in un rifugio per i perseguitati, creando un mondo alla rovescia in cui gli “ospiti” segreti vengono chiamati con il nome in codice degli ani185
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Ackerman D., Gli ebrei dello zoo di Varsavia, Milano, Sperling&Kupfer, 2009; pp. 341, Euro 18,50.
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mali di cui occupano la gabbia vuota, mentre le bestie portano nomi di persona. Al disprezzo per chi è diverso e alla follia di voler imporre alla natura un disegno mitomane, Jan e Antonina oppongono il rispetto per gli esseri viventi, che siano animali in pericolo o ebrei polacchi, “uomini in via d’estinzione”. Basandosi sul diario di Antonina e su molte altre fonti storiche, l’autrice ha recuperato dall’oblio una storia vera di coraggio e compassione.
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Appelfeld A., Paesaggio con bambina, Parma, Guanda, 2009, pp. 148; Euro 14. Tsili Kraus vive in un paesino dell’Europa orientale, ultimogenita di una famiglia di bottegai ebrei. Al contrario dei fratelli, a scuola non brilla, e gli eventi quotidiani la lasciano sempre un po’ stranita. Ma questa è la sua fortuna: il candore diventa un’ancora di salvezza quando l’odio per la sua gente allunga i tentacoli fino agli angoli più sperduti del Vecchio continente. La sua famiglia, in fuga dalle persecuzioni, la lascia a guardia della casa, e lei, fragile nel corpo e nella mente, passa inosservata agli aguzzini. Da quel momento Tsili comincia a errare senza meta, da una capanna a una fattoria, ovunque qualcuno sia disposto, in cambio di due braccia in grado di lavorare, a offrirle un tetto. Nessuno, però, è molto generoso con lei: c’è chi la batte e chi cerca di possederla, chi la caccia e chi la sbeffeggia. Un giorno incontra Marek, che è scappato da un campo di concentramento e ha negli occhi la disperazione di chi ha visto l’inferno. Le loro due esistenze diventano una sola: insieme trovano conforto e forse una nuova ragione di vita.
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Baker N., Cenere d’uomo, Milano, Bompiani, 2009, pp. 532, Euro 20,00. “Nel corso di un interrogatorio, il generale Halder disse che quando fu rinchiuso ad Auschwitz, verso la fine della guerra, vide fiocchi di cenere portati dal vento nella sua cella. E li chiamò cenere d’uomo”. Con questo libro documentato e provocatorio Nicholson Baker racconta l’inesorabile marcia dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, della Germania, dell’Europa tutta verso l’Olocausto. Baker raccoglie, interpreta e fonde in un grande racconto una messe enorme di documenti apparentemente non centrali, come giornali, diari, discorsi radiofonici dell’epoca, dichiarazioni estemporanee di uomini politici di rilievo, che divengono, ciascuno, segni inquietanti della follia che ha portato verso la “soluzione finale”. Alla domanda che agita ogni coscienza, “come è mai potuto accadere tutto questo?”, lo scrittore americano non fornisce risposte definitive, ma lascia al lettore il compito di seguire questa corsa inarrestabile verso il baratro; lascia al lettore l’onere di giudicare non solo i colpevoli (inequivocabilmente colpevoli), ma anche quegli spettatori che per indifferenza, malizia, cinismo non hanno voluto opporsi quando ancora sarebbe stato possibile farlo e si sono lasciati risucchiare nel vortice dell’orrore.
La memoria della Shoah ha reso Israele indifferente alle sofferenze altrui. Il paese nella sua instabilità è ormai simile alla Germania degli anni Trenta. Il sogno e l’ideologia sionista hanno fallito. È il momento di abbandonare l’antica mentalità del ghetto accerchiato e di rivalutare la figura universalistica dell’ebreo della diaspora. Sono tesi molto provocatorie, che hanno suscitato un enorme dibattito e innumerevoli polemiche a partire dalla pubblicazione di Sconfiggere Hitler in Israele, nel 187
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Burg A., Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico, Venezia, Neri Pozza, 2008; pp. 407, Euro 19.
