FALSOPIANO
QUADERNO DI STORIA CONTEMPORANEA 48 Laurana Lajolo, Questo numero
STUDI E RICERCHE Vittorio Rapetti Tra concilio e conflitto. Intellettuali cattolici e trasformazione sociale. La figura di Vittorio Bachelet Francesco Ingravalle L’altra “terza forza”: a proposito della destra radicale italiana negli anni Settanta Marco Biglia e Cesare Panizza Il Partito comunista e l’intellettualità diffusa. Intervista ad Aldo Tortorella Matteo Zullo Pier Paolo Pasolini: corsaro nero, corsaro rosso Patrizia Nosengo Il sindacato scuola cgIL e la scuola degli anni Settanta in Alessandria Elena Petricola Dal discorso sulle donne al discorso delle donne. Birth control, contraccezione e depenalizzazione dell’aborto tra ambienti laici e movimento delle donne Alberto Bazzurro Suoni e parole di un decennio nato settimino Enrico Deregibus La canzone d’autore negli anni Settanta
NOTE E DISCUSSIONI Cesare Panizza Le ragioni di un decennio. Intervista a giovanni De Luna Laurana Lajolo L’industria culturale Fabrizio Meni Piccolo (cinico) mondo antico: per i trent’anni de “La Terrazza” di Ettore Scola Nuccio Lodato Adelio Ferrero tra circolo del cinema, Teatro comunale e DAmS di Bologna Alberto Ballerino e Carla Nespolo Adelio Ferrero, il PSIuP e la nascita dell’ATA. Intervista a Luigi capra Roberto Lasagna Kubrick contro tutti o tutti contro Kubrick. gli anni del travisamento critico Giorgio Sala come Icaro in volo: Demetrio Stratos e gli anni Settanta Antonio Laugelli Del situazionismo e di alcuni possibili sviluppi
INSERTO FOTOGRAFICO Antonio Laugelli, Pietrate, a cura di Carlo Pesce, foto di Maria Luisa Ravera, post-produzione di Luciano Ferrando
IN MEMORIA Carla Nespolo Enzio gemma
RECENSIONI - JUDAICA
QSC_48
QSC
QUADERNO DI STORIA CONTEMPORANEA 2010
EDIZIONI
QSC 48 2010
QUADERNO DI STORIA CONTEMPORANEA
L’eclisse dell’intellettuale Bazzurro, Capra, De Luna, Deregibus, Ingravalle, Lajolo, Lasagna, Laugelli, Lodato, Meni, Nespolo, Nosengo, Petricola, Rapetti, Sala, Tortorella, Zullo
48 ISBN 978-88-89782-39-2
“Carlo Gilardenghi” EDIZIONI FALSOPIANO
EDIZIONI
FALSOPIANO
Redazione Giorgio Barberis, Giorgio Canestri, Franco Castelli, Graziella Gaballo, Cesare Manganelli, Fabrizio Meni, Daniela Muraca, Renzo Ronconi, Federico Trocini, Luciana Ziruolo Quaderno di storia contemporanea semestrale dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria Direttore Laurana Lajolo Direttore responsabile Maurilio Guasco Segretario di redazione Cesare Panizza Anno XXXIII, numero 48 della nuova serie Registrazione del Tribunale di Alessandria Via dei Guasco 49, 15100 Alessandria tel. 0131.44.38.61, fax 0131.44.46.07 e-mail: isral@isral.it Abbonamento a due numeri € 18,00 ccp: 26200998 intestato a Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria Per informazioni ISRAL: tel. 0131.44.38.61, e-mail: isral@isral.it
Realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria
© Edizioni Falsopiano - 2010 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com/isral/qsc.htm
Quaderno di storia contemporanea/48/Sommario
Laurana Lajolo, Questo numero
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studi e ricerche
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Vittorio rapetti, Tra concilio e conflitto. Intellettuali cattolici e trasformazione sociale. La figura di Vittorio Bachelet
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Francesco ingravalle, L’altra “terza forza”: a proposito della destra radicale italiana negli anni Settanta
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Il Partito comunista e l’intellettualità diffusa. Intervista ad Aldo Tortorella A cura di Marco Biglia e cesare Panizza
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Matteo Zullo, Pier Paolo Pasolini: corsaro nero, corsaro rosso
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Patrizia Nosengo, Il sindacato scuola cgIL e la scuola degli anni Settanta ad Alessandria
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elena Petricola, Dal discorso sulle donne al discorso delle donne. Birth control, contraccezione e depenalizzazione dell’aborto tra ambienti laici e movimento delle donne
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Alberto Bazzurro, Suoni e parole di un decennio nato settimino
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enrico deregibus, La canzone d’autore negli anni Settanta
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Note e discussioNi
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Intervista a giovanni De Luna A cura di cesare Panizza, Le ragioni di un decennio.
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Laurana Lajolo L’industria culturale
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Fabrizio Meni, Piccolo (cinico) mondo antico: per i trent’anni de “La Terrazza” di Ettore Scola
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Nuccio Lodato, Adelio Ferrero tra circolo del cinema, Teatro comunale e DAmS di Bologna
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Adelio Ferrero, il PSIuP e la nascita dell’ATA Intervista a Luigi capra A cura di Alberto Ballerino e carla Nespolo
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roberto Lasagna, Kubrick contro tutti o tutti contro Kubrick. gli anni del travisamento critico
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Giorgio sala, come Icaro in volo: Demetrio Stratos e gli anni Settanta
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Antonio Laugelli, Del situazionismo e di alcuni possibili sviluppi
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Sommario
iNserto FotoGrAFico
Antonio Laugelli, Pietrate, a cura di carlo Pesce, foto di Maria Luisa ravera, post-produzione di Luciano Ferrando
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iN MeMoriA carla Nespolo, Enzio gemma
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in questo numero, L’eclisse dell’intellettuale, continuiamo a proporre studi, riflessioni e testimonianze sugli anni settanta perché riteniamo che proprio in quel decennio siano avvenute trasformazioni politiche, sociali e culturali molto significative, che sono all’origine del nostro presente. Abbiamo così proseguito l’indirizzo dei numeri monografici proposti in questi anni dal “Quaderno di storia contemporanea” con i quali abbiamo voluto dare un primo contributo all’arricchimento della storiografia su quel periodo, ancora non strutturata in visioni complessive. Abbiamo iniziato con il n. 40, Storie di genere, con un approccio critico e non convenzionale alla storia dei femminismi e alla metodologia storica, conducendo l’indagine fino alle sollecitazioni delle identità delle donne immigrate e delle tendenze attuali del lesbismo e del transgenderismo. Nel n. 42, Dal millenovecento/77, abbiamo puntato l’attenzione sui contraddittori movimenti giovanili, ancora di incerta decifrazione storica, che segnano da un lato la fine di forme di lotta e di autorappresentazione politica e dall’altro proiettano negli anni ottanta le ombre della crisi della politica. Nel n. 46, Dalla classe operaia alla storia del lavoro, la centralità della riflessione è stata data al mondo del lavoro, dalla stagione delle lotte operaie e del conflitto tra sindacato e brigatisti alla storia sociale del lavoro, individuando le nuove fonti della ricerca storiografica. in questo numero puntiamo l’attenzione sul ruolo pubblico dell’intellettuale attraverso diversi angoli visuali per constatare che viene a scomparire la figura tradizionale di origine illuminista dell’uomo di cultura capace di essere la coscienza critica della società, dei costumi e della cultura, con un’appartenenza politica definita. L’intellettuale tradizionale perde, dunque, la sua funzione di guida culturale a vantaggio di nuove intellettualità specialistiche e diffuse e del ruolo
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dei mass-media, di cui, come spiega Aldo tortorella (Il Partito comunista e l’intellettualità diffusa. Intervista ad Aldo Tortorella), responsabile dal 1975 al 1981 della commissione cultura del Pci, il Partito comunista tarda a comprendere e a interpretare le radicali trasformazioni culturali. Quando la televisione abbandona la funzione pedagogica del primo periodo, virando verso l’intrattenimento, modifica sostanzialmente, in particolare nel corso degli anni ottanta, il senso comune degli italiani, diventando uno strumento formidabile del consenso politico e di affermazione di comportamenti sociali inediti. contestualmente si compie, come testimonia Giovanni de Luna (Le ragioni di un decennio. Intervista a giovanni De Luna), la parabola degli intellettuali di Lotta continua, che constatano il fallimento quando la loro ipotesi politica sconfina nella violenza. Negli anni settanta un intellettuale dell’importanza di Pier Paolo Pasolini, di cui scrive Matteo Zullo (Pier Paolo Pasolini: corsaro nero, corsaro rosso) a proposito degli Scritti corsari, diventa l’emblema, anche per la sua tragica fine, della crisi delle visioni generali della storia e della politica di fronte a una modernità e a un modello neocapitalistico omologanti, che distruggono le radici del passato. La stessa editoria, di cui fa un rapido excursus Laurana Lajolo (L’industria culturale), è investita da un profondo cambiamento. Finiscono le case editrici di stampo familiare e si affermano i grandi gruppi editoriali, spesso proprietari di giornali e televisioni, che modificano le leggi della distribuzione e del mercato a favore del libro evento. Gli stessi scrittori, per inseguire il successo, perdono la loro autonomia e rientrano nella macchina organizzativa del marketing editoriale, che attraverso i mezzi di informazione più che attraverso le recensioni di autorevoli critici letterari, orientano le vendite e i premi letterari. Nasce una nuova casa editrice, Adelphi, che interpreta appieno il nuovo momento di riflusso dalla politica e dalle ideologie della sinistra. Mentre la sinistra risente, dunque, della difficoltà di condurre analisi e di avanzare proposte per un nuovo orizzonte culturale e politico, nell’ambito del cattolicesimo democratico, influenzato dalle risoluzioni del concilio Vaticano ii, si riscontrano dei fermenti di ricerca e di impegno, come
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sottolinea Vittorio rapetti ricostruendo la figura di Vittorio Bachelet (Tra concilio e conflitto. Intellettuali cattolici e trasformazione sociale. La figura di Vittorio Bachelet). il giurista, divenuto vicepresidente del csm, si misura all’interno dell’associazionismo cattolico con la gerarchia ecclesiastica per rivendicare una laicità democratica imperniata sulla costituzione. L’intellettuale credente e laico propone una progettualità e una funzione educativa in campo sociale. con la rottura del collateralismo con la democrazia cristiana si aprono, quindi, nuovi scenari della presenza dei cattolici nella vita politica, imponendo anche scelte qualificanti come quella, sostenuta dallo stesso Bachelet, della netta distinzione tra l’operato dell’Azione cattolica rispetto agli orientamenti politici e imprenditoriali di comunione e Liberazione. il terrorismo, di cui anche Bachelet è vittima, è l’elemento distorcente della lotta politica di quel periodo e alcuni intellettuali della destra radicale, in particolare evola e Freda, ma anche romualdi, rauti, tarchi, sermonti, teorizzano la violenza contro il sistema democratico, offrendo al terrorismo nero il modello della dimensione militare dello scontro politico. Francesco ingravalle (L’altra “terza forza”: a proposito della destra radicale italiana negli anni Settanta) ci offre, attraverso alcune figure di intellettuali, una lettura panoramica della trasformazioni della cultura politica della destra radicale italiana negli anni sessanta e settanta, che si caratterizza con la nascita di una pluralità di gruppi e gruppuscoli ispirati al fascismo, che, dopo la strage di Bologna (1980), vengono messi fuori legge. L’apporto di alcuni gruppi femministi e di esponenti del Partito radicale intorno al tema del birth control, e quindi della battaglia per la legalizzazione dell’aborto, portano in primo piano il discorso delle donne sulla sessualità femminile, operando una netta cesura sui linguaggi e sulle pratiche tradizionali e stabilendo nuovi paradigmi della scienza e della cultura, come ricostruito da elena Petricola (Dal discorso sulle donne al discorso delle donne. Birth control, contraccezione e depenalizzazione dell’aborto tra ambienti laici e movimento delle donne). Proprio attraverso il linguaggio al femminile, che trasforma anche i linguaggi degli altri, le donne diventano soggetto culturale prima ancora che politico e rendono palese nella società le tematiche e le azioni dell’autodeterminazione delle donne, andando oltre alle consuete strutture culturali e politiche.
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emergono, dunque, nuovi soggetti culturali, come i giovani insegnanti che si organizzano nel sindacato scuola cGiL, di cui ricostruisce la storia alessandrina Patrizia Nosengo (Il sindacato scuola cgIL e la scuola degli anni Settanta ad Alessandria) in una specie di autobiografia di gruppo, segnando il passaggio dall’impegno politico nel PsiuP al lavoro per cambiare la scuola e a costruire rappresentanze sindacali non corporative. di quel gruppo fa parte anche il critico cinematografico Adelio Ferrero, il cui itinerario culturale è ricostruito da Nuccio Lodato (Adelio Ferrero tra circolo del cinema, Teatro comunale e dams di Bologna) e sul quale dà la sua testimonianza Luigi capra (Adelio Ferrero, il psiup e la nascita dell’ata. Intervista a Luigi capra).
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Nel Quaderno ampio spazio è dedicato al cinema sia per la capacità di sintetizzare narrativamente e visivamente la decadenza delle figure intellettuali dei salotti romani come ne La terrazza di ettore scola, rivisitata da Fabrizio Meni (Piccolo (cinico) mondo antico: per i trent’anni de “La Terrazza” di Ettore Scola), sia per alcune innovazioni nel trattare i temi della contemporaneità, di cui è protagonista, con il suo sguardo lucido e insieme allucinato, il regista Kubrick, autore di due film fondamentali come Arancia meccanica e Barry Lindon. Ne traccia il profilo roberto Lasagna (Kubrick contro tutti o tutti contro Kubrick. gli anni del travisamento critico). Ma è soprattutto la musica anglosassone, con una ricerca di straordinaria originalità di suoni e parole, come illustra Aldo Bazzurro (Suoni e parole di un decennio nato settimino), a costruire il filo interpretativo fondante delle nuove istanze giovanili non solo in campo musicale, ma anche complessivamente culturale. Quella musica tanto potente e travolgente supera i parametri tradizionali ed esercita la sua influenza sulla generazione dei cantautori italiani, ricordati da enrico deregibus (La canzone d’autore negli anni Settanta). La testimonianza di Giorgio sala (come Icaro in volo: Demetrio Stratos e gli anni settanta), che esprime l’emozione ricevuta da una delle figure più esemplari e tragiche del panorama artistico degli anni settanta, il cantante e ricercatore musicale demetrio stratos, conferma questo assunto. e a proposito di emozioni e di formazione intellettuale Antonio Lau-
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gelli (Del situazionismo e di alcuni possibili sviluppi) ripercorre brevemente il suo debito culturale verso il situazionismo francese, illustrandolo con la riproduzione di alcune sue sculture. Naturalmente quello proposto dal Quaderno non è un percorso esaustivo intorno alla definizione del ruolo sociale, politico e culturale dell’intellettuale nel contesto della società italiana, ma crediamo che possa fornire spunti di ricerca, sguardi di indagine e di analisi, proposte di riflessione in attesa dei necessari e complessivi approfondimenti storiografici.
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Studi e ricerche
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Studi e ricerche
Vittorio Bachelet tra concilio e conflitto
La scelta di proporre la figura di Vittorio Bachelet per contribuire alla riflessione sul rapporto tra intellettuali e società negli anni sessanta e settanta si fonda su diversi motivi. A trent’anni dal suo assassinio da parte di un gruppo di fuoco delle Brigate rosse, la sua persona e opera appaiono di sempre maggior rilievo e attualità, tanto sul piano civile che su quello religioso. e il suo percorso può bene illustrare il rapporto tra intellettuali cattolici (almeno una parte consistente di essi) e la società italiana lungo due decenni cruciali per il nostro paese, tra la fine degli anni cinquanta e il 1980. Vittorio Bachelet, infatti, condensa in sé una molteplicità di esperienze, attraverso le quali è entrato in diretto rapporto con la società del suo tempo: la vocazione religiosa laicale e il servizio ecclesiale, la formazione e il lavoro culturale e professionale, l’attività istituzionale e l’impegno politico. una varietà di ambiti, che lo hanno visto presente con un tratto fondamentale e unificante: il senso profondo e operoso della laicità cristiana. una figura che di rado ha avuto l’onore della cronaca, se non nel momento cruento della morte e in quello del perdono espresso dal figlio Giovanni, ma che – a giudizio unanime di quanti l’hanno conosciuto da vicino – ha offerto un contributo di alto profilo alla storia italiana; pertanto esso dev’essere considerato dalla storiografia (che ha finora poco trattato la vicenda del laicato cattolico e del cattolicesimo democratico). obiettivo del saggio è quello di delineare – nel contesto socio-culturale di quella stagione – alcuni tratti di tale contributo, espressione della particolare personalità di Bachelet, ma pure emblematico di alcune generazioni di laici cattolici italiani che, con lui e dopo di lui, si sono collocati nel medesimo solco. un breve scheda biografica introduttiva richiama i riferimenti essenziali, mentre una nota bibliografica segnala i rimandi principali.
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Vittrio Rapetti, Vittorio Bachelet tra Concilio e conflitto
Vittorio Rapetti
Quaderno di storia contemporanea/48
Studi e ricerche
una vita donata per il paese Vittorio Bachelet nasce a roma nel febbraio del 1926, ultimo di nove fratelli. La famiglia, di origine piemontese, segue il padre (ufficiale del genio) in alcuni trasferimenti e quindi svolge un ruolo ancor più forte nella sua formazione che – a dire dello stesso Vittorio – non ebbe “quasi nulla di militaresco”. come tanti altri ragazzi dell’epoca partecipa all’Azione cattolica, prima a Bologna e poi a roma; frequenta il liceo classico a roma, dove nel 1943 si iscrive a Giurisprudenza. Negli anni della guerra e in quelli successivi partecipa alla Fuci (Federazione degli universitari cattolici), collabora e poi diviene direttore della rivista “ricerca”. Nel 1947 si laurea, quindi svolge l’attività di assistente universitario e docente presso la scuola della Guardia di Finanza; collabora al comitato italiano per la ricostruzione e al comitato ministeriale per il Mezzogiorno; negli stessi anni scrive su “studium”, rivista culturale del Movimento Laureati di Ac. dal 1950 al 1959 collabora a “civitas”, rivista di studi politici diretta da P.e. taviani, di cui è redattore capo e poi vicedirettore responsabile. Nel 1951 si sposa con Maria teresa de Januario; nel 1952 nasce la figlia Maria Grazia e nel 1955 il figlio Giovanni. dal 1957 è libero docente in diritto amministrativo e in istituzioni di diritto pubblico, nel 1958 è docente all’università di Pavia, nel 1961 a trieste; dal 1968 è professore ordinario di scienze dell’amministrazione alla Facoltà di scienze politiche di roma; dal 1974 fino alla morte è docente ordinario di diritto pubblico dell’economia presso la Facoltà di scienze politiche di roma “La sapienza”. Nel frattempo prosegue il suo impegno associativo: nel 1954 diviene vicepresidente nazionale dei Laureati cattolici e nel 1959 Giovanni XXiii lo nomina vicepresidente nazionale dell’Azione cattolica, accanto ad Agostino Maltarello. inizia una stagione particolarmente intensa sul piano associativo, parallela al concilio e alla sua prima fase di attuazione. Nel 1964 Paolo Vi lo nomina Presidente generale dell’Azione cattolica, incarico da cui guida un rinnovamento culturale e organizzativo, culminato nel nuovo statuto del 1969. conclude il suo mandato nel 1973. È nominato vicepresidente della commissione pontificia per la famiglia, e poi della commissione italiana Justitia et Pax. Nel 1976 si apre una breve stagione di
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Studi e ricerche
una nuova generazione di cattolici democratici Bachelet è parte di una generazione di giovani nati sotto il fascismo e cresciuti negli anni trenta all’interno dell’Azione cattolica, una delle poche realtà che non solo ha potuto offrire ai giovani una formazione diversa da quella del regime, ma in larga misura ha posto le basi – soprattutto etiche, più che politiche – dell’antifascismo cattolico e di una nuova cultura democratica. rispetto alla generazione precedente che aveva vissuto l’esperienza del popolarismo e dell’antifascismo nei primi anni Venti, vi è una cesura proprio sul piano socio-politico. Negli anni trenta, specie dopo l’offensiva fascista contro i circoli dell’Ac nel 1931, si registra un forzato ripiegamento dell’associazionismo cattolico sul versante etico-religioso; il regime tenta di smantellare (o comunque di porre seri ostacoli) allo stesso funzionamento della struttura nazionale e regionale dell’Ac; le direttive del fascismo, in base a una non facile trattativa col Vaticano, inducono così una riduzione del peso della dirigenza laicale dell’associazione, che passa sotto il diretto controllo ecclesiastico fino agli anni della guerra. La generazione dei giovani cattolici che cresce negli anni trenta e nei primi anni della guerra ha perciò di fronte un non facile passaggio dal sistema dittatoriale e dalla mitologia bellicista a una nuova cultura democratica: la frattura politica segnata dal fascismo ha attraversato anche il mondo cattolico,
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Vittrio Rapetti, Vittorio Bachelet tra Concilio e conflitto
impegno politico, con la sua elezione nel consiglio comunale a roma; in quello stesso anno è eletto vicepresidente del consiglio superiore della magistratura. coordina con grande equilibrio questa istituzione fondamentale, in anni segnati da una forte crisi politica e dalla fase più acuta del terrorismo, culminata nell’assassinio di Aldo Moro nel 1978 e poi, nel febbraio del 1980, proprio dalla sua uccisione sulle scale dell’università, dove aveva da poco terminato di fare lezione. La sua produzione, sia per le tematiche giuridiche e politiche, sia per quelle ecclesiali e associative, è molto consistente e in larga misura raccolta e pubblicata.1 Al suo nome è intitolato l’istituto dell’Azione cattolica per lo studio dei problemi sociali e politici, nel cui ambito opera l’osservatorio sulle riforme costituzionali.2
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nonostante la “vecchia” generazione dei popolari sia rimasta in molti casi dentro l’Ac, seppure in posizione più defilata, proprio per la pressione della polizia fascista. Per questi giovani, posti di fronte ai problemi di una nuova società da costruire ma di fatto digiuni di qualsiasi preparazione e frequentazione politica, non si tratta solo di un approccio teorico alle teorie liberal-democratiche e socialiste (che pure non manca tra quanti hanno la possibilità di frequentare studi superiori o universitari), ma di un’esperienza diretta: specie negli anni ’41-’43 molteplici sono i fermenti democratici nell’associazionismo di base e nella Fuci: incontri, contatti, stampa semiclandestina, ragionamenti sul “dopo”. iniziative pensate dai vertici e aggregazioni spontanee si intrecciano, mentre si avvia con decisione la riflessione sul terreno sociale e politico. emblematico in questo senso il percorso che conduce al cosiddetto “codice di camaldoli” e alla ripresa di iniziativa dell’istituto cattolico attività sociali. Giovani come Vittorio Bachelet vengono così investiti di un forte protagonismo, non solo in campo ecclesiale, e proiettati verso un servizio nel sociale e nel politico. Molti dirigenti e soci della Gioventù di Ac (la GiAc maschile e la GF femminile) al centro-nord sono coinvolti nella resistenza (sovente con la partecipazione diretta al movimento partigiano) e dovunque nell’immediato dopoguerra sono impegnati nella rinascita dei sindacati, partiti e movimenti politici, a livello comunale, nella campagna per l’elezione della costituente e il referendum istituzionale, nelle elezioni successive, fino al momento “epico” dell’aprile ’48. se in larga parte questa dirigenza dell’associazionismo cattolico confluisce nella neonata dc di de Gasperi (o comunque simpatizza per essa), non mancano significative articolazioni interne (in particolare intorno al gruppo di dossetti e La Pira, a quello dei cattolici liberali, a quello dei cristiano sociali, ecc..), ma anche esperienze originali, come quella della sinistra cristiana di rodano, anch’egli proveniente dall’Ac e dalla Fuci romana, presieduta da Alfredo carlo Moro (fratello di Aldo che ne era presidente nazionale), amico e compagno di università di Bachelet. È in questo ambiente romano, ricco di stimoli e di opportunità culturali e operative che Bachelet muove le sue prime esperienze di intensa for-
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mazione religiosa (i suoi fratelli Adolfo e Paolo entrano nell’ordine dei gesuiti, mentre il fratello Giorgio è redattore di “Azione Fucina”nel 1939) e poi di servizio culturale nelle riviste nazionali dell’Ac a partire dal 1943.3 ricorda Moro: “uscivamo dalla chiusura di un regime dittatoriale e dalla tragedia della guerra e ci si apriva dinanzi la possibilità di ricostruire sulle ceneri del vecchio, un mondo nuovo in cui ci sembrava concretamente possibile incarnare idealità, progetti, utopiche speranze e costruire una nuova umanità più giusta”.4 È in questo clima che la motivazione religiosa, unita alla riflessione sulla situazione storica, lo conduce a orientare al servizio anche l’ambito dello studio e della professione. A cominciare dalla sua tesi di laurea, dedicata a I rapporti fra lo Stato e le organizzazioni sindacali, discussa nel 1947, tema quanto mai cruciale e delicato, in un frangente in cui la rinascita dei sindacati si accompagna al dibattito sull’unità sindacale, sul rapporto con i partiti e con le istituzioni. sono gli anni della ricostruzione, in cui il contrasto politico tra dc, partiti moderati e blocco socialcomunista, si fa molto duro: mentre fervono i lavori della costituente, dal 1946 alla primavera del 1948, il mondo cattolico viene attraversato da una ventata di impegno molto intenso. una mobilitazione di massa gestita attraverso i comitati civici e – indirettamente – attraverso le varie organizzazioni dell’Ac. Bachelet è già parte del nucleo dirigente centrale dell’Aci e si segnala per un approccio razionale e insieme profondamente spirituale al tema del conflitto e del dialogo politico; scrive nel 1946: “con nessuno dei nostri simili abbiamo il diritto di rifiutarci o di essere pigri nel gettare il ponte”.5 il tema del dialogo si lega a quello della pace e dell’amicizia, costanti del suo pensiero e della sua prassi. ed è significativo che emerga proprio in questi anni di forte conflittualità: la “percezione del nemico” è puntuale e definita, il comunismo di stampo sovietico è considerato un pericolo e un rischio reale, ma l’atteggiamento del cattolico deve essere evangelico: “i cattolici combattono, devono combattere il male che è l’unica cosa che non possono amare; ma non possono combattere, essere nemici degli uomini, anche quando questi sono al servizio del male, anche quando combattono la verità, la giustizia, la carità, la chiesa”.6
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Sviluppo e fermenti nel mondo cattolico Bachelet vive in quegli anni un percorso a stretto contatto con la dirigenza centrale dell’Ac che, diversamente da quanto si è portati a pensare, nell’immediato dopoguerra è attraversata da un intenso dibattito interno, in particolare riguardo alla linea di Gedda, al rapporto tra Ac e comitati civici, quindi al rapporto tra azione religiosa e azione politica. un dibattito che si fa ancora più complesso e a tratti molto teso dopo il 1948, che pure segna un punto molto alto di “successo” dell’associazionismo. Bachelet esprime con chiarezza l’orientamento, condiviso da molti dirigenti, che pone una distinzione tra il piano della fede e quello delle scelte politiche: “Non è improbabile – afferma nel 1946 – che singoli uomini o singole organizzazioni cattoliche - dimentichi che se la separazione dello spirituale dal temporale è un assurdo, la distinzione tra i due campi è basata invece sulla natura umana e come tale non solo è accettata, ma difesa e propugnata dalla chiesa – ritengano per santo zelo, doveroso, dopo la potente affermazione dei cattolici italiani, intervenire direttamente in campi e materie che una elementare prudenza riserva alle organizzazioni politiche. ebbene noi riteniamo che anche verso di loro sia doverosa un’opera di chiarificazione, al servizio anch’essa della chiesa e della città.”7 in nuce troviamo qui la stessa impostazione che sarà sviluppata negli anni successivi da Giuseppe Lazzati8 e poi dallo stesso Bachelet con la scelta religiosa e con la nozione di “mediazione culturale”. si registra così una progressiva divaricazione tra la prospettiva di Pio Xi e di Gedda, presidente nazionale dell’Ac e animatore dei comitati civici, e quella dei “rami” dell’Ac, in particolare quelli giovanili. È noto come tale tensione conduca nei primi anni cinquanta a una clamorosa rottura con Gedda, prima di carlo carretto (presidente della GiAc) e di padre Arturo Paoli (uno degli assistenti della GiAc), poi di Mario rossi (successore di carretto alla GiAc). Non si tratta di una semplice questione interna, ma assume una notevole rilevanza storica, in quanto rivela il modo in cui si evolve la riflessione e il modo di vivere il rapporto fede-storia e l’impatto del cattolicesimo organizzato con la modernità. una modernità politico-istituzionale, caratterizzata dal sistema dei partiti e dalla nuova costituzione (ma anche dalla sua non fa-
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cile attuazione) e una modernità socio-economica introdotta dalla ricostruzione e dallo sviluppo industriale, cui si connette un forte movimento migratorio interno e verso l’estero. La reazione della gerarchia vaticana e di Gedda è dura, nonostante i tentativi di mediazione di Montini; aldilà del cambiamento di alcuni dirigenti, l’associazione mantiene la sua solidità, ma la riflessione interna, specie nella GiAc e nella GF continua ai vari livelli, mentre i nuovi fermenti culturali (in particolare collegati alla teologia del laicato di matrice francese) introducono non pochi elementi che anticipano il concilio. Negli anni cinquanta l’Ac amplia ulteriormente la sua presenza sul territorio e il suo ruolo nella comunità cristiana, divenendo a tutti gli effetti un’organizzazione di massa: all’indomani della guerra gli iscritti all’Ac per le varie fasce di età sono oltre 1,9 milioni, aggregati in 47.100 associazioni parrocchiali. Nel 1954 i soci superano i 3 milioni e le associazioni locali sono oltre 75.700.9 un impianto organizzativo che non ha uguali in tutto il paese, fondato su decine di migliaia di dirigenti che operano in modo volontario, una struttura nazionale con oltre 400 impiegati, dirigenti e assistenti, che pubblica più di una ventina di periodici per tutte le fasce di età e condizioni, per dirigenti e responsabili formativi, oltre alla produzione editoriale proposta dall’AVe; negli anni cinquanta viene edito perfino un quotidiano dell’Ac. La capillarità dell’associazione e la sua popolarità si giovano inoltre di una consistente aggregazione di nuclei intellettuali: a metà anni cinquanta sono circa 8.600 i maestri, quasi 14.000 i laureati e circa 6.000 gli universitari che aderiscono ai movimenti dell’Ac; ad essi si affiancano le “associazioni professionali” cattoliche degli insegnanti (AiMc per i maestri, uciiM per i professori), dei tecnici, dei medici, degli artisti, ecc..; collegata alla struttura centrale è poi un’associazione di notevoli dimensioni come le AcLi, che ha notevole diffusione nel mondo del lavoro operaio e impiegatizio, mentre in diverse diocesi opera il Movimento rurali, rivolto in particolare ai contadini. un modello di “intellettuale sul campo” Queste cifre e soprattutto l’imponente serie di iniziative formative che animano la vita dell’associazionismo cattolico strutturano un determinato
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Vittrio Rapetti, Vittorio Bachelet tra Concilio e conflitto
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modello di “lavoro culturale” che combina il rigore dello studio al tirocinio di servizio nella formazione e nella pubblicistica: i giovani intellettuali come Bachelet che si assumono incarichi come dirigenti associativi sono sollecitati a un impegno di mediazione culturale, di relazioni interpersonali e organizzative che va ben oltre il tradizionale ruolo dell’intellettuale “puro”. ciò permette di arricchire la riflessione teorica attraverso un rapporto reale con i problemi educativi, sociali, religiosi, politici. Qui troviamo un tratto molto rilevante di questo tipo di intellettuale, che caratterizza non solo Bachelet, ma lo stesso Gedda (ricercatore di livello internazionale e fondatore dell’istituto di genetica medica di roma, ma anche formidabile organizzatore) e numerosi dirigenti nazionali. un intellettuale che da un lato opera individualmente nel campo proprio della ricerca, sovente in ambito universitario, dall’altro è impegnato in un lavoro progettuale e collegiale, formativo e organizzativo di una associazione nazionale che lo pone a confronto tanto con i problemi generali del rapporto chiesa-mondo, quanto con la pluralità dei territori diocesani e delle vicende locali. da non trascurare che proprio negli anni cinquanta, su sollecitazione di Pio Xii, si strutturano anche le varie organizzazioni internazionali del laicato cattolico, alle quali l’Aci è chiamata a dare un supporto di persone e mezzi, ponendo così la propria dirigenza a contatto con una dimensione ulteriore e più vasta, che si rivelerà preziosa anche per gli sviluppi successivi della stagione conciliare. d’altro lato, l’attivismo associativo porta i dirigenti nazionali a frequenti visite nelle diocesi e nelle città italiane, contribuendo tra l’altro a costruire reti e appartenenze di carattere nazionale, utili a collegare realtà altrimenti lontane e sovente chiuse nella loro particolarità. Questa “costruzione di identità nazionale” sul piano ecclesiale non è nuova nel movimento cattolico e nell’Aci, ma acquista nel secondo dopoguerra un peso ancor più rilevante, considerando sia l’avvio di un processo di apertura della società italiana, di “sprovincializzazione”, sia l’imponente fenomeno migratorio che interessa molte aree del paese. emerge quindi il ruolo di un intellettuale che opera sul campo sociale (ecclesiale e civile), anche in questo caso “distinguendo senza separare” il momento della ricerca rigorosa da quello della mediazione educativa e organizzativa.
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ci siamo soffermati su questa fase, in quanto risulta decisiva per l’impostazione culturale che Bachelet assume e che ne orienta l’azione nei decenni seguenti. essa si fonda su una sensibilità e su una formazione religiosa che pone al centro la libertà interiore, ma anche su una disposizione personale al dialogo, che unisce la mitezza e cordialità del carattere, a uno sforzo non dogmatico del pensiero. L’intento che anima questa generazione di giovani dirigenti è quello di riabituare i giovani alla vita e all’impegno sociale, fuori da una cultura manipolatoria come quella vissuta durante il fascismo, ma anche rispetto al rischio di un “attivismo senza idee, grande tentazione” in una stagione in cui esplode la partecipazione politica. Per questo la formazione culturale è considerata decisiva, in associazione come nella scuola, secondo un modello partecipativo e “costruttivo” idoneo a far uscire gli studenti dalla posizione passiva di semplici fruitori del sapere. Questo impegno socio-culturale si collega a un modo di intendere e vivere la fede “radicata nella storia”, capace quindi di orientare l’esistenza e le “opere del cittadino”, così che il cittadino cristiano possa dare un contributo alla costruzione sociale, senza che la fede si sovrapponga integralisticamente alle opere, ma rispettandone l’autonomia. una fede, quindi, come orientatrice di una scelta di servizio all’uomo e alla chiesa, capace di entrare in relazione con gli altri, nella accettazione e rispetto reciproci.10 Già su questo terreno associativo e – come vedremo poi su quello professionale e politico – si evidenzia in Bachelet l’attenzione per la costituzione repubblicana e il costante riferimento ai suoi valori fondanti, al punto che Alberto Monticone (storico e suo successore alla guida dell’Aci) introduce l’espressione di “catechesi civile”: “il suo insegnamento è soprattutto nella direzione di catechizzare la gente con la costituzione… far entrare la costituzione nella vita reale dei cittadini, per creare una quotidiana ‘rivoluzione delle coscienze’ … responsabilizzare gli individui senza fare appello alle questioni morali... dare un senso allo stato, alla comunità sociale, al lavoro: dare un senso a se stessi nello stato”.11 Non è quindi casuale che il lavoro di tipo formativo-culturale nella Fuci e nel Movimento laureati si colleghi in Bachelet al contributo in campo
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Fede e storia: la centralità della costituzione
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socio-politico; questo si evidenzia attraverso la rivista “civitas” lungo tutti gli anni cinquanta, e nell’ambito delle “unioni professionali”, organizzazioni volte ad aggregare i professionisti cattolici, “affinché la professione sia ricca non solo di abilità tecnica ma anche di sostanza spirituale” al fine di rendere morale non solo il rapporto tra professionista e cliente, ma di dare al lavoro professionistico una prospettiva di riforma delle strutture sociali per “renderle più umane”.12 La scelta intellettuale e quella di un servizio continuativo nell’associazionismo, che Bachelet conduce dall’immediato dopoguerra alla fine degli anni cinquanta all’interno della vita delle organizzazioni di Ac, lo rendono partecipe di un periodo del tutto particolare per il laicato cattolico italiano: da un lato la chiesa vive forse la stagione di maggior espansione e influenza sulla società, proprio anche grazie alla presenza delle organizzazioni di massa dell’Ac in tutte le diocesi e parrocchie, nei diversi ambiti professionali e culturali, in tutti gli strati sociali e fasce d’età, con una sensibile influenza anche sul mondo politico e sindacale, sui mass media … (Mario rossi usò all’epoca l’espressione “gli anni dell’onnipotenza”). d’altro lato, l’ultima fase del pontificato di Pio Xii stenta a reggere l’impatto con le profonde trasformazioni della società, mentre la linea associativa impostata da Gedda dà segni di logoramento. Nonostante l’efficienza dell’apparato organizzativo e la dedizione di dirigenti e militanti, affiorano i rilievi circa il progetto educativo, i contenuti e le modalità della proposta, mentre l’associazione si è fortemente impoverita di una intera generazione di dirigenti, chiamati all’impegno politico, amministrativo, sindacale e professionale. L’Aci funge così da “serbatoio” per una parte della classe dirigente italiana nella ricostruzione e negli anni del miracolo economico; ciò le dà ancor maggior rilievo, ma di fatto finisce per indebolirne la funzione propria e la capacità innovativa; non a caso negli anni sessanta la dirigenza fatica non poco a ricostruire e rinnovare i propri quadri. È in tale contesto che tra il 1959 ed il 1980 Bachelet si trova a svolgere un ruolo decisivo nella storia dell’associazionismo, della chiesa e società italiana.
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dopo la morte di Pio Xii, l’elezione di Giovanni XXiii, diversamente dalle aspettative di molti, imprime una decisa svolta di metodo e di approccio al rapporto chiesa-mondo, di cui l’annuncio di un nuovo concilio è l’aspetto più eclatante, ma non l’unico. infatti, uno dei terreni del rinnovamento (o “aggiornamento” per usare il termine originale) è proprio il laicato e la vita dell’Ac. È Giovanni XXiii a designare una nuova dirigenza dell’Ac, ponendo nel 1959 alla guida dell’associazione Augusto Maltarello e affiancandolo con Bachelet. Va subito notato che si tratta di un passaggio storico, sia perché segna la conclusione dell’epoca di Gedda (iniziata nel 1934 con la presidenza nazionale della GiAc), sia perché apre effettivamente una nuova stagione per il laicato cattolico. Anche in questo caso Bachelet rivela una percezione del cambiamento sociale e culturale in atto e quindi l’esigenza di una revisione della prassi formativa e pastorale del cattolicesimo italiano. Va considerato che il cambio ai vertici dell’Ac si svolge nella continuità: Maltarello è stato alla guida dell’unione uomini dal 1949 al 1959, pur restando un dirigente piuttosto giovane con i suoi 47 anni. evidente è invece la novità di Bachelet: ha solo 33 anni, proviene dalle organizzazioni più “avanzate” e culturalmente più attrezzate dell’Ac, è un brillante docente universitario, con una famiglia ormai formata. Vive pienamente la condizione laicale e ha ormai un’esperienza associativa che gli viene dalla lunga militanza e dal lavoro al centro nazionale; si segnala soprattutto per una sensibilità umana e spirituale che ben si sintonizza col nuovo papa e con il suo successore, Paolo Vi, mentre ha stabilito un stretto rapporto di fiducia e collaborazione con gli assistenti don emilio Guano e don Franco costa, figure di grande rilievo nel percorso del laicato cattolico. Anche in sede storiografica è opportuno cogliere questo aspetto più personale, considerando come le scelte strategiche e il metodo posto in essere per attuarle non siano estranei al suo “stile” e al consenso – per nulla scontato – che Bachelet ha saputo costruire intorno alla prospettiva conciliare e alla “scelta religiosa”, ma anche al modo di concepire e vivere la politica. Bachelet è uomo “pacifico”, crede profondamente nella pace, nelle soluzioni negoziate, con pazienza, in un confronto senza riserve men-
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Il concilio ecumenico Vaticano II e il rinnovamento ecclesiale
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tali. Le soluzioni di forza gli sono estranee e si lamenta di chi pone i problemi in maniera “manichea”, con tutto il bene da una parte e il male dall’altra. ritiene che le contrapposte rigidezze possano alla lunga sciogliersi in una comprensione fraterna, dopo un contatto umano e uno scambio di franche parole, quei “mezzi umani” che costituiscono la vera ricchezza, spesso trascurata, dell’Azione cattolica (e non solo). Lungo tutto il servizio come presidente, fino al discorso di chiusura nel 1973, richiama il “metodo della carità” ritenendolo la strada idonea ad affrontare i conflitti “io penso che questo amore non debba essere un nascondere le differenze, che la correzione fraterna è più piena di carità che non il silenzio sprezzante o il mugugno … so che, accedendo a ormai vecchie tesi idealiste si pensa che la conflittualità sia regola di vita di ogni comunità. Personalmente non ne sono convinto”. emerge quindi una convinzione culturale che va oltre l’atteggiamento benevolo e il carattere mite; essa trova conferma nella diversa impostazione che egli dà al rapporto tra cristiano e mondo, e al ruolo fondamentale dell’educazione e alla sua funzione sociale: “come cristiani e come associazione ecclesiale non possediamo né sicurezza né privilegi, ma solo quella libertà che è propria dell’uomo amato da dio e l’impegno perciò di collaborare a costruire il mondo … Questo è il problema educativo e formativo che è fondamentale per l’Azione cattolica: rendere le persone capaci di dare dimensione umana e fraterna anche alle più ardite concezioni sociali”.13 Non si tratta di “parole neutrali” per chi è a capo di una organizzazione “potente”. esse bene esprimono il profondo rinnovamento che si sta tentando nel mondo cattolico degli anni sessanta – settanta, con le inevitabili conseguenze sul piano del “potere” e sul versante del rapporto con la politica. i critici della “scelta religiosa” evidenziano questo “distacco dalla politica” di una larga parte del mondo cattolico, ma questa interpretazione rischia di scambiare gli effetti con la causa, oltre che perdere di vista “i tempi” di questo processo. infatti, quando nel 1964, Paolo Vi nomina Bachelet presidente nazionale dell’Ac, l’associazionismo cattolico sta già vivendo una stagione di crisi, nel senso più profondo del termine: da un lato i primi risultati del concilio imprimono una ventata di novità, ven-
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gono a maturazione temi ed esperienze elaborati nel decennio precedente, sovente nella forma della profezia e del dissenso (si pensi a figure come don Milani, don Mazzolari, padre Balducci, ma anche a molte esperienze associative); dall’altro, la capacità di coinvolgimento nei percorsi formativi di base già nei primi anni sessanta sembra segnare il passo o comunque segnala l’esigenza di misurarli sulle trasformazioni in atto e sui nuovi stili di vita che – specie nei centri urbani – si stanno rapidamente imponendo; ciò produce anche un notevole disorientamento e una tendenza a rifiutare in blocco le esperienze del passato, sovente senza considerarne il valore e il nucleo vitale. Pesa su molti, specie sacerdoti, il senso di un’organizzazione del laicato imposta dall’alto e legata a forme considerate sorpassate (la strutturazione per rami e livelli, la divisione per sesso, una dirigenza laicale, il tesseramento, la dipendenza dal centro nazionale, …). La “riforma” del laicato cattolico, la “via stretta” dell’Ac È in questo contesto, sempre più polarizzato tra “movimento” e “istituzione”, in un difficile passaggio per l’intero paese, interpretato come crisi di cultura ma anche come opportunità di apertura al nuovo, che Bachelet e gran parte della dirigenza associativa si orientano su una “via stretta” e su una rotta accidentata, ma certo orientata al futuro più che alla semplice conservazione o difesa del passato. È un percorso che si basa su due passaggi chiave: l’attuazione del concilio nelle diocesi e un nuovo rapporto con la politica. due passaggi sintetizzati nell’espressione “scelta religiosa”. il percorso si avvia anzitutto attraverso una profonda “riforma” interna all’Azione cattolica, che alle soglie degli anni settanta resta comunque la più importante e diffusa associazione del laicato italiano e punto di riferimento anche per altre importanti associazioni (come AcLi, scout, csi, …).14 La scelta di un “nuovo statuto” operata dalla presidenza Bachelet, appoggiata da Paolo Vi e sostenuta da don Franco costa, dal 1964 assistente nazionale, va infatti nella direzione di individuare un nuovo soggetto “unitario” per il laicato cattolico, chiamato a servire l’attuazione del concilio nel nuovo clima culturale ed ecclesiale, ormai ampiamente pluralistico e fram-
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mentato, inserendosi e operando nelle chiesa locali. si tratta di un impresa non semplice per un’associazione fino allora strutturata per rami separati e indicata come modello prevalente (quando non unico) della pastorale; essa – secondo le stesse intenzioni di Paolo Vi – deve costituire nel nuovo contesto il modo “ordinario” della partecipazione dei laici cristiani alla vita della chiesa e del paese.15 il percorso scelto da Bachelet per giungere al nuovo statuto segnala un elemento di valore decisivo, che corrisponde alla sua visione democratica dell’associazione: un’ampia discussione alla base e una paziente elaborazione, così che l’intera associazione si senta protagonista di questo passaggio storico. È una novità rilevante: considerando che tutti i suoi precedenti statuti erano stati definiti dalla gerarchia vaticana, la novità riguarda non solo l’ac ma l’intera chiesa, in quanto inaugura un metodo che corrisponde all’impostazione conciliare di una effettiva corresponsabilità dei laici nella guida dell’associazione, senza che venga meno quel “particolare legame” con la gerarchia che rende l’ac un soggetto ecclesiale a pieno titolo.16 il nuovo statuto entra in vigore nel 1969 e nel corso della 1° assemblea nazionale unitaria del 1970 presieduta da Bachelet, Paolo Vi esprime la chiara scelta di investire nella “nuova forma di Azione cattolica” per attuare la dottrina conciliare sul laicato e per realizzare quelle “familiari relazioni con la gerarchia” tipiche di un modello di chiesa nel quale l’elemento gerarchico è funzionale alla dinamica comunionale (e non viceversa). significative in quella stessa occasione le parole scelte da Bachelet per il saluto a Paolo Vi: “Noi vi siamo vicini con l’affettuosa e soda fiducia di cui parlava don Mazzolari quando diceva: il Papa ha bisogno di figlioli che gli vogliano bene alla buona, l’unica maniera di volere bene veramente; che gli obbediscano in piedi e che in piedi gli diano una mano a portare la grossa croce che ha sul cuore e sulle spalle”.17 La scelta di rompere in modo netto il collateralismo con la dc – che tante critiche riserva alla “nuova Ac” di Bachelet, anche da una parte della gerarchia – risponde in modo coerente all’impostazione conciliare della distinzione del piano religioso/ecclesiale da quello politico, è la scelta di non far dipendere l’impegno dell’evangelizzazione dal sostegno “temporale”, ma è anche il riconoscimento più profondo della “legittima autono-
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mia” dell’ambito politico rispetto a quello religioso. Non quindi distacco, o indifferenza alla dimensione politica, ma un corretto rapporto tra religioso e politico, che valorizza da un lato la laicità e il ruolo del laicato cattolico nella società civile e nella comunità ecclesiale, dall’altro lascia alla chiesa una maggior libertà di esprimere la sua funzione profetica. Nel complesso una vera e propria “riforma”, che conduce l’Ac a un drastico ridimensionamento quantitativo e organizzativo (un “prezzo” di cui la dirigenza è consapevole), ma la proietta verso una presenza feconda nella società italiana e nelle chiese locali. È lo stesso Bachelet a fornire la chiave di interpretazione di questa “strategia” in una affermazione divenuta famosa: “Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo, rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana, che cosa era importante? era importante gettare seme buono, seme valido”.18 La ricerca di una nuova primavera e la sfida della fantasia Questa riforma del laicato organizzato avviata da Bachelet alla fine gli anni sessanta si presenta dunque come espressione e applicazione del rinnovamento indicato dal concilio, nel contempo si sviluppa all’interno di un quadro di forte movimento socio-culturale, che segna – talora in modo convulso, imprevisto e violento – la seconda metà degli anni sessanta e tutti gli anni settanta. i semi della trasformazione degli anni settanta sono posti già negli anni sessanta, non solo in campo ecclesiale, anche sul piano socio-politico. La novità della nascita del centro-sinistra si accompagna all’inquietudine per le istituzioni incompiute (si pensi alla dimensione regionale prevista dalla costituzione e non ancora attuata), per i diritti non riconosciuti (in particolare in merito alla condizione femminile, alla questione del lavoro e a quella dell’accesso agli studi superiori e all’università). Mentre procede la decolonizzazione, emerge meglio anche in campo cattolico la percezione della dimensione mondiale (con gli squilibri nord-sud, la necessità di nuovi rapporti internazionali) e la critica al consumismo. si pone con maggior forza la presenza di una “questione giovanile” e si accentua il conflitto intergenerazionale che tanta parte ha negli anni della
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“contestazione”, che assume via via i connotati di una critica radicale al “sistema”. Nella seconda metà degli anni sessanta, la “ricerca di una nuova primavera”, “nella chiesa e della chiesa”, secondo modalità diverse da quelle tradizionali, svuota rapidamente l’Ac: paradossalmente, proprio l’associazione che più sostiene il rinnovamento conciliare viene penalizzata dal nuovo clima di vivace partecipazione, ma anche di rottura col passato. Gli entusiasmi per il concilio suscitano anche qualche eccesso, che alimenta perplessità, preoccupazioni, resistenze (al punto che già nel 1972-‘73 nella comunità cristiana si comincia a parlare di “riflusso”) e rapidamente la chiesa italiana è posta di fronte a una trasformazione sociale e culturale che fatica a intercettare. inoltre, si prospettano per la prima volta espressioni diffuse di discussione critica, di aperto dissenso; dissenso che in diversi casi diviene organizzazione di una comunità “alternativa” alla chiesa tradizionale, considerata troppo lenta e reticente nel rinnovamento, o poco propensa a schierarsi con decisione contro le “contraddizioni del sistema”, dalla parte degli sfruttati e dei poveri. Le esperienze delle “comunità di base” e dei “cristiani per il socialismo” attraversano gli anni settanta, introducendo un elemento inedito nella dinamica ecclesiale, che crea sconcerto e pone non poche difficoltà al “governo” ecclesiale, già alle prese con l’attuazione delle “riforme” conciliari nel campo della liturgia, della catechesi, dell’avvio di nuovi luoghi di partecipazione e confronto ecclesiale come i consigli pastorali. Allo stesso tempo – in modo meno eclatante, ma assai più diffuso – prolifera la modalità dei “gruppi spontanei”, che sul piano locale si organizzano intorno al clero più giovane e innovatore, esprimendo una insofferenza per tutte le forme strutturate di associazionismo; anche questa modalità, se da un lato libera molte nuove energie e consente non poche esperienze locali significative, contribuisce a destrutturare la comunità cristiana e in particolare a indebolire la partecipazione del laicato, frammentandola e aprendo la strada allo sviluppo di “movimenti”; questi ultimi, nel corso degli anni settanta e ottanta, assumeranno connotazioni più definite e “carismatiche” e svilupperanno percorsi propri, piuttosto distanti (quando non di fatto alternativi) alla pastorale ordinaria delle chiese diocesane e della comunità parrocchiali.
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La profonda novità del concilio, quale che sia il tentativo recente di spegnerne il senso di “rottura”,19 contribuisce certo ad accelerare il cambiamento nel corso degli anni sessanta: “è l’uscita da un tempo scarso e povero di profezia e l’ingresso in un tempo in cui il futuro è tutto da inventare, al di fuori degli schemi ricevuti”.20 Per questo i contenuti e lo spirito del concilio si combinano con un’altra potente dinamica propriamente culturale e psicologica, quella che Monticone chiama la “terribile sfida della fantasia”: lo schema precedente – pur animato dai nuovi orientamenti – sembra non bastare più. e ciò che accade all’associazionismo ecclesiale ha non poche analogie con quanto si evidenzia sul piano socio-politico rispetto alla critica ai partiti tradizionali e agli stessi sindacati, che per diversi anni cercheranno con limitata fortuna di governare o inseguire “il movimento”. La sfida della fantasia è dunque quella di “rifare il mondo” e “rifare la chiesa”, reinventare l’insieme, “dal basso”. Questa sfida della fantasia trova nella ideologia rivoluzionaria una delle risposte, che suscita non poche attrattive, pur mancando di basi materiali e sociali effettive: l’utopia si sovrappone alla realtà e produce un rifiuto della storia e delle istituzioni. Non è l’unica risposta in campo, ma certo il clima del post sessantotto, più propenso agli atteggiamenti rivoluzionari che a quelli riformisti, coinvolge anche il mondo cattolico. in particolare vi è coinvolta la fascia giovanile, cresciuta negli anni cinquanta e sessanta, compressa dal “perbenismo interessato” (Guccini), ma anche sensibilizzata ai temi sociali della giustizia e della pace, per i quali gioca un ruolo non secondario l’importante magistero di Giovanni XXiii e Paolo Vi con la Pacem in terris e la Populorum progressio; una generazione fortemente sollecitata anche dai nuovi scenari internazionali: dal “disgelo” alla guerra del Vietnam, dalla decolonizzazione alle nuove forme di colonialismo economico, dai rischi nucleari alla crisi del modello sovietico, dalla primavera di Praga alla sua repressione, dal ruolo dell’oNu a una nuova stagione dei diritti dell’uomo e dei popoli. Le sicurezze morali e istituzionali sembrano scosse alle fondamenta: gli anni successivi al 1968 prospettano una vera e propria rivoluzione nel costume, ma anche la messa in discussione delle istituzioni statali,
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Da dentro a fuori: affinità e contrasti nella chiesa e in politica
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con le prime e tragiche espressioni dell’eversione e del terrorismo. Queste suggestioni sociali e culturali nuove (tra cui campeggia il rapporto cristianesimo-marxismo, ma pure la cosiddetta “rivoluzione sessuale”) si riverberano anche tra i giovani cattolici e si intrecciano – spesso al di là della capacità intenzionale-progettuale dei singoli – con un atteggiamento di forte ricerca di novità e protagonismo, che in molti assume i connotati di una richiesta radicale, rivoluzionaria; ciò produce sovente inediti corto-circuiti integralistici, più frequentemente “di sinistra”, ma non solo, che fanno saltare quella distinzione tra il piano politico e religioso, tra progetto e sua paziente attuazione, per la quale faticosamente stava operando l’associazionismo tradizionale. da questo punto di vista vi sono somiglianze “di metodo” e di atteggiamento tra esperienze come le comunità di Base che operano una scelta politica-ideologica in senso marxista (proiettate al futuro, molto attratte dalle esperienze latino-americane e anche dal mito cinese, interessate a una “lettura materialistica del Vangelo”), e quelle di comunione e Liberazione che tendono a proporre la prospettiva di una “nuova cristianità” o almeno di una “piccola società cristiana”, presenza combattiva di fronte a un mondo “nemico”; in cL affiorano nostalgie medievali, marcati atteggiamenti anti-moderni, critiche al concilio e alle sue applicazioni, ma anche un disinvolto rapporto con la politica; da qui un’avvicinamento al socialismo craxiano in funzione di contrasto al dialogo tra mondo cattolico e movimento comunista (sviluppato sul piano politico da Moro e Berlinguer). il contrasto tra Ac e cL che esplode nella seconda metà degli anni settanta, prima che sul terreno politico, nasce su quello ecclesiale: i motivi polemici e talora aggressivi impiegati dal nuovo movimento non sono solo frutto di uno stile “giovanile” e carismatico, volto a proporsi e ad aggregare anche “sul contrasto”, ma rimandano in sostanza a una diversa visione di chiesa e a un modo conflittuale di intendere il rapporto fede-storia-politica, e quindi il modo di essere e di operare dei cattolici nel campo sociale e civile. L’Ac vede in cL una parziale riedizione di se stessa secondo il modello anni cinquanta, con venature integralistiche e un atteggiamento collateralistico in politica, modello da cui tentava di uscire e far uscire il laicato italiano. d’altra parte, cL vede nella “nuova Ac” l’espres-
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sione di una “scelta debole”, poco determinata a contrapporsi al laicismo e all’ateismo. Per l’Ac la laicità, l’inserimento nella chiesa locale e la mediazione culturale sono gli assi della via maestra del dialogo schietto con un mondo ormai pluralistico e per una testimonianza “povera” di servizio educativo e sociale, idonea a una nuova semina, per un cristianesimo che accetta serenamente di essere minoranza nella società; per cL essi sono sinonimo di lentezza e di sostanziale resa di fronte a una società anticristiana, con la rinuncia a marcare una presenza “forte”.
se la motivazione religiosa e l’ispirazione conciliare hanno contraddistinto l’impegno culturale ed ecclesiale di Bachelet, l’altro punto di riferimento fondamentale del lavoro culturale e politico è stato per lui la costituzione. Proprio attraverso la sua opera si colgono non poche rispondenze tra i due riferimenti, nonostante lo scarto temporale che li separa. Anzi, si può dire che proprio il cattolicesimo democratico italiano maturato intorno alla costituzione è stata una realtà che ha contribuito in modo sensibile e coerente a ispirare la teologia conciliare sul laicato (e più in generale sul rapporto chiesa-mondo), la quale ha in qualche modo sistematizzato una vasta serie di esperienze e intuizioni, già elaborate nel secondo dopoguerra. Questo aiuta a comprendere perché la generazione degli intellettuali come Bachelet non solo non si trova “spiazzata” dal concilio, ma lo vive come una stagione di nuova apertura e di dialogo efficace con la modernità, che loro stessi avevano contribuito a preparare e costruire. il primo terreno sul quale l’impegno politico di Bachelet si misura è la sua esperienza scientifica e professionale, come studioso e docente di diritto amministrativo e pubblico. Già dalla fine degli anni Quaranta, diviene evidente che la possibilità di “attuare la costituzione” passa anche per una riforma della pubblica amministrazione: applicare il disegno costituzionale alla vita del paese richiedeva (e richiede tuttora) di legare l’amministrazione agli scopi della costituzione. Bachelet è tra quanti intendono la costitu-
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Stato sociale e riforma della pubblica amministrazione
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zione non solo una serie di norme definite, ma anche un orientamento, un progetto da sviluppare. “il riferimento sistematico ai principi fondamentali della costituzione – sottolinea c.riviello – è stato assunto nel suo metodo, faceva parte, intrinsecamente, della sua formazione metodologica e della sua pratica di ricerca”.21 Bachelet considera che l’amministrazione sia ancora legata all’impostazione delle precedenti forme politiche dello stato italiano; senza un suo adeguamento, la possibilità di attuare la costituzione rischia di essere fortemente penalizzata. L’amministrazione pubblica (come in genere tutte le forme burocratiche) tende infatti a chiudersi in un proprio ordinamento, impermeabile ai criteri costituzionali, condizionandone concretamente l’attuazione. ciò che gli sta in particolare a cuore è porre l’amministrazione pubblica a garanzia e promozione del sistema degli interessi sociali della comunità nazionale, indicando in questa “missione” tanto il ruolo dell’istituzione, quanto l’impegno professionale e deontologico del singolo pubblico dipendente e titolare di un pubblico ufficio. Vi è quindi un rapporto vitale tra la dimensione etica e quella propriamente giuridica del lavoro amministrativo, per cui egli parla di una “istituzione vivente” chiamata a rendere un “servizio civile” attraverso la “legalità amministrativa”. da qui l’opera di Bachelet è volta sia a chiarire principi e orientamenti idonei a riorganizzare la pubblica amministrazione in modo nettamente diverso dal passato, così da renderla, in coerenza al disegno costituzionale, funzionale alle trasformazioni che la società e lo stato contemporanei hanno registrato. tali cambiamenti – in primo luogo l’apertura delle carriere alle donne, ma anche gli sviluppi tecnologici – impongono il superamento di una visione autoreferenziale e fissa della Pubblica amministrazione chiamata invece essa stessa a una trasformazione, in particolare rispetto alle funzione dello “stato sociale”, al ruolo dello stato nell’economia, ai rapporti tra i vari livelli di governo centrale e periferico, statale e delle autonomie locali, come pure per quanto riguarda le politiche nazionali e quelle comunitarie.22 Pertanto, punto cardine di questa riforma della amministrazione pubblica in senso costituzionale diviene per Bachelet la nozione giuridica di “coordinamento”: “effettivamente il ‘coordinare’ è manifestazione tipica di una società democratica e pluralista, che intende ottenere l’armonico orientamento di
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individui, gruppi, istituzioni verso fini determinati, senza però annullare la libertà o l’iniziativa di tali individui, gruppi o istituzioni; e in particolare manifestazione tipica di un sistema ad economia mista, che non ritiene automatica la realizzazione di tale armonico contemperamento delle libere iniziative (come affermava invece la teoria liberistica classica), ma neppure la abolisce in un assorbimento totalitario nella collettività sociale, che faccia dei soggetti e dei gruppi dei meri esecutori o delle cinghie di trasmissione del comando dello stato (come sostengono le varie dottrine stataliste)”.23 Al centro vi è quindi la riflessione sui modi e limiti con cui lo stato deve svolgere il suo intervento nell’economia: le necessità sociali, economiche e belliche hanno condotto lo stato a divenire “operatore sociale”; ma non vi è un’unica modalità di attuare questa scelta: le tragiche vicende degli stati totalitari hanno dimostrato che essi non riescono a realizzare lo stato di diritto. Ma quando lo stato intenda svolgere il ruolo di operatore sociale “in forma sussidiaria e integrativa e stimolatrice degli operatori privati e collettivi”, secondo il modello liberal-democratico, occorre definire “impostazioni che ne garantiscano l’efficienza come il controllo”.24 un modello di economia mista che si distingue da quello fascista, pur rimanendo operative quelle strutture avviate dal regime. di particolare rilievo le considerazioni che Bachelet propone in merito al ruolo e ai poteri delle figure di coordinamento, in un contesto di decentramento e autonomia amministrativa e organizzativa, e in un quadro statale entro cui operano in autonomia una pluralità di soggetti e di attività. importanti in questo senso sono i contributi da lui offerti a riguardo della figura del funzionario pubblico, della responsabilità del dirigente amministrativo, dell’uso di strutture collegiali in campo amministrativo, della trasformazione dell’apparato amministrativo centrale in rapporto all’attuazione dell’ordinamento regionale, alla presenza del sindacato nella pubblica amministrazione. significative e attuali le considerazioni circa la formazione dei funzionari, da non limitare al versante giuridico, ma da integrare sul versante dell’economia, della conoscenza della società, della politica, del management, delle nuove tecnologie, così da rendere il funzionario pubblico idoneo a operare in strutture tecniche, imprenditoriali e “partecipative”, con competenza e moralità.
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Principio democratico e sistema giuridico Non è questo l’ambito per entrare nello specifico dell’elaborazione giuridica, ma va segnalata l’attenzione specifica che Bachelet porta al ruolo della giustizia amministrativa, anch’essa da ricondurre ai principi costituzionali. si arriva così al punto cruciale della sua opera scientifica e culturale – e indirettamente anche politica –, che giunge a maturazione proprio tra gli anni sessanta e settanta. così riassume Marongiu:25 “L’edificio dello stato di diritto, ereditato da una lunga tradizione dottrinale, si presentava, allora, come una costruzione dalla compattezza apparente, in realtà piena di crepe e contraddizioni. su questo edificio, del resto, si era esercitata la stessa ingegneria istituzionale del fascismo […]. Non solo bisognava mettere ordine e ricollegare fra loro quelle parti dell’ordinamento giuridico che erano andate discostandosi e divaricandosi, ma occorreva anche compiere quella operazione che la cultura giuridica italiana non sembrava in grado di compiere fino in fondo: rivisitare, cioè, gli istituti giuridici vecchi e nuovi alla luce dei principi della costituzione repubblicana per portarli a uno stato accettabile di coerenza”. Alla base di questa revisione radicale del sistema giuridico sta l’inserimento del principio democratico, che costituisce la novità del nuovo stato repubblicano in via di costruzione: è a partire da qui che si pone il problema di ridisegnare i diritti di libertà, rispetto a una visione autoritaria o comunque fortemente statalistica introdotta dal fascismo. si tratta di un lavoro complesso e difficile in quanto “egli doveva operare dall’interno del cosiddetto “metodo giuridico”, che sembrava costringere all’uso rigoroso di concetti giuridici generali prodotti, più che da una corretta e continua interpretazione dei principi dell’ordinamento via via rinnovantesi”. si trattava di misurarsi con un impianto dottrinario cristallizzato che affondava le sue radici in una “versione tendenzialmente illiberale dello stato liberale di diritto”. Per questo il senso del lavoro scientifico di Bachelet risulta particolarmente rilevante: elaborare un metodo che immette nei problemi reali dell’esperienza giuridica e, dunque, nei problemi che nascono e si formano nella vita concreta degli uomini comuni. “[...] far affluire verso i modi con i quali il diritto risolve i problemi della vita reale i valori ideali, i principi sui
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quali è fondata la convivenza civile di un popolo”.26 Per questo stesso criterio occorre che la trasformazione degli ordinamenti amministrativi si “sintonizzi” con la rapidità dell’evoluzione sociale. Nel contempo, Bachelet avverte anche lo “scarto” tra rapidità del cambiamento sociale e possibilità dello stato di “tenere il passo” o di riuscire a definire tutta la complessità; per questo il “fattore umano” e l’orientamento etico assumono un ruolo decisivo. così egli conclude un saggio particolarmente significativo per il tema e per la collocazione temporale, pubblicato nel 1967, alle soglie di una stagione di forte cambiamento: “la realtà è che gli stati contemporanei stanno subendo una profonda trasformazione e cercano di corrispondere, con tentativi faticosi, alle nuove esigenze […]. inoltre i rapporti tra singoli esseri umani, fra singoli uomini e corpi intermedi da una parte e i Poteri pubblici dall’altra, come pure i rapporti fra gli stessi Poteri pubblici nell’interno della compagine statale, presentano zone spesso così delicate e nevralgiche, che non sono suscettibili di essere disciplinate con quadri giuridici bene definiti. Per cui le persone investite di autorità per essere, nello stesso tempo, fedeli agli ordinamenti giuridici esistenti, considerati nei loro elementi e nella loro ispirazione di fondo, e aperti alle istanze che salgono dalla vita sociale; come pure per adeguare gli ordinamenti giuridici all’evolversi delle situazioni e risolvere nel modo migliore i sempre nuovi problemi, devono avere idee chiare sulla natura e l’ampiezza dei loro compiti; e devono essere persone di grande equilibrio e di spiccata dirittura morale, fornite di intuito pratico, per interpretare con rapidità e obiettivamente i casi concreti, e di volontà decisa e vigorosa per agire con tempestività ed efficacia”.27 in sostanza, questa coniugazione tra elaborazione giuridica, valori costituzionali e trasformazione sociale è l’orizzonte nel quale si muove l’intellettuale Bachelet, che anche su questo terreno opera per una mediazione storica di alto profilo, nella quale prima viene il “problema della vita”, come tensione o conflitto attorno a beni vitali, poi viene il “concetto”, utile a dare ordinamento e svolgimento alle libertà individuali e collettive.
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L’intellettuale alle prese con la politica: attuare la costituzione se il lavoro scientifico e culturale e l’impegno associativo sono in quanto tali forme esigenti dell’impegno per la polis che Bachelet sceglie con intensa continuità lungo tutti i suoi anni, egli sviluppa anche una specifica attenzione per la politica. un’attenzione che dagli anni della giovinezza lo accompagna fino alla morte. in questo senso Bachelet è emblematico di una generazione di cattolici che – forti della consapevole distinzione tra il piano religioso e quello civile – hanno colto e vissuto la valenza politica degli impegni culturale, professionale, educativo, famigliare e associativo, ma sono stati capaci anche di operare con coraggio nelle istituzioni pubbliche, spendendosi direttamente anche nell’ambito politico. Negli anni della sua prima formazione, l’aria che Vittorio Bachelet respira in famiglia e in associazione non lo spingono certo all’entusiasmo verso il fascismo, che pure negli anni trenta registra i sui più diffusi consensi, anzi “la sua naturale mitezza e l’impianto intellettuale già precocemente riflessivo nell’età della scuola superiore gli permettono una presa di distanza critica”.28 il suo interesse per la politica è un tratto comune a tutta la dirigenza cattolica maturata negli anni della guerra e del ritorno alla democrazia: per lui in particolare è parte integrante della formazione giovanile dagli anni della Fuci e si intreccia tanto con il versante professionale, quanto con quello associativo ed ecclesiale. se fino al 1976 egli non assume alcun ruolo politico diretto, la sua attenzione al “sociale” e in particolare ai temi del lavoro e dell’organizzazione amministrativa sono una costante: lungo gli anni cinquanta e sessanta si occupa da vicino di numerosi problemi politici, secondo quell’attitudine a privilegiare la riflessione politica sui temi più che sui rapporti e gli schieramenti partitici. La selezione dei suoi articoli, interventi e saggi prospetta un fulcro, cui si è già accennato: attuare la costituzione. È questa la base del suo “progetto politico”, che si sostanzia di alcune specifiche attenzioni: la formazione alla politica intesa come educazione al bene comune; il percorso di costruzione dell’europa e l’inserimento internazionale dell’italia; la funzione dei partiti per favorire il passaggio “dalle masse agli uomini”; la centralità della famiglia come “cellula di pace” per la costruzione personale e sociale; il ruolo decisivo della scuola e dell’uni-
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versità per superare le divisioni di classe e permettere ai meritevoli di giungere ai gradi alti del sapere, così da poter mettere a servizio della intera comunità le loro doti e competenze; l’adeguamento della giustizia, il suo “governo” in una società in trasformazione, i suoi rapporti con gli altri poteri. temi da cui si può individuare quasi un percorso che, a partire dalla riflessione sul ruolo dei cattolici nella vita sociale che matura negli anni della resistenza e della costituente, conduce al suo ultimo servizio, che sarà anche il motivo della sua morte, come vicepresidente del csM.
Bachelet svolge una funzione rilevante nel campo cattolico, anche se non hai mai assunto connotazioni di leader politico, collocandosi nel contesto del cattolicesimo democratico e antifascista, che gioca un ruolo importante nell’associazionismo religioso e in quel terreno cosiddetto “pre-politico”. Ma quale visione della politica sviluppa? in primo luogo – in quanto cattolico – egli si sente impegnato a servire lo stato; rosy Bindi, che gli fu accanto per diversi anni come assistente universitaria, così sintetizza la sua impostazione: “egli concepisce la politica come corresponsabile costruzione della città, in cui ognuno deve portare il contributo delle sue capacità in vista della costruzione di quel bene comune che rappresenta il fine relativamente ultimo della politica. Vi è infatti un modo diffuso di fare politica che non si limita alla partecipazione nei partiti e nelle istituzioni e che riguarda il competente esercizio di un mestiere o di una professione, che rappresenta in sé un alto valore politico”.29 Punto chiave della sua visione è la laicità della politica: anticipando le affermazioni del concilio, Bachelet evidenzia il valore della autonomia e separazione dei poteri; un valore per la società che ha potuto e saputo imboccare la via democratica, ma anche per la chiesa che ha potuto liberarsi dal temporalismo e svolgere con maggior libertà la missione che le è propria. tale autonomia non significa “separazione” o “indipendenza” del politico dal morale o dal religioso, ma implica una distinzione, in cui l’ispirazione spirituale e morale possono sostenere l’impegno e il giudizio; una
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La costruzione del bene comune ed il confronto col comunismo
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ispirazione ancor più necessaria di fronte alle violenze dei totalitarismi che – proponendosi come vere e proprie “religioni laiche” – hanno subordinato l’uomo allo stato, al sistema sociale, al nazionalismo; una violenza “psicologica e ideologica tale da diminuirne effettivamente la capacità di giudizio e di critica, e da lederne la libertà non solo giuridicamente, ma sostanzialmente, persino – in qualche modo – la libertà dello spirito”.30 in questo senso, Bachelet si muove negli anni cinquanta nell’alveo del tradizionale anticomunismo cattolico, evidenziando che la “questione religiosa” non può essere messa tra parentesi, come se si trattasse di un fatto marginale e non incidesse sul modo di intendere l’uomo e la sua libertà, il modo di concepire lo stato e i rapporti sociali. Nel contempo, però, egli sottolinea che occorra andare oltre la “polemica anticomunista” che ha condotto molti cattolici a trascurare i problemi reali posti dalla rivoluzione industriale e dalle trasformazioni sociali, riducendo la propria posizione alla “difesa” e al contrasto del progetto comunista: i cattolici, secondo Bachelet, non possono accontentarsi di tranquillizzare la propria coscienza, esprimendo la fedeltà al magistero della chiesa, né – all’opposto – possono semplicemente accettare in modo acritico quanto la cultura e la società vanno elaborando, quasi che il nuovo fosse automaticamente valido. superando il complesso d’inferiorità, i cattolici debbono invece accettare la propria scomoda posizione di “essere nel mondo ma non del mondo”, sentendosi parte della storia. Proprio il confronto col comunismo e la necessità di precisare le diverse posizione deve portare i cattolici “ad avvertire con maggior urgenza la necessità di una chiarezza più sicura di convinzioni, di una consapevolezza più viva delle proprie responsabilità storiche, del proprio dovere di attuazione concreta dei principi cristiani a servizio della carità e della giustizia”.31 Le coordinate della laicità cristiana in politica Questa impostazione – centrata su una visione integrale dell’uomo ma non integralistica della politica e sul principio democratico – supera quindi in modo definitivo la posizione dell’intransigentismo anti-liberale e anti-democratico che attraversa il cattolicesimo italiano dall’ottocento fino ai
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giorni nostri. Non a caso il riferimento politico principale è per Bachelet la scelta di de Gasperi di una democrazia politica e sociale, nella quale il senso dello stato e delle istituzioni si coniuga con le radici popolari dell’azione politica. i presupposti culturali di questa scelta sono la dottrina sociale cristiana e il personalismo francese, dalla cui combinazione Bachelet elabora quella “cultura della mediazione” tra valori e storia, che resta dagli anni settanta in avanti il riferimento decisivo per il cattolicesimo democratico. tale cultura politica è nutrita dall’attenzione a ciò che di nuovo emerge dalla storia, e animata dal senso di laicità insito in chi si assume responsabilità: è da questo terreno che emerge il senso del dialogo e del confronto aperto (che alcuni hanno malinteso come senso di debolezza), ossia dalla convinzione che “nell’impegno sociale e politico, le verità di fede che ispirano e sorreggono non possono essere applicate meccanicamente, ma esigono la paziente opera di tessitura dei veri costruttori della comunità degli uomini, che sanno così sfuggire a una duplice tentazione: quella di pensare che le verità eterne possano applicarsi quasi per necessità in ogni epoca storica, e quella di finire assimilati ai criteri mondani”. da questo modo di intendere la relazione tra fede e politica e quindi il rapporto tra il cristiano impegnato in politica e la sua ispirazione religiosa, discendono alcune conseguenze rilevanti a proposito del rapporto moralepolitica e del rapporto politica-storia. Anzitutto Bachelet ritiene che la politica, pur essendo per sua natura esercizio del potere, debba avere chiari riferimenti morali: anzi essa è legittimata pienamente “proprio dal fatto di essere animata dai più alti valori della coscienza morale dell’uomo” che tendono al bene comune. “La politica è lo strumento che dà ai popoli oppressi la speranza della liberazione, alle classi subalterne la convinzione di poter un giorno sottrarsi allo sfruttamento, a tutti i cittadini del mondo la promessa di un futuro più pacifico, più giusto e più umano: non c’è democrazia, non c’è vitalità politica, se le forze politiche non sanno farsi interpreti delle attese, delle speranze e delle angosce dei cittadini”.32 Questa laicità cristiana, se da un lato sollecita ciascuno a una assunzione di responsabilità storiche, si esercita anche rispetto al fine della politica e dello stato: “su questa terra non è possibile instaurare una ‘città della pace e della giustizia’ secondo molte utopie e ideologie che hanno
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pur troppo generato tante illusioni, con relative tragiche disillusioni. Per cui la politica deve realizzare il ‘bene reale e possibile’, cioè quel massimo relativo di valori compatibili con le condizioni storiche date [… ]”; il progetto politico di Bachelet si richiama ad un sano riformismo, caratterizzato non in senso utilitaristico e pragmatico, ma da un’alta coscienza dei doveri morali e dal rispetto dei fondamentali valori della persona umana” e in primo luogo dalla “consapevolezza delle proprie responsabilità nell’ambiente e nel momento storico in cui si è stati chiamati a vivere”.33 da ciò discendono alcune rilevanti conseguenze: in primo luogo la necessità di “educare al bene comune”, affinché gli uomini facciano proprio questo ideale, aiutando le persone a “impadronirsene con l’intelligenza e ad adeguarvi la formazione spirituale morale e tecnica”, il che richiede “aderenza ai principi immutabili” e “senso storico” capace di cogliere il modo in cui quei principi possono e debbono trovare applicazione concreta nel tempo in cui si vive.34 in secondo luogo, la politica ha una funzione di umanizzazione della convivenza, riconoscendo e promuovendo effettivamente il diritto di cittadinanza, così che tutti acquisiscano il senso dell’essere cittadini, dei diritti e doveri della cittadinanza, della corresponsabilità per la vita comune: senza questo la democrazia rischia di essere solo strumento formale e non sostanziale, e finisce per tornare sotto il controllo di elite o ceti privilegiati, mentre i cittadini più semplici tornano ad essere “massa” o “plebe”.35 Già negli anni settanta, Bachelet evidenzia questo rischio di una “democrazia apparente” e della minaccia che “omogenei raggruppamenti di interessi” possono costituire per la convivenza civile e per il futuro della democrazia stessa. da qui viene il ruolo chiave delle istituzioni chiamate a svolgere una funzione di sintesi tra formazioni politiche, società civile “plurale”, famiglie e individui, facendo leva sul “principio di sussidiarietà”, punto cardine della concezione politica di ispirazione cattolica.
