quaderno di storia contemporanea 50

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EDIZIONI

FALSOPIANO

QUADERNO DI STORIA CONTEMPORANEA 50

QSC

Laurana Lajolo, Questo numero Lectio magistralis di Maurilio Guasco, L’emergere di una coscienza civile e sociale negli anni dell’Unità italiana STUDI E RICERCHE Franco Livorsi, Garibaldi, Cattaneo e i Mille. Le idee e la prassi Laurana Lajolo, Brofferio e il popolo Delmo Maestri, Fra i memorialisti garibaldini: Abba, Bandi, Nievo, Cecchi Corrado Malandrino, Il Risorgimento italiano fra storia, interpretazioni, innovazioni. Contributi a un dibattito aperto Vittorio Rapetti, Fratelli d’Italia? A proposito del rapporto fra cattolici e Unità nazionale William Bonapace, Italia, Italie. Identità, diaspore e nuove cittadinanze dall’unità nazionale all’epoca della globalizzazione NOTE E DISCUSSIONI Luisa Renzo, Il Risorgimento rappresentato. Il primo giubileo della patria a Torino, Roma e Napoli Luca Zanetti, Italia ’61. Giovanni Gronchi alle Camere. Considerazioni su un discorso politico Pierangelo Gentile, Cosa resterà del Risorgimento? Note a margine del Centocinquantesimo Ripensare gli anniversari. Intervista a Walter Barberis e Giovanni De Luna a proposito della mostra “Fare gli italiani” Il Risorgimento rinnovato. Intervista a Umberto Levra sul riallestimento del Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino Alberto Ballerino, Alessandria e i centocinquant’anni. Un primo bilancio Luciana Ziruolo, L’istruzione strumento di emancipazione sociale e professionale. Dalla legge Casati alla legge Daneo-Credaro (1859-1911) Antonella Ferraris, Dal Risorgimento alla Resistenza e ritorno. La pattuglia sperduta di Pietro Nelli e l’Unità d’Italia al cinema Roberto Lasagna, Immagini dell’Ottocento INSERTO FOTOGRAFICO Risorgimento tra memoria e rito celebrativo, a cura di Alberto Ballerino IN MEMORIA Giorgio Ziffer, In ricordo di Riccardo Picchio

QUADERNO DI STORIA CONTEMPORANEA 2011

SOMMARIO

QSC 50 2011

QUADERNO DI STORIA CONTEMPORANEA

UNITÀ CELEBRATA Ballerino, Barberis, Bonapace, De Luna, Ferraris, Gentile, Guasco, Lajolo, Lasagna, Levra, Livorsi, Maestri, Malandrino, Rapetti, Renzo, Zanetti, Ziffer, Ziruolo

INCONTRI E CONVEGNI RECENSIONI - JUDAICA

QSC_50

ISBN 9788889782798

50 Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi” EDIZIONI FALSOPIANO

EDIZIONI

FALSOPIANO


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50 QUADERNO

DI STORIA

cONTEmpORANEA

2011

www.isral.it

EDIZIONI

Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi”

FALSOPIANO


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Redazione Giorgio Barberis, Giorgio canestri, Franco castelli, Graziella Gaballo, cesare manganelli, Fabrizio meni, Daniela muraca, Vittorio Rapetti,  Renzo Ronconi, Federico Trocini, Luciana Ziruolo Quaderno di storia contemporanea semestrale dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria Direttore Laurana Lajolo Direttore responsabile maurilio Guasco Segretario di redazione cesare panizza Anno XXXIV, numero 50 della nuova serie Registrazione del Tribunale di Alessandria Via dei Guasco 49, 15100 Alessandria tel. 0131.44.38.61, fax 0131.44.46.07 e-mail: isral@isral.it Abbonamento a due numeri € 18,00 ccp: 26200998 intestato a Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria per informazioni ISRAL: tel. 0131.44.38.61, e-mail: isral@isral.it

Realizzato con il contributo della Fondazione cassa di Risparmio di Alessandria

© Edizioni Falsopiano - 2011 via Bobbio, 14/b  15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com/isral/qsc.htm


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Quaderno di storia contemporanea/50/Sommario

Laurana Lajolo, Questo numero

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Lectio magistralis di Maurilio Guasco, L’emergere di una coscienza civile e sociale negli anni dell’Unità italiana

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STUDI E RIcERcHE

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Franco Livorsi, Garibaldi, Cattaneo e i Mille. Le idee e la prassi

23

Laurana Lajolo, Brofferio e il popolo

49

Delmo maestri, Fra i memorialisti garibaldini: Abba, Bandi, Nievo, Cecchi

73

corrado malandrino, Il Risorgimento italiano fra storia, interpretazioni, innovazioni. Contributi a un dibattito aperto

87

Vittorio Rapetti, Fratelli d’Italia? A proposito del rapporto fra cattolici e Unità nazionale

107

William Bonapace, Italia, Italie. Identità, diaspore e nuove cittadinanze dall’unità nazionale all’epoca della globalizzazione

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NOTE E DIScUSSIONI

167

Luisa Renzo, Il Risorgimento rappresentato. Il primo giubileo della patria a Torino, Roma e Napoli

167

Luca Zanetti, Italia ’61. Giovanni Gronchi alle Camere. Considerazioni su un discorso politico

185

pierangelo Gentile, Cosa resterà del Risorgimento? Note a margine del Centocinquantesimo

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A cura di carlo Greppi, 2011. Ripensare gli anniversari. Intervista a Walter Barberis e Giovanni De Luna a proposito della mostra “Fare gli italiani”

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Quaderno di storia contemporanea/50

A cura di cesare panizza, 2011. Il Risorgimento rinnovato. Intervista a Umberto Levra sul riallestimento del Museo nazionale del Risorgimento di Torino e sulle celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità

229

Alberto Ballerino, Alessandria e i centocinquant’anni. Un primo bilancio

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Luciana Ziruolo, L’istruzione strumento di emancipazione sociale e professionale. Dalla legge Casati alla legge Daneo-Credaro (1859-1911)

245

Antonella Ferraris, Dal Risorgimento alla Resistenza e ritorno. La pattuglia sperduta di Pietro Nelli e l’Unità d’Italia al cinema

251

Roberto Lasagna, Immagini dell’Ottocento

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INSERTO FOTOGRAFIcO

261

A cura di Alberto Ballerino, Risorgimento tra memoria e rito celebrativo

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IN mEmORIA

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Giorgio Ziffer, In ricordo di Riccardo Picchio

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INcONTRI E cONVEGNI

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REcENSIONI – JUDAIcA

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Questo numero

Questo numero dà conto delle  più recenti interpretazioni del Risorgimento e propone una riflessione  sugli avvenimenti celebrativi del centocinquantesimo  anniversario  dell’Unità  d’Italia  anche  a  confronto  con precedenti anniversari. Il vero protagonista delle celebrazioni è stato il presidente della Repubblica, che nei suoi discorsi ufficiali ha ribadito l’assunto costituzionale dell’Italia una e indivisibile e i  valori della coesione nazionale per rispondere alle spinte secessioniste. Il governo Berlusconi è rimasto estraneo e indifferente, mentre molti enti locali sono stati attivi nel ricordare con spirito patriottico personaggi e episodi attinenti al loro territorio.  La stessa televisione non ha dato particolare rilievo a rievocazioni storiche o a fiction sul tema, se non sul canale RAI di storia, e i giornali, salvo il quotidiano torinese “La Stampa” che ha dedicato specifiche rubriche, hanno dato spazio quasi esclusivamente  alle polemiche intorno alla festa del 17 marzo.  Dal confronto tra le modalità delle celebrazioni degli anniversari del cinquantenario e del centenario con quelle del 2011 emerge, infatti,  che ciò che caratterizza questo anniversario è una spontanea e inaspettata  partecipazione popolare sui temi dell’unità, motivata da Giorgio Napolitano. D’altro canto tutto il 2011 è stato percorso da una ripresa di manifestazioni pubbliche per affermare valori etici e culturali e cambiare la politica.  A posteriori si può dire che i discorsi del presidente e il seguito avuto tra i cittadini abbiano anticipato i forti cambiamenti politici avvenuti alla fine dell’anno, perché hanno risvegliato la coscienza nazionale, il senso di dignità del popolo, l’etica pubblica, cioè quei valori innovativi che hanno guidato il complesso  processo  di  unificazione  nazionale.  come  sempre  nelle  scadenze commemorative si è fatto un ampio uso pubblico della storia, in questo caso per rafforzare il senso di una identità nazionale del popolo italiano molto indebolita e anche contraddetta da certi atteggiamenti politici. Non possiamo non registrare che in sede storica e in sede comunicativa sono state trascurate, se non addirittura cancellate, importanti personalità del pensiero democratico e repubblicano, che, pur rappresentando una mi-

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Laurana Lajolo, Questo numero

Laurana Lajolo


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noranza, hanno contribuito in modo significativo alla progettazione di quelle idee che hanno determinato il processo risorgimentale, insieme allo slancio dei molti giovani patrioti. Tutta l’attenzione si è focalizzata sull’opera di cavour, considerata protagonista pressoché esclusiva dell’unità e svincolata dal dibattito politico di quel periodo, mentre sono stati i democratici a rappresentare le novità  ideali più significative dei paradigmi dell’indipendenza  e  della  libertà  dell’Italia,  che  influiranno,  ben  oltre  il Risorgimento, sul riconoscimento dei diritti dei cittadini, sull’assetto delle istituzioni fino a permeare i principi fondamentali della costituzione repubblicana.

Questo numero

Tra le problematiche dimenticate vi è anche il nodo del rapporto tra Stato e chiesa e l’apporto della componente cattolica più aperta alla questione sociale, di cui parla maurilio Guasco nella lectio magistralis – L’emergere di una coscienza civile e sociale negli anni dell’Unità italiana – tenuta in occasione del conferimento dell’emeritato presso l’Università del piemonte orientale, che pubblichiamo in apertura di questo numero del Quaderno di storia contemporanea. Abbiamo scelto di aprire STUDI E RIcERcHE proponendo la riflessione su due personalità democratiche e federaliste. Franco Livorsi – Garibaldi, Cattaneo e i Mille. Le idee e la prassi – ricostruisce il ruolo di carlo cattaneo nel processo unitario, soffermandosi in particolare sulla sua vicinanza a Garibaldi durante la spedizione dei mille. Ne esce il ritratto di un intellettuale teso all’azione politica e non soltanto pensatore teorico, animato da forti idealità e acuto osservatore delle cose italiane. per cattaneo il federalismo, sull’esempio degli Stati Uniti d’America, è la forma costituzionale politicamente e culturalmente più adatta ad assicurare la coesione del nuovo stato italiano in senso democratico e la garanzia contro il ritorno dell’assolutismo.  Tale idea, purtroppo risultata perdente rispetto al realismo politico cavourriano e alla forza egemone del liberalismo moderato e conservatore, è ripresa anche dal repubblicano Angelo Brofferio. Laurana Lajolo – Brofferio e il popolo – autrice della recente biografia Angelo Brofferio e l’unità incompiuta mette in evidenza la battaglia condotta coerentemente da Brofferio

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per difendere lo Statuto ed estendere i diritti civili. Avvocato di successo, drammaturgo e chansonnier,  deputato di opposizione nel parlamento subalpino ai governi moderati da Gioberti a cavour, Brofferio rappresenta le aspirazioni della classe borghese in ascesa economica e sociale, ancora esclusa dal potere politico tenuto saldamente dall’aristocrazia e dagli ecclesiastici, ed è  una delle voci critiche più agguerrite del nostro Risorgimento nel rivendicare la partecipazione del popolo alla conquista dell’indipendenza e della libertà, rifiutando le alleanze con le potenze straniere. persino Garibaldi è stato trascurato nelle celebrazioni del centocinquantesimo, ma opportunamente Delmo maestri – Fra i memorialisti garibaldini: Abba, Bandi, Nievo, Cecchi – riprende  i memorialisti garibaldini, che hanno posto la figura del generale al centro delle loro narrazioni. Le memorie talvolta vengono pubblicate parecchi anni dopo le vicende narrate, ma restituiscono con vivacità inalterata lo spirito delle imprese garibaldine senza nascondere  la delusione della parte democratica e rivoluzionaria rispetto all’esito della costruzione dello stato unitario.       A proposito delle ultime interpretazioni del Risorgimento corrado malandrino – Il Risorgimento italiano fra storia, interpretazioni, innovazioni. Contributi a un dibattito aperto –  evidenzia  che  la  posizione  “neoculturale”, sostenuta da Alberto maria Banti e paul Ginsborg, ha indubbiamente svecchiato la storiografia del periodo arricchendo la ricostruzione storica con argomentazioni di tipo socio-economico e psicologico-culturale e individuando un sentimento prepolitico nell’esperienza di massa in cui sono stati coinvolti gli italiani.  ma tale interpretazione non convince pienamente malandrino, che  considera ancora attuale la valutazione proposta da Robert michels riguardo al carattere elitario del Risorgimento e alla ristretta rappresentatività politica, che è risultata insufficiente a compiere una piena modernizzazione del paese. L’autore fa anche un cenno alla ricerca relativa al “lungo Risorgimento” alessandrino e alle personalità di statisti che hanno partecipato alle attività istituzionali e al governo dell’Italia unita, condotta dal LaSpI e da lui coordinata. Sempre in riferimento al dibattito storiografico, in particolare riguardo al ruolo dei cattolici nel Risorgimento e nell’Italia unita, Vittorio Rapetti – Fratelli d’Italia? A proposito del rapporto fra cattolici e Unità nazionale – dà

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conto della complessità delle posizioni presenti nel cattolicesimo italiano, che non sono riducibili soltanto alle forze reazionarie contrarie al Risorgimento.  Dopo la soluzione della questione romana, che ha provocato la frattura tra Stato italiano e gerarchia ecclesiastica, la parte del mondo cattolico aperta alla modernità e ai temi sociali ha dato un apporto critico, politico e culturale allo Stato unitario e ha saputo acquisire e consolidare una forte centralità alla guida dell’Italia. L’autore, riportando il dibattito ai nostri giorni, critica da un lato il revisionismo storiografico che mette in discussione  il significato del Risorgimento e dello Stato nazionale per dare una base culturale a programmi politici secessionisti e alla revisione della costituzione, e dall’altro le posizioni cattoliche che hanno ripreso il giudizio del Risorgimento come anticattolico per  spingersi al rifiuto del concilio Vaticano II. Sembra quindi che non sia ancora del tutto risolto il  rapporto tra cattolicesimo e identità nazionale italiana, indubbiamente indebolita nell’ultimo ventennio, e Rapetti auspica la costruzione, anche con l’aiuto dell’educazione civica,  di una coscienza costituzionale plurima, capace di considerare l’apporto al bene comune di concezioni e forze diverse.  Da un altro punto di vista William Bonapace – Italia, Italie. Identità, diaspore e nuove cittadinanze dall’unità nazionale all’epoca della globalizzazione – torna sulla necessità di costruire l’identità italiana e insieme europea comprensiva di diverse etnie e culture, prendendo spunto dalla storia demografica  tra  Ottocento  e  Novecento  con  riferimento  prima  alla  grande migrazione italiana verso l’estero e oggi all’immigrazione dai paesi poveri.  Abbiamo destinato una parte consistente di NOTE E DIScUSSIONI alla ricostruzione dei tre anniversari dell’Unità italiana e alla presentazione dei criteri storiografici e comunicativi che hanno guidato il riallestimento del museo del Risorgimento e la mostra “Fare gli Italiani” alle OGR di Torino. Questi due eventi espositivi sono divenuti i veicoli principali di una narrazione storica destinata al  grande pubblico per far riemergere una coscienza  nazionale  in  una  fase  di  grave  decadenza  della  politica  e  della rappresentatività democratica dei cittadini.  Luisa Renzo – Il Risorgimento rappresentato. Il primo giubileo della patria a Torino, Roma e Napoli – ricostruisce le celebrazioni del 1911 attraverso la

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storia e i protagonisti delle tre mostre di Torino, di Roma e di Napoli, sostanzialmente convergenti nello sforzo di allacciare la dimensione locale e la dimensione nazionale del processo di unificazione secondo una versione conciliativa, tesa a coniugare Risorgimento e modernità, sorvolando sui contrasti radicali tra gli esponenti del Risorgimento e sulla complessità dei processi politici.    Anche le celebrazioni del 1961, cadute in un periodo caratterizzato dalla crescita economica e dai cambiamenti sociali e culturali,  seguono la stessa impostazione emendata dai punti controversi. Luca Zanetti – Italia ’61. Giovanni Gronchi alle Camere. Considerazioni su un discorso politico – focalizza la motivazione dell’intento celebrativo nell’annullare le differenze secondo una lettura ottimistica del passato e del futuro dell’Italia. c’è l’auspicio che lo sviluppo industriale in espansione sia capace di superare le tante aree di esclusione ancora presenti nella società italiana e di realizzare finalmente le aspirazioni del Risorgimento. Simbolicamente sono quattro i personaggi scelti come fondatori dell’unità: cavour, Vittorio Emanuele II, mazzini, Garibaldi così da proporre una immagine monolitica della storia e il ruolo fondamentale dello Stato unitario. pierangelo Gentile si occupa del dibattito storiografico sul centocinquantesimo dell’Unità e ne rileva le polemiche politiche strumentali e il ritorno di letture contestative del processo risorgimentale, che però sono rimaste per lo più superficiali e provocatorie senza misurarsi con la complessità degli avvenimenti e delle culture politiche risorgimentali. carlo Greppi – 2011. Ripensare gli anniversari. Intervista a Walter Barberis e Giovanni De Luna a proposito della mostra “Fare gli italiani” – ha intervistato Giovanni De Luna e Walter Barberis,  curatori della mostra  “Fare gli Italiani” di  Torino, i quali dichiarano la loro intenzione di realizzare non una mostra celebrativa della storia nazionale, bensì di mettere in scena un percorso problematico collocato negli spazi delle Officine Grandi Riparazioni, cioè non un luogo museale tradizionale, ma uno spazio di lavoro e di archeologia industriale. Fanno un interessante riferimento al lavoro di progettazione e di allestimento della mostra, che ha intrecciato la struttura storiografica con la strategia narrativa e la comunicazione visiva e scenografica. Giudicano che il grande successo di pubblico della mostra e in ge-

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nere delle celebrazioni a Torino in contrapposizione con la politica assente se non ostile, grazie al ruolo decisivo del presidente della Repubblica e alla spontanea partecipazione popolare, dimostri una diffusa domanda di coesione nazionale in un grave momento di difficoltà per il paese. concludono che c’è, quindi, bisogno di unità nazionale, sostenuta da una religione civile improntata ai valori della costituzione repubblicana, proponendo anche loro un’idea di cittadinanza democratica plurima capace di includere anche soggetti portatori di identità politiche e culturali diverse in una dimensione europea.  La stessa tematica di intreccio tra interpretazione storica e comunicazione si ritrova nell’intervista condotta da cesare panizza – 2011. Il Risorgimento rinnovato. Intervista a Umberto Levra sul riallestimento del Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino e sulle celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità italiana – a Umberto Levra, il quale ha coordinato dal 1998 al 2011 il lungo lavoro del nuovo allestimento del museo nazionale del Risorgimento di Torino. Lo storico illustra il metodo seguito per selezionare l’enorme mole di materiale storico e darne un ordine cronologico e concettuale. E quindi come il messaggio storico sia stato tradotto in chiave comunicativa e mediatica per renderlo fruibile dal  pubblico. Levra indica una delle peculiarità più rilevanti della nuova proposta museale l’apertura allo scenario europeo della storia risorgimentale nazionale. E anche dalle parole di Levra emerge la riflessione sul grande successo di pubblico e quindi della partecipazione dal basso alle celebrazioni e alla funzione esemplare del presidente della Repubblica nel dare sostanza alla coscienza nazionale. Alberto Ballerino – Alessandria e i centocinquant’anni. Un primo bilancio – fa il censimento delle celebrazioni alessandrine e rileva che, al contrario di quanto avvenuto per il centenario, nel 2011 le istituzioni locali vi hanno dedicato scarsa attenzione ed è  mancato il coordinamento tra le iniziative, mentre i risultati più significativi sono arrivati dai prodotti della ricerca scientifica e dalle attività delle scuole per lo più orientate al nesso Risorgimento/cittadinanza. Luciana Ziruolo – L’istruzione strumento di emancipazione sociale e professionale. Dalla legge Casati alla legge Daneo-Credaro (1859-1911) – propone un percorso sulla storia dell’istruzione nell’Italia unita attraverso la legi-

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La sezione INcONTRI E cONVEGNI ospita una puntuale recensione di Stefano Quirico al convegno internazionale “Statisti e politici alessandrini nel ‘lungo Risorgimento’. Rattazzi, Lanza, Ferraris (e altri)” organizzata dal Laboratorio di Storia, politica, Istituzioni (La.SpI) dell’Università del piemonte Orientale, presieduto da corrado malandrino, e che ha rappresentato un momento importante di riflessione storiografica, non solo in ambito locale, sul Risorgimento.  Nella sezione IN mEmORIA pubblichiamo un profilo di Riccardo picchio, a firma di Giorgio Ziffer. picchio, senza dubbio la più notevole personalità della slavistica italiana del Novecento, nato ad Alessandria nel 1923, divenne negli anni del secondo dopoguerra un riferimento imprescindibile nella sua disciplina a livello internazionale, come testimonia un percorso accademico e intellettuale che si snodò fra Italia, Europa e Stati Uniti.

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Laurana Lajolo, Questo numero

slazione, partendo dal dato dell’analfabetismo diffuso al momento dell’unificazione e evidenziando il difficile percorso di costruzione della scuola pubblica e dell’estensione dell’istruzione obbligatoria, diritto essenziale per il processo di partecipazione democratica da parte delle classi subalterne da sempre escluse. Antonella Ferraris presenta il film neorealista di Nelli La pattuglia sperduta, girato nel 1952 nelle campagne del casalese con attori presi dalla strada, che risente dell’atmosfera post-Liberazione nello stabilire il nesso fra Risorgimento e Resistenza. partendo da quella esperienza  l’autrice indaga, anche attraverso citazioni da film celebri, come il Risorgimento sia stato spesso utilizzato nel cinema italiano in funziona nazionalista, ma sia stato anche rappresentato secondo  una visione controversa e critica del processo unitario.  Rimanendo nell’ambito cinematografico Roberto Lasagna recensisce la recente mostra fotografica sul film di martone, Noi credevamo, allestita al museo del cinema di Torino, registrando la bellezza delle immagini e il profilo antiretorico di un evento espositivo che rappresenta una vera e propria estensione narrativa e simbolica del film.


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Quaderno di storia contemporanea/50

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Nell’INSERTO FOTOGRAFIcO Alberto Ballerino ha raccolto alcune immagini significative dei luoghi della memoria del Risorgimento in provincia di Alessandria: foto di statue e di targhe commemorative, spesso in stato di degrado, che documentano l’uso della memoria del Risorgimento fu fatto nel corso dei decenni nel contesto alessandrino e quanto sia oggi trascurato e dimenticato.

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L’emergere di una coscienza civile e sociale negli anni dell’Unità italiana* Maurilio Guasco Il 10 settembre 1894, a Napoli, Francesco crispi, preoccupato per i rischi che stava correndo la pace sociale, invocava l’unità tra le autorità civili e religiose per riportare la pace nel paese. La ragione addotta è tanto più interessante, dal momento che viene presentata da un personaggio che nei suoi anni giovanili non era certo stato un moderato: “Dalle più nere tenebre della terra è sbucata una setta infame, la quale scrisse sulla sua bandiera: né Dio né capo. Stringiamoci insieme per combattere codesto mostro e scriviamo sul nostro vessillo: con Dio, col re e per la patria”. È l’unica possibilità che abbiamo, aggiungeva, “per ricondurre le plebi traviate sulla via della giustizia e dell’amore”.  Tre anni dopo, in un noto articolo pubblicato anonimo nella “Nuova Antologia” con il titolo Torniamo allo Statuto, Sidney Sonnino chiedeva esplicitamente al re di riprendersi le sue prerogative. ma qui ci interessa maggiormente un’altra parte dell’articolo di Sonnino. “Due grandi forze sociali e politiche, scriveva, stanno crescendo ed organizzandosi in Italia, e tutte e due con tendenze ed aspirazioni rivoluzionarie di fronte alla monarchia rappresentativa e liberale. Da un lato il socialismo, nel nome della eguaglianza, vuole soppressa ogni libertà individuale […] Dall’altro lato nel nome tanto delle idealità più elevate del consorzio umano quanto dell’ordine e della conservazione delle tradizioni sociali del passato, sta facendo passi da gigante l’organizzazione clericale, che tende in realtà all’oscurantismo più intollerante, alla soppressione del progresso e di ogni movimento dello spirito umano, nemico com’è della libertà di coscienza e di pensiero”. A questo punto Sonnino, in nome dei suoi principi liberali, contrari ugualmente, anche se per ragioni diverse, al socialismo e al cattolicesimo, constatava * Testo della lectio magistralis pronunciata da maulio Guasco in occasione della cerimonia con cui il 15 novembre 2011 l’Università del piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” gli ha conferito il titolo di professore emerito.

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Lectio magistralis

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amaramente che “di fronte a questi pericoli crescenti lo Stato liberale sta ogni giorno più demolendo spensieratamente le proprie difese”. potevano sembrare strane le preoccupazioni di Sonnino, dal momento che la classe dirigente liberale aveva la maggioranza assoluta in parlamento, in quanto gli aventi diritti al voto erano al momento dell’Unità italiana circa il 2%, diventati poi, in seguito alla modifica della legge elettorale (1882), circa il 9%. Un aumento significativo. ma certo non bastava per portare in parlamento un numero alto di rappresentanti delle masse popolari presenti nel paese. ma Sonnino sapeva che da anni si stava verificando qualcosa di nuovo nel paese stava crescendo il senso della partecipazione, forse non ancora in senso politico ma certamente nel sociale aveva ben presente che in quei due mondi di cui temeva la presenza agivano forze, anche organizzate, che dopo anni di attesa stavano ormai parlando apertamente di presa del potere. Il socialismo si era costituito in partito, come punto di arrivo di un lungo itinerario e dopo lunghe diatribe con il movimento anarchico, il mondo cattolico conservava ancora il suo rifiuto di uno Stato considerato illegittimo in quanto usurpatore: ma tra le nuove leve delle organizzazioni cattoliche si pensava che dopo tanta attività nel sociale fosse giunto il momento di iniziare a parlare di impegno diretto anche sul terreno politico. La modifica della legge elettorale rappresentava un ulteriore impulso per coloro che nei due campi pensavano che si potessero combattere le proprie battaglie anche sul terreno istituzionale.  Fin dagli anni Quaranta in Italia si erano diffuse le Società di mutuo soccorso, con caratteri spiccatamente corporativi e scarsamente politicizzati. Il loro scopo era di mettere in atto forme di solidarietà per fini essenzialmente assistenzialistici e previdenziali (affrontare i problemi derivanti da invalidità, malattie, vecchiaia); ma successivamente tali Società sarebbero diventate Leghe di resistenza, inserendo nei loro programmi anche la formazione culturale e quindi politica degli aderenti. L’azione e il pensiero di Giuseppe mazzini avrebbero segnato una svolta portando un elemento nuovo: il fallimento dei suoi precedenti tentativi, che avevano coinvolto solo delle minoranze, lo avevano portato a pensare che per provocare una rivoluzione nazionale non bastava la via politica, ma ad essa doveva affiancarsi

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una rivoluzione sociale. Si cominciava così a parlare dei problemi concreti del lavoro e della sua organizzazione, e in tale panorama si inseriscono le opere di Giuseppe Ferrari, che parlavano della necessaria unità tra riscatto nazionale e riscatto sociale e che potevano essere lette in un’ottica socialista; così come si poteva leggere in un’ottica di rivoluzione sociale l’opera di Giuseppe montanelli, Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione d’Italia, mentre la stessa opera di Vincenzo Gioberti, Il rinnovamento d’Italia, secondo il giudizio di Salvemini conteneva “accenni socialistoidi che meriterebbero di essere analizzati”. La nascita di numerose associazioni operaie soprattutto in piemonte negli anni cinquanta avrebbe portato nel 1853 al primo congresso, tenuto ad Asti, delle Società di mutuo soccorso degli operai, con all’ordine del giorno i problemi che stavano emergendo nelle varie società soprattutto in ordine alle difficili condizioni della classe operaia 1. A livello politico, negli anni Settanta si sarebbe verificata l’ascesa e poi la crisi del movimento anarchico. Sarebbe stato Andrea costa a scrivere nel 1879 la lettera Ai miei amici di Romagna, nella quale si poneva in una posizione che possiamo chiamare socialista. Una scelta che lo avrebbe portato a diventare nel 1882 il primo rappresentante in parlamento di quella linea, mentre in alcune città nascevano piccoli “partiti operai” che si possono considerare la premessa del futuro partito socialista; essi segnano il passaggio da una linea prevalentemente sociale a una linea politica, ma diventano anche i luoghi di aggregazione e formazione di una nuova coscienza politica per gli aderenti. Quando Sonnino scriveva l’articolo che ho ricordato all’inizio, eravamo a fine secolo, e la situazione in Italia aveva subito forti modifiche. Negli anni successivi alla raggiunta Unità la classe dirigente liberale si era trovata di fronte a problemi di non facile soluzione, e spesso le decisioni prese avevano finito per alienarsi ulteriormente una parte di un paese che non aveva molto partecipato al cammino dell’Unità, e in certi casi considerava i nuovi dirigenti quasi degli intrusi. posso solo ricordare, come esempio, la lunga e difficile lotta contro il brigantaggio meridionale, spesso stroncato con mezzi che definire civili sarebbe certamente molto ambiguo. In certe zone si era trattato quasi di una vera e propria guerra civile: un evento tra l’al-

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tro, con altri, che stava ponendo la premessa per l’eterna questione meridionale. La nuova classe dirigente doveva dunque affrontare  problemi molteplici: si pensi, e ne ricordo solo qualcuno, al problema della unificazione del sistema legislativo, della moneta e anche dei diversi sistemi metrici.  Ogni regione poi veniva da una storia politica e culturale molto diversa, e si erano stratificate tradizioni e abitudini non facili da modificare. per fare l’Italia o, se vogliamo, lo Stato italiano, si erano affrontate molte difficoltà: sembravano anche maggiori quelle che si sarebbero dovute affrontare per fare gli italiani, come era stato osservato con una frase diventata celebre. Inoltre, caduta la Roma dei papi, i governanti sentivano la necessità di conservare  alla  città  eterna  l’antico  splendore  e  il  suo  ruolo  nel  mondo.  Un problema su cui ha scritto pagine straordinarie, e lo ricordo almeno a livello bibliografico, Federico chabod, nel capitolo L’idea di Roma, nella sua Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 2.  Il passaggio al governo dalla Destra alla Sinistra (1876) significava l’allargamento della classe dirigente e la rottura di quel piccolo gruppo di politici per diritto di nascita. Salvemini però sarebbe stato molto severo verso questa nuova classe dirigente:

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Nel parlamento italiano la divisione fra conservatori (destra) e progressisti (sinistra) scomparve. I due gruppi, che si erano contrastati aspramente fino allora, si frantumarono in piccoli gruppi. Tutti si dicevano “liberali”, pur essendovi fra essi liberali di destra (più conservatori), e liberali di sinistra (più progressisti o sedicenti progressisti), ed erano tenuti insieme da legami personali più che ideologici. E tutti da sinistra a destra, e da destra a sinistra, erano sempre pronti a fare viaggi di andata e ritorno, quali colombe dal desio chiamate verso i portafogli ministeriali […] contenti solo quando potevano mettersi sulle spalle anch’essi la cosiddetta “croce del potere”. Rimanevano irriducibili all’opposizione (fuori del parlamento) i clericali e gli anarchici” mentre si preparavano ad entrarvi i socialisti e i repubblicani 3.

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Intanto però il parlamento varava una serie di decisioni significative: si allargava il suffragio elettorale, si trovavano nuovi equilibri in politica estera, venivano approvate varie leggi per la tutela dei lavoratori, in particolare per quanto concerne il lavoro minorile. per un certo momento, alcuni del mondo cattolico avevano persino pensato che il conflitto tra lo Stato e la chiesa, che aveva visto anche scontri molto accesi, potesse essere superato. Si era pensato alla eventualità di dare inizio a un partito politico, mentre il benedettino padre Luigi Tosti aveva pubblicato un opuscolo che ebbe un grande successo e sollevò vivaci discussioni, La Conciliazione (1887), e il vescovo di cremona, Geremia Bonomelli, non nuovo ad affermazioni conciliatoriste, aveva pubblicato un articolo, apparso anonimo nel 1889, su Roma, l’Italia e la realtà delle cose, per ribadire la necessità di un accordo a livello di vertici tra lo Stato italiano e la chiesa. ma padre Tosti era stato sconfessato e lo scritto di Bonomelli messo all’Indice, segno di un ritorno alla linea di intransigenza.  Una linea che non pochi definivano piuttosto discutibile, ritenendo che la chiesa avrebbe dovuto accettare la nuova realtà. In questo senso si sarebbe espresso Arturo carlo Jemolo, in una delle opere più significative della storiografia italiana, apparsa in primo edizione nel 1949: Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni. Jemolo  descrive  il  dramma  di  coscienza  dei cattolici conciliatoristi, costretti a rifiutare una buona legge come quella delle guarentigie, in quanto la loro chiesa, di cui si sentono sudditi fedeli, non accetta alcun compromesso e pronuncia solo proteste e condanne. Una situazione che coinvolge anche non pochi preti, ridotti al silenzio. I quali però, insieme con i vari cattolici conciliatoristi, stanno intrecciando rapporti e costruendo quel ponte che un giorno permetterà la comunicazione tra le due sponde del Tevere, un fiume che lentamente sarebbe diventato più stretto, o più largo, per usare una formula cara a Giovanni Spadolini.    Il volume di Jemolo rappresenta ancora oggi un punto di riferimento fondamentale, così come nel momento in cui apparve significò una vera e propria svolta in materia, anche a livello accademico. Jemolo interpretava in modo del tutto nuovo il vecchio insegnamento di Storia dei rapporti tra Stato e chiesa, trasformando una materia da sempre considerata essenzialmente giuridica in materia profondamente storica. ma Jemolo rimane figlio di un

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certo modello di storiografia.  È vero che quando scrive la sua opera la nuova storiografia sul movimento cattolico è ancora agli inizi. manca completamente la storia delle varie organizzazioni, dell’associazionismo. ma è probabile che tali ricerche non avrebbero modificato le convinzioni di fondo di Jemolo, che ha poca simpatia per l’attivismo ecclesiastico, per una storia della chiesa in chiave sociale; forse anche perché quello che oggi chiamiamo cattolicesimo sociale ha le sue premesse nel movimento intransigente, nella scelta cioè del rifiuto dello Stato risorgimentale, quello Stato che per Jemolo è un valore forte.  Da notare che il rimprovero a Jemolo di avere trascurato tutto quanto si muoveva a livello non istituzionale e di avere eccessivamente privilegiato una storia dei vertici sarebbe venuto anche dall’autore di una delle prime opere dedicate all’associazionismo cattolico, l’ampio volume di  Giovanni Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98 4.  Nel mondo cattolico, che da un lato conserva e alimenta la linea intransigente nei confronti di uno Stato che non viene accettato, ma nello stesso tempo prende atto dei profondi mutamenti che stanno avvenendo e ritiene che la storia stia camminando verso mete diverse da quelle che si erano immaginate, possiamo porre uno dei protagonisti della storia sociale piemontese dell’Ottocento, don Giovanni Bosco. Egli arriva presto a capire che il processo avviato è un processo irreversibile, che la politica ecclesiastica liberale avrebbe proseguito il suo corso. L’oratorio da lui fondato resta estraneo alle contese e alle fazioni di natura politica, ha però come scopo essenziale quello di formare dei buoni cattolici ma anche degli onesti cittadini, e tale virtù dipenderà secondo don Bosco proprio dalla formazione religiosa che riceveranno. E così prepara i suoi ragazzi a rispettare le leggi di quello Stato che per ora non viene riconosciuto. mentre vive la sua fedeltà al papa e quindi anche al suo temporalismo, cerca e accetta l’incontro con gli esponenti di quello Stato che si presenta come nemico della chiesa, è convinto che il dialogo può aprire la strada a soluzioni diverse da quelle dello scontro aperto. Ed è significativo che quello che lui chiama lo “sprazzo di luce” per la futura congregazione gli venga proprio da chi stava sopprimendo le congregazioni religiose, Urbano Rattazzi. È il ministro considerato anticlericale che gli suggerisce la via per evitare gli scogli, fondando “una società in cui ogni membro conservi i diritti

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civili, si assoggetti alle leggi dello Stato, paghi le imposte”. Sembra quasi che don Bosco intuisca che le future garanzie saranno fondate su uno degli elementi portanti dello Stato moderno, le libertà individuali e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi, con i conseguenti doveri ma anche i diritti.  Nella stessa linea, che prevede l’educazione religiosa ma anche la formazione civile, in vista appunto di preparare non solo dei bravi credenti ma anche degli onesti cittadini, troveremo nella Torino del secondo Ottocento anche don Leonardo murialdo, con la sua attività dedicata ai giovani che si avviano al lavoro.  Don Bosco e murialdo non erano i soli a percorrere certe strade. Vi era tutta una base, per usare un termine spesso utilizzato, che si stava organizzando. Il mondo contadino è un mondo variegato, va dai piccoli proprietari ai mezzadri ai braccianti, con interessi molto diversi: ma le condizioni di vita sono misere quasi per tutti, vi è scarsa disponibilità finanziaria, spesso si diventa schiavi dei piccoli usurai, l’analfabetismo è molto diffuso, in molte zone i bambini non vengono mandati a scuola perché fin da piccoli sono impegnati nei lavori dei campi e delle stalle.   Ed è in questo clima che nascono e si diffondono le casse rurali, che da strumenti di aiuto e assistenza, diventano luoghi di aggregazione  e di graduale scoperta della necessità di responsabilizzarsi, di conoscere meglio i problemi delle diverse categorie, di non delegare ad altri i propri interessi. La cassa rurale era nata in Germania e aveva come scopo quello di organizzare un piccolo credito agrario per evitare ai contadini di diventare vittime degli usurai. In Italia avrebbe avuto come vero e proprio profeta e diffusore un prete veneziano, Luigi cerutti. Nata come istituzione fondamentalmente laica, avrebbe lentamente assunto un carattere quasi confessionale, abbinando alla preoccupazione per l’aiuto materiale anche lo sforzo per formare nel socio una coscienza religiosa e politica. Don cerutti approfittava dei vari convegni per parlare non solo di casse rurali, ma di colonie agricole, di razionalizzazione del lavoro nei campi, di latterie sociali, di società per gli acquisti collettivi e per le assicurazioni contro i danni della grandine. Le sue denunce, che assumevano quasi inesorabilmente un taglio politico, non avevano molto da invidiare a certe pagine dei propagandisti socialisti contro i padroni. Scriveva ad esempio, in un opuscolo nel quale parlava della condizione dei contadini:

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Maurilio Guasco, L’emergere di una coscienza civile e sociale negli anni dell’Unità italiana

Studi e ricerche


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coltivano il frumento che va a riempire il granaio dei loro padroni; lavorano e sudano attorno alla vite poi bevono acqua e tante volte inquinata; solo il frumentone ed anche quello della peggior specie è lasciato loro per sfamarsi; le loro capanne non reggono al confronto colle scuderie, colle stalle dei loro padroni.

Un altro prete, dopo aver detto che non bisognava lasciare ai socialisti quasi l’esclusiva della formazione delle classi subalterne, aggiungeva: Diciamo liberamente ai poveri che essi non sono macchine di lavoro, non sono una merce che si vende al maggiore offerente, ma sono  coscienze  di  liberi  cristiani  e  liberi  cittadini.  È  venuto  il tempo di parlare chiaro e alto: se non lo facciamo noi, lo faranno i socialisti. Facciamo ragione al proletariato de’ suoi sacrosanti diritti, così il socialismo sarà inutile: avremo redento il popolo e l’avremo salvato dagli eccessi rivoluzionari.

Lectio magistralis

Un altro ancora, rivolgendosi a un immaginario teologo che riteneva che dedicarsi alle opere sociali fosse meno consono al ministero sacerdotale, difendeva quel tipo di attività cui appunto molti preti si dedicavano con queste parole: Ella non ammette che la cosiddetta propaganda possa o debba far parte del ministero sacerdotale. mi permetto di essere di avviso contrario. per me non c’è differenza tra l’apostolato sacerdotale del teologo portaluppi quando, per la salvezza delle anime, spiega il catechismo nella cattedrale di Treviglio e quando, per la salvezza delle anime, tiene una conferenza sugli affitti collettivi o sull’uso dei concimi chimici 5.

È significativo il fatto che in quella che si poteva considerare l’organizzazione ufficiale del mondo cattolico, l’Opera dei congressi, la sezione maggiormente operativa fosse quella che si occupava dei problemi sociali.  Intanto la forte industrializzazione, con la conseguente ricerca di mano d’opera, rischiava di far nascere nuovi nuclei di miseria nelle periferie delle

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città che andavano nascendo. Questo determinava nuovi rapporti tra gli operai, facilitando il formarsi di una coscienza di classe, che lasciava intravvedere la possibilità di una lotta comune, e la conseguente necessità di partecipare alla formazione di una nuova linea politica. Si formavano così le prime “Leghe di resistenza”, che costituiranno l’unità di base delle future organizzazioni sindacali. Rimane evidente il rifiuto dello Stato, ma la ricerca di nuove soluzioni diventerà elemento portante e fondamentale per la nascita di una coscienza politica. La stessa enciclica di Leone XIII, Rerum novarum, del 1891, se diventa per parte del mondo cattolico un vero e proprio invito a prendere in considerazione la questione sociale, è però il punto di arrivo di un lavoro molto ampio che si andava svolgendo, soprattutto in diversi paesi europei, volto a meglio conoscere le situazioni concrete dei lavoratori e a immaginare risposte significative. Le organizzazioni cattoliche e socialiste metteranno in contatto gruppi di diverse regioni, facendo scoprire la dimensione nazionale dei problemi, e finiranno per inserire nella vita dello Stato, anche se spesso come elemento dialettico, quelle masse che ne erano state escluse. In qualche modo, si riesce a capire perché quelle zone in cui l’associazionismo si sviluppa di meno permane un forte rifiuto nei confronti dello Stato, che continua a essere considerato una presenza non voluta. La crisi dello Stato liberale, di cui era testimone Sonnino nel suo articolo da cui sono partito, sarà una delle conseguenze della incapacità della vecchia classe dirigente di gestire questa nuova situazione, di capire una nazione dove la partecipazione alla gestione della vita politica si stava allargando. Saranno gli anni di fine secolo a modificare radicalmente la situazione, anche se bisognerà aspettare il suffragio elettorale allargato a tutta la popolazione maschile del paese perché i cambiamenti diventino significativi. ma quegli anni di fine secolo vedranno comunque le prime vere modifiche politiche nel paese: dopo la nascita del partito socialista, inizierà nel mondo cattolico il dibattito sul come si potrà tornare all’impegno politico, dal momento che il quando si pensa sia ormai imminente. possiamo dire che inizia un’altra fase della storia italiana, quella che

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coincide anche con la crisi della classe dirigente liberale e un’allargata partecipazione alla vita politica: ma tale nuova fase sarà resa possibile proprio dal fatto che grazie all’impegno nel sociale una parte non irrilevante della popolazione aveva acquisito quella coscienza civile che negli anni dell’unità d’Italia alcuni avevano auspicato.

NOTE

Lectio magistralis

1. Si veda in proposito G. manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi 18531892, Roma, Editori Riuniti, 1963 2. F. chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 , Bari, Laterza, 1965; vol. I, pagg. 215-373. 3. G. Salvemini, Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di E. Apih, milano, Feltrinelli, 1962; p.521. 4. G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Firenze, Vallecchi, 1966.5) Le tre citazioni si trovano in m. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1997; pagg. 118, 121, 134. 5. Le tre citazioni si trovano in m. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, RomaBari, Laterza, 1997; pagg. 118, 121, 134.

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cattaneo, Garibaldi e i mille.* Le idee e la prassi

Il pensiero politico di carlo cattaneo è stato caratterizzato, specialmente dal 1848 in poi, da un intenso patriottismo, risultante nel suo insieme non meno profondo di quello di tutti gli altri grandi padri fondatori del nostro Risorgimento. Questo patriottismo, in lui, era segnato dalla particolarità di non voler mai sacrificare la libertà sull’altare dell’unità. perciò era connotato dal fermo proposito di realizzare un assetto in cui si potesse essere plurimi in uno senza mai rinunciare né all’essere plurimi, e per ciò in grado di governare la cosa pubblica sui territori in cui in gran parte ci si fosse trovati a vivere come cittadini di una determinata città-provincia oppure regione, né all’essere uno, ossia nazione unitaria: Italia come entità politica  autonoma,  vale  a  dire  patria  comune  in  cui  le  piccole  patrie  si potessero integrare, moltiplicando e non diminuendo la propria forza specifica. Di conseguenza secondo cattaneo non avrebbe mai dovuto essere accettata l’antinomia tra essere “Italia libera” ed “Italia una”. Senza il primo termine, il secondo sarebbe stato privo di senso e prospettiva. Quest’impostazione è stata molto presente nell’ala democratica e progressista del liberalismo risorgimentale italiano, risultando sì minoritaria, e a posteriori anche necessariamente tale nel quadro del Risorgimento, ma cara, non a caso, a esponenti di primo piano del garibaldinismo quantomeno dal 1859 * Riproponiamo, in accordo con l’autore, il saggio di Franco Livorsi Cattaneo, Garibaldi e i Mille. Le idee e la prassi, appena pubblicato in Garibaldi nel pensiero politico europeo. Atti del Convegno di studi nel Bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, (Genova, 20-22 settembre 2007), a cura di A. m. Lazzarino Del Grosso, Firenze, centro Editoriale Toscano, 2010; pagg. 239-259.

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Franco Livorsi, Garibaldi, Cattaneo e i Mille. Le idee e la prassi

Franco Livorsi


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in poi. molti garibaldini e mazziniani erano sì stati, e sarebbero sì sempre rimasti, “unitari”, pronti a fare molti sacrifici ideologici pur di ottenere l’Italia “una”, ma totalmente consapevoli del fatto che chi sosteneva la necessità di controbilanciare unità e libertà, accentramento nazionale e autogoverno provinciale o regionale, oltre a tutto in un quadro possibilmente repubblicano, non amava l’Italia meno di loro. Tanto più che l’aveva e avrebbe dimostrato non con le chiacchiere, ma con l’azione. ciò è così vero che subito dopo l’Unità repubblicani unitari e repubblicani federalisti, mazziniani e cattaneani, da Alberto e Jessie White a Arcangelo Ghisleri e oltre, poterono vivere in buona armonia nel partito repubblicano. Non è neppure un caso che l’impostazione cattaneana, anche a scapito di quella mazziniana, sia stata assai apprezzata in un importante libro di piero Gobetti, ma per molti aspetti anche da Antonio Gramsci 1. ciò posto va detto che il pensiero politico di carlo cattaneo può essere distinto in tre periodi agevolmente distinguibili.  In un primo periodo, coincidente con gli anni compresi tra il 1836 e le prime due settimane del marzo 1848, cattaneo è stato sostanzialmente non già un federalista, ma un “confederalista”,  persuaso che il grande impero austrungarico, di cui la Lombardia era ed era ritenuta una parte preziosa, fosse riformabile, ossia trasformabile in una comunità unitaria di popoli di pari dignità vuoi culturale, vuoi fiscale ed economica e vuoi politica (superando il predominio più o meno assoluto dell’etnia germanica). In tale periodo si colloca l’epoca più importante del suo importantissimo mensile, di varia umanità, ma con speciale attenzione per i problemi dell’economia, sociali e tecnico scientifici, il “politecnico”: mensile di cui uscirono quarantuno numeri, dal 1839 al 1844. Tale fase culmina nell’opera Notizie naturali e civili su la Lombardia, del 1844 (di un’edizione critica della quale sono stato curatore, nel quadro di un volume che comprendeva pure La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, del 1858, lì egregiamente curato da Robertino Ghiringhelli). Nel secondo periodo, coincidente in sostanza con gli anni compresi tra il 1848 e il 1859, cattaneo – trovatosi quasi all’improvviso a giocare il ruolo di protagonista delle cinque giornate di milano del 1848, e distintosi lì e in tutta la Lombardia come esponente politico e militare di primo piano

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– diventa un patriota impegnato, un repubblicano e soprattutto un federalista. Il genere di federalismo di cui si fa fautore, ma anche teorico sempre più profondo e cosciente, è quello che traluce vuoi nella grande opera testimoniale, polemica, ma anche storica, L’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra. Memorie, del 1848-1849, e vuoi, soprattutto, ne La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, del 1858 (già ricordato). Egli vedeva lo specifico della storia, specie italiana, di lungo e anzi lunghissimo periodo, nei comuni, che però ben presto si erano uniti a grappolo attorno ad una città leader, di cui costituivano il necessario polmone e contado, il quale ultimo però poteva fiorire solo grazie a quel centro propulsore, capace d’investire capitali effettivi e di commercializzare i prodotti nei modi storicamente adeguati ai mercati sempre più vasti. Di lì veniva, a cattaneo, l’idea di un federalismo delle città-provincia, diciamo pure delle province, liberate dai lacci e lacciuoli di poteri sopraffattori esterni (pur facendo parte non solo di una patria italiana comune, ma di un comune Stato federale, come entità in esso federate). Al proposito rinvio pure alla mia relazione sulla città nel pensiero di cattaneo, presentata al bel convegno dell’Università  cattolica  promosso  da  Ghiringhelli,  che  ha  poi  curato finemente gli atti. Nel terzo periodo, coincidente in sostanza con la fase compresa tra il 1859 e il 1869, tra la fine della Seconda guerra d’indipendenza e la morte, cattaneo trasforma il suo federalismo delle libere città, specie capoluogo, in un federalismo che noi diremmo di macroregioni (ma che egli intende chiamare, non certo per caso, “Stati”), coincidenti in sostanza con i maggiori Stati usciti dal congresso di Vienna del 1815, chiamati a formare un’Italia una, ma intesa come uno “Stato di Stati”, federale, esplicitamente sul modello nazionale americano e anche svizzero 2. Naturalmente il momento culminante di tale periodo è l’impresa dei mille del 1860, in cui si situa la fase decisiva della sua relazione politica con Garibaldi. Anche di tale fase mi sono occupato, vuoi come relatore – sulle idee politiche e costituzionali del 1848-49 – al  convegno pensato e realizzato per impulso del direttore del Dipartimento giuridico politico di milano, che era allora Ettore A. Albertoni, vuoi come curatore, nel 2001, degli atti relativi 3.  A questo punto vorrei concentrare tutta la mia attenzione sul catta-

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Franco Livorsi, Garibaldi, Cattaneo e i Mille. Le idee e la prassi

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neo interlocutore di Garibaldi specie del 1860 (a parte taluni cenni indispensabili al periodo quarantottesco, di cui dirò).  Al proposito va notato che cattaneo, passando dal federalismo delle città capoluogo a quello degli Stati macroregionali (all’interno di uno “Stato di Stati” che fosse un tutt’uno, sia ben chiaro), aveva avuto un’evoluzione, che è stata ben spiegata da Franco Della peruta nel suo Carlo Cattaneo politico: un libro che insieme agli atti del convegno dell’Università di Sassari, Cattaneo e Garibaldi. Federalismo e Mezzogiorno, pubblicati a cura di Assunta Trova e di Giuseppe Zichi nel 2004, considero “il meglio” sull’argomento che qui interessa. Di tali due testi, nel ragionamento che mi appresto a svolgere, terrò massimamente conto, richiamandone i contributi (naturalmente servendomi non solo di altri lavori storici, ma soprattutto degli apporti cattaneani, che sono anzi il punto focale della mia riflessione). La tesi di Della peruta è già sintetizzata nel titolo Cattaneo politico, che vuol comunicarci che cattaneo non fu soltanto un vero pensatore politico, come ci avevano già insegnato tanti studiosi e in particolar modo Salvemini (sin dal 1922) e Norberto Bobbio (già nel 1945) 4, ma anche un “vero politico”, capace di calarsi concretamente nelle situazioni concrete, e per ciò stesso di adattare il suo pensiero profondo, mai sacrificato nella sostanza, a contesti storici specifici necessariamente differenziati: nel che ovviamente consiste una parte non piccola dell’arte dell’uomo politico. La svolta storica del 1859-60 era significativa perché in precedenza cattaneo aveva dissentito dal suo grande amico Giuseppe Ferrari – egli pure ex allievo di Romagnosi e suo interlocutore forte dal 1836 – quando questi nel 1851 aveva cercato di promuovere un partito federalista contro l’unitarismo di mazzini, sostenendo, in un suo manifesto, direi con approccio proudhoniano, che

Studi e ricerche

il diritto della rivoluzione è il diritto di ogni uomo di essere libero, di non vivere in uno Stato se non come cittadino, di non firmare  né  ratificare  il  contratto  sociale  se  non  sulla  base dell’eguaglianza, di respingere ogni dominazione temporale e spirituale, ogni autorità politica o religiosa.

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Studi e ricerche

Ferrari lo aveva lì sostenuto soprattutto in relazione alla condizione della penisola, osservando:

cattaneo in quell’occasione aveva mostrato di dissentire radicalmente dal Ferrari, considerando gli otto regni creazioni artificiali metternichiane 6. ma nel 1860 rettificava appunto, molto significativamente, il tiro, notando: prima di tutto, se v’è in Italia un ente sociale che si chiama la provincia di pisa o di cremona, v’è anche un altro ente più grande e non meno reale, che si chiama la Toscana, la Lombardia, la Sicilia. E ognuno di codesti Stati o regni uniti non è un corpo meramente amministrativo, ma comprende un intero edificio legislativo. L’accentramento potrebbe modificarlo più o meno, potrebbe sconnetterlo; e mutando una parte e non un’altra che fosse coordinata a quella, introdurvi la contradizione, e mutar l’ordine in caos, se nello Stato medesimo non vi fosse un organo legislativo capace di riparare ad ogni siffatto disordine, e di cogliere anzi l’occasione ad un nuovo atto di progresso 7.

In pratica la dimensione parlamentare nazionale avrebbe dovuto dare unità alla molteplicità, ma non soffocare la sovranità delle macroregioni componenti, che cattaneo voleva appunto chiamare Stati, ma “Stati uniti d’Italia”: sul modello americano, sempre opposto al centralismo di tipo francese, che avrebbe costantemente covato in sé il germe del dispotismo 8. Dopo la Seconda guerra d’indipendenza e nell’anno dei “mille” il federalismo concreto avrebbe dunque dovuto avere quei tratti. che cos’era accaduto? Il fatto è che dopo un decennio di esilio svizzero, estremamente operoso vuoi nel campo degli studi, vuoi in quello editoriale e persino imprendi-

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L’Italia si compone di otto corpi politici; il diritto esige dunque che la rivoluzione vi si riproduca otto volte, che vi convochi otto assemblee, che vi proclami otto repubbliche, e che successivamente le otto repubbliche si riuniscano per mezzo di una assemblea superiore in una federazione repubblicana 5.


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toriale, vuoi in materia di progettualità di governo, e in cui era persino diventato cittadino onorario di quella libera repubblica federale, cattaneo, intorno al 1860, come ha notato Giuseppe Armani nella sua biografia del personaggio 9, avvertiva che tutto in Italia si era finalmente rimesso in movimento (naturalmente in specie da quando era felicemente iniziata l’impresa  dei  mille).  ma  già  nel  1859,  al  tempo  della  Seconda  guerra d’indipendenza, cattaneo aveva invitato i suoi amici e discepoli più cari a battersi per la liberazione nazionale, pure all’ombra del sempre detestato potere sabaudo e cavourriano, e senza rinunciare alle istanze federaliste. Aveva, non certo a caso, inaugurato proprio allora, a milano, nel novembre 1859, una nuova serie del mensile “Il politecnico”, come sempre spendendovisi in modo straordinario, anche per contrastare la politica annessionistica e soffocatrice delle autonomie attribuita a cavour, che per parte sua ricambiò il grave dissenso boicottando cattaneo in tutti i modi, anche in maniera un po’ meschina, negando l’approvazione di governo alla sua nomina a segretario dell’Istituto Lombardo che gli era stata proposta dai milanesi e addirittura gli arretrati di pensione previsti per gli undici anni d’esilio, in quanto era diventato, a dire del piemontese, da cittadino del regno un cittadino svizzero 10. comunque cattaneo aveva incoraggiato i suoi amici più cari ad andare con Garibaldi a conquistare le due Sicilie: un Garibaldi cui del resto essi erano legatissimi. Tra questi suoi amici c’erano sia Agostino Bertani, il principale promotore e organizzatore dell’impresa dei mille e uno dei protagonisti indiscussi dell’impresa, sia compagni strettissimi del Generale come Alberto mario e sua moglie Jessie White. ma c’era pure un allora mazziniano entusiasta (pertanto unitario e non federalista), però sensibile ai temi dell’autonomia siciliana, Francesco crispi, già distintosi nel 1848, e che in quel 1860 per vincere le ultime riluttanze di Garibaldi, il quale era ben memore di quel che era accaduto a pisacane pochi anni prima, pare avesse inviato al generale da malta – anche se non è certo che fosse stato proprio lui – un lungo telegramma che era un falso resoconto di un giornalista inglese che descriveva inesistenti moti rivoluzionari nelle province siciliane. così va pure la storia. cattaneo aveva da sempre – ben prima che questi fosse diventato il mito vivente che stava diventando – profonda stima di Garibaldi. Aveva con lui

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una certa intesa che risaliva al 1848. Il 27 luglio di quell’anno, quando già la prima guerra d’indipendenza aveva preso ad andare piuttosto male per l’Italia (dopo la disfatta di custoza), cattaneo era stato nominato commissario di guerra per la zona di Lecco, Bergamo e Brescia, il 30 luglio, a palazzo marino, a milano, dove aveva conosciuto Garibaldi stesso 11, con cui aveva pure instaurato, subito dopo, un dialogo politico-militare. La conoscenza  e  il  confronto  con  Garibaldi  si  erano  sviluppati  ulteriormente quando, subito dopo la sconfitta subita dai milanesi, e a suo dire connessa al tradimento carlo-albertino, era approdato a Lugano.  Egli rimase lì si può dire per sempre, ma in principio non fu il solo approdato in quella zona di libertà tra i protagonisti rivoluzionari del Quarantotto. Lì, allora, come ha ricordato Ernesto Sestan, “si era costituita, con la partecipazione di mazzini, di Garibaldi e di altri una giunta d’insurrezione nazionale italiana, la quale il 9 agosto (1848) inviava il cattaneo a parigi con la missione di invocare presso il ministro degli Esteri Jules Bastide l’intervento della Repubblica francese contro gli austriaci” 12. com’è noto la missione non sortì effetti positivi, ma fu l’occasione per la stesura e prima pubblicazione in francese del grande libro sull’insurrezione di milano nel 1848, poi riedito in italiano, in forma un po’ ampliata, a Lugano, nel 1849 13.  Inoltre lo stesso cattaneo – l’intellettuale più prestigioso tra i protagonisti effettivi del Quarantotto italiano, anima e leader politico militare delle cinque giornate di milano e in parte dell’ultima difesa della Lombardia, e ambasciatore della rivoluzione nazionale italiana contro l’Austria in Francia – fu invitato a essere il ministro delle Finanze della gloriosa e sfortunata Repubblica romana del 1849; ma come si sa rifiutò, per ragioni familiari e soprattutto perché riteneva che l’ambito suo proprio fosse quello dello studioso e organizzatore culturale. I tre volumi dell’opera documentaria, dapprima prevista addirittura in trentasei volumi, sul Quarantotto italiano – Archivio triennale delle cose d’Italia dall’avvenimento di Pio IX all’abbandono di Venezia, curati da cattaneo tra il 1849 (ma il primo uscì nel 1850) e il 1855 – confermano la valutazione positiva su Garibaldi (nonostante alcune critiche al generale proprio sul terreno strategico militare). Di lì derivò l’apertura all’impresa di Garibaldi del 1860, con invito ai suoi amici straordinariamente legati anche al Generale a stargli vicino per far va-

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lere presso di lui istanze di autogoverno del meridione, pur nel quadro della necessaria politica di unione della nazione italiana.  Naturalmente cattaneo sapeva benissimo che il cavourrismo era cresciuto molto politicamente, dopo il 1848: non solo perché il piemonte, dopo la prima sconfitta, nello stesso ’48, era tornato a combattere, e si era poi guardato bene dall’abrogare, come altri regni, la cosiddetta costituzione liberale del marzo ’48 (lo Statuto), ma anche perché – auspice l’ex semifederalista Daniele manin, e cavour stesso – nel 1856 aveva promosso un movimento politico aperto a favore dell’unità nazionale sotto i Savoia, movimento cui venivano invitati ad aderire uomini di tutte le correnti, anche ex repubblicani, qual era l’eroe stesso della repubblica di Venezia del 1848, appunto manin 14, che per primo lo diresse: la Società nazionale, cui nel 1857 aveva aderito Garibaldi, deciso a porre tra parentesi il suo repubblicanesimo pur di battersi per l’unità d’Italia, e, in quell’occasione, ritrovatosi e intesosi con cavour. ma Garibaldi, insoddisfatto dei risultati parziali della Seconda guerra d’indipendenza – in cui tra l’altro cavour pur di avere l’Italia centrale aveva ceduto a Napoleone III Nizza e la Savoia – voleva ormai agire in proprio, operando però nel nome di Vittorio Emanuele II, in cui aveva grande fiducia, e che intuiva essere un punto di riferimento forte indispensabile. Rifiutava, in sostanza, l’atteggiamento che gli pareva rinunciatario, piegato alla politica estera francese in specie su Roma capitale, del cavourrismo, ma non rifiutava certo di agire all’ombra della monarchia sabauda, che sapeva indispensabile per “fare l’Italia”. per questo il medico e patriota Agostino Bertani, repubblicano mazziniano e solidale con Garibaldi, ma anche con cattaneo, era appunto riuscito a persuadere Garibaldi a compiere un’impresa che avrebbe dovuto iniziare con la conquista della Sicilia e concludersi subito dopo con la presa di Roma. Fu organizzata, dal Bertani, addirittura una cassa di soccorso a Garibaldi, il cui scopo – come ha notato il perina – “era di raccogliere denaro e organizzare reparti per le successive spedizioni, senza dipendere dal governo di Torino, realizzando così l’autonomia del partito d’azione”. Il tutto era iniziato, in pieno accordo con Garibaldi, il 7 maggio 1860, “in antagonismo con la Società nazionale del La Farina” 15.  Il 4 giugno 1860 Bertani, grande amico ed estimatore di cattaneo, scri-

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Tu – diceva dunque Bertani a cattaneo – conosci il programma Garibaldi al quale io ho dato forza e partito. per ora basti quello. cammin facendo andremo dove sapremo. ma bisogna aiutarsi con la potenza di quell’uomo; se a quella uniamo la tua, saremo sicuri dell’esito. carlo mio, la patria richiede tanti e grandi sacrifici, ed i più grandi suoi figli più ne debbono. E tu ne sei il grande e prediletto 16.

La lettera era stata portata a cattaneo da Antonio mordini, già ministro di Guerrazzi in Toscana nel 1848-49 e allora deputato del parlamento subalpino, in procinto di raggiungere Garibaldi in Sicilia, che cercava di controbilanciare la linea puramente annessionista cavourriana con un’altra più democratica e anche decentralizzatrice, potenzialmente alternativa a livello di governo. cattaneo ne dava notizia ai suoi amici, garibaldini legatissimi a lui come al Generale, e che dopo il Risorgimento tanto avrebbero fatto per dare testimonianza e far conoscere entrambi: i citati Alberto mario e Jessie White. Annunciava loro di aver visto “il maestoso vostro amico (mordini) in procinto di partire per la Sicilia; e – notava – gli ho detto che faceva bene”. E seguitava, quasi con entusiasmo quarantottesco:  E penso che fareste male malissimo voi, se non andaste dove fosse G. (aribaldi) in persona, e dappertutto dov’egli andasse. […] Non lasciatelo involgere nella rete. […] Anche all’amico Bertani dite che lasci gli affari ad altri, ma vada vicino all’uomo. Se non altro lo magnetizzi con gli occhi. circondatelo  tutti  colle  vostre  simpatie  e  coi  vostri  generosi  propositi. A.(lbert)o non abbia ambizione di correr pericoli; nessuno gli domanderà di più che d’esser stato presso la persona di G.(aribaldi) 17.

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veva al milanese parlandogli dell’impresa garibaldina e delle insidie della solita politica sabauda in Sicilia, là rappresentate da “La Farina quale mandatario di cavour e ci” presso Garibaldi (insidie che sarebbero state da sventare e sventabili):


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Invece Alberto mario fu addirittura uno dei duecento “intrepidi” che il 18 agosto, dopo che la Sicilia era stata liberata 18, ma pareva non attraversabile, passarono nottetempo lo stretto di messina mentre dall’altra parte c’era la flotta borbonica e c’erano sedicimila soldati nemici, per preparare lo sbarco dei 3.500 uomini allora a disposizione di Garibaldi, ormai forte di diecimila-quindicimila uomini, per l’impresa di conquistare Reggio calabria per poi marciare su Napoli. L’idea era poi quella di procedere verso lo Stato pontificio sino a conquistare Roma, a dispetto del moderatismo piemontese. Lo stesso Bertani aveva raccolto, nella penisola, “altri ottomila nel nord per un movimento a tenaglia attraverso gli Stati pontifici”, come ha ricordato mack Smith 19. Nell’impresa dei mille  si svolgono due guerre: una militare, la più straordinaria di tutto il Risorgimento, e un’altra puramente o in gran parte politica, in cui si fronteggiano non tanto e non già repubblicani (unitari oppure federalisti) e monarchici liberali moderati e proni al cavourrismo sabaudo, ma piuttosto unitari annessionisti (rispetto al Regno sabaudo puro e semplice) e unitari più, o meno, aperti al federalismo (o, come nel caso di cattaneo, federalisti aperti al compromesso con gli unitari, ma solo ove fosse stata fatta salva un’istanza di autogoverno anche di deputati dell’ex regno del sud, che pure potessero diventare parlamentari a livello nazionale) 20.    Dato che la tesi della collaborazione con i Savoia per l’obiettivo prioritario dell’Unità era nettamente prevalente tra i patrioti stessi sin dal 1848; dato che cavour aveva rafforzato tale tendenza già condivisa dai mazziniani – pur sempre perseguitati ove si muovessero appena come tali – fondando la Società Nazionale; e dato che a tale indirizzo unitario avant tout partecipava vuoi Garibaldi e vuoi gran parte del movimento patriottico che riconosceva in lui il proprio capo carismatico; e dato che c’era un’evidente intesa tra le iniziative armate di Garibaldi e le ambizioni espansionistiche del re Vittorio Emanuele II, era chiaro che la posizione degli unitari fosse la più forte. pure c’erano vuoi a Torino, vuoi in Garibaldi e nel suo entourage, contraddizioni e oscillazioni che gli unitari più sensibili all’autonomismo e i pochi federalisti veri e propri speravano di poter utilizzare più o meno ampiamente. A ciò credeva molto lo stesso cattaneo, come emerge chiara-

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mente da lettere sue alla moglie dell’agosto 1860 21. Tra gli oscillanti, unitari ma aperti a forme di autogoverno del meridione da raccordare con l’unione nazionale, c’era anche Francesco crispi, che il 27 gennaio 1848 su “L’Apostolato”di palermo – la prima città a liberarsi nell’anno dei portenti – aveva pur sostenuto – in riferimento all’Italia unita da fare – che questa avrebbe dovuto “consistere in un’unione federale”, in cui – diceva – “una sarà la nazione, ma non uno lo Stato”. più oltre, riparato in Inghilterra, era però diventato un discepolo fedelissimo di mazzini, per ciò unitario (come poi sempre – per molti anni da sinistra, e, negli anni Novanta come si suole dire – da destra). ma durante l’impresa dei mille – in cui tra i siciliani era stato il leader di spicco, colui che aveva indotto Garibaldi a farsi dittatore per conto del re, ad Alcamo, sin dal 18 maggio 1860 – crispi era stato contrario a un mero unitarismo annessionista, e favorevole a nominare un’Assemblea elettiva siciliana prima del plebiscito di annessione, come chiesto dai repubblicani e dai federalisti in specie: non perché avesse ormai la benché minima riserva sostanziale per la parola d’ordine più unitaria, propria dello stesso Garibaldi, “Italia e Vittorio Emanuele”, ma perché la corrente democratica non avrebbe dovuto essere incapsulata in quella liberale moderata, cavourriana, per poter rimanere abbastanza autonoma e forte da calare su Roma subito dopo aver liquidato il Borbone.  ma oscillante e contraddittorio era anche il governo di Torino. Questo, infatti, dapprincipio si sarebbe ampiamente accontentato – se proprio si fosse dovuto agire contro il regno borbonico tramite Garibaldi e i suoi poco apprezzati volontari in camicia rossa, e non “in proprio” – di annettersi puramente e semplicemente la Sicilia, ritenendo per altro molto dubbia la conclusione positiva di tale impresa da parte dei garibaldini stessi, guardati sempre con malcelata sufficienza, con notevole scetticismo, e persino con preoccupazione per le posizioni repubblicane lì sempre serpeggianti. Il governo non impediva l’impresa garibaldina, ma era decisissimo a sconfessare quei sovversivi in caso di insuccesso, e persino a servirsi di esso contro l’ala – parlamentare e non – di cui erano espressione (quella di sinistra, democratica, pur molto debole nel parlamento). I piemontesi, comunque, tendenzialmente non credevano che quelle truppe pittoresche di volontari, senza professionalità militare, nonostante le capacità tattiche ormai inne-

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gabili (per i più intelligenti) di Garibaldi, e nonostante il “cieco” entusiasmo, potessero battere un regno grande e di lunga durata come quello delle due Sicilie, in Sicilia e tanto più in calabria e campania. comunque cavour ebbe l’intelligenza di operare come se ciò fosse stato possibile. Al proposito c’è una dinamica complessa che qui riassumo sulla scorta di tre studi: il citato Cattaneo politico di Della peruta; il profilo biografico su Francesco crispi di Fausto Fonzi e il bel saggio di manlio Brigaglia Cattaneo e Garibaldi nel ‘Diario’ di Giorgio Asproni, nell’opera collettanea citata Cattaneo e Garibaldi 22.  Dapprima, ai primi di giugno del 1860, arrivò a palermo Giuseppe La Farina, segretario della Società Nazionale, a sostenere la causa dell’annessione immediata della Sicilia allo Stato sabaudo tramite plebiscito. Il nemico, per cavour, era in primo luogo Agostino  Bertani, considerato un “rosso”, un sovversivo repubblicano irriducibile, oltre che amico di mazzini come di cattaneo, considerati a loro volta avversari irriducibili del liberalismo moderato e monarchico. Dopo un mese La Farina dovette tornarsene a casa, dopo essere stato persino arrestato dal governo di Garibaldi. A quel punto la rappresentanza più o meno implicita del governo piemontese, tra i mille, per volontà di Garibaldi passava ad Agostino Depretetis, della Sinistra parlamentare, fatto da Garibaldi “prodittatore”, operante comunque – di concerto con cavour – al ministero degli Interni. Anche Depretis ben presto tornò alla carica, come il La Farina, sul plebiscito per l’immediata annessione della Sicilia, scontrandosi con il rifiuto vuoi di Bertani, vuoi di crispi (che si dimise dal governo) e vuoi dello stesso Garibaldi, deciso a indire plebisciti di annessione solo dopo la conquista di Roma. In questo clima, compreso tra l’arresto e il rinvio a Torino dell’annessionista e rozzamente cavourriano La Farina (7 luglio 1860) e la nomina al suo posto, sempre come trait d’union con Torino, di Agostino Depretis come “prodittatore” (21 luglio 1860) 23, si situa la famosa e importante lettera di cattaneo a Francesco crispi del 18 luglio 1860, volta evidentemente a persuadere quell’ormai irriducibile unitario, però sensibile per ragioni sue – legate al seguitare la lotta sino a Roma capitale – della bontà della tesi di un’Assemblea siciliana volta a concordare l’unione con lo Stato sabaudo senza lasciar cancellare il Regno del sud (ponendo così le basi per un’Italia

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una, ma federale). cattaneo era quasi in viaggio verso Napoli, chiamatovi anche da crispi su sollecitazione di Bertani, in un primo tempo con l’idea di inviarlo ambasciatore dei mille a Londra per perorare la causa dell’unità italiana (Roma compresa).  cattaneo, scrivendo dunque a crispi, parlava da patriota e da interlocutore politico di lungo corso, notando, evidentemente in riferimento all’invito ad andare a Napoli: “con vero affetto vi ringrazio del vostro invito: vi tengo anche interprete di quanti costì mi sono benevoli; e vorrei ben potervi corrispondere; e avere un dito anch’io nelle cose ammirabili che il vostro Washington vi fa fare”. Il paragone tra Garibaldi e il liberatore e primo presidente degli USA era certo grato a quel garibaldino, e anche al suo generale. Seguiva la sollecitazione centrale, rivolta a un interlocutore probabilmente creduto sempre quello repubblicano federalista del 1848 (dal più al meno): “non vi stancate di dire al Generale che non basta saper prendere; è d’uopo saper tenere”. Insomma, i regni vanno governati e non regalati ad altri. E qui indicava con forte realismo, da persona che da un quarto di secolo almeno s’informava continuamente e aveva continuamente a che fare – persino da imprenditore  –  con  problemi  economico-sociali,  e  che  aveva  alle  spalle profondi studi sulla Sardegna 24 applicabili almeno in parte al caso della Sicilia e dell’ex regno delle due Sicilie: ma bisogna pensare anche alla produzione. Or dico a voi, come ho detto agli amici Sardi: la grande agricultura è un’industria, vuole mercati, vuole strade. Le ferrovie non possono arrivar da per tutto. Bisogna far subito tutte le strade communali. […] Assicurare d’un colpo la costruzione di tutte le strade rurali sarebbe trasformare d’un colpo magico l’isola.

Gli era chiara la prospettiva di un capitalismo agrario, basato non sulla terra ai contadini, inutile senza capitali da investirvi, ma sulla proprietà capitalistica in agricoltura, e addirittura sul dare le molte terre incolte a capitalisti agrari, in cambio di strade 25. E anche al sud, nella sua breve permanenza, si sarebbe interessato di strade ferrate, come risulta pure da sue

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riflessioni immediatamente successive 26. Sapeva che l’ipoteca dell’annessionismo era fortissima, e per questo avrebbe voluto che fossero posti quanti più  condizionamenti  positivi  possibile  prima  dell’unificazione  sabauda (anche in politica economica): Fate subito, – diceva infatti – prima di cadere in balìa d’un parlamento generale che crederà fare alla Sicilia una carità, occupandosi di essa tre o quattro sedute all’anno! Vedete la Sardegna, che dopo dodici anni di vita parlamentare sta peggio della Sicilia, giacché; poco meno vasta, non ha la metà della popolazione.

E sulla prospettiva dell’unitarismo, mostrando di non fare più neppure lui una pregiudiziale della questione repubblica o monarchia, in una parte poi lasciata – non a caso – nella minuta, notava: “La mia formula è Stati Uniti, se volete Regni uniti: l’idra di molti capi che fa però una bestia sola”. E qui è quasi impossibile, per noi, non pensare allo Stato “pluricefalo” di Althusius.

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per essere amici – seguitava – bisogna che ognuno resti padrone in casa sua. Le provincie sin qui annesse non sono per nulla soddisfatte del governo generale, e in breve tempo si avranno rancori profondi e gravi danni 27. I Siciliani potrebbero fare un gran beneficio all’Italia dando all’annessione il vero senso della parola, che non è assorbimento. Una greggia non è una pecora sola. […] congresso comune per le cose communi; e ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha casa sua, le  cognate non fanno liti 28.

cattaneo giunse, accolto da Garibaldi “come un fratello” (diceva egli, significativamente, scrivendo alla moglie, forse facendo pure riferimento a una comune appartenenza massonica). Era naturalmente deciso a far valere l’istanza federalista anche nel nuovo contesto, che pure sapeva prevalentemente unitario 29. Aveva fatto l’avventuroso viaggio per mare con un emissario del governo piemontese, Giorgio pallavicino, che avrebbe dovuto

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diventare “prodittatore” 30. ma mentre i due arrivavano, si parlò persino di fare cattaneo stesso “prodittatore”. Il pallavicino viene subito rinviato dal re, per sottoporgli il compromesso unitario messo a punto da Garibaldi, cattaneo e i suoi stretti collaboratori, così sintetizzato: “Stia pure il plebiscito; ma lo preceda un’Assemblea (del nuovo regno) se non si vogliono spargere semi di guerra civile”.   contemporaneamente cattaneo respingeva nettamente un progetto meramente regionalista, allora imperniato su governi regionali nominati dal governo nazionale e non eletti dai cittadini, proposto dal ministro degli Interni,  Luigi carlo Farini 31. Tuttavia il re galantuomo, cui si chiedeva – in vero poco realisticamente – vuoi un nuovo governo nazionale senza cavour, e vuoi l’accettazione di un unitarismo condizionato, respinse ogni ipotesi del genere, almeno per quel tempo. Nel frattempo il pallavicino, sempre annessionista e favorevole all’immediato plebiscito, ridiventava “prodittatore”. Tuttavia Garibaldi, insieme  a  cattaneo,  sembrava  ancora  non  voler  cedere  alle  pressioni  del pallavicino, ossia del governo di Torino, tanto da indurre il cattaneo a descrivere la situazione, in una sua lettera alla moglie dell’l’11 ottobre 1860, nei seguenti termini: The Sicilians are decided to  have an Assembly to look about every thing that concerns the annexion to all Italy (not directly to piedmont). The  General  wishes  that  the  Napolitans  should  do  the  same. pallavicino does not like the idea of an Assembly, but he will be forced to yield to a strong will 32.

Il governo piemontese, però, a questo punto accelera la sua iniziativa. manda il re alla testa di un esercito, che passa pure per il regno pontificio annettendosi alcune province senza attaccare Roma e puntando al sud. Il re, prima di partire, lascia a Farini un decreto “che dichiara Garibaldi fuori dalla legge in caso di resistenza” 33. ciò induce Garibaldi e crispi – come ha notato il citato Fonzi, in ciò concorde con il mack Smith 34 – di fronte ai pericoli di interventi stranieri ed all’avanzata delle truppe piemontesi attraverso le marche” a indire il plebiscito di annessione del 21 ottobre

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“con la formula ‘Italia una e indivisibile’”. comunque vi fu ancora un’ultima drammatica riunione tra Garibaldi e i suoi più stretti collaboratori, compreso cattaneo, tenutasi il 13 ottobre 1860 e poi ricostruita da più testimoni, tra cui cattaneo stesso. Si cercava almeno di salvaguardare, pur dopo il plebiscito, un minimo di rappresentanza autonoma di tipo parlamentare dell’ex regno, per non dare a quella rivoluzione il carattere di mera azione per l’annessione regia, e per salvaguardare un minimo di relazione da plurimi in uno tra l’ex regno e il regno in cui esso confluiva. La questione era delicata anche perché sembrava voler limitare il valore definitivo del referendum che si andava a indire: il che appariva contrario al principio di nazionalità, allora indiscusso quasi per tutti. cattaneo parlò di quella drammatica riunione alcuni mesi dopo, in una lettera alla moglie del 26 aprile 1861, in cui notava:

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Io presi congedo da G. (Garibaldi) il giorno 13, una mezz’oretta dopo che si era sciolta la conferenza nella quale cinque voti contro due aveva riconosciuta necessaria l’assemblea proposta dai siciliani per regolare la votazione e la consegna del Regno. In seguito a che pallavicino avendo dato di nuovo la sua dimissione e inveito contro crispi, G. (Garibaldi) perdette la pazienza e si alzò dicendo: “Se non volete l’Assemblea, vada al diavolo l’Assemblea, io me ne andrò a caprera”. Nessuno dei deliberanti fece alcuna osservazione. Solamente io, quando pallavicino mi offerse la mano, la rifiutai e aggiunsi alcuni rimproveri per fatti a lui personali 35.

Era la sconfitta di cattaneo, per altro ben consapevole della buona volontà e della vera nobiltà di Garibaldi, cui infatti, nel momento di ripartire, due soli giorni dopo, da Napoli, scriveva: Generale, in procinto d’imbarcarmi, vi scrivo per darvi un saluto. Se valgo in cosa alcuna, sono pronto sempre ad ogni richiesta vostra 36.

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poco dopo anche Garibaldi – non senza essere stato abbastanza umiliato nel suo glorioso ed eroico esercito che aveva conquistato un regno per Vittorio Emanuele II – tornò nella sua caprera. Un plumbeo stato d’animo, ai limiti della depressione, accompagnava il ritorno al privato da parte di cattaneo. Aveva ragione in tutte le sue previsioni, ma la sua linea si era scontrata e scontrava con l’intelligente e liberale politica espansiva di uno Stato sabaudo che era evidentemente il più forte in Italia, e che già a ridosso dell’impresa dei mille il cavour, parlando in Senato, diceva avere per l’Italia lo stesso ruolo che aveva la prussia per la Germania: Stato sabaudo rispetto  al  quale  si  doveva  –  o  sdegnati  come  cattaneo,  oppure  con disincantato assenso come altri tra cui lo stesso intuitivo Garibaldi – cedere il passo, nella consapevolezza, tipicamente garibaldina, ma anche storica, e non certo priva di risultati positivi e imprescindibili nel lungo periodo, di aver quantomeno “fatto l’Italia”.  Restava comunque, nell’ala democratica e radicale, appunto una profonda amarezza, molto ben documentata nel bel libro di Giuseppe Berti I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, del 1962, che pare a me un classico della storiografia. Nove anni dopo, il 24 novembre 1869, Garibaldi scriveva a crispi: Lasciarsi corrompere o morire, ecco la formula adottata dal gesuitismo politico che governa l’Italia … L’Italia sì malmenata in questi  dieci  anni,  in  questo  periodo  trovasi  proprio  rovesciata  nel fango.

per parte sua cattaneo, nel dicembre 1861, scriveva al grande amico, e protagonista dell’impresa dei mille, Bertani, che la sua vita era ormai “senza piaceri e senza speranza. Solo il continuo lavoro mi allontana i pensieri tetri e mi conserva l’aspetto naturalmente gioviale; ma di dentro son morto” 37.  Aveva comunque subito ripreso, sia pure ancora per poco, il suo lavoro creativo al “politecnico”, apponendo ad esso anche il suo solito saggio semestrale introduttivo. Notava, nel X numero del 1861, il sincronismo tra l’indirizzo di quel suo periodico rinato e l’azione dei  “giovani, tratti in Sicilia dalla parola e dall’esempio di pochi indomabili, con prove di valore e

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di virtù, pari a quante ne hanno di più ammirate i fasti antichi”. confermava il suo federalismo, guardandosi bene dal confonderlo con qualsiasi forma di regionalismo, pur di là da venire, dopo che era parso profilarsi nella prima fase, siciliana, dell’impresa dei mille. Notava infatti: E la stessa necessità crediamo sia da riconoscersi ancor più in Sicilia e Napoli, non perché siano regioni, vocabolo troppo indeterminato,  ma  perché  sono  stati.  E  che  cosa  è  adunque  uno  stato,  se Napoli non lo è? Diciamo che debbono essere assemblee legislative; poiché ci pare soverchia disinvoltura il dire che non saranno leggi da deliberarsi, ma solo “regolamenti da acconciarsi”. […] sarà dunque necessario far leggi locali; far leggi per quello stato e non per li altri, che non ne hanno bisogno. Sarà dunque necessario deputarvi legislatori. Né si possono abbandonare siffatte cose al beneplacito d’un consiglio ministeriale, che forse non se ne darebbe nemmen pensiero.

Naturalmente era tutto profondamente vero, mentre dopo gli entusiasmi del Sud arrivava il brigantaggio di massa, contro la mera meccanica estensione della legge piemontese a regni tanto diversi. E qui cattaneo contrapponeva al consenso del Sud diventato subito coatto quello spontaneo ottenuto dai mille:

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Fu ben forza spontanea che l’immensa Napoli, nei giorni della dittatura, fra le prossime tentazioni del potere antico, si vide quasi senza magistrati, per certo senza soldati, prodigiosamente quieta. E ora, coi soldati, e coi gendarmi, e colle navi da guerra, e colle espulsioni, e colle manette, e colle ferite, non è quieta! 38.

Traeva la morale conclusiva nello stesso anno, nella prefazione alla seconda serie del “politecnico”, enfatizzando un genere di ideale, nazionale e internazionale, che connoterà tutti i democratici, tutta la sinistra repubblicana come radicale, come minimo sino al 1918 (se non addirittura sempre):

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mi sembra un contesto – che connetteva insieme fervido patriottismo, federalismo interno e pace internazionale – che si può ben condividere, in quanto indica sì i termini fondamentali di un’ideologia politica sconfitta al suo tempo, persino logicamente (il che non vuol dire giustamente),  per forza maggiore, ma feconda, come modello di convivenza in cui si sia plurimi in uno, e non certo come pretesto di divisione della patria italiana, nei tempi lunghi della storia.

NOTE 1. Sulla rilevanza della minoranza di sinistra, mazziniana e cattaneana, nel Risorgimento, si vedano soprattutto: G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, milano, Feltrinelli, 1962; F. Della peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento. Saggi e ricerche, Roma, Editori Riuniti, 1973; Id., Carlo Cattaneo politico, Angeli, milano, 2001. per la convergenza profonda tra mazziniani e cattaneani nella storia del movimento repubblicano dopo l’Unità si vedano: G. Galasso, Da Mazzini a Salvemini. Il pensiero democratico nell’Italia moderna, Firenze, Le monnier, 1974; Id., La democrazia da Cattaneo a Rosselli, Le monnier, Firenze, 1982; L. cecchini, Unitari e Federalisti. Il pensiero autonomistico repubblicano da Mazzini alla formazione del PRI, Roma, Bulzoni, 1974.  Va poi ricordato che la sinistra, liberale come socialcomunista ha spesso contrapposto al Risorgimento reale un altro Risorgimento possibile, dal piero Gobetti di Risorgimento senza eroi, Baretti, Torino, 1925, all’Antonio Gramsci dei Quaderni del carcere, edizione  dell’Istituto  Gramsci  a  cura  di  V.  Gerratana,  Torino,  Einaudi,  1975,  quattro  voll. Entrambi erano polemici con il Risorgimento come “conquista regia” e come “rivoluzione democratica mancata”, sensibili alle tematiche federalistiche, nel secondo caso però collegate – almeno nella meditazione matura, nelle prigioni fasciste – soprattutto all’idea di una vittoria dei moderati, e della “rivoluzione passiva”, connesse al mancato coinvolgimento delle masse contadine nel movimento di liberazione nazionale e di fondazione dello Stato liberale (coinvolgimento attuato invece dai rivoluzionari francesi del 1789-1793 e soprattutto dai giacobini del 1792-1793, visti come partito rivoluzionario di fatto, in fondo prebolscevico, pur in

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Tale fu sempre la nostra fede. Giustizia e libertà ad ogni nazione, ad ogni popolo, ad ogni famiglia; padrone ognuno in casa sua; e tutti fratelli e ospiti e amici in tutte le parti della terra 39.