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2007. L’autore, notissima figura pubblica israeliana, ex presidente del Parlamento, figlio di un uomo politico di grande influenza, ha avviato una critica radicale ai fondamenti attuali dello Stato di Israele, alla sua identità collettiva definita.
Epstein H., Di madre in figlia. Alla ricerca della storia di mia madre, Udine, ed. Forum, 2008; pp. 373, Euro 22.
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Una commovente biografia familiare. Un romanzo storico, vasto e rigoroso, che racconta il coraggio di quattro generazioni di donne e, in parallelo, la storia degli ebrei nell’Europa centro-orientale. Frammenti di racconti materni, testimonianze storiche e citazioni letterarie messi insieme da questa straordinaria autrice per attraversare la storia. Quella delle proprie antenate, ebree ceche vissute tra Vienna e la Boemia; e quella di tante altre donne che hanno saputo prima sottrarsi alle persecuzioni e poi emanciparsi e rendersi autonome anche grazie all’arte della sartoria. Fonti principali di questo romanzo le dodici pagine di storia familiare scritte da Frances Epstein negli anni Settanta e Andata e ritorno, le sue memorie inedite; insieme a centoquarantaquattro pagine tra racconti e colloqui registrati e le memorie di altre ebree ceche della sua generazione. Precisione dei particolari. Narrazione lucida ed emozionante. Ritratti delicati e vibranti. In un percorso che unisce storia e sentimenti e che attraversa tempi e luoghi del mondo: da Vienna a New York; dal Medioevo ai giorni nostri. Fiano N., Il passato ritorna, Saronno, Monti, 2009; pp. 189, Euro 16. Nel 1938, a Torino, Ersilia e Gabriele Levi hanno un figlio che chiamano David. In poco tempo la situazione politica precipita. Decidono di affidare il bambino a una famiglia di Lugano, i Guidi, che crescono il piccolo con amore e dedizione, adot188
tandolo, senza raccontargli la sua vera origine. Scoppia la Seconda guerra mondiale. Ersilia muore sotto i bombardamenti mentre Gabriele, ebreo, viene deportato nel campo di sterminio di Auschwitz dove verrà assassinato in un forno crematorio. Anche i coniugi Guidi muoiono. Nel 1993 David riceve la telefonata dell’anziano Alberto Coen, sopravvissuto, che conobbe il padre ad Auschwitz, e che gli rivela la sua vera identità. David entra in una profonda crisi esistenziale. Si getta alla ricerca delle proprie radici. A un certo punto incontra un notaio che aveva preso in custodia una valigia, preparata dai suoi genitori proprio per il figlio. David la ritrova, la apre e da quel momento la sua vita non sarà più la stessa.
Un comandante partigiano polacco, appartenente alle formazioni non comuniste, e per questo rinchiuso dopo la guerra in prigione e condannato a morte, condivise per 255 giorni (dal 2 marzo al 1 novembre 1949) la cella con uno dei più efferati carnefici nazisti: il generale delle SS Jürgen Stroop, organizzatore dello sterminio di 550000 ebrei galiziani e di 71000 prigionieri del ghetto di Varsavia. “Semplici e sincere sono le confessioni degli incarcerati dinanzi all’inevitabile”, nota Moczarski ricordando che Stroop, si abbandonò, giorno dopo giorno, a un racconto dettaglialo della sua storia personale e delle sue “azioni di guerra”. Stroop fu giustiziato il 6 marzo 1952, mentre Moczarski fu liberato e riabilitato il 24 giugno 1956. Dedicò il resto della sua vita a scrivere questo libro. La sua eccezionale memoria di giornalista e cospiratore gli permise di ricostruire quelle conversazioni con il carnefice nazista disponendo il materiale in ordine cronologico e verificando, tramite ricerche d’archivio, l’esattezza di ogni informazione fornitagli dal suo interlocutore. 189
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Moczarski K., Conversazioni con il boia, Torino, Bollati Boringhieri, 2008; pp. 440, Euro 19.