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L’impegno per le istituzioni e delle istituzioni costituisce l’ultima fase del percorso umano e politico di Bachelet, stroncato a soli 54 anni, in un momento in cui la sua esperienza culturale e scientifica aveva raggiunto il livello di maturità e avrebbe potuto offrire ulteriori alti contributi alla vita sociale e religiosa del paese. il suo lavoro come vicepresidente del consiglio superiore della Magistratura è stato ampiamente riconosciuto da tutti, sia nel merito dei contenuti, sia nel metodo e nello stile della gestione di tale ufficio.36 esso inizia nel 1976, nel mezzo di una fase particolarmente critica per la società italiana e in modo particolare per il mondo cattolico. sul versante ecclesiale, la sconfitta del referendum sul divorzio ha espresso un punto di rottura e di non ritorno del rapporto tra chiesa e società italiana, manifestando anche la debolezza di una linea di scontro frontale che – se avrebbe potuto giovare alla dc – certo danneggia la presenza della chiesa nella società italiana. Prosegue il difficile rinnovamento dell’Aci, con una significativa ripresa nel mondo giovanile, ma si determinano nuove tensioni: da un lato con le diverse forme e aggregazioni dei cattolici del “dissenso”, dall’altro per la presenza combattiva di cL che critica apertamente la scelta religiosa e il cammino conciliare. sul versante politico la dc si affida al “volto pulito” del segretario Zaccagnini, sincero democratico, per risalire la china di una perdita di consensi e anche di stima, rispetto alla diffusione del sistema clientelare e alla fragilità culturale del partito di fronte alla trasformazione sociale. da tempo è venuto meno il collateralismo diretto con il mondo cattolico; anzi, esso esprime proprio in quegli anni notevole interesse per il nuovo corso politico impresso da Berlinguer al Pci, che non a caso accoglie per le elezioni del 1976 diversi cattolici, alcuni provenienti da una lunga militanza nell’associazionismo cattolico. in questo contesto, Bachelet continua a occuparsi degli aspetti ecclesiali e sociali (è tra i promotori del famoso convegno sui “mali di roma”, partecipa alla commissione preparatoria del primo convegno ecclesiale italiano dedicato a “evangelizzazione e promozione umana”), ma viene sollecitato a dare il proprio contributo alla presenza dei cattolici in politica e
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Il servizio al cSm negli anni di piombo
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al rinnovamento della dc. La prima proposta di una candidatura al Parlamento sfuma però rapidamente e accetta la sfida per il consiglio comunale di roma, in una tornata elettorale in cui tutte le previsioni prospettano una vittoria delle sinistre; una scelta di servizio, operata soprattutto come testimonianza di un modo di fare politica diverso da quella immoralità che si stava diffondendo. si impegna nella campagna elettorale in modo intenso, ma con uno stile che lascia stupiti anche gli avversari: si dimette dagli incarichi ecclesiali, gestisce la propaganda in modo molto sobrio e con i pochi mezzi raccolti attraverso una sottoscrizione tra gli amici (e che in larga parte restituisce dopo l’elezione), senza alcun sostegno clientelare. Pochi mesi dopo l’elezione al consiglio comunale di roma è però indicato come consigliere del csM.37 da poco riformato, l’organo di autogoverno della magistratura si prospetta fortemente diviso al suo interno, sia nella componente dei magistrati, sia tra i membri indicati dal Parlamento. il csM si trova alle prese con questioni molto delicate, riguardanti processi sugli episodi eversivi (in primis la strage di Piazza Fontana) e sul nascente terrorismo delle Br, in un contesto in cui si muovono apparati deviati dello stato e interessi occulti, ma anche rispetto alla drammatica lentezza della giustizia ordinaria e alla insostenibile situazione carceraria (segnata all’epoca da diverse rivolte). dopo la sua laboriosa elezione nel dicembre 1976, Bachelet si dedica anzitutto a costruire rapporti di conoscenza e di dialogo interni al csM, così da giungere il più possibile a soluzioni unitarie o comunque ampiamente condivise. come già nell’esperienza ecclesiale, gli viene rimproverato di non imporre una linea precostituita, a cui egli preferisce uno stile di ascolto e di paziente intreccio delle diverse posizioni, di rispetto delle regole democratiche.38 uno “stile” personale, ma che risponde anche a una contingenza particolarmente difficile, che lo stesso presidente della repubblica Pertini evidenzia al nuovo csM: alla lacerazione prodotta dal terrorismo e dalla conflittualità sociopolitica, si intreccia per l’organo di autogoverno della magistratura la serie di problemi specifici e di lunga durata che incidono sul lavoro ordinario e sul rapporto tra giudici-politica-società. Bachelet ne esprime una profonda consapevolezza, sia in riferimento alla riforma generale dell’ordinamento giudiziario prevista dalla costituzione (nella Vii disposizione transitoria),
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sia rispetto all’attuazione della legge delega relativa al nuovo codice di procedura penale. L’analisi della crisi della funzione giudiziaria svolta da Bachelet segnala sia le responsabilità proprie dei giudici, sia quelle del potere legislativo ed esecutivo, ed esprime il chiaro intento di difendere l’autonomia della magistratura e qualificare il ruolo dei giudici, indispensabile proprio in un tempo di fragilità democratica.39 come già nel campo ecclesiale, anche in quello sociale e giuridico egli guarda in prospettiva e inquadra i problemi nella dinamica più ampia: “c’è uno scarico di tensioni sociali sulla magistratura […] e c’è il rischio che, laddove le soluzioni non si riescano a trovare sul piano legislativo o politico, facciano norme un po’ ambigue in modo poi che se la sbrighi l’interprete, ossia il magistrato, nell’applicarle […] siamo, nonostante tutto, ancora abituati agli schemi di una società stabile, mentre siamo in una fase in cui ci troviamo a camminare su una ruota girevole […] c’è il rischio di uno scarica-barile tra magistrati, professori, ingegneri, politici […] mentre solo con un esercizio attivo e responsabile delle proprie funzioni, con attenzione alla realtà sottostante l’azione professionale che ciascuno svolge si può raggiungere l’obiettivo di mantenere la possibilità di camminare, in una società in così rapida trasformazione”.40 Nel mirino del terrorismo: il senso di un sacrificio Nel 1977 l’offensiva terroristica si accentua e si volge anche verso il mondo giudiziario (nell’aprile viene ucciso Fulvio croce, presidente dell’ordine degli avvocati piemontesi). il 1978 è segnato dall’attacco “al cuore dello stato” con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; a lui legato dalla frequentazione fin dai tempi della Fuci, Bachelet esprime la dolorosa posizione in difesa dei principi dello stato di diritto, convinto che occorra mantenere una linea salda rispetto al rischio di sfilacciamento dello stato e delle forze sociali. La morte di Moro rafforza in lui la necessità di una maggior autonomia del lavoro del csM, e di una riforma della giustizia che riesca a tener dietro alla “tumultuosa crescita della nostra società” con soluzioni non dettate dall’emozione del momento, ma coerenti con i carat-
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teri dello stato democratico. Per questo esprime la sua contrarietà alle invocate “leggi eccezionali” che a suo avviso – forzando i principi dello stato democratico – aprono contraddizioni ancora maggiori, proprio quelle su cui punta il terrorismo. in occasione della commemorazione di emilio Alessandrini, giudice ucciso da Prima Linea nel 1979, espone chiaramente questa giudizio: “il terrorismo non può accettare una alternativa alla guerra civile, alla lotta armata che fomenta da circa un decennio, incurante del mancato successo e dell’isolamento morale e politico in cui si trova. L’alternativa democratica è il principale obiettivo che esso si propone di distruggere, perché la democrazia è una continua smentita, una quotidiana condanna del modo di pensare e di agire dei terroristi […] la democrazia è invece patrimonio dei lavoratori che costituiscono il fondamento sociale e politico della costituzione, la democrazia è la vivente dimostrazione che la conflittualità degli interessi non esclude la loro composizione, nè la convivenza; la democrazia è conquista e vittoria quotidiana contro la sopraffazione, è difesa dei diritti faticosamente conquistati […]. L’altra strada, quella della lotta armata, ha già in sé il germe della dittatura da esercitare anzitutto sopra e contro le masse lavoratrici […]. che poi la strada della lotta armata possa essere momentaneamente interrotta da avventure reazionarie, è possibile incidente che non turba (seppur non è addirittura voluto) il terrorismo. La radicalizzazione della lotta è per esso meno pericolosa della democrazia, perché confermerebbe la linea di scontro e di guerra […] il terrorismo è nemico dei democratici, perché essi sono espressione di masse popolari che la democrazia l’hanno conquistata a caro prezzo e intendono consolidarla a renderla effettiva”.41 Pochi mesi dopo Bachelet diviene obiettivo di questo terrorismo, che non a caso ha mirato a molti cattolici democratici operanti nelle istituzioni, nella politica, nel mondo dell’informazione per la democrazia e per l’attuazione della costituzione. L’interpretazione di quell’ennesimo attentato omicida, sotto il profilo politico, è sostanzialmente unanime da parte dei diversi commentatori dell’epoca e regge alla prova del tempo: “hanno ucciso uno dei migliori. Ma forse lo hanno ucciso proprio per questo”;42 “la morte di Bachelet si inscrive nel disegno di eliminazione dei migliori, in modo che il gruppo dirigente del Paese appaia sempre più impoverito e pri-
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vato delle persone sulle quali non è lecito discutere”.43 La lettura del suo assassinio – proposta da quanti hanno condiviso più da vicino la sua vicenda religiosa e civile e la sua cultura democratica – rimanda al significato simbolico e spirituale della morte di Bachelet. scrive raffaele cananzi, anch’egli magistrato e presidente dell’Ac negli anni ottanta: “L’eversione terroristica seppe scegliere i suoi bersagli: Vittorio Bachelet per la sua profonda unità di vita, capace di sintesi tra ispirazione evangelica, valori umani e fedeltà alla costituzione rafforzava l’istituzione democratica del csM e con essa rafforzava la democrazia e la libertà dell’italia. contro questo buon costruttore della città dell’uomo, cristianamente ispirato, si scagliò la violenza terroristica; essa partiva dal luogo in cui più profondamente e responsabilmente si radicava nella tutela e garanzia della dignità dell’uomo, della libertà delle istituzioni e della volontà della giustizia”.44 “se ci chiediamo infatti perchè fu ucciso – sottolineano Bindi e Nepi – dovremo rispondere che egli fu vittima di quel terrorismo che nella sua perversione ebbe la lucidità di privarci degli uomini migliori, di quelli che erano capaci di rendere trasparenti ed efficienti quelle istituzioni che volevano distruggere, dovremo rispondere che fu vittima di un progetto politico che va oltre le Brigate rosse e che persegue, anche oggi, il disegno di privare il Paese della guida o comunque della presenza significativa dei cattolici democratici che in politica cercano il dialogo con tutte le altre culture; ma definitivamente dovremmo concludere che Bachelet è stato ucciso, in una logica cristiana, perché quando un popolo soffre c’è sempre il giusto che dà la vita”. una interpretazione che trova riscontro anche tra chi ha sviluppato una diversa opzione politica, pur provenendo dalla stesse radici, come Franco rodano45 o raniero La Valle: “la gente ha capito che l’ultima vittima delle Br era un uomo buono e pacifico, mite e umile di cuore, un uomo giusto nel senso pregnante in cui questo termine è usato nella Bibbia […] ha capito che questa volta c’era una perfetta corrispondenza tra la giustizia personale dell’uomo e la funzione pubblica di testimone ed emblema di giustizia […] ha capito che pur nella piena conformità alle istituzioni e alle leggi, la sua giustizia superava quella di una pura attuazione della legge”.46
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L’uccisione di Bachelet crea una profonda inquietudine, che coinvolge anche non pochi terroristi, tra cui una delle componenti del gruppo di fuoco, e che li porterà a una revisione radicale della propria posizione, in particolare dopo il contatto con padre Adolfo, fratello di Vittorio.47 Questa vicenda, successiva alla morte e alla preghiera di perdono espressa dal figlio Giovanni ai funerali, propone un insegnamento politico paradossale proprio nella morte, intesa come dono definitivo della sua vita per il paese. il card. Martini definì la morte di Bachelt un “martirio laico” perché ucciso non in nome della fede, ma di quei valori laici di libertà e democrazia, di giustizia e di pace che aveva servito, e che egli – da credente e da cittadino – considerava espressione laicamente autonoma e storicamente determinata dei valori evangelici. ciò sollecita una riflessione anche sul piano della ricerca storica che lavora su questa stagione tragica del terrorismo in italia: “solo una storiografia attenta ai valori dello spirito, quella che Giorgio La Pira soleva chiamare ‘la storiografia del profondo’ , è in grado di capire il significato e il ruolo che hanno giocato la morte e il martirio di Bachelet nella sconfitta morale del terrorismo , presupposto della sua delegittimazione politica, del suo isolamento militare-organizzativo, della consegna di molti terroristi alle leggi della giustizia, del fallimento della violenza terroristica come metodo di azione politica”.48
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1. i principali scritti di Vittorio Bachelet in campo giuridico sono stati raccolti nei seguenti volumi (segnalati in ordine cronologico, diversi dei quali postumi): V. Bachelet, L’attività di coordinamento nell’amministrazione pubblica dell’economia, Milano 1957; V. Bachelet, Disciplina militare e ordinamento giuridico statale, Milano 1962; V. Bachelet, La giustizia amministrativa nella costituzione italiana, Milano 1966; V. Bachelet, L’attività tecnica della Pubblica Amministrazione, Milano 1967; V. Bachelet, Scritti giuridici, Milano 1981; Il consiglio Superiore di Vittorio Bachelet, a cura di d. Nastro e G. conso, roma, 1981; V. Bachelet, L’amministrazione in cammino, Milano 1984; V. Bachelet, costituzione e Amministrazione. Scritti giuridici, a cura di G.Morongiu, c.riviello, roma 1992; Democrazia e Amministrazione. In ricordo di Vittorio Bachelet, a cura di G. Morongiu, c. riviello, Milano, Giuffrè, 1992. diverse le raccolte di scritti di carattere ecclesiale e associativo, tra cui: V. Bachelet, Rinnovare l’Azione cattolica per attuare il concilio, roma 1966; V. Bachelet, Il nuovo cammino dell’Azione cattolica, roma 1973; V. Bachelet, Discorsi (1964-1973), a cura di M. casella, roma 1980; V. Bachelet, gli ideali che non tramontano. Scritti giovanili, a cura di P.A. Bachelet, roma 1992; V. Bachelet, Il servizio è la gioia. Scritti associativi ed ecclesiali, a cura di M. casella, roma 1992: V. Bachelet, Scritti ecclesiali, a cura di M. truffelli, roma, AVe, 2005; V. Bachelet, Lettere (1964-1973), a cura di M.casella, roma, AVe, 2008. Alcuni testi di ambito politico sono raccolti in: V. Bachelet, Scritti pubblicati sulla rivista “civitas” 1950-1959, roma, 1982; V. Bachelet, La responsabilità della politica. Scritti politici, a cura di r. Bindi, P. Nepi, roma 1992; V. Bachelet, Scritti civili, a cura di Matteo truffelli, roma, AVe, 2005. tra i numerosi gli studi su Bachelet, si possono segnalare: AA.VV., Speciale Bachelet, in “responsabilità-Notizie” del 3 settembre 1980, n. 29; A. Bertani, Due testimoni: Franco costa e Vittorio Bachelet, in “humanitas”, a. 9 (1980), n. 5; G. conso, d. Nastro (a cura), Il consiglio Superiore di Vittorio Bachelet, roma 1981; G. Maggi, Bachelet, Vittorio, in F. traniello, G. campanini (direttori), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia (1860-1980), in I: I protagonisti, casale Monferrato 1981, pagg. 25-27; G. Martina, A. Monticone (a cura ), Vittorio Bachelet, roma, servire, 1981; AA.VV., Vittorio Bachelet, un cristiano per il mondo, roma 1982; AA.VV., La spiritualità dei laici. Riflessioni nel 2° anniversario della morte di Vittorio Bachelet (12 febbraio 1982), roma 1982; A. Monticone, Vittorio Bachelet: un itinerario, in id., La bisaccia del pellegrino, roma 1986, pagg. 101-116; A. Bachelet, Tornate ad essere uomini!, Milano 1989; AA.VV., gli anni della frattura e della riconciliazione. 1980-1990, A dieci anni dalla morte di Vittorio Bachelet, roma, 1990; L. diliberto, Amare le cose difficili. La testimonianza di Vittorio Bachelet, Milano 1992; A. Bertani, L. diliberto, Vittorio Bachelet. un uomo uscì a seminare, roma, AVe, 1994; V. rapetti (a cura di), Tra concilio e modernità. carretto e Bachelet testimoni di fede e laicità cristiana, roma, 2000; B. coccia, chiara Finocchietti (a cura di), Vittorio Bachelet: passione intellettuale e impegno civile, Pomezia, 2006; L. diliberto, G. Panozzo, Vittorio Bachelet testimone della speranza, roma, AVe, 2010. Per una bibliografia sull’Ac e il movimento cattolico in italia si veda e. Preziosi, Obbedienti in piedi. la vicenda dell’Azione cattolica in Italia, torino, sei, 1996; A. canavero, L’Azione cattolica nella storiografia italiana, in e. Preziosi, Storia dell’Azione cattolica. la presenza nella chiesa e nella società italiana, rubbettino, 2008. Per una ricostruzione delle vicende piemontesi: V. rapetti, Laici nella chiesa, cristiani nella società. Per una storia dell’Azione cattolica nelle chiese Locali del Piemonte e Valle d’Aosta, Acqui t., eiG, 2010.
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NOTE
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2. cfr. http://www2.azionecattolica.it/bachelet. 3. su questo aspetto della formazione giovanile e dell’impegno nei giornali dell’associazione “Azione Fucina” e “ricerca” cfr. G. Martina, A. Monticone (a cura di ), Vittorio Bachelet, roma, servire, 1981; pag. 168. 4. A.c. Moro, La testimonianza di Vittorio Bachelet, in AA.VV., gli anni della frattura e della riconciliazione (1980-1990), roma, AVe, 1990; pag.75. 5. in “ricerca” del 15 dicembre 1946; pag.2. 6. cfr. V. Bachelet, Amici di tutti, in “ricerca” del 1 agosto 1947; pag. 1. Nello stesso articolo espone con chiarezza il suo dissenso con un cristianesimo integralista e ‘armato’: “oggi è di moda l’integralesimo. umanesimo integrale, cristianesimo integrale, concezione integrale della vita. Non si vogliono più uomini a mille facce e mille atteggiamenti, si vogliono in sostanza uomini tutti di un pezzo, convinti fino in fondo delle loro idee, e capaci di tradurle in atto. e fin qui non possiamo che esser d’accordo. il guaio comincia quando dalle parole si passa ai fatti. Alla vita di tutti i giorni. succede allora, per esempio, che invece di essere il cristianesimo a regolare in pieno ogni atteggiamento della nostra vita, siamo noi che trasportiamo i nostri piccoli modi di vedere nella concezione stessa del cristianesimo e mentre siamo in buona fede convinti di attuare un cristianesimo integrale, non facciamo in realtà che deformare spesso paurosamente la stessa concezione cristiana”. 7. V. Bachelet, Dopo le elezioni, in “ricerca” del 1° maggio 1948; pag. 1. 8. cfr. ad es. G. Lazzati, Laicità e impegno cristiano nelle realtà temporali, roma, AVe, 1985; id. Pensare politicamente. Il tempo dell’azione politica. Dal centrismo al centrosinistra, roma, AVe, 1988. 9. Per questi dati vedi M. casella, L’azione cattolica nell’Italia contemporanea (1919-1969), roma, AVe, 1992; pag. 592 e ss.; Annuario dell’Azione cattolica Italiana, 1954, roma, 1955. 10. cfr. A. e P. Bachelet (a cura di), Vittorio Bachelet. gli ideali che non tramontano. gli scritti giovanili, roma, AVe, 1992; pag.10. 11. A. Monticone, Vittorio Bachelet segno di speranza per l’avvenire del nostro paese, Padova, 1981, ora in A. Bertani, L. diliberto, Vittorio Bachelet. un uomo uscì a seminare, roma, AVe, 2008; pagg. 147-159. 12. cfr. V. Bachelet, Professioni e classe dirigente, in “coscienza”, 1958, n.22-23. 13. cfr. e. Preziosi, Bachelet, uomo di pace, cit.; pag. 89-90. 14. Nel 1970 aderiscono all’Ac circa 1,5 milioni di persone, il 40% adulti. Nel 1980 i soci sono circa 640.000, con un forte calo, ma anche con un significativo sviluppo del settore giovani e dei ragazzi, che superano il 50% del totale. 15. Questo orientamento è chiaramente fondato sul documento conciliare “Apostolicam actuositatem” (decreto sull’apostolato dei laici n.20) e ben espresso dalla “premessa” al nuovo statuto scritta da Paolo Vi. 16. La “premessa” di Paolo Vi allo statuto, approvato “ad experimentum” ridà all’Aci piena legittimazione e ne indica la collocazione nel “disegno” della chiesa conciliare. A proposito di tale impostazione è importante notare che essa è stata accolta e ribadita tanto dai papi successivi quanto dai documenti dei vescovi italiani, ma nella effettiva prassi pastorale delle diocesi ha visto una accoglienza molto limitata, sia per la difficoltà di “governo” di una realtà variegata di associazioni e gruppi laicali, sia per la forte resistenza clericale alla promozione
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della responsabilità del laicato, specie di quello organizzato. 17. Atti della Assemblea nazionale dell’AcI, roma, 1971; pag.21. 18. V. Bachelet, Riscoprire che il servizio è la gioia, intervento conclusivo alla 2° assemblea nazionale unitaria di Aci del settembre 1973, in Atti della alla 2° assemblea nazionale di AcI, roma, 1974, pag.129. 19. si veda il dibattito sulla recezione del Vaticano ii; per un bilancio aggiornato sul piano teologico-pastorale cfr. G. routhier, Il concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica, Milano, VP, 2007; per una narrazione storica cfr. J.W. o’Malley, che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, VP, 2010. 20. cfr. A. Monticone e al., La generazione del concilio. Tra cronaca e storia (a cura di r. Bindi e A. Moscatelli), roma, AVe, 1986; pag. 18. 21. c. riviello, Servire lo Stato attuando la costituzione, in V. Bachelet, costituzione e Amministrazione. Scritti giuridici, a cura di G. Morongiu, c. riviello, roma 1992, pag.15. 22. una sintesi, anche in prospettiva storica, è chiaramente espressa in V. Bachelet, Evoluzione del ruolo e delle strutture della Pubblica Amministrazione, in AA.VV., Scritti in onore di costantino mortati, Milano, Giuffrè, 1977. 23. V. Bachelet, coordinamento, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1962, vol. X. sul modello dell’economia mista, che propone il superamento del liberismo classico e del collettivismo socialista (individuato come reazione violenta all’ingiustizia provocato dal sistema liberale) e sui rapporti tra amministrazione e gestione dell’economia vedi V. Bachelet, L’intervento dello stato nell’economia, in “rivista della Guardia di Finanza” roma, 1958; id. Legge, attività amministrativa e programmazione economica, in “Giurisprudenza costituzionale”, Milano, Giuffrè, 1961, n.3-4; ora in V. Bachelet, costituzione e Amministrazione. Scritti giuridici, a cura di G. Morongiu, c. riviello, roma 1992. 24. Strutture e garanzie dell’attività imprenditoriale dello Stato, in Scritti in memoria di A. giuffrè, Milano, 1967, in idem; pag. 99-101. 25. G. Marongiu, Sul pensiero di Vittorio Bachelet giurista: un profilo generale, in V. Bachelet, costituzione e Amministrazione, cit.; pagg. 5-11. 26. idem; pag. 8. 27. V. Bachelet, Strutture e garanzie dell’attività imprenditoriale dello Stato, cit. in V. Bachelet, costituzione e Amministrazione, cit.; pagg. 105-6. 28. e. Preziosi, Bachelet uomo di pace, in V. rapetti (a cura di), Tra concilio e modernità, roma, 2000; pag. 85. 29. V. Bachelet, La responsabilità della politica. Scritti politici, cit.; pagg. 5-6. 30. V. Bachelet, Presenza dei cattolici nella vita sociale, in Enciclopedia sociale, Alba, ed.Paoline, 1958; pag. 17. 31. idem; pag. 19. 32. V. Bachelet, Ritrovare una profonda ispirazione, in “coscienza”, 1976, n.2. 33. r. Bindi, P. Nepi, “introduzione” agli Scritti politici di Vittorio Bachelet, roma, AVe, 1992; pag. 12. 34. V. Bachelet, L’educazione al bene comune in Persona e bene comune nello Stato contemporaneo, Atti della XXXVi settimana sociale dei cattolici d’italia, roma, 1965, pag.219. in un passaggio assai significativo di questo testo Bachelet spiega tra l’altro che cosa debba intendere per
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Vittrio Rapetti, Vittorio Bachelet tra Concilio e conflitto
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“senso storico, di cui ha speciale bisogno il cristiano di oggi” vedi r. Bindi, P. Nepi, La responsabilità della politica, cit.; pagg. 48-49. 35. V. Bachelet, uomini e masse, in “civica, 1982, XXXiii; il testo riprende una riflessione già elaborata nel 1951 a conferma di una profonda continuità e attualità del pensiero di Bachelet. 36. si veda in particolare: Il consiglio Superiore di Vittorio Bachelet, roma, csM, 1981, 2000, con prefazione di sandro Pertini; AA.VV., L’insegnamento di Vittorio Bachelet vent’anni dopo: giustizia e garanzie nei rapporti con le istituzioni, roma, AVe, 2002, a cura dell’Associazione Vittorio Bachelet presso il csM, presieduta da Giovanni conso, con prefazione di c.A. ciampi. 37. Ai crocevia della città secolare, in A. Bertani, L. diliberto, Vittorio Bachelet. un uomo uscì a seminare, roma, AVe, 2008; pagg. 101-105. 38. A. Bertani, L. diliberto, Vittorio Bachelet. un uomo uscì a seminare, cit.; pag.114. 39. cfr. gli interventi svolti da Bachelet al csM: concordi per servire la giustizia (del 21.12.1976), L’ardua funzione della giustizia (13.7.1978), e Il consiglio Superiore dalla magistratura, intervista di A. de Feo su “il Mattino” del 20 luglio 1979. sull’attività di Bachelet al csM cfr. in particolare la prefazione di Pertini e i saggi di Mastropaolo, Ferri, casadei Monti Il consiglio Superiore, cit. 40. intervento di Bachelet a Napoli nel novembre 1979, riportato da G. conso, Ricordo di Vittorio Bachelet, in L’insegnamento di Vittorio Bachelet vent’anni dopo, cit.; pagg.19-20. 41. testo degli appunti per la commemorazione del giudice emilio Alessandrini, conservato presso il csM e riprodotto da F. Mastropaolo, Vittorio Bachelet vicepresidente del consiglio Superiore della magistratura, in G. Martina, A. Monticone, (a cura di), Vittorio Bachelet. Servire. roma, 1981; pag. 81. 42. c. cardia, un altro cattolico democratico, in “L’unità” del 13 febbraio 1980. 43. L. elia, Solo la fede può illuminare questa giornata, in “il Popolo” del 13 febbraio 1980; una rassegna essenziale dei primi commenti in A. Bertani, L. diliberto, Vittorio Bachelet. un uomo uscì a seminare, cit.; pagg. 11-22. 44. r. cananzi, Bachelet, un uomo e l’unità di vita, in “Appunti”, 1989, n.79; pag. 38. 45. “il vero motivo dell’eco vastissima di commozione e di singolare letizia suscitata dalle parole umili e spontanee di Giovanni Bachelet [sta nel fatto che] dinanzi alle spoglie del padre, egli, nel vivo della storia, è venuto rivestendo religiosamente la fede. ha detto, nel rispettoso riconoscimento della necessaria affermazione di tutte le istanze laiche e statuali, che oltre e non contro di esse vi può essere la letizia di fronte alla morte, nella speranza della risurrezione. rinnovando l’antico gesto di Paolo, cittadino romano, ha saputo presentare – nello spessore storico della sua vicenda e di quella di tutti – soltanto Gesù di Nazareth, crocifisso e risorto. e nei nostri cuori di laici è fiorita contemporaneamente un’altra speranza: quella che, forse si poteva finalmente cominciare a liberare la rivoluzione – come è indispensabile nell’occidente e insomma nei paesi capitalisticamente avanzati – da tutti i pesanti residui prettamente fideistici, di ogni possibile utopismo” in F. rodano, Logica laica fede e utopia, in “Paese sera” del 12 marzo 1980. rodano fa parte del nucleo di cattolici che fin dall’immediato dopoguerra fece una scelta politica alternativa, militando come indipendente nel Pci e sviluppando una profonda e originale ricerca culturale sul rapporto tra cattolicesimo e comunismo. 46. r. La Valle, capire la morte di Bachelet, in “Paese sera” del 16 febbraio 1980. 47. Padre Adolfo Bachelet si occuperà a lungo dei terroristi. tre anni dopo l’uccisione del fratello Vittorio riceve una lettera firmata da diciotto terroristi carcerati: “sappiamo che esiste
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la possibilità di invitarla qui nel nostro carcere. di tutto cuore, desideriamo che lei venga e vogliamo ascoltare le sue parole. ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante il funerale del padre. oggi quelle parole tornano a noi e ci riportano là, a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevocabile”. Padre Adolfo Bachelet va in quel carcere poi in altri, da Aosta a cagliari. Molti gli affidano lettere in cui chiedono perdono ai familiari degli uccisi. Fa da intermediario e assiste a degli incontri, in carcere e fuori. Questa straordinaria esperienza di relazione e di riconciliazione è riportata in A. Bachelet, Tornate a essere uomini!, Milano, rusconi, 1989. 48. r. Bindi, P. Nepi, Introduzione agli scritti politici, cit.; pag. 19.
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L’altra “terza forza” A proposito della destra radicale italiana negli anni settanta
Non mancano ricostruzioni delle vicende della destra radicale italiana negli anni settanta, ottime sul piano pubblicistico e in grado di soddisfare il lettore colto1; ma va detto che non esiste ancora un orientamento di studi ispirato ai criteri del metodo storico-critico, come non esistono indagini di archivio e indagini prosopografiche2 che abbiano “dissodato il terreno” fornendo mezzi per operare lavori di sintesi. Molti i motivi: il peso politico irrilevante dell’extraparlamentarismo di destra, rispetto al coevo extraparlamentarismo di sinistra; l’inesistenza di una rete culturale delle iniziative che, comunque, si sono ispirate ai temi della destra radicale; la scarsa per non dire nulla presenza di iniziative accademiche volte a chiarire le vicende storiche dei gruppi della destra radicale; il tramonto del senso stesso di molte questioni tipicamente legate all’epoca della “guerra fredda”. si potrebbe obiettare, naturalmente, che tematiche come quelle legate ai flussi migratori si possano ricondurre con qualche successo a problemi sollevati dalla destra radicale; l’obiezione sarebbe culturalmente corretta, ma storicamente infondata: la destra radicale italiana, nei suoi documenti programmatici, nella sua pubblicistica ha ben di rado sollevato questioni legate all’interpretazione razzista della storia (una sola variante di quest’ultima, l’antisemitismo – che sarebbe meglio chiamare “antiebraismo”– è presente, tuttavia, in alcune significative – e isolate – iniziative editoriali)3 ; né la critica della politica dello stato di israele nei territori occupati può essere considerata tout-court “antiebraismo”4 a meno che essa non sia legata a teorie cospirazionistiche.5 Gli attuali fenomeni di xenofobia hanno poco a che vedere con le tematiche vive nella destra radicale degli anni settanta.6 Quanto alla composita realtà culturale che si intravede, talora, dietro il grande apparato
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Francesco Ingravalle, L’altra “terza forza”
Francesco Ingravalle
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politico del centro-destra, essa ha molto a che vedere con il liberalismo conservatore tipico degli orientamenti del Partito repubblicano negli stati uniti d’America le cui basi nulla hanno a che fare con il radicalismo di destra. esistono, è vero, gruppi organizzati e politicamente non privi di peso politico che, tuttavia, professano un tradizionalismo cattolico proprio, negli anni settanta, di gruppi non particolarmente influenti nel contesto della destra radicale; c’è, per chi ama le analogie, un fenomeno analogo a quello dei “centri sociali” negli attuali gruppi che stanno dando vita al fenomeno di “casa Pound”, ma la linea di continuità ideologica con gli orientamenti degli anni settanta è difficilmente rintracciabile. Gli studi sulla destra radicale iniziarono a fiorire, sulla spinta della strage di Bologna e dell’emergere del fenomeno della lotta armata “nera”, proprio nel biennio 1981-‘82. Lavori che si dovettero muovere nel vuoto e che non poterono non riferirsi ai documenti istruttori come fonti primarie. Finita l’emergenza-terrorismo, conclusesi le inchieste con significativi “nulla di fatto”, per lo più circa i mandanti, anche grazie al persistere del segreto militare (vero ostacolo per gli inquirenti sin dagli inizi dell’inchiesta sulla strage di Milano del 12 dicembre 1969), dato che il radicalismo di destra era stato una presenza eversiva di incidenza e di radicamento sociale minore della lotta armata di estrema sinistra, l’urgenza di capirlo come fenomeno politico peculiarmente italiano si è ulteriormente attenuata, sovrastata dai fasti della “seconda repubblica” e dagli entusiasmi post-1989 sulla “fine della storia”. Perché parlarne oggi, ancora? Perché la storia degli anni settanta è stata opera di rimozione, sia a destra, sia a sinistra, con pochissime eccezioni. se è certo che una vita individuale normale non possa reggersi sulla rimozione, è per lo meno dubbio che la vita collettiva possa farlo senza pagarne un prezzo in definitiva molto alto. con il presente saggio, ovviamente, non si pretende di colmare alcuna lacuna; si vorrebbero suggerire soltanto alcuni spunti di riflessione e indicare alcune occasioni di ricerca. il contributo che vorrei dare non può essere per molte ragioni (la prima costituita dai limiti necessariamente vincolanti di un breve saggio) fondato su ricerche di archivio; esso dovrà limitarsi a essere un’ermeneutica di orientamenti politici in fondo ancora poco noti desunti da una documentazione necessariamente incompleta (e non soltanto per i limiti
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dell’autore) e certamente “perimetrata” da una visuale soggettiva (tipica di chi si è impegnato non poco soprattutto nelle lotte di quel tempo).7
L’inizio degli anni settanta è segnato da questo slogan che compare nel materiale propagandistico della “Giovane italia”, l’organizzazione giovanile del Msi, ed esprime efficacemente la posizione del neonato Movimento politico ordine nuovo8 e della morente “Giovane europa”.9 esso è il compendio “mobilitante” di uno dei testi che hanno maggiormente influito sulla gioventù della destra post-bellica italiana: Orientamenti, di Julius evola. A questo scritto bisogna rifarsi per comprendere le ragioni ideologiche dell’impegno politico della generazione appena uscita – sconfitta – dalla guerra, della generazione di coloro che erano nati durante la guerra e che avevano vissuto in prima persona la vicenda della contestazione studentesca e dell’“autunno caldo” e, infine, quella di coloro che si affacciarono alla militanza politica nei primi anni settanta del secolo scorso. Orientamenti può essere definito un “breviario per militanti”.10 esso innanzitutto definisce la posizione verso i tratti ideologici delle potenze dell’“Asse roma-tokyo-Berlino”: “era chiaro che stava prendendo forma uno schieramento di forze, rappresentante una sfida aperta alla civiltà ‘moderna’”,11 vale a dire una sfida antidemocratica e anticomunista. Questo “terzo luogo” politico tra democrazie liberali e comunismo è stato teorizzato, per la prima volta dagli scrittori della “rivoluzione conservatrice” e identificato con la Germania: thomas Mann nelle considerazioni di un impolitico (1918)12, ernst Nieckisch, ex dirigente socialdemocratico attivo nella repubblica dei consigli di Baviera, poi nazionalista “sociale”, infine oppositore al regime hitleriano e imprigionato fino al 1945 a dachau,13 l’economista e sociologo Werner sombart, nello scritto del 1915 mercanti ed eroi, Georg simmel negli scritti sulla guerra del 1914-1918,14 Max scheler nel genio della guerra (1915), oswald spengler in Prussianesimo e socialismo (1919)15 e molti altri.16 Quasi a una voce, tutti rivendicano la specificità tedesca e la configurano come specificità radicata in un ethos: lo spirito di servizio alla
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Francesco Ingravalle, L’altra “terza forza”
“Né Washington, né mosca”
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comunità nazionale al di là della contrapposizione di classe e al materialismo economico comuni tanto all’ideologia “manchesteriana”, quanto al marxismo. ovviamente, la lettura e delle posizioni dell’economia classica e di quelle di Marx, come di quelle di Kautsky e di Bernstein sono semplificative e distorcenti,17 ma esse rappresentano, comunque, una presa di posizione contro la democrazia liberale e contro il socialismo la cui rigidezza concettuale non si attenua nemmeno negli interpreti filologicamente più avvertiti (come il giurista del fascismo italiano carlo costamagna, autore, oltre che di una Dottina del fascismo risalente al 1941, di un volume pubblicato nel 1950 e intitolato che cos’è il comunismo).18 Non è questione di filologia in scritti di battaglia come quelli appena menzionati. da essi evola trae il modello della società “tradizionale” che egli contrappone alla società democratico-liberale e al modello collettivistico. egli astrae, per così dire, il modello dell’uomo che “dà una forma a sé stesso” dalle esperienze politiche degli imperi centrali assunte a forme ideali da vivere nella quotidianità: “noi […] non sopravvalutiamo la cultura. ciò che noi chiamiamo ‘visione del mondo’ non si basa sui libri; è una forma interna che può essere più precisa in una persona senza una particolare cultura che non in un ‘intellettuale’ e in uno scrittore”.19 Questa forma interna è icasticamente raffigurata attraverso lo spirito legionario la cui divisa è “fedeltà è più forte del fuoco”. dal punto di vista della scienza politica sviluppatasi nel filone del realismo machiavelliano, un simile punto di vista è impolitico – e anche dal punto di vista di una spassionata analisi dei meccanismi di potere del medioevo-latino cui evola si riferisce sovente come a un modello.20 Non soltanto si tratta di un punto di vista impolitico, ma che configura più un ordine ascetico che un movimento politico o un partito (nel senso fissato da Max Weber e da roberto Michels). conseguentemente, evola valorizza, nel fascismo e nel nazionalsocialismo, proprio ciò che non era la loro specificità, ma che, al contrario, poteva essere considerato come analogo a esperienze politiche ben più risalenti. 21 sicché il dirigente del Movimento politico ordine nuovo clemente Graziani poteva respingere nel 1973 l’accusa mossa a lui e agli altri dirigenti del movimento di avere “ricostituito il disciolto partito fascista”, proprio riferendosi all’interpretazione evoliana del fascismo.22
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Quanto alla politica del giorno dopo giorno, evola dava un’indicazione molto chiara, nel 1950: “di fronte al nostro radicalismo, in particolare, appare irrilevante l’antitesi fra ‘oriente’ rosso ed ‘occidente’ democratico […] a guardar solo all’immediato, sussiste di certo la scelta del male minore perché la vittoria militare dell’oriente implicherebbe la distruzione fisica immediata degli ultimi esponenti della resistenza. Ma in sede di idea, russia e Nord-America sono da considerarsi come due branche di una stessa tenaglia in via di stringersi definitivamente intorno all’europa”.23 un confronto con un classico dell’anticomunismo coevo, L’inevitabile disfatta del comunismo di James Burnham,24 permette di dire che l’anticomunismo nella lotta quotidiana è meramente tattico per evola. egli, infatti, non apprezza il “mondo libero” di cui si farà paladino il senatore Mac carthy e, in italia, il settimanale “il Borghese”,25 la cui casa editrice pubblicherà non pochi classici dell’anticomunismo. “Né Washington, né Mosca” era, dunque, lo slogan più confacente per chi era cresciuto in quella scuola di cultura politica che fu “ordine Nuovo”, slogan mutuato poi dalla gioventù missina per impulso della dirigenza ordinovista rientrata nel partito. Lo spettro della sovietizzazione dell’italia, l’anticomunismo, sono aspetti qualificanti, ma, come si vede, non esaustivi: si trattava di evitare il male minore. La cronaca di quegli anni ci dice che si tentò di farlo alimentando la spirale conflittuale con la sinistra rivoluzionaria e facendo tatticamente causa comune con qualsiasi forma di anticomunismo (dalla lotta dei marines contro i Viet-cong, al golpe dei colonnelli greci, a talune dittature latinoamericane, al regime razzista di Pretoria e della rhodesia). L’indicazione viene riassunta con chiarezza da Adriano romualdi in un intervento databile agli inizi degli anni settanta: occorre coinvolgere gli ambienti conservatori in formazioni comuni, radicalizzarne le tesi meramente difensive e trascinarli sulla strada della creazione dello “stato organico”, sull’esempio di quanto fatto in Germania agli inizi degli anni trenta dalla NsdAP e, con minore incisività, già dal fascismo italiano all’inizio degli anni Venti.26 di fatto, il Msi operò una graduale convergenza, dapprima con la “costituente di destra” (1975), poi con l’“eurodestra” ideate dal segretario del Partito Giorgio Almirante, con gli ambienti conservatori e anticomunisti europei; in questa convergenza
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Francesco Ingravalle, L’altra “terza forza”
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vanno ravvisate alcune delle radici ideologiche della linea politica di centro-destra creata successivamente da Gianfranco Fini. Ma c’era chi dissentiva…
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“Sprivatizzazione della proprietà privata e del diritto”: il male minore non è minore. La pubblicazione del piccolo libro intitolato La disintegrazione del sistema da parte di Franco Giorgio Freda, nel 1970,27 crea, almeno sul piano teorico, e sul piano tattico, un nuovo scenario. Non soltanto viene teorizzato un modello di stato assai vicino a quelli del “blocco sovietico”, ma viene raccomandata una tattica di alleanza con i gruppi della sinistra rivoluzionaria per l’eversione del sistema “capitalistico-borghese”. il modello politico proposto nelle pagine scritte da Freda consiste nell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, nella eliminazione della sfera privata del diritto, nella funzionalizzazione dell’istruzione pubblica a una economia di piano. Non mancano i precedenti nella variegata esperienza della “rivoluzione consevatrice” tedesca, al cui interno si formò una componente “nazional-bolscevica” di cui uno dei maggiori esponenti fu ernst Nieckisch e con il quale fu solidale ernst Jünger, al tempo della pubblicazione del volume intitolato L’Operaio (1932), la cui estrema diramazione fu il “Fronte nero” anti-hitleriano guidato da otto strasser; anche la proposta di una cooperazione con la sinistra rivoluzionaria per distruggere il sistema socio-politico capitalistico-borghese aveva il suo precedente nelle posizioni dello scrittore rivoluzionario-conservatore Arthur Moeller van den Brück, autore del volume Il Terzo Reich (1923) e, naturalmente, nel magmatico contesto dei nazional-bolscevichi degli anni Venti. Politicamente, tuttavia, la linea che aveva conquistato il potere era stata quella di hitler e di rosenberg, anglofila in politica estera e oggettivamente incline a fare dello stato il terreno ideale per proficui investimenti dei grandi monopoli tedeschi nei termini di un vero e proprio capitalismo di stato: la distruzione di tutte le organizzazioni della classe subalterna, la caratterizzazione in primis anticomunista del movimento di hitler e di rosenberg non lascia molti dubbi in merito.
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due linee d’azione sembrano opporsi: quella di una strumentalizzazione del conservatorismo (il cui presupposto era un forte e articolato partito rivoluzionario) per invertire la tendenza che, secondo ordinovisti e missini stava portando, nel biennio 1968-1969, a una “sovietizzazione” dell’italia (l’espressione è di clemente Graziani, nel 1969);28 quella di una strumentalizzazione dell’ondata libertaria che, nel medesimo biennio, ha attraversato l’università e le fabbriche coinvolgendo l’intera sfera pubblica italiana. Anche quest’ultima presupponeva la creazione di un gruppo politico sufficientemente forte da potere rendere credibile, nei fatti, la proposta di alleanza tattica. Forte; ma forte di che cosa, se non di una base sociale, per l’azione parlamentare, tutta da costruire? A chi si rivolgeva Freda? Ai gruppi dell’estrema destra, soprattutto a “ordine Nuovo” dal cui ambito venne un sostanziale rifiuto, in un volantino del 1970 firmato dal centro studi ordine nuovo, cioè dagli ordinovisti rientrati, nel 1969, nel Msi; del resto, nemmeno il neo-costituito Movimento politico ordine nuovo fece propria la linea proposta da Freda, nel concreto. Nel conflitto che ha opposto le forze della democrazia sociale, tanto nelle scuole, quanto nelle fabbriche, alle forze padronali, i militanti missini e i militanti ordinovisti non hanno preso posizioni di “lotta al sistema” se non sul piano ideologico e, anche qui, in casi piuttosto rari. esperienze di convergenza con le forze della democrazia sociale furono tentate da gruppi politicamente deboli e non poco contraddittori nella loro azione e non sempre trasparenti, come l’organizzazione Lotta di popolo, da componenti intellettuali, come il gruppo dell’orologio che muoveva da una posizione nazionalista dalla quale appoggiava il movimento dei paesi non-allineati in politica estera e il movimento studentesco e delle fabbriche in politica interna.29 serpeggia, tanto nella prima componente, quanto nella seconda, una interpretazione “complottistica” della storia, che ha il suo luogo di origine recente30 in un capitolo del volume evoliano gli uomini e le rovine (1953) dedicato alla “guerra occulta” e nella diffusione, dovuta alla casa editrice “Le rune” di Milano, nel 1961, del volume di emmanuel Malynski intitolato, appunto, La guerra occulta. un’interpretazione che mette capo alla famosa fantasia circa il ruolo preponderante di circoli segreti “ebraici” nello sviluppo della modernità – cioè, in termini evoliani, del progresso nella de-
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cadenza – e come chiave di volta per la comprensione degli effetti politici dell’economia capitalista. Questo ha portato i pur pochi seguaci della linea ispirata da Freda a ridurre la storia sociale europea dal 1789 in avanti a un intrigo nel quale è assente il ruolo dello sviluppo tecnologico, la dinamica delle classi sociali sarebbe prodotto di un “piano” in grado di orientare la storia mondiale; in altre parole: un’esegesi smisurata delle tesi contenute nel celebre falso pubblicato da s. Nilus I protocolli dei savi di Sion di cui, non a caso, le edizioni di Ar curano una ristampa nel 1971 e un’altra nel 1976. Le stesse prese di posizione in merito al conflitto israeliano-palestinese sono condotte da un’ottica che fonda la critica della politica estera dello stato di israele sull’antiebraismo. infatti, questa linea non riuscirà a creare un livello analitico socio-economico e si configurerà sempre di più come “testimonianza editoriale” sostanzialmente impolitica. Almeno nel senso che, paradossalmente, il libretto di Freda è stato letto, probabilmente, più nei contesti della sinistra rivoluzionaria, che non negli ambienti della destra radicale, soprattutto dopo che gli inquirenti sulla strage di Piazza Fontana orientarono le indagini dalla pista anarchica a quelle sulla “cellula neofascista” di Padova il cui animatore era stato individuato in Franco Giorgio Freda: sembrava una eco degli esiti della contro-inchiesta pubblicata dalla casa editrice samonà e savelli, nel 1970, e intitolata La strage di Stato.31 i militanti di base, intanto, sia missini, sia ordinovisti, stavano individuando i loro libri di formazione in Diario dal carcere scritto dal capo dell’omonimo movimento romeno, corneliu Zelea codreanu, tradotto nel 1970, e nella conferenza evoliana di inizio anni Quaranta, La dottrina aria di lotta e vittoria (1970), entrambi pubblicati dalle edizioni di Ar, la casa editrice fondata da Freda già nel 1963. due testi che ripropongono la centralità dello “spirito legionario” focalizzando l’attenzione del lettore sulla militanza politica e sulla guerra come esperienze interiori, come superamento del nemico interno, della paura della morte, del desiderio di comodità e sicurezza. il clima politico degli anni settanta fu un clima di guerra civile non dichiarata fra destra radicale e conservatori da un lato, sinistra radicale e progressisti dall’altro; una guerra civile che ha avuto numerosi morti. Per chi era stato educato allo spirito legionario dalla lettura di Orientamenti e si trovava non di rado, come i propri avversari politici, a rischio
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di morte e a rischio di incarcerazione, il problema della “forma interna” era prioritario, rispetto al problema della politica come lotta per il potere e all’uso politico dell’intelletto e dell’analisi. del tutto opposto l’atteggiamento di base degli avversari il cui approccio con la politica era in prima battuta analitico, strategico-tattico e in seconda battuta rivolto alla soggettività. Ne scaturivano due direzioni opposte che riassumo in modo “idealtipico”: la politica come “realizzazione eroica” (e la formazione della gerarchia politica sulla base del fascino, del carisma che la realizzazione eroica comporta) e la politica come conseguimento di obiettivi politico-sociali (l’eroe del proletariato si realizza interamente nello scontro sociale e nella dimensione organizzativa della politica che cerca di dirigere lo scontro sociale). Nel 1973 il Movimento politico ordine nuovo viene messo fuori legge; nel 1976 viene messa fuori legge un’altra organizzazione importante, ma meno legata a un uso politico della cultura, Avanguardia nazionale (nata nel 1959, rifondata nel 1970, dopo un periodo di latenza tra il 1965 e il 1969). Nel Msi si sviluppa la corrente rautiana, proprio nel momento in cui il partito sviluppa un orientamento prevalentemente anticomunista e liberalconservatore grazie all’iniziativa di Armando Plebe autore di vari pamphlets tra cui Quel che non ha capito marx (edito da rusconi nel 1972) e Il libretto della Destra (edizioni del Borghese, 1972). Ma gli ambienti giovanili missini sono con rauti e con l’intellettuale giovane di punta, Marco tarchi. Le sezioni missine si dotano di uno strumento caratteristico del modus operandi ordinovista, il “centro librario”. Per questa via, opere conformi alla linea “né Washington, né Mosca” alimentano la formazione di un’opinione giovanile in contrasto sempre più duro con i contenuti della linea politica di Almirante. il mito dell’europa-nazione, alimentato da Adriano romualdi con scritti quali La destra e la crisi del nazionalismo (pubblicato nel 1973), assurge al livello di mito di una terza forza tra modello comunista e modello capitalista; un libretto di rutilio sermonti, originariamente pubblicato nei “Quaderni di ordine Nuovo” nel 1964 viene ripubblicato dalle edizioni europa – la casa editrice legata a Pino rauti – intitolato Valori corporativi indica nel modello dell’economia fascista un modello euristicamente fecondo per ripensare l’economia politica oltre Adam smith e Karl Marx, una rivista intitolata “Presenza” si occupa di problemi
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della pubblica amministrazione e di politica della ricerca scientifica; ma sia essa, sia la rivista di politica culturale “civiltà” (continuazione ideale del periodico “ordine Nuovo”, organo del centro studi negli anni sessanta) cessano le pubblicazioni nel 1974; nel 1976 nascono i Gruppi di ricerca ecologica per iniziativa di Alessandro di Pietro: le edizioni europa pubblicano un volume sul dissesto ecologico dell’italia – continuazione ideale di alcuni reportages giornalistici pubblicati, alla metà degli anni sessanta nella testata del centro studi ordine nuovo (testata il cui nome era “Noi europa”). Viene pubblicato, dapprima in forma di supplemento bibliografico al periodico underground “La voce della fogna”, poi in veste autonoma, il periodico “diorama Letterario”, raccolta di recensioni di libri interessanti per la battaglia contro l’ugualitarismo. contro l’ugualitarismo, per la gerarchia autentica: questa è la cifra evidente della pubblicistica giovanile missina di quegli anni, direttamente desunta dal pensiero di evola e da quanto romualdi scriveva nel 1973: occorre mobilitare tutte le forze intellettuali contro il mito dell’uguaglianza, in nome della “equa diseguaglianza qualitativa”: anche gli esiti della biologia del comportamento sviluppata da Konrad Lorenz, la critica dello storicismo. si potrebbe dire: la Distruzione della ragione di Lukàcs con il segno invertito. Non è difficile cogliere in romualdi lo sguardo sicuro di chi pensa a una politica culturale senza esitazioni e con grande capacità di discriminare ciò che è utile e ciò che è dannoso a ciascuna fase della lotta politica. sguardo sicuro che non ha corrispettivi nel partito. La stessa sicurezza, nella caotica situazione del movimento del 1977, mostra tarchi nel delineare in più di un editoriale, in “diorama Letterario”, le linee per una politica culturale del partito. La base giovanile era manifestamente fiduciosa in una futura segreteria tarchi per il Fronte della Gioventù (denominazione dell’organizzazione giovanile missina dopo il 1971); per imposizione unilaterale (ma conforme al regolamento del partito) della segreteria Almirante, invece, il nuovo segretario del Fronte della Gioventù fu Gianfranco Fini. chiara era la sconfitta della linea politica di rauti e chiara era anche la contrapposizione fra una base giovanile sempre più ribelle e un apparato di partito sempre più conservatore. chi scorresse il tono di articoli pubblicati nei molti (ed effimeri) fogli giovanili potrebbe constatare
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la sostanziale rottura con il partito, l’ormai scarso richiamo del nostalgicismo fascista, l’influsso decisivo della linea di riflessione per l’azione sviluppata da evola, la critica, talora molto aspra nei confronti della generazione dei trentacinque-quarantenni e delle organizzazioni storiche del neofascismo italiano. una critica certamente stimolata anche dai riflessi del movimento del 1977 a sinistra e dalla sua portata non più semplicemente critica delle istituzioni, ma nettamente anti-istituzionale, e quindi ostile alla realtà strutturata del partito e più attratta dalla magmaticità del movimento. Questo, nel contesto della sinistra rivoluzionaria di estrazione operaista aveva una logica ben precisa: una ripresa del “consiliarismo” (più o meno volontaria) abbastanza chiara per chi guarda dall’esterno lo sviluppo di Autonomia operaia e delle riflessioni di toni Negri come linea di sviluppo delle richieste sessantottesche di maggiore democrazia nella fabbrica e nella scuola. A destra, la destrutturazione delle vecchie organizzazioni extraparlamentari e la perdita di credibilità rivoluzionaria della corrente rautiana all’interno del Msi provocarono un innesto dello “spirito legionario” nella realtà del “movimentismo” caratteristico della fuoriuscita graduale di forze giovanili dal partito e, su un piano più strettamente teorico, la ripresa delle opzioni lanciate da Freda nel fortunato libretto del 1969. “Né fronte rosso, né reazione”: dopo l’annientamento delle organizzazioni storiche L’organizzazione politica dotata di maggiore consistenza della seconda metà degli anni settanta è stato il movimento “terza Posizione”, fondato nel 1978. Quello che emerge dalla lettura dei numeri dell’omonimo giornale è innanzitutto un rifiuto etico dell’“orizzonte materialistico e utilitaristico della società capitalistico-borghese”; essa va ricondotta al’intima adesione, da parte dei militanti, al modello comportamentale legionario; ne deriva un’insistenza costante sulla necessità per i militanti, di essere d’esempio per il “popolo”, e per i dirigenti del movimento, di essere d’esempio per i militanti, secondo uno schema comportamentale che richiama da vicino le raccomandazioni di codreanu nel Libretto del capo di cuib. il “po-
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polo” è una costruzione tributaria non tanto del modello romantico: piuttosto, si tratta di una elaborazione dei tratti, delineati da evola in Sintesi di dottrina della razza, dell’uomo “ario-romano”; come già in evola, non si tratta di razza nel senso fisico-antropologico, quanto di carattere psicologico ritenuto comune a un certo numero di soggetti ancora non guastati dai lussi del mercato e dalle mode intellettuali. così concepito, il popolo è effettivamente la riserva da dove può formarsi l’aristocrazia politica (la classe politica, diremmo), secondo un modello che ricorda abbastanza da vicino quello paretiano della “circolazione delle élites”. il capitalismo viene veduto come un insieme di dispositivi che riducono i diversi caratteri dei diversi popoli a un individuo apolide, semplice produttore e consumatore, privo di qualsiasi spinta verso obiettivi non economici. sul piano tattico il gruppo si professa favorevole a un fronte unico anticapitalistico; il che non impedisce che in una relativamente recente ricostruzione dovuta proprio a Gabriele Adinolfi e a roberto Fiore, sia messo in primo piano lo scontro con gli esponenti della sinistra rivoluzionaria. infatti, gli anni settanta avevano scavato un fossato incolmabile fra giovani di opposte tendenze, facendo loro percorrere vicende in qualche modo analoghe a quelle della guerra civile del 1943-1945: un fronte unico era un’esigenza meramente teorica, stante anche il diverso modo di criticare il capitalismo. dietro l’anticapitalismo di terza posizione (e di Freda, di ordine Nuovo, di evola) c’è quello che Lenin ha chiamato l’“anticapitalismo romantico” di cui un ottimo esempio si può trovare negli Elemente der Staatskunst (1808) del teorico reazionario Adam Müller, il primo a sostenere il carattere organico del rapporto fra individuo e collettività, deciso nemico dell’individualismo utilitarista e deciso avversario della teoria liberistica dell’economia elaborata da Adam smith. un anticapitalismo che non ha molto a che vedere con la critica dell’economia politica elaborata da Marx, e ancor meno con gli sviluppi che ne ha dato l’operaismo italiano degli anni settanta. il rifiuto del progresso in quanto tale, in nome dell’autorità del “ieri” – affermavano i critici maliziosi – o dell’eterno – dicevano i sostenitori delle vedute proprie di Müller – tracciava una linea di confine non oltrepassabile. La realtà militante di terza posizione fu sostanzialmente diversa da
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quella di ordine nuovo e di altri movimenti della prima metà degli anni settanta. A Palmarola, nel dicembre del 1979 militanti del movimento offrirono gratuitamente la collaborazione agli abitanti per costruire case (abusive) e mettendo le proprie forze a disposizione per i lavori in campagna, secondo un modello esplicitamente teorizzato del Libretto del capo di cuib, una versione particolare di “andare verso il popolo”.32 Non secondario sarà, inoltre, il riferimento ai Montoneros come forza importante della lotta contro l’imperialismo statunitense in America Latina. si configurava, così, il mito della cultura contadina contro l’industrialismo, il mito di una cultura “normale” perché ancorata “alla natura, al sole, agli astri, ai fenomeni atmosferici”, omogenea, depositaria di valori positivi permanenti. i tratti di base rinviano non soltanto al principio della lotta delle campagne contro la città sviluppato a suo tempo da Mao-tse-tung, ma alla sua coincidenza con la critica delle metropoli avanzata da oswald spengler nel Tramonto dell’Occidente e con l’ideologia formulata dal gerarca nazionalsocialista richard Walter darré nel volume La nuova nobiltà di sangue e di suolo pubblicato dalle edizioni di Ar nel 1979. Freda stesso, nelle Due lettere controcorrente pubblicate nel 1972 dichiarava la propria simpatia dottrinaria per la cina della “rivoluzione culturale”, all’incirca nello stesso momento in cui il temporaneo 33 ideologo della destra parlamentare, Armando Plebe, vi vedeva una delle massime aberrazioni del marxismo.34 Non dispiaceva di certo nel contesto culturale di terza posizione, il rude richiamo maoista agli intellettuali a servire il popolo ‘con la vanga e con il fucile’; era un discorso, questo, assai famigliare, anche perché ben presente nei Discorsi agli intellettuali del capo delle croci Frecciate ungheresi Ferenc szalasi, pubblicati proprio nel 1979 dalle edizioni di Ar; era un discorso ampiamente sviluppato nell’ambito della Guardia di Ferro romena. La difesa delle specificità di ciascun popolo dal rullo compressore dell’ ideologia liberaldemocratica e di quella marxista intese come strumenti diversi di oppressione culturale, oltre che politica, configurano un quadro sufficientemente chiaro dei motivi che impedirono alla magistratura inquirente di accusare terza posizione di “ricostituzione del disciolto partito fascista”; un’accusa che il tempo aveva reso plausibile per ordine nuovo si trovava a essere, ora, improponibile per la natura stessa del movimento.
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Nel frattempo, era scattata l’“operazione 7 aprile” con la quale la magistratura inquirente di Padova aveva decapitato i vertici e i “quadi intermedi” del movimento di estrema sinistra Autonomia operaia. 7 aprile 1979; poco più di un anno dopo, la magistratura inquirente di Bologna e, poi, anche quella di roma emettono mandati di cattura che portano all’annientamento di terza posizione. Mandati di cattura in merito alle azioni di un gruppo di lotta armata di estrema destra, i Nuclei armati rivoluzionari e alla ricerca dei responsabili dell’attentato dinamitardo alla stazione ferroviaria di Bologna.
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La fine di un’epoca: 23 settembre 1980 La sigla NAr compare a firma di un certo numero di azioni “di commando” a partire dal 1979. La genealogia dei NAr è stata ricostruita con precisione:35 dall’ambiente creatosi nella sezione del FuAN di via siena, a roma, un ambiente assolutamente insofferente di ogni forma di disciplina organizzativa, ma permeato dal mito dello spirito legionario, della realizzazione esistenziale attraverso l’azione, cioè dalla “metafisica della guerra”. un ambiente nel quale ci sono soltanto “esempi”. con una percezione chiara del nesso che unisce organizzazione e gerarchia vengono create le azioni in base al volontarismo più completo, senza alcuna strategia. Viene reputato più urgente di qualsiasi altra questione il dare esempi a un ambiente che si va perdendo nella routine di partito, nell’intellettualismo ‘tradizionalistico’. “ogni gruppo fascista armato che si formi anche occasionalmente per una sola azione può usare la sigla NAr” dice Fioravanti.36 due osservazioni vanno fatte: Fioravanti qualifica come “fascista” il contesto di cui sta parlando, che è il suo contesto. e certo, se si pensa al primo fascismo, al peso che vi ebbero gli Arditi di Guerra e la loro mitologia della vita come sfida continua alla morte (il teschio con il pugnale fra i denti è un simbolo degli Arditi di Guerra, prima di essere un simbolo fascista), i NAr furono un fenomeno “fascista”. Ma è proprio all’arditismo che evola si riferisce in varie occasioni per indicare una delle più importanti componenti positive del fascismo come fenomeno storico; e la stessa
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Dottrina aria di lotta e vittoria è, in fondo, una “metafisica dell’arditismo”. dunque, anche se tra l’ambiente in cui matura l’esperienza dei NAr e quello in cui matura l’esperienza di terza posizione non c’è un terreno culturale direttamente comune, la comunanza indiretta balza agli occhi non appena si guardi con attenzione ai dati storici. La comunanza indiretta spiega perché i nar costituirono un modello attraente per tutti coloro che non vedevano sufficientemente realizzato lo spirito legionario nella politica quotidiana (che, concepita weberianamente, richiede sapere e metodo, ed è più affine all’attività burocratico-amministrativa che non alla pratica del guerriero) e perché vi sia stata contiguità, come le inchieste hanno mostrato, fra le due esperienze, con rilevanti passaggi dalla milizia politica alla lotta armata. Va aggiunto all’insieme di queste considerazioni che sia terza posizione, sia i NAr sono stati movimenti guidati da dirigenti giovani; quasi senza eccezione, tra dirigenti e militanti, nessuno superava i ventotto anni: fattore, questo, che contribuì a rafforzare l’atteggiamento di critica nei confronti della “vecchia generazione” neofascista. dato il rifiuto dell’organizzazione, non stupisce che le azioni dei NAr non seguissero una strategia nel senso codificato dalla più influente tradizione di pensiero militare in occidente (da clausewitz a Lenin) proponendosi, invece, di perseguire la “realizzazione eroica” e ritenendo, con un passaggio – implicito – di tipo bakuninista, che l’esempio avesse un potere aggregante. Non a caso Fioravanti afferma che occorrerà “cambiare il sentimento della paura, della paura della morte, della perdita della libertà”.37 si tratta, nei termini della Dottrina aria di lotta e vittoria, di combattere la “Grande Guerra santa” di cui parla la tradizione islamica. Ne deriva che ogni atto comportante il pericolo di morte fosse in grado di innescare il processo capace di aprire la strada all’“uomo nuovo” e che i bersagli fossero scelti senza alcun tipo di progettualità (al contrario di quanto accadeva per le azioni delle Brigate rosse),38 anche se in un certo numero di casi, e lo si è notato,39 come meri simboli del sistema politico avverso. Molto difficilmente si potrebbe parlare di azioni armate politiche nel senso della tradizione ispirata dal marxismo-leninismo; i NAr non avevano una controparte con la quale negoziare, ma soltanto delle occasioni di “realizzazione eroica” in un quadro che si potrebbe definire di “soggettivizza-
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zione della dimensione militare dello scontro politico”: ciò che domina in essa è il senso che l’azione militare ha per lui (come singolo o come componente di un gruppo), non il senso oggettivo di essa in rapporto alla conquista di posizioni strategicamente rilevanti per la vittoria. L’inchiesta sulla strage di Bologna porta in carcere o obbliga alla latitanza numerosi attori politici di una breve iniziativa coeva, quella del giornale “costruiamo l’Azione”; l’inchiesta del 23 settembre 1980 porta all’incarcerazione o alla latitanza della maggioranza del quadri dirigenti, dei quadri intermedi e di molti militanti di terza posizione. È la fine di un percorso iniziato con la messa fuori legge delle organizzazioni storiche della destra radicale italiana e con il cammino esplorativo di una via alternativa rispetto a quelle seguite da esse. “ordine Nuovo”, nella sua lunga storia (da corrente interna al Msi dal 1953 al 1955, a centro studi esterno al Partito, dal 1956 al 1969, a movimento politico, dal 1969 al 1973) ha sostanzialmente seguito la linea della “difesa dell’occidente” cercando di individuare in quest’ultimo le forze meno inclini a dialogare con il Partito comunista italiano e occhieggiando chiaramente all’ipotesi di un colpo di stato militare (politicamente fondata o meno che questa ipotesi tattica fosse) “alla greca” (almeno nel senso di “gradito alla classe politica repubblicana di Washington”). discutibile o meno che fosse, nel contesto della destra radicale, questa ipotesi aveva un chiaro nemico, un amico più che probabile e una linea di intervento chiara. che, poi, gli usA abbiano preferito, com’è evidente dai fatti, appoggiare il colpo di stato in cile, è cosa che nessuno dei dirigenti ordinovisti, all’epoca, poteva prevedere. L’ordine di scioglimento da parte del Ministero degli interni sancirà, in certo qual modo, la fine dell’ipotesi operativa evoliana annunciata in Orientamenti e sviluppata in gli uomini e le rovine. L’ipotesi di Freda, come si è visto, urtava contro il persistere dell’antifascismo come elemento fondante dell’esperienza politica dell’italia repubblicana: un fronte unito anticapitalista era escluso. Alla metà degli anni settanta l’unica indicazione tattica era quella di una immersione nel sociale, del portare lo “spirito legionario” nella società seguendo il modello della “Guardia di Ferro” romena, per scuotere dalle fondamenta l’ordinamento politico. Le misure repressive iniziate il 23 set-
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tembre 1980 faranno tabula rasa di questa indicazione. L’inizio del riflusso politico, della delusione per la politica, la fine, nel 1989, del mondo di Yalta e lo sviluppo dei flussi migratori cambieranno completamente i termini dei problemi politici cancellando parole d’ordine e ponendo le questioni in termini nuovi… al di là della destra e della sinistra in nome di una telecrazia poco rassicurante. Nel mondo “bipolare” operava una logica a tre valori: chi in un modo o nell’altro si riconosceva, più o meno criticamente nel “modello statunitense”, chi si riconosceva, magari obtorto collo, nel modello sovietico e chi voleva operare per il superamento del bipolarismo verso modelli di reale democrazia o verso modelli di “stato organico”. Nel mondo multipolare, nel mondo delle “unioni regionali” e del “diritto amministrativo globale”, dei problemi di governance globale dell’economia e degli stati “multietnici” la logica del politico si è complicata al punto che le vecchie categorie di “destra” e “sinistra” si sono dovute ridefinire in un processo ben lontano dall’essersi concluso, ma che già da ora sembra condurre a una nuova contrapposizione fra identitarismo e cosmopolitismo che in nessun modo possono essere visti come radicalizzazioni delle posizioni di “centro-destra” e di “centro-sinistra”. una contrapposizione, quella tra identitarismo e cosmolpolitismo, che, decisamente, non ha nulla a che vedere con le antitesi di oltre trent’anni fa.
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NOTE 1. cfr. A. streccioni, A destra della Destra, roma, il settimo sigillo, 2000; N. rao, La fiamma e la celtica, Milano, sperling & Kupfer editori, 2006. il momento aurorale della ricerca in merito è senza dubbio il volume di AA. VV. curato da F. Ferraresi, La Destra radicale, Milano, Feltrinelli, 1984. Per una bibliografia fino al 2000 cfr. A. streccioni, A destra, cit.; pagg. 225-228 e N. rao, La fiamma, cit.; pagg. 381-391. 2. si veda, invece, il “Progetto Memoria” avviato dalla casa editrice sensibili alle Foglie alla metà degli anni Novanta dedicato alle organizzazioni clandestine della sinistra rivoluzionaria degli anni settanta. Per quanto riguarda le organizzazioni extraparlamentari, per le maggiori disponiamo, ormai, di strumenti orientativi notevoli, dalla Storia di Lotta continua di Luigi Bobbio alla ricostruzione della storia di Potere operaio e della successiva Autonomia operaia, ma sostanzialmente analoghi ai lavori sull’estremismo di destra. interviste e memorialistica sono, come più volte sottolineato dai teorici della storiografia, soltanto alcune delle fonti; come osserva s. Luzzatto il quale afferma che è un grave errore “confondere la memoria con la storia”, confusione che viene in primo piano quando si scambia una “fonte di informazione” (secondo il comune linguaggio giornalistico) per una fonte di verità, cioè si scambia il testimone giocoforza attendibile di quegli stessi eventi, e si assumono i ricordi del suo vissuto di allora come criteri-guida della nostra interpretazione di oggi.” cfr. s. Luzzatto, Premessa a id. (a cura di), Prima lezione di metodo storico, roma-Bari, Laterza, 2010; pag. 10. 3. Questo è il caso delle edizioni di Ar e delle edizioni all’insegna del Veltro. 4. infatti, l’ampia saggistica edita da case editrici della sinistra rivoluzionaria come la savelli e la Bertani critica il sionismo come nazionalismo neoimperialistico, come aspetto di un fenomeno socio-economico determinato e riguardante una determinata area geopolitica. 5. come nel caso del numero speciale di “defense de L’occident”, contenente contributi di M. Bardéche, F. duprat e P. rassinier, tradotto in italiano con il titolo L’aggressione sionista, Padova, edizioni di Ar, 1971, nel quale l’analisi politica è attraversata sovente da venature cospirazionistiche. 6. il che non significa, naturalmente, che in organizzazioni che vorrebbero, di fronte ai flussi migratori, adottare soluzioni del tipo dell’apartheid o del rimpatrio non abbiano, al loro interno personalità legate già legate alle vicende degli anni settanta; un esempio è il “Fronte Nazionale” fondato da Franco Giorgio Freda nel 1990 e sottoposto a procedimento giudiziario in base alla cosiddetta “legge Mancino”; Freda, come vedremo – e com’è noto – è stato una delle figure più importanti della destra radicale degli anni settanta. Peraltro teorie dell’identità politica basata sull’identità etnica non sono “xenofobe”, né necessariamente sfociano in incitazioni all’odio razziale; cfr. su questo problema F. ingravalle, L’automa della legge, Padova, edizioni di Ar, 1999. i documenti del “Fronte Nazionale” sono stati pubblicati nel volume I lupi azzurri, Padova, edizioni di Ar, 2002; gli interrogatori di maggiore rilievo ideologico si possono leggere nel volume L’albero e le radici, Padova, edizioni di Ar, 1999. 7. cfr. in merito F. Ferraresi (a cura di) La Destra, cit.; pagg. 47-49, 51-52, 111-113, 183-184; F. ingravalle, Pour une analyse du mouvement Revolutionnaire en Italie, in “totalité”, ii, n. 10, Novembre-decembre 1979; pagg. 35 ss. 8. una ricostruzione organica della vicenda di ordine Nuovo manca, anche se cenni narra-
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tivi possono ritrovarsi in tutte le visioni di insieme dedicate alla destra radicale. 9. ramo italiano di Jeune europe, l’organizzazione fondata dal politico belga Jean thiriarth; per il programma si veda, del medesimo cfr. J. thiriart, Europa. un impero di quattrocento milioni di uomini (1964), tr. it. roma, Giovanni Volpe editore, 1965. 10. se ne veda l’edizione pubblicata dalle edizioni di Ar e corredata da interventi critici tra cui ricordiamo quelli di enzo erra, Giovanni damiano, roberto Melchionda, Pietro di Vona per i cui estremi bibliografici cfr. nota n. 11. 11. cfr. J. evola, Orientamenti, Padova, edizioni di Ar; pag. 18. 12. cfr. t. Mann, considerazioni di un impolitico, tr. it. di M. Marianelli, Milano, Adelphi, 1997 (la prima edizione fu pubblicata da de donato, bari, 1967). 13. cfr. e. Nieckisch, Est & Ovest, tr. it. di A. Benzi, Milano, seB, 1995 con un’appendice di saggi critici di thierru Mudry. il testo risale al 1963, ma riprende una serie di suggestioni teoriche già sviluppate da Nieckisch negli anni Venti. 14. cfr. G. simmel, Sulla guerra, tr. it. di s. Giacometti, roma, Armando, 2004. 15. cfr. o. spengler, Prussianesimo e socialismo, tr. it. di c. sandrelli, Padova, edizioni di Ar, 1995. 16. cfr. A. Mohler, La rivoluzione conservatrice in germania, tr. it. di L. Arcella, Napoli, Akropolis, 1990; s. Breuer, Il nuovo nazionalismo tedesco, tr. it. roma, donzelli, 1995. un quadro assai penetrante del movimento tedesco è fornito da A. romualdi, correnti della Destra tedesca 19181932, Novara, edizioni dell’ “italiano”, 1981. 17. evola considera sostanzialmente analoghe le impostazioni filosofiche utilitaristiche, positivistiche e storico-materialistiche che, infatti, nel suo sistema, coincidono con il materialismo tipico della fase ultima del mondo moderno. Per una valutazione analoga cfr. r. Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi…… 18. cfr. c. costamagna, che cos’è il comunismo, torino, utet, 1950; la Dottrina del fascismo è stata ristampata in tre volumetti con corollario di F. ingravalle sul pensiero di costamagna; si veda anche G. Malgieri, carlo costamagna, Vibo Valentia, i sette colori, 1990. 19. J. evola, Orientamenti, cit.; pag. 31. 20. cfr. l’ampia ricostruzione storica della vicenda dell’occidente contenuta in Rivolta contro il mondo moderno, (1934); 1951, per i tipi della Fratelli Bocca editori; 1969, per i tipi delle edizioni Mediterranee. 21. cfr. J. evola Il fascismo. Analisi dal punto di vista della Destra, roma, Giovanni Volpe editore, 1964; nuova edizione con note sul Terzo Reich, roma, Giovanni Volpe editore, 1970. 22. cfr. c. Graziani, Processo a Ordine Nuovo processo alle idee, roma, edizioni di ordine Nuovo, 1973. 23. cfr. J. evola, Orientamenti, cit.; pag. 24. 24. cfr. J. Burnham, L’inevitabile disfatta del comunismo, tr. it. di A. B., Milano, Mondadori, 1953. 25. sui primi sette anni del settimanale, quelli della direzione del fondatore, Leo Longanesi, cfr. r. Liucci, L’Italia borghese di Longanesi. giornalismo, politica e costume negli anni ’50, Venezia, Marsilio, 2002. 26. cfr. A. romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, Novara, edizioni dell “italiano”, 1979 . Adriano romualdi (1940-1973), figlio del dirigente missino Pino romualdi, è stato l’unico a proporre un progetto di studio organico della realtà storica del fascismo italiano finalizzata
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Francesco Ingravalle, L’altra “terza forza”
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a una radicalizzazione del programma politico del Msi, sulla linea dell’azione di stimolo svolta, nel corso degli anni cinquanta e sessanta dal centro studi ordine Nuovo costituitosi, come realtà esterna al Msi, dopo il congresso di Milano del partito del 1956. La cultura storico-sociologica viene pensata come uno strumento di lotta politica e, a parte la successiva elaborazione del gruppo che si è raccolto attorno a Marco tarchi, a partire dalla metà degli anni settanta e che ha dato luogo, in circostanze politiche del tutto mutate, alla “Nuova destra” si tratterà di un esempio isolato nel corso degli anni settanta. 27. il libro ha conosciuto ben quattro edizioni (1970, 1978, a cura di c. Mutti, 1981, con appendice curata da Freda stesso, 2002 a cura di F. ingravalle e con un’appendice di saggi di Autori vari) e ne è in programmazione una quinta. 28. cfr. c. Graziani, Lettera aperta a dirigenti e militanti di Ordine Nuovo, s. l., s. d. (ma 1969). 29. si veda l’esposizione della vicenda del periodico “L’orologio” nel volume scritto dal suo fondatore, Luciano Lucci chiarissi, Esame di coscienza di un fascista, roma, 1981. 30. Per un’indagine sul “complottismo” come linea interpretativa della storia occidentale moderna cfr. i contibuti di G. Barberis (dedicato all’origine nella letteratura francese controrivoluzionaria) e (sui Protocolli dei Savi di Sion) di d. Bidussa contenuti nel volume curato da s. Forti e M. revelli, Paranoia e politica, torino, Boringhieri, 2007. 31. Non mancherà il contro-canto: il direttore del settimanale “ il Borghese”, Mario tedeschi, pubblicherà, nel 1972, un volume intitolato La strage contro lo Stato teso a sostenere la responsabilità della sinistra rivoluzionaria negli attentati del 1969 e, in particolare, nell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. 32. di “populismo”, a proposito dell’ideologia di terza posizione, parla molto appropriatamente A. streccioni, A destra della Destra. Dentro e fuori l’mSI, dai FAR a Terza Posizione, roma, il settimo sigillo, 2000; pag. 155, n. 47 che rinvia alla definizione formulata da L. incisa, Populismo in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di Politica, torino, utet, 1990. 33. Nel 1977 Plebe partecipa alla scissione dal Msi di democrazia Nazionale, una prematura anticipazione della posizioni poi sviluppate da “Alleanza Nazionale” e da “Forza italia”, rimanendo nell’alveo di un anti-comunismo che, per molti aspetti, ricorda quello di un altro anticomunista ex-comunista, lo statunitense James Burnham. 34. il giudizio di Plebe non è così inspiegabile come potrebbe apparire. Formatosi nel contesto dell’intellettualità legata al Pci degli anni cinquanta e alla segreteria togliatti, fino al 1970 la sua posizione ideologica è del tutto coerente con la linea politico-culturale prevalente nel Pci anche nella successiva segreteria Longo: conformemente alla posizione ufficiale sovietica, netta ostilità nei confronti del movimento studentesco e netta ostilità nei confronti della cina e di Mao (di cui, tuttavia, la casa editrice legata al partito aveva pubblicato, a cura di r. Angelozzi, nel 1955, la più completa raccolta di scritti prima che le edizioni oriente di Milano inizino la pubblicazione delle Opere complete), soprattutto da quando quest’ultima inizia il dialogo con gli usA dell’era Nixon. infatti, Plebe critica in modo caustico il pensiero di Marcuse, fa tradurre in lingua italiana il saggio di A. Želochovtzev, La rivoluzione culturale vista da un sovietico (Milano, rusconi, 1971) e attribuisce le “violenze” della contestazione alla componente anarchica in essa ben presente nella forma dell’antiautoritarismo marcusiano e del ‘prassismo’ di daniel cohn-Bendit. certo, Plebe si sta avvicinando a destra, in quel momento, anche perché il Pci gradatamente ammorbidisce la propria posizione nei confronti della con-
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Francesco Ingravalle, L’altra “terza forza”
testazione studentesca; ma le argomentazioni di Plebe contro la contestazione sono analoghe a quelle che possiamo leggere nel denso e dotto saggio di Gian Mario Bravo premesso alla silloge K. Marx-F. engels, marxismo e anarchismo, roma, editori riuniti, 1972. 35. cfr. AA. VV. L’eversione di destra a Roma dal 1977 al 1983: spunti per una ricostruzione del fenomeno, in V. Borraccetti, Eversione di destra, terrorismo e stragi, Milano, Angeli, 1986; A . streccioni, A destra, cit.; pagg. 134 ss. Fondamentale resta l’intervista di G. Bianconi a Giuseppe Valerio Fioravanti che dei NAr fu uno degli esponenti di spicco: cfr. G. Bianconi, A mano armata, Milano, Baldini & castoldi, 1996. 36. cfr. A. streccioni, A destra, cit.; pag. 135. 37. il passo è riportato da F. Ferraresi, minacce, cit.; pag. 323 e da A. streccioni, A destra; pag. 136. 38. sotto questo profilo, la migliore ricostruzione, perché più realistica, anche se sensibile al vissuto soggettivo, della vicenda delle Brigate rosse è quella di M. Moretti nella Intervista sulle Brigate Rosse condotta da r. rossanda, Milano, Baldini & castoldi, 1999. 39. cfr. A. streccioni, A destra, cit.; pag. 136.
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il Partito comunista e l’intellettualità diffusa intervista ad Aldo tortorella
Lei è stato responsabile della commissione cultura del PcI nel corso degli anni Settanta: quali le differenze nel rapporto con gli intellettuali rispetto ai decenni precedenti, in particolare agli anni cinquanta? sono stato responsabile della commissione cultura del Pci dalla metà degli anni settanta in poi, per l’esattezza dal congresso del Pci del 1975 fino all’inizio degli anni ottanta. credo sia stato l’incarico più lungo per un responsabile di quel settore. in questa carica mi aveva preceduto Giorgio Napolitano, di cui condividevo l’orientamento in merito alla funzione della commissione cultura, anche se la nostra formazione culturale e la nostra sensibilità politica erano diverse. Anch’io concepivo la commissione culturale non come una strumento ideologico, ma come centro di iniziativa per le politiche culturali, per il sostegno e lo sviluppo della cultura del paese. che cosa era mutato rispetto agli anni cinquanta? Negli anni cinquanta si era avuto un trauma, quello che è stato definito il terribile 1956, la rivoluzione ungherese, il palese fallimento di una esperienza politica a cui si era messo rimedio in maniera disastrosa con i carri armati. in quel momento ci fu una vera rottura fra Partito comunista e una parte rilevantissima dell’intellettualità che aveva guardato al Pci e che ora se ne allontanava non condividendo le motivazioni che ispiravano la linea della dirigenza comunista. Quelli che rimasero nel partito facendo proprie le ragioni storicistiche messe in campo da togliatti e dagli altri dirigenti del partito, cioè la necessità di far fronte, nonostante tutto, in un periodo di “guerra fredda”,
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Aldo Tortorella, Il Partito comunista e l’intellettualità diffusa
a cura di Marco Biglia e cesare Panizza
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a quello che appariva come il pericolo principale, ossia un possibile confronto militare fra il campo occidentale e il campo sovietico, assunsero fatalmente un atteggiamento di autodifesa, una sorta di asserragliamento, se si può usare questa espressione, come in un campo trincerato. Gli anni sessanta e settanta vedono invece il progressivo venir meno di questo atteggiamento, innanzitutto per uno sforzo di rilevante correzione che si era venuta facendo con la scomparsa di togliatti e con la segreteria di Longo e poi ancor di più con quella di Berlinguer che comincia la sua attività di vicesegretario vicario ancora con Longo, che già stava poco bene, poi di segretario a tutti gli effetti all’inizio degli anni settanta. L’apertura mentale che si ha particolarmente nel ’68 serve a riprendere un certo contatto con gli intellettuali. ho avuto piacere nel leggere che anche Asor rosa, che si era tenuto distante per un certo periodo di tempo dal partito, ha voluto sottolineare in una sua recente intervista come il lavoro che io svolsi dirigendo la commissione cultura avesse favorito una certa ripresa di rapporti con l’intellettualità italiana. il problema che personalmente cercai di impostare fu quello di una svolta in questo lavoro: non soltanto realizzare la politica necessaria perché l’intellettualità potesse essere corrispondente ai bisogni del paese e dell’emancipazione delle classi lavoratrici, ma perché si potesse avere la comprensione che il concetto stesso di intellettuale era venuto mutando. Per la vecchia tradizione socialista e comunista gli intellettuali erano appunto i grandi intellettuali. io sottolineai invece nel convegno del ’77 che la parola intellettuale nella società contemporanea ricopriva ormai un significato molto più vasto: per farmi capire dal partito parlavo, nel gergo di allora, di intellettuali massa. L’intellettualità era divenuta una funzione determinante per la società avanzata, moderna, e di conseguenza era divenuta una forza essenziale con cui interloquire e non soltanto attraverso le politiche per la cultura. il mondo contemporaneo è infatti innervato di funzioni intellettuali e la stessa funzione operaia veniva modificandosi attraverso la specializzazione delle attività, come dimostrava il sempre maggior numero di specialisti nei vari campi della produzione. di conseguenza mi sembrava necessario curare non soltanto una ripresa di contatto con gli intellettuali intesi nel senso tradizionale dell’espressione, con un migliora-
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mento della consapevolezza critica e del pensiero critico che doveva esser proprio di un partito come quello comunista. Ma andava allargato l’orizzonte e doveva essere considerato fondamentale il rapporto con questo esteso ceto: gli insegnanti, i tecnici, i ricercatori, che sono in realtà l’asse portante delle società contemporanee.
Non credo che si debba dire che nel ’68 c’è uno strappo fra gli intellettuali e il Pci. una parte dell’intellettualità, per esempio la docenza universitaria, si volge proprio allora verso il Pci che nella temperie del ’68 non è completamente capace di intendere l’impulso antiautoritario della rivolta giovanile. Vi erano molti baroni che venivano giustamente contestati per i loro vizi accademici e che tuttavia erano personalità di grande spessore scientifico e culturale, che vedono nel Pci una forma di difesa, di saggia moderazione nei confronti di questa spinte giovanili. È piuttosto verso la nuova intellettualità che nasceva in quelle lotte, verso i giovani intellettuali che venivano sospinti in avanti proprio da quel movimento e che assumeranno poi la direzione di riviste, rivistine, piccoli giornali eccetera… che si ha una sorta di rottura. essi vedono nel Pci una forza piuttosto di conservazione che di trasformazione. rammento che anche la federazione giovanile comunista si trovò in ritardo nei confronti di quelle esperienze e naturalmente ne subì dei contraccolpi molto profondi. Fece fatica ad orientarsi, ma poi pensò addirittura alla sua auto dissoluzione nel movimento. Per certi aspetti (e in ciò valse, come ho ricordato, l’opera del mio predecessore) fra il ’68 e il ’75 ci fu insomma una sorta di rinsaldamento più che di rottura con una parte dell’intellettualità più tradizionale, che comunque aveva continuato a guardare verso il Partito comunista, nonostante il 1956. il rapporto più conflittuale con il movimento studentesco ebbe però come conseguenza una rottura generazionale. Nello stesso tempo bisogna ricordare che nel ’68 il Pci aveva anche assunto una caratteristica nuova: con
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Aldo Tortorella, Il Partito comunista e l’intellettualità diffusa
una data periodizzante è certo rappresentata dal ’68. Le coordinate generali del rapporto fra PcI e intellettuali mutano per l’esplosione della contestazione studentesca e poi dei movimenti extraparlamentari. Si può parlare di strappo in quegli anni fra intellettuali e PcI? Quanto vi influirà il rapporto conflittuale proprio con il movimento studentesco?
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la segreteria Longo c’è la prima grave profonda rottura, diversamente dal ’56, con l’unione sovietica. Vedo con stupore che in certi commenti sembra quasi che il Pci avesse assunto un atteggiamento ostile alla primavera di Praga e che soltanto qualche sua parte avesse manifestato, come i compagni che daranno vita al “Manifesto”, solidarietà. Non fu così. Fu la segreteria Longo e quindi il gruppo dirigente medesimo che si schierò, certamente con qualche riserva individuale, difficile da documentare e da ricordare, contro l’intervento militare che stroncò la volontà riformatrice di dubcek.
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Quanto influì sul rapporto PcI e intellettuali la vicenda del “manifesto”? La rottura con il “Manifesto” influì più su questioni di carattere immediatamente politico: essa impoverì la sinistra del partito di una sua parte molto rilevante e questo ebbe un effetto che certamente i compagni del “Manifesto” non avrebbero desiderato, cioè un certo spostamento dell’asse politico del partito verso una posizione di carattere moderato. Non ebbe invece, mi pare di poter dire, un’influenza grave per ciò che riguardava il rapporto con l’intellettualità. Anche perché si trattò di un processo non di carattere amministrativo ma di una lunga vicenda: ci fu un comitato centrale, ci fu una discussione in tutte le sezioni, ci fu un secondo comitato centrale. ci fu cioè un certo dibattito sui temi che erano stati posti da questi compagni prima di arrivare alla radiazione che se dal punto di vista statutario fu ineccepibile (il divieto delle frazioni fu superato solo molti anni dopo), dal punto di vista politico fu certo un errore. Nel rapporto con gli intellettuali si ebbero ricadute molto differenziate, ma non drammatiche, anche perché la posizione che il “Manifesto” assunse immediatamente, facendo riferimento alla rivoluzione culturale cinese, non aveva un seguito così grande fra gli intellettuali italiani. Naturalmente vi fu però un indebolimento della capacità critica del partito, del suo gruppo dirigente, e questo pesò nel rapporto con una parte dell’intellettualità, ma con una parte dell’intellettualità molto politicizzata e invero già abbastanza distante dal Partito comunista. Vi è una vicenda, che anche a livello di memoria, ha assunto una grande rilevanza sto-
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io ho iniziato il mio lavoro come responsabile della sezione culturale proprio il giorno dopo che Pasolini venne ucciso. e decisi di partecipare alla organizzazione dei solenni funerali coinvolgendovi in modo determinante il partito. ed infatti io pronunciai un discorso a nome del comitato centrale nella piazza di campo dei Fiori, insieme a Moravia e altri che rendevano l’ultimo omaggio a Pasolini. Fu una specie di risarcimento quello, da parte nostra, perché il rapporto fra Pasolini e il Pci era stato effettivamente difficile. Però questo rapporto, travagliato alle origini quando Pasolini giovane ancora stava nel Friuli, via via si era venuto sciogliendo e si era venuto modificando per opera anche della Federazione giovanile comunista, che ebbe fra i suoi dirigenti dei giovani che furono molto vicini a Pasolini sia dal punto di vista delle idee politiche, sia per l’apprezzamento del contributo che egli portava alla cultura. dal ’68 in poi Pasolini entrò piuttosto in conflitto con una parte del movimento studentesco, fino a una certa rottura cui si giunse quando egli deplorò alcuni degli scontri che durante le lotte studentesche intercorsero tra studenti e poliziotti, rottura messa in luce da una sua famosa poesia [Il PcI ai giovani, n.d.r.]. Pasolini ricordava agli studenti che questi poliziotti erano figli di povera gente del sud e che quella contrapposizione non aveva senso. Questa sua critica a certi aspetti del movimento studentesco, che erano dovuti a orientamenti sbagliati e che poi portarono anche a degenerazioni, lo riavvicinò al Partito comunista. il ’68 fu un tempo turbinoso in cui non tutte le cose filavano in modo coerente. se vi furono dei gruppi giovanili, di intellettualità nuova, che si fecero avversari del Pci, un intellettuale come Pasolini rinnovò per certi aspetti il suo rapporto con il partito che in quella occasione, almeno in una sua parte rilevante, lo difese. 20 giugno 1976. molti intellettuali entrano in Parlamento eletti, come indipendenti, nelle file del PcI. Quale fu a suo parere il senso complessivo di quella scelta? E ricorda qualche episodio significativo di quella esperienza?
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rica, quella di Pier Paolo Pasolini i cui rapporti con il PcI furono molto complessi, talvolta conflittuali. che ricordo ne conserva?
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La creazione di un gruppo di indipendenti eletto nelle liste del Pci ebbe un significato innanzitutto politico, ossia quello di una rottura con l’idea della rappresentanza come esclusivo riflesso del rapporto che l’apparato, pur allora molto radicato e molto popolare, aveva con l’elettorato. era un rapporto diciamo pure abbastanza diretto, perché i dirigenti del partito, fra cui ero io stesso, avevano un legame molto vivo con le sezioni e attraverso di esse, con la base popolare. Però tutto ciò significava escludere spesso delle sensibilità diverse. L’esperienza degli indipendenti aveva dunque questa doppia funzione: l’immissione di persone portatrici al tempo stesso di rilevanti competenze, ognuno nel proprio campo, giuridico, culturale, talvolta scientifico, e di una mentalità diversa da quella tipica dei militanti di partito i quali sono soggetti a forme di disciplina liberamente accettata ma che può essere limitativa dell’ampiezza di vedute necessarie per una effettiva capacità di intesa della realtà.