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un contesto necessariamente ancora capitalistico). Tuttavia il Risorgimento accadde come poté accadere, e fu un grande progresso, civile economico e sociale, nella direzione borghese, capitalistica e “liberale” storicamente determinata, come fu spiegato in opere imprescindibili di R. Romeo, quali Risorgimento e capitalismo, Bari, Laterza, 1959; Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, Einaudi, Torino, 1963. Tuttavia il fatto che una tendenza politica sia risultata in minoranza in una fase storica non sta a significare che i vincitori avessero avuto ragione, ma solo che i rapporti di forza avevano portato determinati risultati. Oltre a tutto questi risultati non sono, necessariamente, né del tutto positivi né del tutto negativi. Ad esempio si può tranquillamente riconoscere che l’Unità d’Italia realizzata tra il 1861 e il 1870, prevalentemente come incontro tra politica espansionista dello Stato sabaudo piemontese supportata da un’intelligente politica delle alleanze contro l’Austria ed azione di piccole minoranze patriottiche eroiche ed idealisticamente motivate capaci però di trascinare masse cospicue di cittadini, sia stata un grande passo storico in avanti (per le ragioni chiarite definitivamente dal Romeo). ma si può anche riconoscere che lo Stato liberale - pur progressivo rispetto all’assetto uscito dal congresso internazionale di Vienna del 1815 - fatto “a quel modo” non fu e non poté poi diventare compiutamente democratico: il che ebbe molto a che fare con la successiva affermazione del fascismo e con ipoteche sulla democrazia durate almeno sino agli anni Sessanta del Novecento. Insomma, l’Italia “una”, ma fatta come fu fatta, registrò cromosomi democratici scarsi, con conseguenze sboccate nel fascismo e che sono state pagate a caro prezzo almeno sino agli anni Sessanta del XX secolo.  Solo a partire dalla svolta di centrosinistra del 19621963 l’Italia, a parere di chi scrive, divenne democratica in senso europeo. 2. Il dato dell’unità della patria comune, in un assetto di Stati che sono plurimi in uno, balza in evidenza sin dalle prime parole della costituzione  degli Stati Uniti d’America del 1787: “Noi, popolo degli Stati Uniti”. Su ciò si veda il testo della costituzione in appendice a: A. Hamilton, J. madison, J. Jay, Il Federalista (1788), a cura di m. D’Addio e G. Negri e con introduzione di L. Levi, Bologna, Il mulino, 1997, pagg. 725-736. In ogni caso dal 1865 gli Stati Uniti divennero, come disse la corte federale dopo la fine della guerra di secessione, “un’indissolubile unione di Stati indissolubili”. Non si può dubitare che lo “Stato di Stati”, inteso come uno Stato-nazione fatto di Stati membri per così dire sub-nazionali, in Svizzera dal 1848 e in America del Nord almeno dal 1865, fosse il modello di cattaneo, il quale era sempre attentissimo a tutto quel che accadeva, per lui positivamente, vuoi in territorio americano e vuoi in Svizzera, in quegli anni, come risulta pure da innumerevoli articoli del suo mensile “Il politecnico”. 3. c. cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia - La città considerata come principio ideale

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delle istorie italiane, Introduzione di m. Talamona, a cura di F. Livorsi e R. Ghiringhelli, presentazione di E. A. Albertoni, milano, Oscar mondadori, 2001; Id., Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra. Memorie, Lugano, Tipografia della Svizzera Italiana, 1849, ma lo si veda in: Id., Scritti su Milano e la Lombardia, introduzione e note di E. mazzali, Biblioteca Universale Rizzoli, milano, 1990; Aa.Vv., Libertà e Stato nel 1848-49. Idee politiche e costituzionali, introduzione e cura di F. Livorsi, milano, Giuffré, 2001; F. Livorsi, La città di Milano nel pensiero di Carlo Cattaneo, in: Aa.Vv., Città e pensiero politico italiano dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di R. Ghiringhelli, milano, Vita e pensiero, 2007, pagg. 71-95. 4. G. Salvemini, Introduzione a Le più belle pagine di C. Cattaneo, milano, Treves, 1922 (Roma, Donzelli, 1993); c. cattaneo, Stati Uniti d’Italia, a cura di N. Bobbio, Torino, chiantore, 1945. 5. A. monti, Un dramma fra gli esuli …, Roma, casa Editrice Risorgimento R. caddeo e c., 1921; pagg. 77-86; e F. Della peruta, Carlo Cattaneo politico; cit., pagg. 103-104. 6. Esprimeva tale opinione in lettera a Ferrari del settembre 1851, citata in: c. cattaneo, Epistolario, a cura di R. caddeo, Firenze, Barbera, 1949-1956, quattro voll.; vol. II, pagg. 105106. Si veda pure: V. michelini, Carlo Cattaneo: studio biografico dall’epistolario, milano, NED, 1982. 7. c. cattaneo, Scritti politici, a cura di m. Boneschi, Firenze, Le monnier, 1965; vol. IV, pagg. 73-80; e F. Della peruta, Carlo Cattaneo politico; cit., pag. 116. 8. La critica del modello centralistico statale francese, proclive per ciò stesso al ricorrente dispotismo, e ritenuto per tale ragione – nonostante le grandi risorse naturali economiche e l’alta civiltà del paese – perdente rispetto a quello inglese, è svolta da cattaneo, discutendo un libro omonimo di cristoforo Negri, sin dall’articolo del 1842 Del vario grado d’importanza degli Stati odierni, pubblicato su “Il politecnico”. Su ciò si veda Carlo Cattaneo politico di Della peruta, a pag. 47. 9. G. Armani, Carlo Cattaneo, una biografia, milano, Garzanti, 1997; pag. 170. 10. E. Sestan, Cattaneo Carlo, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1979; vol. XXII, pagg. 422-439. 11. G. Armani, Carlo Cattaneo, una biografia; cit., p. 116. 12. E. Sestan, Cattaneo Carlo, cit. 13. c. cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (1849), cit.  Dal testo – straordinario vuoi per le analisi politico militari e vuoi per l’afflato epico che lo pervade, soprattutto nella rappresentazione dei movimenti di massa dei cittadini senza capi – si evince sì la scelta ostile all’annessionismo e all’egemonia del piemonte sabaudo, ma anche un

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forte patriottismo, evidente laddove ad esempio notava: “E non vi è grandezza, né forza, né maestà che sia maggiore di quella dell’universa nazione. Solo l’Italia può parlare da eguale alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra”. 14. Su Daniele manin nel 1848-49 si veda l’interessante relazione di G. La Rosa, Daniele Manin e la repubblica di Venezia. Peculiarità e modernità del regime politico-istituzionale veneziano del 1848-49, in Aa.Vv., Libertà e Stato nel 1848-49. Idee politiche e costituzionali, cit.; pagg. 211.244. Emerge un orientamento ben diverso da quello della Società Nazionale in oggetto, ma naturalmente la questione della forza nazionale e internazionale atte a battere l’Austria era ben connessa alla tragica fine della stessa repubblica veneta quarantottesca. 15. c. perina, Bertani Agostino, in Dizionario biografico degli italiani, cit., 1967; vol. IX, pagg. 453-458. 16. c. cattaneo, Epistolario, cit.; vol. IV, pag. 357n. 17. Ivi; pagg. 357-358. ma si confronti ora con: Id., Lettere 1821-1869, A cura di c. G. Lacaita, introduzione di A. padoa Schioppa, presentazione di E. A. Albertoni, milano, Oscar mondadori, 2003; pagg. 191-192, con trascrizione delle lettere più esatta, riscontrata sugli originali. 18. Richiamo l’attenzione su un caso di presenza mazziniana e garibaldina nella Sicilia più profonda. Un tal Giuseppe matera, poi medico, prima del 1848 aveva fondato in un piccolo paese, a Riesi (caltanissetta), con altri, la Giovine Italia. Era pure stato arrestato con altri nel 1848, in un contesto ricco di episodi interessanti, raccontati da S. Ferro in La storia di Riesi. Dalle origini ai nostri giorni, caltanissetta, Tipografia S. Di marco, 1934. Nel 1860 era forse troppo vecchio per andare con Garibaldi. Vi andò suo figlio, Francesco, insieme a suo fratello, Luigi, fabbro ferraio. I due parteciparono pure alla battaglia di milazzo. Il giovane, Francesco matera, scrisse allora al mazziniano Giuseppe, suo padre: “caro papà, abbiamo avuto a milazzo uno scontro coi borbonici ed abbiamo vinto, preso la fortezza della cittadella, ora dobbiamo marciare verso Napoli, con la speranza di abbattere i borboni; col Generale Garibaldi non si perde mai, ma si vince sempre. I nostri compaesani stanno tutti bene. Dirai alla nonna che Luigi (zio) è stato fatto trombettiere. Io e Ferro siamo caporali; tutti salutano le famiglie. (messina, 30 Luglio 1860) (pag. 81).” Questo Luigi matera era il mio bisnonno materno. 19. D. mack Smith, Garibaldi, milano, mondadori, 1993; cap. X,  pag. 121. Va tra l’altro ora ricordato uno studio che ridimensiona molto la tesi, propria della storiografia gramsciana, di un Risorgimento senza popolo, rivoluzione mancata, con un volontariato privo di vere basi di massa, dimostrando che il fenomeno garibaldino non fu affatto elitario, tanto che i mille partirono sì in “mille”, ma via via, nel regno delle due Sicilie, divennero cinquantamila. E Gari-

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baldi seguì un’idea abbastanza lucida di necessaria alleanza tra rivoluzione nazionale popolare e monarchia sabauda, niente affatto peregrina. Il riferimento va a m. Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli, 2007. 20. così spiegava cattaneo in lettera a pallavicino del 12 ottobre 1860, citata ampiamente da D. mack Smith in Cavour e Garibaldi nel 1860, Torino, Einaudi, 1958; pag. 450.  21. così il 25 agosto 1860, quasi un mese prima del suo viaggio verso il quartier generale di Garibaldi a Napoli, scriveva alla moglie, addirittura due volte nello stesso giorno: “Tutto il mondo diventa più federale di me”. E poi, in francese, facendo riferimento polemicamente vuoi all’unitarismo repubblicano di mazzini e vuoi a quello monarchico di cavour, notava: “Il me paraît qu’en ce moment tout le monde est également contre mazzini et contre cavour. Tout le monde est beaucoup plus fédéral que moi”, in Epistolario, cit., 1952; vol. III, pagg. 382-384. 22. F. Fonzi, Crispi Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, cit., 1994; vol. XXX, pagg. 779-799; m. Brigaglia, Cattaneo e Garibaldi nel Diario di Giorgio Asproni, in Cattaneo e Garibaldi, cit.; pagg. 357-368. 23. Su ciò è da vedere il bel saggio di Roberto martucci, Cavour, o l’autonomia impossibile. A proposito del progetto Farini-Minghetti e del “regionalismo per le allodole” (18 maggio 1860 – giugno 1861), in Cattaneo e Garibaldi, cit.; pagg. 101-143, che tra l’altro alle pagg. 122-124 contiene una precisa cronologia che è molto utile per orientarsi sulla complessa vicenda qui riassunta. 24. Il saggio fondamentale di c. cattaneo in proposito è Semplice proposta per un pronto miglioramento generale dell’isola di Sardegna, in “Il politecnico”, n. 8, 1860; pp. 274-284. ma del tema cattaneo si occupava seriamente, sul “politecnico”, sin dal 1842. Gli scritti sulla Sardegna sono stati raccolti in:  c. cattaneo, Geografia e storia della Sardegna, a cura di c. carlino, con introduzione di G. G. Ortu, Roma, Donzelli, 1996. molto utile, per questo come per molti altri aspetti, è: Aa.Vv., Carlo Cattaneo, i temi e le sfide, a cura di A. colombo, F. Della peruta, c. G. Lacaita, Bellinzona, casagrande, 2004. per le interpretazioni su cattaneo è naturalmente da vedere la ponderosa opera, frutto della profonda rielaborazione della sua tesi di laurea discussa con me come relatore presso la Facoltà di Scienze politiche di Torino nel dicembre 1997, di L. colucci, Carlo Cattaneo nella storiografia. Studi su Risorgimento e federalismo dal 1869 al 2002, con prefazione di c. Lacaita, milano, Giuffré, 2004. 25. Su ciò, scrivendo il 27 luglio 1860 all’amico Bertani, cui tramite un garibaldino partito in quel torno di tempo aveva fatto avere copia della lettera a crispi che stiamo vagliando, cattaneo – prendendo posizione sulle iniziative di distribuzione di terre demaniali che era stata ventilata – notava: “Dar terre incolte a poveri soldati che non hanno capitali da fare un buon impianto, è come dar bottiglie senza vino. credo che sia meglio cedere le terre incolte a una

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società che s’impegni a fare le strade…”. Si veda c. cattaneo, Epistolario, cit.; vol. III, pagg. 374-375. 26. c. cattaneo, Sulla concessione delle ferrovie di Napoli e Sicilia, Gennaio 1861, in “Il politecnico”, 1861, n. 10; pagg. 77-92 e in Id., Scritti politici, a cura di m. Boneschi, Le monnier, Firenze, 1964-1965; vol. II, pagg. 344-364. 27. come si vede la previsione di quel che sarebbe accaduto – col brigantaggio di massa meridionale – già nel 1861, presente lì come poi nella richiesta al re di convocare un’assemblea elettiva siciliano napoletana a ridosso del pur necessario plebiscito d’annessione, era chiara. 28. c. cattaneo, Epistolario, vol. IV, cit., ma anche qui da confrontare con la versione che ne dà c. Lacaita in Lettere 1821 – 1869, cit.; pagg. 195-198. Lì si evidenzia bene che la parte della lettera da “La mia formula è Stati Uniti” alla fine era stata diplomaticamente omessa da cattaneo nella lettera effettivamente spedita al mazziniano crispi, anche se compariva nella minuta conservata. Anche in tal caso ho controllato sull’edizione citata del Lacaita. Va comunque osservato che anche questa  parte omessa per noi “vale”, proprio perché ci sta a cuore il pensiero politico cattaneano. 29. Su ciò è veramente riduttivo il giudizio storico su cattaneo di D. mack Smith, che, in Garibaldi e Cavour nel 1860, cit., osserva: “Il federalismo, come la libertà, era per lui una questione di principio; il repubblicanesimo invece solo una semplice questione di convenienza: ai suoi occhi il federalismo era l’unica forma di unione nazionale compatibile con la libertà. con idee siffatte cattaneo era in effetti troppo teorico, forse anche troppo ‘liberale’, e certamente mostrava troppo poco orgoglio nazionale, per poter fare qualcosa di più, al Quartier generale di Garibaldi, che confondere le idee” (pag. 316). 30. Era stato Garibaldi stesso, ansioso di poter sempre agire di concerto col re, a chiedere quel vecchio patriota a Napoli, scrivendo a Vittorio Emanuele II: “mi mandi il marchese Giorgio pallavicino colle Sue istruzioni. Egli sarà qui pro Dittatore finché la m. V. si degni di venire a Roma ove lo proclameremo re d’Italia, ed ove deporrò ai Suoi piedi la mia dittatura. Io marcerò verso la capitale dell’Italia con tutta la celerità che mi permetteranno le circostanze. V.m. non perda un momento nel venire occupare il posto destinatole dalla provvidenza e dalla gratitudine ed amore dell’Italia intera.” Si veda il testo in Epistolario, cit., pag. 394n. 31. F. Della peruta, Cattaneo politico, cit.; pag. 117. 32. c. cattaneo, Lettere 1821 – 1869, cit.; pagg. 200-201. Lo stesso curatore traduce: “I Siciliani sono decisi a formare un’Assemblea che dovrà deliberare su tutto quel che riguarda l’annessione  all’Italia intera (e  non  già  direttamente  al  piemonte).  Il  Generale  vorrebbe  che altrettanto facessero i Napoletani. A pallavicino non garba affatto l’idea di un’Assemblea, ma

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sarà costretto a piegarsi a una volontà più forte”. 33. ciò conferma il sospetto espresso da cattaneo il 5 ottobre 1860 in lettera alla moglie: “Tutti dicono che il re vien qui, perché pare ormai tempo che non si parli più di Garibaldi. Questo è ciò che chiamasi gratitudine.  Addio, mia cara. credi che la vita privata e solitaria è molto preferibile alla vita politica, per quanto sia gloriosa”. In Epistolario, cit.; pp. 407-408. 34. Nota D. mack Smith in Garibaldi e Cavour nel 1860, cit.: “A ogni modo, la coalizione radicale combatteva per una causa ormai senza più speranze, perché dal 9 ottobre Garibaldi aveva ormai perduto sia l’iniziativa militare sia quella politica. Le truppe di Vittorio Emanuele stavano per entrare nel Napoletano e due o tremila piemontesi, provenienti da Genova, sbarcarono inoltre proprio quel giorno a Napoli. In definitiva, questi problemi politici furono risolti, come al solito, da considerazioni di forza e non di intelligenza o di bontà d’intenzioni, o anche di giustizia…” (pagg. 443-444). 35. La lettera è citata dal mack Smith nel cit. Garibaldi e Cavour nel 1860; cit., pagg. 458-459. La trascrizione ivi citata può essere imperfetta. 36. La lettera di cattaneo a Garibaldi, del 18 ottobre 1860, è in Epistolario, cit.; pag. 428. 37. G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, cit.; pagg. 124-125. 38. Il riferimento va naturalmente al brigantaggio meridionale, presto represso in modo sanguinosissimo dall’esercito italiano. Un interlocutore di cavour, Giacomo Savarese, scrivendo a E. marliani, già nel 1861, gli diceva: “Se ci fossero stati nel regno tanti borbonici quanti si dice che ve ne siano ora, i mille eroi di Garibaldi […] non sarebbero riusciti a conquistare un regno di otto milioni. Un anno fa dunque questi borbonici non esistevano. Se esistono ora, bisogna dire che siano nati dopo. […] E se poi non esistevano questi borbonici un anno fa, come si farebbe a dimostrare che non li abbia generati il mal governo?” Il testo è citato in La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia: Carteggi di Camillo Cavour, Bologna, Zanichelli, 1954; vol. V, Appendici, pagg. 531-532. Il brigantaggio di massa registrò, dopo la repressione da parte dell’esercito italiano, 13.853 “briganti posti fuori combattimento”, “di cui però la quasi totalità è concentrata nei 18 mesi che vanno dal luglio 1861 al dicembre 1862”, rilevava B. mantelli nel sintetico, ma ben documentato, saggio Brigantaggio meridionale in Il mondo contemporaneo. Storia d’Italia – 1, a cura di F. Levi, U. Levra e N. Tranfaglia, Firenze, La Nuova Italia, Firenze, 1978, pagg. 69-76. Il testo del mantelli è naturalmente anche una rassegna storiografica, con particolare riferimento alle seguenti opere: F. molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, milano, Feltrinelli, 1964 (innanzitutto); G. Volpe, L’Italia moderna, Firenze, Sansoni, 1943; G. candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. V, milano, Feltrinelli, 1968. “[…] Gioacchino Volpe – ricorda il mantelli – attribuisce la violenza della rivolta

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Franco Livorsi, Garibaldi, Cattaneo e i Mille. Le idee e la prassi

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contadina al disagio delle popolazioni meridionali di fronte alla quasi assoluta egemonia piemontese che si viene a stabilire nei primi anni del Regno d’Italia”. Quanto a candeloro, egli “considera sostanzialmente inevitabile la rivolta contadina, data l’impossibilità politica di una riforma agraria che venisse incontro alla secolare fame di terra dei contadini poveri. Al brigantaggio viene quindi attribuito il carattere di guerra sociale mentre il legittimismo viene visto come un aspetto accessorio” (pag. 69). 39. c. cattaneo, Prefazione al volume X (1861) del Politecnico, in: “Scritti politici”, vol. IV; pagg. 107-114; Id., Prefazione al volume XI (1861) del Politecnico, ivi; pagg. 147-151.

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Brofferio e il popolo  Laurana Lajolo

Angelo Brofferio, autore teatrale, chansonnier, giornalista, deputato al parlamento subalpino e al parlamento italiano, è un esponente importante dell’ala democratica del Risorgimento piemontese. Ha dodici anni quando ad Asti vede passare, mentre si reca alla corte di Torino un esangue e inetto Vittorio Emanuele I di Savoia come simbolo della Restaurazione. con il ritorno dei Savoia ha l’impressione che la storia torni indietro anche in certe regole del collegio e si definisce un giacobino in tutta l’estensione del termine. Angelo entra nel 1812 nel collegio dell’Annunziata di Asti per proseguire gli studi iniziati nella scuola parrocchiale di castelnuovo calcea, dove è nato il 6 dicembre 1802 in una famiglia borghese. Il nonno michelangelo, da cui prende il nome, è un chirurgo con interessi scientifici per la medicina e la botanica. Buon conservatore impartisce al nipote un’educazione rigorosa compresi gli insegnamenti religiosi, senza indulgere però ai pregiudizi e alle superstizioni.  Il padre Giuseppe, valente medico, riceve dal governo francese incarichi importanti negli ospedali di Asti e di Alessandria e sperimenta la vaccinazione antivaiolosa, somministrandola prima di tutto al figlio di cinque anni. È anche un poeta e a undici anni, nel 1797 compone il suo primo sonetto per l’albero della libertà innalzato nella piazza del paese, subendo le rimostranze dei reazionari. cultore degli illuministi, ha una biblioteca fornita e il figlio legge fin da piccolo Alfieri, Voltaire, Rousseau e rimane profondamente influenzato dalle idee rivoluzionarie.  Angelo Brofferio  svolge la sua attività principalmente a Torino, ma mantiene un forte legame sentimentale con il paese natale e il rimpianto per un’infanzia ricca di giochi, avventure, emozioni e suggestioni, che influenzeranno la sua poliedrica attività futura. A castelnuovo vive a contatto con la natura

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Laurana Lajolo, Brofferio e il popolo

Giacobino in tutta l’estensione del termine


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e gli animali, scopre il fascino del teatro attraverso i burattini, ascolta favole e antiche tradizioni, allestisce scene nel granaio di casa, ammira i canti della sua balia e della madre accompagnati dalla chitarra che impara a suonare, fa escursioni notturne nel bosco alla fantasiosa ricerca del diavolo. È un bambino curioso e vivace e gli piace lo scherzo, come quando si traveste da prete con una palandrana nera e va a benedire le case dei conoscenti per la pasqua, suscitando le ire del parroco, che è anche il suo maestro di scuola.  Nel 1817 tutta la famiglia Brofferio si trasferisce a Torino e Angelo si iscrive a giurisprudenza. Nel 1821 vive la sua prima esperienza rivoluzionaria partecipando ai moti, che scoppiano all’Università di Torino per chiedere la carta degli studenti e la promulgazione della costituzione spagnola anche in piemonte. Si aggrega alle truppe ribelli del capitano Ferrero concentrate nel quartiere torinese di San Salvario, e le segue nel trasferimento verso Alessandria per congiungersi con il reparto di Santorre di Santarosa, ma il suo viaggio si interrompe ad Asti. mentre sulla piazza principale il giovane arringa la folla citando il suo grande maestro di libertà, l’astigiano Vittorio Alfieri,  e  l’esempio  dei  patrioti  della  Repubblica  astese  del  1797,  viene raggiunto da uno scappellotto e fatto scendere dal palco improvvisato su un carro. Lo zio materno pavia, medico ad Agliano, località vicino ad Asti, lo porta con sé al paese sottraendolo all’avventura rivoluzionaria. La repressione del re contro gli insorti è molto dura e ha conseguenze anche per Angelo, che, nonostante il suo ruolo del tutto ininfluente, viene condannato a sei mesi d’esilio 1.

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La passione per il teatro Si laurea in giurisprudenza nel 1823 e frequenta la scuola di eloquenza del padre gesuita manera, che affina le sue doti oratorie, ma la sua vera passione è il teatro e il caso vuole che la sua casa a Torino sia proprio davanti al Teatro d’Angennes, che frequenta assiduamente. comincia a scrivere tragedie, imitando il suo grande maestro Vittorio Alfieri, e dopo qualche delusione iniziale, ottiene i primi successi già a diciannove anni con le rappresentazioni delle tragedie Sulmorre e Eudosia.  Entra in rapporto con la Regia compagnia teatrale

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e diventa amico della grande attrice carlotta marchionni. Nelle opere teatrali esprime le sue idee libertarie, che vengono pesantemente cassate dalla censura e che richiamano nuovamente l’attenzione della polizia su di lui con ammonizioni a non occuparsi più di politica. comincia a frequentare alcuni salotti letterari di aristocratici torinesi, che accolgono anche giovani borghesi di talento, e può affinare i suoi modi e conoscere personaggi influenti. Nel 1825 fa il primo viaggio fuori dal piemonte a milano e a Venezia, dove incontra scrittori come Vincenzo monti, Nicolò Tommaseo e Davide Bertolotti, che gli fa stampare il suo primo libro dall’editore Stella di milano, Un sogno della vita e il lamento di Dante 2, con riferimenti espliciti alle idee di libertà. Nel 1826 fa un viaggio a parigi, dove ha colloqui con esponenti del parlamento come i generali Lameth e Lafayette e conosce personalmente Jean pierre Bèranger, un chansonnier che diventa il suo maestro nella composizioni di canzoni. Acquisisce infatti la convinzione che la sua passione per la poesia e la musica può diventare un efficace veicolo politico. Brofferio compone quindi le sue composizioni in lingua piemontese per entrare più facilmente in contatto con il pubblico non colto dei ceti borghesi in ascesa economica e sociale.  Tra il 1827 e il 1828 continua la sua attività di autore teatrale anche di commedie, prendendo spunto, oltre che da Alfieri, da Byron, Scott e da altri ancora, e si reca per le rappresentazioni a Genova, Firenze, Roma, Napoli, dove incontra personalità della cultura e esponenti liberali, ma i pesanti condizionamenti dei controlli della polizia e le conseguenze della vita disordinata e dispendiosa di teatrante gli fanno abbandonare il teatro per seguire i consigli del padre di dedicarsi alla carriera forense.  Si afferma facilmente come avvocato anche fuori dal regno di Sardegna e diviene il difensore più noto dei diritti e delle libertà costituzionali, assistendo gratuitamente gli indigenti. Non perde però il contatto con i teatri e le attrici, con cui ha spesso piacevoli avventure come con le sartine.  Di solito va al caffé calosso di via Dora Grossa e frequenta assiduamente esponenti liberali per conversare di letteratura e di speranze patriottiche, riannoda i rapporti con i compagni coinvolti nei moti del 1821 e con giovani affiliati alla massoneria. Non gli viene meno l’attitudine allo scherzo e all’ironia

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e a carnevale compra nel negozio Gambetti nei pressi di piazza carignano il costume di una maschera molto popolare, quella di Torototela, caratterizzata da uno strumento musicale fatto con la vescica del maiale. La sua esibizione al Teatro Regio diverte anche il re carlo Felice e rimane leggendaria.

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La cospirazione Brofferio intensifica la composizione di canzoni, che legge e canta nei salotti e nei caffé e fa circolare manoscritte suscitando l’attenzione della polizia. come già nel 1821 Brofferio appare più rivoluzionario di quello che sia in realtà, perché rifugge dalle armi e dalla violenza e preferisce usare l’arma della parola, in cui è già maestro. Ormai divenuto noto in città, una sera di gennaio del 1831 viene avvicinato da Giuseppe Bersani, già appartenente alla Guardia del re e ora affiliato a una società segreta denominata cavalieri della Libertà, che vuole costringere il re carlo Felice a concedere la costituzione, emanata per breve periodo nel 1821 dal principe reggente carlo Alberto e subito abrogata dallo stesso carlo Felice. pochi mesi prima a parigi una insurrezione di piazza aveva sostituito il re carlo X con il monarca costituzionale Luigi Filippo, che si proclama re dei Francesi. Il “giacobino” Brofferio segue con trepidazione le notizie della rivoluzione che dalla Francia si estende ad altri Stati europei e spera che anche il piemonte sia coinvolto.  Quindi si lascia facilmente coinvolgere dai cospiratori, che riescono a costruire una rete di esponenti liberali e di alcuni ufficiali nelle province. La cospirazione improvvisata si allarga spontaneamente e si forma un consiglio direttivo con Giuseppe Bersani, che affilia alcuni ufficiali, Giacomo Durando, esule a seguito dei moti del ’21, il magistrato carlo Gazzera e Brofferio.  Durando si assume il compito di stendere una protesta indirizzata al re per chiedere la costituzione, che viene diffusa clandestinamente con l’intento di orientare il popolo contro la monarchia sabauda. Il documento tratta degli argomenti economici, dei privilegi delle classi al potere che escludono la popolazione, del disordine amministrativo delle province, della legislazione arbitraria e anche dell’istruzione dominata dai Gesuiti. La conclusione è che la religione del popolo deve essere la rivoluzione 3.

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I promotori della congiura vengono arrestati prima che il piano possa attuarsi per l’ingenuità o per la denuncia (la cosa non è stata accertata) di un giovane ufficiale, che deve distribuire il documento programmatico a Novara e a Genova. Alcuni come Giacomo Durando e Sisto Anfossi riescono a fuggire mentre l’avvocato Gazzera non viene identificato. Dopo una perquisizione nella sua abitazione, Brofferio, insieme ad altri cospiratori, viene rinchiuso nella prigione della cittadella di Torino il 2 aprile 1831 e viene liberato soltanto dopo cinque mesi, in agosto, dopo aver reso la sua confessione. In carcere, per reagire allo scoramento, compone a memoria (essendo privo di carta da scrivere) le canzoni in lingua torinese e le canta accompagnandosi con la chitarra. Alcune sono di argomento autobiografico ed erotico, altre con riferimenti politici e sarcastici contro gli ecclesiastici e gli aristocratici. Sotto le feritoie del carcere si radunano molte persone per ascoltarle e divulgarle in città. carlo Felice ordina una severa repressione contro i congiurati, ma muore il 27 aprile prima della conclusione del processo, che il nuovo re avoca a sé. carlo Alberto emana un’amnistia per la sua salita al trono, ma esclude i reati di natura politica perché sulle sue supposte idee liberali si addensano i sospetti dei reazionari, che diffondono anche la voce di un avvelenamento di carlo Felice.  per porre fine alle illazioni gli inquirenti promettono l’impunità dei congiurati se rendono piena confessione e carlo Alberto segue direttamente le fasi degli interrogatori, secretando gli atti. Alcuni arrestati confessano e qualcuno fa anche il nome di carlo Alberto come vero responsabile della congiura, ma Bersani, già accusato di omicidio e radiato dalle Guardie del re, che si spaccia per figlio illegittimo di carlo Felice, si rifiuta di collaborare. Anche Brofferio regge a lungo la pressione dell’uditore generale cimella e continua a negare fino a che le confessioni di altri e il suo stato depressivo per la condizione carceraria lo inducono a rispondere alle domande la prima volta il 21 giugno, confermando di fatto le confessioni già rese dai compagni. Indica Bersani come responsabile del complotto e Anfossi come organizzatore dei cospiratori di Genova. Il 14 luglio è sottoposto a un nuovo interrogatorio e gli viene imposto di scrivere una lettera al governatore Thaon de Revel, in cui fa il nome dei congiurati e spiega l’organizzazione interna, compreso i segni di riconoscimento secondo le usanze massoniche dei Franchi muratori.

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Il 24 e il 25 luglio rilascia ulteriori propalazioni, dando la conferma delle confessioni degli altri congiurati. I suoi interrogatori sono immediatamente secretati e portati a carlo Alberto, il quale per salvarsi dalle accuse di essere stato a conoscenza della congiura, fa correre voce che i cospiratori volevano uccidere non soltanto carlo Felice ma lui stesso. L’Uditore cimella consegna il suo rapporto al re, il quale giunge alle conclusioni che la cospirazione era senza mezzi e senza appoggi. Non ci sono gravi conseguenze per i congiurati arrestati, salvo che per Bersani individuato come l’ideatore del piano e rinchiuso per anni in prigione. Brofferio viene scarcerato il 7 agosto 4.  Dopo quella penosa esperienza Angelo Brofferio rifiuta il metodo cospirativo, facendo un severo esame di coscienza riguardo alla sua ingenuità e alla sua imperizia. Gli rimane, però, addosso per molto tempo l’accusa (per lui calunniosa) di essere un delatore e nel 1838 porterà in tribunale, vincendo la causa, due letterati milanesi, maurizio poeti e Felice Romani, che lo hanno denigrato su giornali milanesi 5. Nel 1832 viene avvicinato dal mazziniano genovese Jacopo Ruffini, che vuole coinvolgerlo nei moti insurrezionali che scoppieranno l’anno successivo in piemonte e nei ducati, e porteranno alla morte Andrea Vochieri e altri giovani patrioti, ma l’avvocato non accetta di condividere quei generosi tentativi, convinto che, prima di fare la rivoluzione, bisogna educare il popolo alla libertà. Nonostante la comune matrice repubblicana, considera la teoria politica di mazzini troppo spirituale e astratta ed è anche scettico sul futuro della Giovine Italia, perchè non vede ancora in piemonte le condizioni per un’insurrezione popolare. Senza riferimenti concreti, ogni tentativo di rivoluzione si riduce a folle audacia o a un vano grido di riscossa, che porta a inutili sacrifici di giovani vite. Brofferio sceglie quindi la strada della diffusione delle idee di libertà e di indipendenza per rigenerare la politica e liberare il popolo dalla superstizione e dal servilismo verso i potenti. Il suo  intervento politico si orienta a ricercare la partecipazione e la mobilitazione popolare per ottenere la costituzione, rifiutando da un lato il settarismo cospirativo e dall’altro l’alleanza con le potenze straniere.

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La sua concezione di popolo fa riferimento al modello illuminista, il suo referente è quella piccola e media borghesia che è in ascesa sociale e economica e che aspira anche al governo della cosa pubblica. Brofferio è parte di quel popolo per la sua estrazione sociale e soprattutto per la sua sensibilità di scrittore e di giornalista. È quello il pubblico che gli decreta il successo per i suoi scritti e il consenso per le sue azioni. cerca, quindi, nuovi strumenti di comunicazione oltre alle canzoni, che gli stanno dando grande notorietà. Nel 1835 inizia a collaborare al giornale commerciale “Il messaggiere Torinese” 6 e ben presto ne diventa direttore, trasformandolo in un periodico di cultura e di politica sull’esempio di “Nuova Antologia” del Gabinetto Viesseux,  a cui collaborano letterati anche di altre regioni, in aperto contrasto con i fogli reazionari. Il suo giornale è il primo a Torino a occuparsi di ideali liberali, anche se sempre sotto il pesante controllo della censura.  L’avvocato collabora in seguito a molti giornali che diventano il veicolo principale per diffondere le sue idee politiche, sperimentando anche nuove formule come quando nel 1840 fa uscire il primo periodico illustrato secondo gli esempi francesi e inglesi “Il Dagherotipo. Galleria popolare enciclopedica”. Fonda nuovi fogli di dibattito come “La voce della libertà”, “La voce nel deserto”, “Lo Stendardo” e nel 1860 accetta di dirigere “L’Ateneo” giornale degli studenti italiani e nel 1861 “Roma e Venezia giornale politico quotidiano”. continua, comunque, ad alimentare la sua passione per il teatro e nel 1838 è invitato da carlo Alberto a mettere in scena una tragedia di argomento italico. prepara la rappresentazione di Vitige re dei Goti, proibito dalla censura nel 1827, ma quando il debutto è vicino il re, sempre ambiguo e incerto, rifiuta l’autorizzazione e Brofferio stampa due anni dopo la tragedia presso un editore di parigi. Sulle pagine del giornale come nelle sue canzoni ama la polemica contro i cortigiani, i reazionari, i prelati e la cultura elitaria delle accademie e dei salotti letterari esclusivi. Soddisfatto del suo lavoro nel 1839 pubblica un’antologia di articoli tratti da “Il messaggere Torinese” e a Lugano la prima

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Il giornalismo e l’educazione del popolo


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raccolta delle sue canzoni con un suo bel ritratto inciso dal Doyen e con due versi sul frontespizio “Né il pericoul né ‘l maleur/ a l’an mai cambiame ‘l coeur”, per sottolineare la sua onestà intellettuale e cancellare le sofferte accuse di essere un traditore. Dagli anni Trenta agli anni Quaranta Brofferio matura l’idea di indipendenza e di unità in anticipo rispetto a molte teorie risorgimentali che si formano in quegli anni. Ha rifiutato il romanticismo mazziniano e il neoguelfismo papalino e segue la visione democratica della partecipazione del popolo, anche se non giunge a un’elaborazione teorica e un’efficacia strategica. È ancorato semmai alla potenza della parola, affascinante oratore, avvocato di successo, giornalista polemico, piacevole narratore e ironico poeta. Brofferio è un artista della parola, che privilegia il rapporto diretto con il suo popolo attraverso  diverse forme di comunicazione.

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L’unità come federalismo politico e culturale Agli inizi degli anni Quaranta carlo Alberto apre alle riforme, che sebbene giudicate da Brofferio ancora insufficienti perchè legate a una visione assolutistica della monarchia, permettono l’ampliamento del dibattito culturale e politico. Inoltre l’adozione dell’ordinamento generale dello Stato rappresenta una novità positiva rispetto all’arretratezza della giustizia, e l’avvocato si impegna a richiedere la riforma del codice civile e penale, del trattamento carcerario e l’abolizione della pena di morte, sperando che il dibattito sulle innovazioni istituzionali possa agevolare nel popolo la formazione dell’idea di libertà.   mentre i mazziniani intensificano le agitazioni pagando un alto tributo di morti, assume rilievo politico la grande diffusione del Primato morale e civile degli Italiani di Vincenzo Gioberti (1843), che contiene la proposta della lega dei principi sotto il papa, unitamente all’opera di cesare Balbo Delle speranze degli Italiani (1844) e quella di massimo D’Azeglio Degli ultimi casi di Romagna (1846). Brofferio considera quei libri troppo moderati e rifiuta la supremazia del papa. In nome della libertà, scrive tra il 1844 e il 1846, Scene elleniche, pubblicate dall’editore Fontana in una raffinata edizione illustrata, in cui traccia

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la storia della Grecia e esalta la rivoluzione greca, riprendendo il suo commosso poema del 1826, La caduta di Missolungi, e l’inno per la vittoria di Navarino scritto due anni dopo.  Nell’aprile del 1846 l’Impero asburgico aumenta il dazio sul vino che penalizza l’economia piemontese e carlo Alberto si oppone, sostenuto da manifestazioni popolari. Quando il ministro metternich risponde che l’Italia è soltanto un’espressione geografica, Brofferio si illude che sia venuta l’ora che la “campana d’Italia” suoni contro l’“aquila austriaca”. pio IX, appena salito al soglio pontificio, dimostra simpatia per il movimento neoguelfo e concede qualche riforma, seguito dal granduca di Toscana, ma Brofferio esprime aperta sfiducia verso il papa, definito il sommo rappresentante della monarchia assoluta che nel “sorriso del pastore” nasconde “l’urlo del lupo”. Anche carlo Alberto fa alcune concessioni politiche e nel corso del 1847 prendono forma nuove aggregazioni di liberali e di moderati con i loro organi di stampa.  per sostenere la causa italiana l’avvocato democratico fonda il circolo politico nazionale e una rete di circoli nelle province e stende un documento per chiedere al re il ripristino della costituzione del 1821, contando sul fermento che percorre la società e sperando nell’adesione del popolo. carlo Alberto sembra assecondare il movimento riformatore, anche se si sottrae al contatto con il popolo manifestante, e Brofferio, pur se di formazione repubblicana, dà credito al re riformatore, il quale gli dà la committenza di scrivere la Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri.  Brofferio sostiene la prospettiva federalista rispettosa delle diverse tradizioni culturali e politiche della penisola con una visione laica e democratica, mutuata dal milanese carlo cattaneo. Si fa, quindi, promotore della richiesta di una costituzione coniugata con le nazionalità e la partecipazione popolare, in contrapposizione al neoguelfismo giobertiano. Applica in campo culturale la sua concezione federalista, coordinando tra il 1847 e il 1850 la raccolta Tradizioni italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia d’Italia e mandate alla luce a cura di rinomati scrittori italiani 7, in quattro volumi che escono con cadenza annuale a cui collaborano letterati di diverse Stati. cura personalmente alcune leggende piemontesi come quella del carnevale d’Ivrea, dell’invasione dei Saraceni, del ratafià di Andorno, di Fra Dolcino e margherita da Trento e due storie del canton Ticino.

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Nella prefazione della raccolta manifesta il suo intendimento politico di pubblicare leggende e storie delle varie regioni italiane per anticipare in chiave culturale l’unità politica della nazione, perché, al contrario della storia che ha il compito di parlare delle questioni pubbliche ma che rimane estranea al popolo, le leggende si intessono nella vita degli abitanti e riprendano elementi di verità sui grandi avvenimenti che hanno attraversato anche i villaggi e le povere dimore e di cui ogni borgo mantiene una memoria.

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Deputato al Parlamento Subalpino Dopo la promulgazione dello Statuto (4 marzo 1848), Brofferio diventa deputato del parlamento Subalpino e si siede sui banchi della Sinistra, ma spesso, per rimanere coerente con le sue idee libertarie, assume posizioni individuali rischiando l’isolamento politico. Lungo la sua carriera politica critica  le  limitazioni  in  senso  democratico  della  carta,  impegnandosi  ad ottenerne la piena attuazione e l’estensione dei diritti e delle libertà in campo istituzionale e giuridico.  Si entusiasma per la sollevazione popolare delle cinque giornate di milano e per le rivoluzioni in Europa contro gli Stati assoluti e, quindi, sollecita  carlo  Alberto  a  intervenire  a  fianco  dei  milanesi  contro  l’Austria. Nonostante i primi esiti vittoriosi Brofferio denuncia l’inadeguatezza dell’esercito piemontese e l’ostilità dei generali e della corte verso il conflitto e verso lo stesso re, mentre riconosce la dedizione dei soldati e esalta il coraggio dei volontari. Rivendica il diritto del parlamento, sospeso nella fase del conflitto, di essere informato e di partecipare alle decisioni, anche ampliandone le funzioni previste dallo Statuto. La liberazione di milano apre la questione della fusione della Lombardia con il piemonte, sostenuta dalla monarchia e dai liberali piemontesi, ma Brofferio è favorevole alla proposta di carlo cattaneo di una confederazione democratica con pari dignità tra i due Stati. Dopo che la diplomazia austriaca ha ottenuto il cambio delle alleanze di pio IX e del granduca di Toscana, le sorti della guerra volgono al peggio per il piemonte e dopo la sconfitta di custoza carlo Alberto dà ordine al generale Salasco di firmare l’armistizio

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con l’Austria, accettando i vecchi confini e ritirando le truppe da parma e da modena. Brofferio non disarma di fronte alla sconfitta, che mette in crisi la Sinistra e i moderati che hanno sostenuto la guerra, e cerca di tenere vivo lo spirito patriottico attraverso l’attività di dibattito e di aggregazione del circolo nazionale, a cui aderiscono liberali e moderati, auspicando la formazione della Guardia nazionale per riprendere immediatamente la guerra. Si reca a Vigevano per incontrare il re, che si è rifugiato nella città, e durante il viaggio scopre la desolazione dei paesi distrutti dalla guerra e lo smarrimento dei soldati in fuga, ma diventa anche bersaglio delle rimostranze di civili esacerbati. Tiene contatti con i molti esuli lombardi che arrivano in piemonte e ha anche un colloquio segreto con carlo Alberto, che sembra avere l’intenzione di chiamare Daniele manin, il capo della Repubblica di Venezia, a far parte del governo, ma l’incontro finisce sui giornali mettendo in cattiva luce Brofferio come pronto alla compromissione e il re non procede nella direzione liberale. Il deputato democratico insiste, insieme ai colleghi della Sinistra, per una rapida ripresa della guerra, auspica un’alleanza con la repubblica francese, proclamata da poco, e invita il popolo a prendere le armi. Lo contrasta il deputato moderato  camillo cavour, che si dichiara a favore della mediazione diplomatica dell’Inghilterra. L’eloquenza di Brofferio emoziona l’assemblea, che rimane però divisa tra mediazione e guerra e quindi passa la posizione attesista del governo. Fin dai primi interventi in parlamento Angelo Brofferio si caratterizza come acuto ed efficace polemista, molto abile nel sostenere le sue argomentazioni e nel confutare quelle degli avversari. Si lascia trascinare dalla forza delle parole e conduce con passione le sue critiche, che suscitano sentimenti contrastanti: ammirazione e rifiuto, applausi e avversioni sino a dei veri e propri intrighi a su danno. È oppositore per vocazione del governo conservatore, dei reazionari e dei gesuiti, dei moderati opportunisti, dei servitori del potere, rifacendosi sempre al richiamo al rispetto dei diritti. Gli risulta quindi molto difficile costruire alleanze anche con gli esponenti della Sinistra perché la sua azione parlamentare è caratterizzata da molta eloquenza e poca tattica politica, grandi convinzioni ideali e non strategie di lungo periodo. È scettico sulle vere intenzioni democratiche di Vincenzo Gio-

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berti, che diventa presidente del consiglio con i voti della Sinistra. Sostiene con entusiasmo l’insediamento del governo provvisorio della Toscana e la proclamazione della Repubblica Romana (9 febbraio 1849), che esaltano il suo spirito giacobino. È pienamente d’accordo con Giuseppe montanelli, il quale da Firenze propone una costituente italiana con rappresentanti di tutti gli Stati eletta a suffragio universale maschile, ma la Sinistra intende concentrarsi sulla ripresa della guerra senza anticipare soluzioni istituzionali  Brofferio sollecita l’aiuto alla Repubblica romana e si scontra con Gioberti, il quale si dichiara a favore del ritorno del papa a Roma nel discorso di insediamento del suo secondo governo. Il deputato può replicare soltanto dopo qualche giorno in un clima molto teso in un’assemblea largamente favorevole al presidente del consiglio e tra i tumulti del pubblico. Nel suo discorso  rifiuta  la  politica  di  mediazione  diplomatica  e  inneggia  alla costituzione, mettendo in difficoltà lo schieramento di Sinistra, che non può accettare il comportamento filopapale di Gioberti e il 21 febbraio 1849 è costretta a levare la fiducia. I sostenitori del presidente dimissionario si accaniscono  contro  il  deputato  democratico,  ritenendolo  il  vero  responsabile dell’accaduto e assediando la sua casa privata. Lo scontro tra Gioberti e Brofferio è quindi tra due concezioni della causa italiana: l’esponente neoguelfo non persegue l’unificazione ed è contrario a riforme istituzionali che potrebbero favorire l’ala rivoluzionaria, il deputato democratico esprime una concezione partecipata dal popolo alle sorti dell’Italia unita e insieme confederale che garantisca i diritti individuali e le libertà costituzionali. La guerra viene ripresa il 20 marzo 1849, ma nonostante il nuovo comandante in capo, il generale Kranowsky voluto da carlo Alberto, l’esercito piemontese viene drammaticamente sconfitto. Dopo la catastrofica sconfitta di Novara e l’abdicazione di carlo Alberto, Brofferio rivolge un generoso quanto inutile appello al popolo perché prenda le armi. Affranto dalla caduta delle speranze patriottiche e incalzato dalle accuse di essere un sovvertitore, si rifugia nel canton Ticino, a minusio vicino a Locano, dove nella villa La Verbanella dal 1846 ha formato una famiglia illegittima con la giovane cantante milanese Giuseppina Zauner, amica di patrioti e conoscente di carlo cattaneo, che gli dà quattro figli e diventa un’intelligente collaboratrice delle

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attività letterarie e storiche dell’amante. Brofferio mantiene comunque il legame con la moglie Felicie perret e con i tre figli, con cui convive a Torino. La villa La Verbanella diventa un cenacolo di esuli, di cospiratori, di politici repubblicani e di letterati, frequentata da cattaneo, mazzini, Varenna, Franscini, Luini, Fogliati, Dumas, con cui Brofferio tiene costanti rapporti politici e culturali, oltre che legami di amicizia. Al suo ritorno a Torino è l’unico avvocato ad accettare la difesa del generale Ramorino, accusato di essere il responsabile della sconfitta e, nonostante la causa sia disperata, coglie l’occasione del processo per affermare i diritti dell’imputato, per richiedere la riforma del codice penale secondo i principi dello Statuto e l’abolizione della pena di morte. per lui la responsabilità della sconfitta va attribuita agli ufficiali e agli aristocratici, che insieme al clero, sono contrari alla costituzione e alla partecipazione del popolo. Da quel momento la sua fama di avvocato si accresce anche fuori dal piemonte e Brofferio patrocina molte cause di patrioti, di giornalisti liberali e conservatori, di eretici come l’abate Grignaschi in nome della libertà di opinione politica, di stampa, di religione in città italiane e nel canton Ticino. In parlamento è tra coloro che votano contro il trattato di milano, stipulato dal nuovo re Vittorio Emanuele II con l’imperatore asburgico Francesco Giuseppe, rivendicando ai deputati i poteri di firma dei trattati. Il sovrano è costretto a giurare fedeltà allo Statuto (29 marzo 1849), ma rimane forte  il pericolo di una sua soppressione. A Genova si svolgono manifestazioni per chiedere un governo provvisorio e indipendente dal piemonte, represse duramente dal generale La marmora, il quale riceve gli apprezzamenti del re, mentre Napoleone III, alleatosi con il papa, pone fine alla Repubblica romana.  con il proclama di moncalieri (20 novembre) Vittorio Emanuele II  indice nuove elezioni, che portano in parlamento una maggioranza di moderati e conservatori a lui favorevole, mentre i vecchi sovrani ritornano sui troni d’Europa. Brofferio commenta che Novara è la Waterloo dell’Italia, ma accentua la sua battaglia solitaria per l’attuazione dello Statuto, per la riforma dei codici penale e civile e per i diritti, suscitando reazioni di contrasto fino ad essere definito avvocato del diavolo sul giornale cavouriano “Il Risorgimento” in un articolo intitolato appunto “Brofferio assistito dal diavolo” 8. L’oratore viene definito ordinato, splendido senza affettazioni retoriche, eru-

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dito senza essere pesante, facondo senza verbosità, agilissimo nello scoprire il sofisma, caustico senza cadere nel goffo, stringente nell’argomentazione e imperturbabile quanto il sostenitore della causa più vera e più giusta. Gli si riconosce cioè la capacità di sedurre e stordire gli avversari con la sua voce che scorre come un torrente. Nel finale dell’articolo, però, si legge che Dio gli ha dato l’ingegno, ma è il diavolo che lo dirige. Brofferio è dunque, pericoloso proprio perché sa usare il potere della parola.

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Il duello con Cavour Nel decennio successivo, dominato dall’egemonia politica di camillo cavour, Brofferio conduce un’opposizione intransigente contro colui che considera il più pericoloso rappresentante dell’aristocrazia e della conservazione. Giudica il conte incolto e incapace di eloquenza, trafficone e più attento agli affari delle sue aziende che al bene dello Stato. Ne critica la politica economica liberista che incrementa le tasse a carico dei cittadini, il metodo accentrato di governo che svuota il portato dello Statuto e l’intensa attività diplomatica con le potenze europee, che pone il destino dell’Italia in mano straniera, senza coinvolgere il popolo nella causa dell’indipendenza e della libertà. Nelle sue polemiche veementi coinvolge anche Urbano Rattazzi, prima deputato e ministro della Sinistra e poi capo del gruppo di centro-sinistro e alleato con cavour tra il 1852 e il 1858. chiama quell’accordo il connubio, cioè un matrimonio d’interesse, un tradimento che indebolisce lo schieramento della Sinistra e rafforza la politica conservatrice. Infatti cavour diventa capo del governo e Rattazzi prima presidente della camera e poi ministro.  Brofferio vota comunque per il governo in occasione di due provvedimenti a favore della laicità dello Stato, presentati  dal ministro Rattazzi. Il primo è la legge sul matrimonio civile (1852) e in quell’occasione cavour pronuncia il fondamentale discorso si rapporti tra Stato e chiesa, ma la legge non viene approvata dalla maggioranza conservatrice del Senato. Il secondo è la soppressione delle corporazioni religiose (1855), che fa seguito alla leggi Siccardi sull’abolizione dei beni ecclesiastici (1850). Brofferio esprime la sua soddisfazione, anche se non si illude che gli ecclesiastici perderanno effetti-

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vamente il loro potere, come afferma nel suo discorso in parlamento e scrive nell’ironica canzone  L’abolission dij convent 9. I suoi attacchi si fanno più violenti nel 1853 quando, durante la carestia che colpisce il piemonte, Brofferio denuncia sul giornale “L’Informatore”, che il presidente del consiglio, proprietario della maggioranza delle azioni del mulino di collegno, ha fatto incetta di grano per rivenderlo a prezzi maggiorati con cospicui guadagni. La notizia suscita la reazione popolare e il conte si scaglia contro il suo oppositore, il quale vince la causa in tribunale. poco dopo Brofferio pubblica un caustico pamphlet intitolato Fisionomie parlamentari 10, in cui descrive in modo impietoso i suoi colleghi: il serio oratore parlamentare ha scarsa influenza, mentre sono determinanti con i loro voti i cacciatori di impieghi, i burloni, gli sbadigliatori, gli imbroglioni servili, i mercanti di occhiali pronti a cambiare idea. I personaggi più influenti sono quelli ambigui, al tempo stesso reazionari e rivoluzionari,  e l’allusione evidente è all’ex amico Rattazzi, ma i veri uomini eccellenti per tutte le assemblee politiche sono le teste di legno, sempre proni a tutte le forme di potere e facilmente manovrabili dal presidente, che hanno la sede del pensiero non nell’osso occipitale, ma nell’osso sacro. Il libretto ha un grande successo e arriva rapidamente alla terza edizione, ma costa al deputato la non rielezione in parlamento al primo turno per il pesante intervento di cavour a favore del suo concorrente.  Dopo lo smacco il presidente del consiglio tenta un avvicinamento, auspicando che la lezione sia servita, ma Brofferio, rientrato alla camera al secondo turno, continua a opporsi alla politica governativa e nel 1854 pubblica il testo teatrale Il tartufo politico 11 contro il governo e l’ingerenza delle potenze straniere. Nel personaggio del conte manlio, politico bramoso di potere,  cinico  e  spregiudicato,  è  immediatamente  riconoscibile  il  primo ministro, che in quel momento sta conducendo le trattative diplomatiche per la partecipazione del piemonte alla guerra d’Oriente. Il deputato democratico è nettamente contrario alla spedizione piemontese di 18.000 uomini al comando del generale Alfonso Lamarmora in crimea (1855), perché viene fatta a fianco di sovrani assoluti e perché costa migliaia di morti. Rifiuta le trattative diplomatica e auspica l’alleanza dei popoli e l’esercito di cittadinisoldati. Si dichiara anche insoddisfatto dei risultati del congresso di parigi,

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dove, nonostante la partecipazione di cavour e di Vittorio Emanuele II, non sono stati presi impegni per l’indipendenza dell’Italia. Brofferio continua la sua battaglia a favore dell’estensione dei diritti e il nuovo terreno di scontro è la libertà di stampa nel momento in cui Napoleone III, dopo il fallito attentato di Felice Orsini esaltato dalla stampa mazziniana, richiede immediate misure restrittive contro gli esuli politici in piemonte e contro la libertà di stampa. cavour, accusato dalla Sinistra e dalla Destra di essere succube dell’imperatore, vede la proposta del governo bocciata su parere della commissione parlamentare presieduta da Brofferio a seguito della relazione del deputato della Sinistra Lorenzo Valerio.  La situazione politica si fa particolarmente delicata per i rapporti con la Francia e sia cavour che il re chiedono in via riservata al deputato democratico di non intervenire in parlamento. Brofferio, invece, pronuncia un vibrante discorso, in cui rivendica la piena autonomia del piemonte dagli stranieri e il rispetto delle libertà istituzionali. cavour risponde con durezza, affermando che l’esercito piemontese non è in grado di fronteggiare da solo la potenza austriaca e che le questioni internazionali non si risolvono con arringhe eloquenti, ma con le opportune alleanze. Definisce il suo oppositore un parolaio e un visionario, che ha in odio la logica ed è privo di spirito pratico, che si affida all’oratoria e perde di vista la realtà dei problemi politici e economici. Un giudizio che sarà ripreso da molti storici. Fa anche circolare critiche sui comportamenti personali, che riescono a intaccare la considerazione popolare.  È proprio in quel periodo difficile che Brofferio inizia a scrivere alla Verbanella i primi due volumi della sua autobiografia I miei tempi 12. Ne scriverà altri diciotto, facendoli uscire periodicamente come capitoli di un romanzo. L’autobiografia ricostruisce, infatti, in un grande affresco i primi sessant’anni dell’Ottocento della società, della cultura, della politica, dell’economia e delle guerre del piemonte. Lo stile letterario brillante, ricco di aneddoti e di avvenimenti storici, suscita un’ampia curiosità e ne decreta il successo.

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Il presidente del consiglio da un lato provvede alla difficile situazione finanziaria interna ottenendo dal parlamento un congruo stanziamento e, dall’altro, prepara la ripresa della guerra contro l’Austria e ottiene un incontro segreto con Napoleone III nella località termale di plombières (21-22 luglio 1858). In quell’occasione si conviene che la Francia interverrà se vi sarà un’aggressione dell’Austria e si delinea il futuro assetto istituzionale dell’Italia. Si prevede una confederazione di stati sotto la presidenza onoraria del pontefice: il Regno dell’Alta Italia con a capo Vittorio Emanuele II fino all’Isonzo comprese le Legazioni pontificie, il Regno dell’Italia centrale e quello delle Due Sicilie. In cambio il piemonte cederà Nizza e Savoia alla Francia. cavour accetta il piano come l’unica soluzione possibile, non considerando realistica l’unificazione della nazione. Data la delicatezza dell’accordo e le difficoltà di attuazione cavour ha bisogno di un largo consenso anche a sinistra  per neutralizzare l’opposizione dei reazionari, quindi, al ritorno da plombières, si reca a La Verbanella per incontrare il suo avversario. “L’aristocratico” si ferma alla “catapecchia di un democratico”, scrive ironicamente Brofferio nella sua autobiografia. Negli ultimi dieci anni “l’aristocratico” e il “popolano” si sono costantemente scontrati, ma a La Verbanella si salutano con un fraterno abbraccio e pranzano con trote in salsa bianca e pesche piantate dal padrone di casa. Quando però si confrontano sul futuro delle istituzioni democratiche i loro linguaggi divergono: Brofferio sostiene la rivoluzione popolare, cavour l’alleanza con Napoleone III, anche se da buon diplomatico non parla in modo esplicito dell’accordo, ma, durante la siesta sotto il fico tra le ortensie del giardino, fa trapelare che la guerra è vicina. Il deputato democratico non alimenta però molte speranze, pensando che il primo ministro racconti una favola di Esopo più che la storia di plutarco, ma l’ospitalità prevale sulla politica e, dopo cena, allieta i commensali cantando alcune sue canzoni sferzanti contro i potenti, che, seppure dopo un imbarazzo iniziale, fanno sorridere anche cavour.  per qualche mese non accade niente e Brofferio si dimostra impaziente e avanza la proposta che tutti i liberali si uniscano e si mobilitino. Finalmente all’inizio del 1859 Napoleone III, superando la forte opposizione clericale in-

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La speranza della ripresa della guerra


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terna e la contrarietà della diplomazia europea, firma un accordo con il Regno di Sardegna, in cui si impegna a intervenire nel caso di un aggressione dell’Impero Asburgico. Di rimando il 10 gennaio Vittorio Emanuele II pronuncia il discorso in parlamento in cui dichiara di non essere insensibile al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso il piemonte, mentre Garibaldi riorganizza i suoi cacciatori delle Alpi ai confini con la Lombardia e l’esercito sabaudo viene mobilitato. Brofferio si adopera per convincere mazzini e i repubblicani, contrari all’alleanza con la Francia, di stabilire comunque un patto con la monarchia, seguendo l’esempio di Garibaldi, perché gli pare che cavour, nonostante sia un uomo di destra, ora abbia accolto il messaggio dell’indipendenza.  Arriva, infine, l’ultimatum dell’Austria al piemonte (23 aprile 1859) di mettere in stato di pace l’esercito e di congedare i volontari dei cacciatori delle Alpi e fa scattare l’occasione della guerra. Brofferio riceve l’incarico dal re di comporre l’inno patriottico La piemunteisa, che viene diffuso in fogli volanti e cantato dai soldati.

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Unità e partecipazione popolare Il deputato è a La Verbanella quando vede passare sul lago Verbano il piroscafo con la bandiera tricolore degli esuli lombardi che raggiungono Garibaldi. per lui sono i cittadini-soldati, che dovrebbero diventare il nerbo dell’esercito italiano, i nuovi eroi della patria. Nonostante l’entusiasmo per la ripresa della guerra, Brofferio mantiene serie riserve sull’aiuto straniero e teme che ancora una volta la causa italiana venga tradita, come in effetti avviene con l’armistizio di Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe d’Austria, quando la Lombardia è liberata, nei ducati si sono formati dei governi provvisori e i volontari garibaldini sono diretti verso il Veneto. cavour stesso è sorpreso dall’accordo e dà le dimissioni, anche se continua a favorire le annessioni al piemonte che vengono approvate nelle varie regioni. Brofferio si reca in Lombardia e in Emilia per seguire da vicino i referendum, tiene pubblici comizi, in cui critica la Francia e chiama il popolo alle armi per completare l’unificazione, suscitando le reazioni dei governatori no-

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Senza più ardimento Le emicranie e le vertigini, di cui soffre fin da bambino, diventano sempre più frequenti e invalidanti e Brofferio scrive tristi riflessioni sulla vecchiaia. Alle soglie dei sessant’anni si sente senza più ardimento. È stato un bell’uomo, abile seduttore, un politico fiducioso di cambiare la società e ora è deluso e privo di energia. È particolarmente sconsolato per la profonda crisi della Sinistra e condivide le riflessioni di Francesco Domenico Guerrazzi, con cui intrattiene una fitta corrispondenza. Il democratico toscano auspica un partito democratico strutturato con una guida adeguata, dichiarandosi preoccupato della debolezza politica di Rattazzi, che, dopo la morte di cavour, si propone come presidente del consiglio con l’appoggio della Sinistra contro il conservatore Bettino Ricasoli.  Nella lettera di risposta all’amico (17 dicembre 1861) Brofferio com-

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minati da cavour. considera le annessioni soltanto l’inizio e non la conclusione dell’unità d’Italia, lamentando che con i referendum si attua l’espansione del piemonte sugli altri Stati senza la partecipazione del popolo al processo unitario, invece che creare una nazione rispettosa delle diverse storie e tradizioni. Insieme alla Sinistra si impegna contro la cessione di Savoia e Nizza ai Francesi e si entusiasma per la spedizione di Garibaldi in Sicilia, ma cavour con i suoi emissari riesce a interrompere quella rivoluzione popolare.  Amareggiato dal trattamento riservato all’amico generale, il deputato democratico commenta che a cavour non interessa la libertà, ma solo di fare l’Italia come una frittata e nell’opuscolo Garibaldi o Cavour? 13 ribadisce l’aspirazione degli italiani a liberare Roma e Venezia, prospettiva politica a cui dedicherà gli ultimi anni della sua vita. La tesi dell’opuscolo di trentadue pagine, che arriva a tre ristampe, è che Garibaldi ha operato per quella unità italiana che cavour non vuole. Brofferio trascorre l’estate del 1861 alla Verbanella e continua a scrivere l’autobiografia. Sotto l’ombra della magnolia fiorita legge alcuni brani al patriota e letterato cristoforo Baggiolini, il quale definisce le pagine de I miei tempi sfolgoranti, immaginifiche, scintillanti e fiammeggianti.


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menta in modo disincantato: “La nostra fatalità è di avere due capi come Garibaldi e Rattazzi, uno senza testa e l’altro senza testicoli” 14. ma nonostante il giudizio caustico, utilizza le ultime energie per la causa italiana partecipando ad associazioni politiche democratiche a sostegno di Rattazzi e di Garibaldi, anche se sarà proprio Rattazzi, divenuto presidente del consiglio, a fermare il generale sull’Apromonte (1862). Le condizioni finanziarie di Brofferio sono precarie come la sua salute e la moglie legittima fa il tentativo di chiedere una pensione per il marito non andato a buon fine, ma il re Vittorio Emanuele II garantisce al deputato un compenso incaricandolo di scrivere la Storia del Parlamento Subalpino 15, opera che non riesce a concludere. L’autore ricostruisce con dovizia di documenti la storia dell’istituzione con la collaborazione di Giuseppina Zauner e  mauro macchi  e riporta la sua esperienza di protagonista dei molti avvenimenti a cui ha partecipato.  Brofferio, eletto al parlamento italiano difende il mantenimento della capitale a Torino, dove scoppiano manifestazioni popolari all’annuncio del trasferimento a Firenze. Si reca raramente nella nuova capitale per ragioni di salute e gli ultimi suoi discorsi sono ancora dedicati a chiedere il superamento dei privilegi ecclesiastici. Soggiorna a lungo a La Verbanella, mantenendo però un’intensa corrispondenza con amici, patrioti e intellettuali e ha la soddisfazione di ricevere da Victor Hugo il 6 novembre 1865 una lettera molto amichevole e piena di elogi per il suo impegno politico e culturale 16. Alla vigilia della guerra contro l’Austria (1866) accetta l’invito del re di scrivere l’Inno di guerra chiamando gli italiani alle armi e inneggiando all’alleanza tra il popolo e il sovrano. L’inno, musicato da Emilio Brizzi,  viene mandato a tutte le bande militari e viene eseguito alla Scala di milano il 29 maggio. Angelo Brofferio muore nella villa di minusio il 25 maggio 1866 per una complicazione polmonare senza poter vedere la liberazione del Veneto, Roma capitale e l’unità italiana partecipata dal popolo. Il giorno dopo viene dato l’annuncio della morte in parlamento dal presidente della camera e il deputato macchi pronuncia il discorso commemorativo. I funerali, accompagnati dalla banda, avvengono a minusio e sono imponenti con la partecipazione delle autorità, di rappresentanti di molte associazioni, di una grande folla.

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Un personaggio eccentrico La concezione politica di Brofferio è fondata sulla laicità dello Stato, sull’estensione delle libertà e dei diritti civili, che, seppure non precisata a livello teorico, risulta avanzata rispetto allo stesso schieramento della Sinistra. Il governo moderato-conservatore di cavour accantona il tema dei diritti dal suo programma per evitare lo scontro con i reazionari e i clericali e per limitare l’incidenza delle idee democratiche. Brofferio in modo solitario, invece, combatte questa battaglia con coerenza e determinazione in parlamento, nelle aule del tribunale, sui giornali, con le canzoni per aprire la mente del popolo, per portare le classi borghesi in ascesa a partecipare alla costruzione della nuova nazione unitaria. È uno dei primi a usare il termine Italia, quando i politici piemontesi ragionano ancora esclusivamente sul regno sabaudo e su un

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La salma viene traslata a Torino il 29 maggio. Due anni dopo la sua morte, nel 1868, esce la prima biografia 17 che esalta i suoi pregi e lungo la seconda metà dell’Ottocento Brofferio è considerato un’importante personalità di riferimento in campo culturale e politico dalla componente laica e democratica del pensiero risorgimentale e dagli ambienti positivisti, a cui appartiene il figlio Angelo, studioso di filosofia e di psicologia. prolificano le leggi massoniche a suo nome, vengono eretti monumenti a Torino e a Roma e intitolate vie e scuole in varie città.  Nel 1902 in occasione del centenario della nascita per volere del genero, il deputato Tommaso Villa, suo stretto collaboratore in politica e nello studio di avvocato, viene ripubblicata la sua autobiografia. Brofferio viene invece emarginato dal processo di monumentalizzazione e ufficializzazione della storia del Risorgimento da parte degli esponenti liberali conservatori che identificano nel solo camillo cavour lo statista costruttore dell’Italia unita e emarginano altri soggetti dell’ala democratica. Brofferio viene da quel momento tacciato di essere un irriducibile anticlericale, vanitoso e velleitario, privo di senso politico e di lui viene conservata quasi esclusivamente la memoria delle sue canzoni, che nel tempo perdono la valenza provocatoria verso i notabili, i privilegi e i soprusi.


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suo possibile ampliamento. È un personaggio dal pensiero eccentrico che ama le antitesi. Rivendica il ruolo del parlamento e il suffragio universale, sottolineando i limiti del voto per censo, a cui può partecipare solo il 2% della popolazione e il mancato pagamento del lavoro dei deputati. Vuole l’esercito di popolo, secondo gli esempi della Rivoluzione francese e sostiene l’istruzione pubblica e i finanziamenti per la cultura come diritto del popolo e affermazione  di  civiltà  contro  la  barbarie,  contro  l’oscurantismo  degli ecclesiastici, dei cortigiani, dei generali. Si dichiara tribuno del popolo, anticlericale per ragioni politiche e repubblicano, ma accetta l’alleanza con la monarchia ai fini dell’unità. Angelo Brofferio ha il culto della parola, è un polemista aggressivo ma è anche oratore elegante, capace di argomentare le sue ragioni, suscitando l’entusiasmo del pubblico e l’invidia degli avversari. È un’artista della parola che si muove, da esperto attore, sul palcoscenico del suo tempo in maniera a volte ambiziosa a volte enfatica, ma sempre con una vena ironica e autoironica. È un bravo narratore con capacità letteraria e una ottima padronanza della lingua, storico che sa usare i documenti, affascinante maestro di oratoria, poeta in musica e avvocato che usa con perizia i codici, ma sa fare anche riferimenti psicologici nelle sue arringhe, presentando gli imputati come persone con diritti. In ogni suo scritto emerge la sua personalità, che risulta originale e eccentrica nel quadro degli avvenimenti che ha vissuto insieme alle personalità politiche e letterarie, che hanno fatto la storia di quel periodo. La sua formazione è preminentemente letteraria e non politica. Il senso di libertà gli viene più dalla poesia e dai testi teatrali che dalle teorie rivoluzionarie. Non ha il “belato” del senso pratico, come scrive di sé, e si rifiuta di stringere alleanze con esponenti moderati. Il suo impegno politico non è finalizzato all’opera di governo, ma a formare la coscienza democratica del popolo, contrastando i privilegi di casta. È un’aspettativa che appare utopica, spesso disattesa, ma rappresenta una ricerca interessante e coraggiosa all’interno del processo risorgimentale. Brofferio non è un uomo di potere, non ha mai svolto compiti di governo, è piuttosto un uomo di cultura con profonde aspirazioni libertarie, che vuole coniugare con  la sua elegante eloquenza la letteratura con la politica.

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Il democratico Brofferio, che fin da studente ha lottato per la costituzione, difende lo Statuto nel parlamento subalpino, chiedendone l’estensione anche quando, nei tempi cruciali della guerra, c’è il rischio concreto di una sua abolizione, propone la riforma dei codici civile e penale con l’adeguamento alla nuova carta costituzionale, sostiene i diritti di opinione e di libertà di religione per esempio per  i valdesi, che, al contrario degli ebrei, non sono stati considerati nello Statuto. Si oppone con convinzione alla pena di morte come a una crudeltà non giustificata dalla legge. La passione per tutte le libertà lo fa diventare l’avvocato più famoso del tempo nel difendere i prigionieri politici, i giornalisti anche conservatori, gli eretici, le minoranze religiose. Non mancano le contraddizioni e le debolezze in certi passaggi della sua vita, ma dalla ricostruzione della sua biografia intellettuale Brofferio appare pienamente inserito nella cultura e nella società del suo tempo, consapevole dei profondi cambiamenti politici che è chiamato a vivere, intelligente interprete in senso democratico delle istanze del ceto borghese emergente in contrapposizione agli interessi retrogradi degli aristocratici e degli ecclesiastici. E si rende conto, proprio mentre si forma il processo risorgimentale, che l’unità d’Italia è incompiuta senza la partecipazione del popolo. Rappresentante della componente democratica definita estrema e utopica, ha svolto un compito rilevante di pungolo, di denuncia, di richiamo ai principi costituzionali. Senza la passionalità di persone come Brofferio lo Stato italiano sarebbe stato più conservatore e illiberale.

NOTE 1. cfr. A. Brofferio, Storia delle rivoluzioni italiane dal 1821 al 1848, Torino, Tipografia G. cassone, 1849, vol. I,II. 2. A. Brofferio, Un sogno della vita e il lamento di Dante, milano. Tipografa Stella, 1825 3. cfr. A. Brofferio Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri, Torino, Tipografia di Aless. Fontana, 1849; vol. I, pagg. 148-152. 4. per la vicenda della congiura dei cavalieri della Libertà cfr. A. Brofferio, Storia del Piemonte

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Laurana Lajolo, Brofferio e il popolo

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dal 1814 ai giorni nostri, cit.; vol. I, pagg. 148-157; A. Luzio, I Cavalieri della Libertà in Carlo Alberto e Giuseppe Mazzini, Torino, Bocca, 1923; F. Salata, Carlo Alberto inedito, milano, mondatori, 1931; E. Bottasso, L’appello di Carlo Felice dei “Cavalieri della Libertà” ed i suoi strascichi di disavventure in Mazzini e i repubblicani italiani. Studi in onore di Terenzio Grandi per il suo 92° compleanno, Torino, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1976; R. Romeo, Brofferio delatore in L’Italia moderna tra storia e storiografia, Firenze, le monnier, 1977; p. casana, Esperienze politiche e militari di Giacomo Durando fino al 1849, Università di Torino, Facoltà di lettere, a.a. 1976-1977; E. Bottasso, Il doppio gioco di Angelo Brofferio in “Studi piemontesi”, vol. VII, fasc. II, novembre 1978; G. Ratti, Angelo Brofferio e i Cavalieri della Libertà tra delazioni, ricatti e polemiche giornalistiche in “Studi piemontesi”, vol. VII, fasc.II, novembre 1978. 5. cfr. Dottore poeti, Osservazioni sull’articolo dell’Avvocato Angelo Brofferio, inserito nel n. 563 del giornale “Il Corriere delle Dame”, in “Il pirata” dell’8 dicembre 1837; A. Brofferio, Osservazioni sui cenni presentati dal signor dottore Maurizio Poeti contro l’orazione del signor Avvocato Angelo Brofferio, Torino, Tipografia mussano e Bona, 1838; Orazione dell’Avvocato Angelo Brofferio nella sua causa contro il dottore Maurizio Poeti, Torino, Tipografia mussano e Bona, 1838. 6. “Il messaggere Torinese” è diretto da Brofferio dal 1835 al 1847 e viene pubblicato dallo stampatore Gaetano Gabetti di Torino. 7. A. Brofferio, Tradizioni italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia d’Italia e mandate alla luce a cura di rinomati scrittori italiani, Torino, Tipografia Fontana, 1847-1851, 4 voll. 8. cfr. “Brofferio assistito dal diavolo” in “Il Risorgimento” dell’ 8 settembre del 1849. 9. A. Brofferio, L’abolission dij convent, in Canzoni piemontesi, Torino, Viglongo. 2002. 10. A. Brofferio, Fisionomie parlamentari, Torino, Tip. Biancardi, 1853. 11. A. Brofferio, Il tartufo politico, Torino, G. Benedetto, 1854. 12. A. Brofferio, I miei tempi, Torino, Eredi Bocca, 1857, II edizione, Torino, Streglio, 1902. 13. A. Brofferio, Garibaldi o Cavour?, Torino, Tipografia del Diritto, 1860. L’opuscolo è in risposta a un testo scritto dall’avvocato pier carlo Boggio, giornalista e deputato, fedelissimo del primo ministro che ha per titolo Cavour o Garibaldi? 14.Lettera di A. Brofferio a F.D. Guerrazzi, Torino 17 dicembre 1861 in F. martini, Due dell’estrema. Il Brofferio e il Guerrazzi, Firenze, Le monnier, 1920; pag. 112. 15. A. Brofferio, Storia del Parlamento Subalpino, milano, Editori Natale Battezzati e c., 1868. 16. cfr. Lettera di V. Hugo a A. Brofferio, Hauteville House, 9 juin 1865 in Canzoni piemontesi, Torino, Viglongo, 2002; pag. XI. 17. F. pugno, Angelo Brofferio, Torino, Editore Audisio Antonio, 1868.

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Delmo Maestri Non è mia intenzione esaminare la varia, vivace memorialistica garibaldina, che si stende dalla difesa di Roma(1848-1849), alla Seconda guerra d’indipendenza (1859), all’impresa dei mille (1860-1861), al dramma di Aspromonte (1862), alla Terza guerra d’indipendenza (1866), allo sfortunato tentativo di conquistare Roma, (1867), all’intervento generoso nella guerra franco-prussiana (1870-1871) 1. Gli scrittori garibaldini hanno in comune l’esaltazione di Garibaldi, guida di imprese eccezionali, ma con la volontà di narrarne in una dimensione quotidiana, che non ne appanni il mito, anzi gli dia maggiore autenticità, l’entusiasmo di quella scelta, ma anche  la  consapevolezza,  ora  elegiaca,  ora  avvolta  di  risentimento,  di un’aspirazione inconclusa, di una sconfitta, in quanto il sogno della partecipazione volontaria a realizzare il Risorgimento è sempre stato ridotto o frustrato dal controllo diplomatico militare sabaudo. Garibaldi non riuscì a liberare, come volle ripetutamente, Roma e Venezia e fallì il sogno garibaldino-mazziniano di un’unificazione nazionale garantita da un’assemblea costituente. mi soffermerò sui quattro memorialisti indicati nel titolo, perché mi sembrano particolarmente rappresentativi di quelle vicende di illusioni,  delusioni,  nostalgie,  recriminazioni  e  con  una  più  marcata elaborazione letteraria.

G. C. Abba Nato a cairo montenotte, nel 1838, partecipò alla Seconda guerra d’indipendenza (1859) e con Garibaldi alla spedizione dei mille (1860-1861)

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Delmo Maestri, Fra i memorialisti garibaldini: Abba, Bandi, Nievo, Cecchi

Fra i memorialisti garibaldini: Abba, Bandi, Nievo, cecchi


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e alla Terza guerra d’indipendenza (1866). Scrittore in versi e in prosa e in vari generi letterari, la sua fama è legata alle rievocazioni di Da quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille. L’elaborazione dell’opera fu complessa: nel 1880 pubblicò presso Zanichelli, Bologna, Noterelle d’uno dei Mille, edite dopo vent’anni, rielaborate e ristampate presso lo stesso editore col titolo Da Quarto al Faro nel 1882 e, sempre presso lo stesso, in edizione definitiva col titolo Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, nel 1891.  citerò da Giuseppe cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, a cura di L. cattanei, Firenze, La Nuova Italia, 1969. Il sottotitolo Noterelle d’uno dei Mille vuol essere riduttivo e modesto a garantire l’autenticità delle note e la sincerità dello scrittore, uno fra tanti, senza intenzione di distinguersi. Scrive dopo venti anni e rielabora ancora per dieci anni, ma vuol dare impressione di immediatezza e contemporaneità, riducendo lo spessore temporale alla sola delusione garibaldina, per non aver potuto continuare la guerra dei volontari. È questo il velo di nostalgia e la sottile amarezza che accompagna il racconto di una meravigliosa avventura, facendone vibrare la mitica idealizzazione. Non si avvertono cioè, nel transito dei vent’anni, nuove delusioni e una nuova problematica nascente dell’unificazione nazionale e dai modi con cui si è realizzata, come se Abba avesse escluso le sue maturazioni successive e tutto si fosse fermato alla convinzione che il “fare l’Italia” avrebbe risolto tutti i problemi. Non è che Abba non registri alcuni aspetti drammatici delle realtà siciliana: “Quaggiù vi sono beni grandi, ma goduti da pochi e male. pane, pane! Non ho mai sentito mendicarlo con un linguaggio come questo della poveraglia di qui” (pag. 100). Non è che non accenni al banditismo (pagg. 107-108), che non avverta, oltre le manifestazioni di giubilo, anche la differenza o l’ostilità di altri luoghi: Resotano (pag. 115), Villafrati (pagg. 107-108); le reazioni filoborboniche di pieturano, carpinone, Isernia contro la colonna Nullo (pagg. 171-172). ma questi aspetti non sono approfonditi, mentalmente rimandati a quando sarà “fatta l’Italia”. E se teniamo presente che queste Noterelle sono state scritte dopo vent’anni, dovremo concludere che nel frattempo Abba non ha saputo o voluto approfondire e condivide l’impreparazione dei politici e degli intellettuali sulla questione meridionale nei primi decenni

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dell’unificazione. Eppure c’è nel libro un dialogo con Abba (pagg. 61-63), in cui il frate patriota carmelo dice quale avrebbe dovuto essere la vera risposta ai problemi del sud: “Ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia […]. – Dunque che ci vorrebbe per voi? – Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a corte, ma in ogni città, in ogni villa”. Dirà più avanti Abba: “Quel monaco mi ha lasciato non so che turbamento; vorrei rivederlo” (pag. 63). Non lo rivedrà, né approfondirà il motivo del turbamento. Anzi approverà la feroce repressione di Nino Bixio e dei suoi volontari alle rivolte contadine di Bronte, Randazzo, Regalbuto, castiglione, centorbi (pagg.138-139). La mancanza di problemacità e perplessità, la carica idealizzante delle Noterelle dà proporzioni epico-nostalgiche al racconto. La presenza e l’azione di Garibaldi fa da centro e da respiro a tutta l’azione: “E cosa avremmo potuto noi poche migliaia se alla testa non avessimo avuto lui? E messi tutti in un solo con tutte le loro virtù, avrebbero potuto quel che egli poté tutti i generali d’Italia?” (pag. 150). Il respiro eroico è tuttavia sempre temperato da un tratto di semplicità, da una riduzione famigliare e quotidiana: “E il Generale seduto a piè di un olivo, mangia anche lui pane e cacio, affettandone con un suo coltello, e discorrendo alla buona con quelli che ha intorno. Io lo guardo e ho il senso della grandezza antica” (pag. 33). Bixio invece è costantemente ritratto in modo energico o ironicamente infuriato: “Bixio, su d’uno stallone pece […]. Volteggiò spigliato cogli ufficiali che aveva dietro, si piantò in un punto della piazza [a catania] in faccia all’elefante di pietra che sta là sonnolento” (pag. 128). E Nullo: “Nullo caracollava bizzarro e sciolto; torso da perseo, faccia aquilina […]. pare uno dei tredici che han  combattuto a Barletta” (pag. 32). Non mancano mai in Abba riferimenti artistici e letterari alla nostra tradizione, piegati al gusto e alle aspirazioni risorgimentali. E Nievo: “Sarà il poeta soldato della nostra impresa […], profilo tagliente, occhio soave, gli sfolgora l’ingegno in fronte […]. Un bel soldato” (pag. 55). Figure colte nell’energia dei proposti e dell’azione con forte nitore visivo. Uno stesso gusto s’avverte nel tratto dei paesaggi netti nei contorni e nel colore: l’Etna, fissato con un solo moto di pennello: “Da quell’apparita si vedeva laggiù,

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Delmo Maestri, Fra i memorialisti garibaldini: Abba, Bandi, Nievo, Cecchi

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laggiù,  nero  sterminato  crescente  all’occhio  e  alla  fantasia,  l’Etna” (pag.114); calascibetto: “sicura, cupa sul monte che par tutto basalti, rotto d’anfratti, fulminato” (pag.119); e ancora un contrasto fra vivacità e tetraggine, impronte che furono avvicinate ai contemporanei macchiaoli: “Le camicie rosse nel grigio delle sassaie, nel verde ferrigno degli olivi mettevano in rilievo, una vita, quasi dei sentimenti” (pag.164). Vi sono poi momenti in cui la nota elegiaca si fa più intensa, come quando tocca la nobile pietà per i vinti: “I Napoletani morti, che pietà a vederli! morti di baionetta molti; quelli che giacevano sul ciglio del colle quasi tutti erano stati colti nel capo” (pag.46); le loro donne. “pazienza noi, ma qui in caserta c’è della gente che patisce innocente! Son donne, spose e figlie di ufficiali borbonici chiusi in capua […]. Di sera molte di queste donne bisognose di pane, tendono le mani ai nostri e, bisogna dirlo, non tutti sono tanto generosi e cavallereschi da dare e voltar loro le spalle” (pag. 154). È un accenno alla crudezza dei fatti in una narrazione sempre frenata da una misura di romantica delicatezza, da un moto commosso, che si avverte anche nelle pagine in cui Abba ricorda la casa, le consuetudini, i suoi a cairo montenotte, senza cadere nella retorica sentimentale, come non è caduto nella retorica dell’eroico.

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Giuseppe Bandi Nato a Gavorrano (Grosseto) nel 1834, partecipò alle guerre d’indipendenza e alla spedizione dei mille. Focoso giornalista, diresse la “Gazzetta livornese” e il “Telegrafo”. Scrisse liriche e romanzi storici, ma la sua opera importante è I Mille. Da Genova a Capua. pubblicati a puntate sul “Telegrafo” di Livorno e sul “messaggero” di Roma nel 1886, furono raccolti in volume postumo, (Firenze, Salani, 1902). morì a Livorno nel 1894. citerò da I Mille di Giuseppe Bandi, prefazione di A. Frateili, a cura di L. Bianciardi, Firenze, parenti, 1955. Abba ha un tratto evocativo - elegiaco, la sua memorialità è sostenuta da un costante soffio sentimentale. Bandi invece racconta una continuata cronaca e si riferisce costantemente a un ipotetico lettore. ciò che narra è

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quindi accompagnato da interventi metanarrativi che incitano a una giusta lettura. Avvertono che Bandi testimonia solo ciò che ha visto o gli è stato riferito da qualche amico degno di fede, che non vuole fare opera di storia, ma fissare esperienze dirette, che deve intervenire ripetutamente per dire che dovrà fermarsi su di un singolo avvenimento prima di riprendere il corso del racconto, anzi che dovrà tornare indietro su di un fatto e poi riprendere il corso cronologico, che dovendo far opera di memoria e non di storia “taglierà corto” su tante particolarità, che le sue avventure potranno apparire inverosimili, ma riflettono soltanto “una certa singolar novità di casi”, data l’eccezionalità dell’impresa (pag. 200). Questa forma di narrazione-comunicazione presuppone col lettore, tante volte chiamato in causa, un contatto confidenziale che dà alla materia eroica una dimensione normale. Bandi cioè racconta un’esperienza alta e cara, a lettori amici con toni vivi, ma abbassati. La sua lingua è l’italiano comune, talvolta impreziosito a fini ironici con scelte lessicali letterarie, ma soprattutto percorso da interventi vernacolari toscani sia come lessico, sia come modi di dire: “Feci entrar subito il visitatore, un omiciattolo tutta voce e penne, e che, appena veduto il generale, cominciò a sfoderare una parlantina così impronta e tediosa, che avrebbe fatto perdere la pazienza a un santo. Quella specie di cinciallegra ebbe il fresco cuore di dirgli….” (pag. 165). Una bella invenzione caricaturale presentata da un soldato insofferente. “E pensassi bene che in que’ giorni non si trattava di giocar di noccioli, ma si trattava delle sorti della patria” (pag. 352). così Bandi ci riferisce la sua riflessione di allora all’invito fattogli da mazzini di appoggiare le sue idee politiche presso Garibaldi, dando incisività al dilemma con una scivolata gergale. L’uso del vernacolo emergente nello scorrevole italiano sta dunque a garanzia di un narrare visivamente netto, ma capace di intervenire in varie occasioni di racconto con viva affabilità, evitando il pericolo retorico proprio dove la tentazione era più facile. Anche nei Mille la figura di Garibaldi ritorna continuamente, arricchita di sempre nuove sfumature, ma evitandone la “statuarietà”: “Vivendo […] dimesticamente con Garibaldi” (pag. 4): quest’avverbio ci indica la misura. Tratti consuetudinari, affettuosi, sia per quanto riguarda gli ambienti: “Un minuto ancora, e mi trovai in una piccola stanza dov’era un lettuccio: sul

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lettuccio stava Garibaldi, e seduto in fondo, stava Nino Bixio” (pag. 5); sia per quanto riguarda gesti e comportamentali: “Si avviò [Garibaldi] lentamente sul molo, appoggiando sulla spalla destra la sciabola, impugnata dalla parte della punta, e colla cintola penzoloni” (pag. 98). La serenità di Garibaldi e il calmo controllo di sé e delle situazioni è il tratto più frequentemente sottolineato: “In quel momento giunse il colonnello Türr, il quale annunziò al generale: – La linea è pronta – Va bene – rispose Garibaldi, ed accese un sigaro” (pag. 178); “col cannocchiale in mano contemplava tranquillo i due minacciosi vicini [due navi borboniche], mentre tutti gli sguardi erano fissi in lui, cercando di cogliere su quel volto un segno di trepidazione o di speranza” (pag. 307). In questa dimensione di quotidianità tornano anche accettabili le frasi più solenni: a calatafini, in un momento incertissimo della battaglia, Sirtori chiede a  Garibaldi: “– Generale, che dobbiamo fare? Garibaldi guardò intorno, e con voce tonante gridò: – Italiani, qui bisogna morire” (pag. 190). A differenza di Garibaldi la figura di Bixio è presentata anche da Bandi in una dimensione d’impetuosità spesso incontrollata, non senza abbondanti  rigature di ironia: il cavallo “cominciò ad inalberarsi e a nitrire in sì fiero metro, che una bestia selvaggia parve e non un cavallo. Erano due forsennati a combattere; il cavallo […] saltava come un montone: il cavaliere, sguainata la sciabola, menava botte da disperato” (pag. 171). È un bell’esempio della capacità di Bandi di fissare l’episodio con rapidità di “bozzettismo epico”, come lo definì G. mariani 2, avvicinandolo al fare pittorico dei macchiaioli, sia nel fare emergere figure e gesti singoli, sia animati movimenti collettivi: “Spalancate le porte di milazzo, entrarono a frotte dietro i volontari i villani, avidi di preda […]; e per tutta la santa notte fu una vera gazzarra, rumoreggiando la gente brilla per le chiese e le case vuote d’abitanti, mentre la gente sana attendeva a far la guardia” (pag. 282). Un “diavoleto”: perché nell’avventura eccezionale sono anche coinvolte notizie e scene di violenza e di morte, senza tuttavia  offuscare  la  nota  predominante  dell’impetuosità  entusiastica, dell’ardore del combattere e del cantare: “E lì, cantando e tirando fucilate, si diè mano a costruire la barricata” (pag. 273). Il concentrarsi su singoli episodi non sta dunque a contrastare la capacità di ampie rappresentazioni d’insieme, in un contrappunto fra l’emergere di singole notazioni e il ri-

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prenderle in un più ampio racconto, di cui sono esempi lo sbarco a marsala, le battaglie di calatafimi, di milazzo, del Volturno. Ecco un brano della battaglia di calatafimi, in cui, in un ritmo mosso di pause e di riprese, si contrappone all’inutile “artifiziosa mostra di forza” dei borbonici il tempismo e la calma decisione di Garibaldi: “pochi minuti prima di mezzogiorno,  i  soldati  regi  […]  cominciarono  a  manovrare,  spiegandosi  e ripiegandosi come se fossero sulla piazza d’arme, come se tentassero d’impaurire […] le turbe degli ‘scomunicati ladroni’ […]. Garibaldi, seduto sempre sul suo greppo, guardava tranquillamente quello spettacolo […]”. poi volgendosi: “– Dov’è la mia tromba? – Son qui – rispose il trombettiere Tirone […]. E Garibaldi a lui: – Fate sentire a quella gente la mia sveglia” (pagg. 182-183). Si inseriscono agevolmente in questo raccontare anche le riflessioni e le polemiche, come quando Bandi ironicamente contesta le affermazioni dei giornali  del  Nord  Italia  sul  gran  numero  degli  insorti  siciliani  o  quando contraddice coloro che negavano a Garibaldi la capacità di condurre un esercito a grandi battaglie o quando scrive commosse e sofferte pagine sul contrasto fra i seguaci di Garibaldi, che pensavano di dover accettare la soluzione monarchica pur che fosse garantita l’unificazione italiana, e i mazziniani, che volevano una più libera iniziativa dei volontari per giungere subito a Roma e a Venezia e appoggiare un’assemblea costituente per dare una soluzione al problema italiano. La pagina più bella per forza rappresentativa di questo scontro ideologico è quando l’ex mazziniano Bandi s’incontra a Napoli con mazzini (pagg. 350-352) e gli dichiara con asciutta sincerità il suo dissenso: “Dal modo col quale m’accomiatò, mi avvidi essergli dispiaciuto che io fossi “troppo garibaldino” […]. ma io […] non pensavo, in quel tempo, che a combattere i nemici della indipendenza e dell’unità d’Italia, né mi pareva il caso di pensare ad altro” (pag. 352).

