Il cinema di Todd Solondz

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NICOLO’ BARRETTA ANDREA CHIMENTO PAOLO PARACHINI

ALLA RICERCA DELLA (IN)FELICITA’ IL CINEMA DI TODD SOLONDZ

EDIZIONI

FALSOPIANO

NICOLO’ BARRETTA ANDREA CHIMENTO PAOLO PARACHINI

PaolaBoioli

Introduzione di Alberto Pezzotta

Andrea Chimento (1985) è dottorando in Culture della comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano, si è laureato al DAMS di Torino. Scrive su “Il Sole 24 Ore”, su “Cineforum” e su diverse altre testate e blog on-line. Per Falsopiano ha pubblicato, con Paolo Parachini, Shinya Tsukamoto-Dal cyberpunk al mistero dell’anima. Paolo Parachini (1985) dopo la laurea ha conseguito il diploma del Master in Progettazione e comunicazione del cinema all’Università Cattolica di Milano. Realizzatore di cortometraggi, si interessa d’arte e di fumetti, ed è autore di diversi saggi. Ha vinto premi di critica e saggistica e collabora con siti e blog in qualità di critico cinematografico. Attualmente lavora come producer per Sky Cinema. www.falsopiano.com/solondz.htm

ISBN 978-8889782453

€ 19.00

NICOLO’ BARRETTA ANDREA CHIMENTO PAOLO PARACHINI

Nicolò Barretta (1986) è laureato in Filologia Moderna e ha conseguito il Master in Comunicazione e Promozione del cinema. Collabora con “La Voce di Mantova” e per il trimestrale “Look Lateral”, del quale è anche redattore. Ha collaborato con “Film Tv” e con il programma di Tv 2000 Il Grande Talk.

ALLA RICERCA DELLA (IN)FELICITA’ IL CINEMA DI TODD SOLONDZ

Cinico, dissacrante, spietato, satirico: così (e in tanti altri modi) è stato definito Todd Solondz, e il suo cinema, nel corso di oltre vent’anni di carriera. Nato nel New Jersey nel 1959, Solondz è considerato uno dei principali cantori di vizi (tanti) e virtù (poche) della società americana contemporanea. Da Fuga dalla scuola media a Dark Horse, passando per Happiness e tanti altri titoli, Solondz ha costruito un inarrestabile mosaico di personaggi che si spostano dall’una all’altra pellicola: un curioso corto circuito davvero unico nel cinema contemporaneo. Questo libro considera l’opera complessiva del regista - e ciò che vi ruota attorno - in tre macrosezioni: la prima analizza il contesto, produttivo e mediatico, in cui il regista lavora; la seconda è incentrata sulla sua vita e sulla componente autobiografica presente nei suoi lavori; la terza affronta le tematiche principali della sua poetica, dal rapporto tra finzione e realtà alle zone d’ombra che si annidano dietro alle grandi facciate delle ville austere della borghesia statunitense. Chiude il volume un’inedita lunga intervista-conversazione con il regista.

ALLA RICERCA DELLA (IN)FELICITA’ IL CINEMA DI TODD SOLONDZ EDIZIONI FALSOPIANO


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FALSOPIANO

CINEMA


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EDIZIONI

FALSOPIANO


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Un sentito ringraziamento ad Alberto Pezzotta e Jordi Costa per la loro enorme disponibilità; a Courtney Noble, Martin McNamara, Marzia Milanesi e tutti coloro che ci hanno permesso di avere Solondz tutto per noi durante la Mostra di Venezia 2009; a Giulia Carluccio per il sostegno nel tentativo di approfondire il cinema di Todd Solondz; a Laura e Paola Marletta per la buona riuscita dell’intervista; a Camilla Maccaferri per un’impagabile collaborazione, e a tutti quelli che, con grande pazienza, hanno atteso l’uscita di questo libro.

L’immagine di copertina è di Daniel Clowes (locandina di Happiness).