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Quali furono le reazioni degli intellettuali riconducibili alla sinistra italiana di fronte alla proposta dell’austerità di Berlinguer?All’interno di quella vicenda mi sembra si debba collocare anche il convegno da lei organizzato all’Eliseo nel gennaio del ’77... La conferenza del ’77 fu da me organizzata con la sezione culturale anche per far intendere che l’esperienza di governo nella quale il Pci era in quel momento in qualche modo compromesso, il “governo delle astensioni”, avrebbe potuto reggersi solo se ci fosse stato il contributo determinante di questa intellettualità diffusa e se essa fosse stata chiamata a essere protagonista della vicenda politica del paese. il che comportava anche un mutamento di mentalità: nel gergo del partito di allora io dissi che non si poteva più pensare soltanto alla classe operaia come forza motrice di una trasformazione sociale orientata verso il socialismo, ma bisognava concepire come soggetto sociale trasformatore anche l’intellettualità diffusa, dato che essa innervava tutto il processo produttivo e che essa era cosa distinta dal e nel ceto medio. La questione dell’austerità, che in quel momento incominciava ad apparire come attuale per effetto della cultura ecologista, venne da me posta nella relazione introduttiva alla conferenza e Berlinguer ne fu colpito. Mi chiese
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durante la notte, fra la prima e la seconda giornata, se concordavo con l’idea di farne il centro delle sue conclusioni. Naturalmente apprezzavo la scelta di Berlinguer, anche se distoglieva un po’ l’attenzione, cosa che gli dissi, dall’obiettivo secondo me primario, di dare una forte scossa al partito per ciò che riguardava il rapporto con l’intellettualità diffusa. il peso dato all’austerità comportò un prezzo: era troppo facile dire che tutto questo dipendeva da una visione del Partito comunista estranea al modello della modernità, che prevede uno sviluppo continuo, stimolato dall’aumento dei consumi…Vi fu una campagna di stampa violenta che segnò anche un inasprimento di rapporti, in particolare con un settore dell’intellettualità che era rilevante ed era particolarmente presente nel partito socialista. Non ci fu la comprensione immediata da parte di tutti che quella era una posizione corretta e per certi aspetti anche molto anticipatrice di una esigenza che sarebbe emersa successivamente, cui ancora oggi è molto difficile corrispondere. si deve dire anche che l’idea dell’austerità valse ad aprire un dialogo con il pensiero ecologistico che veniva nascendo e a cui il Partito comunista era stato profondamente estraneo. e quindi consentì di iniziare a sviluppare un discorso in parte diverso dal passato sulle basi stesse della concezione dell’economia e della società. Quali furono i rapporti con gli intellettuali laici? Pensiamo, tanto per indicare un’altra data periodizzante, alla nascita di un giornale come “Repubblica” nel gennaio 1976 e alla grande attenzione che la maggior parte di questa area della cultura italiana, sebbene non sospetta di simpatie verso il comunismo, riserva al PcI, come a un interlocutore importante, e legittimo, della vita democratica italiana. Questo rapporto è stato abbastanza positivo come ha testimoniato anche recentemente scalfari. esso fu di amicizia ma anche di competizione. La nascita di “La repubblica” non rappresentò infatti solo una sfida di tipo giornalistico a “L’unità”, peraltro ampiamente vinta. io avevo lasciato la direzione de “L’unità” nel 1975, quando essa era il secondo giornale italiano. La successiva comparsa di “La repubblica” significò un drastico ridimensionamento, nel corso degli anni, della sua diffusione. con questo giornale, che si avvalse di molte firme che erano state importanti per
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Studi e ricerche
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“L’unità” – giornalisti e giornaliste di valore dell’“unità” furono fra i fondatori di “La repubblica” – si stabilì anche una competizione rispetto alla mentalità diffusa a sinistra. Questa mentalità era generalmente orientata dalla convinzione che la società in cui si vive sia mossa dallo scontro di classe, pur con le correzioni determinanti che Gramsci aveva portato a questa concezione. La posizione che esprimeva “La repubblica” era il riflesso di un orientamento culturale che rispecchiava piuttosto quella che era stata la origine intellettuale dei suoi fondatori. caracciolo era di ispirazione socialista, veniva dalla resistenza, era stato un giovane partigiano. scalfari veniva dall’esperienza del “Mondo” di Pannunzio, da un ambiente di formazione liberal-democratico ispirato agli ideali di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione. era, quella di repubblica, una linea che spingeva già allora in direzione di quello che poi diventerà il Partito democratico. Questo settore dell’intellettualità laica ebbe un peso rilevante nell’orientamento dei gruppi dirigenti del Partito comunista, con conseguenze per certi aspetti utili ma per altri molto meno, perché una parte di eredità importante del movimento storico della sinistra ne risultò troppo trascurata, come oggi, per una sorta di nemesi, sostengono gli stessi intellettuali di origine laica e democratica che sono piuttosto inquieti per lo scadimento che si è avuto nelle caratteristiche di sinistra della maggior parte di coloro che pure erano prima legati al movimento comunista italiano.
Studi e ricerche
E quali con il mondo cattolico, anch’esso in sommovimento in quegli anni, attraversato, come spesso è accaduto, da correnti culturali, in un gioco di azione e reazione, fra loro anche assai divergenti. Sono gli anni del dissenso cattolico ma anche del successo di movimenti come comunione e Liberazione. il rapporto con il mondo cattolico e con la cultura cattolica per lungo tempo fu orientato dalla convinzione che il cosiddetto dissenso cattolico fosse la parte più viva dell’esperienza del cattolicesimo, anche politico. Pur non intervenendo nelle controversie di carattere religioso o ecclesiale il partito comunista ha così avuto come suo interlocutore principale nel corso della vicenda post bellica proprio quell’intellettualità che esprimeva
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un certo grado di dissenso dalla linea ufficiale della gerarchia orientata, in molti casi, in senso ultraconservatore. Questo fin dalla resistenza. si deve sempre ricordare che il Fronte della Gioventù che era l’organizzazione massima della resistenza nel campo giovanile, fu fondato contemporaneamente da socialisti, comunisti, democristiani, ma anche da sacerdoti, nonché grandi intellettuali, come don davide turoldo e padre camillo de Piaz. da questa storia, che stabilì un certo rapporto complesso, con episodi come quello di Nomadelfia, con don Milani e altri – ricordo il rapporto fra Berlinguer e il vescovo di ivrea –, gradatamente si passò a un rapporto più diplomatico con la gerarchia, pur non negando ciò che di positivo vi era nella intellettualità del dissenso. Questa tendenza al rapporto con la gerarchia ha poi definitivamente prevalso nel Pds, nei ds e nel Pd. il dialogo tra comunisti e cattolici in quegli anni fu, secondo il mio giudizio, molto fecondo. Anche tra coloro che furono eletti come indipendenti, ci furono dei rappresentanti insigni di questa tendenza innovatrice, fermamente cattolica oltre che molto fermamente cristiana, tutta ispirata a principi di solidarietà, fedele a principi di interpretazione del messaggio evangelico profondamente diversi da quella della gerarchia. Quell’incontro fu importante allora e fu importante anche per la formazione del Partito comunista e per la sua apertura culturale. Nel corso degli anni Settanta appaiono sulla scena sociale nuovi soggetti, portatori di nuovi linguaggi e di nuove culture. In particolare il movimento delle donne e la cultura femminista. Si passò dal concetto di emancipazione femminile a quello di liberazione, dalla rivendicazione della parità a quello della differenza. Lei è stato uno dei dirigenti nazionali che ha compreso per tempo la portata rivoluzionaria della lotta delle donne. come si rapportò a quelle esperienze il PcI e cosa a suo parere ne è rimasto oggi? il Partito comunista è sempre stato un partito emancipazionista: nell’immediato dopoguerra Palmiro togliatti e il Pci furono determinanti per il completamento del suffragio universale con il voto alle donne. Negli anni settanta su impulso del movimento negli stati uniti e in Francia nasce anche in italia quello che viene definito il femminismo della differenza. confesso di considerare un merito, come responsabile culturale di allora, di aver ca-
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pito la portata di quel nuovo fenomeno. il fatto che l’avesse capito la sezione culturale non vuol dire però che la novità fosse stata capita da tutti. La questione fondamentale del femminismo della differenza rispetto al femminismo emancipazionista è che il femminismo della differenza rifiuta in modo secco, e secondo me del tutto giustamente, l’equiparazione delle donne al genere maschile in base alla quale l’emancipazione consisterebbe nel fatto che le donne diventano come gli uomini e ne assumono tutti i difetti prendendo la cultura elaborata dagli uomini nel corso del loro dominio millenario come parametro della civiltà e quindi del loro stesso essere. il femminismo della differenza sottolinea invece come la cultura e quindi le forme della società siano state determinate dalla prevalenza del genere maschile e come il maschile sia un valore tra altri valori e quindi non possa essere considerato come il valore universale. Le donne come soggetto tradizionalmente estraneo al potere concepiscono quindi se stesse come qualcosa di autonomo che deve costruire un proprio punto di vista e metterlo in competizione, per usare il lessico gramsciano, in una gara di egemonia. Questa autentica rivoluzione di pensiero non fu immediatamente capita, però forse anche attraverso la sezione culturale, il movimento femminile comunista fu sensibile a questa esperienza. il fatto che il movimento femminile comunista aprisse le porte non voleva dire che le aprisse il partito. ci sono motivi di fondo per questa resistenza. ed è una resistenza che continua in grande misura ancora adesso, per certi aspetti anche nelle nuove sinistre o sedicenti sinistre che ci sono oggi in italia. È caratteristico che sia il pensiero femminista che quello ecologista nascano non contro ma certamente fuori dai partiti del movimento operaio tradizionale, di eredità marxiana. Anche fuori dalla socialdemocrazia, non solo dal Partito comunista. Non è strano che ci sia una tale difficoltà a intendere questo nuovo pensiero. Non è strano perché è chiaro che il movimento operaio è il risultato di culture che lo precedono, che sono storicamente determinate e in cui certi valori, come quello del patriarcato, sono considerati fondativi. In quel periodo nascono molti fenomeni nuovi. A partire da quegli anni hanno per esempio sempre più peso, nell’orientare le opinioni e i comportamenti, soprattutto dei giovani,
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il Pci ebbe un rapporto estremamente fecondo con il nuovo cinema italiano nato nella resistenza e all’indomani della Liberazione. La stagione del neorealismo fu, in larga misura, ispirata dagli ideali del movimento operaio. Anche quando muta la stagione culturale e viene il tempo di quella che si chiamò “commedia all’italiana” e che fu fatta anche di grandi opere drammatiche tra cui si distinsero, ad esempio, quelle di Mario Monicelli, recentemente scomparso, l’ispirazione democratica nel suo senso più avanzato, fu determinante. Questo rapporto tra cinema e movimento di sinistra fu di reciproca influenza: quei film che si ispiravano a delle idealità umanamente avanzate, contribuirono anche a formare un’opinione pubblica sensibile alle necessità del mutamento sociale. Per quanto riguarda la musica popolare, il Pci si orienta abbastanza rapidamente verso le nuove forme che assume. Lo specchio sono le feste dell’unità che ospitano sempre di più la nuova musica e sempre più spesso ricercano alcuni di questi cantautori che vi fanno le loro prove iniziali. È talmente spiccata questa tendenza che a un certo punto si cade nell’eccesso opposto: viene rifiutata con gravi conseguenze ciò che aveva costituito il nerbo della precedente cultura popolare, per esempio la musica melodica tradizionale viene scartata con conseguenze non positive soprattutto nel rapporto con le vecchie generazioni. Anche perché sembrava implicare un certo disprezzo anche per le persone attaccate a quella tradizione. Per il Pci fu più facile orientarsi verso queste nuove mode culturali di quanto non fosse accaduto per le vere rotture culturali rappresentate dal movimento femminista, ma anche da quello ecologista. Questa accondiscendenza per le nuove forme di cultura popolare fu per certi aspetti assolutamente giusta, anche perché in esse, seppur non in tutti i casi, vi era molta cultura, anche profonda. e molte cose da imparare. Ma comportò anche qualche svarione. si trattò piuttosto di un’adesione a un fenomeno culturale che si veniva estendendo, che di una comprensione effettiva. Nasceva una nuova sensibilità e, contemporaneamente, in molti casi si ma-
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nuove figure. Pensiamo per esempio alla funzione avuta dai cantautori, o dal cinema. Quale era l’approccio del PcI verso questo nuovo tipo di intellettuali?
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nifestava anche una nuova inquietudine per la condizione umana. Andava allora meglio compresa la necessità di un più fecondo rapporto tra valori non trascurabili, tradizioni popolari e nuove sensibilità e nuovi valori. Più in generale, sotto traccia, in quegli anni si avviano trasformazioni profonde nella società italiana che modificheranno drasticamente il mondo della cultura, primo fra tutte la rivoluzione avvenuta nel campo dei mezzi di comunicazione. Di fronte a questi cambiamenti il PcI come si pose?
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sui mezzi di comunicazione vi fu un ritardo, che non fu tanto nella comprensione della novità del nuovo strumento, quanto della sua influenza rispetto ai tradizionale canali di comunicazione. ciò che non si vide è che queste modificazioni portavano una trasformazione nel modo di essere della produzione stessa, oltre che della società. cominciava un altro modo di essere della struttura produttiva. La informatizzazione insomma comportava delle conseguenze enormi non soltanto nelle forme di rapporto fra le persone, ma anche nella struttura materiale della società. È a questo ritardo che va imputato anche qualche profondo errore poi commesso, un ritardo che fu pagato anche molto caro nel senso che questo mutamento nella realtà avrebbe comportato un rifacimento di tante idee del Partito comunista. un rifacimento a cui Berlinguer pose mano, ma la sua opera venne interrotta precocemente dalla morte e prevalsero altri orientamenti. A partire dagli anni Ottanta si assiste a una imprevedibile eclissarsi dell’intellettuale, almeno nella sua forma classica, quella dell’intellettuale impegnato e spesso militante politico che aveva caratterizzato il Novecento. Al suo posto, imprevedibilmente, sembra istallarsi l’intellettuale specialista, una sorta di tecnico il cui sapere è indispensabile in un certo ambito, ma il cui giudizio agli occhi dell’opinione pubblica e della politica diviene assai poco rilevante. gli intellettuali non sembrano più portatori di un punto di vista universale. Questa trasformazione era stata avvertita, anche solo epidermicamente, dal PcI? No, non è imprevedibile l’eclissarsi della funzione tradizionale dell’intellettuale. L’avevamo in taluni aspetti compreso già nel convegno del ’77. Vedevamo che la concezione tradizionale dell’intellettuale si veniva tra-
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sformando. Bisogna tener ben presente che l’intellettuale come portatore di un punto di vista universale era corrispettivo a un certo modo di essere della società e della politica e cioè alla presenza di forze politiche portatrici di un disegno, sia esso di evoluzione socialistica, sia di conservazione, tuttavia ispirato a principi, come per la democrazia cristiana la dottrina sociale cristiana. Finché esistono questi partiti che si fanno portatori di visioni generali gli intellettuali che partecipano di queste esperienze politiche, pur non essendo interni all’uno o all’altro partito, fatalmente assumono per le loro competenze, per le loro capacità espressive, questo valore elevato. Parlo soprattutto degli intellettuali delle scienze umane, gli scrittori, i cineasti. essi non sono soltanto degli specialisti ma divengono portatori di un disegno che ispirerà le posizioni fondamentali di questi partiti, definiti, molto grossolanamente, come ideologici o, come si dice ora, portatori di grandi narrazioni. Quando la funzione di questi partiti decade, come accade in italia, come è accaduto anche in altri paesi capitalistici sviluppati, ed essa viene assolta da attori i quali sembrano essere sostanzialmente ispirati all’idea della politica come adesione alla mentalità corrente, di semplice raccolta del consenso, senza alcun disegno pedagogico, viene meno anche la funzione degli intellettuali. L’emergere dell’intellettuale specialista non è dunque una cosa nuova. ricordiamo l’espressione con cui Gramsci definiva i dirigenti del suo partito: specialista più politico. Lo specialismo fa dunque parte della tradizione novecentesca, ma ora assume una funzione unica. Non è che le narrazioni siano finite, o che siano finite le ideologie. È la sinistra che ha pensato che questo accadesse e vi si è rassegnata. in realtà queste grandi narrazioni esistono nel mondo conservatore: ad esempio la rivincita dei conservatori nei confronti di obama è una vittoria ideologica. Peraltro l’adesione alla mentalità data non manca di risvolti ideologici. se prendiamo la Lega osserviamo un risvolto ideologico fortissimo, quello del neorazzismo. Questo risvolto ideologico scava e lavora sopra delle preesistenze culturali. Mentre la democrazia cristiana queste preesistenze le conosceva ma cercava di fermarle con un azione pedagogica, la Lega fa esattamente l’opposto. una parte dell’elettorato democristiano si è trasferito nella Lega ma vi ha portato un bagaglio che è diverso da quello che la democrazia cristiana le suggeriva.
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In generale si sottolinea la grande attenzione del PcI verso gli intellettuali, interlocutori privilegiati dell’azione del partito, a tal punto che spesso si parla di “egemonia comunista” sulla cultura italiana. Al tempo stesso se ne sottolinea invece un certo ritardo, se non l’assenza da un certo punto in avanti, sul piano della cultura di massa (e dell’industria culturale), proprio laddove cioè si sarebbero prodotti cambiamenti decisivi nell’orientare i comportamenti, anche politici, degli italiani. Penso agli effetti dell’irrompere delle televisioni private ma anche, in un periodo precedente, alla rai di Bernabei. Può essere una chiave di lettura delle difficoltà del PcI – e della sinistra in generale – nel confrontarsi con molti settori della società italiana, anche prima della dissoluzione del sistema dei partiti e della nascita del PDS? sì certo. da un certo momento in avanti si avvertì la necessità di capire che il problema non era soltanto quello della grande cultura ma degli operatori culturali, dell’intellettualità diffusa, e quindi della cultura diffusa. il tentativo avviato con la conferenza del ’77 non fu però seguito. soltanto nel ’81 si fece secondo le liturgie di allora, un comitato centrale dove io stesso fui relatore e ripresi le posizioni di quattro anni prima che così diverranno posizione ufficiale del partito. Ma si era già perso troppo tempo. Ma questa attenzione corrispondeva a una reale conoscenza delle culture diffuse? È una seconda questione che anche quell’impostazione non colmava pienamente: l’attenzione alle culture diffuse dai mezzi di comunicazione di massa fu assolutamente insufficiente. Per lungo tempo prevalse l’idea che in definitiva noi eravamo capaci di vincere ugualmente, anche se non avevamo nessuna televisione in mano. Non abbiamo capito che nel lungo periodo la cultura espressa non dai telegiornali ma dai teleromanzi e dal resto dello spettacolo televisivo, avrebbe influenzato profondamente proprio le grandi masse popolari. da una parte c’erano gli esecratori della televisione in nome della cultura di una volta e dall’altra quelli che la consideravano qualcosa di neutro. si doveva capire nel profondo come questi strumenti venissero cambiando antropologicamente le persone e come la dipendenza da questi mezzi di comunicazione potesse diventare determinante politicamente. Molti di questi problemi precedevano le vicende del Pds-ds, oggi Partito democratico. Non ci sarebbe stata l’evoluzione che oggi conosciamo se non si fossero fatti a
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monte degli errori. È vano pensare che si possa rifare una sinistra soltanto sul terreno immediatamente politico. Bisogna scavare nel profondo, nelle idee costitutive anche della sinistra di allorj!a per cercare nuove fondamenta. incominciano ad apparire degli spiragli che fanno vedere l’uscita dal tunnel ma comporre le trame delle idee di una nuova sinistra richiederà ancora molto lavoro.
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La vicenda di Pasolini è quanto mai emblematica di un processo di trasformazione che riguarda il ruolo degli intellettuali, avvenuto negli anni settanta. in un contesto ancora fortemente dominato dall’ideologia, Pasolini già rappresenta quel passaggio che un paio di decenni dopo ci avrebbe portato alla società post-ideologica, liquida o caotica; ma con una grande differenza rispetto all’oggi: quella rappresentata dalla volontà di conservare, per l’intellettuale, il ruolo di coscienza critica del proprio tempo e pertanto necessariamente contro il proprio tempo. Gli anni settanta conservano la stessa struttura del dopoguerra: l’autaut capitale del letterato di tutti i tempi e di tutti i luoghi (per eco: apocalissi o integrazione), assume la forma dell’adesione o meno al Partito comunista, il “sindacato della cultura”, l’“impero di carta” progettato da Gramsci, teorico dell’“intellettuale organico”, e all’apogeo con Berlinguer. il Pci aveva incanalato le energie del dopo-guerra facendo del Neorealismo l’arte ufficiale di partito. se le coordinate biografiche di Pier Paolo Pasolini, comunista e omosessuale, lo vorrebbero un “integrato”, o quantomeno al di sopra di ogni sospetto di devianza parafascista, sono il fuoriuscitismo e l’eresia le cifre di tutta la parabola pasoliniana, così come lo scandalo è la dimensione della sua vicenda di vita. “tendo sempre più verso una forma anarchica, una forma di anarchia apocalittica”, così dirà Pasolini il 6 ottobre 1971 al Festival di New York, dove presenta il Decameron. e proprio la prima eresia, Pasolini la consuma innanzitutto in materia di Neorealismo. di fronte alla cristallizzazione dei τόποι e del linguaggio, alla deriva manieristica della spinta propulsiva che aveva reso possibile la grande stagione post-bellica, Pasolini oppone la necessità di una seconda
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matteo Zullo
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generazione del neorealismo, avendo colto la mutazione dello sfondo storico-sociale, che il Neorealismo aveva posto appunto come dato in-formante e in-scindibile della sua poetica d’“impegno”. se il Neorealismo doveva essere letteratura civile, e non arte alessandrina, allora doveva comprendere e dare conto del mutamento della civiltà. Pasolini si accorse, unico, che ai drammi della miseria si erano sostituiti, quasi senza che ce se ne accorgesse, i drammi della ricchezza; e l’italia della ricostruzione era subdolamente sfumata nell’italia del boom economico. L’intellettuale o è eretico o non è intellettuale, sino al punto da delineare per sé la figura di “vittima”: il suo è letteralmente un fare la vittima, un immolarsi progressivo sull’altare della modernità, una corsa al patibolo. e il suo cristo è quello nietzschiano: carne, sangue, sofferenza e rivoluzione, eresia. “sacrificare ogni giorno il dono / rinunciare ogni giorno al perdono / sporgersi ingenui sull’abisso […] tremare d’intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco / per testimoniare lo scandalo […] Piegatevi, gente cristiana, / a sentire un filo di voce, / fra tutto questo silenzio, / che scende dalla croce”. Non è un caso che la leggenda voglia che ciascun italiano dell’epoca si ricordi dove si trovasse al momento in cui apprese la morte di Pasolini. effettivamente, essa fu uno di quegli eventi che diventano spartiacque; in questo caso, tra un’era mediatica e l’altra. È in questo modo, purtroppo, che la tentazione della reductio della parabola pasoliniana a “fenomeno di costume” è sempre incombente. Ma Pasolini sfugge a ogni riduzione di questo e di ogni altro tipo proprio perché programmaticamente intende il suo impegno come un impegno poetico. Pasolini è stato ed è restato sempre prima di tutto un poeta, e il suo cinema, la sua narrativa non sono che poesia trasferita in altre forme, su altri piani, altri linguaggi. La poesia è stata, in un certo modo, la sua prima e fondamentale eresia. un lirismo fuori tempo massimo, come comprenderà ben presto Pasolini, la cui opera successiva agli esordi poetici giovanili sarà tutta una lunga e implicita dissertazione sul ruolo della letteratura in un mondo eminentemente post-letterario come quello dominato dalla televisione. certo, il suo impegno come intellettuale civile è rappresentato dagli articoli per le pagine del “corriere”, meta ultima del suo esodo dall’eden
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della poesia. e lo è in quanto momento catartico: se la vicenda di Pasolini prevede la progressiva catabasi della poesia nell’inferno del quotidiano, è nella sfida di farsi esposizione prosaica e didascalica che questo processo ha il suo culmine. il capolavoro pasoliniano degli Scritti corsari risiede nel bilanciamento perfetto tra πάθος e ratio. i “fondi” di Pasolini, tanto appassionato quanto lucido reporter, sono così tutto un fiorire di neologismi, un parossismo creativo determinato dal continuo trasferimento del “vissuto” (e della poesia) all’analisi di costume, in cui la distanza dalla freddezza categoriale del sociologo diventa sempre più la cifra preponderante. Indignatio facit versum. Gli Scritti corsari diventano il testo fondamentale per capire gli anni del boom, il vero omaggio di Pasolini alle generazioni successive, uno snodo centrale della storia culturale italiana del secondo Novecento; il vertice dell’opera di un letterato camuffata da marginale e dimessa discesa su un terreno che non gli è proprio. Ma d’altronde proprio questo rappresenta il punto principale della sua opera: la coincidenza tra discesa e ascesa, discesa in quanto a temi e modi della comunicazione e ascesa del livello della sfida, della portata della comunicazione stessa. e allora, si può legittimamente parlare di sperimentalismo per Pasolini? No, perché la ricerca della forma al passo coi tempi è la spada di damocle che egli coglie: se le culture televisive sono per eccellenza post-letterarie e metaculturali, il letterato deve raccogliere il guanto di sfida, accettando il pastiche dei generi e la contaminazione delle forme espressive, anticipando l’avanzata acefala della tecnica e combattendola sul suo terreno. il momento della saggistica è inoltre la vetta dell’eresia pasoliniana, il distacco definitivo da qualsiasi possibile prospettiva integrata, l’approdo del suo moto centrifugo dall’apparato concettuale della sinistra. La denuncia della deriva del prometeismo sociale. La sua assunzione nel pantheon dell’anti-modernismo. Non è un caso che sanguineti abbia definito Pasolini come “rappresentante tipico dell’anticapitalismo reazionario cattolico e romantico”. Nell’argomentare serrato e accorato degli Scritti corsari ha il suo compimento l’apologia pasoliniana dell’anima arcaica e rurale d’italia, ma anche il suo grido di ultimo esponente della tradizione umanistica. Valori popolari e umanistici: sulle macerie di entrambi si instaurava il nuovo mono-
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pensiero consumista. Anzi, proprio la frattura tra nazionale e popolare, costante della storia italiana, veniva in quattro e quattr’otto sanata a carico dell’ideologia del consumo, omologante se ce n’è una. il riferimento è alla distinzione gramsciana tra nazionale e popolare e della loro a-sinonimia nella storia italiana. da una parte (il nazionale) l’italia idea astratta, patrimonio di pochi e buonissimi, “idea platonica” ispiratrice della più grande civiltà artistico-letteraria che l’umanità abbia mai conosciuto, da dante a Leopardi, cultura alta per definizione. dall’altro lato (il popolare), l’italia esempio vivente di pluri-versum, luogo di molteplicità, dei molti dèi prima e delle molte Madonne poi, ineludibilmente refrattario alla reductio ad unum. “Gli intellettuali italiani – afferma Pasolini riferendosi alle classi intellettuali italiane di sempre – pensano che il popolo viva in una specie di sogno pre-culturale, cioè pre-morale e pre-ideologico. dove morale e ideologia sono viste come appannaggio esclusivo della classe borghese”.1 La distanza, mai colmata, tra la cultura alta (che è cultura borghese) e quella bassa, tra l’élite erede della più grande stagione dello spirito umano, e un popolo, o meglio, i popoli eredi di un’atavica ignoranza; tra l’anelito all’unità e la propensione alla diversità, è la vera “questione italiana”. e che il consumismo ha risolto, tutto in un colpo, nella sua vocazione semplicistica e antistorica, sciorinando la propria contro-cultura egemonizzante e omologatrice. È stato, secondo Pasolini, nella misconoscenza di questa tensione (appunto quella tra nazionale e popolare) che si è fatta l’italia nel più rigido centralismo, eludendo (cosa che continua tutt’ora) la necessaria presa d’atto della pluralità quale caratteristica consustanziale del tessuto sociale italiano. La negazione della dimensione pluralistica è il peccato originale che grava sulla costruzione unitaria dello stato; la costituzione federalista il passo che colpevolmente non si è mai accettato di compiere. insomma, Bossi non inventa nulla. e a livello linguistico la vicenda è del tutto parallela a quella politico-sociale. L’omologazione si sarebbe infatti realizzata, analogamente, ad opera della κοινή pubblicitario-commerciale, riuscita laddove avevano fallito Manzoni e carducci. ecco spiegato il “ritorno al dialetto”, che Pasolini compirà alla fine, nel suo perenne moto centrifugo, un tempo dal centralismo fascista, ora, ancor più radicale, dal ben più pericoloso centralismo
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della società dei consumi, che, “in pochi anni, anzi in pochi mesi, ha ridotto a relitti le vecchie culture particolari, ha relegato i dialetti a condizione di fossili”.2 Per Pasolini il dialetto è il prodotto della specificità di un luogo e delle sue situazioni, nasce sullo sfondo di bisogni umani dati in un certo tempo e in un certo spazio. il popolo vive una propria “età del pane” (e non “età dell’oro”, come vorrebbero gli utopisti-conservatori di tutti i tempi e di tutti i luoghi), è il luogo dell’ignoranza e del bigottismo per definizione, ma questi acquistano un senso nell’ambito di quella che è una peculiare visione simbolica conferita dalla spazializzazione e temporalizzazione dell’esperienza, sia pure esperienza di ignoranza o bigottismo. La specificità di una cultura dà senso alla specificità delle situazioni e delle condizioni che esistono all’interno di essa. essere ricchi o poveri non era un giudizio di valore all’interno del mondo arcaico-rurale, ma indicava una posizione sociale. dire che “essere poveri aveva un senso” vuole appunto dire che la povertà non era un’implicazione negativamente connotata che identificava una situazione di per sé da correggere, e che dunque poneva chi in questa situazione si trovava come un “malato”. Le culture dei popoli (e dunque i dialetti) non vanno minimizzate come espressioni basse e primordiali della cultura, ma hanno il loro significato nel rivendicare la “la totalità estraneità alla cultura della classe dominante”. scrive Pasolini: il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma è sostanzialmente ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. cultura e condizione economica sono perfettamente coincidenti. una cultura povera (agricola, feudale, dialettale) “conosce” realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l’infinita complessità dell’esistere. solo quando qualcosa di estraneo si insinua in tale condizione economica (ciò che oggi avviene quasi sempre a causa della possibilità di un confronto continuo con una condizione economica totalmente diversa) allora quella cultura è in
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crisi. È su questa crisi che, nel mondo contadino, si fonda storicamente la “presa di coscienza” di classe (su cui del resto incombe eternamente lo spettro del regresso). La crisi è dunque una crisi di giudizio sul proprio modo di vita, uno stringimento della certezza dei propri valori, che può giungere fino all’abiura (cosa avvenuta appunto in sicilia in questi ultimi anni a causa dell’emigrazione in massa dei giovani in Germania e nell’italia del Nord). 3
spariti i dialetti, “i poveri così si sono trovati di colpo senza più la propria libertà: in una parola, senza più i propri modelli la cui realizzazione rappresentava la realtà della vita su questa terra”.4 Le masse di Pasolini hanno la stessa accezione che in silone, il principio è quello dell’habeas animam. La classe rivoluzionaria vale come una categoria etica o estetica ma non economica: “è per me religione/ la sua allegria, non la millenaria/ sua lotta: la natura, non la sua/ coscienza”. L’abitante della dopo-storia è un “nuovo tipo di disadattato”: “l’emigrazione ha rotto come una alluvione gli argini che chiudevano il popolo dei poveri nelle antiche riserve. Attraverso quegli argini spazzati via, fiumane di giovani poveri sono andati a popolare altri mondi: mondi proletari e borghesi. si è creato un nuovo tipo di ‘disadattato’, che non ha modelli propri cui attenersi, trovando così in essi una specie di equilibrio consacrato”.5 dinanzi a una sinistra incancrenita nell’universalismo teorico e nel cosmopolitismo pratico, che si traduce in un’apologia indiscriminata dell’emigrazione, in un arroccamento pervicace nei palazzi chic del “politicamente corretto”, anche qui quello pasoliniano suona come un manifesto d’eresia. e da queste premesse deriva poi il terzomondismo di Pasolini. un terzomondismo del tutto estraneo all’umanitarismo radical: la condizione dei popoli del terzo mondo non è da correggere né “migliorare”, perché alludere a un presunto “meglio” di cui ci si suppone essere a conoscenza non è altro che l’atteggiamento soggiacente a ogni totalitarismo. La riflessione di Pasolini, pur nella apparente provocatoria eresia, possiede una propria rigorosa organicità, dotata di un centro di gravità. Questo centro è la constatazione che “qualcosa è accaduto”. e questo qualcosa è il “Nuovo Potere”. È saliente che Pasolini colga lo scarto qualitativo rea-
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lizzatosi in un qualche momento nel corso del Novecento, e la diversità sostanziale intercorrente tra un “prima” (la modernità come l’avevamo sempre conosciuta) e un “dopo” (una “nuova modernità”, la “modernità compiuta” per molti). Lui lo scarto lo colloca negli anni sessanta–settanta (anche perché guarda principalmente alla situazione italiana); ma è quello stesso che la vulgata inserisce successivamente all’‘89, altri più fini osservatori nel ’73 e così via. destra e sinistra, riunitesi nel nome di Locke, tanto apologeta del libero mercato quanto anti-conservatore per antonomasia hanno dato fuoco alle polveri del neo-capitalismo, il quale sul ticket assistenzialismo economico – prometeismo sociale vuole decretare la fine della storia nell’ambito dell’ipermercato globale, inteso quale luogo in cui si realizza coevamente la piena uguaglianza (il sogno marxista) e la piena libertà (il sogno liberista) degli uomini. uguaglianza nel consumare, libertà di consumare. È questo il salto di qualità della modernità registrato puntualmente da Pasolini. La realizzazione del grande sogno marxista ad opera del neo-capitalismo viene colto nella sua natura di atto fraudolento e subdolo, erogazione di libertà congeniale in realtà al totalitarismo del sistema (chi non usufruisce della sua libertà, cioè libertà di consumare, non è un uomo), la “peggiore repressione mai esercitata dal potere sulle masse di cittadini”.6 “oggi, l’adesione ai modelli imposti dal centro, è totale e incondizionata. i modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta”.7 Pasolini coglie la totalitarietà del “Nuovo Potere”, anzi “peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante”,8 prerogativa che lo rende erede del fascismo, dal quale raccoglie il testimone come vocazione al controllo sulla totalità delle esistenze e dell’esistente. se infatti un totalitarismo, a differenza di una dittatura, possiede una propria idea di Verità, allora il “Nuovo Potere” è l’ultimo e il migliore dei totalitarismi, perché l’accettazione della sua idea di verità avviene a livello di adesione inconscia. Addirittura, l’allievo supera il maestro, poiché il global-consumismo realizza con la pace quello che il fascismo faceva con la violenza. È così che in materia di “fascismo” (e dunque di “anti-fascismo”) si compie un’altra delle “imperdonabili” eresie pasoliniane. Nell’articolarsi del suo discorso infatti la categoria di “fascismo” subisce sì un’assolutiz-
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zazione, cui non soggiace tuttavia la mistificazione di esso quale fenomeno eterno e sempre impellente nelle sue forme storiche, bensì una trasfigurazione poetico-letteraria del vissuto alla dignità a-temporale di Mito, di linguaggio universalmente emblematico e valido. il “fascismo” è ciò che Pasolini ha vissuto ed è quanto di meglio gli si offra per dare definizione al “Nuovo Potere”: anche qui c’è l’io-lirico e non il sociologo, la precedenza del vissuto sul pensato. Ma Pasolini dichiara programmaticamente l’uso che egli in prima persona decide di fare del termine “fascismo”; dall’altra parte egli smaschera la deriva di tale nozione a “parola collutorio”. La “mania che ha preso gli italiani di darsi dei fascisti tra loro” viene ricusata come il frutto marcio dell’imbalsamazione del lessico e delle categorie della politica al tempo del cLN, allo scopo di perpetuarne all’infinito le forme e i contenuti (il pci come capofila dell’opposizione antifascista). Fascismo e antifascismo sono ormai due ectoplasmi, che si danno battaglia in quella danse macabre che è il dibattito politico-culturale degli anni settanta, integralmente auto-referenziale e del tutto trasparente rispetto a una realtà in cui le sue archeologiche categorie girano a vuoto. il nuovo ordine, avente le sue coordinate a livello multi-nazionale, rende vuoti i termini di casa nostra, dando “un colpo di spugna al fascismo tradizionale, che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo, vecchi ideali”.9 del passato che non c’è più restano due ruderi: un paleofascismo giurassico e un antifascismo di maniera. “esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. È, insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo”.10 Almirante non è nemmeno da “prendere in considerazione”, poiché “altrettanto ridicolo che Mussolini”;11 allo stesso modo “miserabili” sono gli antifascisti dell’“espresso”, così come i trinariciuti intoccabili dell’“unità”, da cui proviene un “silenzio assoluto sui nuovi valori esistenzialmente adottati dai ceti medi, col conseguente superamento effettivo del clericalismo e del paleofascismo. silenzio assoluto sui caratteri ‘scandalosi’ del nuovo fascismo, che vanificano l’antifascismo classico”: “il conformismo è sempre deplorevole, ma
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il conformismo di chi è dalla parte della ragione (cioè, per me, il ‘conformismo di sinistra’) è particolarmente doloroso”.12 Viene colto lo scadimento nella nominalità delle contrapposizioni (nominalmente antifascista è d’altronde lo stesso potere), un tempo pregnanti perché soggiacenti a vere e proprie antropologie tra loro non commensurabili, ora assorbite nel denominatore comune dell’unicum antropologico consumista. il modo di vestire, di portare i capelli (vedi il famoso articolo sui “capelloni” di Praga), di atteggiarsi: è nel comportamento in sé, quale atto culturale, che si palesa la “Nuova cultura”, e la sua nuova concezione antropologica trasversale alle vecchie contrapposizioni e appunto sul loro venir meno istituentesi. È il connubio straordinario tra passione e lucidità intellettuale a permettere a Pasolini di formulare le sue celebri profezie su alcuni sviluppi della società. in primo luogo quella sulla cancrena della rivoluzione, sfumata in un farsesco “anticonformismo di massa”, laddove il libertinaggio perdeva la sua carica eversiva dinanzi a un potere che non si presenta più come coercizione bensì come permissione. in questo ambito risiede la sua invettiva contro il sessantotto, che finirà di fatto per essere un vettore della rivoluzione antropologica neo-capitalista, assoldando alla sua causa de-costruttiva la polemica anti-tradizionalista della contestazione giovanile. Vi è poi la profezia riguardo alla perdita della base popolare da parte delle sinistre, quella sulla decadenza della “chiesa”e altre grandi intuizioni che troveranno spesso compimento quando ormai l’intellettuale corsaro non potrà più vederlo. cosa significa essere “intellettuali”? Pasolini a essere definito “intellettuale” ci teneva eccome, e capisce come il modo più appropriato per difendere tale qualifica era porla continuamente in discussione. “Non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. e noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? o il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. soprattutto il complotto ci fa delirare. ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità”.13
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egli comprende come la post-modernità si presenti come obsolescenza della carica dialettica tra le vecchie contrapposizioni (destra e sinistra, Progresso e conservazione, e così via), venendo spostato il quesito estrinsecamente alla modernità stessa, divenendo il dilemma non più tra “diversi modi” della modernità, ma tra modernità e non-modernità. Perché d’altronde è proprio l’ideologia egotistico-consumistica a realizzare pienamente il progetto della modernità: un individuo completamente escluso dal resto del mondo, solo con le proprie scelte libere, volontarie e razionali. come definire “conservatore” il “Nuovo Potere” che fonda la propria instaurazione sulla distruzione sistematica di ogni sostrato culturale e antropologico precedente? Guardare alla post-modernità come al “salto di qualità” della modernità e individuare come non più qualificanti le contrapposizioni valide con essa, ricercando il discrimine pregnante in altre antitesi, quali quella individualismo/comunitarismo, significa rigettare il paradigma relativo al ruolo dell’intellettuale sorto sulla faglia di frattura fondamentale della modernità, quella progresso-conservazione. ovvero l’intellettuale-guida della società, paradigma coniato a partire dall’illuminismo in implicazione alla fruizione vettoriale del tempo istituita dalla nozione di progresso, la quale scandisce un’avanguardia e una retroguardia lungo il suo percorso. L’“essere avanti rispetto a” (il popolo, il Potere, il resto della società) è risultato così essere il mandato dell’intellettuale della modernità, concezione che troverà espressione via via nelle élite progressiste, nelle carbonerie, nei movimenti d’avanguardia, fino ad arrivare al partito dei rivoluzionari di professione, teorizzazione che rispetto e quella di intellettuale borghese illuminato rappresenta un continuum, un parossismo, ma non un alter qualitativo. Nel momento in cui il Potere non si esprime più come coercizione, ma come permissione, reclamando l’adesione non solo dei corpi, ma delle stesse coscienze al proprio progetto totalitario e totalizzante, non più qualificante sulla scena della post-modernità risulta continuare a sventolare la bandiera della liberazione dell’individuo. Quanto sia attuale la lezione dell’intellettuale corsaro risulta da come la cittadella dell’intellettualità si barrichi e si pavoneggi ancora nella rivendicazione dei PAcs e delle ru486, pensando esservi ancora nella propria battaglia una carica eversiva (quando non trasgressiva) che di fatto più non c’è. Né eversione, ne tantomeno tra-
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sgressione. così tuonava invece Pasolini nel ’74: “se oggi penso ed esprimo questo, ciò avviene ormai nell’ambito di una programmazione generale di tolleranza decisa dal potere: il quale, in questo caso, ha bisogno del mio pensiero autonomo, della mia ideologia marxista e della mia passione radicale, per attuare quelle riforme che esso considera a questo punto necessarie (e di cui non può trovare ‘ideologi’ tra i suoi uomini tradizionali)”.14 È l’omogeinizzazione dei fini tra la battaglia per i diritti civili e gli interessi del “Nuovo Potere” ad avere reso possibile in pochi anni quell’accelerazione sociale che aveva proceduto a rilento per un secolo. Nel volgere di un battito di ciglia, da paese rurale-bigotto a paese avanzato-libertino; il tocco magico dell’ideologia del consumo aveva reso possibile lo stesso miracolo di cui si era resa protagonista a livello linguistico, riuscendo a dotare l’italia, tramite la “lingua prototipo-aziendale”, di quell’idioma nazionale che non si era riuscito a imporre né con l’unità né con le guerre mondiali. insomma, carosello era riuscito laddove avevano fallito Manzoni e carducci prima e Gentile poi, nel trasformare l’italia da paese semi-analfabeta a entità linguistica unitaria. Lo sfuggire della questione a una dimensione lineare richiederebbe all’intellettuale di “affrontare la contraddizione”. È così che l’obiezione di coscienza di Pasolini sull’aborto (egli si dice “contro le forme retoriche della lotta per la legalizzazione dell’aborto, e di stare quindi, in questo caso […] con i comunisti invece che con i radicali”) solo a costo di mistificazione metodologica è strumentalizzabile da parte di chi fa dell’anti-abortismo una questione di principio; essa si fa infatti meta-riflessione sul ruolo dell’intellettuale e sulla sua funzione nella società quale agente di problematicità, avversando la sua (auto)riduzione a fraudolento vettore di una linearità di fatto non più propria della questione. Analoga “ereticità” rispetto all’ortodossia radical-illuminista hanno le posizioni di Pasolini sulla chiesa. Quella sul destino di quest’ultima, destinata a ridursi a “spettro di se stessa”, abbiamo detto essere una delle sue grandi visioni profetiche. La crisi deriva dal non essersi proclamata sul consumismo, avendo pensato l’antitesi capitalismo/comunismo come quella urgente, ignorando la medesima matrice dei due quali ideologie egualitarie entrambe competitive con il cristianesimo. Non rimettendo il proprio
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mandato di organizzatrice sociale, ha taciuto sulle “stragi culturali e umane del nuovo potere” (che peraltro, “un cardinale non può avallare, senza soluzione di continuità col potere precedente”)15 ignara della metamorfosi del potere stesso, il quale la sollevava dalla sua posizione nel triumvirato stato-chiesa-Famiglia. È non cogliendo la deriva del proprio ruolo millenario di partito del popolo, che si è fatta succursale del welfare-state quale veicolo di redistribuzione, pensando la giustizia come giustizia sociale e non come giustizia davanti a Dio. decidendo di non andare a costituire un’antitesi in polemica con il mondo, ha misconosciuto la propria funzione di messaggera di un quesito drammatico e meta-temporale, come peraltro ha fatto nel corso di tutta la sua storia, caratterizzandosi nel tempo e nello spazio come agente sociale (sia esso nel Bene o nel Male, come ancella dei potenti o come maison du people). La chiesa doveva fare ciò che non aveva mai fatto nel corso della sua storia. La chiesa che, specialmente con Giovanni Paolo ii, idolatrato infatti dalla chiesa sociale degli scout e dei papa-boys, ha pensato di dover rincorrere il mondo sul suo terreno (i media in primo luogo), ha in questo modo commesso harakiri, gettando la fede nell’arena del mercato, in competizione con gli altri prodotti secondo le dinamiche e i parametri del mercato stesso, il vantaggio e lo svantaggio, l’utilità e l’inutilità, la maggiore o minore appetibilità. che la fede sia “debole” come prodotto commerciale è ben presto risultato evidente. in modo particolare, deleteria è stata la mancata comprensione della rivoluzionarietà della tv quale mezzo di comunicazione di massa. Questa è la “nemesi – sia pure incosciente – che punisce la chiesa per il suo patto col diavolo”.16 È così che Pasolini osserva sconsolato i “quattro gatti” che erano accorsi a una funzione di Paolo Vi, perché la “gente […] ha inconsciamente abiurato da una delle sue più cieche abitudini. Per qualcosa di peggio della religione, indubbiamente”.17 Pasolini non l’ha scritto, ma come l’omologazione antropologica accomunava, in primo luogo sul piano fisionomico, nuovi fascisti e nuovi comunisti, allo stesso modo ciò accadeva per i ragazzotti che si ammassavano nelle adunate di Giovanni Paolo ii, i “papa-boys”. un’altra cosa che si può aggiungere, certi che avrebbe sottoscritto, è che avrebbe guardato con grande
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se molto e gravi sono state le colpe della chiesa nella sua lunga lotta di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del Vangelo. in una prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica, è chiaro dunque ciò che la chiesa dovrebbe fare per evitare una fine ingloriosa. essa dovrebbe passare all’opposizione. e, per passare all’opposizione, dovrebbe prima di tutto negare se stessa. È questo rifiuto che potrebbe simboleggiare la chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta. o fare questo o accettare un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi”.18
L’intellettuale di cui da Voltaire a oggi è stato considerato compito integrante l’esercizio di una verve critica nei confronti della chiesa, è ancora una volta cieco dinanzi “quel qualcosa che è avvenuto”, nel momento in cui si incaponisce nel recitare questa parte del suo copione liberal-romanticoprogressista. La realtà è un altro film. Per la prima volta dai tempi di s. Paolo la chiesa non fa più paura; ad essa non va più tributato odio e disprezzo ma “solidarietà […] dovuta al fatto che – finalmente – la chiesa appariva come sconfitta. e quindi finalmente libera da se stessa, cioè dal potere”.19 chi va in pellegrinaggio a ostia? con questa domanda non può che chiudersi questo ricordo del Pasolini intellettuale corsaro. un uomo (e a maggior ragione un intellettuale) si giudica infatti anche e non secondariamente dagli eredi che lascia. Ma appunto, chi sono gli eredi di Pier Paolo Pasolini? Pluriversalismo, differenzialismo, politeismo, senso di comunità (nonché della sua perdita): l’opera di Pasolini si pone in eresia della sinistra, incuneandosi trasversalmente all’assiologia politica e dando conto dell’inservibilità della dicotomia destra – sinistra. dove sta il Progresso? dove la reazione? sono domande di questo tipo quelle che ci lasciano l’opera e la vicenda di Pasolini.
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rispetto a papa Benedetto XVi e alle sue “considerazioni inattuali” sulla società, al suo pensiero anti-mondano e anti-opportunista, forse fuori tempo massimo, ma ammirevole gigantomachia contro la macchina infernale del neo-capitalismo, lotta da eroe tragico/epico/pagano di un papa cattolico.
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Parallelamente, la sua riscoperta a destra è ancora stentata e tentennante, nell’ennesima manifestazione di imbellità di quell’eremo che è la destra culturale italiana, stretta tra la rozzezza della destra economico-orleanista (sia essa la destra nichilista e opportunista neobobbiana di Fini o quella governistico-pragmatica di Berlusconi) e quell’arlecchinata (fortunatamente stingente) che è la destra neofascista. Pensando il pensare come attività disorganica, essendo la tarda modernità in cui egli si muove allestita sulle macerie delle categorie della modernità medesima, sparse a destra quanto a sinistra, egli raccoglie l’appello della stagione della post-letteratura e della post-filosofia: l’invito all’intellettuale post-moderno a farsi ermeneuta della modernità, in una prospettiva rigorosamente metapolitica, che espleti nel campo delle idee (cultura quale storia delle idee) quella funzione demistificatoria e eversiva quale è invece impossibile svolgere nel campo della militanza politica, essendo la politica sfumata in una prassi di gestione/amministrazione, in cui la discussione avviene sulle modalità e non sulle finalità, ormai omogenee tra i partiti e nelle coscienze. Accogliendo l’idea che la tarda modernità sia un salto di qualità della modernità nel senso di una coalizione delle forze che la modernità l’hanno realizzata e caratterizzata, fusione avvenuta sul terreno del mercatismo, egli comprende la necessità di un nuovo lessico e di nuove categorie dinanzi alla novità della situazione. “Nuovo” è il Potere, “nuova” deve essere l’opposizione a quest’ultimo, trasversale alle logore coppie oppositive (progresso-reazione, destra-sinistra) che il potere stesso ha interesse a tenere in vita.20 e il suo testamento spirituale, la poesia Saluto e Augurio, è proprio l’invito a riflettere su questo mutamento che dovrebbe porci al di là della destra e della sinistra, riuscendo a fare ciò che egli, che la vita ha voluto omosessuale e comunista, non può fare. rivolgendosi a un giovane fascista lo esorta così: “odia quelli che vogliono svegliarsi, e dimenticarsi delle Pasque”. Lo invita poi ad amare i poveri, a non essere borghese, ma “santo e soldato”, anche se “santo senza ignoranza” e “soldato senza violenza”. “difendi, conserva, prega […] Prenditi tu sulle spalle questo fardello / io non posso: nessuno ne capirebbe lo scandalo”.
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Questa è la stessa confessione che troviamo nello scritto corsaro sui capelloni di Praga: “capii, e provai una immediata antipatia per quei due. Poi dovetti rimangiarmi l’antipatia, e difendere i capelloni dagli attacchi della polizia e dei fascisti”. c’è una tensione sublime in questa frase; l’anelito pasoliniano a una dimensione non solo ulteriore, ma addirittura altra rispetto a quella di intellettuale progressista. in tempi in cui destra e sinistra fanno a gara per fregiarsi la palma di pretoriano del liberalismo, ingaggiando estenuanti tira e molla sulle spoglia dei nuovi santi del pantheon del mondo globale, da de Gasperi a Von hayek fino a Locke, le parole di Pasolini suonano come una vera professione di anarchia e di eresia. “Grazie a dio si può tornare indietro. Anzi, si deve tornare indietro. Anche se occorre un coraggio che chi va avanti non conosce” è la chiosa finale di Saluto e Augurio: “io sono una forza del Passato. / solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, / dai borghi dimenticati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli. / Giro per la tuscolana come un pazzo, / per l’Appia come un cane senza padrone. / o guardo i crepuscoli, le mattine / su roma, sulla ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della dopostoria, / cui io sussisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta. Mostruoso è chi è nato / dalle viscere di una donna morta. / e io, feto adulto, mi aggiro / più moderno d’ogni moderno a cercare i fratelli che non sono più”. (un solo rudere). La modernità è arrivata al capolinea: “Gli uomini dovranno forse risperimentare il loro passato, dopo averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza. certo (come leggo in Piovene), il recupero di tale passato sarà per molto tempo un aborto: una mescolanza infelice tra le nuove comodità e le antiche miserie. Ma ben venga anche questo mondo confuso e caotico, questo ‘declassamento’”.21 “Bisogna strappare ai tradizionalisti il Monopolio della tradizione, non le pare? solo la rivoluzione può salvare la tradizione: solo i marxisti amano il passato: i borghesi non amano nulla, le loro affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è decorativo, o ‘monumentale’, come diceva schopenhauer, non certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia”.22
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“tradizione e marxismo. sì, insisto: solo il marxismo salva la tradizione. oh, ma capiscimi bene! Per tradizione intendo la grande tradizione: la storia degli stili. Per amare questa tradizione occorre un grande amore per la vita. La borghesia non ama la vita: la possiede. È ciò implica cinismo, volgarità, mancanza reale di rispetto per una tradizione intesa come tradizione di privilegio e come blasone. il marxismo, nel fatto stesso di essere critico e rivoluzionario, implica amore per la vita, e, con questo, la revisione rigenerante, energica, amorosa della storia dell’uomo, del suo passato”. 23 Per chi ha ancora il prurito di definirsi anti-borghese Pier Paolo Pasolini è un punto di riferimento essenziale. tutti gli altri guardino e passino.
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1. P. P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975; pag. 211. 2. ivi; pag. 163. 3. ivi; pag. 181. 4. ivi; pag. 164. 5. ivi; pag. 163. 6. ivi; pag. 124. 7. ivi; pag. 22. 8. ivi; pag. 133. 9. ivi; pag. 229. 10. ivi; pag. 232. 11. ivi; pag. 234. 12. ivi; pag. 113. 13. P. P. Pasolini (intervistato da Furio colombo), Siamo tutti in pericolo (l’ultima intervista di Pier Paolo Pasolini), pubblicata da “tuttolibri”, settimanale d’informazione de “La stampa”, 8 novembre 1975. 14. P. P. Pasolini, Scritti corsari, cit.; pag. 199. 15. ivi; pag. 113. 16. ivi; pag. 16. 17. ivi; pag. 32. 18. ivi; pag. 80. 19. ivi; pag. 84. 20. “sono convinto che l’unica destra possibile oggi sia fuori della politica, nella vita di ogni giorno, nella profondità dell’anima dei popoli e delle persone, o nell’iperuranio dove riposano gli archetipi celesti. e sono convinto che sopravviva sotto falso nome, anche se più spesso mi assale il dubbio opposto che falso sia il nome di destra per definire questa sensibilità verso la tradizione. […] La destra divina di Pasolini non era una destra storica ma onirica, perché viveva nella dimensione del sogno. stupido è dunque cercarla nella realtà”. M. Veneziani, L’autentica “destra divina”? Figlia di Pier Paolo Pasolini, in “il Giornale” del 27 novembre 2009. 21. P. P. Pasolini, Scritti corsari cit.; pag. 180. 22. P. P. Pasolini, articolo apparso su “Vie nuove” del 18 ottobre 1962. 23. P. P. Pasolini, articolo apparso su “Vie nuove” del 22 novembre 1962.
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Mi sono spesso chiesto perché sono rimasto tanti anni a fare il segretario del sindacato scuola cGiL di Alessandria: dieci anni di ‘distacco’ dalla scuola e prima ancora tanti altri anni di ‘doppio’ impegno, dall’inizio di questa avventura che è stato un sindacato della scuola nella cGiL. La risposta che mi sono dato per me è convincente: prima, negli anni settanta, a condividere le grandi illusioni: l’esigenza di promuovere grandi riforme, la possibilità di affermare la parte migliore della nuova cultura di cui era portatrice la classe operaia: l’elevamento delle conoscenze di tutti i cittadini attraverso la promozione di una scolarità di massa, lo sviluppo della partecipazione ai processi formativi, anzi – come si disse allora – la necessità di affermare una ‘gestione sociale’ della scuola, il tentativo di realizzare una educazione degli adulti, possibilmente ricorrente. e dentro la scuola, con gli operatori, il sindacato si pose come propulsore e riferimento di una pedagogia ed esperienze didattiche innovative, si batté e ottenne la stabilizzazione del personale (chi ricorda che allora i professori “di ruolo” alle superiori erano solo il 30%?), fu promotore di sperimentazioni importanti, come il ‘tempo pieno’ alle elementari che per contenuti, tecniche didattiche, organizzazione fu l’embrione delle idee guida che hanno portato alla formulazione dei nuovi programmi. 1
così, in un testo manoscritto, presumibilmente del 1987, 2 Adriano Marchegiani rammenta con mirabile sintesi il contesto in cui nacque e si mosse il sindacato scuola cGiL di Alessandria tra la fine degli anni sessanta e il decennio successivo. Fu, quella, una stagione straordinaria – e per molti versi irripetibile – di profonde trasformazioni della scuola, conseguenti al “miracolo economico” degli anni 1958-‘63 e contestuali alla crescita imponente della domanda di istruzione da parte di ceti sociali fino ad allora esclusi dai percorsi formativi. Ma fu anche una stagione di contraddizioni insanabili, contraddistinta dalla nascita della società dei consumi, con i suoi peculiari processi di omologazione, dalla repentina e inattesa secolarizza-
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zione della società civile, dall’espansione “patologicamente rapida”3 della piccola borghesia e dalla profonda trasformazione dei conflitti sociali. il sistema di istruzione si trovò al centro di una serie complessa di mutamenti che, irrompendo in esso, ne modificarono profondamente aspetti strutturali fondanti, a partire dal ruolo stesso dei docenti e degli studenti: da un lato furono poste in discussione l’autoreferenzialità della scuola e le modalità tradizionali di trasmissione del sapere; dall’altro nacque un vasto movimento di contestazione dell’autoritarismo, del nozionismo, della selezione di classe, della subalternità della scuola e dell’università alla cultura dominante e alla trasmissione di un sapere acritico, inteso come riproduzione di forza lavoro adeguata alle nuove istanze della produzione capitalistica. Non casualmente vasta parte della cultura cattolica del dissenso – nata sulla scorta delle innovazioni del concilio Vaticano ii – e della cultura socialista e comunista trovò un momento di incontro intorno all’esperienza pastorale ed educativa di don Milani e al testo Lettera a una professoressa,4 che anche ad Alessandria destò grandissima attenzione e diede vita a un serrato dibattito.5 una nuova generazione di docenti,6 mentre avvertiva il mutamento del proprio status sociale e l’esigenza di un movimento sindacale adeguato alle urgenze di una inedita “questione degli insegnanti” (secondo le stime del Ministero della Pubblica istruzione, tra il 1971 e il 1973 la nascita della scuola di massa7 determinò una svolta radicale nelle procedure di immissione in ruolo, cosicché nel 1978 l’83% degli organici risultò non aver superato alcuna procedura concorsuale),8 si impegnò nella – ormai ineludibile e improcrastinabile – trasformazione pedagogica e didattica della scuola.. Fu questo lo sfondo della scelta del PsiuP di riprendere e declinare in termini più fortemente politici l’istanza espressa nel 1963 dalla Mozione 4 del sindacato nazionale scuola media,9 che indicava la necessità di “una svolta decisiva in tutta l’impostazione dell’attività sindacale” e auspicava “l’unità dei sindacati della scuola e la collaborazione con tutte le confederazioni dei lavoratori”.10 L’attivo nazionale scuola del partito aprì ufficialmente nell’autunno del 1965 il discorso relativo alla costituzione di un “sindacato di classe”, aderente alla cGiL e costituito da tutti i lavoratori della scuola, compresi, almeno in prospettiva, anche gli studenti.
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dopo due anni di intenso lavoro preparatorio, si giunse alla riunione del comitato direttivo nazionale della cGiL del 13-14 luglio 1967, in cui, a maggioranza, fu approvato l’o.d.g. che affermava: “constatata la crescente frammentazione sindacale esistente nel settore e la necessità che l’impegno per un collegamento più diretto fra scuola e società si accompagni a una più valida difesa della condizione professionale degli insegnanti ancora assai precaria, il c.d. riconosce la necessità di una presenza diretta della cGiL nel campo scolastico”.11 (contraria a tale decisione fu la minoranza socialista, allora impegnata in un complesso processo di unificazione interna e propensa all’aggregazione del sindacalismo autonomo già esistente, piuttosto che alla costruzione di una nuova forza sindacale. il 17 dicembre 1967 l’Assemblea costitutiva nazionale, riunita ad Ariccia sotto la guida del segretario della cGiL Luciano Lama, dichiarò “costituito il sindacato scuola cGiL, aperto a tutti i lavoratori della scuola, da quella materna all’università.” il discorso conclusivo di Lama indicò la ragion d’essere del nuovo sindacato “innanzitutto nella difesa quotidiana degli interessi professionali di tutti i suoi aderenti, ma anche con la capacità di collegare le lotte rivendicative con i grandi temi della riforma della scuola e dell’università, nel quadro del rinnovamento generale del Paese, di stabilire un dialogo positivo con i lavoratori.” 12 si prefigurava, in tal modo, una frattura (che contraddistinguerà tutti i primi anni di vita del sindacato) tra la componente comunista – orientata verso un impegno più precipuamente sindacale, che considerasse anzitutto i problemi della categoria e, in seconda istanza, il loro rapporto con la riforma della scuola e della società – e la componente psiuppina, che inseriva l’azione sindacale nel quadro di una contestazione globale del sistema capitalistico e poneva attenzione a temi politici generali declinati secondo un’interpretazione sostanzialmente marxista e rivoluzionaria della società e della cultura. 13 La storia del sindacato scuola cGiL di Alessandria si articola sostanzialmente in tre fasi: quella della costituzione, che affonda le radici nella metà degli anni sessanta e che vede coinvolto un gruppo di intellettuali legati al PsiuP; la stagione della crescita e del radicamento sul territorio, che copre quasi interamente gli anni settanta e ruota soprattutto intorno alla figura centrale di Adriano Marchegiani; e il periodo in cui si configura
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una crisi di ruolo del sindacato, che si allontana dalle radici ideologiche delle origini, per assumere progressivamente un ruolo tecnico, ancorato in modo crescente alle pratiche burocratiche e alla soluzione dei contenziosi individuali. come ricorda Giuseppe Amadio, uno dei fondatori del sindacato scuola cGiL, il gruppo alessandrino “fu tra i primi –insieme ai gruppi di Firenze e di roma – a sorgere e a operare in italia”. 14 Ne facevano parte i giovani intellettuali che tra il 1954 e il 1956 avevano dato vita alle più significative e innovative esperienze culturali cittadine (la terza pagina de “L’idea socialista”, il circolo del cinema, il circolo de sanctis, il cineforum), caratterizzate da un “forte e aperto legame tra cultura e impegno civile e politico” e da un’ispirazione progressista di segno marxista e gobettiano 15: tra di essi, in primo luogo Giorgio canestri, divenuto nel 1964 componente della segreteria provinciale e del consiglio nazionale del PsiuP e Adelio Ferrero, eletto nel direttivo provinciale di tale partito. 16 dirigenti psiuppini, in gran parte vicini alle posizioni di Lelio Basso, erano anche gli altri fondatori del sindacato scuola, appartenenti a vari ordini di scuola: alla secondaria superiore, come dino Bonabello, Luigi capra, Franco Livorsi, Franco Molinari; alla scuola media, come Andrea Foco e Adriano Marchegiani (incaricato già nel gennaio 1964 del settore scuola della sezione cittadina del PsiuP); 17 e alla scuola elementare, come Giuseppe Amadio e Pietro Lombardi. 18 solo in un secondo momento si avvicinarono al gruppo promotore del sindacato cGiL intellettuali legati al Pci, come delmo Maestri e carla Nespolo. Potremmo, dunque, individuare un filo rosso che collega l’esperienza maturata negli anni cinquanta dai circoli culturali progressisti alessandrini alla costruzione della cGiL scuola verso la fine degli anni sessanta e, successivamente, come vedremo, ai movimenti culturali d’avanguardia, attivi per tutti gli anni settanta nel mondo della scuola alessandrino. in questo senso, l’accusa ricorrente “di essere una ristretta élite, una sorta di ‘aristocrazia della cultura’ piuttosto chiusa e selettiva” 19 si mostra ancora una volta infondata, non solo perché questi intellettuali seppero allargare la loro operatività alla concreta militanza politica nel PsiuP e nel sindacato, ma soprattutto perché lo sforzo di apertura alla società, che fu –afferma giu-
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stamente Ballerino – una loro fondamentale caratteristica, la loro grande operatività e capacità organizzativa e il loro indubbio carisma costituirono l’humus di profonde innovazioni della cultura e della scuola del territorio, per almeno due decenni successivi. La precocità dell’esperienza alessandrina è testimoniata dal fatto che fin dal 1964, anno di fondazione del PsiuP, il bollettino provinciale del partito, “Filorosso”, 20 dedicò ampio spazio alla questione della riforma della scuola, analizzata sulla base di principi valoriali (che saranno alla base della successiva costruzione del sindacato scuola cGiL) robustamente ideologici, radicati in una visione antistatalista e antagonistica della società: il rifiuto della “aziendalizzazione dei valori educativi”, parallela alla “aziendalizzazione della intera società”; “la realizzazione del diritto allo studio; il rinnovamento degli ordinamenti scolastici in un senso che rimuova le barriere di classe; la necessaria, elevata formazione culturale per tutti e la possibilità di accedere a ogni ordine di studio e di specializzazione; l’attuazione dell’autogoverno e della democrazia nella scuola; la preparazione degli insegnanti e una loro adeguata condizione economica e giuridica; l’acquisizione, nella scuola, di qualifiche che vengano riconosciute sul lavoro come patrimonio autonomo del lavoratore; una direzione dei contenuti culturali lungo un asse storicoscientifico, che esalti le abitudini alla razionalità e all’autodeterminazione”.21 tali valori erano ritenuti “alternativi alla scuola esistente” e raggiungibili mediante una “battaglia scolastica”, parallela a quella più generale anti-capitalistica, il cui obiettivo fosse la costruzione di “un rapporto cultura-professione, istruzione-qualifica, che consenta al lavoratore sfruttato di esaltare, insieme alla sua autonomia, la sua forza di contestazione degli attuali rapporti di classe”. 22 Analoghi temi erano contenuti nelle linee politico-programmatiche stilate in vista delle elezioni amministrative del 22 novembre 1964,23 nelle quali si manifestava il radicamento nel “patrimonio culturale del socialismo marxista” che, secondo simona colarizi, costituiva il punto di riferimento fondamentale del PsiuP.24 tra il giugno del 196525 e l’inizio del 1966, la Federazione alessandrina del partito si impegnò in una fitta attività preparatoria della “costituzione di un sindacato di classe, aderente alla cGiL e raggruppante tutti i lavoratori della scuola (maestri, professori, personale non insegnante e ausiliario,
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e in prospettiva anche gli studenti e i docenti universitari)”, destinato a condurre la “lotta per una riforma democratica della scuola”, assunta come “lotta anticapitalistica, gestita direttamente da tutto il movimento operaio e collegata all’impegno di elaborazione di una cultura antagonista ai valori della società borghese”, giacché “il posto dei lavoratori della scuola […] è nel movimento operaio […] e su una piattaforma politica alternativa all’uso capitalistico della scienza, della tecnica e della cultura, al tentativo cioè di riorganizzare la società secondo la misura dello sfruttamento e del profitto”.26 Nei primi mesi del 1966 tale attività approdò alla costituzione di un comitato di iniziativa, 27 tra i primi in italia, che muoveva “da un’analisi di classe che coglie quella scolastica come la fase iniziale dell’uso capitalistico della forza-lavoro”.28 Nel marzo di quell’anno fu elaborato il documento costitutivo 29 del sindacato scuola alessandrino, intitolato 12 ‘tesi’ , a firma comitato d’iniziativa sindacale per la provincia di Alessandria, ma stilato da Giorgio canestri. il testo rivela con chiarezza l’assoluta preminenza dell’interesse politico rispetto a rivendicazioni più precipuamente sindacali; vi compare infatti un’articolata elaborazione, espressa nel lessico del marxismo, che assume le trasformazioni e lo sviluppo della scuola come esito del mutamento strutturale costituito dal passaggio a un capitalismo più maturo, interessato a “riorganizzare tutta la società secondo il metro degli interessi di classe dei grandi gruppi capitalistici dominanti”. La scuola di massa è dunque interpretata come “un’esigenza obiettiva del sistema capitalistico”, che “ha bisogno di un vasto mercato del lavoro di elevata qualificazione, capace di corrispondere al rapido rinnovamento tecnologico dei processi produttivi” e che, contestualmente, necessita di “forze di lavoro ‘docili’ e subalterne: che siano in grado di corrispondere a quelle esigenze e che insieme non mettano mai in discussione il sistema, non si facciano mai portatrici di valori alternativi, di modi diversi di organizzazione del lavoro e della società”. A partire da tale contesto e dalla nuova collocazione sociale delle forze intellettuali della scuola, è tratteggiato un nesso strettissimo tra questione politica generale e professionalità docente: “ogni iniziativa per uno sviluppo democratico della scuola non ha più nessun senso, ammesso
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che l’abbia avuto, se resta su un piano settoriale e non si collega invece ad una azione volta a modificare l’intera società”; è dunque ritenuto necessario “contrapporsi all’arco delle scelte capitalistiche in nome di altre scelte, di altri bisogni, di altri interessi di classe”, non già come “generico ‘collegamento’ del sindacalismo scolastico con quello operaio”, bensì come consapevolezza che i lavoratori della scuola “sono già essi stessi, obiettivamente, proletariato” e che è “la logica dello sviluppo capitalistico e dell’estensione della ferrea legge del profitto, che proletarizza strati sempre più vasti della società”. il sindacato scuola è allora pensato come “inquadrato organicamente nelle grandi centrali operaie”, in quanto avanguardia della lotta anti-capitalistica, fondata sulla “acquisizione di una nuova coscienza del rapporto scuola-società”. in tale prospettiva gli obiettivi sindacali sono incentrati sui temi del diritto allo studio, della lotta alla “utilizzazione capitalistica delle forze di lavoro intellettuale” e della istanza di una radicale trasformazione della scuola e della professione docente, in senso antiburocratico, antigerarchico e antiautoritario. in altri termini, agire politico e agire sindacale sono fatti coincidere, nella prospettiva di una riforma radicale della società, della scuola e della cultura. si trattava di una prospettiva comune, in tutta italia, alla maggioranza dei dirigenti del nascente sindacato scuola (che tendevano a relegare “in secondo piano o su un terreno puramente strumentale i compiti di difesa sindacale della categoria”),30 ma anche a tutte le forze democratiche e progressiste, al nascente movimento studentesco e ai docenti più giovani, sia pure con radici politiche e ideologiche diverse, dal socialismo marxista alla dottrina sociale della chiesa. il documento termina con l’indicazione dell’indirizzo provvisorio del comitato di iniziativa sindacale, presso l’abitazione privata di Adriano Marchegiani, scelta non casuale, dettata dalla considerazione delle differenti opzioni personali interne al gruppo promotore, come rammenta Franco Livorsi: da un lato, coloro che erano interessati al lavoro più precipuamente politico e che emblematicamente pensavano a un sindacato scuola comprendente anche gli studenti; dall’altro, i quadri maggiormente coinvolti nella costruzione concreta della struttura sindacale, come Adriano Marchegiani, che avrebbe dedicato al sindacato tutto il resto della vita e sa-
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rebbe divenuto per tre decenni il punto di riferimento nodale di tutti gli attivisti e i quadri della cGiL scuola non solo locale, ma anche regionale e nazionale.31 Le forze maggiormente interessate agli aspetti organizzativi concreti della costruzione del sindacato tendevano peraltro a contrastare l’ipotesi di un inserimento degli studenti al suo interno32 e condividevano di fatto la linea pragmatica della componente comunista del sindacato nazionale, che privilegiava rivendicazioni di tipo contrattuale, connesse ai problemi fattuali della categoria. in questa fase, come andavano facendo in diverse città altri gruppi di insegnanti iscritti al PsiuP,33 il gruppo di Alessandria deliberò l’iscrizione alla camera del lavoro territoriale, presso la Federazione nazionale statali, che raccoglieva allora tutti i lavoratori dello stato, compresi i dipendenti delle ferrovie. Per questa ragione, alcuni articoli riguardanti la scuola e la costituzione di un sindacato della scuola cGiL furono accolti dal giornale territoriale dei ferrovieri, “il fischio”. dico “accolti”, perché, a memoria di tutti coloro che vissero quei primi anni della vita del sindacato provinciale (ma anche la prima parte degli anni settanta), un certo operaismo diffuso nella camera del lavoro alessandrina induceva allora, se non vera e propria ostilità, certamente una buona dose di diffidenza nei confronti di una categoria che non era considerata propriamente di lavoratori, e che talvolta, sia pure scherzosamente, era fatta oggetto di qualche lazzo e qualche distanziamento, soprattutto a opera dei quadri di estrazione operaia. A partire dal 1966, sia in ambito nazionale, sia in ambito locale il PsiuP divenne punto di riferimento per il nascente movimento studentesco. come sostiene la colarizi, le piccole dimensioni del partito, la sua agilità e duttilità, la sua magmaticità che s’apriva a percorsi teorici diversificati, la sua possibilità di porsi come forza antagonista al sistema, senza timore di perdere consensi elettorali gli consentivano di attirare le “giovani generazioni studentesche e operaie, ancora prive di vincoli solidi con i partiti e con i sindacati tradizionali”.34 È una caratteristica che riguarda anche Alessandria, come emerge anche dall’articolo di “Filorosso” del 30 giugno 1966, già citato. in questo periodo aderirono al partito anche giovani cattolici, divenuti critici nei confronti della democrazia cristiana e della chiesa, che trovarono negli intellettuali alessandrini legati al PsiuP e impegnati nella costru-
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zione della cGiL-scuola i loro interlocutori privilegiati. ricorda in proposito Mario Arnoldi che “in quegli anni agivano in città […] un ‘circolo de sanctis’ […] ed […] un ‘circolo del cinema’, diretto […] dal prof. Adelio Ferrero […]. con alcuni rappresentanti di queste associazioni avevamo contatti, sia pure personali e non organici. Anche alcuni aderenti al PsiuP […] avevano un atteggiamento di apertura nei nostri confronti.[…]. Furono fecondi gli scambi coi professori dino Bonabello, Giorgio canestri, Franco Livorsi ed altri”.35 in città, il legame con gli studenti fu ulteriormente facilitato dalla presenza, tra i dirigenti psiuppini, di numerosi insegnanti di scuola secondaria superiore (tutti facenti parte del gruppo impegnato nella costruzione della cGiL-scuola), particolarmente carismatici e capaci di porsi in una dimensione di dialogo aperto e costruttivo con i giovani. tale rapporto è testimoniato dall’intervento a favore degli studenti medi in lotta, pubblicato nel marzo 1968 da “il Piccolo” di Alessandria, dopo due giornate di sciopero e manifestazioni studentesche in città. in esso, alcuni docenti, in gran parte militanti del PsiuP e del sindacato scuola (tra gli altri, dino Bonabello, Bruna Bonabello rolando, Giorgio canestri, Anna canestri Baroncini, Luigi capra, Adelio Ferrero, Francesco Molinari, Marisa Vescovo),36 affermavano di aver “fin dall’inizio solidarizzato con le rivendicazioni degli studenti medi alessandrini”, esprimevano “adesione all’obiettivo dell’assemblea di base, che ha costituito la rivendicazione di fondo dello sciopero ed è stata caratterizzata come elemento unificatore della crescente presa di coscienza studentesca e come sede istituzionale di verifica e di proposta per una radicale trasformazione della scuola”, e concludevano con l’invito a tutti gli insegnanti “a considerare più che mai necessario l’impegno diretto di tutte le componenti della scuola per trasformare in senso antiautoritario e antiburocratico la scuola e la società”.37 in città si era costituito l’orsA (organismo rappresentativo studentesco alessandrino), cui aderivano studenti medi, tra i quali non pochi militanti della Federazione giovanile del PsiuP. Proprio un’intervista a quattro di loro (Piercarlo Bina, ezio Boccassi, Piero Gazzaniga, efrem Merlo) mostra, da un lato, come vi fosse un effettivo legame tra il PsiuP alessandrino e il movimento studentesco, dall’altro che l’ipotesi di un sindacato scuola
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comprendente anche gli studenti era di fatto ambigua e velleitaria; e soprattutto che non era condivisa dal nascente movimento studentesco, il quale rivendicava più ampie autonomie. Affermavano infatti i giovani intervistati: “L’obiettivo che insieme ai nostri colleghi ci proponiamo è di fare dell’orsA un organismo sindacale unitario profondamente radicato tra i giovani […] puntiamo all’organismo cittadino di tutti gli studenti medi per unificare la nostra presenza attiva, superare i ‘campanilismi’ d’istituto, sottrarre la nostra esistenza a ogni tutela, paternalistica o repressiva, nelle singole scuole. […] contiamo di costruire una concreta piattaforma rivendicativa, che sappia costantemente riferire ogni suo momento particolare a una prospettiva generale di riforma della scuola. […] i problemi degli studenti, se affrontati seriamente, nel loro rapporto con la società, non sono un fatto settoriale o corporativo, ma comportano invece precise scelte […] scegliere vuol dire appunto partecipare, cioè fare politica nel significato più autentico del termine. ecco allora che si chiarisce la necessità che l’orsA elabori un’autonoma politica sindacale”.38 in ogni caso, a causa della crescente divergenza delle elaborazioni politiche e della nascita anche ad Alessandria di gruppi extra-parlamentari, in primo luogo “Lotta continua”, PsiuP e cGiL scuola non riuscirono a egemonizzare il movimento studentesco e il legame andò progressivamente affievolendosi, come emerge dal resoconto di una assemblea, organizzata dalla cGiL scuola cittadina, l’11 marzo 1970, intorno alla questione del “ruolo politico-sindacale dei professori”. La relazione introduttiva fu affidata a dino Bonabello e fu seguita da interventi di Franco Livorsi, Mario Annone e Franco Molinari, tra gli insegnanti; e dino sburlati e Giuseppe rinaldi, allora iscritti a Lotta continua, tra gli studenti. il dibattito si incentrò sui temi del ruolo docente – ritenuto dagli studenti “oggettivamente” repressivo –, del nesso tra dequalificazione della scuola e voto unico, dello spontaneismo del movimento studentesco e della possibilità di creare un movimento di massa, capace di unire studenti, docenti e classe operaia in un processo di trasformazione complessiva della società. il risultato, al di là delle intenzioni e dei proponimenti per il futuro, fu di fatto uno scontro non rimarginabile.39 sostanzialmente, i docenti legati al PsiuP e al sindacato scuola, a monte della parabola discendente del movimento
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studentesco alessandrino individuavano il massimalismo e il tatticismo di molte sue componenti, che accusavano di “aver abbandonato qualsiasi discorso che potesse avere il benché minimo aggancio con i temi della ristrutturazione democratica della scuola”, a favore di una “massimalistica opposizione a tutto ciò che sa di scuola e di cultura”.40 tale critica finiva tuttavia con il coinvolgere lo stesso sindacato scuola cGiL, al quale si poneva l’interrogativo del perché non avesse saputo rispondere alle istanze di un concreto e costruttivo collegamento tra docenti e studenti e lavorare su nuovi obiettivi e contenuti della lotta sindacale, legati alle questioni nodali più urgenti della battaglia contro l’autoritarismo e per la costruzione di una scuola “altra”, non subordinata agli interessi del capitale. Particolarmente significativo appare un articolo di Franco Livorsi, che – nell’ambito di una critica all’estremismo emotivo e confuso di parte del movimento studentesco – ripropone la questione della qualità della scuola nel quadro di una concezione rivoluzionaria, che ribalta la logica del voto unico e della contestazione della cultura e della scuola, quali espressioni autoritarie e alienanti del potere capitalistico. scrive, infatti, Livorsi: “io credo politicamente utile riqualificare la scuola per farne una base di movimento, un centro non volto alla collaborazione con il sistema ma alla lotta contro il sistema, un momento iniziale di rivoluzione culturale, uno strumento che serva alla presa di coscienza del maggior numero di studenti e di insegnanti”. La scuola, dunque, è intesa come “un centro di rivoluzione culturale che deve proiettare i suoi risultati nella lotta antimperialistica, di fabbrica e di quartiere della classe operaia”.41 Nel 1969, la cGiL scuola di Alessandria si era ormai dotata una propria strutturazione interna (segretari provinciali erano Giuseppe Amadio e Adriano Marchegiani) e di un proprio mensile “di informazione e di dibattito;42 e andava elaborando una riflessione puntuale sul ruolo del sindacato. Nei testi dell’epoca compariva ancora un nesso consistente con i presupposti ideologici del marxismo e persino, parzialmente, del maoismo, evidente soprattutto nel lessico utilizzato; e tuttavia, seppur inquadrata all’interno di una prospettiva rivoluzionaria e operaistica, la declinazione degli obiettivi dell’azione sindacale si faceva più attenta ai problemi fattuali della categoria e cominciava a ruotare intorno al tema – che sarebbe
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divenuto sempre più centrale – dell’incremento degli organici. esemplare a tale proposito una dichiarazione di Amadio e Marchegiani, nella quale, accanto alla rivendicazione di una visione classista complessiva – che fa riferimento a un concetto nodale del materialismo storico marxista43 e secondo cui una “scuola al servizio del popolo si può fare soltanto con il contributo determinante e irrinunciabile dell’impegno diretto della classe operaia e delle masse popolari”– emerge la volontà di affrontare “seriamente le questioni relative agli ordinamenti, al personale, alle strutture materiali e ad altri aspetti apparentemente settoriali e limitati”. coerentemente, gli obiettivi indicati come prioritari (“attuazione della scuola materna pubblica”, “attuazione effettiva dell’obbligo”, “estensione dell’obbligo al diciottesimo anno di età”, “attuazione a tutti i livelli della scuola a tempo pieno”) sono connessi alla soluzione dei “problemi più importanti delle categorie che lavorano nella scuola”, giacché, si argomenta, “l’istituzione della scuola materna, l’abolizione delle pluriclassi e l’abbassamento del numero massimo di alunni per classe […] comportano l’eliminazione, almeno in gran parte della disoccupazione a livelli di scuola elementare e media: l’attuazione del tempo pieno comporta la revisione dell’orario di lavoro e delle stesse funzioni di tutto il personale, consentendo la ripresa della dinamica retributiva oltre i limiti dell’ultimo riassetto”; e a tali riforme si legano “immediatamente la questione della formazione e dell’aggiornamento degli insegnanti e dell’altro personale, la questione dello stato giuridico, ecc.”.44 cominciavano intanto a svilupparsi concrete iniziative di rinnovamento della scuola e della didattica. Nel luglio del 1968, il circolo Mondo nuovo di Alessandria organizzò un corso di preparazione agli esami di settembre per la scuola media inferiore, gli istituti tecnici, i licei e l’istituto magistrale, riservato ai figli degli iscritti del comune di Alessandria. referente del corso era Andrea Foco e tutti i docenti erano iscritti al partito o comunque impegnati nella costituzione del sindacato scuola cGiL45. una seconda, significativa iniziativa nacque l’anno successivo nella scuola media “Manzoni” di tortona, in cui si era raccolto un gruppo di giovani docenti, alcuni dei quali legati al PsiuP e al sindacato scuola cGiL: nella prima metà del settembre 1969, fu organizzato un corso per gli studenti con difficoltà di ap-
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prendimento, sostitutivo degli esami di riparazione di settembre. in mancanza di un lessico specifico, ancora non elaborato dalla pratica pedagogica e didattica di quegli anni, il corso fu chiamato “corso di aggiornamento” ed ebbe, a detta degli organizzatori, un notevole successo.46 Lo stesso gruppo di docenti nel 1971 diede vita a un comitato scuolafamiglia, che organizzò un movimento di protesta per la gratuità dei libri di testo, ponendo al sindaco e alla giunta di centro-sinistra tortonesi l’istanza dell’utilizzo del bilancio comunale per garantire l’applicazione concreta dell’art. 34 della costituzione. Vi furono incontri con gli amministratori cittadini, seguiti da assemblee particolarmente affollate, un corteo che attraversò le vie cittadine e un comizio nella piazza del duomo di tortona.47 Andava così configurandosi la grande stagione della partecipazione dei lavoratori alle battaglie per la scuola, che sarebbe sfociata nella emanazione dei decreti delegati del 1974 e che fino al 1977 avrebbe visto impegnati fianco a fianco insegnanti, sindacati operai, partiti politici, forze sociali e comitati democratici dei genitori nella lotta per la democratizzazione e la riforma della scuola. Non stupisce la reazione delle forze conservatrici tortonesi legate alla democrazia cristiana e agli ambienti clericali, che individuarono nella scuola “Manzoni” il terreno di un vero e proprio scontro politico e sociale, come emerge dalla stampa locale dell’epoca. il clima di tensione sfociò in una vicenda giudiziaria che ebbe risonanza nazionale: nel febbraio del 1971, durante un’esercitazione di disegno guidata da Marisa Vescovo, un allievo rappresentò una scena onirica, con espliciti richiami erotici, completati successivamente, al di fuori dell’orario di lezione, da dettagli particolarmente espliciti; l’elaborato, affisso alla parete dell’aula, fu accusato di oscenità e ne seguirono una denuncia alla magistratura e un processo, celebrato nel dicembre 1973. La mobilitazione delle forze democratiche fu imponente (coinvolse, tra gli altri, anche il già celebre umberto eco), a dimostrazione della crescita di un movimento d’opinione democratico, ben più ampio del mero ambito della categoria dei docenti. interessante, comunque, notare che questi primi elementi di sperimentazione didattica e di lotta, come era accaduto in altre parti d’italia, riguardarono anche in provincia di Alessandria in prima istanza la scuola
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media, vale a dire il grado di istruzione che maggiormente aveva subito l’impatto della scolarizzazione di massa. e certo non è casuale il fatto che, intorno alla metà degli anni settanta, l’Arci (che si era costituita ad Alessandria nel novembre 196748 e che aveva tra i membri del suo consiglio provinciale Adelio Ferrero e Andrea Foco,50 mentre altri appartenenti alla cGiL scuola sarebbero entrati a far parte degli organismi dirigenti negli anni successivi, fino alla fine degli anni settanta) organizzò un convegno dedicato al rinnovamento didattico nella scuola media inferiore, durante il quale furono presentate esperienze di lavoro con ragazzi di quartieri periferici delle grandi città industriali. Nella scuola elementare, come vedremo, il rinnovamento ebbe inizio solo a partire dal 1972, ma si estese rapidamente a vasta parte del territorio provinciale. Al contrario, l’innovazione della scuola secondaria superiore rimase affidata alle scelte di singoli docenti, senza una complessiva incidenza sulle strutture scolastiche (modifiche strutturali degli ordinamenti avverranno istituzionalmente e soltanto dopo la legge Brocca, a partire dalla fine degli anni ottanta). Peraltro, vale la pena di rammentare che nel 1969 uscì il volume La ricerca come antipedagogia,50 di Francesco de Bartolomeis, che divenne rapidamente il punto di riferimento teorico nodale del movimento pedagogico democratico e che negli anni settanta educò anche ad Alessandria un’intera generazione di insegnanti a connettere la scuola al suo contesto sociale e politico e ad adottare una prospettiva pedagogica non direttiva, sull’esempio dell’attivismo di dewey e di Freinet.51 il rifiuto della lezione frontale, l’introduzione del lavoro di gruppo e della didattica laboratoriale, la contestazione dei manuali scolastici e la didattica della ricerca divenivano i cardini di una pedagogia antiautoritaria e antinozionistica, saldamente radicata nei principi democratici dell’effettiva realizzazione del diritto allo studio, del superamento della selezione di classe, della costruzione di cultura alternativa a quella dominante e di un sapere liberatorio delle energie e della creatività degli individui. Ad Alessandria, a partire dal 1970 la cGiL scuola cominciò a rafforzarsi, mentre cresceva il suo radicamento presso i docenti della scuola elementare e la sua attenzione veniva rivolgendosi in modo crescente alla scuola dell’obbligo, più che alla secondaria superiore, con un parallelo e progressivo distanziamento dall’originario legame con il PsiuP. Ne è testi-
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monianza un lungo e articolato documento della commissione scuola della federazione alessandrina di questo partito, che addita “[…] i ritardi e le difficoltà dei sindacati scuola confederali, e in particolare del sindacato scuola cGiL, rispetto alla necessità di ridefinire compiutamente il ruolo degli insegnanti. se questi nel loro complesso non hanno compiuto nessuno sforzo di riqualificazione, […] è tuttavia essenziale che il sindacato di classe costituisca, per le avanguardie degli insegnanti che vi aderiscono, uno strumento che serva non solo a porre in modo nuovo i problemi di categoria, ma anche e soprattutto ad affrontare ogni aspetto (politico, culturale, metodologico e didattico ) della riqualificazione”.52 in realtà, da parte del sindacato non vi fu un difetto di teorizzazione, bensì piuttosto lo sviluppo di un’elaborazione autonoma, che riproponeva nella definizione della professionalità docente una divaricazione tra l’elemento tecnico e l’elemento politico e sfrondava tutti gli obiettivi da considerazioni di tipo rivoluzionario. emblematico a tale proposito è un articolo di Giuseppe Amadio, nel quale i problemi della categoria (stato giuridico, abolizione delle note di qualifica, libertà di sperimentazione, innovazione didattica, istituzioni di corsi abilitanti in luogo delle “vecchie abilitazioni nozionistiche”, riconoscimento del servizio pre-ruolo, snellimento burocratico e non licenziabilità del personale non di ruolo) sono collocati sullo sfondo della auspicata cooperazione tra docenti e classe operaia per la realizzazione “dell’effettivo diritto allo studio” e del “rinnovamento democratico delle strutture scolastiche”, ma soprattutto costituiscono in prima istanza l’elemento cruciale di riferimento della piattaforma rivendicativa, mentre i temi ideologici e politici generali sono ampiamente collocati in secondo piano.53 in questo contesto, nonostante l’incremento progressivo di adesioni, fino al 1972-’73 la cGiL scuola alessandrina pagò il prezzo della sua collocazione ideologica ed ebbe dimensioni ridotte: sebbene non del tutto attendibile, perché alcuni riferimenti sono stati distrutti in seguito alle dimissioni, o al pensionamento degli iscritti, l’archivio delle deleghe conservato in sindacato mostra che ancora nel 1970 il numero di docenti di ruolo iscritti era alquanto esiguo.54 e tuttavia in quell’anno si determinò un’affermazione inaspettata del sindacato fra il personale della scuola ele-
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mentare: se infatti nelle elezioni per l’eNAM il 17 e 18 marzo la cGiL scuola raccolse 44 voti tra i maestri elementari e 3 voti di direttori didattici o ispettori, un mese dopo nelle elezioni per il rinnovo della iii sezione del consiglio superiore della Pubblica istruzione ebbe ben 136 preferenze.55 in quel periodo, sulla scorta di analoghe iniziative proposte dalla cisL, fu organizzato un corso di preparazione per il concorso magistrale, costituito da 24 ore di lezione e dalla correzione di temi assegnati. Parteciparono in qualità di docenti professori iscritti e non iscritti alla cGiL scuola: Franco Livorsi, Franco Molinari, carla Nespolo, Ferdinando Bonabello, eugenio Braito, Anna Baroncini canestri, Adelio Ferrero, carlo Maranzana, Luciano Valle, edmondo Ghidella, stellio Lozza, Paolo Zoccola.56 L’iniziativa fu più volte rinnovata nei decenni successivi e produsse sempre un soddisfacente incremento delle iscrizioni tra i vincitori di concorso. cominciava dunque a delinearsi il problema del radicamento territoriale del sindacato e della sua capacità di attrarre consensi presso la categoria. Fu peraltro questo uno dei temi di dibattito del primo congresso nazionale della cGiL scuola, che si svolse si svolse ad Ariccia tra il 17 e il 20 dicembre del 1970 e cui parteciparono 335 delegati, in rappresentanza di circa 16.000 iscritti. Lo scontro tra la componente legata al PsiuP – che poneva l’accento sulla costruzione di un sindacato di classe, collegato al movimento operaio ed estraneo a visioni settoriali dei problemi scolastici – e la componente comunista – maggiormente interessata a un sindacato di massa, attento ai problemi specifici della categoria e virtualmente più interessante per i docenti meno coinvolti dal punto di vista ideologico – vide i delegati alessandrini57 schierati con la Mozione n. 2, che era espressione dei quadri sindacali iscritti al PsiuP, nonostante sussistessero di fatto all’interno del gruppo dei fondatori e dei militanti del sindacato locale i medesimi due orientamenti presenti in ambito nazionale. il percorso della cGiL scuola alessandrina tra il 1972 e la fine degli anni settanta incrociò tutte le esperienze di costruzione di nuova cultura e di innovazione della scuola che contraddistinsero la provincia di Alessandria in tale decennio. Mentre infatti si scioglieva il PsiuP e la maggioranza della federazione alessandrina confluiva nel Pci, nel sindacato si andò ulteriormente illanguidendo il riferimento ideologico al socialismo marxista, fu
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abbandonato il progetto di una struttura aperta anche alla componente degli studenti e divennero centrali, da un lato, la battaglia per sottrarre spazi ai sindacati autonomi e alla cisL, dall’altro l’impegno teorico e pragmatico nei confronti dei temi inerenti la condizione della categoria e la riforma della scuola, concretamente concepita nei suoi aspetti più precipuamente organizzativi, pedagogici e didattici. e tuttavia, come vedremo, il rapporto tra la cGiL scuola e le riforme scolastiche fu appunto di intersecazione e non più di protagonismo, come era invece avvenuto nella stagione precedente: il sindacato territoriale certamente prestò alla politica culturale di avanguardia di quegli anni i propri iscritti più attivi e consapevoli, certamente seppe cogliere e accompagnare le trasformazioni in atto e offrì i propri spazi, la propria stampa e la propria organizzazione a sostegno dell’innovazione, della riflessione didattica e, talora, della gestione concreta delle iniziative. Ma non le guidò più direttamente; e, a partire dal 1977, ne fu di fatto emarginata. scontava, in tutto ciò, il riflusso del movimento del sessantotto e l’abbandono, da parte dei docenti progressisti, degli aspetti più precipuamente politici della battaglia per la riforma della scuola. Ma certamente pagava anche lo scotto di una elaborazione mancata sui temi teorici nodali del ruolo e del valore della cultura e della scienza, nonché sul rapporto tra incremento degli organici e qualità dell’insegnamento. È tuttavia necessario riconoscere ai quadri dirigenti locali due rilevantissimi meriti: anzitutto l’aver saputo consolidare il sindacato, in un periodo in cui il grande movimento di lotta del 1968-’69 entrava in crisi e in una realtà provinciale in cui il ceto piccolo-borghese era schizofrenicamente schierato a sinistra in politica e vincolato nella quotidianità a stili di vita e visioni del mondo fortemente moderate e conservatrici; e, in secondo luogo, l’essere riusciti a rendere la cGiL scuola un centro catalizzatore, capace di attrarre e mobilitare nuove e ampie energie intorno ai temi della cultura e della scuola. in effetti, la segreteria provinciale (soprattutto in virtù di un grande attivismo e delle doti umane di apertura e disponibilità dei suoi membri, Adriano Marchegiani, Giuseppe Amadio e Andrea Foco) seppe radicare il sindacato sul territorio e attirare numerosi giovani insegnanti. il numero degli iscritti andò progressivamente crescendo, con un’impennata nel 1973;
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e si consolidò una caratteristica che sarebbe stata poi peculiare della cGiL scuola alessandrina anche nei tre decenni successivi, fino al 2000: prevalenza numerica degli insegnanti di scuola elementare; limitata presenza di personale AtA; per quanto riguarda la scuola media inferiore, preponderanza di docenti di materie letterarie; e, per ciò che concerne la media superiore, preminenza di docenti di materie tecniche.58 Nel frattempo, fu assicurata una presenza settimanale anche nei principali centri zona della provincia e iniziarono a formarsi “nuclei cGiL” nella scuole in cui sussisteva una presenza forte del sindacato: tra i primi, il V circolo didattico di Alessandria, la scuola elementare di spinetta Marengo, il ii circolo didattico di Valenza Po, l’itis “Volta”, con sede ad Alessandria, ma con sezioni distaccate nei centri zona della provincia.59 Nel settembre del 1971, venne emanata la Legge 820, che consentiva l’istituzione di classi a tempo pieno nella scuola elementare. si trattava di un provvedimento legislativo che in un certo senso accoglieva le istanze – poste dal PsiuP e, successivamente, dalla stessa cGiL scuola – di un prolungamento della giornata scolastica, che sostenesse fattivamente il diritto allo studio. Ma in provincia di Alessandria le prime esperienze di scuola a tempo pieno, istituite nell’anno scolastico 1972-’73, furono il risultato non già della mobilitazione delle forze sociali, del sindacato, o degli insegnanti, bensì della scelta ministeriale di istituire corsi sperimentali di questo genere in contesti sociali a rischio. il sindacato scuola, dunque, abdicò a un ruolo trainante dal punto di vista organizzativo e rimase spettatore di scelte che lo trascendevano, sebbene, poi, nella realizzazione di queste nuove esperienze, furono coinvolti quasi univocamente iscritti alla cGiL scuola60 (e, in misura minore, appartenenti all’ala più progressista del siNAsceL-cisL), che trovarono nella struttura sindacale il luogo della riflessione didattica, del confronto tra le diverse esperienze sorte in provincia, dell’elaborazione e trasmissione di nuovi orientamenti pedagogici e nuove pratiche didattiche. Analoga fu l’esperienza provinciale delle 150 ore. Già nel 1970, parte del movimento operaio aveva manifestato interesse per corsi di formazione serali, che consentissero il conseguimento del diploma di terza media. Ad esempio, a Valenza Po si era formato un comitato di base per una scuola democratica, aperto a tutta la cittadinanza, che, con l’intervento
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del comune e grazie al lavoro di un gruppo di insegnanti legati alla cGiL scuola, aveva organizzato un corso gratuito per lavoratori, reiterato con successo negli anni seguenti e poi integrato da corsi di lingue straniere.61Quando, nel 1973, il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro dei metalmeccanici introdusse le 150 ore per il diritto allo studio, Alessandria fu una delle città all’avanguardia in italia nella gestione della nuova esperienza, in virtù di due favorevoli circostanze: dal punto di vista istituzionale, il Provveditorato agli studi riconobbe il coordinamento dei corsi al sindacato; dal punto di vista sindacale, la gestione delle 150 ore venne affidata a due straordinari personaggi, le cui personali doti e capacità si rivelarono nodali: Giovanni carpené, per la cGiL; e Vittorio Bellotti, dirigente cisL, che all’epoca era segretario provinciale del sindacato unico dei metalmeccanici, la FLM. i corsi 150 ore coinvolsero in questi primi anni operai e studenti delle università di Genova e di torino (alcuni dei quali studenti-lavoratori, iscritti alla cGiL scuola), che parteciparono a seminari di studio sulla storia del movimento operaio locale e su “Ambiente di lavoro e salute”. contemporaneamente iniziarono i corsi di studio per il conseguimento della licenza elementare e della licenza media, organizzati e gestiti dal coordinamento 150 ore per il diritto allo studio, di cui facevano parte militanti e quadri del sindacato scuola cGiL (ricordiamo soprattutto roberto Nani, Giuseppe Amadio, Giuseppe rinaldi) e della cisL-scuola (in primo luogo, daniele Maluccelli e Angelo teruzzi). Peraltro il lavoro del coordinamento fu di particolare rilievo in ambito didattico e metodologico e produsse materiale di grande interesse per quanto concerne l’educazione degli adulti.62 Anche in questo caso, il sindacato scuola cGiL si ritrovò a essere presente con i propri quadri, ma non come struttura: le 150 ore furono gestite completamente dal sindacato dei metalmeccanici, fino a quando furono progressivamente istituzionalizzate dal Ministero della Pubblica istruzione. iscritti della cGiL scuola furono anche i protagonisti della stagione della collaborazione tra enti locali e insegnanti, nell’ambito delle Proposte scuola, attività organizzate e finanziate dal comune di Alessandria e più precisamente dagli assessori alla Pubblica istruzione, Giancarlo Bertolino e Gianfranco Zino, a partire dalla metà degli anni settanta. Nelle com-
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missioni che predisposero i materiali e gestirono le iniziative, vi erano personaggi attivi nella vita sindacale e culturale dell’epoca, alcuni dei quali costituivano un collegamento tra le esperienze dei circoli culturali alessandrini degli anni cinquanta e sessanta e una nuova generazione di intellettuali e attori del rinnovamento culturale cittadino:63 da un alto, infatti, ritroviamo Adelio Ferrero, Franco Molinari, Marisa Vescovo; dall’altro Nuccio Lodato, Giuliana callegari, Alberto Fiori, roberto Bernardotti, Aldo Gorrone, sandro Buoro, Giuseppe rinaldi, oltre a Franco castelli, impegnato nel settore della cultura orale e animatore di numerosi momenti di coinvolgimento di insegnanti e scolaresche in attività di ricerca etnologica, di ricostruzione delle vicende resistenziali locali e di riscoperta della cultura orale per quanto riguarda giochi, filastrocche, feste popolari e così via. castelli tenne anche una rubrica, intitolata cultura popolare e didattica, sulla rivista del sindacato scuola alessandrino “Quaderno di scuola”. sempre dalle fila della cGiL scuola si originò il gruppo territoriale del Movimento di cooperazione educativa, dopo un corso di aggiornamento estivo a châtillon, organizzato dal gruppo torinese, di cui facevano parte Fiorenzo Alfieri, daria ridolfi, Gianni Giardiello e silvana Mosca. tra il 1974 e il 1980 il gruppo alessandrino assunse una configurazione difforme rispetto all’Mce nazionale, che organizzava i maestri elementari, giacché si aprì anche ai docenti di scuola media. si strutturarono commissioni di lavoro miste, che si occuparono di educazione linguistica, matematica, ricerca, educazione espressiva, inserimento di alunni disabili e aggiornamento degli insegnanti. Ne scaturirono un convegno sull’inserimento degli alunni handicappati, organizzato insieme al comune di Alessandria, una mostra sui libri di testo e il loro superamento e un convegno sulla scuola a tempo pieno organizzati in collaborazione con la cGiL scuola; e alcune iniziative di formazione, tra le quali la più importante fu il corso sulla “storia delle istituzioni scolastiche come storia sociale”, organizzato da Mce e comitato universitario di torino (che si occupava di aggiornamento dei docenti), che si articolò in dieci incontri tra il 4 aprile e il 22 maggio1978 ed ebbe tra i relatori Giorgio canestri e Giuseppe ricuperati. in tutte queste iniziative i principali protagonisti appartenevano alla
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cGiL scuola alessandrina e molti di essi erano membri del direttivo provinciale; e peraltro la collaborazione tra Mce e sindacato fu sempre molto stretta. Verso la fine degli anni settanta, tra il 1977 e il 1978-79 in seno alla cGiL scuola casalese si formò un Gruppo donne, che si interessò soprattutto di storia di genere e della rappresentazione della donna nei libri di testo. Anche in questo caso, la cGiL scuola offrì la propria struttura organizzativa e gli spazi delle proprie pubblicazioni, pur non intervenendo da protagonista nell’attività del gruppo. Potremmo dire che il periodo tra il 1975 e il 1977 rappresentò l’ultimo grande momento di mobilitazione, che vide la cGiL scuola impegnata accanto ai sindacati operai e ai partiti della sinistra nella battaglia per la democratizzazione e l’innovazione della scuola. Nel maggio del 1974 i cosiddetti decreti delegati sulla scuola, come verranno a lungo chiamati anche dopo la loro riconversione in legge, introdussero le rappresentanze elettive delle famiglie, degli studenti, delle forze sociali. Quando, nel 1975, si tennero le prime elezioni per gli organismi collegiali, la cGiL scuola alessandrina fu al centro di un grande movimento, che intendeva assicurare, tra gli eletti, la presenza consistente di forze democratiche e progressiste. Le assemblee affollate, la compatta partecipazione alla tornata elettorale, la presenza di liste contrapposte di centro-destra e di sinistra in quasi tutte le scuole del territorio, nei distretti scolastici e per la elezione del consiglio scolastico provinciale furono i segni di un legame forte tra scuola e società civile, che pareva rispondere alle istanze da cui era nato il sindacato scuola della cGiL. in realtà, in Alessandria, come in tutto il territorio nazionale, sindacato e partiti non seppero reggere a lungo lo sforzo di mobilitazione e, a partire dal 1978, iniziò una parabola discendente verso la burocratizzazione degli organismi collegiali, svuotati di significato e ridotti a mera ritualità e nella direzione di una nuova chiusura auto-referenziale dell’istituzione scolastica. dopo le innovazioni normative del 1977-’79, che acquisirono parte dell’esperienza riformatrice elaborata dagli iscritti alla cGiL scuola e alle associazioni di docenti democratiche, l’istituzionalizzazione della formazione dei docenti e delle attività di programmazione didattica finirono per sot-
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trarre alla sinistra pedagogica e al sindacato, in ambito sia locale, sia nazionale, l’iniziativa nell’azione riformatrice della scuola, mentre andava progressivamente approfondendosi la divisione tra politica e professionalità e l’attenzione si rivolgeva verso i contenuti tecnici dell’insegnamento, in una commistione con i temi cari alla pedagogia cattolica moderata: teorie della valutazione, tecniche didattiche riguardanti gli apprendimenti strumentali delle varie materie, riferimenti alle teorie strutturalistiche in linguistica e neo-logiciste e costruttiviste in matematica. Finiva la grande stagione della didattica e della pedagogia democratiche, volte alla costruzione di una scuola alternativa al sistema capitalistico e alle istanze produttive che lo contraddistinguono. dopo il 1979, perduta la connotazione ideologica di sindacato di classe, avanguardia di un blocco sociale imperniato sulla classe operaia, abbandonata la critica alla “cultura dominante” e all’uso capitalistico della scienza e del lavoro intellettuale, dimenticate anche le ragioni dell’alleanza possibile tra ceti operai e ceti medi intellettuali in funzione di una società e di una scuola “altra”, nonostante lodevoli e reiterati sforzi la cGiL scuola territoriale si appiattì sulle istituzioni e si avviò ad essere sempre più un sindacato di servizio e di gestione dei contenziosi individuali, entrando in una fase di sostanziale stasi teorica e politica, analoga a quella che contraddistinse anche il sindacato nazionale a partire dal 1976.