Ippolito Nievo Nato a padova nel 1831, morì naufrago nel mar Tirreno nel 1861. partecipò fra i cacciatori  delle Alpi alla campagna del 1859 e seguì Garibaldi

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nella spedizione dei mille del 1860-1861. Nel giro dei suoi brevi anni si rivelò scrittore di grande originalità e raggiunse il capolavoro nelle Confessioni di un Italiano. Esaminerò di Nievo alcuni scritti sulla spedizione dei mille: Diario della spedizione dal 5 al 28 maggio, Lettera a Bice Gobio Melzi, Palermo, 28 maggio 1860 (entrambi in Antologia di scrittori garibaldini, a cura di G. mariani, Bologna, cappelli, 1960), Resoconto amministrativo della prima spedizione in Sicilia, dalla partenza da Genova, il cinque maggio, all’ultimo armistizio coll’armata napoletana in Palermo 3 giugno 1860 (in  Ippolito  Nievo,  Lettere garibaldine, a cura di A. ciceri, Torino, Einaudi, 1961). Nessuno di questi scritti ha pretese letterarie, il Diario è piuttosto un taccuino di appunti, il Resoconto ha finalità giustificative e pratiche, la Lettera a Bice Gobio Melzi ha affettuoso e vivace carattere informativo. E tuttavia è possibile trarre da queste pagine alcuni aspetti dell’animo con cui Nievo visse la spedizione nei suoi compiti amministrativi e nell’incontro con uomini, fatti, paesaggi. Nel Diario le vicende garibaldine sono raccolte in semplici notazioni, ma rispondenti a una scelta di scarnita linearità, che tuttavia in taluni momenti s’innalza a profili di movimenti essenziali, dallo sbarco di marsala, alle battaglie di calatafimi e palermo. calatafimi: “Alle 11 la vanguardia nostra si stende in catena senza far fuoco […]. Il Generale e il colonnello Sirtori visitano le posizioni, ed a mezz’ora dopo mezzogiorno ordinano l’attacco.  I  Napoletani sono ricacciati sull’altura a passo di corsa” (pag. 305). E con un tratto più risentito per la crudezza dei fatti: “I Napoletani di Landi assaliti di fianco dalla squadra di partinico si ritirano lasciando alcuni morti e feriti che sono squartati, abbruciati e dati a mangiare ai cani” (pag. 307). O chiudendo in un rilievo netto certe figure: “Un frate guerriero capita da castelvetrano a cavallo col cristo in una mano e  la spada nell’altra” (pag. 304), e Garibaldi in un risalto di famigliarità: “Il Generale impaziente dalla folla che lo circonda e lo acclama salta in barca e si mette a remare egli stesso” (pag. 300); “I picciotti rubano la coperta del Generale mentre dorme. Garibaldi va in estasi per la loro disinvoltura” (pag. 308). Anche le notazioni di paesaggio non si distendono a sfondo, ma segnano un profilo: “Dopo quattordici miglia cessa la

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strada, e resta solo un sentiero in mezzo a prati e campi di biade a vista d’occhio. Solitudine e grandezza del paesaggio” (pag. 303). Se un filo lega questi appunti è il senso fervido con cui viene vissuta e presentata la spedizione: “Distribuzione delle poche camicie rosse provvedute a Genova e che formano la prima uniforme (280 in 1.000 uomini). Entusiasmo universale” (pag. 301); “povertà delle ambulanze sopportata dei feriti con allegra fermezza” (pag. 306); “Sopraggiungono l’altro vapore e la fregata napoletana che aprono il fuoco a granata e a mitraglia […]. I nostri rispondono col grido: Viva l’Italia!” (pag. 302). Lettera a Bice Gobio Melzi. Lo stesso entusiasmo sorregge la lettera alla cugina Bice nel comunicarle le tappe dell’impresa fino a palermo: un “itinerario preciso della nostra gita di piacere” (pag. 309), dal battesimo del fuoco che fu “santo e grandioso”: “Noi mille assalimmo, il Generale alla testa: senza posa, senza prudenza, senza riserva” (pag. 310), alla presa di palermo: “fu il terzo miracolo dopo quelli di calatafimi e di marsala” (pag. 311). Resoconto. Firmato dall’Intendente generale Acerbi, ma scritto da Nievo. L’amministrazione separata era composta dal citato Intendente generale, da Ippolito Nievo, Vice Intendente generale, da Romeo Bozzetti, Quartier mastro generale, da Francesco curzio, poi capitano di Stato maggiore, da Enrico Rechiedei e da Enrico Usiel, giovani tenenti caduti a palermo, presso la barricata di Santa caterina, il 30 maggio 1860. Nel Resoconto la spedizione è vista sotto un profilo diverso da quello militare, perché riguarda i compiti dell’intendenza al seguito della spedizione, la ricerca e la distribuzione dei mezzi di sostegno, le spese che si dovettero sostenere. ma non è un arido rendiconto, cifre e indicazioni fan parte di un’esposizione che rivendica l’orgoglio dei componenti, le convinzioni politico-morali rispettate, la dedizione  alla causa anche nell’agire economico-organizzativo. Scelti da Garibaldi, i componenti dell’Intendenza dichiarano: “Noi non avemmo altri talenti, altra guarentigia, che l’onestà, e la rettitudine di coscienza” (pag. 161). Scelti senza esperienza specifica, combinano l’orgoglio della rettitudine con quello di saper trovare soluzioni sempre nuove per sostenere un’impresa improvvisata e costruita man mano che procedeva, con una fles-

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sibilità capace di resistere a urti, strappi, svolte  improvvise. “Se da un lato la distribuzione riuscì qualche volta difficile e meritoria […], lo può immaginare chiunque consideri la qualità della Guerra da noi combattuta” (pag. 164). L’esposizione dei bisogni materiali di più combattenti, così concreta e precisa, il sapersi arrangiare in una terra desolata, nella mancanza  di tutto, per cui “metteva terrore” lo stato delle scarpe e come provvedervi, esalta la capacità d’inventare soluzioni nell’entusiasmo di una impresa miracolosa: “A Salemi si era già provveduto allo stretto necessario in fatto di rameria. Ad Alcamo, trovatasi una discreta partita di camice e di pezzuole da collo, la colonna poteva già sfilare, cenciosa sì, che era la sua gloria, ma già non affatto nuda” (pag. 167). Gli intendenti tuttavia non si ritirano nei loro compiti specialistici, fan parte di una grande comunità, in cui i compiti erano tumultuosamente variabili e si doveva essere pronti ad abbandonare altre pratiche per andare a combattere: “Da ciò subitaneità d’ordini, contrordini, richieste […], sempre framezzato da marcie, da allarmi e da movimenti d’attacco, ne’ quali l’Intendente, il Sottintendente, il commissario, il cassiere e tutti, sì per forza di cuore, che per urgenza di pericolo, correvano alle file colla carabina in mano” (pag. 164). ma c’è in queste note un orgoglio ancor più grande dell’aver compiuto il proprio lavoro nella miracolosa spedizione, quello di aver dato un modello di quella gestione rivoluzionaria, di cui i mille avrebbero dovuto rappresentare la prima fase, come dicono le parole che ancor oggi, per comparazione, commuovono: “Sapevamo che l’Italia ci avrebbe domandato conto di quelle nostre azioni […]. Gli effetti dimostrarono questa volta almeno in modo lampante […] come anche la rivoluzione, anzi la rivoluzione prima di tutto, sia e debba di necessità essere onesta” (pag. 169).

Eugenio Cecchi Eugenio  checchi  (Livorno  1838-Roma  1932),  partecipò  alla  Terza guerra d’indipendenza (1866), seguendo Garibaldi nel Trentino. Scrisse Memorie alla casalinga di un garibaldino, uscite sulla “Gazzetta del popolo” nel 1866, nello stesso anno anonime, Livorno, Tellini e nel 1888 col titolo

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Memorie alla casalinga di un garibaldino – Guerra del Tirolo 1866, milano, carrara. presso il medesimo editore l’edizione definitiva, Memorie di un garibaldino, 1903. citerò da Antologia di scrittori garibaldini, a cura di paolo Ruffilli le pagine dedicate a checchi. Le Memorie sono fra gli scritti garibaldini quelli più a ridosso alle vicende vissute dall’autore. E tuttavia individuerei due diversi atteggiamenti: quello del racconto condotto con gusto ora scanzonato ora con tensione drammatico-avventurosa; e quello che apre incisi riflessivi e presuppone un secondo tempo di maturazione: “per conto mio, fra le tante [cose] che appresi, questa mi rimarrà sempre nella memoria: che si può andare alla guerra coll’anima piena d’ineffabili e gagliarde speranze, colle membra sane e robuste, e tornare con un’amara delusione di più e con qualche costola fracassata  dimeno”  (pag.  355).  per  checchi  la  “delusione”  è  il  sogno inappagato del garibaldinismo, di un’impresa non conclusa, in questo caso la conquista del Trentino, fermata dalle trattative di pace con l’Austria, ma, più in generale, la conferma di un impossibile iniziativa dei volontari fuori dagli schemi diplomatico-militari sabaudi. con sfumature diverse questa delusione ritorna negli altri scrittori garibaldini: per Abba la partenza di Garibaldi da Napoli verso “un altro pianeta” (caprera) segna un distacco dall’impegno politico, uno smarrimento in un tempo senza direzioni precise con solo un indeterminato margine di attesa e illusione: “potessimo ancora raccoglierci a formar qualcosa che avesse senso, un dì: povera carta!... rimani pur bianca!... Finiremo poi” (pag. 180). per Bandi è la morte di Garibaldi a segnare la fine di ogni possibile speranza e il definitivo distacco da un momento irripetibile della propria vita: “Quando mi ricordo quella sera e quell’ora [la partenza da Quarto], sento gonfiarmisi il cuore, e piango sulla perduta gioventù, e piango sulla tomba dell’uomo che i sogni più belli della gioventù mia se li ha portati con sé!” (pag. 41). per checchi importa rilevare l’intreccio fra le “ineffabili e gagliarde speranze” e l’“amara delusione” che le conclude. Ecco allora dapprima lo slancio narrativo delle gesta, tracciate con commosso entusiasmo: “Trovarsi faccia a faccia con i tedeschi, avere una bella battaglia da raccontare, fors’anche una vittoria per la quale saremmo stati celebrati, metteva in noi una smania, un’ansia, una febbre di correre, che ci faceva dimenticare la stanchezza delle marce, le notti fredde

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e piovigginose, la miseria del mangiare, la scelleratezza del vino che i ladri fornitori ci somministravano e che il governo pagava per buono, la sudiceria di quattro soldi di paga al giorno”  (pagg. 365-366). E il rapido registrare i tratti di un paese sconosciuto e bellissimo, la diversità dei costumi, l’impetuosità dei fiumi: il chiese: “fiume rapido e profondo che scaturisce dai monti del Tirolo, e che serpeggiando fra le gole, ora più largo ora più angusto […] veniva giù per un lunghissimo tratto di campagna” (pag. 366), la maestrosità dei monti: “montagne altissime, d’una bellezza e insieme d’una terribilità meravigliosa” (pag. 368). Il racconto corre per lo più animato fino alla battaglia di Bezzecca aprendosi in vivaci scene di una vita militare e giovanile, ove la violenza viene assorbita in imprese scanzonate, come quando i garibaldini che predano una casa dei calderotti e paioli di rame e li vendono in paese (pag. 371) o come quando una trovata volge il macabro in comico: i garibaldini accomodati nelle tombe a muro di un cimitero: “I garibaldini industriosi se n’erano fatto un letto comodissimo. Alcuni […] accoccolati là dentro dormivano già, e parevano cadaveri tutti insanguinati; altri vi s’erano appollaiati alla meglio e fumavano tranquillamente”. Il racconto si modifica decisamente entrando nella battaglia di Bezzecca e nelle esperienze di checchi condotto con altri feriti verso gli ospedali improvvisati di Tiano e Storo. pur profilata sotto il segno della vittoria italiana, pur segnata dalla presenza ammirata di Garibaldi che, ferito, dirige la battaglia in carrozza, Bezzecca è rappresentata nel caos degli attacchi e dei contrattacchi, delle avanzate e delle ritirate, del disperdersi e del ricongiungersi e le note dell’“amara delusione” si infittiscono. All’entusiasmo dell’azione subentra la scoperta dell’orrore della battaglia: “Il fuoco della battaglia, il clangor delle trombe, quel correre di qua e di là, la stessa barbara voluttà del ferire e dell’uccidere hanno per chi combatte una attrattiva terribile e pur bella; ma oh! di quanta pietà, di quanto terrore l’animo è invaso,quando svampiti cotesti entusiasmi, vediamo da vicino che cosa è una strage!” (pag. 394). Non si tratta tuttavia di un rifiuto totale della guerra, checchi riflette piuttosto sull’inutilità dei sacrifici dei garibaldini, fermati alle porte di Trento dalle decisioni del governo, con un’attenzione tuttavia più particolare e aspra ai sacrifici sanguinosi della campagna: “La giornata [di Bezzecca] era definitivamente guadagnata alle

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armi italiane. ma a qual prezzo, mio Dio, avevamo ottenuto il guadagno! quanto sangue generoso s’era versato! quante vittime s’erano immolate inutilmente alla patria; inutilmente, sì, perocché mentre l’Italia festeggiava il riscatto di Venezia, quei paesi del Trentino […] rimarranno chissà quanto tempo ancora nelle mani dell’Austria” (pag. 397). Attenzione non solo dolorosa, ma accompagnata da precisi rilievi sulla condotta della guerra : “Era destinato che tutto congiurasse ai nostri danni: la nessuna pratica militare degli ufficiali […], l’armamento pessimo, la mancanza d’istruzione delle compagnie, la proditoria amministrazione delle società incaricate di provvedere i viveri”. Gli stessi garibaldini sono visti in una luce più realistica, fuori dal mito, con osservazioni inedite, ad esempio, sulle caratteristiche particolari del combattente volontario, sulla sua fragilità: “Vedevo garibaldini scendere e ruzzolare dai monti, saltare rocce e far capriole, e questo voleva dire che si ritiravano, perché i volontari van bene avanti finché li serve il coraggio, ma ai primi suoni di ritirata perdono affatto la tramontana e scappan via con le gambe in testa” (pagg. 389, 390). Una conferma drammatica di questa paura è quando il quinto reggimento garibaldino ripiega confusamente e il sesto ha l’ordine di respingerlo a baionetta innestata:  “ma  rotto  quel  primo  anello  della  catena  che  si  distendeva  in bell’ordine, la catena si sfasciò in poco tempo, e la ritirata di una parte del reggimento pose per un istante in forse l’esito della giornata […]. Quando un ordine netto e reciso ci viene comunicato: s’impedisca la ritirata dei nostri, si adoperino, dove occorre, le baionette […]. Stemmo lì un poco a ricevere  l’urto  poderoso  dei  sopravvenienti  […].  Dietro  ai  fuggitivi, scendendo passo passo dal monte, ordinate, serrate, compatte, venivano le muraglie bianche della fanteria austriaca […]. ci trovammo così involti insieme con quelli che se la battevano e pure rispondendo al fuoco rinculammo disordinati e confusi in fondo al paese” (pagg. 379-380). Nel grande affresco della battaglia questo episodio è fra i più incisivi, una delle registrazioni più autentiche, e inedita, della memorialistica garibaldina.

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Delmo Maestri, Fra i memorialisti garibaldini: Abba, Bandi, Nievo, Cecchi

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NOTE

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1. cfr. raccolte di testi: G. Stuparich (a cura di), Scrittori garibaldini, milano, Garzanti, 1948; G. Trombatore (a cura di), Scrittori garibaldini, Torino, Einaudi,1979, 2 voll.; G. mariani (a cura di), Antologia di scrittori garibaldini, Bologna, cappelli, 1960; S. Iacomuzzi (a cura di), Pagine garibaldine, Torino, Einaudi, 1960; p. Ruffilli (a cura di), Antologia di scrittori garibaldini, milano, mondadori, 1996. In generale: G. Stiavelli, Garibaldi nella letteratura italiana, Roma, Voghera,1901; B. croce, Letteratura della nuova Italia, vol. VI, Bari, Laterza,1940 (1953); R. macchioni Jodi, Il mito garibaldino nella letteratura, caltanisetta-Roma, Sciascia, 1975; m. Tedeschi, Memorialisti garibaldini, in Letteratura Italiana Laterza. Dalla scapigliatura al verismo, vol. VIII, to. II, Roma-Bari, Laterza, 1975, pagg. 433-483; p. De Tommaso, Quel che videro. Saggio sulla memorialistica garibaldina, Ravenna, Longo, 1977. 2. G. mariani, Introduzione ad Antologia di scrittori garibaldini, cit.

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Il Risorgimento italiano fra storia,  interpretazioni, innovazioni. contributi a un dibattito aperto*

Corrado Malandrino

1. Premessa: l’unità dell’Italia e il contributo dell’“altro” Piemonte nella prospettiva del “lungo” Risorgimento La ricorrenza del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia ha fornito l’occasione per avviare, insieme a doverose celebrazioni, anche nuove iniziative di ricerca storica e di dibattito scientifico. Non sono mancate però accese polemiche. Tralasciando le opposizioni strumentali e fuori luogo, spiacciono soprattutto le diatribe tra i battistrada della tendenza “neoculturale”, che ha acquisito una posizione di rilievo nella storiografia per il riuscito tentativo di rinnovare la “vulgata” risorgimentale, e i fautori della rivalorizzazione del Risorgimento inteso come positivo fatto politico e istituzionale originario e identitario della nazione italiana. polemizzare intorno alle forme più o meno nazionaliste o nazionalpopolari delle varie retoriche patriottiche, oltre a portare a distorsioni interpretative, rischia di metter in ombra l’esigenza del completamento e della revisione storiografica di aspetti ed episodi inerenti esponenti politici non marginali della storia  risorgimentale.  Ad  alcune  manchevolezze  di  tal  genere  intende contribuire a porre rimedio il LaSpI (Laboratorio di Storia, politica, Istitu* Su cortese concessione del professor corrado malandrino pubblichiamo in questa sede una sintesi della sua introduzione al recente volume Garibaldi, Rattazzi e l’Unità d’Italia, (a cura dello stesso malandrino e di Stefano Quirico, Torino, claudiana, 2011). Rispetto alla versione originale, il testo qui riprodotto non riporta l’ampia sezione in cui il professor malandrino affrontava il tema del nesso fra Risorgimento ed Europa, soffermandosi in particolare sull’idea europea di mazzini e il federalismo in chiave europeistica di carlo cattaneo.

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Corrado Malandrino, Il Risorgimento italiano fra storia, interpretazioni, innovazioni

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zioni) attraverso la progettazione di indagini storico-politiche, socioeconomiche, istituzionali concernenti Alessandria e la sua provincia nel “lungo Risorgimento”,  al  fine  di  effettuare  una  ricostruzione  più  completa  –  non agiografica né oleografica – dell’opera di statisti come Urbano Rattazzi, Giuseppe Saracco, Giovanni Lanza, carlo Francesco Ferraris, maggiorino Ferraris, dalla fondazione alla concreta costruzione dello Stato unitario italiano. La provincia alessandrina (soprattutto lungo la direttrice passante dall’Acquese al casalese attraverso la città di Alessandria), nel piemonte, si distinse infatti nel fornire ingegni, competenze, passione, attività, rilevanti personalità scientifiche e politiche, alla creazione di una vera e propria “scuola per il governo” del nuovo Stato unitario in varie branche dell’amministrazione finanziaria e tecnica dello Stato1.

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2. Risorgimento e “lungo Risorgimento” per comprendere meglio il contesto problematico nel quale i ricercatori impegnati in questo lavoro si muovono, appare opportuno chiarire il senso di alcune definizioni dalle quali essi partono, tra cui centrale è quella, non unanimemente accettata dalla storiografia, di “lungo Risorgimento”. Se, per esempio, si prende l’edizione italiana del libro di uno degli storici recenti dell’epoca risorgimentale, il francese Gilles pécout, si nota che il titolo originale, Naissance de l’Italie contemporaine (1770-1922), viene completato in italiano con l’aggiunta Il lungo Risorgimento2. Tale apposizione non appare inutile o pletorica, perché il libro è incentrato proprio sul dato risorgimentale visto in questa sua ampiezza come elemento fondativo dell’Italia contemporanea. Le interpretazioni maggiori e più diffuse hanno invece teso e tendono a limitare il decorso vero e proprio del Risorgimento in un lasso di tempo molto più breve, che si contiene per i più rigidi osservanti nelle vicende epiche delle tre guerre d’indipendenza, compresa anche l’impresa dei mille (quindi 1848-1866) e, al limite, comprendente anche la presa di Roma e la sua proclamazione a capitale del Regno d’Italia (1870-1871). partendo da questa periodizzazione minima, altri la dilatano aggiungendovi la fase preliminare dello sviluppo delle lotte patriottiche durante la Restau-

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razione, portando il termine iniziale al 1815. Altri hanno dilatato invece il periodo posteriore al 1870, sostenendo che persino la prima guerra mondiale – con la liberazione dei territori irredenti di Trento e Trieste – potrebbe con buone ragioni considerarsi un prolungamento dell’epopea risorgimentale diventando una sorta di “quarta guerra d’indipendenza”. come si vede, si passa così da un Risorgimento breve a uno lungo, che per taluni può diventare lunghissimo, allorché la stessa guerra di liberazione antitedesca durante la Seconda guerra mondiale e la resistenza antifascista sono chiamate “nuovo Risorgimento” o con locuzioni simili. In questi casi, giustamente si sottolinea che una periodizzazione allargata anche solo al periodo 1815-1918 non risponde appieno alle domande che gli storici si pongono proprio di fronte alla multiforme natura del termine e del concetto di Risorgimento, alla sua possibile molteplicità di significati 3. E vi è di più. come suggerisce paolo Bagnoli 4, esiste il problema della formazione intellettuale, morale e politica dell’idea della nazione italiana – fenomeno complesso che sta alla base dello sviluppo ideale del Risorgimento – che fa sì che il Risorgimento non possa essere compresso né in una periodizzazione storica eccessivamente stretta, né in un’accezione politica attenta solo ai dati diplomatico-militari, ma, al contrario, deve andare alla ricerca delle premesse spirituali. Non è per esempio possibile sottovalutare  il  fatto  che  proprio  nel  periodo  rivoluzionario-napoleonico sorgono in Italia i primi esperimenti di carattere risorgimentale e si avvia concretamente il processo di traslazione del termine “Risorgimento” dal lessico religioso-culturale a quello prettamente politico 5. Sul versante invece della determinazione della data finale sono importanti le forme attraverso le quali si realizzano le due costruzioni concrete della nazione e dello Stato unitari tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, così che il termine ad quem diventa il 1922, in quanto linea spartiacque tra lo Stato liberale a quello fascista. Sono proprio questi ultimi aspetti del nation building e dello state building a circostanziare meglio il significato del “lungo Risorgimento”, che descrive la base comune della ricerca di cui si occupano gli studiosi del LaSpI. Questa accezione più vasta del Risorgimento sembra d’altra parte sostenibile anche se si guarda alle innumerevoli polemiche sorte intorno ai “tradimenti” di

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cui il Risorgimento sarebbe stato oggetto dopo l’Unità. Se, insomma, si pone attenzione ai nodi rimasti irrisolti e aggravati anche (o, forse, qualcuno direbbe soprattutto) dopo la conclusione dell’epopea risorgimentale. Indagare su questi nodi, sui problemi dell’Italia borghese-liberale italiana, significa appunto tentare di rispondere ad alcune domande inevase sulla realizzazione del nation building e dello state building nel nostro paese.

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3. Idea dell’Italia e contraddizioni del processo risorgimentale Occorre accennare a un problema sul quale si addensano le polemiche più accese tra la tendenza neoculturale e i rivalutatori del patriottismo nazionale (o nazionalista) in Italia: quello della formazione e dell’espressione dell’idea stessa della nazione italiana, del principio di nazionalità e del patriottismo, del conseguimento di una unità nazionale non esente da contraddizioni.  Esprimersi  sull’“idea”  dell’Italia  propria  dei  fautori risorgimentali implica indagare sugli scopi del processo di unificazione, far emergere le profonde differenze non solo delle astratte contrapposizioni ideologiche, ma degli obiettivi concreti (quale Italia si intendeva fondare?) che aveva ciascun movimento politico e ciascuna individualità.   Emerge in tal modo la dimensione complessa, plurale, mitopoietica delle retoriche nazionali e identitarie, non esclusa l’indicazione dei limiti entro i quali l’unità fu raggiunta. Di tali limiti ne offre al grande pubblico una rappresentazione plastica il film di mario martone (2010), tratto dal romanzo di Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti) Noi credevamo 6. Vi ritroviamo  le  contraddizioni  storiche,  i  contenuti  inapplicati  di  un Risorgimento mancato come rivoluzione sociale, come riforma intellettuale e morale, come riforma agraria 7. Da queste promesse non mantenute si diparte un senso di lontananza e di distacco rispetto all’Unità nazionale conseguita. Si fa luce la denuncia di un’idea nazionale dell’Italia che barattava il suo profilo riformatore sociale (o rivoluzionario) con il mero ottenimento dell’indipendenza e dell’unità politico-istituzionale, a prescindere dalla forma e dalla sostanza sociale del regime unitario 8. Si mettono in rilievo i nodi non sciolti di un processo unitario che saranno sottolineati – dive-

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nendone elementi distintivi – dalle successive interpretazioni politico-storiografiche del Risorgimento. Ecco perché pare utile spendere ancora qualche parola per cercare di riflettere sull’idea della nazionalità e dell’Italia che si affermò complessivamente nei decenni cruciali del Risorgimento e per chiarire i fattori di contraddizione che l’attanagliarono. A tal fine, mi pare utile riprendere la definizione giuridico-politica che ne fece nel 1851 un esponente “minore” dal punto di vista politico, ma che fu patriota e giurista di grande rilievo, come pasquale Stanislao mancini. Nelle sue espressioni si riflette l’insieme caratterizzante delle visioni politiche nazionali risorgimentali, che a mio avviso si risolvono nella componente volontaristica, morale e demica che mancini traduce nel linguaggio giuridico e così stabilizza nel suo contenuto filosofico 9. Vorrei proporre l’analisi della definizione manciniana di nazionalità fatta da un autore noto a torto solo come un classico della sociologia del partito politico 10 Roberto michels, il quale invece iniziò la sua carriera come storico e da storico dedicò all’Italia uno studio interessante, Italien von heute 11, rimasto pressoché sconosciuto 12. proprio il fatto che questo intellettuale italo-tedesco sia stato definito a ragione e sia stato “ambasciatore” culturale del fascismo  13 in Europa, rende interessante la sua lettura del 1930 del principio “democratico” della nazionalità. mi sembra, infatti, che la sua posizione in materia non sia riconducibile – sia per gli argomenti usati, sia per il metodo – né all’operazione di acquisizione al regime dei maggiori pensatori risorgimentali, in particolare mazzini e Gioberti, effettuata da Giovanni Gentile, né agli stilemi storiografici della componente accademica degli storici di regime guidata da Gioacchino Volpe, che tuttavia è tenuto presente da michels, né a un’interpretazione “di sinistra” o “squadristica”, e tanto meno all’impostazione burocratica, istitituzionale e autarchica promossa negli anni Trenta dal ministro dell’Educazione nazionale cesare maria De Vecchi.

3.1. La lettura nazionalrisorgimentale di Michels L’interpretazione nazionale di michels si inquadra in una lettura del

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Risorgimento e della costruzione nazionale unitaria come processo di modernizzazione incompleta dell’Italia. Essa può suscitare interesse perché fa rilevare alcuni elementi che saranno presenti con differenti argomentazioni nella pubblicistica successiva, per es. il giudizio critico sulla monarchia (ma non il rifiuto, come avvenne per la “sinistra” fascista), la spaccatura in due Italie, il problema della divisione Nord-Sud, tutti temi che verranno maggiormente dibattuti nella storiografia risorgimentista a seguito della ripresa gobettiana resistenziale e della pubblicazione degli scritti gramsciani sul Risorgimento dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Gli elementi analitici e prospettici “nuovi” proposti da michels sono di tipo socioeconomico e psicologico-culturali e sono da lui dichiarati nell’introduzione del libro, laddove rivendica la “novità” della sua concezione rispetto alle opere di  Volpe e di croce con le quali intende confrontarsi 14. Orbene, come si inquadra e si articola la visione michelsiana della nazione e del Risorgimento in Italia? michels tratta del Risorgimento e del principio nazionale nei primi due capitoli di Italien von heute, intitolati rispettivamente Sulla storia dell’origine dell’Italia moderna e Problemi della costruzione dello Stato. In questo testo, diversamente da quanto fatto in scritti precedenti  15, michels ricostruisce il principio delle nazionalità (che egli concepisce kantianamente come “ampliamento dei diritti umani” e della sfera dell’autonomia)  sulla  scorta  della  celebre  prolusione  del  1851  intitolata  Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti 16. Estendendo alle nazionalità il principio di autodeterminazione – figlio del concetto di autonomia – che spetta a ogni essere umano, il risultato sarà il raggiungimento della kantiana pace perpetua 17. Della definizione di nazione e di nazionalità elaborata da mancini sono elencati gli “elementi costitutivi” e costituzionali della “nazionalità”: “il geografico, ovvero il paese”, “l’etnografico, ovvero la razza”, “il razionale, ovvero la lingua”, “il religioso, ovvero la confessione religiosa”, “l’elemento della tradizione, ossia i costumi, le consuetudini, le rimembranze storiche”, “il giuridico-normativo, ossia le leggi e le disposizioni sociali”18. Tuttavia, secondo michels, sovraordinato a tali elementi, che nell’odierno linguaggio riassumono l’insieme dell’etnico e del demico, concentrati nella definizione di nazione, vi è il carattere morale che risiede

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“nella coscienza stessa della nazionalità, cioè nel sentimento di appartenenza”, senza il quale tutti gli altri tendono a indebolirsi e a sparire. Tale elemento architettonico si concretizza nella volontà individuale e collettiva di divenire una determinata nazione, ed esclude che a dare la prima origine alla nazionalità sia lo Stato, in quanto è proprio invece quel preciso sentimento ed elemento morale individuale e collettivo che si autocostruisce ed estrinseca in quanto “nazione” 19. Il principio di nazionalità è l’arma principale dei popoli in formazione. Naturalmente in tale fase di crescita, ciascun popolo nazionale che avanza il proprio principio rinuncia alle ambizioni di conquista e difende l’intento di sistemarsi pacificamente una volta conquistato il proprio diritto all’autodeterminazione. Il garibaldismo democratico-repubblicano rappresenta secondo michels il movimento emblematico di questo concetto di nazionalità e di affermazione del principio nazionale, sia con attenzione alla storia italiana, sia al coinvolgimento di Garibaldi e del garibaldinismo in paesi vicini e lontani, dalle Americhe alla Francia 20. Le cose, dirà poi michels, cambieranno col tempo, la posizione garibaldina dopo Garibaldi diverrà più nazional-espansionistica, ma ciò non avviene nella fase “genetica” delle lotte nazionali per l’indipendenza.  per quanto riguarda il carattere sociale del Risorgimento 21, michels ne sottolinea il tratto elitario, liberal-nobiliare e alto-borghese. Questo discende dall’essere la società italiana divisa generalmente in tre componenticlassi cui è demandato un ruolo attivo: a) il clero reclutato da nobiltà e borghesia; b) le “classi alte”, ossia nobiltà e alta borghesia che formano la “classe statale” sulla quale si regge la centralizzazione dell’amministrazione; c) infine il “terzo stato”, un insieme di piccola e media borghesia, che costituisce la classe da cui proviene la componente della cultura, della scienza, della libertà e del progressismo sociale prestate al Risorgimento, massima espressione del pensiero patriottico e nazionale.  Da questo quadro attivistico ed elitario, che forma l’Italia risorgimentale, rimane esclusa la stragrande  massa delle classi subordinate, suddivise in tre sottoclassi che non si riconoscono tra loro, i piccoli contadini, gli operai inurbati e i braccianti agricoli, la cui divisione reciproca e la separazione dalle classi attive saranno alla base di uno dei problemi sociali di rap-

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presentanza e di rappresentatività nel (e del) Risorgimento nazionale italiano, lasciando tale onerosa contraddizione tra le grandi questioni irrisolte nel sistema della rappresentanza liberaldemocratica durante la costruzione dello Stato unitario nel primo Novecento. Sulla scorta di questo ragionamento, michels enuncia una prima tesi sul Risorgimento italiano scrivendo che in Italia, ma non solo in Italia, il Risorgimento fu un affare “ristretto psicologicamente e in grandissima parte anche fisicamente alla sola borghesia” 22. Di qui il sorgere di un enorme contrasto sociale che scardinerà progressivamente il quadro rappresentativo dello Stato unitario (nonostante l’inserimento nella fase giolittiana prima dei partiti socialisti, poi del partito cattolico) per esplodere poi nel primo dopoguerra. Naturalmente è presente in michels anche l’attribuzione dell’elitarismo istituzionale del Risorgimento alla logica centralizzatrice monarchicoliberale,  imposta  a  suo  dire  da  insuperabili  condizioni  di  fatto  e concretizzatasi  coi  plebisciti  orientati  e  organizzati  da  cavour.  Benché espressione fisica di quell’elemento morale e volontaristico alla base dell’idea nazionale, proprio con i plebisciti si registra l’inserimento prevalente del moto risorgimentale in un processo, che vede dapprima l’emergere del sentimento nazionale, poi di un’iniziativa “statale”, ossia della dirigenza e della conquista militare, diplomatica e politica del Regno di Sardegna che, di fronte all’incapacità e all’irresolutezza del movimento repubblicano-democratico e garibaldino, ha buon gioco a presentare come inevitabile l’alternativa tra la “monarchia dei Savoia o il caos”. Il moto risorgimentale nazionale, grazie a cavour, conferma a maggior ragione il suo carattere elitario e prende nel 1861 la strada obbligata e piena di intime contraddizioni del neonato Regno d’Italia. A questo punto il politologo michels non può esimersi dal trarre una conclusione teorica: può dispiacere a qualcuno, ma tutto ciò dimostra che “nella sua sostanza dinamica lo sviluppo nazionale è sempre determinato da una élite” 23. Di qui è anche giustificato “il tradimento” dei maggiori esponenti repubblicano-democratici (da manin a Garibaldi a crispi) e il loro passaggio nelle file dei sostenitori, se non del principio monarchico, quanto meno della monarchia rappresentata dalla figura popolare e carismatica del re Vittorio Emanuele II. michles infine mette in evidenza criticamente i problemi della forma-

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zione dello Stato unitario, articolando l’analisi su cinque punti: a) la debolezza “nazionale” della monarchia dei Savoia e l’esaurirsi del pensiero nazionalrepubblicano; b) la separazione e il conflitto tra chiesa e Stato e l’emergere della questione romana; c) la frattura dello Stato nazionale tra Nord e Sud, con l’emergere della questione meridionale; d) l’analisi della situazione dei partiti risorgimentali; e) l’analisi per sommi capi della situazione dell’economia nazionale e delle sue contraddizioni.  Non è possibile in questa sede soffermarsi oltre sul contributo michelsiano. Basti solo aggiungere che uno degli elementi di maggior debolezza dell’Italia postrisorgimentale sta secondo michels nell’inconsistenza strutturale del sistema dei partiti. Questo corrispondeva all’estrema ristrettezza dell’opinione pubblica e della base popolare dell’istituzione parlamentare. Tutto ciò favorì l’emergere di fenomeni corruttivi come il trasformismo e la degenerazione del parlamentarismo. Dietro il sistema dei partiti postrisorgimentali – conclude – “stava un popolo politicamente incolto e privo di parola”, senza una visione consapevole dei processi reali degli eventi e soprattutto “senza alcuna volontà di potenza” 24. così  alle  soglie  della  modernizzazione  l’Italia  postrisorgimentale avrebbe dovuto fare i conti con un sistema sociale e politico frammentato, inefficiente e insufficiente in cui le masse popolari non avevano una funzione politicamente e istituzionalmente riconosciuta.

4. La storiografia e le contraddizioni del processo unitario massimo Salvadori, studioso salveminiano attento alle suggestioni provenienti dalla storiografia gobettiana e gramsciana, ha elaborato un’ipotesi per comprendere la crisi permanente di sistema che attanaglia l’Italia contemporanea  25. In essa, ruolo genetico ricopre il Risorgimento, in quanto produttore della contraddizione di fondo tra le anime liberale e democratica dell’Italia, simboleggiate nell’opposizione ideologica tra cavour e mazzini, e del peculiare metodo “trasformistico” che avrebbe cercato di ovviare nel nostro paese alla mancanza di vere alternative interne al sistema. In sintesi, la dialettica tra la posizione liberale moderata e monarchica e quella più

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radicale repubblicana e democratica non seppe far seguire alla contrapposizione ideologica una sorta di avvicendamento di governo, ma solo l’escamotage trasformistico,  il  cui  primo  esempio  sarebbe  stato  il  famoso “connubio” tra cavour e Rattazzi, attraverso il quale le ali moderate della destra e della sinistra, ossia il “centro destro” e il “centro sinistro”, si unirono per portare a termine la preparazione della battaglia decisiva per l’indipendenza e l’unità, tradendo da una parte gli ideali più genuini della sinistra e rompendo dall’altra l’alleanza con la reazione nobiliare sabauda più retrograda. Questa fenomenologia politica si sarebbe nutrita poi, di volta in volta, di tale contraddizione irrisolvibile di sistema, ripetendosi nella storia postunitaria con l’avvicendamento della Sinistra e poi col passaggio dal crispismo al giolittismo. Di qui il carattere concorde-discorde del processo risorgimentale, nel quale l’elemento dialettico e dinamico fondamentale, cioè il garibaldismo, fu solo provvisoriamente e parzialmente incorporato nel sistema monarchico-liberale, restando tuttavia sempre una sorta di bomba a orologeria in un sistema bloccato. Esso mantenne infatti nel suo nucleo valoriale in gran parte una presenza democratico-repubblicana e movimentista incapace di istituzionalizzarsi, e riemergendo in varie forme, dapprima militari come ad Aspromonte e a mentana, quindi nelle battaglie radicali e via via massimaliste. Donde una sorta di impasse permanente del sistema liberaldemocratico parlamentare per mancanza di alternative di governo fruibili.  può essere utile riflettere sul punto se e come effettivamente la storiografia ha indicato anche nelle modalità risorgimentali unitarie sopra ricordate, e non solo sugli effetti, il peccato originale di queste contraddizioni 26. In questo senso è utile la rassegna che fa pécout delle varie posizioni espresse dalle diverse scuole, italiane e non italiane nel tempo, con le varie articolazioni interne alla parte liberale, democratico-radicali, fasciste, marxiste ecc. A queste bisogna aggiungere gli indirizzi affermatisi completamente dopo la pubblicazione del suo libro, ossia le tendenze neoculturali da Lucy Riall al citato Banti a paul Ginsborg 27, senza escludere autori e opere che – come nel caso di Derek Beales ed Eugenio Biagini –, pur presentandosi sensibili ai temi culturali, sono però collocati lungo una linea di maggior  apprezzamento  dei  problemi  squisitamente  storico-politici  e

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diplomatico-militari delle vicende risorgimentali 28. Sembrano però non eludibili alcune messe a punto critiche inerenti il carattere della polemica tra i rappresentanti più in vista della tendenza ‘neoculturale’ e gli storici ed esponenti istituzionali del ‘neopatriottismo’, ponendo altresì alcune domande sulla portata delle principali tesi di Banti. A questo scopo è utile il confronto con le risultanze dell’esposizione del principio nazionale operata da michels. chi scrive è persuaso che l’indirizzo “neoculturale” costituisce una presenza importante nello svecchiamento della storiografia risorgimentale, per quanto riguarda la ricostruzione morfologica 29 del discorso risorgimentale  di cui sottolinea “la trama discorsiva più generale, all’interno della quale le idee sulla nazione sono state raccontate e rappresentate in modi che hanno fatto sistematico appello a un’intensa estetica della politica” 30. come precisano Banti e Ginsborg,  in una forma emotivamente molto efficace, artefatti di questo tipo hanno collegato strettamente tra loro aspirazioni politiche e discorsi sul genere, riferimenti alla tradizione religiosa e allusioni sessuali, in uno strano mix, al tempo stesso insolito e tradizionale; alla fine queste narrazioni sono apparse persuasive, almeno a una parte  significativa  della  nazione;  hanno  chiamato  all’azione;  e hanno stabilito l’orizzonte etico di tanti uomini e di non poche donne che, con tutte le loro contraddizioni, tensioni e incoerenze, con tutti i loro entusiasmi, estremismi e disillusioni, hanno sentito il bisogno di mobilitarsi e di partecipare, in una forma o nell’altra, a quel tenace e peculiare movimento “di massa” che è stato il Risorgimento italiano 31.

L’analisi di fonti culturali eterogenee, ma accomunate dalla capacità di fare presa sulle masse popolari – opere d’arte di vario genere, poesie, romanzi, ecc. – restituisce la cultura “profonda” del Risorgimento, l’immagine di una nazione imperniata sull’intreccio fra elementi etnico-biologici (sangue, parentela, razza, lingua), religiosi (sacrificio, martirio, santificazione degli eroi) e di genere (il diverso onore vantato dal maschio guerriero e dalla donna casta). Un’altra specificità “controcorrente” da rilevare nell’impostazione “neo-

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culturale” è data dalla tesi che il Risorgimento sarebbe stato un “movimento di massa” – pur se da intendersi in senso lato – e non elitario, come solitamente si è sostenuto, al punto che si è individuato nella ristrettezza della base consensuale del Risorgimento una delle contraddizioni più forti del processo unitario. Orbene, proprio su questi due aspetti di grande importanza dell’indirizzo “neoculturale” – la definizione del Risorgimento come “movimento di massa”, e la caratterizzazione prepolitica (o “biopolitica”) dell’idea di nazione e di patriottismo risorgimentali –, e sulle loro ricadute, si vuole esprimere qualche riserva, fermo restando il valore scientifico di tale tendenza. per quanto riguarda il primo punto, è da accogliere con favore l’affermazione che il Risorgimento non fu un fatto riguardante ristrettissime élites, o al limite pochi protagonisti; l’individuazione di una dimensione di numerosità che riscatta il moto risorgimentale dall’accusa storica di chiusura verso le masse ed esclusivismo. ciò detto, però, si ha qualche perplessità sulla definizione in se stessa della “massa”, in quanto tale concetto, nonostante le precisazioni dette sopra, sembra qui usato al di là di quanto può incorporare come concetto politico, ché tale comunque rimane, e ha una sua storia filologica e filosofico-politica. Non sembra che l’ampliamento a un numero più vasto di persone coinvolte, ma sempre limitato in quanto parte politicamente attiva, possa autorizzare un uso simile del termine. Nel Risorgimento si restò sempre sul terreno dell’azione di élites, sebbene appoggiate su basi più ampie. Il fatto rilevato che alcune parole d’ordine, gesti, sentimenti, adeguatamente popolarizzati e divulgati diventarono patrimonio di una parte più larga della popolazione non toglie che l’iniziativa consapevole rimase  nelle  mani  di  una  piccola  élite,  che  fu  il  soggetto determinante dell’intero movimento. per quanto riguarda il secondo punto, sono soprattutto le tesi del volume sulla “sublime madre nostra” a destare perplessità (e, non a caso, hanno suscitato un vespaio di polemiche anche giornalistiche). In estrema sintesi, ma senza tradire il pensiero di Banti, esse affermano che la caratterizzazione etnica e “biopolitica” della nazione diventata egemonica nel periodo risorgimentale, definita attraverso elementi prepolitici di base chiamate “figure profonde” – la nazione come parentela famiglia; la nazione come comunità sacrificale; la nazione come comunità sessuata –, che si sarebbe cristallizzata nel bellicismo novecente-

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sco, raggiunge la sua massima consacrazione nazionalista durante il fascismo. Banti scrive che  se si compie un’analisi morfologica del discorso nazionale italiano dal Risorgimento al fascismo, appare chiaro che la sua elementare struttura discorsiva è costantemente articolata intorno a queste tre figure fondamentali. Detto in altri termini: il Risorgimento lascia in eredità all’età liberale e al fascismo una concezione della nazione che nella sua essenza morfologica resta la medesima. Non che – prosegue Banti - il discorso nazionale nel corso del periodo che va dal 1861 al 1945 non subisca modifiche. Aspetti nuovi, che non appartenevano al lessico degli speaker risorgimentali, entrano man mano in gioco: l’esaltazione della romanità, invece che del medioevo o dell’età moderna; una nuova aggressività coloniale e imperialista; una declinazione razzista dell’idea di nazione. Se ciascuno di questi elementi è nuovo, non è tuttavia tale da modificare o scalzare la matrice morfologica originaria del discorso nazionale. Anzi le nuove componenti si presentano come uno sviluppo organico, armonico, coerente rispetto a quella matrice, che comunque resta sempre il nucleo portante del discorso nazionale 32.

Non si può concordare con questa tesi e con le sue conseguenze. La caratterizzazione morfologica nazionale manciniana, che opera come sintesi del principio delle nazionalità e che, senza sottovalutare gli elementi etnico-culturali, resta sostanzialmente volontaristica e demica, come abbiamo visto nell’esposizione di michels, suggerisce una tesi diversa da quella di Banti. mi sembra, inoltre, che nell’operazione “neoculturale” s’inverta la forma col contenuto, il significante col significato, perdendo di vista proprio l’essenziale. Nella meritoria fatica di narrare e descrivere le variegate forme in cui le idealità nazionali si trasmettono e radicano a livello popolare come “figure profonde”, sentimenti ecc., si annette alla forma composta di ‘parole’ letterarie e politiche, note musicali, quadri pittorici e così via, una capacità di condizionamento del discorso politico che straborda dalle sue potenzialità. Tra parentesi, il fatto che un lessico in origine appartenente al discorso

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religioso venga mutuato dal “politico” è ben noto fin dai tempi di carl Schmitt, in quanto molti altri termini del lessico politico hanno tale provenienza. ma come nella teoria politica schmittiana si sostiene che nell’osmosi essi perdono il loro carattere religioso, si tecnicizzano, entrano a far parte di una sfera laica, lo stesso può dirsi del lessico nazionalpolitico risorgimentale. Non basta sottolineare l’origine religiosa del termine “risorgimento” per attribuirgli una perdurante valenza prepolitica di genere etnico-culturale, perché nel passaggio a un nuovo lessico che era in fase genetica nella prima metà dell’Ottocento, come sapevano Balbo e cavour che lo adottarono per la loro testata giornalistica, esso si laicizza e passa a far parte di un universo demico. Tale trasformazione interna e capillare si avverte anche nei discorsi nazionali diffusi a livello popolare. ciò significa che, se si prende un contenitore (la forma) e lo si riempie di contenuti (la sostanza), quel che conta ai fini del giudizio politico è la seconda.  Il discorso nazionale risorgimentale, inoltre, ebbe anche elementi formali etnico-culturali (come la ricostruzione manciniana sopra suggerita da michels ammette), ma l’elemento sostanziale fu quello demico e volontaristico della costruzione di uno Stato unitario libero, indipendente (e possibilmente,  per  molti,  democratico  e  riformato  socialmente),  che nell’elaborazione di Banti rischia di esser posto in ombra 33. D’altra parte, una deriva nazionalistica estrema che si trasforma in imperialismo coloniale e razzista non può non essere essenzialmente diverso dal punto di vista politico dal nazionalismo democratico e indipendentistico risorgimentale. Forse volendo rispondere in anticipo alla possibile obiezione che nella sua ricostruzione non c’è soluzione di continuità tra l’idea nazionale risorgimentale e quella fascista, Banti scrive che “è piuttosto evidente che la concezione  nazionale  del  Risorgimento  anima  un’aspirazione  alla  libertà, mentre al contrario, quella fascista è il fondamento di uno Stato totalitario”. ma proprio questo è il punto, che non si lascia risolvere dalla formulazione di Banti secondo cui sarebbe “fuorviante” la deduzione che “posta la divergenza negli obiettivi politici, il discorso nazionale del Risorgimento è totalmente diverso dal discorso nazionale fascista”. Infatti, secondo lui “la struttura morfologica resta la stessa, nonostante diversi siano gli obiettivi politici che su di essa si fondano”  34. Il problema che al proposito

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Banti sembra ignorare sta nel fatto che non basta indicare una struttura morfologica per emettere un giudizio politico, perché il discorso politico non è fatto solo di una “struttura morfologica”, che ne rappresenta la mera componente formale, letteraria, poetica, umana ecc. Esso è materiato di una struttura concettuale, di categorie politiche che cambiano profondamente di significato col passare dei contesti, delle stagioni e finiscono per dire a volte esattamente il contrario di quanto dicevano all’inizio. Questo capita precisamente al discorso nazionale. Non è accettabile pertanto che nella esposizione di Banti si vanifichi l’esistenza di una differenza profonda tra concetti di nazione/nazionalità e di patria/patriottismo, pur a volte attraverso l’uso di parole simili o identiche. perciò è necessario  distinguere  tra  paradigmi  nazionali  essenzialmente  diversi  come quello etnico-culturale e quello demico. A quello “etnico”, di origine tendenzialmente tedesca  35 e ricco di sfumature al proprio interno, ma generalmente incardinato su elementi prepolitici (lingua, razza, sangue, tradizioni, e così via), se ne contrappone uno alternativo che affonda le proprie radici nell’esperienza dell’illuminismo e delle rivoluzioni americana e francese. Esso postula l’esistenza di una nazione di cittadini, intesi come soggetti che vivono l’appartenenza alla comunità come scelta volontaria, fondata sulla condivisione di valori, progetti e investimenti sul futuro. Si tratta del modello predetto secondo cui la nazione è “un plebiscito di tutti i giorni” e non il frutto di dinamiche predeterminate e poste al di fuori del perimetro dell’autodeterminazione di ciascuno. La versione “demica” dell’idea di nazione, proprio perché sgombra il campo dai requisiti prepolitici che dividono gli esseri umani in compartimenti stagni, può diventare il fondamento per l’enucleazione di un’identità comprensiva di più livelli di appartenenza, idonea tra l’altro all’introduzione di sistemi istituzionali di tipo federale, particolarmente obbligati allorché si pensi alla dimensione europea.

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NOTE 1. cfr. c. malandrino (a cura di), Dal Monferrato alla costruzione dello Stato sociale italiano: l’esperienza intellettuale, scientifica e politica di Carlo Francesco Ferraris (1850-1924), Torino, claudiana, 2007; R. Balduzzi, R. Ghiringhelli, c. malandrino (a cura di), L’Altro Piemonte e l’Italia nell’età di Urbano Rattazzi, milano, Giuffré, 2009. 2. G. pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), ed. ital. a cura di R. Balzani, milano, Bruno mondadori, 1999. L’autore dedica i primi capitoli e, in particolare, le pagg. 3-27 a dare risposte agli interrogativi sul Risorgimento in quanto “categoria” della storia italiana, alle sue accezioni e ai limiti cronologici, nonché al dibattito ideologico retrostante. 3. cfr. per un primo inquadramento A. m. Banti, Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 2004, pagg. V-XII; Id. Risorgimento,  in Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità, a cura di A. m. Banti, A. chiavistelli, L. mannori, m. meriggi, Roma-Bari, Laterza, 2011; pagg. 33-39. 4. cfr. paolo Bagnoli, L’idea dell’Italia 1815-1861, Reggio Emilia, Diabasis, 2007, pp. 15-41.  5. Si pensi al Vittorio Alfieri del Misogallo e al “giacobino” matteo Galdi del saggio del 1796 Necessità di stabilire una repubblica in Italia composto per concorrere al bando indetto dalle amministrazioni lombarde sulla base del quesito Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia. cfr. Banti, Risorgimento, cit., p. 34. Sul significato politico risorgimentale di tale concorso cfr. A. Saitta (a cura di), Alle origini del Risorgimento: i testi di un “celebre” concorso (1796), Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma, 1964, pp. 183 ss.; G. carletti (a cura di), Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia, in “Trimestre”, a. XXXIII, 2000, nn. 1-2. 6. A. Banti, Noi credevamo (1967), milano, mondadori, 2010. 7. cfr. E. Gentile, Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento, a cura di S. Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2011; pag. 86, dove attira l’attenzione sulle gravi questioni lasciate in eredità allo Stato unitario: “La questione romana, la questione meridionale, la questione sociale, e soprattutto, la questione nazionale nel suo complesso, cioè la debole corrispondenza fra lo Stato nazionale e la realtà sociale dell’Italia unita”. 8. che questa sia stata una delle maggiori “ambiguità” del processo risorgimentale lo afferma S. J. Woolf , La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, vol. III, Dal primo Settecento all’Unità, Torino, Einaudi, 1973; pagg. 507-508. 9. cfr. gli interessanti saggi di G. S. pene Vidari, La prolusione di P. S. Mancini all’Università

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di Torino sulla nazionalità (1851), di I. Soffietti, Cittadinanza e nazionalità nella disciplina sabauda di metà Ottocento e di E. mongiano, Il principio di nazionalità e l’unificazione italiana, in Verso l’unità italiana. Contributi storico-giuridici, a cura di G. S. pene Vidari, Torino, Giappichelli, 2010; pagg. 21-80. 10. cfr. R. michels, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie. Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens, Leipzig, Dr. Werner Klinkhardt, philosophischsoziologische Bücherei, Band XXI, 1911 (prima ediz. it. Torino, UTET, 1912). 11. cfr. R. michels, Italien von heute. Politische und wirtschaftliche Kulturgeschichte von 1860 bis 1930, Zürich und Leipzig, Orell  Füssli Verlag, 1930. 12. Su ciò si rinvia a c. malandrino, Principio di nazionalità e Risorgimento italiano nel pensiero di Roberto Michels, in corso di stampa. 13. cfr. L. Di Nucci, Roberto Michels “ambasciatore” fascista, in “Storia contemporanea”, a. XXIII, febbraio 1992; pagg. 91-103. 14. B. croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, G. Laterza & Figli, 1927. michels scrive in Italien von heute, cit.; pag. 1: “Noi abbiamo visto il nostro compito nel restituire una sorta di storia culturale dell’Italia, ossia una visione politica compresa nei più ampi rapporti psicologici ed economici”. 15. Si rinvia per un approfondimento a c. malandrino, Pareto e Michels: riflessioni sul sentimento del patriottismo, in c. malandrino, R. marchionatti (a cura di ), Economia sociologia e politica nell’opera di Vilfredo Pareto, in “Studi” della Fondazione L. Einaudi, Firenze Olschki, 2000; pagg. 363-382; Id., Patriottismo, nazione e democrazia nel carteggio Mosca-Michels, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, Torino, 2004; pagg.  211-226; Id., Michels ‘machiavellian’ o interprete di Machiavelli?, in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero poltico del secolo XX, a cura di c. Vivanti e L. m. Bassani, milano, Giuffré, 2005; pagg. 177-194. 16. citata nell’edizione delle prelezioni fatta in “Diritto internazionale”, Napoli, 1873. 17. ci sarebbe da discutere sulla congruità di questo riferimento a Kant, considerato che secondo Kant non è certo dal rispetto del diritto sovrano degli Stati nazionali che potrà scaturire la pace perpetua. come è noto, anzi, questo tipo di pace, l’unico che possa chiamarsi tale, può sorgere per Kant solo da una limitazione del diritto di sovranità in un sistema federale, attraverso una giuridificazione della vita internazionale che è ben lontana dal pensiero nazionale ed elitista di michels. 18. cfr.  R. michels, Italien von heute, cit.; pag. 6. 19. Non si può non notare en passant la vicinanza di questo modo di porre la questione del sentimento volontaristico nazionale con quello più tardo di circa un trentennio rispetto a man-

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cini del “plebiscito di tutti i giorni” di Renan; cfr. E. Renan, Che cos’è una nazione (1882), a cura di S. Lanaro, Roma, Donzelli,1993. 20. “Tra i tentativi, i sentimenti e le realizzazioni del principio delle nazionalità il garibaldismo fu senza dubbio il meglio organizzato, il più sistematico, internazionale e concreto. per così dire, fu il perfezionamento pratico delle teorie di mancini e di mamiani”. R. michels, Italien von heute, cit.; pag. 7. 21. A riprova di un percorso argomentativo ancora vicino, nonostante tutti i cambiamenti intervenuti, alle proprie origini libertarie e socialiste, michels riprende addirittura da Bakunin lo schema dell’analisi di classe della società italiana alla metà dell’Ottocento, cfr. m. Bakunin, Il socialismo e Mazzini (1877), l’ediz. usata da michels è la 4ª, Firenze, 1905. 22. cfr.  R. michels, Italien von heute, cit.; pag. 21. 23. Ivi; pag. 26. 24. cfr. R. michels, Italien von heute, cit.; pag. 54. 25. cfr. m. L. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime, Bologna, Il mulino, 1994. 26. cfr. in generale E. capuzzo (a cura di), Cento anni di storiografia sul Risorgimento, Atti del LX congresso di storia del Risorgimento italiano (Rieti, 18-21 ottobre 2000), Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 2002. 27. cfr. soprattutto il vol. 22 degli Annali della Storia d’Italia a cura di A. m. Banti e p. Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007, la cui introduzione Per una nuova storia del Risorgimento (pagg. XXIII-XLI) scritta a quattro mani da Banti e da Ginsborg ha un valore fondativo e metodologico per tale tendenza che ha il suo ‘momento’ intellettuale di riferimento nell’opera di G. mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933), Bologna, Il mulino, 1975; Banti ha applicato i criteri “neoculturali” enunciati già nell’opera precedente: La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini del Risorgimento, Torino, Einaudi, 2000; Id., L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra,  Torino,  Einaudi,  2005.  cfr.  per  una discussione dal punto di vista ‘culturale’ sulla storiografia cfr. L. Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli, 1997 (riedizione ampliata nel 2007). Una discussione della tendenza ‘neoculturale’ si trova in: G. Albergoni, Sulla “nuova storia” del Risorgimento: note per una discussione, in “Società e Storia”, 2008, n. 120; pagg. 349-366; L. mannori, Il Risorgimento tra “nuova” e “vecchia” storia: note in margine a un libro recente, ivi; pagg. 367-379;  Leggere la nuova storia del Risorgimento: una visione dall’esterno. Una discussione con Alberto M. Banti, a cura di A. Körner e L. Riall, in “Storica”, n. 38, 2009; pagg. 91-140, con interventi degli stessi Körner, Riall, m. Isabella e c. Brice e una Replica di Banti.

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28. cfr. in particolare D. Beales, E. Biagini, Il Risorgimento e l’unificazione dell’Italia, Bologna, Il mulino, 2005. È da sottolineare che per questi autori il “connubio” non fu il primo atto di trasformismo, ma un grande patto utile a superare la polarizzazione infruttuosa tra sinistra liberale e destra moderata (pag. 152). Sul trasformismo cfr. anche F. conti, I notabili e la macchina della politica. Politicizzazione e trasformismo fra Toscana e Romagna nell’età liberale, pref. di A. Galante Garrone, manduria-Roma-Bari, Lacaita, 1994. cfr. inoltre il volume collettaneo Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, a cura di m. Isnenghi ed E. cecchinato, Torino, UTET, 2008. Nella silloge curata da Isnenghi e cecchinato è palese la finalità di superare positivamente la retorica della “morte della patria”, con l’incentrare viceversa l’attenzione sulla “nascita” della nazione, che viene narrata attraverso sottosezioni intitolate rispettivamente agli “attori sociali”, ai “personaggi e alle figure” di maggiore spessore, ai “luoghi” e, infine, alle “immagini, rappresentazioni, percorsi”. per quanto riguarda la revisione della storiografia risorgimentale il discorso sarebbe estremamente ampio, ma cfr. almeno m. clark, Il Risorgimento italiano: una storia ancora controversa (1998), milano, Rizzoli, 2001; R. martucci, L’invenzione dell’Italia unita. 1855-1864 , Firenze, Sansoni, 1999. 29. Nell’ambito della storia delle dottrine politiche si è cercato di applicare per quanto possibile alcune direttive analoghe, cfr. c. malandrino, Tra “pensiero-discorso” e “nuova retorica”: un metodo e un possibile risultato per la storia del pensiero politico, in E. Guccione (a cura di), Strumenti didattici e orientamenti metodologici per la storia del pensiero politico, Firenze, Olschki, 1992; pagg. 117-125. In c. malandrino, Da Machiavelli all’Unione Europea. Profilo antologico del pensiero politico moderno e contemporaneo, Roma, carocci, 2003, si è collegato l’insegnamento filologico di maestri come L. Firpo e del metodo di Q. Skinner e J. G. A. pocock, che hanno considerato la storia del pensiero politico come “storia di un’attività umana isolabile e continua”, che diventa un “discorso” storico-processuale rispettoso, da un lato, dei rapporti tra teoria e storia politica, sociale e delle istituzioni e, dall’altro, attento all’ermeneutica del testo politico. In tale concezione assume importanza centrale l’organizzazione del pensiero politico nella griglia sequenziale “contesto-discorso-parola-testo” e l’analisi morfologica di tali componenti. 30. cfr. A.m. Banti, p. Ginsborg, Per una nuova storia del Risorgimento, cit.; pag. XLI. 31. Ibidem. 32. cfr. A.m. Banti, Sublime madre nostra, cit.; pagg. VII-VIII. 33. con l’insistere prevalentemente sulle forme culturali dell’analisi morfologica si finisce talvolta per dimenticare la necessità di una revisione di talune ricostruzioni storico-politiche arbitrarie che danno voce ancora a leggende o a condanne stereotipate, come accade in taluni casi per esempio a Rattazzi. Si prenda a mero titolo esemplificativo, senza aver la pretesa di

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ridurre l’obiezione a simili piccolezze, l’infortunio in cui incorre I. marra pascual Sastre, La circolazione di miti politici tra Spagna e Italia (1820-1880), in Il Risorgimento, Annali 22, Storia d’Italia, a cura di A. m. Banti e p. Ginsborg, cit.; pag. 805, dove sta scritto: “come il medico Urbano Rattazzi, padre dell’omonimo politico che […]”. Quel Rattazzi non solo non era il padre del più famoso statista Urbano, ma era un lontano parente di quarto o quinto grado… ma tant’é. 34. A.m. Banti, Sublime madre nostra, cit.; pag. VIII. 35. Al paradigma “tedesco” Banti si collega tramite il richiamo a mosse.

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Fratelli d’Italia? A proposito del rapporto tra cattolici e Unità nazionale.

Tra  i  temi  legati  all’anniversario  dei  centocinquant’anni  d’Italia, emerge – non secondario – il rapporto tra cattolici e unità nazionale. Il presente contributo si propone in una prima parte (Il risorgimento e i cattolici, tra storia e politica) di riassumere alcuni tratti essenziali del tema che investono il rapporto tra ricerca storica e uso politico della storia, mentre nella seconda parte (Lo scenario e la percezione attuale)  propone alcune riflessioni sul rapporto tra identità cattolica e identità nazionale, nell’attuale contesto politico-culturale e nella percezione diffusa dei cattolici italiani.   percezione di una identità che – è opportuno precisarlo in premessa – è in complesso piuttosto debole, ma non irrilevante; certo non univoca, ma con segni di vivacità;  alquanto condizionata da una lettura “politica” più che orientata da un magistero ecclesiale; magistero peraltro presente su questo tema con notevole chiarezza e coerenza  1, ma la cui eco sui media  risulta molto limitata e la sua applicazione pastorale assai diversificata. Una seconda nota di premessa riguarda il metodo e la scelta della prospettiva: un metodo storico corretto sollecita a non ridurre la questione del rapporto tra cattolici e processo di unificazione alla questione – pur molto rilevante – dei rapporti tra chiesa e Stato (preunitario, in particolare il Regno di Sardegna, e poi unitario), ma alla relazione tra “mondi cattolici” e identità nazionale, tra società e costruzione unitaria. Infatti, l’opposizione politica del papato al nuovo Stato non si identifica con il “sentimento e l’azione di molti credenti” 2.

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Vittorio Rapetti, Fratelli d’Italia? Cattolici e Unità nazionale

Vittorio Rapetti


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1. Il risorgimento e i cattolici, tra storia e politica 1.1 Corsi e ricorsi Nel corso di questi centocinquant’anni, il Risorgimento e la nascita dello Stato italiano hanno suscitato molteplici giudizi, anche contrastanti: le diverse interpretazioni sono state da un lato frutto di intense stagioni di studi storici, dall’altro motivo presente nelle ideologie politiche e nei frangenti più cruciali della storia patria: la prima guerra mondiale, il fascismo, la Resistenza e la costituzione. Al punto che, in più occasioni, si è impiegata l’espressione “secondo Risorgimento” o si sono richiamate “continuità” tra passato e presente, tra figure e momenti dell’Ottocento e temi di attualità 3. E non manca chi – proprio da un punto di vista cattolico – oggi parla di un “nuovo Risorgimento” necessario per risollevare le condizioni etiche e politiche della nazione:

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La memoria dei padri fondatori del Risorgimento, da quelli più strettamente politici a quelli, non meno importanti, culturali e spirituali, ci può aiutare oggi a rintracciare, nella storia lunga del nostro paese, le linee culturali e morali capaci di resistere alla barbarie di alcuni degli attuali esponenti della politica e al servilismo dei loro cortigiani intellettuali. Senza mitizzare quelle generazioni dell’Ottocento, come non rimarcare in essi un senso alto della cosa pubblica, un’attenzione a non divaricare più di tanto vita pubblica e vita privata, una capacità di indignarsi e di suscitare la giusta indignazione, e tutto ciò senza il sostegno di un’opinione pubblica? O non è forse proprio nell’anomalia della formazione dell’opinione pubblica, a causa della commistione tra proprietà dei media e cariche politiche e di governo, dei conflitti di interessi così giganteschi da non apparire reali, della bugia assurta a strumento normale e ordinario dell’esercizio del potere, che risiede la vera e più profonda causa dell’attuale degrado italiano? 4.

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Insomma, non è la prima volta che il Risorgimento viene utilizzato tanto nella riflessione educativa quanto nel dibattito politico e diviene oggetto di discussioni, anche polemiche. La critica alla “conquista” piemontese e al debole senso di “italianità” di gran parte delle popolazioni della penisola già presente nei primi decenni post-unitari e la satira verso l’Italietta giolittiana, trovano un superamento  solo  nel  massacro  della  prima  guerra  mondiale  (da  molti considerata la prima effettiva esperienza popolare “nazionale”), e poi nel nazionalismo fascista, che spinge al massimo sulla retorica patriottica. Nel secondo dopoguerra, proprio il desiderio di respingere il nazionalismo militarista e aggressivo tipico del regime mussoliniano, e il contemporaneo inserimento nel processo di integrazione europea conducono a una riduzione della retorica sull’identità nazionale, data in larga misura per scontata e poco coltivata anche sul piano scolastico ed educativo. Tema cruciale è piuttosto la lenta attuazione della costituzione, in particolare a riguardo della istituzione delle regioni a statuto ordinario, che prendono avvio solo a metà degli anni Settanta. peraltro, intorno agli anni Sessanta si riapre un’intensa stagione di studi storici che – liberati dall’immediatezza della polemica politica – conducono a nuove e più profonde acquisizioni sul Risorgimento.  Un rapido excursus sulle diverse interpretazioni storiografiche del Risorgimento e sullo sviluppo della ricerca storica può aiutare a meglio collocare le discussioni attuali.

1.2 Storiografia e costruzione dell’identità Il termine Risorgimento viene utilizzato prima nel campo dell’arte e della cultura tra fine Settecento e inizio Ottocento; in particolare con Alfieri e Foscolo e poi con manzoni si prospetta la possibilità di una rinascita culturale e politica della nazione italiana. Lo stretto rapporto tra Romanticismo (e riscoperta della storia e cultura nazionale) e Risorgimento politico contribuisce alla diffusione delle idee liberali e democratiche presso la borghesia italiana. Le “glorie” della letteratura e dell’arte

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italiana dal medioevo al Rinascimento sono accostate ai momenti della storia politica nei quali si può rintracciare un segno dell’identità italiana (dall’epoca romana a quella dei comuni) e uno stimolo a riprendere coraggio e orgoglio nazionale: unità e indipendenza divengono quindi le parole d’ordine di gran parte dell’Ottocento, orientando il consenso verso il processo politico di unificazione. L’idea di nazione e il “discorso nazionale” si impongono in Italia lungo il XIX secolo includendo non pochi elementi  di  carattere  religioso  –  sia  in  termini  generici,  sia  con  specifici riferimenti al cristianesimo – che tutti accomunano nella “santa causa” nazionale, la cui forza è peraltro riposta in soggetti molto diversi: principalmente “il popolo” per mazzini, le aristocrazie locali e il papa per Gioberti, la monarchia sabauda per D’Azeglio 5.  Tutte le diverse forze politiche ottocentesche assumono la doppia prospettiva unità-indipendenza, mentre l’esperienza della prima guerra mondiale  conduce  ad  assumere  esplicitamente  il  “valore  di  patria”  anche formazioni politiche nuove, come quelle socialiste e cattoliche, meno legate al mondo risorgimentale (e sovente in contrasto con le classi dirigenti liberali che avevano guidato il Risorgimento).  Il senso dell’unità nazionale passa sostanzialmente indenne nella bufera della Seconda guerra mondiale,  della  Resistenza  e  del  passaggio  dal  sistema  monarchico  a quello repubblicano. Unità e indivisibilità della nazione sono sanciti dalla costituzione all’art. 5, né vengono messe in discussione da alcuna forza politica (salvo movimenti separatistici di dimensione locale), fino all’affermazione della Lega Nord negli Novanta. Già negli ultimi decenni dell’Ottocento, raggiunte le prime tappe dell’unificazione e portata a Roma la capitale, si avvia anche la costruzione di un vero e proprio mito risorgimentale, con i suoi eroi politici (cavour, Garibaldi, mazzini) e culturali (manzoni, Verdi). L’esigenza di costruire un’identità nazionale e un senso di appartenenza allo Stato è ben presente agli artefici del Risorgimento, ma gli ostacoli sono ardui e conducono anche a notevoli forzature, come quella di associare a un progetto comune personalità che si erano battute con prospettive assai diverse, se non conflittuali. Al punto da associarvi lo stesso papa pio IX, oggetto peraltro di una pesante polemica anticlericale anche durante i suoi funerali!

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Infatti, alle divisioni e disparità che da secoli caratterizzano l’Italia, alla oggettiva complessità dell’unificazione economica e amministrativa, alla problematica comunicazione con masse – specie nelle campagne – prive di qualsiasi istruzione, si sovrappone dopo il 1870 la spaccatura tra gerarchia cattolica e nuovo Stato intorno alla cosiddetta “questione romana”. Lo spostamento della capitale a Roma coglie un obiettivo decisivo (non solo simbolico) per gli artefici del Risorgimento, ma implica uno scontro con la chiesa. La fine dello Stato pontificio, anche per le modalità militari con cui si realizza, induce la dura presa di posizione del papa pio IX, che – dichiaratosi “prigioniero in Vaticano” – dispone per i cattolici italiani il non expedit, secondo la formula “né eletti, né elettori” (già elaborata nel 1864), portando lo scontro al massimo livello e riflettendolo su tutta la comunità nazionale e internazionale. Si alimenta così, negli ultimi decenni dell’Ottocento, un circolo vizioso di forti polemiche clericali/anticlericali, che si accompagnano a provvedimenti – anticipati dalla legislazione  piemontese  degli  anni  cinquanta  promossa  in  piemonte  da Rattazzi e Siccardi – che toccano beni e strutture della chiesa in Italia (proprietà ecclesiastiche e degli ordini religiosi), aspetti giuridici (come l’abolizione del foro ecclesiastico e l’exequatur per l’insediamento dei vescovi), ma anche ambiti propriamente religiosi ed ecclesiastici (come la soppressione dei Gesuiti e poi la chiusura di altre comunità contemplative, di conventi e seminari) e culturali (la soppressione delle facoltà di teologia presso le università italiane nel 1873); provvedimenti che concorrono a irrigidire una contrapposizione tra Stato e S.Sede  6, già sperimentata a partire dal 1849-50 tra chiesa e Regno di Sardegna 7. La politica ecclesiastica dei governi piemontesi e poi di quelli unitari certo era alimentata da una reazione al peso – nella società del tempo – della presenza clericale, in genere fortemente anti-illuminista  e ostile alle aperture liberali, perciò incline a “fare blocco” con la visione reazionaria e aristocratica, ma nel contempo anche assai radicata tra i ceti popolari, specie rurali. per contro, ciò che ispira tale legislazione appare non tanto il pensiero liberale classico della distinzione tra piano politico e piano religioso, quanto una impostazione che intende ricondurre allo Stato tutte le espressioni della socialità e a delimitare la libertà religiosa

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all’ambito della coscienza personale. Una tendenza che si ritrova nella stessa formula cavouriana “libera chiesa in libero Stato”, ambigua proprio a causa di quella particella “in” (ben diversa da quanto enuncia l’art. 7 della costituzione repubblicana “Lo Stato e la chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”). proprio questa ambiguità poneva la chiesa in una situazione quasi paradossale: la religione cattolica  aveva  il  massimo  riconoscimento  come  “la  sola  religione  di Stato” (art. 1 dello Statuto Albertino), ma lo Stato si riservava il diritto di intervenire nella nomina dei vescovi, nello svolgimento delle processioni, di decidere quali ordini religiosi potessero operare, eccetera  8. È perciò comprensibile che si generasse una controreazione della chiesa, con tanto di scomuniche e anatemi, ben espressa nel Sillabo di pio IX, anche se di fatto questo atteggiamento non condusse a risultati significativi né per la chiesa, né per lo Stato, per un verso alimentando ancor di più l’anticlericalismo e per l’altro spiazzando la componente cattolica favorevole a una “conciliazione” 9. Infatti, la diffusione dell’“opposizione cattolica” non deve far dimenticare almeno due fenomeni: molti cattolici (e non pochi sacerdoti e chierici) partecipano al movimento risorgimentale, specie nelle regioni del nord Italia, guardando con simpatia al progetto neo-guelfo, o comunque esprimendosi contro la restaurazione e a favore di riforme in senso liberale e sostenendo la lotta per l’indipendenza dall’Austria  10; in secondo luogo, sono numerosi gli uomini politici della classe dirigente liberale che si professano cattolici, unendo la pratica religiosa all’impegno per la laicità dello Stato. Emblematica l’elaborazione del movimento neo-guelfo promosso da Vincenzo Gioberti e così la figura del piemontese cesare Balbo,  che  concepisce  la  sua  partecipazione  al  Risorgimento  come l’espressione di un impegno cristiano mediato da una cultura di tipo liberale  11. Si può considerare che la stessa presenza di intellettuali cattolici all’interno del movimento risorgimentale abbia attutito l’impatto della mentalità di stampo positivistico e antireligioso presente e operante nell’Ottocento. In ogni caso maurilio Guasco segnala come “il conflitto tra Stato e chiesa agli albori dell’Italia unita è noto; meno conosciuti i tentativi dei cattolici di superarlo” 12.

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Nei decenni intorno all’Unità, dunque, nel mondo cattolico affiorano due filoni: uno conservatore e “intransigente”, l’altro che mira a un dialogo con il liberalismo, detto “conciliatorista” o “liberale”: in gioco non è solo la questione del potere temporale del papato, ma la concezione giuridica, il rapporto con la modernità, la percezione della questione sociale. L’intreccio è complesso, in quanto – ad esempio – nel filone intransigente è presente non solo la dinamica di difesa del papato e del potere temporale, ma anche un netto contrasto alla visione liberale con motivazioni di carattere sociale, per un giudizio negativo verso il progresso industriale, che porterebbe con sé la combinazione di due gravi “pericoli”: il capitalismo e il socialismo. I due filoni – schematicamente indicati come “reazionario” e “liberale” e poi come “conservatore” e “progressista” o “democratico” – attraversano la polemica antimodernista a cavallo tra XIX e XX secolo, e – in forme diverse – riemergono lungo il corso del Novecento fino ai giorni nostri. Anche per la presenza di questa conflittualità interna alla comunità nazionale, l’esigenza di costruire l’identità italiana si rende ancor più marcata. I simboli dell’unità diventano parte della vita ordinaria di città e paesi (tricolore, toponimi, monumenti, celebrazioni, eccetera),  della educazione scolastica nella neo-nata scuola elementare obbligatoria (libri di testo e di lettura); della rievocazione storica di momenti e personaggi “italiani” vissuti nelle epoche precedenti (antica Roma, epoca dei comuni, battaglia di Legnano, pontida, Vespri siciliani, pier capponi, pietro micca, Balilla, …) o nelle battaglie risorgimentali. Nel contempo, attraverso l’organizzazione di un esercito nazionale di leva, della presenza capillare dei carabinieri, della rete ferroviaria nazionale, della moneta unica e della banca nazionale, dell’ampliamento del suffragio elettorale, l’identità italiana diviene gradualmente patrimonio di massa e non più solo consapevolezza di una élite borghese, seppur piuttosto ampia. Su questo si innesta un processo di reinterpretazione della storia italiana come movimento di unificazione e identificazione nazionale, che esalta i tratti unitari rispetto alla comprensione delle diversità di progetti e posizioni. L’unificazione nazionale è vista come compimento di un “destino” antico (quasi provvidenziale, in cui le divergenze convergono al comune obiettivo), legato alla romanità e alla cristianità; processo che finalmente

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recupera all’Italia una identità/dignità nel consesso internazionale ed insieme fattore di modernità nel campo delle istituzioni politiche e culturali e in quello socio-economico 13. Allo stesso tempo si esalta il mosaico di municipalità e tipicità regionali, di paesaggi e di costumi, come componenti di un unico disegno; così, attraverso una rudimentale ma efficace etnografia, gli edifici monumentali e le maschere, i cibi e i mestieri sono ricompresi quali tratti di una poliedrica identità italiana, “l’Italia delle cento città e dei mille campanili” 14. L’impresa è complessa, lo sforzo notevole lungo gran parte del Novecento e – specie grazie all’istruzione di base – il risultato è ampiamente positivo. Tale  processo viene accentuato nel primo dopoguerra dal fascismo in chiave fortemente nazionalistica: anche se in funzione di una “politica di potenza”, ben distante dagli ideali risorgimentali, i miti patriottici sono ampiamente utilizzati dalla propaganda del regime. D’altra parte, il Risorgimento resta patrimonio anche dell’antifascismo (soprattutto di una parte, quella azionista e liberale). E non a caso il tema della “patria” è fortemente presente nella Resistenza (per molti partigiano è uguale a patriota), ma anche nell’associazionismo cattolico, che si è organizzato evidenziando proprio la dimensione nazionale e “centrale” intorno al papa. mentre già dall’inizio del Novecento il movimento cattolico si era candidato a svolgere un ruolo di primo piano in campo sociale e politico – superando nei fatti il non expedit – , il concordato del 1929 prima e l’art.7 della costituzione repubblicana poi, chiudono in modo definitivo la “questione romana”, segnando un passaggio cruciale dell’unità nazionale.  Di fatto – anticipata dall’associazionismo cattolico di fine Ottocento – a partire dal primo conflitto mondiale la sovrapposizione tra identità cattolica e identità nazionale diviene sostanziale. Anche se clericalismo e anticlericalismo restano componenti permanenti nella società italiana, le due identità tendono a rafforzarsi a vicenda durante il fascismo. Il connubio “trono-altare” di matrice moderna, trova una nuova e diversa versione nella società di massa del XX secolo, divenendo una componente della cultura diffusa degli italiani.

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Il dibattito sul Risorgimento aveva registrato nell’Ottocento una discussione molto accesa, intorno ai tre principali filoni politico-culturali, che ispirano i relativi progetti politici per l’unità e indipendenza: un primo filone è quello democratico-moderato, sia di stampo laico-repubblicano con una impronta federalista unitaria (cattaneo), sia di stampo cattolico-monarchico di tipo confederale (Gioberti), con un ruolo decisivo per il papa e un chiaro richiamo alla visione “guelfa” del rapporto chiesaStato; un secondo filone è quello democratico repubblicano a forte connotazione  sociale  e  popolare  (mazzini);  un  terzo  filone  è  quello liberal-democratico moderato/conservatore a orientamento monarchico (Balbo, D’Azeglio, cavour). progetti diversi e sovente conflittuali. La collocazione dei cattolici che propendono all’unificazione non è definita in uno schieramento specifico, segnala però una divisione piuttosto netta tra quanti sostengono l’unità d’Italia e quanti sono contrari alla fine dello Stato pontificio e del potere temporale del papa. In ogni caso registra un cambiamento in relazione al mutato atteggiamento (o parso tale) di pio IX, in particolare per le vicende del 1848-49 (specie in riferimento alla Repubblica romana) e poi lungo gli anni cinquanta e Sessanta (in rapporto alle leggi sabaude e poi italiane, giudicate “eversive”).  Dagli stessi protagonisti di tali progetti sono venute le prime diverse letture del Risorgimento e alcune specifiche sottolineature, in particolare: il ruolo decisivo del piemonte e di casa Savoia,  la limitata partecipazione delle masse popolari alla lotta contro i sovrani filo-austriaci, il ruolo decisivo della strategia di cavour, l’appoggio di Francia e Gran Bretagna, l’incidenza delle idee della rivoluzione francese sul Risorgimento.  In generale non viene discusso il senso complessivo del processo di unificazione, quanto le modalità con cui si è realizzato: gli studiosi – non solo meridionali – sottolineano in termini negativi la “piemontesizzazione” dell’Italia e l’affermazione di uno Stato fortemente centralista, i diversi episodi che contraddicono gli “ideali” risorgimentali (dalla vicenda di Bronte al fenomeno del brigantaggio, dalla mancata riforma

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1.3 Le diverse letture del Risorgimento


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agraria ai progetti coloniali, eccetera). D’altra parte, si nota come un regime monarchico (con un solo re) difficilmente sarebbe stato compatibile  con  un  sistema  federale.  I  progetti  di  costituire  uno  Stato repubblicano (sia quello di mazzini, sia quello di cattaneo) si scontravano tanto con la loro difficile diffusione a livello popolare, quanto per la preponderanza della concezione monarchica in gran parte della popolazione, in molte zone del paese. Le modalità con cui avviene la presa di Roma accentuano nel campo cattolico, per almeno un paio di decenni, un atteggiamento di forte polemica verso il nuovo Stato italiano: clericalismo e anticlericalismo si sollecitano a vicenda in una escalation polemica,  che  pone  in  difficoltà  i  cattolici  liberali;  sarà  la  diffusione  del cattolicesimo sociale a spostare i termini del dibattito, lasciando sopito (ma non risolto) il nodo culturale del rapporto con la concezione liberale, oltre che il contenzioso della soppressione violenta dello Stato pontificio. Tra la fine dell’Ottocento e il periodo fascista l’interpretazione che prevale è quella dell’unità raggiunta grazie alla conquista regia dei Savoia e a un accordo tra due componenti (quella sabauda e quella democratica) che separatamente non avrebbero potuto raggiungere l’obiettivo. Da parte cattolica e socialista, con Sturzo e Salvemini si segnalano i riflessi negativi del centralismo, la scarsa attenzione alla dimensione sociale e alla questione meridionale; d’altra parte gli studiosi fascisti come Volpe considerano la “conquista regia” e la centralizzazione come la positiva tappa di un processo che trova compimento proprio nel fascismo. Viceversa, studiosi liberali come Gobetti la giudicano come una rivoluzione fallita, nella quale le classi dirigenti liberali non avrebbero saputo dare risposta alle esigenze delle masse, né porre le basi per una effettiva democrazia, aprendo così le porte al fascismo. Gramsci e gran parte degli storici marxisti esprimono un giudizio molto critico verso lo Stato liberale,  segnalano la debolezza di una prospettiva democratica e la mancanza di un partito in grado di guidare una riforma sociale, specie in agricoltura (la rivoluzione agraria mancata). Secondo questa interpretazione, i liberali moderati avevano avuto la meglio perché capaci di rappresentare gli interessi omogenei della grande e media borghesia, rurale e urbana, mentre i liberal-democratici non erano riusciti a interpretare le esigenze delle classi

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più povere, in particolare i contadini, rimanendo così tagliati fuori anche dal processo successivo.  Al contrario dei precedenti, altri studiosi di ispirazione liberale – come Omodeo e croce  e, successivamente, chabod e Romeo – hanno inteso il Risorgimento come un processo positivo interrotto proprio dal fascismo: una “storia di libertà” ben gestita dalla minoranza liberale in una situazione in cui non era possibile un protagonismo delle masse, né realizzabile il progetto di una democrazia rurale, specie nel sud Italia; una storia in cui il fascismo  ha  rappresentato  una  rottura  che  –  spazzando  via  le  istituzioni liberali – ha condotto a un autoritarismo populistico, a uno Stato totalitario in cui l’individuo è privato delle sue libertà civili e politiche.  Affiora, infine, in queste diverse letture del processo risorgimentale il nodo della rappresentanza politica, che almeno fino al suffragio universale maschile del 1912 (e di fatto al 1919) restò saldamente in mano alle classi dirigenti liberali. L’interesse degli storici nel secondo dopoguerra si è orientato allo studio di altri aspetti del processo di unificazione nazionale, riguardanti la storia demografica, economica, culturale, il ruolo degli intellettuali, la costruzione del consenso, gli aspetti antropologici ed educativi, le vicende dell’emigrazione, fino alla storia costituzionale e amministrativa. Inoltre, la storia del Risorgimento viene meglio inquadrata nel rapporto tra l’Italia e l’Europa, evidenziando le connessioni tra il processo di formazione dell’unità italiana e le trasformazioni in atto su scala continentale, in particolare le rivoluzioni borghesi e liberali che hanno investito buona parte dell’Europa centro-occidentale, pur con le connotazioni proprie di ciascuna nazione.  Nell’insieme di queste interpretazioni il fattore religioso e il contributo dei cattolici alla formazione dell’Italia è considerato in modo limitato e soprattutto sotto il profilo della questione romana, in alcuni autori anche per il rapporto tra civiltà italiana e “civiltà cristiana”, in altri per l’influenza del cattolicesimo sulle masse popolari.