In collaborazione con RC San Donato Milanese Distretto 2050 del Rotary International

© Edizioni Falsopiano - 2011 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini Prima edizione - Dicembre 2011


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INDICE Prefazione di Alberto Pezzotta

p. 7

Solondz: il mio cinema

p. 9

Parte prima - L’industria e il contesto

p. 15

1 - Il cinema indipendente americano 2 - Distribuzione 3 - La postmodernità 4 - Solondz nella carta stampata: comics and novels

p. 17 p. 33 p. 39 p. 51

Parte seconda - L’uomo

p. 65

5 - Biografia e festival 6 - Autobiografismo 7 - Omaggi e citazioni

p. 67 p. 71 p. 77

Parte terza - Il cinema

p. 81

8 - I film e i loro sviluppi narrativi 9 - I titoli 10 - La realtà della finzione 11 - I personaggi 12 - La famiglia 13 - L’adolescenza, la crescita 14 - Sessualità 15 - La società 16 - Zone d’ombra 17 - La vita durante il tempo di guerra 18 - Una scommessa per il futuro (?)

p. 83 p. 93 p. 97 p. 109 p. 117 p. 129 p. 141 p. 149 p. 161 p. 173 p. 181

Conversazione con Todd Solondz

p. 187

Schede dei film

p. 192

Bibliografia essenziale

p. 196


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Prefazione di Alberto Pezzotta

Quanti film ci vogliono per diventare un autore? A volte uno solo. E quanti per meritare una monografia? Todd Solondz ha sette lungometraggi alle spalle, e si sono scritti “Castori” su registi dalle filmografie più esigue e oscillanti. Quindi ben venga questo libro a sei mani o tre teste, che in realtà ha avuto una gestazione piuttosto lunga, e ha aspettato saggiamente che l’autore avesse finito un nuovo film, Dark Horse. Nel frattempo due dei giovani coautori hanno avuto anche il tempo di essere premiati al più prestigioso concorso nazionale per critici inediti, quello alessandrino intitolato ad Adelio Ferrero, e uno di essi ha avuto modo anche di dichiarare sul palco che Todd Solondz gli ha fatto nascere la passione per il cinema, più o meno. Considerazioni generazionali a parte (ai miei tempi si veniva folgorati adolescenti da Taxi Driver, e non risalgo oltre), fa pensare che un regista così possa suscitare vocazioni. Un regista così sgradevole e poco modaiolo, così scomodo e fatto per mettere a disagio. Non è un visionario come Lynch, non è (malgrado tutto) un maledetto come Ferrara (e infatti Solondz è schivo e concreto, non crea alcuna leggenda di se stesso), non è un manipolatore citazionista e postmoderno come Tarantino. È un cinquantenne con l’aria da eterno nerd che, con tono molto piano (un po’ troppo piano per essere classico, magari), racconta cose terribili. Uno che mette in risalto le cose peggiori della vita, la fondamentale crudeltà degli individui, specie nel rapporto di coppia. Uno che sbatte in faccia cose di cui di solito non si parla, dalla pedofilia all’aborto di minorenni. Un regista di contenuti? Non ci sarebbe nulla di male, per quanto mi riguarda, anche se la sola fissità innaturale del suo cinema basterebbe a definire uno stile. Ma il saggio che state per leggere mostra che c’è molto più. Si parla infatti del contesto, che viene intelligentemente ricostruito sia negli aspetti produttivi sia nelle sintonie con altre forme espressive (come il fumetto indie, un campo di ricerca che mi sembra venga qui esplorato per la prima vota da studiosi di cinema). Si parla del tessuto culturale del regista: che va da Beckett a Hitchcock (e allora saltano fuori sintonie impensate, omaggi mai banali, che servono a capire meglio questo autore così riconoscibile e imprendibile). E soprattutto si parla di modi di raccontare, di nodi tematici che sono anche strutturali: che si tratti di ossimori o di rapporto tra finzione e realtà. E alla fine viene un dubbio: 7


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che l’autore di Palindromi (tanto per citare il suo film che per l’originalità esorbitante più avrebbe potuto e dovuto diventare un piccolo classico, e invece hanno visto in pochi) sia un sottovalutato. In un libro così privo di ego, mi sia concesso di ricordare, in coda, la mia prima volta solondziana. Dopo avere involontariamente ignorato il primo film Fear, Anxiety and Depression (poco amato dallo stesso regista: ma di questo leggerete meglio nelle pagine che seguono) e dopo avere volontariamente saltato il primo titolo arrivato da noi, Fuga dalla scuola media (che stupidamente scambiai per una bufala da Sundance Festival), nel 1998 mi imbattei in Happiness nelle salette del Mifed milanese. Ed ebbi l’impressione di qualcosa di mai visto finora. Fu uno shock; e ricordo, qualche mese dopo, il gelo del pubblico al Teatro Greco di Taormina, di fronte a una proiezione su schermo gigante. Forse il cinema di Solondz non va visto su grande schermo, ma appartati, su qualche video casalingo. Anche se preferibilmente in compagnia, per meglio misurare il proprio disagio. Se non si ha il coraggio di farlo, se si è soli come uno dei personaggi di questi film, se si vuole portare conforto a compagni di visione sconvolti, dopo va consultato il libro di Nicolò Barretta, Andrea Chimento e Paolo Parachini. Anche per capire come Todd Solondz, a suo modo, non sia una persona infelice.