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Phayer M., Il Papa e il diavolo. Pio XII, Hitler e l’Olocausto: la posizione della chiesa dall’ascesa del nazismo alla condanna ufficiale dell’antisemitismo, Roma, Newton Compton, 2008; pp. 286, Euro 12,90. Sull’onda delle recenti polemiche riguardanti il processo di beatificazione di Pio XII a fronte del suo silenzio ufficiale sulla persecuzione nazista degli Ebrei e sulla Shoah, questo volume, allargando lo sguardo, esplora ciò che ha fatto la Chiesa e i cattolici nel periodo che va dall’ascesa di Hitler alla condanna ufficiale dell’antisemitismo da parte della Chiesa nel 1965 per opera di Giovanni XXIII.
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Rigano G., Il podestà “Giusto in Israele”. Vittorio Tredici il fascista che salvò gli Ebrei, Milano, Guerini, 2008; pp. 255, Euro 24. Il 16 giugno 1997 lo Yad Vashem ha conferito il titolo di Giusto tra le Nazioni a un italiano poco noto: Vittorio Tredici. Nonostante il suo nome sia sconosciuto a molti, Vittorio Tredici ha lasciato vari segni del suo passaggio nei luoghi in cui è vissuto, attraversando e prendendo parte ai grandi eventi della prima metà del secolo scorso. Risulta più interessante di quanto si creda a prima vista ripercorrere la parabola biografica di uno degli italiani che di fronte al male radicale della Shoah ha saputo fare una scelta in favore degli ebrei, mettendo a repentaglio la sicurezza propria e dei familiari. Combattente nella prima guerra mondiale, Tredici, al ritorno nella vita civile in Sardegna, milita insieme a Lussu, Bellieni, Pili, nel Partito sardo d’azione. Sarà uno dei protagonisti del passaggio dal Partito sardo d’azione al Partito nazionale fascista nel 1923. Fu primo podestà di Cagliari e successivamente deputato ed esperto minerario del regime. A Roma nel 1943 salvò una famiglia di ebrei e un dirigente partigiano, collaborando all’attività di soccorso e assistenza organizzata negli 190
ambienti ecclesiastici della capitale. Quella di Tredici è la storia di un sardista, di un fascista, di un cattolico; ma è soprattutto la storia di un uomo complesso, irriducibile alle schematizzazioni politiche e alle semplificazioni di parte.
Toso T., 1938. L’invenzione del nemico – Le leggi razziali del fascismo – Testimonianze e storie di perseguitati, Roma, ed. EDUP, 2008; pp. 207, Euro 12. Interessante raccolta di testimonianze, fatti e casi esemplari, frutto della collaborazione fra docenti e studenti con l’obiettivo di lavorare sulla memoria in modo che essa diventi il frutto maturo di un percorso di interiorizzazione. Inquietante la testimonianza di un convinto repubblichino pentito, ma con molti “distinguo”.
Utilizzando le fonti dell’Archivio segreto vaticano aperte tra il 2003 e il 2006, l’autore analizza alcune delle questioni nodali riguardanti i rapporti tra il Vaticano e la Germania nazista con particolare attenzione al ruolo che vi ebbe papa Pacelli; l’atteggiamento del Vaticano nei confronti della Germania nel periodo 1917-1929; lo scontro in Vaticano sull’antisemitismo del 1928, incentrato sulla preghiera “ per i perfidi giudei”; la costruzione del concordato con il Reich; l’atteggiamento della Curia romana di fronte alla persecuzione degli ebrei; il parallelo tra il totalitarismo cattolico e quelli ideologici.
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Wolf H., Il Papa e il diavolo. Il Vaticano e il Terzo Reich, Roma, Donzelli, 2008; pp.324, Euro 30.