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1.4 Unificazione italiana e “movimento cattolico” Tra gli anni Sessanta e la fine del Novecento si registra un’importante fioritura di studi sul rapporto cattolici, Stato e società italiana:  un’ampia schiera di storici tra cui monticone, martina, margiotta Broglio, De Rosa, Scoppola, Traniello, moro, Riccardi,  mozzarelli, piva, malgeri, Jemolo, Spadolini, Guasco, campanini, casella, canavero, Gariglio, Borzomati,  Veneruso,  Vanzan,  Rumi,  Formigoni,  Dotta,  preziosi, Giovagnoli, Trionfini illustrano i modi in cui i cattolici hanno contribuito alla formazione della coscienza nazionale e civile in Italia, passando dalla marginalità alla centralità: a partire dallo sviluppo di un “movimento cattolico” attivo sul versante sociale economico culturale e religioso. Un movimento che assume già a fine Ottocento i connotati di una “rete” nazionale, che si irrobustisce nel primo Novecento e che tenta il terreno dell’organizzazione politica con la Dc di murri; segue l’impegno dei cattolici  italiani  nel  corso  della  prima  guerra  mondiale,  tanto  al  fronte quanto nel servizio sociale e assistenziale di retrovia; quindi la breve ma intensa stagione del partito popolare di Sturzo e del sindacalismo cattolico del primo dopoguerra, stroncati dall’avvento del fascismo.  La stagione del primo Novecento ripropone la compresenza di due filoni nel mondo cattolico, quello orientato al blocco clerico-moderato che in parte finirà per appoggiare il fascismo, e quello più convintamente democratico e attento alla dimensione sociale, sia sul versante contadino che  operaio.  Quest’area,  in  gran  parte,  confluisce  nell’esperienza  dell’Azione cattolica, quando mussolini liquida ogni forma di partecipazione democratica e pluralistica nella società italiana. L’Ac, negli anni del regime fascista, resta l’unica realtà educativa e culturale che mantiene una qualche autonomia e conserva un collegamento su scala nazionale e regionale. Si alimenta così la formazione di una classe dirigente che muove i primi passi nella lotta di liberazione e nell’impegno nella Dc, nella cISL, nelle associazioni culturali e di categoria che si affiancano all’AcI,  alle AcLI e all’AGEScI nel secondo dopoguerra.  Rispetto al nazionalismo razzista del fascismo, i cattolici contribuiscono alla formazione di una coscienza  nazionale  democratica  e  aperta  alla  dimensione  europea,  dal

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sostegno alla Resistenza alla partecipazione attiva alla vita della nuova repubblica.  A soli cinquant’anni dal periodo in cui erano di fatto esclusi della vita politica italiana, i cattolici si candidano alla guida del paese. così, nel secondo dopoguerra,  dagli anni della costituente a quelli del centro-sinistra i cattolici italiani acquistano un ruolo centrale – a tratti egemonico – nella vita politica e sociale, nazionale e locale, dando un contributo determinante all’opera di riforma democratica del paese e al suo inserimento nel processo di costruzione europea, pur incontrando ricorrenti difficoltà nella comprensione e gestione dei processi di modernizzazione socio-ecomonica ed etico-culturale. Difficoltà che avranno parte non secondaria nel successivo declino della  Dc e dell’influenza politica dei cattolici in Italia tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento 15. Negli ultimi anni sono apparsi, inoltre, nuovi studi intorno al “carattere” degli italiani e alla difficoltà del processo di costruzione dell’identità  nazionale  italiana,  schiacciata  tra  un  imponente  passato  (la Roma dei cesari e quella dei papi), la debole e squilibrata modernizzazione socio-economica, la recente e quindi fragile costruzione di istituzioni statali capaci di sollecitare la crescita di una coscienza civile e di una “mentalità” nazionale. Discussione che più di recente è stata ricondotta anche al contrastato rapporto tra cattolici e modernità, oltre che alla riflessione sulla crisi del modello di Stato nazionale che serpeggia in Europa, stretta tra spinte separatiste e localiste e processi di integrazione sovranazionale.

1.5 Il dibattito attuale: perché una nuova polemica sul Risorgimento? E proprio in tale contesto,  si è riaperto in Italia il dibattito, in particolare su due questioni che toccano da vicino il valore dello Stato unitario:  il rapporto tra identità nazionale e identità locale; il rapporto tra Risorgimento e chiesa e il ruolo dei cattolici nel processo di identità nazionale. Vengono così riprese e rivisitate le critiche al processo unitario, evidenziati i motivi della mancata affermazione del progetto federalista

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di cattaneo, rimarcata la natura “non popolare” del Risorgimento, frutto dell’opera di una minoranza e di una fortunosa serie di coincidenze internazionali.  Da parte di studiosi come Viglione e pellicciari sono così riproposte le questioni riguardanti le legislazioni piemontesi e poi italiane a proposito dei beni ecclesiastici e degli ordini religiosi, leggi che esprimono una visione laicista dello Stato sostenuta da un marcato anticlericalismo: da ciò essi ricavano un giudizio radicalmente negativo sul processo risorgimentale inteso come movimento anticattolico, complotto contro la chiesa e contro la fede, come “guerra civile” e soffocamento dell’autentica identità italiana; un movimento che viene collegato con quanto già si era manifestato  con  l’invasione  di  Napoleone  in  Italia  e  la  reazione  ad  essa, attraverso le “insorgenze” antifrancesi: una opposizione che questi autori definiscono “controrivoluzione cattolica e monarchica” 16. Questa forma di revisionismo radicale si propone uno scopo militante:  sostenere il recupero della “cristianità”; mentre sul piano ecclesiale rifiuta il concilio Vaticano II, sul piano storico politico è a favore dell’Unità ma contro il Risorgimento. A tale prospettiva storiografica si appoggiano una serie di iniziative volte al recupero di una memoria considerata del tutto misconosciuta, quella dei “vinti del Risorgimento” e la riscoperta della identità cattolica italiana 17. La riapertura della polemica sul rapporto tra cattolicesimo italiano e Risorgimento suscita però non pochi motivi di perplessità e ci pare legata non tanto a uno sviluppo della ricerca storica, quanto all’uso politico-ideologico della storia stessa. In effetti, nel corso degli ultimi due decenni, l’interesse per la storia sovente è parso molto legato a esigenze squisitamente politiche e – per quanto riguarda il mondo cattolico – volte a rivitalizzare contrasti interni, che si ritenevano superati. perciò appare di rilievo il richiamo diretto del presidente dei vescovi italiani a proposito dell’uso politico  della  storia,  espresso  proprio  nel  contesto  della  riflessione  sul centocinquantenario: “una matura e critica coscienza storica sa comporre passione e distacco critico […] alimenta una misura alta di concordia civile e l’esercizio condiviso della responsabilità per il bene comune. […] L’unica cosa che dobbiamo temere è una cattiva ricerca storica, una propaganda

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ideologica – di qualsiasi segno – spacciata per verità storica” 18. Un richiamo che coglie nel segno non solo un rischio ricorrente nella storia (di interpretazioni ideologiche vi sono tracce evidenti in tutto il secondo dopoguerra), ma una situazione specifica e attuale.  Sovente, infatti, nella recente discussione, la ricerca storica seria è stata messa in un angolo dalla propaganda, al sano revisionismo tipico del processo storiografico si è sovrapposta una “riscrittura” fatta di parzialità e di motivi polemici, tesa a ridare una legittimità  al fascismo e segnatamente alla repubblica di Salò, a svilire il significato della Resistenza, a mettere in discussione il valore della costituzione del 1948.  Un uso politico della storia sovente diretto ed esplicito, al punto che lo stesso capo del governo ogni tanto distribuisce “pillole storiche” e istruzioni di ricerca e lettura, proponendo “riletture” talora anche imbarazzanti per la stessa destra: mussolini considerato un grande statista, la ridicolizzazione della persecuzione antifascista ridotta a “villeggiatura”, l’equiparazione dei repubblichini di Salò ai partigiani, la costituzione considerata “sovietica”, eccetera, oltre a espliciti appoggi e alleanze con personaggi politici che si ispirano direttamente al regime fascista. Inoltre, proprio nel corso del 2010-11, la freddezza, le polemiche o la presa di distanza dai momenti celebrativi dell’identità nazionale di rappresentanti delle istituzioni e la scarsa reattività a questi episodi segnalano un indebolimento complessivo dell’identità nazionale, almeno per quanto riguarda i passaggi simbolici; anche se resta da verificare se a tale indebolimento corrisponde un rafforzarsi del senso di appartenenza locale e regionale. Nel frattempo, almeno negli ultimi venti anni, si è sviluppato un processo che – seppur lentamente e tardivamente – ha restituito una visione della Resistenza e dell’immediato secondo dopoguerra meno ideologica e retorica,  più articolata e complessa, portando in miglior evidenza – tra l’altro – il determinante contributo offerto proprio dal cattolicesimo (ed in particolare dalle organizzazioni del laicato cattolico e dal clero).  ma tale processo di ricerca e revisione storiografica e di seria divulgazione – che sovente si è trasferito anche nei momenti celebrativi, come nel caso del 25 aprile, della giornata della memoria, del 2 giugno – è stato appunto spiazzato dalla diffusione di una versione semplificata di

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fatti e fenomeni storici, versione di facile comprensione, ma di evidente motivazione politico-ideologica.  Il gioco, in fondo, è stato semplice: incrinare e sminuire quei “miti fondativi” della nostra repubblica, così da poterli sostituire con altri, magari frutto di un mix di elementi nuovi e di altri ripescati in modo un po’ disinvolto dalla tradizione pre-nazionale. Questa elaborazione ideologica serve non tanto a “riscrivere” la storia in modo più corretto e rispettoso del passato, ma a fornire una “base culturale” a nuovi progetti politici. Tali progetti tendono a ridurre il valore dello Stato nazionale e sono anche fortemente critici rispetto al processo di unificazione europea; valorizzano per contro le potenzialità del federalismo, le ipotesi secessionistiche e la chiusura nella dimensione localistica. Va in questa direzione l’opera di costruzione della “padania” o – più di recente – i tentativi di ricostruzione di una “identità meridionale”, il recupero delle nostalgie legittimiste delle dinastie reali (dai Savoia ai Borbone). A ciò si collega ormai da diversi anni, anche se in maniera meno evidente, la discussione sul Risorgimento e sul processo di unificazione italiana  e  ancor  prima  il  contrasto  tra  rivoluzione  francese,  occupazione napoleonica e lotta contro il cattolicesimo; in questo quadro viene collocato il rapporto tra cattolici e costruzione dello Stato nazionale.  Tale discussione che ha ripreso notevole forza proprio in occasione del centocinquantesimo dell’unità italiana ed ha reso più evidente la saldatura tra il primo filone (rivalutazione del fascismo e critica alla Resistenza per sostenere la revisione della costituzione) e il secondo filone (critica alla rivoluzione francese e all’illuminismo, critica al Risorgimento e riproposta del conflitto Risorgimento/chiesa per “diminuire” il valore dell’unità nazionale). Si tratta di saldature piuttosto singolari ed eterogenee: tra quanti considerano negativa l’unificazione perché avrebbe danneggiato il Nord e quanti la considerano male perché avrebbe colonizzato e distrutto la tradizione del Sud; tra quanti assumono la posizione dei cattolici “intransigenti” di fine Ottocento riproponendo la teoria del complotto massonico ai danni della chiesa e della religione e quanti vedono nel Risorgimento il germe del nazionalismo fascista; tra quanti rivalutano i Savoia, anche a dispetto delle disposizioni costituzionali, e quanti  li demonizzano come  nemici del papato,

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barbari oppressori del Sud, conquistatori e usurpatori di regni governati da altre dinastie “legittime”.  Unisce queste diverse ispirazioni il tentativo di demolizione  del Risorgimento, che – anche sotto questo profilo – giustificherebbe una messa in discussione della struttura attuale dello Stato nazionale. Le polemiche – sovente al limite dei vilipendio – dei simboli dell’unità nazionale, come l’inno e la bandiera, pur apparendo a volte folcloristiche, hanno avuto un impatto mediatico forte e contribuito a mettere in discussione tratti nazionali considerati “sicuri”.  Nel dibattito sulla revisione costituzionale, in particolare è stato posto in crisi l’equilibrio indicato dai padri costituenti circa il rapporto tra Stato centrale/autonomie locali/istituzione delle regioni. Un equilibrio che – se posto in essere –  rappresenta un reale superamento del centralismo statale tipico dello Stato monarchico uscito dal Risorgimento, senza compromettere l’unità nazionale, anzi legandola a un miglior radicamento sui territori.  In questo senso le polemiche – anche storiografiche – sul valore dell’unità italiana appaiono funzionali a un disegno politico il cui vero obiettivo  è  la  modifica  dei  principi  fondamentali  della  costituzione repubblicana, ma anche quello di ridisegnare i rapporti tra aree del paese e gruppi socio-economici. Inoltre – considerando anche toni e linguaggio usati –  tali polemiche rischiano di squalificare ulteriormente il valore dell’identità italiana e del senso di appartenenza nazionale.

1.6 Voci diverse dal mondo cattolico Anche una parte del mondo cattolico è stato coinvolto in questa dinamica, e non pochi si sono lasciati attrarre dalla combinazione tra critiche  alla  Resistenza  (in  nome  dell’anticomunismo)  e  suggestioni anti-risorgimentali e anti-nazionali (rispondendo a un diffuso riflesso antistatale e antimoderno, che talora si motiva con la rivendicazione del temporalismo, delle tradizioni locali, dell’intransigentismo, della polemica contro l’illuminismo, il liberalismo e la democrazia). Una combinazione  che  di  recente  si  è  arricchita  di  una  nuova  componente  sul

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versante ecclesiale, costituita dalla storiografia critica sul concilio Vaticano II, reinterpretato in chiave tradizionalista come una rottura della tradizione autentica della chiesa e come causa della crisi attuale del cristianesimo, generata da una cattiva ermeneutica dei documenti conciliari, di per sé ambigui  19. Basta una rapida navigazione in internet sui network del cattolicesimo tradizionalista italiano per trovare ampie conferme di tali intrecci 20. Risorgimento e Resistenza vengono sminuiti, quando non ridicolizzati o demonizzati, ma al fondo la chiave di interpretazione ha ben poco a che fare con una presunta “verità storica” da scoprire o riscoprire, da correggere o da riscrivere, bensì la critica di fondo opera in nome di una diversa “visione della vita”, che il Risorgimento prima e la Resistenza poi avrebbero compromesso, se non distrutto.  così, ad esempio, m. Invernizzi spiega lo scarso senso di appartenenza degli italiani ai “momenti fondativi” del Risorgimento e della Resistenza, che vengono ridotti a “miti”:

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Il motivo di questa insufficiente adesione credo sia da ricercare nel carattere mitologico, ergo ideologico, che accomuna i due momenti della storia italiana, cioè nella loro sostanziale astrattezza e non rispondenza ai sentimenti e — perché no? — agl’interessi concreti della maggioranza dei cittadini. Infatti, sia il Risorgimento sia la Resistenza hanno contribuito in maniera cospicua al venir meno di una concezione della vita condivisa perché fondata su principi e su esperienze universali – quello che alcuni studiosi hanno sintetizzato con il termine “senso comune” – diffondendo, spesso con l’uso della violenza, visioni del mondo e della società lontane e mutuate da filosofie sociali utopistiche 21.

Affermazioni non motivate e che di storiografico hanno ben poco, ma da cui è piuttosto rapido tirare alcune semplici conseguenze: Risorgimento e Resistenza sono giudicati miti astratti e causa di mali profondi, contraddicono gli ideali e contrastano gli interessi degli italiani, quindi... considerando più da vicino la questione risorgimentale, la diversità di interpretazioni – anche all’interno del mondo cattolico – risalta quindi

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in modo evidente, in particolare su due questioni. La prima riguarda il rapporto conflittuale tra identità nazionale e identità locali: il ruolo del piemonte e dei Savoia rispetto alla formazione di uno Stato unitario, secondo alcuni ricercatori, sarebbe espressione di un colonialismo pernicioso per il Sud, e dannoso per lo stesso Nord. così riassume il noto giornalista A. Socci:  “La ‘rivoluzione italiana’ del ‘Risorgimento’ fu un’‘impresa coloniale’ sabauda condotta da una élite liberale avversa alla chiesa e al papa, provocando orrori e danni le cui conseguenze ancor oggi patiamo”. Secondo tale giudizio il processo di unificazione avrebbe contraddetto e soffocato  l’Italia  municipale  e  le  sue  molteplici  identità  locali;    il brigantaggio assurge a espressione della “guerra civile”,  i briganti diventano i “veri patrioti”, mentre si valorizzano i sistemi di governo borbonici e pontifici nelle regioni del centro-sud nel periodo pre-unitario.  Tale lettura è strettamente connessa alla seconda questione, che riguarda la natura anticattolica del Risorgimento: viene riproposta la tesi (già presente nell’intransigentismo cattolico di fine Ottocento) di un “complotto” a guida massonica che avrebbe avuto come obiettivo la lotta alla chiesa, già nello Stato sabaudo e poi in quello unitario: “il processo storico di unificazione dal 1848 al ’61 si è svolto contestualmente a una vera e propria guerra di religione condotta nel parlamento di Torino” (A. pellicciari). Non una semplice lotta contro il potere temporale dei papi, ma una lotta contro la fede; infatti “il Risorgimento rifiutava in toto la tradizione cattolica dell’Italia, per costruire la ‘terza Roma’ del positivismo e della scienza, ricollegata idealmente alla Roma antica pagana: colpendo il potere temporale della chiesa s’intendeva annientarne la portata spirituale”.  Si tratta di tesi che in alcuni casi giungono a riproporre il valore del potere temporale dei papi, attribuendo alla massoneria un peso determinante nel successo del Risorgimento (peso che non risulta così rilevante dalla ricerca storica); giudizi che si allungano all’indietro riprendendo le polemiche anti-rivoluzionarie e anti-illuministiche (emerse negli studi sulle insorgenze antifrancesi in Italia tra fine Settecento e occupazione napoleonica); giudizi che si protendono in avanti fino a inglobare la nascita dell’Italia repubblicana e i decenni successivi (con quelli che vengono considerati fenomeni derivati: dalla scristianizzazione alla diffusione

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delle mafie); in sostanza questi studiosi arrivano a concludere con una equazione “Risorgimento: rovina della chiesa e della fede”.  Il Risorgimento? Una rivoluzione post-illuministica e post-protestante che si è diretta soprattutto contro la religione cattolica. E che ha perseguito e ottenuto il suo scopo contro il popolo e a prezzo di una “guerra civile” con il mezzogiorno. Un po’ la radice di tutti i mali dell’Italia futura, dal fascismo, alla guerra civile (quella seguita all’8 settembre), fino a quelli attuali. (m.Viglione).

La sintesi delle due questioni diviene evidente nelle parole della più nota autrice di questo filone interpretativo, Angela pellicciari: “marzo 1861: Vittorio Emanuele II veniva proclamato re d’ltalia. Sulla pelle di un popolo cattolico. perseguitato e oppresso”. Scopo di questa storia da riscrivere diviene quindi “capire che nel Risorgimento ci sono le radici dei nostri mali attuali” 22.

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1.7 Oltre il mito, per un corretto metodo storico Questa serie di affermazioni sono però in contrasto con il metodo storico orientato a contestualizzare fatti e posizioni politiche e a rapportarli alle condizioni materiali e culturali dell’epoca in cui si sono manifestati; un metodo che dovrebbe evitare la facile, ma equivoca, sovrapposizione al passato di istanze polemiche attuali e ancor più sfuggire a una sorta di “vendetta” postuma nei confronti di personaggi e fatti assurti a “miti” (come per mazzini e manzoni), o un “regolamento di conti” nei confronti del cattolicesimo liberale e democratico, della Resistenza o di quant’altro.  Una prospettiva e un metodo ritenuti del tutto fuorvianti da Arturo carlo Jemolo  già molti anni orsono, specie a proposito del mezzogiorno e del suo immaginato  “sacrificio” a vantaggio dell’Italia sabauda:  Il mito del Risorgimento è sfatato da un pezzo – scrive Jemolo nel 1973 –. Non creiamo l’altro mito, molto più falso, che si

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fonda sulla vecchia visione sanfedista del “vero popolo”, che è quello analfabeta e senza scarpe che gli intellettuali corrompono … chi ama il popolo del mezzogiorno potrà rimproverare all’Italia di non aver fatto quanto poteva per lui. ma vaneggia se lo immagina prospero e felice in un reame borbonico che si sarebbe protratto per un altro mezzo secolo 23.

Noto oggi una sorta di alleanza implicita nel demolire il significato del Risorgimento e della unificazio ne nazionale tra personaggi di area leghista, che ritengono che il pro cesso unitario così come si è com piuto abbia danneggiato il Nord, e personaggi di area cattolica che ri prendono molti schemi della pole mica intransigente contro lo Stato unitario, come la teoria del com plotto massonico-protestante, ec cetera. Sono due tendenze che arri vano ad analoghe conclusioni par tendo da posizioni molto diverse: etno-localistica l’una, incentrata sul ruolo “nazionale” del papato e della religione cattolica, l’altra 24.

certo occorre considerare la diffusione dell’anticlericalismo di tanta stampa (in diversi casi anche “muscolare” nei confronti dei cattolici) e la contrapposizione talora feroce tra i “radicali” e i gesuiti di “civiltà cattolica”, ma occorre anche inquadrare questi fenomeni nella dinamica dell’epoca.  Nel  contempo,  non  possono  essere  dimenticate  le  numerose acquisizioni storiografiche riguardanti la biografia dei principali protagonisti del Risorgimento; ad esempio la visione laica dello Stato propria di cavour e l’antitemporalismo di mazzini non possono essere identificati tout court con una visione anti-religiosa, né si può trascurare la schietta adesione di fede di uomini che hanno operato direttamente per la causa risorgimentale, da manzoni a Gioberti, da Lambruschini a mamiani.  Si tratta quindi – e non solo da parte del mondo cattolico,  di “fare finalmente i conti con l’idea ricevuta dell’estraneità dei nostri avi ai fatti del-

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Sulle polemiche più recenti, così si esprime Francesco Traniello, uno dei più autorevoli storici del movimento cattolico  contemporaneo:


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l’indipendenza nazionale, […] per  comprendere meglio come l’ossatura culturale e, in parte, anche politica, del ceto risorgimentale sia stata tutt’altro che egemonizzata da pre-concetti anticattolici” 25. Nello stesso tempo l’analisi storica ha evidenziato la complessità del mondo cattolico italiano ottocentesco, che lungi dall’essere un blocco compatto (anche all’interno della stessa gerarchia), proprio rispetto alla dinamica politica espresse una significativa pluralità di momenti e atteggiamenti. La piena e convinta fedeltà al papa da parte dei vescovi italiani a fine Ottocento si accompagnò a posizioni diversificate nei confronti dell’intransigentismo cattolico, sia per motivi di carattere teologico-culturale, sia per una differente priorità attribuita alla contrapposizione politico-istituzionale nei confronti della classe dirigente liberale, rispetto alla competizione socio-culturale nei confronti del movimento socialista. Si pensi, per esempio, a personalità di rilievo come i cardinali Alimonda e Richelmy di Torino e Reggio di Genova, il vescovo di cremona Bonomelli, il teologo e filosofo Antonio Rosmini, e poi il gesuita padre carlo passaglia (che promosse tra l’altro una raccolta di firme per la fine del potere temporale del papa), il benedettino padre Tosti, il barnabita padre Semeria,  i sacerdoti murri e Sturzo (che svilupperanno le linee di una “democrazia cristiana” e di una partecipazione popolare attiva dei cattolici alla politica). Essi rendono ragione di questa complessità; se non rappresentano la maggioranza del cattolicesimo italiano, non sono neppure figure isolate, anzi svolgono una funzione culturale di rilievo, e sovente di anticipazione: esprimono il chiaro orientamento a superare il temporalismo a vantaggio della missione spirituale della Chiesa, la tensione a un rapporto fecondo tra cristianesimo e liberalismo, la visione di una “democrazia alimentata dal cristianesimo”, l’esigenza prioritaria di competere con il socialismo  su  terreno  socio-economico,  e  quindi  la  scelta  per  una partecipazione dei cattolici alla costruzione dello Stato nazionale. La storiografia più accreditata è concorde a ritenere che gran parte del mondo cattolico italiano sia rimasta ai margini del processo risorgimentale, ma questo meglio si comprende se si considera che tale processo fu partecipato direttamente da una minoranza della popolazione (minoranza nella  quale  erano  comunque  presenti  componenti  cattoliche)  e  che  il

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nuovo Stato unitario, pur dotandosi di un impianto di istituzioni liberali, era ben lungi dall’essere un sistema democratico. Dopo l’Unità d’Italia, gli effetti del non expedit di pio IX, che chiude ai cattolici la partecipazione diretta alla vita politica, pongono seri problemi alla formazione di una “coscienza nazionale”, al punto che è ricorrente contro i cattolici l’accusa di essere anti-italiani, antipatriottici, antinazionali. Non a caso, perciò, fin dagli ultimi anni del XIX secolo l’associazionismo cattolico, sia religioso sia sociale, assume sempre più un carattere “nazionale” e toni volti a “dimostrare” il senso di patria dei cattolici italiani. Aspetti che si accentuano con l’accordo politico tra cattolici e liberali a inizio Novecento, ma che sono presenti sia nella “cultura associativa” dell’Azione cattolica, sia nei nuclei della democrazia cristiana di murri e poi nel popolarismo di Sturzo, manifestandosi in modo evidente nel corso della prima guerra mondiale: “i cattolici fanno il loro dovere di italiani” è espressione ribadita in ogni occasione dalla pubblicistica del periodo.    motivo di identificazione e di crescita del senso di appartenenza nazionale, la partecipazione alla guerra diviene subito oggetto di polemica col nascente fascismo, che sovente rispolvera contro i cattolici (come contro i socialisti) l’accusa di “disfattismo” e “pacifismo”. In ogni modo, la diffusione di una rete nazionale di opere sociali e religiose cattoliche e poi di formazioni politiche tra fine Ottocento e primo dopoguerra, l’affermazione dell’associazionismo cattolico nazionale di massa nel periodo tra le due guerre (in particolare dell’AcI) sono stati fattori decisivi per lo sviluppo dell’identità italiana e per l’intreccio tra identità cattolica e identità  nazionale.  Un  percorso  che  dopo  la  Seconda  guerra  mondiale  ha condotto i cattolici italiani ad assumere un ruolo politico centrale e decisivo sia per l’impostazione data allo Stato attraverso la costituzione, sia per l’impronta alle politiche socio-economiche, scolastiche, assistenziali. proprio tale centralità politica, da un lato ha consolidato il senso di identità nazionale (ed europea) dei cattolici italiani (tanto di quelli che si sono riconosciuti nel cattolicesimo liberale, quanto di quelli che si sono ritrovati nelle esperienze del cattolicesimo democratico), d’altro lato ha riproposto  all’interno  del  mondo  cattolico  italiano  la  discussione  sul rapporto fede-politica, sull’approccio alla democrazia, sul rapporto tra te-

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stimonianza cristiana ed esercizio del potere, sul possibile pluralismo politico dei cattolici, su luoghi e modalità della formazione delle classi dirigenti cattoliche, sul rapporto tra adesione di fede e esercizio laicale della politica.   Tale dibattito ha evidenziato una crescente  tensione tra le varie espressioni del cattolicesimo italiano già negli anni Settanta, sia sul terreno sociopolitico  sia  su  quello  ecclesiale,  ma  fino  a  poco  tempo  fa,  il  tema dell’identità/unità nazionale era considerato un tratto comune e consolidato,  semmai talora discusso nella prospettiva di un allargamento al senso di “cittadinanza europea” e mondiale. Nel contempo un tratto tipico del cattolicesimo politico italiano, anche nel nuovo contesto di pluralismo delle forme partitiche succedutesi alla crisi della Dc,  è rimasto il valore attribuito alla democrazia e alle autonomie locali, che già Sturzo a inizio Novecento poneva quali punto qualificanti del programma popolare, nel contesto di un’ormai indiscussa accettazione dello Stato nazionale.  Gli storici tendono pertanto a dare un rilievo – maggiore che non in passato – al ruolo del cattolicesimo italiano nella costruzione dell’identità nazionale, specie in alcuni snodi storici decisivi: nella fase della trasformazione socio-economica di fine Ottocento - inizio Novecento, durante la prima guerra mondiale, nel rapporto col fascismo, nel contributo alla Resistenza e all’elaborazione della costituzione, allo sviluppo della democrazia politica ed economica, negli anni tragici del terrorismo, nel contrasto alle mafie e alla degenerazione etica del sistema politico. La riflessione – sul piano propriamente storiografico – potrebbe chiudersi qui. ma forse vale la pena considerare che i temi storici appena discussi si sono intrecciati con i problemi socio-politici attuali, uscendo fuori dal cerchio degli specialisti. Essi quindi sono percepiti in modo diverso: è cambiato lo scenario, la questione dell’unità nazionale sembra aver fatto corto-circuito col tema della identità e della cittadinanza, il ritorno di una mentalità conservatrice (o rivolta alla tradizione) mette alla prova la capacità di comprensione e di giudizio della comunità civile e di quella cristiana sul presente e sulla storia (e sul proprio ruolo in essa): a che tipo di riflessi ed esigenze risponde il riemergere di certi temi e dibattiti che si pensavano archiviati? quanto c’è di consolidato nella men-

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talità diffusa circa il rapporto tra cattolici e unità nazionale? e quanto di irrisolto?  È quanto tentiamo di sviluppare in questa seconda parte.

2. Lo scenario e la percezione attuale

Giunti al termine del 2011 e svoltisi ormai gran parte degli eventi, si può dire che la ricorrenza del centocinquantesimo da un lato ha riproposto con discreta efficacia il valore dell’identità italiana, dall’altro ha evidenziato una serie di visioni contrastanti e di polemiche in ordine all’origine e al futuro dello Stato unitario e alla stessa idea di “appartenenza alla nazione italiana”. Tale discussione riguarda propriamente l’ambito politico e quello storiografico, ma in essa è affiorato – in parte alimentato dai media – un atteggiamento che non accetta semplicemente di delegare agli esperti la risposta ai quesiti che riguardano la comprensione e il giudizio sul processo di unificazione.  Tale atteggiamento evidenzia come il giudizio storico sia considerato rilevante ai fini del presente e della progettualità futura, quindi sollecita i  cittadini  a  riappropriarsi  di  tale  giudizio  per  alimentare  una  senso d’identità che si percepisce come debole eppure necessario, in particolare per le nuove generazioni. ci si accorge come il tema dell’unità e dell’identità italiana non sia un semplice richiamo retorico, ma abbia risvolti anche molto concreti sulle leggi,  sull’amministrazione della città, sui comportamenti individuali e collettivi, che debbono guardare oltre la semplice tifoseria per la nazionale di calcio. Si coglie che il tema coinvolge anche la comunità cristiana, sia per la sua presenza nel tessuto della società civile, sia per l’impegno culturale ed educativo che la chiesa cattolica tradizionalmente esprime nella società italiana.  D’altra parte, questo desiderio di ridarsi una qualche ragione per “sentirsi italiani” (e, per alcuni, “cattolici italiani”) sollecita una “traduzione” in chiave popolare dei risultati della ricerca storica (come anche dei progetti politici). È ovvio che tale esigenza – se non adeguatamente corri-

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2.1 Giudizio storico e coscienza nazionale


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sposta – si trasforma in una richiesta di semplificazione estrema della complessità di vicende e fenomeni storico-politici. Alcuni studiosi evidenziano, mi pare con molte buone ragioni, che – a centocinquant’anni dall’unità – in larga misura si sono “fatti gli italiani”, nonostante le sirene secessionistiche, ma resta in gran parte da “fare i cittadini” 26.  In questo senso, la carenza di educazione civile tra gli italiani, la fragilità di una memoria comune consolidata, il debole “passaggio di memoria”  da  una  generazione  all’altra,  la  stessa  difficoltà  che  incontra l’insegnamento della storia nelle scuole,  sono tratti dominanti dello scenario nel quale si colloca anche la questione del rapporto cattolici/Stato nazionale.

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2.2 Cattolici/identità nazionale in Italia: un rapporto tipico La questione cattolici/unificazione nazionale fu oggetto di una forte tensione e di non poche lacerazioni nel corso dell’Ottocento; stemperatasi poi nel corso del Novecento, si è riaccesa più recentemente su un duplice versante: quello del dibattito storico-politico in ordine a valore e legittimità dello Stato unitario e quello più interno al mondo cattolico sul giudizio riguardante il rapporto chiesa-cattolici-Risorgimento, connesso alla più ampia discussione sul rapporto chiesa-cattolici-Stato e religione pubblica/religione privata. Il rapporto cattolici/Stato nazionale ha assunto in Italia caratteristiche tipiche rispetto ad altri paesi europei:  se per un verso è un caso particolare del rapporto “italiani/Italia”, per altro verso è una componente non secondaria di come questo rapporto si sia costruito ed evoluto. E ciò perché in primo luogo l’elemento religioso è componente ormai millenaria della identità culturale italiana; in secondo luogo perché la presenza della chiesa cattolica – con il particolare ruolo rappresentato dalla sede pontificia – ha ampiamente influenzato la società e la politica in tutte le diverse regioni italiane, contribuendo a introdurre elementi unificanti; in terzo luogo perché l’organizzazione pubblica dei cattolici italiani (associazioni, partiti, sindacati, eccetera) ha assunto una connotazione espli-

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citamente “nazionale” fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, introducendo potenti fattori di comunicazione e di cooperazione in tutti i campi educativi e culturali, sociali ed economici,   costruendo “reti” di collegamento tra territori ed esperienze diverse: a partire dagli anni Trenta – e ancor più negli anni cinquanta – tale tessuto associativo ha assunto connotati di massa, coinvolgendo milioni di persone; in tali esperienze molti italiani hanno trovato un elemento identitario “nazionale”, ma non nazionalistico, proprio perché combinato con una connotazione religiosa che tende ad “aprire” l’identità a dimensioni più vaste  27. Non a caso l’orientamento europeistico e l’interesse per le relazioni mondiali ricorrono nella visione dei cattolici italiani lungo tutto il secondo dopoguerra, basti pensare alle figure di De Gasperi e La pira, ma trovano non poche anticipazioni nel pensiero di Sturzo e di Toniolo 28. Fin dalla nascita dello Stato unitario emerge il problema di costruire una identità italiana nella grande massa dei nuovi cittadini, impresa a cui misero mano non solo uomini politici e legislatori (con un ruolo non secondario svolto dall’istituzione monarchica), ma anche educatori e maestri, militari e medici, sacerdoti e laici; impresa a cui – nonostante la lacerazione della “questione romana” – diedero un contributo molto importante tanti cattolici, specie attraverso l’esercizio delle professioni, le molteplici forme dell’associazionismo religioso e sociale, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, la partecipazione alle amministrazioni locali e al funzionamento delle istituzioni a partire dal primo Novecento.  Un secondo passaggio della costruzione dell’identità italiana si deve al fascismo, che portò al massimo grado il tema della “italianità”, della “romanità” quale fattore di “difesa della civiltà cristiana”, forzando il collegamento  tra  identità  italiana,  identità  fascista  e  identità  cattolica. L’esasperazione dell’identità in chiave nazionalistica, imperialistica e razzistica, finì però per lasciare in macerie non solo le strutture materiali e morali della nazione, ma la stessa autocoscienza civile degli italiani (si veda la discussione circa “la morte della patria”)  29. ciò mise alla prova anche il rapporto tra italiani e religione. Un rapporto recuperato grazie soprattutto al decisivo contributo spirituale e materiale offerto dalla chiesa durante la guerra e in particolare sotto l’occupazione nazista, e grazie alla

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partecipazione di tanti cattolici alla Resistenza, alla presenza capillare dell’associazionismo nelle comunità locali, con una attività educativa e formativa anche durante il regime e poi durante la guerra accanto a soldati e deportati 30. In ogni modo, il tema della costruzione di una nuova identità nazionale all’indomani della guerra e negli anni della costituente è impellente, proprio perché forti sono le spinte disgregatrici della “unità morale e territoriale del paese” (espressione che De Gasperi usa nel drammatico colloquio con Umberto di Savoia nel giugno del 1946, dopo gli esiti del referendum istituzionale) 31. È interessante notare come la preoccupazione di costruire una coscienza costituzionale (la nuova forma del “patriottismo”) e un senso civico degli italiani ricorra ampiamente nella pubblicistica dell’associazionismo cattolico del secondo dopoguerra e alimenti indicazioni di legge che introducono nell’ordinamento scolastico l’Educazione civica 32. Nel contempo, però, il clima della guerra fredda e il timore di riproporre una “storia ufficiale o di Stato” a scapito della libertà d’insegnamento svuotano questi orientamenti nella prassi concreta della scuola fino almeno agli anni Novanta, di fatto contribuendo a una diffusa “ignoranza civile” per diverse generazioni di italiani. E questo avviene proprio nella fase in cui il passaggio di valori civili nell’educazione familiare si è fatto più labile e incerto, sotto la pressione delle trasformazioni sociali e culturali degli anni Sessanta - Settanta.  In sostanza, questo problema della fragile identità italiana resta una costante della nostra storia nazionale in tutto il periodo repubblicano, ma dopo il 1948 sotto il profilo politico non costituisce motivo di preoccupazione: le forze dell’“arco costituzionale” (pur con contrapposti riferimenti  all’atlantismo  e  all’  internazionalismo  comunista)  e  quelle  di estrema destra trovano un terreno comune proprio sul tema della unità e identità nazionale. La questione si palesa invece drammatica proprio nel corso degli anni Novanta con l’emergere di forze politiche che non hanno un rapporto diretto con il patto costituzionale (o che addirittura lo mettono esplicitamente in discussione) 33.  Una parabola che ripropone in termini problematici anche il rapporto

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2.3 I riflessi della crisi recente Ai tratti di più lungo periodo si intrecciano così altri elementi più recenti, ma non meno rilevanti, che determinano il contesto di obiettiva “fatica” nel quale si è vissuta la rivisitazione dell’unità italiana e – al suo interno – il contributo dei cattolici. Li richiamiamo in breve. Anzitutto la crisi politica, ormai quasi ventennale, ha prodotto un vuoto di identità politica e culturale rapidamente riempito dal berlusconismo e dal leghismo, che in forme inedite sono riusciti a interpretare “il nuovo”, il post-moderno, utilizzando due strumenti certo non nuovi (il liberismo economico, l’identità locale-regionale tradizionale). Da qui nasce, da un lato, il fascino per i progetti federalisti e addirittura per le ipotesi secessionistiche; dall’altro, una malcelata diffidenza per l’europeismo, proprio in una delicata fase del processo di unificazione e di governo  dell’Europa.  Il  mancato  rinnovamento  istituzionale  e amministrativo, il dilagare dei fenomeni di corruzione politica ed economica, il contrasto tra poteri dello Stato allontanano i cittadini dalla politica al punto da segnalare una “crisi della democrazia”; ciò stride con la celebrazione di un anniversario propriamente politico.  In secondo luogo, gli effetti della crisi economica hanno spinto ancor più sullo sfondo il valore di questo anniversario, percepito come formale e inefficace rispetto a problemi “reali”; anniversario peraltro oggetto di una

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tra identità nazionale e identità cattolica: a fine Novecento entrambe queste identità si rivelano indebolite e, specie in alcune regioni del paese, vengono sganciate l’una dall’altra; anzi, in alcune espressioni del rinascente tradizionalismo, l’una viene contrapposta all’altra. peraltro, già dall’inizio degli anni Novanta da voci autorevoli del mondo cattolico si segnala il rischio che i progetti politici di tipo localistico e secessionistico costituiscano un preoccupante fattore anti-sistema sia sul piano istituzionale che sociale, in quanto i richiami alla tradizione cattolica e occidentale si intrecciano con pulsioni razziste e xenofobe, inserendosi proprio negli spazi creati dalla crisi della Dc nel voto cattolico e moderato 34.


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marcata campagna critica (che è emersa anche in occasione della polemica sul programma delle manifestazioni del centocinquantesimo e riaffiorerà quando si faranno i consuntivi delle opere programmate per esso, ma solo in parte realizzate). La vicenda italiana, in terzo luogo, si colloca nel più ampio contesto europeo: in diversi paesi del nostro continente, l’idea stessa di Stato nazionale – che pure qui ha le sue radici ormai secolari – è messa in discussione da un doppio movimento: da un lato il processo di globalizzazione e le forme di governance sovranazionale (in particolare l’UE, ma anche gli altri organismi internazionali, come l’ONU) e dall’altro le tendenze regionalistiche e particolaristiche (ad es. Belgio e Spagna).  Infine, il dibattito sul rapporto fede e politica – circa i rapporti Statochiesa, il significato della laicità e il ruolo della religione civile – ha di recente reintrodotto ulteriori elementi di criticità nel modo in cui gli italiani vivono la memoria storica nazionale e l’identità culturale. Insomma, oggi lo Stato nazionale sembra dover ri-spiegare i motivi della sua esistenza e del suo valore, anche rivisitando l’album delle sue origini. Forse proprio per questo la partecipazione alle iniziative è stata indubbiamente rilevante. Un anniversario non scontato, ben diversamente da come lo fu il cinquantesimo nel 1911 (caratterizzato anzi da una forte ventata nazionalistica ed espansionistica), ed il centenario del 1961 (che vedeva l’Italia nel pieno del miracolo economico, con culture politiche “forti” ancora operanti e dinamiche, brillantemente inserita nel contesto internazionale).

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2.4 Costruire o “smontare” l’identità: processi storici e interessi particolari Questi elementi di contesto attuale confermano in ogni caso che i processi storici non sono irreversibili e che quanto una generazione costruisce, quella successiva dà per assodato e garantito. Se però manca una paziente e continua costruzione di una coscienza civile, quanto è stato faticosamente costruito (anche a prezzo della vita di molti e comunque con grandi sacrifici)  può essere messo in discussione, logorato e “smontato”.  ciò però non avviene solo a caso o per la debolezza delle classi diri-

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genti, bensì risponde a esigenze, interessi, a volte a convenienze contingenti, altre volte a progetti precisi. Spesso tali intenti non sono per nulla spiegati, né risultano chiare ai cittadini le motivazioni reali, bensì passano attraverso un processo di diminuzione, delegittimazione, fino alla distruzione dei punti di forza/valori precedenti. Tale meccanismo si serve e si nutre soprattutto di motivi propagandistici e polemici, che mirano sovente a sminuire, liquidare, sostituire i simboli dell’identità per colpirne i significati (si veda la questione dell’inno, della bandiera, eccetera). proprio per questo si pone in stridente contrasto con i seri progetti di recupero della memoria, di rivisitazione critica del passato, ma si avvantaggia di un sistema comunicativo molto veloce e iper-semplificato.   Allo stesso modo, quando tale meccanismo tende a delegittimare i principi costituzionali e le istituzioni, finisce anche per minare gli sforzi per costruire una base condivisa su cui progettare il futuro. Il giudizio negativo su tale meccanismo è diffuso nella pubblicistica cattolica (perlomeno  di  quella  che  si  riferisce  all’associazionismo  e  al  cattolicesimo democratico) e affiora anche in diversi documenti ufficiali della chiesa cattolica, già a partire dagli anni Ottanta fino ai più recenti: gli attacchi all’unità del paese sono considerati in contrasto con il bene comune, sia per il contenuto, sia per il metodo ingannevole e violento impiegato 35.  manca però in questa analisi critica una più precisa individuazione dei soggetti che possono trarre vantaggio da un’operazione culturale volta a togliere significato e valore al processo di unificazione italiana. In ogni caso, larga parte del mondo cattolico resta come sospeso e disorientato rispetto a questo meccanismo, mentre una parte della stessa gerarchia finisce per appoggiare o essere condiscendente proprio verso quei soggetti politici che oscillano tra le intenzioni di radicale riforma costituzionale e le ipotesi secessionistiche. Alle chiare affermazioni espresse negli interventi ufficiali dai vescovi italiani a favore dell’unità del paese e dei temi della solidarietà e dell’accoglienza, si sono affiancate altre espressioni del mondo cattolico che negli ultimi vent’anni hanno riflesso la diffidenza per il ruolo dello Stato (percepito debole e troppo invadente), la presa di distanza dalle istituzioni europee (considerate troppo laiciste o indifferenti ai valori della religione cristiana; si pensi al dibattito sulla costituzione

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europea, a quello sul crocifisso, sulle questioni bioetiche, sulle unioni civili, sull’omosessualità), la paura della diffusione dell’Islam e in generale per la perdita della tradizione religiosa e culturale occidentale.   In questo quadro politico-culturale assai confuso e contradditorio,  interventi e celebrazioni per il centocinquantesimo sono state comunque occasioni significative per riprendere il filo della memoria, rivelandosi momenti partecipati e non vuote celebrazioni retoriche. Anche in campo cattolico sono state molteplici i pronunciamenti e le iniziative, di studio e di carattere più divulgativo e popolare. Nella varietà di approcci e modalità di tali iniziative, mi pare di poter individuare alcuni elementi consolidati e alcune questioni aperte.

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2.5 Cattolici “soci fondatori” dell’unità: elementi consolidati e questioni aperte Quanto agli elementi consolidati, possiamo considerare che: – l’unità nazionale è intesa come processo di lungo periodo, che non si riduce alla vicenda risorgimentale; – l’identità nazionale è vista positivamente come motivo di appartenenza alla comunità, ma è però giudicata carente, come un’esperienza che va ancora (di nuovo) radicata. chiare le parole del cardinale Bagnasco: “I 150 anni dell’unità d’Italia sono una felice occasione per un nuovo innamoramento del nostro essere italiani, dentro l’Europa unita e in un mondo più equilibratamente globale” 36. Il termine “innamoramento” rimanda a un valore vissuto in termini di interiorità e di relazione, propone a tutti un obiettivo “alto”, rispetto a cui sono molteplici le spinte contrarie, anche nel mondo cattolico. Il valore dell’ “essere italiani” poi è messo in rapporto al processo di integrazione europea e al contributo decisivo dell’Europa per rendere più equo il processo di globalizzazione, richiamando quindi il senso di una cittadinanza plurima e “aperta”;  – l’unità nazionale è quindi considerata una costruzione positiva per l’Italia, corrispondente alle esigenze del bene comune (assunto come criterio fondamentale per un giudizio morale sui fenomeni socio-politici), per cui l’“unità del paese” è considerata un valore prezioso da difendere e promuovere;

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– in tale processo i cattolici ritengono di aver svolto (e di dover continuare a svolgere) una funzione di rilievo, al punto da potersi considerare “soci fondatori del paese” 37); – il contributo dei cattolici ha operato non solo sul piano della presenza religiosa e spirituale, ma anche nelle espressioni pubbliche della fede, nel contributo a ispirare una buona legislazione ancorata ai valori della persona umana, a sostenere una visione “alta” della politica come servizio, a promuovere e gestire le istituzioni democratiche secondo correttezza e competenza, a offrire un contributo alla educazione e alla cultura, a sostenere il sentimento di appartenenza e di lealtà nei confronti della patria e delle sue leggi, eccetera;  – inoltre si evidenzia il contributo portato dai cattolici alla elaborazione politica in merito al rapporto tra Stato centrale e autonomie locali, alla costruzione dello Stato sociale, all’accesso all’istruzione, alle politiche familiari, al volontariato, eccetera; – le istituzioni democratiche e i riferimenti alla Costituzione sono considerati fattori acquisiti sul piano teorico e in qualche modo integrati nel magistero, ma si moltiplicano gli interventi che evidenziano come istituzioni e principi costituzionali e magisteriali siano messi in discussione dalle prassi effettive, anche da parte di alcuni degli stessi uomini che gestiscono le istituzioni e comunque da una cultura diffusa che privilegia tratti di individualismo e di chiusura confliggenti con i principi di solidarietà civile e sociale: la crisi della democrazia è ricondotta e interpretata in chiave di “crisi morale” e di “crisi religiosa”. Non mancano però, anche nei pronunciamenti ufficiali, diversità di sottolineature.  In particolare: – da un lato si evidenzia il superamento di “anacronistiche contrapposizioni” tra chiesa e Stato italiano 38 e si mette in luce la “onorata e pacifica condizione di rapporti fra l’Italia e la sede apostolica” 39, e un approccio volto a individuare il contributo dei cattolici alla storia nazionale nelle luci e ombre, “senza rivendicazioni” ma con lo scopo di riflettere sul “modo di essere stati cittadini lungo il percorso travagliato che ha condotto i cattolici a riconoscersi dentro una comunità nazionale, prima ancora che in uno Stato” 40;

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– dall’altro si inquadra il contributo dei cattolici in una visione di più lungo periodo, riferibile alla concezione neoguelfa, che evidenzia i legami costitutivi tra cattolicesimo e civiltà, tra identità religiosa e identità nazionale costruitasi lungo i secoli e preesistente alla costruzione dello Stato unitario, segnalando nel contempo le personalità cattoliche che diedero un diretto contributo al processo risorgimentale (sono citati ad es. manzoni e Gioberti, Balbo e Lambruschini, D’Azeglio e Rosmini) 41; – da un lato si richiamano le “ferite” che le politiche antiecclesiastiche sabaude e italiane arrecarono alla chiesa (prima in piemonte e poi nell’Italia intera) e le interpretazioni per le quali “il Risorgimento è passato come un moto contrario alla chiesa, al cattolicesimo, talora anche alla religione in generale” 42;  – d’altro lato si sottolinea la necessità di non limitare la riflessione storica ai rapporti Stato-chiesa, ma di ampliarla alla relazione tra nazione e società, nonché ai riflessi positivi che la fine del potere temporale dei papi ha avuto sulla storia dell’Italia e della chiesa stessa, non solo sul piano civile, ma anche su quello religioso ed ecclesiale, restituendo alla chiesa stessa quella libertà di concentrarsi sull’evangelizzazione e la formazione. Da ricordare che in questo senso paolo VI e Giovanni XXIII hanno dato negli anni Sessanta una lettura in qualche modo “provvidenziale” del percorso – pur assai contrastato – che ha condotto alla definizione dei nuovi rapporti sta chiesa e Stato italiano nel  concordato prima e nella costituzione poi 43. Quindi, se l’unità nazionale è un valore anche per chiesa, essa supera l’atteggiamento anti-unitario espresso nella seconda metà dell’Ottocento 44. A fronte di questo approccio, ampiamente positivo e costruttivo pure nelle sue differenti sfumature,  non sono mancati i punti problematici e gli spunti polemici cui abbiamo accennato; in particolare: – l’unità italiana è tornata a essere motivo di divisione tra gli italiani: per alcuni l’identità cattolica sembra essere vissuta in contrasto con l’identità italiana e con la solidarietà civile e politica tra le diverse aree del paese; – il Risorgimento è stato anticattolico, guidato da forze contrarie alla chiesa e alla fede; questo vizio di origine, che ha spezzato l’antica civiltà italiana basata sull’identità religiosa, avrebbe inficiato l’intero percorso

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successivo, passando attraverso il “nuovo Risorgimento” della Resistenza, fino a giungere all’attuale secolarismo e laicismo, minando alla base il sentimento religioso degli italiani.

Queste “riletture” in chiave tradizionalistica e – in misura ancor più preoccupante – l’indebolimento del senso dell’identità nazionale e della coscienza civile, pongono in sostanza il problema di  quale funzione educativa e formativa della coscienza (civile e religiosa) possa e debba svolgere la ricerca storica; e quali punti chiave occorra mettere a fuoco per un percorso diffuso di scoperta/recupero della memoria. problema che deve però fare i conti con l’uso politico della storia, che attraversa tutto il Novecento, ma che ha assunto un particolare rilievo negli ultimi due decenni, anche per una inedita diffusione della divulgazione storiografica sul piano giornalistico e documentario, amplificata anche dai media. che la questione non sia né banale, né secondaria ai fini della vita civile e sociale è confermato con chiarezza da un altro passaggio dell’intervento di Bagnasco: “tanto la banale dimenticanza della storia quanto l’oblio della memoria intenzionalmente prodotto e diffuso, o ancora la sua deformazione e la produzione di miti, sono precondizioni della barbarie che, inevitabilmente, prende la forma della negazione della vita umana e della sua dignità” 45. Questo rischio  di “barbarie” trae origine da una storia piegata agli interessi contingenti o alle esigenze ideologiche, ma trova alcuni essenziali antidoti, culturali e civili al contempo.  Anzitutto la ri-scoperta del proprio passato, il riconoscimento della propria storia, delle componenti che l’hanno costruita (ed in essa, il riconoscimento del contributo dato dai cattolici in forma personale e organizzata). In secondo luogo, la capacità di leggere in una prospettiva ampia i processi fondamentali che innervano le vicende storiche: nel nostro caso il punto di snodo è il patto costituzionale, e il suo carattere “progressivo”, di “processo aperto”, di base e riferimento per le istituzioni:

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2.6 Quale rapporto tra ricerca storica e formazione civile e religiosa?


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la storia di questi 150 anni di unità politica d’Italia testimonia in modo inequivoco come, a condizione di una elevata tensione morale, anche nei momenti più difficili, certo non meno di quelli attuali, sia possibile perseguire e conseguire accordi che per lunghi periodi consentono una convivenza civile di grande qualità. Tali accordi si riconoscono perché da un lato segnano l’incontro tra differenze, e dall’altro consentono a queste differenze di svilupparsi secondo quello che don Luigi Sturzo chiamava il “sano agonismo della libertà”. Tali accordi, e la storiografia più seria concordemente ce lo ribadisce, non sono mai accordi eticamente neutri, accordi tecnici, astratti proclami, ma patti di amicizia civile consapevolmente contratti ed esplicitamente fondati su specifiche opzioni di valore. Volendo essere efficaci, questi patti sanno essere anche storicamente determinati. ma proprio per questo ci obbligano: se qualcosa del genere è stato reale, certamente è anche possibile, e dunque dovrebbe essere ricercato anche per l’oggi. E allora, come non riconoscere qualcosa del genere nel patto costituzionale stipulato nel 1948, per il quale tanti cattolici, insieme a tanti uomini e donne di buona volontà seppero spendere intelligenza ed anche versare il proprio sangue? […]  La grandezza di quel patto non sta in una sua astratta perfezione, ma nell’averci consentito di andare avanti per una strada buona. Esso diede certezza e sostanza, sin dall’inizio, tanto all’orientamento quanto alla possibilità della riforma e dell’aggiornamento 46.

In terzo luogo si tratta di cogliere il profondo rapporto tra coscienza storica e progettualità futura: “una matura coscienza storica è una condizione essenziale per la ricerca della concordia e per la responsabilità per  il servizio al bene comune del paese  […] Il fare memoria critica della storia non esaurisce certo il nostro impegno, ma  contribuisce a predisporci all’opera di un futuro da condividere” 47. In una fase storica di grande confusione e movimento, si tratta di riscoprire utilmente quell’ethos risorgimentale fatto di coerenza tra principi e comportamenti, di alto senso dello Stato, di capacità di orientare la legislazione alle necessità e alle aspettative popolari 48.

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Infine, proprio da una corretta lettura della storia, può venire un aiuto alla costruzione – per ciascun individuo e comunità – di identità plurime sane e  integrate tra loro. E la storia contemporanea ci racconta che ogni volta che si è operata una integrazione tra dimensione nazionale e dimensione locale, tra identità italiana e processi di cooperazione europei/mondiali, il processo di crescita materiale e morale dell’Italia ne è uscito rafforzato, sia all’interno,  sia  sul  piano  internazionale.  Viceversa,  tale  crescita  è  stata danneggiata dalle varie forme di contrapposizione tra centro e periferie, tra la nazione unitaria e le “cento città”, tra lo Stato e i municipi o le regioni, ma anche dal nazionalismo e dalle forme di collaborazione con altri popoli legate solo a vantaggi economici: di fatto tali contrapposizioni hanno prodotto (e stanno producendo) un abbassamento del livello di coscienza  civile  e  anche  morale,  un  prevalere  degli  interessi  particolari (quand’anche illegali), la diffusione di una mentalità di chiusura individuale e locale che rafforza forme di identità a breve termine, ma si rivela del tutto inadatta ad affrontare le sfide di una società complessa e plurale qual è la nostra. Non a caso, con lungimiranza, i nostri padri costituenti nell’art. 11 della carta indicano come valido strumento la rinuncia di una parte della sovranità nazionale a vantaggio della cooperazione internazionale e della costruzione della pace. D’altra parte, la difficoltà a integrare i diversi livelli dell’identità (locale, nazionale, europea, mondiale) dipende dal venire meno del senso di appartenenza alla comunità (nazionale, ma anche locale, mentre quella europea e mondiale è vissuta da molti con diffidenza, con timore): si registra una confusione, anzi uno “spaesamento”  forte e diffuso anche in territori (come il piemonte, la Lombardia e la Liguria) che pure sono stati tra i primi protagonisti nel processo di unificazione. Questo lavoro di costruzione e integrazione dei diversi livelli di identità (locale, nazionale, europea, mondiale) è chiaramente l’opposto del tentativo di contrapporre le diverse identità e di condurle a conflitto (tentativo assai più facile dello sforzo di integrazione, ma ovviamente anche assai più pericoloso). Lavorare per l’integrazione non significa ripristinare miti

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2.7 Costruire e integrare identità plurime


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e forme di esaltazione retorica dell’identità nazionale, ma implica riconoscere e rispettare la funzione dei simboli nazionali; allo stesso modo lavorare  per  l’integrazione  non  vuol  dire  riprodurre  l’illusione  di  una “cittadinanza mondiale” priva di differenze, già pronta a una completa e immediata inclusione di tutti i soggetti, ma richiede di dare segnali chiari per il rispetto della diversità e di ciascuna persona, e insieme di valorizzare le istituzioni internazionali.  così, cogliere i limiti e le contraddizioni del processo di unificazione italiana (specie tra nord e sud), può essere assai utile per conquistare un livello più maturo di coscienza civile e morale, capace di distinguere (senza contrapporre) i valori da perseguire con le tappe che concretamente si possono costruire e praticare. In questo senso, proprio la riflessione del magistero della chiesa e l’esperienza dei cattolici già dalla fine dell’Ottocento ha individuato nella “politica” lo strumento per costruire il bene comune, nella unità nazionale una espressione di questo bene comune, nella cooperazione internazionale – in particolare europea – la strada maestra per esprimere i valori propri della stessa identità culturale italiana 49.  In sostanza, riconoscere il valore delle identità locali e nazionali significa promuoverne il rispetto e l’integrazione, considerando come le identità non siano però elementi fissi e rigidi, ma dei veri e propri processi di costruzione di cultura e mentalità (e poi anche di progetti politici e socioeconomici), che si possono orientare in senso costruttivo o distruttivo (l’esempio recente delle tragiche vicende della ex-Jugoslavia appare particolarmente istruttivo).

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NOTE 1. Numerosi sono stati negli ultimi anni gli interventi del magistero ecclesiale in merito al valore dell’unità italiana, sia nei discorsi di Giovanni paolo II e Benedetto XVI, sia da parte della conferenza Episcopale italiana, attraverso pronunciamenti ufficiali e discorsi di carattere collegiale, sia di singoli vescovi delle diocesi italiane. per i testi integrali vedi “Il Regno-documenti” o il sito   www.chiesa-cattolica.it . Recente e di particolare rilievo per

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questo tema quanto registrato nell’ultima “Settimana sociale dei cattolici italiani” tenutasi a Reggio calabria  nell’ottobre 2010; cfr. in proposito la documentazione completa sul sito http://www.settimanesociali.it. per un inquadramento generale sul tema cfr. F. Traniello, Religione cattolica e stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna, Il mulino, 2007. 2. G. campanini, Il ruolo dei cattolici nell’Unità nazionale, in “coscienza”, n. 3, 2011; pag. 32; Id., Stato e Chiesa in Italia negli ultimi 150 anni, in “Appunti di cultura e politica”, n.5, 2010. 3. Emblematica, ad es., la lettura proposta da piero calamandrei, tra i fondatori del partito d’Azione, di area liberal-democratica, uno dei più insigni costituenti, che traccia una linea di collegamento tra alcuni principi costituzionali ed il pensiero dei più insigni ideologi del Risorgimento; cfr. Introduzione storica alla Costituzione, milano, 1955, ora in  piero calamandrei. Discorso sulla Costituzione, DVD a cura di ANpI, cinisello Balsamo,  2008. 4. R. Balduzzi, Un nuovo Risorgimento è possibile?, in “coscienza” n.2, 2011. 5. per una analisi critica della costruzione dell’identità nazionale italiana cfr. A.m. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Bari-Roma, 2011; I. porciani, La festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali nell’Italia unita, Bologna, Il mulino, 1997;  m. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1996; c. mozzarelli, Eterna o colpevole. Tre schede ottocentesche sull’invenzione dell’identità italiana fra classicità e cattolicesimo, in Id. (a cura di), Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, Roma, carocci, 2003; pagg.19-46. 6. Sui rapporti chiesa-Stato in Italia un ampio quadro è fornito da F. Traniello, G. campanini (a cura di), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, casale,  marietti, 1981. Sulla presenza di diversi filoni interni alla chiesa italiana cfr. m. Guasco, Storia del clero in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1997, in part. il capitolo, Dall’unità alla fine del potere temporale; pagg. 64-98; S. Soave, Fermenti modernistici e democrazia cristiana in Piemonte, Torino, Giappichelli, 1975; p. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma, Studium, 1963; D. Secco Suardo, I cattolici intransigenti. Studio di una psicologia e di una mentalità, Brescia, morcelliana, 1962. Sulla legislazione ecclesiastica: G. Bonfanti, La politica ecclesiastica nella formazione dello stato unitario. Documenti e testimonianze, Brescia, la Scuola, 1977; B. Ferrari, La soppressione delle facoltà di teologia nelle Università di Stato in Italia, Brescia, morcelliana, 1968; c. magni, I subalpini ed il Concordato. Studio storico-giuridico sulla formazione delle leggi Siccardi, padova, cEDAm, 1967; G. Griseri, G.S. pene Vidari, Giuseppe Siccardi. Magistrato, giurista, ministro, cuneo, Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provin-

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cia di cuneo, 2005; m.F. mellano, Ricerche sulle leggi Siccardi. Rapporti tra la S.Sede, l’episcopato piemontese e il governo sardo, Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1973; Aa.Vv., Verso il 150° dell’Unità d’Italia, “Il tempietto”, Torino Leumann, LDc, n. 10,2010. 7. L’eclatante episodio dell’arresto dell’arcivescovo di Torino mons. Fransoni costituisce solo uno dei fatti più vistosi del clima di tensione presente in diverse città, che si inquadra in un bilancio difficile dei rapporti Stato-chiesa negli anni intorno all’Unità: “L’arcivescovo di Torino era stato mandato in esilio, e nel corso degli anni Sessanta vi erano 5 vescovi confinati, 43 esiliati, 16 che non avevano potuto prendere possesso della loro diocesi, 22 sottoposti a processo, 9 dei quali conclusi con  una  condanna,  36  diocesi  vacanti” (m. Guasco, Mondo cattolico e unità d’Italia, in “coscienza” n.4,2011; pag.12). 8. cfr. G. campanini, Stato e Chiesa in Italia negli ultimi 150 anni, cit.; pagg.40-41. 9. Sulla contrapposizione ottocentesca e i suoi riflessi attuali cfr. D. Burlando, Cattolicesimo, liberalismo e massoneria nel Risorgimento: conflitti sopiti?, in “Il tempietto”, n. 10, 2010. 10. cfr. ad es. le testimonianze riportate in m. pitteri (a cura di), Diario veneto del Risorgimento (1848-1866), Venezia, cISL, 2011; S. Spartà, Anche i preti hanno fatto l’Unità d’Italia. 1794-1870, Foggia, Bastogi, 2011. 11. cfr. la densa biografia curata da G.B. Scaglia, Cesare Balbo. Il Risorgimento nella prospettiva storica del “progresso cristiano”, Roma, Studium, 1974; un’interessante serie di profili di politici cattolici in G. Tassani, Libertà e popolo. Nazione, religione e limitazione del potere in Italia (1860-1960), Roma, AVE, 1995, e in F. Traniello, G. campanini, Dizionario storico del movimento cattolico, cit.. 12. m. Guasco, Mondo cattolico e unità d’Italia,cit.; pag.11. Sul contributo dei cattolici al Risorgimento vedi anche p. Barbi, Il Cattolicesimo italiano nel Risorgimento, in “camaldoli” del 25 maggio 2010. 13. La custodia e valorizzazione di questa memoria è affidata alla “Società Nazionale per la storia del Risorgimento”, costituitasi nel 1906 e dal 1936 trasformata nell’“Istituto per la storia del Risorgimento italiano”, cui si affiancano sezioni locali e altre istituzioni, come i musei di storia del risorgimento. cfr. http://www.risorgimento.it. 14. Affiora in questa espressione il richiamo al tema della identità come varietà e come scambio culturale, che trova nella cucina dei cibi una prima forma di intercultura. cfr. E. Bianchi, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008; A. capatti, m. montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari, Laterza, 1999;  m.L. cicalese, A. musi, L’Italia delle cento città. Dalla dominazione spagnola all’unità nazionale, milano, F.Angeli, 2005. 15. per un panorama sulla parabola del cattolicesimo politico italiano vedi: G. De Rosa, Dal

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cattolicesimo liberale alla democrazia cristiana del secondo dopoguerra, Torino, Fond. Agnelli, 1978;  p. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita, RomaBari, Laterza, 2005; F. malgeri, Storia della Democrazia cristiana, Roma, cinque Lune, 2000 1987); G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia del ’900, Trento, Il margine, 2008;  E. preziosi, Da cattolici nel paese. Il Movimento cattolico nell’Italia unita, in p. Danuvola (a cura di), Percorsi di unità. Italia a misura di Costituzione, milano,  In  dialogo,  2011;  A.  Giovagnoli,  Chiesa e democrazia. La lezione di Piero Scoppola, Bologna, Il mulino, 2011; L. Guerzoni (a cura di), Quando i cattolici non erano moderati. Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, Bologna, il mulino, 2009; E. preziosi, Tra storia e futuro. Cento anni di Settimane sociali dei cattolici italiani, Roma, AVE, 2010. 16. m. Viglione, La rivoluzione italiana. Storia critica del Risorgimento, Roma, Il minotauro, 2001; Id., L’identità ferita, Roma, Ares, 2006; Id., 1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile, milano, Ares, 2011; Id., La vandea italiana. Le insorgenze controrivoluzionarie dalle origini al 1814;  milano, EffediEffe, 1995; A.pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa, milano, Ares, 1998;  Id., L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, casale, piemme, 2000; Id., Risorgimento anticattolico, piemme, 2004. Vedi anche L. copertino, Appunti a disincanto di una mitologia civile, milano, EffediEffe, 2011; F. pappalardo, L’Unità d’Italia e il Risorgimento, crotone, D’Ettoris, 2011; , F. pappalardo, O. Sanguinetti, 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, Siena, cantagalli, 2011.  Diversi sono i gruppi culturali, le case editrici e gli autori che fanno riferimento a tali elaborazioni; sovente presentano espliciti richiami al regime fascista e alla RSI. Sulla questione della lotta antifrancese e la connessione con l’identità cattolica, numerosi sono gli studi promossi dall’ Istituto per la Storia delle Insorgenze e dell’Identità Nazionale, che si ispira all’intransigentismo ottocentesco, in particolare alla figura di don Giacomo margotti, fondatore de “L’Armonia” e vicino a pio IX e alla elaborazione del Sillabo http://www.identitanazionale.it. 17. In questo senso il “manifesto” sull’identità italiana proposto da “Alleanza cattolica” in occasione del 17 marzo 2011; v. http://www.alleanzacattolica.org. Alla base del recupero della “cristianità” è posta una lettura del percorso della civiltà occidentale come decadenza che, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma protestante, passa attraverso la Rivoluzione Francese e poi quella comunista, e per l’Italia attraverso la Resistenza, fino alla crisi attuale dell’Occidente; rispetto a tale percorso occorrerebbe opporre una “contro-rivoluzione” che ripristini il primato della religione cristiana e della chiesa cattolica. Tra i riferimenti principali di questo filone l’opera del brasiliano  p. corrêa De Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it.,

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Vittorio Rapetti, Fratelli d’Italia? Cattolici e Unità nazionale

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presentazione e cura di G. can toni, milano, Sugarco Edizioni, 2009, (1964). 18. A. Bagnasco, Intervento al convegno di inaugurazione delle iniziative per i 150 anni dell’Unità d’Italia, Genova, maggio 2010. 19. Tra i più ampi e articolati contributi di questo filone si veda il recente studio di R. De mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Torino, Lindau, 2010. 20. Si veda ad es. www.kattoliko.it/leggendanera; www.iltimone.org a cura di R. camilleri, oppure la rete www.samizdatonline.it; santosepolcro.splinder.com; www.effedieffe.com a cura di m.Blondet; il network www.totustuus.it, in part. www.lavocedidoncamillo.com. Da qui sono tratte le citazioni successive. 21. marco Invernizzi, Storia ed Identità, su www.identitànazionale.it. 22. cfr. m.Viglione, Libera Chiesa in libero Stato? Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale, Roma, città Nuova, 2005; A.pellicciari, Risorgimento da riscrivere, cit. 23. da “La Stampa” del 16.6.1973. A.c. Jemolo (1891-1981) è stato uno dei più importanti studiosi del rapporto tra chiesa e Stato in Italia; di cultura liberale, fu esperto tenuto in grande considerazione da paolo VI e Giovanni paolo II. A lui si deve, tra l’altro, il primo studio sistematico degli effetti della legislazione piemontese e unitaria sulla proprietà ecclesiastica. cfr. A.c. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1948; Id., La questione della proprietà ecclesiastica, Bologna, Il mulino, 1974. 24. F. Traniello, Ma l’Italia non nacque “contro” la Chiesa, in “Avvenire” del 12 marzo 2010, intervista a cura di G. Grasso; Id., Religione cattolica e stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna, Il mulino, 2007. 25. R. Balduzzi, Un nuovo Risorgimento è possibile?, cit.; pag.3. 26. cfr. E. Gentile, Italiani senza padri, Bari, Laterza, 2010. 27. cfr. A. monticone, La cultura politica e sociale dell’Azione Cattolica Italiana, e A. canavero, L’Azione Cattolica nella storiografia italiana,  in E. preziosi (a cura di), Storia dell’Azione Cattolica. La presenza nella Chiesa e nella società italiana, Soveria mannelli, Rubbettino, 2009; Id., Obbedienti in piedi. La vicenda dell’Azione Cattolica in Italia, Torino, SEI, 1996; A. D’angelo, p. Trionfini, R.p. Violi, Democrazia e coscienza religiosa nella storia del Novecento, Roma, AVE, 2010; V. Rapetti (a cura di), Laici nella chiesa, cristiani nel mondo. Per una storia dell’Azione Cattolica nelle Chiese Locali del Piemonte e Valle d’Aosta, Acqui T. EIG, 2010. 28. Si veda, ad es., l’ampio studio di D. preda, Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il mulino, 2004; D. Sorrentino, L’economista di Dio. Giuseppe Toniolo, Roma, AVE, 2001. 29. cfr. G. Spadolini, Nazione e nazionalità in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1994. 30. m. malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Roma, Studium, 1980; m. ca-

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sella, L’azione cattolica nell’Italia contemporanea (1919-1969), Roma, AVE, 1992; W. crivellin, Cattolici, Chiesa, Resistenza. I testimoni, Il mulino, Bologna, 2000; pag.97. per un panorama sul contributo del clero cfr. Martirologio del clero italiano 1940-1946 , a cura dell’AcI, Roma, AVE, 1963; sulle vicende piemontesi cfr. G. Rovero, Il clero piemontese nella Resistenza, in AA.VV., Aspetti della Resistenza in Piemonte, Torino, Books store, 1977; pagg.81-120; V. Rapetti, L’attualità di una storia: la Resistenza e il contributo dei cattolici, in A. Bianchi, Il prezzo della libertà. Testimonianze sui luoghi della Resistenza in Piemonte, Acqui T., EIG, 2011. 31. cfr. F.c. casavola, L’unità morale degli italiani, in “coscienza”, n.5, 2010. 32. Si veda ad es. il dl Gonella 20100 del 1951 in cui si individuano gli obiettivi della educazione civica nella conoscenza dell’ordinamento dello stato, nella formazione della coscienza di diritti e doveri del cittadino, nell’alimentare l’amore della patria. cfr. F.c. casavola, L’unità morale degli italiani, cit. 33. cfr. p. Scoppola, La Costituzione contesa, Torino, Einaudi, 1998; F. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1998; A. Schiavone, Italiani senza Italia. Storia e identità, Torino, Einaudi, 1998 e Id., L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale, Roma-Bari, Laterza, 2009. 34. cfr. il recente studio di p. Bertezzolo, Padroni a Chiesa nostra. Venti anni di strategia religiosa della Lega Nord, Bologna,  EmI, 2011; sul rapporto identità italiana, religione e leghismo cfr. p. Segatti, La nascita della Lega, in “Il Regno” n.8, 2011; I. Diamanti, G. Riccamboni, La parabola del voto bianco. Elezioni e società in Veneto (1946-1992), Vicenza, Neri pozza, 1992. Sui rischi del progetto leghista cfr. ad es.  G. Brunelli, Nel tramonto della DC. Chiesa e unità nazionale, in Chiesa in Italia, Annale de “Il Regno” - 1993, Bologna 1994; pagg. 106-107; Id., Chiesa e Lega: una questione nazionale, in Chiesa in Italia, Annale de “Il Regno” -1998, Bologna, 1999; pagg. 131-141. 35. Significativi alcuni testi della conferenza Episcopale Italiana (cEI), che scandiscono gli ultimi tre decenni: La Chiesa italiana e le prospettive del paese (1981), Identità nazionale, democrazia e bene comune (1993 – 42° settimana sociale),  Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno (2010). 36. A. Bagnasco, Intervento al convegno di inaugurazione delle iniziative per i 150 anni dell’Unità d’Italia, Genova, maggio 2010. 37. Si tratta di un’espressione eloquente proposta in discorsi ufficiali sia da mons. m. crociata, segretario della  cEI (in Cattolicesimo e Chiesa a 150 anni dall’unità, prolusione all’a.a. 2010-11 della  FTER, Bologna, 2010, in “Il Regno” n.1, 2011), sia dal card. A. Bagnasco (nella prolusione alla LXI Assemblea generale della cEI, maggio 2010).

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Vittorio Rapetti, Fratelli d’Italia? Cattolici e Unità nazionale

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Quaderno di storia contemporanea/50

Studi e ricerche

38. cfr. m. crociata, Cattolicesimo e Chiesa, cit.; pag.55. 39. paolo VI, Messaggio al Presidente della Repubblica G. Saragat nel centenario di Roma Capitale, 18 settembre 1970. 40. cfr. A. monticone, I cattolici nei 150 anni di unità nazionale, intervento al XXXI convegno Bachelet “L’unità della repubblica oggi. Tra solidarietà nazionale, autonomie e dinamiche internazionali”, Roma, 2011. 41. Benedetto XVI, Per i 150 anni dell’unità d’Italia. Messaggio al presidente della Repubblica Italiana G. Napolitano, marzo 2011, in “Il Regno-doc.”, n. 7, 2011; pag.193-195; G. Brunelli, Cattolici dopo il mondo cattolico. La Chiesa e le celebrazioni del 150° dell’unità, in “Il Regno”, n.6, 2011; pagg.145-46. 42. Benedetto XVI, Per i 150 anni dell’unità d’Italia. Messaggio al presidente della Repubblica Italiana G. Napolitano, cit. 43. cfr. paolo VI, Messaggio al Presidente della Repubblica G. Saragat nel centenario di Roma Capitale, cit., e G.B. montini, Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963), Roma, Studium, 1983; pagg. 170-71;  Giovanni XXIII, Discorso al presidente del Consiglio A. Fanfani, in occasione del centenario della unità d’Italia, aprile 1961. 44. cfr. m. paolino, Unificazione italiana e coesione nazionale, in “coscienza”, n. 1, 2011. 45. A. Bagnasco, Intervento al convegno di inaugurazione delle iniziative per i 150 anni dell’Unità d’Italia, cit. 46. Ivi, corsivi miei. 47. Ivi. 48. Rilevante, ad es.,  la figura di Giuseppe Zanardelli; cfr. F. p. casavola, Zanardelli, Guadasigilli d’Italia, in “coscienza”,  n.1, 2011. 49. Interessante, in proposito, la lettura dei programmi della prima Democrazia cristiana (quello di Torino del 1899) e del partito popolare (1919), in p. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, cit.; pag. 93 e 163 e ss.

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Studi e ricerche

Italia, Italie

William Bonapace A Ornella Che cosa è una nazione? A fronte di tendenze potenzialmente secessioniste interne e di forze sovranazionali esterne quali l’Unione europea e gli attuali processi di globalizzazione economica e culturale, il seguente testo intende indagare il concetto di cittadinanza riprendendo la concezione civica di nazione con riferimento alla visione di Ernest Renan quale “plebiscito quotidiano” 1, ampliandola e dilatandola attraverso una prospettiva che potremmo definire da un lato cosmopolita e dall’altro storico-ermeneutica, grazie a cui mettere in luce proprio le discontinuità, le fratture e le novità dovute agli intrecci e alle interconnessioni tra culture, popoli e tradizioni diverse 2.  pensare l’Italia e gli italiani a partire da tali premesse significa superare lo sguardo sia “territorialista culturalista” che “storicistico nazionale”, incentrati entrambi su presunte origini e caratteri costitutivi 3, da sempre ricostruiti a posteriori attraverso la selezione accurata degli eventi da parte dagli intellettuali organici al progetto nazionale stesso. Infatti, ogni storia ufficiale è un racconto che si definisce attraverso una determinata memoria e un determinato immaginario, che seleziona ed esclude ciò che non è coerente con il suo impianto. Questo è il caso dei grandi processi migratori che, collocandosi trasversalmente rispetto alla struttura segmentata degli Stati nazione con il loro impianto autoreferenziale del

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William Bonapace, Italia, Italie. Identità, diaspore e nuove cittadinanze

Identità, diaspore e nuove cittadinanze dall’unità nazionale all’epoca della globalizzazione


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concetto di nazionalità omogenea e naturale, problematizzano le categorie di cittadinanza e di appartenenza così come la dicotomia tra la figura dell’“autoctono” e quella dello “straniero”, del “sedentario” e del “nomade” 4. Infatti, contro ogni nazionalismo vecchio e nuovo, la scelta di emigrare da parte di decine di milioni di uomini e donne nel corso dei due ultimi secoli ha aperto nuovi orizzonti, costruito ponti culturali, scavalcato steccati, ampliando a dismisura il concetto d’identità e di appartenenza ridimensionando (se non letteralmente negando) il peso delle frontiere tra i popoli e gli Stati, raccontando con la loro semplice esistenza, una storia diversa, lontana da quel mosaico di incomprensioni e di fili spinati reali e immaginari che ha accompagnato le vicende del novecento e come rischia di continuare a fare nel presente e nel prossimo futuro. A partire da queste considerazioni generali, nelle seguenti pagine vorremmo riflettere sulla dimensione storica e sociale dei processi di mobilità umana, del passato come del presente, di fuoriuscita dal e di arrivo nel nostro paese, esaminando in primo luogo l’emigrazione italiana e la conseguente diaspora caratterizzata da un sofferto, e in buona parte misconosciuto, rapporto con la così detta madre patria, per poi proseguire con un’analisi sull’immigrazione che ha coinvolto il nostro paese nel corso degli ultimi trent’anni grazie all’arrivo di nuovi cittadini provenienti da tutto il mondo, per concludere infine con alcune possibili piste di riflessione, al momento ancora in itinere, che ponga in discussione la visione attuale di cittadinanza puramente nazionale in prospettiva di un suo auspicabile superamento.

Studi e ricerche

L’emigrazione italiana Secondo  i  dati  del  centro  di  ricerca  dei  padri  Scalambriniani,  nel mondo vivono circa 80 milioni  5 di oriundi italiani così distribuiti: 25 milioni in Brasile, 20 in Argentina, 17,8 negli Stati Uniti e in Francia, 1,5 in canada, 1,3 in Uruguay, 800 mila in Australia, 700 mila in Germania, 500 mila sia in Svizzera che in perù; letteralmente un’altra Italia al di là dei confini. All’interno di questa vasta galassia distribuita su tutto

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il pianeta, oltre 4 milioni (esattamente 4.115.235, pari al 6,8% della popolazione residente sul territorio nazionale, secondo i dati dell’AIRE – Anagrafe Italiana Residenti all’Estero) sono in possesso di un passaporto del nostro paese 6. La consapevolezza collettiva all’interno dei confini nazionali di questo immane fenomeno è nel suo complesso scarsa e in buona parte rimossa, mentre per coloro che sono emigrati il legame con la nostra penisola è molto sentito, spesso anche a distanza di anni dalla loro partenza, coinvolgendo anche le seconde e le terze generazioni, dando vita a ciò che in sociologia  viene  definita  l’identità  con  il  trattino:  italo-americano, italo-canadese e così via. Dall’Argentina alla Germania, dall’Australia al Venezuela, sono numerosissime le associazioni d’italiani che producono cultura italiana 7, mentre è solo negli ultimi anni che lo Stato italiano si è dato gli strumenti politici e giuridici per dar loro un riconoscimento ufficiale, anche se al momento ancora troppo debole e precario, con il diritto di voto o con l’istituzione di organismi ad hoc, come il già citato AIRE.  La storia dell’emigrazione italiana ha radici profonde e si intreccia con gli spostamenti delle altre popolazioni europee attraverso i diversi confini politici sin dal medioevo, quando, lungo l’arco alpino e non solo, uomini e donne si dirigevano da un paese all’altro alla ricerca di fortuna e lavoro. Le attività più diffuse erano come sempre le più modeste, come lo spazzacamino, il muratore o il venditore ambulante per i maschi, le lavandaie, le sarte e le balie per le donne. Fu però intorno alla metà degli anni Settanta del XIX secolo che in Italia, a seguito della grande depressione, gli spostamenti della popolazione assunsero una portata rilevante e a volte di proporzioni fino a quel momento inimmaginabili. Anche in questo caso l’ondata migratoria italiana si inserì nella più vasta corrente internazionale che vide partire decine di milioni di individui da tutta l’Europa; dall’Irlanda alla Germania, dalla polonia alla Svezia 8. Le mete principali furono le Americhe, sia del nord che del sud. All’interno di questo vero e proprio esodo di massa la componente italiana fu, insieme a quella irlandese, numericamente la maggiore e coinvolse tutte le regioni della penisola. Tra il 1876 e il 1915 lasciarono l’Italia ben 15 milioni di persone, mentre altre 4 milioni e 700 mila lo fecero tra il 1918 e il 1940, nonostante che il regime fascista proibisse l’espatrio. In questo caso, coloro i

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William Bonapace, Italia, Italie. Identità, diaspore e nuove cittadinanze

Studi e ricerche


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quali lasciavano il paese lo facevano clandestinamente a loro rischio e pericolo. Se catturati dalle autorità di frontiera italiane venivano quindi arrestati e processati. Tra il 1876 e il 1885 prevalse l’emigrazione verso paesi europei, in seguito l’emigrazione fu essenzialmente oltre oceanica, per tornare a essere europea nella seconda metà del XX secolo. Tra il 1876 e il 1900 furono tre le regioni (Veneto con il 17,9% del totale, il Friuli con il 16,1% e il piemonte con il 12,5%) che fornirono da sole all’incirca il 47% del contingente migratorio. La situazione si capovolse nei due decenni successivi, quando il primato migratorio passò alle regioni meridionali con la Sicilia che dette il maggior contributo (12,8% e 1.126. 513 emigrati) seguita dalla campania con 955.189 espatri, pari al 10,9% del totale. In questo caso all’origine del fenomeno si trovava la mancata soluzione della questione meridionale. Tra il 1918 e il 1940 furono ancora una volta, il piemonte, la Lombardia e il Veneto (assieme al Friuli Venezia Giulia) 9 ad assistere a un esodo imponente, mentre tra il 1946 e il 1961 furono le regioni meridionali a veder partire milioni di loro concittadini (oltre che, anche in questo caso, il Veneto)10. come appena accennato, dopo la Seconda guerra mondiale il fenomeno riprese vigore, questa volta con il consenso delle autorità che in molti casi siglarono accordi con i paesi riceventi 11. Il numero degli espatri anche in questa occasione fu notevole: 7 milioni e 300 mila. Nel corso di questa ultima fase dell’emigrazione italiana le mete furono essenzialmente le nazioni più ricche dell’Europa centro settentrionale, come il Belgio, la Germania Federale, la Svizzera, la Francia e la Gran Bretagna. curioso è notare inoltre che nei primi anni successivi alla guerra un certo numero di migranti si indirizzò anche verso la cecoslovacchia, almeno fino a quando questo paese non finì nell’orbita sovietica e con cui l’Italia siglò un accordo di cooperazione nel 1947, e in Jugoslavia, con l’intento di partecipare alla costruzione del socialismo, anche se dopo breve quasi tutti i migranti finirono nei campi di concentramento titini. Allo stesso tempo comunque un significativo numero di migranti si diresse in Australia e in Argentina, mentre calò significativamente il numero delle persone che scelsero di imbarcarsi per gli Stati Uniti. Queste tre nazioni erano da sempre simbolo della terra dell’abbondanza e a causa del conflitto avevano bisogno

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di uomini per compensare le perdite in combattimento. Tuttavia le politiche restrittive nei confronti dei cittadini di origine mediterranea ne contenerono  il numero. In ogni caso furono i paesi dell’America Latina a ricevere in quel periodo la maggior parte di quelli che partivano verso mete extraeuropee almeno fino al 1960, quando il clima della guerra fredda e la crisi argentina spinse molti paesi a limitare la circolazione di manodopera. Interessante è osservare che l’incidenza dell’emigrazione “assistita”, cioè quella pianificata e controllata dal governo non superò mai il 42% di tutti gli espatri, per cui si deve dedurre che buona parte dell’emigrazione italiana fu clandestina o ufficialmente “stagionale”. Nonostante non vi siano dati certi al proposito, prendendo in esame le relazioni dell’ambasciata d’Italia a parigi, così come quelle degli organi di polizia di frontiera francese, si può comunque dedurre che solo per il caso della Francia i clandestini italiani furono decine di migliaia ogni anno. molti altri entrarono illegalmente anche in Svizzera, Belgio, Germania e in diversi paesi latino americani.  Il fenomeno dell’emigrazione di massa italiano si esaurì nel 1973 quando per la prima volta il saldo migratorio segnò un dato positivo dal momento che i rimpatri superavano le partenze. Interessante è notare che di fronte a questo immane esodo durato un secolo l’Italia risulta unita nel contributo offerto. come abbiamo visto, come risulta dalla classifica delle regioni con il maggior numero di espatri, nessun’area geografica dal nord al sud, è stata esclusa. Di seguito elenchiamo le prime sei regioni: Veneto, 3 milioni e 300 mila espatri; campania, 2 milioni e 700 mila; Sicilia, 2 milioni e 500 mila; Lombardia con 2 milioni e 300 mila; Friuli Venezia Giulia, 2 milioni e calabria, 1 milioni e 900 mila.  passando ad analizzare i paesi d’insediamento attuale dei cittadini di origine italiana in possesso di un passaporto del nostro paese si ricava che il 55,3% è residente in Europa, il 39,3% in America, il 3,2% in Oceania, in Africa 1,3% e lo 0,9% in Asia. La maggioranza di questi cittadini è di origine meridionale (54,3%), mentre il 30,6% è del nord e il 15,2% del centro. Il 47,7% è di sesso femminile. Difficile è definire il titolo di studio di questi italiani, dal momento che rispondendo a un questionario dell’AIRE nel 2006 ben il 73,5% di questi ha risposto, forse erronea-

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mente, di non possederne alcuno, falsando in tal modo le statistiche. per quanto riguarda invece coloro che hanno risposto al quesito, risulta che il 35,6% è in possesso della licenza elementare, il 36,45% della licenza inferiore, il 19,3% di un diploma e l’8,7% di una laurea. Facendo riferimento alla distribuzione tra i diversi continenti risulta inoltre che coloro i quali hanno una scolarizzazione bassa (elementare e media) risiedono in maggioranza in Europa essendo in buona parte gli eredi o i protagonisti dell’emigrazione di massa del dopoguerra, mentre quelli con titoli di studio elevati si trovano a risiedere principalmente in Asia, essendo appartenenti a quell’emigrazione definita “tecnologica”. In conclusione di questo paragrafo, non possiamo non menzionare altre componenti che, seppur numericamente relativamente contenuti, partecipano a pieno titolo nel delineare le caratteristiche di quel complesso fenomeno rappresentato dagli italiani residenti all’estero: in primo luogo gli imprenditori, oltre 7000 nella sola Romania e 2000 nella lontana cina, solo per fare qualche esempio, a cui si devono aggiungere gli studenti universitari e i tanti giovani che hanno scelto di vivere in altre città del continente, oltre che, infine, i transfrontalieri e coloro che continuano a emigrare in forma duratura e i pendolari 12. Nel complesso, tra spostamenti interni e verso l’estero, in andata e in rientro, temporanei o di lungo raggio, italiani che vanno o che ritornano, si arriva a quasi 400 mila spostamenti totali in uscita all’anno.