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Solondz: il mio cinema

Materiale raccolto da varie interviste rilasciate dal regista

Sul pubblico Alcune persone di certo mi accuseranno di misantropia e cinismo. Io non posso né celebrare né accusare l’umanità. Voglio solo esporre certe verità. Penso che la gente abbia molti problemi pensando a cosa io cerchi di fare. In particolare, la gente è confusa nel capire la mia posizione rispetto ai miei personaggi e, molto spesso, questo ha portato a credere che voglia beffarmi di loro. Fin dall’uscita di Fuga dalla scuola media, ogni qualvolta esce un nuovo film con personaggi caratterizzati come “spiacevoli” o grotteschi o che sono umiliati in qualche maniera, qualcuno è sicuro di poterli paragonare ai miei. Una cosa voglio dire: non amo le storie di vittime e non le scrivo. Ad esempio, non ho mai visto Dawn Wiener, la protagonista di Fuga dalla scuola media, come una vittima, o inteso Fuga dalla scuola media come una storia di vittime. C’è un’incomprensione di fondo tra me e parte dei miei spettatori. Per essere onesti, sono spesso turbato dalle opinioni che alcune persone hanno avuto di fronte ai miei film, e ciò include molte persone a cui piacciono. Può esserci una linea confusa tra il ridere a scapito di un personaggio e il ridere al riconoscimento di qualcosa di penoso e vero. Ma per quanto vaga possa essere, essa è tuttavia evidente e, qualche volta, la persona che sento ridere, mi fa sussultare. “Perché lei gira film su persone così ripugnanti?” mi è stato chiesto. Beh, io non le vedo così sgradevoli. E questo è il perché, all’epoca dell’uscita di Storytelling, io ho detto: “I miei film non sono per tutti, specialmente per le persone che li gradiscono”. Un’altra cosa sfortunata è il modo in cui alcune persone mi vedono analizzare i miei personaggi: senza cuore, a sangue freddo, in modo analitico, quando in verità fare questi film è una esperienza passionale e suscita intense emozioni. Sono distaccato dai miei personaggi solo perché così posso scrivere su di loro onestamente. Ammetto che ci sia un elemento di brutalità in ogni mio lavoro - è una parte della verità sull’esistenza umana che voglio sempre esplorare - ma l’ultima cosa che cerco di fare è di mettere in scena qualcosa come uno spetta9


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colo di mostri, invitando la gente a liberarsi sul dolore e l’umiliazione di altre persone. Molte persone pensano che i miei film non provengano da sentimenti positivi, ma dai sentimenti più profondi di amarezza e cinismo e ostilità.