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NOTE 1. Questo documento, insieme a numerosi altri materiali, mi è pervenuto in virtù della grande disponibilità e generosità di Anna ratti Marchegiani e di Mimmo Marchegiani. A loro e agli amici che mi hanno generosamente e premurosamente aiutato con materiali e chiarimenti in questa ricerca (Giuseppe Amadio, donata Amelotti, enza Ferrari, Alessandro Montaldi, Giancarlo Patrucco, Maria Grazie Penna, Beppe rinaldi, Bruno tommasetti) va tutta la mia gratitudine. un ringraziamento particolare a Giorgio canestri e Franco Livorsi, che mi hanno parlato della loro esperienza politica e mi hanno generosamente consentito di attingere ai loro archivi privati: senza ciò, non sarebbe stato possibile ricostruire la storia dei primi anni della cGiL scuola alessandrina. 2. il testo, scritto a mano su alcuni fogli di quaderno a quadretti, è privo di data, ma il contenuto induce a riferirlo al periodo della crisi tra la segreteria provinciale e la componente socialista della cGiL scuola di Alessandria, risalente all’estate del 1987. Non è nota, inoltre, la destinazione di queste riflessioni, sebbene alcuni stralci rendano probabile l’ipotesi che siano indirizzate alla componente comunista della segreteria della camera del lavoro di Alessandria. 3. Paolo sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, roma-Bari, Laterza, 1974; pag. 135. 4. scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria editrice Fiorentina, 1967. 5. si vedano in proposito i numerosi articoli pubblicato dall’allora bisettimanale alessandrino “il Piccolo”. 6. cfr. M. Barbagli, M. dei, Le vestali della classe media, Bologna, il Mulino, 1969, nel quale si dimostrano il rinnovamento radicale del corpo docente e l’entrata nella scuola di giovani insegnanti, il 40% dei quali appena laureato e il 23% ad appena uno o due anni dal conseguimento della laurea (ivi; pag. 47). 7. i dati istAt sono in proposito impressionanti: nel ventennio tra il 1966 e il 1986, gli alunni della scuola dell’obbligo aumentano del 54% (dato riferibile soprattutto alla scuola media, che non casualmente subisce il primo e maggiore impatto della scolarizzazione di massa), quelli della secondaria superiore crescono del 107% e gli studenti universitari del 176,3%. 8. Adriano Marchegiani affermava in questo stesso periodo che soltanto il 10% dei docenti di scuola secondaria superiore della provincia di Alessandria era stato immesso in ruolo a seguito di vincita di concorso ordinario. difficile oggi ricostruire l’esattezza di questo dato (molta parte dell’archivio del Provveditorato agli studi di Alessandria è andato perduto con l’alluvione del 1994) e tuttavia esso pare emblematico della percezione che allora si aveva della questione del reclutamento del personale docente. 9. Alla Mozione 4 di questo sindacato erano iscritti gli insegnanti socialisti e più un generale i docenti schierati su posizioni laiche e democratiche. 10. il testo fu pubblicato ad Alessandria dal quindicinale della federazione provinciale del Psi in “L’idea socialista”, nel marzo 1963 [ “L’idea socialista”, nuova serie, n. 4, 2 marzo 1963, pag. 3]. 11. La citazione è riportata in un articolo de “L’unità” , del 15 luglio 1967; pag. 4. 12. cfr. “L’unità” del 18 dicembre 1967; pag. 2. 13. si veda, in proposito il fondamentale saggio di Franco Quercioli e osvaldo roman, Appunti sulla formazione del Sindacato scuola cgil, in AA.VV., Eugenio capitani e le origini del Sindacato Scuola cgIL, roma, editrice sindacale italiana, 1982; pag. 22.
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14. G. Amadio, Per Adriano marchegiani, in “Quaderno di storia contemporanea”, n. 30, febbraio 2002; pag. 159. 15. A. Ballerino, Non solo nebbia. Teatro, cinema, vita culturale ad Alessandria, Alessandria, edizioni Falsopiano, 2002; pag. 85. 16. cfr. “sempre avanti!”, numero unico, del 27 gennaio 1964; pag. 1. 17. ivi; pag. 2. 18. gli organi direttivi ed esecutivi, le commissioni di lavoro della Federazione (in carica fino al 1° congresso nazionale), in “Filorosso”, n. 1, 27 aprile 1964; pag. 3. 19. A. Ballerino, Non solo nebbia. Teatro, cinema, vita culturale ad Alessandria, cit.; pag. 87. 20. si tratta del bollettino periodico, dapprima quindicinale, poi mensile, generalmente ciclostilato, ma con alcuni numeri e talora parti a stampa che, a partire dall’aprile 1964 e fino al 1969, fu inviato agli iscritti del psiup della provincia di Alessandria. direttori responsabili furono a periodi alterni Giorgio canestri, Adelio Ferrero, Angelo rossa. 21. cfr. “Filorosso”, n. 3-4, edizione speciale, 13 luglio 1964, pag. 3. si tratta di un articolo redazionale, dunque privo dell’indicazione dell’autore. 22. idem. 23. Al punto 14, intitolato La scuola e l’organizzazione della cultura, si affermava che l’intervento del PsiuP avrebbe dovuto articolarsi intorno a “il diritto allo studio; l’autogoverno; il rinnovamento pedagogico e didattico: la giornata scolastica integrata, cioè a tempo pieno; il passaggio da tradizionali atteggiamenti assistenziali a criteri pedagogici e di formazione culturale e civile.” il testo proseguiva osservando che gli interventi sollecitati dal partito in ambito scolastico e culturale avrebbero avuto senso “radicati nelle singole realtà locali, e mossi da una spinta costante alla provincializzazione e al rinnovamento, si fondano su una coscienza alternativa alle scelte dell’industria culturale, ai modelli di consumo e di cultura imposti dalle forze capitalistiche, e se mirano ad una utilizzazione pure alternativa e critica di tutti i moderni strumenti di informazione e di trasmissione delle idee”. cfr. “Filorosso”, n. 7, 17 novembre 1964; pag. 5. 24. s. colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, roma-Bari, Laterza, 1994; pag. 352. 25. così si legge nel bollettino “Filorosso” del luglio 1965: “si è riunita nello stesso periodo [n.d.r. fine giugno 1965] la commissione scuola che ha programmato, in accordo con un’iniziativa nazionale del partito, il lavoro da svolgere in provincia per la costituzione di un sindacato unico di tutti i lavoratori della scuola (maestri, professori, personale non insegnante) aderente alla cGiL”. cfr. Attività di partito, in “Filorosso, n.° 16, 31 luglio 1965; pag. 4. 26. Per un sindacato cgil di tutti i lavoratori della scuola, in “Filorosso”, n. 19, 22 novembre 1965; pag.1. L’articolo è privo di firma. 27. “Anche in Alessandria e tra i primi in ordine di tempo, si è costituito un comitato d’iniziativa per la formazione di un sindacato unico, aderente alla cGiL, di tutti i lavoratori della scuola: studenti, insegnanti di ogni ordine e grado, personale non insegnante. A costituire il comitato sono studenti, maestri e professori: forze giovani – e prevalentemente non inquadrate negli organismi sindacali e politici oggi esistenti”. cfr. Per il sindacato cgil della scuola è tempo di passare alla fase risolutiva. I comitati promotori sono ormai costituiti, in Filorosso”, n. 25, 30 giugno 1966; pag. 3. 28. idem.
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29. una copia del documento (un fascicolo a stampa su due colonne, di tre facciate, formato A4) è conservata nell’archivio privato di Giorgio canestri e alcune fotocopie sono rintracciabili in ciò che è rimasto dell’archivio della FLc-cGiL di Alessandria. in ogni caso, il testo è leggibile in “il Piccolo”, 8 febbraio 1967, pag. 8, sebbene l’articolo non riporti la parte iniziale di presentazione del contenuto, visibile in calce nello stampato del 1966, vale a dire le frasi “Per un dibattito sullo stato del sindacalismo scolastico. Per il superamento dei sindacati di settore. Per un sindacato unico, aderente alla cGiL di tutti i lavoratori della scuola: studenti, insegnanti di scuola materna, maestri, professori, bidelli, personale amministrativo e ausiliario” e neppure, com’è ovvio, la cedola per l’adesione, di cui era corredato il fascicolo originale. 30. cfr. F. Quercioli, o roman, Appunti sulla formazione del Sindacato scuola cgIL, cit.; pag.22. 31. Franco Livorsi ricorda in un’intervista che ho raccolto questa differenza d’accento nella suddivisione del lavoro politico all’interno del PsiuP, che determinò quasi naturalmente l’individuazione di Adriano Marchegiani come riferimento principale nella fase operativa della costruzione della cgil scuola alessandrina. 32. La distinzione delle posizioni in merito alla presenza degli studenti all’interno del sindacato scuola è rammentata sia da Giorgio canestri, sia da Franco Livorsi. 33. cfr. Quercioli, roman, F. Quercioli, o roman, Appunti sulla formazione del Sindacato scuola cgIL; pag. 21. 34. s. colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit.; pag. 352. 35. M. Arnoldi, Trent’anni dopo. Il dissenso cattolico in Italia negli anni ’60 e nel ’68. con accenni alla situazione alessandrina, in M. Arnoldi; G. rinaldi, Trent’anni dopo. Due saggi sul Sessantotto, Alessandria, edizioni dell’orso, 1999. 36. Firmarono il documento anche intellettuali di area comunista, come delmo Maestri e stellio Lozza. 37. Professori solidali con gli studenti medi, in “il Piccolo” del 27 marzo 1968. 38. cfr. “Filorosso”, n.27, 23 dicembre 1966; pag. 3. 39. Assemblea del sindacato scuola cgIL sul ruolo politico degli insegnanti, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno ii, n. 3, marzo 1970; pag. 2. 40. F. Molinari, massimalismo studentesco e autoritarismo scolastico, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno ii, n. 2, febbraio 1970; pag. 2. 41. F. Livorsi, Scuola, cultura, lotta di classe, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno ii, n. 3, marzo 1970; pag. 2. il testo è significativo anche perché vi è delineata un’analisi delle componenti irrazionali nella formazione della coscienza di classe, che in parte anticipa gli sviluppi delle concezioni di Livorsi nei decenni successivi. 42. si tratta di “scuolaoggi”, registrato il 31 maggio del 1969. il giornale era stato ideato e fu poi realizzato da Giuseppe Amadio, la cui creatività e capacità giornalistica diedero vita nel corso degli anni varie pubblicazioni della cGiL-scuola e poi della camera del lavoro e del sindacato provinciale cGiL. 43. scrivono i due autori: “La contraddizione peculiare della scuola, che oggi si accentua sempre più, è quella che corre tra il carattere e le strutture classiste della scuola stessa e le esigenze, che in essa si riflettono, generate dallo sviluppo delle forze produttive”. 44. G. Amadio, A. Marchegiani, I termini specifici dello scontro sociale nell’analisi del sindacato scuola
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cgIL. una dichiarazione dei segretari provinciali Amadio e marchegiani, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno i, numero 2, novembre 1969; pag. 2. 45. i docenti erano Anna Baroncini canestri, Giorgio canestri, Adriano Farello, Andrea Foco, Franco Livorsi, Adriano Marchegiani, Franco Molinari, claudia Morando, Giorgio Piccione. cfr. “Filorosso”, anno V, n. 3, 2 luglio 1968; pag. 10. 46. Ne parla Andrea Foco, allora docente di Lettere in tale scuola, in un articolo dell’ottobre di quell’anno. cfr. Foco, Andrea, Alla scuola media ‘manzoni’ un esperimento da continuare, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno 1°, numero 1, ottobre 1969. 47. si vedano in proposito A. Foco, La scuola come effettivo servizio sociale, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno iii, n. 9, dicembre 1971; pag. 2; e M. Maruffi, una lotta di tipo nuovo, idem. 48. si veda in proposito la nota in “Filorosso”, n.34, 27 novembre 1967; pag.11. 49. cfr. “Filorosso”, anno V, n. 4, 26 ottobre 1968. 50. F. de Bartolomeis, La ricerca come antipedagogia, Milano, Feltrinelli, 1969. 51. il testo di de Bartolomeis è citato nei documenti elaborati nella prima metà degli anni settanta dalle scuole a tempo pieno di Alessandria e Valenza. 52. classe operaia e uso capitalistico della scuola, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno ii, 1 gennaio 1970, pag. 5. È peraltro interessante notare che in questo documento l’identificazione del sindacato come avanguardia nella lotta politica si intreccia nel testo con un’analisi acuta – e profetica – dei processi di dequalificazione della scuola di massa. 53. G. Amadio, Validità e contraddizioni della battaglia della scuola, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno ii, n. 5, giugno-luglio 1970; pag. 1. 54. dato che non può stupire, se si pensa che nel pieno del 1968 gli iscritti alla cGiL scuola in ambito nazionale erano soltanto 3982. Non si possiedono dati sul sindacato locale di quell’anno. Ma nel 1970, i docenti di ruolo iscritti per delega assommavano a poche decine di unità. con certezza sappiamo che vi erano tra i 35 e i 40 iscritti, di cui resta traccia nelle registrazioni dell’epoca, stilate a mano da Adriano Marchegiani. 55. si veda in proposito l’articolo redazionale Rafforzato nella provincia il sindacato scuola cgil, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno ii, n. 5, giugno-luglio 1970; pag. 2. 56. sono andati perduti i volantini che recavano il programma completo del corso e resta, come unico riferimento, un articolo su “L’idea socialista” dell’ottobre 1970, ossia corso per maestri elementari in vista del concorso magistrale, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno ii, n. 7, ottobre 1970. 57. certamente vi parteciparono Andrea Foco e Adriano Marchegiani, come appare perspicuamente da un resoconto dei lavori congressuali che stilarono per “L’idea socialista”. Non vi sono invece dati relativi ad altre eventuali presenze, ma le consuetudini sindacali degli anni successivi fanno ritenere con buon margine di sicurezza che non vi fossero altri delegati alessandrini. cfr. A. Foco, A. Marchegiani, Il primo congresso nazionale del sindacato scuola cgil, in “L’idea socialista”, nuova serie, anno iii, n. 2, marzo 1971. 58. i dati sono tratti dall’archivio delle tessere degli iscritti della FLc-cGiL e tengono conto soltanto del personale assunto a tempo indeterminato, la cui scelta era (ed è) ovviamente stabile e comportava una presenza più continuativa negli organismi sindacali e nell’attività del sindacato in generale. Al contrario, si è ritenuto poco significativo ai fini di questa analisi, il dato concernente il personale non di ruolo, la cui iscrizione era spesso soggetta ad oscillazioni e cambiamenti e che comunque non partecipò in modo significativo alla vita del sindacato nel
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decennio di cui stiamo parlando. 59. si vedano in proposito gli articoli pubblicati su “scuolaoggi” tra il 1973 e il 1975. 60. ricordiamo, tra gli altri, Gian Mario Bottino, romeo cavanna, Giuseppe rinaldi. 61. r. raiteri, Valenza. contro le scuole private corsi di studio democraticamente gestiti, in “scuolaoggi”, anno V, n. 5, febbraio 1973, pag. 4. 62. Grazie al lavoro puntuale di archiviazione operato da roberto Nani, è disponibile nell’archivio della camera del Lavoro di Alessandria tutto il materiale prodotto dal coordinamento, il che consente di ricostruire in modo compiuto la storia delle 150 ore in provincia di Alessandria. in proposito, si possono anche consultare i seguenti volumi: coordinamento 150 ore di Alessandria, istituto di medicina del lavoro dell’università di Genova, Ambiente di lavoro e salute, in coordinamento nazionale 150 ore FLM, ma lavorando si muore. Lavoro e studio. materiali per le 150 Ore, Milano, Mazzotta editore, 1979, con introduzione di Giorgio canestri. sozzetti, enrico, La forza della contrattazione. La cISL di Alessandria dalle 150 ore al Patto Territoriale, Alessandria, 2010 (volume edito dalla cisL alessandrina in occasione del sessantesimo anniversario della sua fondazione). È anche possibile consultare la ricerca sociologica di ernesto Amisano e Giuseppe rinaldi, riguardante i corsi in provincia di Alessandria e le percezioni che ne ebbero gli utenti. due copie di tale lavoro sono presenti nell’archivio della camera del lavoro di Alessandria e inoltre la ricerca è stata pubblicata a puntate sul giornale “Lotte unitarie” della cGiL alessandrina. 63. si veda in proposito G. Bertolino, Alessandria. Le proposte per la scuola, in “Quaderno di scuola”, n. 2, marzo-aprile 1978; pag. 15.
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Patrizia Nosengo, Il sindacato scuola CGIL e la scuola degli anni Settanta ad Alessandria
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dal discorso sulle donne al discorso delle donne. Birth control, contraccezione e depenalizzazione dell’aborto tra ambienti laici e femminismi.
Maternità, sessualità e contraccezione sono stati aspetti della vita privata molto percorsi durante il Novecento, non solo per l’importanza che questi argomenti hanno assunto nella contemporaneità intrecciandosi fortemente con le narrazioni nazional-patriottiche delle società borghesi europee del XiX e del XX secolo,1 ma anche per il modo in cui sono cambiati alcuni paradigmi, in particolare quelli legati ad alcune profonde trasformazioni nei comportamenti sessuali. tra tutti, l’invenzione e la diffusione della pillola anticoncezionale come aspetto emblematico e anche simbolico di questo processo che si inserisce nella seconda metà del secolo all’interno di altre trasformazioni visibili in maniera generalizzata in europa, come quelle che riguardano la struttura familiare, la sessualità e la liceità di alcuni comportamenti, tra i quali i cambiamenti relativi al divieto di aborto, rispetto al quale tra gli anni sessanta e gli anni settanta in diversi paesi europei e negli stati uniti si decide per la depenalizzazione. All’interno di questi mutamenti va indubbiamente posta in primo piano la trasformazione che coinvolge la vita delle donne nel dopoguerra e che nell’ambito della storia sociale ci permette di individuare alcuni importanti passaggi: nel corso degli anni sessanta e settanta e nello stesso contesto, non solo la (ri)nascita di un movimento delle donne articolato in numerose esperienze, diverse tra loro e più o meno vicine alle culture politiche storiche, ma anche una presa di parola che di fatto mette avanti i discorsi, pubblici e politici, che le donne fanno proprio su maternità, contraccezione e aborto, ribaltando per molti aspetti la consuetudine di costruire discorso pubblico e retorica sociale e nazionale su questo argomento a
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partire del mondo maschile della politica e della scienza, soprattutto per quel che concerne le loro finalità in ambito sociale e nel contesto culturale nazionale, delegando piuttosto al femminile aspetti relativi invece alle tecniche del lavoro di cura.2 in questo senso dunque, il breve saggio che segue non vuole soltanto ricostruire un percorso legato a quei movimenti e organizzazioni che hanno supportato la cultura del birth control, in particolare in italia, volendo limitarsi a proporre un ritratto di elite progressiste e illuminate e che in seguito si sono incontrate e anche scontrate duramente con i femminismi, ma anche mettere in rilievo come l’intellettualità individuale e alcuni ambienti elitari che fino agli anni sessanta portano avanti discorsi radicali ma ristretti, vedono invece in una intelligenza collettiva una diversa dimensione non solo della elaborazione teorica ma anche della sua veicolazione. un cambio di paradigma, in sostanza, che chiama in causa soggettività, linguaggi e pratiche. sarà il caso italiano, per quanto fortemente interconnesso con il contesto europeo e statunitense, a guidarci in questa analisi attraverso la quale si vuole ripercorrere questo cambiamento di paradigma, pur mantenendo un’attenzione ai decenni precedenti e al modo in cui storicamente si è andato costruendo. Le domande che hanno sollecitato questo breve lavoro di sintesi, esito di ricerche svolte in questi anni,3 riguardano la storia dell’italia e dell’europa nel dopoguerra, alla ricerca di elementi che permettano di comprendere, grazie a una lettura di genere e con l’ausilio degli strumenti elaborati dalla storia culturale, sociale e politica, i percorsi con i quali si arriva ad alcune trasformazioni nel dopoguerra tanto da poter derogare ad alcuni paradigmi fondamentali del nostro recente passato, quali il valore della maternità come obiettivo esistenziale per le donne e tassello fondamentale dell’organismo sociale e del suo patrimonio identitario, il divieto di aborto, la possibilità di esprimere un’identità di genere non conforme andando in direzione opposta rispetto ai canoni di costruzione del maschile e del femminile all’interno dello stato-nazione nel contesto europeo. Biopolitiche che si trasformano, regimi istituzionali che cambiano, paradigmi legati alle libertà individuali che sollecitano i codici di comportamento nell’alveo di un processo di modernizzazione che ha fortemente contribuito a muovere il quadro dei codici valoriali della contemporaneità.
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com’è noto, la cultura del birth control ha visto una diffusione iniziale nei paesi anglosassoni, in particolare in Gran Bretagna dove le riflessioni prima di Malthus e poi di Galtung, per citare i più noti, avevano avviato fin dalla fine del settecento un confronto con i problemi che il processo di modernizzazione andava ponendo. Pauperismo, proletarizzazione e massificazione del disagio nei centri urbani industriali che si andavano allargando con l’avanzare dell’industrializzazione, crescita della popolazione e distribuzione delle risorse spingevano a considerare i problemi demografici, intesi come rischio di sovrappopolazione, coinvolgendo non solo ristrette cerchie di filosofi, economisti e politici ma cominciando a diventare parte del discorso pubblico soprattutto per quel che concerneva la sessualità, la procreazione e la loro regolamentazione con un eventuale intervento dello stato. L’attenzione ai comportamenti in ambito sessuale andava a interessare tanto esponenti degli ambienti socialisti, radicali e anarchici quanto quelli del mondo conservatore per tutta la seconda metà dell’ottocento, dal momento che la pianificazione familiare e delle nascite trovava forti appigli nella speranza di una rigenerazione delle società europee agitata in diversi ambienti e che di fatto caratterizzava le narrazioni e le rappresentazioni tanto dei progetti sociali autoritari e totalitari, quanto di quelli progressisti, portando l’attenzione anche sui temi dell’eugenica, e sul possibile miglioramento delle qualità biologiche e morali della popolazione, permettendo di immaginare degli strumenti che contribuissero a gestire la complessità sociale che si stava delineando agli albori della società di massa.4 Nel voler introdurre nel discorso pubblico un disciplinamento delle pratiche sessuali a partire dalla diffusione della conoscenza nell’ambito della contraccezione, vi fu un contributo da parte degli ambienti neomalthusiani a quel passaggio che himes ha definito di “democratizzazione della conoscenza contraccettiva”.5 Volutamente infatti alcuni suoi esponenti, infrangendo il divieto di fare educazione sessuale in modo esplicito e paritario per uomini e donne, diffondendo pubblicazioni che contravve-
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Il controllo demografico dagli ambienti anglosassoni a quelli italiani.
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nivano di fatto alla morale in questo ambito, venivano perseguiti dando visibilità alla questione attraverso processi e campagne di dissenso e diffamatorie nei loro confronti. celebre è rimasto il caso di charles Bradlaugh e Annie Besant, tra i fondatori della Lega malthusiana inglese (1879), esponenti degli ambienti laici e radicali britannici e protagonisti di un lungo processo nel corso degli anni settanta dell’ottocento per la diffusione del volume di charles Knowlton Fruits of Philosophy or The Private Companion of Young Married People, edito nel 1832. La stessa Besant si dedicò in seguito a una pubblicazione di successo sull’argomento, dal titolo The Law of Population, pubblicato nel 1877. La diffusione delle idee neomalthusiane portò alla nascita di leghe e organizzazioni che di fatto ebbero una dimensione transnazionale, coinvolgendo esponenti di paesi europei, statunitensi e anche extraeuropei nel corso degli ultimi decenni dell’ottocento e all’inizio del Novecento, per continuare poi nel secondo dopoguerra.6 in italia questo tipo di cultura vede una diffusione più tarda. indubbiamente le diverse condizioni di affermazione del processo di industrializzazione portavano a considerare i problemi sociali in termini demografici solo verso la fine dell’ottocento, così come la pervasività disciplinante e prescrittiva della morale cattolica rispetto alla quale lo stato laico unitario procedeva comunque con cautela, e così anche gli ambienti liberali, soprattutto nel periodo giolittiano, ne rendevano meno praticabile l’utilizzo. Ambienti radicali, socialisti e anarchici invece guardano con interesse all’argomento del controllo delle nascite, individuando non solo uno strumento di lotta contro l’indigenza ma anche una possibilità di rigenerazione sociale a partire dal cambiamento di comportamenti profondamente legati alla sfera privata ma di fatto fortemente inseriti nel funzionamento della vita pubblica. su questo argomento nel 1910 interviene Gaetano salvemini, attribuendo un forte valore morale a una eventuale scelta in questo senso, da proporre in termini individuali come senso di responsabilità nei confronti dei figli e della società, sostenendo la legittimità delle pratiche neomalthusiane, pur senza ritenere opportuno, per quel momento storico, un’ampia
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diffusione delle informazioni sul birth control.7 Nello stesso periodo crea uno scandalo la diffusione dell’opuscolo L’arte di non far figli. Mathusianismo pratico, del 1911, il cui autore, Luigi Berta, insieme al medico secondo Giorni che firma la prefazione, tramite il clamore dovuto al processo coglie l’occasione per fare propaganda ai metodi contraccettivi. Nel 1913, in seguito alla vicenda giudiziaria che li vede coinvolti, viene fondata anche in italia una Lega neomalthusiana, affiancata dalla pubblicazione del mensile “L’educazione sessuale”. L’elemento di novità presentato dalla Lega consisteva nel promuovere l’informazione e il dibattito sulla questione, dando spazio a un modo franco e diretto di affrontare l’educazione sessuale, ma aggiungendo a questa pratica anche quella della diffusione e della vendita dei mezzi anticoncezionali.8 in alcuni ambienti, vicini a quelli neomalthusiani, si arriva anche a caldeggiare, in maniera provocatoria, l’abolizione del reato di aborto, individuato come un provvedimento legislativo punitivo a danno soprattutto delle donne più indigenti.9 com’è stato osservato, nel caso italiano c’è indubbiamente una maggiore propensione da parte degli ambienti laici e progressisti ad avvicinarsi a questo tema, mentre quelli più vicini agli ambienti conservatori così come quelli cattolici sono decisamente restii a considerare in termini positivi le pratiche di controllo delle nascite, pur non perdendo di vista le sollecitazioni della modernizzazione.10 in maniera diversa, gli ambienti legati a queste pratiche, per quanto tra loro differenziati, si riallacciavano al discorso del miglioramento delle qualità strutturali della popolazione per favorire maggiore libertà per le donne e scoraggiare comportamenti considerati dannosi e immorali, quali ad esempio quelli legati alla prostituzione, alle relazioni extraconiugali e alla doppia morale maschile in ambito sessuale, oltre alla possibilità di assicurare vantaggi economici soprattutto alle coppie giovani e appena sposate.11 Nello stesso periodo il primo femminismo in italia, in particolare quello che è stato definito “pratico”, manteneva posizioni che accanto alle pratiche legate alle attività assistenziali, all’istruzione e al mutuo soccorso, vedevano nella maternità uno strumento di individuazione e di riconoscimento del ruolo sociale delle donne e nel ruolo materno il veicolo per un
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accesso alla cittadinanza. si immaginava di dare maggiori garanzie alla maternità (in termini di assistenza) piuttosto che aggredire frontalmente il problema della contraccezione, tanto meno quello dell’aborto, non solo come eventuale pratica anticoncezionale già in uso ma anche come piaga sociale, per quanto singole figure e gruppi facessero riferimento a queste tematiche, non soltanto in termini di tutela e sostegno alla maternità ma anche da un punto di vista più vicino al birth control e alla depenalizzazione parziale del reato di aborto.12 in ogni caso, per quanto con le dovute differenze di posizioni e atteggiamenti e discorsi anche oppositivi rispetto agli obiettivi nazionalisti, la vicinanza tra intenti politici dell’associazionismo femminile e femminista e la cornice nazional-patriottica che disegnava i contorni della cittadinanza non lasciava grandi spazi a riflessioni autonome o alla costruzione di un discorso da parte del movimento delle donne che mettesse in campo percorsi diversi e apertamente conflittuali in tema di sessualità e maternità. Anzi con l’avvicinarsi della guerra, al di là ovviamente di comportamenti individuali e di ristrette cerchie di persone (come non pensare a una figura come quella di sibilla Aleramo, o alle tensioni emancipatorie dei romanzi di Alba de cespedes), si verifica una sorta di schiacciamento o comunque di adesione alle retoriche patriottiche, contando sul fatto che la coesione sociale passasse anche attraverso il contributo che le donne potevano dare in termini di complementarietà e di adesione al destino della patria.13 come ha osservato Anna treves però, con il primo dopoguerra, accompagnato dalla sensazione generalizzata che quel processo di rigenerazione delle società europee non si fosse verificato e che al contrario il conflitto avesse ulteriormente aggravato i problemi delle popolazioni, incidendo non solo sulla qualità ma anche sulla quantità in termini di fertilità all’interno del contesto europeo, élite presenti nei paesi scandinavi, in quelli anglosassoni, in Francia e in italia cominciarono a riconsiderare in termini negativi le teorie neomalthusiane soprattutto per quel che concerneva nei fatti la limitazione delle nascite in base alla percezione di un calo della popolazione europea.14 in questo senso infatti, per quanto riguarda il caso italiano va sempre tenuta presente la retorica nazional-patriottica e il disegno di rafforzamento
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identitario sul quale si basava il nazionalismo pre-fascista. una costruzione che – come stanno dimostrando diversi studi – precede il fascismo e che durante il ventennio viene ripresa e consolidata estromettendo la questione della limitazione delle nascite a favore del discorso natalista e popolazionista, presente fin dagli inizi, ma progressivamente strutturato ed esplicitato tra il 1927, con il discorso dell’Ascensione, e il 1938 con le leggi razziali, passando attraverso i provvedimenti attuati nel contesto coloniale in termini eugenetici e di razzizzazione della popolazione nativa. in termini generali risulta che di fatto le tesi neomalthusiane vengono estromesse gradualmente dagli ambienti degli studiosi – medici, antropologi, demografi – che diventeranno protagonisti del dibattito sulla stirpe e sulla selezione della popolazione in termini quantitativi e qualitativi.15 saranno poche le voci che si leveranno a contrastare apertamente e pubblicamente le scelte operate durante il fascismo, ma si può ricordare di nuovo salvemini, voce quasi isolata e ormai lontano dall’italia, che dagli stati uniti individua nella contraccezione una pratica di resistenza e di antifascismo, di fatto oppositive rispetto agli indirizzi imposti dal regime.16 A formalizzare ulteriormente questi indirizzi interviene la riforma del codice penale del 1930, con la quale alcuni reati rientrano tra gli articoli del X titolo riguardante i Delitti contro la sanità e l’integrità della stirpe, e in particolare l’articolo 553 che puniva “chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione o fa propaganda contro di essa”, che non verrà rivisto se non con una sentenza della corte costituzionale del 1971. Lo stesso codice manteneva il divieto assoluto di aborto.
Dopoguerra e ambienti laici. L’AIED e i radicali. Nel corso del dopoguerra e con l’avvento dell’italia repubblicana le politiche nataliste vengono in qualche maniera riconvertite in prescrizioni per comportamenti sostanzialmente legati ai valori cattolici. Ancora Anna treves infatti mette in luce come la mancata riforma dei codici penale e civile, rispettivamente del 1930 e del 1942, se non per gli aspetti e i provvedimenti più esplicitamente legati alle politiche razziali, nonché l’assenza di
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uno specifico riferimento di un rifiuto e di una volontaria frattura con il recentissimo passato fascista su questi temi in altri testi, come la costituzione ad esempio, lasciasse aperti dei canali culturali ai quali di fatto venivano attribuiti significati diversi da quelli originari.17 La ripresa di un dibattito sulla questione del birth control negli anni cinquanta partiva nuovamente da ambienti ristretti e connotati politicamente:
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A sostenere simili idee e posizioni nell’italia degli anni cinquanta erano, fra gli altri, personalità di altissimo prestigio, come Gaetano salvemini, o uomini di grande autorevolezza per il loro passato e il loro presente culturale e politico, come ernesto rossi o Luigi salvatorelli, o come Adriano olivetti, Guido calogero o riccardo Bauer, per citarne solo alcuni. su quei temi essi scrivevano di tanto in tanto su “il Mondo” di Pannunzio, piuttosto che su “il Ponte” di calamandrei o poi su “L’espresso” di Arrigo Benedetti; alcune volte – assai poche, in verità, si contano sulle dita di una sola mano – riuscirono anche a fare uscire qualche articolo in merito su grandi quotidiani.18
Ambienti dunque laici e legati a movimenti di opinione, riviste, partiti politici elitari e in qualche modo non ancora in diretto contatto con la società di massa italiana con la quale invece si ponevano in maniera dialogante e disciplinante le grandi organizzazioni politiche, il Partito socialista, il Partito comunista e la democrazia cristiana. com’ è noto, e questo sarà uno degli aspetti di conflitto e di spunto per la disobbedienza civile su questo argomento nel dopoguerra, i fautori e le fautrici del birth control si dedicano principalmente all’abrogazione del X° titolo del codice penale relativo ai Delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe, cercando come i propri predecessori di nuovo la battaglia giuridica, ma contribuendo anche alla diffusione di informazione e di strumenti per la contraccezione, volendo attaccare in particolare l’articolo 553 del codice penale, che faceva espresso divieto di svolgere questa attività. tra i fautori dell’educazione sessuale e della diffusione di informazioni sulla contraccezione vi sono in particolare gli ambienti legati alla rivista “il Mondo”, diretta da Mario Pannunzio, che nel 1955 fonderanno il nuovo
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Partito radicale da una costola del Partito liberale nato durante la Liberazione. Le ragioni di questa scelta vanno ricollegate al desiderio di emancipare la vita pubblica dai codici prescrittivi della chiesa cattolica da un lato, riprendendo un processo di laicizzazione dello stato la cui interruzione viene individuata nell’accordo tra chiesa e fascismo nel 1929 con i Patti lateranensi, e dalla volontà di mettere in pratica una sorta di “antifascismo demografico”,19 a partire dal discorso sulla sessualità e dall’introduzione di parametri di civiltà e di “modernità” che potessero associare l’italia al più ampio contesto europeo. una riforma morale dunque che permettesse all’italia di accostarsi ad altri modelli di società meno legati a quella commistione di tradizionalismo e confronto con la modernità che aveva caratterizzato il paese durante il fascismo, passando dal problema demografico in senso stretto al riconoscimento di libertà e diritti individuali da garantire nell’italia repubblicana colpendo gli aspetti di continuità tra fascismo e repubblica e alla ricerca di un dialogo con le elite più avanzate del paese. in maniera diversa invece veniva affrontato il problema dell’aborto, rispetto al quale i discorsi almeno per tutti gli anni cinquanta rimangono ancora molto legati all’idea del divieto morale insuperabile e al problema connesso con il suo essere un reato, ma mettendo in luce come vi fosse una tolleranza “di fatto” nei confronti di una pratica di massa che non faceva emergere la contraddizione che investiva soprattutto le donne appartenenti alle fasce più disagiate della popolazione, che erano anche le maggiori fruitrici delle interruzioni di gravidanza clandestine con i relativi rischi per la salute e per la propria vita.20 Le inchieste de “il Mondo” nascevano anche dalla vicinanza con l’Associazione italiana di educazione demografica (Aied), nata a Milano nel 1953 con l’obiettivo di “diffondere il concetto e il costume, già da tempo accettato nei paesi più progrediti, della procreazione volontaria e consapevole; promuove l’abolizione della legislazione tuttora in vigore, diretta ad incrementare le nascite, e in particolare dell’articolo 553 del codice penale in base al quale può essere incriminato chiunque pubblicamente sostenga la necessità di una giusta regolazione delle nascite”.21 L’Associazione si propone come una struttura apolitica alla quale pos-
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sono aderire “donne e uomini di ogni fede, condizione e partito”. La questione demografica viene descritta nel programma dell’Aied come elemento aggravante i maggiori problemi sociali del paese. A questo aspetto si aggiunge un’opera di “difesa della famiglia” da parte dell’associazione, che vuole così ridurre il fenomeno della nascita dei figli illegittimi, dell’infanticidio, dell’aborto, “criminosa forma di controllo demografico”, e della “prole ereditariamente tarata”, riprendendo la vocazione eugenetica degli ambienti neomalthusiani.22 La politica demografica proposta dall’Aied non contempla però alcuna forma di intervento e di coercizione da parte dello stato, non volendo così cadere in forme di pianificazione centralizzata. Nell’arco di pochi anni l’associazione promuove l’apertura di consultori a Milano, a Napoli e a roma per la diffusione delle informazioni “circa i metodi di regolazione della famiglia”.23 il nucleo originario dell’associazione è formato da Vittoria olivetti Berla, cesare Musatti, dino origlia, Giulia Gentili Filippetti, Luigi de Marchi, Guido tassinari, Giancarlo Matteotti, e riceve in breve l’adesione di numerosi intellettuali e uomini politici, come Piero calamandrei, ernesto e tristano codignola, dino Buzzati, Alba de cespedes, Alessandro Galante Garrone, Adriano e Arrigo olivetti, e la presenza di ernesto rossi e Gaetano salvemini, riccardo Bauer, Guido calogero, ugo La Malfa, Anna Garofalo, enzo Paci, Ferruccio Parri, Guido Piovene, ernesto rossi, Gaetano salvemini, ugo calamandrei, Achille Battaglia, renato sansone, emilio servadio, domenico riccardo Peretti Griva.24 L’associazione, per quanto isolata nel panorama italiano, vede dunque il sostegno di numerosi intellettuali e figure che nel dopoguerra avevano contribuito a cambiare i paradigmi delle scienze e della cultura cercando una via italiana alla modernità laica e antifascista pur mostrando, come si legge dal programma, molte cautele nell’affrontare il problema della famiglia, della condizione delle donne e del rapporto con la chiesa cattolica. di contro, su questo argomento la presa di parola delle donne è ancora molto ristretta. ci sono ovviamente altre battaglie culturali e parlamentari portate avanti da donne per le donne che riguardano il problema della conciliazione, la parità salariale, l’accesso a tutte le professioni, il diritto di famiglia, nonché l’abolizione delle case chiuse come riflessione sulla dignità
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e libertà femminile e sulla sessualità maschile. Ma in qualche modo la sessualità femminile, la contraccezione e l’aborto rimangono argomenti non praticabili nello spazio pubblico da parte delle donne, per quanto dalla piccola posta delle riviste emerga come le italiane non si sottraggano alla possibilità di un confronto su questo argomento, cercando anzi supporto e informazioni su questioni come la verginità, il matrimonio, la fedeltà, le esperienze sessuali proprie e del partner, le prospettive di vita e le aspirazioni personali.25 così come tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta alcuni “referendum”, cioè inchieste portate avanti da diversi settimanali, indagano sulla sensibilità delle donne italiane (ma anche degli uomini) su questi argomenti a partire da discorsi più generali sulla famiglia e sul matrimonio.26 Anche negli ambienti laici e neomalthusiani che più esplicitamente fanno riferimento a questi argomenti vi sono alcune donne che prendono parola come Anna Garofalo e Vittoria olivetti Berta. La prima, occupandosi con alcune pubblicazioni27 e con degli articoli su “il Mondo”, “il Ponte” e “L’Astrolabio” di famiglia e divorzio, prostituzione e contraccezione, mette in rilievo l’importanza di un discorso aperto e modernizzante sulla sessualità che permetta alle donne del dopoguerra di vivere con maggiore sintonia rispetto agli stili di vita che proprio la modernità impone. olivetti Berla28 invece dedica alcune pubblicazioni e degli articoli su “il Mondo” alla questione del controllo delle nascite e della pianificazione familiare. Ma per il resto sono figure di intellettuali (e uomini) a porre il problema della contraccezione, sia in termini di controllo demografico, sia in termini di lotta alla sessuofobia, come nel caso di Luigi de Marchi, esponente dell’Aied romana. Attingendo alla cultura psicanilitica e riscoprendo il pensiero di Wilhelm reich, de Marchi lavora da un lato sulla diffusione di informazioni, dando particolare rilievo alla scoperta della pillola anticoncezionale, e portando avanti un discorso laico e antifascista, soprattutto nei termini di una disobbedienza civile attraverso processi che, vedendolo come imputato, permettessero di mettere in forse la legittimità del codice rocco.29 Nel corso degli anni sessanta si viene a creare un connubio più stretto
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e per certi aspetti basato su presupposti differenti tra l’Aied, per la parte guidata dallo stesso de Marchi, e gli ambienti radicali, in particolare con il gruppo dei giovani che eredita il partito dalla generazione di Pannunzio nel 1962 e che darà vita a una formazione quanto meno anomala nel panorama italiano per la scelta dei linguaggi, la commistione di alcune culture politiche italiane ed europee e la capacità di rendere visibili tematiche poco frequentate dalle forze politiche, legate al tema dei diritti individuali e a un’accezione libertaria e nonviolenta dell’azione politica diretta e della disobbedienza civile.30 il gruppo dei radicali, formato da Marco Pannella, Massimo teodori, Giuliano rendi, Gianfranco spadaccia e altri, propone due incontri pubblici organizzati insieme a de Marchi su Sessuofobia e clericalismo, nel 1967 (nell’ambito dell’“anno anticlericale” promosso dal Pr), e su Repressione sessuale e oppressione sociale, nel 1968. Maggiore libertà individuale, liceità del controllo delle nascite, critica alla morale cattolica, educazione sessuale per i giovani sono alcuni dei temi che ricorrono nei due incontri. Ma sia l’Aied che il Pr vengono attraversati dall’ondata di presa di parola, e dalla novità nelle pratiche e nella critica radicale alle gerarchie patriarcali delle società occidentali portata avanti dai femminismi negli stati uniti e in europa. in particolare sarà Massimo teodori, appena tornato dagli stati uniti, a proporre un seminario previsto nei primi mesi del 1970 sulla scorta dell’esperienza diretta del movimento per i diritti civili e dei femminismi, insieme a Maria Adele teodori, Liliana Merlini e Alma sabatini, intorno al quale muoverà i primi passi il Movimento di liberazione della donna (MLd), un’organizzazione inizialmente femminile ma aperta anche agli uomini e in seguito femminista separatista federata al Partito radicale che si porrà come obiettivi la liberalizzazione dei metodi anticoncezionali e dell’aborto. inizialmente essa nasce in sintonia con le politiche del Pr per la “lotta per la liberazione della donna come nuovo diritto civile verso una società socialista e libertaria”31 a partire da una cornice di ampio respiro come la “liberazione dall’autoritarismo e dalla gerarchizzazione, […] dai valori dogmatici o settoriali, dai pregiudizi religiosi, razzisti e biologici”.32 L’iniziativa, ma anche in generale la felice congiuntura in cui viene
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svolto il seminario, si può leggere come un momento di cesura: la ragione di questo passaggio sta nel fatto che linguaggi e pratiche legate principalmente agli ambienti neomalthusiani e rivisti anche alla luce della trasformazione degli anni sessanta, un momento di profondo cambiamento nella cultura e nella società italiane, vengono sollecitati e criticati dai nascenti movimenti femministi di quegli anni. La questione infatti passerà da un dibattito ristretto, portato avanti da un piccolo movimento di opinione, tenace e non molto visibile, a un dibattito che vedrà radicalizzati i temi e i linguaggi, con un superamento del controllo delle nascite come strumento di miglioramento delle condizioni di vita a favore di un discorso articolato e complesso, con differenze anche profonde al proprio interno, che riguarda la sessualità, la costruzione dei ruoli di genere, la medicalizzazione del corpo della donna, il significato sociale e politico della maternità, gli anticoncezionali e l’aborto. Ma la novità fondamentale rispetto ai processi di elaborazione e diffusione delle idee riguarda il fatto che a costruire questo discorso saranno direttamente le donne e al di fuori delle consuete strutture, culture e luoghi della politica.
I femminismi come luogo di elaborazione collettiva: discorso sulla sessualità e depenalizzazione dell’aborto. Per quanto i femminismi in italia vengano spesso associati alla battaglia per la depenalizzazione dell’aborto, soprattutto nella memoria collettiva, è fondamentale ricordare come in realtà molti gruppi, collettivi e organizzazioni nati soprattutto nella prima metà degli anni settanta si ponessero altri obiettivi, molto più legati a una riflessione profonda e radicale sulla condizione di donne e all’esigenza di capirne le costruzione sociali e culturali e le ricadute politiche tanto nell’ambito pubblico quanto nella costruzione del privato.33 Parlare di femminismi implica ovviamente guardare a questi movimenti tenendo conto della complessità e dell’articolazione che li ha caratterizzati e del fatto che la presa di parola emersa da questa mobilitazione ha contribuito a costruire un discorso “delle” donne sulla propria sessualità e
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anche su contraccezione e aborto, e ha spostato parte dei luoghi di elaborazione teorica (intellettuale) in un “altrove”. si è accennato a più riprese al processo di modernizzazione come veicolo del cambiamento – altra cosa ovviamente è la volontà di soggetti individuali e collettivi perché il cambiamento trovi una composizione e una direzione precise – che ha indubbiamente riguardato la condizione delle donne in italia e in europa. in questo senso la mobilitazione dei femminismi si verifica in un momento in cui molte donne, anche se ovviamente non “tutte”, non trovano più accettabili stili di vita, modelli di comportamento, divisioni di ruoli e compiti non solo nella militanza politica ma anche e più profondamente nella vita familiare e relazionale. Alti livelli di scolarizzazione, miglior benessere e qualità della vita insieme a un innalzamento dei consumi, accesso alle professioni fanno degli anni sessanta un momento di incubazione di tensioni e cambiamenti per le donne nel contesto italiano in questo senso. di qui la possibilità di un’autonomia maggiore nella presa di parola, nel poter mettere in luce questioni altrimenti non traducibili nel linguaggio politico o da rimandare di fronte all’urgenza e alla gravità di altri problemi. Negli stessi anni si preparano forti conflitti generazionali, politici (la nascita della Nuova sinistra e l’avvio del lungo sessantotto italiano), di genere (quale sessualità per le nuove generazioni? come orientarsi rispetto al modello familiare nel matrimonio? Quali scelte si prospettano per le donne?) che si manifesteranno più apertamente alla fine del decennio e soprattutto nel corso degli anni settanta. Ma investiranno anche agenti di produzione della cultura e dell’etica, dalla scuola all’università, dalla chiesa, con il concilio Vaticano ii, alla crisi dell’unità del mondo cattolico del dopoguerra, dal discorso scientifico alle critiche epistemologiche. La questione dell’aborto può dunque essere inserita in questa prospettiva di analisi, a partire da un disagio diffuso e che si proietta in parte in continuità e in parte in profonda e appunto radicale rottura con i discorsi costruiti in precedenza sulla sessualità femminile. in questo senso anche gli ambienti radicali, laici e libertari, oltre che anticlericali, e al loro interno il percorso del MLd, sperimentano una trasformazione nei linguaggi e nelle pratiche sollecitati prima dai femminismi statunitensi e poi
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da quelli italiani, spostando la questione dell’aborto dal tema dei diritti individuali a un progressivo riconoscimento dell’autodeterminazione delle donne. L’attenzione all’argomento era già stata sollevata dall’uscita di Inumane vite, una raccolta di testimonianze pubblicata nel 1969 da Maria Luisa Zardini sulla diffusione degli aborti clandestini nelle borgate romane.34 il titolo del libro riprendeva in maniera critica quello dell’enciclica di Paolo Vi, Humanae vitae, dell’anno precedente, con la quale il papa aveva di fatto pronunciato un definitivo diniego verso l’uso della pillola anticoncezionale e di mezzi anticoncezionali chimici o meccanici. il confluire di energie legate al Pr, all’Aied, e all’interesse per un discorso delle donne porta al primo congresso del MLd che si svolge il 27 e il 28 febbraio del 1971. in questa occasione sono numerose le contestazioni da parte dei gruppi femministi nei confronti dell’impianto politico e del modo di organizzarsi scelto. in particolare sono alcune esponenti di rivolta femminile, del cerchio spezzato di trento e del Fronte italiano di liberazione femminile a sottolineare i limiti di un’esperienza mista (cioè aperta tanto agli uomini quanto alle donne), strutturata e burocratizzata nonché ingannevolmente legata a una denominazione che vorrebbe rappresentare tutte le donne, come negli stati uniti.35 Nel corso del 1971 la neonata organizzazione raccoglie queste sollecitazioni e oscilla tra il ruolo di struttura femminile del Pr e la possibilità di un percorso in autonomia legato alla scelta separatista. in seguito il MLd, insieme al Pr, si fa promotore di una proposta popolare di legge per l’abrogazione del X titolo del codice penale e per la liberalizzazione dell’aborto. Negli stessi mesi si consumano i primi distacchi e alcune donne abbandonano il MLd sulla scorta di critiche analoghe a quelle portate dai collettivi femministi durante il congresso. Alma sabatini e daniela colombo sono le prime ad allontanarsi, indicando proprio in una mancanza di consapevolezza del valore delle lotte femministe il limite delle iniziative e degli obiettivi politici ma anche delle dinamiche interne all’organizzazione. intanto il Movimento di liberazione della donna procede con una campagna di autodenuncia per procurato aborto, come strumento di lotta e di disobbedienza civile mutuato dalla Francia. Nel giugno dello stesso anno
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i deputati socialisti Banfi, caleffi e Fenoaltea avanzano una prima proposta di legge che in qualche modo vuole sanare principalmente il problema degli aborti clandestini di massa, individuando in una casistica precisa e ristretta i motivi che possano rendere lecita l’interruzione di gravidanza, pur rimanendo legata a indirizzi inerenti aspetti demografici ed eugenetici. La proposta viene molto criticata dagli ambienti femministi, decisamente ostili alla cultura del controllo demografico, e anche dal MLd a causa di una forte vicinanza con una lettura della maternità ancora troppo in sintonia culturale con la legislazione precedente. rispetto alla questione un momento di svolta arriva più avanti, nel 1973: il caso di Gigliola Pierobon, portata in giudizio a sette anni di distanza dal procurato aborto, diviene l’occasione per una uscita pubblica dei femminismi che prendono le parti dell’imputata ribaltandone il ruolo all’interno di un sistema che si basava sulla incriminazione della donna sfruttandone moralmente ed economicamente la costrizione alla maternità e utilizzando la pratica dell’autodenuncia.36 Nello stesso anno il socialista Loris Fortuna, già noto come proponente e fautore della legge sul divorzio, presenta una proposta di legge ispirata all’Abortion Act inglese, del 1967, facendo esplicito riferimento ai concetti fondamentali espressi dal movimento delle donne – l’autodeterminazione e la richiesta di liberalizzazione sia delle informazioni e dei mezzi contraccettivi sia dell’interruzione di gravidanza – ma sollecitando il movimento delle donne a far valere le proprie ragioni portandole nell’agone politico e preferendo trovare una mediazione con una proposta di legge depenalizzante ma moderata.37 in questo senso dunque, al di là della prima proposta di legge del MLd del 1971, i discorsi su sessualità e aborto costruiti dal movimento delle donne cominciano a sollecitare il sistema politico, la produzione intellettuale e il discorso pubblico contribuendo non solo a esercitare una pressione sul piano della politica istituzionale ma anche a spostare il discorso dalla maternità alla donna nel suo processo di individuazione. diviene in sostanza plausibile proporre una riflessione sulla possibilità o meno di essere madri e sulla possibilità che siano le donne a decidere. Argomenti che verranno presi in considerazione anche dalle altre forze politiche portando
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di fatto il discorso dei femminismi da una manifestazione elitaria di dissenso, a una visibilità e a una capacità pervasiva sia sul piano sociale sia su quello della comunicazione.38 Ma nel corso del dibattito, che vede una svolta dopo il referendum sul divorzio e a partire dal 1975 proposte di legge da parte di tutte le forze politiche e avvio di una discussione molto fitta sull’argomento in ambito parlamentare, la tenuta di argomenti che avevano informato il discorso sulla maternità si confrontano con questi linguaggi e argomentazioni che investono anche la politica istituzionale. Va comunque tenuto in considerazione come accanto a questo processo, la dinamica che spinge il Psi a farsi promotore dei diritti civili, il Pci a mantenere aperto il dialogo con il mondo e la cultura cattolica e la dc a opporsi a qualsiasi tentativo di attacco alla vita siano legati, oltre che alle diverse tradizioni e culture politiche, anche alla contingenza del momento, tra crisi prolungata del centro-sinistra e avvio del compromesso storico alla luce dei risultati del referendum sul divorzio che avevano dato un quadro chiaro della trasformazione avvenuta nella società italiana.39 il 1975 però rappresenta un momento di svolta non solo per il modo in cui i linguaggi dei femminismi entrano nel dibattito parlamentare e lo sollecitano, ma anche per il modo in cui anche la pratica dell’aborto clandestino viene ribaltata. Vicino agli ambienti radicali e all’Aied nel settembre del 1973 nasce il centro italiano sterilizzazione e aborto (cisA), grazie ad Adele Faccio e Guido tassinari che, pur partendo da presupposti culturali e politici molto legati alla tradizione del birth control e della questione demografica, organizzano una struttura in italia che pratica interruzioni accessibili in termini economici e senza scopo di lucro e con personale medico portandola a conoscenza dell’opinione pubblica proprio nel 1975. Negli stessi anni realtà più strettamente legate al femminismo radicale utilizzano la pratica dell’aborto rendendola non solo uno strumento di disobbedienza civile ma anche di autodeterminazione e di introduzione del self help in italia, come nel caso del comitato romano per l’aborto e la contraccezione.40 un incontro che si riverbera anche sul MLd spingendolo verso una maggiore attenzione e adesione verso le modalità elaborate dal movimento
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delle donne portando l’organizzazione verso un maggior distacco dal Pr e dalla sua cultura politica.41 un percorso analogo a quello dell’udi, che passa dal collateralismo al Pci all’autonomia, attraversando e facendo propri temi e pratiche dei femminismi alla metà degli anni settanta.42 Non solo dunque una riflessione profonda sul significato della maternità e sulla sessualità – anche slegata dalla procreazione – accompagnata da una forte critica ai ruoli di genere riesce a circolare in maniera incisiva, sollecitando fortemente il discorso pubblico, ma in maniera inedita sono le donne a parlare per sé su questi temi. com’è noto la legge 194, “Norme sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”, verrà approvata nel maggio 1978, dopo altri tre anni di dibattito, risultato di una lunga lotta e di numerose mediazioni tra le forze politiche, divise su continuità e cambiamenti relativi al ruolo sociale e culturale della maternità, tra diritti e autodeterminazione delle donne e diritti del nascituro.
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1. i. Porciani (a cura di), Famiglia e nazione nel lungo Ottocento italiano. modelli, strategie, reti di relazioni, roma, Viella, 2006, in particolare pagg. 15-53; A.M. Banti, L’onore della nazione, torino, einaudi, 2005; P. Ginsborg, i. Porciani, Famiglia, società civile e Stato tra Otto e Novecento, in “Passato e Presente”, n. 57, 2002. 2. si veda ad esempio la ricerca di A. Gissi, Le segrete manovre delle donne. Levatrici in Italia dall’unità al fascismo, Milano, Biblink, 2006; e il noto lavoro di c. Pancino, Il bambino e l’acqua sporca. Storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche, Milano, Franco Angeli, 1984. 3. Parte di questo lavoro attinge alle fonti che ho utilizzato per la mia tesi di dottorato, I radicali in Italia. un ventennio di esperimenti politici tra movimentismo, forma partitica e battaglie per i diritti civili (1962-1981), discussa nell’aprile del 2006 nell’ambito del corso di dottorato Politica e società nella storia moderna e contemporanea, dipartimento di storia moderna e contemporanea dell’università “La sapienza” di roma, e ad altri materiali per lavori successivi legati all’attività didattica all’università di torino e all’università del Piemonte orientale sulla storia delle donne e di genere e a pubblicazioni sulla storia dei femminismi, tra le quali, in questa stessa rivista un passo verso l’ “esterno”. culture politiche, femminismo e referendum sul divorzio, in “Quaderno di storia contemporanea”, n. 40, 2007; pagg. 44-59. 4. si veda in particolare il lavoro di claudia Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni trenta, soveria Mannelli, rubbettino, 2004. 5. N.e. himes, Il controllo delle nascite dalle origini a oggi, Milano, sugar, 1963 (i ed. originale 1936); pag. 264. 6. cfr. N.e. himes, Il controllo delle nascite dalle origini a oggi, cit. 7. B. P. F. Wanrooij, Storia del pudore. La morale sessuale in Italia (1860 – 1940), Venezia, Marsilio, 1990; pag. 74. 8. ivi; pag. 76. 9. ivi; pag. 78. 10. c. Mantovani, Rigenerare la società, cit.; pag. 125. 11. B. P. F. Wanrooij, Storia del pudore, cit.; pag. 79. 12. cfr. G. Bock, Le donne nella storia europea, roma-Bari, Laterza, 2001; pagg. 197 e ss.; A. Buttafuoco, Questioni di cittadinanza. Donne e diritti sociali nell’Italia liberale, siena, Protagon, 1997. 13. ibidem. 14. A. treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, Milano, led, 2001; V. de Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 2001 [i ed. originale in inglese 1992]; pagg. 17 e ss. e pagg. 42-67. 15. oltre al già citato lavoro di claudia Mantovani, si possono vedere c. Pogliani, Scienza e stirpe: eugenica in Italia (1912 – 1939), in “Passato e presente”, n. 5, 1984; r. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova italia, 1999; pagg. 16 e ss, e il più recente F. cassata, molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, torino, Bollati Boringhieri, 2006. 16. G. salvemini, Do italian women obey mussolini?, in “Birth control review”, n. 17, 1933, citato in V. de Grazia, Le donne nel regime fascista, cit.; pag. 90. 17. A. treves, Le nascite e la politica, cit.; pagg. 353 e ss. 18. ivi; pag. 385.
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NOTE
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19. ibidem. 20. V. olivetti, La famiglia pianificata, in “il Mondo” del 3 dicembre 1957. 21. Programma aied, in Vittoria olivetti, Il controllo delle nascite, Milano, edizioni Avanti!, 1957; pag. 142. 22. ibidem. 23. ibidem. 24. cfr. V. olivetti Berla, Demografia e controllo delle nascite, roma, editori riuniti, 1963. il comitato promotore dell’associazione è composto invece da Adriano Buzzati traverso, rinaldo de Benedetti, Mario dondina, Ada Ferrieri Baisini, Antonio Fussi, Giulia Gentili Filippetti, dino origlia, Vittoria olivetti Berla e Giorgio tassinari. 25. G. Parca, Le italiane si confessano, Firenze, Parenti, 1959. La stessa Parca era vicina a questi ambienti e in seguito fautrice della campagna per il divorzio e per l’aborto. 26. cfr. ad esempio Rapporto sul matrimonio. un milione di sposi sbagliati, a cura di G. corbi e A. Gambino, in “L’espresso”del 12 gennaio 1958. 27. A. Garofalo, L’italiana in Italia, Bari, editori Laterza, 1956; ead., cittadini si e no, Firenze, La Nuova italia, 1956. sulla giornalista e scrittrice si possono vedere L. Piccardi, Ricordo di Anna, e A. de cespedes, un passo esemplare, in “L’Astrolabio” del 28 febbraio 1965; Anna garofalo in Le donne italiane. Il chi è del ‘900, a cura di Miriam Mafai, Milano, rizzoli, 1993; pag. 239. 28. Vittoria olivetti Berla, milanese, dopo aver frequentato la Facoltà di filosofia e l’istituto di psicologia, si laurea con cesare Musatti. in seguito si interessa di problemi sociali e collabora con la società umanitaria e con il centro di educazione professionale per assistenti sociali (cePAs). Nel 1952, durante un periodo di studio in svezia, entra in contatto con la Lega svedese per l’educazione sessuale e da quel momento in poi si dedica al problema del controllo delle nascite. da qui l’esperienza dell’Aied. sul piano politico aderisce nell’immediato dopoguerra alla organizzazione giovanile del Partito liberale di Milano e nel 1953 si iscrive a unità popolare. cfr. V. olivetti Berla, Il controllo delle nascite, cit. 29. intervista a Luigi de Marchi, roma, 29 maggio 2003; cfr. Luigi de Marchi, Il solista, roma, edizioni interculturali, 2003. 30. M. teodori, P. ignazi, A. Panebianco, I nuovi radicali. Storia e sociologia di un movimento politico, Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1977; L. Ponzone, Il partito radicale nella politica italiana, Fasano, schena, 1993. Per una ricostruzione di questo passaggio, arricchita da documenti d’archivio e interviste, rimando alla mia tesi di dottorato I radicali in Italia. un ventennio di esperimenti politici fra movimentismo, forma partitica e battagli per i diritti civili (1962-1981), reperibile presso il dipartimento di storia moderna e contemporanea dell’università “La sapienza” di roma e presso gli Archivi radicali, roma. 31. movimento di Liberazione della donna. Roma, 14 aprile 1970. Il comitato di coordinamento, Archivi radicali, fondo Marco Pannella, busta 12; Proposta di convegno di lavoro politico per il lancio del mLD, ivi. entreranno a far parte del consiglio nazionale del MLd Gianna Ambler, dolores Angelicola, Viola Angelini, sveva Avveduto, Maria teresa carlucci, Anna camisa, eva evans, Graziella davoli Morselli, Nicola introcaso, Matilde Maciocia, sandra Maggiori, Liliana Merlini, Aurelia Magliozzi, Arminia Mosciaro, daniela Proietti, Alma sabatini, danielle turone, claudia Zarattini, consiglio nazionale, Ar, MP, busta 13.
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32. Piattaforma di principi e obiettivi del movimento di liberazione della donna, ivi. 33. r. spagnoletti (a cura di), I movimenti femministi in Italia, roma, savelli, 1971; F. Lussana, Le donne e la modernizzazione: il neofemminismo negli anni settanta, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. iii, tomo 2°, torino, einaudi, 1997; A.r. calabrò, L. Grasso (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e percorsi a milano dagli anni ’60 agli anni ’80, Milano, Franco Angeli, 2004. 34. M.L. Zardini, Inumane vite, Milano, sugar, 1969. 35. s. Villani, La maternità come scelta, in “corriere della sera” del 1° marzo 1971; o. Bongarzoni, Divise le donne nella battaglia contro l’uomo, in “Paese sera” del 1° marzo 1971; Legalizzare gli aborti chiedono le femministe, in “il Messaggero” del 6 marzo 1971. 36. movimento femminista, Roma 5 giugno 1973, Ar, MP, busta 13. 37. Proposta di legge dell’11 febbraio 1973, n. 1655 alla camera dei deputati. Proponenti: Fortuna, Achilli, Ballardini, Balzamo, Bensi, caldoro, canepa concas, craxi, castiglione, colucci, di Vagno, riccardo Lombardi, Maria Magnani Noya. si veda in particolare a pagg. 12 e ss. per i riferimenti al Movimento femminista romano. 38. cfr. i documenti riportati in c. Papa, Il dibattito sull’aborto, rimini- Firenze, Guaraldi, 1975; G. sciré, L’aborto in Italia. Storia di una legge, Milano, Bruno Mondadori, 2008. 39. A questo proposito si possono vedere di G. scirè, oltre al già citato L’aborto in Italia, anche Il divorzio in Italia: partiti, chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Milano, Bruno Mondadori, 2007. 40. F. Biancamaria (a cura di), La politica del femminismo (1973 – 1976), roma, savelli, 1976; pagg. 136-142. 41. congresso mld. La mozione politica, ar, mp, busta 14; vd. anche F.i. Le femministe del mld a congresso, in “il Messaggero” del 10 aprile 1975. 42. M. Michetti, M. repetto, L. Viviani, udi: laboratorio di politica delle donne. Idee e materiali per una storia, soveria Mannelli, rubettino, 1998; pagg. 124 e ss.