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L’immigrazione straniera in Italia passiamo ora all’altra faccia della questione: i cittadini di origine straniera residenti nel nostro paese. Alla fine del 2010, secondo i dati della caritas migrantes 13, questi erano 4.968.000, pari al 7,5% della popolazione residente 14. La crescita del fenomeno migratorio nel nostro paese è esponenziale, con un aumento degli arrivi pari a venti volte rispetto agli inizi degli anni Novanta, dimostrando un dinamismo particolarmente significativo: un aumento di 3 milioni d’immigrati nell’ultimo decennio e di quasi un milione solo nell’ultimo biennio. Tutti dati che ben dimostrano come l’immigrazione sia ormai un fenomeno strutturale rivestendo

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implicazioni demografiche e culturali di portata storica sia nel presente che nel futuro. prendendo in esame i paesi d’arrivo degli stranieri risulta che il 53,6% proviene da paesi europei, il 22% dall’Africa, il 16,2% dall’Asia e l’8,1% dall’America. La nazionalità con il maggior numero di presenze è quella rumena con quasi un milione di immigrati, segue quella albanese e marocchina con circa 500 mila immigrati ciascuna, vengono poi i cinesi, gli ucraini e i filippini. Queste cifre confermano che, nonostante una presenza di oltre un centinaio di nazionalità differenti, l’immigrazione in Italia si sta definendo sempre più marcatamente per essere balcanica e mediterranea, infatti le prime tre nazionalità da sole superano il 40% del totale dei cittadini stranieri residenti. Infine, oltre il 61% dei cittadini di origine straniera è residente nel nord Italia, dove maggiori sono le prospettive di lavoro e migliori le condizioni di vita. Un altro dato rilevante sotto l’aspetto demografico è la giovane età media degli immigrati e il tasso di fecondità delle donne che è il doppio rispetto a quella delle italiane (2,5 rispetto all’1,3). Non secondario infine è il numero dei matrimoni misti: 236.045 nel periodo compreso tra il 1996 e il 2006, così come il numero dei cittadini di origine straniera che hanno ottenuto la cittadinanza italiana: 541.955 sempre nello stesso periodo. Interessante è inoltre notare il protagonismo femminile in questa fase storica dell’immigrazione: infatti il 54,8% è composto da donne, percentuale che sfata l’immagine stereotipata dell’immigrato maschio a cui segue in un secondo tempo la moglie e la famiglia. Infatti rispetto ad alcune nazionalità i primo migranti sono proprio le donne, come nel caso delle latino-americane, delle filippine e di diversi paesi dell’Europa dell’est, che superano significativamente il 50% delle presenze 15. I minori di origine straniera sono quasi un milione, gli iscritti a scuola sono il 7,9% della popolazione studentesca, anche se ancora in buona parte concentrati, dopo la terza media, nelle scuole tecniche e professionali.  particolarmente rilevante è il contributo economico che gli immigrati assicurano alla nostra economia: 2 milioni sono i lavoratori di origine straniera, pari a un decimo della forza lavoro del paese, il tasso di occupazione, superiore a quello degli italiani, è del 64,4%, mentre, a causa della crisi economica che colpisce in primo luogo le attività poco

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qualificate, in aumento è anche il tasso di disoccupazione degli immigrati, pari al 11,2%. Allo stesso tempo però è aumentato anche il numero delle imprese gestite da immigrati, raggiungendo nel 2010 la cifra di 213.267 con una ricaduta occupazionale di oltre 500 mila unità. L’incidenza del lavoro immigrato sul  pIL nazionale è a sua volta particolarmente significativo: l’11,1%. Tuttavia tale elevata propensione dei cittadini stranieri a offrirsi sul mercato del lavoro non dà ancora la giusta misura del rapporto che intercorre tra il fenomeno migratorio e il sistema economico nel suo complesso così come con le dinamiche occupazionali del mercato del lavoro stesso. Infatti, l’inserimento degli immigrati nei processi produttivi, così come le politiche sull’immigrazione intraprese dai Governi, spesso ricalcano i limiti del sistema economico stesso (scarsa mobilità sociale, bassa remunerazione, debole produttività, scarso riconoscimento del merito, dequalificazione…) limitando le potenzialità del contributo che gli stranieri offrono e potrebbero dare allo sviluppo del paese in una prospettiva di crescita all’altezza della sfida della competitività internazionale e della globalizzazione. La partecipazione dei lavoratori stranieri continua a caratterizzarsi per essere concentrata nei profili professionali a bassa qualificazione e remunerazione senza particolare rapporto con il loro livello d’istruzione o formazione, confermando indirettamente la loro collocazione in “lavori da immigrato”, fisicamente e psicologicamente logoranti, producendo quello che  gli  esperti  definiscono  skill waste (spreco  di  competenze)16.  ciò  è molto evidente tra le donne in gran parte assunte in ruoli quali assistenza e cura, addette alle pulizie, ai servizi domestici o legati alla ristorazione, alla lavorazione di produzioni tessili o di pelletteria. Non molto diversa è la situazione d’inserimento lavorativo degli uomini, concentrati nei settori delle costruzioni e dell’industria con mansioni operative e manuali. Anche la rilevante crescita del settore imprenditoriale immigrato, favorita da determinate caratteristiche del sistema produttivo italiano e dall’ampliamento di un mercato rivolto al mondo dell’immigrazione stessa, deve essere valutato con attenzione: se da un lato esprime la forte propensione al lavoro autonomo e la ricerca di un miglioramento della pro-

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pria condizione, dall’altra si caratterizza per essere costituita da piccole imprese individuali in settori spesso disertati dai lavoratori autoctoni, nascondendo a volte fenomeni di ricorso improprio a soluzioni contrattuali diverse dal lavoro dipendente, configurandosi come imprenditorialità marginale o di precarizzazione  dei rapporti d’impegno lavorativo17.  Lo stesso fenomeno dell’immigrazione irregolare e il continuo e costante flusso di lavoratori clandestini, nonostante le ripetute sanatorie e le politiche restrittive alle frontiere, risponde in buona parte al modello di sviluppo italiano e alla strategia implicita che il nostro paese, grazie al lavoro sommerso, ha adottato nei confronti della perdita di competitività e alla carenza di innovazione.

Per una nuova definizione del concetto di cittadinanza Alla luce delle cose sin qui dette e di fronte a un mondo globalizzato in costante mutamento, in cui i fenomeni migratori, nelle loro varie forme e componenti, non risultano più, ammesso che lo siano mai stati, marginali, continuare a ragionare in termini di cittadinanza in un’ottica prettamente  nazionale  territoriale  diventa  sempre  più  anacronistico  e problematico. Non è un caso che  nel corso delle ultime decadi, in ambito giuridico e filosofico politico, si è venuto sviluppando un vivace dibattito su questo tema ancora oggi ben lungi dall’essere concluso. Interessante a questo proposito è la riflessione sviluppata oltre dieci anni fa dal giurista Luigi Ferrajoli, il quale affermava che se in origine lo statuto della cittadinanza aveva la funzione di assicurare l’uguaglianza giuridica tra i membri della comunità appianando differenze di status, oggi, nei ”nostri paesi ricchi rappresenta l’ultimo privilegio […], l’ultimo fattore di esclusione e discriminazione, l’ultimo relitto pre moderno delle disuguaglianze personali in contrasto con la conclamata universalità e uguaglianza dei diritti fondamentali”18. Tesi severa e non necessariamente del tutto condivisibile, che tuttavia pone una questione centrale nel presente contesto storico, rimandando, nonostante le molteplici differenze, alla riflessione del filosofo tedesco Jurgen Habermas, secondo cui i diritti umani e sovranità

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popolare rappresentano “le uniche idee capaci di dare giustificazione al diritto moderno”19 al punto che la tensione tra questi due principi (il primo universalistico e il secondo territoriale) è uno dei principali problemi della democrazia attuale. per molti versi, sulla stessa lunghezza d’onda si collocava  la  riflessione  del  rimpianto  sociologo  algerino  Abdelmalek Sayad 20 il quale affermava che il processo migratorio con il suo spontaneo travalicare le frontiere tende a rendere manifesto ciò che definiva “l’inconscio sociale” dello Stato nazionale, cioè quei processi di costruzione istituzionale e storica degli organismi politici, “denaturalizzando” ciò che naturale non è: il concetto di cittadinanza nazionale appunto.   È a partire da questo quadro concettuale che negli ultimi anni sono emerse proposte teoriche a favore di forme di cittadinanza post nazionali, come nel caso della riflessione della filosofa Seyla Benhabib 21 che, a fronte di crescenti forme di trasnazionalismo e di membership pluri nazionali, propone, nella scia del pensiero politico di Immanuel Kant sul diritto cosmopolitico e di Hanna Arendt con la sua rivendicazione al “diritto ad avere diritti”, una cittadinanza cosmopolita che, congedandosi definitivamente dal nesso duale che intercorre tra ethnos-demos, possa fondarsi su un complesso di diritti sociali e civili basati non più sulla nazionalità, bensì sulla personhood, sul semplice fatto di appartenere alla specie umana. progetto tutto da immaginare in termini istituzionali e di politica internazionale, ma che si pone a favore di un mondo aperto, come prospettato  dal  sociologo  tedesco  Ulrich  Beck,  il  quale  vede  proprio  nella costruzione dell’Unione europea la strada da intraprendere al fine di ampliare l’ambito della cittadinanza nella prospettiva di abbracciare in un organismo pluri federale il più vasto numero di paesi e, potenzialmente, il mondo intero. Al di là del dibattito teorico, negli ultimi venti anni le straordinarie trasformazioni dell’ordine mondiale, hanno sollecitato la giurisprudenza nazionale e internazionale a problematizzare e ampliare lo spazio e lo statuto della tutela dei diritti rivolti alla persona, come nel caso della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori emigranti e dei membri delle loro famiglie del 18 dicembre 1990. convenzione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con risoluzione 45/158 ed entrata in

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vigore il 1 luglio 2003, grazie alla ratifica dei paesi d’emigrazione preoccupati di tutelare i loro lavoratori residenti all’estero senza però essere stata sottoscritta, a esclusione della Bosnia Erzegovina, da alcun paese europeo. Essa assicura, ai sensi dell’art. 7, i diritti umani previsti nella convenzione a tutti i lavoratori emigranti e ai  loro familiari, tralasciando però ancora una volta la questione del diritto all’ingresso in altri paesi e della cittadinanza, riconosciute di competenza degli stati nazionali. La costituzione della cittadinanza europea, a sua volta, definita a partire dal Trattato di maastricht, si inserisce nella prospettiva di ampliare lo spettro limitato della semplice identificazione tra nazione e cittadinanza, rappresentando il più rilevante atto di riallocazione di competenze in tale materia sottratte ai singoli Stati finora avvenuto. per la prima volta e proprio nel continente che ha dato vita allo Stato nazionale si è avviato un processo giuridico che punta a una membership sovra nazionale, collocando in tal modo quest’area geopolitica all’avanguardia a livello internazionale. Nonostante ciò, da parte di molti osservatori si ritiene ancora improprio parlare di cittadinanza basata sulla residenza anziché sulla nazionalità 22. Infatti, l’impostazione generale della norma non oltrepassa realmente la prospettiva nazionale non riuscendo a favorire una piena inclusione dei cittadini di paesi terzi i quali restano comunque esclusi dalla possibilità di accedere automaticamente alla cittadinanza stessa. L’ottenimento della cittadinanza europea, in questo quadro, non sostituisce ma si somma, nel senso che deriva da quella nazionale, non potendo essere acquisita autonomamente. In tal modo la cittadinanza resta esclusiva competenza  degli  Stati  membri  dell’Unione,  a  loro  volta  liberi  di implementare proprie normative nazionali in materia (a loro volta non sempre coerenti tra loro). Questa situazione ha quindi due effetti: solo i cittadini membri di uno Stato dell’UE possono usufruire della cittadinanza europea, mentre ne sono esclusi i cittadini considerati “extracomunitari”  che,  malgrado  risiedano  nei  paesi  dell’Unione,  vengono  a trovarsi in una posizione giuridica differente e a dipendere dalle diverse volontà degli Stati nazionali.  In Italia la distinzione tra il cittadino membro della comunità e l’outsider è stata a sua volta confermata dalla corte costituzionale. come os-

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serva il prof. marco Ferrero “a partire dalla sentenza n. 104/69, la corte distingue tra eguale titolarità dei diritti fondamentali, comunque garantita allo straniero in forza degli artt. 2 e 10, comma 2  cost., e godimento di quegli stessi diritti che può trovare distinzioni tra cittadini e  stranieri se ciò è giustificato da obiettive disparità di fatto, poiché solo il cittadino rappresenta ‘con gli altri cittadini, un elemento costitutivo dello Stato stesso’” 23. A partire da tale premessa, continua Ferrero, la corte ha reputato ragionevoli le disparità di trattamento introdotte dal legislatore nei confronti dello straniero poiché a quest’ultimo manca il nesso giuridico costitutivo con lo Stato. Nesso che nel caso del nostro paese è ancora in buona parte costituito dal jus sanguinis rispetto al jus soli, come dimostra la relativa facilità nell’ottenere la cittadinanza italiana da parte dei discendenti degli emigrati italiani nel mondo rispetto alla più limitata possibilità di acquisire la stessa da parte di cittadini provenienti da nazioni terze residenti nel nostro paese.  In una prospettiva di contenimento delle naturalizzazioni di cittadini di origine straniera si muove a sua volta anche la legge 733/09, conosciuta meglio come “pacchetto sicurezza”, approvata nel mese di luglio del 2009. Secondo tale normativa risulta più difficile conseguire la cittadinanza grazie al semplice convogliare a nozze con un cittadino italiano. La legge prevede infatti che gli stranieri che vogliono celebrare il loro matrimonio in Italia debbano esibire il permesso di soggiorno (art. 6), escludendo in tal modo tutti gli irregolari; con la modifica dell’art. 5 della legge 91/92 inoltre si stabilisce che l’acquisizione della cittadinanza da parte del coniuge straniero o apolide, si potrà ottenere solo in caso di residenza legale di due anni sul territorio italiano a far data dal matrimonio, oppure di tre anni in caso di residenza all’estero (art. 1 comma 11), tranne quando vi sia la presenza di figli nati dai coniugi italiani, in quel caso i periodi devono essere dimezzati. La richiesta di cittadinanza, in ogni caso, anche al di là della situazione legata al matrimonio, non sarà più gratuita, ma soggetta al pagamento  di  un  contributo  di  €  200,00,  così  come  le  dichiarazioni  di elezione, acquisto o riacquisto della stessa (art 1, comma 11, punto 2). Questa norma rischia di avere l’effetto di scoraggiare le domande di ac-

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quisto della cittadinanza che nel caso dei minori di origine straniera nati in Italia (366.150 dal 1999 al 2007, di cui 64.049 solo nel 2007) in possesso dei requisiti necessari (residenza ininterrotta dal momento della nascita  al  compimento  del  diciottesimo  anno  d’età)  potrebbe  avere ripercussioni rilevanti sul loro futuro.  particolare preoccupazione ha suscitato infine il rischio di mancata registrazione della nascita del minore figlio di donna non regolarmente residente nel nostro paese, sia perché la vigente normativa sullo stato civile prevede che l’atto di nascita può essere registrato su richiesta di persona diversa dal genitore (come i sanitari) soltanto se il bambino nasce in una struttura sanitaria, sicché sarebbe escluso da registrazione chi nasce per strada o in casa (come tuttora accade talvolta in taluni insediamenti abusivi o campi nomadi), sia perché il divieto di espulsione previsto dall’art. 19 T.U. (che in realtà dà solo un salvacondotto di 6 mesi) per la donna incinta o per la puerpera (e per il marito con essa convivente) che consente loro di ottenere un permesso di soggiorno non è esaustivo, poiché il permesso può essere rilasciato soltanto se lo straniero dispone di un valido documento di viaggio (passaporto), mentre il riconoscimento del figlio naturale da parte del padre clandestino sarà impossibile, non essendo previsto il rilascio di alcun tipo di permesso al padre naturale.  In conclusione, ripartendo dalle considerazioni iniziali e facendo tesoro del quadro complesso che abbiamo tracciato, non vi è dubbio che la questione della cittadinanza e del suo significato e statuto giuridico e politico è una delle questioni principali della nostre società attraversate da profondi processi di ridefinizione della propria struttura demografica, spingendo la riflessione teorica e l’azione politica a problematizzare il significato di appartenenza così come di uguaglianza e differenza. A questo proposito il dibattito è molto acceso, vedendo schierati da un lato i difensori di una cittadinanza multiculturale, a loro volta divisi al loro interno sul grado di riconoscimento dei diritti collettivi ai diversi gruppi, e dall’altra i liberali che sostengono la necessità di ampliare, ma non superare, la concezione attuale di diritto fondato sulla persona. Una querelle che prosegue da anni e che in questa sede possiamo solamente accennare. piuttosto ci auguriamo che, rispetto all’imponente fenomeno migratorio

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verso il nostro continente, a fronte di tante diversità normative e procedurali tra i diversi paesi dell’Unione europea che rischiano di produrre condizioni giuridiche profondamente diversificate per cittadini provenienti dagli stessi paesi ma residenti in nazioni diverse, si giunga a un’armonizzazione delle norme sulla cittadinanza in modo da rendere il diritto omogeneo in tutta l’area dell’Unione. A condizione però che ciò avvenga nella direzione di un ampliamento e non verso una limitazione dei diritti degli stranieri, affinché i diritti umani e la sovranità popolare possano, come afferma Jurgen Habermas, tendere verso una loro sempre maggiore e reale convergenza. premessa e promessa di uno sviluppo in termini cosmopolitici della cittadinanza che separi definitivamente il demos dall’ethos,  riconoscendo  a  quest’ultima  una  dimensione  apolitica  e processuale, liberandola da ogni forma di istituzionalizzazione di carattere simbolico o legale, affinché siano gli individui, con il loro impegno e le loro lotte, e non gli Stati i veri soggetti della società e della storia.

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NOTE 1. con il suo famoso discorso all’università della Sorbona nel 1882 Ernest Renan volle sottolineare l’elemento volontaristico e contrattualistico della nazione che si afferma attraverso l’adesione consensuale dei suoi membri. Questa posizione si opponeva alla visione concettualmente antitetica che si può far risalire al filosofo tedesco Johan G. Herder che con l’opera Idee per una filosofia della storia dell’umanità del 1784, teorizzava un carattere nazionale di ciascun popolo come un dato originario espresso essenzialmente nella lingua e nella cultura. posizione ripresa successivamente da Hegel  nella sua interpretazione dello spirito oggettivo. 2. A questo proposito, utile può essere riprendere la riflessione che si è venuta sviluppando in ambito antropologico con riferimento alle categorie di cultura, identità e tradizione. Infatti, dopo averle utilizzate per decenni, a partire dagli anni Settanta, tale disciplina le ha sottoposte a una severa critica epistemologica, considerandole di scarso valore euristico, espressioni di una visione reificata dell’umanità, adottando, appunto modelli interpretativi relazionali, storici ed ermeneutici. cfr, Ernest Gellner, Nazione nazionalismi, Roma, Ed. Riuniti, 1985; Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Roma, meltemi, 2001; James clif-

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ford, I frutti maturi impazziscono, Torino, Bollati Boringhieri, 1999; cliffort Geerz, Interpretazione di culture, Bologna, Il mulino, 1998; Francesco Remotti, Contro l’identità, RomaBari, Laterza, 1996; Francesco Remotti, Ossessione identitaria, Roma-Bari, Laterza, 2010; Francesco Remotti, Cultura, Roma-Bari, Laterza, 2011. 3. cfr. Ernesto Galli della Loggia, L’identità degli italiani, Bologna, Il mulino, 2010. 4. cfr. Jaques Attali, L’uomo nomade, milano, Spirali, 2006. 5. Risultato di un esodo che ha visto partire quasi 30 milioni di italiani nell’arco di circa 100 anni. 6. Dato rilevato al 1/1/2011 e certamente inferiore alla realtà effettiva del fenomeno, ma al momento attuale l’unico disponibile. 7. 790 media in lingua italiana: 480 giornali, 265 programmi radiofonici, 45 programmi televisivi e quasi  1000 comunicatori italiani o di origine italiana. 8. Tra il 1841 e il 1880 furono 13 milioni gli europei che lascarono il vecchio continente. In questo caso circa il 50% degli emigranti era originario dalle isole britanniche. Dopo la guerra di secessione americana che causò un rallentamento degli arrivi, il flusso verso gli USA riprese vigore portando, dal 1875 al 1880, a 280 mila le partenze all’anno degli europei,  per raggiungere poi la cifra di 685 mila all’anno tra il 1880 e il 1885 e infine a 780 mila all’anno tra quest’ultima data e il 1890. L’effetto complessivo fu che negli ultimi due decenni della fine del secolo XIX furono altri 13 milioni gli emigranti di origine europea che lasciarono  il nostro continente. 9. Dal piemonte partirono 533 mila persone, dalla Lombardia 498 mila, dal Veneto 392 mila, dal Friuli 379 mila. 10. Dal Veneto emigrarono ben 611 mila persone, dalla campania 496 mila, dalla Sicilia 427 mila, dalla calabria 421 mila e dalla puglia 386 mila. 11. con l’intento di favorire un deflusso regolare, il governo italiano, già alla fine del 1945, si impegnò nelle trattative con la Francia e il Belgio e siglò accordi bilaterali sul reclutamento della manodopera. 12. I pendolari  che si recano all’estero sono 11.700 mentre circa 45mila sono frontalieri che giornalmente si recano in Svizzera, nei cui confronti di recente si è riscontrato un atteggiamento meno accogliente. Gli universitari sono 50 mila, pari pressappoco agli studenti stranieri che studiano in Italia. piccola componente di quella grande comunità internazionale composta da circa 3 milioni di studenti che studiano in atenei diversi da quelli dei loro paesi di appartenenza. 13. caritas migrantes, Dossier statistico, XXI rapporto, Roma, Ed. Idos, 2011.

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Studi e ricerche


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Quaderno di storia contemporanea/50

14. con punte più elevate in molti centri maggiori e minori come nel caso di milano, Roma ma anche Asti, dove la percentuale è intorno al 10% o di porto Recanati in cui si raggiunge il 20% . 15. Romania 54%, Ucraina 79,4%, polonia 70,6%, moldavia 65,7%, perù 60%, Ecuador 59%, Brasile 70%, Repubblica Dominicana 65%, Filippine 58%. 16. Immigrati sotto-inquadrati: 41,7%,  sotto-utilizzati: 10,7%, addetti a lavori disagiati (di sera, di notte, di domenica): 40%. 17. cfr. Laura Zanfrini, Rapporto ISMU, milano, ISmU, 2007. 18. Luigi Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, Roma-Bari, Laterza, 1999. 19. Jurgen Habermas, in Fatti e Norme, a cura di L. ceppa, milano, Guerini e Associati, 1996. 20. cfr. Abdelmalek Sayad, La doppia assenza, milano, cortina editori, 2002. 21. cfr. Seyla Benhabib, Cittadini globali, Bologna, Il mulino, 2008.

Studi e ricerche

22. cfr.  Laura Zanfrini, Cittadinanze, Roma-Bari, Laterza, 2007. 23. Intervento tenuto in occasione del coordinamento Nazionale Immigrazione di  caritas Italiana, 5 novembre 2008.

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Note e discussioni

Il Risorgimento rappresentato. Il primo giubileo della patria a Torino, Roma e Napoli

Le esposizioni nazionali e universali si collocano all’interno di quel firmamento che per tutto il XIX secolo vide nelle principali città europee e americane la nascita di rassegne pubbliche, utile strumento di promozione del livello di sviluppo industriale, economico e culturale raggiunto. Esse rappresentavano un potentissimo mezzo di comunicazione sperimentando tecniche di controllo sociale e costruzione del consenso con una pedagogia delle classi lavoratrici basata su ideologie interclassiste e di pacificazione sociale 1. Le prime esposizioni propriamente dette, organizzate allo scopo di mettere in mostra i progressi compiuti in campo tecnologico, ebbero luogo in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, su impulso della London Society of Arts. ma il vero precursore delle successive esposizioni universali fu il modello francese della fine del XVIII secolo che assolse esemplarmente la funzione simbolica di autocelebrazione politica, mettendo in evidenza la potenza industriale francese e premiando i prodotti ritenuti dannosi per l’economia inglese. Nel 1911 l’Italia aveva ormai acquisito i caratteri essenziali di uno Stato nazionale moderno, anche se il progresso economico e civile non aveva coinvolto l’intero paese e rimanevano zone di povertà e arretratezza. Nel primo decennio  del  Novecento  il  nuovo  corso  liberale  della  politica  di  Giolitti, assecondato dall’atteggiamento di Vittorio Emanuele III, aveva contribuito ad accelerare il cammino dello Stato sulla via della democrazia, mentre il paese entrava in una più intensa fase di modernizzazione, sviluppo economico e trasformazioni sociali. In ambito internazionale il ruolo dell’Italia nel concerto delle grandi potenze era notevolmente cresciuto, tanto da consentirle

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Luisa Renzo, Il Risorgimento rappresentato

Luisa Renzo


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Note e discussioni

Quaderno di storia contemporanea/50

di condurre con successo una nuova impresa coloniale, nel generale consenso del paese  2. Il 1911 è quindi riconosciuto come un tornante decisivo della vita politica e culturale italiana: l’inizio della crisi del sistema giolittiano e l’affermarsi, a partire dal 1911-12, dell’idea della guerra come momento unificante per il paese.  Le feste per il cinquantenario, oltre a incoraggiare l’uso della retorica patriottica dai toni nazionalisteggianti, stimolarono una riflessione sul Risorgimento e sul primo mezzo secolo di vita unitaria. È inoltre significativa la molteplicità di forme e concretizzazioni che i festeggiamenti ebbero in tutta la penisola, segno di un pluralismo e policentrismo che sembrava favorire la coscienza regionale di ciascuna parte del paese, frutto di una spinta che non era più quella localistica delle passate tradizioni pre-unitarie, bensì il risultato di un nuovo e vigoroso senso della varietà nella molteplicità e unità della storia della civiltà italiana. Lo dimostra la storia letteraria: i primi decenni dell’Unità furono caratterizzati dalla comparsa di scrittori d’ispirazione locale e regionale, come nella Sicilia di Verga o nella Napoli di Di Giacomo. Ovunque in Italia si costituivano o riavviavano società storiche regionali e non per nulla, a Roma, nelle celebrazioni del 1911 fu organizzata anche una mostra delle Regioni, che rifletteva appieno il senso vivo e forte che nell’Unità nazionale si conservava e si sviluppava delle tradizioni e delle identità locali 3. Due appaiono essere le declinazioni principali di questi festeggiamenti, rispecchiate anche dalle esposizioni di storia risorgimentale del 1911: il contributo di uomini e idee che il territorio diede al processo unitario e l’esaltazione dei progressi italiani compiuti nei cinquant’anni di storia del Regno, dimostrazione della connessione tra sviluppo economico e Risorgimento, presupposto storico necessario nel fornire le basi del decollo. Il primo importante anniversario della vita nazionale, il “giubileo della patria” del 1911, può quindi essere letto attraverso la lente di tre allestimenti risorgimentali nati nel nord, centro e sud della penisola: Torino, Roma e Napoli. La celebrazione del 1911 fu una grande festa della nazione e la più importante occasione per riconsacrare all’inizio del XX secolo il primato del mito nazionale. La nascita del Regno d’Italia, sebbene opera di minoranze, aveva rappresentato una grande conquista per tutti gli italiani. Il fatto di aver edificato lo Stato unitario superando gravi difficoltà, come la lotta al brigan-

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taggio, l’opposizione della chiesa, le infelici campagne militari, le violente sommosse sociali, costituiva un grande titolo di merito per i fondatori dell’Italia unita, allo stesso modo in cui i loro successori avevano risposto ai momenti burrascosi come la crisi politica di fine secolo, i conati di restaurazione autoritaria e il regicidio, preservando l’Unità e sviluppando il regime liberale del nuovo Regno 4.  Le celebrazioni iniziarono col 1909 (Seconda guerra d’Indipendenza), proseguirono nel 1910 (spedizione dei mille e plebisciti) per terminare nel 1911, occasione in cui la monarchia e le istituzioni liberali furono presentate al popolo come le più autentiche incarnazioni del mito nazionale e del Risorgimento, uniche guide sicure per condurre la nazione italiana sulla strada del progresso e della grandezza. Il 15 gennaio 1908 fu lanciato un manifesto dai Sindaci di Roma, Ernesto Nathan, e di Torino, Secondo Frola, esponenti significativi di quel riformismo giolittiano in versione radical-liberale, per commemorare nel 1911 nelle rispettive città il cinquantenario del 27 marzo 1861, giorno della chiusura del dibattito parlamentare in cui Roma fu indicata capitale d’Italia. I festeggiamenti paralleli del 1911 videro la prima capitale di un tempo, Torino, sede di un’Esposizione internazionale industriale, inaugurata il 29 aprile, che raccoglieva le diverse attività economiche, mentre Roma, ospitò le manifestazioni patriottiche, storiche e artistiche, inaugurate il 27 marzo 1911.  Né doveva né poteva compiersi, la solenne affermazione dell’Italianità senza unire, nel pensiero e nell’azione, il passato e il presente, la capitale di allora –Torino – quella d’oggi – Roma – insieme congiunte per commemorare i fasti consegnati alla storia, e trarne gli auspici per l’avvenire. E Roma e Torino nell’intento affratellate, simbolo e affermazione della patria unita, si accingono a illustrare nel 1911 la fausta data, segnalando alle novelle generazioni il cammino che il paese percorse dal giorno in cui il parlamento subalpino lo proclamò ricomposto ad unità di Nazione 5.

Alle celebrazioni di Roma e Torino per il cinquantenario dell’unità d’Italia si affiancarono quelle di Napoli che diede vita ai festeggiamenti per il cin-

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quantenario del plebiscito meridionale, e di Firenze: a palazzo Vecchio da marzo a luglio 1911 si tenne la “mostra del ritratto italiano dalla fine del XVI secolo al 1861”, raccogliendo da tutto il mondo ben 1000 ritratti di personaggi del Risorgimento e dell’epoca contemporanea, e nel maggio si realizzò l’“Esposizione internazionale di floricoltura” nel Giardino della Società di Orticoltura 6. protagonisti della parallela impresa di Torino e Roma furono Tommaso Villa  7, presidente del comitato esecutivo dell’esposizione di Torino, senatore eminente con cospicua esperienza in opere simili, e il conte Enrico di San martino a capo del comitato di Roma, già esperto organizzatore di mostre artistiche nella capitale. La data da celebrare, anziché essere il 17 marzo, giorno della proclamazione del Regno d’Italia e designazione di Vittorio Emanuele II a re, fu il 27, giorno della chiusura del dibattito parlamentare al termine del quale Roma fu indicata capitale d’Italia. L’idea del festeggiamento risulta quindi spostata dalla celebrazione del fatto giuridico istituzionale a quello politico-simbolico della scelta della nuova capitale, Roma, unica città in Italia, per riprendere il discorso decisivo  di cavour, priva di memorie esclusivamente municipali. Tra Roma e Torino si stringeva un nesso circolare, quasi le due città si scambiassero i ruoli: Torino, sede dell’Esposizione internazionale industriale, raccoglieva le manifestazioni delle attività economiche; Roma mostrava la magnificenza della tradizione, illustrando il concetto che a quelle attività economiche presiedette. passato e presente si connettevano nel valore simbolico rappresentato dalle ex capitali. così se da una parte veniva esaltato il mito unitario della Terza Roma, dall’altra risaltava paradossalmente lo sdoppiamento economico, sociale e culturale del paese.  Il 29 aprile 1911 si inaugurava a Torino, alla presenza di Sua maestà Vittorio Emanuele III e dei rappresentanti dei paesi ospiti, l’Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro. Questa si può considerare la più grande esposizione che si ebbe nella prima capitale. La costruzione dei grandiosi padiglioni nel parco del Valentino insieme ai nuovi spazi espositivi allestiti lungo la fascia fluviale destra del po, cambiò il volto della città sia dal punto di vista sociale sia architettonico. moltissimi furono gli eventi collegati all’imponente manifestazione: mostre, concorsi, concerti, feste, dimostrazioni tecnico-scientifiche e numerose competizioni sportive. La celebrazione, con lo scopo di

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Uno degli obiettivi principali che il sindaco Secondo Frola, in carica dal 1903 al 1919 si prefisse, fu quello di assecondare il risveglio della vita economica locale svolgendo sempre opera di mediazione tra operai e imprenditori. In questo clima di effervescenza economica municipale nel 1906 nasceva la Lega industriale di Torino, che rappresentava uno strumento istituzionale capace di esprimere la volontà dei nuovi soggetti economici in consonanza con la tradizione risorgimentale della città 9. molte le iniziative intraprese dal capoluogo piemontese che si collocavano all’interno del nuovo fervore culturale, legato al perfezionamento delle competenze scientifiche e al bisogno di andare oltre la rappresentazione oleografica del Risorgimento dei decenni precedenti,  aumentando  le  iniziative  ufficiali  e  connaturandole  più profondamente all’evoluzione della vita della penisola. L’ultimo ventennio dell’Ottocento, infatti, era stato il più fruttuoso per il mito del Risorgimento, ma la mancanza di una gestione organica e centralizzata di esso necessitava di un intervento. Le trasformazioni innescate dalla svolta liberale giolittiana, aprendo nuovi orizzonti, facevano vacillare l’impianto su cui si era retto fino ad allora il mito 10.

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sanzionare nel compiuto cinquantennio dell’Unità Italiana l’incremento raggiunto dal nuovo Regno nell’industria, nel commercio, nelle arti e nell’economia sociale, è stata l’espressione più sicura ed efficace dell’ingegno nostro, della nostra crescente emancipazione d’attività e dell’italico fervore a destini sempre più positivi e più alti. Torino, riaffermandosi ancora una volta come già ai tempi del glorioso riscatto, entrò con la sua mostra nelle varie Nazioni e con la Nazione nostra nel mondo del pensiero e dell’attività pratica umana, dimostrando che l’intelligenza paesana non solo dipinge e musica, parla o scrive, ma agisce eziandio sui mercati e lavora nei cantieri con un particolare zelo pervicace, che vuol pure diventare tradizione, coltivando con laborioso amore anche il campo fertile e ferace delle industrie, delle manifatture e dei commerci: e le Nazioni estere, accogliendo con entusiasmo l’invito loro rivolto, non mancarono al grande convegno esponendo le loro più importanti manifestazioni dell’industria e del lavoro 8.


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Il museo Nazionale del Risorgimento di Torino, inaugurato il 9 settembre 1908 nella mole Antonelliana, in occasione del III congresso della Società nazionale del Risorgimento italiano, ebbe nel 1911 il suo momento di massima valorizzazione. La scelta di Villa di collocare l’allestimento nella mole risaliva al 1878, anno di morte di Vittorio Emanuele II, per unificare due stereotipi come l’identificazione di Torino col Risorgimento e della mole con la “modernità”. Il loro connubio costituiva la compiuta fusione tra arte e scienza nell’età del positivismo e nella città più positivista d’Italia, allo scopo di saldare contenuto e contenitore, passato e futuro, creando un simbolo per la città moderna che non rinunciasse però al culto patriottico della memoria risorgimentale 11. La mole Antonelliana incarnava quel progresso al quale l’Italia unificata aspirava, segno evidente del riscatto italiano che avrebbe dovuto indirizzarsi verso un futuro di splendente sviluppo 12. Oltre a essere uno dei primi edifici torinesi in cui fosse stata impiantata una linea telefonica  13, la struttura, grazie alle sue eccezionale peculiarità fisiche, si segnalò come luogo di sperimentazione scientifica. Nel 1902 ad esempio fu proposto di ripetere dalla sua sommità gli esperimenti di Foucault con il pendolo, per dimostrare il movimento di rotazione della Terra. La sua straordinaria altezza avrebbe infatti permesso di usare corde più lunghe di quanto in precedenza fatto in altri paesi 14. La liturgia nazionale risultava più comprensibile se simboleggiata da un monumento concreto e imponente, e tramite l’“architettura parlante” gli ideali del bello e del sacro venivano veicolati in modo evidente: la monumentalità degli edifici pubblici doveva sollevare l’uomo al di sopra dello svolgimento ordinario della sua vita. La mole, inaugurata nel 1889 dopo ventisei anni di costruzione, alta 167 metri, era all’epoca la più altra costruzione europea in muratura, simbolo della torre, segno dell’emancipazione dell’uomo dalla gravità, della conquista dello spazio e quindi dell’onnipotenza tecnica che le aveva rese possibili. A essa si associava la vertigine dell’altezza e lo spettacolo del mondo visto a volo d’uccello, veduta che doveva risultare straordinaria per i torinesi dei primi anni del nuovo secolo.  Nella Torino del primo decennio del XX secolo era ancora forte l’influenza positivistica e classificatoria, nonostante con la crisi dell’egemonia giolittiana si andassero affermando in Italia nuove correnti culturali e fermenti antidemocratici che si distaccavano dal paradigma culturale della fine del XIX se-

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colo. meno nazional-popolare del padiglione del Risorgimento del 1884, nonostante l’intento scientifico che ne era alla base, il museo della mole conservava  comunque  una  tendenza  ecumenica  e  conciliatorista,  mantenendo quell’immagine oleografica cementata in età crispina del primato della nazione posto al di sopra dei partiti, depurati di tutti gli elementi ideologicamente incompatibili.  L’intento di costruire un museo meno divulgativo, ma più tecnico ed erudito, rivolto a un pubblico più che alfabetizzato, è anche frutto delle discussioni animatesi all’interno del I congresso storico del Risorgimento del 1906 a milano, dove emersero per la prima volta questioni relative ai musei del Risorgimento su un piano nazionale e non più municipale. La partecipazione al congresso di uno studioso come costanzo Rinaudo, membro del consiglio direttivo del museo, e del Sindaco di Torino Secondo Frola che lo presiedeva, non può non aver apportato nell’ordinamento del museo i risultati di quel dibattito.  con la relazione Intorno all’ordinamento scientifico e metodico dei Musei del Risorgimento, Achille Bertarelli (grande raccoglitore di stampe e ideatore di un criterio innovativo, attento ai contenuti più che alla forma), insieme a Giuseppe Gallavresi (collaboratore prezioso specialmente nel sistemare organicamente, come Assessore della Giunta mangiagalli negli anni Venti, il museo del Risorgimento di milano e nel procurare la stampa dei tre volumi del catalogo del Risorgimento del Bertarelli nel 1925), appoggiati da Alessandro Luzio (storico del Risorgimento, sovrintendente degli archivi di mantova, dal 1899, e poi di Torino, dal 1917)15, denunciava per la prima volta la deficienza di un ragionato ordinamento scientifico e cronologico. L’obiettivo era affrancare i musei dalla tutela politico-sentimentale che soffocava sul nascere ogni ipotesi di valorizzazione scientifica del loro ruolo16, perciò la selezione rigorosa del materiale espositivo diventava la condizione preliminare di una concezione museologica che mirasse alla qualità del documento più che all’affastellamento e all’accumulazione di “feticci”. La discussione congressuale raggiunse toni di polemica più concitata intorno al dualismo tra i “pretoriani della scienza” e le “vestali del mito”, nota endiadi di Ghisalberti: la dicotomia che si andava profilando tra due modi di concepire significato e funzione degli istituti in realtà faceva parte di uno scontro più ampio tra due

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visioni della rappresentazione della storia e della tradizione del Risorgimento. Da un lato, sulla scia dei relatori, in particolare archivisti e catalogatori, si schierarono quanti videro i musei come luogo di raccolta e deposito di fonti, laboratori archivistici e di ricerca a disposizione degli studiosi che si accingevano a ricostruire la storia italiana contemporanea sulla base di una documentazione  completa  e  di  ragionata  consultazione,  fautori  di  un disciplinamento che sferrasse un duro colpo al mito del Risorgimento canonico, retto sulla diffusione di leggende, racconti e aneddoti. Sul fronte opposto erano gli interpreti di un’esigenza politico-culturale più larga, fondata sul paradigma pedagogico che voleva i musei, come strumenti importanti di educazione nazionale, fossero in grado di colmare il fossato che separava la coscienza civile dei contemporanei dalla tensione etica che aveva animato i protagonisti del Risorgimento. Questi erano rappresentati prevalentemente dai professori, come Lodovico corio (direttore del museo di milano dal 1900 al 1911, promotore di attività educativo-assistenziali, dedito alla scuola e all’educazione popolare, e di quella interpretazione del Risorgimento basata su eroismi militari e sacrifici individuali), carlo Arnò, (professore universitario) o Felice momigliano. Si deve a Luzio l’immagine icastica del museo come “bottega di rigattiere” o “santuario di pinzocchere”, ripresa quasi trent’anni dopo, nel 1934, da Antonio monti, il più autorevole esponente della museologia storica durante il ventennio fascista, che avrebbe constatato la longevità di una filosofia espositiva che valorizzava: “sub specie di cimeli, i capelli, le unghie, i frammenti di ossa, i sigari fumati per metà da patrioti, le bende insanguinate, le divise costellate di buchi prodotti dalle tarme, ma che al pubblico si lascia volentieri credere siano stati prodotti dalla mitraglia nemica, i cappelli di Garibaldi forati da palle che non hanno mai colpito l’Eroe alla testa, i letti dove dormirono i loro sonni agitati o placidi i grandi uomini del Risorgimento” 17. La mozione finale risultò dalla fusione delle proposte: ma l’auspicio a una maggiore attenzione per la raccolta e l’ordinamento dei materiali risultava subordinato al fatto che i musei “debbono avere sempre di mira lo scopo educativo e popolare al quale sono diretti”; lo scopo principale doveva essere insomma quello di tenere sempre viva la fiaccola del patriottismo. Le celebrazioni a Roma furono inaugurate dal sindaco Nathan il 27 marzo

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1911. La capitale rivendicò un primato spirituale e intellettuale conteso fra tradizione e modernità, ovvero fra culto del passato, entusiasmo scientista ed esaltazione del popolare e del consumistico. per la classe dirigente romana l’esposizione fu una grande occasione per celebrare il proprio “giubileo laico” osteggiato da cattolici e socialisti, per rilanciare quindi agli occhi dell’opinione pubblica straniera il ruolo nazionale e internazionale della Roma italiana.  Intorno  alla  figura  del  sindaco  si  coagulavano  le  forze  laiche  e anticlericali, esprimendo una giunta sensibile alle esperienze del riformismo europeo e alla cultura urbanistica internazionale. Quinto dei dodici figli di Sara Nathan, gran sacerdotessa della conservazione della memoria di mazzini, Ernesto Nathan fu educato dalla madre all’insegnamento mazziniano della vita come una missione e della religione del dovere. politicamente pragmatico, al contrario del suo maestro, la sua ascesa politica era stata frutto di un’abile tessitura di alleanze e della progressiva conquista di posizioni: la scalata ai vertici della massoneria, l’alleanza con Giolitti, la fiducia guadagnata presso Vittorio  Emanuele  III.  Sebbene  Nathan  mirasse  a  un’ampia  autonomia  dal governo centrale, condusse la sua azione politica attraverso un’intesa col governo, resa possibile dalla convergenza tra il programma del “blocco popolare” di segno democratico-radicale e la tendenza giolittiana ad allargare la base dello Stato, a favorire la collaborazione tra gruppi liberal-democratici e partiti popolari e integrare la parte riformista dei socialisti nell’Italia liberale 18.  I toni radicali di Nathan si erano espressi già in occasione dell’anniversario della presa di Roma, il 20 settembre 1910, dove egli pronunciò un discorso in cui rivendicava la superiorità della civiltà laica, di cui l’Esposizione dell’anno successivo sarebbe stata un’evidente manifestazione. Le sue parole suscitarono le reazioni risentite del mondo cattolico e del Vaticano che si protrassero, toccando anche toni antisemiti, a voluta esasperazione dell’antitesi tra le due Rome 19 riproponendo il motivo dell’intransigentismo cattolico dell’”usurpazione” del 1870, da cui conseguirono l’aconfessionalità dell’amministrazione capitolina e la desacralizzazione della città. Aure di radicalismo riecheggiarono quindi nei discorsi inaugurali dell’esposizione romana, il 27 marzo 1911, con la cerimonia di apertura in campidoglio quando ci si apprestava a inaugurare la mostra di Belle Arti a Valle Giulia: il tema era quello dell’intangibilità di Roma capitale connesso all’altro d’ascendenza mazzi-

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niana della terza Roma. Un cenno a un terzo tempo della supposta rinascita epocale, intrecciato a richiami laicisti la dice lunga sul senso politico subito impresso dalla classe dirigente ai festeggiamenti romani. In quell’anno giubilare parlare dell’Italia che si era fatta equivaleva a parlare dell’Italia che c’era: il progresso del presente avvalorava l’impulso dato dai precursori e dai padri della patria. Il Risorgimento si perfezionava a sua volta, in una sorta di secondo tempo politico-economico e in un adempimento di modernità dalla cui aspirazione lo stesso movimento unitario aveva preso le mosse. La mostra del Risorgimento di Roma, ospitata nelle sale del monumento a Vittorio Emanuele II, si inaugurava il 20 settembre 1911. come il Walhalla per la nazione tedesca, il Vittoriano aveva lo scopo di rappresentare la nazione per radicare i miti e simboli unitari nella coscienza popolare e stimolare la celebrazione del culto dell’Unità 20. Iniziato a costruire nel 1885 giungeva alla soglia del cinquantenario, incarnando l’apoteosi della monarchia: casa Savoia come simbolo dell’unità della patria, palladio della sua indipendenza e della sua libertà. In un periodo in cui prendeva forma la spinta imperialista che avrebbe portato nel 1911 alla guerra di Libia, esso diventò il segno del compimento dell’Unità italiana e della coscienza nazionale che, volgendosi verso l’esterno, si definiva in rapporto ai paesi stranieri in nome della patria, di una patria sacra che aveva una religione e ora anche un altare, l’Altare della patria. Il monumento fu molto discusso sul piano estetico, paragonato a una macchina da scrivere della Olivetti che allora cominciava a circolare, con i tasti disposti a gradinata in un’alzata a semicerchio, che ne ricordava il colonnato, e per quel suo bianco abbacinante che appariva stonato nella scena romana. ma una volta divenuto familiare, quel monumento ha finito coll’incarnare un simbolo, esemplificato nelle scritte sul frontone delle sue due torri laterali, patriae unitati e civium libertati: Unità e Libertà, i due grandi valori che avevano guidato il movimento risorgimentale 21.  collocare all’interno del simbolo dell’apoteosi della monarchia l’esaltazione del pensiero repubblicano e mazziniano, celebrando una repubblica popolare  come  quella  romana  del  1849,  è  frutto  di  quello  spirito  di appiattimento dei conflitti risorgimentali in virtù di una sintesi conciliativa, già applicato nel museo di Torino e riproposto nella mostra della Napoli clerico-moderata del marchese Ferdinando del carretto, all’interno della quale

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si commemorava un’altra repubblica, quella partenopea del 1799.  La mostra del Risorgimento nel Vittoriano era tutta scandita sull’affrancamento della città dal pontefice. per gli allestitori la storia di Roma dal 1796, prima eco della rivoluzione di Francia tra le mura cesaree, fino al giorno in cui fu fatta capitale d’Italia, garantiva una risonanza universale poiché all’interno di essa si rifletteva la storia dell’Italia tutta: Roma divenne la sintesi suprema della storia italiana. Vittorio Fiorini ne fu il regista: professore di storia moderna e lettere nei licei, nel 1911 fu nominato direttore generale per le scuole medie. Iniziavano tuttavia a sentirsi le influenze delle discussioni del congresso del 1906: il pathos e il disordine degli anni Ottanta del XIX secolo lasciavano spazio a un materiale ordinato e chiuso in vetrine con scarsa possibilità di fruizione. Si riduceva fortemente la tendenza reliquiaria e macabra di cui invece aveva dato grande sfoggio la città di Roma al padiglione del Risorgimento nell’Esposizione Generale di Torino del 1884: non più la mano mummificata della giovane colomba Antonietti, morta nella difesa di Roma, o i brandelli della tunica di ciceruacchio tolti nell’esumazione del suo cadavere, ma al posto dei cimeli i ritratti. Nelle tre sale della mostra come scriveva la “reporter” ufficiale dell’evento Vittoria Buonanno: “pochissimi di quegli oggetti vi sono che troppo spesso ingombrano le mostre: vecchie uniformi, cappelli, sciabole, berretti; tali cose che, pur mostrando un senso di amorosa pietà in chi le raccoglie troppo ricordano i reliquiarii delle chiese, sono state quasi interamente bandite dalla mostra presente e hanno ceduto il posto ai documenti manoscritti” 22.  Si osservavano infine cenni alle dottrine frenologiche, proprie dell’età del positivismo, la cui onda lunga ancora si percepiva nell’Italia delle nuove influenze dell’hegelismo napoletano e dell’idealismo di Benedetto croce e Giovanni Gentile. Nella mostra infatti era esposto il ritratto del cranio aperto di mazzini, le cui circonvoluzioni celebrali evidenziavano come nel cervello dell’Apostolo predominassero il carattere liberale, il giudizio della sapienza divina e il patriottismo  23. Le teorie di Franz Joseph Gall, medico tedesco, creatore della frenologia, si diffusero anche in Italia grazie a Giovanni Antonio Lorenzo Fossati, che dagli anni Venti del XIX secolo tenne conferenze a milano, Venezia, Firenze, Bologna, Roma e Napoli. Secondo questa dottrina medica tutte le funzioni psichiche avrebbero una ben definita localizzazione

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cerebrale, cui corrisponderebbero dei rilievi sulla teca cranica, che consentirebbero la determinazione della loro esistenza, del loro sviluppo, e conseguentemente dei caratteri psichici dell’individuo. In realtà il suo intento di fare della disciplina la base del liberalismo politico italiano, attribuendo i compiti e gli incarichi politici sulla base dei “talenti particolari” individuati dall’indagine frenologica, oltre alla condanna delle autorità ecclesiastiche e dell’hegelismo, aveva suscitato sospetti tra intellettuali che, nella maggioranza, auspicavano il raggiungimento dell’unità politica della nazione italiana in uno Stato che garantisse costituzionalmente la parità dei diritti dell’individuo  24. La pratica della misurazione del cranio degli eroi del Risorgimento appariva già diffusa nel 1850, quando, compagno di prigionia politica di carlo poerio nel carcere di S. Francesco di Napoli, il medico Biagio Gioacchino miraglia ne studiò il cranio concludendo che poerio fosse uno di quegli uomini “che Dio crea con parsimonia sulla faccia della terra.” Nel 1860 era la volta di Timoteo Riboli che si recò a caprera per misurare il cranio di Garibaldi e dimostrare le sue eccezionali qualità, quindi nel 1871 paolo mantegazza ispezionò la testa di Ugo Foscolo. A Napoli i festeggiamenti per il cinquantenario del plebiscito meridionale diedero vita a due mostre storiche: una ordinata da Salvatore di Giacomo insieme a Benedetto croce, sostenitori e compartecipi di quella giunta clerico-moderata del marchese Ferdinando del carretto, al potere fino al 1914, e l’altra realizzata nel Regio Archivio di Stato di Napoli dal sovrintendente e archivista Eugenio casanova.  In età giolittiana le frequenti cadute della Giunta e i ripetuti scioglimenti del consiglio comunale accentuarono un senso di precarietà e d’inefficienza amministrativa del comune di Napoli. La società napoletana risultava ancora dominata dall’aristocrazia e dalla borghesia delle professioni, che traevano il loro sostegno economico dalla rendita parassitaria e della proprietà fondiaria, ed era segnata contemporaneamente dal commercio e dai servizi. La legge del 1904 per il risorgimento economico della città di Napoli, che accordava particolari agevolazioni alle imprese, fu il primo tentativo serio di rinnovamento dell’economia napoletana. Il discorso inaugurale della mostra pronunciato  dal  sindaco  Del  carretto,  come  avvenne  a  Torino  e  Roma, concentrava infatti l’attenzione del pubblico sulle prospettive di sviluppo fu-

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turo come “secondo tempo” dell’epoca del Risorgimento 25. La celebrazione del Risorgimento come presupposto ineludibile del progresso economico meridionale emergeva poi nel “Bando del concorso per una pubblicazione storica sul risorgimento meridionale” 26 della cui redazione fu incaricato croce perché si realizzasse uno scritto di natura storiografica su “La cooperazione del mezzogiorno d’Italia al risorgimento nazionale” e “La condizione economicosociale del mezzogiorno d’Italia nell’ultimo cinquantennio (1860-1910)”. La “mostra di ricordi storici del Risorgimento nel mezzogiorno d’Italia” si inaugurava il 25 maggio 1911 nelle sale municipali della Galleria principe di Napoli, dopo che nel 1910 il sindaco aveva costituito un “comitato per le Feste commemorative del cinquantenario del plebiscito meridionale”, presieduto da Riccardo carafa Duca d’Andria. L’ordinamento della mostra fu affidato a Salvatore Di Giacomo, poeta, letterato e collezionista, che la compose con materiali in larga parte radunati a sue spese, e che in più occasioni si avvalse della consulenza di croce. Il filosofo non fu e non volle essere coinvolto ufficialmente nell’evento, ma fu lui ad attribuire quel taglio storiografico del Risorgimento come risultato di una vicenda di lunga durata, segnata dalla rivoluzione napoletana del 1799.  A questo proposito risulta interessante un confronto con l’opera di Alfredo Oriani: a partire dagli anni Dieci del XX secolo, la riabilitazione crociana fece sì che la sua influenza si riflettesse sulla cultura degli anni della celebrazione del cinquantenario e che emerse proprio nella mostra di Napoli, dove appunto croce curò l’allestimento. I musei e le mostre del Risorgimento diventavano luogo della nuova espressione ideologica di quegli anni, in cui l’impresa libica veniva nobilitata e giustificata, il colonialismo italiano e l’espansione africana venivano riannodati al Risorgimento e alla sua eredità sull’onda dell’interpretazione di Oriani, che aveva giudicato Dogali “la prima conseguenza di Solferino” perché quell’evento aveva dimostrato come la nazione sentisse la “necessità di uscire di se stessa per affermarsi politicamente nell’opera internazionale delle maggiori potenze” 27. Oriani dava alle stampe la sua La lotta politica in Italia 28 negli stessi anni in cui scriveva carlo Tivaroni, autore dei nove volumi della Storia critica del Risorgimento italiano, redatti tra il 1888 e il 1897, che contribuì alla formazione del pensiero nazionale di quegli anni. Anche Oriani voleva delineare una storia d’Italia di largo re-

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spiro, cercando le ragioni profonde della formazione dell’Italia nuova, che gli appariva come risultato di un processo secolare non ancora compiuto e pervaso dal contrasto tra le correnti federalistiche e le unitarie 29. ma, a differenza del lavoro dello scrittore zaratino, quella del romagnolo Oriani fu un’opera in anticipo sui tempi, che non incontrò un ambiente favorevole né in campo storiografico,  dominato  dall’indirizzo  filologico  puro,  né  nel  campo  politico militante-triplicista e conservatore nella classe dirigente, radicale e repubblicaneggiante nell’opposizione costituzionale, anarchico-socialista nell’opposizione rivoluzionaria, e neppure tra il grosso pubblico che lo ignorò. La sua riabilitazione ebbe inizio nel 1908, col saggio di Benedetto croce pubblicato prima nella “critica”, e poi nella Letteratura della nuova Italia 30, dove il filosofo disapprovava la storiografia ideologica pura e riconosceva all’Oriani la dote essenziale dello storico: il saper vedere le cose dall’alto, dovuta all’influenza di Hegel. Le sue idee, considerate inattuali e sovversive nel 1892, risultarono profetiche quando in Italia sorse una corrente politica che si proponeva per fine “la grandezza della nazione”, quando l’Italia “riscattò” Adua, conquistando la Libia nel 1911-12, quando si sganciò dalla Triplice alleanza e si congiunse con la Triplice Intesa (Inghilterra, Francia e Russia) per liberare Trento e Trieste nel 1915-‘16; quando infine cercò col fascismo una politica di grande potenza che culminò con la creazione dell’effimero impero d’Etiopia nel 1936 31. Il nuovo slancio italianistico simboleggiato dalla guerra italo-turca coinvolse anche la classe intellettuale meridionale, come testimonia l’incarico che croce ebbe dal sindaco, nel novembre 1911, di dare vita a un comitato cittadino, per raccogliere fondi per le famiglie dei soldati morti o feriti nella battaglia di Tripoli, e dal telegramma inviato al Duca d’Andria a Tripoli dal marchese Del carretto in occasione della chiusura della mostra, il 12 novembre 1911: “nelle terre ove lo spirito militare patriottico italiano di cui Ella nobilmente risente il sacro fascino, riafferma ancora una volta il più puro eroismo dell’antica gloria di nostra gente” 32. Il Duca d’Andria, acceso conservatore, e già creatore del gruppo nazionalista, partecipò alla guerra libica come volontario, sottolineando l’idea della guerra coloniale come elemento unificante per il paese e vivificatore dei trionfi passati. Aveva proclamato nel discorso inaugurale della mostra: “Il libro della Storia non è chiuso. Faccia Iddio che le pagine nuove possano stare accanto, non vergognose, alle antiche” 33.

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come a Torino e Roma, concentrata sulla storia locale, anche a Napoli i festeggiamenti costituivano una solenne manifestazione che la città organizzava per ricordare se stessa attraverso gli eventi passati e gli uomini del suo miglior tempo e destino, nella commemorazione del plebiscito meridionale.  La mostra abbracciava le testimonianze delle quattro rivoluzioni napoletane, quella del 1799, del ’20-’21, del 1848 e quella del 1860, con una schiacciante attenzione dedicata agli eventi dal 1799, alla Repubblica Napoletana e a Gioacchino murat, il momento cardine del rinnovamento politico e intellettuale nella storia di Napoli. Si tentava così di dimostrare il precoce spirito unitario del mezzogiorno, addirittura collocandolo fra le premesse del Risorgimento e sottolineando il tributo di fede, di pensiero e di sangue che nelle vicende risorgimentali il meridione offrì. Uno degli elementi più interessanti all’interno della mostra (oltre al grande peso che fu attribuito al patriottismo femminile, donne, regine, intellettuali e soprattutto rivoluzionarie, tendenzialmente trascurate dagli altri allestimenti o trattate unicamente come madri, mogli o sorelle di un uomo) fu la presenza di un “gabinetto antropologico”. Organizzato dal prof. Zuccarelli, illustrava con fotografie, stampe, crani e scheletri interi le figure più notevoli del brigantaggio. Questo indica l’attenzione che solo una mostra del Sud rivolse al fenomeno assegnandogli una connotazione politica, ostacolo superato al processo di consolidamento della nazione appena nata. come a Roma poi, si ripresentava in una mostra storica una dottrina medica, l’antropologia criminale, che fece della predeterminazione dell’indole il proprio caposaldo. Tacciata di “pseudo-scientificità” da Benedetto croce, ci si chiede come egli abbia accettato questa presenza in un allestimento da lui supervisionato. ma tante risultano le contraddizioni ai vertici di questo evento, a partire dalla natura conservatrice e clericale degli organizzatori, delle competenze filologiche e letterarie ma non storiche di Di Giacomo, delle tendenze antipositivistiche del curatore storico, Benedetto croce, insieme ai piccoli conflitti interni dovuti a quelle vanità personali paralizzanti ogni impresa, che rivelano una classe intellettuale napoletana ancora profondamente disorientata sulla posizione da assumere all’interno dei nuovi equilibri tra passato e presente. Tali incoerenze si riepilogano in maniera esemplare in ciò che croce scrisse nella seconda edizione di Aneddoti e profili settecenteschi, raccontando un episodio significativo della passione settecentesca dell’amico Di Giacomo:

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Nel 1911, incaricato di ordinare per conto del municipio di Napoli, una mostra di ricordi storici del Risorgimento nell’Italia meridionale  –  cosa  che  rispondeva  al  suo  gusto  di  raccoglitore  di stampe, disegni e acquerelli e di ogni sorta di chincaglierie – al termine del lavoro mi disse che voleva vendere tutti gli oggetti che aveva apportati di suo acquisto perché “Il Sessanta, il bianco, il rosso e il verde mi fanno stomaco”, e additandomi un ritratto di Ferdinando IV soggiunse con profonda convinzione: “Quello era un Re!” E concluse con la sentenza “per me la storia finisce quando finisce la polvere di cipria e il codino”. Bella conclusione ed epigrafe per una mostra del Risorgimento, il quale, per l’appunto, cominciò col far smettere la cipria e tagliare i codini 34.

Note e discussioni

NOTE 1. V. castronovo, Torino, Roma-Bari, Laterza, 1987; pagg. 81-82; L. Aimone, F. Filippi, 1884. La nazione italiana al lavoro, in Le esposizioni torinesi, 1805-1911, Torino, Archivio Storico della città di Torino, 2003; pagg. 79-82; B. Tobia, Una patria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita (1870-1900), Bari, Laterza, 1991; pagg. 80-81. 2. E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2006; pagg. 6-8. 3. G. Galasso, Introduzione in Catalogo della mostra storica napoletana. Ristampa anastatica, Napoli, comune di Napoli Edizioni, 2011; pag. 14. 4. E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo; pagg.6-7. 5. Esposizione internazionale dell’Industria e del lavoro Torino 1911, Relazione della giuria, Officine Grafiche della STEN, Torino, 1915; pag. 22, manifesto collettivo dei sindaci di Roma e Torino pubblicato in tutti i comuni d’Italia il 15 marzo 1908. 6. cfr. B. Tobia, Il giubileo della patria. Roma e Torino nel 1911, in U. Levra e R. Roccia (a cura di), Le esposizioni torinesi 1805-1911. Specchio del progresso e macchina del consenso, Torino, Archivio Storico della città di Torino, 2003. 7. cfr. S. montaldo, Patria e affari. Tommaso Villa e la costruzione del consenso tra l’unità e la grande guerra, Torino, comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1999.

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8. Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro Torino 1911, Relazione della giuria, cit.; pag. 4. 9. cfr. U. Levra, Dalla città “de capitalizzata” alla città del Novecento, in U. Levra (a cura di.), Storia di Torino. Da capitale politica a capitale industriale (1864-1915), vol. VII°, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2001; pagg. cLVII-cLVIII. 10. m. Baioni, “La religione della Patria”. Musei e istituti del culto risorgimentale (1884-1918), Treviso, pagus Edizioni, 1994; pagg. 80-81. 11. U. Levra, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino, comitato di Torino  dell’Istituto  per  la  storia  del  Risorgimento  italiano,  1992;  pagg.  113-116. 12. ivi; pagg. 109-112. 13. Il 23 dicembre 1908 il sindaco di Torino in accordo con la giunta municipale, riferiva che: “In seguito all’avvenuto trasferimento del museo nazionale del Risorgimento italiano nella sua definitiva sede nella mole Antonelliana, si rende indispensabile, per le urgenti eventuali comunicazioni, l’impianto di una linea telefonica delle reti municipali.” Archivio Storico del comune di Torino (d’ora innanzi AScT), Affari Gabinetto del Sindaco, cart. 299, fasc. 23, verbale della giunta municipale di Torino, 23 dicembre 1908. 14. AScT, Serie I 46, estratto di verbale del consiglio comunale di Torino, 9 luglio 1902. 15. Atti del primo congresso per la storia del Risorgimento italiano tenutosi in Milano nel novembre 1906, milano, Tipografia Fratelli Lanzani, 1907; pagg. 73-88. 16. m. Baioni, La “religione della Patria”. Musei e istituti del culto risorgimentale (1884-1918), cit.; pagg. 119-123. 17. A. monti, A proposito di “Mostre” e di “Musei del Risorgimento” in “Rivista storica del Risorgimento, n. 2, 1934; pag. 627. 18. cfr. A.m. Isastia, Storia di una famiglia del Risorgimento, Torino, Università popolare di Torino, 2010; V. Vidotto, Roma capitale, Roma-Bari, Laterza, 2002. 19. A. Riccardi, Roma «città sacra»? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, milano, Vita e pensiero, 1979; pagg. 14-15. 20. cfr. G. mosse, La nazionalizzazione delle masse: simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, Bologna, Il mulino, 1994; pag. 85. Sul significato dell’Altare della patria come “luogo della memoria” si veda B. Tobia, L’altare della Patria, Bologna, il mulino, 1998. 21. G. Galasso, Introduzione in Catalogo della mostra storica napoletana. Ristampa anastatica, cit.; pag. 13. 22. V. Buonanno, La Mostra del Risorgimento, in “Rassegna illustrata della esposizione del 1911”, a. II, n. XXI,  15 novembre 1911.

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Luisa Renzo, Il Risorgimento rappresentato

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Note e discussioni

Quaderno di storia contemporanea/50

23. A. calza, La Mostra del Risorgimento in “Le Esposizioni del 1911. Roma-Torino-Firenze”, F.lli Treves Editori, 1911, milano; pag. 386. 24. L. Fiasconaro, Giovanni Antonio Lorenzo Fossati in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997, vol. 49°. 25. “Fidenti guardiamo all’avvenire sicuro d’Italia, poiché la stessa forza di carattere e di sacrifico che animò i forti che tanto fecero per l’Italia nostra, ci animerà nella lotta pel progresso e per la grandezza di questa diletta patria, che sempre più si affermerà nel campo del lavoro e della civiltà, come le grandi memorie del passato impongono ed auspicano!” cit. in Le solenni feste del Cinquantenario. S.A.R. Il Duca d’Aosta inaugura la Mostra Storica del Risorgimento Napoletano. Il discorso del Sindaco, in “Il mattino”, 26-27 maggio 1911; pag. 4. 26. Archivio della Fondazione “Biblioteca Benedetto croce”, “Bando del concorso per una pubblicazione storica sul risorgimento meridionale”, 19 gennaio 1911. 27. m. Baioni, La “religione della Patria”. Musei e istituti del culto risorgimentale (1884-1918), cit.; pag. 154. 28. A. Oriani, La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale (476-1887), Torino, Roux, 1892. L’opera era suddivisa in tre volumi e nove libri: Il Federalismo municipale, Gli Stati, La democrazia moderna, Il Risorgimento, I moti del ’21, L’ultima rivoluzione federale, L’egemonia piemontese, La rivoluzione unitaria, Il Regno d’Italia e Il secondo periodo monarchico. Sull’opera di Alfredo Oriani si vedano m. Baioni, Il fascismo e Alfredo Oriani: il mito del precursore, Ravenna, Longo, 1988 e V. pesante, Il problema Oriani: il pensiero storico-politico, le interpretazioni storiografiche, milano, F. Angeli, 1996; E. Dirani, I cento anni della “Lotta politica in Italia” di Oriani (1892-1992), in “I Quaderni del cardello”, n. 3, 1992; E. Dirani (a cura di), Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo. Relazioni presentate al Convegno su Orianesimo e Stato nazionale nel primo ’900, tenuto a Ravenna nel 1984, Ravenna, Longo, 1985. 29. A. m. Ghisalberti, Introduzione alla storia del Risorgimento, Roma, cremonese, 1942; pagg. 172-74. 30. B. croce, La letteratura della nuova Italia, vol. 3, Bari, Laterza, 1915; pagg. 227-258. 31. W. maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino, Einaudi; pagg. 379-389. 32. La chiusura della Mostra Storica, in “Il Roma” del 13 novembre 1911; pag. 4. 33. Le solenni feste del Cinquantenario. S.A.R. Il Duca d’Aosta inaugura la Mostra Storica del Risorgimento Napoletano. Parla il Duca d’Andria, in “Il Roma” del 25 maggio 1911; pag. 5. 34. citato in G. Genovese, m. Rascaglia, N. Ruggiero (a cura di), “Una lunga fedeltà”. Il Di Giacomo di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 2008; pagg. 55-56.

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Italia 61. Giovanni Gronchi alle camere: considerazioni su di un discorso politico

Mi scusi Presidente, lo so che non gioite se il grido Italia Italia! c’è solo alle partite ma un po’ per non morire, o forse un po’ per celia abbiam fatto l’Europa, facciamo anche l’Italia! (G. Gaber)

L’ingresso del presidente Gronchi fu accolto dalle camere riunite con un’ovazione unanime e standing – mi sia concesso l’americanismo: è tutt’altro che fuori luogo nel marzo 1961, nonostante la politica italiana venisse ancora documentata nel bianconero da parata dei cinegiornali Luce.  Si inauguravano le celebrazioni per il centenario dell’unità nazionale e, spenti gli applausi, Gronchi scandiva l’inizio del suo intervento – “quell’anno 1861 si presentava denso di problemi e di preoccupazioni”1. Si potrebbe ora fargli eco, e replicare che anche quell’anno 1961 – millenovecentosessantuno – si presentava non meno problematico: il centenario si trovò infatti a cadere in un momento cruciale nel costruirsi dell’Italia contemporanea2, nel vivo di cambiamenti tanto evidenti da non poter essere ignorati neppure nel discorso ufficiale che ne apriva le manifestazioni. Di quei mutamenti non si dava davvero ragione, né in quest’intervento né in genere da altre parti – cosa che rappresentò una costante della cultura nel boom economico; era tuttavia evidente che non si celebrava l’Italia come qualcosa di fatto, ma la si celebrava nel mezzo di un farsi che ne avrebbe determinato il profilo negli anni a venire. Il discorso di Gronchi alle camere ce ne restituisce il clima autentico, e offre quindi un criterio – non l’unico né il migliore, ma pur sempre possibile, a po-

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Luca Zanetti, Italia ’61. Giovanni Gronchi alle Camere

Luca Zanetti


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steriori – per ripercorrere quelle celebrazioni con gli occhi di allora. Questo io ora mi propongo; è poi inevitabile che si cerchino intanto le ragioni che impressero alle manifestazioni di quell’anno un tratto tanto diverso rispetto a quelle a cui abbiamo da poco assistito – ma che cosa si debba considerare frutto della contingenza storica, e cosa invece sia stata conseguenza di scelte precise, penso lo si vedrà chiaramente.

Note e discussioni

Costruendo la storia patria Il cinegiornale riportò l’intervento di Gronchi con un rapido fuoricampo, ponendo l’accento sul fatto che “dal suo discorso affiorano nomi gloriosi che fecero di un mosaico una nazione unita”3. È già significativo che per riassumerlo venisse scelta questa via piuttosto che un’altra: il Risorgimento ripercorso dal presidente nella prima parte del suo intervento si muove davvero per nomi illustri – sono in particolare i ‘quattro grandi’ che nei primi mesi di quell’anno avevano ricevuto gli omaggi ufficiali da parte del capo dello Stato e dei rappresentanti del governo Fanfani: Vittorio Emanuele sepolto nel pantheon, cavour a Santena, mazzini a Genova, Garibaldi a caprera 4 – ma nel suo complesso quel discorso non si può certo esaurire così. Sarebbe stato ugualmente valido introdurre alle celebrazioni del ’61 secondo i suoi contesti, Roma e Torino soprattutto, oppure seguendo le tre grandi mostre che lo celebravano – la mostra storica, la mostra delle Regioni e l’Esposizione universale del lavoro – o ancora parlando di Italia 61, lo spazio espositivo inaugurato a Torino per ospitarne le manifestazioni; ma il centenario rappresentò prima di tutto l’espressione e l’apice di un’Italia che non solo si costruisce, ma nel contempo ricostruisce anche la propria storia patria, la storia come memoria nazionale, e in quell’occasione fu fondamentale il ruolo che lo Stato si assumeva nel tracciarne i contorni – e da qui occorre dunque partire, trattando di una celebrazione. Al discorso di Gronchi non sfuggono le complessità storiche e interpretative di quel 1861: “la ricorrenza centenaria ha destato un fervore critico di riesame dei valori tradizionalmente identificati nella complessa vicenda del Risorgimento, che varrà certamente a portare un valido contributo alla interpretazione più aderente alla intima realtà di quegli eventi, ma non si smi-

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nuisce il merito di alcuno degli studiosi più recenti se si osserva che forse non si è ancora stabilito, malgrado ogni sforzo di buona fede per la relativa brevità del tempo intercorso, il distacco che deve caratterizzare lo stato d’animo dello storico”. Apertamente si ammette che il Risorgimento non si può ancora considerare un processo completamente compreso, e anzi “a noi spetta, qui, collocare la celebrazione che oggi ci riunisce anche nell’ambito più proprio del nostro interesse politico quale rievocazione dell’inizio – come ho già detto – di una trasformazione profonda delle coscienze e degli istituti”. Occorre però fare i conti con un’ambiguità di fondo: Gronchi ammetteva una sorta di sostrato comune che univa i grandi nomi del Risorgimento, e che costituiva quell’inizio che veniva celebrato – “dinanzi al fermentare delle idee innovatrici, diverse e avverse furono le reazioni degli uomini che si sentivano gravati, per altezza di coscienza o per dovere del proprio ufficio, dalle maggiori responsabilità. ma vorrei dire che, nella divisione anche contrapposta dei compiti, nella differenza spesso esasperata degli orientamenti e dei metodi di attuazione, ci fu, in fondo, una compenetrazione. Qualcuno l’ha definita felicemente osmosi di intenti e di azioni che di fatto era un portato naturale del tendere tutti ad un fine comune”; la propaganda del centenario tese invece a semplificare queste opposizioni e a dimenticare le divergenze – e riesce difficile immaginare altrimenti – e propose piuttosto un’immagine monolitica del Risorgimento, dove unico era l’intento generale e unico lo spirito, e i nomi illustri finivano per essere espressioni agiografiche dello stesso ideale. I ‘quattro grandi’ dovevano in realtà essere uno – il tentativo di privilegiare il Garibaldi  popolare  e  di  opporlo  addirittura  a  cavour  in  Viva l’Italia! di Rossellini viene accolto con riserve e stroncato nei contributi statali, nonostante si noti che pure “non sfugge all’immagine di un Garibaldi mistificato, umiliato, costretto all’oleografia. […] Si deve tuttavia riconoscere, sia pure in mezzo a non poche ambiguità, il tentativo di una qualche revisione storica – della storia addomesticata –, di far luce su certi contrasti tra Garibaldi, cavour e Vittorio Emanuele, su un’incontro a Teano che esclude la visione di un’ottimistica e ingenua concordia” 5. Basti poi a questo proposito confrontare i profili composti degli eroi del Risorgimento proposti nel ‘61 con quelli semi-ironici e demistificatori – quando non apertamente revisionisti – che si sono letti di recente 6.

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Luca Zanetti, Italia ’61. Giovanni Gronchi alle Camere

Note e discussioni


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Note e discussioni

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Il luogo per eccellenza di questa direzione propagandistica fu la grande mostra storica, ospitata a palazzo carignano a Torino tra il maggio e l’ottobre di quell’anno. Qui un’esposizione ripercorreva per tappe il periodo che va dai moti del ’20 e del ’31 – e un po’ a ritroso, dalle prime sale con esposti gli scritti di Beccaria e di Alfieri – fino all’unità raggiunta. L’intento era chiaramente quello di suggerire un percorso unico, che veniva mostrato nelle sue diverse forme – l’esposizione ricalcava, anche nel suo ordine di sale, lo svolgersi storico del movimento di unificazione nazionale. Non poteva essere diversamente: “il problema che immediatamente si impose all’attenzione del comitato ordinatore riguardava la necessità di contemperare le esigenze di spettacolarità e di presa sul pubblico anche il meno preparato. pubblico che la mostra storica deve richiamare ed interessare facendo leva sugli stimoli della fantasia popolare, sul gusto dello spettacolo. […] A questo scopo precipuo si stabilì non certo di rinunciare alla parte più strettamente documentaria, ma di limitarla all’essenziale, presentando i documenti di maggior rilievo, di più immediato significato storico, facilmente rilevabili anche dal comune visitatore” 7, si precisa sul catalogo ufficiale della mostra – a essere mostrate erano vere e proprie reliquie dei protagonisti del Risorgimento italiano e della Torino prima capitale.  La propaganda si impegnò soprattutto nelle scuole: nello stesso marzo 1961 una circolare dell’onorevole Bosco, ministro della pubblica istruzione, chiese esplicitamente di inserire Torino tra le mete privilegiate di eventuali gite scolastiche, insieme a luoghi e monumenti che ricordassero cavour, mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele – indifferentemente, perché non c’è appunto distanza avvertita tra loro. Nello stesso documento si stabilì di istituire comitati provinciali che elaborassero un programma di celebrazioni nello specifico dei singoli istituiti, “con una libertà di iniziative che valga a sottolineare l’impegno morale alla solidarietà, all’attaccamento ai valori e alle alte tradizioni del nostro paese” 8, e che un numero del giornale scolastico andasse dedicato interamente al tema. Nelle scuole di ogni grado vennero distribuite piccole antologie che ripercorrevano l’unità d’Italia attraverso gli scritti dei suoi migliori protagonisti – immancabili i discorsi di cavour, i passi diaristici di Garibaldi, i proclami di Vittorio Emanuele e le considerazioni politiche di mazzini, e accanto a loro De Amicis, Balbo, cattaneo e Brofferio: se

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in “Sulla via di Roma” 9, il volumetto distribuito alle ultime classi delle scuole elementari italiane, si preferivano passi più semplici ed evocativi, episodi d’eroismo schietto, e ritratti a piena pagina dei ‘quattro grandi’, le antologie per ragazzi davano resoconto di proclami ufficiali, azioni gloriose, e addirittura riportavano a confronto i testi dello Statuto Albertino e della costituzione Italiana.  come spesso accade con gli indirizzi generali di propaganda, è difficile offrire un documento inequivocabile della tesi sostenuta – nel discorso di Gronchi, ad esempio, si dimostra una consapevolezza che tenderebbe a smentire quanto detto; quell’idea va piuttosto avvertita tra le righe, nelle immagini, nei simboli del centenario. Soprattutto è facile desumerla dalle vive reazioni che certe scelte provocarono: sulle pagine di “Rinascita” di Togliatti – e sono le critiche più estreme – si parla di “falsa, rettorica, sagristica, ondata celebrativa del centenario”, si accusa di “mistificazione che avviene in primo luogo sul terreno storiografico, laddove la storia è impiegata (o meglio piegata) perché dica il contrario di quello che ha detto”10. La pacificazione storica a cui sono sottoposte le vicende risorgimentali è additata come una “grande narrazione” d’idealismo crociano, per cui “i fasci siciliani e il sangue in cui furon disfatti obbediscono anch’essi alla provvidenza della storia ad maiorem gloriam del liberalismo italiano. La storia dell’Italia unita intorno ai suoi re è la mistica epifania di una perfezione ineguagliabile, ove contrasti e dolori si risolvono in gioie e trionfi”11 – anche ammettendo di buon grado che la sinistra aveva anch’essa una sua “grande narrazione” del Risorgimento, diversa e opposta a quella ufficiale, l’immagine resta di grande stimolo per riflettere sulle proposte del centenario. Un caso emblematico è l’idea più volte ribadita dall’onorevole pella, ministro del Bilancio e presidente delle celebrazioni di Italia 61, che sostenne il realizzarsi nel Risorgimento di una “pace religiosa, difendendo la raggiunta conciliazione fra anima di cattolico e anima di italiano”12 – un modo di vedere le cose aspramente avversato al di fuori della Dc: “non si deve sapere – da parte delle masse popolari, giovanili in specie – che la chiesa, la sua politica, il suo atteggiamento sono stati la forza nemica del Risorgimento. […] perciò alla TV è proibito accennare al conflitto tra Stato e chiesa, […] al dramma del neoguelfismo”13. A scorrere le antologie per le scuole si è tentati di dare ragione ai critici: tra tanto di aneddoti sulle carità

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Luca Zanetti, Italia ’61. Giovanni Gronchi alle Camere

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del pontefice, che quasi per un accidente storico si trovava ad essere un avversario, si scrive che per questo “sino all’ultimo il governo italiano sperò che pio IX non desse alle sue truppe l’ordine di resistere ed evitasse così un’inutile battaglia. per far sì che il papa avesse più tempo per decidere, le truppe italiane avanzarono lentamente. […] pio IX dette al suo esercito l’ordine di resistere fino a quando le truppe italiane non fossero riuscite ad entrare in città”. Ovunque si proclamava di volere evitare la facile retorica e mostrare piuttosto la grande varietà spirituale degli uomini che si resero protagonisti dell’unità – ma il tentativo di fare da contrappeso ai revisionismi di quegli ultimi decenni fu pagato con eccessi nella direzione contraria.  coincise poi con il centenario anche lo sdoganamento della Resistenza, che completa il quadro di quella storia patria che si andava edificando; ma se il Risorgimento era materiale disponibile per la propaganda nazionale, già a suo modo elaborato e presente almeno in parte nella cultura italiana, quest’ultima si accostò alla Resistenza come novizia. Nel dibattito culturale e nell’arena politica si inizia a parlare di Resistenza, mentre fino ad allora lo spazio pubblico le era tacitamente interdetto: si avviava un processo di rielaborazione che darà i suoi frutti da lì a pochi anni, ma che nel 1961 stava ancora muovendo i suoi primi passi, e la Resistenza – ancora non costretta a una forma edulcorata e incensata – fu per questo uno degli argomenti su cui si giocò la critica al progetto ufficiale delle celebrazioni. Nell’opposizione alla “virata a destra” del governo Tambroni la nuova generazione si era riscoperta antifascista – ma “del fascismo essi odiano non l’immagine buffonesca e macabra del ventennio ma la cancrena che esso oggi diffonde nell’organismo sociale e politico attraverso l’insolente furfanteria dei politicanti, la corruzione del sottogoverno, […] l’istituto della ‘raccomandazione’ sostituito al ‘diritto al lavoro’”14 –  e il luglio 1960 era stata la premessa per vedere il dopoguerra come effettivamente finito, come storia. Ancora in questo clima era arrivata la discussa ‘circolare Bosco’, che disponeva l’annovero della storia recente nei programmi scolastici – fino ad allora ci si fermava al primo conflitto mondiale, e non si parlava di fascismo, mentre ora la Resistenza entrava a far parte della pubblica istruzione. ma questo riconoscimento era parziale, e l’effettiva impreparazione di tutti a questa novità, unità ai termini piuttosto ambigui della circolare, aprirono inevitabilmente

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al dibattito; la Resistenza era infatti ammessa come fatto, ma ancora non era data un’interpretazione precisa, nulla almeno di paragonabile al periodo risorgimentale. Nei programmi aggiornati alla ‘circolare’ si finì con il parlare di Resistenza ma senza menzionare il nazifascismo, mentre la televisione si muoveva cauta nel suo rigido codice di autocensura che talvolta non era nemmeno sufficiente – una scenetta musicale che parodiava i gerarchi fascisti basta a far intervenire il presidente del consiglio: le critiche non vengono solo dal movimento sociale italiano e delle destre, ma in generale emerge un atteggiamento di cautela verso le implicazioni politiche di un periodo non ancora rielaborato; in quell’occasione Fanfani richiama la  RAI a essere “una tribuna pubblica e universale”, e pertanto “si evitino commenti che possano apparire, a spiriti retti e semplici, irrisione alle cose che tutti i popoli considerano fondamentali alla vita civile”15.   Nel centenario la celebrazione della Resistenza finì quindi per essere un argomento della sinistra, attraverso la perifrasi del “secondo Risorgimento”: su “Rinascita” si legge in chiari termini che “il fascismo, se portò al limite tutti gli equivoci dell’esito monarchico del Risorgimento, fece anche maturare faticosamente, prima in una opposizione sorda e quasi inconsapevole, poi nella Resistenza, una nuova unità del popolo italiano” 16. Non si vuole qui negare che i canoni interpretativi non fossero mutati, e si riusciva a guardare alla Resistenza solo attraverso la griglia del conflitto di classi; ma è pur vero che quello di “secondo Risorgimento” rimane l’unico status chiaramente riconoscibile della Resistenza nel dibattito attorno alle manifestazioni del ’61, nelle cui celebrazioni rientrò in modo ambiguo – Torino ’61 fu chiusa da un grande raduno di partigiani, 60000 reduci stipati in piazza Vittorio Veneto, ma nel contempo come fuori luogo, senza giustificazione apparente nella propaganda delle celebrazioni, estranei nel complesso tanto ai festeggiamenti che alla “grande narrazione” della sinistra. Anche nella piccola saletta conclusiva della mostra storica, che era proprio intitolata agli “echi del Risorgimento  nella  Resistenza”,  non  si  poteva  ammirare  che  qualche  tricolore partigiano e per i resto soltanto armi. Ricorda Arturo Jemolo che la Resistenza fu altro dal Risorgimento, i partigiani non furono – se non per metafora – nuovi mazziniani: “si sentivano, più che incompresi, odiati dalle forze fasciste dovunque tenaci, non connesse a un sistema politico quanto al culto

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della violenza. Gli uomini del Risorgimento non conobbero questi incubi: mai immaginarono che, dopo cent’anni, popoli d’Europa con grandi tradizioni avrebbero temuto di essere, come i romani del Basso Impero, alla mercé di rivolte di pretoriani”17. ma in questo loro essere altro sta ciò che la storia del centenario non riuscì a collocare – “gli uomini che convengono a tali raduni hanno diverse opinioni, il bene dell’Italia lo concepiscono in modi talora opposti. […] Queste nubi e questi contrasti danno il loro valore al raduno delle forze della Resistenza”18.