Sulle storie Come tutto, ciò che costringe a mettere la penna sul foglio è una gran questione. Nel senso che non è divertente. Non lo so, e non voglio essere evasivo e codardo a proposito di queste cose. Scrivo da quando leggo. Non è una cosa nuova per me. Ci sono cose là fuori a cui è difficile non rispondere. Viviamo in un paese, certamente i soli al mondo così lontani da ciò che mi spaventa, dove abortisti sono assassini e le cliniche piene di droga. Dove essere un abortista è come diventare un poliziotto o un vigile del fuoco. È una professione da eroi, dove metti la tua vita in prima linea. […] C’è stato un assassino di un abortista, di cui ho letto, che quando è stato catturato la comunità si è riunita attorno a lui, mostrando solidarietà verso la sua difficile situazione. Questo sottolinea una delle profonde verità della natura umana, cioè che tutti dobbiamo credere di essere brave persone. Non voglio contestare, ma certamente esaminare il modo con cui l’uomo che ha ucciso l’abortista immagina se stesso combattere una giusta causa, salvando un milione di bambini mai nati. Stalin, sul suo letto di morte, ha pensato di essere stato fondamentalmente una brava persona. Narcisismo e autoinganno sono meccanismi di sopravvivenza senza i quali molti di noi potrebbero gettarsi da un ponte. Penso che tutto questo nutra l’impulso di lavorarci sopra. In un certo senso, voglio dire, realmente il processo di realizzazione di un film è veramente più che un processo di scoperta. È un mistero cosa ti fa mettere la penna sul foglio. [..] Così cosa mi ha spinto a seguire questa storia? In un certo senso non scelgo la storia, ma la storia sceglie me. Potrei avere altre idee magari più commerciali, lasciatemelo dire, ma mi sento proprio costretto dalla storia stessa a darle una vita tutta sua, per proseguire un certo tipo di storie, e devo essere sincero verso questo impulso. Certamente, avrei potuto avere una carriera di maggior successo se non avessi fatto quello che ultimamente ho voluto fare. Ma voglio ritornare sulla questione dello humor. È vero, voglio averlo in 10


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entrambi i modi. Finora, almeno, non ho trovato la maniera di raccontare il mio tipo di storie senza farle insieme tristi e felici. E la commedia nei miei film - tra le altre cose, mi consente di trattare con ciò che è vietato. Quando parte di ciò che cerchi di raggiungere è la verità nascosta da tabù, o quando vuoi smascherare l’ipocrisia, la risata è un’arma molto utile. Voglio mostrare il lato doloroso dell’esistenza, ma, nel contempo, voglio far ridere le persone.

Sull’essere regista La ripresa, l’atto di produrre, è realmente il periodo più stressante per me. [...] è sempre qualcosa che ti aggredisce, che psicologicamente ti toglie le energie, ed è denso di ogni sorta dei compromessi che fanno parte del lavoro. Alcune persone hanno un carattere “da regista”. Per quanto mi riguarda, io non penso di essere nato per fare il regista. Non sono un regista perché vorrei esserlo. È più che non volere qualcun altro a dirigere le mie cose; se questo qualcuno andrebbe a sbagliare, preferisco sbagliare io. Alcune persone sono eccitate dal potere che immaginano avere un regista sul set. A me non da nessun piacere - non ho personalità per queste cose. Sono completamente assorto nel processo in divenire, ma molto poco del tempo può essere speso con gli attori per dirigerli. La maggior parte del mio tempo lo occupo risolvendo ogni sorta di problema logistico, come la preparazione delle location che dovremmo usare il giorno dopo o constatando come la realtà economica ti abbatte quando fai qualcosa di artistico. Non sono il regista ideale, ma non ho ancora trovato un’alternativa.

Sull’autoproduzione C’è un certo vantaggio. Non hai un capo, ma è una dose extra di stress. Mentre stai facendo il film, non c’è nessuna rete di protezione.

Su Palindromi Sono fiducioso nei confronti del pubblico, perché se tu predisponi una serie di regole, anche se sono regole molto strane, e se tu le rispetti, la gente le accetterà. Primo, potrebbero non capire perché Aviva è una piccola bambina di colore e poi è una domenicana, e dopo ha i capelli rossi. Ma vedi che c’è un motivo, 11


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e devi solo andare avanti con l’esperienza perché la narrazione è molto semplice, molto tradizionale e molto convenzionale in vari modi. È vero che il film è tra i miei il più connotato politicamente. La storia si è messa in moto dall’idea di cosa faresti se la tua figlia tredicenne rimanesse incinta. E non è solo incinta, ma vuole tenere il bambino. È una specie di dilemma impossibile. Per molti una proposizione sempre in perdita. Il film non è dogmatico. Non vuole predicare una posizione pro aborto o pro vita o simili. Ma piuttosto esplora alcune delle dimensioni morali di ciò che significano certi tipi di convinzione. Cerco di forzare il pubblico, in qualche modo, di riassettare o rivalutare alcuni pre concetti e miti con cui viviamo.