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il 1970 arrivava a rimorchio del sessantotto, in quel clima, con quelle stimmate, nel progressivo sgocciolamento delle istanze che avrebbero così fortemente segnato gli anni a venire. La musica giovanile più rivolta al presente/futuro lasciava in meno di un mese, fra settembre e ottobre, due eroi sul campo: Jimi hendrix e Janis Joplin. senza contare lo scioglimento dei Beatles, di cui John Lennon dava voce e corpo alla vena più sperimentale costituendo la Plastic ono Band, in onore della sua nuova lady, quella Yoko ono – artista stramba, onnivora quanto tutto sommato velleitaria – cui si vuole legata in primo luogo la morte di un mito (i Beatles, non Lennon: a lui avrebbe pensato di lì a dieci anni Mark chapman). Qualcosa era accaduto appena prima, e i riflessi si iniziavano ad avvertire appunto al decollare del nuovo decennio: nell’estate ‘69 si era officiato a Woodstock un festival-monstre destinato a imperiture celebrazioni nel quarantennio successivo. uscito appunto nel 1970, il relativo film-documentario iniziava a fare il giro del mondo, già icona di tutto un nuovo modo di intendere e vivere la musica e ogni suo annesso e connesso. sempre nel ’69 i Pink Floyd, già orfani di syd Barrett ma ancora imbevuti della sua geniale iconoclastia, avevano inciso ummagumma (uscito nell’autunno di quello stesso anno), il loro album più sperimentale (buon coéquipier sarebbe stato, proprio nel ’70 – sempre autunno – Atom Heart mother, il celebre album della mucca, quanto meno relativamente al lato A, omonimo). e Miles davis, in agosto (tornando al ’69), aveva inciso Bitches Brew, uscito inizio 1970 e destinato a scompaginare gli umori (e a guastare i buoni sonni) jazzistici a venire, con la sua immersione negli strumenti elettrici e nelle temperature del rock (magari mischiati con reminiscenze r&B e ingredienti soul), oltre che, con quanto
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Alberto Bazzurro
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ne sarebbe seguito nell’arte davisiana nell’immediato, ricettacolo-pigmalione di una messe di straordinari talenti, da John McLaughlin a chick corea, da dave holland a Keith Jarrett, a Jack deJohnette.1 Ma per il jazz l’estate 1969 era stata anche quella della grande diaspora parigina della seconda generazione free; chicagoana, anzitutto, da Anthony Braxton a Leo smith, da Leroy Jenkins all’Art ensemble dei vari Mitchell, Bowie, Jarman, Favors. sempre in europa nasceva la ecM, e ancora dall’europa iniziava il suo forse tribolato ma fecondissimo ritorno in patria (l’Argentina, via usA) Gato Barbieri, che con The Third World dava il via alla sua fase terzomondista2, di gran lunga la più fertile della parabola artistica del sassofonista di rosario, con un manipolo di album maiuscoli concentrati nei primi anni settanta, su tutti El Pampero, live a Montreux ’71, e i primi due “capitoli” per la impulse, Latin America e Hasta Siempre, usciti rispettivamente nel ’73 e ’74 (attingendo però da sedute piuttosto mischiate). A partire da caliente (1976), poi, il nostro avrebbe iniziato a marciarci un po’ troppo vistosamente, scivolando in un baratro creativo di fatto senza uscita. A casa nostra le cose stavano ancora un po’ diversamente, benché cominciasse a muovere i primi passi il di lì a poco quanto mai concreto movimento progressive (PFM e Banco incideranno le loro opere prime nel ’71). il nuovo passava comunque soprattutto per quella che s’iniziava a chiamare “canzone d’autore”, due dei cui pilastri, Fabrizio de André e Francesco Guccini, all’epoca entrambi trentenni, mettevano sul piatto (dei nostri giradischi) La buona novella il genovese e Due anni dopo il bolognese. il quale, anzi, prima che quello stesso 1970 si esaurisse, partoriva addirittura un secondo album, L’isola non trovata. ed è lampante come i “due anni dopo” del titolo del primo LP fossero (anche) quelli intercorsi dal succitato sessantotto. Magari da quella stessa primavera di Praga che dava pure il titolo a una delle più riuscite canzoni del disco. Zappa e i “padri nobili” Naturalmente non c’era solo questo. sempre nello sporgersi degli anni sessanta su un decennio, il successivo, nato evidentemente settimino (in
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altre parole nel solito 1969), esordiva su disco uno dei gruppi-chiave del nuovo verbo progressive, i King crimson (In the court of the crimson King, copertina storica, fra le più belle di sempre), seguiti l’anno dopo da emerson Lake & Palmer (l’album omonimo, uscito come quello del re cremisi su island). e il vorace Frank Zappa, con tutta probabilità il massimo genio del movimento rock (del resto era anche un sacco di altre cose), in quello stesso 1969 dava alle stampe due dei suoi album più significativi, il doppio uncle meat (primavera) e Hot Rats (autunno), oltre a incidere, in ottobre, King Kong, lavoro a firma del violinista francese Jean-Luc Ponty di cui Zappa, però, è autore, arrangiatore, conduttore, in una parola deus ex machina. in tutti questi lavori, l’artista di Baltimora iniziava a strizzare a sua volta l’occhio alle sonorità e alla filosofia (che vuol dire anzitutto improvvisazione) del nuovo jazz, seguendo un percorso che avrebbe dato la stura di lì a poco a capi d’opera quali Waka/Yawaka e The grand Wazoo, sempre nel nome della voracità di cui sopra partoriti nello stesso anno, il 1972. dell’anno prima era invece un altro doppio album, 200 motels, colonna sonora dell’omonimo film, che pur (anzi: in fondo proprio) nella sua contraddittorietà rappresenta uno dei manifesti dell’arte zappiana, spesso così pericolosamente sporta sull’orlo del precipizio: per scoprire cosa ci sta di sotto, e creare, magari, qualcosa di inaudito, proprio nel senso etimologico del termine. in quest’opera sfrontata e un po’ guascona, Zappa rivela nella maniera più compiuta (fino a quel momento) la sua devozione per un manipolo di artisti a loro volta (e a loro tempo) piuttosto scriteriati: stravinsky (il primo, non quello neoclassico), Webern, soprattutto cage e Varèse, dal concretismo alla serialità. e cosa fanno, questi autori, che qualcuno (anche allora) vorrebbe paludati, in quegli stessi anni? Anton Webern, vertice con schönberg e Berg del triangolo della cosiddetta scuola atonale viennese, è passato a miglior vita fin dal 1945. edgard Varèse, suo coetaneo (1883), l’ha seguito vent’anni dopo. igor stravinsky ci lascia nel ’71. John cage, più giovane di trent’anni (1912), è invece ancora attivissimo. iconoclasta per eccellenza (come già Varèse, e lo stesso Zappa, del resto), entro una produzione elefantiaca, eterodiretta e anticonformista come poche (probabilmente nessuna), negli anni settanta cage si rivolge, fra molto altro, agli chants de
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maldoror di Lautréamont, poeta decisamente irregolare, che “polverizza” nel 1971. Nel ’76 scrive otto quartetti, che però arrivano a coinvolgere fino a novantatre esecutori! L’anno dopo parafrasa Proust in Alla ricerca del silenzio perduto (il silenzio, icona/ossessione cageana per antonomasia)3. in italia lo si vede abbastanza spesso: è diventato a sua volta una sorta di icona della trasgressione in musica (e ci sarebbe mancato altro!), piuttosto noto – magari per sentito dire – anche fra i giovani che seguono progressive e nuovo jazz. tiene concerti memorabili. soprattutto perché spesso non sono affatto tali: sono non-concerti, nel corso dei quali spesso legge, proponendo il suo Finnegan’s Wake joyciano e altre diavolerie4. Lo attrae la dimensione sociale (allora la si definiva senza mezzi termini “politica”) della produzione artistica, del gesto creativo (e creatore). incarna ben più il ruolo di maître-àpenser, al limite di guru, che non di musicista in senso stretto. come per altri grandi sparigliatori dell’arte novecentesca (Fontana, Man ray, duchamp) il gesto, l’idea, l’intenzione contano persino più del risultato in sé e per sé. A sua volta “santone” di sponda colta riconosciuto anche dai giovani, specie in virtù della sua sensibilità verso l’elettronica (ciò fin da gesang der Jünglinge, pagina nodale nel settore, anno di grazia 1955), il tedesco Karlheinz stockhausen sviluppa negli anni settanta le sue attitudini didattiche, distinguendosi, sul piano della scrittura per un paio di pagine clarinettistiche del biennio 1976-‘77 costruite sulla figura di Arlecchino, e soprattutto concepisce quella che sarà la sua monumentale eptalogia operistica (in senso non tradizionale, ovviamente) che va sotto il nome di Licht (luce) e che a partire dall’81 lo vedrà dedicare una megacomposizione (tre/quattro ore in media) a ciascun giorno della settimana5. Altre figure, sempre di ambito colto-contemporaneo, di cui non si può tacere, anche proprio per il rilievo giocato specificatamente negli anni settanta, sono quelle dei nostri Luigi Nono e Luciano Berio, e del francese Pierre Boulez (ma anche Ligeti, Xenakis, Kagel, Manzoni, Bussotti, Globokar, sciarrino…), non ultimo per l’omogeneità anagrafica esistente fra loro, e del resto con lo stesso stockhausen (si va dal 1924 di Nono al ’28 proprio del tedesco). A Boulez, giusto nel 1970, il presidente francese Pompidou commissiona la creazione dell’ircAM (institut de recherche et coordination acoustique/musique), che il compositore dirigerà fino al ’92 (oltre ad altre direzioni, tra cui, dal ’71 al ’77, quella della New York
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Philharmonic), mentre come chef d’orchestre dirigerà, fra le moltissime, composizioni “colte” niente meno che di Frank Zappa (The Perfect Stranger, emi, 1984). Berio, invitato dallo stesso Boulez, insegna a sua volta all’ircAM (sezione elettro-acustica, e citiamo allora un paio di suoi lavori elettronici: Per la dolce memoria di quel giorno, del 1974, e chants parallèles, del ’75), prosegue nelle sue celebri Sequenze per strumento solo e scrive copiosamente – com’è del resto suo costume – per pianoforte e per voce (ricordiamo, al proposito, il suo matrimonio con cathy Berberian, “musa” per antonomasia della vocalità del secondo Novecento), in particolare, nel ’74, un canto in memoriam del collega Bruno Maderna, scomparso l’anno prima poco più che cinquantenne, oltre a musicare testi di sanguineti e Neruda. A quest’ultimo, così come a Pavese, ungaretti, Lorca, ecc., quindi alla parola in senso lato, è quanto mai sensibile Luigi Nono, i cui lavori degli anni settanta (e oltre) assumono – anche proprio grazie al ricorso alla parola – connotazioni largamente militanti (è nota la sua fede marxista), in un iter creativo6 culminato (forse quintessenziato) nel 1980 col quartetto d’archi Fragmente-Stille, An Diotima. da notare che fra i più assidui sodali di Nono figura il trombonista Giancarlo schiaffini, su cui torneremo quando parleremo del nuovo jazz italiano, nonché del Gruppo d’improvvisazione Nuova consonanza. Prima c’è però almeno da accennare ad alcuni musicisti, pure loro figli di quei medesimi anni Venti, che, pur lungo altre coordinate, caratterizzano il decennio di cui ci stiamo occupando (e non solo, del resto). il più prossimo al côté contemporaneo-colto appena avvicinato è senz’altro ennio Morricone, che a partire dal 1961, dopo il successo del Federale di Luciano salce, di cui ha scritto non senza una certa dose di casualità la colonna sonora, mette un po’ da parte le sue velleità da compositore serio per dedicarsi appunto alla musica da film (mezzo migliaio, a oggi, i soundtrack a sua firma), instaurando in particolare un sodalizio del tutto speciale col suo ex-compagno di scuola sergio Leone, per il quale, nel ’71, musica giù la testa, cui fa da corollario un altro capolavoro, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, e poi Sacco e Vanzetti, Novecento, Todo modo e tutta una lunga serie di altre pellicole più o meno entusiasmanti (sempre limitandoci agli anni settanta), nelle cui musiche è comunque coglibile una cifra stilistica inconfondibile. diplomatosi nel ’54 con Goffredo Petrassi, Morri-
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cone non ha del resto mai accantonato la pratica della composizione “assoluta”. Fin dal 1965 fa tra l’altro parte dell’appena citata Nuova consonanza. improvvisazione, già: il vessillo, il connotato-base del jazz. ci torneremo, come detto. Per il momento proseguiamo con altri due figli degli anni Venti. il primo è l’argentino Astor Piazzolla, il profeta del nuevo tango, che sul ceppo del tango tradizionale introduce elementi inusitati (per alcuni, in patria, addirittura blasfemi), togliendogli un po’ di “ballabilità” (e la voce, quella dei Gardel, Goyeneche, ecc.) e avvicinandolo, di converso, alla musica contemporanea (ha studiato a Parigi con Nadja Boulanger) e allo stesso jazz. Proprio negli anni settanta, nei quali affianca al quintetto, sua formazione-base, un nonetto che accentua certo carattere “cameristico” della sua musica, Piazzolla incide fra gli altri con Gerry Mulligan (Summit, 1974), esperienza che ripeterà più tardi (1986), con esiti anche più succosi, accanto al vibrafonista Gary Burton. come Morricone, Piazzolla è (ancora oggi) quello che potremmo definire un musicista trans-generazionale (e trans-stilistico). Lievemente diverso il caso del compositore e sitarista indiano ravi shankar, il cui mito viene fin dai tardi anni sessanta ampiamente alimentato dagli uomini del pop/rock, a cominciare dai Beatles, specie da quel George harrison che nel ‘71, al Madison square Garden di New York, lo coinvolge nel celeberrimo concert for Bangladesh, rito collettivo per eccellenza di un’epoca quanto mai sensibile ai megaraduni (oltre a Woodstock, ricordiamo almeno isle of Wight 1970, con Jimi hendrix e Miles davis fra i protagonisti) che diventerà anche un fortunatissimo (Grammy Award, fra l’altro) album triplo (con ringo starr, eric clapton e Bob dylan fra gli altri).
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Rock, pop, progressive, fusion: l’America Parlando di megaraduni, non possiamo non aprire un’ampia finestra sulla musica giovanile, d’altra parte la più tipica (e incidente) dell’epoca. due sono essenzialmente gli eden da cui il nuovo verbo musicale, sul ceppo rock/pop/beat (il cosiddetto progressive, in primo luogo), si diffonde: stati uniti e inghilterra, pur non mancando altre piste, per esempio quella
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tedesca, come vedremo (né mancherà, ovviamente, uno scandaglio della scena nostrana). Negli states, sul versante più sperimentale, avanzato, oltre al già citato Frank Zappa (nella cui orbita gravita fra gli altri un artista pazzoide come captain Beefheart, cantante, musicista e pittore), un’altra figura di riferimento è certamente il chitarrista e polistrumentista californiano Jerry Garcia, leader dei Grateful dead, gruppo – cosiddetto – “psichedelico” (come per esempio i newyorchesi Vanilla Fudge, da una cui costola, peraltro, già nel 1970 sono nati i cactus, decisamente più rockeggianti). Garcia ama del resto agire anche in proprio, a iniziare dal primo, nodale album a suo nome, garcia (1972), largamente sperimentale. i Grateful dead, in effetti, stanno iniziando proprio allora a sporgersi verso una china più “commestibile”, imbevuta di quelle atmosfere soft rock di cui del resto la california è generosa dispensatrice. il gruppo-guida di questo genere, fortemente intriso di umori country, tutto chitarre acustiche e voci lievi, è certo crosby, still, Nash & Young (Déjà vu, 1970; Four Way Street, 1971; del solo Neil Young, che si unisce in un secondo tempo al trio preesistente, Harvest, 1972), col possibile contraltare (piuttosto omologo, del resto) degli America, presenti fin dal 1971 con l’album omonimo. La california è del resto teatro anche di esperienze piuttosto lontane da questo scenario, di cui sopravvive peraltro proprio una tendenza a battere strade più orecchiabili, fruibili. È il caso dei santana, che sembrano concentrare il loro afflato innovativo nel primo album, l’omonimo del ‘69, in particolare nello strumentale Soul Sacrifice, trasfigurato in una sorta di orgia di chitarre e percussioni (soprattutto) nelle celebre live version woodstockiana. Altri brani già adombrano quella tensione – se così la possiamo chiamare – verso una cantabilità fin troppo ecumenica che il leader del gruppo, carlos, sposerà sempre più massicciamente già a partire dal successivo Abraxas (1970), contenente la celeberrima Samba pa ti, tutta per la sua chitarra, e più ancora nel discutibile Santana III (1971). La china è quella, indiscutibilmente, anche se un qualche colpo d’ala può essere colto in caravanserai (1972), che introduce una (peraltro breve) stagione in cui santana – sempre nel senso di carlos – si avvicina all’area jazzistica e, in parallelo, alla cultura indiana. in tale contesto si colloca la sua collaborazione col collega John McLaughlin, che lo introduce al guru sri chinmoy
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(che lo ribattezza devadip, così come McLaughlin è Mahavishnu) e con cui nel ‘73 incide il pregevole Love, Devotion, Surrender, che include in primis una soffice versione per due chitarre acustiche di Naima di coltrane, con la vedova del quale, Alice McLeod, l’anno dopo carlos santana realizza Illuminations. in mezzo si situa il quinto album dei santana (intesi qui come gruppo), Welcome, non privo di motivi d’interesse. un interesse che, fuori da mere logiche di mercato, inizia a scemare senza ritorno a partire dal successivo Borboletta (1974). Al di là di gruppi più prossimi alla costola hard del movimento complessistisco dell’epoca (dai Mountain di Felix Pappalardi e Leslie West, a Grand Funk railroad e iron Butterfly, tanto per fare qualche nome), il panorama americano di inizio decennio non manca di realtà che, ben più dei santana, proprio a monte, recuperano stilemi tipici del jazz di sezione, impastato di r&B e soul. ci riferiamo in primo luogo a chicago t.A. e Blood sweet & tears, zeppi di fiati, mentre un’ideale compenetrazione dei due modelli – quello appunto fiatistico, e quello multipercussivo dei santana – è coglibile negli afro-caraibici osibisa (attivi peraltro in inghilterra). se parliamo tuttavia di contaminazione reale fra lessico jazzistico e rock, il cui veicolo è costituito, forse prima ancora che da un fatto idiomatico in senso stretto, dall’ampio ricorso alla strumentazione elettrificata (talora elettronica), non c’è dubbio che i risultati più probanti riguardino tutta quella costola (o diaspora) davisiana che passa attraverso gruppi quali la Mahavishnu orchestra del già citato McLaughlin (peraltro inglese), i Weather report di Wayne shorter e Joe Zawinul, il sestetto di herbie hancock e il return to Forever di chick corea; formazioni che, pur fra alti e bassi, hanno ospitato musicisti di chiara matrice jazz (come del resto i succitati, ovviamente) tipo i bassisti Miroslav Vitous, Buster Williams e stanley clarke, i batteristi Billy cobham, Peter erskine e Billy hart, il trombonista Julian Priester, i polistrumentisti Joe Farrell e Bennie Maupin, a volte incrociatisi nei diversi organici. Non è probabilmente un caso che le incisioni più significative del filone (per lo più identificato – non senza una qualche approssimazione – come fusion) siano di fatto racchiusi in pochi anni: quelli iniziali. ci riferiamo ad esempio ai primi due album della Mahavishnu orchestra, The Inner moun-
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tain Flame e Birds of Fire, a I Sing the Body Electric e Sweetnighter dei Weather report, crossings di herbie hancock, Return to Forever del gruppo omonimo, tutti compresi fra 1971 e ‘73. un’eccezione può esser fatta, eventualmente, per il periodo del passaggio per i Weather report del geniale bassista elettrico Jaco Pastorius, eroe tragico della stirpe dei charile Parker e degli hendrix prematuramente scomparso (a trentasei anni) dopo una vita sregolata come poche. Gli anni alla corte della premiata ditta shorter & Zawinul vanno dal ‘76 all’80, attraverso album quali Heavy Weather, mr. gone, 8:30. Pastorius, che nella sua breve carriera collabora fra gli altri con Joni Mitchell e con un giovanissimo Pat Metheny, ama misurarsi con situazioni fra loro anche piuttosto diversificate. È in tale contesto che si colloca il suo album forse più stimolante, Triologue, live berlinese del 1976 che lo vede dialogare abbastanza senza rete col trombone “multifonico” di Albert Mangelsdorff e la batteria di Alphonse Mouzon. Inghilterra e dintorni Venendo al panorama inglese, già si è accennato ad alcuni gruppi e incisioni particolarmente significativi del periodo a cavallo fra anni sessanta e settanta. ci sono ovviamente anche gruppi di grande richiamo più “intinti” nei turgori dell’hard rock, Led Zeppelin e deep Purple, Who e ten Years After, Black sabbath e uriah heep, più o meno tutti destinati ad avere più tardi una qualche influenza sugli estremisti dell’heavy metal; tuttavia è altrove che dimorano le idee, le intuizioni, più illuminanti. i già citati Pink Floyd riversano in meddle (1971) l’estremo anelito dei più sani appetiti (post)barrettiani, per battere poi via via (dai fortunatissimi The Dark Side of the moon, del ’73, e The Wall, del ’79, a quanto gravita lì intorno) sentieri più ecumenici. eL&P realizzano nel ‘71 ben due LP: Tarkus, più che probabile apice della loro produzione, che come già Atom Hearth mother dei Pink Floyd, ruota attorno a un’ambiziosa suite che ne copre la prima facciata, e il live Pictures at an Exhibition, basato sull’omonima pagina pianistica di Musorgskij, cui si alternano brani originali del trio. Anche i King crimson di Bob Fripp sono all’epoca quanto mai prolifici: fra 1970 e ‘71
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escono infatti Lizard e Islands, album in qualche modo gemelli (anche per l’ottima qualità) che coinvolgono alcuni dei più bei nomi del nuovo jazz inglese, da Keith tippett a Mark charig, da harry Miller (in realtà sudafricano) a Nick evans. i Jethro tull, attivi fin dal ’67 attorno al flautista ian Anderson, innamorato del polistrumentista neroamrericano roland Kirk, nel ’71-‘72 sfornano a loro volta due pezzi da novanta quali Stand up e Thick Is a Brick. innumerevoli sono del resto i nuovi gruppi che si affacciano all’inizio del decennio, dai Van der Graaf Generator (a partire da Pawn Hearts, del 1971), il cui sassofonista, david Jackson, ha qualcosa a che fare con dick heckstall-smith dei colosseum (che sempre nel ’71 firmano il doppio colosseum Live) nonché col citato roland Kirk (tutti e tre amano suonare più sassofoni simultaneamente), agli Yes (Fragile, 1971), dai Genesis (Nursey cryme, 1971; Foxtrot, 1972) ai Gentle Giant (Three Friends, 1972), dai curved Air, il cui nome trae spunto dal celebre album A Rainbow in curved Air (1969) di terry riley, uno dei “santoni” (con Philip Glass, steve reich, John Adams) del cosiddetto movimento “minimalista” (o iterativo), ai roxy Music (Roxy music, 1972), dall’electric Light orchestra fino, un po’ più tardi, a talking heads e Police. e non si può fare a meno di notare come da quasi tutte queste realtà prendano poi le mosse carriere solistiche particolarmente brillanti, da Peter hammill (Van der Graaf) a Peter Gabriel e Phil collins (entrambi Genesis), da Brian eno (e lo stesso Brian Ferry) dei roxy Music a david Byrne (talking heads) e sting (Police); formazioni, queste ultime, che ci rimandano a una fase già successiva, segnata dall’ascesa del movimento punk (da alcuni letto come una sorta di fenomeno neo-dada), i cui gruppi di riferimento sono sex Pistols (soprattutto) e clash, entrambi inglesi, benché ne esista anche una “costola” americana (heartbreakers, ecc.). come si accennava, neppure la Germania, in quanto a gruppi capaci di imporsi a livello internazionale, sta a guardare. Gli Amon düül sono i primi, allorché, verso il 1972, iniziano a circolare Phallus Dei (uscito nel 1969) e Yeti (1970). espressione di una comune, il gruppo varia nel tempo formazioni e, talora, approccio creativo, mantenendo peraltro, nelle sue prove migliori, un occhio proteso in avanti, fra rock e sperimentazione tout court. Nel
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1970 si formano anche i Kraftwerk, che tuttavia imprimono la sterzata elettronica di cui sono i riconosciuti vessilliferi (nonché pionieri) a partire dal ’73, giungendo a una prima rilevante affermazione a cavallo fra 1974 e ’75, così come i tangerine dream (Phaedra, 1974), al crocevia fra post-psichedelia e – a loro volta – ampio ricorso all’elettronica. in italia, per contro, le cose non stanno ancora in questi termini, anche se il progressive si afferma rapidamente, imponendo gruppi vecchi e nuovi. Fra i primi, una dimensione inedita assumono fin dal 1971 due vecchie conoscenze del beat appena precedente: Le orme, con collage (e subito a seguire uomo di pezza), e i New trolls, col celebre concerto grosso. All’inizio dell’anno seguente escono invece due lavori destinati a ribaltare la fisionomia complessistica nostrana: Storia di un minuto della Premiata Forneria Marconi e il celebre “salvadanaio” del Banco del Mutuo soccorso. Parallelamente, si affaccia sulla scena una colorata fauna di nuovi gruppi: i delirium di ivano Fossati (che peraltro ne uscirà presto) con Dolce acqua, gli osanna (L’uomo, Preludio, tema, variazioni, canzona e Palepoli, tutti entro il ‘73), e poi ancora Quella Vecchia Locanda, Balletto di Bronzo, rovescio della Medaglia, ecc. (7). il 1972 è anche l’anno in cui nasce la formazione probabilmente più significativa del progressive nostrano, nel caso specifico massicciamente imbevuto di suggestioni jazzistiche (e qui non possiamo non citare, in parallelo, il Perigeo di Giovanni tommaso) e cantautoriali. stiamo parlando degli Area, realtà, rispetto alle precedenti, senz’altro più “militante”, come già, pur lungo altri itinerari, gli stormy six, attivi fin da metà anni sessanta, con vari rimpasti di organico (vi passa anche quel claudio rocchi che, autonomamente, realizza nel ’70-‘71 due lavori di rilievo quali Il viaggio e Volo magico n. 1, prima di intrupparsi negli “arancioni” di hare Krishna). degli Area, comunque, fa parte fin dall’inizio demetrio stratos, figura per più versi paradigmatica (in fondo proprio per la sua anomalia, nonché – come vedremo – per la sua stessa fine) di questi anni creativamente voraci e ricchi di fermenti. Greco di passaporto, egiziano di nascita e italiano d’adozione, artista poliedrico quanto coerente e ricercatore instancabile, da sempre attratto dalla vocalità pura, in parallelo alla militanza negli Area stratos abbraccia ben presto una sperimentazione “assoluta”, accostando la contemporaneità colta e venendo a interagire con musicisti
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dei versanti più disparati (da John cage a steve Lacy). il suo, del resto, via via si precisa sempre più come un percorso essenzialmente individuale, verso la congiunzione assoluta con l’elemento phoné (tiene spesso concerti per voce sola). Fra i suoi album, vanno ricordati almeno metrodora, del 1976, e cantare la voce, del ’78, poco prima che il filo si spezzi.
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L’Europa del jazz si emancipa Ma di questo parleremo a suo tempo. Per ora riprendiamo qualche filo pendente, tornando per un attimo all’inghilterra, dove fra elettronica (specie agli inizi) e infiltrazioni jazzistiche si muovono i soft Machine, gruppo di punta della cosiddetta “scuola di canterbury”. Formatosi nel 1966 attorno al tastierista Mike ratledge e al batterista (e cantante) robert Wyatt, un paio d’anni dopo il quartetto viene rinforzato – come mente pensante – dal bassista hugh hopper. sono loro che danno all’ensemble la spinta decisa verso una sperimentazione senza frontiere, fra psichedelia, grumosi fondali elettronici, vocalità a volte beffarda (simil-zappiana, per certi versi) e, con l’ingresso dei sassofoni di elton dean, new jazz. È questo l’humus che, dal ’70 al ’72, innerva il trittico di album-chiave della parabola creativa della macchina morbida (dal titolo di un romanzo di Burroughs), Third, doppio LP di soli quattro brani, uno per facciata, Fourth, che ospita i fiati di Marc charig, Nick evans e Alan skidmore e il contrabbasso di roy Babbington, e Fifth, senza Wyatt, che, non del tutto convinto del nuovo indirizzo del gruppo, forma Matching Mole, appunto con l’intento di recuperare i tracciati primari dei soft Machine (si noti, al proposito, l’omofonia col francese “machine molle”, cioè – appunto – macchina molle). in Six (1973), ratledge e hopper proseguono con Karl Jenkins (sostituto di dean) e John Marshall alla batteria; in Seven (’74) anche hopper esce, rimpiazzato da Babbington (e poi lo steso Jenkins da skidmore), col gruppo inserito ormai capillarmente in quel filone fusion che, sulla falsariga e in parallelo con davis e seguaci, sposa jazz ed elettricità. Qui il discorso si complica. e s’infittisce. diversi membri delle varie soft Machines bazzicano infatti altri gruppi e altri contesti, più o meno
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stilisticamente affini, a iniziare, come abbiamo visto, dagli stessi King crimson, collante insostituibile fra universi in fondo paralleli. È il caso dei Nucleus del trombettista ian carr (Solar Plexus, 1971; Belladonna, 1972), nonché dei gruppi del vari Keith tippett, Mike Westbrook, chris McGregor, tutti e tre mossi da ambizioni orchestrali. così tippett, oltre ad ensemble meno nutriti, nel ’71 mette insieme una “truppa” di oltre cinquanta musicisti – centipede, non a caso – che incide l’epocale Septober Energy, per poi proseguire l’attività; così Westbrook gli risponde con metropolis (altri suoi album degni di nota del periodo sono Love Songs, del ’70, e citadel/Room 315, del ’74); così McGregor, uomo-simbolo di quella colonia sudafricana che alimenta da par suo il british jazz dell’epoca, dà vita ai gloriosi Brotherhood of Breath. Lì dentro si muove un’autentico esercito di notevoli strumentisti che, volendo sintetizzare, oltre a quasi tutti quanti i citati in questi ultimi capoversi, annovera anche i trombettisti Kenny Wheeler (canadese, che meriterebbe una trattazione a sé), harold Beckett (antillano), henry Lowther e Mongesi Feza, i trombonisti Malcolm Griffiths e Paul rutherford, i sassofonisti (per lo più multistrumentisti) Brian smith, Mike osborne, John surman, dudu Pukwana e Gary Windo, i tastieristi Gordon Beck, dave Mcrae e John taylor, i chitarristi Allan holdsworth e Gary Boyle, i bassisti harry Miller e Johnny dyani (entrambi sudafricani, come Feza, Windo, Pukwana e il batterista Louis Moholo), le voci Julie driscoll tippetts, Norma Winstone, Maggie Nicols e Phil Minton. Fra tutti i menzionati (ma inglesi sono anche dave holland e il già citato McLaughlin, ormai transfughi negli states alla corte di Miles davis, e poi a loro volta brillanti leader), John surman in particolare c’introduce alla tappa successiva, che verte sul nuovo jazz europeo, proprio negli anni settanta (anzi dai tardi sessanta) in grado di emanciparsi dall’imperante (e un po’ ingombrante) modello a stelle e strisce. in qualche modo come già, fin dagli anni trenta, il geniale chitarrista gitano django reinhardt in coppia col violinista stephane Grappelli, surman immette sul ceppo afroamericano, comunque presente, elementi tratti dalla tradizioni della propria terra, non disdegnando neppure rimandi di sponda classica. in ciò senz’altro favorito da un massiccio polistrumentismo, l’inglese ha nel francese Michel Portal un ideale frère d’adoption, l’uno più solenne (ma arguto), bu-
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colico e pastorale, molto attratto dall’elettronica, l’altro più umorale, talora caustico, antigrazioso; entrambi attraversati da un lirismo e una danzabilità palpabili. i due, nel ‘70, incidono assieme Alors. separatamente, surman inizia il decennio in seno al glorioso the trio, in cui, su tracciati più squisitamente jazzistici, gli sono compagni i transfughi americani Barre Phillips e stu Martin, dopo di che, nel ‘72, registra il primo di una lunga serie di notevoli album solitari (in sovraincisione, ovviamente), Westering Home (il secondo, upon Reflection, del ’79, da noi sarà Premio della critica discografica), e nel ’73 vara, con i colleghi osborne e skidmore, il primo gruppo in assoluto di soli sassofoni, sos, che nel ’75, poco prima di sciogliersi, incide il suo unico album (omonimo). Artista proteiforme (è ottimo interprete classico e affianca a clarinetti e sassofoni il bandoneon del tango), mercuriale, Portal guida per parte sua lo unit, in cui raccoglie alcuni dei più bei nomi del nuovo jazz francese (Bernard Vitet, Beb Guérin, Pierre Favre, in verità svizzero, ecc.), con cui nel ’72 incide per esempio uno scoppiettante Live at chateauvallon, mentre nel ‘79 realizza il suo probabile capolavoro, Dejarme Solo!, proprio come surman in totale solitudine (e overdubbing). Non poco del nuovo jazz europeo passa, come già quello specificatamente inglese, per una serie di orchestre/laboratorio: sempre in inghilterra, ma su un côté più vicino a una sperimentazione di marca free, agisce la London Jazz composers orchestra del bassista Barry Guy, in Germania la Globe unity del pianista Alex von schlippenbach, ancor più spinta in avanti (un suo disco del 1977, Improvisations, verte tutto attorno a un’improvvisazione collettiva e massicciamente cacofonica), in olanda la icP orchestra di Misha Mengelberg (esule russo) e han Bennink, rispettivamente pianista e batterista, e il Willem Breuker Kollektief. A parte quest’ultimo, un organico a sé stante che ha il merito di proporre, in anni piuttosto burrascosi, l’occhio divertito, talora quasi cabarettistico, dell’happening, tra le altre formazioni non mancano i travasi: il trombettista Manfred schoof, i trombonisti Albert Mangelsdorff, radu Malfatti, connie Bauer e Günter christmann, i sassofonisti evan Parker, Lol coxhill, Peter Brötzmann, Gerd dudek, Gunter hampel, ernst-Ludwig Petrowsky, rüdiger carl, oltre agli americani steve Lacy (trapiantato a Parigi
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dal ’69) e Anthony Braxton, il chitarrista derek Bailey, il cellista tristan honsinger, il bassista Peter Kowald, i batteristi Paul Lytton e Paul Lovens, oltre ad alcuni degli inglesi citati poc’anzi, sono tra i frequentatori più assidui dei diversi organici. Mangelsdorff, Parker, Bailey e Brötzmann, quanto meno, sono poi, per proprio conto, tra i principali artefici di questo rinascimento europeo in chiave jazzistica, col polacco tomasz stanko, il tedesco Joachim Kühn, il norvegese Jan Garbarek (su altre latitudini) e tanti altri (italiani esclusi: ne diremo poi) cui sarebbe troppo lungo anche solo accennare. Aggiungiamo almeno che a fine decennio, grazie a Leo Feigin, russo esule a Londra (dove nel ’79 fonda la Leo records, tuttora attiva), iniziano a circolare i primi nomi di jazzisti d’oltre cortina, i vari Ganelin trio, sergey Kuryokhin, Anatoly Vapirov, ecc. gli uSA fra diaspora davisiana, scuola di chicago e ritorno all’Africa Passando l’Atlantico, sempre molto per sommi capi, negli stati uniti troviamo una situazione in rapida – e abbastanza centrifuga – evoluzione. Alla rivoluzione davisiana e sue conseguenze abbiamo accennato: dopo Bitches Brew, il grande trombettista inanella una serie di album (e di performance) che se da un lato ne allargano il plafond di fruitori, dall’altro sono per lo più stigmatizzati dalla critica, che legge spesso nella sua svolta elettrica – appunto – intenti meramente commerciali. davis, sia quel che sia, nel ’75 si ritira dalle scene, per farvi ritorno solo nel decennio seguente. tra i giovani di belle (e spesso mantenute) speranze, quello che più si stacca dall’ovile è senz’altro Keith Jarrett (in parte lo stesso chick corea, che accanto al return to Forever abbraccia esperienze di diverso tenore, a iniziare dal notevole circle, con Braxton, holland e Barry Altschul, che nel ’71 incide il doppio Paris concert). Nei Seventies, il pianista di Allentown, non ancora piombato nel neoclassicismo dei decenni a venire, dirige simultaneamente due quartetti speculari (sax, piano, basso e batteria), uno americano, con dewey redman, charlie haden e Paul Motian (cui talora si aggiunge un percussionista), e uno europeo, con gli scandinavi Jan Garbarek, Palle danielsson e Jon christensen. Fra i dischi del primo (in cui Jarrett suona re-
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golarmente anche il sax soprano), ricordiamo Expectations, articolato doppio LP del ‘71 in cui compaiono anche chitarra e sezioni d’archi e ottoni, Forth Jawuh (1973) e Bop-Be (‘77); del secondo almeno l’iniziale Belonging, del 1974). A tali titoli, vanno aggiunti come minimo i solitari Facing You (‘71) e The Köln concert (‘75, fortunatissimo) e Ruta and Daitya (‘72), in duo con Jack deJohnette (che sarà poi nel celebratissimo standards trio, il cui antefatto data già 1977, con l’LP Tales Of Another, a nome di Gary Peacock). A sua volta pianista di uno dei leader più carismatici del nuovo jazz, nel suo caso John coltrane, dopo anni un po’ nebulosi seguiti all’uscita dal leggendario quartetto (fine ’65) anche Mccoy tyner inizia ad abbeverare il suo pan-modalismo a nuove fonti, africaneggianti (fenomeno su cui torneremo), in Sahara (1972) e soprattutto – per gli esiti ottenuti – nel doppio live (a Montreux ‘73) Enlightenment, finendo per scivolare poi in un neomanierismo da cui non è più uscito. se coltrane è scomparso nel ’67 e davis passa anni tribolati, l’altro leader maximo del jazz anni sessanta, ornette coleman, sbarca a sua volta sul pianeta elettrico, dapprima con Science Fiction (1971), quindi formando il Prime time, che gli regalerà (s)favori critici analoghi a quelli toccati al trombettista. e trombettista (della prima ora colemaniana) è lo stesso don cherry, che ormai si vede poco accanto a ornette (proprio in Science Fiction, per esempio), preferendo vie personali (ciò fin dai tardi anni sessanta, in opere di notevole spessore quali Eternal Rhythm e mu) che mischiano jazz, Africa e folklore del mondo intero (se la famigerata world music ha dei padri nobili, cherry è certo fra questi). Album quali Relativity Suite (1973) e il primo codona (1978) del trio omonimo, che vede la sua trombetta tascabile, i suoi flautini e tutti i suoi ninnoli colorati accanto al sitar di collin Walcott e alle percussioni aromatiche di Nanà Vasconcelos (già con Gato Barbieri). in Old and New Dreams, infine, cherry ritrova, a cavallo fra anni settanta e ottanta, i vecchi partner (colemaniani) dewey redman, charlie haden e ed Blackwell. haden, bassista dal lirismo scuro e lacerato, è un altro protagonista del decennio, di cui incarna fra l’altro le diffuse implicazioni extramusicali. ciò soprattutto con la Liberation Music orchestra (l’omonimo, leggendario album del ’69 recupera i canti della guerra civile di spagna), che s’incrocia con la Jazz composer’s orchestra e con le sue due anime, carla Bley e
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Mike Mantler. e anche qui siamo di fronte ad autentiche orchestre/laboratorio nelle cui fila passano molti dei più bei nomi dell’avanguardia jazzistica: cherry (che qui realizza la citata Relativity Suite), redman, Barbieri, roswell rudd (Numatik Swing Band), Perry robinson, Jack Bruce (sì, quello dei cream), Paul Motian, howard Johnson, Leroy Jenkins, il nostro rava (del resto coinvolto anche nella Globe unity), clifford thornton, Grachan Moncur iii, e una moltitudine di altri. summa di tutto ciò è in primo luogo il triplo Escalator Over the Hill, del 1971. L’altro grande ceppo è quello chicagoano, riunito fin dal ‘65 attorno all’AAcM (Association for the advancement of creative musicians) e a figure quali Muhal (cioè il primo, il capo) richard Abrams, roscoe Mitchell, Leo smith, henry threadgill, Anthony Braxton, Leroy Jenkins, Lester Bowie, Joseph Jarman, Malachi Favors. da qui nasce anzitutto l’Art ensemble of chicago, ma anche il revolutionary ensemble, l’ethnic heritage ensemble, ecc. (vedi per es. nota 3). L’Aeoc, in particolare, è tra i protagonisti di quella sorta di diaspora che nell’estate ’69 porta a Parigi (per alcuni con passaggio anche dal Festival Panafricano di Algeri) molti dei più bei nomi della seconda generazione free (ma anche della prima, se è per questo, partendo da Archie shepp, che vi fissa uno dei suoi capolavori, Blasé, cui seguiranno, fra gli altri, Attica Blues nel ’72, i due volumi da Montreux ’75, e Force, duo con Max roach dell’anno seguente, e poi ancora Jimmy Lyons, sonny Murray, Alan silva, Paul Bley, ecc.), i quali incidono copiosamente (specie su etichetta Byg Actuel, benemerita) e spesso decidono di fermarsi per un po’, agendo da molla fondamentale per la presa di coscienza delle nuove istanze jazzistiche (non ultima quella componente teatrale e rituale di cui proprio l’Art ensemble, in un anelito di ricongiungimento con la tribalità primigenia africana, è maestro indiscusso) da parte dei colleghi europei. L’Aeoc è comunque la band “a partecipazione collettiva” più illustre del decennio, come testimoniano album quali Les Stances a Sophie (1970), soundtrack dell’omonimo film di Moshe Mizrahi, Fanfare for the Warriors (‘73) e Nice guys (’78), soprattutto. in seno al gruppo convivono peraltro personalità alquanto eterogenee (ma evidentemente complementari), quali in particolare Lester Bowie, il cui festoso ritualismo confluirà più tardi nella Brass Fantasy, e roscoe Mitchell, per contro assai cerebrale, concet-
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tuale, in quel suo indugiare attorno a snodi tortuosi, scabri, anticonsolatori. emblematico di tale percorso, esemplare, è il doppio Nonaah (1976-‘77), opera tutta ruotante attorno al sax contralto a tratti quasi crudele, condotta in solo, duo, trio e quartetto (di tutti sax alti, per l’appunto). di luce assolutamente propria brilla poi Anthony Braxton, uomo-simbolo – se ce n’è uno – del decennio. Partito anch’egli dal sax alto solo (fin dal 1968, con frequenti riprese successive), Braxton è in realtà – come Mitchell – un vorace multistrumentista dalle atouts ispirative pressoché illimitate, e conseguentemente elefantiaco dispensatore di incisioni, organici e progetti vari. Nel decennio in questione, realizza, fra i molti, album quali New York, Fall 1974, in cui per la prima volta si ascolta quello che sarà il nucleo del futuro World saxophone Quartet, For Trio (1977), in cui la formula – nello specifico ridotta di un’unità – trova sviluppi ancor più larghi e radicali8, e poi ancora i due album-chiave (1975-‘76) del quartetto che (col veterano Kenny Wheeler o il giovane trombonista George Lewis, a sua volta chicagoano) ne segnerà a lungo l’iter creativo, vale a dire Five Pieces e il doppio live The montreux Berlin concerts. senza dimenticare le svariate prove – ancora una volta – solitarie e, per contro, orchestrali (anche multiple, come nel faraonico Four For Orchestras, del 1978), nonché gli svariati duetti, con Abrams, Lewis, soprattutto Max roach (Birth and Rebirth, in studio, del 1978, e One In Two - Two In One, live del ’79). detto che il succitato World saxophone Quartet si costituisce ufficialmente nel 1977, col poco più che ventenne dave Murray in luogo di Braxton (gli altri sono Julius hemphill, vera mente del quartetto9, oliver Lake e hamiett Bluiett, uscito dai gruppi mingusiani), col contraltare bianco (e californiano) rova, e che inizia a farsi sempre più nitida la stella steve Lacy, che attraverso lavori quali i solitari Lapis (1971) e Straws (’76), Saxophone Special (’74), in cui si misura a sua volta (in Sops) col quartetto only saxes (nello specifico soprani), Trickles, in cui ritrova roswell rudd, e Trio Live, col nostro Andrea centazzo e Kent carter, entrambi ancora del ’76, si affaccia su quegli anni ottanta di cui sarà un po’ l’uomo-simbolo, resta da spendere qualche parola su un’altra figura-chiave del decennio di cui ci stiamo occupando. si tratta ancora di un polistrumentista, sam rivers, pontefice massimo del cosiddetto loft jazz, il quale giunge alla notorietà
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ormai cinquantenne, visto un po’ come l’uomo capace di far quadrare il cerchio, in quel suo recuperare l’esperienza afroamericana nella sua globalità. ci sono le intemperanze del free, certo, da cui rivers proviene (ha suonato fra gli altri con cecil taylor), però stemperate in un lirismo palpabile, poggiante su un beat quasi danzante, certo defaticante, e c’è quell’anelito al ricongiungimento con la Grande Madre Africa che all’epoca seduce non pochi jazzmen (a iniziare da quel dollar Brand che del resto arriva dal sudafrica, e che in quegli stessi anni s’impone con LP quali i solitari African Piano e Ancient Africa e l’orchestrale African Space Program, in cui figura anche il nostro enrico rava) e che in lui assume i contorni di una tribalità quasi solenne, espressa anzitutto nei brani al flauto, cui alterna vocalizzi fra l’urlo, la nenia e il lamento. su flauto, appunto, e poi sax tenore, soprano e piano, si snocciolano le sue performance, veri e propri riti collettivi di grosso impatto. È non a caso un album live (a Montreux ’73), Streams, a dare la stura alla sua grande (e forse solo troppo breve) stagione, corroborata via via da altri pezzi da novanta quali The Quest, del trio (con dave holland e Barry Altshul) trionfatore a Bergamo nel marzo ’76, e i tre Essence di quel tuba trio che, appunto con una tuba al posto del basso a corde, lo accompagna, sempre nel ’76 (luglio), nelle memorabili esibizioni a umbria Jazz (Perugia e Villalago) documentate su altrettanti LP doppi. “Orfani del rock” e nuovo jazz italiano È il periodo in cui il jazz, come momento aggregativo, è entrato nel cuore (in maniera talora un po’ posticcia, in verità) dei cosiddetti “orfani del rock” (10), frustrati dal brusco veto posto ai loro festival di settore. sono infatti gli anni dei cosiddetti “autoriduttori”, che allo slogan “la musica è nostra” rivendicano ingressi gratuiti ai concerti (i cui biglietti, preventivamente, sono spesso ridotti in modo drastico, ma non basta), pena veementi contestazioni e atti d’intemperanza varia. sono gli anni di Villa Pamphili e Parco Lambro, le Woodstock nostrane, di tutta una serie di situazioni che inducono chi può, per le famigerate “ragioni di ordine pubblico”, a vietare i grandi raduni rock. rimane il jazz, appunto, dove ora si
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riversano frotte di nuovi adepti. il clima, peraltro, è quello. Morale: anche umbria Jazz, dopo l’edizione ’78, chiude per un po’ i battenti (riprenderà nell’82, su tutt’altre coordinate). dal ’73, quando è nata, la rassegna ha comunque avuto modo di ospitare alcuni dei più grandi jazzisti in attività, figure ormai storiche (hampton, Basie, Blakey, Gillespie, Mulligan. Bill evans…), alcuni dei padri del nuovo jazz (da Mingus, che si presenta con un gruppo nuovo di zecca, col ribollente sax tenore di George Adams e il fluente pianoforte di don Pullen11, a carla Bley, da Jarrett a sun ra, fino al guru del pianismo free, cecil taylor, fresco di due sorprendenti album in solo, Indent e Silent Tongues, attraversati da scampoli di un lirismo quasi impensabile). Qualcuno degli “anziani” viene sonoramente contestato, talora si arriva a dargli senza mezzi termini del fascista (a Pescara, del resto, Woody herman viene accolto al grido “Fanfani! Fanfani!”). ci sono poi, pur sempre, i Festival dell’unità, che nel nome di un’idea (un miraggio?) di “cultura popolare” mai risolta abbinano spesso i vari Gaslini, schiano, Area, o i cantautori più schiettamente “politici” (della Mea, Marini, Pietrangeli) con oleografiche, innocue orchestrine di liscio, realtà che tanti giovani hanno a sorpresa riscoperto (e sdoganato). sono in buona parte quegli stessi giovani che, forti della loro divisa ray-Ban/Lacoste/scarpe-a-punta, figli della buona borghesia ma anche di un proletariato ormai “svezzato” (anche economicamente), alle elezioni politiche del ’76 decreteranno lo storico sorpasso sfiorato del Pci sulla balena bianca dc. Gli stessi – molti, almeno – che vent’anni dopo, “avveduti” quarantenni, declineranno l’incipit dell’epopea berlusconiana. Quando è moda è moda e Polli di allevamento di Gaber sono del ’78; Il sociale di Guccini addirittura dei primi sessanta…12. creativamente, sia pur tra non pochi equivoci, questi sono del resto anni fecondissimi. il jazz italiano inizia a trovare una propria via; i suoi alfieri diventano piuttosto familiari al pubblico che affolla concerti e kermesse varie. i primi nomi da fare sono in tal senso quelli di Mario schiano e Giorgio Gaslini. il sassofonista napoletano (ormai romano d’adozione) è fin da metà anni sessanta il padre riconosciuto del free jazz made in Italy (data 1966 la nascita del Gruppo romano Free Jazz, con Marcello Melis e Franco Pecori) e ora si fa in qualche misura “chioccia” di una nuova generazione di musicisti prossimi al suo linguaggio. senz’altro più composita la figura di Gaslini, che, pluridiplomato in
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conservatorio, fin dal ’57, con Tempo e relazione, ha sovrapposto idioma jazzistico e avanguardia accademica, non derogando mai da una ricerca assolutamente personale che ce lo fa vedere come una delle figure-chiave del jazz europeo tout court. in parallelo a lavori come Fabbrica occupata, colloquio con malcolm X, concerto della Resistenza, murales, graffiti, ecc., Gaslini persegue con forza il suo pallino per la “musica totale” (il libro omonimo esce per Feltrinelli nel ’75), suona ovunque ci sia bisogno di musica non supina (università, fabbriche, carceri, manicomi) e – forse soprattutto – porta per primo il jazz in conservatorio: nel 1972 viene infatti chiamato a santa cecilia, a roma, a tenere il primo corso di jazz. La cosa durerà un solo anno accademico, ma lascerà tracce incancellabili: da lì nasce di fatto la scuola del testaccio, dove operano, insegnanti e/o allievi (spesso tutte e due le cose), i vari Bruno tommaso (primo ideatore del progetto, oltre che bassista di Gaslini), Giancarlo schiaffini, Michele Jannaccone ed eugenio colombo (riuniti nel trio sic), Martin Joseph, Maurizio Giammarco, lo stesso Massimo urbani, che Gaslini inserisce quindicenne nei suoi workshop. Qui, attorno a colombo (e a tommaso Vittorini), nascono i Virtuosi di cave, primo gruppo italiano di soli sassofoni (sempre colombo formerà poi i Fratelli sax). Qui viene accolta (caldamente invitata, anzi) Giovanna Marini, a insegnare canto popolare13. sempre nei gruppi di Gaslini si affacciano alla grande ribalta Andrea centazzo, Gianluigi trovesi e Paolo damiani, mentre Franco d’Andrea, uscito dall’esperienza del Perigeo, si guarda dentro, maturando nuove certezze che ne faranno di lì a poco uno dei fari del nostro jazz. enrico rava torna in italia dopo gli anni-chiave trascorsi in America. e ci sono poi Guido Mazzon (E ora parliamo di libertà, 1974; Ecologia, ecologia, ‘75), Gaetano Liguori (cile libero cile rosso, 1974; cantata rossa per Tall El Zaatar, ’76), l’oMci di rusconi e Geremia, i cadmo di Antonello salis, l’Art studio, ecc. cantautori, “eletta schiera” i titoli degli album appena citati evidenziano come un diffuso didascalismo – scopertamente militante, spesso – permeasse il jazz italiano degli anni settanta. il vertice di tale piramide non poteva che coincidere col
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movimento cantautoriale, che il decennio in oggetto ha rivestito di una specificità fortissima (e viceversa), come mai prima né dopo (anche se, per esiti formali, gli anni ottanta non sono probabilmente da meno). ciò, essenzialmente, per un motivo fin troppo evidente: la presenza della parola, posta sullo stesso piano della musica (quanto meno). del fenomeno specifico si parla in altra parte del volume, per cui ci limitiamo qui a un’annotazione fra le righe (o le pieghe) dello stesso (fenomeno), e cioè il fatto che, verso metà anni settanta, nascano tutta una serie di canzoni sulla “nuova professione”: quella, ovviamente, di cantautore. L’occhio è per lo più disincantato, ironico, spesso (auto)parodistico. Ma se Bennato, in cantautore, ne fa una questione globale (“tu sei perfetto/ tu non hai un difetto”), altri sembrano chiamarsi in qualche modo fuori. così Guccini – toccando un altro tasto comune, quello della “svendita”, della venalità – nell’Avvelenata parla di “colleghi cantautori eletta schiera/ che si vende ogni sera/ per un po’ di milioni”; così, analogamente, in Pesci nelle orecchie Vecchioni si rivolge senza mezzi termini a un “amico mio di vino di canzoni e grandi alibi/ amico pronto fatto e poi fumato sopra i tavoli/ tu che sei tanto bravo, che alzi il pugno e fai l’anarchico/ insegnami a cantare come canti tu/ mezzo milione a sera o perdi la virtù”. e più d’uno ne coglie il destinatario proprio in Guccini (tutto lo lascerebbe intendere); senonché, nel disco successivo (Elisir), il milanese dedica al collega bolognese la bellissima, per più versi tenera, canzone per Francesco. Non evitando di arricchire il filone, nell’ancora successivo Samarcanda, con Vaudeville (“e spararono al cantautore/ in una notte di gioventù/ gli spararono per amore/ per non farlo cantare più/ gli spararono perché era bello/ ricordarselo com’era prima/ alternativo, autoridotto/ fuori dall’ottica del sistema”). Fra dirimpettai, i messaggi più o meno in codice, del resto, sono agevoli. e così pure gli equivoci, tipo quello secondo cui tra gli ex-gemelli de Gregori (che, fra due album notevoli quali Bufalo Bill e De gregori, il suo bravo processo – pubblico – per “asservimento al sistema” lo subisce davvero, nel ’76 al Palalido di Milano) e Venditti sarebbe corso, a distanza di qualche mese, un neanche troppo velato botta e risposta, fra Piano bar del primo (in Rimmel) e Penna a sfera del secondo (in Lilly). una leggenda metropolitana come tante, peraltro non senza elementi (testuali e biografici) ad avvallarla. Paci-
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fico è invece il riferimento che ancora Guccini indirizza a de André in Via Paolo Fabbri 43 (la singola canzone), dove dice che “ad un summit per il canto popolare/ Marinella non c’era/ fa la vita in balera”, riferendosi palesemente al fatto che il collega, dopo annosi dinieghi, nel marzo ’75 si è infine piegato a esibirsi dal vivo, scegliendo – guarda un po’ – la Bussola di Viareggio (e qualcuno, riprendendo il titolo di uno dei suoi ultimi brani – in realtà di de Gregori – titolava il commento La cattiva strada). L’italia è del resto approdo di non pochi cantautori stranieri indotti a lasciare il loro Paese per motivi extra-artistici, soprattutto dal sudamerica, dove i settanta sono anni duri, anni di golpe e dittature. in Brasile tutto ciò è merce comune fin dal ’64, il che spinge uno come chico Buarque de hollanda, arrestato nel ’68, ad autoesiliarsi da noi, decidendo congiuntamente di interrompere l’attività live finché la dittatura non cadrà. in italia è del resto di casa anche Vinicius de Moraes, mentre caetano Veloso e Gilberto Gil hanno scelto Londra. ci sono poi gli esuli cileni – in primis i celeberrimi inti illimani – invisi (eufemisticamente) al regime di Pinochet, insediatosi nel ’73. L’11 settembre, per l’esattezza (data evidentemente infausta già prima delle twin towers): appena cinque giorni dopo il cantautore Victor Jara, attivista comunista, viene assassinato. isabel Parra, figlia di Violeta (sua gracias a la vida), ripara in Francia, e molte altre delle “migliori menti” cilene non possono che seguirne l’esempio. in Argentina il giro di vite data 1976. Lì rifulge ancora il mito di Atahualpa Yupanqui, all’epoca quasi settantenne (nell’80 sarà Premio tenco, con la consegna corredata da un’esibizione solitaria rimasta memorabile), ma già brilla da tempo la stella di Mercedes sosa – lei pure Premio tenco, nel ‘99, come del resto, negli anni, chico, Vinicius, Veloso, Gil14 – che fra il ’79 e l’82, ovviamente sempre per motivi politici, è esule prima a Parigi e poi a Madrid. In giro per il mondo se fra i cubani vanno ricordati almeno silvio rodriguez e Pablo Milanés, in Nord America, specificatamente negli stati uniti, il mito è indiscutibilmente Bob dylan, i cui seventies si presentano peraltro alquanto
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tribolati, tra frizioni con la critica, accuse di fondamentalismo ebraico e un certo regresso ispirativo. da ricordare, comunque, almeno la partecipazione, nel ’72, al film Pat Garrett & Billy the Kid, come attore e autore del soundtrack, in cui compare uno dei capolavori dylaniani per eccellenza, Knockin’ on Heaven’s Door. È spuntata frattanto, tardiva quanto luminosa, la stella di Leonard cohen (in realtà canadese, come del resto Joni Mitchell, che nel ’79 chiude un decennio fitto di album importanti – primo fra tutti Hejira, del ’76 – con mingus, dedicato al grande bassista, appena scomparso). di cui iniziano a diffondersi i primi brani-cult (Suzanne, Nancy, Joanne of Arc, ecc.). cinque LP, per lui, negli anni settanta, fra cui il primo dal vivo, Live Songs (1973). Più sommessamente, inizia a imporsi anche il talento di randy Newman (Little criminals del ’77, in particolare) e quello – invece straripante, sulfureo, luciferino – di tom Waits (uno all’anno fra 1974 e ’76, The Heart of Saturday Night, il doppio live Nighthawks at the Diner, Small change, e soprattutto Blue Valentine, del ‘78), col suo personalissimo cocktail di blues, song e cascami post-beat generation. Fra le signore, infine, non possiamo non citare Patti smith (fin dall’opera prima Horses, del ’75, e poi almeno Wave, del ‘79), altrimenti detta “la sacerdotessa del rock”. Negli states si affermano anche, fin dai primi anni settanta, figure particolari, vagamente inquietanti, come Alice cooper o lo stesso Lou reed (ex-Velvet undergroud), che fanno di una spettacolarità aggressiva, fisica, un elemento portante della loro proposta, talora ricorrendo al travestitismo (cooper, quanto meno), pratica che trova il suo apice nell’inglese david Bowie (che in particolare da reed si dichiara esplicitamente influenzato), nonché nel nostro renato Zero. sembra una moda più che altro, anche se non mancano connotati espressivi forti. Nell’inghilterra di Bowie, peraltro, la frangia solistica di maggiore spessore passa per altre latitudini: i Gabriel, gli sting, i Byrne, e tutti i nomi già fatti trattando i loro gruppi di provenienza. sul finire del decennio, in piena punk-era, sale poi alla ribalta l’artista eglish più interessante – il più creativo, specie a lunga gittata – in chiave cantautoriale: elvis costello. Fattosi le ossa scimmiottando questo e quello in giro per i pub londinesi, il giovanotto si dota di un bagaglio impressionante, che gli tornerà utile una volta trovata una propria via (debutta nel ’77 con my Aim Is True), sorta – per certi versi – di Waits
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britannico, con un’analoga propensione, all’inizio celata, per un lirismo anche struggente, benché mosso da tutt’altro demone. La Francia, per parte sua, continua a vivere nel cono di luce dei suoi patriarchi, ai quali non s’intravvedono alternative reali. Brel, peraltro, ha abbandonato le scene fin dal ’67, per dedicarsi al teatro (dov’è fra l’altro Don chisciotte) e al cinema (come regista, in Franz e Far West, e interprete), e salpare poi per il suo buen retiro a hiva-oa, come Gauguin. rientrerà nel ‘77, a regalarci un ultimo capolavoro, semplicemente Brel. Brassens prosegue con gli ultimi due dei suoi album “numerici”. sempre in compagnia di chitarra acustica (una o due) e contrabbasso, con cui ha costruito tutta la sua arte. Nel ’79, peraltro, accetta l’invito di Moustache e dà il suo imprimatur (partecipandovi) alla registrazione di Brassens en jazz, mise strumentale di svariati suoi pezzi da novanta (La femme d’Hector¸ chanson pour l’auvergnat, Le pornographe, Les copains d’abord, La non-demande en mariage, ecc.) con gente del calibro di harry edison, cat Anderson, Joe Newman, eddie davis. Léo Ferré vive da noi, a castellina in chianti, e pur essendo il più in età, è anche di gran lunga il più attivo dei tre: si produce senza risparmio dal vivo, e solo in questo decennio pubblica la bellezza di quattordici LP ufficiali. Fra essi un live all’olympia nel ’72, Seul en scène, titolo che è un po’ l’epigrafe di un’intera carriera. Parecchio “francese” è uno degli outsider di lusso del panorama continentale, il turco Zürfü Livaneli, compositore abilissimo a sposare l’opulenza, timbrica e ritmica, tipica della sua musica d’origine con un aplomb, una compostezza, un rigore, appunto, molto francesi (non solo, ovviamente). Altrettanto marginale di quella turca – in termini etnici, non certo qualitativi – è la realtà catalana, che ha saputo per contro esprimere personalità di grande spessore sia prima che dopo la caduta di Franco (1975), dal capostipite Joan Manuel serrat, autore di brani ben noti anche da noi come mediterraneo (portato al successo da Gino Paoli) e La tieta (Bugiardo e incosciente, per Mina e Vanoni, La ziatta, in modenese, per e da Guccini), a Lluis Llach, più di matrice popolare, da Pi de la serra a Maria del Mar Bonet, al più giovane Joan isaac, in altre parole tutta una schiera di autori e interpreti capaci di imporsi proprio come fenomeno globale, come scuola: la Nova cançò15. Fra gli spagnoli castigliani, invece, va citato al-
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meno Luis eduardo Aute, peraltro nato a Manila da padre a sua volta catalano. Al di là del Mediterraneo, l’Africa è per parte sua continente troppo vasto e composito perché se ne possa anche solo abbozzare una mappa musicale. Volendo fare comunque qualche nome, citeremmo anzitutto, anche per la costante lotta contro l’apartheid in sudafrica, la cantante Miriam Makeba, Mama Afrika, e il trombettista hugh Masekela, nei primi anni sessanta (fino al ’66) marito e moglie (dal ’68 al ’73 la Makeba è stata poi sposata col leader delle Black Panthers stokely carmichael), la capoverdiana (quindi di lingua portoghese) cesaria evora, “regina della morna”, la cui fama internazionale decolla peraltro nei tardi anni ottanta, il nigeriano Fela Kuti, a sua volta attivista per i diritti civili, e il sassofonista camerunese Manu dibango, artefice di una vivace fusione tra jazz e “africanismo” tout court.
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Epilogo (o epitaffio?) Le utopie degli anni settanta (da non leggersi con una valenza negativa, anzi), così come erano germinate con un certo anticipo, più o meno con lo stesso anticipo iniziano ad affievolirsi, a sfaldarsi, a contatto (annoso, del resto) con incongruenze e moniti piuttosto veementi: la lotta armata a risolvere (risolvere?) contrapposizioni di natura ideologica e sociale, una progressiva perdita di identità (e di intenti), la stanchezza di molti, il “ritorno all’ovile” di altri (che sono poi le due facce di una stessa medaglia), un diffuso (cosiddetto) riflusso. in ambito creativo – musicale, nello specifico – il 1978, l’anno dell’affaire-Moro e dei tre papi, vede in pochi mesi la scomparsa di una serie di figure emblematiche, di giganti: Jacques Brel si spegne non ancora cinquantenne in ottobre, vinto dal cancro che lo sta braccando da anni; in novembre va a fargli compagnia, a neanche sessant’anni, Lennie tristano, il poeta del primo jazz informale (bianco) fin dai tardi anni Quaranta, finché il 5 gennaio ’79, in quel di cuernavaca, tocca a charlie Mingus, a cinquantasei anni: quello stesso giorno ad Acapulco, una manciata di chilometri più a sud, cinquantasei balene vanno ad arenarsi sulla spiaggia. Al di là di facili suggestioni, certe morti non possono che ritenersi em-
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blematiche – come si diceva – di una fase storica che va a chiudersi. il paradigma più pieno, almeno a casa nostra, di tale stato di cose può esser colto nella scomparsa di demetrio stratos: la notizia della grave malattia che lo ha colpito (una rara forma di aplasia midollare), costringendolo a cure costosissime che non si sa neppure quali risultati potranno sortire, inizia a diffondersi nella primavera ’79. il mondo della musica si mobilita compatto, col risultato, tuttavia, che il concerto organizzato in suo soccorso all’Arena di Milano (con Guccini, Venditti, Finardi, Vecchioni, Pagani, il Banco, ovviamente gli Area, ecc.) si tiene all’indomani della sua morte, avvenuta a New York il 13 giugno 1979. È un’epoca che si chiude, già. Altri se ne vanno, anche subito in avvio del nuovo decennio: il 19 gennaio ‘80 ci lascia Piero ciampi, livornese maledetto, addirittura preso in giro da una sorte che lo rapisce con la complicità di un cancro alla gola, quando tutti (lui per primo) si sarebbero attesi l’inevitabile cirrosi. Mesi dopo, il 25 luglio, tocca Vladimir Vysotsky, russo almeno altrettanto maledetto. entrambi sono poco oltre i quaranta, anime molto “etiliche”, irrequiete e bagarreuses. È la fine di un’epoca, lo ribadiamo. L’opera postuma di Mingus, individuo non meno irrequieto e bagarreur 16, recuperata anni dopo da Gunther schuller, non s’intitola forse Epitaph?
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NOTE 1.sulla svolta elettrica davisiana, segnaliamo il ponderoso quanto illuminante volume di enrico Merlin e Veniero rizzardi, Bitches Brew. genesi del capolavoro di miles Davis, Milano, il saggiatore, 2009. 2. in un’intervista con l’autore del presente scritto, Gato Barbieri ha dichiarato al proposito: “direi che tutto è cominciato nel 1969 con (The Third World). in Francia è stato giudicato il miglior disco dell’anno, a posteriori tutti ne hanno parlato come del disco della grande svolta, ma allora non è successo un bel niente. Però è servito al produttore Bob thiele per capire certe cose. io, comunque, sono tornato a Buenos Aires, dove è stato organizzato uno show per me, da parte di qualcuno che mi conosceva bene fin da prima che me ne andassi dall’Argentina. ci hanno messo dentro il tango, la musica indigena… e io ho cominciato a capire che dovevo tornare veramente alle origini, incidere i miei dischi lì, con i musicisti del posto […]. così è nato chapter One e i successivi capitoli per la impulse”. (cfr. Alberto Bazzurro, Parlami di musica, Zona, Arezzo, 2008; pagg. 50-51). 3. Al silenzio cage aveva dedicato fin dal 1952 la celeberrima 4’33”, appunto quattro minuti e trentatre secondi di nulla sonoro totale. e nel 1969 la già citata triade chicagoana Braxton/smith/Jenkins aveva inciso un intero album intitolato appunto Silence. dove, però, nel brano omonimo (durata un quarto d’ora) qualche suono, pur sporadico, si udiva. 4. sulla natura delle performance cageane e relativa ricezione da parte del pubblico, Patrizio Fariselli così rievoca una serata al teatro Lirico di Milano: “La situazione degenerò velocemente. dalla bolgia si udirono levarsi cori che intonavano ‘Fin che la barca va…’, ‘Quel mazzolin di fiori…’ e altri avanguardismi dello stesso tenore. si videro volare alcuni rotoli di carta igienica. Finché qualcuno schizzò d’acqua il tavolo di cage!”. che peraltro proseguì imperterrito, cosicché “il concerto durò più di due incredibili ore! Poi di colpo cage finì, si tolse gli occhiali, si alzò e, con nostra sorpresa e raccapriccio, si diresse con passo deciso verso la platea, allargando le braccia. Partì in quel momento un imprevedibile, scrosciante applauso!” (Patrizio Fariselli, Empty Worlds, in Storie elettriche, Auditorium, Milano, 2008). il volume è largamente consigliabile non solo per il capitoletto dedicato a John cage: offre infatti uno spaccato emblematico degli anni che stiamo trattando, sia per l’esperienza globale di Fariselli come membro degli Area, sia per elementi più specifici, in particolare il capitolo L’era dei grandi raduni (pagg. 43-61), centrato sull’esperienza di Parco Lambro. specificatamente su cage, segnaliamo invece Michele Porzio, metafisica del silenzio, Auditorium, Milano, 1995. 5. in realtà stockhausen non completerà l’impresa, arrestandosi (nel 2003, quattro anni prima di morire) al sesto giorno: a rimanere fuori sarà il mercoledì. 6. Paradigmatica, peraltro (e del resto non isolata), la discrasia che viene a instaurarsi fra gli intenti del compositore veneziano e l’effetto reale delle sue opere sul “popolo”, destinatario deputato delle stesse. significativa, al proposito, una testimonianza di ivan della Mea riguardo a un concerto dei primi anni settanta al Palasport di roma, con Nono alternatosi allo stesso della Mea, Giovanna Marini e Paolo Pietrangeli (abbinamento già di per sé emblematico di tutta un contesto socioculturale): l’esibizione di Nono, largamente sperimentale, fu accompagnata da ampie bordate di fischi, al punto che il compositore dovette fermarsi, prendere in mano il microfono e “apostrofare” gli astanti, spiegando le motivazioni che lo avevano spinto
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a essere lì. solo a questo punto arrivarono, immancabili, gli applausi dei “compagni” (vedi ivan della Mea, Sinistra non di frizzi e lazzi, in “il Manifesto” del 31 maggio 2008). 7. si noterà la nuova “linea” dei nomi, rigorosamente in italiano e decisamente omogenei fra loro, nonché anomali rispetto al recente passato. ciò sta evidentemente a indicare una precisa volontà, anche programmatica, di “segnare” un nuovo territorio stilistico-espressivo. 8. il disco, polistrumentalmente alquanto rocambolesco, vede di fatto all’opera due diversi trii, con Braxton affiancato ora (lato A) dalle due ance dell’Aeoc, Mitchell e Jarman, ora (lato B) da douglas ewart e da quell’henry threadgill che all’epoca si distingue anche in seno al trio Air (con Fred hopkins e steve Mccall: tutti chicagoani, dunque) e sarà poi tra le figure-guida del jazz a cavallo fra anni ottanta e Novanta. 9. Fra i lavori in proprio più significativi del decennio, di hemphill vanno ricordati almeno Roy Boyé, del 1977, e i duetti col violoncellista Abdul Wadud (Live in New York) e con lo stesso oliver Lake (Buster Bee), rispettivamente del 1976 e ‘78. 10. La definizione è di Arrigo Polillo, direttore di “Musica Jazz” per tutto il decennio (in realtà dal ‘65 all’84), con ampi contrasti con quanti lo accusano di veterocultura e anacronismo. in realtà si tratta uno dei massimi scrittori di jazz. il suo Stasera Jazz (Milano, Mondadori, 1978) ne è un eloquente dimostrazione. sul jazz degli anni settanta in senso lato, è invece imperdibile l’omonimo volume di cerchiari, Piras, Gualberto e Piacentino edito nel 1980 da Gammalibri. 11. con questo gruppo (più o meno allargato), Mingus ha inciso nel ’73 mingus moves e l’anno dopo i due changes. del ’77 è invece l’orchestrale cumbia & Jazz Fusion, LP contenente sul lato A la suite omonima, di quasi mezz’ora, sul retro, poco più breve, la colonna sonora composta per Todo modo di elio Petri e rimasta poi inutilizzata. 12. il brano specifico, col suo pendant L’antisociale, esce nel ’67 in “Folk Beat n. 1”, ma risale verosimilmente a vari anni prima, forse addirittura al ’61. recita fra l’altro: “la lotta delle classi sol mi va/ per far bella figura in società”. 13. Nel già citato Parlami di musica, l’artista rievoca quegli anni e quell’esperienza alle pagg. 203 e 206-7. sia con sic che con i Fratelli sax, la Marini ha anche collaborato nei suoi lavori: in particolare, con i secondi, in Pour Pier Paolo (1984), tributo a Pasolini. 14. Quasi tutti gli artisti stranieri citati in queste pagine, di fatto, sono stati Premi tenco: Ferré, de Moraes, Brassens, Brel, cohen, Llach, Atahualpa e chico Buarque, tutti di fila dal ’74 all’81, rodriguez nell’85, Waits e serrat nell’86, Mitchell, Newman e Veloso fra ’88 e ‘90, Vysotsky (postumo) nel ’93, Milanés nel ’94, evora nel ’95, costello nel ’98, Livaneli nel ’99, Aute, Gil, smith, Bonet e hammill,tutti fra 2001 e 2004. 15. Particolarmente significativo, in merito, il doppio LP collettivo (con un ricco booklet forografico-testuale) Dies i hores de la Nova cançò, edito nel ’78 su edilgsa. 16. su di lui ci permettiamo di segnalare Alberto Bazzurro, Psychomingus, saggio a suo tempo pubblicato su “Musica Jazz” e oggi reperibile sul sito www.allaboutjaz.com (sezione “déjà lu”), nonché l’autobiografia Peggio di un bastardo, Milano, B.c. dalai, 2005.
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sulla scia del sessantotto – delle sue istanze politiche, ma anche sociali, culturali, individuali – pure la canzone italiana muta d’aspetto e di contenuto, si alimenta di nuove influenze nelle parole e nelle musiche e trova nuovi nessi fra queste e quelle. Quella che chiamiamo “canzone d’autore” era nata una decina di anni prima. secondo alcuni tutto parte con Modugno che nel 1958 porta a sanremo Nel blu dipinto di blu e nel suo spalancare le braccia rompe con alcuni dei modelli imperanti nella canzone fino a quel momento. secondo altri il vero punto di partenza si ha invece quando, dopo la sterzata di Modugno, iniziano a incidere canzoni una serie di personaggi come Luigi tenco, Gino Paoli, Bruno Lauzi, umberto Bindi, Fabrizio de André. È quella che viene solitamente definita “la scuola genovese”. di certo la canzone in italia sino alla fine degli anni cinquanta era una sorta di succursale della romanza, da lì veniva, e quindi era retorica, aulica, musicalmente scontava una ricerca ossessiva per la melodia, su cui era basato tutto. il canto doveva essere per forza il belcanto, l’esibizione quasi muscolare di corde vocali. sostanzialmente si trattava di una canzone scacciapensieri, allegra o comunque consolatoria, moralista, senza nessun legame con la realtà. il tema principale era quello dell’amore, il linguaggio era finto, artefatto, imperava la rima cuore-amore. Le canzoni erano confezionate nelle case editrici e i cantanti erano solo un veicolo. come ha ricordato Nanni ricordi (il discografico che ha pubblicato i primi dischi dei primi cantautori), le canzoni erano un prodotto anonimo per un pubblico anonimo. sul crinale fra cinquanta e sessanta c’è una prima rivoluzione. A Genova, ma anche a Milano con Giorgio Gaber ed enzo Jannacci ed altrove con sergio endrigo e Piero ciampi. Nascono insomma i cantautori, ovvero artisti che cantano quello che hanno scritto o, se si preferisce, scri-
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vono quello che cantano. Quindi il vissuto collima con il cantato e la vita vera viene fuori per la prima volta dalle canzoni, perché la faccia e la voce sono della stessa persona che ha composto la canzone, che ha raccontato una storia, che ha comunicato qualcosa, un’idea, uno stato d’animo. A cavallo fra gli anni sessanta e settanta la canzone d’autore allarga il suo raggio anche geograficamente. si sconfina verso sud, a Bologna, a roma, a Napoli. L’espressione stessa “canzone d’autore” nasce proprio in questo periodo, ad opera di un giovane giornalista, enrico de Angelis, che la conia in una qualche giornata del 1969 quando propone al giornale dove è appena stato assunto, “L’Arena” di Verona, una rubrica sui cantautori per la quale crea la testatina “canzone d’autore”. Nessuno utilizzava allora quella espressione, mentre era invece molto in uso “cinema d’autore”: de Angelis la mutua da lì, anche se è indeciso tra quella e “canzone d’arte”. in ogni caso è una canzone “nuova”, diversa. Nei nuovi cantautori degli anni settanta c’è una svolta di tipo anche linguistico. resta in vari casi l’uso del linguaggio quotidiano tipico dei fratelli maggiori, ma affiancato o alternato alla liricità, anche se una liricità di segno totalmente differente rispetto a quella aulica e fasulla degli anni cinquanta e precedenti. Ma se questo è un passaggio importante dal punto di vista formale, lo scarto più deciso è forse quello sul piano dei contenuti, perché ora nella canzone si può veramente parlare di tutto. dal personale al sociale. e sarà l’impatto anche sociale di queste canzoni a renderle note, a farle volare di bocca in bocca. Fabrizio de Andrè c’è ancora, ed è anzi fra le figure di spicco di questa nuova stagione cantautorale. il genovese inizia a modificare la sua scrittura e dà vita ad opere che lasciano segni tangibili nella memoria collettiva. Nel 1970 escono, con successo, un 45 (Il pescatore) e un concept-album, ovvero un disco in cui le canzoni sono legate fra loro da un robusto filo conduttore: il titolo è La buona novella, basato sui vangeli apocrifi. e l’anno dopo un nuovo disco a tema, Non al denaro, non all’amore né al cielo, una rilettura dell’Antologia di Spoon River di edgar Lee Masters, realizzato con Giuseppe Bentivoglio per i testi e con un giovane e ancora sconosciuto Nicola Piovani per le musiche. i consensi per questi dischi sono notevoli, meno per Storia di un impiegato (1973), scritto sempre con Bentivoglio e Piovani, un racconto sul potere e la rivoluzione, calato in un contesto contemporaneo.
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A questo punto de André entra in un periodo di stasi creativa, che cerca di risolvere affidandosi a un giovane cantautore, Francesco de Gregori, con cui nasce Via della povertà (da Desolation Row di Bob dylan) e poi buona parte dei brani di Volume 8 (1975), che risente fortemente dell’influsso degregoriano, tranne che per la straordinaria Amico fragile, del solo de André, l’ultimo pezzo della sua carriera scritto da solo insieme a giugno ‘73. Nel 1976, dopo anni di rifiuti (per paura del palco), l’artista genovese decide di fare concerti: l’esordio avviene il 18 marzo, alla Bussola di Viareggio, ed è un grande successo che accompagna il tour fino al luglio dell’anno dopo. Per il nuovo disco invece bisogna aspettare il 1978 e un nuovo coautore, il giovane Massimo Bubola. il titolo è Rimini e contiene brani come la titletrack, Volta la carta, Andrea (che in origine era Lucia) e Sally che diventano molto noti anche grazie al tour successivo. con de André in concerto c’è la PFM, che rinnova gli arrangiamenti di alcuni suoi vecchi brani in chiave rock, segnando l’ennesima svolta stilistica del cantautore, documentata in due album dal vivo. il 27 agosto nella sua tenuta in sardegna de André viene rapito insieme alla cantante dori Ghezzi, sua compagna da qualche anno (hanno anche avuto una figlia, Luvi). Vengono liberati, dietro riscatto, appena prima di Natale. Fra gli artisti che iniziano a fare canzoni negli anni settanta, il personaggio più rappresentativo e rivoluzionario è proprio Francesco de Gregori. esordisce in una cantina umida e polverosa di roma, il Folkstudio, gestita da un chimico con la passione per la musica, Giancarlo cesaroni. con de Gregori ci sono un esercito di altri giovani cantautori che oltrepassano in qualche modo il modello francofono dei Brel e dei Brassens e gli scampoli di jazz che avevano contraddistinto la generazione precedente e traggono linfa invece dai folksinger nordamericani, Bob dylan in primis. de Gregori in particolare è fortemente influenzato da dylan, anche se traspone la sua lezione in una forma molto personale. Quel che colpisce di più delle sue canzoni innovative è la grande libertà letteraria che scardina i modelli precedenti pescando suggestioni, metafore, visioni dall’inconscio, dalla letterature, dalla società. dopo alcuni album che non godono di grandi fortune discografiche e che subiscono accuse di ermetismo, come Alice non lo sa e Francesco De gregori (che contiene Niente da capire, una sorta
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di suo manifesto espressivo), de Gregori pubblica Rimmel (1975), l’album della consacrazione sua e, per estensione, anche di tutto il nuovo fenomeno cantautorale italiano. in quel disco trovano posto brani di grande popolarità, a partire proprio da Rimmel, canzone d’amore che sfugge a tutti precetti delle canzoni d’amore e diventa uno spartiacque per chi vuol scrivere di relazioni sentimentali. Le situazioni sono suggerite, mescolate, accavallate, si muovono su diversi piani, anche cronologici, e ricorrono a piccoli virtuosismi assolutamente inusuali come il tema delle carte che ricorre in vari punti del testo. Nello stesso LP compare anche Buonanotte fiorellino che suscita scandalo per il suo contenuto, giudicato troppo melenso. da quel momento inizieranno contestazioni varie al cantautore romano da parte di alcune frange dell’estrema sinistra, che esploderanno in una plateale processo sul palco del Palalido di Milano nel 1976, a poche settimane dall’uscita di Bufalo Bill, il disco successivo a Rimmel. de Gregori lascerà le scene anche se per breve tempo. ritornerà a far concerti e a pubblicare dischi con De gregori, che contiene una canzone come generale (1978). il primo album di de Gregori, Theorius campus, era stato realizzato in coppia con Antonello Venditti, altro rampollo della “scuola” romana che si forma al Folkstudio. Quel disco conteneva il primo successo commerciale di Venditti, Roma capoccia (1972), atto d’amore e di rabbia verso la città eterna. A parte l’uso del romanesco, in questo brano vengono già fuori le peculiarità di Venditti, la sua prorompente vocalità e la sua scrittura molto più diretta e passionale di quella del “fratello bello” de Gregori, e che si espliciteranno in album come L’orso bruno, Le cose della vita e Quando verrà natale . Anche per Venditti il percorso è accidentato. Nel gennaio del 1974 riceve addirittura una denuncia per vilipendio alla religione da parte di un maresciallo dei carabinieri per un verso di A cristo (“Ammazzate a Gesù crì quanto sei fico”), una canzone in cui semplicemente si chiede a cristo di scendere sulla terra per mettere a posto le cose. La carriera di Venditti decollerà da lì a poco, con canzoni come Lilly e compagno di scuola, che, inserite nell’album Lilly, gli varranno i vertici delle classifiche. Ma il cantautore con il pianoforte (uno dei pochi esempi in un’epoca in cui è la chitarra l’accompagnamento standard) continuerà a sfornare successi su successi per tutto il decennio, da Sotto il segno dei pesci a Buona Domenica, titoli anche
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di due suoi album di grande notorietà. oltre a de Gregori e Venditti il Folkstudio partorisce anche molti altri giovani cantautori che tentano di fare canzoni diverse da quelle imperanti: ernesto Lo cascio, stefano rosso, Mimmo Locasciulli, corrado sannucci, ernesto Bassignano. Fra di loro spicca un ragazzo di crotone arrivato a roma per cercare fortuna, rino Gaetano, un grillo parlante che si contraddistingue per l’acre ironia, per lo sfuggire dai canoni stessi della canzone d’autore del periodo. Ad esempio con Aida (1977), una intensa, precisa canzone d’amore per l’italia, e che dell’italia ripercorre la storia più recente. Gaetano nel 1978 porterà la sua energia divertente e provocatoria, le sue scarpe da ginnastica il suo cilindro e il suo frac stazzonato anche a sanremo con gianna, che diverrà anche il suo brano più noto. Gaetano morirà pochi anni dopo, nella notte tra l’1 e il 2 giugno del 1981, sulla via Nomentana a roma, in un incidente stradale. Nonostante la breve carriera (sei 33 giri in sei anni) il suo nome poco a poco diventerà di culto e le periodiche raccolte di sue canzoni molti anni dopo raggiungeranno alti livelli di vendite. Agli inizi degli anni settanta, quando il Folkstudio si trasferisce da via Garibaldi a via sacchi, salirà sul piccolo palco del locale anche Francesco Guccini, un nome diventato nel tempo assai popolare. il bolognese aveva esordito discograficamente, ma con scarsi risultati commerciali, negli anni sessanta (il primo album è Folkbeat n°1 del 1967), ma la sua firma compariva già sotto ai titoli di molti brani importanti del beat italiano, da Auschwitz per l’equipe 84 a Dio è morto per i Nomadi. dopo aver pubblicato nel 1970 Due anni dopo e nel 71 L’isola non trovata una prima notorietà arriva nel 1972 con Radici, un album composto da canzoni che sono lunghi racconti spesso dal taglio filmico, in cui convivono i due ceppi ispirativi che contraddistingueranno la sua produzione per decenni, quello sociale e quello più esistenziale. Al primo si rifà certamente La locomotiva, l’inno di ribellione di quegli anni che in qualche modo diventa la canzone simbolo del cantautore bolognese. Al secondo appartengono acquerelli come Piccola città, canzone dei dodici mesi, canzone della bambina portoghese e Incontro. Guccini rappresenta – anche suo malgrado – il prototipo del cantautore impegnato, che domina la scena negli anni settanta. il suo percorso continuerà nel tempo con rara coerenza verso se stesso e gli altri e, forse pro-
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prio per questo, con un immutato impatto nei confronti delle generazioni più giovani, grazie a 33 giri sempre più radi, come Stanze di vita quotidiana del 1974 e soprattutto Via Paolo Fabbri 43 (che è il vero indirizzo della casa di Bologna del cantautore) del 1976. il disco ottiene un grande successo, anche grazie ad un brano come L’avvelenata, un j’accuse che si trasforma in uno dei suoi brani più popolari, che Guccini in origine neanche voleva incidere e che, forse anche per alcuni versi particolarmente sboccati, difficilmente presenterà dal vivo. in Amerigo del ’78 compare invece Eskimo, un lungo flashback, attraverso la storia personale dell’autore, sulla contestazione giovanile degli ultimi dieci anni. Nel 1974 (l’anno del referendum sul divorzio e delle stragi a Piazza della Loggia a Brescia e sul treno italicus) Guccini era diventato un punto fermo del Premio tenco, annuale rassegna dedicata ai cantautori e creata da Amilcare rambaldi, commerciante di fiori sanremese che già aveva avuto un ruolo nella nascita del Festival di sanremo. insieme a un gruppo di giovani appassionati, fra i quali il già citato enrico de Angelis, fonda il club tenco, del quale la rassegna è la principale realizzazione. torna fra loro nuovamente il dilemma tra “canzone d’autore” e “canzone d’arte” per intitolare la rassegna ed ancora viene risolto in favore della prima espressione, che diviene così di dominio pubblico. il Premio tenco si afferma da subito come il più importante punto di raccolta e confronto per la nuova leva di cantautori, ma non solo. Lo statuto del club, che opera senza fini di lucro, recita che “Lo scopo del club è quello di riunire tutti coloro che, raccogliendo il messaggio di Luigi tenco, si propongono di valorizzare la canzone d’autore, ricercando anche nella musica leggera dignità artistica e realismo”. Fra gli abituali frequentatori delle conviviali giornate sanremesi c’è anche roberto Vecchioni, cantautore milanese, ma di padre napoletano, che negli anni sessanta era già stato autore di successi estivi e con i settanta si pone decisamente fra i cantautori cosiddetti “impegnati”, anche se in lui l’autobiografismo è particolarmente accentuato. sua è la celeberrima Luci a San Siro (1971, ma scritta già nel 1969), archetipo di un canzoniere che si nutre di tematiche letterarie e filosofiche – non a caso Vecchioni insegna nelle scuole superiori – e di continue riflessioni in prima o terza per-
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sona su se stesso. dopo dischi come Saldi di fine stagione, L’uomo che si gioca il cielo a dadi, Il re non si diverte, Ipertensione ed Elisir, arriva anche per Vecchioni il grande riscontro commerciale, nel 1977, con Samarcanda e l’album omonimo, e poi con calabuig, stranamore e altri incidenti e Robinson. Altro ospite abituale del tenco (perlomeno nelle sue prime edizioni) è Angelo Branduardi, cantautore decisamente sui generis, visto il tipo d’ispirazione sia letteraria che musicale di tipo fiabesco, barocco-rinascimentale, quasi esoterica, alquanto inusuale per l’epoca, e che gli procura il soprannome, benaccetto, di “menestrello”. un primo esempio di questo tipo di poetica è confessioni di un malandrino (1975), tratta dall’omonima poesia di sergej esenin. L’affermazione di Branduardi si ha però con Alla fiera dell’Est (1976), filastrocca liberamente ispirata a un canto pasquale ebraico e che tratta del tema universale della giustizia. La musica si rifà invece a tradizioni diverse, unendo quella araba e quella mitteleuropea. Per Branduardi i successivi album La pulce d’acqua e cogli la prima mela confermeranno sia la cifra stilistica che il successo di pubblico. È quindi tra il 1975 e il 1977 (gli anni delle vittorie elettorali del Pci, del voto ai diciottenni, della parità fra i coniugi) che i cantautori balzano in testa alle classifiche, causa ed effetto insieme del progressivo aumento, a discapito del 45 giri, delle vendite dei 33 giri, supporto ideale per contenuti e poetiche che difficilmente possono essere sintetizzati nei pochi minuti di una singola canzone. il vento di cambiamento che attraversa la penisola, la nascita delle radio libere, l’affermarsi di storiche riviste dedicate ai giovani contribuiscono in modo determinante alla loro affermazione. e loro, d’altra parte, hanno la capacità e il consenso per rappresentare i cambiamenti in atto nella società italiana. È il caso anche di un personaggio come Lucio dalla, bolognese già in attività dagli anni sessanta ma con una personalità ancora non a fuoco e più legata alla cosiddetta musica leggera. All’inizio dei settanta raggiunge invece una propria cifra stilistica, dal sapore plebeo, con brani composti con parolieri come sergio Bardotti, Gianfranco Baldazzi e Paola Pallottino, che gli regalano una prima celebrità, come Piazza grande e 4/3/1943, portata con enorme risonanza a sanremo nel 1971, censurata nel titolo (doveva essere gesù Bambino) e in alcuni versi (come “per i ladri e le put-
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tane” che diventa “per la gente del porto”). comincia poi una feconda collaborazione con il poeta bolognese roberto roversi, che dà alla luce tre album splendidi e nervosi, di poesia spigolosa e civile: nel 1973 Il giorno aveva cinque teste, nel 1975 Anidride solforosa, nel 1976 Automobili. il sodalizio con roversi s’interrompe nel 1976, ma dalla ne esce arricchito, acquisendo i segreti e la mentalità per scrivere interamente da sé le sue canzoni. Nasce un cantautore completo, che debutta con com’è profondo il mare nel 1978. L’anno dopo arriverà un enorme successo di pubblico con Lucio Dalla (un anno e mezzo in classifica), con l’imperitura L’anno che verrà, dal celeberrimo attacco “caro amico ti scrivo”. L’album risente dell’influenza nei testi di Francesco de Gregori, a cui d’altro canto dalla ha aperto nuovi orizzonti musicali, in una collaborazione che di lì a poco darà altri frutti. oltre a dalla e a Guccini, diversi altri esponenti di questa ondata cantautorale provengono dall’emilia. Per ragioni di spazio citiamo soltanto Pierangelo Bertoli, mentre vale la pena soffermarsi su claudio Lolli, certamente uno di quelli che con più acutezza ha saputo dar voce alla contestazione giovanile del decennio, così diversa da quella del sessantotto. La sua Ho visto anche degli zingari felici (1976) – titolo di una suite di 45 minuti e della canzone che la apre e la chiude – diventa, con il suo linguaggio visionario e crudo, la rappresentazione in diretta delle vittorie, delle sconfitte e delle utopie di una generazione. La grande capacità di rappresentare impeti e delusioni di Lolli è rimasta intatta negli anni, anche con dischi come quelli delle decadi successive passati sostanzialmente inosservati. Purtroppo. due altri personaggi di rilievo di questo periodo come eugenio Finardi ed edoardo Bennato si caratterizzano per un approccio musicalmente più orientato verso il rock, che invece interessa solo marginalmente gli altri.Finardi dopo alcune esperienze giovanili in ambito blues nella zona di Milano, nel 1974, a terrasini, in provincia di Palermo, partecipa a una comune con altri musicisti e lì decide di intraprendere la strada di un rock italiano e in italiano, politicizzato e il più possibile lontano dalle influenze anglo-americane che lo avevano caratterizzato fino a quel momento. È con la seminale etichetta cramps di Gianni sassi che pubblica il primo album Non gettate alcun oggetto dai finestrini. i testi sono di impegno sociale e politico, anche se solo l’anno dopo Finardi, quando aprirà parte dei concerti
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del primo tour di Fabrizio de André, capirà il valore delle parole, fino a quel momento considerate, in un’ottica tipica del blues, come uno sfogo emotivo. Già nell’album seguente, Sugo, si registrerà una nuova consapevolezza letteraria, anche se più vicina alla prosa che alla poesia. All’interno si trova musica ribelle, una sorta di manifesto per Finardi e la sua generazione, un brano che, insieme a La radio, contribuisce a dargli una prima notorietà. La consacrazione arriva nel 1977 con Diesel, a cui segue l’anno dopo Blitz, l’album di Extraterrestre e nel 1979 Roccando rollando, dischi che fotografano le tensioni e le istanze del movimento del settantasette e che chiudono un ciclo per l’artista milanese. il napoletano edoardo Bennato pubblica il suo primo album nel 1973, Non farti cadere le braccia. dal vivo si presenta da solo, accompagnandosi con chitarra, armonica a bocca, kazoo e tamburello a pedale. Nei tre anni successivi escono I buoni e i cattivi, Io che non sono l’imperatore e La torre di Babele, che si caratterizzano per la vena sarcastica dei brani e l’attacco continuo al potere, qualunque esso sia. tra i brani più significativi: In fila per tre, un giorno credi, La torre di Babele, cantautore. il 1977 segna l’uscita di Burattino senza fili, ispirato alla favola di Pinocchio. È un grosso successo di critica ma anche di pubblico (resta al primo posto in classifica per molte settimane), grazie a canzoni come È stata tua la colpa e Il gatto e la volpe. Alla fine del decennio e all’inizio di quello successivo arrivano alla maturità espressiva nuove figure (ivano Fossati, Franco Battiato, Paolo conte, Pino daniele e molti altri) che allargheranno ulteriormente i confini di questa forma espressiva. intanto i cantautori “storici”, che avevano iniziato il proprio percorso suonando in localini e piccole rassegne, sono poco a poco passati a contenitori sempre più grandi per i loro concerti, come i palasport. Nel 1979 Francesco de Gregori (che di lì a poco pubblicherà Viva l’Italia, brano antiretorico che segna simbolicamente la fine del decennio degli anni di piombo) e Lucio dalla danno vita a Banana Republic, un grande tour estivo negli stadi italiani che attesta la definitiva affermazione della canzone d’autore in italia. d’ora in poi i cantautori saranno, spesso loro malgrado, considerati maître a penser e si stabiliranno definitivamente in cima alle classifiche di vendita.