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1961: considerazioni sul boom economico “I più avveduti, fra quegli uomini politici, avevano già lo sguardo rivolto all’avvenire” – continuava poi Gronchi. La critica mossa alle celebrazioni del centenario è qui fuori luogo: non solo infatti ci si mostra consapevoli che “il Risorgimento si traduceva in atto con tormentata fatica”, ma addirittura non si esita a trovare nei “termini attuali” del problema risorgimentale e nell’impegno che esso richiede – così ci si esprime – “la più degna celebrazione di questo centenario di unità”. Lo sguardo all’avvenire è lo sguardo prospettico: “già da allora […] vi furono uomini di larga ispirazione umana e di profondo impulso politico, i quali non rimasero chiusi nella visione di una unificazione concepita come risultato di un grande processo storico, venuto a maturazione per l’idealismo operante di una classe politica. […] Essi intravidero nei fermenti di emancipazione, che già si annunciavano nelle masse popolari e nei ceti medi, uno dei movimenti più attivi di un processo ancora più impegnativo di unificazione morale, poiché esso non si esauriva nella conquista di una libertà fine a sé stessa, ma della libertà faceva strumento di giustizia” – come a dire: non tutta la Dc può essere tacciata di quella visione idealistica e pacificata della storia nazionale che pure fu l’indirizzo della propaganda ufficiale per il centenario. L’idea del Risorgimento come momento di unità morale del popolo italiano nei suoi migliori esponenti rappresenta la cifra più originale del discorso di Gronchi – e “questo è il processo ancora incompiuto, che pesa sulla nostra responsabilità”. Il vero tema del suo intervento si rivela quindi essere il presente; que-

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st’ultimo è del tutto inteso come opportunità: “la dinamica del nostro sviluppo tecnico ed economico ci ha portato oggi a mète che hanno sorpreso il mondo: […] la vitalità del potenziale umano dell’Italia si è in cento anni quasi raddoppiata, mentre la consistenza del suo patrimonio produttivo è aumentata per lo meno di cinque volte sino a raggiungere un’ampiezza che sembra ormai suscettibile di sviluppo autonomo e di capacità competitiva in campo mondiale”. chiaramente riecheggia qui il mito del miracolo italiano, che costituisce lo sfondo generale a cui il discorso di Gronchi va ricondotto; ciò che interessa ora non è però la sua verità fattuale, ma piuttosto il suo apparire tra cinquanta e Sessanta: scrive crainz che “in Italia più che in altri paesi europei antiche aspirazioni ed elementari esigenze iniziano a realizzarsi contemporaneamente all’irrompere di costumi e bisogni nuovi”19, ed è perciò spiegato come si potesse creare quantomeno una forte immagine collettiva di un futuro prossimo, e che tale immagine, tale sentire comune, sia stato una delle cifre di quegli anni. Sulla sua realtà parlino più o meno concordemente i dati, e su tutti Bianciardi: “ora sembra che tutti ci credano, a quest’altro miracolo balordo: quelli che lo dicono già compiuto e anche gli altri, quelli che affermano non è vero, ma lasciate fare a noi e il miracolo ve lo montiamo sul serio, noi. È aumentata la produzione lorda e netta, il reddito nazionale cumulativo e pro capite, l’occupazione assoluta e relativa, […] l’età media, la statura media, la valetudinarietà media, la produttività media e la media oraria al giro d’Italia”20 – rendere conto del mito è sufficiente a giustificare l’ottimismo di Gronchi e del suo tempo, e a capire come ciò potesse segnare le celebrazioni del ’61. ciò che caratterizzò il periodo del boom economico fu il radicale ridisegnarsi dello stesso modo di vivere degli italiani, e se nel criticato Viva l’Italia! di Rossellini erano i giornali a scandire i successi di Garibaldi, è ora la televisione a creare e diffondere i nuovi simboli del cambiamento. Tra cinquanta e Sessanta il televisore arriva nei circoli, nelle parrocchie, nei caffè, e nella casa della metà degli italiani, insieme al frigorifero e alla lavatrice. A un’Italia che usciva povera dal secondo conflitto mondiale, e che solo in quel periodo si avvicina ai consumi e al benessere europeo, spesso standone comunque sotto la media, la televisione porta il mito dell’automobile, della motocicletta e della velocità  21 - porta il mito della città, nei cui simboli la

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nuova generazione potrà trovare una nuova identità. Il paese, il campanile e la parrocchia costituivano l’orizzonte del contadino, mentre la città era “un fiume di persone, […] tetri e aggobbiti gli uomini, ritte e secche le donne, la testa alta, la faccia immobile, tranne un ritmico vibrar delle gote, per il contraccolpo dei passi rigidi sui tacchi a spillo”, come li descrive Bianciardi 22. Volendo tracciare una direzione nell’immaginario che vado delineando, si consideri la strada che dal paese porta alla grande metropoli: è la direzione delle grandi migrazioni interne – tra ’55 e ’70, 15 milioni di persone che cambiano residenza nel centro-Nord, 3 milioni che si muovono dal Sud, un milione di italiani che ridiscende la penisola; è la via dei pendolari per Torino e per milano, ed è infine la strada che diventa modello di un’epoca.  ciò che mi serve qui è rendere conto di una speranza, e l’analisi non può procedere che per simboli  – ed è comunque vero che, tra entusiasmi e allarmismi, la cultura nel miracolo economico offrì raramente un’indagine migliore. Si poteva intendere il simbolo in chiave negativa, ma tale restava: il centenario fu criticato appunto come “apologia del ‘miracolo economico’ all’insegna dei monopoli”23, ma si assumeva sempre il mito del boom a paradigma interpretativo. L’intervento di Gronchi alle camere è diverso non tanto nell’analisi che propone, ma piuttosto nella particolare prospettiva dalla quale si accosta al boom: se il mito porta a vedere nello sviluppo economico l’opportunità di realizzare le istanze portanti, morali, del Risorgimento, si guarda però sopratutto ai problemi del presente, perché sia chiara la strada ancora da fare. conclude infatti che “gli obbiettivi di ordine morale e sociale sono ancora assai lontani dal loro raggiungimento, riconosciamolo, malgrado sforzi che, in prima linea dallo Stato, si sono compiuti. Questi obbiettivi sono l’irrobustimento dell’assetto produttivo ed umano dell’agricoltura, l’assorbimento della disoccupazione e della sotto-occupazione croniche, l’espansione dell’istruzione in generale e di quella professionale in specie, ad una dimensione veramente sociale, l’eliminazione dei divari economici fra nord e sud, l’ulteriore elevamento nel genere e nel tenore di vita delle classi lavoratrici e dei ceti medi, la distribuzione più giusta del reddito ai vari livelli della piramide sociale: distribuzione necessaria alla difesa dei valori umani del cittadino” – più che un manifesto programmatico, è piuttosto una costatazione delle esigenze del tempo volta a dover essere.

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La questione del mondo rurale ed agricolo non a caso è messa al primo posto, fu il cambiamento più evidente anche nella sua negatività: nei quindici anni tra il ’50 e la metà dei Sessanta si contano quasi 4 milioni di occupati in meno nel settore agricolo, cosa che muta radicalmente l’assetto del paese, svuotando un suo scenario fino ad allora caratteristico. L’agricoltura cambia volto e cambiano i volti di chi se ne occupa – all’esodo da zone tradizionali della pianura padana e dell’Italia centrale fa da controcanto l’avanzare dei centri urbani, la fine della mezzadria, il nuovo profilarsi di palazzi e pioppeti sulle abbandonate risaie. Nella città, l’operaio è un emigrante, viene da un mondo differente, ed è spesso in condizioni critiche – “Non era aria da mettere in mutua per una sospetta silicosi o per una diminuita capacità respiratoria del diciotto per cento. cos’era quella smania delle statistiche, anche per i polmoni della gente? Respiravano, no?”, fa dire Luciano Bianciardi a un ingegnere responsabile 24. Il farsi dell’italiano non è più agevole del costruirsi della nazione: scrive Bocca che “i villaggi della fascia sono ostili e agri per gli immigrati, come l’America per gli uomini della conquista: stesse privazioni, infamie, sofferenze, delusioni; qui, come nel West, una generazione allo sbaraglio, che costruisce le sue case nella notte, che rischia tutto ciò che possiede. ma chi pensa che qui possa uscire un nuovo italiano, sicuro, fiducioso, orgoglioso della propria epopea come l’americano, probabilmente si sbaglia. […] manca al pioniere della fascia la fiducia emersoniana del successo legato al merito. Avremo un pioniere rassegnato. Operaio sì, ma con tutte le ambizioni e i pregiudizi dei contadini per tutti gli anni a venire” 25.  Nella milano simbolo del boom l’occupazione aumenta del cinquanta per cento, nella Torino capitale del centenario si supera il milione di abitanti, mentre si spopolano le regioni tradizionalmente rurali. Questa situazione fu fotografata dalla seconda delle tre mostre gemelle a Torino, quella delle Regioni: venti padiglioni, progettati da casati e disposti a scacchiera nel verde del parco di Italia 61 – uno per ognuna delle regioni italiane, più il ventesimo a ripercorrere il contributo di tutte all’unità nazionale. Fu un’ammissione – sia pure festosa – delle differenze e delle difficoltà tra le varie parti d’Italia: il piemonte mise in mostra il suo pionierismo industriale, l’Alto Adige raccontò la vita alpina, il Lazio la sua storia e la Basilicata quella dei suoi migranti, la calabria le sue lotte contro la siccità, la Sicilia parlò dei popoli che

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l’avevano eletta a loro patria. La speranza del centenario consistette nel pensare che questo parlarsi delle regioni potesse trasformarsi in un dialogo, che si potessero capire a vicenda: Gronchi aveva indirizzato a “far beneficiare della maggiore disponibilità di beni sostanzialmente le zone economiche ed umane che soffrono di un più basso tenore di vita e sono legate ad un più duro lavoro”26 – in modo tale che l’unificazione compiuta fosse adeguamento del benessere, delle prospettive di vita in tutta la penisola. Sullo stesso tono, mario Soldati intervenne sul catalogo delle mostre con una metafora:

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fra le famiglie di nostra conoscenza, noi ne contiamo alcune che, apparentemente, sono molto unite: i loro membri si assomigliano, vanno d’accordo, fanno lo stesso mestiere, hanno lo stesso carattere, gli stessi interessi, ecc. Non litigano mai. Una pace mortale; una noiosissima requie; […] soprattutto, senza vita e senza avvenire. […] All’opposto, conosciamo famiglie dove padre e madre, figli e figlie tra di loro e verso i genitori, sono in perpetuo contrasto, in una guerra senza tregua: […] queste, le famiglie che noi amiamo; le famiglie i cui membri possono essere chiamati a grandi imprese: le famiglie veramente unite: unite in un’unità operante e viva, profonda, amorosa, e così forte che può permettersi lo sfogo e la civetteria di qualunque contrasto e di qualunque differenza” – per inciso, la speranza che l’avvenire nazionale passasse attraverso la valorizzazione delle autonomie regionali si fondava sull’essere “senza più paura, ormai, di assurdi e impensabili separatismi” 27.

La parte più chiaramente positiva del discorso di Gronchi è il suo richiamo al fatto che in questa dinamica “non si può non invocare l’iniziativa dello Stato”: propone un interventismo che non è l’ingerenza statale motivata dalla difesa del paese – egli anzi si oppone a questa direzione del parlare politico: “ troppo si è abituati ad invocare indirizzi di azione politica o sociale od economica per difendere il paese, la società in cui viviamo, da qualcuno o da qualche cosa” – ma che consiste in un’azione politica volta al bene di una nazione che si sta definendo. Quest’ultima notazione fu di grande coraggio,

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Nel celebrare l’Italia unita, il presente e l’avvenire non furono così nettamente distinti: “operando nel presente, noi siamo ansiosi di valutare la linea di sviluppo delle nostre azioni anche come cointeressati e quasi contemporanei del futuro”, e l’intervento si concludeva – l’ho già citato – con un congedo verso un’era più prospera. Si farebbe ora un torto all’autentico spirito di quelle manifestazioni, se intendessimo queste parole come sola retorica: la più evidente distanza tra quelle celebrazioni e queste ultime si misura in gran parte nel fatto che il futuro fosse ancora prossimo, e la stessa parola domani fosse assai meno bandita; se la cultura del boom elevò il futuro a méta collettiva, il centenario ne realizzò il più imponente monumento – e non nella capitale storica, ma nella nuova Torino, la metropoli di un milione di abitanti, a un tempo culla del Risorgimento e grande centro industriale, che significava meglio di ogni altra città italiana quell’impasse tra storia e avvenire che caratterizzò le celebrazioni del 1961. Si intende soprattutto riferirsi ora a Italia 61, l’immensa area innalzata ex novo a sud della città per accogliere due dei tre grandi eventi torinesi – vale la pena infatti di provare a reimmaginare l’opera che più di tutte celebrò il centenario della nazione, e capire come essa dovesse prima di tutto stupire, ergendosi a icona della modernità italiana e dando corpo a quel futuro prospettato da Gronchi 29.  Il progetto di Italia 61 consisteva in un grande parco verde – cinquanta ettari di terreno che la bonifica aveva guadagnato all’urbanizzazione – che

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specialmente se ci mettiamo davvero all’ascolto dell’augurio di Kennedy per il centenario dell’Italia – “noi americani confidiamo che il popolo italiano […] riattingerà nuove energie per intensificare il suo vitale contributo alla causa della libertà” 28 – e avvertiamo l’onere reale e non solo l’onore retorico di questo compito; in quell’occasione si prospettò invece che l’intervento statale potesse essere “non sovrapposizione, né surrogazione: ma integrazione e coordinamento ad un fine superiore comune”: si avverte l’ansia riformista che poi caratterizzerà la fine del centrismo e l’apertura a sinistra – ma non è questo il luogo per fare bilanci – e soprattutto si sente la speranza, alimentata dalla propaganda del centenario, di poter presto giungere a “un’era più prospera per noi e per i tutti”, come si concludeva l’intervento alle camere.  Icone dell’avvenire: Italia 61


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ospitò la mostra delle Regioni e l’Esposizione internazionale del lavoro. Quest’ultima era stata fortemente voluta a Torino in occasione del centenario, e vi portava il meglio dello sviluppo tecnologico: in rappresentanza furono chiamati a Expo diciotto paesi esteri, cinque organizzazioni internazionali, e l’eccellenza dell’industria italiana – la FIAT, la montecatini, la pirelli, l’ENI e la Olivetti, accanto ai primi computer IBm e al modello di cervello umano portato dall’America. per ospitarla fu costruito il palazzo delle nazioni,  un “ciclopico edificio progettato da pier Luigi e Antonio Nervi con l’impiego sorprendentemente moderno di un elemento antichissimo: la colonna” 30 – anch’esso tra i simboli del centenario, una costruzione poderosa in ferro e vetro che si sorregge sulle “colonne più alte del mondo, giacché misurano cinque metri di più di quelle del tempio di Karnak” 31, e che i suoi progettisti intesero come primo esempio di un avvenire architettonico:

Note e discussioni

il fatto nuovo e fondamentale è che il profilo del grandissimo arco, o lo schema strutturale atto a risolvere un imponente tema statico, non possono più essere inventati ma solamente scoperti; i loro inventori sono le leggi che regolano gli equilibri tra le forze agenti e le possibilità  resistenti  della  materia.  E  per  ciò  le  opere  relative diventeranno obbiettivamente vere ed immutabili (salvo particolari più o meno significativi) nel tempo e nei luoghi. […] Se queste osservazioni sono valide, noi assistiamo al più grandioso fenomeno che sia mai avvenuto nella cultura umana: la nascita di uno stile comune a tutta l’umanità, definito da capisaldi ancorati a legge di natura e che pertanto non potrà più subire involuzioni, ma solo evolversi in un progressivo avvicinamento a verità immutabili” 32.

proprio accanto stava il palazzo manifestazioni – ribattezzato palavela per la sua avveniristica copertura, altra icona visiva di Torino ’61 e più in generale dell’iconografia di quegli anni Sessanta. così dunque si presentava al visitatore quel quartiere interamente nuovo: sulla riva del po, l’area che ospitava i venti padiglioni delle Regioni e l’attracco delle tre grandi motonavi, portate sul fiume per l’occasione; all’altro lato, oltre il ribattezzato corso Unità d’Italia, il palazzo delle nazioni e il palavela, l’ingresso, un luna park.

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Note e discussioni

e macchine sono figlie della riflessione: per questo colpiscono più sicuramente chi è dotato di fantasia. Turbano, invece, disturbano gli individui pavidi e ottusi. Noi vediamo i severi filosofi chiedersi, incerti ed allibiti, il significato di uno strumento, di un congegno, e, d’altra parte, constatiamo come i bambini, pieni di coraggio e di virtù divinatrici, riescano sempre a trovare la chiave dell’enigma, la molla nascosta. […] La morale della macchina è la stessa morale del giocattolo: il giocattolo non va preso troppo sul serio 35.

Il progresso e il moderno fecero mostra di sé nel palazzo delle Nazioni, mentre al suo esterno divertivano e stupivano il visitatore: la FIAT finanziò il circarama, un cinema a trecentosessanta gradi che portava a Torino la tecnologia Disney, e per le strade di Italia 61 si viaggiava in autobus panoramici a due piani o nell’ovovia che collegava l’area con il parco di cavoretto. Il simbolo per eccellenza di Italia 61 rimase la monorotaia, su cui correva il treno che portò più di quattro milioni di visitatori dall’ingresso al palazzo della Esposizione – gli anni cinquanta avevano cambiato il modo di misurare e percorrere le distanza, e la monorotaia dava l’illusione di poter guardare ancora oltre. Il cartellone fu ricchissimo: ospiti illustri, spettacoli, concerti – si contarono, nei sei mesi dell’esposizione, sette milioni di visitatori. Sia infine detto per inciso: parlando di Italia 61 si citano spesso le sue hostess, le centocinquanta ragazze che si occuparono di accompagnare gli ospiti per le strade del parco tra il maggio e l’ottobre del ’61. Al pari delle strutture avveniristiche,

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L’area non fu soltanto il luogo per eccellenza delle mostre del ‘61, ma anche un’attrazione di per sé stessa – doveva essere una celebrazione per il centenario italiano che ne mostrasse anche il possibile avvenire, e proponesse un vero e proprio modo di vita: “a ‘Italia 61’ non si vende nulla, se non il biglietto d’ingresso” 33, non furono ammessi cartelloni pubblicitari né striscioni, e fu soprattutto uno spazio in cui trovava soddisfazione “anche chi cerca solo ore di svago, la meraviglia del nuovo, l’arditezza avveniristica” 34, il futuro per il futuro. Ovunque si vedeva non il meccanismo d’industria, ma la leggerezza delle grandi conquiste tecnologiche – sul catalogo ufficiale Leonardo Sinisgalli annotò:


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anch’esse incarnavano un ideale dei primi Sessanta: votate a un regolamento che voleva il loro comportamento “al riparo da ogni critica, sia in uniforme che in borghese, in servizio o fuori servizio, in ogni momento ed in ogni luogo”, impeccabile la divisa e obbligatori il cappello e i guanti, “un trucco leggero e armonioso, ed una pettinatura semplice, ordinata e pratica, lo smalto solo di colore naturale, senza gioielli se non semplici anelli”, mai accompagnate a un solo uomo “allo scopo di evitare ogni equivoco”, le hostess di Italia  61  dovevano  rappresentare  sempre  “il  comitato  Nazionale  per  la celebrazione del primo centenario dell’Unità d’Italia, la donna italiana e la tradizione di ospitalità torinese” 36 – e tutto considerato, sottolineerei soprattutto la seconda. Nel sentire comune, Italia 61 anticipava un avvenire prossimo, e si guardava al futuro sembrava che le realizzazioni del centenario anticipassero quello che sarebbe stata l’Italia da lì a cinquanta anni: “arrivederci  nel  2011”,  arrivederci  al  centocinquantenario,  prometteva  un pannello di Italia 61. Senza dubbio fu un’idea ampiamente diffusa dalla propaganda delle manifestazioni, e ho cercato di render ragione di come fosse ancora possibile pensare al futuro in questi termini; è però quasi straniante rileggere per intero di quel 2011 che era lecito sperare – quello, e non questo: quando quest’anno è poi arrivato, mi pare che nessuno abbia rinnovato l’appuntamento a un nuovo avvenire.

Note e discussioni

Il terzo dei miei figli, Franco, che compiva in quei giorni tredici anni, restò colpito e volle che il suo papà provasse ad immaginare questa tappa nella vita del paese: ed ecco che come attraverso una immaginaria ripresa cinematografica, vedo ambascerie giungere a Torino da ogni parte del mondo per celebrare i 150 anni dello Stato italiano; la città che ha raggiunto i due milioni di abitanti, è più chiassosa del solito. L’ambasceria più pittoresca è senza dubbio quella degli Stati Uniti d’Europa. […] Il clou delle celebrazioni torinesi per i centocinquanta anni dell’Italia unita è costituito dalla partenza di una astronave che reca su marte cinquecento tra tecnici ed operai euro-italiani, i quali contribuiranno ai lavori, già iniziati, di ampliamento e di sviluppo di una città fantastica ribattezzata “Torino-nuova”. […] Gli euro-italiani del 2011 hanno tutti un lavoro. Anche quelli della Lu-

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cania. […] Gli operai lavorano o, meglio, vigilano per diciotto ore alla settimana, sulle macchine azionate dall’energia nucleare, di costo irrisorio. Qualcuno, come il novantenne John Kennedy, torna in Italia nel 2011 e grida al “miracolo”. ma non si tratta di un miracolo, bensì di un prodigioso sviluppo economico e civile che, finalmente, ha reso, quella italica, una civiltà unitaria: non c’è differenza tra piemonte e calabria, tra Lombardia e Lucania. […] con diciotto ore di lavoro settimanali, l’operaio comune, nel 2011, può dedicare due terzi di ogni mese ad occupazioni piacevoli o riposanti: è costretto a cercare nell’educazione più completa e nello studio il modo di passare tutto quel tempo disponibile. […] La scienza, in questo 2011, ha trionfato completamente sulla natura, sì che tutti gli esseri umani si coprono e si nutrono di prodotti sintetici. Anche i neo-matusalemme: il processo di ringiovanimento degli organismi vecchi è, infatti, una cosa talmente comune che l’esistenza degli individui superiori ai 150 anni non è più una cosa eccezionale ma alla portata di tutti 37.

Italia 61 finì abbandonata, e in un certo senso quello fu anche il destino del riformismo evocato da Gronchi – ma soprattutto fu la sorte di quell’idea di domani, che a una decina d’anni dalle manifestazioni si era ridotta a metallici scheletri e tristi macerie, “vetri fatti bersaglio delle sassate, intonaci sbriciolati dalle intemperie, ruggine e detriti – è l’emblema della distruzione totale: pannelli staccati dal soffitto, fili elettrici penzolanti, pavimento cosparso di spezzoni di cristallo” 38; la monorotaia non venne riutilizzata, abbandonata l’ovovia, “il circarama: […] di vetri non se ne trova uno intatto, si cammina su un tappeto di schegge” 39. È significativo notare come il progetto s’arenò al momento di destinare le strutture a un nuovo utilizzo, quasi non si sapesse che farsene, di tutto quel futuro: la proposta di trasformare l’area in un centro specializzato nella formazione tecnica ad alto livello, così come quella di implementare della monorotaia perché diventasse un sistema di trasporto cittadino – sarebbe stata la prima metropolitana – e di riutilizzare l’ovovia e i padiglioni delle regioni, si persero tutte nelle discussioni e nei vuoti di bilancio. I costi davvero notevolissimi, che si valutarono in seguito come “otto miliardi buttati alle ortiche” 40, furono al centro di continue polemiche, prima a causa della

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Note e discussioni


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“pregiudiziale” di più di un esponente del  pc torinese 41 – così la liquidò il sindaco peyron – e poi a più riprese ogni volta che si proponeva di destinare ulteriori fondi al progetto. medesimo destino ebbe anche quell’interventismo etico richiamato nell’intervento alle camere, che andò a finire nell’immobilismo del centro-sinistra e ancora di più negli gli sprechi e nei fallimenti degli Enti di riforma agricola. L’“arrivederci al 2011” rimase sulla parete della struttura devastata, ai piedi pezzi d’acciaio e schegge di vetro. Non è però qui luogo per considerazioni in questo senso – ho seri dubbi che serva davvero leggere quegli eventi con l’occhio del contemporaneo; basti invece aver mostrato che il centenario non visse di una utopia gratuita e banalmente tradita dagli eventi, ma di un senso di futuro realizzato, che ha nel tempo la sua motivazione e che la propaganda delle manifestazioni assunse a tema dominante delle celebrazioni del ’61 –  a questo le camere tributarono la loro ultima ovazione, anch’essa standing, che chiudeva il cinegiornale in perfetto refrain del tema iniziale.

Note e discussioni

NOTE 1. per il testo dell’intervento del presidente Gronchi alle camere (25 marzo 1961) seguirò sempre la trascrizione in G. De Benedetti, Gronchi davanti alle Camere riunite legge il suo messaggio agli italiani, su “La Stampa” del 25 e 26 marzo 1961; pag. 1 e 13. 2. Ogni tentativo dimostrativo deve partire necessariamente da una tesi che si assume come dimostrata, e qui considero tale  il valore degli anni cinquanta e Sessanta nel definirsi della cultura contemporanea italiana. per una giustificazione, rimando per es. a G. crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni 50 e 60, Roma, Donzelli, 2003 (2° edizione). 3. Cent’anni or sono, La settimana Incom, 02055, 30 marzo 1961 – trascrizione e corsivo miei. 4. V. Statera, Le grandi manifestazioni con le quali l’Italia si prepara a celebrare i cento anni dell’unità, in “Stampa Sera” del 2 – 3 gennaio 1961; pag. 1. 5. G. Aristarco, Risorgimento e cinema, in “La Stampa” del 19 aprile 1961, a. 95, n. 93; pag. 3. 6. cfr. per es. L. Salvatorelli, Giuseppe Garibaldi, in “La Stampa” del 29 gennaio 1961;  pag. 1. 7. L’unità d’Italia. Mostra storica, catalogo della mostra storica a palazzo carignano, in Italia 61 (cofanetto di tre volumi, con Mostra delle regioni e Esposizione Internazionale del lavoro), milano, pizzi, 1961; pag. 38 – corsivo mio.

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8. V. s. (iniziali nel testo), Le scuole celebreranno degnamente il centenario in “La Stampa” dell’8 marzo 1961; pag. 3. 9. F. Golisano (a cura di), Sulla via di Roma. Figure ed episodi, Roma, Società Grafica Romana, 1961 – “La presente antologia viene pubblicata sotto gli auspici del monistero della pubblica Istruzione il quale ne ha disposto la distribuzione agli alunni della casse terminale della scuola elementare”. 10. p. s. (iniziali nel testo), Italia ’61, in “Rinascita”, a. XVIII, n.6, giugno 1961. 11. E. Garin, Il primo e il secondo Risorgimento, su “Rinascita”, a. XVIII, n. 9, settembre 1961. 12. G. n. (iniziali nel testo), L’attualità del Risorgimento in un discorso del ministro Pella, in “Stampa Sera” del 27 – 28 marzo 1961; pag. 1. 13. p.s., Italia ’61, cit. 14. Luglio, novembre e dopo, su “passato e presente”, n. 16-17, luglio – ottobre 1960. 15. Il fatto riguardò la trasmissione Tempo di musica, che era pensata per ripercorrere in modo leggero la storia d’Italia. Alla puntata Tempo della divisa, trasmessa nel marzo 1961, seguì un comunicato ufficiale della presidenza del consiglio che di fatto ne sconfessava la scelta di parodiare il fascismo. cfr. G. crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni 50 e 60, cit., pagg. 177-8. 16. E. Garin, Il primo e il secondo Risorgimento, cit. 17. A. c. Jemolo, La Resistenza, oggi, su “La Stampa”, del 1 ottobre 1961; pag. 1, lievemente adattato per le esigenze del testo. 18. Ivi. 19. G. crainz, Storia del miracolo. Culture, identità, trasformazioni fra anni 50 e 60, cit.; pag. 84 – corsivo nel testo. 20. L. Bianciardi, La vita agra, milano, Bompiani, 2006; pagg. 157-8. 21. mutuo quest’ultimo elenco da S. piccone Stella, La prima generazione. Ragazzi e ragazze nel miracolo economico italiano, milano, Franco Angeli, 1993. 22. L Bianciardi, La vita agra, cit.; pag. 13. 23. p.s., Italia ’61, cit. 24. L. Bianciardi, La vita agra, cit.; pag.37. 25. G. Bocca, Il pioniere rassegnato. In dieci anni 600 000 immigrati fra Milano e i laghi, in “Il Giorno”  dell’8 settembre 1963. 26. cit. lievemente adattata per le esigenze del testo. In originale: “ma è anche vero che, quando diviene possibile tale maggiore disponibilità di beni, occorre far sì che essa venga utilizzata in modo da farne beneficiare sostanzialmente le zone economiche ed umane che soffrono

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Note e discussioni


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di un più basso tenore di vita e sono legate ad un più duro lavoro”. 27. Mostra delle regioni, catalogo della mostra delle Regioni nel parco di Italia 61, in Italia 61 (cofanetto di tre volumi, con L’unità d’Italia. Mostra storica e Esposizione Internazionale del lavoro), milano, pizzi, 1961; pag. 8. 28. Caloroso proclama di Kennedy per il cetenario dell’unità d’Italia, in “La Stampa” del 10 marzo 1961; pag. 1. 29. per una trattazione complessiva dell’argomento, cfr. m. Rosso, S. pane, c. chiorino, Italia61: la nazione in scena, Torino, Allemandi, 2005. 30. Esposizione Internazionale del lavoro, catalogo di Expo nel parco di Italia 61, in Italia 61 (cofanetto di tre volumi, con L’unità d’Italia. Mostra Storica e Mostra delle regioni), milano, pizzi, 1961; pag. 63. 31. V. Statera, Il futuro è già incominciato, in “Stampa Sera” del  13-14 novembre 1961; pag. 3. 32. p.L. Nervi, Verso uno stile di verità?, in Esposizione Internazionale, cit.; pag. 40 – corsivo nel testo. 33. F. Rosso, A “Italia 61”, ci si può anche divertire, in “La Stampa del 7 maggio 1961; pag. 4. 34. Ivi. 35. L. Sinisgalli, Le macchine non sono tabù, in Esposizione Internazionale, cit.; pagg. 51-52. 36. Le citazioni sono tratte dal Regolamento delle Hostess di Italia 61, lievemente adattate per le esigenze del testo. In originale, rispettivamente: “Sia in uniforme che in borghese, in servizio o fuori servizio, in ogni momento ed in ogni luogo, ella deve adottare un comportamento al riparo di ogni critica” (Articolo I); “È obbligatorio portare il cappello, tranne al ristorante o negli uffici del Servizio Hostesses. È obbligatorio portare le calze. Una hostess deve sempre avere con sé un paio di guanti, anche se non è necessario infilarli. Solamente un trucco leggero e armonioso è tollerato, ed una pettinatura semplice, ordinata e pratica. È ammesso solo lo smalto di colore naturale. Non sono ammessi gioielli se non semplici anelli” (Articolo IV); “Allo scopo di evitare ogni equivoco, una hostess in uniforme è pregata di non apparire in luoghi pubblici accompagnata da un solo uomo, tranne se munita di un ordine di missione” (Articolo VIII); “Una hostess deve ricordare che rappresenta il comitato Nazionale per la celebrazione del primo centenario dell’Unità d’Italia, la donna italiana e la tradizione di ospitalità torinese” (Articolo I). 37. V. Statera, Il futuro, cit. 38. A. De Vito, Italia 61, tutto uno sfacelo, in “La Stampa” del 29 luglio 1973; pag. 10. 39. Squallore a “Italia 61”, in “La Stampa” del 27 settembre 1968; pag. 2. 40. A. De Vito, Italia 61, cit. 41. cfr. per es. Ecco un primo bilancio per le opere di «Italia 61», in “La Stampa” del3 dicembre 1961; pag. 2.

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cosa resterà del Risorgimento? Note storiografiche a margine del 150° dell’Unità

celebrare e ricordare. Due parole che paiono inscindibilmente legate tra di loro. Due verbi che sono stati il leitmotiv di questo 150° anniversario dell’Unità che sta ormai volgendo al termine. Fare un bilancio a caldo è sempre difficile, troppo elevato il rischio di perdere per strada le numerose, forse troppe celebrazioni che in fretta e furia, questo bisogna purtroppo dirlo, sono state organizzate per ricordare l’Unità. ma che cosa è rimasto? È forse ora, e più di prima, il Risorgimento entrato nella coscienza degli italiani? può sembrare scontata la risposta negativa in un tempo di profonda decadenza culturale del nostro paese, specialmente sull’onda provocatoria di forze politiche che fanno di un anomalo secessionismo (ma esiste una tradizione storica della padania?) la loro bandiera.  mai  quanto  oggi  la  nostra  Italia  avrebbe  bisogno  di “Risorgimento”. Quando un governo propone di modificare il quadro delle festività civili per ottimizzare l’economia non ci può essere, al contrario, giocando sui significati istintivi, che decadenza. Tentativi malriusciti  di  privarci  della  nostra  memoria,  di  svalutarla,  di  sminuirla, quando non di cancellarla. E così il dibattito sul 17 marzo ha agitato un’intera classe politica: festa o no? per poi decidere che quest’anno si poteva anche stare a casa e non produrre (lì sostanzialmente stava il problema) ma anche che la nostra Unità si sarebbe esaurita quel giorno senza più ricorrenze. cosicché se ricordiamo giustamente la Resistenza, la nostra rinascita, nulla più ci ricorda della nostra nascita. È indubbio che siamo circondati da monumenti e spazi risorgimentali: ogni centro, dalla grande metropoli, al più piccolo paesino di provincia di quest’Italia delle

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cento città (lì sta la forza del nostro paese), conserva i propri eroi e i propri martiri, scolpiti nel bronzo, nella pietra, nelle targhe di vie e piazze. Un patrimonio che ha costituito l’inizio di quell’itinerario della memoria studiato negli anni Novanta da mario Isnenghi in tre fortunati volumi recentemente ripubblicati da Laterza1. Allo studio però non è corrisposta necessariamente un’etica civile del ricordo. cosicché, senza custodi, la scomparsa dei protagonisti e degli ideali può determinare la fine di una storia. custodi che non necessariamente debbono essere gli storici. custodi possono essere coloro che, senza perdersi in vuoti patriottismi legati all’oleografia risorgimentale a volte ricorrente, si riconoscono parte di una comunità nazionale, partecipando quotidianamente e responsabilmente alla vita civile di un paese. cittadini consapevoli del percorso che dall’origine ha portato un intero popolo a prendere parte a una collettività moderna. Non esiste più dunque un tempo per ricordare il Risorgimento. Una parola che ad alcuni fa arricciare il naso portandosi dietro i retaggi dell’Italia liberale e monarchica, quando non dell’interpretazione fascista, ad altri risulta semplicemente estranea al loro bagaglio culturale. E questo vuoto culturale, perché altro non può definirsi, non può essere avulso che da una deficienza educativa. Specialmente nei giovani, vittime di riforme scolastiche destrutturanti, che hanno compresso lo studio della storia e cancellato il “Risorgimento”. cosicché nella scuola elementare, così fondamentale nella formazione, il tempo delle nostre origini è stato completamente espunto e lasciato, quest’anno, alla discrezione di insegnanti volonterosi. con buona pace di Edmondo De Amicis e della grande tradizione pedagogica italiana, che dell’educazione primaria aveva fatto una tappa fondamentale di quel “fare gli italiani” di azegliana memoria. Agli adolescenti ci si accontenta così di insegnare l’italianità e il senso di coesione nazionale  attraverso  l’inno  di  mameli  o  lo  sventolio  di  qualche  tricolore. Appiattirsi poi nell’ultimo anno delle medie superiori, quello che insomma “rimane” ed è proiettato alla “maturità”, allo studio esclusivo del Novecento (Dm 4 novembre 1996, n. 682) senza soffermarsi con più attenzione alle origini della nostra storia, perlomeno creando un filo di continuità tra i due secoli, insomma periodizzando, risulta tanto incomprensibile per chi abbia un minimo di buon senso storico, quanto necessario, per chi abbia come obiet-

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tivo ultimo arrivare alla fine della storia – una contemporaneità conosciuta senza le radici – per compilare burocratici formulari ministeriali. Oggi dunque più che mai è toccato all’accademia sopperire al vuoto delle istituzioni. E si può dire che all’effimero delle celebrazioni si sia contrapposto un percorso di rinascita degli studi sul Risorgimento che dura ormai da oltre vent’anni e che, quest’anno, sotto i riflettori dell’attenzione pubblica e del mondo dell’editoria (molte volte più interessato alle vendite che non ai contenuti a dire il vero), ha avuto un  vigoroso impulso dando motivo anche a dibattiti molto accesi. ci si riferisce anzitutto alle discussioni sorte attorno all’attività di Alberto mario Banti, docente di storia contemporanea presso l’Università degli studi di pisa. Questo studioso, già autore di pregevoli lavori sulla borghesia italiana 2, da un paio di lustri e a partire da un fortunato libro pubblicato da Einaudi nel 2000, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita,  ha cominciato un percorso di totale rivisitazione del Risorgimento che ha avuto, tra i molteplici contributi  3, il suo apice nella curatela assieme a paul Ginsborg dell’annale 22° dedicato al Risorgimento, edito nel 2007 nella Storia d’Italia, sempre per la casa editrice dello Struzzo. L’introduzione al volume, dal titolo Per una nuova storia del Risorgimento è un vero e proprio manifesto storiografico che vale la pena in questa sede esaminare nei punti nodali per cercare di definirne novità, portata, ma anche limiti.  pur  specificando  che  si  tratterà  di  un’analisi  parziale,  che inevitabilmente comporterà l’espressione anche di pareri dello scrivente.  La presa di distanza di Banti e Ginsborg è secca rispetto a ciò che si considera la vecchia storiografia “politica”, attenta, a loro dire, solo alla cronologia dei fatti, ai profili dei patrioti, all’equilibrata o meno distribuzione di pagine delle varie componenti del movimento risorgimentale. I curatori insomma sono alla ricerca di nuovi strumenti che possano metterli in grado di creare una storia del Risorgimento “diversa”, “altra”, aperta al confronto con le più diverse discipline quali l’antropologia, gli studi culturali e di genere, l’analisi dei testi scritti, visivi o musicali, l’esplorazione dell’immaginario, la comparazione. È dunque, quella di Banti e Ginsborg, una scelta che si orienta allo studio della “cultura profonda del Risorgimento”, costituita dall’osservazione delle mentalità, dei sentimenti, delle emozioni, delle traiettorie di vita, dei progetti politici

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e personali degli uomini e delle donne che presero parte alle vicende in questione. Ovviamente questa forte presa di posizione implica uno spostamento a centottanta gradi dell’osservatorio metodologico, una presa di distanza insomma da chi considera il Risorgimento un movimento elitario e in seconda battuta politico-diplomatico. Alla nuova storiografia viene dunque in aiuto il concetto di massa enucleato da George mosse in un classico della letteratura come La nazionalizzazione delle masse, ben specificando i curatori come non si intenda in realtà utilizzare  il termine per indicare l’immagine stereotipata di un popolo che si risveglia contro l’oppressore, bensì per far riferimento alle centinaia di migliaia di persone che al movimento risorgimentale  guardarono “con partecipazione, con simpatia sincera o con cauta trepidazione”: dunque sulla scia dello studioso tedesco la formulazione di una “nuova politica” nata dalla rivoluzione francese e declinata secondo il binomio popolo-nazione, depositario principale della sovranità. Emerge così come oggetto di studio uno stile politico “emozionale” ovvero un’estetica della politica pervasa dalla suggestione mitografica di simboli, narrazioni e allegorie che trova il suo campo congeniale nell’epoca romantica, in uno scambio reciproco tra nuove esigenze individuali e comunitarie: il “botton wind”, vento dal profondo, ripreso da Banti e Ginsborg da un’espressione di coleridge, che si ritrova in fenomeni come la mobilitazione dal basso o la forza comunicativa delle arti. Dunque principalmente il discorso nazional-patriottico  che  deve  essere  veicolato  tramite  romanzi,  poesie,  drammi teatrali, pitture, melodrammi oltre che da saggi politici, progetti, statuti e proclami: ecco le fonti di questa nuova storia del Risorgimento. Fonti capaci di “far battere il cuore, […] di far ribollire il sangue nelle vene, di far appassionare, di far piangere e di spingere all’azione”, come avevano capito quelle che Banti e Ginborg individuano come “le figure più mobilitanti del  Risorgimento”, mazzini – uomo che si occupava di lettere, arte e musica con la stessa consapevolezza politica con cui progettava le insurrezioni – e Garibaldi “l’eroe d’azione per eccellenza del Risorgimento”, egli stesso autore della propria mitografia. Narrazione e propaganda del discorso nazionale che si strutturano attraverso quelle che sono figure profonde, ovvero immagini, sistemi allegorici, costellazioni nar-

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rative che incorporano una tavola valoriale specifica. Figure profonde, primarie perché estreme e presenti nella coscienza di un popolo, anche da millenni. Dapprima la parentela, cioè la nazione intesa come “reticolo relazionale che si estende all’indietro verso le generazioni precedenti, che agisce nell’oggi verso i coevi, e che si proietta verso il futuro delle generazioni a venire”; una nazione dunque intesa come comunità biologica di discendenza, legata da una dimensione collettiva egualitaria, etnicista e territoriale, che non ammette “alcuna dimensione interetnica, o se si preferisce internazionale, che è, invece strutturalmente propria alle genealogie delle case regnanti”. poi la costellazione figurale di amore/onore/virtù, cioè la sovrapposizione dell’amore romantico a quello patriottico e la difesa della linea genealogica da parte di eroi capaci di tutelare la libertà e l’onore della nazione armi alla mano ed eroine sessualmente virtuose, fedeli alla causa e ai compagni in lotta o in esilio. Infine la figura profonda del sacrificio che sacralizza la nazione-comunità di combattenti pronti alla morte come atto finale di redenzione e realizzazione4. ma se dunque questa è la visione che si presenta, apolitica e culturale, che fine fa tutta quella parte della storia non inquadrabile negli schemi proposti? Sembra difficilmente possibile applicare questo sistema, questa “prescrizione autoritaria” come l’ha definita monsagrati in un recente convegno ad Alessandria  5, piuttosto classificatoria e incasellante, all’intera variegata costellazione risorgimentale. Un canone che sembra espungere completamente le figure che non furono mobilitanti, intese nel senso bantiano, come il conte di cavour ad esempio, il quale, considerato in quest’ottica, risulterebbe come un personaggio facente parte piuttosto di una controstoria da sottovalutare, perché appartenente alle categorie della storiografia “dall’alto”, delle élite, e privo secondo tale logica di interesse per quella “cultura” nazionale positiva; un uomo che nacque e venne educato in una famiglia dalle forti connotazioni europee (la madre ginevrina, la nonna savoiarda), insicuro nell’uso della lingua italiana, ammaestratosi più sulle opere dei dottrinari francesi e sui classici dell’economia politica che sui romanzi e melodrammi, abituato a volgere  lo  sguardo  ai  modelli  statuali  francesi  e  inglesi,  a  confrontarsi “politicamente” in seno ad associazioni che più che all’arte ponevano la

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scienza e l’agricoltura al centro del dibattito 6. Ecco in poche parole un identikit fuori dagli schemi bantiani, ma pur sempre del primo statista italiano.   Non è un caso poi che proprio un primo palcoscenico stimolante delle diverse componenti politiche subalpine fosse stato non un teatro o un gabinetto letterario, bensì l’associazione agraria costituitasi nel 1842. carlo Alberto a quel tempo decise di fare qualcosa per la borghesia; nacque in realtà un sodalizio catalizzante a cui presero parte, oltre il ceto medio, aristocratici, banchieri, insegnanti, professionisti del settore e pubblici funzionari. pur rigorosamente controllata dall’alto tramite i commissari regi, attraverso la struttura ramificata sul territorio dei comizi agrari provinciali, fu possibile per i soci cominciare a riunirsi e a discutere. cosicché, presto, come fece osservare l’avvocato alessandrino Giuseppe cornero, nelle valeriane “Letture di famiglia”, sarebbe stato inevitabile passare prima o poi dalle questioni d’agronomia a quelle di economia sociale, e da lì alla politica. Non fu dunque un caso che in quell’associazione “criptopolitica” come l’ha definita Silvano montaldo  7, riunitasi al congresso di casale monferrato, nel 1847 e a cui parteciparono soci agrari, membri d’associazioni scientifiche, uditori, contadini, nonché molte tra “le più gentili, le più vaghe, e le più colte signore della città” (come non vedere l’osmosi di genere e tra classi alte e basse?) venne presa una delle iniziative più “rivoluzionarie”, destinata a cambiare il corso del Risorgimento: la richiesta al re da parte del gruppo più radicale del liberalismo subalpino nel quale figuravano Lorenzo Valerio e Giovanni Lanza della costituzione di una guardia nazionale, di riforme in materia di commercio e di libertà politiche. Se in un primo tempo carlo Alberto stabilì l’arresto dei sottoscrittori della petizione, tramite gli uffici del conte di castagnetto fece poi pervenire la celebre lettera all’associazione in cui si faceva garante dell’indipendenza nazionale 8.      Un sistema, quello bantiano, che sembra dunque marginalizzare e trascurare la “cultura” non solo dei singoli, ma dell’intera classe politica che risultò poi vincente, quella liberale del regno di Sardegna, traino del movimento nazionale, ma che per le sue caratteristiche composite, perché non rivoluzionaria, perché non barricadiera, perché dunque “moderata”

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elaborò forse un canone completamente diverso, non necessariamente propagandistico o artistico. Una classe politica anomala rispetto al resto della penisola, radicata in una monarchia transfrontaliera chiusa, difficilmente assimilabile alla condizione del resto delle corti italiane e che elaborò un progetto non culturale, ma politico, capace di segnare le sorti del regno e del resto d’Italia. Quel connubio strettosi a casa dell’avvocato michelangelo castelli tra il centro-destro di cavour e il centro-sinistro dell’alessandrino Urbano Rattazzi, tra la fine del 1851 e gli inizi del 1852 va visto come uno dei momenti fondativi, politici, di ciò che avrebbe determinato il destino guida del piemonte, a partire dal rafforzamento del potere parlamentare. Un accordo siglato sostanzialmente da un lato da un nobile che aveva imparato a dominare le passioni politiche attraverso la pratica amministrativa delle tenute agricole di Leri, dall’altro da un avvocato dalla grande preparazione giuridica ma dalla scarsa “cultura” secondo il canone risorgimentale sopra inteso. con il sottofondo, detto per inciso, di un grande sconfitto che fu proprio quel massimo d’Azeglio, che per l’esperienza culturale italiana maturata in varie zone della penisola, può forse essere considerato come il più aderente agli stilemi della nuova storia del Risorgimento.  L’essenza italiana poteva dunque scaturire da elementi molto diversi dal canone bantiano. come per il cavour agricoltore degli anni Trenta, convinto attivista della pratica agronomica:  au premier abord l’agriculture a peu d’attraite, surtout pour celui qui est accoutumé aux travaux élégants de la littérature, ou aux recherches variés des riches laboratoires. Il est tout naturel que l’habitué des salons éprouve une certaine répugnance pour des études qui commencent par l’analyse des fumiers, et qui s’achèvent au milieau des étables ; il trouvera d’abord les travaux champêtres  fastidieux,  monotones,  puérils  même.  cependant  s’il parvient à surmonter ce premier dégoût, s’il peut se résoudre à diriger les plus simples opérations agricoles, à faire semer un champ de pommes de terre, ou à élever une jeune génisse, il s’opérera presque à son insu une transformation dans ses goûts et dans ses

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idées ; il découvrira dans la pratique de l’agriculture un intérêt croissant, et ce qui le rebutait le plus ne tardera pas à avoir pour lui un charme qu’il n’avait jamais soupçonné 9.

proprio nel lavoro condotto a Leri il conte seppe dare libero sfogo al bisogno di azione e di responsabilità concrete, coniugando la capacità creativa con il gusto al dominio, come quando, confessando il desiderio di voler diventare “le plus abile agriculteur du canton” si proponeva di esercitare “une véritable domination morale sur une population agricole”10. Nelle sue speculazioni votate all’empirismo e all’esaltazione della disciplina, sistemi di rotazioni efficaci e contadini consapevoli risultavano essere più utili di scoperte scientifiche e di glorie per poemi epici11. E sul terreno delle cose pratiche, alle quali più erano volti lo spirito e l’ingegno, cavour seppe maturare esperienze che sarebbero state preziose per l’uomo politico “italiano”12. È chiaro che in questo caso lo studio del personaggio e del milieau in un’ottica di analisi cultural-antropologica risulti quantomeno riduttivo o fuorviante, e che si imponga la necessità di una rivalutazione delle classiche fonti, quelle epistolari per intenderci, che costituiscono ancora, per buona parte degli storici, lo strumento più idoneo per penetrare l’essenza di vite ed eventi. Insomma è opinione di chi scrive che non si possa considerare  la  storia  “tradizionale”  in  via  di  esaurimento,  su  un  binario morto. Lo ha dimostrato la bella biografia cavouriana uscita l’anno scorso dalla penna di Adriano Viarengo: laddove sembrava che un argomento potesse dirsi “risolto” storiograficamente con la titanica biografia di Rosario Romeo, un corpus di tre volumi per un complessivo di quasi tremila pagine – mirabolante affresco non di un solo personaggio ma di un’intera epoca, opera purtroppo non ripubblicata da Laterza e ormai fuori commercio 13 – l’autore è riuscito a trovare una chiave interpretativa innovativa, problematizzante, che riuscisse a mettere in discussione anche teorie consolidate, come quella, ad esempio, di un regno di Sardegna monolitico, tutto raccolto attorno al suo sovrano e disposto ad assecondare la visione teleologica italiana di casa Savoia. Era l’essenza di una monarchia, come già ricordato, pur sempre anomala nel contesto delle altre realtà

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statuali della penisola, incastrato tra Italia e Francia, schiacciato tra Austria e Francia, fragile nelle componenti interne, che faceva confessare nel 1850 a margherita provana di collegno, moglie dell’aristocratico Giacinto, esule del 1821, come al sogno poetico dell’unità italiana si frapponesse la prosaica marcata divisione delle province del regno di Vittorio Emanuele II, con la Sardegna arretrata e in mano ai preti, Genova covo di violenti democratici e la Savoia rifugio dei reazionari. Viarengo però è riuscito a far di più, a non fermarsi alla prassi narrativa o squisitamente politica, ma a elaborare, indagando le classiche fonti, un canone proprio, anche culturale, dello Stato cavouriano. Se solo il nucleo piemontese del regno si presentava come la sola parte sana della monarchia, poca speranza si poteva riporre nel complesso di una terra dalla scarsa coscienza politico-nazionale. perché allora tale sconfortante contesto geografico-sociale di partenza – e qui sta una delle domande più impegnative e interessanti che si pone l’autore – venne a prospettarsi come fattore centrale nel processo di unificazione? E quale, di riflesso, il ruolo giocato da cavour? certo, in primis, nel Regno di Sardegna vi furono componenti storiche e contingenti, non legate necessariamente all’idea nazionale, questo è bene sottolinearlo, che si presentarono come elementi di “disturbo” e di movimento all’equilibrio sancito dal congresso di Vienna: era l’espansionismo dinastico, non italiano, connaturato alla posizione fisica del regno – che spingeva già da un secolo verso la pianura padana grazie a un buon esercito e un’eccellente diplomazia – che incontrava le istanze di quella robusta parte dell’aristocrazia lombarda marginalizzata dopo il 1815 dall’impero asburgico. ma lo Stato sabaudo era anche l’ambito dove, già sullo scorcio del Settecento, avevano potuto germogliare sentimenti – questi sì dal respiro nazionale – nati nell’ambito delle correnti letterarie romantiche, “progetti di riforma (o di rivoluzionamento) dei meccanismi  di  governo  degli  Stati  peninsulari,  esigenze  derivanti  dai mutamenti economici e sociali, reali o più spesso percepiti e attesi sulla base di quanto avveniva nei paesi più sviluppati”. Tutti “sentimenti” capaci potenzialmente di far superare divisioni interne (anche cetuali, come quelle tra aristocrazia e borghesia) e gretti calcoli espansionistici. Era, come la chiama Viarengo, la temperie morale che aggregava le parti del

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regno in un progetto più vasto, stemperando la sgradita sensazione di asservimento delle province al centro; era la temperie morale che dava alla politica di espansione della dinastia una nuova veste, umana, misurata sul principio nazionale e non più, freddamente, sulla carta geografica. Lo Statuto infine si poneva come fattore determinante nello Stato per l’ammodernamento della classe dirigente. L’insieme di questi fattori – e qui sta senz’altro una delle tesi più innovative e originali dell’autore – non sarebbe stato sufficiente al raggiungimento degli obiettivi se non fosse stato fortificato da una sorta di opera “solidale” delle estremità del corpo sociale dello Stato sabaudo, di un re, carlo Alberto – avviato a un cesarismo illuminato di stampo napoleonico  sempre più distante dalla tutela austriaca – con la vivace gioventù della media e piccola borghesia del regno, allontanatasi dalle posizioni radicali del mazzinianesimo. Quella borghesia “convertita” aveva compreso come l’istituto monarchico potesse farsi non solo garante dei rinnovamenti interni allo Stato, ma farsi altresì portabandiera “di una politica improntata a un patriottismo italiano che stava fermentando nel paese”14. Gli esordi della vita politica di cavour vengono dunque letti dall’autore in una nuova ottica interpretativa, fatta non  per  gusto  revisionistico  di  soppiantare  l’ormai  classica  storia  del gruppo di aristocratici moderati che seppe interpretare al meglio il liberalismo, ma per integrare quelle vicende in un quadro più ampio, e specialmente più complesso. E questo è stato possibile anche grazie l’utilizzo del monumentale epistolario edito dalla commissione nazione per la pubblicazione dei carteggi del conte di cavour, venti volumi per trentatré tomi a cui presto andranno ad aggiungersi gli indispensabili indici curati da Rosanna Roccia. Indubbiamente una delle più importanti e prestigiose operazioni editoriale a livello internazionale, cominciata ben 50 anni fa sotto l’impulso e gli auspici di Luigi Einaudi, la cui conclusione nel 2008 però, con la pubblicazione degli ultimi tre tomi per il 1861, è passata sostanzialmente inosservata, anche purtroppo presso la comunità scientifica, con qualche disattento studioso che continua a servirsi nelle proprie ricerche della vecchia edizione Zanichelli quando non di quella curata, e purgata, nell’Ottocento da Luigi chiala. Insomma ci sembra di poter dire che l’operazione di Banti e collaboratori, pur nell’impianto me-

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todologico se non addirittura filosofico, forte e affascinante, sia riuscita a metà, finendo, nella ricerca quasi ossessiva di “alterità”, di escludere, a prescindere dai classici, una parte importante delle problematiche del Risorgimento. perplessità sollevate anche da illustri studiosi come paolo macry e Eugenio di Rienzo, poco convinti di un Risorgimento autoctono e completamente avulso dall’azione polico-diplomatico-militare15. Un’alterità, quella bantiana, che si è forse leggermente stemperata con la pubblicazione dell’atlante culturale del Risorgimento –  una storia per concetti delle categorie linguistico-culturali usate dagli uomini dell’epoca – dove nella sezione “campi dell’esperienza” son comparse voci sul liberalismo, sul moderatismo, sulla democrazia, sul binomio nobiltàborghesia, sull’opinione pubblica e sulla reazione. ma che per un “culturalismo” a tutti i costi, continua a prendere le distanze da un fantomatico Risorgimento-periodo storico, rispetto a un Risorgimento-esperienza, cioè  al  Risorgimento  inteso  “come  universo  mentale  ed  emozionale espresso da un lessico specifico, i cui termini si integrano in un sistema linguistico coerente” 16. più equilibrata e onesta dunque è stata l’operazione di raccolta dei contributi del convegno Rileggere l’Ottocento. Risorgimento e nazione promosso dal Dipartimento di scienze della storia e della documentazione storica dell’Università degli Studi di milano, nel denso volume pubblicato nella collana del comitato di Torino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano a cura di maria Luisa Betri, dove hanno potuto emergere i diversi filoni di indagine su cui si stanno muovendo i più importanti storici dell’Ottocento negli ambiti, riprendendo le diverse parti in cui è suddivisa dell’opera, del discorso nazionale, della circolazione culturale, del Risorgimento vissuto come avventura (garibaldini ed esuli), della nazione operante dal punto di vista delle identità sociali, delle competenze e degli interessi. Un modo concreto per fare il punto della situazione lungo i tracciati più fertili della ricerca, cioè “sulla formazione e circolazione del discorso nazional-patriottico, sul mondo della cultura e degli intellettuali, sulla costruzione della nazione e della compagine statale, sui caratteri della pedagogia nazionale, sulla diffusione dell’immagine, dei miti e della memoria collettiva del Risorgimento, e infine sulle

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dinamiche della stratificazione sociale ed economica” 17. Un volume fondamentale che ha saputo porsi, nella rassegna offerta a trecentosessanta gradi, in continuità con altre due raccolte frutto di altrettanti congressi dell’Istituto per la storia del Risorgimento Italiano: quello dedicato a Cento anni di storiografia sul Risorgimento 18 e quello su Nazioni, nazionalità e Stati nazionali nell’Ottocento europeo 19. Nell’introduzione della curatrice è posta proprio in evidenza l’operazione scientifica compiuta: fornire al lettore uno strumento che ponesse al centro dell’attenzione non tanto un periodo, il Risorgimento in senso stretto, bensì l’Ottocento tout-court, nei campi di indagine più avanzati, come quello delle origini delle nazionalità e delle molteplici sfaccettature di quello che è conosciuto come il secolo  della  storia  e  della  scienza.  Un  tentativo,  riuscito,  di  smentire l’opinione che il Risorgimento fosse il parente povero degli studi storici italiani “stretto tra una stanca storia ufficiale, trasmessa in modo noioso dai manuali scolastici, e una sostanziale carenza di nuovi approcci, metodologie e dibattiti” 20. L’approccio culturale è così ridimensionato alla natura delle tante piste di ricerca in atto, come quella portata avanti da mario Isnenghi e collaboratori nell’enciclopedica collana UTET di Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, dove nell’apertura del primo volume dedicato proprio al Risorgimento viene espresso a chiare lettere il carattere costitutivo e irriducibile del conflitto vissuto come momento ideologico, politico e militare 21. Senza dimenticare le nuove prospettive di studio  “messe in scena” da Umberto Levra, come nell’imponente riallestimento del museo nazionale del Risorgimento di Torino 22. Rimane però ancora molto da fare dal punto di vista storico, perché si possa dimenticare la grande lezione di Walter maturi, momento fondante della disciplina risorgimentale 23. L’essenza dell’Italia contemporanea richiede studiosi che siano in grado di andare alla radice profonda delle problematiche che attanagliano la penisola, per evitare che facili revisionismi di matrice ultracattolica, neoborbonica o secessionista, così di moda sugli scaffali delle librerie, prendano piede nella coscienza di italiani ancora “in erba”.

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1. m. Isnenghi, I luoghi della memoria: simboli e miti dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1996; Id. (a cura di), I luoghi della memoria: personaggi e date dell’Italia Unita, Roma-Bari, Laterza, 1997; Id., I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza,1997. 2. A. Banti, Terra e denaro: una borghesia padana dell’Ottocento, Venezia, marsilio, 1989; Id., Storia della borghesia italiana, Roma, Donzelli, 1996. 3. Id., L’onore della nazione: identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal 18° secolo alla Grande Guerra, Torino, Einaudi, 2005; Id. Nel nome dell’Italia: il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini, Roma-Bari, Laterza, 2010; Id. Sublime madre nostra: la nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011. 4. A. m. Banti, p. Ginsborg, Per una nuova storia del Risorgimento, in Storia d’Italia, annali 22, Il Risorgimento, Torino, Einaudi, 2007; pagg. XXIII-XXXIV. 5. G. monsagrati, Il Risorgimento italiano fra storia e interpretazioni, in Statisti e politici alessandrini nel lungo Risorgimento. Rattazzi, Lanza, Ferraris (e altri), convegno internazionale di studi organizzato dal Laboratorio di Storia, politica, Istituzioni dell’Università del piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, Facoltà di scienze politiche e Dipartimento pOLIS, Alessandria, 6-8 ottobre 2011. 6. A. Viarengo, La formazione intellettuale di Cavour, in U. Levra (a cura di), Cavour, l’Italia e l’Europa, Bologna, Il mulino, 2011; pagg. 15-36. 7. S. montaldo, L’età carloalbertina 1831-1849, in Id. (a cura di), Il Risorgimento nell’Astigiano, nel Monferrato e nelle Langhe, Asti, Banca cR Asti-Fondazione cassa di Risparmio di Asti, 2010; pag. 102. 8. A. Viarengo, Il Congresso di Casale Monferrato, in Il Risorgimento nell’Astigiano, cit.; pagg. 113-114. 9. c. cavour, “Voyages agronomiques en France” par Mr Frédéric Lullin de Châteauvieux, in c. pischedda, G. Talamo (a cura di), Tutti gli scritti di Camillo Cavour, Torino, centro Studi piemontesi, 1976; vol. II, pag. 723. 10. Ibidem. 11. Ibidem. 12. per la tensione italiana del cavour agricoltore cfr. i diversi contributi di p. Gentile, A. chiavistelli e E. Faccenda in S. cavicchioli (a cura di), Cavour e l’agricoltura, Torino - Roma, comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano - carocci, 2011. 13. pubblicata a partire dal 1969, in tre volumi per quattro tomi, ebbe l’ultima edizione nel 1984 in tre volumi. R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 1984, 3 voll. 14. A. Viarengo, Cavour, Roma, Salerno editrice, 2010; pagg. 7-16.

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15. S. Soldani (a cura di), Le emozioni del Risorgimento, in “passato e presente”, n. 75, 2008,; pagg.  24-28; E. Di Rienzo, Italia, Francia, Europa da Solferino all’Unità. 1859-1861, in “Nuova Rivista Storica”, fasc. 1, 2009; pag. 1. 16. A. m. Banti, A. chiavistelli, L. mannori, m. meriggi (a cura di), Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità, Roma-Bari, Laterza, 2011; pag. V. 17. m. L. Betri, Le ragioni di un convegno, in Id. (a cura di), Rileggere l’Ottocento. Risorgimento e nazione, Torino - Roma, comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano - carocci, 2010; pag. 11. 18. Atti del LX Congresso di storia del Risorgimento italiano, Rieti, 18-21 ottobre 2000. 19. Atti del LXI Congresso di storia del Risorgimento italiano, Torino, 9-13 ottobre 2002. 20. p. Ginsborg, Risorgimento in discussione, in “passato e presente”, n. 41, 1997; pag. 15. 21. m. Isnenghi, Presentazione, in m. Isnenghi, E. cecchinato (a cura di), Fare l’Italia. Unità e disunità del Risorgimento, UTET, Torino 2008; pag. VII. 22. U. Levra, Il Museo Nazionale del Risorgimento di Torino, milano, Skira, 2011. 23. W. maturi, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino, Einaudi, 1962.

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Note e discussioni

2011. Ripensare gli anniversari.

a cura di Carlo Greppi “Fare gli italiani” è una mostra nella quale il visitatore si muove in una pluralità di linguaggi, è un’esperienza che coniuga emozione e conoscenza, percorrendo in profondità i centocinquant’anni della nostra storia. Ci racconti come è nata l’idea, quale filosofia ha mosso il vostro lavoro e le difficoltà che avete dovuto superare per poter dare concretezza a una tale densità di contenuti, per renderli comunicabili a un vasto pubblico? DE LUNA: Questa mostra per me è stata una sorta di appuntamento con un doppio percorso. Un doppio percorso molto intrecciato, non due percorsi separati. Uno nell’ambito dell’impegno civile, e l’altro con alcune riflessioni che avevo fatto sulla mia disciplina, la storia contemporanea. Al primo attiene l’insofferenza per la volgarità con cui si guarda oggi all’Unità d’Italia, per tutti i luoghi comuni, gli stereotipi che sono precipitati su questa ricorrenza. Avvertivo l’esigenza di dare una risposta forte, di contrastare in qualche modo questa desertificazione dello spazio pubblico che c’è stata con la Seconda repubblica. E quindi di tentare un racconto, una narrazione di centocinquant’anni anni della nostra storia, che potesse poi ripristinare alcuni valori di una religione civile, alcuni valori di una cittadinanza condivisa. Diciamolo esplicitamente: c’era un’insofferenza per le volgarità leghiste, c’era un’insofferenza per queste proposte di identità che venivano dal centro-destra, un’identità legata agli interessi, ai soldi, agli affari. c’era questa prima spinta. Volevo riaffermare il valore dell’Unità d’Italia, che poteva essere in qualche modo discussa per le modalità con cui si era realizzata, ma non poteva essere messa in discussione rispetto alla sua realtà profonda.

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Ripensare gli anniversari. Intervista a Walter Barberis e Giovanni De Luna

Intervista a Walter Barberis e Giovanni De Luna  a proposito della mostra “Fare gli italiani”.


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Note e discussioni

L’altra spinta invece era una sorta di appuntamento con la riflessione che da anni porto avanti con la mia disciplina e che è legata molto ai linguaggi, ai modelli di narrazione. Io credo che, quali che siano i contenuti storiografici che tu vuoi trasmettere, quali che siano i contenuti del sapere storico che tu vuoi incrementare, il modo, le strategie narrative che tu metti in campo rispetto ad essi siano decisive. proprio perché si tratta di combattere luoghi comuni, stereotipi, un senso comune diffuso, molto appiattito sul presente, senza spessore, senza complessità. Si trattava di elaborare una strategia narrativa in grado di mettere in scena e rappresentare con efficacia quelli che erano i capisaldi contenutistici della mostra. E siccome in questi anni mi sono occupato molto di modelli di narrazione, sia quelli della televisione, sia quelli del cinema, sia quelli della fotografia, mi sembrava che la mostra dovesse in qualche modo rendere conto anche di questa riflessione, alternando questa pluralità di linguaggi, ma all’interno di una ipotesi di un racconto che era una messinscena. Questo voleva dire avere il confronto con uno sguardo che non era solo quello dello storico. E qui c’è stata la collaborazione con Studio Azzurro che credo sia stata strategica, decisiva per consentire a quelle che erano le ipotesi storiografiche di partenza di trasformarsi concretamente in conoscenza storica.  BARBERIS: Quando abbiamo cominciato a ragionare dei modi e dei contenuti che avremmo dovuto mettere alla prova con questa mostra avevamo una preoccupazione entrambi. E cioè che la mostra da una parte potesse essere una sorta di didascalia, di prova didattica, di imitazione di un manuale di storia, dall’altra che nel tentativo di sfuggire a questa banalità di esposizione potesse essere in qualche modo ritenuta per qualche motivo pregiudizialmente legata a visuali, a preconcetti ideologici, a posizioni di parte. Noi eravamo preoccupati di restituire a un visitatore medio ideale un percorso problematico di storia nazionale, nel quale questo visitatore potesse ipoteticamente entrare con delle idee vaghe e uscirne quanto meno arricchito di elementi critici. Allora abbiamo cercato di capire quale avrebbe potuto essere il canovaccio con il quale fornire dei materiali su cui un visitatore avrebbe potuto onestamente riflettere senza essere preliminarmente manipolato, indirizzato, eccessivamente orientato nel suo ragionamento.

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ci siamo accordati – dopo una serie di ragionamenti e di scambi di opinioni – sul fatto che una strada probabilmente nuova, anche se forse non così eccezionalmente originale, poteva essere quella di cercare di capire noi e poi di proporre al visitatore quali fossero stati nell’arco di tempo considerato i momenti che noi abbiamo definito – con una sorta di slogan – di inclusione e di esclusione. Questa è stata la chiave di volta di tutta l’operazione. personalmente avevo avuto modo di ragionare di questi temi con il presidente ciampi, attorno al 2003-2004, quando – se così si può dire – garbatamente ebbi modo di polemizzare con lui sul fatto che gli italiani fossero straordinariamente più uniti, secondo la sua visuale, di ciò che non fosse il mondo politico che li rappresentava. La mia personale impressione era che sì, naturalmente, grazie anche alla sua funzione di unificazione nazionale, anche nel segno di alcune riprese simboliche molto importanti, gli italiani fossero sicuramente più ansiosi di trovare delle forme di unità di quanto non lo fosse il mondo della politica, però, certamente, sembrava a me che questo avvenisse non senza evidenti contraddizioni. Le contraddizioni erano per esempio un mondo del nord che si andava costituendo attorno a una idea di separazione dal mondo del mezzogiorno, e viceversa una qualche ripresa di idee di separatismo per l’appunto nel mezzogiorno, venate non ancora così decisamente come negli anni successivi di spiriti neo-borbonici.  Decidemmo dunque anche in quei frangenti che poteva essere un buon momento di discussione, cercare di capire ciò che veramente univa gli italiani e ciò che invece li divideva. con Giovanni De Luna abbiamo assunto questo terreno come il terreno su cui ragionare e provare a intelaiare quella che sarebbe diventata la mostra. Debbo dire quel terreno, allora, nella mia personale discussione con il presidente ciampi non incontrò un interlocutore particolarmente attento, perché sostanzialmente desideroso di affermare che già la sua funzione era stata efficace e unificante, e che in fondo non c’erano queste vene carsiche di divisione del paese. Viceversa, a un esame più attento, per l’appunto con Giovanni De Luna, queste divisioni, queste zone meno compatte della società italiana, tanto più alla luce di un arco di tempo così breve e allo stesso tempo così lungo come i centocinquant’anni, si sono dimostrate abbastanza evidenti. La società italiana ha

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avuto dei momenti estremamente importanti di unità nazionale e al tempo stesso ha vissuto delle fasi di estrema frammentazione, di estrema divisione. Sulla base di questa constatazione abbiamo provato a costruire prima un discorso, una narrazione, un’architettura narrativa e poi abbiamo provato a immaginarci elementi di comunicazione visiva. Le difficoltà nascono esattamente lì, quando una narrazione, che nella nostra esperienza di storici è risolta con la scrittura, deve in qualche modo trovare, viceversa, degli elementi di comunicazione che sono affidati allo sguardo; certo anche all’elemento della scrittura, ma sostanzialmente a una serie di altri elementi che devono essere contemporaneamente evocativi, emozionalmente importanti, e capaci, tuttavia, di fornire elementi di informazione. per l’appunto, quegli elementi che dovrebbero fornire materiali e incoraggiare la riflessione del visitatore. Questo è stato il momento più difficile per noi ed è stato in ultima analisi anche il momento più difficile fra noi e gli specialisti, i tecnici, le persone che ci hanno aiutato nell’allestimento della mostra.

Note e discussioni

Oltre 400.000 persone hanno già visitato “Fare gli italiani”, e molti ritengono che debba diventare un’esposizione permanente. Sei soddisfatto del successo della mostra? Ti chiederei una riflessione, un tuo personale bilancio del lavoro fatto e della ricezione di “Fare gli italiani” da parte del pubblico. DE LUNA. Sì, sono molto soddisfatto. credo che il segreto sia stato questa cosa che hanno detto tutti, ovvero questo intreccio molto ben riuscito fra conoscenze ed emozioni. La mostra ha un impianto storiografico molto solido, perché c’è un’ipotesi di interpretazione della storia di centocinquant’anni dell’Unità d’Italia che fa si che noi abbiamo guardato all’identità italiana non come a una roba definita una volta per tutte ma come a un progetto.  Quando abbiamo chiamato la mostra “Fare gli italiani” in realtà avevamo in mente “fare i cittadini italiani”. Il problema di fare gli italiani era quello di costruire uno spazio di cittadinanza, uno spazio pubblico di cittadinanza condivisa. A mettere mano alla costruzione di questo spazio pubblico sono stati vari interpreti, vari protagonisti, vari attori che hanno scandito i centocinquanta anni della nostra storia: lo Stato liberale con le sue istituzioni, il fascismo con il partito unico, i partiti di massa, l’allar-

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gamento della partecipazione politica, la televisione, il mercato. Si trattava di riattraversare tutti questi progetti all’interno di una coppia che noi abbiamo definito di inclusione/esclusione che assicurava dinamismo al nostro progetto. Esclusione/inclusione vuole dire che tu di volta in volta hai nuovi fronti di esclusione da superare, allargando la sfera dell’inclusione  così  come  la  democrazia  deve  fare.  Questo  vale  per  nord/sud, città/campagna, laici/cattolici, insomma per tutte le fratture che hanno frammentato la nostra identità nazionale.  Questa ipotesi storiografica forte e in grado di assicurare una regia contenutistica efficace di tutto il percorso doveva poi sposarsi con un allestimento che fosse congruo, che fosse in grado di trasmetterla. E quindi queste isole tematiche che rappresentano i nodi dell’inclusione e dell’esclusione sono diventate le rappresentazioni anche emotive di quella realtà attraverso, come dire, una messinscena – curata da Studio Azzurro – che ha reso anche visibili i risvolti più spettacolari, più emotivamente connotati di quei filoni storiografici che di volta in volta venivano affermati. Io credo che questo mix tra un discorso storiografico molto compiuto che è quello che si è realizzato nelle cronologie, nella narrazione degli otto segmenti cronologici, nelle balaustre che circondano dal punto di vista della narrazione cronologica le singole isole tematiche, e la dimensione più emotivamente connotata delle istallazioni, sia stato il segreto della riuscita della mostra. Alcune scenografie come quella dell’isola dedicata alla mafia, con questa sterminata serie di fascicoli processuali, hanno un impatto tale che è difficile non emozionarsi e, ad esempio in questo caso, non desiderare di capire un po’ di più cosa è stata la mafia in centocinquanta anni della nostra storia.  credo che questi siano i requisiti di partenza, su questi requisiti si è innestato un passaparola perché – mi facevano notare proprio ieri dall’Ufficio stampa – in realtà di recensioni vere e proprie non ce ne sono state. ci sono state una serie di informazioni quando la mostra è stata inaugurata, in cui si diceva cos’era la mostra eccetera eccetera, poi tutto è finito lì dal punto di vista mediatico. E invece ha funzionato un passaparola in cui i visitatori sono venuti, comunicandosi spontaneamente, dal basso, che la mostra era loro piaciuta e questo credo che sia stato uno dei requisiti fondamentali del suo successo.

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BARBERIS: penso che siamo e che dobbiamo essere più che soddisfatti del bilancio della mostra. per vari motivi. per motivi di contesto generale, vale a dire soprattutto l’attenzione del mondo politico a questi temi, per questioni di contingenze ancora più particolari, il precipitare di avvenimenti sul piano mondiale, la crisi economica, non era affatto scontato che queste celebrazioni del centocinquantenario fossero in qualche modo più o meno diffusamente sentite a livello popolare, né tanto meno che ci fosse un’attenzione specifica alle iniziative a cui abbiamo lavorato.  Tra l’altro, l’ambiente in cui noi abbiamo lavorato è un ambiente estremamente affascinante, una struttura di archeologia industriale [le Officine Grandi Riparazioni, n.d.r.]. Tuttavia questa struttura non è un museo, non ha una tradizione consolidata, non ha un suo pubblico che vada abitualmente a visitarlo, tutto era in qualche modo inventato e da comunicare. che alla fine di un percorso stabilito di alcuni mesi i numeri di visitatori paganti e la pressoché generale opinione di apprezzamento del lavoro fatto abbia raggiunto la cifra di oltre quattrocentomila persone o si avvicini al mezzo milione di persone è sicuramente, sotto il profilo quantitativo, un traguardo che era del tutto inimmaginato, insperato. mi permetto di fare una piccola riflessione sul fatto che le voci critiche sono state veramente molto poche, il che non mi dà una particolare intima soddisfazione o la convinzione che il nostro sia stato un lavoro perfettamente riuscito, però mi conforta viceversa nell’opinione che il desiderio del visitatore di incontrare dei materiali, per l’appunto, che sia sotto il profilo emotivo, sia sotto il profilo razionale avessero la capacità di attrarre la sua attenzione e rispondessero probabilmente a un bisogno molto più presente di quanto noi non immaginassimo di ritrovarsi in un discorso di unità nazionale, questo sia stato sorprendentemente alto.  Se poi ci aggiungiamo il fatto che questo si è inserito in un contesto cittadino, quello di Torino, che ha reagito all’appuntamento anche simbolico con le celebrazioni dell’Unità nazionale con l’esposizione di decine e decine di migliaia di tricolori, letteralmente cambiando le modalità d’uso di un simbolo nazionale che fino a pochi anni fa rappresentava una parte e una parte soltanto degli italiani, quella più legata a un’idea di nazionalismo, ecco, in un contesto che riusa simbolicamente il tricolore per un messag-

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“L’occasione di un risveglio di partecipazione dal basso”. Così il presidente Napolitano – grande protagonista di queste celebrazioni – ha definito il centocinquantesimo nella sua visita di giugno a Verona. Il presidente, prendendo atto dello “straordinario moltiplicarsi” delle iniziative dal basso, ha commentato: “Sono tante che non riusciamo più a tenere il conto di quante sono state. Dunque c’è qualcosa di profondo che unisce gli italiani”. Coglierei questo spunto del nostro presidente per chiederti una breve analisi delle celebrazioni, in Italia e a Torino. DE LUNA. per quanto riguarda la dimensione più tradizionalmente politica delle celebrazioni, la politica è stata la grande assente. L’unico presente è stato Napolitano e l’unica istituzione presente è stata la presidenza della Repubblica. per quanto riguarda il dibattito storiografico non ci sono state acquisizioni significative. Riandando a quello che c’era stato nel 1961 in occasione del centenario, la proposta della questione meridionale, le interpretazioni della conquista regia, erano state più significative. Qui ci sono stati dei romanzi significativi come quello di mari, film significativi come quello di martone, insomma ho l’impressione che il dibattito sia stato più di tipo culturale che di tipo storiografico. Significativa è la dimensione spontanea, quella appunto sottolineata da Napolitano. Io non posso prescindere quando rifletto sul successo della mostra, dalle decine di migliaia di tricolori che sono stati esposti ai balconi di Torino, alle finestre di Torino. credo che ci sia una forte correlazione fra questi due fenomeni e che dietro quei tricolori ci fosse un forte sentimento di dignità, il desiderio di proclamare un’appartenenza che non sia il “tengo famiglia” o “mi faccio i fatti miei”, che non sia l’idea di una “cittadinanza bancomat” in cui l’essere italiani vuol dire semplicemente condividere lo spazio della ricchezza, del benessere.  BARBERIS. In Italia ci sono state molte iniziative particolari e natu-

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gio di apertura e non di chiusura, per un messaggio “patriottico” inclusivo piuttosto che esclusivo, tutto questo ha rappresentato un elemento secondo me di forte sorpresa e per noi di grande positività. Dunque, il bilancio è oltre ogni possibile previsione positivo.


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ralmente Torino, per vari motivi, si è posta al centro, come già lo era stata in altre occasioni, del momento celebrativo. Naturalmente si potrebbero fare delle riflessioni sul fatto che il genius loci di Torino è molto particolare, in parte per ragioni tradizionali, vale a dire il richiamo al suo ruolo di prima capitale, e dunque in qualche modo al fatto che le prime grandi celebrazioni del 1911 sono state a Torino, che il centenario del 1961 ha visto di nuovo Torino al centro di grandissime manifestazioni celebrative, e dunque in qualche modo non è stato così eccentrico che anche questa volta sia stata Torino a muoversi in anticipo.  ci sono tuttavia delle particolarità che secondo me vanno sottolineate. Torino è forse, nel contesto nazionale, il luogo dove sono state sperimentate, prima che in queste occasioni, una serie di possibilità di accordo sul piano economico finanziario e sul piano istituzionale fra enti pubblici ed enti privati che hanno consentito la virtuosità degli eventi che sono stati costruiti. Sarebbe non solo ingiusto, ma a mio modo di vedere politicamente sbagliato non cogliere la novità – in qualche modo – di questi fattori. Il fatto che enti privati e pubblici abbiano concorso alla realizzazione di questi eventi è un fatto molto importante. per esempio la nostra mostra probabilmente non avrebbe potuto sopportare l’importanza dei costi se non avesse avuto alle spalle la generosità di un ente privato. Dico questo non tanto per sottolineare i meriti di questo interlocutore, quanto per dire che si possono fare degli importanti gesti di welfare culturale, di politica pubblica, appoggiandoci alle forze dei privati, e cioè non facendo pagare al cittadino ciò che noi diamo al cittadino. Questo è secondo me quello che ha fatto diversa l’occasione di Torino da altre in Italia.  Detto questo, in Italia ci sono state molte piccole manifestazioni tutte tese a ricordare prevalentemente episodi risorgimentali. Questo ha una sua importanza evidentemente anche nel discorso pubblico e nell’uso pubblico della storia, e in presenza di una forza politica che ha ostentatamente negato o messo in qualche modo sotto tono le celebrazioni di questi avvenimenti nel segno di una scarsa importanza dell’unità nazionale, la Lega. Se noi consideriamo tutte queste iniziative dobbiamo prendere atto che il presidente Napolitano non ha evidentemente tutti i torti quando dice che, a dispetto della politica, c’è una forza dal basso che in qualche modo vuole ritrovare

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degli elementi di unità. Tuttavia, a me sembra che di nuovo nel confronto fra Torino e le altre situazioni nazionali, ci sia un punto da cogliere: Torino non ha celebrato il Risorgimento nazionale, non lo ha trascurato ma non lo ha celebrato. Torino ha sottolineato un percorso di centocinquant’anni in cui il grande protagonista della storia nazionale, più che l’Ottocento, costruttore di unità istituzionale, è stato il Novecento costruttore di una società nazionale. Questo è il tema su cui secondo me era giusto ragionare anche in considerazione di una utilità della storia ai fini del presente e di una utilità della storia nel fornire una lezione proiettata nel futuro. Se noi chiamiamo le persone a riflettere è perché desideriamo che queste persone abbiano uno sguardo informato sul nostro presente e siano in qualche modo aiutate a essere dei buoni cittadini per la società di domani. Questo è un ruolo civile che a mio modo di vedere ha utilità nel costruire, nel progettare, nell’allestire iniziative di questo genere. Questo è il ruolo di cui noi dovremmo andare modestamente orgogliosi.  In questi mesi noi abbiamo ricordato a più riprese le celebrazioni del 1911 e del 1961, e le iniziative culturali dei passati anniversari. Nel 2061 si parlerà certamente di questa mostra. Riesci a immaginare in che termini? DE LUNA. credo che si capirà che l’Italia viveva un momento difficile, perché è difficile guardare a quello che c’è stato come a delle celebrazioni. La stessa mostra “Fare gli italiani” non è stata una mostra celebrativa, è stata una mostra che si è interrogata, è stata una mostra problematica. Tra cinquant’anni si leggeranno in questi eventi tutte le inquietudini del nostro presente. penso a un film come quello di martone, Noi credevamo, che è un film angosciante, un film sugli sconfitti, un film che secondo me riflette il lato oscuro del Risorgimento proprio perché riflette l’Italia degli anni Settanta, un’Italia che non è stata ancora decifrata.  credo che uno storico del futuro si potrà sbizzarrire. Gli consiglierei a futura memoria di andare a vedere i progetti che erano arrivati al comitato dei garanti, quello nazionale, che avrebbe dovuto presiedere le celebrazioni, che erano arrivati ancora con il governo prodi. piste ciclabili, cimiteri da restaurare, anfiteatri da mettere a posto, aeroporti da mettere a posto... come dire,

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Ripensare gli anniversari. Intervista a Walter Barberis e Giovanni De Luna

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l’idea della celebrazione come risorsa economica cui attingere per il mercato. Questo potrebbe essere interessante per capire come nell’identità italiana la dimensione del mercato sia diventata prevalente in questi ultimi anni.

Note e discussioni

BARBERIS. Non riesco ad immaginarmi i termini reali nei quali si potrà ricordare il 2011 fra cinquant’anni; ma mi piacerebbe – esprimo un auspicio – che nel 2061, in un contesto verosimilmente globalizzato e in cui si parlerà di problemi di federazioni fra popoli e società, questo avvenisse a un livello continentale, in un 2061 in cui si fossero realizzati gli Stati Uniti d’Europa. Non mi dispiacerebbe che il 2011 venisse raccontato, ricordato come una tappa culturalmente importante di un momento in cui si è riflettuto di una comunità nazionale nella prospettiva di superamento dei suoi confini nazionali. E nella prospettiva di un obiettivo ulteriore, quello di allargare sempre di più le frontiere dell’accoglienza e della cittadinanza. Se allora noi saremo a quel punto, potremmo avere un minimo di riconoscenza per quelli che, per la loro parte, nel 2011 hanno portato un granello di sabbia all’edificio di un mondo meno chiuso, più aperto, più tollerante, meno legato alla considerazione della piccola, chiusa, patria locale.

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Note e discussioni

2011.  Il Risorgimento rinnovato. Intervista a Umberto Levra sul riallestimento del  museo del Risorgimento di Torino e  sulle celebrazioni del centocinquantesimo

Incomincerei con il chiederle quali siano stati i criteri che hanno guidato il riallestimento del Museo nazionale del Risorgimento italiano di Torino. La progettazione scientifica del nuovo allestimento completo del museo del Risorgimento iniziò nel 1998 quando ne fui incaricato dal consiglio Direttivo. Nella sostanza si trattò di partire dai 53.011 oggetti formanti le collezioni del museo costituite in 133 anni con precise connotazioni e funzionali ai tre allestimenti precedenti, per trarne una selezione estremamente mirata di pezzi tali da illustrare le opinioni oggi prevalenti nella comunità scientifica sul processo italiano di nazionalità. Quindi il primo momento consistette nella preparazione di un canovaccio interpretativo aggiornato della storia da illustrare, un canovaccio poi discusso in varie sedi e sottoposto a diverse verifiche scientifiche. Esso teneva pure conto delle modifiche che intendevo introdurre rispetto al precedente allestimento. Anche sotto questo aspetto l’obiettivo restava quello di coniugare il rispetto della tradizione e del genius loci, insieme al condizionamento rappresentato dalle caratteristiche delle collezioni, cioè dei materiali disponibili, con alcuni interventi che, pure sotto il profilo interpretativo, non erano semplici aggiornamenti della precedente impostazione storiografica, peraltro vecchia di cinquant’anni, ma aperture nuove in tre direzioni essenziali. Una è stata l’aumento della presenza della storia della società, della produzione, del lavoro, della cultura, del gusto, della mentalità, dell’arte, della

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Il Risorgimento rinnovato. Intervista a Umberto Levra

a cura di cesare panizza


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Note e discussioni

Quaderno di storia contemporanea/50

tecnica, delle istituzioni, rispetto alla precedente prevalente storia politica, delle idee, militare, diplomatica. ciò è stato reso possibile dai materiali già posseduti, non esposti in precedenza. È bastata una mutata sensibilità storiografica per farli emergere.  Il secondo aspetto essenziale è stato rappresentato dal rafforzamento della dimensione italiana nel museo della nazione. Sotto il profilo geografico-territoriale l’operazione è stata agevole, dal momento che sin dal 1901 le collezioni erano andate radunando materiali rappresentativi delle diverse realtà, per quanto finora esposti solo parzialmente. più difficile è stato dare spazio a tutte le componenti e le forze in campo nel Risorgimento, perché le collezioni scontano la propria storia e la prevalenza moderata-dinastica dei precedenti allestimenti. per la componente democratica-popolare si è fatto così ricorso a immagini da altri musei italiani più ricchi su tale versante, riversate in filmati e approfondimenti, come nel terzo aspetto essenziale, a cui passo ora.  Quest’ultimo ha rappresentato l’innovazione più radicale, introducendo, caso unico in Italia e tra i pochissimi in Europa, una comparazione europea. Il processo di nazionalità italiano si è svolto a suo tempo con una circolarità e scambi reciproci, con profonde interconnessioni, nel corso dell’Ottocento, con gli altri processi di nazionalità presenti in gran parte del continente. Anche di ciò si intendeva dare conto al visitatore, offrendogli la possibilità di collegare le vicende della penisola a quelle coeve di altri paesi. Nell’impianto realizzato le radici del museo rimangono ben collegate al territorio piemontese su cui esso è nato e opera, ma comprendono pure le molte altre componenti presenti in tutta la penisola, come si conviene a un museo nazionale. E si dilatano a una contestualizzazione europea. per quest’ultima i materiali originali presenti nelle collezioni sono scarsi. Si è perciò provveduto, con un lungo e paziente lavoro di ricerca durato dieci anni e affidato a specialisti di paesi diversi, all’acquisizione mirata di circa 1.300 immagini da un centinaio di musei in tutta l’Europa. Esse, accompagnate da un breve testo adattato per la comunicazione a un grande pubblico, sono proiettate in 14 filmati di 5/6 minuti l’uno e da 8 ulteriori approfondimenti, collocati nelle sale tra gli oggetti esposti, in modo coerente con lo sviluppo del racconto. ma il canovaccio che ho illustrato era in origine solo un binario teorico e inter-

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Note e discussioni

pretativo, sulla carta. Andava riempito di contenuti, cioè di oggetti per esemplificare e comunicare il racconto.