Su Storytelling Vuoi sempre fare qualcosa di differente - trovare una struttura nuova, una nuova forma e un differente modo di affrontare le cose, come se avessi di fronte del materiale geografico. Inizialmente, avrei voluto fare un college movie, pensavo a Carnaval Knowledge, e poi ho anche pensato a Full Metal Jacket, ma solo in termini di struttura, nel senso di un prologo corto seguito da una parte più ampia. Ciò che ho trovato dopo aver scritto la prima parte, “Fiction”, è stato che non volevo fare un seguito. Non ero interessato a farlo. Ho voluto invece cercare qualcosa che partisse da un’idea simile, o con le medesime tematiche, ma da un differente angolo, con una diversa storia, diversi personaggi e così via, così che, alla fine, avrebbero dovuto rappresentare due lati di una stessa medaglia. Per alcuni, la connessione tra qualcosa di obliquo, ma per me, è molto più che un film.

Sugli attori L’audizione è la prova. Con alcuni di loro parlo abbastanza, se la parte è delicata e richiede una certa attenzione in termini di sensibilità e coraggio così sono sicuro che si sentano bene rispetto a quello che devono fare. Sono sempre affascinato da quello che fanno gli attori, quando prendono due settimane di prova. È così faticoso, ma mi meraviglio di come vogliano farcela comunque. Ho paura di scoprire un po’ come fanno. I miei attori non improvvisano molto, va bene quello che c’è sullo script.

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Sui finali Non penso che ci sia qualche valore morale nell’essere abbonato a un finale ottimistico o pessimistico. Per me è vicino ad una nota di ambiguità. Non sto cercando di fare un film di buoni sentimenti, e non cerco nemmeno di farne uno di cattivi sentimenti, ma quello in cui spero è di esplorare ed esaminare certe verità a proposito del modo in cui viviamo.

Sulla vita Tutto è questione di contesto. L’ottimismo non è inerente a un metodo superiore di guardare il mondo. Certamente i dottori diranno che è meglio, per la salute psichica, essere ottimisti. Ma, moralmente parlando, questo non può essere appropriato in alcune circostanze. Guarda come sta andando il mondo. Lo leggi giorno per giorno, è la narrativa migliore. Dovremmo esserlo [ottimisti]? Certamente in questo momento tutti i liberali sono terrorizzati. Cosa succederebbe se tra qualche anno ci sarà stabilità politica in Iraq, la Palestina e Israele staranno sviluppando qualche approccio reale di pace... Per me, è necessario spostarsi da contesto a contesto. A proposito di alcune cose, dovrei essere ottimista. Se fossi ottimista questo film mi farà fare 100 milioni di dollari, dovrei, ma a pensarla così credo che mi caratterizzerebbe come qualcosa di simile ad un fallito. Sapete, quando ero giovane e crescevo nei sobborghi, dove non c’era nulla che mi eccitava, nessuna cultura o stimolo, nessuna avventura, pensavo sempre al giorno in cui mi sarei trasferito qui e la mia vita sarebbe stata come questa. Vorrei vivere e lavorare a Manhattan, e accadrebbe sempre qualcosa. E alla fine, a me, non importa molto il teatro, i musei, le gallerie, eccetera. Mi interessa ciò che accade sulle strade, e la vita sulle strade, e l’infinita parata dei diversi tipi di persone, e di come non se ne possa mai avere abbastanza. Sono sempre là e non puoi essere stanco di loro, solo uscire, camminare o sederti e guardarli. Ma quante volte nella vita succede davvero, che sogni qualcosa di magico e si rivela tale? Direi che nei miei film si colgono alcuni aspetti di me che potrebbero essere inafferrabili nella vita reale. Non è voluto. Intendo dire, non ci sono specifiche parti di me che riservo solo per il mio lavoro. Inoltre, tutto ciò che sullo schermo si riferisce a me è criptato e velato, mai esplicito. Si può quindi dire che è ancora inafferrabile o camuffato. 13


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Parte prima

L’industria e il contesto

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1 - Il cinema indipendente americano

«Non sopporto gli intrecci, perché non mi pare che la vita ne abbia. Un inizio, una parte intermedia, o una fine non esistono e mi dà fastidio quando le cose sono così ordinate perfettamente» 1.