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Enrico Deregibus, La canzone d’autore negli anni settanta
Studi e ricerche
Note e discussioni
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Le ragioni di un decennio. intervista a Giovanni de Luna. A cura di cesare Panizza
il riferimento è al libro di Paolo spriano, Le passioni di un decennio. Quel libro è stato per me non solo un modello narrativo, ma anche storiografico. credo che quello sia il libro meglio riuscito di spriano, anche rispetto alla sua storia del Pci, perché riesce a fondervi la passione del testimone con la necessità di comprensione dello storico. e questo è quello che io ho cercato di fare. Anche nella struttura del libro, costruita attorno a parole chiave con l’intento di affrontare alcuni dei nodi di quel decennio piuttosto che di ricostruirne le vicende, si riflette forse questo tuo tentativo di contemperare appunto lo storico e il testimone… Lo storico e il testimone sono in conflitto evidente. dove il testimone mette identità, soggettività, spunti sentimentali, lo storico dovrebbe mettere serenità, consapevolezza, distacco. Non è sempre così ma in linea di massima queste due figure sono più configgenti che congruenti. Per risolvere questa contrapposizione dichiarata ho cercato di chiedere due cose diverse allo storico e al testimone. Al testimone di restituire lo spirito di quel tempo. di restituire attraverso la profonda empatia con i personaggi di cui parlavo, che avevo conosciuto direttamente, con cui avevo vissuto, l’universo culturale, mentale, antropologico: i libri che si leggevano, i film
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Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio
Nell’ambito di questa nostra riflessione sugli anni Settanta, ci interessava intervistarti a partire dal tuo libro Le ragioni di un decennio. Militanza, violenza, sconfitta, memoria [Milano, Feltrinelli, 2009] perché ci sembra sia uno dei tentativi più significativi fatti in questi anni per storicizzare quel decennio, insieme forse a quello condotto da Anna Bravo, con il libro A colpi di cuore. storie del sessantotto. Partirei dal titolo..
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che si vedevano, le canzoni che si cantavano, cercando di carpire allo spirito del tempo il segreto di una militanza vissuta in maniera così radicale, così dispiegata, fino poi alla morte che offre lo spunto iniziale del libro. e invece allo storico ho chiesto la consapevolezza del senno di poi, di chi sa come sono andate a finire le cose, di chi si avvale di altri documenti, di altre riflessioni, di altri tipi di fonti, di altri strumenti di comprensione della realtà. Nel testimone ha parlato molto il passato, e nello storico molto il presente. Lo storico si è avvalso di tutto quello che il presente poteva offrirgli per ricostruire quegli anni, mentre il testimone ha cercato di restituirgli un suo spessore, una sua realtà. Vi sono già alcune ricostruzioni dei movimenti di quegli anni… c’è un filone di memorialista su quegli anni ormai molto ampio, sentimentale, pieno di pathos.. Penso a un libro come Formidabili quegli anni….
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Il libro è molto intrecciato alle vicende di Lotta continua. Non a caso prende le mosse dal ’69, anno di fondazione del movimento, mentre il ’68 rimane un po’ più sullo sfondo, evocato costantemente come punto di riferimento e di confronto, ma non affrontato direttamente. sì, il libro si concentra su Lotta continua. il punto di riferimento cronologico per la periodizzazione degli anni settanta è la vicenda di Lotta continua: i bienni in cui ho frammentato il decennio sono modellati sulle vicende di quel movimento perché credo che fino al ’77 la periodizzazione interna a Lc coincida con quella del periodo. Lc era molto attenta alle fasi politiche e a ogni fase politica si riposizionava: i suo slittamenti di posizione intercettano quelli di fase più generale che si avvicendano nella prima metà del decennio. Il mio appunto sulla periodizzazione era anche legato a una domanda relativa al Sessantotto: sei d’accordo con la vulgata che insiste su una sorta di perdita dell’innocenza dei movimenti studenteschi nel passaggio dal ’68 al ’69 o meglio dopo piazza Fontana?
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Questa è una delle tante definizioni divenute luoghi comuni contro la quale il libro combatte. spesso sono definizioni di origine mediatica: “anni di piombo” nasce per esempio nel contesto del cinema, non certo in quello della storiografia. così la “perdita dell’innocenza” nasce in un contesto memoriale, non in un contesto storiografico e quindi risulta molto povera. Quello che cambia il 12 dicembre del ’69 è il rapporto con la violenza. il rapporto con la violenza c’era prima e c’è stato dopo, solo che prima era strutturato secondo alcune linee politiche, dopo viene strutturato secondo altre linee politiche. che un rapporto con la violenza ci fosse anche prima è iscritto nella matrice novecentesca di quegli anni: nel dicembre del ’69 noi siamo a 24 anni dall’aprile del 1945 e siamo a 40 anni da oggi! siamo molto più vicini alla seconda guerra mondiale di quanto noi oggi si sia vicini al sessantotto. Questo suggerisce una collocazione di quegli eventi totalmente all’interno del cono d’ombra novecentesco. un cono d’ombra che in questo paese ha avuto nel nesso fra violenza e comportamenti politici la sua specificità: il paese fra il ’19 e il ’22 ha sperimentato la forza di questo nesso con un fascismo che è riuscito ad andare al potere attraverso di esso, violando le regole del gioco, svuotando lo stato liberale e legittimandosi attraverso la violenza. L’uso della violenza come risorsa strategica per la presa del potere è qualcosa che entra nelle viscere profonde di questo paese, una cosa che segna tutto il Novecento italiano in maniera indelebile. il fatto stesso che nei vent’anni successivi qualsiasi tipo di opposizione politica non potesse essere concepita che fuori della legalità stabilisce un nesso genetico tra comportamenti politici, illegalità e violenza che non si può smaltire in una generazione. il fatto che gente come rosselli o Lussu pensasse all’attentato fa capire quanto quella dimensione fosse profonda. o che il Partito comunista nel dicembre del ’43 abbia 10000 iscritti e nel dicembre del ’45 ne abbia un milione e seicentomila rivela come quel partito nasca in quella cultura e non nasca nella normalità del boom economico. Questa dimensione non c’entra niente con il sessantotto, ma appartiene alla storia italiana del Novecento. Quello che si matura dall’esperienza della lotta antifascista è un ragionamento che è totalmente dentro la storia del Novecento: il movimento operaio crede nella democrazia e vuole andare al potere per via democratica, le classi dirigenti di
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questo paese che avevano già sperimentato il loro sovversivismo nel caso il movimento operaio vincesse le elezioni non ci starebbero e farebbero il colpo di stato. Questo era il ragionamento che veniva da una eredità così pesante come vent’anni di fascismo. È questo che viene incrinato dal 12 dicembre del ‘69: da questo paradigma di gestione della violenza ne nasce un altro. Non ci mobilitiamo per difenderci dall’iniziativa armata del nemico, ma prendiamo noi quell’iniziativa. ed è l’inizio della fine, insomma. un’altra periodizzazione forte che tu proponi è il biennio ’74-’76 che segnerebbe l’inizio del cosiddetto riflusso, la smobilitazione della stagione dei movimenti e l’inizio della deriva terroristica. In questo tu formuli un giudizio molto duro del ruolo del PcI e del compromesso storico. in quel caso è soprattutto il testimone a parlare. Nel senso che ho voluto restituire, e lo scrivo nel libro, quella che era la percezione che ne avevamo noi. il giudizio storico su Berlinguer non è ancora consolidato e può essere che vada quindi rivisto. Ma l’impressione che avemmo noi della solidarietà nazionale fu questa, tanto più dopo un successo elettorale di quelle proporzioni. ci parve un’operazione trasformistica che certo insieme alla strategia della tensione, radicò in molti l’idea ci fosse un fondo oscuro della politica con cui fare i conti e determinò sicuramente l’allontanamento dalla partecipazione della maggioranza di coloro che avevano fin lì partecipato ai movimenti. il risultato fu l’ossificazione ideologica, il ripetere gli errori del passato...
Note e discussioni
Il PcI rimaneva però una sorta di “padre” per molti di voi... Questo è vero soprattutto a torino, mentre in altre città i rapporti furono molto più conflittuali. Poi è indubbio che il Pci, il comunismo, rappresentasse la tradizione da cui in gran parte si proveniva. spesso i padri, le famiglie di provenienza erano d’altronde realmente comuniste. sempre a torino una grande attenzione la trovammo nella cultura azionista. Sulla politica mi pare che il tuo giudizio sia che i movimenti degli anni Settanta siano l’estenuazione della politica novecentesca e ne dimostrino l’esaurimento. mentre le no-
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vità passarono sul piano delle forme assunte dalla militanza, dal modo di vivere l’impegno politico in cui si consumò la rottura vera con la tradizione terzinternazionalista. sicuramente sì, su quel piano i movimenti degli anni settanta mostrano la vera discontinuità rispetto alla tradizione del Novecento. una militanza che era caratterizzata dallo stare sempre assieme, dall’abbattimento della distinzione fra pubblico e privato. In questo non avevate invece, anche se su un altro piano, un possibile riferimento, in cui rispecchiarsi, proprio nella cultura azionista?
mi sembra che il tuo bilancio degli anni Settanta sia complessivamente negativo, come si fosse trattata di una parentesi dopo la quale il paese ha ripreso a camminare sulle stesse gambe (storte) di prima... sì, sono pessimista, il mio bilancio è negativo. credo anzi che la situazione con cui ci confrontiamo oggi sia in qualche modo il risultato, assolutamente non previsto e tanto meno desiderato, di quegli anni, delle nostre rivendicazioni di quegli anni. Abbiamo liberato dalle ossificazioni del passato i sentimenti, le emozioni, i corpi e ora, attraverso percorsi di segno contrario, ce li ritroviamo contro, nella politica di oggi. Nonostante questo ti dico: rifarei ugualmente tutto, tanto era l’ossificazione della politica degli anni precedenti.. Per continuare il parallelo con l’azionismo: dopo la sconfitta l’azionismo ha saputo alimentare un fiume carsico con una sua capacità culturale, i movimenti degli anni settanta non hanno saputo fare altrettanto. indipendentemente dalle traiettorie individuali, che tali sono e poco hanno a che fare con la militanza di quegli anni. È rimasta solo la dimensione del reducismo.
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Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio
Forse sì. Non so nel dire questo quanto possa essere condizionato dalla mia successiva ricerca storiografica sul Partito d’azione, ma certo vi sono maggiori somiglianze con quella tradizione che con quella terzinternazionalistica. in fondo il mio lavoro sul Partito d’azione, scritto fra il ’79 e l’81, nasce anche dalla necessità di riflettere sulla sconfitta di Lotta continua....
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Nemmeno se guardiamo al sociale, alle tante iniziative sui mille problemi del nostro paese... sì sono state esperienze importanti. come la riscoperta delle regole, della cultura delle regole, che può essere propria solo di chi non le ha rispettate, di chi le ha messe radicalmente in discussione... Ti chiedo solo ultima cosa, un commento all’immagine con cui chiudi il libro...
Note e discussioni
Quella dell’incomunicabilità fra i ragazzi che rientravano dal G8 di Genova e quelli che lasciavano torino dopo il concerto degli u2? È la prova dell’incapacità di trasmissione della nostra esperienza alle generazioni successive: il carattere più vero di quei movimenti era la capacità di inclusione, di tenere insieme esperienze e identità diverse. Quell’immagine di estraneità fra gruppi di ragazzi, accomunati al massimo dall’aver appena consumato un evento, mostra proprio lo smarrimento di questa capacità. e dove non c’è questa capacità vince appunto la destra...
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Note e discussioni
L’industria culturale
tra la fine degli anni sessanta e il decennio successivo si apre negli ambienti della sinistra, tradizionale e ed extraparlamentare un intenso dibattito sul ruolo dell’intellettuale nel campo della cultura e dell’informazione in termini nuovi rispetto al passato.1 Vengono messe da parte le tematiche dell’autonomia e/o dell’impegno politico, proprie degli anni Quaranta e cinquanta, perché emerge la necessità di discutere le problematiche del lavoro intellettuale a fronte delle novità tecnologiche e comunicative nel campo dei mass-media, della produzione e dell’organizzazione culturale e dei rilevanti cambiamenti politici, determinati dai movimenti di contestazione. in quel periodo si rinnovano le formule dei quotidiani a maggiore diffusione nazionale e nascono molti nuovi fogli di battaglia politica con un vivace atteggiamento critico nei confronti della rAi e dei quotidiani cosiddetti indipendenti, mentre l’espansione della cultura di massa modifica il rapporto tra intellettuali e pubblico e cambia la domanda dei lettori. Gli assessorati alla cultura dei comuni amministrati dalla sinistra fanno importanti investimenti nel campo degli eventi culturali, coinvolgendo di esperti e di operatori culturali in quei programmi. Quotidiani di sinistra Nel campo della stampa un elemento originale nell’impostazione e nella comunicazione politica è rappresentato da “il manifesto”, nato come mensile nel 1971, ma presto diventato quotidiano, diretto da valenti professionisti come Luigi Pintor e Valentino Parlato e sostenuto dall’impo-
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Laurana Lajolo, L’industria culturale
Laurana Lajolo
Quaderno di storia contemporanea/48
stazione filosofica marxista di una pensatrice come rossana rossanda e di molti qualificati collaboratori. “il manifesto” sostiene una posizione fieramente critica verso il Pci, analogamente ad altri giornali che nascono in quel periodo come espressione dei gruppi extraparlamentari quali “Lotta continua” e “il quotidiano dei lavoratori”. La redazione di “Lotta continua”, al suo esordio nel 1972, è un’emanazione diretta del movimento studentesco con i torinesi Luigi Bobbio e Guido Viale, anche se viene stampata a roma. i direttori responsabili sono Piergiorgio Bellocchio, roberto roversi e altri con continui cambiamenti per evitare le conseguenze delle querele quotidiane. Quindi enrico deaglio, Gad Lerner, Andrea Marcenaro e Adriano sofri danno al foglio una linea operaista, spontaneista, aperta ai soggetti marginali. Le lettere al giornale diventano un luogo di dibattito e di specchio del vissuto dei militanti, cosa del tutto nuova per i giornali politici. tale impegno di controinformazione si conclude nel 1982. “il quotidiano dei lavoratori” si stampa a Milano tra il 1974 e il 1979, poi diventa settimanale e viene chiuso nel 1982. Fondato da silverio corvisieri con claudio cereda è il quotidiano prima di Avanguardia operaia e poi di democrazia proletaria. L’impronta verso la linea movimentista è di Vittorio Borelli, daniele Protti, stefano semenzato e Armando Zeni.
Note e discussioni
Le innovazioni nei quotidiani di informazione i nuovi quotidiani militanti influenzano anche il panorama giornalistico della stampa di informazione e nel 1976 eugenio scalfari propone una formula del tutto nuova con la fondazione a roma di “la repubblica”, di cui sarà per lungo tempo il direttore protagonista. il gruppo proprietario è formato da carlo caracciolo, carlo de Benedetti e la casa editrice Mondadori. il quotidiano è esso stesso un soggetto politico ed è esplicitamente pensato per i lettori di sinistra e per un’élite intellettuale. ha un impianto innovativo rispetto al giornalismo tradizionale già nel formato tabloid e modella la sua struttura su quella dei settimanali, con poco sport, nessuna cronaca locale, molta politica e molta cultura e, nel corso degli
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anni, implementa i suoi supplementi tematici lungo la settimana. il paginone doppio della cultura, che ha come responsabile prima enzo Golino e poi rosellina Balbi e quindi Paolo Mauri, si conquista rapidamente un posto privilegiato nel dibattito nazionale, orientandone i temi e le discussioni. Vi compaiono articoli tra cultura e divulgazione su temi pluridisciplinari, con particolare attenzione ai personaggi della vita culturale, utilizzando molto lo strumento dell’intervista. i giornalisti e i collaboratori sono di grande qualificazione professionale come Laura Lilli, corrado Augias, Beniamino Placido, Pier Aldo rovatti, Attilio Bertolucci, ugo Volli, solo per citarne alcuni. dello stesso gruppo editoriale è il settimanale “l’espresso”, che continua a proporre un intelligente giornalismo d’inchiesta e di denuncia, contendendo i lettori all’altro settimanale politico “Panorama”. Anche “il corriere della sera”, tradizionalmente quotidiano della borghesia conservatrice milanese, si apre nel 1972 a una stagione liberal con la direzione di Piero ottone, che chiama a collaborare al più prestigioso giornale italiano un intellettuale e scrittore scomodo come Pier Paolo Pasolini con i suoi scritti corsari. Gli articoli pasoliniani provocano molte discussioni per la denuncia delle trasformazioni antropologiche prodotte da alcuni aspetti della modernità, che scardinano la memoria, il senso comunitario e le arcaiche radici contadine degli italiani. Gradualmente “il corriere” riduce sulle pagine quotidiane la parte dedicata alla letteratura, che riserva dal 1973 al “corriere letterario” della domenica, e dedica maggiore spazio alle inchieste e ai temi dell’attualità culturale a livello nazionale e internazionale. tra i collaboratori possiamo citare intellettuali affermati come Franco Fortini, Mario Luzi, sergio Pautasso, Vittore Branca, ennio Flaiano, claudio Magris, Gabriele Baldini, Leo Valiani, Pietro citati, Andrea Zanzotto. dal 1974 guadagna una sua dignità la satira di Pericoli e Pirella. Nel 1977, quando la proprietà de “il corriere della sera” e il gruppo rizzoli sono investiti dallo scandalo della Loggia P2 di Licio Gelli, Piero ottone dà le dimissioni e viene sostituito da Franco di Bella, che tiene la direzione fino al 1981, ritornando all’impostazione conservatrice originaria del quotidiano.
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Laurana Lajolo, L’industria culturale
Note e discussioni
Note e discussioni
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Va sottolineato che la linea editoriale di ottone ha provocato le dimissioni dal quotidiano milanese di indro Montanelli, che nel 1974, fonda, sempre a Milano, “il Giornale nuovo”, sostenuto inizialmente da Montedison. Montanelli definisce il suo quotidiano moderato e conservatore, affermando che vuole essere la voce dell’italia laboriosa e produttiva. e trova collaboratori influenti alle sue pagine culturali, tra cui vale la pena di citare renzo de Felice, Nicola Abbagnano, Mario Luzi, Mario Praz, Masolino d’Amico, Geno Pampaloni, Marcello staglieno, ernesto sabato, Anthony Burgess. Mentre “il Giornale nuovo” guadagna un suo pubblico di lettori, il tentativo di Maurizio costanzo, anche lui invischiato nella P2, di fare con “L’occhio” un quotidiano popolare fallisce quasi subito. Nel 1975, forse anche in competizione con il supplemento letterario de “il corriere della sera”, il direttore de “La stampa” Arrigo Levi fa uscire per la prima volta il supplemento letterario di oltre venti pagine “tuttolibri”, responsabile Alberto sinigaglia. i modelli di riferimento sono il “Literary supplement” del “times” e il “Book review” del “New York times”. tuttolibri si presenta come strumento di informazione sintetica ed essenziale con recensioni di testi letterari italiani e stranieri, notizie di convegni e dibattiti e anticipazioni di libri in uscita, riportando anche le classifiche dei best sellers. collaborano a “La stampa” intellettuali e studiosi di grande livello per lo più torinesi come Norberto Bobbio, Natalia Ginzburg, Fruttero e Lucentini, Nicola Abbagnano, Mario soldati, Massimo Mila, Guido ceronetti, Giorgio Barberi squarotti, Giorgio di rienzo, ma vi scrivono anche Giovanni spadolini, enzo siciliano, Leonardo sciascia, Guido Piovene, Giovanni raboni. Nel 1968 è nato dalla fusione tra “L’avvenire d’italia” e “L’italia” il quotidiano cattolico “L’Avvenire”, organo della conferenza episcopale italiana e poco dopo con la direzione di Leonardo Zega, il settimanale “Famiglia cristiana” ottiene una grande affermazione di diffusione superando di gran lunga la tiratura del milione di copie.
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Mentre alcuni quotidiani sperimentano nuove offerte culturali ai lettori, la formula della rivista specificatamente letteraria entra in crisi. chiudono “La Fiera letteraria” e “Quindici” e quelle delle neoavanguardie lasciano lo spazio a riviste politiche e teorico-politiche, in larga parte, di orientamento marxista, che diventano luoghi di discussione e di elaborazione riguardo alle scienze sociali e psicologiche. Franco Ferrarotti inizia le pubblicazioni di “La critica sociologica” nel 1967; domenico Javarone e Gianni toti in “carte segrete” (1967-1987) presentano testi di narrativa e del teatro italiano e straniero del Novecento, ponendosi in alternativa al mercato editoriale tradizionale, come del resto elio Pagliarani in “Periodo ipotetico” (1970-74); “il piccolo hans” di sergio Finzi si occupa dal 1974 di tematiche psicoanalitiche. continua le pubblicazioni anche “Belfagor”, fondata nel 1967 dal critico letterario Luigi russo, sotto la direzione del figlio carlo Ferdinando, particolarmente impegnato nella battaglia laicista e anticlericale, anche in polemica con gli intellettuali comunisti. un’altra rivista propriamente letteraria è “Paragone”, che presta molta attenzione alla poesia e alla narrativa con firme importanti come Baldacci, Bassani, Bertolucci, Garboli, raboni, Banti, Montale, rebora, Luzi, Gatto, sereni, caproni, Fortini, Zanzotto, Giudici, Bellezza, calvino, Malerba, Gadda, Pasolini. Grande rilevanza culturale e politica rivestono i “Quaderni piacentini” (le cui pubblicazioni iniziano nel 1962 per concludersi nel 1984), che rappresentano l’area dell’Autonomia in aperto dissenso con la sinistra tradizionale. il direttore storico è Piergiorgio Bellocchio, in seguito li dirigono Grazia cerchi e Goffredo Fofi. i collaboratori hanno competenze disciplinari diverse ma un comune denominatore politico, che si manifesta nei saggi su capitalismo e imperialismo, mondo cattolico e lotte operaie, marxismo e antipsichiatria, nuova sinistra americana e potere nero, rivoluzione culturale cinese e movimenti di liberazione nel terzo mondo, droga e terrorismo. ci sono anche saggi di letteratura, di cinema, di costume e sono ospitati i comics e il fumetto politico. La rivista propone inoltre la rilettura di marxisti dissidenti come rosa Luxemburg e Karl Korsch e conduce con
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Le riviste
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coerenza la critica alla massificazione e alla mercificazione editoriale e culturale, mettendo in evidenza il processo di integrazione degli intellettuali nel sistema. Anche il Gruppo ’63 apre una polemica sulla separatezza dell’intellettuale dalla società e, insieme alla denuncia delle mistificazioni letterarie come i premi letterari già viva negli anni sessanta, esprime un certo ripensamento autocritico degli scrittori sul lavoro intellettuale. in aperto contrasto con le interpretazioni eterodosse del marxismo si pone “critica marxista” diretta dal critico carlo salinari iscritto al Pci. La rivista affronta una molteplicità di tematiche dalla politica alla sociologia, dalla filosofia della scienza alla storia fino alla filologia classica, ottenendo le collaborazioni di studiosi e intellettuali come eugenio Garin, Franco Ferrarotti, Livio sichirollo, Gabriele turi, Adriano Prosperi, Luciano canfora, Gian carlo Ferretti, remo cesarani. continuano le loro pubblicazioni, iniziate nel decennio precedente, anche riviste tematiche nate in provincia come “rendiconti” di roberto roversi a Bologna,“Angelus Novus” di Massimo cacciari e cesare de Michelis a Padova, “Nuovo impegno” di romano Luperini a Pisa. come effetto dei movimenti femministi, che dai paesi anglosassoni si estendono all’italia, escono le riviste femministe militanti con un’impronta saggistica, culturale e politica, quali “effe” (1973), “differenza” (1976), “sottosopra”, “dWF –donna Woman Femme”. svolge un ruolo molto attivo di aggregazione e di circolazione di idee la Libreria delle donne, che è anche casa editrice. il dibattito preparatorio e le risoluzioni del concilio Vaticano ii negli anni sessanta, con le conseguenti aperture della cultura cattolica ai temi della società e dell’impegno civile favoriscono la nascita di nuove riviste, che privilegiano i temi di ricerca teologica e di approfondimento religioso anche con un taglio di rottura rispetto alla tradizione, basti pensare alla teologia della liberazione, nata in America latina, e al dialogo tra cattolici e marxisti alla ricerca di orientamenti comuni. Vengono inoltre proposte le teorie della pedagogia cristiana, i dibattiti sui modelli sociologici, politici ed economici del capitalismo occidentale e delle possibilità di sviluppo del terzo mondo. Ne sono protagonisti dietrich Bonhoeffer, hans Kung,
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Le case editrici Anche le case editrici, a partire dal 1969, risentono dell’irruzione sulla scena pubblica dei nuovi soggetti politici, gli studenti e gli operai, con la conseguente maggiore domanda di cultura. riducono i titoli di narrativa a vantaggio di quelli di saggistica sociologica e politica, spesso di stampo marxista. Gli stessi scrittori riflettono anche su tematiche non strettamente letterarie. in quegli anni si pubblicano, infatti, molti libri-intervento, saggi, inchieste, che vengono diffusi anche attraverso una rete di distribuzione alternativa. in questa direzione caratterizzano alcune loro collane le case editrici Laterza, Marsilio, Mazzotta, e anche piccole case editrici che
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Georges Bernanos, Jacques Maritain, teilhard de chardin, don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani. All’avanguardia di queste tendenze è il nucleo fiorentino di padre ernesto Balducci, che, con l’apporto di Giorgio La Pira e Mario Gozzini, dirige dal 1958 “testimonianze. Quaderni mensili di spiritualità”. il centro dehoniano di Bologna edita “il regno”. “Questitalia. Bozze di politica e di cultura” è espressione della sinistra democristiana veneta ed è diretta da Wladimiro dorigo con Arturo carlo Jemolo, Lidia Menapace, Angelo romano, Pietro scoppola, Aldo capitini. “religioni oggi. rivista trimestrale per il dialogo” ha come direttore Alceste santini e i redattori sono intellettuali cattolici come carlo Bo e Giorgio la Pira e esponenti marxisti come Ambrogio donini e Lucio Lombardo radice. “concilium. rivista internazionale di teologia”, edita dal 1965 da Queriniana, si dimostra aperta all’attualità politica e al dialogo e vi collaborano i maggiori teologi progressisti europei quali roger Aubert, Yves congar, hans Kung. “Presenza” (1958-1974) è diretta da Franco Floreanini con Paolo de Benedetti e Giuliano Gramigna e si occupa di saggistica sociopolitica, ma presenta anche monografie sulla poesia italiana e americana contemporanea.
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promuovono iniziative militanti come samonà e savelli, Guaraldi, de donato. un caso a parte è rappresentata dalla Feltrinelli, che fino alla morte del suo fondatore si spinge a pubblicare anche alcuni testi di violenza rivoluzionaria. Notevole diffusione hanno le sue collane economiche. La nuova richiesta di cultura è indotta anche dalle trasformazioni che stanno avvenendo nella società, nell’informazione, nella scuola e nell’università. significativa è, infatti, l’istituzione negli anni settanta delle prime cattedre universitarie di letteratura italiana e di storia contemporanea, che hanno come indotto la produzione di manuali, guide, enciclopedie e anche grandi opere. in campo cattolico, dopo il concilio Vaticano ii, come per il settore delle riviste, si riscontra un fermento editoriale su problemi sociali dell’europa e del terzo mondo con aperture al confronto con la cultura marxista. Possiamo citare le case editrici cittadella, Queriniana, dehoniane, Libreria fiorentina. A Milano si apre Jaka book nell’orbita di comunione e liberazione. Prende avvio all’inizio degli anni settanta la stagione dei bestseller e va segnalato come esempio l’enorme successo ottenuto da rusconi, editore di destra, con la pubblicazione, a partire dal 1970, della trilogia del Signore degli anelli di tolkien, che affascina ragazzi e adulti e apre la strada all’affermazione in italia del romanzo epico fantasy, sostenuto anche dal successo della trasposizione cinematografica. un segnale significativo del gusto dei lettori. Proprio negli anni, in cui pare affermata la supremazia ideologica del marxismo, avviene un fenomeno di rottura importante con quell’orientamento culturale e politico e di conseguenza con la concezione dell’intellettuale impegnato: l’affermazione della casa editrice Adelphi, di cui è artefice e ispiratore il suo direttore editoriale, nonché autore di successo, roberto calasso. calasso, raffinato intellettuale che rifiuta l’interpretazione marxista della realtà, trasferisce in italia un contesto sociale e culturale internazionale, collaborando attivamente a segnare la fine dell’egemonia della cultura marxista e della progettualità strategica di trasformazione sociale. La nuova casa editrice conquista molto pubblico giovanile, in cui comincia a serpeggiare la delusione per la contestazione e soprattutto il rifiuto della violenza estre-
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mistica sia di sinistra che di destra. Siddharta di herman hesse diventa il libro cult di alcune generazioni di giovani, che diffonde una concezione orientale della vita. La linea editoriale è antiutopistica, mistica, esoterica e divulga in italia il filone mitteleuropeo della saggistica straniera di robert Walzer, Karl Kraus, elias canetti, Joseph roth, Arthur schnitzler. in edizione economica la casa editrice rende accessibile al grande pubblico la produzione filosofica di Fredrich Nietzsche orientata al mito del superuomo e al nichilismo. calasso seleziona anche titoli di cosmologia, di rivisitazione delle civiltà antiche, di cultura ebraica, di letteratura di viaggio, accumulando un catalogo molto esteso e vario. data la qualità e il prestigio dell’editore, il peso culturale di Adelphi risulta via via crescente e influenza ampiamente l’opinione colta della seconda metà degli anni settanta per diventare poi egemone negli anni ottanta, favorendo il riflusso nel privato di un’intera generazione.
tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta si profila la crisi irreversibile della case editrici a conduzione familiare e preindustriale, come il saggiatore, Bompiani e più tardi einaudi, e di quelle di piccole dimensioni con prodotti élitari e con scarsa distribuzione. La riduzione drastica del fatturato librario fa sì che quelle case vengano chiuse o passino di proprietà, subendo un radicale processo di ristrutturazione organizzativa e razionalizzazione gestionale a vantaggio dei grandi gruppi. scompaiono alcuni editori protagonisti del dopoguerra e si avvia la fase dell’affermazione della logica del mercato nell’editoria con le concentrazioni del capitalismo editoriale, che si caratterizza per la crescente innovazione tecnologica e per la prevalenza dei dirigenti manager e del marketing sui letterati-editori. si riducono i margini di indipendenza intellettuale e il direttore di collana è soppiantato dall’editor e dal direttore commerciale. L’obiettivo è l’incremento della produzione e delle vendite e l’estensione della rete distributiva, anche nelle edicole e nei supermercati a svantaggio delle piccole librerie.
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Il capitalismo editoriale
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Qualcuno cerca di opporsi e già nel 1972 intorno al Gruppo 63 con italo calvino, Paolo Volponi e cesare Zavattini, si costituisce una cooperativa di scrittori, che denuncia la concentrazione, ma è una consapevolezza che viene frustrata dal “business”. A metà degli anni settanta la stessa figura dello scrittore subisce una profonda trasformazione, che va a compimento negli anni ottanta. il grande gruppo editoriale costruisce il narratore di successo, lo scrittore personaggio a cui viene richiesta una produttività garantita (attraverso la pratica del contratto pluriennale con l’impegno di un libro all’anno), che sia leggibile e anche ripetitiva nei temi e nello stile così da fidelizzare il lettore. tutto si muove intorno alle esigenze economiche dell’editore e il gusto predominante del pubblico e l’ispirazione dello scrittore deve rispondere soprattutto al mercato. Anche autori affermati passano dalle case editrici di tradizione ai grandi gruppi. La concentrazione editoriale, seguendo l’istanza commerciale, lavora sull’autore sicuro, sul pubblico garantito, sul rapido realizzo della vendita del libro e sulla riduzione dei magazzini. La politica editoriale di gruppi come Mondadori e rizzoli si articola sul 75% di novità e riduce il catalogo al 25%, privilegiando la narrativa di autori come chiara, Villaggio, cartland, Follett, e la saggistica leggera di stampo giornalistico da de crescenzo a Biagi e Fallaci. il romanzo di stagione, il reportage di attualità, il libro per ragazzi, il libro-strenna, il fotoromanzo, il romanzo porno sono i prodotti tipici della cultura di massa, che mira a superare l’antica logica delle due culture, quella di élite e quella popolare. Attraverso una distribuzione capillare si registra un aumento significativo di lettori: dal 32,3% del 1965 al 46.4% del 1984, anche se con gravi dislivelli tra regione e regione. La potente macchina editoriale, che si muove sul piano distributivo, come su quello promozionale attraverso i mass-media, persegue la politica del best seller, basata su un’informazione seriale (con lanci pubblicitari su giornali e tv con interviste, lanci flash). i primi esempi della narrativa italiana sono La storia di elsa Morante,1974, Orcynus orca di d’Arrigo, 1975, il romanzo d’esordio di Vincenzo cerami un borghese piccolo piccolo, 1976, Il nome della rosa di eco, 1980, tanto per citarne qualcuno.
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La critica letteraria è destinata a scomparire nel giro di pochi anni, mentre i grandi gruppi editoriali possono contare sulle testate di proprietà e sull’“occupazione” dei premi letterari. dando prova di un crescente dinamismo, vanno alla conquista sempre di nuove testate giornalistiche e di reti televisive e partecipano attivamente ai giochi economici e politici con il governo e il sottogoverno. Fuori dalle concentrazioni editoriali vi sono comunque alcune esperienze significative, diverse tra loro. tiziano Barbieri rileva nel 1970 la sperling & Kupfer, pubblicando letteratura e saggistica di consumo per il grande pubblico con autori come stephen King e sveva casati Modignani, mentre fa rinascere l’antica casa Frassinelli con scelte raffinate di narratori stranieri contemporanei quali Alice Walzer, toni Morrison, tom Wolfe. ci sono, poi, case di nicchia con produzioni di qualità e scelte editoriali di settore come La tartaruga, transeueropa, e/o, teoria. tra queste quella che ha avuto più successo è sicuramente la sellerio, avviata a Palermo nel 1969, che con Affaire moro di Leonardo sciascia nel 1978 diventa una casa editrice di livello nazionale. Proprio per merito della consulenza di sciascia, elvira sellerio conduce operazioni culturali importanti, in particolare con la collana La memoria, che fa repéchage di opere minori o dimenticate di Gide, savinio, Voltaire, Manzoni, per citarne alcuni. casi curiosi, anche dal punto di vista economico sono le “Millelire” di stampa alternativa di Marcello Baraghini, che persegue una strategia militante povera attraverso la distribuzione artigianale, e Newton compton di Vittorio Avanzino, che opera la rivoluzione dell’immissione dei classici supereconomici in libreria. Alla televisione tra il 1974 e il 1976 avviene la riforma della rAi con il passaggio del controllo dal governo al Parlamento e la conseguente lottizzazione delle nomine tra i partiti, anche quelli di opposizione, e nel 1979, con la nascita del terzo canale, trovano spazio giornalisti e intellettuali vicini al Partito comunista.
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enzo Forcella, nominato direttore del terzo programma nel 1976 e successivamente direttore di radiotre, introduce rilevanti novità nei programmi culturali e giornalistici come“Prima pagina”, la rassegna stampa mattutina delle pagine politiche dei quotidiani, i contenitori culturali “spazio tre” e “il paginone”, connotando il terzo programma come radio colta, a volte anche sofisticata, ma senza una funzione educativo-didascalica. Ma il dato più rilevante nel campo dell’uso della telecomunicazioni sta nella liberalizzazione dell’etere secondo una sentenza della corte costituzionale del 1976, che sancisce la fine del monopolio pubblico. Le tv private commerciali modificano radicalmente la funzione pedagogica fino ad allora svolta dalla rAi e immettono numerosi spettacoli di intrattenimento, influendo direttamente sul costume del pubblico. Fanno anche ampio ascolto le radio libere e di movimento, basti pensare a radio Alice e a radio radicale. sul versante del giornalismo televisivo rAi, sempre nel 1976, il programma di Maurizio costanzo Bontà loro, che viene messo in onda per un biennio, rappresenta il primo talk show italiano, impostato con interviste a personaggi molto diversi per andare oltre al loro ruolo pubblico ed esibire il privato. Per merito del programma alcuni intellettuali e divulgatori come Luciano de crescenzo con il suo così parlò Bellavista acquisiscono un enorme popolarità. La seconda metà egli anni settanta vede anche altre novità, che rimarranno storiche nella storia della televisione pubblica. renzo Arbore, dopo i successi radiofonici di Bandiera gialla nel 1965 e di Alto gradimento nel 1970 con Gianni Boncompagni, presenta in tv L’altra domenica (1976 -1979), innovando profondamente l’organizzazione e il linguaggio dello spettacolo televisivo. sono anche gli anni dell’introduzione massiccia dei telefilm americani nei palinsesti e di fiction di largo successo come Sandokan. Nonostante l’ampio spazio che sempre più si guadagnano i programmi di intrattenimento, dal 1967 al 1987 gode di una posizione fissa e privilegiata su rAi 1 la rubrica settimanale di trenta minuti di novità librarie Tuttilibri, con recensioni di libri di narrativa e di saggistica italiane e straniere. La trasmissione è ideata da Giulio Nascimbeni e, negli anni, si alternano
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come conduttori Guglielmo Zucconi, raffaele crovi, davide Lajolo e Aldo Grasso. il giornalista Andrea Barbato inserisce nel telegiornale del secondo canale rubriche di approfondimento, come lo spazio settimanale Vedo, sento e parlo, che dal 1976 al 1979 è curata Guido davico Bonino, il quale, dal 1979 al 1981, assume la responsabilità del quindicinale Finito di stampare. ettore Masina e Giuseppe Fiori curano la rubrica della testata giornalistica del tg2, gulliver Settimanale di costume, letture, protagonisti, arte e spettacolo (1978-80), ricercando la definizione di un linguaggio adatto a parlare di letteratura in televisione. intellettuali, critici letterari e scrittori tra cui Francesca sanvitale, enzo siciliano, cesare Garboli, Lorenzo Mondo, Francesco savio collaborano al settimanale della domenica sera del secondo canale Settimo giorno (19741976), che riesce a trovare un equilibrio tra approfondimento e divulgazione, con l’uso moderno dell’interazione tra parola e immagine e la presentazione problematiche degli argomenti. Nel campo dell’editoria e dell’informazione gli anni settanta del secolo scorso presentano novità significative e trasformazioni radicali, che influiscono ancora sul presente. con la cultura di massa cambiano gli scenari dell’organizzazione e della diffusione culturale e va scomparendo il ruolo egemone dell’intellettuale nelle sue vesti tradizionali riguardo alla definizione dei contenuti e degli strumenti fino a non essere più influenti sull’opinione pubblica. emergono, semmai, come opinion leaders i personaggi televisivi, i cantanti, mentre gli stessi politici si adattano alle esibizioni sui mass-media. Le televisioni assumono, infatti, un ruolo sempre più preponderante nell’orientamento del pubblico non solo nel campo dello spettacolo e dell’intrattenimento e si guadagnano un ruolo di formazione del consenso politico, che si dilata nel decennio successivo fino ai governi di Berlusconi. Anche la tv pubblica, che amplia i suoi canali, perde via via la funzione pedagogica delle origini e si allinea alle offerte delle tv commerciali. Nel campo dell’editoria si afferma la preminenza dei grandi gruppi editoriali, che fagocitano le case di tradizione familiare. L’industria culturale con i suoi manager e le politiche di marketing prevalgono sul talento del
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singolo autore e cambiano profondamente gli orientamenti delle offerte librarie, orientandosi verso i best sellers e l’editoria di facile consumo ed egemonizzando i premi letterari. Mantengono le loro posizioni alcune piccole case editrici, spesso decentrate in provincia, che hanno una precisa linea editoriale. Nascono i supplementi letterari dei quotidiani e trasformano le consuete recensioni di critici, capaci di consacrare il successo o l’insuccesso di un libro, in presentazioni e anticipazione dei titoli di successo sulla base delle schede fornite dagli uffici stampa delle stesse case editrici e personalizzando con interviste e servizi dedicati allo scrittore di moda. Gli intellettuali di stampo tradizionale sembrano relegati nelle riserve indiane delle riviste, che con i loro prodotti di dibattito e di argomentazione, orientano ancora il pensiero e la cultura elitaria, ma non allargano la loro sfera d’influenza al nuovo pubblico della cultura di massa. insomma negli anni settanta si estingue la figura dell’intellettuale impegnato con il suo lavoro culturale a trasformare la società e viene sostituito dallo scrittore di successo capace di stare in televisione, individuo alla ricerca della propria affermazione e frutto del mercato con un orizzonte minimalista e a volte nichilista della sua narrazione. La metafora della crisi del ruolo intellettuale si può rintracciare nella tragica morte di Pier Paolo Pasolini a metà degli anni settanta. il profeta della disintegrazione del Paese, dell’omologazione culturale, della trasformazione antropologica delle comunità viene ucciso il 2 novembre 1975 e con lui appare conclusa la funzione pedagogica, istituzionale e politica della coscienza critica dell’intellettuale.
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1. Per le notizie e la cronologia si è attinto da G.c. Ferretti, s. Guerriero, Storia dell’informazione letteraria in Italia dalla terza pagina a internet 1925-2009 Milano, Feltrinelli, 2010, cap. 19681980; pagg. 192-243; da giornalismo italiano, vol. iV (1939-2001), Milano, Mondadori i meridiani, 2009.
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Piccolo cinico mondo antico: per i trent’anni da La Terrazza di ettore scola Fabrizio meni
in un numero monografico dedicato agli intellettuali negli anni settanta rivedere il film di ettore scola, La Terrazza ci pare significativo per una serie di ragioni: innanzitutto è un film del 1980, l’anno che conclude il decennio in esame; è un film corale la cui trama è costituita dall’incontro-scontro di storie di intellettuali; è un film che, re-distribuito a trent’anni di distanza ci appare come un reperto archeologico e insieme come una profezia anticipatrice del presente; infine è un film che ci spinge a riflettere sulle radici da cui si è sviluppato il mondo presente. La Terrazza, tra le polemiche e le incomprensioni, esce nelle sale nel 1980, accolto con freddezza se non con ostilità da parte della critica colta a cui pare sterile la semplificazione della tesi contenuta nella trama: i “nuovi mostri” di cui gli intellettuali degli anni settanta cercano di tracciare il profilo sono in realtà loro. È un anno particolare a fare da contesto all’uscita del film: il 1980, è, infatti, l’anno della fine del terrorismo con il susseguirsi delle prime confessioni dei pentiti e dei conseguenti arresti. È l’anno in cui esce Il trionfo del privato di Galli della Loggia, che tra i primi prende atto del mutamento antropologico rappresentato dal passaggio dalla stagione dell’impegno politico collettivo a favore dei soggetti plurali a quella della Febbre del Sabato Sera e dei Dancing Days. È l’anno di pubblicazione di Altri libertini di Pier Vittorio tondelli, ma anche del primo meeting di comunione e Liberazione, che progressivamente sostituisce la fisionomia del collettivo messianico laico e di sinistra con quello confessionale e fideistico con altrettanta dose di messianesimo e fanatismo. il 1980 è l’anno delle prime trasmissioni televisive di quella che diventerà canale 5: “corri a casa che ti aspetta c’è un Biscione che ti aspetta”.
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insomma per citare una canzone di Lucio dalla di quegli anni, è un anno che segna una svolta: “Nei settanta si pensava a tutto / negli anni ottanta si è perduto tutto”.1 Poiché il film ha come protagonisti uomini e donne che sono intellettualmente nati nei due decenni precedenti, appare, oggi come un reperto archeologico con cui ricostruire, pezzo per pezzo, il ritratto dell’intellettuale di un’ epoca scomparsa, come se quel 1980 chiudesse non solo un decennio ma un’intera era. Questo ritratto appare, nei vari personaggi e nelle differenti storie – interpretate dalla miglior classe di attori che il cinema impegnato potesse offrire – come il risultato finale di tratti comuni. L’intellettuale è innanzitutto uomo: la donna al massimo è la sua ombra, ed è accolta senza conflitti se ne diviene amante, infermiera, donna di casa pronta a organizzare il degno contesto in cui i suoi uomini possano esercitare le loro virtù (“A tavola è pronto!”). ovviamente essendo progressista in attesa di rivoluzione, l’intellettuale teorizza la parità indistinta dei sessi, salvo poi soffrire terribilmente se la parità irrompe nella sua vita:“tutte le mogli che si emancipano diventano giornaliste, registe, architetti. Non ce n’è una che aspiri a diventare impiegata delle Poste: dai fornelli al Parnaso”. Parnaso usurpato: cinismo e ipocrisia, ma si sa, le donne le si vorrebbero ai fornelli ma è un pensiero che occorre reprimere nell’intelletto di persone che in fondo e in segreto si compiacciono del loro retrivo maschilismo, al cui confronto la genuina risposta della giovane donna amante del più vecchio e celebre onorevole (sandrelli – Gasmann) che per lasciarla le promette di scriverle un’altra di quelle lettere, lunghe di molte pagine scritte a mano, appare come una lezione di filosofia: “ma no lascia stare, semmai mi rileggo questa”. La donna, a differenza dell’uomo, nel film, non è sempre un “nuovo mostro”. Le donne della Terrazza non sono, infatti, tutte contesse radical chic invaghite di una rivoluzione alla moda dei settanta che si compiacciono di invitare nel loro lussuoso appartamento gli uomini che di quel mondo più giusto sono i teorici per un sontuoso pranzo servito da camerieri in livrea. Le donne del film sono giornaliste che rifiutano di tornare dal marito non accettandone la subordinazione sia fisica che intellettuale, malgrado lui sia convinto di recitare per sempre il ruolo di Pigmalione (Mastroianni – Gra-
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vina); donne che amano la cultura e la politica ma che non comprendono la cultura e la politica vuota e astratta, piena di slogan e di parole d’ordine dei mariti fanatici di sinistra come il critico militante (satta Flores); donne che come quella interpretata da stefania sandrelli amano leggere ma che sono costrette a vivere accanto a un marito distratto perché già workalcoholic ante litteram nei nuovi settori della pubblicità e del marketing; donne dal forte senso pratico che loro malgrado sposano la causa di assistere mariti disadattati e fuori di senno (Vukotic e trintignant lo sceneggiatore in crisi che cerca di conuigare totò e Wittgenstein). donne, insomma che convivono loro malgrado con uomini meschini, abituati a prendersi troppo sul serio da scambiare i problemi del mondo con le loro miserie: “secondo te, chi soffre di più: uno sceneggiatore o un critico cinematografico? Le loro mogli”. L’intellettuale “mostro” è dunque maschio ed è antifascista, di sinistra nelle sue varie componenti, pronto a difenderne i valori in modo sempre e comunque dogmatico, come se la resistenza fosse stata, una volta per tutte, l’evento che ha separato definitivamente i buoni dai cattivi, i giusti dai reprobi, il sapere dall’idiozia, in una primavera di bellezza che rappresenta per tutti il paradiso perduto (“non è che dobbiamo dichiarare un’altra volta guerra ai tedeschi per far ridere voialtri”). L’intellettuale è populista, nel senso letterale della parola, sta dalla parte del popolo che vuole però educare, emancipare, portare al proprio livello di prosperità intellettuale e conoscitiva, ma non subito, ma non ora, e senza peraltro chiedere mai al popolo se è proprio quello che vuole: “Fai caricature senza problematiche! Questo è provincialismo culturale!” è il rimprovero rivolto al produttore cinematografico (tognazzi) che vorrebbe invece solo produrre film dalle “grasse” risate popolari, quello che nel gruppo appare il meno intellettuale, il pesce che è però fuor d’acqua solo nell’acquario irreale della Terrazza, dove ci si bea delle proprie teorie e pedagogie, prendendo atto ormai del fallimento del proprio progetto attraverso il sorriso amaro delle battute sarcastiche, del citarsi addosso proprio di macchiette da cabaret. L’intellettuale è poi verboso, lagnoso, ipocondriaco nello scrivere e nel pensare: le lunghe lettere scritte a mano dall’onorevole del Pci (Gasmann),
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l’atteggiamento comunque sempre depresso dell’intera compagnia, che si lamenta addosso, vive di ricordi, rimpianti e nelle varie forme costruisce a poco a poco il proprio declino. Mastroianni scrive il proprio articolo, con la stessa espressione con cui forse si scrive un testamento, mentre il mondo, il suo mondo sta cambiando (subisce infatti la contestazione irriverente dei giovani giornalisti, certamente figli dei movimenti, di una sinistra extraparlamentare che sembra, in quel 1980, entrare nella “stanza dei bottoni” e lo fa anche se i suoi bottoni saranno negli anni ottanta le televisioni commerciali di Berlusconi), e mentre scrive scandisce ad alta voce: “il paese. È. Allo sfascio. Finale di articolo che ho scritto un centinaio di volte, dal 1969”. Potrebbe essere lo stesso articolo scritto da claudio Magris nel 1993: “da qualche tempo si avverte, quasi fisicamente, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l’italia – nella sua attuale forma politico-statuale e dunque culturale – possa non esistere più”.2 o da chissà quanti altri ancora. trent’anni dopo, nel 2010, l’intellettuale di sinistra è ancora lì, malgrado il personal computer abbia sostituito la vecchia olivetti. Poco importa se la sua antica frase appare su Annozero o su Libero. Non gli rimane però altro spazio che Annozero o Libero come costatano Baricco e scalfari, discutendo di barbari e imbarbarimento su La Repubblica: “solo quarant’anni fa questi dibattiti di idee si facevano nelle accademie, e li facevano i filosofi, gli antropologi, i sociologi. come mai adesso loro tacciono, smarriti, e noi, scrittori giornalisti, ci troviamo bene o male ad accompagnare la riflessione collettiva su temi così importanti su carta che l’indomani involtola l’insalata o su riviste che ci mettono in copertina tutti belli ritoccati, manco fossimo degli attori?”.3 Ma forse nel 1980 come nel 2010 ciò che conta è che tutto termini con la chiamata della signora elegante: “è pronto! a tavola!” per una cena su una Terrazza immutata in cui si discute su come si potrebbe mettere tutte le cose a posto se solo… L’intellettuale degli anni settanta è, infatti, già allora un privilegiato che vive in ville lussuose, tra agi e ozi senza mai conoscere la fatica fisica, contraddicendo la base stessa della sua ideologia: “privilegiati depressi eccoli, fanno pure più schifo dei privilegiati contenti”.
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Lavora d’intelletto, in un’epoca in cui il lavoro d’intelletto è quello immateriale, superficiale, effimero della società della comunicazione e dell’immagine (giornalisti, produttori e sceneggiatori cinematografici, funzionari della tv, giornalisti televisivi) e, provenendo dal passato, si sentono inadatti a sopportare l’avvento di questa nuova civiltà a cui noi siamo assuefatti, civiltà in cui l’immaterialità del lavoro intellettuale coincide con la produzione dell’effimero, del superfluo, nemmeno più degno di essere considerato alla stregua di una componente “sovrastrutturale”. tra i personaggi del film il più simbolicamente commovente, malgrado susciti comunque un certo disprezzo, è il funzionario rAi (reggiani) che assiste impotente e senza reagire non solo alla sostituzione della lottizzazione democristiana con quella comunista ma alla fine stessa del sogno di una televisione pedagogica e politicamente emancipatrice e rivoluzionaria. Lo spazio per quel progetto è terminato come, simbolicamente, si riduce, in quattro e quattr’otto, in una scena dalla tragica comicità, il già angusto spazio del suo ufficio. commuove seguire la fine tragica di quest’uomo di televisione che sicuramente ha letto migliaia di libri e conosce la letteratura e la filosofia per averle amate, che ha creduto davvero in passato nel valore di una missione educatrice del mezzo televisivo, e che alla fine si lascia sopraffare da una anoressia altamente simbolica cibandosi di poche cose quasi a rifiutare nella sua carne l’opulenza imperante per poter restare vanamente aggrappato a quei valori che come le lucciole di Pasolini, non è che sono scomparse, ma siamo noi a non essere più in grado di percepirle. Lui, infatti, più che lo sceneggiatore che vuole coniugare Wittgenstein con totò, ci sembra rappresentare meglio la fine stessa dell’intellettuale di Pasolini. Non a caso muore tra l’indifferenza, soffocato dalla neve finta di un set per la produzione televisiva di uno sceneggiato alleggerito di spessore culturale ma ingigantito dai costi grazie alla lottizzazione politica, realizzata da un autore e un partito che in quegli anni tracciava le linee – come Marco Polo a Kublai Khan – della città invisibile della questione morale. certo l’intellettuale è consapevole che qualcosa sta cambiano, in quel 1980, tanto da proporre, ma solo come battuta, tra un boccone e l’altro, di inserire la tv tra le droghe pesanti. Ma non è una proposta, non è un progetto, è una battuta, per giunta cinica (“ma fa ridere?” chiederebbe to-
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gnazzi), di chi vede l’inizio di una trasformazione che porta dai telequiz di Mike Buongiorno, dal calcio indiretta (proprio nel 1980 viene organizzato il “Mundialito”, un falso campionato del mondo di calcio a solo uso televisivo), dagli anonimi senza arte né parte che diventano protagonisti per una notte di Portobello, alla tv di oggi fatta di pacchi da aprire per vincere milioni, di gira la ruota, reality di incompetenti e calcio in tutte le forme da tutte le angolature e in ogni momento. “La rivoluzione è fallita. Abbiamo vinto”. certo è che appare ancora più pregnante la canzone L’anno che verrà di Lucio dalla che fa da colonna sonora ai “giri di valzer” tra i tavoli della Terrazza: “vedi, caro amico cosa ti scrivo e ti dico/ e come sono contento di essere qui in questo momento / vedi caro amico cosa si deve inventare /per poter riderci sopra / per continuare a sperare”. cosa è rimasto di quel mondo e di quegli intellettuali? La caratteristica sopravvissuta è proprio quella capacità cinica di saper fare battute tra un boccone e un altro. tutti gli intellettuali de La Terrazza in un modo o in un altro, da differenti angolature, esibiscono il cinismo come cifra immediatamente tangibile del loro essere intellettuale. Ma è un cinismo moderno, quello che contrariamente al cinismo antico – forma estrema di autodifesa nei confronti dell’insensatezza del potere consistente in un atteggiamento irriverente, sfrontato, satirico, anticonformista – diventa sinonimo di insensibilità, di disincanto, di omologazione, di connivenza con il potere e di aspirazione al successo e allo stesso potere. il continuo ripetere la frase “ma fa ridere?, fa ridere?” certamente nelle intenzioni degli autori del film, finalizzato a tracciare il ritratto del produttore cinematografico interessato non all’arte ma al profitto, può essere letto anche in un’altra ottica (forse per la predilezione ancora una volta a fare del personaggio di tognazzi il più innocente della Terrazza): se il cinismo antico si coniugava e con la satira e con la risata, diventando un atteggiamento estremamente vitale, il cinismo attuale si coniuga invece con pessimismo e tristezza. ed anche oggi in fondo malgrado ci si concentri sui veti e sulla censura che rende impossibile la satira, nessuno si interroga se la satira cosiddetta intellettuale ci faccia ridere e ci renda vitali o piuttosto non sia che una forma di pessimismo e di tragica tristezza. “hai visto
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il film di Moretti su Berlusconi?” “e le imitazioni di crozza? o della Guzzanti?” “e Benigni? L’hai sentito?” “si, ma fa ridere? Fa ridere?“ chiederebbe tognazzi, per dirci in fondo che piuttosto ci fanno piangere. Quella del cinico moderno, afferma sloterdijk, è una falsa coscienza illuminata: egli mette infatti in discussione tutti i principi assoluti, in cui non crede più, senza farsi illusioni di nessun genere; allo stesso tempo è privo di speranze per il futuro: il cinico vive così la quotidianità con disincanto, in uno stato di costante depressione e avvilimento morale. La moderna critica all’ideologia ha inoltre abbandonato le armi della grande tradizione satirica: lo smascheramento, il pubblico ludibrio, lo scherno, per diventare una critica “agghindata in giacca e cravatta”. essa si è imborghesita così come la società nel suo complesso, trincerandosi in una “fredda guerra delle coscienze” piuttosto che fare una polemica aperta, e una critica che abbia perso la propria identità di satira si trasformerà da strumento di verità a sistema sofistico e capzioso, ingarbugliandosi in soluzioni di sempre più radicale serietà e ambiguità”.4 capziosi, ambigui, seriosi, sofistici: tutti i dialoghi e tutte le storie che si dipanano nella Terrazza hanno questo tenore: “siamo tutti così, personaggi drammatici che si manifestano solo comicamente” (Gasmann a stefania sandrelli, in una scena che non fa ridere, volutamente recitata a dramma). certo il produttore che cerca solo storie che “facciano ridere” del tipo di quelle che riguardano “un pizzicagnolo arricchito che si compra uno yacht di trenta metri”, storia per la quale vede bene Alberto sordi, è una figura altrettanto triste. Ma è triste con gli occhi di oggi. Nella sceneggiatura del 1980 era la macchietta da irridere, cinicamente, certo, con quel suo patetico lamento per un amore non corrisposto mentre insegue la moglie con le zoccole olandesi che fanno tanto anni settanta tra i meandri della sua villa con piscina e servitù. o mentre sprona lo sceneggiatore a inventarsi un soggetto sui “nuovi mostri” mentre i nuovi mostri li ha accanto, sulla Terrazza. oggi ci appare triste, perché è il sopravvissuto e insieme il profeta. È colui che meglio sa criticare cinicamente il presente di allora e di oggi che non è più fatto di classi operaie, di sottoproletari a cui hanno rubato la bicicletta con bambini sciuscià, ma piuttosto di pizzicagnoli arricchiti che
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sognano gli yacht, e fanno a gara di furbizia nell’evadere il fisco per comprarsene uno. d’altra parte è vero anche che se “La rivoluzione non la fa chi la deve fare perché la deve fare il cinema?” se rinuncia per una volta ai suoi soggetti che rendono profitto per produrre il film impegnato e cervellotico lo fa solo nel senile e patetico intento di compiacere la moglie che non lo corrisponde più, pur sapendo che sarà un fiasco totale. certo il suo “Fa ridere fa ridere” ci porta all’oggi, cioè alla tv con le risate finte, o ai “cinepanettoni”, per i quali paghiamo il biglietto per vedere privilegiati orrendi con tante e tali debolezze che ci possano far sentire superiori. Afferma Paolo Virzì: “in italia la borghesia non c’è: c’è ciarrapico. ci sono i ricchi, i potenti, ma non la borghesia, non avendo noi mai avuto la rivoluzione francese ma solo la divina Provvidenza del Manzoni”. Ma anche questa è una battuta cinica che già sapevano fare gli intellettuali degli anni settanta, anni durante i quali la borghesia era “evadere il fisco e portare i soldi in svizzera”.5 c’è un’altra scena cinicamente emblematica ne La Terrazza, ed emblematica perché composta di riprese di repertorio di un congresso nazionale del Pci di quel tempo. carrellata attenta sulla grande platea, composta da rappresentanti di un mondo antico fatto di donne e uomini che non solo hanno conosciuto il fascismo e l’antifascismo, la guerra, la resistenza e dunque la pace che consegue alla guerra, ma che vivono la politica come dimensione totalizzante, missione e servizio, uomini e donne nelle cui case la stanza più grande e anche più ingombra è la libreria (si sa la nuova era contemporanea è fatta di uomini politici ritratti dietro a scrivanie linde, asettiche, ma inesorabilmente vuote a tal punto da trasformare la loro stessa essenza da scrittoio in portaritratti con foto di mogli e figli). e poi primo piano su Vittorio Gasmann che accanto ai grandi vecchi del comunismo italiano declama un discorso controcorrente, incentrato sul “personale” e sul “privato”, dove il discorso sapientemente astratto, ricco di citazioni e riferimenti storici e letterari, intorno al diritto alla felicità e alla possibilità di coniugarlo con “la salvaguardia del plurale sull’individuale che noi abbiamo sempre sostenuto come modello di società giusta”, si riduce poi al personalissimo e banalissimo dilemma se lasciare o meno la
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propria vecchia compagna per una donna più giovane. La platea applaude non lui che immagina il discorso, ma il discorso reale di Berlinguer, ma viene da chiederci se non siano applausi da cattiva coscienza, di chi approva e condivide tacitamente le pene personali del collega mentre lo stigmatizza apertamente approvando la linea della “diversità comunista” in cui ormai nessuno sembra più conformarsi. Proprio in quegli anni si afferma una rivoluzione politica fondamentale: “il personale è politico”, ma quale “personale”? Quello dei bisogni fondamentali di un soggetto, inteso nella sua individualità e unicità, nelle differenze di genere, situazione e di generazione, in luogo dei più astratti bisogni di un soggetto inteso in termini di classe o di società? No, ad affermarsi nei successivi anni ottanta è il “personale” rappresentato da Gasmann: il tradimento coniugale, il sesso nei monolocali in prestito, col pericolo di essere sorpresi dal voyeurismo giornalistico che diventa materia di interesse politico, anche per il Pci malgrado la propria “diversità” che appare più come un disperato appello a un “dover essere” estremo per un’identità ormai definitivamente perduta. Gasmann è l’intellettuale gretto, meschino, affetto da un maschilismo mascherato, dolente e lagnoso, in sé deprecato, in bilico conflittuale tra l’immolarsi alla causa politica e il ripiegarsi sul proprio piccolo mondo di affetti hegelianamente miseri e insignificanti. certo alla fine sceglie la fuga non risolta (“poi ti scrivo…vedrai ti spiego”) su un treno che emblematicamente poi non parte e rimane bloccato, lì nella stazione, lasciandolo solo in un vagone desolato, a meditare sul suo – certo provvisorio per carità – senso di squallore. il passo successivo non è stata la liberazione da questo residuo maschilismo ma l’eliminazione dei sensi di colpa e l’esibizione orgogliosa del proprio privato controverso, meglio se in tv: “i miei genitori, due vecchi intronati /per mezz’ora si sono insultati/ a c’eravamo tanto amati/ dalla vergogna lo zio evaristo/ s’era nascosto, povero cristo/ lo hanno già segnalato a chi l’ha visto”. (G. Gaber, La Strana famiglia). Pensando a tognazzi (il vero non il personaggio, anche se coerente con esso) che assiste muto al lungo conflitto urlato tra il filosofo Zecchi e il critico d’arte sgarbi in un primo Maurizio costanzo show (programma che
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Fabrizio Meni, Piccolo cinico mondo antico: per i trent’anni da La Terrazza di Ettore Scola
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voleva proprio rendere in tv il senso della Terrazza) e che, quando costanzo gli domanda perché non dice nulla, risponde “scusi, dottor costanzo, data la mia ignoranza, io non ho capito un cazzo”, ci viene da domandarci chi tra gli intellettuali e il comico sia il “nuovo mostro”. Ma ciò che sembra suggerire la visione oggi del film è che il mondo attuale (di tutti gli Zecchi e di tutti gli sgarbi) sia figlio diretto degli anni settanta e del fallimento degli intellettuali di quegli anni. ed è la fine del film a suggerircelo. in uno psicodramma collettivo – come se si fosse giunti alle resa dei conti finale – sbotta l’onorevole (Gasmann) confessando di non riuscire più a sopportare se stesso e tutti gli altri presenti sulla terrazza. soprattutto non ne può più di se stesso: “non se ne può più del dolente erudito che certo ce le ha solo lui le idee giuste ma è, poverino, afflitto impedito, da mille meccanismi che se no …certo metterebbe a posto lui le cose, certo, questo implacabile, fatemelo dire, stronzo! Non vi voglio più vedere, non vi voglio più sentire, voi siete il mio specchio”. Ma il fallimento non sta qua. sta, dopo, quando il produttore (tognazzi) lo interrompe, chiedendogli: “Ma che cazzo dici?”, e Gasmann in una quintessenza di cinismo, tornando al tono colloquiale, risponde: “Boh, ma che ne so!”. e tutti a sedersi attorno a un pianoforte a canticchiare insieme canzoni da avanspettacolo, esattamente come terminano le puntate degli incontri nei “nuovi salotti”, che siano i Vespa o i costanzo o le dame a officiarne i riti poco importa: tutto, come nel film, finisce in cabaret. oggi, gli intellettuali, i maître à penser odierni, coloro che rappresentano insieme la coscienza critica e l’impegno pubblico e politico, sono perlopiù comici e giornalisti. Non fa scandalo se sono privi di spessore culturale e se, come il Ministro tremonti, si vantano in pubblico di non aver tempo di leggere libri. se poi leggono libri e fanno i filosofi sono costretti ad occuparsi dell’ontologia dei telefonini. tutti, in ogni caso, conservano gli stessi profili dei personaggi de La Terrazza: sono lagnosi, verbosi, cinici, persone che pretendono di spiegarti sempre e comunque come va il mondo e quale dovrebbe essere la ricetta giusta per risolvere i problema planetari e vincere le elezioni in italia. si sono adattati alla televisione e al cinema di intrattenimento come forma di produzione culturale primaria. sono perlopiù comici di professione, a loro
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agio nelle atmosfere da cabaret e avanspettacolo, consapevoli che quel palcoscenico sia ormai l’agorà politica del futuro (se il successo personale di Berlusconi dipende anche dalla sapiente somministrazione di barzellette, è del tutto coerente che a contrapporsi politicamente sia un comico come Grillo). Amano la satira e si lamentano se essa viene ostacolata, ma è una satira il cui bersaglio, se non è Berlusconi, è costituito da personaggi che fanno ridere solo perché sono macchiette deformate in cui nessuno ormai crede di riconoscersi, stereotipi ormai ancorati a un passato che si crede presente ma non lo è più. cinicamente mettono in scena i ritratti di nuovi mostri, inconsapevoli – proprio come gli intellettuali de La Terrazza – che i nuovi mostri sono loro. La società di oggi è sempre più abitata da persone che non sono gli orrendi personaggi di destra che parcheggiano in tripla fila e criticano emergency (matrimoni e altri disastri), operai la cui lotta di classe consiste nel sottrarre la retta alla mensa del figlio per pagare il motel in cui fare sesso con una coetanea dal lavoro precario (cosa voglio di più), o tutti i nuovi arricchiti cafoni e coatti in viaggio non importa dove (un cinepanettone a scelta). Per capire il presente bisognerebbe saper comprendere, descrivere e dar conto di cosa sta dietro a ragazze educate, che parcheggiano rispettando il codice, per recarsi a fare il servizio fotografico per il book che possa aprir loro la strada della tanto agognata celebrità come velina, e che senza ricorrere a insulti, sempre così a modo, pensano che siano persone come Gino strada a essere fuori da questo mondo. Nel film lo specchio in cui si riflettono le immagini degli intellettuali che recitano la farsa della loro vita nella Terrazza, è rappresentato da due giovani silenziosi e a disagio in un mondo di uomini, cose e parole a cui sentono di non appartenere e in mezzo ai quali vagano sperduti. se nel film potevano rappresentare la speranza “noi non vi capiamo, quindi non ci riconosciamo, dunque non saremo mai come voi”, a trent’anni di distanza la visione del film ci appare molto meno ottimista. rivediamo in quei giovani, infatti, gli adulti degli anni ottanta e Novanta a loro volta genitori della generazione dei giovani di oggi. Ma questi giovani vagherebbero ancora spaesati tra le stanze in cui, come alieni, discutono i loro genitori sui massimi sistemi? stessa incomprensione? stessa incomunicabilità?
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Fabrizio Meni, Piccolo cinico mondo antico: per i trent’anni da La Terrazza di Ettore Scola
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stesso disagio? e se fosse proprio in questo che gli anni ottanta e Novanta si differenziano dagli anni sessanta e settanta? Aver prodotto, cioè, generazioni non più conflittuali tra loro ma in pacifica e serena convivenza con adulti dai capelli grigi che guardano gli stessi programmi televisivi dei loro figli, che discutono dell’ultimo personaggio del Grande Fratello o di X Factor. che ascoltano la loro stessa musica commerciale, che guardano insieme le partite di calcio in diretta (così numerose da costringere i calendari calcistici a programmare orari assurdi), che trascorrono piacevolmente le loro domeniche nei centri commerciali o tra le finte quinte architettoniche degli outlet dislocati nei nodi autostradali, consapevoli che l’evasione fiscale è da furbi… È che è di questo che in tv sono chiamati spesso a discutere gli intellettuali di oggi: di X Factor, di calcio, e quand’anche si occupano di cultura lo fanno riducendola a gossip, come la divulgazione della storia in tv o nei libri più venduti dimostra. Ancora una volta è profetica la canzone che fa da colonna sonora al film: “l’anno che sta arrivando tra un anno passerà /io mi sto preparando/ è questa è la novità”.
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NOTE 1. L. dalla, il duemila un gatto e il re. 2. c. Magris, in “corriere della sera” del 2 novembre 1993, cit. in G. crainz, Autobiografia di una repubblica, roma, donzelli, 2009; pag.4. 3. A. Baricco a e. scalfari, A proposito dei nuovi barbari in La Repubblica del 21 settembre 2010. 4. P. sloterdijk, critica della Ragione cinica, Milano, Garzanti, 1992. 5. “evadere il fisco e portare i soldi in svizzera, questo fu il comportamento di gran parte della borghesia italiana”. G. carli, cinquant’anni di vita italiana, in G. crainz, Autobiografia di una repubblica, cit.; pag.85.
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Adelio Ferrero tra circolo del cinema, teatro comunale e dAMs di Bologna
Nuccio Lodato All’inizio degli anni settanta il circolo del cinema di Alessandria, pur mantenendo ancora salda la barra della propria attività, che si sarebbe protratta comunque fino alla stagione 1974-’75 compresa, cominciava probabilmente, com’è peraltro prima o poi inevitabile per simili organismi volontaristici, a perdere la propria spinta propulsiva. L’attività dell’annata iniziale del nuovo decennio, la ‘70-’71, infatti si svolge ancora, e significativa, ma fa registrare un netto ridimensionamento quantitativo. i titoli proposti, fra cinema “Galleria” e “Ambra” (l’accoppiata dei due locali ha cominciato a funzionare con la precedente mandata sociale 1967-’68) sono soltanto undici, contro i quasi venti tendenziali delle stagioni precedenti, almeno dal 1964-’65 in poi. e risultano inoltre tutti – ad eccezione dei primi due, Evviva la libertà di William Klein e Sierra maestra di Ansano Giannarelli, entrambi del 1968-’69; si può aggiungere volendo Le petit soldat di Godard, risalente al ‘60 ma allora uscito in italia da poco – classici di altissimo livello ma proposti, di fatto, in retrospettiva.1 Va da sé come, in una ricostruzione anche dell’intero dopoguerra culturale alessandrino, alle vicende del circolo del cinema di Alessandria vada riconosciuto un ruolo centrale. Non soltanto perché il suo itinerario è collegato inscindibilmente, attraverso l’elaborazione continuativa di venti stagioni, alla crescita intellettuale e metodologica di un personaggio centrale nel panorama della critica cinematografica nazionale quale Adelio Ferrero. Ma per la singolarità e la rilevanza, già anche soltanto cronologica e quantitativa,2 di un’esperienza che, nel suo insieme, trascendeva i limiti stessi dell’orizzonte cittadino, per divenire un esempio abbastanza emblematico di un modo insieme scomodo e costruttivo di fare cultura, partendo dal-
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Nuccio Lodato, Adelio Ferrero tra Circolo del cinema, Teatro comunale e DAMS di Bologna
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l’italia del centrismo per giungere, nella fase estrema, a quella effimera dell’unità nazionale attraverso i lunghi anni delle illusioni riformiste del centro-sinistra. L’interesse personale di Adelio – che era nato nel 1935 – non soltanto per il cinema e la cultura cinematografica, ma anche per la sua organizzazione e diffusione, era del resto stato precocissimo. Già nel 1952, a diciassette anni, da semplice tesserato, indirizzava una lettera ai dirigenti del precedente cine club di Alessandria, denotando già una notevole chiarezza di idee rispetto all’intrapresa che avrebbe iniziato di persona tre anni dopo, 3 allorché avrebbe “imposto alla città il circolo del cinema”.4 La prima metà degli anni sessanta aveva certamente rappresentato il periodo più fiorente per la diffusione capillare della cultura cinematografica anche in provincia, sia pure realizzata secondo modelli che provenivano ancora sostanzialmente dall’immediato dopoguerra, e mutuavano a loro volta in non piccola parte da iniziative soprattutto universitarie, spesso nei fatti già di opposizione, al di là dell’etichetta ufficiale appostavi dal regime, presenti a partire dal secondo decennio del fascismo. Le due linee principali di espressione dell’attività del circolo, quella ordinatrice delle rassegne di proiezioni e quella editoriale di quaderni finalizzate a commentarle, proseguono sistematizzate, inalterate e coerenti fino al ‘68. Nella programmazione della prima metà del decennio non sfuggivano già elementi anticipatori di quel sano cataclisma: l’attenzione meditata al lavoro ancora comune dei due taviani e di orsini; la proposizione di un clima già terzomondista e pre-sessantotto presente per un verso in Labanta negro di Nelli, per un altro naturalmente ne I pugni in tasca di Bellocchio o, volendo, addirittura nel precorrittore I fucili degli alberi di Jonas Mekas. Ma non tutti i titoli proposti, pur nella loro assoluta inattaccabilità, sono dovuti e scontati: già Il bandito delle 11 di Godard nell’annata ’66-’67 e I dannati della terra del solo orsini in quella successiva (sono anni nei quali la lettura della traduzione di Franz Fanon proposta da einaudi è giustamente di prammatica...) sono altri fra i film insieme denotanti e propizianti un certo quale clima. A questa svolta di per sé comunque nell’aria, si aggiungerà il sopravvenuto innamoramento inusitato di Adelio per i classici della comicità statunitense muta, e in particolare per chaplin e per Keaton
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(rispettivamente Vita da cani e Il pellegrino del primo, Accidenti che ospitalità! e The Playhouse del secondo, nell’annata ‘66-’67 al cinema “Galleria”...), culminante nello straordinario saggio keatoniano dato alla bella rivista palermitana “Problemi” di Giuseppe Petronio,5 preceduto dall’altro su Pasolini6 che avrebbe costituito uno dei prodromi-promessa7 del suo volume monografico sull’autore, che sarebbe uscito per la prima volta a pochi mesi dalla sua scomparsa.8 L’approfondire chaplin porterà per una penultima volta ad Alessandria per una conferenza Guido Aristarco, fondatore e direttore del quel “cinema Nuovo” cui Adelio collaborava già dal ’56 e di cui era diventato la prima firma dopo il direttore: la sua ultima venuta sarà nel ‘70 per Zabriskie Point di Antonioni, poco prima della rottura personale e metodologica.9 Questa chiusura e insieme le connesse nuove aperture di interessi e punti di vista sono tra le fondamentali chiavi di volta per intendere la maturazione profonda e per certi versi ancora inesplorata degli ultimi anni, quella del successivo Ferrero “americano” ed “eclettico” di “cinema e cinema”:10 una svolta che purtroppo non avrà il tempo di manifestarsi compiutamente in un lavoro di ricerca e sistemazione che rimarrà acerbamente troncato di punto in bianco. Ma questo sarebbe stato già il poi: un poi anni settanta, oltretutto, successivo al lungo tratto di storia comune di Adelio Ferrero e del circolo del cinema: quando entrerà in incubatrice e vedrà la luce il progetto della nuova rivista edita da Marsilio, con tinazzi, Fink e Pellizzari, e i giovani incontrati nel frattempo lungo il cammino universitario lombardo prima, emiliano poi. Adelio infatti, dall’inizio del nuovo decennio, aveva già separato, almeno quanto a oneri e cariche, il proprio itinerario da quello del sodalizio alessandrino, cui resterà beninteso vicino fino all’esaurirsi progressivo della sua attività, a metà del suo trascorrere.11 dopo un anno trascorso a Pavia – il ‘72-’73, sotto gli auspici di Maria corti e con un indimenticato corso monografico su ejzenstejn12 – Ferrero non esita a raccogliere l’invito pressante di umberto eco e Ferruccio Marotti, per entrare a far parte fin dalla fondazione della nuova straordinaria avventura (per allora assolutamente inedita e straordinariamente innovativa) del dipartimento arte musica cinema inaugurato dalla Facoltà di lettere dell’università di Bologna. congiunto alla dislocazione bolognese
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della redazione della nuova rivista, l’asse degli interessi e degli stimoli di Ferrero si sposta irreversibilmente verso l’emilia-romagna, e trova un altro interlocutore centrale nell’altrettanto neocostituito ufficio cinema del comune di Modena: ne usciranno nel breve volgere dei pochissimi anni che gli restano (1974-77), tre realizzazioni straordinarie: il catalogo degli autori emiliano-romagnoli, i cicli pluriennali di lezioni modenesi che daranno addirittura luogo a una nuova Storia del cinema in quattro volumi, e le grandi manifestazioni, sempre modenesi, in memoria e onore di Luchino Visconti scomparso l’anno prima.13 se la stagione ‘68 nel suo insieme, e l’ultima parte del ‘67 paiono ancora confermare la falsariga della linea definitasi in uno stratificarsi ventennale di attività, sebbene in termini sempre più “ideologici” e risentiti (la ricognizione del primo Pasolini, dopo un dibattito sul Vangelo dell’autunno ‘64: “accesissimo”, come scriverà a caldo Foà nell’editoriale del “quaderno” immediatamente successivo, “anche se macchiato da interventi sbagliati nella forma e nella sostanza”: e il riascolto e la pubblicazione del testo a molti anni di distanza gli daranno pienamente ragione),14 la svolta è in realtà già in atto. La registra, prima ancora delle scelte di programma degli anni successivi, l’ultimo quaderno, quello del ‘68-’69, che non a caso diviene, da bianco, rosso in copertina, effigiandovi in soprappiù un’interprete de La cinese (sebbene sia Juliet Berto e non Anne Wiazemsky come erroneamente attesta la didascalia...) e apre debitamente col documento pesarese del Movimento studentesco del maggio 1968 e con quattro interventi studenteschi al suo riguardo, che oggi sarebbe forse divertentissimo, sebbene un po’ ingeneroso, poter discutere con gli estensori. simpatia e contiguità del sodalizio con l’incubazione del movimento studentesco cittadino non erano del resto novità estemporanee del giorno: “il circolo salutava con soddisfazione la nascita dell’orsA, l’organismo rappresentativo degli studenti alessandrini, e non a caso suoi componenti come Brunello Mantelli finirono per entrare nel direttivo del circolo stesso e per scrivere sui suoi “Quaderni”. “La sintonia che si determinò tra il circolo e il movimento studentesco negli anni della contestazione, evidente anche nelle scelte fatte nella programmazione dei film, era già prevedibile nelle ricorrenti analisi critiche che fin dalla sua fondazione aveva mosso
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verso la scuola e gli insegnanti”.15 se continua infatti la triplice linea “grandi” (tutto ejzenstejn), “irrequieti” (recupero di dassin, altro Kubrick, fantapolitici americani), riprese e aggiornamenti di autori amati o comunque frequentati (Visconti e Fellini, Losey e i taviani, orsini e resnais, gli inglesi indipendenti: e dentro ci sono già film sessantotteschi in servizio permanente effettivo, da La guerra è finita a Sovversivi, dal citato I dannati della terra a morgan matto da legare), si affacciano preoccupazioni e urgenze nuove, che superano anche il ristretto ambito tradizionale delle rassegne di lungometraggi di fiction. Ai consueti dibattiti con l’intervento di Aristarco fanno luogo proiezioni di film militanti studenteschi,16 serate sulla nuova psichiatria basagliana,17 spettacoli teatrali per allora di rottura come Orgia di Pasolini interpretato da Laura Betti.18 il tutto, sotteso a quell’ampio movimento di massa che fu davvero, a livello studentesco e operaio, il ‘68 e postsessantotto alessandrino, che alimentò poi, almeno fino al ‘75, un’esperienza di nuova sinistra, per i limiti anche demografici della città, tra le più variegate e coriacee d’italia: sebbene, e non a torto, sempre osservata da Ferrero con un sottile, affettuosamente aderente e tuttavia ironico, quasi “brechtiano”, scetticismo fiancheggiatore. certo, riparlando di queste cose oggi, sembra di discorrere della protostoria di Marte... del resto, anche la ricerca del pubblico di lettori della stessa nuova rivista tiene conto direttamente della lezione e dell’esperienza di quegli anni. dichiarano infatti, nell’editoriale di apertura, i suoi promotori: L’interlocutore al quale guardiamo è, essenzialmente, quel nuovo pubblico che ha conservato, dalla “svolta” del ‘68 e dei suoi sviluppi, la misura e la capacità di un alto grado di politicizzazione dell’esperienza culturale, ma che ne sta scoprendo o riscoprendo, oggi, le forme e le tensioni specifiche, irriducibili alla misura stretta della formula agitatoria, o, peggio, della gretta gerarchia dei contenuti “positivi”. È un pubblico frammentato e disperso nelle università, nei circoli del cinema e nei cineforum, nei “gruppi” e nelle nuove aggregazioni politico-culturali, ma anche nelle sale d’essai e nelle normali sedi di spettacolo. A questo pubblico si vorrebbe saper
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offrire uno strumento non neutrale di lettura e di orientamento, non intimidatorio e con pretese risolutive, ma neppure onnicompresivo e pacificante; un’occasione di ripensamento e di dibattito; un ventaglio di materiali e di documenti utilizzabili nell’immediato ma con un potenziale di durata e continuità.19
dopo la contestazione veneziana del ‘68 e le amarezze conseguenti,20 anche l’intero ambiente cinematografico italiano nel suo clima di fondo risulta profondamente diviso: seguiranno lunghi e lenti anni di contrapposizioni, di distinguo, di polemiche e di diffidenze, peraltro preferibili a quelli successivi, ancora direttamente più vivi nella nostra memoria, fatti di trasformismi e di accomodamenti, di transazioni inopinate e di disinvolture estreme. si pensi solo al fatto che il Palazzo del cinema del Lido non riuscirà più a riaprire i battenti alla Mostra fino al 1975, quando la nuova direzione di Giacomo Gambetti (che avrà proprio Adelio tra i più fidati amici e consulenti ufficiosi...) troverà il coraggio di dischiuderli nuovamente. La programmazione del circolo a cavallo tra i due decenni risente fatalmente (ma sarebbe stato negativo il contrario) di questo stato di cose, ma riesce anche, per così dire, a registrarlo con sensibilità ed equilibrio. recepisce infatti il meglio del cinema di quegli anni nelle sue insoddisfazioni e irrequietezze, affiancando il “nuovo” al vecchio con un’assai opportuna dosatura. Ma intanto si interrompono le attività editoriali, e in qualche modo subentra anche ad Alessandria quella crisi di convinzione interna, prima che di credibilità esterna, quella sensazione di vivere già in ogni caso e comunque una sorta di dopostoria, che sarà del resto propria di tutto il movimento associazionistico culturale italiano agli inizi degli anni settanta. i “lavori in corso”, beninteso, vengono portati brillantemente a termine: Bresson, ejzenstejn ancora (con l’insperato recupero dei magri frammenti sopravvissuti del Prato di Bezin), Godard, Losey, Buñuel, Welles e tanti altri finiscono di sfilare, in ordinata successione, sugli schermi mattutini domenicali del “Galleria”, che nel frattempo già da vari anni ha sostituito il “Moderno”; e con loro, diretti segni dei tempi nuovi, i durissimi sudamericani, il Godard diverso e più politicizzato, in procinto di fatto di abbandonare per sempre il cinema di circuito commerciale, gli italiani più radicalizzati e gli americani maggiormente contestativi.