La selezione di cosa esporre è stata la tappa successiva, molto più delicata e complessa, perché ha significato individuare e selezionare ciò che era ritenuto funzionale all’illustrazione della memoria collettiva messa in mostra per i visitatori del presente e per le generazioni che verranno. La selezione ha richiesto quattro anni di lavoro e vari passaggi, per individuare tra i 53.011 oggetti posseduti i 2.579 alla fine esposti in 30 sale su 3.500 metri quadrati, il 65% dei quali mai messo in mostra prima. È ovvio che il requisito preliminare è stato la coerenza con il canovaccio storico di base, ma la difficoltà è consistita proprio nel rapporto tra idee storiografiche e materiali per esemplificarle, in generale e non solo negli ampliamenti interpretativi già ricordati. I materiali di cui dispone un museo di storia per illustrare il passato sono molto più variegati di altri tipi di musei; in quello di Torino sono ben 31 le tipologie in cui essi sono raggruppabili. Inoltre quasi mai essi sono nati per la funzione museale a cui sono stati poi destinati e sono passati, con il trascorrere del tempo, attraverso varie torsioni. per i contemporanei furono materiali che svolsero la funzione di messaggi culturali, artistici, politici, oppure si trattò di oggetti di uso quotidiano, o ancora rappresentarono dei simboli. Dopo l’unificazione, per cento anni furono utilizzati con una doppia valenza. Una fu il significato ideologico che le varie riletture della storia risorgimentale attribuirono loro col mutare del tempo. Un’altra fu la funzione di strumenti di pedagogia patriottica per “fare gli italiani”, enfatizzandone soprattutto l’aspetto emozionale prima che intellettuale, per parlare agli incolti e alle giovani generazioni. Di nuovo oggi noi rimettiamo mano agli stessi materiali, ma con chiavi di lettura e scopi espositivi diversi. Inoltre non sempre ci sono oggetti d’epoca adatti a illustrare tutte le idee di oggi sul passato che si racconta, oppure

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Il Risorgimento rinnovato. Intervista a Umberto Levra

Può illustrarci la tipologia di materiali che il visitatore incontra nel Museo e i criteri in base ai quali sono stati selezionati? Quali problemi pongono alla storico in vista della comunicazione di contenuti a un pubblico di non specialisti, peraltro ormai così lontano da quell’universo di sensibilità ed esperienze?


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vi sono dei pezzi che ai nostri giorni hanno perso il significato e il pathos che cent’anni or sono si attribuivano loro, e perciò richiedono una rilettura, spesso di difficile comprensione per il grande pubblico. più in generale, si ha un bel decodificare, da storico, i messaggi che il singolo oggetto trasmette, prima di sceglierlo, ma si deve anche essere certi che chi non ha tale specifica competenza e vedrà il pezzo esposto sia in futuro in grado di comprenderne la polisemanticità che quasi sempre lo accompagna. Infine, come non sempre gli oggetti funzionali sotto il profilo storico lo sono anche sotto quello della comunicazione, così non tutti possono essere esposti data la loro fragilità, le condizioni di conservazione, le norme di tutela dei beni culturali. Oppure non tutti sono collocabili nelle sale per le dimensioni, l’ingombro, il peso, nel rispetto delle norme di sicurezza. Oppure ancora la selezione deve in ogni momento fare i conti con lo spazio disponibile e con le tecnologie per la conservazione, dato che, una volta scelti, gli oggetti vanno collocati in sequenza concettuale entro spazi e contenitori predefiniti, portatori a loro volta di numerosi vincoli, di un edificio monumentale, di protezione, di sicurezza, di tipo impiantistico.

Note e discussioni

Quali altre competenze sono entrate in gioco nell’allestimento a supporto di quelle degli storici che vi hanno lavorato? Che uso è stato fatto delle nuove tecnologie che offrono al visitatore modalità di fruizione assai diversificate, fin quasi a personalizzare i percorsi di visita? Gli oggetti sono immobili, disposti in sequenza corretta ma nella loro fissità. Il lavoro dello storico è giunto sino a collocarli uno dopo l’altro, sala per sala, vetrina dopo vetrina, in un ordine cronologico e concettuale fatto di informazioni e di interpretazioni, cercando di evitare la fredda lezione dall’alto, ma anche una disposizione da luogo delle meraviglie scenografiche di nuclei pensati solo per attirare l’attenzione. A questo punto, egli deve interagire con altre competenze e altre sensibilità, con cui misurarsi e trovare un punto di compromesso. È stato questo il passaggio dalla messa in spazio alla messa in scena. Qui è entrato in gioco lo scenografo Richard peduzzi con i suoi collaboratori, per comunicare gli oggetti, catturare l’attenzione, creare emozioni con l’intero sistema espositivo, con i colori, con le luci. Entrambi, storico e sceno-

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grafo, hanno dovuto altresì considerare che ciascun visitatore ha un rapporto proprio con le immagini, gli oggetti, le animazioni, le parole, che solo in apparenza sono uguali per tutti. E che c’è chi segue un percorso scandito dalle emozioni, chi procede secondo una linea razionale, chi si affida al caso di volta in volta, chi vuol apprendere o chi cerca soprattutto un passatempo, e così via. Il punto centrale è che non esiste un visitatore tipo o medio su cui tarare la comunicazione, ma che il pubblico è formato da una grande varietà di persone, italiane e non, portatrici di culture, livelli di conoscenze e aspettative diverse. perciò è stato indispensabile, come in un gioco di scatole cinesi, per lo storico attribuire alle collezioni un ruolo differenziato nel percorso espositivo e organizzarne l’illustrazione con modalità diverse, e per lo scenografo trasmettere il messaggio su livelli diversificati. Ha preso corpo in tal modo un sistema idealmente a cerchi concentrici intercomunicanti. Vi è un livello più semplice del messaggio, di base e per tutti, composto di vari elementi. per esempio, la ricerca di un rapporto coerente tra le volte affrescate e gli stucchi delle sale e i contenuti esposti nella successione degli spazi. Le contropareti poi hanno un colore diverso in ciascuna sala, coerente con il tema trattato. Le schede esplicative ne sintetizzano il contenuto, le frecce di direzione indicano, a chi lo voglia seguire, il senso concettuale del discorso, le didascalie sono state studiate appositamente per fornire un palinsesto esplicativo di periodizzazioni, fasi, tematiche, eventi, personaggi, luoghi. Il simbolo di sala, che la riassume e ne è immediatamente evocativo, è collocato in posizione centrale per attirare subito l’attenzione di chi entra. Da questa base comune a tutti, si allargano poi i cerchi concentrici di offerte differenziate, secondo gli interessi, la preparazione, il tempo a disposizione, le eventuali diverse abilità dei visitatori. per chi abbia un interesse generico o poco tempo a disposizione, in 45 minuti il percorso breve gli illustra nell’audio o nella videoguida, in più lingue, 90 oggetti essenziali e i relativi argomenti nelle 30 sale. chi sia portatore di difficoltà visive ha disponibili apposite tavole in tutte le sale, vari originali da esplorare al tatto, una spiegazione appositamente realizzata per lui nella audioguida di una trentina di oggetti. Lo stesso percorso breve già ricordato è fornito con la videoguida nel linguaggio dei segni a chi abbia difficoltà uditive.

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Note e discussioni

per il visitatore che richieda più informazioni, un secondo cerchio concentrico gli fornisce spiegazioni più ampie su 210 nuclei concettuali con relativi oggetti; e gli dà la possibilità, quando ritenga di attraversare più veloce alcune sale oppure soffermarsi in altre, di passare a sua scelta da un cerchio all’altro. È un tipo di visitatore, questo, che ricorre spesso all’ausilio supplementare del catalogo cartaceo, o che raccoglie informazioni preliminari sul sito, oppure ancora che si affida agli accompagnatori del museo, appositamente addestrati per la visita in italiano o in altre quattro lingue, con una modularità sufficientemente flessibile da poter adattare la visita alle esigenze degli interlocutori. Un terzo tipo di percorso è di approfondimento, con illustrazioni più ampie di un numero maggiore di argomenti e oggetti, e con la possibilità di interrogare, sui touch screen disposti nelle sale, ulteriori piste tematiche europee. Nella particolare attenzione dedicata alle diverse abilità, vi è pure la possibilità, per i portatori di difficoltà motorie, di richiamare sulla videoguida l’immagine e la relativa didascalia di tutti i 2.579 oggetti esposti,  qualora,  per  motivi  contingenti,  come  ad  esempio  un  particolare affollamento in certe sale di piccole dimensioni, non possano avvicinarsi ad alcuni oggetti e leggerne le didascalie, anche se ovviamente il museo è privo di barriere architettoniche. Altrettanta attenzione è stata rivolta alle scolaresche, secondo le diverse fasce di età, dal momento che esse sono una porzione significativa di pubblico. Queste sono le principali modalità con cui, compatibilmente con le risorse disponibili, si è affrontato il problema centrale di tutti i musei, di storia in particolare, quello della grande varietà di visitatori, non incasellabili entro poche tipologie. Le risposte, in termini di gradimento e di affluenza, sono estremamente positive.  Venendo alle celebrazioni di quest’anno, è possibile tracciarne un bilancio, magari tentando un confronto con quelle del passato? Le celebrazioni del 1911 per il cinquantenario del regno d’Italia furono la festa dei ceti medi, della classe dirigente, delle istituzioni. Ne furono attori la monarchia, il parlamento, i sindaci, la scuola, l’esercito. La partecipa-

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zione popolare fu molto scarsa e intanto si scontrarono più Italie ideologicamente contrapposte: socialisti, repubblicani, cattolici si tirarono fuori, non riconoscendo nello stato liberale monarchico la loro patria. Inoltre la cultura, prevalentemente antigiolittiana, polemizzò con durezza, da sinistra e da destra, contro la “burattinata del cinquantenario” e gli sperperi in opere inutili. Anche nel 1961, in un clima politico molto teso e con gli italiani ancora divisi tra patrie ideali contrapposte, alle celebrazioni del centenario di nuovo mancarono un reale calore e un coinvolgimento convinto. La partecipazione nella penisola fu distratta e svogliata, l’entusiasmo patriottico e l’orgoglio nazionale poco sentiti. passando al centocinquantenario, a prima vista verrebbe da dire che l’italiano del 2011 parrebbe essersi affacciato alle celebrazioni in una condizione di gran lunga peggiore dell’italiano del 1961. L’evento stesso partì sotto i peggiori auspici, in un paese amorfo, prigioniero di un sistema politico bloccato, in una società sempre più disarticolata e atomizzata, percorsa da una dilagante sfiducia nelle istituzioni e da un disprezzo crescente per la classe politica, nel bel mezzo di una enorme crisi mondiale. Eppure quest’anno non ancora terminato ha riservato delle sorprese…. Indubbiamente. Nel 2011 i soggetti che hanno svolto un ruolo attivo sono stati tre, due dei quali avevano avuto un peso modesto o quasi nullo nelle celebrazioni precedenti, cioè il presidente della Repubblica e, in modo inaspettato, il paese. mentre il terzo soggetto, il governo, ha fatto assai meno rispetto ai governi del passato. Giorgio Napolitano ha svolto un ruolo decisivo, di sollecitazione a una classe politica in parte indifferente o ostile, e di elemento connettivo, con una assidua presenza in tutta la penisola. Ha svolto cioè una funzione attiva e non solo cerimoniale, come invece il presidente Gronchi nel 1961 e il sovrano Vittorio Emanuele III nel 1911. Il terreno di maggiore sensibilizzazione  degli  italiani  ai  valori  della  patria  e  della  nazione  era  già  stato preparato dal precedente settennato del presidente carlo Azeglio ciampi. Napolitano ha tenuto ben fermi alcuni punti, a cominciare dalla propria funzione di rappresentante e garante dell’unità nazionale con lo sguardo

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Il Risorgimento rinnovato. Intervista a Umberto Levra

Note e discussioni


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Note e discussioni

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sempre a ciò che unisce e non a quello che divide, pur nel rispetto delle differenze e delle diverse posizioni. Di fronte alle tendenze particolaristiche e disgregatrici,  il  suo  messaggio  ha  sollecitato  il  rafforzamento  del  senso  di appartenenza e di responsabilità nazionale tra i cittadini, l’orgoglio e la fiducia, ma anche la coscienza critica dei problemi irrisolti. L’invito continuamente ripetuto è stato a un esame di coscienza collettivo, a uno scatto di volontà e di consapevolezza civile, a una riflessione sulle ragioni dell’unità e dell’indivisibilità dell’Italia, senza ignorarne i vizi d’origine e le incompiutezze, ma anche senza la deriva di vecchi e nuovi pregiudizi e di una sterile conflittualità. I valori civili del presente hanno sempre intersecato nei suoi discorsi la storia dell’unificazione e del dopo. pure in questo caso non si è trattato di richiami generici, come nelle precedenti celebrazioni, ma di una riflessione mirata sul passato, storiograficamente aggiornata, senza specialismi. Quanto all’operato del governo per le celebrazioni, non è ancora possibile esprimere oggi un giudizio complessivo, perché mancano al momento troppe informazioni su cosa lo stato italiano ha o non ha realizzato; su quante risorse finanziarie sono state effettivamente erogate e spese e sul molto che parrebbe essere ancora da rifinanziare; sui reali criteri di scelta e di modalità di intervento. Quanto però è già acquisito è che occorre distinguere tra un primo tempo, tra la primavera del 2007 e quella del 2010, e un secondo tempo, nel 2010 e 2011. Ed è necessario distinguere altresì tra il faraonico e molto costoso programma di realizzazioni infrastrutturali (150 milioni di euro nel solo anno 2007) decise da un comitato di ministri e quasi tutte incompiute e tuttora oggetto di varie indagini giudiziarie, e il successivo modesto e spesso casuale programma di iniziative dello stato italiano. ma la vera sorpresa di questo centocinquantenario, rispetto al centenario e al cinquantenario, è stata la straordinaria mobilitazione in tutto il paese, anche fuori d’Italia, con una quantità impressionante di iniziative le più disparate. certo a monte vi sono state pure sollecitazioni governative, tramite i prefetti e gli ambasciatori all’estero; certo vi è stato il ruolo importante della  RAI. ma quanto colpisce è stata prima di tutto l’iniziativa dei sindaci, anche di piccolissimi comuni in ogni parte d’Italia, seguiti dalle province e dalle Regioni. Essi hanno recepito la spinta forte di istituzioni, circoli e associazioni culturali, di scuole, conservatori, accademie di belle

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arti, università, di musei, teatri, biblioteche, archivi, di pro loco ed enti del turismo, di giornali ed emittenti locali, di organismi professionali, società sportive, associazioni d’arma, ma anche di diocesi, parrocchie, confraternite,  e  pure  di  organizzazioni  sindacali  e  cooperative.  Il  sostegno finanziario è arrivato ancora una volta dal territorio: fondazioni bancarie, istituti di credito, assicurazioni, aziende e organizzazioni economiche, camere di commercio. Naturalmente non sono mancati localismi e riscritture  della  storia  in  funzione  antinazionale,  folcloristiche  esaltazioni  di presunte età felici pre-unitarie oppure riproposizioni di vecchie mitologie risorgimentali. ma non è il caso di seguire l’enfatizzazione delle voci fuori dal coro e delle iniziative più curiose fatta dai media alla ricerca della notizia. Nel grande numero si è trattato di episodi modesti e localizzati. Neppure  si  deve  cercare  un  filo  conduttore  nel  caleidoscopio  complessivo. Quanto importa è il tessuto di mobilitazione e partecipazione dal basso, in sinergia con la funzione svolta dal presidente della Repubblica e – va sottolineato – in tutta la penisola. Tanto più dopo l’indifferenza del 1911 e la partecipazione scarsa e svogliata del 1961, e in presenza del contesto culturale e politico delle celebrazioni del 2011 e di quella morte della patria più volte preconizzata. Insomma, accanto alle intemerate, ai balbettii, alle esitazioni della politica, il “fai da te” degli italiani pare aver provveduto, per la prima volta, a celebrare i centocinquant’anni dell’Italia unita, mettendo insieme, almeno in termini di cittadinanza se non di nazionalità, e in modo empirico, talvolta anche casuale e forzato, il punto di partenza della comunità e della memoria locale e delle radici nel territorio, con l’evento nazionale comune, che ne è uscito così sfaccettato e concretato. Il primo segnale sono stati l’emozione e lo straordinario successo televisivo il 17 febbraio di Roberto Benigni al festival di Sanremo, con l’appassionato monologo sull’inno di mameli. poi vi è stata l’imponente e festosa partecipazione alla notte tricolore il 16 marzo, mentre l’Italia si riempiva di bandiere. poi è successo di tutto: commemorazioni, convegni, conferenze, molte iniziative delle e per le scuole, mostre e musei, piazze, parchi, monumenti, spettacoli musicali, teatrali, cinematografici, videoproiezioni, rassegne fotografiche. ma anche fumetti, satira, cartoni animati, filarmoniche, bande, cori, illuminazioni tricolori, moda, raduni militari, e

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Il Risorgimento rinnovato. Intervista a Umberto Levra

Note e discussioni


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Quaderno di storia contemporanea/50

Note e discussioni

tanto turismo della tradizione con danze, rievocazioni in costume, fiere enogastronomiche, disfide del palio, cavalcate garibaldine, notti di briganti, escursioni e passeggiate storiche, artisti di strada e giocolieri. L’aver messo il santo patrono o la sagra del paese insieme al centocinquantenario dell’Unità non deve suscitare un atteggiamento di sufficienza, e nemmeno i pani tricolori, le pastasciutte tricolori, i gelati tricolori, il matrimonio tra gorgonzola e mozzarella, le sculture di sabbia sulle spiagge. Altrettanto va detto per iniziative di tutto rispetto, come le feste dell’emigrante, i tornei e le realizzazioni dei diversamente abili, le tante miss Unità d’Italia locali, le maratone e le gare ciclistiche e motociclistiche amatoriali da una parte all’altra dello stivale, per lo più a scopo benefico, le bandiere issate sulle vette alpine, le staffette nautiche, i brindisi al centocinquantesimo nella “notte delle stelle” di San Lorenzo, la marcia per la pace perugia-Assisi, le feste dell’agricoltura e dell’artigianato. In questo presente così cupo, lasciamo uno spiraglio alla speranza, con il bilancio di questa inaspettata partecipazione fatto da Giorgio Napolitano parlando a Verona il 17 giugno: “Questo 150° è stato l’occasione di un risveglio di partecipazione dal basso. […] c’è stato uno straordinario moltiplicarsi di iniziative dal basso. Sono tante che non riusciamo più a tenere il conto di quante sono state. Dunque c’è qualcosa di profondo che unisce gli italiani”.

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Note e discussioni

Alessandria  e i centocinquant’anni.

Alberto Ballerino

Alessandria è stata un’isola felice per le celebrazioni dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. Fa piacere constatare che per una volta il nostro territorio ha saputo sfruttare al meglio l’opportunità offerta da questa ricorrenza, andando al di là delle solite rievocazione retoriche. Un’eccezione sia per quanto riguarda il presente che per il passato.  Le  precedenti  occasioni  del  cinquantenario  e  del  centenario  erano state, infatti, nel complesso decisamente deludenti. Nel 1911 non si produsse praticamente nulla di significativo sul piano della ricerca scientifica. Nel 1961 si tenne nel salone della camera di commercio (l’attuale palazzo monferrato) una grande mostra provinciale, curata da Giuseppe Gentile e promossa dal comitato di Alessandria per le celebrazioni del centenario. L’aspetto positivo fu la capacità di coordinare gli enti del territorio provinciale in un’unica grande iniziativa: la maggior parte della documentazione utilizzata proveniva dall’Archivio di Stato ma molto materiale illustrativo venne prestato dai comuni di Alessandria, casale, Novi Ligure, Acqui e Occimiano. mancò, invece, un’azione coordinata per quanto riguarda la promozione di nuovi studi.  Questa volta, invece, è accaduto esattamente il contrario: è sul piano della ricerca scientifica che sono stati raggiunti risultati importanti mentre sotto il profilo celebrativo è totalmente mancato un  vero coordinamento.  per quanto riguarda il momento espositivo, ogni realtà locale della provincia ha agito per conto proprio, con esiti più o meno felici a seconda dei

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Alberto Ballerino, Alessandria e i centocinquant’anni. Un primo bilancio

Un primo bilancio


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casi. praticamente ciascuna delle principali città ha organizzato una propria mostra, tendente a esaltare i propri personaggi e l’apporto dato al Risorgimento. Una citazione particolare meritano sicuramente le esposizioni allestite a casale, Tortona, Novi e Ovada. Ad Alessandria ci sono state diverse mostre proposte da enti, istituzioni e associazioni. Lo sforzo del comune del capoluogo è parso comunque meno deciso e interessato rispetto agli altri principali centri della provincia. probabilmente non è estranea a questo scarso impegno la difficile situazione delle finanze comunali. È mancata, però, la capacità di coordinamento per una grande esposizione in qualche modo comparabile con quella del 1961.  Sul piano della divulgazione e dell’attenzione al mondo giovanile, i risultati sono stati abbastanza buoni. Il principale giornale locale, “Il piccolo”, ha dedicato al Risorgimento due pagine settimanali dalla fine di gennaio fino al 14 dicembre: una pagina era riservata alla ricostruzione in termini divulgativi della storia alessandrina dalla Restaurazione fino agli anni Settanta dell’Ottocento; l’altra riguardava la toponomastica alessandrina con riferimento alle lotte per l’Unità d’Italia. Alla fine di questo percorso, c’è stata una pubblicazione. Sono stati organizzati anche dei concorsi rispetto al mondo della scuola che hanno dato buoni risultati. In particolare, “La storia siamo noi”, che, diretto alle scuole superiori di secondo grado, si è articolato in due sezioni: una di storia locale riguardante il periodo risorgimentale e una di cultura civica. Quest’ultima aveva per tema “Essere cittadini:  il complesso di valori e comportamenti fondamentali per il funzionamento di una società democratica”, volendo sottolineare come i centocinquant’anni anni fossero anche l’occasione per una verifica della capacità dello Stato italiano di formare un cittadino consapevole. Il Risorgimento è anche la fase storica in cui si passa dal suddito di una monarchia assoluta al cittadino di una società liberale. Le risposte giunte dagli studenti sono state particolarmente felici proprio per quanto riguarda questa sezione di cultura civica. Segno evidentemente che  i docenti in alcuni istituti della nostra provincia hanno lavorato molto bene in questi anni. Il concorso ha visto anche una felice collaborazione tra forze diverse: la presidenza del consiglio provinciale, il giornale “Il piccolo” e la cassa di risparmio di Alessandria. Quest’ultima, insieme alla Fondazione  cRA, ha dato un ulte-

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riore contributo nel lavoro fatto verso il mondo della scuola con la pubblicazione  di un volume divulgativo che riassume i risultati dei tre libri strenna sul Risorgimento ad Alessandria e nel monferrato.  Anche sul piano dello spettacolo e del teatro non sono mancate iniziative di vario tipo. Tra queste, una segnalazione per la rappresentazione messa in scena dalla compagnia LApS nel Teatro municipale di casale intitolato Un uomo per bene (ritratto di Giovanni Lanza) su drammaturgia di Alfredo Rivoire. In pratica, una lezione di storia attraverso il palcoscenico, utilizzando lettere e documenti autentici. I dialoghi di Lanza, Sella, Vittorio Emanuele e degli altri protagonisti dello spettacolo erano soprattutto basati sulla fedele trasposizione delle lettere che si scambiavano nel cruciale periodo che va dai giorni a ridosso della breccia di porta pia fino alla morte dello statista casalese.  c’è stato anche un significativo apporto dato dalle società di storia patria dei diversi centri della provincia con numeri speciali. Anche in questo ambito si è certamente lavorato di più e meglio rispetto al periodo del centenario. In particolare, va sottolineato l’alto livello del numero speciale della centenaria “Rivista di storia arte e archeologia per le province di Alessandria e Asti” dal titolo Politica, istituzioni e cultura nel Risorgimento alessandrino che ha dato davvero un contributo significativo sul piano scientifico. Il volume si divide in tre sezioni: la prima è riferita alle conferenze sul tema Diritto e istituzioni nell’età di Urbano Rattazzi, promosse in collaborazione con la facoltà di Giurisprudenza dell’Università del piemonte orientale; la seconda propone alcuni saggi realizzati per l’incontro tenutosi a suo tempo per il centenario del consiglio provinciale; la terza raccoglie nuovi studi dei soci.  La prima parte si caratterizza per il livello decisamente alto, con tutti saggi scritti da docenti universitari che ci permettono un ulteriore momento di approfondimento su Rattazzi. Al riguardo si può tranquillamente affermare che in questi anni è stata finalmente resa giustizia allo statista alessandrino, ingiustamente ignorato per lungo tempo dalla storiografia risorgimentale. Questa edizione della Rivista dà un ulteriore contributo, insieme agli altri dell’Università del piemonte orientale, a rivederne il ruolo. I saggi costituiscono anche una riflessione sulla storia dell’ordinamento costituzionale e amministrativo dello Stato italiano negli anni cruciali della

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Alberto Ballerino, Alessandria e i centocinquant’anni. Un primo bilancio

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sua formazione e presentano in più di un caso una significativa originalità. Renato Balduzzi spiega come Rattazzi rappresenti un importante punto di riferimento per inquadrare le idee della sinistra liberaldemocratica dell’Italia di metà Ottocento. Enrico Genta affronta, invece, il tema del contributo  dell’alessandrino  all’unificazione  amministrativa  del  regno.    Il Rattazzi  nel ruolo di avvocato riemerge dallo studio proposto da Francesco Aimerito. Ettore Dezza si sofferma sul cosiddetto codice Rattazzi, cioè il codice di procedura penale che prende corpo nel 1859 su impulso dello statista alessandrino. corrado malandrino approfondisce il carattere laico del pensiero e dell’azione politica di Rattazzi, l’autore della legge del 29 maggio 1855 che porta il suo nome, con la quale veniva decisa la soppressione non degli ordini religiosi contemplativi (come si suole sempre dire) ma del loro riconoscimento di enti morali e dei relativi privilegi.  La seconda parte della rivista, come già detto, con i saggi di Lucio Bassi e Alberto Ballerino, propone una parte dei contributi preparati in occasione del centenario del consiglio provinciale. L’ultima sezione riguarda personaggi e aspetti dell’alessandrino nel periodo risorgimentale con saggi di  Renato Lanzavecchia,  Francesco cacciabue, Sergio Arditi, Giancarlo Libert, patrizia morandi,  Gian maria panizza e Roberto Livraghi. piace ricordare tra questi interventi l’analisi di cacciabue su mito e storiografia di Giovanni poggio, l’artigliere di masio che perse entrambe le braccia durante l’assedio di capua, celebrato anche da Edmondo De Amicis. Il saggio costituisce un esempio di analisi della costruzione di un mito patriottico secondo modalità non inconsuete nell’Italia postrisorgimentale.       Grazie al suo presidente, Elisa mongiano, la Società ha saputo perciò interagire  con  l’ateneo  alessandrino  che,  come  vedremo  fra  poco,  è  stato grande protagonista di queste celebrazioni. Non a caso la rivista è stata presentata ufficialmente una prima volta nel corso del grande convegno internazionale di ottobre tenutosi nella sala lauree di palazzo Borsalino. Una seconda presentazione è prevista per il 20 gennaio a palazzo Ghilini, con anche una piccola esposizione di materiale della Biblioteca e delle collezioni museali della Società. Il significativo contributo dato a queste celebrazioni sul piano scientifico va inserito nel contesto di un momento di ripresa di questa antica associazione alessandrina, che ha saputo rafforzare

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e rilanciare in modo positivo la collaborazione con l’Università del piemonte orientale.   La vera differenza, rispetto al 1961, è segnata dall’importante lavoro a livello scientifico svolto dal Laboratorio di storia, politica, istituzioni (LASpI) dell’Università del piemonte orientale. presidente del Laboratorio è il professor corrado malandrino, preside della Facoltà di scienze politiche. Da parte dell’Università del piemonte orientale c’era già stato un forte interessamento allo studio di alcune figure di primissimo piano del Risorgimento italiano legate al basso piemonte.  Una serie di convegni avevano portato alla pubblicazione di volumi importanti su carlo Francesco Ferraris, Urbano Rattazzi e Giuseppe Saracco. La costituzione del LASpI ha rappresentato  un  ulteriore  fondamentale  passo  verso  un  approccio  non occasionale all’approfondimento e alla ricerca su personaggi  del basso piemonte che hanno svolto un ruolo di primo piano  nella storia del Risorgimento e su cui non c’era ancora una adeguato “corpus” di studi. Una serie di incontri seminariali e convegni  hanno fatto da tappa verso il grande convegno internazionale Statisti e politici alessandrini nel lungo Risorgimento. Rattazzi, Lanza, Ferraris (e altri) che si è svolto tra il 6 e l’8 ottobre nella sala lauree di palazzo Borsalino. I lavori del  LASpI sono continuati anche dopo il convegno con il seminario tenutosi il 15 novembre sulla classe dirigente alessandrina dal 1798 al 1861. Dai primi appuntamenti tenuti nel 2010  è già stato tratto il volume Garibaldi, Rattazzi e l’Unità d’Italia, a cura di corrado malandrino e Stefano Quirico (Editore claudiana).  Nuove pubblicazioni riguarderanno  i successivi incontri e naturalmente il convegno internazionale, che è stato un grosso successo per i risultati ottenuti sul piano scientifico. Sono in programma anche biografie come, per esempio, quella su maggiorino Ferraris di Stefano Quirico. Sugli importanti risultati di questo convegno rimandiamo ad altro intervento pubblicato in questo numero del “Quaderno di storia contemporanea”. In questa sede ci limitiamo a ricordare come il contributo del piemonte sud orientale al Risorgimento nella storiografia tradizionale, molto Torinocentrica, sia stato spesso sottovalutato. Le ricerche del LASpI sono, sotto questo profilo, figlie delle intuizioni promosse già nel 1999 dal convegno L’altro

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Alberto Ballerino, Alessandria e i centocinquant’anni. Un primo bilancio

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Quaderno di storia contemporanea/50

Note e discussioni

Piemonte nell’età di Carlo Alberto, all’epoca promosso dal centro di cultura di Alessandria dell’Università cattolica del Sacro cuore, dall’Archivio di Stato di Alessandria e dall’ISRAL. Un’esperienza che lasciò un segno importante, tant’è che ad essa si agganciò idealmente nel titolo il grande convegno del 2008,  L’altro Piemonte e l’Italia nell’età di Urbano Rattazzi, promosso, in occasione del bicentenario della nascita dello statista alessandrino, dalla Facoltà di scienze politiche dell’Università del piemonte orientale, dal centro di cultura di Alessandria dell’Università cattolica del Sacro cuore e dall’Istituto di storia moderna e contemporanea dell’ateneo milanese.      Il bilancio su questi centocinquant’anni è dunque particolarmente felice per il nostro territorio e il confronto con le precedenti celebrazioni dimostra quale importanza possa avere la presenza dell’Università, soprattutto quando c’è capacità di coordinamento e collaborazione tra sinergie diverse. Al di là dello spessore delle singole ricerche, è stato messo in campo un progetto culturale e storico generale, di livello locale, regionale, nazionale ed europeo in grado di integrare gli studi promossi con le più recenti tendenze storiografiche.

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Note e discussioni

L’istruzione strumento di emancipazione sociale e professionale.

Luciana Ziruolo Nel 1861, anno dell’unificazione, l’Italia aveva poco meno di 22 milioni di abitanti e, all’incirca, 17 milioni di analfabeti. In piemonte più del 58% della popolazione era incapace di leggere e scrivere, eppure rispetto al dato nazionale che si aggirava sul 75%, quella piemontese rappresentava una realtà privilegiata. La legislazione preunitaria sull’istruzione nel Regno di Sardegna (ad esempio il Regolamento di carlo Felice del 1822 che teoricamente prevedeva una scuola primaria obbligatoria e gratuita per maschi e femmine in ogni comune e la legge Boncompagni del 1848 che affermava che la pubblica istruzione era Uffizio civile e non religioso e passava tutta l’istruzione compresa l’Università al Segretariato della pubblica istruzione denominandolo ministero della pubblica istruzione) aveva contribuito notevolmente allo sviluppo della scolarità, anche se permanevano profonde differenze tra le aree urbane e  di pianura e le zone rurali e di montagna che presentavano un deciso svantaggio. Il piemonte, rispetto al resto di Italia, era favorito da un lato dalla sua posizione geografica che  consentiva  lo sviluppo di scambi commerciali e l’apertura ai dibattiti e al confronto transalpino, dall’altro da una discreta, seppure disomogenea, condizione economica che permetteva ai comuni di provvedere all’apertura e al mantenimento delle scuole, la cui gestione, infatti, fino al 1911 con la legge Daneo-credaro, era affidata alle casse comunali. È di tutta evidenza, perciò, che le zone ancora dedite a una economia di sussistenza presentavano un notevole svantaggio, che comportava per i comuni più poveri una condizione di assoluta arretratezza culturale. In queste aree l’istruzione restava saldamente nelle mani della chiesa: l’unica istituzione ca* Intervento di Luciana Ziruolo all’incontro Le società di mutuo soccorso fondamenta d’Italia tenutosi alla Società Operaia di mutuo Soccorso di Acqui Terme il 27 novembre 2011.

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Luciana Ziruolo, L’istruzione strumento di emancipazione professionale

Dalla legge casati alla legge Daneo-credaro (1859-1911)


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pace di garantire locali e personale docente con un minimo di formazione. È in questo contesto che si inserisce la legge casati del 1859.  Il quadro europeo relativo alla popolazione delle scuole elementari e degli asili infantili nel periodo 1860-1864 vede l’Italia in coda con 7 alunni su 100 abitanti, 8 in Spagna, 13 in Inghilterra, Francia e paesi Bassi, 14 in Irlanda, 15 in Belgio, 16 in prussia. D’altro canto, come ha scritto Ester De Fort: “l’istruzione agli occhi delle masse, gravate da una miseria estrema, appariva inutile ai fini del proprio lavoro e insostenibile economicamente, non potendo rinunciare ai proventi del lavoro infantile”1. La legge casati del 1859 estesa poi dal piemonte sabaudo all’Italia unita configurava tre principi fondamentali: il diritto-dovere dello Stato di sostituirsi alla chiesa nell’organizzazione delle strutture educative; l’obbligatorietà (in realtà nominale e mai pienamente realizzata); la gratuità e l’unicità dell’istruzione elementare.  Alla scuola elementare si accedeva a sei anni, due erano i gradi: inferiore e superiore, entrambi erano biennali. La legge stabiliva che il biennio inferiore venisse istituito in ogni comune, per il biennio superiore l’obbligo era soltanto per i comuni superiori ai 4.000 abitanti. La scuola primaria era interamente a carico dei comuni, con possibilità di interventi statali a carattere integrativo. Dalla legge casati rimangono escluse l’istruzione professionale e quella dell’infanzia. Quest’ultima esclusione risiedeva nella diffusa concezione caritativa e assistenziale, una concezione che perdura  almeno fino alla metà del Novecento. Basti pensare che per poter parlare di scuola materna statale bisognerà attendere i Nuovi ordinamenti del 1968, e che per ottenere la  denominazione “scuola dell’infanzia”  in sostituzione della dicitura “scuola materna”, bisognerà attendere gli Orientamenti del 1991, che la inseriscono finalmente a pieno titolo, con l’eliminazione dell’aggettivo materna,  nel sistema educativo. Nell’Ottocento, lo stato delle conoscenze psico-pedagogiche faceva sì che i primi anni di vita fossero ritenuti poco rilevanti nella formazione dell’individuo. Va inoltre tenuto presente che l’indottrinamento religioso ai fini della conservazione della pace sociale è stato un tratto costante della classe dirigente liberale, specialmente dei ministri  della pubblica istruzione. Sono gli anni del conflitto tra Stato e chiesa. L’enciclica di pio IX

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Quanta cura (e l’annesso Sillabo) che condanna le dottrine liberali è del 1864, la Rerum novarum di Leone XIII è nel 1891 una risposta cristiana alla questione sociale e operaia, un anno dopo a Genova verrà fondato il partito socialista. Il non expedit – non giova ai cattolici né l’elettorato attivo, né quello passivo – si attenuerà solo nel 1904 e bisognerà attendere il patto Gentiloni del 1912 per trovare uno sbocco nelle elezioni del 1913 a suffragio universale maschile. Dopo la legge casati, l’altra legge di rilievo sull’istruzione è quella coppino del 1877 – la sinistra è al potere con il primo ministero Depretis – che contiene alcune norme di attuazione nonché di estensione all’intero territorio nazionale della legge casati. In vista dell’emanazione di questa legge pio IX pregava il re Vittorio Emanuele II di fare il possibile per evitare “il flagello” dell’istruzione obbligatoria. per ottenere sudditi timorati bastano la parola del padre e del curato. Nel 1872 “La civiltà cattolica” pubblicava un articolo che affermava “al lavoro si richiedono braccia e non l’alfabeto e al buon costume conferisce la buona educazione paterna e l’istruzione religiosa”. La legge coppino del 1877 è importante perché l’articolo 2 proclama l’obbligo scolastico fino a 9 anni, limitato pur sempre al corso inferiore. La legge,  avversata dai cattolici intransigenti che temevano il diffondersi dell’istruzione laica, è importante anche perché accanto ai rudimenti del leggere, scrivere e far di conto, introduce le prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino e non prevede l’insegnamento religioso. come ha scritto Giorgio candeloro “i sostenitori dell’obbligatorietà volevano soprattutto stabilire chiaramente un principio che, mentre da un lato implicava un obbligo per tutti i cittadini, dall’altro doveva indurre lo Stato e i comuni ad impegnarsi più seriamente per lo sviluppo della scuola elementare. La legge insomma doveva essere il punto di partenza per un più celere sviluppo della lotta contro l’analfabetismo e per l’elevamento culturale del popolo”2. L’articolo 7 prescrive ai comuni l’apertura di scuole serali e di scuole festive per le fanciulle. La debolezza nell’applicazione è che vengono sì previste sanzioni e misure per le inadempienze comunali e familiari, ma tra gli impedimenti gravi oltre alle  malattie, alla distanza dalla scuola, alla con-

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dizione delle strade vi è “l’assoluta povertà” e ciò comporta in molti casi la ratificazione dell’esistente. Anche se, in alcune aree la sensibilità degli amministratori, favoriva l’aumento della scolarità. Ad esempio,  in riferimento alla legge, Giuseppe Saracco come presidente della provincia di Alessandria rilevava come fosse santo e salutare il principio della obbligatorietà dell’istruzione primaria:  “è dovere della provincia venire in aiuto ai piccoli comuni col concedere loro quei sussidi mancando i quali vi ha timore che il principio scritto nella legge non venga ad avere la sua applicazione” 3.  All’inizio degli anni Ottanta, dopo vent’anni di vita unitaria, si rilevano vistosi sviluppi nell’alfabetizzazione: l’analfabetismo è sceso dal 74,7% al 61,96%. In provincia di Alessandria nell’anno scolastico 1881-82 il tasso di scolarità supera il 90%, così a Novara, quasi il 95% a Torino e il 98% a cuneo. certamente questi dati così positivi in piemonte sono dovuti, oltreché alla già ricordata legislazione preunitaria alle numerose iniziative di alfabetizzazione promosse dalle Società di mutuo soccorso. Di quei decenni non va poi dimenticato, nell’opera di trasformazione degli italiani da sudditi a cittadini, che il processo di alfabetizzazione procedeva  pressoché di pari passo con quello di estensione del diritto di voto: la riforma elettorale del 1882 concede il diritto di voto al 6,9% della popolazione totale, cioè al 25% della popolazione adulta maschile con il ventunesimo anno di età e con la licenza elementare  inferiore. Fino alla legge Daneo-credaro del 1911 che avocherà, seppur parzialmente, allo Stato l’istruzione elementare, il limite, per quanto riguarda l’istruzione, nel cammino da sudditi a cittadini  risiederà, oltreché nello status volutamente debole dei maestri (ad esempio in termini di disparità nella retribuzione tra donne e uomini e tra città e campagna), nell’essere l’istruzione elementare in carico ai comuni. Basti pensare che nel 1861 degli 8789 comuni italiani 7807 avevano una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e disponevano di scarse risorse finanziarie e che lo Stato quando intervenne lo fece con un contributo finanziario molto modesto  che solo nel 1904 superò con 7.200.000  lire il 13% delle spese statali per l’istruzione che a loro volta non raggiungevano il 4% delle spese complessive dello Stato. Nel 1886 vi sarà una prima legge limitativa del lavoro minorile interdetto al di sotto dei nove anni (sono quelli previsti dalla legge coppino per

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l’assolvimento dell’obbligo), dei dieci anni per il lavoro nelle miniere, dei dodici anni per il lavoro notturno. Nel 1888, per incentivare la scolarizzazione, verrà istituito il patronato  (che prevedeva l’istituzione della mensa scolastica, la concessione di sussidi per calzature e vestiario e la distribuzione di cancelleria e materiale didattico) che però diventerà obbligatorio solo nel 1911 con la legge Daneo-credaro. Nel 1904, con la legge che prende il nome dell’allora ministro della pubblica istruzione Vittorio Emanuele Orlando l’obbligo scolastico viene esteso ai dodici anni di età. Nel 1907 nel preambolo alla discussione di bilancio Leonida Bissolati rivendica il carattere laico dell’istruzione elementare e l’abolizione dell’insegnamento religioso, indicazioni che verranno recepite nel Regolamento generale per l’istruzione elementare che sarà emanato l’anno successivo dal ministro Rava. Tra il 1910 e il 1912 il direttore generale dell’istruzione primaria  e popolare camillo corradini pubblica i quattro volumi dell’inchiesta L’istruzione primaria e popolare in Italia. I primi tre volumi saranno alla base della legge Daneo-credaro del 4 giugno 1911 che avoca allo Stato l’istruzione elementare tramite i consigli scolastici provinciali. In realtà, come si è già accennato, sarà un’avocazione molto parziale perché ne resteranno escluse le scuole dei comuni capoluoghi di provincia e di circondario. La legge comunque segnava l’avvio della statalizzazione dell’istruzione primaria come soluzione all’inefficienza dei comuni ed esprimeva la volontà politica (che legava il radicale credaro a Giolitti) di dare gambe al “progetto globale di integrazione indolore delle masse nel sistema liberale”. L’avocazione allo Stato implicava un preciso controllo delle classi dirigenti sul futuro corso della politica scolastica, un processo che non a caso, come già sottolineato, avviene contemporaneamente all’estensione del suffragio. Sono queste le ragioni per cui nel campo dell’istruzione si concentrarono la maggior parte delle iniziative delle associazioni mutualistiche. Esse, soprattutto nelle zone più povere e nelle aree rurali svolsero un ruolo di supplenza per fronteggiare le carenze della scuola pubblica. Le classi subalterne erano consapevoli dell’importanza dell’alfabetizzazione e dell’istruzione come strumento di emancipazione, per questo le SOmS istituirono scuole primarie serali, corsi di taglio e cucito, corsi di lin-

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gua straniera e di storia patria, corsi di disegno tecnico che in molti casi si trasformano in scuole professionali (come si ricorderà erano rimaste escluse dalla Legge casati l’istruzione professionale e la scuola per l’infanzia).  proprio in omaggio alla scuola per l’infanzia così a lungo bistrattata, come si è visto, si sceglie di chiudere questa breve nota con un bozzetto di memorialistica alessandrina. Lo si trova nelle prime pagine del libro di paolo Robotti, Scelto dalla vita. paolo (classe 1901) e il fratellino sono rimasti precocemente orfani, il padre per alleggerire i compiti di cura della nonna decide di iscriverli all’unico asilo del quartiere dove risiedevano: il “cristo” di Alessandria. L’asilo era tenuto dalle suore, i fratelli Robotti erano gli unici a non recitare il padre nostro, ai bambini vennero dati cinque giorni di tempo per impararlo, ma già al quarto giorno avvenne il fattaccio: “Nel pomeriggio tutti noi per un’ora, dovevamo fare un sonnellino appoggiando il capo sulle braccia incrociate sul banco. Io non avendo voglia di dormire fingevo di sonnecchiare e, a un certo momento, mossi il capo [...] la suora fu lesta a  menarmi un colpo al viso. Siccome teneva nel pugno chiuso una matita col salvapunte di metallo, questo mi scorticò, vedendo calare il sangue mi misi a strillare svegliando tutti”. I due fratellini vennero ritirati dall’asilo, l’eco di quanto accaduto si sparse nel quartiere, a casa Robotti alla sera si riunivano gruppi di ferrovieri: “così non  può più andare avanti! [...] parecchie volte sentii pronunciare la parola ‘asilo laico’. ci liberemo dalle suore e avremo una vera maestra, come nelle scuole. Siccome proprio allora si lavorava alla costruzione della casa della Società di mutuo Soccorso, qualcuno disse: lì ci metteremo l’asilo laico”.

Note e discussioni

NOTE 1. Ester De Fort, Storia della scuola elementare in Italia, vol. I, Dall’Unità all’età giolittiana, milano, Feltrinelli, 1979. 2. Giorgio candeloro, Storia dell’Italia Moderna, vol. VI, 1871-1896,  milano, Feltrinelli, 1970.  3. mi permetto di rimandare a un mio studio Giuseppe Saracco Presidente della Provincia di Alessandria che sarà prossimamente pubblicato dal Laboratorio di Storia politica e Istituzioni (LaSpI) dell’Università del piemonte Orientale.

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Note e discussioni

Dal Risorgimento alla Resistenza e ritorno. La pattuglia sperduta di piero Nelli e l’Unità d’Italia al cinema

Nella storia del cinema italiano, il Risorgimento è stato spesso scenario di opere anche di grandissimo valore, come quelle di Luchino Visconti; ma non è diventato mai un genere o sottogenere cinematografico autonomo. Forse è mancato un John Ford 1 che individuasse nel Risorgimento un’unica linea di demarcazione e la portasse avanti fino in fondo nei suoi film; forse, e questo è un sintomo ulteriore della anomalia storica italiana, chi ha diffuso l’immagine del Risorgimento nei nuovi mezzi di comunicazione (radio e cinema), lo ha utilizzato come mezzo e non come fine. Si parlava del Risorgimento, insomma, per parlar d’altro. La pattuglia sperduta di pietro Nelli è un esempio emblematico, anche se questo titolo non dirà probabilmente nulla allo spettatore cinematografico dei giorni nostri. Si può dire a ragione che sia un film disperso. Girato nei primi anni cinquanta ebbe un buon successo di critica, ma nessun riscontro nel pubblico, tant’è vero che scomparve presto  dagli schermi. È stato riscoperto e rivalutato, insieme all’opera del suo autore piero Nelli, poi apprezzato documentarista RAI, soltanto a partire dal 2004. Il film presenta al suo interno una forte unità, tanto nella narrazione, quanto nell’ambientazione: racconta un episodio della prima guerra d’indipendenza, legato alla battaglia di Bicocca di Novara, e girato nelle campagne del casalese, con attori non professionisti scritturati per la maggior parte tra gli abitanti del luogo. Quest’ultima è una consuetudine diffusa del primo periodo neorealista, e il film è pienamente neorealista: lineare, non spettacolare, con gli elementi di finzione ridotti al minimo, naturalista nella fotografia e nell’ambientazione. Anche l’assunto ideologico è pienamente

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Antonella Ferraris


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neorealista: una pattuglia della divisione Lombarda è mandata a unirsi alle truppe del generale Ramorino alla cava lungo il Ticino; non le trova nel luogo designato (il generale ha infatti abbandonato la sua posizione aprendo la strada alle truppe di Radetsky), combatte contro il nemico venendo decimata e quando infine giunge sul campo di battaglia è troppo tardi e i piemontesi sono stati sconfitti. Il film si conclude su una nota positiva: anche se la battaglia è stata perduta, la lotta è destinata a continuare.  Il regista e lo sceneggiatore Oscar Navarro, filosofo e poeta torinese che nel film, con lo pseudonimo di Sandro Isola, interpreta il ruolo del protagonista, il capitano Salviati, comandante della pattuglia, saldano insieme due risorgimenti, quello ottocentesco e quello recente della Resistenza, soffermandosi, come  nella lezione di Gramsci, sui subalterni, e condannando al tempo stesso la guerra regia. Il film si ricorda anche perché è l’opera prima di un giovane produttore destinato a essere estremamente influente nel cinema italiano, Franco cristaldi. Questa pellicola, come le altre che verranno citate in questa breva nota, utilizza il Risorgimento vuoi in senso metaforico, vuoi per costruire un’alternanza passato-presente. Sin dalle sue origini il cinema italiano ha recuperato  il  Risorgimento,  e  in  generale  la  storia  italiana,  in  funzione nazionalistica:  un fatto verificabile anche e soprattutto nel periodo fascista, quando il cinema, divenuto un aspetto fondamentale della propaganda esalta la rivoluzione fascista come ideale forma di continuità con il processo unitario; un uso pubblico della storia, che raccontava in parallelo le battaglie risorgimentali come le prime guerre fasciste. pur nei limiti di ogni generalizzazione, si può dire che questo fosse appunto uno degli scopi del cinema dell’epoca: da una parte i telefoni bianchi, dall’altra l’esaltazione della storia patria. Di fatto nel periodo fascista vengono girati solo due film autenticamente ambientati durante il periodo risorgimentale, e dei due, 1860 di Blasetti, pur paragonando l’anno 1860 al biennio 1920-1922 che vede l’affermazione del fascismo, non si caratterizza altrimenti per il suo zelo ideologico 2. certo è vero che nel secondo dopoguerra il neorealismo privilegia temi legati alla stretta contemporaneità. La pattuglia sperduta è interessante anche sotto questo aspetto. Il Risorgimento qui descritto ha molta affinità con il

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periodo storico appena trascorso. La vicenda è raccontata “dal basso”, cioè dal punto di vista dei soldati; essi compiono il loro dovere, mentre i comandanti (il generale Ramorino, appunto) sono incompetenti o in malafede. Il combattimento che sostengono ha poi molta affinità con la guerra partigiana. pochi anni dopo, Luchino Visconti in Senso darà un giudizio analogo di un’altra battaglia (un’altra sconfitta): il regista considera quella guerra ingiusta, condotta da generali incompetenti a spese dei cittadini. Il giudizio sul Risorgimento si amplia: il rifiuto di accogliere nell’esercito italiano i patrioti veneti, per timore di infiltrazioni democratiche, si lega a una critica del ridimensionamento dei valori della Resistenza nel successivo dopoguerra. La nota positiva con la quale si chiude La pattuglia sperduta negli anni successivi lascerà il posto a una progressiva disillusione, ancor più evidente nel Gattopardo. Quasi sessanta anni dopo, il film di mario martone, Noi credevamo, si pone in una prospettiva simile anche se più ampia. Se negli anni cinquanta e Sessanta i film di Visconti, Senso, e Il Gattopardo paragonavano il Risorgimento tradito alla Resistenza tradita, la riflessione di martone vede l’esperienza risorgimentale come emblematica dei nodi irrisolti della nostra storia rappresentati dallo scheletro di cemento armato che deturpa il magnifico paesaggio del cilento da cui la storia prende il via.  In entrambi i casi, la rivoluzione democratica non ci sarà. Nella seconda parte di Noi credevamo, Domenico, il protagonista, assiste sconsolato all’ascesa dei monarchici filopiemontesi: anche in carcere si rende conto dell’isolamento dei mazziniani  incapaci di “andare verso il popolo”, e di superare le inesorabili differenze di classe, così inesorabili da perpetuarsi anche in prigione. Il vero vincitore, infatti, è crispi, abile trasformista, simbolo di quella politica che si alimenta di se stessa: il suo eloquio nell’aula vuota rappresenta una classe dirigente conservatrice e lontana dal popolo. In questa rapida carrellata siamo passati dagli anni cinquanta ai giorni nostri,  ma il legame passato-presente è presente in quasi tutta la filmografia a sfondo risorgimentale. Negli anni Settanta pellicole come Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini o Allonsanfan dei Taviani, usciti a due anni di distanza l’uno dall’altro (1972 - 1974) affrontavano il tema della guerra rivoluzionaria e dell’azione clandestina. Sembrano film di ambientazione ottocentesca, ma i

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Note e discussioni


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critici dell’epoca vi leggono chiari riferimenti all’attualità.  Bronte, tratto dal racconto di Verga Libertà, racconta la ribellione violenta dei contadini siciliani contro i latifondisti, soffocata nel sangue proprio dai garibaldini, mentre in Allonsanfan assistiamo alle ambiguità e ai tradimenti della lotta clandestina dei carbonari. Si può dire che la lezione di Gramsci è ancora presente, e il Risorgimento è raccontato “dalla parte degli altri”, del popolo, dei perdenti, coloro per i quali è cambiato tutto, ma non è sostanzialmente mutato nulla. I protagonisti del Risorgimento italiano non sono diventati così mitologia cinematografica. Non abbiamo un film su cavour, o su Vittorio Emanuele e Garibaldi sembra più un eroe da cinema muto o da telenovela: non compare nel film di martone, ma nemmeno in 1860 di Blasetti, che è dedicato alla spedizione dei mille.  La sua presenza - assenza pesa e aleggia sulle vicende risorgimentali proprio perché ne rappresenta l’incompiutezza e l’ambiguità: in molti film rappresenta la speranza dei democratici, perché è l’uomo d’azione popolare. In martone e Blasetti si intravvede appena ed è quasi un mito, sia nella vittoria della spedizione dei mille, sia nella sconfitta di Aspromonte. Nel film di Luigi magni, In nome del popolo sovrano (1990) l’unico a mia memoria che tratti della Repubblica romana, non lo si vede mai, eppure è sempre presente.  La storia patria, trattata al cinema, risente dell’attitudine alla retorica con cui spesso la cultura italiana ha trattato la propria identità, ma le pellicole più recenti permettono di riflettere in modo efficace e anche spettacolare sui nostri problemi e anche sulle nostre poche virtù.

Note e discussioni

NOTE 1. Nel cinema di Ford, l’epopea western è vista come la diffusione della civiltà, e la vittoria della tecnica sulla natura. 2. L’altro film è Villafranca di Giovacchino Forzano (1933)

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Note e discussioni

La presa di Roma (1905) di Filoteo Alberini  Garibaldi (1907) di mario caserini  Amore e Patria (1909) di Arrigo Frusta  Anita Garibaldi (1910) di mario caserini , con maria caserini Garibaldi a Marsala (1912), autore sconosciuto. I Mille (1912) di mario caserini Garibaldi e i suoi tempi (1926) di Silvio Laurenti Rosa  Anita o il romanzo d’amore dell’eroe dei due mondi - Garibaldi o l’eroe dei due mondi (1927 )di Aldo De Benedetti  Garibaldi, l’eroe dei due mondi (1926), regista sconosciuto, con Rina De Liguoro Villafranca (1933) di Giovacchino Forzano 1860 - I Mille di Garibaldi (1934) di Alessandro Blasetti Piccolo Mondo Antico (1941) di mario Soldati  (da Fogazzaro, con Alida Valli) Un garibaldino al convento (1942) di Vittorio De Sica Donne e briganti (1950) di mario Soldati Il tenente Giorgio (1951) di Raffaello matarazzo Eran trecento…La spigolatrice di Sapri (1952) di Gian paolo callegari Il brigante di Tacca del Lupo (1952) di pietro Germi La pattuglia sperduta (1952) di piero Nelli Camicie Rosse - Anita Garibaldi (1952)  di Goffredo Alessandrini - Francesco Rosi  Senso (1954) di Luchino Visconti Casa Ricordi (1954) di carmine Gallone Cento anni d’amore (1954) di Lionello de Felice Viva l’Italia (1960) di Roberto Rossellini Vanina Vanini ( 1961) di Roberto Rossellini Briganti italiani (1961) di mario camerini Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti I figli del leopardo (1965) di Sergio corbucci Nell’anno del Signore (1970) di Luigi magni Correva l’anno di grazia 1871 (1971) di Alfredo Giannetti

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Antonella Ferraris, Dal Risorgimento alla Resistenza e ritorno

Filmografia minima: Garibaldi e il Risorgimento


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Quaderno di storia contemporanea/50

Note e discussioni

Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972) di Florestano Vancini. Le cinque giornate (1973) di Dario Argento (l’unico film non dell’orrore girato da Argento) Allonsanfan (1974) di paolo e Vittorio Taviani Quanto è bello lu murire accisu (1976) di Ennio Lorenzini In nome del papa re (1977) di Luigi magni Arrivano i Bersaglieri (1980) di Luigi magni Il Marchese del Grillo (1981) di mario monicelli Garibaldi (1986) di Josè Ambriz, cortometraggio (messico) con: Rubén Gondray, Baltazar Ramos. Garibaldi il Generale (1987), di Luigi magni, film TV a episodi, drammatico (Italia) con: Franco Nero, Flavio Bucci, Héctor Alterio. O’ Re (1989) di Luigi magni Cavalli si nasce (1989) di Sergio Staino In nome del popolo sovrano (1990) di Luigi magni L’ussaro sul tetto (1995) di Jean paul Rappeneau Ferdinando e Carolina (1999) di Lina Wertmuller La Carbonara (2000) di Luigi magni Noi credevamo (2010) di mario martone

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Note e discussioni

museo Nazionale del cinema,  mole Antonelliana, Torino 10 marzo - 15 maggio 2011

Roberto Lasagna Il Risorgimento visto da mario martone ha trovato una continuità grazie alla mostra fotografica allestita nei locali del museo del cinema di Torino, l’avvenente prospettiva di una estendibilità del cinema nei territori fisici e mentali del luogo che ne salvaguardia la memoria. Non foto di scena, ma fotogrammi “scaricati” dal film originale, girato in digitale con la telecamera RedOne, a conferma di come la luminosità di un periodo storico sia ormai kubrickianamente riproducibile anche e soprattutto grazie alla nuova flessibilità del mezzo. Sul film Noi credevamo, tre ore di immersione in un’Italia storico scenografica ricostruita con amore di verità, uscito in poche copie e poi divenuto in poco tempo l’evento più autorevole della riflessione intellettual-cinefila attorno al nostro periodo più oscuro e fondativo, si è detto e si continua a dire.  Della mostra fotografica sorprende la bellezza delle immagini, la forza del punto di vista che la fotografia di Renato Berta ridona allo sguardo sul tempo voluto da martone. Tra visioni d’insieme della natura, che popolano la prima parte di questo affresco storico, e ombre scure che si stagliano quale dimensione incandescente di un Ottocento tetro e da riconsiderare alla luce del presente, emergono i primi piani degli interpreti, i volti dei giovani che si uniranno alle forze mazziniane per dare il loro contributo a una “causa” che ha per noi ma non per loro

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Roberto Lasagna, Noi credevamo. Il Risorgimento secondo Martone

Noi credevamo.  Il Risorgimento secondo martone.


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Note e discussioni

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i toni scontornati della indefinitezza. martone nel film evita i fatti celebri e risaputi, ovverosia una visione scolastica dei fatti come siamo soliti ricordarli (nessun incontro a Teano, nessuna immagine di cavour e perfino Garibaldi si intravede soltanto in una sequenza corale dall’alto), e propende per una visione volutamente dialettica, tesa e immersa nelle ombre che accompagnano i comportamenti e i pensieri dei suoi ragazzi che faranno l’Italia. Il sacrificio, la disillusione, gli attentati mancati, i ritratti oscuri di crispi e viceversa il grado di rettitudine morale di alcuni valorosi dimenticati, il ritratto pressoché inedito di cristina di Belgiojoso, sono tutti elementi che nel film non divengono mai retorica o didascalia, e le immagini della mostra riproducono con limpida continuità la visione mai tronfia di martone, che sonda i meandri oscuri del nostro passato restituendocelo con la temperatura rovente di una sconcertante attualità. I primi piani dei volti principali, nella penombra luminosa da cui si stagliano, sembrano lì apposta per noi. ci riguardano senza guardarci. Sembrano portare impressa la richiesta di una partecipazione alla loro vicenda, sono immagini potenzialmente  in  vita  di  una  domanda  di  adesione  alla  causa  del  loro intrepido guardare oltre. Le immagini di Berta richiedono complicità. Hanno l’apertura spazio-temporale dell’affresco. Rallentano il tempo e soffermano l’attenzione su istanti in cui il passato ci rimanda la sua carica di complessa nebulosità. ma sono immagini frontali, nitide, che evitano la granulosità sopra o sotto-esposta a cui ci ha abituati il digitale, e ripropongono il bagliore del dettaglio minimo. La pelle chiara e cinerea dei risorgimentali ci sembra quasi la nostra, quella di cinerei abitanti del tempo in cui le contraddizioni sancite dalla tortuosa storia dell’unità di Italia sono ancora in essere, in attesa che un film o un racconto non banale ce ne riproponga la intelaiatura. Le immagini richiedono complicità di sguardo, partecipazione alla visione morale; come il film di martone, rappresentano al contempo un momento di riflessione e il passaggio di una riconsiderazione molto personale, intima ma non intimista, degli eventi. L’affresco storico non cede alle lusinghe dell’agiografia, della riproduzione prevedibile anche in chiave scenografica.

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ci sembra che uno degli aspetti principali di una mostra che inizia simbolicamente per le strade della città di Torino, ovverosia nella via che costeggia il palazzo della mole dove ha sede il museo Nazionale del cinema, sia la sua moderna efficacia antiretorica e invece caldamente umanistica. Berta, che con martone non dimentica i riferimenti rosselliniani e viscontiani, è anche dichiaratamente leoniano nella riproposta dei primi piani che “bucano” lo schermo e il quadro dell’immagine. ma, a conferma di un talento e di un’originalità di prim’ordine, le immagini hanno la qualità di non omaggiare direttamente, e di offrirsi come sprazzi di una realtà storica che prorompe nell’oggi con la grandiosa proposta della sua urgenza. Non una mostra d’accompagnamento, ma una sorta di altro film, oltre che un’estensione del medesimo Noi credevamo. Sono immagini che non immaginiamo ingiallite, invecchiate, abbandonate in un ipotetico cassettone dove rovistare fra altri centocinquant’anni quando occorreranno spunti per la rievocazione. Sono ipotesi di un passato che appare come in “presa diretta”, capace di far sì che anche i volti degli attori noti (Lo cascio, Zingaretti, Barbareschi) non divengano decalcomania di una visione risaputa e da fiction.  ciononostante il film è molto personale, nel senso di una visione elaborata e non edulcorata, che ha preso spunto ad esempio dai memoriali di mazzini e dei molti personaggi, per restituire un’ipotesi di lettura  urticante,  dolorosa,  dolente  e  antiretorica  dei  fatti,  resi umanamente percepibili con l’intensità di un affresco che pone in risalto la componente ideale oggi perduta nell’Italia oramai unita. Unità d’Italia come racconto di speranze disilluse, ritorsioni ingiustificate, informazione distorta o malcerta, cambiamenti di rotta o di tattica dei politici e dei politicanti. La storia di un popolo che credeva, ci riguarda e prorompe nei gesti impetuosi di Angelo, l’insorto che sbagliò ma pagò con la ghigliottina, e nel sacrificio dei giusti e dei non ortodossi è da rileggere la vicenda di un paese che non sembra più in grado di pensare. Gli attentati mancati, i coltelli che evocano una liberazione che deve passare dal sangue per diventare reale, ci parlano di una violenza vissuta come unica forma di ribellione a chi con la violenza tiene banco. L’immagine di un piemonte vissuto come freno anziché come impeto alla

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Roberto Lasagna, Noi credevamo. Il Risorgimento secondo Martone

Note e discussioni


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Quaderno di storia contemporanea/50

Note e discussioni

crescita socio-culturale del paese, è ciò che emerge nel quadro composito di una fisione fluidamente dialettica, dove il dato visivo è pienamente integrato con le voci, in un racconto di formazione che richiede, sapientemente, ripetute visioni. E la mostra appartiene opportunamente alle esperienze del pensiero, quel momento di intenso ripensamento e rielaborazione dialettica che può passare attraverso il linguaggio più moderno, del cinema o delle immagini riprodotte, ipotesi di lettura dell’Ottocento  quando  l’informazione  era  una  necessità  reale,  indispensabile affinché le idee potessero intrecciarsi con i fatti e diventare ipotesi di cambiamento.

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Risorgimento tra memoria e rito celebrativo

I 150 anni dell’Unità d’Italia sono anche l’occasione per riconsiderare gli elementi monumentali e i luoghi della memoria del Risorgimento nella nostra provincia. La maggior parte delle sculture  risalgono al periodo immediatamente successivo al compimento del processo unitario. Giulio monteverde realizza opere importanti, come nel caso di Rattazzi ad Alessandria o Saracco ad Acqui. Lavora nella nostra provincia anche Odoardo Tabacchi, a cui si devono i grandi monumenti di Lanza a casale e ai caduti per le battaglie del Risorgimento a Tortona.  Anche Leonardo Bistolfi si confronta più volte con il tema risorgimentale, come nel caso del monumento di Rattazzi a casale.  Il tributo all’epopea risorgimentale diventa celebrazione delle glorie locali, secondo un trend che caratterizza un po’ tutta la penisola e non riguarda solo i monumenti. Ricordiamo, per esempio, la grande esposizione di Torino che celebra il cammino verso l’Unità d’Italia con le testimonianze giunte dai municipi di tutta Italia che attestano il contributo dato  da  ciascuna  località  all’epopea  risorgimentale.  La  monumentalità provinciale non si discosta da questa impostazione, con le grandi sculture dedicate ai principali notabili espressi dalle vari centri del territorio: Rattazzi ad Alessandria, Lanza, mellana e ancora Rattazzi a casale,  Saracco ad Acqui.  Ai monumenti più imponenti si affiancano opere di carattere minore per caduti sul campo di battaglia come le statue del garibaldino Luigi Testore e di Emilio Faà di Bruno, eroe di Lissa, nei giardini pubblici di Alessandria. La celebrazione dei propri eroi può riguardare anche i paesi come nel caso del busto a masio di Giovanni poggio, il soldato senza  braccia esaltato anche da De Amicis. La monumentalità, però, è preceduta  dall’attenzione  ai  luoghi  della  memoria,  che  richiamano  ai  protagonisti

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Alberto Ballerino


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dell’epopea unitaria perché qui sono nati o ad essi hanno legato un particolare momento. È il caso, per esempio, della targa fatta porre dal comune di Alessandria sulla casa natale di Rattazzi alla notizia della sua morte.    La memoria però può anche essere difficile da condividere quando si deve confrontare con fratture difficili da ricomporre. È questo il caso di Andrea Vochieri: il girovagare del suo monumento per la città  è la dimostrazione di un imbarazzo per la classe dirigente locale. Il martire mazziniano  è  il  simbolo  stesso  del  Risorgimento  alessandrino  ma  la responsabilità della sua morte ricade sulla monarchia che ha guidato il processo unitario. La statua viene posta nel cimitero senza inaugurazione nel 1855, quando l‘Unità è ancora un sogno.  Le inaugurazioni si tengono  successivamente nel 1873 nei giardini e nel 1876 in piazzetta della Lega. Due anni dopo torna nei giardini, dove, nel secondo dopoguerra verrà ancora spostata.  Il nome del martire viene aggiunto a quelli dei caduti  nelle guerre per l’Unità iscritti nell’obelisco in piazzetta. Anche per la targa posta sulla sua abitazione non mancano problemi: il primo testo proposto viene bocciato dal ministero, il secondo anche. Va bene, infine, il terzo, che è molto generico, privo di riferimenti a tiranni,  fucilazioni e monarchi.   La statua di Vochieri pertanto non è post unitaria, fa parte essa stessa, con le sue contraddizioni, dell’epopea risorgimentale. Ancora precedente sul piano temporale è quella del suo nemico, carlo Alberto, a casale. Se Vochieri è il simbolo del Risorgimento alessandrino, il ‘re tentenna’ lo è di quello  monferrino.  Il  monumento  viene  inaugurato  nel  1843  in  riconoscenza per avere ripristinato l’antico senato di casale. Rappresentato come un antico romano, pare  l’omaggio a un despota illuminato del Settecento e sicuramente appare molto lontano dalla successiva celebrazione orgogliosamente borghese di protagonisti del Risorgimento come Rattazzi o Lanza. D’altra parte siamo nel 1843, carlo Alberto è ancora un monarca assoluto e lo Statuto non  è affatto nei suoi pensieri. Il suo monumento, però, è il segno della centralità che avrà casale in questi anni: basti ricordare il grande congresso dell’Agraria del 1847, il protagonismo di leader come Lanza o mellana, l’importanza di un giornale come ‘Il carroccio’. A carlo Alberto sarà dedicata anche la targa nella Sinagoga, omaggio alla fine delle discriminazioni contro gli ebrei.

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Le inaugurazioni dell’Ottocento sono in grado di coinvolgere fortemente la popolazione e provocano anche scontri politici. magari sono promosse da associazioni popolari come nel caso della targa sull’abitazione di Vochieri, voluta dal circolo operaio ‘Andrea Vochieri’.  A Tortona, è proprio la Soms a promuovere la costruzione per il monumento dei caduti del Risorgimento, affidato a un artista importante come Odoardo Tabacchi.   Nel corso del Novecento, invece, la riscoperta dei luoghi della memoria avviene per merito di studiosi e società di storia patria. Negli anni del Regime viene scoperta la cella di Andrea Vochieri  nella cittadella dal colonnello in pensione carmine Licomati. Nel 1959 la provincia e la Società di Storia celebrano i cento anni dell’arrivo di Napoleone III e Vittorio Emanuele II a palazzo Ghilini durante la II guerra d’indipendenza con l’inaugurazione di una targa. Il Novecento, però, si caratterizza anche per la perdita della memoria. Fossilizzato proprio nella retorica celebrativa e nei suoi monumenti, il Risorgimento e le sue idealità appaiono sempre più lontani mentre alcuni monumenti addirittura spariscono dal panorama locale senza grandi clamori. A Tortona la statua del generale passalacqua, prima medaglia d’oro alla memoria del Risorgimento, scompare dall’ingresso della caserma a lui dedicata. ma l’episodio più noto è la distruzione nel 1943 del  Rattazzi di monteverde ad Alessandria, fuso per fare bronzo per i cannoni. Solo alla fine del secolo viene finalmente inaugurato un secondo monumento,  ma decisamente più modesto, che con le sue ridotte dimensioni si perde nella vasta  piazza, sommerso delle auto del parcheggio.  Le condizioni delle statue di Faà di Bruno o della targa sulla casa di Rattazzi denotano una trascuratezza  che neppure l’occasione dei 150 anni ha fatto venire meno.

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La grande statua equestre in bronzo di carlo Alberto, realizzata da Abbondio  Sangiorgio e  inaugurata  a casale il 20 maggio 1843 (Archivio Il piccolo)

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Il monumento di Filippo mellana, opera di Giacomo Ginotti, fu inaugurato nel 1887 a casale. Nella foto, la copia che si trova nell’atrio dell’Istituto tecnico ‘Leardi’ (Archivio Vita casalese)

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L’obelisco di piazzetta della Lega, inaugurato  nel 1878 e dedicato agli alessandrini che hanno dato la vita per l’Unità d’Italia (Archivio Il piccolo)

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Il monumento in bronzo a Giovanni Lanza  di Odoardo Tabacchi, inaugurato nel 1887 nei giardini pubblici di casale (Archivio Il piccolo)

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Il monumento in bronzo inaugurato a masio nel 1925, realizzato dallo scultore Attilio Gartmann e dedicato a Giovanni poggio, l’eroe celebrato anche da De Amicis che perse entrambe le braccia combattendo contro l’esercito borbonico a capua (Archivio Il piccolo)

Il busto del  garibaldino Luigi Testore, caduto nel 1867 a monterotondo.  La statua fu  inaugurata nel 1893  nei giardini pubblici di Alessandria, opera dello scultore Bruscaglino (Archivio Il piccolo)

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Il monumento in bronzo di Urbano Rattazzi, opera di Leonardo Bistolfi, inaugurato a casale nel 1887 (Archivio Vita casalese)

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Il monumento in bronzo dedicato a Urbano Rattazzi di Giulio monteverde nell’attuale piazza della Libertà di Alessandria, inaugurato nel 1883 e  fatto fondere nel 1943, in una cartolina d’epoca (collezione Domenico picchio)

Il trasferimento della statua di Andrea Vochieri nel 1876 in piazzetta della Lega (collezione Domenico picchio)

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Busto di Giuseppe Saracco di autore anonimo (museo Ottolenghi - Società di Storia, Arte e Archeologia per le province di Alessandria e Asti)

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‘Tortona dolente che piange sui figli caduti nelle patrie battaglie per il Risorgimento’ di Odoardo Tabacchi.  Il monumento in marmo fu inaugurato il 1° giugno 1890  (cartolina d’epoca)

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Il monumento ad Acqui in bronzo di Giuseppe Saracco, realizzato da Giulio monteverde nel 1917 (Archivio Il piccolo)

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Il monumento al capitano di vascello Emilio Faà di Bruno, inaugurato nel 1893 nei giardini pubblici di Alessandria, opera dello scultore Bruscaglino   (Archivio Il piccolo)

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La lapide commemorativa a palazzo Sambuy di Alessandria in via Dante,  che ricorda il discorso tenuto da Giuseppe Garibaldi nel 1867 (Archivio Il piccolo)

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La cella di Andrea Vochieri nella cittadella di Alessandria (Archivio Il piccolo)


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La lapide dedicata alla sottoscrizione per i cento cannoni su palatium Vetus ad Alessandria. Fu inaugurata il 14 marzo 1886, giorno della festa dello Statuto. Asportata dai fascisti nel 1944,  venne ripristinata nel 1946 (Archivio Il piccolo)

La targa dedicata ad Andrea Vochieri  sulla sua abitazione, inaugurata nel 1885 (Archivio Il piccolo)

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La targa inaugurata a palazzo Ghilini il 14 maggio 1959 in occasione del centenario dell’arrivo di Napoleone III ad Alessandria (Archivio Il piccolo)

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Lapide commemorativa posta nel 1880 sul municipio di Occimiano per commemorare la presenza del re Vittorio Emanuele II dall’11 al 20 maggio 1859 e il suo incontro con Napoleone III del 17 maggio (Archivio Il piccolo)

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In memoria

In ricordo di Riccardo picchio

Riccardo  picchio,  il  maggiore  slavista  italiano  del  Novecento,  si  è spento dopo una lunga malattia a New Haven nel connecticut il 13 agosto 2011 (il 7 settembre avrebbe compiuto 88 anni). Era nato ad Alessandria in piemonte, dove crebbe in uno studioso ambiente familiare che certo dovette contribuire non poco a destare il suo precoce interesse per gli studi linguistici e letterari. Il padre carlo, avvocato, ma in realtà “letterato nel midollo”, un bel giorno del 1941 addirittura abbandonò la professione e, insieme, la città natale, per trasferirsi con la famiglia a Roma e dare finalmente libero sfogo alla sua inguaribile passione per la letteratura, soprattutto traducendo un gran numero di opere da molte lingue diverse, in primo luogo germaniche, e svolgendo un’intensa attività giornalistica1.  Se al momento di iscriversi nel 1941 alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza aveva pensato di studiare Filologia germanica, il giovane picchio ben presto si convertì tuttavia agli studi slavistici, da lui coltivati sotto la guida di maestri quali Giovanni maver, Ettore Lo Gatto ed Enrico Damiani; e con quest’ultimo si laureò nel 1946, discutendo una tesi sul poeta bulgaro pen o Slavejkov. prima di consacrarsi interamente alla slavistica, picchio avevo tuttavia fatto  in  tempo  a  intraprendere  una  promettente  carriera  giornalistica all’“Avanti” (fu tra l’altro fra i primi giornalisti a visitare il campo di sterminio di Auschwitz). Dopo essere stato lettore d’italiano a Varsavia fra il 1947 e il 1949, e aver compiuto nei due anni successivi un lungo soggiorno di studio a parigi che molto contò nella sua formazione, una volta rientrato in Italia picchio continuò ad approfondire la propria preparazione slavistica sotto la guida principalmente di Giovanni maver, al tempo stesso impegnandosi in una notevole attività pubblicistica e editoriale. conseguita la libera docenza, dal 1954 iniziò a insegnare Letteratura russa all’università di Firenze, cui si aggiunse nel 1959 l’insegnamento della Filologia slava a pisa; fu quindi chiamato, nel 1961, a succedere a Giovanni maver sulla cattedra di Filologia slava dell’Università di Roma, dove tenne anche l’insegnamento di Lingua e letteratura polacca. A partire dalla metà degli anni Sessanta picchio insegnò anche negli Stati Uniti, 279

Giorgio Ziffer, In ricordo di Riccardo Picchio

Giorgio Ziffer


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In memoria

Quaderno di storia contemporanea/50

dapprima come visiting professor alla columbia University di New York, e poi dal 1971 in qualità di professore di Letterature slave all’Università di Yale; qui egli rimase fino alla metà degli anni Ottanta, dando un forte impulso agli studi slavistici americani, per concludere infine la propria carriera accademica di nuovo in Italia, all’Orientale di Napoli.  Nella sua vita di studioso picchio ha così attraversato gran parte della slavistica del Novecento, partecipando da protagonista ai tanti cambiamenti che, anche dal rispetto culturale e politico, gli studi incentrati sul mondo slavo hanno conosciuto tra la fine del fascismo e la Seconda guerra mondiale, tra gli anni della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino e la riconquistata libertà dei paesi slavi. Dotato di una prodigiosa cultura generale che sembrava non conoscere confini, picchio dominava l’intero panorama delle lingue e letterature slave, con alcune predilezioni, come per es. la letteratura polacca e quella bulgara, oltre a quella russa, ma senza alcuna preclusione. Dalle fonti cirillometodiane del IX secolo a tutta la successiva produzione slava ecclesiastica, dallo Slovo di Igor’ a puškin, Gogol’, cechov e mandel’štam, da Kochanowski a mickiewicz, da Eutimio di Tarnovo a paisij chilendarski, per non dire dei tanti temi slavo-romanzi da lui approfonditi nel corso degli anni, sono innumerevoli gli autori e i testi sui quali picchio ha fermato la sua attenzione, sempre indicando originali prospettive di ricerca, sempre superando idee ricevute e steccati ideologici con uno slancio e un vigore intellettuale che lo ha contraddistinto fino a quando la malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni gli ha permesso di lavorare.  Non meno importanti anche i suoi lavori di sintesi, esemplari per nitidezza di disegno e profondità storica, sulla ‘Slavia ortodossa’ e la ‘Slavia romana’, sull’insieme della tradizione linguistica e letteraria slava ecclesiastica o sulla questione della lingua nel mondo slavo. per dare un’idea dell’irradiazione dei suoi lavori, ricorderemo che nel corso degli ultimi vent’anni sono uscite in vari paesi – Italia, Bulgaria, polonia, Russia – corpose raccolte di suoi studi (e un’analoga silloge è in preparazione in America, mentre una prima raccolta in francese, Ètudes littéraires slavo-romanes, era stata pubblicata a Firenze già nel 1978); e ricorderemo che la sua Storia della letteratura russa antica, uscita per la prima volta nel 1959 e sulla quale si sono formate intere generazioni di studenti italiani, dopo essere stata tradotta in spagnolo già nel 1972, qualche anno fa è stata tra-

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dotta anche in Russia, ma – per un destino imprevedibile che molto lo aveva divertito – non una, bensì due volte, da due diversi traduttori. picchio era inoltre membro di varie accademie, delle Accademie delle Scienze di Russia, polonia e Bulgaria così come della medieval Academy of America; e in suo onore sono state pubblicate nel corso degli anni ben tre miscellanee di studi, uscite rispettivamente a Roma nel 1986, a Napoli nel 2003, e a New Haven nel 2008. Grazie a una produzione scientifica tanto vasta quanto varia, Riccardo picchio ha dato un apporto enorme e multiforme al progresso delle conoscenze in ambito slavistico. Anzitutto, come e più di altri slavisti italiani della sua generazione, egli ha infatti contribuito in maniera determinante a diffondere in Italia una più approfondita conoscenza della civiltà slava, in questo continuando l’opera dei suoi maestri, maver primo fra tutti (e anzi, accertare quanto vi sia di maveriano nell’opera di picchio costituisce, se non erro, uno studio tutto ancora da impostare). Uno dei tratti salienti della sua figura di studioso va senza dubbio individuato nella sua capacità di abbracciare il mondo slavo nella sua totalità, una capacità che è già evidente fin dagli incunaboli della sua bibliografia: chiunque rilegga oggi per es. il suo La crisi di sviluppo dell’intellighenzia slava, pubblicato quando l’autore non aveva ancora compiuto trent’anni, non può che restare ammirato dalla chiarezza e dalla sicurezza con le quali l’autore vi delinea la storia dell’intellighenzia in polonia e in Russia, e poi nel resto del mondo slavo, avendo al tempo stesso sempre ben presente lo sfondo storico europeo. con che tocchiamo con mano un altro elemento caratteristico del suo essere slavista, vale a dire la capacità di inserire le proprie ricerche slavistiche, tanto quelle puntuali quanto quelle di maggior respiro, nel più ampio contesto della storia linguistica e letteraria, e in genere culturale, europea, dalle sue radici classiche e cristiane fino alla epoca contemporanea. Questi due tratti, del tutto naturalmente e si vorrebbe dire spontaneamente, conferiscono a molti dei suoi lavori, in modo ora più scoperto (si pensi per es. alle sue Guidelines for a Comparative Study of the Language Question among the Slavs), ora più nascosto, un’impronta  comparatistica  che  ne  accresce  l’interesse  e  il  valore  scientifico;  e consentono a picchio, questi due tratti, di adottare ben spesso una prospettiva dichiaratamente sovranazionale, tanto più utile e necessaria in un campo di studi che non sembra aver del tutto superato ottiche nazionali, ove non nazionalistiche, in ultima analisi di ascendenza romantica che, soprattutto per l’età

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Giorgio Ziffer, In ricordo di Riccardo Picchio

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medievale e premoderna, non hanno giovato (e non giovano) a una corretta soluzione di molti dei problemi affrontati. Di una tale prospettiva sovranazionale hanno beneficiato in particolar modo la sua citata Storia della letteratura russa antica, e a maggior ragione, essendo lo slavo ecclesiastico in fin dei conti una lingua ‘senza popolo’, i suoi studi sulla tradizione linguistica e letteraria slava ecclesiastica. picchio ha infatti cercato di comprendere la civiltà letteraria slava ecclesiastica sì nella cornice della storia letteraria europea, ma iuxta propria principia, indagandone per es. le opere più significative alla ricerca dei procedimenti formali caratteristici di quella tradizione e puntando la propria attenzione in particolare sulle strutture isocoliche, sulle chiavi tematiche bibliche, e in generale sul significato spirituale di quelle opere.  Soprattutto le sue ricerche sulle strutture isocoliche – che hanno lasciato una traccia anche in una sua raccolta di poesie, I segni di Dedalo, risalente al 2007 – hanno dato vita a un intenso dibattito critico, non privo in alcuni casi di aspre punte polemiche; non può tuttavia esservi alcun dubbio che le proposte interpretative di picchio hanno contribuito a (ri)dare dignità letteraria a una tradizione che era stata spesso in passato analizzata piuttosto da un punto di vista eminentemente linguistico oppure contenutistico. Il nome di picchio resta poi indissolubilmente legato a nozioni come quelle di ‘Slavia ortodossa’ e di ‘Slavia romana’, nozioni sulle quali egli aveva iniziato a ragionare fin dai tardi anni cinquanta e sulle quali è tornato spesso e volentieri nei decenni successivi, dialogando con i vari studiosi, italiani e non, che a mano a mano erano intervenuti nel dibattito da lui stesso innescato, e cercando di mettere sempre meglio a fuoco la propria visione della storia culturale degli Slavi, in particolare durante il loro lungo medioevo (e noterò qui fra parentesi che dovrebbe risultare non privo di interesse uno studio in diacronia delle varie e successive considerazioni svolte in merito dallo studioso). E se è vero, com’è vero, che Riccardo picchio è stato un filologo slavo nell’accezione più ampia e profonda del termine, è altrettanto indubitabile che in lui abitava anche uno storico, e direi uno storico di prim’ordine: lo dimostrano anzitutto le imprese di storiografia letteraria, individuali, come la menzionata Storia della letteratura russa antica, o collettive, quali la Storia della civiltà letteraria russa, curata insieme a michele colucci, e poi una fatica storica tout court quale L’Europa orientale dal Rinascimento all’età illuministica, uscita nel 1970, ma anche altri suoi studi piuttosto di storia delle

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idee, come per es. la sua Genesi ed evoluzione del pensiero di A. Mickiewicz, pubblicato nel 1956 e che ha le dimensioni di una piccola monografia, o le sue riflessioni sulla storia della slavistica italiana (si vedano per es. i suoi Quaranta anni di slavistica italiana nell’opera di E. Lo Gatto e G. Maver, che è del 1962, e La slavistica italiana negli anni dell’Europa bipartita, del 1994), e, last not least, le salde coordinate storiche che sottendono tutti i suoi lavori. Al di là della sua ricchissima bibliografia, comprendente anche un numero assai elevato di recensioni su argomenti quanto mai eterogenei e che testimoniano anch’esse della concezione dialettica e dialogica della filologia slava come da lui intesa e praticata, Riccardo picchio ha influito sugli studi slavistici anche per mezzo della sua intensa e fruttuosa collaborazione con altri studiosi; una collaborazione che si è riflessa tra l’altro in ambiziosi progetti editioriali come per es. la creazione di collane quali gli “Studia Historica et philologica” o “Renovatio”, una collana nata grazie a un accordo fra l’Orientale di Napoli e lo Harvard Ukrainian Institute, e nella sua partecipazione all’attività redazionale di varie riviste, da “Ricerche slavistiche” agli “Annali dell’Istituto Orientale di Napoli. Slavistica”, questi ultimi da lui fondati al suo ritorno in Italia, e a “Russica Romana”. Non meno importante è stata la sua presenza a molti dei principali congressi slavistici internazionali che ai tempi della “cortina di ferro” sono stati spesso un’occasione di incontro pressoché unica fra studiosi slavi e non, così come anche la sua attività di organizzatore di convegni: ricorderò qui, anche perché caddero in una fase storica particolarmente delicata, e decisiva per i nostri studi, il primo congresso internazionale di studi ucraini, che si svolse a Ercolano nel 1989, e il primo congresso degli slavisti italiani, tenutosi fra Napoli e Seiano di Vico Equense due anni dopo. Lo studio sistematico dell’insieme della sua poderosa opera permetterà in futuro di comprendere meglio il debito da lui contratto con altri studiosi, a cominciare dai suoi maestri, e soprattutto quanto gli dobbiamo noi oggi – si ricordi che nel suo mirabile profilo bio-bibliografico di venticinque anni fa Harvey Goldblatt aveva suddiviso la sua produzione scientifica in ben quattordici sezioni –, ma non è certo un’esagerazione affermare fin d’ora che Riccardo picchio ha segnato in profondità gli studi slavistici a livello anche europeo e mondiale, e che egli va dunque annoverato in assoluto fra i maggiori studiosi di cose slave del secondo Novecento. colpiva certo in lui la sua eccellenza e politropia di studioso e intellettuale,

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Giorgio Ziffer, In ricordo di Riccardo Picchio

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ma non meno spiccata è stata la sua unicità di maestro. La sua passione genuina per il mondo slavo, se da un lato gli ha permesso di comprendere più a fondo molti suoi aspetti fondamentali, dall’altro ha animato il suo mestiere di insegnante, contribuendo a farne un maestro, anzi, il maestro ideale, capace di trasmettere non solo il suo sapere, ma anche e soprattutto la sua curiosità e il suo entusiasmo, con una generosità senza pari: com’è dimostrato dalla circostanza che in tutte le sedi universitarie in cui ha lavorato picchio ha attratto a sé folte schiere di studenti, e in ciascuna di esse ha saputo formare dei giovani che in seguito dovevano dedicarsi anche loro agli studi slavistici, e diventare in non pochi casi suoi colleghi. Nella moderna “repubblica delle lettere” di cui l’umanista picchio sentiva di far parte c’era del resto spazio tanto per gli studiosi più illustri quanto per gli studenti, anche quelli alle prime armi, i dottorandi e i giovani studiosi, anche di altre scuole: con gli uni e gli altri picchio era capace allo stesso modo di dialogare, di studiare, e di divertirsi, sempre facendo leva sulla sua innata ironia e spesso raccontando qualcuno dei mille aneddoti slavistici che si erano depositati nella sua memoria e che egli sapeva raccontare con un calore e un brio del tutto particolari: aneddoti che riguardavano di volta in volta uno dei tanti studiosi da lui conosciuti da vicino come, per fare solo qualche nome, Jakobson o Vaillant, Unbegaun o Lotman, Damiani o maver; aneddoti che vuoi per le sue capacità affabulatorie, vuoi per il suo acuto senso storico svolgevano anche una preziosa funzione pedagogica ed erano parte di una vera e propria storia della slavistica di tradizione orale.  Si può ben dire in conclusione che la filologia slava è stata per Riccardo picchio una forma di conoscenza privilegiata; e che attraverso i suoi lavori scritti e il suo magistero di stampo davvero socratico egli ha enormemente arricchito anzitutto allievi e colleghi che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo, e poi gli studi slavistici in tutta la loro ampiezza, anche ben oltre i confini italiani.

NOTE 1. Un suo vivido ritratto, delineato da Luciana Stegagno picchio, sorella maggiore di Riccardo ed eminente filologa nell’ambito della letteratura portoghese e brasiliana, scomparsa qualche anno fa,  si legge in appendice a c. picchio, Il pretore, Roma, Biblioteca del Vascello, 1994.