Prima di percorrere il nostro viaggio alla scoperta del cinema di Todd Solondz, abbiamo trovato giusto offrire al lettore un breve excursus storico e tematico sul cinema indipendente americano, che costituisce il terreno sul quale sono innestate le opere del regista. L’etimologia del termine “indipendente” è stata caratterizzata da connotazioni piuttosto discordanti nei diversi periodi della storia del cinema americano. Negli anni Trenta significava qualcosa meno della spazzatura 2, alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio dei Sessanta poteva suggerire sia le innovazioni della Nouvelle Vague, sia i film a basso costo di genere fantascientifico e dell’orrore realizzati da Roger Corman per la compagnia indipendente American International Pictures (AIP). Quello fu un periodo cruciale per la cinematografia hollywoodiana: si assistette prima al decentramento dello studio system, con il concentramento delle grandi case di produzione solo sulla distribuzione, e poi alla nascita di case di produzione indipendenti con sede a New York e a Chicago. Ma il fattore rivoluzionario dello stile hollywoodiano si determinò con l’affiorare di una nuova estetica cinematografica che aveva a che fare con l’intero concetto di cinema. Sorse allora l’idea di un cinema d’autore che aveva come caratteristiche principali la descrizione dello smarrimento e della perdita di coscienza che la società dell’epoca stava attraversando, e la riflessione sul cinema in quanto mezzo impotente a garantire e definire una qualsiasi certezza. Si realizzarono perciò opere che cercarono di concretizzare la figura del disagio, l’ideologia dell’assenza, operando una riflessione metalinguistica sui rapporti fra realtà e cinema. Così, dalla metà degli anni Ottanta, il cinema indipendente più artistico e originale, e quello più politicamente impegnato, iniziarono ad acquisire maggior prestigio e una base più solida e istituzionalizzata nell’ampia arena del circuito hollywoodiano. Il cinema divenne lo strumento per affrontare tematiche riguardanti la coscienza personale e per indagare l’universo sociale in tutte le sue forme. Il territorio indipendente del cinema americano è contrassegnato oggi da un’estesa varietà di film, da quelli a bassissimo costo ai più audaci esempi di spe17


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rimentazione formale, da quelli poi di orientamento politico più radicale con una forte originalità tematica, a quelli infine anticonformisti e di culto, per arrivare fino a pellicole più convenzionali ma dotate di una personale cifra stilistica. Il settore in questione ha avuto una grande fioritura negli ultimi vent’anni, con una serie di lavori che si distinguono dalla produzione predominante hollywoodiana, e tra essi vi sono molti dei film più singolari apparsi negli Stati Uniti in anni recenti: è un filone che rappresenta una sfida per Hollywood, anche se ultimamente, grazie all’apporto di alcune industrie indipendenti, si è anche ritagliato uno spazio considerevole nel monopolio commerciale. Alcuni dei maggiori produttori con un passato d’indipendenza, come la Miramax e la New Line, hanno creato fusioni con case di produzione hollywoodiane (rispettivamente Disney e Time Warner), mentre importanti registi dell’area indipendente si sono messi al servizio dell’industria cinematografica. Il modo esatto di definire la nozione d’indipendenza può variare sia nella forma che nelle sfumature. Le strategie variano a seconda della collocazione all’interno dell’industria, dai tipi di strategie formali ed estetiche adottate, e dal rapporto con il vasto panorama sociale, culturale, politico o ideologico. Certe opere solitamente definite indipendenti operano lontano dal filone commerciale dominante: sono prodotti con budget bassissimi rispetto a quelli dei blockbusters, adottano tecniche formali che infrangono o abbandonano le convenzioni dello stile del cinema classico e offrono punti di vista stimolanti su temi sociali, adempiendo perfettamente anche al ruolo pedagogico del mezzo cinematografico. Un certo distanziamento dallo studio system hollywoodiano a livello industriale, sembra essere spesso una condizione necessaria per differenziarsi dalle convenzioni imperanti in ambito formale e socio-politico. In genere una cinematografia a basso costo e meno condizionata dal mercato gode di maggiore libertà. Alcuni film tendono a una forma e a un contenuto artistici, confondendosi da un lato con quei lavori che sono solitamente definiti sperimentali o d’avanguardia. Altri possiedono un intento più dichiaratamente politico e polemico, soprattutto quando si trattano questioni scottanti e complesse come gli abusi sui minori, l’aborto, l’immigrazione, il fondamentalismo religioso, l’omosessualità. Tuttavia queste due categorie, artistica e politica, non sono affatto disunite. In tutto il cinema indipendente la sperimentazione formale, e il distanziamento dalle convenzioni egemoni, costituiscono, potenzialmente, i canali più importanti ed essenziali per la decostruzione delle ideologie dominanti. Altri esempi che si possono ritenere fondativi di questa corrente raccolgono, ad esempio, l’eredità della tradizione di film a basso costo cosiddetti di exploitation, ossia di sfruttamento commerciale. Il cinema indipendente si colloca in un territorio di sovrapposizione tra 18