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tante cose sono insomma cambiate, e nel cinema e nel modo di seguirlo. La presenza e l’attività del circolo si fanno di volta in volta più discontinue, la ripresa e la continuazione del discorso appaiono a ciascuna ripresa stagionale un po’ più “faticose”, quasi lievemente costrette dall’onor di firma. Le chiamate universitarie (c’era stato in precedenza un breve periodo anche alla statale di Milano, che peraltro sarebbe stata paradossalmente l’ultima tra i grandi atenei italiani a dotarsi di insegnamenti ufficiali di cinema) come s’è visto conducono Ferrero sempre più lontano da Alessandria, e la sua assenza inevitabilmente pesa.21 Quando un’intrapresa di quel livello si porta avanti da venti stagioni, è inevitabile si facciano prima o poi largo non soltanto l’assuefazione e la ripetitività, ma anche una certa qual umanissima irritazione e insofferenza, soprattutto qualora si registri come l’adesione della cittadinanza decresca anziché incrementarsi. Per la verità in italia, già dalla seconda metà degli anni sessanta, erano maturati anche altri modi di occuparsi del cinema e di accostarvisi, di studiarlo e di farlo. Ma esperienze come quelle delle riviste “ombre rosse” e soprattutto “cinema & Film”, la trasposizione italiana della lezione della critica francese, una serie di processi rivalutativi di fondo (il cinema americano classico, rossellini e via dicendo), l’affermazione dell’underground internazionale, sono fenomeni che restano, sulle prime, clamorosamente assenti dall’esperienza alessandrina, così come, ad esempio, il nuovo dibattito linguistico che si accende, stimolato soprattutto, in italia, da Pier Paolo Pasolini e Galvano della Volpe, a cominciare dalla mostra di Pesaro del ‘67, e l’applicazione dello strutturalismo alla critica del film, pur con tutte le lacune e mistificazioni con cui finisce per manifestarsi. e non è un caso, considerando questo parziale “vuoto” di risposte e corrispondenze aggiornate, che prendano a sorgere in città, negli anni settanta, nuove e diverse esperienze, a cominciare da quella de “l’Angelo Azzurro” di spinetta Marengo, e poi di Valmadonna e Alessandria (come “entrata Libera”, al n. 78 di via trotti, tra il ‘74 e il ‘77: tocca così per un breve periodo anche la nostra città la soluzione del filmclub stanziale a programmazione “privata” continuativa, sul modello del “Filmstudio 70” di roma, del Movie club di torino e del cineclub Brera di Milano).22 Per questa nuova via gli appassionati alessandrini vedono il cinema off ameri-
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cano, italiano ed europeo, quello “eccessivo” e delirante degli spielberg e dei ray; narrativo ed epicizzante dei Ford e degli hawks; riscoprono totò e il fantastique. tutte cose, anch’esse, ovvie e acquisite da tempo oggi: un po’ meno allora, in anni piuttosto difficili di tensioni e di sospetti, che non mancano peraltro di vedere spesso Ferrero personalmente nelle platee di spinetta, come di Valmadonna e di via trotti: e non c’è cartellone di “entrata Libera” che non passi, a livello di confronto e di consiglio, come anche di amichevole polemica o di battuta sarcastica che toglie la pelle, dal semplicissimo ma accogliente studio di via Lombroso, n. 6, al terzo piano, dove Adelio lavora senza parsimonia e riceve – con gran rispetto del proprio tempo e di quello altrui... – quando si trova in città.23 La fine di questa storia può forse datarsi alla serata del 24 marzo 1975, quando l’Alessandria cinematografica “che conta” si ritrova finalmente tutta compatta nella scomoda platea di “entrata Libera”, ad ascoltarlo mentre parla del senso e delle intenzioni della sua nuova rivista, “cinema e cinema”, con Giovanna Grignaffini e Leonardo Quaresima. Proprio in quella primavera ‘75, non a caso, le proiezioni de La cerimonia di Nagisa oshima e de Il rito di ingmar Bergman concludevano definitivamente, al vecchio caro cinema “Ambra” oggi funzionante a singhiozzo e ufficialmente chiuso, la ventennale attività del circolo del cinema di Alessandria, i cui dirigenti avevano cercato vanamente di convincere Ferrero a presentare la rivista “da loro” anzi che al nuovo circolo.24 Negli anni immediatamente successivi, l’arco di tempo compreso tra le elezioni amministrative del 1975 (con una vittoria della sinistra rasentante l’incredibile) e il 1977, giunge a maturazione il dibattito sulla nuova municipalizzata Azienda teatrale alessandrina (AtA) di cui Adelio viene indicato unanimemente come primo presidente, purtroppo solo tre mesi prima della sua repentina scomparsa, il 22 settembre 1977: “come presidente Adelio Ferrero, uomo carismatico della sinistra alessandrina, docente universitario e critico cinematografico, lucido intellettuale, convinto e coerente sostenitore dei valori del pluralismo culturale, autore di quelle ‘linee programmatiche di politico-culturali’ sulle quali si sarebbero poste le basi e impostate le prospettive di attività del nuovo teatro. Purtroppo, pochi mesi dopo Adelio Ferrero prematuramente moriva e non potrà pertanto
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partecipare all’inaugurazione di quel nuovo teatro per il quale tanto e con tanta passione aveva dato e si era battuto”.25 una valutazione complessiva dell’esperienza del circolo resta, nonostante tutto, non facile, non foss’altro che in ragione dell’insufficiente possibilità di raccordare dati locali e nazionali in una prospettiva culturale coerente e unitaria. È certamente innegabile che, grazie soprattutto alla rilevanza dei suoi animatori e alla vastità delle adesioni, specie negli anni sessanta, unitamente a quella di altri centri di media entità del Nord, neppur necessariamente capoluoghi di provincia (da Monza a ivrea a sestri Levante, ad esempio), l’esperienza alessandrina sia stata un momento cui da più parti si è guardato con notevole considerazione. solo l’intervenuta inaugurazione del teatro comunale, obiettivo peraltro tenacemente perseguito dal sodalizio per l’intero arco della sua esistenza, pur nella sostanziale consapevolezza che l’inizio dell’attività dell’uno avrebbe comportato fatalmente almeno un ridimensionarmento o un mutamento di quella dell’altro, sullo scorcio del 1978, avrebbe concorso a una prima ridefinizione dei termini del panorama culturale alessandrino. un’eredità concreta di quel periodo sarebbe stata comunque trasmessa al successivo: anzi, era giacente e riscuotibile già da alcuni anni.26 si tratta proprio del già documento programmatico sull’attività cinematografica, teatrale e musicale della futura AtA, redatto proprio da Adelio Ferrero nel 1972, e approvato dal consiglio comunale, congiuntamente al primo regolamento speciale della nuova municipalizzata teatrale, tre anni più tardi.27 Quel testo si proponeva di condensare e proiettare in avanti anche la lezione fruttificata in quelle venti stagioni. il tempo, si sa, macina tutto e non è questo il luogo né l’occasione di una polemica. Ma è difficile tacere l’impressione che se quell’elaborazione, per molti versi certo inevitabilmente superata a quasi quarant’anni dalla sua stesura, come lo stesso Ferrero sarebbe stato certo il primo a constatare ovviandovi, avesse avuto lettori più assidui e umili di altri ancora ben attuali passaggi, alcune delle evidenti aporie in cui versa oggi il teatro comunale, pur nell’incredibile mole di attività dispiegata nei trentadue anni antecedenti l’ancora più incredibile tragedia dell’amianto, sarebbero risultate di più agevole superamento. e potrebbero esserlo, volendolo, ancora oggi.
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Nuccio Lodato, Adelio Ferrero tra Circolo del cinema, Teatro comunale e DAMS di Bologna
Note e discussioni
Quaderno di storia contemporanea/48
Note e discussioni
NOTE 1. Gli altri film della stagione 1970-‘71, che seguirono, in ordine di programmazione, i già citati, furono: gertrud di dreyer; germania anno zero e La presa del potere di Luigi XIV di rossellini; Il circo di chaplin; una vampata d’amore di Bergman; La divina di cromwell; Il seme della violenza di richard Brooks e Lo spaccone di robert rossen. in realtà anche Il circo, Gertrud e Luigi XIV, pur risalendo rispettivamente agli anni 1928, 1964 e 1966, erano entrati allora, per riedizione o in prima visione, nel circuito distributivo assai di recente. Per i dettagli sull’attività e la dirigenza del circolo nel ventennio 1955-1975 non posso che rimandare al peraltro introvabile quaderno da me curato: Trent’anni di cinema e cultura ad Alessandria (1955-1985) [numero unico in occasione del trentennale di fondazione del circolo del cinema di Alessandria, con cinque studi su Orson Welles di Adelio Ferrero], Gruppo cinema Alessandria, s.d. (ma 1985). La scelta di privilegiare le peraltro splendide pagine di Adelio sull’autore di Quarto potere era stata compiuta all’ultimo momento, nell’autunno, essendo Welles mancato il 10 ottobre di quell’anno. una manifestazione a ricordo del trentennale si tenne alla sala “Ferrero” del comunale la mattina di domenica 20 novembre, con la proiezione de La marsigliese di Jean renoir, esattamente come era accaduto trent’anni prima al cinema “Moderno”, allorché il circolo del cinema aveva inaugurato la propria attività. 2. oltre duecentocinquanta titoli di film proposti dal 1955 al 1975; cinque quaderni; molti incontri e iniziative; infiniti dibattiti; una scheda a film. cfr. in merito e. Foà, L’organizzazione della cultura, in “cinema e cinema”, n. 14, gennaio-marzo 1978; pag. 99; id., Adelio Ferrero e il trentennale del circolo del cinema, in “La Provincia di Alessandria”, n. 278, gennaio-febbraio 1986 (poi in id., Scritti, a cura di N. Lodato, Alessandria, istituto “Gramsci”- Gruppo cinema “enrico Foà”, 1996; pagg. 64-66). 3. N. Lodato, Il cineclub Alessandria 1952, col giovane Adelio Ferrero spettatore critico, in “Nuova Alexandria”, n. 1, gennaio-febbraio 2002; pagg. 25-32; A. Ballerino, Nonsolonebbia. Teatro, cinema, vita culturale ad Alessandria, Alessandria, Falsopiano, 2002; p. 23; V. Agnoloni, Il laboratorio della critica: una storia del Premio “Adelio Ferrero” (tesi di laurea, relatore roy Menarini), Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea in dAMs - cinema, università di Bologna, a.a. 2002-2003; pag. 124. 4. e. Foà, L’organizzazione della cultura; pag. 99; (poi in id., Scritti, cit.; pag.50). 5. A. Ferrero, Buster Keaton e l’epica dell’involontario, in “Problemi”, n. 36-37, aprile-settembre 1973. 6. A. Ferrero, L’ultimo Pasolini e il mito dei popoli perduti, in “Problemi”, n. 34, ottobre-dicembre 1972. La collaborazione di Adelio al periodico di Petronio, edito a Palermo da Palumbo, era iniziata lo stesso anno col precedente saggio Francesco Rosi e il cinema della “sopraffazione” (n. 32, aprile-giugno). 7. L’altro era già stato costituito dal precedente saggio Pier Paolo Pasolini apparso sull’ultimo numero (15-16, 1968) della rivista pavese “inquadrature”, fondata e diretta da Lino Peroni. 8. A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Venezia, Marsilio, 1977 (e numerose riedizioni successive). 9. G. Fink, A. Ferrero, G. Aristarco, G. corbucci, Ancora alla ricerca di una credibilità. ma quale?, in “cinema Nuovo”, n. 208, novembre-dicembre 1970; pagg. 420-428.
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10. il primo numero di “cinema e cinema”, con redazione a Bologna e casa editrice (Marsilio) a Venezia, esce, diretto da Adelio Ferrero, nell’autunno del 1974. 11. L’ultima stagione attestata documentalmente di presidenza diretta di Ferrero nel comitato direttivo del circolo risulta la ‘68-’69. Negli anni settanta, sotto la guida di roberto Prigione (che aveva ricoperto la carica di segretario per un decennio, dal 1961-62) coesisteranno negli ultimi direttivi esponenti “storici” (Liviana Gallione, Giuseppe Pasero, Marisa Vescovo) e nuovi entrati (tra gli altri silvana dameri, Maurizio Franzini, carlo Leonzino, daniela Maldini, Mauro regalzi, corrado ed elio rossi, Gian Luca Veronesi). 12. Proveniente dall’allora istituto Magistrale “saluzzo” di Alessandria, e ancora costretto per qualche anno a contemperare i due diversi insegnamenti, avendone la possibilità grazie all’illuminata collaborazione “oraria” del preside ezio Garuzzo, che si estenderà anche ai primi anni bolognesi, Adelio intraprende con estrema serietà e impegno la nuova carriera universitaria, preoccupatissimo dall’aver constatato come non tutti gli studenti avessero “la stessa preparazione filosofica” (tornasse oggi!!). 13. A. Ferrero (a cura di), Storia del cinema, Venezia, Marsilio, 1978-1980 (quattro volumi); Visconti: il cinema (catalogo critico), comuni di Modena e reggio emilia, 1977. 14. cfr. la trascrizione del testo in A. Ferrero, G. callegari, N. Lodato (a cura di), Pier Paolo Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, comune di Alessandria-Provincia di Pavia, 1977. 15. A. Ballerino, Nonsolonebbia, cit.; pag. 121. 16. Della conoscenza di Alessandra Bacchetti. 17. con la presentazione del documentario di Michele Gandin La porta aperta, e la partecipazione del più stretto collaboratore di Franco Basaglia: Giovanni Jervis. 18. debutto organizzato direttamente dal circolo al teatro del Vescovado. 19. cinema e cinema, in “cinema e cinema”, n. 1, ottobre-dicembre 1974; pagg. 4-5. 20. A. Ferrero, c. Jubanico [alias G. Aristarco...] (a cura di), chiarini, il Leone e altri animali, in “cinema Nuovo”, n. 195, settembre-ottobre 1968; pagg. 332-256. 21. Ma non gli impediscono di continuare a contribuire in modo attivo e generoso alla vita cultuale cittadina come conferma ad esempio l’organizzazione del memorabile convegno di Palazzo cuttica sul teatro di Bertolt Brecht, con gli interventi, oltre che direttamente suo (Brecht, il cinema e la “cattiveria del nuovo”) di cases, Martinotti, Giorgio Manacorda, Paolo chiarini e Buonaccorsi (e i successivi atti a sua cura: Brecht oggi, Milano, Longanesi, 1977). 22. cfr. A. Ballerino, Non solo nebbia, cit.; pagg. 141-146. 23. Ferrero avrebbe addirittura chiesto a “entrata Libera” di organizzargli la proiezione privata di tutti i film reperibile di robert Bresson, per la stesura della sua monografia sul maestro francese (A. Ferrero, Robert Bresson, Firenze, La Nuova italia, 1976: poi ripresa e aggiornata da chi scrive, Milano, editrice il castoro, 2004). 24. A tale data si possono quindi idealmente ascrivere i tracciati di due distinte traiettorie: quella lunga e fondamentale del circolo del cinema, e quella breve ma scomodamente stimolante dei nuovo filmclub. L’una e l’altra, di fatto, anch’esse oggi senza memoria: non sappiamo quale e quanta diversa documentazione sia sopravvissuta delle due attività e, nell’improbabile caso positivo, nelle mani di chi si trovi attualmente. 25. L. Bassi, Teatro e teatri in Alessandria dal 1700 ad oggi, BcA studi e ricerche, comune di Alessandria 2009; pag. 233.
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26. Altra eredità sarebbe stata naturalmente, sul piano operativo, la fondazione del 1980 del Gruppo cinema Alessandria, dal 1992 dedicato alla memoria del suo cofondatore enrico Foà, e tuttora operante (A. Ballerino, Non solo nebbia, cit.; pagg. 244-257). 27. A. Ferrero, Linee programmatiche di politica culturale, in “cinema e cinema”, n. 14; pp. 20-28. oggi probabilmente più di uno definirebbe il testo “ideologico”...
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Adelio Ferrero, il PsiuP e la nascita dell’AtA. intervista a Luigi capra
Adelio Ferrero fu tra i fondatori del PSIuP in Provincia di Alessandria, assieme a te, a giorgio canestri, Wanda Antiporta, mario Verna e Angelo Rossa. ci parli di quegli anni? che ruolo aveva Ferrero in quel gruppo? Ricordi altri protagonisti di quella stagione? La risposta esige una premessa. i fondatori del PsiuP alessandrino furono protagonisti all’interno della Federazione del Psi di una vivace stagione politico-culturale negli anni 1955-’62 che andò concretizzandosi nella adesione e nell’organizzazione della corrente “Alternativa democratica” di Lelio Basso la quale ebbe sempre notevoli consensi in città e provincia a partire dal congresso socialista di Napoli del 1959. uscito da un rapporto di subordinazione al Pci, soprattutto dopo i fatti di ungheria, come testimonia già il dibattito del congresso nazionale di torino (1955) e soprattutto di Venezia (1957) a cui Ferrero, poco più che ventenne, partecipò come delegato, il Psi andò assumendo un nuovo ruolo nella politica italiana. d’accordo con la funzione autonoma del Psi nell’ambito però di tutta la sinistra, Alternativa democratica sosteneva la necessità di non perdere di vista il rapporto fra partito e movimento, rifiutando l’unificazione con il partito socialdemocratico che esigeva l’unità ideologica e il discorso con i cattolici che ignorava la realtà della dc. da qui il rifiuto di appoggio e partecipazione a un governo con la dc che avrebbe comportato un ruolo subalterno dei socialisti. rifiuto che diede luogo prima all’astensione e poi alla sfiducia di 24 deputati socialisti motivata dall’intervento di Basso alla camera. Ne derivò la scissione, la convocazione di un’assemblea nazionale costituente a cui parteciparono gli alessandrini
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Luigi Capra, Adelio Ferrero, il PSIUP e la nascita dell’ATA.
a cura di Alberto Ballerino e carla Nespolo
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di Alternativa, dopo il lucido intervento di Giorgio canestri al 35° congresso Provinciale del Psi. Nell’Assemblea costituente nacque il Partito socialista di unità proletaria a cui aderirono ad Alessandria quasi tutti i bassiani. del PsiuP fecero subito parte, insieme ai compagni nominati sopra, ricuperati, Bonabello, canestri, Livorsi, Marcheggiani, Foco, stella, Piccione. specialmente i suoi primi anni di vita ad Alessandria furono fecondi, caratterizzati da attenzione attiva alla riforma e alla difesa della suola pubblica (un ruolo molto importante svolse Giorgio canestri anche come parlamentare) , alla vita dell’ente locale, alle rivendicazioni operaie e contadine, ai movimenti giovanili del 1968 e degli anni successivi. continuava intanto la collaborazione di Adelio Ferrero con “Mondo nuovo” organo, prima della sinistra del partito, poi del PsiuP. Già alla fine degli anni sessanta il clima del PsiuP andò mutando: si affievoliva la ricerca di una nuova strategia rivoluzionaria del sistema, la capacità di iniziativa incominciò a venire meno, prevaleva una progressiva burocratizzazione. Lelio Basso, dopo la sua presa di posizione a proposito dei fatti di cecoslovacchia si dimise dal partito. A soffrirne fu naturalmente anche il PsiuP di Alessandria una parte del quale non ne accettò, tuttavia, lo scioglimento del 1972, convinto della validità di un patrimonio che, pur non esente da contraddizioni, si era venuto costituendo negli anni. tra i contrari c’era anche Ferrero che a scioglimento avvenuto, dopo una delusa attenzione per il PduP-Manifesto, pur non rinunciando alla sue idealità politiche, si diede a un più intenso lavoro di critico, docente universitario e operatore culturale.
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Vorremmo che approfondissi il discorso sulla militanza politica di Ferrero. La militanza politica di Ferrero non ebbe soluzione di continuità. Mi piace soffermarmi comunque sugli anni di adesione ad Alternativa democratica, forse perché furono per me i più esaltanti. Furono comunque anni in cui Adelio partecipò con comizi alla campagne elettorali, introdusse i dibattiti nelle assemblee congressuali, intensificò il rapporto con gli iscritti. Assidui erano gli incontri con Basso in Federazione e nella sua abitazione di Mi-
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lano dove le conversazioni avvenivano in una ricchissima biblioteca in cui trovava spazio la letteratura marxista italiana e straniera (otto Bauer e il filone dell’austro-marxismo, rosa Luxenburg furono da lui introdotti nel dibattito assai povero del socialismo italiano). di Basso si condivideva la convinzione che il rapporto del partito con le istituzioni andava concepito come partecipazione-opposizione, capace di far emergere un moto di rinnovamento dal basso, e il raccordo fra livello istituzionale e quello delle lotte, la crescente attenzione per la realtà politica internazionale.
Adelio fu critico e saggista di alto livello, estremamente convincente per la lucidità della sua scrittura sostenuta da rigore e talora da vis polemica e da pungente ironia. La sua attività di pubblicista fu ininterrotta da quando, appena ventenne, fu redattore delle pagine culturali di “idea socialista” agli anni in cui fondò e diresse la rivista “cinema e cinema”. su “Mondo Nuovo” si occupò soprattutto di televisione e di teatro, saltuariamente di cinema, rivelando una visione organica delle finalità dei mezzi di comunicazione. Mi limiterò a riferire delle sue convinzioni sulla critica televisiva di cui lamentava già nel 1962 la mancanza di una letteratura estremamente utile e necessaria, invece, per un mezzo di comunicazione di massa dalla vita relativamente breve. La lettura di questi interventi, grazie alla pubblicazione anche antologica degli stessi, ne rivelerebbe la freschezza e l’attualità. Quale era secondo te l’idea di cinema di Adelio Ferrero? La risposta esigerebbe un discorso lungo e organico che esulerebbe dalla mia competenza. Mi limiterò a osservare che il discorso del critico cinematografico ha sempre presente il rapporto con il pubblico come si evidenzia nella Storia del cinema, in quattro volumi, pubblicata dall’editore Marsilio negli anni ’78-’81. È un’opera composta da brevi saggi di studiosi italiani nata da una concreta esperienza di intervento culturale: un ciclo di proiezioni e lezioni organizzato dal comune di Modena e coordinato da
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ci può parlare della collaborazione di Ferrero con “mondo Nuovo”?
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Adelio Ferrero che seppe radicarsi nel tessuto socio-culturale della città. Quali erano i rapporti tra Adelio Ferrero e il mondo giovanile, dal circolo del cinema al DAmS? il circolo del cinema di Alessandria, voluto fortemente da Adelio Ferrero ed enrico Foà iniziò la sua attività nel novembre del 1956 e registrò subito una buona presenza di soci che aumentò di anno in anno. rilevante fu la presenza del pubblico giovanile. i giovani furono del resto gli interlocutori privilegiati di Adelio Ferrero che, anche come docente, mostrò interesse e attenzione per i loro interventi e seppe fornire loro utili strumenti di interpretazione della realtà.
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Ferrero si impegnò molto per la realizzazione del teatro di Alessandria, nella forma di azienda municipalizzata. Il progetto, sviluppatosi durante gli assessorati di Delmo maestri e mauro Regalzi, si realizzò con l’allora assessore alla cultura Franco Livorsi. Perché fu così importante quella battaglia culturale, che durò anni? Al dibattito sul nuovo teatro dedicò ampio spazio il circolo de sanctis sorto nel 1956 promuovendo incontri che ebbero vasta risonanza in città. costante fu il dialogo, talora anche polemico, comunque recepito, con le amministrazioni comunali di sinistra e di centro-sinistra. rilevanti furono i risultati conseguiti: la creazione di una struttura gestita da un’azienda municipalizzata capace di dare ospitalità a eventi cinematografici, teatrali, musicali e anche a una produzione locale. Mi piace concludere segnalando l’importanza che nella programmazione delle attività venne attribuita ad una consulta, che il regolamento del teatro voleva “nettamente rappresentativa delle forze sociali, degli indirizzi politici, di circoli culturali dei centri zona della provincia capaci di dare un contributo determinante all’avvio, alla crescita e alla definizione della politica culturale del nuovo teatro”. Ai giorni nostri esiste ed opera ancora un organismo così importante? Adelio Ferrero: i rapporti tra gli intellettuali e il PcI ad Alessandria e la costituzione dell’ATA?
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Luigi Capra, Adelio Ferrero, il PSIUP e la nascita dell’ATA.
il Pci affidò l’elaborazione e la realizzazione di una politica culturale ai suoi amministratori comunali e provinciali e ai dirigenti di vari circoli (penso a delmo Maestri, Mauro regalzi, Franco Livorsi, carla Nespolo e carlo Gilardenghi e ancor prima al Prof. Mantelli e al on. Lozza). il Psi e il PsiuP diedero sempre vita al progetto anche discutendone al loro interno nella commissione apposita. i risultati conseguiti, ad esempio la fondazione dell’AtA, furono per altro il frutto di una permanente collaborazione di tutta la sinistra che unanimamente assegnò la presidenza dell’azienda teatrale ad Adelio Ferrero.
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Kubrick contro tutti o tutti contro Kubrick Gli anni del travisamento critico
La revisione del cinema di stanley Kubrick in italia è relativamente tardiva, e avviene sostanzialmente durante gli anni ottanta, quando Shining, il film horror destinato a far scrivere più di una generazione di studiosi, si impone quale opera “multiplanare”, suscettibile di ammettere ogni tentativo interpretativo come legittimo e capace di inglobare anche gli altri (quello psicoanalitico, sociologico, favolistico, ecc.). una tale situazione amplifica e affina l’attività del critico, che se durante gli anni settanta può affrontare con rigore di metodo l’indagine che sottopone il film al vaglio dell’ideologia o dell’esame storico-critico, adesso è nella complessità “stratificata” del linguaggio che può individuare i moventi dell’indagine. Kubrick è stato tra i cineasti più lucidi e personali del cinema americano del dopoguerra, un autore che dopo le sperimentazioni sul linguaggio dei primi lungometraggi coraggiosamente legati ad un’autonomia produttiva che continuerà negli anni (si pensi alle origini di Paura e desiderio, Il bacio dell’assassino e Rapina a mano armata) approda virtuosamente a un cinema “sospeso nella modernità”, teso e lucido nel comporre una sorta di ambiguità temporale che avvicina qualunque dei periodi storici affrontati (siano questi gli anni futuribili di Arancia meccanica così come i giorni di paradossale escalation autodistruttiva de Il Dottor Stranamore) all’epoca in cui ciascun film è realizzato. i film di Kubrick, che portano in scena un universo contemporaneo permeato dal vuoto pneumatico dell’atemporalità, mentre in un primo tempo vengono apprezzati in italia per il contenuto libertario e progressista di alcuni indiscussi capisaldi della cinefilia internazionale (Orizzonti di gloria fu a lungo il titolo più considerato), dovranno scontrarsi con l’italia dei dogmatismi, per cui un film come Il Dottor Stranamore, nel
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Roberto Lasagna, Kubrick contro tutti o tutti contro Kubrick
Roberto Lasagna
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1964, farà scrivere a un critico altrimenti equilibrato come Fernaldo di Giammatteo che la sola ideologia paventata nel film di Kubrick è il “cinismo”. tra vecchie prurigini antiamericane e rifiuto di un cinema che non si dichiarava realistico nel senso in quegli anni più accreditato, l’opera di Kubrick, che osava portare il disincanto della caricatura nella ricerca spettrale di una verità oltre la maschera, venne a tratti non compreso nel suo grado di superiore coscienza che permetteva a un regista americano di affrontare con il necessario distacco (insieme con un buon grado di “popolarità”) una stagione politica e umana dominata dal pericolo della definitiva scomparsa del pianeta. Kubrick è il regista dei grandi temi che arrovellano l’uomo al cospetto della modernità, un rabdomante della visione “così legato all’attualità da risultare astorico, e tanto attratto da ciò che è sociale e storico da rendere attuale ogni circostanza” (davide d’Alto, Tra l’opaco e la luccicanza, in roberto Lasagna e saverio Zumbo, I film di Stanley Kubrick, edizioni Falsopiano, 1997). Proprio la peculiare attenzione per come i drammi dell’uomo si palesano nel dominio della rappresentazione filmica (che si produce in Kubrick in una sorvegliata e investigante riproduzione visiva e ambientale dei contesti riprodotti) rende i suoi film dei testi destinati a nuove e continue riletture, caratteristica che vedrà il suo lavoro “crescere” nel corso degli anni, quando i più moderni film di denuncia del periodo, celebrati al momento della loro uscita nelle sale, reggeranno con meno vigore alla prova del tempo. Ma in quegli anni, in italia, sono ancora in pochi ad accorgersi che la radiosa “confezione” (la cura attenta per ogni aspetto della realizzazione filmica) nel caso specifico non nasconde una scrupolosa e rischiosa ricerca in quell’archivio dell’enigmaticità che è la realtà, gli elementi identificabili e non sempre conosciuti che fanno la storia di un popolo. il pregiudizio nei confronti de Il Dottor Stranamore, film che seguì di due anni gli scandali del leggendario Lolita (emblema dei rapporti tra cinema e letteratura nonché tra l’America e la sua precarietà), trovava la sua ragione nell’antico atteggiamento degli intellettuali umanistici per ciò che non sembra riflettere in modo realistico (ovverosia serioso) la realtà. Poco importava alla critica che il film di Kubrick riuscisse in quegli anni a imporre la sua visione agghiacciante in modo ben più incisivo di un film
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come A prova di errore di sidney Lumet, che pure prendeva “sul serio” le tragiche conseguenze della guerra fredda. Possiamo cogliere nelle maschere di Stranamore precisi riferimenti a personaggi che ebbero ruoli di protagonisti durante le principali fasi strategiche e militari della guerra fredda. il più importante referente politico per la base del Pentagono è henry Kissinger, il quale molto tempo prima di diventare consigliere di politica estera del presidente richard Nixon, si creò una reputazione come esperto di storia della diplomazia e poi come stratega militare. Nei suoi libri, tra cui Armi nucleari e politica estera (1957) e La necessità di una scelta (1961), Kissinger esortava gli stati uniti a mettere in campo un arsenale disparato di armi nucleari tattiche, in modo da fornire un deterrente alla minaccia sovietica consistente nell’oscura esistenza di un gap missilistico che avrebbe portato presto un ricatto nucleare ai danni degli stati uniti. Questa teoria del “grande complotto” contro gli usA trovò l’appoggio di un numero sconcertante di scienziati e strateghi talora anche transfughi del continente europeo sin dai tempi del secondo conflitto bellico mondiale. È il caso per esempio di edward teller, un fisico nato in ungheria e fuggito come Kissinger dall’europa dopo l’ascesa al potere di hitler. A lui si devono i test del 1952 della prima bomba all’idrogeno (bomba h). con il suo prestigio influì sull’espansione dell’arsenale nucleare in America, opponendosi al trattato per la limitazione dei test nucleari del 1963. in lui erano riunite le caratteristiche dello scienziato politicizzato che il cinema avrebbe fatto conoscere con le sue immagini molto più realiste di quanto la farsa spesso lasci intendere. infine, decisivo per comprendere la compagine istrionica delle figure di Kubrick, è Wernher von Braun, rampollo di una famiglia appartenente alla piccola nobiltà prussiana, quando Adolf hitler giunse al potere nel 1933. divenuto presto, da buon “ragazzo prodigio”, un tecnico chiave del programma missilistico nazista, si unì al partito nel 1940, e finì per persuadere hitler a dare priorità assoluta al programma. Nel settembre del 1944 l’equipe nazista di Peenemuende sul Mar Baltico lanciò il primo razzo V-2 su Londra, mentre alla fine della guerra von Braun fuggì in Baviera così da potersi arrendere agli Americani piuttosto che ai russi. Più avanti, nel 1945, firmò un contratto con l’esercito degli stati uniti, mentre alla fine del 1950 fu trasferito presso l’arsenale militare “redstone”
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Roberto Lasagna, Kubrick contro tutti o tutti contro Kubrick
Note e discussioni
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a huntsville, in Alabama, dove si trovò a dirigere oltre cento tra scienziati e ingegneri tedeschi con i quali aveva lavorato ai tempi di hitler. Ne Il Dottor Stranamore Peter sellers appare nelle vesti di tre personaggi: Muffley, flemmatico presidente degli usA, Lionel Mandrake, comandante in seconda del Generale ripper, e il dottor stranamore che dà il titolo al film, ex nazista il quale dopo la guerra aveva cambiato il suo nome da unwertgliebe. il presidente Muffley si affida devotamente alle parole di stranamore perché lo considera, in qualità di “stregone” delle armi del Pentagono, la super-mente alla quale l’umanità statunitense deve il suo destino. Non ci sono dubbi sul fatto che Kubrick, in questo personaggio agghiacciante, orribilmente mutilato ma sempre con il ghigno smagliante sulle labbra, mescoli elementi di henry Kissinger, del fisico edward teller e dello scienziato missilistico dal passato nazista Wernher von Braun. come il folle Generale ripper (perseguitato dalla paura del “complotto comunista” e variante macabra dell’uomo onnipotente che non controlla la realtà sulla quale pretende invece di ergersi a sorvegliante indisturbato), stranamore è il supremo sorvegliante di un ordine tecnico globale che programma comportamenti, integrazioni dell’uomo con la macchina, senza tuttavia tenere in conto alcuna valutazione “reale” dell’esistenza umana ai diversi livelli politico, psicologico, storico e geografico. Lo spazio dei corpi semiumani e semimacchinici che tanta parte ha nell’universo figurativo di Kubrick, trova in questo personaggio una esemplare raffigurazione, ibrido spettrale che rappresenta un po’, come più tardi Alex di Arancia meccanica, un’immagine esplosa di quegli scambi tra biologico e meccanico ratificati dalla volontà dei potenti sin dai tempi della guerra fredda. Ma se l’epoca di stranamore è, precisamente, il periodo della “distensione” nucleare di Nixon, Kubrick colloca il suo film in un orizzonte speculativo ben più vasto. L’equipe del Pentagono, dominata dal “guru” stranamore, macchina impazzita e spettro dell’umana autodistruzione, porta la nazione a vivere gli sviluppi più “perfetti” e insieme fallimentari della sua evoluzione; proprio nell’incontro con l’europa degli scienziati criminali infatti, l’America mostra qui, accanto alla vanità dei valori e delle norme (la società coca cola che dovrebbe fare causa al capitano Mandrake perché cerca di recuperare in una macchinetta le monete necessarie per fermare la tragedia
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della strage atomica), il fallimento di una cultura pragmatica e reazionaria. Accusare il film di Kubrick di scarso realismo significava, semplicemente, non avere inteso il grado di verità del film. Non soltanto Il Dottor Stanamore ritornava, in un periodo di apparente “distensione”, a inquinare le acque della falsa pacificazione, fissandosi con disperata lucidità sulle ritorsioni di un sistema cibernetico che distrugge tutto quello con cui viene a contatto, a partire da se stesso (Orizzonti di gloria arrivava a considerazioni analoghe, in un’epoca non ancora sospetta, forse non ancora inquinata come la nostra dallo spettro dell’autodistruzione); il film di Kubrick, soprattutto, assemblava le acquisizioni di uno stile volutamente ibrido, sempre in bilico tra il dramma e la commedia nera, per rendere palesi le assurdità di un “sistema” dominato da una razionalità malata perché non autodiretta, ma asservita alla logica delle predeterminazioni che per l’autore rappresenta la regola beffarda e inappellabile del nostro presente. La perdita del controllo dell’individuo dinanzi all’accrescersi della dimensione tecnica si coniuga in Kubrick con la nevrosi di natura erotica e con una spaventosa nevrosi infantile (“con questo spariamo e con questo chiaviam!” cantano le reclute di Parris island toccando alternativamente il fucile e gli organi per la riproduzione in Full metal Jacket, il film sul Vietnam che Kubrick realizza negli anni ottanta). Questo discorso dell’uomo come individuo malato, che sconta una originaria “fissazione” della pulsione di morte come modello della volontà distruttrice che lo determina, è negli anni sessanta il tema di un autore isolato, un indipendente recintato nella libera inghilterra, nella cui magione prepara con perizia leggendaria strabilianti macchine narrative che si possono permettere l’appoggio e la tribuna garantiti dai capitali statunitensi. Mentre in italia si dibatte di realismo e, nei casi migliori, di alienazione, attraverso le inquietudini portate in scena dal linguaggio anticipatore di Michelangelo Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse), nel mondo è già dopo hiroshima che un territorio “sovversivo” come la fantascienza diventa un genere cinematografico a pieno diritto. sul grande schermo internazionale affiorano dagli anni cinquanta le paure della distruzione planetaria, i mostri post-atomici a proiezione di realtà inquietanti, gli alieni terrificanti e il terrore per le popolazioni di altri pianeti che maschera, spesso in modi benissimo riconosci-
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bili, la paura per gli abitanti di altri paesi del globo. Kubrick, autore di un cinema altamente intellettuale, con il 1968 di 2001: Odissea nello spazio, accoglie nel suo lavoro gli sviluppi della fantascienza letteraria migliore, che offre una libertà sui grandi temi e un’estensione delle possibili suggestioni ideologiche in un periodo di cambiamenti importanti, di veri e propri sconvolgimenti nell’assetto politico mondiale e di trasformazioni profonde nei disegni sociali e culturali oltre che nelle aspettative tanto verso una soluzione pacifica dei contrasti internazionali e dei conflitti di classe, quanto verso quell’ottimismo che dopo il conflitto bellico mondiale gli stati uniti hanno propagandato quale portavoce di un mondo ordinato e efficiente, sapientemente gestito da un super-governo tecnocratico. L’ottimismo crolla con l’apoteosi della guerra fredda e dei film che hanno “fissato” sullo schermo il contemporaneo venir meno di ogni illusione: L’ultima spiaggia, Il villaggio dei dannati; in questo clima di acuta inquietudine Losey gira, nel 1961, The Damned, e Godard l’episodio Il mondo nuovo, incursioni di due cineasti nel genere, che possono essere riconosciuti realmente come l’ingresso della science Fiction nel cinema cosiddetto “alto”. e a partire da questo momento il filone fantastico viene a toccare ogni sorta di utopia e di anti-utopia; i mostri, senza dileguarsi, lasciano il posto al discorso sull’uomo e sul suo posto nel mondo di oggi. Alle meraviglie del possibile (pronte a ridestarsi con la New hollywood di Lucas e spielberg verso la metà degli anni settanta) succedono le visioni che partono dalla conoscenza degli orrori della vita nella società contemporanea. sono paure reali, preoccupazioni che testimoniano di una crisi nel controllo dalla propria esistenza, delegata a mani senza cervello e alle parole dei depositari del cinismo; in altri termini, è proprio in film di produzione americana come THX 1138, 2022: I sopravvissuti o Arancia meccanica, e negli europei Deliverance o L’uomo che uccideva a sangue freddo, che affiora la presa di coscienza dell’invivibilità dell’ordine esistente gestito da una “normalità” patologica. 2001: Odissea nello spazio si installa centralmente all’interno del filone, da esso stesso lanciato, dell’utopia positiva, quasi come Arancia meccanica, soltanto tre anni più tardi, sarà un punto di riferimento nel cinema degli orrori della realtà. innovativo e “oltre” i generi, dai quali innegabilmente è spronato, il cinema di Kubrick si prende a carico il mistero dell’uomo di-
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nanzi al suo destino; in 2001 protagonisti sono il viaggio e il discorso sul tempo e sul progresso della conoscenza attraverso la visione utopisticamente reversibile del futuro; è il momento di un “documentario mitologico” che incontra i grandi temi della filosofia contemporanea: l’astronauta Bowman, come lo scienziato Floyd, è l’uomo dalla conoscenza più evoluta per un umano, una conoscenza che tuttavia è quella dello specialista, il quale in vero, secondo una visione husserliana, perché è tale non conosce. il bersaglio polemico sembra qui infatti proprio quello che husserl discute ne La crisi della scienza europea (1935): il vero nemico del progresso conoscitivo diventa, quale estrema conseguenza del razionalismo illuminista, la frammentazione sperimentale dell’oggetto in parti separate, parti che vengono poi affidate alle singole scienze: il risultato di questo procedimento conoscitivo frammentario è, da una parte, la perdita del senso vitale dell’oggetto stesso, dall’altra la disgregazione del soggetto conoscitore, poiché la frammentazione dell’oggetto non può che riflettersi con un analogo risultato sul ricercatore. L’insegnamento per l’astronauta Bowman, come ci induce a pensare lo svolgimento delle immagini, diventa allora un discorso sul futuro dell’uomo nel suo tempo. dobbiamo collocarci in un orizzonte di senso in cui i processi vitali prevalgano su quelli mortiferi: questo risulta essere il vero problema della scienza come della conoscenza. Kubrick, più che in un radicato pessimismo, vorrebbe prodigarsi in un’opera di chiarificazione della condizione umana nell’epoca del mondo generato dall’uomo Frankenstein. Anzitutto, la ragione come appare nel corso della storia attraverso il film non sembra un’esclusiva priorità dell’uomo, ma viene anzi a confrontarsi con quella avanzatissima del misterioso monolite extra-terrestre, che non muta la sua immagine in tantissimi secoli di vita umana, a testimonianza del suo originario ipersviluppo. È forse discutibile l’interpretazione che vede la storia della civiltà e dell’intelligenza in 2001 come assolutamente eterodiretta anziché autodiretta, ma è anche vero che questo ambito di attenzione è forse quello a cui Kubrick sembra tenere maggiormente, soprattutto alla luce di un esame dei film successivi, nei quali la discussione sul libero arbitrio e sull’importanza della ragione nello sforzo di autoliberazione dell’uomo diventa il più duraturo “messaggio” del suo cinema. 2001 assiste la crescita
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dell’intelletto umano fino all’epoca dell’esplorazione spaziale, ipotizzando un contemporaneo confronto con la mente più evoluta e insieme ragionando sulle manchevolezze di quello che siamo soliti chiamare “progresso”. Naturalmente, sul finire degli anni sessanta e per buona parte dei settanta il film di Kubrick viene accolto e valutato più per la “grandeur” spettacolare che per la specificità filosofico-linguistica. troppo facile preferirgli per partito preso la “risposta europea” rappresentata dalla poesia e dalla fantascienza immaginifica del Solaris di tarkovskij. Le evoluzioni del linguaggio, talvolta accolte tra gli sbadigli di una critica prevenuta, non trovavano accoglienza neppure nelle posizioni di un’intellighenzia impegnata tra rossellini e la Nouvelle Vague. Quando poi Kubrick sarà pronto per realizzare i suoi film più evoluti, Arancia meccanica e Barry Lyndon, i tempi saranno maturi per un travisamento pressoché sistematico. Gli strali della censura otterranno di veder relegato il film tratto da Anthony Burgess nel caos dei grandi “eventi scandalistici” che annovera negli anni settanta capisaldi delle persecuzioni censorie come ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci e Salò di Pier Paolo Pasolini. il discorso sulla violenza che Arancia meccanica espone senza il compiacimento che era invece ravvisato nel film da una critica moralistica e involuta, è reso manifesto grazie alla particolare struttura narrativa, alle vicende fatte vivere al protagonista Alex, lo spiritello scanzonato e violento il quale si presenta, sullo sfondo del disagio sociale di un’inghilterra falso-futurista, come vero “orango meccanico”, sintesi di meccanico e biologico, propaggine programmabile di un sistema istituzionale basato sull’oppressione e sulla violenza. La struttura narrativa di Arancia meccanica, sorvegliatissima (a differenza di quanto accade ad esempio a un altro film del periodo sulla violenza in chiave di utopia capovolta, il compiaciuto Rollerball di Norman Jewison), combina gli stili più diversi, dal ralenti al montaggio velocissimo di ascendenza sovietica, ottenendo l’esplosione del racconto, così da superare la pretesa di Stranamore di controllare maniacalmente un congegno narrativo solo apparentemente logico e in realtà paradossale. e si tratta di un racconto modellato sull’esperienza del protagonista Alex (giovane devoto all’“ultraviolenza”), tanto da diventare, almeno nella prima parte, proiezione del suo vitalismo istintuale, e insieme gioco virtuosistico e “sinistro” di
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esaltazione dello spettatore. infatti, la “trappola” istituita dal film è in primo luogo ai danni dello spettatore in sala, il quale vive la violenza di Alex non con turbamento, ma con il divertimento che le immagini sanno suscitare. A questo proposito, la violenza si presenta stemperata dalla cornice spettacolare che la ospita. Pertanto, la struttura narrativa di Arancia meccanica si modalizza in due fasi, come succederà in Full metal Jacket, e Alex incontra alla fine una realtà non più “piacere impiacentito, e divenuto carne” (sono le sue impressioni quando si distende per ascoltare la Nona di Beethoven, sinfonia lisergica della sua vitalità infantile), ma una condizione repressiva e brutale; in altre parole Alex subisce la violenza del sistema, mentre la violenza da lui esercitata dal servizio del principio del piacere poteva sembrare, alla sua incoscienza di menestrello mercificato, come del tutto “fuori dal sistema”. Alex, l’aristocratico figlio di due genitori che la sera prendono il “dormifero” e non si occupano della vita notturna del figliolo, è figura emblematica del vitalismo che pretende di fuggire alla manipolazione della coscienza attuata da un sistema sociale repressivo che, come comandato dal dottor stranamore, intende veicolare l’orizzonte umano verso la forma più agghiacciante di individuo meccanizzato. Fortuna tardiva avrà il successivo film di Kubrick, Barry Lyndon, che nel 1975 è visto da taluni come una fuga nel passato e da altri addirittura come una prova di estenuante calligrafismo fotografico (sic!). il settecento di Barry Lyndon è il secolo da cui prende le mosse per Kubrick il discorso sulla contemporaneità e il regista si mostra determinato a restituire la natura ambigua di un’epoca che si offre come tappa privilegiata delle più inquietanti opposizioni come della loro meccanica e dolorosa risoluzione al suono della logica. Proprio nella spietata riproposizione di inconciliabili opposizioni, confluite in modo sorprendentemente sorvegliato nella struttura narrativa della sua macchina temporale, Kubrick costruisce l’immagine dell’epoca illuminista come secolo della “messa in luce” di contraddizioni destinate a rimanere lì, a non risolversi nel corso del tempo, fino a mostrarsi eternamente impassibili a qualsiasi giudizio. il periodo dal quale ripartire per portare anche l’uomo di oggi a superare le debolezze della sua condizione umana, e in definitiva per individuare proprio con la ragione gli indirizzi per una nuova giustizia collettiva, svela allora la sua natura mostruosa e ib-
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rida, incarnando la fisionomia stessa della contraddizione. Laddove Shining, il film della grande rivalutazione retrospettiva di Kubrick da parte della nostra critica, archivierà nell’indistinzione fotografica dell’overlook hotel gli strati sovrapposti di momenti storici lontani e dolorosi, è invece nell’affresco settecentesco di Barry Lyndon che va situata l’origine di molte ossessioni tematiche care al regista, prima tra tutte in questo caso l’interrogazione sul rapporto tra il pensiero e gli eventi del passato, cioè tra Filosofia e storia. Shining mostra le conseguenze di chi, smarrita la memoria, sembra destinato nella sua eterna noncuranza a essere schiacciato dal peso di allucinazioni avvertite come la realtà; Barry Lyndon invece, rilancia cronologicamente l’origine di ogni ambiguità, ma nello stesso tempo anticipa un tema al quale Shining, nella sua luce di fredda atemporalità, può soltanto alludere, cioè la critica di una concezione filosofica della storia, propria dell’epoca illuminista e quindi ancora oggi largamente condivisa, come racconto organico proteso a collegare gli eventi e le situazioni di epoche differenti, per immetterli in un disegno di spiegazione logica e consequenziale. La raffigurazione storica è per Kubrick piuttosto un discorso di sostanziale utopia, e la spinta che porta il regista a fissare anche a livello iconico le immagini del più attendibile settecento, è l’indicazione di come la ricerca debba continuare nel modo più minuzioso e attendibile, se si vuole evitare di finire bloccati come lo scrittore Jack torrance nell’immagine senza speranza dell’uomo che ha dimenticato le sue gesta. La memoria storica deve allora essere continuamente alimentata, la spinta ermeneutica non può mai allentarsi, per evitare di doverci accontentare, anziché di utili indicazioni, di una immensa (ma confusa e inutilizzabile) collezione di immagini come è quella dell’archivio fotografico artefattuale dell’overlook hotel, ma come può anche sembrare, a uno sguardo prevenuto, la riproduzione fotografica del settecento tentata in Barry Lyndon. ridare un’immagine della storia attraverso l’inventiva cinematografica può tradursi in un tentativo non evanescente soltanto se lo studio della dimensione visiva è significante e capace di interagire con aspetti tematici e narrativi che si leghino a loro volta in modo dialettico alla dimensione culturale di un’epoca, in ragione di ciò, proprio nella critica che Alberto Moravia rivolgeva al metodo del regista è invece
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avvertibile secondo noi l’intelligenza dell’accostamento kubrickiano al secolo dei lumi. “Kubrick poteva scegliere due strade: quella realistica cioè degli ambienti come erano realmente; oppure quella degli ambienti come il settecento, attraverso la sua arte, ci fa capire che avrebbe voluto che fossero. ha scelto quest’ultima strada e ne è venuta fuori una galleria di dipinti di autori inglesi dell’epoca... cioè di pittori che hanno espresso il sogno di razionalità, di ordine, di grazia, di nitore, di sensibilità e di compostezza di un secolo demoniaco, sudicio, cinico, empio, insensibile e turbolento”. ribaltando la valutazione moraviana, l’intento di Kubrick è positivamente proprio quello di mostrare il settecento come fu inteso da coloro che vi presero parte e ne diedero testimonianza anche attraverso le opere d’arte. d’altro canto, quale fonte più attendibile della mentalità dell’epoca se non proprio la visione degli artisti che seppero cogliere l’idea sporgente di lume come mito, luce della ragione e insieme dubbio ragionevole dinanzi all’ambiguità di un futuro incerto? si può naturalmente discutere, come segnala Ghezzi, sul fatto che l’arte figurativa settecentesca finì per privilegiare soggetti nobili o borghesi sulla rappresentazione di una realtà di classe, ma Kubrick, e prima di lui il rossellini de La presa di potere di Luigi XIV, sa benissimo, con Marx, che le idee di una classe dominante sono anche le idee dominanti di una società, e in una sequenza del suo film non dimentica di fare dire alla voce del narratore che i nobili e i potenti hanno vinto le loro guerre proprio grazie al servizio di ladri e truffatori del più basso rango. così se nel film di rossellini vediamo un re sole proteso a fare di sé il centro dell’egemonia legando alla sua cieca onnipotenza innanzitutto la nobiltà, la quale viene in tal modo più che mai a dipendere economicamente dal nuovo Narciso, il giovane irlandese redmond Barry vede nell’esercito inglese la strada più vicina per intraprendere la sua ascesa sociale, di modo che la guerra, figura tematica per eccellenza del regista americano meno americano, viene a mostrarsi come gioco voluto dai potenti per la restaurazione e l’allargamento del potere economico, peraltro con il pieno consenso delle classi sociali più povere, le quali, attraverso la “scorciatoia” dell’arruolamento, possono intravvedere la possibilità di essere parte di quel grande gioco di morte che è la conservazione dell’egemonia. Lo scenario che il giovane si trova di fronte al risveglio dell’europa settecentesca,
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è allora un quadro politico preformato nel quale è inscritta la logica dell’oppressione che richiede per la sua perpetuazione la devozione subitanea e acritica alle regole tramandate come relique per le nuove generazioni. Ma nel secolo in cui accanto al gusto della logica e dell’equilibrio trova spazio un’esaltazione controllata e, insieme, smisurata del sentimento, il conflitto, che viene a essere il tessuto stesso di regolazione dell’intera vita sociale, si configura come una grandiosa e spettacolare rappresentazione, ma anche come un gioco logico-matematico convenzionale, di mosse e contromosse, tale da contenere e sublimare (e dunque trasformare paradossalmente in arte) la paurosa aggressività socializzata. La guerra si propone pertanto come la prima chiave di interpretazione per il settecento kubrickiano, e questo tema si collega a tutta la filmografia del regista, fino a diventare la formula di rappresentazione più estrema e rituale della crisi della ragione di cui si dibatte in tutto il suo cinema.
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come icaro in volo demetrio stratos e gli anni settanta
immaginatevi la scena: una manifestazione di quello che all’epoca, siamo nei pieni anni settanta, si chiamava “movimento”. tanta gente, tantissimi giovani, parole forti e slogan urlati. un palco, anche se il più delle volte si tratta di quattro assi messe insieme a fatica con tubi innocenti, e sopra cinque persone che suonano. Beh, con una buona probabilità i cinque erano gli Area, molto più che un semplice gruppo musicale. Lungi da me il tentativo di tracciare nel dettaglio la parabola di un gruppo così importante e così influente sia nella musica che nella comunicazione col mondo “esterno”, anche perché sono stati scritti fior di libri su questo, meglio concentrarmi su qualche aspetto per tentare di incuriosire e stimolare alla (ri)scoperta. innanzitutto lo sfondo principale della storia: Milano; una Milano non ancora “da bere” su cui si muovono diversi personaggi: da un lato la scena musicale più colta, quella che si agita tra locali dai nomi di santa tecla e intra’s e che sarà l’occasione di incontro e di formazione del gruppo, dall’altra la figura di Gianni sassi, un pubblicitario con la convinzione che la musica può davvero cambiare le cose, e su tutto quanto la situazione politica e una città Medaglia d’oro per la resistenza ancora scossa per la bomba di Piazza Fontana e in cui vivono e operano realtà come re Nudo che saranno i protagonisti del decennio che si è appena aperto. i primi attori sono loro, i musicisti: il primo nucleo di quelli che saranno poi gli Area avviene dall’incontro di demetrio stratos, cantante di origini greche con una militanza ne i Quelli del clan celentano, e Giulio capiozzo, un batterista reggiano di matrice etnica che aveva girato l’europa e conosciuto il jazz e poi il free di coltrane. dopo una girandola di musicisti più o meno importanti nello sviluppo dell’idea Area – da Johnny Lambitzi a eddy Busnello solo per citare i più noti ed importanti – il gruppo si as-
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sesta con l’ingresso di Patrick djvas – sostituito dopo l’album d’esordio da Ares tavolazzi – al basso, Patrizio Fariselli alle tastiere e Paolo tofani alla chitarra e agli effetti. Ma è l’incontro col già citato Gianni sassi la vera svolta di un gruppo che fino ad allora è stato prettamente musicale e che dopo non potrà più solo limitarsi alla musica. La figura di sassi è poliedrica, perché se il ruolo “ufficiale” lo vede nei panni del discografico in quanto titolare della cramps records, egli saprà ritagliarsi ben altro ruolo in seno al gruppo. innanzitutto come paroliere, firmerà infatti con lo pseudonimo “Frankenstein” molte liriche del gruppo, ma poi saprà fornire tutta una serie di stimoli artistici e sociali ai cinque ragazzi che influenzeranno fortemente sia il lavoro collettivo che le scelte individuali dei musicisti. una cosa del genere, anche se ovviamente con altri modi e altri tempi, si vedrà in seguito con l’incontro tra Bernie rhodes nei panni del manager-provocatore e quelli che diventeranno in seguito i clash. entrambi i gruppi infatti hanno condiviso per un certo periodo lo stesso metodo di lavoro: sedersi attorno a un tavolo e riflettere su ogni cosa, dalla politica all’arte, passando per l’attualità e finendo poi con la musica, un periodo che gli stessi Area definiscono massacrante dal punto di vista creativo ma indispensabile per creare un collettivo compatto e unito. Ma l’apporto di sassi non si esaurisce con le riunioni e i testi, infatti è l’unico responsabile del lato “visivo” degli Area, e si troverà a pensare e ideare copertine entrate di diritto nella storia della musica, su tutte quella dell’esordio di Arbeit macht Frei su cui troviamo molti dei simboli dei turbolenti settanta, a partire da quella P38 con il cartellino “corpo di reato” che era anche un destabilizzante allegato al disco. Logico che con queste premesse, e con un’immagine pubblica dalla forte connotazione politica, il gruppo venisse eletto a colonna sonora dai giovani del movimento, una posizione che allora era se possibile ancora più scomoda di oggi, e a cui gli Area non si sono mai sottratti, suonando sempre a “prezzi politici”, una locuzione che nella maggioranza dei casi si traduceva in “rimborso spese minimo”, e cercando sempre e comunque il confronto con il proprio pubblico. un confronto, a volte molto aspro, consumato sia sulla carta stampata che ai concerti, e che vedeva spesso il “gruppo”, l’Artista, stimolare il pubblico per farlo diventare una parte at-
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tiva dell’esperienza musicale; emblematico il caso dei cavi del sintetizzatore di tofani passati in mezzo al pubblico il quale toccandoli, ed interagendo tra loro, creavano musica sempre nuova. un tratto emerge chiaro e inequivocabile dal racconto dei protagonisti di questa storia: il gruppo era un lavoro 24 ore su 24 senza pause di sosta. si suonava ai concerti, poi c’erano le prove e poi le lunghe sedute di gruppo, ma anche le performance artistiche da andare a vedere, fino al mangiare e al dormire insieme; un’esperienza totalizzante che fin quando è stata capace di mantenere un equilibrio interno ha fatto fare ai musicisti passi da gigante, e per accorgersene basta ascoltare i vari lavori in ordine cronologico: c’è un mondo nuovo in ogni album, mondi da esplorare – da John cage ai Fluxus – a ogni brano, si vuole davvero comprendere tutto, un senso di vertigine che infatti ha richiesto e richiede tempo per essere decifrato. talvolta colpisce subito l’orecchio dell’ascoltatore, e l’attacco di Luglio, Agosto, Settembre (nero) rapisce al primo ascolto, ma in altri casi disorienta, spiazza, fa arrabbiare: pensate a un Internazionale de-costruita e martoriata in chiave free davanti a una platea di giovani francesi impreparati: fischi, urla e rabbia contro chi distrugge il Mito, anche se solo per ricostruirlo molto più moderno e attuale. troppi stimoli e troppo tempo dietro a una macchina così avara di energie possono portare alla rovina, e come una sceneggiatura ben congegnata la parabola del gruppo viene a coincidere con quella della “controcultura” italiana, e il tutto trova una sintesi quasi perfetta nel Festival del proletariato giovanile del Parco Lambro. tre le edizioni a cui parteciperanno stratos e compagni, tre stagioni distinte: l’esordio in pochi illuminati, la conferma dei grandi numeri e della gioia collettiva e l’amaro ritorno alla realtà di un’edizione, l’ultima, funestata da discussioni infinite su femminismo e autogestione che saranno l’anteprima della fine del sogno, con l’eroina a prendersi le menti migliori di una generazione. Ma mentre l’esperienza collettiva sembra imboccare la china discendente ecco una traiettoria opposta puntare dritta al cielo: la voce stratos. immaginate un immigrato greco a Milano che, quasi per caso, inizia a cantare classici di blues e rock and roll, mostrando una dote notevole. dapprima, ne i Quelli, la voce è il canto, così come tutti conosciamo. Finita
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quell’esperienza demetrio si deve rimettere in gioco, ed approda a una voce che, al pari di un piano o di una chitarra, si trasforma in strumento musicale, scompone le parole e aumenta estensione e possibilità espressive. Grazie a quest’esperienza incontra studiosi come John cage, lavora con gli studiosi del cNr di Padova sulle diplofonie e sulle capacità espressive dei bambini che non hanno ancora codificato un linguaggio come gli adulti (le “lallazioni”). e poi, dopo l’incontro con le musiche del mondo – dai canti mongoli fino al viaggio della delegazione musicale italiana a cuba in compagnia di un giovane dirigente FGci, Massimo d’Alema – spicca il volo, tanto che il gruppo, quel Gruppo che si fa chiamare international Pop Group, ormai appare stretto, riduttivo. Ma proprio dopo il momento più duro, l’abbandono dagli Area alla fine del 1978 ecco che tutto precipita. ed è facile ora immaginarsi stratos che, come icaro che cerca di raggiungere il sole, viene scaraventato a terra nel peggiore dei modi, costretto dapprima a un letto di ospedale e poi, beffa suprema, strappato alla vita la vigilia del grande concerto che avrebbe raccolto i soldi necessari a cure costose affrontate oltreoceano. Fine dei giochi, ahinoi, per stratos, per gli Area che infatti continueranno ancora per poco avendo perso un centro così importante, ma fine dei giochi soprattutto per il movimento, che il 14 giugno 1979 in un’arena civica stracolma celebrerà i funerali di uno dei più grandi musicisti che l’italia ha mai avuto e quelli di un decennio che si chiude in modo drammatico, esattamente un decennio dopo quell’altro dramma alla Banca dell’Agricoltura.
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Antonio Laugelli
del situazionismo e di alcuni possibili sviluppi Pietrate
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un’anarchia utopica, un cosmopolitismo anarchico, armano le tribù del XX secolo, la partenza è dalla stanzialità precaria dell’immaginario per giungere quasi sempre oltre il sistema dell’arte. i totalitarismi, che hanno colorato di nero la vita politica e sociale tra la Prima e la seconda guerra mondiale, hanno messo a dura prova il nomadismo culturale e libertario dei comportamenti sociali “altri”. i viaggiatori senza bagaglio, spogliati di attributi professionali, assumono identità contemporanea, fino allo sconfinamento multimediale sperimentale, riprendendo lo spirito di ricerca delle avanguardie storiche sperimentano nuove tecniche e nuovi materiali. La mappa della marginalità creativa corre trasversalmente con le sezioni video. il situazionismo e la sua internazionale (1957-1972) imprimono negli anni sessanta del secolo scorso profonde mutazioni linguistiche e comportamentali. Gli artisti contemporanei molto debbono alle vicende dell’i.s., movimento “…coerente, nella coscienza dei nuovi tempi e nel superamento dell’arte” che rifiutava “l’andazzo eclettico e opportunistico imperante negli ambienti dell’arte modernista, in nome di un fronte rivoluzionario culturale”. Basterebbe ricordare che punto di incontro dei situazionisti era “la coscienza di vivere un periodo storico di rapidissima e radicale trasformazione, che apre un ambito amplissimo di possibilità nuove” per rendere possibile e comprensibile, oggi, mostre parallele. Voler scandagliare percorsi artistici post-situazionisti nell’attualità contemporanea implica il fare arte come nomadismo del pensare, come agire individuale che permette di riconoscersi. Lungi dall’essere uno sguardo nostalgico, prevale la consapevolezza che il futuro dell’i.s., sorprendente e coinvolgente, non può prescindere
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Antonio Laugelli, Del situazionismo e di alcuni possibili sviluppi
L’arte è quella cosa che rende la vita più interessante dell’arte (robert Filliou)
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dalle sue radici. La sua dimensione-contenitore ha in sé l’essenza dell’esperienza odierna. certo il situazionismo si ritrova frammentato, banalizzato, in alcuni casi approfondito nell’esperienza di giovani che non formano nuove aggregazioni, ma, con lo spirito del tempo, si aggiungono alle maglie infinite, ai nodi senza centri e periferie della rete. L’i.s., formatasi all’origine da una forte concentrazione di altri movimenti (quali dadaismo e surrealismo), non poteva disperdersi in una nebulosa di eredi con mancata rassomiglianza. La frammentazione, confutabile in più ambiti, è la sconfinata bufera di internet, un modo di comunicare apparentemente “res nullius”. internet, forse, è l’erede tecnico dell’i.s., non a caso vi è una straordinaria ricchezza di documenti che ad essa si riferiscono. che cosa è rimasto dei situazionisti? Situazionismo è un vocabolo privo di senso perché non esiste situazionismo come dottrina di interpretazione dei fatti esistenti. si è sciolta nel 1972, dopo quindici ani di lotte esterne e interne con pratiche di epurazione e di esclusione che assottigliavano, anzi atomizzavano il movimento fondato da Guy debord, che ne fu anche l’ultimo esponente e decretatore della fine. egli aveva consapevolezza (senza poterne avere conferma giacché muore suicida nel 1994) che le sue idee sarebbero state destinate a un tempo più lontano, metabolizzando idee e ricerche, anche se, forse, alterandole nella vicinanza. L’i.s. negli anni della contestazione ha avuto forte influenza sullo sviluppo artistico del tempo, è stata di estrema importanza, dal punto di vista storico è paragonabile all’impatto delle avanguardie di inizio secolo. i valori dei situazionisti si sono dispersi e, al contempo, assimilati integralmente – anche se indirettamente – in molti aspetti dell’arte contemporanea. Per esemplificare si consideri la grande forza dell’invisibilità, del vento, già Van Gogh era impazzito per voler dipingere il vento. “crea artista, non parlare” è frase che, anche se troppo spesso ripetuta, mi ha aiutato a superare la solitudine vissuta in questi ultimi anni nella mia casa-studio di sant’Andrea: ho lavorato nella dimensione tecnico-artistica delle esperienze situazioniste, nella pratica visiva della coscienza dei nuovi tempi e del superamento dell’arte come rifiuto, per un fronte rivoluzionario culturale aperto a possibilità nuove, ma consapevole del destino
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presagito dai situazionisti. ho trascorso molte giornate da solo, camminando inquieto nel mio studio, distruggendo anche le mie creazioni, sempre in lotta e rinnovando il mio stile, nei miei passaggi mutevoli, eterno migrante che reinventa all’infinito per diventare altro. Le mie Pietrate si collocano in questo contesto. Le mie numerose Pietrate sono conseguenza del singolare e inquieto fenomeno intrinseco alla contestazione. Non creo l’arte attraverso le mani ma attraverso il modo in cui decido di accettare o scartare. oggi l’artista è sempre meno coinvolto in gruppi e movimenti, spesso agisce da solo con una “galleria” di personaggi (Vaneigem, debord, Jorn, Gallizio) che sono coautori dell’opera. come costruttore di situazioni ho realizzato cose attraverso l’i.s., che si proponeva come erede di dada, del surrealismo e dell’ideale rivoluzionario, sfidando il linguaggio che abolisce tutto il potenziale creativo umano, una concezione vicina alla cultura protestante che ha sempre diffidato delle arti. il mio percorso artistico, ovviamente con contraddittorietà, è stato fortemente influenzato dall’i.s.. La mia esperienza, in modo non ortodosso, ne è stata una traccia. sedimento nel tempo, il movimento si è integrato indelebilmente nel mio linguaggio artistico, diventando produttore-fruitore di una creazione con rapida scomparsa del criterio del nuovo, contro l’arte unilaterale, per diventare arte del dialogo e dell’interazione. Pietrate, con la presentazione di carlo Pesce, si è tenuto nel mio studio sulle colline di sant’Andrea. Vi sono stato spinto dalla tensione, dalla necessità di provare a suggerire il mio atteggiamento, la nausea anche per lo stesso lavoro artistico, la crisi nel continuare a tener duro, intenzionato ad affondarmi come pietra nel supporto magmatico. Forse per amare veramente il situazionismo bisogna tradirlo. Per crescere davvero, si sa, bisogna andarsene. sono diventato adulto, come molti, uccidendo il mio edipo, criticando chi mi aveva educato, abbattendo i confini, spezzando la genealogia che mi legava al passato, per guardare oltre, per uscire dal recinto, per stare fuori dal coro. Non è stato un atto di rivolta autodistruttivo, ma un atto deliberato per uscire di strada, per intravedere culture altre.
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Antonio Laugelli, Del situazionismo e di alcuni possibili sviluppi
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sono rimasto sempre un uomo a metà, pieno di desideri, rimpianti, solitudine e malinconia, aggrappato al paradosso, tra le altre cose è stato un modo per non perdere nulla. Qualunque cosa si dirà di me, anche l’opposto sembrerà spesso vero.
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inserisci nuovi nomi e nuova intestazione
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enzio Gemma* carla Nespolo
credevamo – noi tutti che siamo qui – di essere preparati al congedo da enzio Gemma. La lunga malattia, le sue stesse serene e consapevoli parole, sembravano accompagnarci a questo momento, con semplicità, come diceva lui: “secondo il ciclo naturale delle cose”. Ma non è così. oggi – e per i tempi a venire – enzio Gemma ci mancherà tantissimo. egli appartiene a quelle persone che – senza volerlo, senza cercarlo – diventano un esempio, un punto di riferimento importante per la propria comunità e per i tanti che, anche assai diversi tra loro, ne ammiravano l’intelligenza, la forza morale e la coerenza di vita.
come ha descritto cesare Manganelli nel Libro d’onore della Resistenza alessandrina ( pubblicato per iniziativa dell’allora Presidente del consiglio comunale, Pier Angelo taverna ) Gemma partecipò dal novembre 1943 al febbraio 1944 ai GAP di torino e, dal giugno 1944 alla Liberazione, fu
* Pubblichiamo l’orazione che carla Nespolo, Presidente dell’istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria, ha pronunciato in ricordo di enzio Gemma (nato a Alessandria, 1923) alle esequie civili svoltesi il 3 giugno 2010 presso il Palazzo comunale di Alessandria.
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Queste doti Gemma le trasse dalla sua famiglia: da suo padre Vincenzo, antifascista e comunista, che perse il posto di lavoro piuttosto che piegarsi al fascismo. e da sua madre Maria Adele, della quale, sino all’ultimo, ha ricordato il sorriso e la forza. da questa storia familiare, è derivata la sua immediata adesione alla resistenza.
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membro della brigata garibaldina “Massobrio”, con il nome di battaglia (piuttosto trasparente, per la verità) di “enzo”. di tale formazione, fu ufficiale addetto di Brigata. una brigata di pianura, che operava tra castelceriolo, castelferro, sezzadio e Alessandria. All’inizio composta da poche decine di uomini e poi via via ingranditasi, fino a contare nel febbraio - marzo 1945 circa trecento uomini. chi voglia conoscere le azioni di questo gruppo può farlo consultando, all’isrAL, il fondo “divisioni partigiane” fascicolo n. 9. Vedrà, ad esempio, che questi partigiani – tra l’altro – liberarono alcuni operai da un treno diretto in Germania; operarono in più riprese presso il ponte Bormida, probabilmente per difenderlo da temute rappresaglie delle truppe tedesche in ritirata. e parteciparono – come è ovvio – alla Liberazione di Alessandria. erano giovani e giovanissimi ragazzi, come i Ragazzi di Piazza mentana e del canton di Rus, per citare solo due libri recenti. erano, come enzo, i partigiani di castelceriolo. A loro, alla loro coraggiosa giovinezza, al sacrificio di tanti, dobbiamo le basi stesse della nostra repubblica. oggi troppi lo dimenticano, e chiamano “pacificazione”, la cancellazione delle ragioni dell’antifascismo. da partigiano, da presidente dell’ANPi, da dirigente politico, Gemma si è sempre opposto a questo “oblio della memoria”. ieri era il 2 giugno e forse molti di noi hanno pensato a Gemma. Al nostro caro “Gemmone” che se n’è andato. ci teneva, Gemma, al 2 Giugno. sin che ha potuto, non ha mancato di partecipare alle cerimonie ufficiali. ricordo – di tante di quelle occasioni – il suo lampo sereno negli occhi e il suo sorriso indulgente, quando si eccedeva nel formalismo. infatti, una sua dote molto bella era l’anti-retorica, la sdrammatizzazione della vita. Nel contempo (e forse proprio per questo) aveva un interesse autentico per le persone e l’amicizia che lo legava a molte di esse (anche le più distanti, per idee, da lui, comunista da sempre e per sempre) era forte e sincera. tanto fermo nelle proprie convinzioni, quanto capace di dialogo e di rispetto per le opinioni altrui: questo era Gemma. L’interesse per “l’altro” gli derivava – me lo disse spesso – proprio dalla guerra partigiana, dove imparò
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a rispettare le idee di tutti (dai monarchici ai comunisti, era solito ripetere). Questa esperienza trovò, per lui, il proprio sbocco naturale nel Pci. e non possiamo dimenticare che nell’aprile 1944 – a salerno – il “partito nuovo” di togliatti, fu varato proprio tenendo conto dell’esperienza unitaria della resistenza italiana. Per i comunisti italiani, iniziava un cammino nuovo, autonomo dall’unione sovietica e che aveva al proprio centro la lotta per la democrazia. in questa temperie politica, si definì e si consolidò l’impegno politico di enzio Gemma. divenne – nel dopoguerra – segretario della camera del lavoro di Alessandria (dal 1953 al 1958) e poi segretario della Federazione provinciale del Pci (dal 1959 al 1962). Furono anni duri e belli. Per la nostra città e per l’italia. Basti pensare alla lotta della Borsalino, culminata nella salita sulla ciminiera di Balbi e Baseggio e nella requisizione della fabbrica, da parte del sindaco Nicola Basile. Furono anche gli anni del governo tambroni, dei fatti di Genova del ‘60, delle violenze sui dimostranti e di un fascismo che sembrava ritornare. e Genova – anche con i tragici fatti recenti dei G8 – ritornava spesso nei suoi ricordi e nelle sue riflessioni. Anche in quei frangenti così duri, Gemma non perse mai la sua capacità di analizzare lucidamente la realtà e di tenere aperta la porta del dialogo. di quegli anni e di quelle riflessioni, vi è traccia commovente nelle pagine settimanali dell’“unità”, dedicate ad Alessandria , presso l’archivio centrale del giornale. il segretario Gemma era coadiuvato da un gruppo straordinario di dirigenti: Pollidoro, Gilardenghi, Marchesotti, raschio, Pizzorno, Motta, Massone, scano, Valsesia, per citaree solo alcuni. e prima di lui il segretario cristoforo rossi e nelle istituzioni oreste Villa, stellio Lozza, carlo Boccassi. il forte gruppo dirigente del Pci di Alessandria. Molti di noi, che siamo qui oggi, e che abbiamo rappresentato la generazione successiva, dobbiamo tutta la nostra formazione a così grandi maestri. il popolo restava, per questa classe politica, il punto di riferimento. soprattutto i lavoratori, la classe operaia. Quando fu assessore della giunta Basile e in tutti gli anni a venire, Gemma tenne ben ferma questa prospettiva. sorsero, per sua iniziativa, la
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piscina comunale e il palazzetto dello sport. Affinché tutti i giovani (indipendentemente dalle condizioni economiche della famiglia) potessero fare sport. il progetto di una società più giusta: era questo obiettivo che ispirava tutta la sua attività. Gemma aveva anche – ed era una dote rara tra i comunisti – una grande capacità imprenditoriale. Per fare un solo esempio contribuì, ad Alessandria, alla costruzione della zona industriale d4. Ma poi ha conosciuto il mondo. da consulente economico di san Marino (che corrisponde alla funzione di Ministro di quel piccolo stato), a persona che è entrata in contatto con i grandi della terra. da ciu en Lai a Fidel castro, da ho chi Minh a Kruscev, per citarne solo alcuni. e poi togliatti, Berlinguer, cossutta. Li ha incontrati da grandissimo manager, senza mai perdere di vista i valori fondamentali, del rispetto del lavoro e della solidarietà. Alcuni tratti, alcuni ricordi per onorare, ancora una volta, enzio Gemma. La sua città lo ha fatto giustamente (e fu un riconoscimento di cui andava fiero) attribuendogli – nel 2007 – il “Gagliaudo d’oro”. Noi, oggi, lo salutiamo con amore e rimpianto. di lui qualcuno ha scritto che era un comunista “diverso”. Magari inconsciamente, si è voluto separare l’uomo Gemma (con le sue indubbie qualità personali) , dal comunista. chi pensa così, dimostra un’incapacità di fondo: quella di non saper valutare obiettivamente il ruolo del Pci nella storia del nostro Paese. “Non da soli, non per noi soltanto” – come amava ripetere – comunisti come Gemma, hanno costruito un’italia nuova. dalla resistenza, alla stesura e poi alla difesa della costituzione. dalla difesa della democrazia, alla salvaguardia dell’unità nazionale, lì, senza tentennamenti, ci sono stati i comunisti italiani. Anche di quest’ultimo 25 Aprile Gemma ha voluto essere dettagliatamente informato, come se fosse presente. e Pasquale cinefra, lo ha fatto sollecitamente. oggi l’ANPi è qui, inchinando le proprie bandiere al capo riconosciuto e amato. Al proprio Presidente emerito. All’amico e compagno che non
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c’è più. Al propulsore convinto del rinnovamento dell’ ANPi, con una decisa apertura ai giovani. e, per tutti, è qui per esprimere alla famiglia e ai partigiani, il proprio cordoglio il suo Presidente nazionale, raimondo ricci. siamo vicini a dario e Mauro (i figli che hanno ben seguito la strada – morale politica – del padre) e di cui era orgoglioso, con la discrezione e la passione che gli erano proprie. siamo vicini ai cari nipoti irina, daria e Jacopo. Alle nuore Virginia e Adriana. Alla sorella Lella. A tutti i parenti. Avete perso un padre e un nonno straordinario. Ma questo già lo sapete. Alla fida Feja, il nostro abbraccio. Gemma ora riposerà vicino al suo caro amico e compagno, Pierino Guerci. Nel laico aldilà della memoria, ora è insieme alla sua cara moglie Asmilde. ciao, Gemma. ciao, Presidente e guida. sarai per sempre con noi.
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Bertrand de Jouvenel, L’Economie dirigée. Saggi sull’ economia diretta, introduzione e cura di e. Bruzzone, torino, il segnalibro, 2009; pagg. Lii-132, € 25,00. Quando Bertrand de Jouvenel, definito da hale e Landy nell’anno della sua morte (1987) “il meno famoso dei grandi pensatori politici del XX secolo”, pose mano all’Èconomie dirigée, al tracollo di Wall street mancava ancora qualche mese. da tempo tuttavia si segnalava, non solo in Francia, l’esigenza di riorganizzare il sistema capitalistico occidentale. A soli venticinque anni, Jouvenel, non a caso compagno di viaggio dei jeunes turcs radicali capitanati da Émile roche (fondatore de “La Voix”, cui egli collaborò) e Gaston Bergery, dimostrò con quest’opera di aver messo a fuoco il problema, seppure in modo discontinuo, con uno stile spesso aforistico. il saggio viene ripubblicato oggi per la prima volta, a cura del sociologo emanuele Bruzzone, che negli scorsi anni si era già occupato di robert de Jouvenel (zio di Bertrand), curando l’edizione italiana di libri cruciali per comprendere il dibattito pubblico francese nel primo quarto del Novecento, quali La République des camarades (1914), Le journalisme en vingt leçons (1920) e Feu l’État (1923). così Jouvenel, che già scriveva all’epoca su diversi quotidiani e periodici, prima tra tutte l’ altra importante testata radicale, “La république”, destinandole contributi corposi, spesso centrati su tematiche attinenti all’articolazione dell’economia francese, volle sottotitolare questo saggio: Le programme de la nouvelle génération. scelta significativa, dal momento che, dopo la fine del primo conflitto mondiale, la Francia aveva preso a pullulare di iniziative centrate sul protagonismo giovanile. Pensiamo non solo alla collaborazione di Jouvenel con Jean Luchaire su “Notre temps – La revue des nouvelles générations”, sorta nel 1927 (qui Jouvenel avrebbe pubblicato anche un De l’unité économique européenne à l’économie dirigée mondiale), ma anche alla pur effimera “Lutte des jeunes”, da lui stesso fondata nel 1934, poco dopo gli scontri di piazza del 6 febbraio a Parigi fra le forze dell’ordine e i manifestanti – soprattutto di estrema destra – che protestavano contro l’inefficienza e la corruzione dell’Assemblée nationale. Per “La
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Lutte des jeunes” Jouvenel ricevette brevi saggi di alcuni giovani teorici del “planismo”, oltre a quelli di drieu La rochelle e del belga heinrik de Man, autore a sua volta, nel 1932, di Réflexions sur l’Economie dirigée. Nell’opera del 1928 si osservano in parallelo, nel quadro d’una comune prospettiva palingenetica, ma non declinata in senso rivoluzionario, un’istanza di generico giovanilismo e una di svecchiamento nelle strutture dell’economia: agli occhi di Jouvenel, l’indispensabile, ormai non più procrastinabile apertura di credito da parte del popolo francese ai giovani avrebbe automaticamente implicato la riforma profonda del sistema economico sotto l’egida statale. Anche Georges Valois, editore del volume, nei suoi anni del movimento Faisceau, quand’era collocato all’estrema destra dello spettro politico (ala scissionista dell’Action française), aveva valorizzato il ruolo della nuova generazione, ma Jouvenel in queste pagine andava oltre, ponendosi sulla falsariga di quanti, in seguito, si sarebbero confrontati intorno al tema della struttura del mercato e del capitalismo in rapporto alle istituzioni politiche e ai mezzi di gestione di cui esse potevano e dovevano dotarsi per essere all’altezza delle nuove sfide. L’obiettivo, nelle parole del giovane giornalista, era quello di fronteggiare la “nascita di un regime di funzionarizzazione della produzione e di universalizzazione del salariato”. era ormai nell’aria il dibattito sulla rivoluzione manageriale, che di lì a poco avrebbe toccato le due sponde dell’Atlantico. il punto di partenza assunto da Jouvenel, come sottolinea nell’introduzione il curatore, era la decisiva nozione di “inventario economico” quale perno per ogni azione riformatrice: solo partendo da una documentazione completa sul mondo della produzione nazionale sarebbe stato possibile calibrare le necessarie scelte politiche – delegate a una camera degli interessi sostitutiva del senato, di concerto con un consiglio economico statale – e riorganizzare il capitalismo in rapporto alle previsioni formulabili per aumentare il “consumo delle masse”. Jouvenel era dell’avviso che solo dopo aver superato le particolaristiche istanze dell’oligarchia industriale il sistema economico potesse tramutarsi da mera “combinazione organica instabile” in frutto di una “visione sintetica”. A tal fine, lo stato avrebbe esercitato un generale controllo sulla
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proprietà di tutti i cittadini nel nome dell’interesse generale e della comune utilità; la direzione dell’economia nazionale non è forse, scriveva Jouvenel, tout court “il mestiere dello stato”? il capitalismo stava ormai mostrando una serie di allarmanti carenze. “c’è una stagione per seminare l’erba e lasciarla crescere liberamente”, si legge in un paragrafetto intitolato Il governo delle cose, “e ce n’è una per tagliarla, rullarla e farne un prato. il secolo XiX è stato quello dell’erba: il secolo XX è quello del prato. Bisogna tagliare e rullare. L’ora delle discipline collettive è suonata”. Nel corso dell’ottocento, il capitalismo lasciato senza regole aveva alimentato al proprio interno una degenerazione di carattere oligarchico. L’analisi fu poi ampiamente condivisa e arricchita da autori di varia provenienza ed estrazione. Ma ciò che colpisce in Jouvenel è la concretezza delle proposte (une génération réaliste avrebbe titolato, l’anno dopo, l’amico Luchaire un proprio pamphlet). si prenda il discorso sulle industrie vitali per la nazione, come quella della bauxite, che egli giudica da trasformare, nel quadro di una politica di selezione e non più di conservazione (“l’atteggiamento di conservazione è assurdo, perché non c’è altro da conservare che il caos”); oppure quello sull’agricoltura, da ristrutturare sulla base di un “cooperativismo di produzione” per l’acquisto dei mezzi agricoli. tutto il saggio è percorso da questa tensione fra concretezza ed esposizione tendenzialmente apodittica degli snodi del ragionamento. il Jouvenel degli anni successivi, sia che analizzasse con lungimiranza il contesto continentale (Vers les États-unis d’Europe, 1930) o che si concentrasse sulla crisi statunitense, elogiando l’abilità di roosevelt nel forgiare una “mentalità nazionale” intrisa di civismo (La crise du capitalisme américain, 1933) o che, dopo aver parlato di “potenzialità socialiste del fascismo” (“La Lutte des jeunes”, 22 aprile 1934), giungesse ad avvicinarsi al PPF di Jacques doriot (Le Réveil de l’Europe, 1938), rimase uno dei più sagaci intellettuali della sua generazione. si può certo dire che furono l’accento posto già nelle pagine del 1928 sul ruolo dominante dello stato (motto proposto: “sapere, Volere, Fare”) e la recisa condanna della “dittatura del Parlamento” a trovare, nel suo pensiero dell’anteguerra, sviluppi antide-
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mocratici, che forse ricoprirono un qualche ruolo nell’indurlo a considerare con benevolenza lo stesso hitler. La famosa intervista apparsa verso la fine del febbraio 1936 su “Paris-Midi” si concludeva con la seguente riflessione: “Je songe soudain que cet homme simple s’est fixé des tâches gigantesques: changer toute la mentalité du peuple allemand, et du peuple prussien en particulier, mettre fin à la vieille haine franco-allemande, faire obstacle à l’évolution historique vers le socialisme qu’il y a quelques années tout le monde s’accordait à juger inévitable. Quelle place l’histoire fera-telle à cet homme dont on parlait si légèrement il y a encore cinq ans”. Proprio queste considerazioni debbono indurre a ritenere L’économie dirigée non solo uno dei primi passi del futuro autore di opere fondamentali di filosofia politica quali Du Pouvoir. Histoire naturelle de sa croissance (1945) o De la souveraineté (1955), ma anche un fondamentale documento: vi è infatti attestata una decisiva tappa dell’evoluzione di chi forse meglio d’ogni altro, nella Francia degli anni Venti-trenta, incarnò le contraddizioni di non pochi intellettuali francesi di fronte alla crescente inadeguatezza delle istituzioni politiche ed economiche rispetto alle nuove esigenze del mondo occidentale. daniele rocca
Quello del sionismo, e più in generale dell’identità dello stato di israele, è uno dei temi più controversi del dibattito intellettuale contemporaneo, e su di esso si incontrano molte tesi di parte e spesso fuorvianti. A questo proposito, il libro di Paolo di Motoli I mastini della terra tende a colmare un vuoto, con un contributo tanto più significativo in quanto elaborato non semplicemente sul piano storico, ma su quello della storia delle idee. il testo è infatti incentrato sulla ricostruzione e sulla ricerca delle ragioni dell’evoluzione della destra ebraica, dalla condizione di outsider ai limiti della
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Paolo di Motoli, I mastini della terra. La destra israeliana dalle origini all’egemonia, Lecce, i Libri di icaro, 2009; pagg. 402, € 13,00.
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legalità in cui operava all’epoca della fondazione dello stato di israele, fino all’egemonia degli ultimi decenni. dal punto di vista teorico, il libro tenta di rispondere a una domanda cruciale: se, ovvero, la destra israeliana rappresenti una sorta di unicum nel panorama politico e delle idee, oppure se essa sia assimilabile, per valori, posizioni politiche e obiettivi, ai nazionalismi di matrice europea. Quest’ultima opzione è quella sostenuta dall’autore, secondo il quale il sionismo è assimilabile ai nazionalismi integrali sorti in europa nel corso del Ventesimo secolo. Questo non soltanto perché – come ricordato anche da sergio romano nella prefazione al volume – i suoi leader storici, primo fra tutti Vladimir Zeev Jabotinsky, si erano formati nell’europa dell’inizio del Novecento ed erano apertamente interessati a esperienze come quella del fascismo italiano. Ma anche perché i valori e gli imperativi sottesi al movimento sono gli stessi di buona parte del nazionalismo europeo: l’enfasi sul sangue, il territorio e i confini, il pessimismo antropologico, il recupero della storia antica come simbolo da utilizzare nella lotta politica e nella costruzione della comunità, l’esaltazione romantica della morte eroica, il mito dell’ebreo “nuovo” che combatte (contrapposto a quello dell’ebreo che coltiva la terra del sionismo laburista). una visione di rinnovamento che arriva a esiti paradossali, in particolare con una stigmatizzazione della figura dell’ebreo della diaspora (in quanto imbelle e sottomesso) non completamente dissimile dalle immagini proposte dai movimenti antisemiti. Nel suo primo capitolo, il libro ricostruisce la figura e le idee di Jabotinsky, fondatore del sionismo revisionista e capostipite dell’attuale destra ebraica israeliana. Viene ripercorsa la formazione del leader, a contatto sia con rilevanti figure del marxismo europeo come Labriola, sia con i nascenti movimenti fascisti (e ammiratore di Marinetti); e la sua visione dell’ebraismo, perennemente in contraddizione tra una concezione razziale e una volontaristica di matrice mazziniana. Quello ebraico, nella mente di Jabotinsky, è un popolo che ha il dovere di reclamare la propria terra (che deve estendersi anche oltre il Giordano), in primo luogo a scopo di autodifesa contro i pogrom e le altre nefandezze subite nella diaspora, senza però dimenticare la propria identità “moderna” ed europea.