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Il convegno, organizzato dal Laboratorio di storia, politica, istituzioni (La.SpI) dell’Università del piemonte Orientale, sotto la direzione scientifica di corrado malandrino, si è articolato in tre giornate ricche di interventi e dibattiti. I lavori si sono aperti con una discussione su alcune fra le più recenti tesi critico-storiografiche sul Risorgimento, la cui diffusione presso l’opinione pubblica è stata agevolata dalla coincidenza con i festeggiamenti del centocinaquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Traendo spunto dall’introduzione di malandrino al volume Garibaldi, Rattazzi e l’Unità dell’Italia (Torino, claudiana, 2011), presentato in occasione del convegno, Giuseppe monsagrati si è soffermato sui principali nodi problematici del dibattito, rilevando il rifiorire di studi e volumi volti a recuperare tradizionali accuse alle modalità di svolgimento dell’unificazione italiana. Si tratta di pubblicazioni situate talvolta a cavallo fra storiografia e divulgazione, e forse proprio per questa ragione in grado di orientare con più incisività il dibattito pubblico. La polemica meridionalista contro la “piemontesizzazione” della penisola, che sfocia in una lettura “imperialistica” del Risorgimento, è ciclicamente rinfocolata da contributi che – pur muovendo da rilevazioni puntuali, frutto di ricerche metodologicamente apprezzabili – finiscono spesso per distorcere la realtà storica, idealizzando strumentalmente l’immagine di un Regno delle Due Sicilie ricco, moderno, efficiente e perfino liberale, ma affamato e depredato dai piemontesi dopo l’Unità. monsagrati ha evidenziato come il convergente consenso storiografico sull’ipotesi che nei primi governi unitari si siano avvertite in modo differente le istanze provenienti dalle varie regioni del paese, e sulla consapevolezza che il fenomeno del brigantaggio non possa essere ridotto a mera espressione di criminalità e delinquenza, non implichi una rivalutazione retrospettiva e assolutoria nei confronti dell’autoritarismo borbonico, fonte di vessazioni per la popolazione. Una battaglia di retroguardia è combattuta inoltre dalla

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convegno internazionale “Statisti e politici alessandrini nel ‘lungo Risorgimento’. Rattazzi, Lanza, Ferraris (e altri)” Alessandria, Facoltà di Scienze politiche, 6-8 ottobre 2011


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storiografia che si riconosce negli argomenti del cattolicesimo tradizionalista e prende ideologicamente di mira il laicismo risorgimentale con una vis polemica che sembra ormai essere stata superata anche da buona parte della gerarchia ecclesiastica. Su un piano diverso, e scientificamente più stimolante, si pongono le questioni sollevate dal filone degli studi culturali sul Risorgimento, che hanno trovato in Italia massima espressione nell’opera di Alberto mario Banti. Al centro della discussione è stato il notevole spazio che, nel recentissimo volume Sublime madre nostra (Roma-Bari, Laterza, 2011), lo studioso toscano dedica alle “figure profonde” della cultura italiana fra XIX e XX secolo – tra cui l’immagine del maschio guerriero e della donna immolata alla famiglia e alla patria, alla luce di un’etica del sacrificio individuale in termini materiali e simbolici – che emergerebbero dall’analisi di un’imponente mole di fonti, non solo politiche, ma anche letterarie e artistiche, confluendo in una visione (“canone”) della nazione definita su basi biologiche, ereditarie e ancestrali. È stato lo stesso monsagrati ad annotare come non sia possibile inquadrare in questo contesto la componente democratica, cosmopolitica, internazionalistica del Risorgimento, che ebbe un punto di riferimento indiscusso in mazzini e a cui possono essere accostati, per certi versi e con opportune distinzioni, personaggi come Rattazzi, prescindendo dai quali non sarebbe possibile cogliere il significato autentico del processo storico che condusse all’unificazione. Su questo punto concordano  nella  sostanza  anche  gli  altri  partecipanti  alla  tavola  rotonda. Eugenio F. Biagini, portatore di un punto di vista non rituale perché profondamente influenzato dai decenni trascorsi presso l’Università di cambridge,  ha  attirato  l’attenzione  sul  rischio  di  ignorare  la  propensione “europeista” mostrata da numerosi protagonisti del Risorgimento, che viceversa la lettura bantiana ridimensiona eccessivamente: ciò vale tanto per la versione radicale incarnata dal garibaldinismo – cui proprio malandrino ha dedicato studi significativi negli ultimi anni – quanto per quella moderata che assunse la prospettiva europea come progetto fondato sulla condivisione  di  interessi  economici.  Dal  canto  suo,  Fulvio  conti,  nel sottolineare il carattere innovativo del contributo di Banti (che per esempio ha favorito la diffusione dell’analisi di genere nella storiografia risorgi-

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mentalista), ha posto l’accento sulla contraddizione fra il carattere conservatore proprio della cultura politica dipinta da Banti e il genuino impegno profuso da molti padri della patria affinché quest’ultima assumesse i tratti tipici di uno Stato liberale, costituzionale e, per taluni, democratico, se non addirittura socialmente avanzato. Lo slittamento concettuale dalla concezione della nazione in termini biopolitici, che Banti giudica dominante nell’Italia ottocentesca, all’ideologia nazionalista e poi fascista del Novecento è presentato impropriamente come elemento di continuità in una ricostruzione  che  sorvola  con  eccessiva  disinvoltura  sulle  concezioni politico-ideali che a quel filone non sono riconducibili. Un’ampia sessione del convegno è stata dedicata alla figura di Urbano Rattazzi, favorendo il confronto fra diversi interessi di ricerca e prospettive disciplinari. corrado malandrino ha riferito sullo stato di avanzamento di un percorso di ricerca in corso da qualche anno, con l’obiettivo di produrre una biografia politica e intellettuale che renda merito all’effettivo ruolo svolto dallo statista alessandrino nell’opera di costruzione dello Stato unitario. Oltre che con l’assenza di carte personali, cui malandrino medita di ovviare esplorando gli archivi di alcuni fra i più noti interlocutori rattazziani, a partire da quello londinese di Sir James Hudson, lo studioso che intenda tracciare il profilo di Rattazzi deve scontrarsi con gli effetti prodotti da una tendenziale sottovalutazione del suo apporto in una fase cruciale per la storia piemontese e italiana. più circoscritte ma ugualmente significative sono state le relazioni di Roberto Livraghi e Roberto martucci, che hanno focalizzato rispettivamente l’attenzione sul Rattazzi amministratore locale (fu presidente del consiglio provinciale di Alessandria negli ultimi anni di vita) e sul Rattazzi presidente del consiglio dei ministri nel decennio postunitario, con rilevanti riferimenti all’esperienza vissuta come ministro di rilievo nei governi subalpini degli anni cinquanta. I rapporti tra lo statista alessandrino e la classe politica della sua epoca sono stati esaminati su più versanti politico-culturali. Leonardo La puma ha preso in considerazione le relazioni di Rattazzi con gli ambienti mazziniani genovesi; sempre sul fronte “democratico”, Laurana Lajolo si è soffermata sul controverso rapporto con Angelo Brofferio, del quale la studiosa ha da poco pubblicato la biografia, mentre Giuseppe Astuto – già autore di preziosi studi su crispi

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– ha ragionato sui contatti tra Rattazzi e l’uomo politico siciliano, destinato ad abbandonare le velleità garibaldine e radicali per divenire figura di spicco del ceto dirigente dell’Italia liberale. L’interazione fra l’alessandrino e altri personaggi di origine siciliana è stata esplorata dal contributo di Franca Biondi, dedicato a pasquale calvi, e da quello di Anna maria Lazzarino Del Grosso, che ha invece posto l’accento sui rapporti con Francesco Ferrara, palermitano di nascita ma attivo nella Torino preunitaria e protagonista di rilievo del dibattito intellettuale nel secondo Ottocento. Un profilo più privato di Rattazzi è stato tracciato dagli interventi di Francesco cacciabue e mauro povero: l’uno ha raccolto alcune notizie sulla famiglia dell’alessandrino, scontando i problemi legati al difficile reperimento delle fonti documentarie; l’altro si è cimentato nella ricostruzione dell’attività svolta da Rattazzi come avvocato a casale monferrato e a Torino. La presentazione del numero monografico della “Rivista di Storia Arte Archeologia per le province di Alessandria e Asti””, curato da Elisa mongiano e incentrato su politica, istituzioni, cultura nel Risorgimento alessandrino, i cui saggi sono stati illustrati dagli interventi di Gian mario Bravo e Lorenzo Sinisi, ha rappresentato l’occasione per coniugare diversi filoni di ricerca, in un’ottica di più generale analisi della cultura giuridica e istituzionale nell’Ottocento alessandrino. Se Francesco Aimerito ha svolto alcune considerazioni in merito allo studio delle professioni forensi, Elisa mongiano ha esaminato le modalità con cui gli statisti alessandrini dell’epoca si posero nei confronti del tema dei rapporti fra Stato e chiesa, rilevando una tendenziale prevalenza dell’opzione conciliatoria ispirata al giurisdizionalismo liberale rispetto agli sporadici tentativi di separazione fra i due ambiti. ciò non di meno, la questione romana fu uno degli argomenti decisivi dei primi decenni unitari, come ha dimostrato in modo evidente la sessione del convegno dedicata a Giovanni Lanza: a partire dal rapporto di ricerca di Alberto Ballerino, teso a fare luce sulle dinamiche politiche che portarono il ministero presieduto dal casalese a occupare Roma nel 1870, si è infatti sviluppato un fecondo dibattito sull’attribuzione della responsabilità di tale decisione al presidente del consiglio Lanza o all’influente ministro Quintino Sella, sul cui ruolo ha particolarmente insistito Giuseppe monsagrati. per una lettura “lanziana” della vicenda ha invece

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dimostrato di propendere carlo Ghisalberti, che alla figura dello statista casalese ha dedicato un profilo biografico all’interno della raccolta Il Parlamento italiano a fine anni Ottanta, il quale rappresenta a tutt’oggi uno dei pochi studi specifici sul personaggio. Sull’apporto politico e giornalistico di Lanza tra il 1847 e 1849, nella fase politica conclusa dalla disfatta di Novara, ha svolto alcune considerazioni Tiziana c. carena, soffermandosi anche sui rapporti con Vincenzo Gioberti. Un punto di vista più generale è stato invece adottato dalla relazione di cristina Accornero, incentrata sulla presentazione degli inediti appunti di Domenico Berti sulla biografia di Giovanni Lanza, conservati presso il museo del Risorgimento di Torino. I lavori del convegno sono giunti quindi a occuparsi della figura e dell’opera di carlo Francesco Ferraris, accademico, parlamentare e ministro tra fine XIX e inizio XX secolo. Riccardo Faucci si è concentrato sull’elaborazione ideale del moncalvese, evidenziandone il profilo di intellettuale “funzionario” e “operativo”, che – diversamente dalla generazione precedente – ebbe gli strumenti per realizzare una commistione fra discipline e saperi come la scienza dell’amministrazione, la finanza, l’economia e la statistica, oltre che per perfezionare all’estero la propria formazione, con particolare attenzione per la Germania, meta di numerosi giovani studiosi della sua epoca. Francesco Ingravalle, già curatore di un’antologia di scritti ferrarisiani, ha approfondito il ruolo di Ferraris come ministro dei Lavori pubblici durante il governo Fortis del 1905, in pieno dibattito sulla questione ferroviaria, risolta con la nazionalizzazione delle reti. La relazione, ricca di dettagli tecnici, ha messo in luce i tormenti dell’uomo politico piemontese nella gestione della situazione, resa particolarmente delicata dalle pressioni ricevute da più parti. L’ultima sessione ha avuto carattere miscellaneo, prendendo in considerazione temi e personalità rilevanti nell’ottica della riscoperta storiografica della cultura e della società dell’“altro piemonte” in età risorgimentale. Nella chiave analitica rappresentata dal rapporto centro-periferia, Adriano Viarengo ha ricostruito i termini del rapporto fra cavour – emblema della classe politica torino-centrica – e alcune figure dell’Alessandrino, tra cui Rattazzi, Lanza e mellana. pierangelo Gentile ha invece dirottato l’interesse sulla discendenza della famiglia Rattazzi, illuminando il profilo di

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Incontri e convegni

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Urbano junior (o Urbanino), figlio di Giacomo e nipote dell’Urbano Rattazzi presidente del consiglio, che ebbe il momento di maggior fulgore rivestendo la carica di segretario della Real casa fino allo scandalo della Banca Romana degli anni Novanta, che lo travolse insieme al suo protetto Giovanni Giolitti. La parabola della famiglia Leardi di Tortona, e in particolare di carlo Leardi – intellettuale poliedrico, di formazione giuridico-umanistica e progressivamente avvicinatosi alle scienze economiche e sociali, nonché  deputato  della  Sinistra  negli  anni  Settanta  –  è  stata  al  centro dell’intervento di Stefano Quirico. Se la comunicazione di cesare manganelli ha riferito quanto emerso dalla consultazione del carteggio Dossena depositato  presso  la  Biblioteca  civica  di  Alessandria,  l’intervento  di Gianfranco Ragona ha coniugato la ricerca archivistica e l’applicazione delle categorie analitiche della storia del pensiero politico alla figura di Enrico Gentilini, mazziniano alessandrino autore di scritti di un certo interesse a proposito del rapporto fra le diverse declinazioni della violenza politica, dalla guerriglia alla guerra rivoluzionaria. Il convegno si è chiuso con il contributo di Franco castelli, specialista di storia della cultura popolare, che ha illustrato i principali temi e soggetti delle canzoni del Risorgimento.

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Stefano Quirico

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Siamo nell’Italia di fine Ottocento: Amalia Bagnacavalli, una giovane contadina nata e cresciuta in un paesino dell’Appennino emiliano, per far fronte alle ristrettezze economiche della famiglia decide – come quasi tutte le donne povere del suo tempo – di allattare al suo seno un orfanello dell’Ospedale degli Esposti. Le viene affidata una bambina, paola Olivelli, gracile, smunta e deforme; la donna – notato che nella piccola  c’era qualcosa che “non andava” – vorrebbe restituirla all’istituzione, ma i medici  preposti  rifiutano  qualunque  scambio,  rassicurandola  sullo  stato  di  salute dell’esposta e convincendola a portarsela a casa. Ben presto però sarà chiaro che la piccola è affetta da sifilide congenita, trasmessale dalla madre naturale alla nascita, con la quale contagerà Amalia, suo marito Luigi e la loro bambina Adele. Invece di rassegnarsi all’ingiustizia, armata di un coraggio fuori dal comune, Amalia decide di reagire e di intentare una causa sia per riscattare se stessa dalla sofferenza subita sia per aprire la strada affinché altre nutrici, colpite come lei dallo stesso male, trovino il coraggio di fare altrettanto. Si rivolge perciò a un giovane e ambizioso avvocato, Augusto Barbieri, che intravede in questo caso l’opportunità di farsi strada nel mondo giurisprudenziale bolognese e accetta di rappresentare la donna contro il potentissimo corpo amministrativo centrale degli ospedali di Bologna e il suo presidente, il conte Isolani. Ne nasce una vicenda giudiziaria – accuratamente ricostruita dall’autore, con l’utilizzo dei documenti d’archivio – durata  più di dieci anni e che suscitò non poco clamore negli ambienti giudiziari di tutta Italia. Essa ebbe una conclusione assai amara per la protagonista e suo  marito Luigi (senza il consenso del quale la donna non avrebbe potuto, per le leggi del tempo,  adire le vie legali)  che non solo nel corso del processo vedranno  morire a causa del contagio subito, l’amata primogenita, la piccola Adele, seguita a breve distanza da due fratellini, Domenico e Giuseppe, venuti alla luce nel frattempo, ma si troveranno  anche a fare i conti con un mondo più grande di loro e con la disonestà degli uomini:  infatti, nonostante la donna avesse ottenuto dai giudici un notevole risarcimento e un significativo vitalizio, l’ingente somma che gli Ospedali Riuniti di Bologna dovettero pagare come risarcimento andò a coprire la parcella dell’avvocato Barbieri e le spese che questi aveva dovuto sostenere per la causa. A ricostruire le vicende dei protagonisti e il lungo iter processuale – grazie a un  paziente lavoro di scavo effettuato con grande rigore storico negli archivi – e a restituircele con sensibilità letteraria e felice vena narrativa, è stato David I. Kertzer, professore  titolare  della  cattedra  di  Scienze  Sociali  presso  la  Brown  University  di providence (Rhode Island, USA) dove insegna anche Antropologia e Studi Italiani e tra

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David Kertzer,  La sfida di Amalia. La lotta per la giustizia di una donna nella Bologna dell’Ottocento, milano, Rizzoli, 2010; pagg. 285, € 16,15.


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i più illustri studiosi statunitensi della storia del nostro paese. Egli in questa opera non solo ci dà conto di questa vicenda interessante e emblematica che ha sottratto all’oblio, ma apre anche una finestra quasi inedita sulle condizioni sanitarie di quel tempo, sulla superficialità nell’affrontare una malattia mortale e così diffusa che i popolani la chiamavano “peste”, sulla leggerezza con cui si affidavano alle balie orfanelli a rischio di gravi malattie infettive e sui brefotrofi, tipica espressione di un contesto nel quale tutta la colpa della nascita illegittima era scaricata sulle donne, le quali non potevano tenere con sé i figli poiché questo era ritenuto un oltraggio alla moralità pubblica. Il compito di prendersi cura e di nutrire le centinaia di bambini sottratti alle madri che affluivano all’Ospizio era  affidato quindi a donne disposte a far loro da nutrici e spesso anche a tenerli nella propria famiglia, insegnando loro a lavorare, in cambio di una retribuzione mensile. ma in seguito della vicenda Bagnacavalli, la politica dell’ospizio in merito all’allattamento cambiò: si cominciò a preferire le madri naturali alle balie esterne, superando la mentalità assurda di allontanare i bambini dalle prime; nel corso degli anni in cui si svolse il processo e in quelli successivi, “dozzine di giovani contadine dovettero la propria salute e la vita dei figli non ancora nati alla donna di Vergato”. Graziella Gaballo

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Emma Scaramuzza (a cura di), Politica e amicizia. Relazioni, conflitti e differenze di genere (1860-1915), milano, Franco Angeli, 2010; pagg.278, € 25,00. Dopo il suo bel La santa e la spudorata. Alessandrina Ravizza e Sibilla Aleramo. Amicizia, politica e scrittura, Emma Scaramuzza torna a riproporre, in questo lavoro collettaneo da lei curato (e che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno di studi svoltosi a milano nel 2006), il tema del rapporto tra politica e amicizia, che viene qui trattato  – relativamente al periodo compreso tra l’Unità d’Italia e il primo conflitto mondiale – con differenti approcci metodologici da vari studiosi e studiose. La lettura di biografie personali e storie di gruppi, associazioni, movimenti e partiti  attraverso la nuova e interessante categoria delle relazioni amicali – considerate  nella complessità delle loro configurazioni – si rivela molto feconda, in quanto permette di portare alla luce solidarietà, alleanze, dissensi e competizioni  e di evidenziare anche significative differenze di genere. molti dei saggi presenti, infatti, indagano il mondo femminile, mettendo in evidenza l’importanza che hanno avuto, in particolare nel periodo storico considerato, le relazioni fra donne, vere e intense amicizie politiche fondate su ideali e progetti comuni e intessute di solidarietà, intimità e libertà (pag.87): basti ricordare la “famigliola emancipazionista” di cui ci parla Laura ma-

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riani, che ruota attorno alla figura dell’attrice Giacinta pezzana e di cui fanno parte le mazziniane Gualberta Alaide Beccari e Giorgina Saffi, la filantropa politica Alessandrina Ravizza e la più giovane scrittrice Sibilla Aleramo e in cui fa da connettivo proprio la passione per la  politica, intesa però non come una sfera separata, ma come qualcosa di profondamente irrelato al loro vissuto. E spesso è proprio questo fitto intreccio di relazioni, luoghi informali della politica femminile, a dare vita a iniziative e opere che anticipano il futuro associazionismo, sottolineando una volta di più  l’importanza che in una storia collettiva, di associazioni e di movimenti politici, hanno le relazioni tra le persone, che sono in grado di illuminarci anche  sull’evolversi degli stessi  gruppi e associazioni.  E talvolta lo stesso legame madre-figlia si trasforma, acquistando – così come quello tra maestra e allieva – questa nuova connotazione, quella appunto dell’amicizia e della solidarietà materna in vista dell’emancipazione: è il caso, tra i tanti, di  Barbara Brembati, donna risorgimentale nata agli inizi dell’Ottocento, che dà vita nel senso prima indicato a una catena genealogica che, passando attraverso la figlia claudia Grismondi Suardo arriva fino alle nipoti Teresita Giampietro e Bice Tittoni (di cui parla nel suo ricco e bel  saggio Di madri, di figlie e di sorelle: amicizia e impegno politico in Lombardia nel “lungo Ottocento”, Emma Scaramuzza). ma anche nel mondo maschile, ad esempio se si ripercorrono le vicende degli esponenti dei vari schieramenti politici dell’Ottocento risorgimentale (come fa nel suo interessante contributo  Daniela maldini chiarito) ci si imbatte facilmente nel tema delle “grandi amicizie” e delle forti implicazioni e conseguenze culturali e politiche che ne derivarono. In molti casi, si tratta di amicizie che nascono da contiguità familiari o di ceto, ma spesso l’ambiente che favorisce il sorgere di questi legami è la scuola, il collegio, l’università; e talvolta a favorire la nascita di rapporti amicali può essere anche uno scambio epistolare (cfr. Angela Russo, “Vostra obbligata amica”: Giuseppe Ricciardi e le amiche emancipazioniste. 1860-1880). E non sempre l’amicizia di cui qui si parla è quella che fa riferimento a un rapporto di confidenza e di intimità; spesso riguarda piuttosto la condivisione di valori e obiettivi comuni, di idee politiche e di  ideali patriottici. Soprattutto nel secondo Ottocento, poi, assistiamo anche al formarsi di una generazione che vive in modo nuovo il rapporto di coppia (il riferimento è a Anna Kuliscioff e Filippo Turati, Giorgina craufurd e Aurelio Saffi, Jessie White e Alberto mario, di cui parla Fulvio conti) e di amicizia, in uno stretto intreccio tra la dimensione degli affetti e quella della militanza politica e delle battaglie ideali, dando vita – attraverso queste relazioni d’amore e di amicizia – a un cenacolo di uomini e di donne della sinistra democratica e socialista con un impegno comune per il progresso della nazione e per l’emancipazione delle classi sociali più deboli,  che sa ricomporre nella sfera privata le fratture talvolta aperte in quella pubblica, a causa del carattere plurale del loro impegno politico. Graziella Gaballo

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Giuseppe chioni, Giosuè Fiorentino, La fame e la memoria. Ricettari della Grande guerra. Cellelager 1917-1918, Feltre, Agorà editore,  2008; pagg.181, € 14,00. Un libro particolare, fatto anche di coincidenze. Da una parte un ricettario,  scritto a mano – con grande cura  grafica, su fogli in cui le righe sono state tracciate in maniera precisa con la matita – contenente 414 ricette numerate, articolate in sezioni tematiche introdotte da un disegno e con un utile e pratico indice finale, che permette di orientarsi velocemente all’interno della raccolta,  compilato da un nonno prigioniero durante la prima guerra mondiale, tramandato di generazione in generazione in una famiglia dove la tendenza diffusa era invece quella di buttare via tutto ciò che apparteneva al passato,  arrivato infine nelle mani di una nipote che ha sensibilità e consapevolezza del valore storico e testimoniale di quel quaderno e che decide di depositarlo presso l’Archivio ligure di scrittura popolare. E dall’altra, un famoso storico inglese, John Dickie, studioso anche  della cucina italiana, che dopo aver conosciuto il ricettario di  Giuseppe chioni, scopre casualmente nello stesso periodo l’esistenza di un altro ricettario simile, questa volta di un siciliano, Giosuè Fiorentino – uno dei membri dell’Assemblea costituente, sottosegretario per l’aeronautica nel secondo governo De Gasperi e di nuovo deputato nella seconda legislatura – scritto anch’esso in quegli stessi mesi e nello stesso campo di prigionia, quel  Lager di celle in Germania dove furono imprigionati circa 3.000 ufficiali italiani catturati nella disfatta di caporetto. E la casualità è ancora più sorprendente se si riflette sul fatto che non si hanno notizie di altri ricettari del genere, in quegli anni e in circostanze similari. Il genovese Giuseppe chioni e il siciliano Giosuè Fiorentino forse nemmeno si conobbero, date le vaste dimensioni del campo in cui furono rinchiusi gli “imboscati di caporetto” (come vennero bollati da cadorna e D’Annunzio);  ma, certamente, entrambi hanno condiviso la stessa esperienza tragica della prigionia, e anche il modo con cui alleviare le strazianti sofferenze della fame e della nostalgia di casa. come sappiamo, il soffrire la fame fa sì che di essa si continui a parlare e non casualmente,  infatti,  questo è un tema ricorrente nelle lettere o nei diari dei soldati. E il ricordo dei sapori e degli odori della cucina domestica  è  anche    strumento  di  recupero  della  storia  personale,  a  cominciare dall’infanzia, e modo per annullare momentaneamente la lontananza: oltre a rappresentare la possibilità di sentirsi vivi, di affermare la propria esistenza, di sperare in un futuro. Il cibo diviene quindi qualcosa cui aggrapparsi, attraverso il ricordo, che ingloba anche una dimensione domestica e familiare più ampia,  con la speranza di riuscire a ricuperarla un giorno. All’interno di questa attenzione costante e quasi maniacale al cibo – quello che manca e quello di cui ci si ricorda – nascono le  de-

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scrizioni minuziose dei vari piatti, dei loro ingredienti e della loro preparazione: e da qui la costruzione di questi ricettari a cui Giuseppe chioni e Giosuè Fiorentino, giovani uomini affamati, provenienti da zone geograficamente diverse e opposte dell’Italia, danno autonomamente vita, facendosi promotori di raccolta di ricette da ogni parte di Italia grazie alla collaborazione dei compagni di prigionia: un’opera collettiva, che tale è, nel caso di Fiorentino, anche materialmente, perché scritta da mani diverse, con diverse matite, penne e lapis.  In entrambi i ricettari non ci sono indicazioni di pesi e misure: pare più una memoria visiva quella che viene riportata sulla carta, la memoria delle materie prime e dei gesti tante volte osservati – e forse mai fatti – della loro manipolazione. Osserva Giuseppe chioni, nella breve introduzione che precede la sua raccolta di “arte culinaria”: “chi non è vissuto fra noi […] potrebbe sorridere ironicamente pensando alla metamorfosi che ci ha mutato da guerrieri in cuochi”, ma fa anche notare come sia invece naturale che ognuno, sognando il focolare domestico, abbia ricordato le squisite pietanze e gli intingoli appetitosi “preparati dalle mani premurose e delicate della mamma o della sposa lontana”;  e ben si vede, anche da queste parole, come forte sia l’intreccio tra cibo, ricordi, e affetti familiari e come il cibo non sia solo risposta alla fame, ma anche al bisogno di calore, di casa, di affetto. I piatti di cui si riportano le ricette in queste due raccolte sono specialità tipiche e piatti regionali, che ci guidano in un vero e proprio viaggio gastronomico in quell’Italia da poco unificata e che fanno dire al già citato John Dickie che siamo di fronte a un testo in grado di contendere alla  Scienza in cucina di pellegrino Artusi la palma  di miglior ricettario di cucina italiana mai scritto fino ad allora; anzi, i testi di chioni e Fiorentino sarebbero, secondo lo studioso inglese,  migliori per ricchezza gastronomica e rappresentatività  perché più rivelativi delle diversità regionali – mentre Artusi prediligeva ricette relative alla fascia centrale degli Appennini – e perché sanno mescolare piatti più raffinati con quelli più poveri, di provenienza contadina. E il più delle volte si tratta comunque di cibi particolarmente nutrienti e saporiti, ricchi di grassi ripieni e condimenti, espressione di un immaginario di opulenza: che è modo paradossale, come sottolinea Fabio caffarena  nella sua Prefazione, di allontanare i “crampi della fame”. Graziella Gaballo

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Quaderno di storia contemporanea/50

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Gabriele proglio, Memorie oltre confine. La letteratura postcoloniale italiana in prospettiva storica, Verona, Ombre corte, 2011; pagg.174, € 17,00. Gabriele proglio, giovane studioso che ha finora rivolto la sua attenzione in particolare a immaginari coloniali e postcoloniali e a memorie collettive e di storia orale, propone qui un approccio postcoloniale in prospettiva storica, attraverso un sapiente intreccio di un’analisi  decostruttiva  di testi  della cosiddetta letteratura postcoloniale – italofona e non solo – e  di riflessioni teoriche sul più ampio contesto degli studi postcoloniali. Il partire da opere letterarie non è certo casuale: come sottolinea anche Luisa passerini nella sua bella Prefazione, la letteratura e la critica letteraria sono state alle origini degli studi postcoloniali e rappresentano tuttora  la via maestra  per comprendere cosa si muove in quell’ambito culturale che ad essi fa da sfondo. In particolare, in questo libro, l’utilizzo dei testi postcoloniali italiani – opere di memorie  “oltre confine” (romanzi, autobiografie, raccolta di testimonianze orali)  che  impediscono che “le ombre dei colonizzati di cui parla Bhabba svaniscano” (p.32), dando spazio a voci silenziose, inascoltate o non udite e rompendo con la storia a una dimensione, quella  costruita attorno alla centralità europea e occidentale – aiuta a rendere espliciti i funzionamenti dei meccanismi di rimozione della memoria collettiva, rispetto al periodo coloniale italiano. In particolare il riferimento è, per quanto riguarda l’Etiopia, a Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi e a Memorie di una principessa etiope di  martha Nasibù. protagonista del primo è  mahlet, che raccoglie – appunto come fiori e perle – le storie degli uomini e delle donne del suo popolo e della loro lotta di resistenza, per poi scriverle, impedendo che si perdano nel nulla grazie al suo ricordo e alla sua testimonianza: una specie di rito di passaggio che “si compie nella consapevolezza che la memoria è l’elemento salvifico per l’universo di riferimento” (pag.32). Anche martha Nasibù scrive in italiano – la lingua del popolo che li colonizzò – come la Ghermandi,  per parlare a tutti gli italiani  di ogni tempo e racconta della sua famiglia cacciata dal paese e costretta a vagare tra Rodi, Tripoli  e l’Italia e di una Etiopia incapace ormai, dopo il colonialismo, di ridisegnare la sua identità, di definirsi, di “articolare un linguaggio  autonomo  che  trovi  le  parole  idonee  per  uno  sviluppo  della  società” (pag.69). Un capitolo è proprio dedicato  all’analisi di come il fascismo abbia costruito, anche sul piano dell’immaginario e del simbolico, un impero basato sul mito dell’italianità da una parte  e dall’altra sulla costruzione dell’indigeno, del colonizzato:  facce diverse di un “unica medaglia, in quanto la costruzione dell’italiano e della italianità si sviluppa grazie proprio alla creazione della categoria dell’altro, che trova una sua particolare visibilità simbolica nel corpo femminile, prima pre-

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sentato come sensuale e seduttiva preda per i nostri soldati  e poi retrocesso a una condizione preistorica, cioè pre-civile, incivile” (pag.82);  il razzismo che è alla base di questo colonialismo viene qui ricostruito attraverso le teorie “scientifiche”,  l’analisi di alcuni discorsi di mussolini, la stampa e  l’immaginario popolare, quale quello che si esprime nelle figurine della Liebig. E certamente conseguenza indiretta del colonialismo italiano è anche l’odierna diaspora somala, che molte di queste opere ci raccontano attraverso storie, per lo più femminili,  che si intrecciano  come avviene in Rhoda di Igiaba Scego o in  Madre piccola di  crisina Ali Farah, ma anche in Lontano da Mogadiscio di  Ramzali Fazel  e in Rifugiati di Nurrudin Farah.  La letteratura è in questo caso strumento utile per sintetizzare i frammenti di memoria, ricostruendo un  quadro generale di equilibrio precarizzato, mancanza di punti di riferimento, continue dislocazioni, traumi e violenze subite, anche se non è ancora possibile scrivere una storia della diaspora somala, ma solo tante storie, al plurale, che ci danno accesso a un mondo eterogeneo di esperienze, viaggi e sentimenti. E, alla fine del lavoro di proglio, quello che emerge è una rappresentazione non tanto e non solo del nostro passato coloniale, rimosso  e dimenticato, ma anche – o soprattutto – del nostro presente, fatto di Lampeduse e di sbarchi di migranti che spesso provengono proprio dalle nostre ex colonie e che “sognando l’Europa ne reinventano i confini, ideano nuovi modi di essere, tra l’altro, europei; muovono verso un cambiamento che si chiama libertà” (pag. 29). Graziella Gaballo

Una lunga e non facile ricerca – nata all’interno del progetto Osservatorio sulla storia e la scrittura delle donne a Roma e nel Lazio – quella condotta da Annabella Gioia  negli archivi dell’Istituto Luce,  in un percorso cha dal 1927 arriva al 1965, alla ricerca delle presenze (e assenze) femminili dal fascismo agli anni del boom economico e  di cui l’autrice ci dà qui conto. Le fonti sono quindi immagini, fotografie, filmati (quelli relativi a Roma e al Lazio dei Cinegiornali Luce – che il fascismo rese obbligatorio proiettare nelle sale cinematografiche in quanto strumento di propaganda e di consenso al servizio del Regime –  dal 1927 al 1944 e della Settimana Incom, dal 1946 al 1965), attraverso cui è stato possibile ricostruire una storia al femminile o, quanto meno, individuare evoluzioni e trasformazioni nell’immagine della donna, in una interessante dialettica tra passato e fu-

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Annabella Gioia, Donne senza qualità. Immagini femminili nell’Archivio storico dell’Istituto Luce, milano, Franco Angeli, 2010; pagg.121, € 16,00.


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turo, tradizione e modernità. Diversi i climi: il regime mussoliniano prima, che pone la “costruzione del nuovo italiano”, e della “nuova italiana”, al centro dei cinegiornali degli anni Venti e Trenta, e dà vita alle varie fasi del processo di “nazionalizzazione delle donne” avviato allora;  l’Italia democristiana della “guerra fredda” poi, con la Settimana Incom. In particolare, dai filmati dell’istituto Luce  emerge con chiarezza quello “strabismo” che ha caratterizzato la storia del fascismo,  tra una tradizione che vuole le donne relegate a ruoli domestici (“sposa e madre esemplare”) da un lato (e che fa sì che, tranne alcune rare eccezioni  esse quasi mai compaiano in ruoli di autonomia nei campi della cultura, dell’arte e del lavoro, ma tendano invece  – nel rispetto di una ben rigida e codificata divisione dei ruoli – a occuparsi di attività più legate ai lavori di cura e di assistenza)  e  la    modernità  che,  dall’altro,    ne  richiede  invece  la  mobilitazione  nelle organizzazioni di massa del partito. Le riprese del Luce evidenziano con grande frequenza esclusioni, differenze e stereotipi e occorrerà arrivare alla politica autarchica contro le sanzioni e all’emergenza bellica perché le donne – filmate e presentate come protagoniste della mobilitazione civile – conquistino inaspettati spazi e visibilità, almeno nelle immagini. L’ultimo di questi filmati, risalente al 1944, quando l’Istituto Luce viene trasferito a Venezia per seguire le sorti della Repubblica di Salò, dedicato all’addestramento del servizio ausiliare femminile, colpisce Annabella Gioia in particolare per la grande cupezza delle  immagini, che “rappresentano una militanza assoluta di donne orgogliose di essere fedeli e gregarie del regime”; cupezza cui pare invece contrastare lo stile leggero dei filmati della Settimana Incom che ci trasmettono la rappresentazione di un’ Italia liberata e di una società diversa, in cui con la conquista del suffragio e la nascita della Repubblica sembrano aprirsi per le donne nuovi spazi e nuove possibilità. Nei cinegiornali della Settimana Incom – non più caratterizzarti dall’aspirazione totalitaria di quelli Luce, anche se comunque  fortemente condizionati dagli stereotipi tradizionali oltre che dalla politica governativa e con una non dissimile vocazione “pedagogica” e propagandistica – affiorano infatti  intorno agli anni cinquanta e Sessanta nuovi ruoli e nuove individualità per le donne. E, nonostante il perdurare dell’assoluta prevalenza del punto di vista maschile, che li caratterizza come un cinegiornale “fatto da uomini per altri uomini”, anche nei servizi apparentemente dedicati alle donne – “dalla voce dello speaker ai commenti, alle battute di spirito, ai doppi sensi, tutto è maschile” osserva marta Boneschi in un commento riportato da Annabella Gioia – si percepisce però il mutamento di orizzonte e si coglie un nuovo senso di libertà: è la nascita di un nuovo immaginario femminile di cui ben presto si impossesserà la neonata televisione, con le conseguenze che – ahimè – sono sotto gli occhi di tutti. Graziella Gaballo

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Annamaria Galoppini, a lungo titolare della cattedra di Diritto privato nella facoltà di Scienze politiche dell’Università di pisa,  ripercorre in questo volume – con un lavoro impegnativo e  preciso di elaborazione di elenchi di iscritte e di laureate e diplomate,  reso possibile da lunghe indagini archivistiche e documentarie di cui fanno fede le statistiche, i grafici e le tabelle riportate – la storia delle donne presso quella stessa Università, tra la fine del XIX e la metà del XX secolo e, attraverso l’analisi del microcosmo rappresentato da una delle più prestigiose università italiane, ci permette di attraversare la storia dell’istruzione universitaria in Italia, dall’Unità all’inizio della Seconda guerra mondiale, facendo fuoco in particolare su tre diverse fasi (l’Italia liberale, l’Italia fascista e l’Italia delle leggi razziali) e usando come categoria di lettura quella di genere (oggetto della ricerca sono, appunto, le studentesse). All’epoca dell’Unità,  l’Università di pisa, che si presentava come “la prima Università della nuova Italia (le  altre nove Università statali erano allora a Genova, catania, messina, modena, parma, Siena, cagliari e Sassari) era completa di tutte le facoltà allora previste dagli ordinamenti universitari e connotata da un’antica fama di eccellenza dei docenti e dei corsi di studi. Le iscrizioni femminili,  da  cifre  e  percentuali  insignificanti  all’inizio  cominciarono  a  crescere lentamente, ma continuamente, fino ad assestarsi, all’inizio della Grande guerra, su una percentuale quasi doppia rispetto alla media nazionale (il 10,39% rispetto al 5,8% nazionale). Le studentesse affluivano, in primo luogo, dal tradizionale bacino di utenza dell’Università di pisa, che, allora come ora, andava dalla Lunigiana alla Lucchesia e alla Toscana costiera, fino alla maremma; ma anche nel  folto gruppo di studenti fuori sede c’erano numerose ragazze, provenienti da tutte le regioni d’Italia, e in prevalenza dal  meridione e dalle isole, che alloggiavano in camere d’affitto presso famiglie fidate, o come pensionanti nei conventi; fra le studentesse provenienti da lontano, e quindi divenute stanziali, cominciarono inoltre  ad annoverarsi fin dall’inizio anche straniere. Le prime presenze femminili s’incentrano su tre facoltà: Lettere, matematica, medicina e ad esse si aggiungono le ostetriche diplomate. L’Università di pisa prevedeva infatti, nella periodizzazione qui considerata, accanto ai corsi di laurea anche dei corsi di diploma, che avevano carattere professionale, non conferivano alcun titolo accademico e, per l’accesso, richiedevano titoli di studio meno impegnativi: sia per la professionalità, sia per il minor titolo di studio richiesto, essi destavano l’interesse di quelle ragazze che, pur non potendo aspirare a una laurea, desideravano una loro autonomia professionale ed economica,

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Annamaria Galoppini, Le studentesse dell’Università di Pisa (1875-1940), pisa, edizioni ETS, 2011; pagg. 427, € 25,00.


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da affiancare, se del caso, alle cure familiari. Tra questi c’era, appunto, la Scuola di Ostetricia che conferiva un diploma professionale di “levatrice”: un mondo interamente femminile, precluso agli uomini, se non in quanto medici. Le aspiranti levatrici furono proprio le prime donne a frequentare l’Università di pisa: provenivano tutte da ceto popolare, anche rurale, ed erano motivate dal desiderio di emanciparsi da un ambiente chiuso e pronte ad affrontare una vita solitaria e disagiata che, peraltro, dava loro una collocazione di rilievo nella comunità. Il quadro che si ricava dalle percentuali di presenza sopra riportate (maggiore presenza femminile a Lettere, matematica, medicina e Ostetricia) – sottolinea Annamaria Galoppini –  ribadisce il tradizionale ruolo femminile: la donna assiste la gravidanza e il parto (levatrice), educa e insegna (maestra e, più tardi, professoressa), cura le malattie (medico). Una notevole presenza femminile si trova però anche nella Facoltà di chimica e Farmacia, mentre minoritaria (e particolarmente tardiva) appare la presenza femminile alla Facoltà di Giurisprudenza, probabilmente per la scarsità degli sbocchi professionali che questo indirizzo offriva allora alle donne, cui non era possibile l’ingresso in magistratura. Tre sono poi le facoltà in cui la presenza femminile è insignificante (Agraria e Ingegneria) o nulla (Veterinaria): quest’ultimo dato è ben comprensibile se si pensa che  allora il medico veterinario si trovava spesso a dover affrontare situazioni che il costume sociale riteneva disdicevole per una donna, oltre al fatto che  su questa figura professionale gravava ancora l’ombra del maniscalco o del contadino praticone. Il maggior numero di presenze femminili si ha comunque nelle facoltà che predispongono all’insegnamento;  anche se poi le ragazze  trovano ad accoglierle una clausola discriminatoria – non prevista da nessuna delle varie leggi emanate in quegli anni in tema d’istruzione, ma inserita sempre nei bandi di concorso – che stabiliva che potessero essere assunte in servizio solamente negli istituti che avessero “classi speciali per giovanette” (esigenza che scompariva quando si trattava, non di posti di ruolo, ma di supplenze, il che la dice lunga sulla vera ragione di questa segregazione sessuale, cioè proteggere l’organico dei professori uomini dalla temuta “invasione femminile”). con la sua riforma, emanata con regio decreto il  6 maggio 1923, Gentile lasciò cadere l’esclusione delle insegnanti dalle classi miste o maschili e si “limitò” a escludere le donne dall’ufficio di preside; ma, tre anni dopo,  con  il regio decreto del  9 dicembre 1926 relativo ai concorsi a cattedre,  escluse le donne da parecchie tabelle di concorso tra cui lettere greche e latine in qualunque scuola media, lingua e letteratura italiana e storia nel corso superiore dell’istituto tecnico, lettere italiane e latine e  filosofia, storia ed economia politica nei licei: ciò nonostante, anche in epoca fascista le ragazze, silenziosamente e  tenacemente, continuarono a studiare e a laurearsi (i numeri, sempre in aumento, sono lì a dimostrarlo), rifiutando il confino del ruolo domestico, teorizzato dal regime. ma  una ancor più  grave tragedia si abbatté sull’Università – e non solo –

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con le leggi razziali del 1938. A pisa la comunità ebraica era molto fiorente – al punto che agli inizi del Novecento “girava” in città  una battuta secondo la quale,  giacché erano ebrei il sindaco,  il Rettore e il presidente della camera di commercio, ci mancava fosse ebreo anche l’arcivescovo – e parecchie erano anche le studentesse ebree: va ricercata nell’importanza che l’ebraismo da sempre ha dato all’istruzione e alla cultura la  ragione per la quale una piccola minoranza, quale è sempre stata in Italia quella ebraica – mai superiore, e spesso inferiore, all’1% della popolazione – occupasse una posizione di rilievo negli studi superiori. La “bonifica” razziale del popolo italiano cominciò proprio dall’Università e dagli studenti stranieri: anticipando le leggi antiebraiche dell’autunno, già nel gennaio 1938 il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai infatti emanò una circolare in cui si chiedeva di fare un censimento degli “studenti ebrei di nazionalità straniera”; una circolare successiva stabiliva poi esplicitamente il divieto di iscrizione ai corsi universitari degli studenti ebrei stranieri, compresi quelli già presenti in Italia e gli iscritti negli anni precedenti, anche se una comunicazione del 25 agosto precisava che invece gli studenti già iscritti potevano continuare gli studi. Gli effetti di queste pesanti norme discriminatorie si fecero sentire anche all’Università di pisa, nonostante la reazione del Rettore Giovanni D’Achiardi  che,  se nelle risposte alle prime circolari ministeriali era stata  di sorpresa e imbarazzo, si concretizzò poi in una forma di resistenza passiva, con il rivendicare la sua autonomia nella gestione dell’Università (di cui l’apertura agli studenti stranieri era, come s’è visto, una componente caratteristica) e col far valere in questo ambito anche i problemi finanziari che l’espulsione di tanti studenti avrebbe provocato alle esangui casse dell’Ateneo. Il prezioso lavoro di Annamaria Galoppini si ferma al 1940 e non si estende, quindi, all’epoca attuale. La ragione – spiega l’autrice – va cercata nel fatto che la Seconda guerra mondiale ha segnato una profonda cesura col passato, in merito all’istruzione universitaria femminile, come in altri settori della vita civile e sociale: con la riconquistata libertà, la Repubblica e una costituzione intrinsecamente egualitaria, sono infatti cadute le gabbie che, nell’età liberale e, soprattutto, sotto il regime fascista avevano chiuso le donne in stereotipi retrivi, anche se poi si sarebbe rivelato ancora lungo (e tuttora non concluso) il cammino verso la realizzazione di un’effettiva parità. Oggi, secondo le statistiche ufficiali, le ragazze, anche a pisa, sono ampiamente presenti all’Università e si laureano, spesso, anche in percentuali superiori a quelle dei loro compagni di studi; rispetto al passato, colpisce l’aumento notevole della presenza femminile in facoltà in cui precedentemente le donne erano scarsamente presenti (Giurisprudenza, medicina) e l’ingresso consistente in Facoltà in cui erano assenti (Ingegneria, Veterinaria). Graziella Gaballo

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Silvia Inaudi, Libertà e partecipazione. Associazionismo femminile a Torino negli anni del boom economico, Torino, Edizioni Seb 27, 2010; pagg.118, € 14,00. Questo volume presenta i risultati di una ricerca svolta dall’autrice presso il centro studi e documentazione pensiero Femminile, sull’associazionismo femminile a Torino tra la fine degli anni cinquanta e la metà degli anni Sessanta: ricerca interessante, e certamente lunga e complessa per la necessità di prendere in esame un apparato di fonti “difficile” da rintracciare presso le associazioni e gli archivi locali e nazionali, perché  hanno risentito dello scarso valore attribuito alla conservazione dei documenti di produzione femminile da parte dei soggetti istituzionali, spesso accompagnato anche  dal disinteresse mostrato dalle donne stesse per la propria produzione, in quanto più interessate al “fare” che al “comunicare”. E dove è stato possibile, si é ovviato ai vuoti del materiale archivistico con il ricorso alla stampa cittadina e/o a testimonianze delle protagoniste. Il periodo individuato – gli “anni del boom economico” – è un periodo particolarmente fecondo da questo punto di vista, perché vide l’impegno unitario di molte associazioni laiche, di sinistra e professionali – per citarne solo qualcuna, ricordiamo l’UDI,  l’ANDE (Associazione nazionale Donne Elettrici),  la  FIDApA (Federazione Italiana delle donne nelle arti professioni Affari), La procultura femminile – per l’emancipazione femminile, per una maggiore partecipazione e rappresentanza politica delle donne, per l’accesso alla parità in campo professionale e per la riforma del diritto familiare e lo svecchiamento di alcuni aspetti della morale sessuale, ponendosi, soprattutto per quest’ultimo tema, come ponte verso la fase successiva, quella del femminismo. In effetti, in quegli anni, Torino – grazie al suo essere snodo nevralgico dello sviluppo economico e importante laboratorio politico – favorì il sorgere di numerose realtà associative, che si trovarono a operare insieme, riunite nel comitato associazioni femminili torinesi (cAFT), con la sola autoesclusione delle forze cattoliche. Non fu certo facile arrivare alla costituzione di un comitato unitario, andando quindi al di là delle temporanee convergenze che già si erano verificate in passato sia a livello locale che a livello nazionale su singole problematiche; ci volle un delicato lavoro di tessitura e di relazioni per mettere insieme associazioni diverse, accomunate talvolta solo dalla comune sensibilità nei confronti della questione femminile, ma che si trovavano a operare su piani politici spesso contrapposti o a fondare la propria immagine sulla apoliticità. Il primo atto pubblico del futuro cAFT è dell’ottobre del 1958, quando, in una conferenza stampa indetta in occasione della sentenza del tribunale di Torino a favore della parità retributiva (uno dei grossi temi per cui si battevano le associazioni femminili, ma non i partiti e nemmeno i sindacati – basti

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ricordare che la cGIL stessa in quegli anni non aveva come obiettivo la ugua glianza retributiva, ma solo un graduale avvicinamento dei salari) le promotrici del comitato unitario richiamarono l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica su quel tema e illustrarono il contributo che l’associazionismo torinese avrebbe potuto dare alla causa femminile.L’anno seguente, in un convegno sulla formazione professionale, il tema della parità salariale venne rilanciato, sottolineando come uno degli ostacoli alla sua realizzazione fosse dovuto proprio alla scarsa qualificazione femminile, documentata anche dai dati di un inchiesta condotta sul territorio dal comitato torinese in collaborazione con l’Università e furono presi dal comitato stesso contatti con gli assessori competenti al fine della creazione di una scuola di avviamento a orientamento metalmeccanico che provvedesse anche alla qualificazione delle lavoratrici. Seguirono numerose altre iniziative che contribuirono a rendere il  cAFT sempre più un soggetto importante dell’azione femminile nella sfera pubblica sul territorio cittadino, con momenti di grande visibilità all’interno delle manifestazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, che – come si ricorderà – ebbero in Torino la sede principale. ma vari furono i campi in cui l’associazionismo femminile portò il proprio contributo: da quello dei servizi sociali, con uno sguardo particolare  ai  problemi  della  “grande  migrazione”  dal  Sud,  al  tema  della  pace  e dell’internazionalismo,  all’impegno – già citato – per la riforma del diritto di famiglia. E proprio nel lavoro svolto in quegli anni – e di cui Silvia Inaudi ci ha restituito in questo volume tutta  la ricchezza, riportando alla memoria e alla visibilità i vari passaggi e le diverse fasi di un costante e paziente impegno di collaborazione e di mediazione – vanno individuate le radici di un percorso che avrebbe portato negli anni Settanta a un nuovo protagonismo politico femminile.

chiara pagnotta Attraversare lo stagno. Storie della migrazione ecuadoriana in Europa tra continuità e cambiamento (1997-2007), Roma, cISU, 2010; pagg. 264, € 26,00.  Oggi non è scontato dire “me ne vado dall’Italia”. penso ai nuovi flussi migratori italiani verso gli altri paesi europei, in particolare verso l’Europa settentrionale, e alla forte mobilità che governa i rapporti sociali. così come non è scontato incontrare nel lessico quotidiano espressioni che sintetizzano comportamenti e modi di agire diffusi. È molto interessante  per es. notare come nel caso di alcuni  flussi mi-

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Graziella Gaballo


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gratori, anzi come da alcune particolari tipologie di azione emigratoria che originano esperienze migratorie collettive, emergano delle immagini particolari di quell’esperienza, come in una geografia emotiva segnata dalle caratteristiche specifiche del viaggio migratorio, che radicatesi in una lingua sono trasportate in altre culture. La trasmissione ad “altri” siano questi famigliari o compaesani, o persone conosciute in luoghi diversi da quelli di origine lungo il proprio percorso migratorio, delle vicissitudini e delle esperienze di emigrazione non conosce una sola direzione, ma è il risultato dell’intreccio di diverse circostanze e catene migratorie, interne al paese di origine, ma anche transazionali. È il caso della regione andina ben illustrato da chiara pagnotta in questo libro. L’espressione “cruzar el charco” – attraversare lo stagno – potrebbe avere due diverse valenze geografiche, l’emigrazione dall’America verso l’Europa oppure dal messico verso gli Stati Uniti, esperienza intrapresa quotidianamente non solo da migliaia di messicani ma anche da altrettanti centroamericani e sudamericani. Si veda il documentario Which way home di Rebecca camissa (2009) che mostra l’attraversamento del messico dal sud-est alla frontiera con gli USA con il treno “la Bestia”. L’acqua che scorre in mezzo, che divide e scinde lo spazio, offre un significato particolare alle traversie che intraprendono i migranti, al viaggio - molte volte impegnativo e pericoloso - di un uomo, di una donna o di una bambina o bambino migranti che con la frase “attraversare lo stagno” ironizzano sulla propria esperienza di migrazione per dire quanto siano vicini i diversi continenti. condivido con l’autrice l’utilità di richiamare l’attenzione su questa espressione perché si potrebbe dire che oggi in Italia essa si stia trasformando in una percezione dell’Europa come un blocco unico: in fondo, “attraversare lo stagno” implica l’arrivo in Europa e non in un paese in particolare. Nel caso dell’immigrazione dall’Ecuador “cruzar el charco” è altrettanto traducibile e trasmissibile con il termine “progresar” – progredire – proprio perché la rielaborazione sociale dell’idea di emigrare è soprattutto collegata - nell’immaginario collettivo - a un’azione diretta che si intraprende come strategia per progredire. Il lessico quotidiano dell’emigrazione ha poi altre implicazioni, in particolare in relazione alle condizioni di vita, soprattutto in merito al lavoro e ai rapporti di genere, avendo esso la funzione non solo di disseminare informazioni, ma anche di aprire canali di comunicazione attraverso un gergo o un lessico specifico dei migranti. Anche in questi casi, infatti si creano specifici modi di dire, caratteristici di ogni flusso, in rapporto alle caratteristiche culturali e geografiche del luogo di partenza e di arrivo. L’approccio della autrice, storica latino-americanista, non è univoco poiché mette costantemente su uno stesso piano ambiti disciplinari e metodologici differenti, diverse visioni che risultano da modalità diverse di rapportarsi con l’alterità: la relazione fra lo storico e

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il testimone, la percezione del/della migrante nei diversi luoghi di emigrazione che scatena per es. il ripensamento di ciò che è e che rappresenta la casa. Gli investimenti identitari a partire della propria collocazione diasporico-spaziale e culturale permettono infatti al soggetto migrante (meticcio o indigeno) e alla comunità di ripensare  la propria identità nazionale ma “solo dopo l’inserimento nel contesto di immigrazione” (pag. 179), dopo il percorso lungo o breve del contatto con l’alterità europea. Dallo studio dei comportamenti migratori nella regione andina risulta la grande importanza della mobilità all’interno di questa regione, di cui si possono identificare diverse direttrici con le loro proiezioni verso l’estero. Nel caso dell’Ecuador come di altri paesi del Sud America l’emigrazione è il risultato di una traiettoria complessa, in cui interagiscono luoghi differenti, che nel suo procedere dalla “sierra” alle città non può essere ridotta allo spostamento da un punto definito a un altro. pagnotta, individuando i diversi soggetti coinvolti nei flussi migratori ecuadoregni, analizzando le principali nazioni interessate dal fenomeno, la tipologia dei migranti per provenienza, le caratteristiche delle società di partenza e d’arrivo, ricostruendo la traiettoria delle rimesse, definisce l’emigrazione ecuadoregna attraverso l’idee di rottura e cambiamento. Le sue analisi sdoppiano la categorie di genere con un intreccio fra le variabili dell’etnia e dei luoghi di partenza per approfondire i comportamenti e le dinamiche dei flussi di emigrazione, con tutto ciò che esso comporta: dalla motivazione di emigrare all’insediamento nel paese di emigrazione. Ogni percorso migratorio ha in realtà radici antiche, penso soprattutto alle radici culturali legate tante volte a eventi che trascendono i semplici ricordi personali perché nei suoi significati si trovano come sedimentati puntuali passaggi e viaggi dal Vecchio al Nuovo mondo. Il volume rivisita la storia delle migrazioni verso l’Europa dall’Ecuador mostrandone i diversi momenti di arrivo (le diverse onde migratorie), le modalità di emigrazione, lo strutturarsi delle catene migratorie nei flussi e l’incommensurabile sentimento di appartenenza culturale dei migranti ecuadoregni. Uno dei temi sui quali l’autrice si sofferma è infatti la questione della costruzione dell’identità nazionale. come scrive l’autrice: «perché la nazione esista, è necessario che venga raccontata» (pag. 140). per affrontare il tema dell’appartenenza culturale dell’Ecuador, l’autrice ci porta a guardare nel profondo passato della storia del paese perché, come sviluppa nella sua analisi: «la coscienza storica della nazione affonda le sue radici nella mitologia pre-inca e nel ricordo della conquista subita prima dagli Incas e poi dai conquistadores» (pag.139). Non è possibile collocare in uno spazio globale, l’identità nazionale ecuadoriana senza fare accenno alla vicenda del colonialismo spagnolo, condivisa con molti altri paesi del Nuovo mondo. L’importanza di una memoria e di un passato condivisibile fra la po-

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polazione emigrata è evidente allo stesso modo per le comunità ecuadoregne studiate in Italia e in Spagna - in modo specifico a Genova e a madrid - in relazione ad alcune feste religiose, non solo perché esse si rivelano all’estero un elemento di identificazione nazionale ma perché i festeggiamenti avvengono lo stesso giorno (Vergine del cisne, pag. 141 e ss). In realtà quindi «la creazione di una comunità è un processo che spesso si plasma a seguito dell’esperienza migratoria e delle condizioni che si sviluppano nel contesto di arrivo» (pag. 179). La nuova collocazione spaziale e culturale nel paese europeo non solo implica un ridimensionamento delle memorie rispetto all’immagine mentale della geografia europea e mondiale. Arrivare in Europa implica anche l’adozione di un sentimento comunitario fondato sui diversi frammenti della propria cultura inevitabilmente rivisitata da diverse posizioni tempo-spaziali e forse anche rinnovata dalla condivisione dell’esperienza migratoria e dai significati attribuiti al vivere in Europa. Nel lavoro si analizza anche la lettura elaborata in termini utilitaristici dalle istituzioni ecuadoriane del fenomeno della migrazione massiccia verso l’Europa in relazione al ritorno degli emigranti. Le facilitazioni ad essi riconosciute per l’acquisto di una casa sono per lo Stato (come accade anche in altri paesi andini, per es. il perù) un fattore molto positivo per incentivare - in tale caso - il settore edilizio. Un elemento importante da sottolineare in questo lavoro sono le diverse possibilità di dialogo transdisciplinare che esso offre grazie al suo taglio di sociologia e di storia delle migrazioni e ai suoi nessi con altre discipline quali la storia culturale, un approccio dal quale si vedono emergere tracce di «emotional geographies» del mondo di oggi, un mondo nel quale si è sempre nell’atteggiamento di “attraversare lo stagno”, ma dove essere diasporici - sia ben chiaro - non è affatto una condizione “romantica”.

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Leslie Nancy Hernández Nova

Francesca Spano, Il libretto viola e altri scritti, Iacobelli edizioni, pavona di Albano Laziale 2010, pp.121, € 12,00 L’ho incrociata una volta di sfuggita, in un incontro torinese cui partecipava, come relatrice, sua madre: che avevo invece conosciuto,  e che mi aveva affascinato con i suoi racconti della lotta di resistenza e degli anni in Tunisia e con la tranquilla dolcezza con cui – a me che dicevo : “ma come hai fatto?! Io non sarei mai stata capace di fare le cose che hai fatto tu; sarei morta di paura…” – rispondeva: “ ce l’avresti fatta anche tu; quando c’è da saltare, si salta…” , come una carezza con cui rassicu-

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rarmi, darmi fiducia, trasmettermi forza. E quel giorno qualcuno me l’aveva indicata e me ne aveva parlato. mi aveva incuriosito, quella scelta di cui mi raccontavano, di aderire alla chiesa valdese e di trasferirsi a vivere prima a  pinerolo e poi a Torre pellice, così come avevo saputo della passione e dell’impegno che metteva nell’insegnamento: una visione fugace, un moto istintivo di simpatia, legato credo, soprattutto,  al suo essere figlia di due personaggi per me mitici, quali – appunto – Nadia Gallico e Velio Spano, dirigenti del pcI e deputati alla costituente. Avevo poi trovato un trafiletto sul giornale, in cui si parlava della sua immatura scomparsa; ed era stata una staffilata di tristezza, che mi aveva riportato a quella provata qualche anno prima, per la morte di sua madre. E adesso, mi imbatto in questo suo “libretto” (il libretto viola) che scopro essere stato pubblicato dopo la sua morte improvvisa, raccogliendo alcuni scritti trovati nel suo computer, embrione di quello che avrebbe dovuto essere un ‘’lungo racconto autobiografico”.  È l’occasione di accostarmi meglio a lei, di cercare di conoscerla. Inizio a leggere, ed è una vera rivelazione. A partire dal primo, lungo scritto di questa raccolta, A flowery stream of memories, in cui l’autrice rivela a noi e a se stessa come proprio lei, fino a quel momento indifferente alla bellezza della natura, restia al contatto con le piante, i fiori e gli alberi, abbia trovato nella cura che si trova a dedicare a un piccolo e caotico pezzo di terra, dopo essersi trasferita a Torre pellice, un modo per fare ordine anche nel suo “giardino interiore”, seguendo i richiami in un “flusso di ricordi” che è anche “un flusso di coscienza”. Francesca s’ispira al giardino, alle piante, al compostaggio per intrecciare memorie (gli amici, la sua famiglia, la perdita di una bambina, nata troppo presto e l’impossibilità di averne altre, la morte improvvisa di persone care e di un compagno, oltre a quella del padre, quand’era ragazzina) a riflessioni sempre molto profonde e molto stimolanti. In altri due scritti, Lavorare a maglia e Iniziazioni, mette a fuoco, invece, come punti nodali della sua vicenda biografica – che, pur nella unicità di un’esperienza personale, trova connessioni e collocazione in quella  di una intera generazione (il Sessantotto, la militanza politica, la sinistra vecchia e nuova, il femminismo, la psicoanalisi) – il tema del viaggio e quello della iniziazione alla politica. Nel primo (un cui altro titolo è Il settimo viaggio), l’Autrice prende spunto dal lavorare a maglia – arte femminile, che per lei rappresenta anche una “coperta di Linus, che mi toglie imbarazzo, che mi indica dove mettere le mani, che crea un filtro tra me e gli altri, proteggendomi” – per rievocare i suoi viaggi, tra cui i tre in Russia – il primo a sette anni con la famiglia, a vedere anche le “orribili case popolari” dove si praticava la coabitazione; il secondo con una delegazione della World Student Christian Federation, del quale ricorda divertita la proibizione di visitare la sala delle icone (di cui, anzi, viene addirittura negata

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l’esistenza)  nel monastero di Zagorsk, perché la loro spiegazione avrebbe costituito una forma di propaganda religiosa; il terzo, infine, con il suo compagno e la famiglia della sorella, viaggio finanziato dalla madre nel tentativo di rallegrarla dopo l’improvvisa interruzione della sua gravidanza, ma in realtà tristissimo. Iniziazioni (altro titolo, Il maglione rosso) racconta invece dell’iniziazione politica di Francesca, che è stata segnata dalla militanza prima – sulla scia anche di quella dei genitori e delle sorelle – e dalla consapevolezza poi che una parte di quel mondo e di quell’organizzazione era scomparsa, pur permanendo sempre viva in lei l’ansia di giustizia, l’orrore per la guerra, l’amore per la democrazia. Infine, in La magia di Agape, Francesca ripercorre il suo cammino religioso e la sua frequentazione, fin da ragazza, del centro ecumenico di Agape – in un “frenetico alternarsi di fascinazione e di ostilità istintiva” – dove ha sempre sperimentato una dimensione di accoglienza, e dove ha portato avanti un percorso di ricerca  che “è stato il senso della sua vita”. chiudono il libro Una donna molto intelligente, presentazione del libro autobiografico della madre Nadia e una poesia per la stessa. Il tutto, in questo volumetto  estremamente curato nella veste grafica, a iniziare dalla copertina, e che ci testimonia – anche attraverso tutte quelle notizie precise che  ci illuminano sui materiali che hanno consentito la realizzazione del libro, nel rispetto dell’ambiente – la serietà e l’amore con cui questa piccola casa editrice che l’ha pubblicato – Iacobelli edizioni-  lavora, con grande eleganza stilistica  e cura del dettaglio. Graziella Gaballo

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Giorgio Radicati, 11 settembre. Io c’ero, pavona di Albano Laziale, Iacobelli edizioni, 2011;  pagg.140, € 16,50. In questi mesi sono uscite parecchie pubblicazioni in occasione del decimo anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, ma ciò che rende questo libro eccezionale rispetto a tutti gli altri è l’autore,  Giorgio Radicati,  che in quel periodo era il console italiano a New York e che non solo ha vissuto in prima persona il dramma di quei momenti ma, grazie al suo particolare ruolo, ne è stato anche un testimone privilegiato. E questo, unitamente alla esclusività delle fonti e alla  vicinanza dell’autore a personaggi politici e  esponenti di spicco della comunità newyorkese, fa del testo in questione – corredato da trentadue pagine di foto inedite a colori – un documento che va ben oltre il diario e la raccolta di pensieri e memorie. Il racconto di Radicati ci riporta, in presa diretta, a quel giorno che ha

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cambiato la  storia del mondo, catapultandoci  in mezzo agli eventi, nelle strade di New York, a partire dalle nove del mattino, quando lui è nel traffico, diretto verso la sede del consolato, per iniziare quella che dovrebbe essere una ordinaria giornata di lavoro e non sospetta certo che, in quello stesso  momento, diciannove dirottatori siano sugli aerei che poco dopo si sarebbero schiantati contro i grattacieli del World Trade center.  ma lo raggiunge la telefonata della segretaria, che lo informa che un aereo da turismo ha impattato contro una delle torri gemelle; strano – pensa Radicati – visto che da anni è proibito sorvolare la città. E quando dieci minuti dopo, nel suo ufficio,  il televisore  manda in onda immagini di un jet che penetra in una Torre, pensa che sia il replay dello schianto di cui gli aveva parlato la segretaria, prima di realizzare che si trattava di un altro aereo e che quello che era in corso era un attacco di dimensioni formidabili. La narrazione, in prima persona e ricca di aneddoti,  intreccia alla cronaca degli eventi scanditi dall’incessante susseguirsi di notizie, i pensieri e i sentimenti di chi si trova ad affrontare un quotidiano straordinario (le paure;  l’urgenza di risolvere i problemi pratici;  la tensione dell’incarico che segna i rapporti con la comunità italoamericana, le istituzioni italiane,  la  stampa;    la  necessità  di  non  perdersi  d’animo  e  di  fronteggiare  le conseguenze del fatto che vi sono diversi cittadini italiani tra le vittime del World Trade center, alcuni dei quali conosciuti anche  personalmente) in una New York che si trasforma di ora in ora: da caotica e frenetica quale si presentava di prima mattina a  immobile e muta di fronte alla tragedia e  poi di nuovo unita e orgogliosa tra le veglie, le luci delle candele e i colori delle bandiere a stelle e strisce. ma Radicati in questo libro non dà solo conto dei concitati momenti successivi all’attacco alle Twin Towers, e di tutto quanto di eroico ne è seguito: nel libro – che peraltro non si limita a una cronaca di quanto avvenuto in quei giorni, ma copre l’intero periodo che va dall’attacco alle Torri Gemelle (2001) alla “normalizzazione” politicoistituzionale in Iraq (2006) – muove anche critiche pesanti e senza appello nei confronti della impreparazione degli USA ad affrontare attentati e disastri di quella portata e esplicita lo sconcerto da lui provato di fronte all’assenza di un comando unificato in grado di gestire la situazione, ma anche – e soprattutto – di fronte alle notizie di segnalazioni pervenute ai servizi segreti e trascurate, “informazioni prese sottogamba, controlli all’acqua di rose […] un lassismo o una superficialità che mi meraviglia. Avevo tutt’altro ricordo della professionalità dei servizi segreti e dell’apparato militare americano” (pag. 38). Quello che resta al lettore sono però soprattutto  le  immagini,  quasi  fotografie,  che  Radicati  ci  restituisce,  con  quella capacità di cogliere e fissare dettagli e emozioni che ben ha dimostrato anche nella creazione di quelle tele (oggetto di una recente mostra romana) in cui ha impresso

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ricordi e sentimenti di quei giorni: ad esempio, quella di  un popolo traumatizzato, per aver improvvisamente e inaspettatamente perso il proprio senso di sicurezza e la convinzione di poter gestire in prima persona il proprio destino, senza interferenze esterne e, quasi specularmente, quella di una città resa più umana: “mi accorgo che, diversamente dal solito, le persone si guardano negli occhi, come se vi cercassero calore, simpatia, affetto. compassione, tristezza, pietà formano in questo frangente un patrimonio comune che dà sostegno alla speranza. Li vedo come reduci da un diluvio di proporzioni bibliche. Tutti a bordo di una gigantesca arca di Noè […] tutti animati dal desiderio di remare nella stessa direzione, per raggiungere al più presto la terraferma e riprendere il filo di una vita normale” (pag.36). Graziella Gaballo

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Annamaria Rivera, La bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo,  Roma, Ediesse, 2010; pagg. 193, € 12,00. In questo libretto – che inaugura la collana sessismoerazzismo, edita in collaborazione con l’Associazione cRS e curata da Lea melandri, Isabella peretti, Ambra pirri e Stefania Vulterini – l’autrice mette a confronto sessismo, razzismo e specismo (rispettivamente,  superiorità  del  maschio  sulla  donna  e  sugli  altri  sessi;  superiorità dell’uomo bianco e cristiano su tutte le altre razze; superiorità della specie umana su tutte le altre, animali o vegetali che siano)  visti come declinazioni di un unico modello di dominazione,  che si propaga in campi diversi,  ma sempre attraverso le stesse modalità. Nel cercare di comprendere quei fenomeni che hanno portato a trasformare disuguaglianze storiche e sociali in differenze essenziali, naturali e perciò immutabili e di capire come l’invenzione delle razze umane abbia condotto a immaginare l’umanità divisa in unità biologicamente distinte, Annamaria Rivera individua in questi atteggiamenti alcuni aspetti comuni: l’attribuzione agli “altri” di una natura diversa che ne  sancirebbe l’inferiorità e li predisporrebbe a essere dominati; la naturalizzazione di una presunta inferiorità;  la costruzione, basata su elementi pretestuosamente biologici, di gerarchie e relazioni di potere. Se è vero che l’identità si forma soprattutto attraverso una logica di negazione, per cui percepiamo di appartenere a una comunità solo ragionando secondo le categorie “noi” e “glialtri”, ciò non significa infatti  che sia legittimo strumentalizzare la diversità altrui per creare gerarchie arbitrarie;  e sancire la superiorità di un sesso, di una razza o di una specie su di un’altra è possibile solo attraverso due operazioni: la degradazione delle differenze altrui o l’at-

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tribuzione all’altro di un potere mostruoso e  sovversivo, tale da giustificarne la repressione. Di questi sistemi di dominio, Rivera analizza analogie e intrecci, peculiarità e divergenze, esemplificando l’analisi dei processi di alterizzazione e reificazione attraverso alcuni temi: la dialettica fra razzismo istituzionale e xenofobia popolare; il trattamento dei corpi altrui, fino agli stupri “etnici”; le controversie sul “velo islamico” e sulle modificazioni dei genitali femminili. Interessanti, in particolare, l’analisi del neorazzismo in Italia e la presa di posizione dell’autrice nei confronti di certo femminismo francese e anche italiano che condanna le usanze “islamiche” alla luce di una emancipazione occidentale e che, di fatto, chiede alle immigrate una integrazione a un Occidente pensato come universale. Del primo, analizza i vari aspetti, le varie “strategie” attraverso cui esso si costituisce e rafforza – dalla esclusione alla espulsione o segregazione permanente alla inclusione differenziata e strumentale per badanti o per inserimenti di manodopera in lavori rifiutati dagli italiani e sottopagati – sottolineando come esso stigmatizzi il fenomeno della paura dell’Altro/a, in una sorta di identitarismo che cerca sicurezza in un “noi” corporativo e situato nell’ideologia delle piccole patrie; rispetto al secondo tema, invece, l’antropologa problematizza la lettura delle mutilazioni genitali femminili che vanno abolite, secondo lei, in accordo con le donne che le hanno finora praticate,e non demonizzate dall’esterno, mentre esprime –  come già aveva fatto in La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche sull’alterità (2005) – una dura critica nei confronti delle leggi contro il velo (e delle loro sostenitrici) che rappresentano per lei l’esempio più lampante della introiezione di una pretesa superiorità eurocentrica e occidentale. A questi atteggiamenti, la Rivera contrappone il relativismo, che permette di costruire un’altra idea di universalità, che consideri e rispetti le differenze di tutti senza che queste diventino motivo di confronto e non di esclusione.

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Graziella Gaballo

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Judaica a cura di Aldo perosino

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Arbib G. - Secchi G., Italiani insieme agli altri. Ebrei nella Resistenza in Piemonte. 1943-1945, Torino,  Zamorani, 2011; pagg. 248, € 26. Noi c’eravamo. Nonostante le persecuzioni e il terrore. Sfidando la deportazione e la minaccia di distruzione di ogni valore umano, gli ebrei italiani sono stati protagonisti della Resistenza assieme e al pari di tanti altri cittadini che vollero lasciarci un’Italia  migliore. La partecipazione ebraica alla lotta di Liberazione, a lungo trascurata dagli storici ufficiali, spesso messa in ombra dalla tragedia delle deportazioni, torna ora alla luce con la pubblicazione del libro di Gloria Arbib scritto assieme al giornalista Giorgio Secchi, che rappresenta la conclusione di un lungo itinerario di impegno. centosettantaquattro voci, un centinaio di interviste ai testimoni, le storie di tanti ebrei piemontesi che in un modo o nell’altro si gettarono nel combattimento, furono trascinati dagli eventi sempre più drammatici che seguirono l’8 settembre, spesso pagarono il prezzo più alto, talvolta riuscirono a sopravvivere, a essere protagonisti della ricostruzione e della democrazia. Un paziente lavoro di ascolto e di documentazione intrapreso agli inizi degli anni Ottanta, nato sulla base della tesi di laurea dell’autrice (allora ricercatrice al centro di documentazione ebraica contemporanea di milano, oggi Segretario generale dell’Unione delle comunità Ebraiche Italiane). Assieme a quella di tanti comuni cittadini, torna la voce di primo Levi:  “antiretorico – commenta l’autrice – anche nel raccontare i momenti più drammatici”, di Luisa, nipote del leader socialista claudio Treves e sorella del pittore carlo Levi, che a 98 anni parla dalla casa di riposo ebraica di Torino, della moglie del magistrato Emilio Sacerdote e dell’impiegata carmela mayo, che a pasqua portava uova colorate a tutti i combattenti e azzime ai partigiani ebrei. “Un panorama quanto mai complesso – spiega Gloria Arbib – per raccontare le vicende di persone diverse, spinte ad accettare la sfida dalla passione ideologica, dai casi della vita, dai valori ebraici, dal senso civico o anche semplicemente dalle persecuzioni che non lasciarono scelta neppure a quegli ebrei italiani che ingenuamente confidarono nel fascismo”. Ne esce un quadro di personalità molto diverse una dall’altra: dal militante fascista che si è sentito tradito dall’antisemitismo di regime, al comunista o socialista o liberale o repubblicano che si è esposto combattendo fin dall’inizio; da chi si è riscoperto ebreo con le leggi razziali, a chi attingeva l’antifascismo dal proprio background culturale o religioso. come scrive Alberto cava-

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Avagliano m., palmieri m., Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia, Torino, Einaudi, 2011; pagg. 350, € 15. La persecuzione degli ebrei in Italia, dalle leggi razziali del 1938 al ritorno dei pochi sopravvissuti dai campi di sterminio tra il 1945 e il 1946, raccontata per la prima volta attraverso la viva voce delle vittime, e “registrata” giorno per giorno in centinaia di lettere e diari per lo più inediti dell’epoca. Si tratta di un’ampia scelta di testimonianze coeve, frutto di un accurato lavoro su documenti poco esplorati:

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glion nella prefazione, questo libro “è estremamente utile: ci aiuta a misurare l’intensità di un percorso di ritorno all’ebraismo compiuto con velocità supersonica [...]. La ricerca si presenta dunque come uno strumento di lavoro: una sorta di dizionario biografico, che diventerà utilissimo per i ricercatori di domani”. ma il libro pone anche interrogativi interessanti che forse solo in futuro potranno essere risolti. Sempre citando cavaglion: “Durante la Resistenza che cosa sapevano e, soprattutto, che cosa pensavano i partigiani dei loro compagni di banda ebrei? E quale atteggiamento avevano di fronte ad essi i comandanti partigiani, i commissari politici, i singoli esponenti di questa o quell’altra formazione?” La storiografia, infatti, si è finora concentrata soprattutto sugli aspetti organizzativi, politici e militari della guerra partigiana senza occuparsi della specificità della partecipazione degli ebrei alle formazioni armate che pure è stata comparativamente di tutto rilievo. L’esigenza di analizzare invece questo aspetto è dovuta molto probabilmente soprattutto alla volontà di capire quali legami e quanto forti vi erano tra la cultura ebraica e quella liberale, democratica e antifascista e quanto la prima sia stata determinante nella scelta di gran parte di queste persone, perché è indubbio che la percentuale di partecipazione degli ebrei nella Resistenza è stata ben più alta di quella del resto dei concittadini e poi anche il livello di integrazione degli ebrei tra la popolazione locale e la loro volontà di riaffermare il senso di appartenenza all’Italia, nonostante l’antisemitismo dei secoli precedenti e quello contemporaneo del regime. “Questo libro – aggiunge – è anche un atto di giustizia verso tutti coloro che offrirono la propria testimonianza. Non volevo confinarli in un saggio storico, ma documentare rigorosamente le loro vicende perché si sappia che nell’ora più difficile gli ebrei non restarono inerti”. Un mosaico prezioso per raccontare quante differenze e quante speranze racchiuda la vicenda degli ebrei italiani. E per ricordare che a tenere alto l’onore dell’Italia nell’ora più difficile, nonostante il dolore, per eroismo o per destino,  gli ebrei fecero la loro parte.


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il libro propone la cronaca della persecuzione così come fu registrata giorno dopo giorno dagli stessi ebrei, cioè coloro che subirono le leggi razziali, gli arresti, le deportazioni e spesso pagarono con la vita. I brani sono stati suddivisi tematicamente e cronologicamente per consentire di ripercorrere l’intera storia della persecuzione antiebraica in Italia tra il 1938 e il 1945, dalla campagna di propaganda antisemita all’emanazione delle leggi razziali, dall’internamento sotto il fascismo alle razzie e agli arresti sotto la Repubblica sociale italiana, dalla fuga in clandestinità al concentramento nei campi italiani, dalla deportazione nei campi di sterminio al ritorno dei sopravvissuti. Un affresco storico che assume un significato particolare anche perché costituito di parole scritte dalle vittime di una persecuzione e di un crimine che il nazifascismo voleva mettere a tacere ed annientare, e che invece sono arrivate fino a noi, lasciandoci traccia tangibile, prova storica inconfutabile e memoria indelebile di ciò che è stato. “In questo libro – ha spiegato Avagliano – sono raccolte le lettere e brani tratti dai diari di circa 150 autori. Si tratta di materiale raccolto negli istituti storici, nelle comunità ebraiche, ma anche attraverso privati, cioè i pochi sopravvissuti dei campi di sterminio e i familiari delle vittime e dei perseguitati nei sette anni che vanno dal 1938 al 1945”. “La novità” – ha aggiunto – “è che per la prima volta si guarda a quel periodo attraverso le parole delle vittime e non dei persecutori. È come entrare nella camera segreta dei pensieri degli ebrei di quegli anni e vedere le loro paure, speranze e terrore di fronte all’incancrenirsi della situazione. Tra i vari scritti é presente anche il diario del palermitano Antonino Biganti, che trovandosi a Roma, racconta della retata del 16 ottobre 1943 in cui furono presi 1022 ebrei e solo 17 di loro tornarono a casa. Insomma e’ un tentativo di ritornare ai documenti e di dimostrare che quello del “fascismo buono” è soltanto un mito. ci sono responsabilità nazionali che fatichiamo ad assumerci. per questo io vorrei proporre una nuova data della memoria, il 17 novembre, data in cui furono emanate le leggi razziali, sulla scia della ‘giornata nazionale della vergogna’ francese del 16 luglio.” “Ricordare” –ha concluso Avagliano – “serve ad evitare che ciò che è stato, riaccada: oggi in Italia ci sono circa 1200 siti antisemiti censiti dalla polizia postale e questo significa che il rischio razziale c’è ancora”.

Avey D., Auschwitz. Ero il numero 220543, milano, Newton comton, 2011; pagg. 288, € 12.90. Nel 1944 Denis Avey, era un soldato britannico che stava combattendo nel Nord Africa, fu catturato dai tedeschi e spedito in un campo di lavoro per prigionieri. Du-

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rante il giorno si trova a lavorare insieme ai detenuti del campo vicino chiamato Auschwitz. con loro spartiva gli stenti, ma non le esecuzioni sommarie; quegli uomini ombra con l’uniforme a righe e il volto terreo morivano di continuo, ammazzati a calci e bastonate o stroncati dallo sfinimento. “ Ero tormentato dal bisogno di sapere di più. Un uomo a righe mi aveva detto: tu che un giorno tornerai a casa, racconta. E quella supplica mi era entrata nel cervello”. Inorridito dai racconti che ascolta, Denis è determinato a scoprire qualcosa in più. così trova il modo di fare uno scambio di persone: consegna la sua uniforme inglese a un prigioniero di Auschwitz e si fa passare per lui. Uno scambio che significa nuova vita per il prigioniero  mentre  per  Denis  segna  l’ingresso  nell’orrore,  ma  gli  concede  anche  la possibilità di raccogliere testimonianze su ciò che accade nel lager. Quando milioni di persone avrebbero dato qualsiasi cosa per uscirne, lui, coraggiosamente, vi fece ingresso, per testimoniare un giorno la verità. La storia è stata resa pubblica per la prima volta da un giornalista della BBc, Rob Broomby, nel novembre 2009. Grazie a lui,  Denis ha potuto incontrare la sorella del giovane ebreo che salvò dal campo. Nel marzo del 2010, con una cerimonia presso la residenza del primo ministro del Regno Unito, è stato insignito della medaglia come “eroe dell’Olocausto”.

Una storia poco nota, ancora in buona parte da ricostruire. È la storia degli ebrei in Albania durante il periodo fascista di cui si occupa il lavoro curato da Laura Brazzo e michele Sarfati presentato alla stampa nell’ambito delle attività del mese della memoria, organizzate dall’assessorato regionale al mediterraneo della Regione puglia. ma quanti erano gli ebrei presenti in Albania nel periodo fascista? “Sui duemila circa, ma non è facile fare una stima precisa” risponde il direttore del centro documentazione ebraica contemporanea di milano, michele Sarfati. Nel ‘39 segue poi un flusso di ebrei tedeschi e austriaci che convergono in Albania, nel ‘41 un’altra migrazione dalla Serbia e nel ‘43 altri profughi dalla macedonia. La puglia in questo periodo ha fatto da fronte a questi esodi sia in andata da Bari verso l’Albania, allorché gli ebrei venivano espulsi dall’Italia, che in senso opposto. A partire dal ‘41 infatti giungono i profughi ebrei dall’Albania e molti finiscono in calabria. poi nel ‘44 con la liberazione dell’Albania dai tedeschi, un’altra ondata di profughi giunge in puglia, si ferma nei campi italiani gestiti dagli Alleati per poi andare in America o in palestina. Si tratta di una storia in gran parte da ricostruire. Negli ar-

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Brazzo L., Sarfatti m., Gli ebrei in Albania sotto il fascismo Una storia da ricostruire, Firenze, Giuntina, 2011; pagg. 198, € 15.


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chivi albanesi ci sono migliaia di documenti in italiano, albanese e tedesco. Argomenti che vanno studiati per inserire le vicissitudini degli ebrei albanesi nella storia più ampia della Shoah. marcou-Baruch J., Un ebreo garibaldino, pisa, BFS edizioni, 2009; pagg. 120, € 10. Gli Appunti di un garibaldino furono scritti da Josef marcou-Baruch nel 1897, in occasione della guerra greco-turca alla quale partecipò come giovane volontario tra i garibaldini guidati da Ricciotti Garibaldi. Di piacevole lettura e di significativo valore storico, le pagine di marcou-Baruch contribuiscono a ricostruire l’atmosfera di un secolo segnato dall’affermarsi del nazionalismo nel nome della libertà dei popoli, e sono preziose per indagare ulteriormente quel modello di volontariato internazionale che fu il garibaldinismo. come molte altre “camicie rosse” accorse a ingrossare le fila dell’epopea garibaldina (socialisti e anarchici, liberali e repubblicani, nichilisti e rivoluzionari) marcou-Baruch combatteva per un ideale di libertà che guardava all’autodeterminazione dei popoli, ma da un punto di vista particolare. In Grecia il sostegno a un popolo che lottava per la propria indipendenza si collegava in lui alle idee del nascente sionismo. Un movimento che affermava, in una Europa attraversata da un forte sentimento antisemita, il diritto a una patria anche per gli ebrei.

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Quercioli mincer L., Centouno storie ebraiche che non ti hanno mai raccontato, Newton compton, Roma, 2011; pagg. 221, € 14,90. Attraverso brevi racconti vengono tratteggiati i diversi aspetti dell’ebraismo. Leggende tratte dal Talmud, aneddoti bizzarri e racconti di vita vissuta che contribuiscono a illuminare angoli poco noti di una cultura plurimillenaria che non può essere identificata soltanto con la Shoah e la persecuzione, ma con la ricchezza mutevole e vitale di un grande albero dalle molte fronde. Dalla Roma imperiale, dove gli ebrei chiedevano consiglio a una misteriosa “matrona”, alla Venezia del cinquecento, dove venne alla luce il massimo capolavoro della letteratura yiddish antica. Dalla mantova dei Gonzaga, dove Leone de’ Sommi dirigeva lo splendido teatro della corte, alla metà dell’Ottocento, quando il vate polacco Adam mickiewicz tentava di dar vita a una Legione Ebraica che avrebbe combattuto a fianco dei polacchi per la creazione di una polonia democratica, all’epopea risorgimentale fino alla Sarajevo assediata nella terribile guerra jugoslava, dove l’ebraica Benevolencija era

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l’unica organizzazione a offrire aiuto a membri di ogni etnia e religione. curiosità, miti e storie, antiche e moderne, di un popolo leggendario.

Severino G., Dalla vetta d’Italia all’abisso di Auschwitz, Firenze,  Giuntina, 2011; pagg. 117, € 10.

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Nel dramma umano, civile, storico generato dalle leggi razziali, una nuova storia si aggiunge alle migliaia di piccole storie ingiustamente dimenticate. Grazie al capitano della Guardia di Finanza Gerardo Severino viene alla luce la biografìa di Elia Levi, un giovane ebreo piemontese che aveva posto nella Guardia di Finanza le sue aspettative di uomo libero e di soldato. Elia, nato a Saluzzo (cuneo) nel 1912, era figlio primogenito di marco, un infaticabile tranviere di idee socialiste, e di Gemma colombo. Abile incisore e tipografo, aveva appena terminato la 4ª classe ginnasiale quando decise di cambiar vita per intraprendere la carriera militare nella Guardia di Finanza. Fu così che nel 1931, dopo aver superato le prove d’arruolamento, fu ammesso a frequentare il corso d’istruzione a Roma. In Finanza, Elia prestò servizio per circa otto anni, spesso anche in luoghi impervi, come la bellissima “vetta d’Italia”. Il 15 febbraio 1939, posto in congedo assoluto a causa delle leggi razziali fasciste, il giovane fece ritorno a Saluzzo, dove riprese il suo precedente lavoro di tipografo. condivise così, unitamente alla sua famiglia, il tragico destino ai quali furono condannati tanti altri ebrei italiani. catturati a Saluzzo nel gennaio del 1944, Elia, sua madre Gemma e le sorelle Eleonora e Regina furono dapprima internati a Borgo San Dalmazzo e in seguito deportati ad Auschwitz, dove giunse qualche mese dopo anche il padre marco. passeranno tutti per il camino, lasciando a noi solo il ricordo della loro vita e l’anelito per la libertà e la giustizia.

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