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Hollywood e le numerose alternative costituite dall’avanguardia sperimentale e dal cinema d’autore. L’aggettivo “indipendente” è stato usato per rispecchiare la cultura generale di quel periodo, piuttosto che indicare una definizione fissa o letterale. Secondo il significato etimologico originario, il termine ha una storia molto più lunga e vasta che affonda le radici fin dalla nascita del cinema stesso. Gli storici confermano che fu usato inizialmente per indicare i produttori operanti all’ombra delle tre società dominanti: la Edison, la Biograph e la Vitagraph, che dominavano l’industria del cinema nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nel primo Novecento. I primi registi indipendenti erano costantemente esposti al rischio di azioni legali, poiché in quel periodo il controllo sull’industria veniva esercitato in parte attraverso l’acquisizione di brevetti, il cui scopo era quello di delimitare l’accesso ad aspetti chiave della tecnologia cinematografica. Dopo questa prima fase, il termine si colorò di una connotazione romantica, assumendo la funzione di contrastare i tentativi di lotta contro un potente regime di monopolio. Gli indipendenti si allearono contro la Patents Company e, come afferma Janet Staiger, adottarono strategie similari con il risultato che l’industria si divise in due blocchi contrapposti 3. Nel 1915 la Patents Company fu accusata di esercitare un controllo illegale di monopolio commerciale e venne sciolta; venne però ben presto rimpiazzata da quello che sarebbe diventato lo studio system di Hollywood, ovvero un’operazione a integrazione verticale in cui i cinque studios più prestigiosi, battezzati majors, detenevano il pieno controllo e l’autonomia assoluta sulla fase di produzione, distribuzione e noleggio di film negli Stati Uniti e in gran parte del resto del mondo. Nonostante lo studio system subì a metà degli anni Cinquanta dei radicali cambiamenti in seguito a rigide regole federali e a una diversa concezione dell’ambiente sociale, ancora oggi il suo dominio è rimasto immutato. Nel contesto di un regime industriale dominato da Hollywood l’attività degli indipendenti si collocò in una delle seguenti categorie: all’interno o all’esterno dell’orbita delle majors. Nell’ambito della sfera gravitazionale degli studios, i produttori indipendenti si collocarono nelle fasce estreme sia alte che basse della produzione. Società a basso costo come la Republic o la Monogram e molte altre di minori dimensioni, contribuirono a soddisfare la richiesta del sistema per la produzione di film di serie B, per garantire alla pellicola meno importante la doppia programmazione nelle sale cinematografiche degli anni Trenta 4. Contemporaneamente artisti indipendenti come David Selznick e Sam Goldwin finanziavano costosi lungometraggi di serie A, prendendo in prestito divi e affittando teatri di posa delle majors, riuscendo nella formidabile impresa di distribuire film come Via col vento (Gone With the Wind, 1939) e Rebecca, la prima moglie (Rebecca, 1940), che riscossero buoni profitti per gli studios attraverso le 19