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Parallelamente, il libro ripercorre la storia del sionismo e della sua costruzione in quanto movimento, dalla lotta sotto il mandato britannico fino all’indipendenza. Viene ricostruita la genesi e l’evoluzione del Betar, e di gruppi più estremisti come l’irgun e il Lehi, e l’ascesa di quello che sarebbe stato per decenni il leader della destra ebraica: Menachem Begin. della creatura di quest’ultimo, il partito herut, si occupa in dettaglio il terzo capitolo: un partito fondato sulle ceneri dell’irgun, che si caratterizza come movimento politico di massa, lontano dagli ambienti delle élite intellettuali sioniste. Questo anche attraverso una strategia di progressivo allargamento che si concretizza innanzitutto, nel 1965, nell’alleanza con i liberali e la fondazione di Gahal. il quarto capitolo è quindi dedicato al coronamento del sogno di Begin, che con la creazione della coalizione di destra Likud e la progressiva erosione del progetto laburista, riesce nel 1977 a conquistare il potere. secondo di Motoli, questo evento comporta, per israele, un profondo mutamento di strategia: mentre per i laburisti la politica estera doveva avere un orientamento negoziale e la guerra era vista come extrema ratio difensiva, con l’avvento di Begin si inaugura un nuovo corso di politica estera offensiva, in cui la guerra e le operazioni militari possono essere un’opzione intenzionale. il libro descrive poi l’evoluzione della destra israeliana dalla fine dell’era Begin ai giorni nostri, insistendo ancora una volta sulle identità e le idee dei suoi principali leader: da shamir a sharon all’attuale Primo Ministro Netanyahu (che di Motoli definisce “un neoconservatore israeliano”, sia per i suoi legami con gli ambienti della destra usA, sia per la consonanza con essa nella visione di questioni come il terrorismo). L’opera termina con una densa conclusione di carattere teorico, in cui si analizza la concezione assoluta e radicale che la destra ebraica ha della terra di israele (Eretz Israel); la sua mitologia dall’orientamento tragico e romantico che fa riferimento, in ultima istanza, ai rivoltosi di Masada contro il dominio romano; la sua politica di potenza basata su un culto del militarismo come unico antidoto all’‘antisemitismo perenne’ e alla possibilità di un ripetersi dell’olocausto. Nelle conclusioni, di Motoli espone la sua teoria (destinata senza dubbio a far discutere), secondo cui “il nazionalismo
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ebraico non è per nulla diverso dal nazionalismo dell’europa centrale e orientale: ‘volkista’, culturale, religioso e immerso nel culto di un passato eroico” (pagg. 358-359). Nel complesso, il testo rappresenta quindi un’opera da cui qualunque studioso che intenda comprendere la storia e l’identità di israele non può prescindere. un lavoro solido, costruito in modo accademicamente serio ma anche leggibile, che riesce a proporre tesi provocatorie senza per questo essere mai partigiano né superficiale. Luca ozzano
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sebastiano Vassalli, Le due chiese, torino, einaudi, 2010; pagg. 316, € 20. È la Grande Guerra la macchina che fa girare la narrazione: nel piccolo grumo di questa comunità alpina a cui si arriva per una strada che passa in mezzo a “due chiese”, poste una di fronte all’altra. una più piccola, la Madonna della Misericordia, costruita al tempo della “mobilitazione generale” (come l’autore e i suoi personaggi chiamano la stagione di grande fermento e attesa che precede e accompagna l’inizio del conflitto), cui è affidata la protezione dei richiamati alle armi. L’altra, più grande e imponente, edificata all’indomani della vittoria. Non per spirito di celebrazione retorica. o almeno non solo. soprattutto, per ricordare il sangue di chi non c’è più: la mutilazione subita dalla comunità: “Alla Madonna incoronata di tutte Le Vittorie. Partiti trentanove. ritornati Quindici”: gloria e scarno dolore convivono nell’iscrizione sulla facciata. dunque, la “grande guerra”, che irrompe nel tempo lento della storia secolare in svolgimento tra “rocca di sasso” e “roccapiana”, tra la “Valle minore” e la “Valle Maggiore”: un lembo di terra che ha per fondale, maestoso e immobile, il grande “Macigno Bianco”. i nomi dei luoghi sono di fantasia, ma non è difficile immaginare da molti indizi, primi tra tutti i frequenti interventi del dialetto, che la vicenda possa svolgersi in qualche parte del Piemonte alpino orientale, prossimo alla Lombardia. Praticamente, come si conviene ai più solidi canoni della cultura popolare, tutti i
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personaggi hanno, oltre al nome, un soprannome che li identifica agli occhi dei compaesani. tutti, tranne due (come annota l’autore) talmente insignificanti da non meritare neppure un soprannome. Fino all’entrata in guerra, la vita si svolge nel segno solido e immutabile della fede; di un’essenziale aggregazione di valori e simboli che dura nel tempo lungo: “chi, nei secoli, è vissuto sotto il Macigno Bianco, è vissuto fuori dalla storia”. Le uniche increspature delle distese onde secolari sono date dalle vicende del “Beato” e dell’“eretico”. Figure esemplari della vita religiosa di cui è intriso lo spirito della comunità. il primo, fra Bernardino, promotore di una devozione forte e strutturata, che plasma lo stesso paesaggio con i propri segni permanenti: quel “Monte santo” (il sacro Monte di Varallo?), che tra cappelle e statue scandisce la vita del cristo e fa da rifugio alle ansie e alle paure dei fedeli. il secondo, fra dolcino, predicatore di un’eresia ugualitaria e libertaria, forse un po’ libertina. destinata a finire male, dopo aver alimentato per un po’ speranze di emancipazione e di riscatto, che bisognerà attendere secoli per sentire di nuovo risuonare nelle vallate, con l’irruzione sulla scena insieme al secolo breve, delle parole e della musica dell’internazionale. La prima, corposa parte del romanzo è occupata da questo lungo tempo “fuori dal tempo”, e dalle prime incursioni della grande storia: gli spari che ammazzano un carabiniere, padre di Luigi Prandini, detto “Mano Nera”, i dibattiti sull’intervento, le cartoline di richiamo alle armi. ed è proprio Prandini una delle figure che maggiormente spiccano dalla dimensione corale del racconto. Maestro elementare, prima socialista poi interventista, reduce, “onorevole”, camicia nera giustiziato dai partigiani, egli incarna il paradigma esemplare di una parte della “meglio gioventù” di inizio Novecento, affascinata in sequenza dal “sole dell’avvenire”, dalla mitologia dannunziana e, poi, dalla seduzione del vitalismo fascista; incapace di liberarsene anche quando il velo della menzogna sarà squarciato dal disastro della seconda guerra mondiale. insieme a lui, l’altro personaggio eminente è Anselmo, detto “Ansimino”, che invece si muove al passo cadenzato della storia su un altro versante. un versante meno politico, quello del lavoro, che fa tutt’uno con la vicenda del
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“secolo breve”, nella quale irrompono i prodigi della meccanica: le macchine belliche, “gli automobili”, gli aeroplani: insomma, la modernità che ha nel lavoro e nell’“intelligenza delle mani” di Ansimino il suo valore fondante, così come aveva avuto in certo futurismo la sua agenzia di marketing. ritorniamo per un attimo alla Grande Guerra. Quando si dice che essa è la macchina della narrazione, non si vuole dire né che il romanzo sia un romanzo di guerra, né che la storia raccontata si concluda con la fine della Prima guerra mondiale. in realtà, gli episodi bellici direttamente narrati sono pochissimi. soprattutto, alcuni flash sugli aspetti più tragici dell’esperienza di trincea che i reduci portano con sé. Quasi sempre la guerra entra nel romanzo in “presa indiretta”, attraverso le vicende della comunità e dei suoi personaggi. con una violenza che ha la forza di destrutturare alcuni dei pilastri più solidi su cui si era sino ad allora fondata la convivenza delle persone. senza, tuttavia, sradicare a fondo la tenacia di un’identità che, nonostante tutto, resiste caparbia, aggrappata allo spirito del “luogo”: con i suoi valori forti e con i suoi pregiudizi. Alla resa dei conti, il mondo si divide (o si rappresenta) pur sempre tra quelli che stanno dove “i fiumi vanno verso sud”, al di qua delle Alpi, e quelli che stanno dove “i fiumi vanno verso nord e verso ovest”, al di là delle Alpi. tra noi e quei tedeschi che saranno “naturalmente” nemici durante la Prima guerra e “innaturalmente” alleati nella seconda. e all’avvicinarsi del secondo conflitto mondiale, tra rassegnazione e consapevolezza, gli uomini delle valli Maggiore e Minore non possono non tornare a interrogarsi con semplicità: “riesci a immaginartelo, un mondo senza guerre?”. un quesito che, in fondo, riguarda anche noi contemporanei, e chi aveva salutato la fine della “guerra fredda” come “fine della storia”, ammainando forse troppo in fretta la bandiera sulla speranza che chiude il libro e la vicenda umana in esso narrata: “domani, L’internazionale sarà il genere umano”. dell’affascinante cammino condotto tra le pagine di Vassalli, insieme alle donne e agli uomini vissuti nel secolo breve, sotto il Macigno Bianco “sempre là al suo posto”, resta il segno profondo della dignità restituita a un mondo che poco spesso ha voce. di un mondo capace di stare nella storia,
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qualche volta subendola, qualche altra reinterpretandola a modo suo. come fanno gli abitanti di rocca di sasso, che dando esempio della sferzante ironia di cui, talvolta, è capace l’immaginazione popolare, si affrettano a ribattezzare “‘l ciucch” (l’ubriaco) il soldato scolpito in insolita postura nel retorico monumento ai caduti. un grande romanzo, oltretutto utile più di molti saggi a comprendere l’intricatissima rete di rapporti tra piccola e grande storia, che ormai da qualche decennio impegna il lavoro dei ricercatori. daniele Borioli
Piero Fossati è uno storico della scuola – fu autore con Marcella Bacigalupi nel lontano 1986 della prima organica riflessione in italia sulla storia dei libri di testo per le elementari, Da plebe a popolo. L’educazione popolare nei libri di scuola dall’unità d’Italia alla Repubblica – ma è anche e soprattutto egli stesso uomo di scuola, insegnante prima e dirigente poi. e come tale ha partecipato e contribuito al grande movimento di rinnovamento nel campo della didattica degli anni settanta, ideando e realizzando con Giorgio Bini, claudio costantini, emanuele Luzzati e altri la famosa e innovativa enciclopedia Io e gli altri, così diffusa nelle scuole da divenire oggetto nel 1975 di una circolare riservata del ministro Malfatti ai provveditori per segnalare l’inopportunità della sua presenza nelle biblioteche scolastiche. Queste due dimensioni della personalità intellettuale di Fossati si intrecciano nella costruzione del suo ultimo lavoro, I maestri del regime, che è un rigoroso saggio storico ma si fa leggere come un romanzo: frutto di una lunga ricerca tra le carte degli archivi genovesi e romani, per ricostruire la storia di don cesare Bottazzi (1891-1936), maestro e sacerdote. Nato a Pozzolo Formigaro alla fine dell’ottocento, Bottazzi era entrato in seminario e da lì era partito per il fronte. Fortemente provato dall’esperienza delle trincee nel primo conflitto mondiale, aveva poi scelto la via dell’in-
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Piero Fossati, I maestri del regime. Storia di un maestro nell’Italia fascista, Milano, edizioni unicopli, 2009; pagg. 353, € 20, 00.
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segnamento e nel 1920 prende servizio come maestro elementare a Montebruno in Val trebbia. “Portava con sé le inquietudini che avrebbero spinto un’intera generazione tra le braccia del fascismo, abile nel dare accoglienza ai delusi – spiega Fossati – per il mancato rinnovamento dell’italia e per la litigiosità dei partiti”: ma più ancora che all’ideologia fascista (cui aderì conservando però sempre una propria autonomia di pensiero), la collocazione politica di Bottazzi era però debitore alla guerra – non a caso, a Montebruno aveva subito fondato la sezione degli ex combattenti – e al seminario. tutti erano concordi nel riconoscergli doti di organizzatore e forse proprio a causa del suo attivismo entrò in rotta di collisione con i notabili del paesino che nel libro vengono descritti con grande vivacità ed efficacia narrativa: il parroco pavido, la perpetua bigotta, il podestà tronfio, la collega intristita... Fra pettegolezzi, lettere anonime, denunce ai carabinieri nasce uno scandalo che finirà in tribunale e la cui eco arriverà nelle stanze del potere mussoliniano che faceva della scuola uno dei suoi punti di forza: don Bottazzi viene infatti indagato per atti di libidine verso le alunne e per aver intrattenuto una relazione con la maestra del luogo. in seguito a ciò, fu trasferito nel 1929 nella scuola di una cittadina della riviera ligure prima, e in un quartiere operaio di Genova poi. Partendo dal fascicolo personale del maestro e seguendo gli incartamenti generati dal procedimento disciplinare nei suoi confronti, Piero Fossati ricostruisce la storia di cesare Bottazzi, con un grande gusto della narrazione e una grande capacità affabulatrice, e insieme disegna il contesto sociale, in cui si collocano anche i vari personaggi – maestre, sacerdoti, sindaci e ispettori, vescovi e genitori, piccoli gerarchi delle organizzazioni fasciste – che hanno contribuito a diverso titolo all’esito della vicenda. La storia del procedimento disciplinare al maestro Bottazzi, narrata con procedura degna di un romanzo, diventa infatti qui occasione per addentrarsi nella scuola elementare del regime, dai programmi di Lombardo radice alla mancata epurazione del dopoguerra, dall’istituzione delle Guardie d’onore ai monumenti ai caduti al funzionamento dell’opera Balilla, passando attraverso le circolari ministeriali che minuziosamente prescrivevano
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il calendario quotidiano dell’insegnante: celebrazione delle ricorrenze, saluto a mano tesa alla bandiera, organizzazione dei Balilla, parchi della rimembranza, giornata del pane. dal libro emerge anche la varietà delle risposte di maestri e maestre in relazione alle differenti storie individuali, ma si percepisce benissimo la grande efficacia della penetrazione del regime. e davvero, come fa Antonio Gibelli nella bella presentazione, possiamo affermare che “quello che ne viene fuori è un capitolo di storia della scuola e dell’amministrazione pubblica, della cultura e della formazione degli insegnanti elementari, del rapporto tra istituzioni statali centrali e periferiche, tra autorità scolastiche e comunali, tra scuola e territorio, in un momento cruciale di cambiamento della società e della politica”. Graziella Gaballo
Le “divergenze parallele” di cui parla Andrea Mariuzzo in questo volume, rielaborazione della sua tesi dottorale svolta presso la Normale di Pisa, sono quelle esistenti fra la propaganda comunista e anticomunista negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. i due campi contrastanti in cui fu divisa la politica italiana, mai tanto divergenti come negli anni di costruzione della democrazia e di maggior intensità della guerra fredda, ebbero infatti più di un punto di contatto sul piano di una comunicazione politica, in una fase inevitabilmente aurorale in un’italia da poco avviatasi sul cammino del pluralismo democratico. A partire dai riferimenti valoriali, in gran parte comuni, pur se declinati in termini opposti: la libertà, la democrazia e l’antifascismo, la pace, la patria e la costituzione, il benessere e la dignità del popolo italiano da realizzarsi attraverso il lavoro e una più equa distribuzione della ricchezza nazionale furono, pur con rilevanti differenze nelle loro esemplificazioni, richiami
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Andrea Mariuzzo, Divergenze parallele. comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana (1945-1953), soveria-Mannelli, rubettino, 2010; pagg. 284, € 14,00.
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costanti di entrambi gli schieramenti e alimentarono l’accusa reciproca di tradimento e di mistificazione ideologica. Valori contesi dunque e non contrapposti come era successo nello scontro fra fascismo e antifascismo: si trattò di un rovesciamento repentino e brutale, ma certo non inatteso, rispetto al periodo della lotta di liberazione o alla stessa stesura della carta costituzionale. entrambi gli schieramenti accusarono infatti l’avversario di preparare la dittatura, di voler svuotare immediatamente di contenuto le conquistate istituzioni democratiche, di essere asserviti a potenze straniere belliciste e imperialiste, minacciose per l’indipendenza del popolo italiano. Nel far questo ricorsero specularmente a una pluralità di linguaggi e di strumenti, caratterizzati da toni spesso assai aspri, quando non denigratori, giustificati dalla preoccupazione di smascherare la propaganda avversaria dimostrandone la totale infondatezza nella realtà. e da messaggi semplici, accessibili cioè a un’opinione pubblica in gran parte ancora da socializzarsi alla democrazia, che facevano spesso leva su mentalità diffuse profondamente ancorate alla tradizione, non ancora differenziatesi e segmentatesi in virtù dello sviluppo economico, e su cui avevano certo presa la memoria di quanto sperimentato pochi anni addietro con la guerra e la speranza di un pronto riscatto, simboleggiato dal “mito dell’urss” come dal “sogno americano”. il libro di Mariuzzo, originalmente costruito attorno ai principali lemmi contesi di quella stagione politica (valori religiosi e morali – libertà e democrazia – la patria, la nazione italiana e il suo ruolo nel mondo – verso una legittimazione del benessere: sono i titoli dei capitoli che compongono il libro, insieme a quello che introduce alle strutture e tecniche della comunicazione politica nell’Italia del dopoguerra) ricostruisce l’evoluzione del linguaggio politico della primissima età repubblicana – fra il maggio del ’47, l’espulsione delle sinistre dal governo, e le elezioni dell’estate del ’53, quelle della “legge truffa” – dando conto non solo dei punti alti dello scontro politico e propagandistico e dei mutamenti in esso avvenuti in relazione alla più generale vicenda politica nazionale e internazionale, ma soprattutto delle trasformazioni “linguistiche” che si venivano sedimentando in quegli anni, spesso per reciproca contaminazione, fino a costituire un patrimonio discorsivo, di slogan e di
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immagini, ma anche di pratiche propagandistiche, che avrebbe influenzato durevolmente la comunicazione politica italiana. La ricerca di Mariuzzo ha sopratutto il merito di illuminare il campo dell’anticomunismo, assai meno frequentato dagli storici, e assai più eterogeneo al suo interno di quello avversario. se infatti nel caso social-comunista emerse fin dall’inizio il ruolo di coordinamento nella battaglia per la conquista dell’opinione pubblica italiana svolto dal Partito comunista, il fronte anticomunista non ebbe una centrale propagandistica unica. Né i comitati civici di Gedda né la sPes democristiana ebbero mai un ruolo assimilabile a quello svolto dalla sezione stampa e Propaganda del Pci. il vario anticomunismo italiano, anche sotto questo profilo, assunse infatti piuttosto la forma di un “reticolo” all’interno del quale soggetti fra loro diversi – il cattolicesimo organizzato, la democrazia cristiana e gli altri partiti della maggioranza, il governo stesso, i fogli, fra loro assai diversificati (si pensi alla stampa romana o al candido di Guareschi) dell’opinione pubblica conservatrice – si scambiavano gli elementi di una immagine negativa del comunismo divenuta poi patrimonio comune. Nell’orientare l’opinione pubblica fu poi determinante il ruolo della stampa leggera, apparentemente meno impegnata politicamente, a partire dai settimanali, che seppero veicolare, senza essere efficacemente contrastati da parte comunista, un’insieme di valori e un immagine dell’occidente alla lunga rivelatasi vincente. si avviava così la diffusione pervasiva, veicolata nell’immaginario collettivo dal cinema e poi dalla televisione, di un modello sociale, quello della società dei consumi, che seppur in molti tratti estraneo alle culture politiche che componevano il fronte anticomunista in italia, in particolare a quella cattolica, avrebbe contribuito in maniera decisiva alla sua affermazione nello scontro ideologico che l’opponeva all’universo comunista. cesare Panizza
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Giovanni rinaldi, I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie, roma, ediesse, 2009; pagg.198, € 10, 00. i “treni della felicità” che danno titolo al volume sono quelli su cui, negli anni cinquanta del Novecento, salirono oltre settantamila bambini del sud – lasciandosi alle spalle un contesto segnato dalle conseguenze della guerra, da rivolte operaie sedate nel sangue e da calamità naturali – per essere ospitati da famiglie contadine, nei paesi del reggiano, del modenese, del bolognese, dove vennero accolti, rivestiti, mandati a scuola, curati. si trattò di un’operazione quasi tutta al femminile, maturata tra le famiglie di ex partigiani, nella rete dei comitati di solidarietà democratica; una forma di adozione temporanea che fece scoprire a quei ragazzi un’altra italia; una straordinaria rete di solidarietà, nata dalla spontanea disponibilità di donne e madri verso altre donne e altre madri e sostenuta dalla neonata udi e dal Pci. Miriam Mafai, nell’introduzione al libro, spiega che l’iniziativa era nata a Milano dalla fantasia e dalla passione della dirigente comunista teresa Noce, rientrata in italia subito dopo la Liberazione, dopo aver combattuto in spagna con le Brigate internazionali ed essere stata internata dai nazisti nel campo di ravensbrük. Anche a Milano c’erano bambini che soffrivano la fame, e teresa Noce chiese ai compagni di reggio emilia di ospitarne un certo numero per l’inverno successivo, ottenendo una risposta che andò al di là di ogni legittima speranza e che, proprio per la sua grande forza, indusse poi quegli stessi uomini e quelle donne generose a estenderla al sud, a cassino bombardata dagli anglo-americani, a roma piena di baraccati e affamati, a Napoli semidistrutta dalle bombe. tanti piccoli furono così rifocillati, dopo lunghi viaggi sulle panche di legno che allora arredavano i treni e non prima di aver tranquillizzato le loro famiglie, alle quali la propaganda democristiana aveva fatto credere che i comunisti avrebbero trasportato i loro bimbi in russia. e ora, a distanza di più di mezzo secolo, si sono messi sulle tracce di questa storia e di questi bambini ormai adulti, un cineasta – Alessandro Piva – e Giovanni rinaldi – antropologo, drammaturgo e direttore dell’Asso-
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ciazione “casa di Vittorio” – dando vita a due diverse opere sulla memoria: il documentario Pasta nera e il libro di cui stiamo parlando. in esso, Giovanni rinaldi racconta questa storia a partire dal 23 marzo del 1950, quando il prolungarsi dello sciopero generale indetto il giorno prima si trasformò, a san severo, in scontri violenti contro l’esercito con i carri armati inviato a sedare la rivolta e in cui i manifestanti, braccianti pugliesi stremati dalla guerra e dallo sfruttamento padronale, ebbero la peggio. Al termine degli scontri si ebbero numerosi feriti e una vittima; inoltre, tutti i protagonisti della protesta finirono in carcere, spesso padri e madri nello stesso tempo, per insurrezione armata contro i poteri dello Stato e furono sottoposti a un lungo processo – che vide loro difensore Lelio Basso – solo al termine del quale, dopo circa due anni, gli imputati vennero assolti e rilasciati. Molti bambini restarono quindi soli e si attivò per loro il sistema già collaudato del biennio 1945-’47, offrendogli ospitalità nelle Marche. ed è proprio a loro che l’autore chiede di ricordare quell’esperienza e le testimonianze raccolte dai sopravvissuti – gran parte ritornati nel tempo alle famiglie d’origine, ma in tanti rimasti nelle famiglie d’accoglienza – sono di grande impatto emotivo e danno corpo a una ricca trama narrativa. il volume, diviso in due parti – Pane e lavoro! I figli della rivolta, che parte dalle vicende di san severo e I comunisti mangiano i bambini – racconta, come in un diario di reportage, i sette anni passati a ricercare i piccoli protagonisti di allora per raccoglierne la storia: come in un domino, ogni persona rimandava a un’altra, ogni situazione forniva elementi per trovare altri protagonisti e l’autore non solo si è spostato di persona per andare nelle varie località (soprattutto emiliane, romagnole, marchigiane e toscane) ma ha anche lavorato con mail spedite ovunque, fotografie usate per i riconoscimenti, certificati anagrafici e tanti incroci di informazioni raccolte da amici e collaboratori che si sono aggiunti nel corso della ricerca. e dai ricordi raccolti emergono anche le contraddizioni dei bambini che, una volta arrivati, non vogliono più tornare indietro, perché il benessere trovato, il cibo, l’amore fanno loro dimenticare rapidamente i genitori e la famiglia d’origine; ma emerge, soprattutto, la costruzione di reti solidali e affettive che
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scavalcano i localismi, testimoniando la complessità di identità, impegni e sogni, in cui prese concretamente forma l’italia postbellica della cosiddetta “ricostruzione”, termine che, a rileggere anche questa vicenda, non ha significato solo materiale. Graziella Gaballo
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Giovanna cereseto, Anna Frisone e Laura Varlese, Non è un gioco da ragazze. Femminismo e sindacato: i coordinamenti donne flm, roma, ediesse, 2009; pagg. 419, € 20,00. il volume raccoglie tre ricerche realizzate da giovani studiose per la loro tesi di laurea, negli anni compresi tra il 2006 e il 2008: lavori diversi e svolti presso diverse sedi universitarie, ma che contribuiscono tutti a far luce sul femminismo sindacale, analizzando i differenti aspetti della esperienza politica delle donne metalmeccaniche tra il 1975 e il 1983. Proprio per conservare memoria di quella stagione importante cui ancora siamo debitori, in un periodo in cui il sindacalismo italiano attraversa passaggi non facili – come ben spiega Anna Giacobbe nella Presentazione – lo sPi cGiL Liguria ha voluto pubblicarli: e quindi le tre tesi, rielaborate, sono state edite nella collana “storia e memoria” di ediesse. Mi pare innanzi tutto rilevante e interessante che proprio da chi quel momento non ha vissuto venga la ripresentazione dei momenti e dei temi che l’hanno attraversato e che hanno dato vita a una stagione importante della storia della cGiL in rapporto all’affermazione autonoma dei bisogni delle donne; ma forse – come osserva, secondo me a ragione, Anna rossi-doria nella sua bella prefazione che impreziosisce il volume – era necessario proprio questo salto di generazione per poter riproporre con il necessario distacco quell’esperienza in forma di analisi e indagine storica. tutte e tre le ricerche sono state condotte attraverso un attento e rigoroso uso delle fonti (dai documenti d’archivio – molti dei quali provenienti dal Fondo donne FLM, presente nel centro ligure di storia sociale – a quelli a
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stampa, spesso riprodotti anche nella versione grafica originale, dal materiale grigio alle fonti orali e alle interviste in profondità) e da esse ben emerge uno spaccato di quell’importante momento storico e civile, che ci restituisce lo scenario di allora e come lo hanno vissuto e interpretato le protagoniste dell’epoca, sapendo porgerlo in modo tale da riproporlo alla riflessione e alla discussione dell’oggi. sono lavori che “gettano molti fasci di luce sulla vicenda del femminismo sindacale, la più originale di tutto il neofemminismo italiano e insieme quella rimasta più in ombra: malgrado i seri studi dell’ultimo decennio sul rapporto tra donne e sindacato” – sono ancora parole di Anna rossi-doria – e lo fanno con un’analisi che dal livello nazionale – indagato e restituitoci soprattutto da Laura Varlese, che ben ne analizza le varie fasi, a partire dai primi passi della Federazione lavoratori metalmeccanici passando per la nascita del coordinamento donne FLM – passa poi a fare fuoco sul piano locale, con i lavori di Anna Frisone e di Giovanna cereseto, che riguardano il territorio genovese, dove la storia del movimento operaio, del neofemminismo e del femminismo sindacale fu particolarmente viva e significativa. devo dire che, di questi lavori, già conoscevo quello di Anna Frisone, figlia di un’amica, che me lo aveva fatto leggere quando ancora era semplicemente la copia della sua tesi di laurea: ad esso avevo anche attinto per alcuni dati relativi all’esperienza genovese delle 150 ore delle donne (in occasione del mio cercare acqua e trovare petrolio. I corsi 150 ore delle donne pubblicato sul numero 46 di questa stessa rivista e che di quel tema, appunto si occupava), esperienza che qui viene ricostruita e analizzata, mettendone ben in luce la ricchezza. Ma, al di là della serietà e profondità di analisi con cui l’intero lavoro era stato condotto, mi avevano molto piacevolmente colpito l’approccio e il linguaggio, che mi restituivano – a sorpresa – una sensibilità molto vicina a quella del movimento delle donne di quegli anni, a iniziare dal mettersi in gioco e partire da sé. e mi sono trovata allora a pensare – e questo libro adesso me lo conferma – che la trasmissione tra generazioni non solo è possibile, ma a volte funziona anche, e bene. Graziella Gaballo
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Marcello Flores (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, Milano, Franco Angeli, 2010; pagg. 248, € 30,00. il volume raccoglie gli esiti di una ricerca durata oltre tre anni, che ha visto studiosi delle università di roma, La sapienza e roma tre, siena, urbino e Venezia indagare sugli stupri di massa che hanno caratterizzato le guerre e i conflitti del Novecento – le due guerre mondiali, le esperienze delle dittature latinoamericane e dei conflitti in Bosnia e rwanda – coniugando analisi storiografica e riflessioni di carattere teorico e metodologico. sino a tempi recenti, temi quali la violenza politica, la tortura, lo stupro di massa e la violenza sessuale durante conflitti armati e guerre civili sono stati considerati oggetti di studio per diverse discipline – tra cui il diritto internazionale, gli studi sui diritti umani, gli studi di genere, quelli di politica internazionale, ma anche la sociologia, l’antropologia e in qualche misura la letteratura – ma molto meno per la storia, con qualche limitata eccezione. Questa ricerca si propone invece di porre proprio l’interpretazione storica dello stupro di massa al centro di un’indagine e di un’analisi che deve comunque essere necessariamente interdisciplinare, e interagire con gli spunti tratti dalle memorie e con gli stimoli offerti dalla sociologia, dal diritto internazionale e da altre discipline. Le ricerche presenti nel volume sono focalizzate su contesti cronologici e geografici diversi e talvolta distanti, dalla Prima guerra mondiale alle violenze dell’Armata rossa nella Germania occupata a quelle in America latina e nell’ex Jugoslavia o in rwanda, e hanno, come è ovvio, caratteristiche differenti, oltre che ambiti diversi di intervento, ma tutte si fondano su materiali documentari nuovi o comunque prima scarsamente utilizzati e analizzati e, attraverso il ricorso a fonti quali documenti militari, memorie, atti processuali, resoconti giornalistici, interventi di rappresentanti delle organizzazioni femminili, fanno emergere un quadro articolato e complesso di questa realtà che è sempre stata sottovalutata, taciuta, nascosta con motivazioni politiche e morali, ideologiche e giuridiche e che fa ancora molta fatica a imporsi come una verità che nessuno può più evitare di affrontare.
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Lo stupro nelle guerre attraversa infatti tutte le epoche e tutte le frontiere culturali, ma solo in anni recenti, a causa di tragici eventi collettivi, è avvenuto il suo riconoscimento come crimine contro il diritto umanitario e bellico, sia in ambito giuridico sia nella consapevolezza pubblica. esso venne infatti per la prima volta rubricato come crimine contro l’umanità, solo il 22 febbraio 2001, quando tre soldati serbo-bosniaci, il cui capo di imputazione era quello di stupro, vennero ritenuti colpevoli di crimini contro l’umanità dal tribunale internazionale per i crimini della guerra nella ex Jugoslavia: sentenza importante – perché cancella la convinzione, viva per l’intero ventesimo secolo, per la quale la violenza contro le donne in tempo di guerra era una conseguenza incresciosa ma in qualche modo ineliminabile della guerra stessa – e segno che nel corso di un secolo sono cambiate la mentalità, le leggi, la percezione, la sensibilità e gli accertamenti di responsabilità sulla violenza commessa contro le donne attraverso la violazione del loro corpo. Graziella Gaballo
L’autore ha vissuto da protagonista la storia narrata nel libro. Proprio per questo, a maggior ragione, gli va dato atto della grande onestà intellettuale e dell’efficace lucidità con la quale si pone di fronte a una vicenda che ha assorbito una parte molto significativa della sua vita politica. Analizzandone senza reticenze non solo i molti aspetti positivi e fecondi ma anche limiti ed errori. dei riformisti, nell’ambito del Pci prima e del Pds poi, enrico Morando è stato tra i principali ispiratori e animatori, insieme a personalità politiche quali Giorgio Napolitano, emanuele Macaluso, Paolo Bufalini, Gerardo chiaromonte, solo per citare alcuni dei nomi più noti. sono loro, insieme naturalmente ad altri dirigenti comunisti, a dar vita tra la fine del 1989 e la
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enrico Morando, Riformisti e comunisti? Dal PcI al PD. I “miglioristi” nella politica italiana, roma, donzelli, 2010; pagg. 151, € 17.
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fine del 1994 a quell’area organizzata che, nel lessico politico diffuso, è conosciuta come la corrente dei miglioristi. Anche se in prima fila campeggia, ritornando un po’ in quasi tutti i passaggi cruciali del libro, la figura possente di Giorgio Amendola, leader carismatico della “destra comunista” e, secondo la stessa opinione dell’autore “padre legittimo” dell’esperienza riformista. Non solo nell’alimentare la riflessione teorica sulla necessaria evoluzione del comunismo italiano verso l’approdo della socialdemocrazia, ma anche nel determinare il perimetro invalicabile entro cui quella riflessione poteva e doveva essere condotta. il dogma del centralismo democratico, abbinato a una concezione “triadica” del partito, che affida al centro il compito di governarne la linea, costituisce il recinto inviolabile, e peraltro pienamente condiviso, entro cui Amendola circoscrive rigorosamente la sua battaglia ideale, riguardi essa il giudizio sull’esperienza del centro-sinistra, l’avvicinamento alle socialdemocrazie europee, la lettura del capitalismo. un recinto metodologico e politico, dal quale non solo il Pci-Pds, ma la stessa famiglia riformista farà fatica a emanciparsi. Né basteranno ad abbatterne le barriere le convulsioni via via registrate nei paesi del “socialismo reale”: la primavera di Praga, la vicenda di solidarnosc e del colpo si stato di Jaruzelsky. dalle quali non scaturirà mai, fino alla svolta dell’89, l’abbandono definitivo dell’illusione circa la riformabilità del comunismo. significativa è la lettura che Morando ci fornisce del periodo della solidarietà nazionale, della sua rottura e del successivo passaggio alla fase del cosiddetto “secondo Berlinguer”. se, per Michele salvati, la politica della solidarietà nazionale segna una stagione di egemonia dei miglioristi in seno al Pci, questa egemonia, evidenzia l’autore, non apre nessuna “esplicita revisione… della cultura politica e dell’identità del Pci”. Giacché è lo stesso Berlinguer, dice ancora Morando, a concepire “il compromesso storico come una strategia politica esplicitamente vocata al superamento del capitalismo e alla rottura del sistema”. concezione contrapposta in radice all’approccio dei riformisti (ancora non costituitisi formalmente, ma già molto attivi nel dibattito), che vorrebbero invece connotare la solidarietà nazionale come stagione di passaggio verso una compiuta democrazia del-
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l’alternanza, escludente per definizione ogni idea di superamento del sistema capitalistico. La via di uscita berlingueriana dalla solidarietà nazionale, attraverso l’esaltazione identitaria della “diversità comunista”, riaffermando il collocarsi del Pci quale alternativa sistemica, non fa, secondo l’autore, che confermare quanto era già nelle cose, ancorché non tutti i dirigenti riformisti l’avessero compreso. Nella ricostruzione di Morando, l’apice della battaglia condotta dai “miglioristi” all’interno del Pci viene fatto coincidere con il congresso di Firenze del 1986, nel corso del quale arrivò ad approdo l’autodefinizione del partito quale “parte integrante della sinistra europea”. una rottura che portò Napolitano a parlare di “fuoriuscita del Pci dal movimento comunista”, ma che l’autore ridimensiona, soprattutto alla luce della svolta “neocomunista” del XViii congresso dell’inizio 1989, solo di pochi mesi precedente la svolta occhettiana. svolta sulla quale il giudizio è netto e tranciante: “l’ultimo treno utile per ‘europeizzare’, cioè omologare la sinistra italiana alla socialdemocrazia europea”. un treno perso, a causa di quella che Morando qualifica come “velleità di oltrepassamento di tutte le tradizioni”, messa in campo da Achille occhetto, nel contesto di un permanente profilo politico antagonista. La svolta, tuttavia, lascia aperto il campo all’area riformista (a quel punto apertamente costituita e organizzata), di produrre un ulteriore salto di elaborazione, verso la ricerca di una sintesi tra socialismo democratico e liberalismo. e poi di avviare la riflessione sul progetto di una nuova creatura politica, capace di far interagire tra loro i socialismo, liberalismo, cattolicesimo democratico: l’idea primigenia di quel Pd che, pur con tutte le precisazioni circa la tortuosità del percorso, l’autore insedia in definitiva nell’esperienza dei riformisti. Anche a proposito di questa stagione politica, l’attenzione si accentra in particolare su una di quelle che l’autore considera occasioni perdute. il ritiro dei ministri del Pds dal governo ciampi, dopo la mancata autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nei confronti di craxi. una scelta che Morando giudica non solo sbagliata, ma anche pregiudizievole di una possibile alleanza con il centro cattolico alle successive elezioni del
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1994 e, in definitiva, causa della rovinosa sconfitta della “gioiosa macchina da guerra” dei Progressisti. Particolare attenzione Morando dedica alle elaborazioni del cisdeL, all’apertura di quel laboratorio politico che, a muovere dalla consapevolezza che neppure l’approdo alla socialdemocrazia possa ormai costituire il passo sufficiente a creare in italia le condizioni dell’alternanza, attraverso l’esperienza di Alleanza democratica, arriverà alla nascita dell’ulivo e, infine, alla costituzione del Partito democratico. che dopo aver a lungo costituito un tabù addirittura impronunciabile, irrompe fulmineo nel consumarsi del disastro dell’unione. All’interrogativo contenuto nel titolo: è possibile essere stati comunisti e riformisti al tempo stesso? La risposta che parrebbe dare l’autore è duplice. sì, se si guarda all’esperienza e alle intenzioni soggettive dei protagonisti della vicenda narrata, al loro indiscutibile contributo all’evoluzione della sinistra italiana. No, se esperienze e intenzioni soggettive si riconducono nel campo di una storia collettiva in cui, sino alla svolta dell’89, prevalgono, almeno nell’elaborazione teorica, le impostazioni del centralismo democratico e l’orizzonte del rovesciamento del sistema capitalistico. se vogliamo, si tratta di quella mancata Bad Godesberg del principale partito della sinistra italiana, che ne determina a lungo la sostanziale alterità rispetto alla famiglia delle socialdemocrazie europee, relegando la sua grande storia di conquiste avanzate e di contributi decisivi alla costruzione della democrazia italiana ai confini, per quella storia pressoché invalicabili, delle stanze del governo nazionale.
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daniele Borioli
ermanno Vitale, Difendersi dal potere. Per una resistenza costituzionale, Bari Laterza, 2010; pagg. 127, € 16. il libro di ermanno Vitale, la cui riflessione è iniziata alcuni anni fa proprio qui ad Alessandria (cfr. “Quaderno di storia contemporanea” n. 47), si interroga sulla liceità, quando non sia un dovere vero e proprio, di resi-
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stere al potere, ai diversi tipi di potere che la vita collettiva può incontrare, anche a quelli formalmente rispettosi di quelle che Bobbio definiva le regole procedurali della democrazia. il libro è diviso secondo quattro questioni di importanza fondamentale: la prima riguarda la resistenza, intesa come forma ibrida della categoria del mutamento politico; l’autore la compara alle altre forme di mutamento, dalla rivoluzione, cui sembra storicamente più affine, alla riforma al conservatorismo, alla reazione alla restaurazione. La seconda si interroga sulle ragioni della resistenza e sulla sua giustificazione. specularmente la terza questione, partendo dalla tipologia aristotelica, analizza quali forme di potere politico sono più suscettibili di resistenza. secondo Vitale, tradizionalmente ci sono molte argomentazioni relative alla resistenza al potere paterno o dispotico; molto meno numerose sono le argomentazioni contro il potere economico e ideologico, molto più rilevante specie in quest’ultimo periodo in cui tanto i network informativi quanto le reti economiche sono transnazionali. una risposta potrebbe essere quella di resistere al solo potere politico, ma l’autore ritiene che questa soluzione sia, alla fine, insufficiente. L’ultima questione, infine, riguarda i mezzi da adottare: la resistenza passiva non violenta (cioè la disobbedienza civile), o la resistenza attiva, la violenza. in senso costituzionale, la resistenza è una reazione a mutamenti ritenuti illegittimi (conservatorismo costituzionale, che non equivale a conservatorismo politico, anche se ad esso non si oppone, come non si oppone al riformismo posto che questo si attenga ai metodi costituzionali), e si oppone alla reazione, in quanto quest’ultima cerca di combattere le riforme, riportando indietro l’orologio della storia. ha senso poi domandarsi se si possa indagare su un quadro normativo, per giustificare il diritto di resistenza, e la risposta per Vitale è positiva, in quanto, se non vi fosse il panorama normativo del costituzionalismo politico, la resistenza assumerebbe i connotati di una vera e propria rivoluzione. L’argomento è tuttavia controverso. secondo Bobbio nelle democrazie contemporanee la questione della resistenza si pone nel momento della confusione dei poteri, soprattutto nelle commistioni tra potere politico economico ed ideo-
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logico, ma la questione non sta più nella liceità morale bensì nella convenienza e nella fattibilità, insomma nei rapporti di forza. Altrettanto interessante è l’analisi (entrambe risalgono agli anni settanta) di Passerin d’entreves, che individua otto casi relativi al rapporto comando/obbedienza: l’obbedienza consenziente, l’obbedienza formale, l’evasione occulta, l’obbedienza passiva (propria di chi disattende una o più regole, in nome di un principio superiore, ma accetta liberamente le conseguenze), l’obiezione di coscienza, la disobbedienza civile, la resistenza passiva, la resistenza attiva (che mira al sovvertimento totale dell’ordine costituito). Passerin d’entrevès osserva che le tre forme dell’obiezione di coscienza, della disobbedienza e della resistenza passiva non mirano a mutare drasticamente il sistema e sono compatibili con l’ordine costituito (è questo il caso di Antigone, ad esempio). Quanto alla situazione italiana, un esperto di diritto costituzionale come Luigi Ferrajoli nota come in diverse costituzioni si trovano cenni a un diritto di disobbedienza civile, in casi particolari e il tema fu affrontato anche durante i dibattiti della costituente: si trattava di un tema particolarmente caro a Giuseppe dossetti; ma i costituenti non ritennero di darvi seguito. come disse Giovanni sullo, il ruolo della costituzione è politico e non pedagogico. Questo “resistere” nell’italia attuale pare avere un senso: per il lodo Alfano, che non solo è una legge ad personam, ma palesemente viola il dettato costituzionale dell’eguaglianza di fronte alla legge, per il ricorso continuo alla fiducia parlamentare e al decreto-legge, alle leggi-delega e al loro reiterato prolungamento; a cui si aggiungono provvedimenti che di fatto limitano i diritti fondamentali della persona. tutto questo mostra come il rispetto del patto sociale su cui si fonda lo stato è messo continuamente in discussione. un altro ambito di resistenza al potere politico riguarda i rapporti, sempre più confusi, tra potere ideologico ed economico: già Pier Paolo Pasolini metteva in guardia dai rischi dell’eccesso di potere mediatico, che avrebbe finito, scriveva, per generare un vero e proprio fascismo dell’informazione, dove la concentrazione dei media in poche mani non soltanto mina il plu-
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ralismo, ma di fatto impedisce di ricevere una informazione corretta a coloro che non sono in grado di cercarne o di produrne una diversa. Lo stesso si può dire rispetto agli eccessi del potere economico, che sono propri della società di mercato in cui viviamo. se è vero che il sistema di economia di stato socialista ha fallito (e nessuno vorrebbe ritornarvi) è anche vero che il capitalismo esaltato in modo idilliaco da Luigi einaudi, anche prima dell’odierna crisi mondiale si è dimostrato creatore di immesse diseguaglianze, che da sole sono un problema politico mondiale. Proprio all’insufficienza della politica hanno fatto riferimento movimenti come quello della “decrescita” di caillé e Latouche, che evidenziano i limiti della ragione utilitaria. ciò che richiede una vera resistenza democratica non è secondo Vitale, la mancanza o la riduzione di diritti come la libertà di informazione o la libertà economica, è appunto il fatto che sono venute a mancare le norme politiche (o costituzionali) di garanzia. come si struttura, allora, un modello di resistenza specie dove la violenza è strutturale, non evidente, ma sotto traccia? il modello di resistenza non violenta di Gandhi, privato di quell’aspetto mistico e messianico che era una parte integrante del suo approccio, e trasformato, più laicamente, da forza della verità in forza della costituzione, perché le costituzioni degli stati di diritto sono immanenti, sono il frutto dell’azione di uomini e donne e sono quanto di più alto la nostra storia ha prodotto. Per eliminare, finalmente, il fascismo culturale, la violenza strutturale e il darwinismo sociale.
Michael sandel, giustizia. Il nostro bene comune, Milano, Feltrinelli, 2010; pagg. 332, € 25. Michael sandel, professore di Filosofia politica all’università di harvard, e a buon diritto considerato il successore di John rawls, tiene ogni anno un corso propedeutico intitolato appunto giustizia, che costituisce la base di questo saggio. La questione del bene comune, nei suoi molteplici aspetti,
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Antonella Ferraris
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viene affrontata da sandel utilizzando i classici del pensiero politico da Aristotele a rawls, attraverso temi ed esempi tratti dalla vita contemporanea, e dagli aspetti più noti della società americana, dall’uragano Katrina alla maternità surrogata. Al di là delle caratteristiche degli esempi che possono essere facilmente sostituiti con altri tratti dalla realtà del nostro paese, il libro dovrebbe costituire una lettura quasi obbligatoria nei nostri tempi in cui la nozione di bene comune sembra alquanto appannata, se non addirittura scomparsa L’autore osserva che non possiamo fare a meno di affrontare giornalmente temi etici, ed è difficile districarsi tra cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è bene e cosa è male. La conseguenze delle scelte etiche si determinano a livello politico e legislativo e si calano nei dibattiti e negli eventi che riguardano questioni concrete, dalla speculazioni economiche al matrimonio tra persone dello stesso sesso, sulle diseguaglianze sociali e sull’azione positiva nelle università. una discussione aperta, che rimanda alla necessità di non lasciarsi accecare sempre e solo dalle ideologie. una lettura necessaria, anche e soprattutto per chi si occupa di storia contemporanea. Antonella Ferraris
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Alessandro e. Basilico, costituzione della Repubblica italiana. una lettura guidata della carta costituzionale, Milano, Fondazione roberto Franceschi, s.i.d., ma 2010; pagg.84, s.i.p. carlo carzan, sonia scalzo, 1,2,3 costituzione. Percorsi ludici e creativi per una cittadinanza attiva, Molfetta (Bari), edizioni la Meridiana, 2010; pagg.182, € 18,00. due libri diversi tra loro, ma accomunati dall’esigenza di avvicinare in maniera semplice e piacevole i giovani alla lettura e alla conoscenza della nostra carta costituzionale, offrendo nel contempo parecchi spunti agli insegnanti che nelle loro scuole, di diverso ordine e grado, vogliano av-
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viare percorsi sulla costituzione (vista non solo come un insieme di articoli di legge, ma anche come un contenitore di regole morali ed etiche che costituiscono le fondamenta di uno stato di diritto) attraverso laboratori didattici. il primo – realizzato dalla Fondazione roberto Franceschi onlus, curato da Alessandro Basilico, autore dei commenti a tutti gli articoli della costituzione, e arricchito da contributi di oscar Luigi scalfaro, Valerio onida, Lydia Franceschi, Mariachiara Fugazza, Marisa Valagussa e Piero calamandrei – nasce come proposta per un’adozione gratuita da parte degli studenti delle scuole di istruzione superiore di Milano, della Provincia e della Lombardia. in esso, si viene proprio presi per mano e guidati a muoversi tra i diversi articoli, grazie ai commenti che li accompagnano e che spiegano come queste norme sono state o possono essere interpretate e applicate. inoltre, per moltissimi di essi – ad esempio, per quasi tutti quelli della Prima parte, quella sui diritti e i doveri dei cittadini – viene presentato un problema concreto, che chiunque può provare a risolvere alla luce degli articoli commentati, e discutendone con i compagni e con gli insegnanti – e questo perché si vuol far passare l’idea che la costituzione non sia affatto un insieme di alti e bei principi, ma lontani dalla vita di tutti i giorni e di ognuno di noi; per cui, ecco il caso di un ragazzo che non viene assunto perché ha un figlio; o quello di un anziano che viene ricoverato d’urgenza e al quale rifiutano il rimborso delle cure; o ancora quello di una ragazza che non viene ammessa a una scuola superiore perché è disabile. un altro rischio che questa pubblicazione ha ben presente e che intende evitare è poi quello che l’italia descritta nella carta costituzionale – nella quale tutti i cittadini hanno le stesse opportunità, i lavoratori ricevono un giusto salario e possono mantenere la propria famiglia, i funzionari pubblici sono al servizio esclusivo della Nazione e non perseguono il proprio interesse personale, a tutti sono garantite le cure necessarie e si ha rispetto per le minoranze – appaia un’italia ideale e irrealizzabile. Per cui, si insiste parecchio sul concetto che la costituzione pone un obiettivo e fornisce gli strumenti per raggiungerlo, ma poi tocca a tutti noi (politici, Parlamento, governo, giudici, cittadini) darsi da fare perché ciò avvenga e sul fatto che anche i
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giovani studenti possono fare cose importanti, pur nel loro piccolo; ad esempio, ottemperare ai doveri e a rispettare i diritti altrui, ma anche pretendere il rispetto dei propri diritti. il secondo libro, invece, come recita il titolo, propone una sequenza di giochi, per arrivare a scoprire – attraverso quindi un metodo di apprendimento ludico e creativo – cosa la nostra costituzione sancisce a proposito di uguaglianza e solidarietà, di famiglia, religione, relazioni sociali o di scuola e istruzione, o ancora di libertà. Le attività proposte sono suddivise in sette gruppi, in base al principio ispiratore che viene analizzato attraverso il gioco (uguaglianza e solidarietà, diritti e doveri, famiglia, religione, istruzione, lavoro, ecc.) e ognuna di esse è già stata sperimentata dagli autori sia con ragazzi che con adulti, per cui sono in grado gli autori stessi di suggerire, ad esempio, in quali casi si possano avere risultati migliori integrando le attività con la visione di film, brevi documentari, la lettura di libri, gli incontri con “testimoni” di cittadinanza o la scrittura. entrambi i testi, quindi, presentano e propongono una serie di attività, che sono la base per percorsi più ampi e che, comunque, mettono i ragazzi di fronte alla necessità di riflettere, di fermarsi a trovare soluzioni, scoprendo in modo maieutico dentro di sé una personale risposta alle domande. si tratta, inoltre, spesso di proposte trasversali, che possono essere trasformate e ricollocate con facilità su tematiche differenti e che offrono, quindi, ai docenti strumenti operativi per realizzare attività con i ragazzi, attraverso la didattica laboratoriale, la didattica ludica, l’animazione alla lettura e la maieutica. Graziella Gaballo
sarah Kaminski e Maria teresa Milano, Il libro della Shoah, casale, edizioni sonda, casale 2009; pagg. 192, s.i.p. il testo, dedicato a bambini e ragazzi – ma che si rivolge principalmente agli studenti delle scuole medie e superiori – affronta un tema originale e dif-
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ficile: la shoah vissuta dai bambini. e lo fa proponendo materiale narrativo, storico, artistico, memorialistico e biografico scelto, rielaborato e presentato con grande competenza e sensibilità dalle due curatrici, per offrire al lettore la concretezza del vissuto di allora. La “scommessa”, perfettamente riuscita, è infatti quella di restituire a quel milione e mezzo di bambini ebrei, slavi e zingari a cui il nazismo ha strappato infanzia e vita, un volto e una storia individuale come ben indica il titolo stesso: Ogni bambino ha un nome…. ed è scommessa importante, soprattutto da un punto di vista didattico, perché, come fa notare Anna Foa nell’introduzione: “La mia esperienza di docente mi ha mostrato che non occorre mostrare cataste di morti per comunicare l’orrore. A volte, basta un particolare. dobbiamo riuscire a ritrovare il pudore delle emozioni. senza cercare di cambiare il nostro interlocutore con la violenza dell’orrore, usando delicatezza nel gettare i semi della conoscenza e della coscienza”; è davvero importante stare attenti a non fare del “giorno della memoria” o di qualsiasi altra occasione in cui riflettere su quanto è avvenuto qualcosa che congeli, magari trasformandolo in icona, il ricordo, privandolo in questo modo di ogni relazione con il presente e rendendolo incapace di entrare in una dimensione storica, concreta, viva, e proiettata al futuro. il testo è suddiviso in tre sezioni. La prima, Narrazioni, dedicata alle storie dei sopravvissuti, ospita due lunghi racconti inediti: Sulla luna nera un grido, di Lia Levi – che narra la vita spezzata dalle leggi razziali in italia, il futuro rubato a un neonato e ai suoi giovani genitori – e Il sottomarino di uri orlev, che è una pièce teatrale a misura di ragazzo, in cui viene raccontata la straordinaria capacità dei bambini di saper giocare anche nelle situazioni più terribili di guerra, solitudine, privazione; la simulazione di un blog, Ragazzi come voi, in cui ragazzi e professori postano una raccolta di materiali e testimonianze degli anni trenta e Quaranta e l’intervista a Marian ed elizabet, bambini ebrei durante la seconda guerra mondiale. La seconda sezione, Vissuti, è divisa a sua volta in cinque unità e presenta materiali eterogenei, in gran parte derivati dalle esperienze didattiche costruite negli ultimi anni dalle autrici: importanti letture storiografiche, foto,
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documenti, canzoni…; interessanti in particolare due percorsi, uno fotografico, commentato da Alberto cavaglion, e l’altro relativo al tema della propaganda fascista nella formazione dei bambini attraverso la scuola, la radio e la musica. infine, la terza sezione, Laboratorio, ha come destinatari genitori e “addetti ai lavori”, quali insegnanti, educatori e bibliotecari e si pone come utile supporto per rielaborare i contenuti delle sezioni precedenti e per guidare a ulteriori approfondimenti: agile strumento didattico, indica nuove strategie educative, attraverso la strutturazione di percorsi formativi e presenta materiale di immediata spendibilità didattica, nel senso più tradizionale del termine: letture, proposte operative, cronologie e mappe, un glossario e una bibliografia multimediale. il volume vede anche i contributi di autorevoli studiosi come Marco Brunazzi, Alberto cavaglion, roberto della rocca, Anna Foa e Brunetto salvarani ed è arricchito dalle illustrazioni e le opere d’arte di Marc chagall, emanuele Luzzati, Nerone (sergio terzi) e Valeria de caterini e dall’introduzione di david Grossman.
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Graziella Gaballo
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Judaica a cura di Aldo Perosino
esther hillesum (questo il suo vero nome) era nata il 15 gennaio 1914 a Middelburg, in olanda, da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica. Viveva ad Amsterdam. Qui si laureò in Legge. Poi si iscrisse alla facoltà di Lingue slave, dando lezioni private di russo. il padre (preside di un liceo) era un grande studioso, mentre la madre, a suo tempo, era fuggita dalla russia per i pogrom, dove le cicliche e infami persecuzioni si scatenavano contro gli ebrei. Aveva due fratelli: Mischa (uno dei pianisti più promettenti d’europa, un virtuoso della tastiera che già a sei anni incantava suonando Beethoven in pubblico) e Jaap (altro talento della famiglia, che a soli diciassette anni aveva scoperto un nuovo tipo di vitamina e più tardi diventò medico). Fu assistente e compagna di vita di Julius spier, fondatore della psicochirologia (aveva fatto a Zurigo il training analitico con carl Gustav Jung). Quando iniziò a scrivere il diario, nel 1941, etty hillesum aveva 27 anni. “Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno – annotava –. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più ‘raccolta’, concentrata e forte”. sembrano, quasi, i pensieri di una mistica. Poco dopo, i tedeschi cominciarono i rastrellamenti degli ebrei olandesi. Per evitarle l’internamento a Westerbork (campo di smistamento dove transitavano gli ebrei catturati prima di essere deportati in Polonia), alcuni amici le trovarono un impiego di dattilografa al consiglio ebraico (questi organismi erano posti sotto la responsabilità dei membri più importanti delle comunità israelite sparse in europa, ma in realtà furono creati ad arte dai nazisti nei territori occupati per gestire meglio e con l’inganno il “problema” ebraico). Ma a Westerbork si recò qualche settimana dopo di sua
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G. Bovo, Il dodicesimo quaderno. gli 83 giorni di Etty Hillesum ad Auschwitz, Molfetta, La Meridiana, 2009; pagg. 72, € 12.
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spontanea volontà, per aiutare i malati nelle baracche dell’ospedale. ogni lunedì, un treno entrava nel campo. e il giorno dopo ripartiva con più di mille anime. destinazione Auschwitz. “La locomotiva manda un fischio terribile, tutto il campo trattiene il fiato”, scriveva in una lettera. “in quei vagoni merci giacciono diversi bambini piccoli con la polmonite. A volte è proprio come se ciò che accade non fosse affatto vero”. in vagoni merci sigillati con assi di legno e stipati come bestiame, con “materassi di carta per i malati e altrimenti il duro pavimento, nel mezzo un barile”, viaggiavano gli ebrei con la “stella gialla” per tre giorni verso est. un viaggio disumano, orribile, infernale, che li conduceva in un altro inferno più grande e terribile, dove venivano marchiati a fuoco come bovini e poi gasati e cremati. La miseria che trovò era davvero impressionante: “La miseria che c’è qui è veramente terribile. eppure alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore s’innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare –, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. e se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita”. Viene la pelle d’oca a leggere queste parole, se pensiamo che la maggior parte degli esseri umani è sempre pronta a imprecare e a lamentarsi per le piccole o grandi ingiustizie subite. Ma lei indica un’altra strada da seguire: “io sono quotidianamente in Polonia, su quelli che si possono ben chiamare dei campi di battaglia, talvolta mi opprime una visione di questi campi diventati verdi di veleno; sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno – ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c’è posto per tutto. Per una fede in dio e per una misera fine”. in etty hillesum non una sola parola indulge a offendere dio, ma tanta feconda preghiera. certo, aggiungeva, “siamo stati marchiati dal dolore, per sempre. eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità”. ci in-
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segna inoltre che i mali e le persecuzioni sono dovuti agli uomini e non al Padre eterno. La sua vita è ormai diventata un colloquio ininterrotto con dio, “un unico grande colloquio”. Fu un esempio per tutti, a Westerbork. Grazie a uno speciale permesso del consiglio ebraico, si era recata più volte ad Amsterdam (anche se spesso aveva problemi di salute) portando lettere e messaggi ai parenti dei prigionieri (perfino ai gruppi della resistenza) e raccogliendo medicinali da far arrivare al campo. A nulla valsero le pressioni degli amici per farla nascondere. il 7 settembre 1943 arrivò l’ordine di deportazione. Prima di lasciare per sempre l’olanda, era riuscita a gettare dal treno una cartolina indirizzata all’amica christine van Nooten (raccolta e spedita dai contadini): “christine, apro a caso la Bibbia e trovo questo: ‘il signore è il mio alto ricetto’. sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro”. seguendo il proprio percorso, spiega Jan Gaarlandt, che per primo la fece conoscere al grande pubblico: “etty maturò una sensibilità religiosa che dà ai suoi scritti una grande dimensione spirituale”, ma la sua religiosità è tutt’altro che convenzionale. Adesso, in olanda, i cristiani rivendicano etty come la quintessenza del cristianesimo, e gli ebrei come la quintessenza dell’ebraismo; è una disputa oziosa, perché etty segue un cammino assolutamente personale. ha un ritmo religioso tutto suo, che non è dettato da chiese o sinagoghe, né da dogmi, né da nessuna teologia, liturgia o tradizione – cose che le erano tutte completamente estranee. etty si rivolge a dio come a se stessa. etty hillesum appartiene comunque all’umanità. e, al di là delle dispute, troviamo edificante ciò che scrive. etty amava le opere di rilke, i fiori e la vita. Morì ad Auschwitz il 30 novembre 1943, e lì pure morirono Mischa e i suoi genitori. e. salerno, mossad base Italia, Milano, il saggiatore, 2010; pagg. 258, € 19.
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dall’incontro con lo 007 Mike harari, eric salerno comincia a tessere una delle storie più incredibili e meno raccontate dello spionaggio internazionale: l’attività italiana dei servizi segreti israeliani. Per oltre sessant’anni gli agenti di tel Aviv hanno costruito, ideato e condotto le loro azioni facendo base tra roma e Milano, complici i governi e i “servizi” del nostro paese. dall’immigrazione clandestina degli ebrei sopravvissuti alla shoah al traffico internazionale di armi, dal sabotaggio della motonave Lino, alle azioni armate contro le industrie italiane che rifornivano gli arabi. e poi, il rapimento Vanunu, passando per il misterioso disastro aereo di Argo 16, l’assassinio dell’intellettuale palestinese Wael Zwaiter, ordinato da Golda Meir per vendicare la strage di Monaco. Nel 1945, lo stato di israele non era ancora sorto. Per la sua posizione geografica nel Mediterraneo, l’italia era il luogo ideale scelto dai fondatori del Mossad – il leggendario Yehuda Arazi, meglio noto col nome in codice “Alon”, impersonato nel film exodus da Paul Newman, e Mike harari, l’uomo che ha accettato di svelare all’autore di questo libro i segreti della sua vita di spia – per impiantare la loro rete e diventare così il principale luogo di smistamento dell’immigrazione clandestina di ebrei europei e la base di transito dei militanti delle organizzazioni terroristiche ebraiche. oltre a quello geografico, il Mossad poté godere in italia di un altro fattore decisivo: il beneplacito delle autorità politiche, disposte a “chiudere un occhio, e possibilmente due” dinanzi alle operazioni clandestine, che permisero all’esercito israeliano, in pochi anni, di superare la capacità militare di tutti gli eserciti arabi messi insieme. A roma il quadrilatero intorno a via Veneto sembrava un quartiere della casablanca di Bogart, pullulante di spie e di agenti segreti con licenza di uccidere: personaggi reali fatti rivivere da eric salerno attraverso i ricordi di Mike harari, che per la prima volta abbandona i suoi nomi in codice e viene allo scoperto. mossad base Italia ci regala un affresco inquietante e affascinante basato su documenti, testimonianze e un minuzioso lavoro giornalistico. Misteri irrisolti e storie personali si intrecciano come in un romanzo.
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L. Bravi, Altre tracce sul sentiero per Auschwitz. Il genocidio dei Rom sotto il Terzo Reich, roma, ed. cisu, 2003; pagg. 176, € 18. Mezzo milione furono le vittime rom della persecuzione razziale nazista. sottoposti a sterilizzazione coatta e a esperimenti eugenetici, costretti nei campi di sosta forzata, trucidati dalle squadre d’azione nelle steppe dell’est, deportati nei campi di concentramento, anche i rom giunsero ad Auschwitz-Birkenau, il luogo appositamente individuato per portare a termine la soluzione finale della “questione zingara”. il lager di sterminio polacco fu punto di convergenza e d’incontro per ebrei e rom, unici popoli destinati all’annientamento totale perché considerati geneticamente inferiori. da qui l’analisi storica riannoda i fili di un racconto passato sotto silenzio per più di cinquant’anni tramite un percorso che prende il via dai contributi relativi alla shoah per individuare un evidente parallelismo tra i due eventi storici. shoah e genocidio dei rom divengono complementari tra loro, tasselli di un unico mosaico capaci d’illuminarsi a vicenda per restituire all’indagine storica una visione d’insieme di quello che fu un crimine compiuto contro l’umanità intera.
“È giunta l’ora. L’italia nostra ha dichiarato la guerra [...] e noi all’italia daremo noi stessi, interamente [...]. La patria nostra deve vincere e trionfare, anche se cadremo noi, anche se morremo [...]. Al lavoro tutti – alla guerra!”. così il periodico piemontese “Vessillo israelitico”, organo delle comunità ebraiche, spronava gli ebrei, cittadini italiani di pieno diritto, alla guerra: furono 5.500, tra cui circa 300 irridenti triestini e residenti fuori dall’italia, gli ebrei pronti a sacrificare la propria vita per la patria. Grazie alla capillare e la preziosa opera di Pierluigi Briganti si fu luce sulla partecipazione ebraica alla Grande Guerra. una ricerca pluriennale divisa in tre parti: una prima dedicata ai partecipanti, una seconda ai caduti e una terza ai decorati. È rilevante sapere che gli ebrei erano trattari con assoluta pa-
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P. Briganti, Il contributo militare degli ebrei italiani alla grande guerra. 19151918, torino, Zamorani; pagg. 362, € 36.
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rità rispetto agli altri sia nell’esercito che nella marina italiana: cosa che non avveniva negli altri eserciti europei, dove gli ufficiali ebrei erano limitati e discriminati. L’autore poi si sofferma su alcune figure che si sono particolarmente distinte, dandone cenni biografìci. il lavoro termina con una disamina delle carte che riguarda l’avvento di Mussolini, delle leggi razziali del 1938 e del conseguente ignobile trattamento riservato agli ebrei reduci che avevano dimostrato la propria lealtà verso la nazione
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de Matteis c., Dire l’indicibile. La memoria letteraria della Shoah, Palermo, 2009; pagg. 191, € 18. “sarà mai concepibile una lingua propria ed esclusiva dell’olocausto? e se sì, allora questa lingua non dovrebbe essere talmente terribile e talmente funebre da distruggere, alla fine, tutti quelli che la parlano?” si chiedeva imre Kertész. come tutti gli altri reduci dei campi dedicatisi alla memoria letteraria della shoah, il rovello del grande ungherese autore di Essere senza domani, era quello di come rendere la parola a ciò che non può essere detto, a ciò che non conosce una lingua adeguata per esprimerlo: o che, se la trova, rischia a ogni momento lo scacco delle parole di fronte all’immane indicibilità di ciò che raccontano. È il rovello, il paradosso di dire l’indicibile, patito da ogni sopravvissuto, da Primo Levi a Jean Améry e a tutti gli altri che vollero raccontare. A questo è dedicato il presente saggio che per la prima volta si rivolge alla narrazione dell’esperienza dei lager come genere, analizzando le modalità di costruzione letteraria della memoria concentrazionaria: dai già citati Kertész, Levi e Améry, fino alle voci di donne di Auschwitz, le Bruck, le delbo, le Berger, alla Notte di Wiesel, al “nichilismo” di Borowski, fino alle riflessioni religiose, cattoliche e ebraiche di fronte al male, allo scavo psicoanalitico di Bettelheim e, infine, alla poesia di celan. Lo studio concerne quindi non le comuni testimonianze dei deportati, ma quelle di coloro che diverranno poi professionalmente scrittori, la cui opera cioè assume uno specifico valore letterario. si tratta in definitiva di un saggio di critica letteraria sui generis, che prende in esame il valore formale delle testimonianze, i modi della “dicibilità” di un’esperienza di
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per sé indicibile: paradossalmente, come dice uno degli scrittori esaminati, la realtà, quella inesprimibile dei campi di concentramento, ha bisogno di invenzione per diventare vera. L. Frassinetti, L. tagliacozzo, Anni spezzati: storie e destini nell’Italia della Shoah, Firenze, Giunti, 2009; pagg. 75, € 8.10. Quattro storie di ragazzi nell’italia travolta dalle leggi razziali e dalla shoah. sono le storie di Piero terracina, Ada tagliacozzo, enrico Modigliani, Liliana e susanna colombo, raccontate da loro stessi e sapientemente illustrate da Lia Frassinetti. La giornalista e scrittrice Lia tagliacozzo le ha raccolte e documentate, inserendole in quegli anni tragici per la storia dell’italia e dell’europa che hanno portato alla shoah. Parole, disegni, fotografie, documenti familiari, prendono vita in un libro che si legge d’un fiato, ma che spezza il respiro. Finalmente, un libro che parla di ragazzi ai ragazzi. Per conoscere e per non dimenticare. il libro è stato pubblicato in collaborazione con la comunità ebraica di roma.
È ormai noto che la notizia dello sterminio sistematico degli ebrei ad opera dei nazisti circolava in europa e negli stati uniti fin dal 1942. eppure ci vollero tre lunghi anni prima che si ponesse fine alla barbarie del genocidio. Nel frattempo, nessuna azione militare specificamente finalizzata a sabotare la macchina nazista dell’orrore. Nessuna iniziativa diplomatica esplicitamente rivolta a fermare la mano degli aguzzini. Anzi, l’accoglienza di rifugiati ebrei in fuga dalla Germania fu resa ancor più difficile e le porte delle frontiere si chiusero per loro quasi ermeticamente. Perché? theodore hamerow fornisce a questo inquietante interrogativo storico, ancora vivo a tanti anni dalla fine della guerra, una risposta sgradevole, ma molto precisa: l’olocausto non fu fermato prima perché anche le democrazie oc-
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hamerow t., Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all’orrore nazista, Milano, Feltrinelli, 2010, € 28, pagg. 496.
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cidentali furono percorse al loro interno da una fortissima ondata di antisemitismo, che impedì ai governi di prendere misure concrete in soccorso degli ebrei. Perfino negli stati uniti si tentò di far passare le notizie sullo sterminio per semplice propaganda e la questione ebraica come un problema locale. e poi come avrebbero reagito le altre minoranze se si fosse intervenuti solo in favore degli ebrei? La guerra andava combattuta, ma in nome della sicurezza nazionale e non certo per sottrarre gli ebrei al loro destino. Frutto di un vastissimo lavoro d’archivio, il libro di hamerow documenta per la prima volta in modo sistematico perché l’occidente lasciò mano libera alla follia omicida nazista. con una conclusione amara: pur sconfitto, hitler in un certo senso ha vinto perché è riuscito a spazzare via gli ebrei dall’europa.
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G. israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Bologna, il Mulino, 2010; pp. 443, € 29. Le politiche razziali del fascismo furono dettate esclusivamente da scelte di politica estera, e in particolare dall’alleanza stretta con hitler, oppure ebbero radici e motivazioni autoctone? razzismo e antisemitismo furono elementi costitutivi dell’ideologia fascista? Quale fu il coinvolgimento della società italiana? e quale il contributo di scienziati e intellettuali? sono alcuni degli interrogativi cruciali con cui negli ultimi anni si è confrontata la storiografia, nell’intento di fare luce su origini e messa in opera delle leggi razziali antiebraiche volute dal regime nel 1938. Giorgio israel torna sull’argomento e in questo libro documenta con rigore come il razzismo di stato trovasse sostegno in talune elaborazioni teoriche della scienza italiana, dall’antropologia all’eugenetica, alla demografia. Quanto al mondo universitario, se per un verso scontò l’espulsione degli scienziati ebrei, per un altro contribuì alla politica razziale del regime, salvo poi, nel dopoguerra, “dimenticarsi” delle compromissioni, in un processo di rimozione che in molti casi dura ancora oggi.
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J. Mesnil-Amar, Quelli che non dormivano, Parma, Guanda, 2010; pagg. 196, € 15. Parigi, 18 luglio 1944. Gli americani sono già sbarcati in Normandia, la liberazione di Parigi è vicina. il marito di Jacqueline Mesnil-Amar, André, membro della resistenza ebraica, quella sera non torna a casa. catturato dai tedeschi, è stato caricato sull’ultimo convoglio in partenza per Buchenwald. Jacqueline non lo sa e lo aspetta. Questo diario è il racconto emblematico di quei giorni infiniti di attesa, di speranza e disperazione. e intanto i ricordi dei tempi felici si accalcano nella testa di Jacqueline. tutto si mescola nel suo cuore in pena: le notizie sul trattamento riservato ai detenuti, i rifugi di fortuna presso i conoscenti, l’ansia per la figlioletta. Nel frattempo la capitale francese si mobilita, innalza barricate contro i nemici. e mentre le sue strade si riempiono di grida di gioia per la resa dei tedeschi, Jacqueline non sa ancora nulla della sorte di André. solo da lì a poco scoprirà che anche lei potrà essere partecipe di quell’allegria. così si conclude la sua testimonianza, insieme intima e universale, ma non le sue riflessioni. Al diario privato fa seguito una sorta di diario pubblico, in cui l’autrice si chiede che diritto abbiano i sopravvissuti di essere felici, dopo aver conosciuto l’orrore che ha sconvolto l’europa. Leggendo il resoconto di quei giorni strazianti, si ha la sensazione di assistervi in presa diretta.
Leggendo queste pagine si stenta a credere che siano state scritte da un bambino (Leo è nato nel ’32) fino alla prima adolescenza. cronaca-diario dell’esistenza di un figlio della borghesia ebraica fiorentina che in tenerissima età per dono di natura apprende prima la lettura e successivamente l’esternazione dei propri sentimenti tramite la scrittura, a confronto di una realtà che ai suoi occhi infantili è fatta di piccoli avvenimenti quotidiani con lo sfondo di quelli maggiori. i giochi e il contatto con la natura nel contado fiorentino si intrecciano con la cacciata del padre dall’insegnamento,
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L. Neppi Modona, Barbari nel secolo XX. cronaca familiare (settembre 1938 - febbraio 1944), Firenze, Aska edizioni, 2010; pp. 126, € 20.
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con l’esclusione degli allievi ebrei dalle scuole pubbliche e con il congedo delle fedeli collaboratrici domestiche conservando, fino al precipitare degli eventi nel fatidico autunno del ’43, un’atmosfera abbastanza tranquilla, osservati con stile sobrio e, a volte, con una maturità di adulto. scenette aventi a protagonisti amichetti e adulti, con artifizio letterario chiamati con nomi fittizi, di stampo ebraico-fiorentino, che richiamano esempi di prosa toscana che il bimbo Leo, lettore instancabile, avrà certamente conosciuto. Negli ultimi capitoli egli registra, forse, l’ultimo incontro nel tempio di Via Farini prima della tragedia, i discorsi dei grandi a commento smarrito delle notizie che giungono da roma. inizia il passaggio da un nascondiglio all’altro per fuggire dall’incombente mortale pericolo, fatto questo che ha segnato nel corpo e nello spirito il dodicenne Leo, che fu colpito traumaticamente da quella malattia che lo finì a cinquantaquattro anni. eppure questa esistenza, uscita dalla persecuzione e dall’esclusione, fu contraddistinta da una sofferta proclamazione di ideali di fratellanza e di sensibilità sociale, e nobilitata da un impegno culturale di primo ordine: lo studio e l’insegnamento di particolari aspetti della civiltà francese – simboleggiati, per così dire, nei lasciti della biblioteca cagliaritana – e dell’archivio presso il Gabinetto Viessieux a Firenze, segni tangibili di una eredità da conservare.
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u. Pacifici, s. Pacifici Noja, Il cacciatore di giusti: storie di non ebrei che salvarono i figli di Israele dalla Shoah, cantalupa, effatà, 2010; pagg. 190, 13 €. emanuele Pacifici ha dedicato tutta l’esistenza alla ricerca dei Giusti, cioè di coloro che, a rischio della propria vita, ne salvarono molte fra quelle destinate alla deportazione e alla morte nei campi di sterminio. Queste pagine, che sono l’ideale prosieguo della sua autobiografia, presentano figure di uomini e donne che con limpido coraggio si fecero prossimo anche nel pericolo e nella più terribile sventura. La fede nella giustizia porta dritto al cuore stesso della creazione, a quel seme di bontà, presente in ogni cosa, che è l’impronta stessa di dio e che nessun male, nessuna tragedia può darci l’alibi di non far sbocciare.
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Patricelli M., Il volontario, Bari, Laterza, 2010; € 20, pagg.304. un intellettuale polacco, ufficiale di cavalleria, Witold Pilecki, fondatore di un esercito clandestino antihitleriano, nel 1940 affronta una missione che appare una follia. Munito di documenti falsi, si lascia arrestare “casualmente” nel corso di una retata della Gestapo a Varsavia e scopre che la realtà dei campi di concentramento è peggiore di qualsiasi orrenda fantasia. rischia la vita più volte, ma non dimentica la sua missione; creare una rete di resistenza e di mutua assistenza all’interno e all’esterno del lager e far filtrare il resoconto di quello che accade. in due anni e mezzo riesce a creare un’organizzazione di circa 2.000 persone infiltrate. Nel 1943 riesce a evadere. combatte durante l’insurrezione di Varsavia del 1944 e cade prigioniero fino alla fine della guerra. Poi arriva in italia, scrive un ulteriore rapporto e si offre al generale Anders per una missione nella Polonia sotto tallone sovietico. Nel 1947 i servizi segreti comunisti sono ormai sulle sue tracce: viene arrestato, torturato per mesi. Gli estorceranno una confessione delle presunte colpe solo quando minacceranno di imprigionare la moglie e i figli. Viene giustiziato il 25 maggio 1948. su di lui e su quello che ha fatto cala il silenzio. della resistenza ad Auschwitz si arrogherà ogni merito un suo ex compagno di prigionia, nel frattempo divenuto premier del governo polacco e poi presidente della repubblica, cyrankiewicz. Ancora oggi, i familiari ignorano dove sia sepolto.
È la raccolta di saggi frutto di un incontro del maggio 2008 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Modena e reggio emilia sul bilancio e le nuove prospettive di studio sulla applicazione delle leggi razziali nelle varie università italiane. La raccolta si pone il fine di confrontare le acquisizioni delle ricerche condotte sui singoli atenei con lo scopo di scrivere una storia più completa della “politica della razza” durante il fascismo. il confronto fra le varie esperienze di epurazione razziale delle sin-
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V. salimi, G. Procacci (a cura di), L’applicazione delle leggi antiebraiche nelle università italiane, roma, unicopli, 2009; pagg. 235, € 14.
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gole università conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che il meccanismo persecutorio fu applicato “con solerzia e zelo in ogni aerea della Penisola”. si tratta di una ricerca specifica adatta forse agli storici, ma vi sono spunti di interesse per tutti. A. segre, G. Pavoncello, Juden-rampe gli ultimi testimoni, roma, elliot, 2010; pagg. 219, € 17,50. il tempo passa, inesorabile, la shoah si allontana sempre più nel ricordo. Questo libro insegue gli ultimi testimoni, sopravvissuti ai campi di sterminio e ricordando che Primo Levi scrisse “dopo Auschwitz … la poesia mi sembrò più idonea della prosa per esprimere quello che mi premeva dentro, cerca di racchiudere in poesie quello che dicono e quello che non dicono i testimoni”. Lettura imperdibile con molto coraggio e tristezza.
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G. steinacher, La via segreta dei nazisti. come l’Italia e il Vaticano salvarono i criminali nazisti, Milano, rizzoli, 2010; pagg. 432, € 24. Analisi completa e sconvolgente della “grande fuga” che permise ai nazisti “i boia di hitler” di fuggire in sudamerica e in altre nazioni, risultato di un lungo lavoro di consultazione negli archivi italiani, dell’Argentina, Austria, stati uniti d’America, svizzera, Germania, negli archivi del Vaticano, e in quello del collegio di santa Maria dell’Anima a roma, della croce rossa e negli archivi dei centri di documentazione Wiesenthal. Migliaia di nazisti fuggirono dalla Germania dopo avere ricevuto documenti che falsificavano la loro vera identità grazie alla croce rossa, che dalla fine della guerra al 1951, stampò oltre 120 mila titoli di viaggio, per fare espatriare i criminali di guerra. Gli istituti vaticani tra il 1946 e il 1951 diedero rifugio e fornirono nuove identità, tramite anche la Pontificia commissione di assistenza. Gli stessi servizi segreti occidentali al fine di contrastare il comunismo, arruolando ex ss per operazioni di spionaggio. criminali di guerra come erich Priebke, Adolf eichmann e Josef Mengele, riuscirono
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a fuggire, attraversando il sud tirolo, da innsbruck a Bolzano per giungere a Genova dove si imbarcarono. Le mete erano il sudamerica, la spagna, il Medio oriente, l’egitto, la siria. steinacher spiega che “un caso limite” fu quello di Karl hass, collaboratore di Priebke, dichiarato morto negli anni cinquanta, comparve invece nel film La caduta degli dèi di Luchino Visconti, per interpretare proprio un ufficiale nazista. il grande merito dell’autore è quello di aver ricostruito la rete organizzativa e clandestina, responsabile di aver fatto fuggire migliaia di responsabili di atrocità e delitti contro l’umanità. Nessun storico prima di lui si era occupato così dettagliatamente di delineare il quadro storico di una delle vicende più oscure accadute dopo la seconda guerra mondiale, portando alla luce storie e vicende personali di molti di questi criminali.
il 14 luglio 1938 fu pubblicato il “Manifesto della razza”. subito dopo si scatenò, violenta, la campagna antisemita. coi successivi “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista” l’uragano che si abbatté sugli scienziati e sulle scienziate ebrei fu senza scampo: radiati dalle università, dalle accademie e dagli istituti culturali, costretti alla fuga, alla clandestinità, fino alla deportazione e alla morte. Furono specialmente le professoresse che il fascismo non perdonò, cancellandole perfino dagli elenchi ufficiali dei radiati. Questa memoria perduta le ha rese per lungo tempo doppiamente invisibili: come donne di scienza e come ebree. Attraverso le parole (tratte da testimonianze edite e inedite) delle protagoniste, il libro racconta le storie di enrica calabresi, entomologa che si suicidò per non venire internata, della matematica Anna segre, della pediatra Maria Zamorani, che finirono il loro giorni ad Auschwitz, della chimica Vanda Maestro, amica di Primo Levi che tornò viva dal lager. e ancora Gina castelnuovo (studiosa di genetica), emma Barzilai che trovarono rifugio negli stati uniti, salvador e. Luria, Luciana Nissim Momigliano, tullia calabi Zevi e della stessa rita Levi Montalcini che, prima di conquistare il
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r. simili, Sotto falso nome. Scienziate italiane ebree 1938-1945, Bologna, Pendragon, 2010; pagg. 144, € 14.
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premio Nobel nel 1986, fu costretta a nascondersi nel periodo della clandestinità sotto il falso nome di rita Lupani. una sorta di diario privato che ci restituisce, dall’interno, il quadro di un’epoca che ha segnato la storia.
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L. tedesco, I ragazzi della Shoah, Milano, Paoline, 2010; pagg. 122, € 13. “Avevo cinque anni quando nel 1938 furono promulgate le leggi razziali. La persecuzione antiebraica cominciò anche contro di me”. così Luciana tedesco, classe 1933, ebrea, racconta nel suo libro cosa fu per lei, bambina, la shoah. e cosa fu per tanti bambini, cresciuti in fretta tra urla, disperazione e campi di sterminio. Nel volume sono raccolti, infatti, racconti, lettere e testimonianze. il volume ci accompagna ricostruendo quei terribili anni: la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, l’apertura nel 1940 del campo Auschwitz-Birkenau, le sperimentazioni, la gassificazione degli zingari. dopo quel 2 agosto 1944 il silenzio mortale dell’intero lager divenne davvero definitivo perché l’unica cosa in grado di spezzarlo erano stati i canti e i giochi dei piccoli zingari. intanto le lettere dei bambini, alcune mai spedite, ci raccontano quel pianto soffocato, l’ansia per i genitori scomparsi, la paura della solitudine, il bisogno di affetto. Ma anche la sensazione della brezza mattutina sulla pelle che lava pensieri terribili, il latte caldo con pane e marmellata offerto da qualche contadino che offre riparo e rifugio. “e poi i prati, i fiori, il cielo, il sole faceva sentire che non tutti erano nemici, c’erano anche degli amici”, come si legge in una lettera. Nei crematori di Auschwitz-Birkenau, che erano in funzione giorno e notte, venivano bruciati circa 1500 corpi alla volta e le loro ceneri utilizzate nella fertilizzazione dei campi oppure gettate negli stagni, o nei corsi d’acqua circostanti. Fino a quel 27 gennaio 1945 quando i soldati sovietici liberarono il campo. Questa una delle lettere presenti nel volume: “sono roberto e ho sette anni. ho saputo dal mio papà la storia di mia nonna. Anche lui l’ha saputa da poco, perché nonna non aveva mai voluto raccontarla. Però, prima di morire, ha lasciato ai suoi sei figli uno scritto di venti pagine… Mia nonna Grazia nel 1943 abitava al Portico d’ottavia, nel ghetto di roma. Nell’estate del 1943 aveva sedici anni e per sfuggire ai
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bombardamenti di roma trovò rifugio con la famiglia a sutri e così sfuggì alla tragica retata tedesca del 16 ottobre 1943. Ma un certo giorno del 1944 il podestà di sutri chiamò il mio bisnonno Leone e gli raccomandò di lasciare sutri al più presto perché era arrivata una circolare che gli ordinava di denunciare tutti gli ebrei presenti nel Paese. La famiglia di mia nonna andò via subito e si salvò. so che mio padre e i miei zii hanno piantato alberi in israele per ricordare il podestà di sutri e onorarlo. Anche io lo ringrazio perché, salvando mia nonna, mi ha dato la possibilità di nascere e di vivere questi sette anni”. Valenzi M., Ebrei italiani di fronte al razzismo, Villaricca (Na), ed. cento Autori, 2010; pagg. 127, € 10.
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recupero di un breve scritto pubblicato nel 1938 da colui che sarebbe diventato sindaco di Napoli dal 1975 al 1983, poi eurodeputato, il quale, con triste preveggenza, analizza il nascere del razzismo in italia, e ne individua con precisione le cause (l’opportunismo politico per rafforzare l’alleanza con la Germania nazista, connotazioni socioeconomiche come valvola di sfogo del malcontento popolare dopo la crisi del 1929, aspetti psicologici per preparare gli italiani a una nuova guerra) lanciando “un preoccupato e inascoltato grido d’allarme alla vigilia della mattanza”. il libro è corredato da una appendice cronologica e molte fotografie a illustrare la vita dell’autore.
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