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proiezioni nelle loro sale di prima visione. La più rimarchevole dichiarazione d’indipendenza contro gli studios di serie A, era già stata fatta parecchio tempo prima, nel 1919, con la fondazione della United Artists, una compagnia di distribuzione autonoma, creata appositamente per amministrare i film di Mary Pickford, Charles Chaplin, Douglas Fairbanks e D. W. Griffith. In particolare si può considerare il successo di Selznick come produttore indipendente, frutto dalla stretta collaborazione con gli studios. Ciò avrebbe rappresentato la futura struttura della produzione hollywoodiana che, a partire dagli anni Cinquanta, avrebbe fatto sempre più ricorso a contatti esterni. La catena di montaggio della produzione degli studios lasciò il posto al sistema del pacchetto, in cui i progetti di film individuali venivano confezionati come prodotti unici. Gran parte della produzione hollywoodiana odierna può essere definita indipendente nel senso che i progetti sono spesso iniziati e portati avanti da società che esistono ufficialmente al di fuori dei confini delle majors. Tra queste ci sono case di produzione, create da produttori, registi e star, che spesso collaborano strettamente l’uno con o l’altro, e alcune società indipendenti di maggiori dimensioni. Quindi, se alcune forme di produzione indipendente hanno lavorato all’unisono con Hollywood, altre hanno invece preferito operare in aree inesplorate, offrendo talvolta una preziosa lezione all’istituzione egemone. La necessità ha spesso spinto gli operatori indipendenti a diventare pionieri del cinema americano, andando alla ricerca di nuovi territori che non fossero già colonizzati dalle maggiori case di produzione. I primi indipendenti portarono il cinema in zone dell’America rurale, tra cui i campi auriferi dell’Alaska, che non erano ancora stati colonizzati dalle majors. Anche le innovazioni tecnologiche sono in certi casi di derivazione indipendente: ad esempio lo sviluppo dello schermo panoramico e tridimensionale negli anni Cinquanta ebbe origine fuori dal controllo degli studios. In passato come nel presente, i produttori indipendenti si sono spesso rivolti a un particolare pubblico specializzato di nicchia, avente determinati gusti e idee. Un gradito esempio, durante l’era classica di Hollywood, è la cinematografia indipendente a basso costo, rivolta ad un pubblico di neri, a partire dall’era del film muto fino alla seconda guerra mondiale. Il pubblico più significativo che Hollywood perse di vista nei decenni immediatamente successivi alla guerra, e che costituì la base per alcune tra le maggiori tendenze di produzione indipendente, fu quello dei giovani. L’industria di massa si rivelò molto lenta a captare le variazioni demografiche e i forti cambiamenti sociali degli anni Cinquanta e Sessanta, che crearono un vasto pubblico recettivo a materiali indirizzati ad una precisa fascia di spettatori teenager. I produttori indipendenti si dimostrarono abili ad approfittare della progressiva ed 20


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inesorabile crisi che coinvolse l’assetto produttivo facente capo alle majors, in particolare la dichiarazione di trust illegale nei confronti della Paramount. L’American Independent Pictures (AIP) si preoccupò di donare al pubblico di adolescenti (che in quel determinato periodo raffiguravano la fascia di riferimento per i gestori delle sale cinematografiche) una serie di film di genere che sarebbero diventati di culto; oltre che descrivere uno specifico stato mentale in cui la società era precipitata 5. I generi a cui queste opere appartenevano erano considerati sconvenienti e non godevano del favore di Hollywood, in quanto erano venduti grazie a tattiche di sfruttamento commerciale con titoli sensazionali e manifesti che presupponevano elementi di richiamo più scandalosi di quanto non fossero effettivamente presenti nelle pellicole, di scarso valore, proiettate sullo schermo. Questo era un tipo d’indipendenza il cui fine era scopertamente commerciale, ma negli ultimi anni Cinquanta e Sessanta, il settore indipendente fu caratterizzato dalla fioritura di una cinematografia artistica e in alcuni casi d’avanguardia. Agli inizi degli anni Sessanta nacque una sorta di American New Wave in parallelo con le esperienze europee del Neorealismo in Italia, della Nouvelle Vague in Francia e del cinema del Kitchen Sink in Inghilterra. Le peculiarità di questa tendenza sono maggiormente focalizzate sulla narrazione e sulla centralità dei personaggi. Un film esplicativo di questo stile è sicuramente Ombre (Shadows, 1960) diretto da John Cassavetes, che può essere considerato il diretto antecedente della scena indie negli anni Ottanta e Novanta. Trai i film d’avanguardia, si possono poi annoverare le sperimentazioni formaliste di cineasti come Maya Deren, Stan Brackhage e le opere underground di Andy Warhol. I diversi filoni dell’indipendenza si avvicinarono l’uno all’altro, costituendo insieme importanti punti di riferimento cui s’ispirò la “Hollywood Renaissance”, ovvero la rinascita dell’imperioso polo produttivo che aveva dominato fino alla metà degli anni Cinquanta. Al successo commerciale di film indipendenti rivolti a un pubblico giovanile, come quelli prodotti dall’AIP, si accompagnò quello di produzioni incisive e inquietanti, in particolare nel genere della teen comedy e nell’horror. Film come La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) di George Romero e Non Aprite quella porta (The Texas Chain-Saw Massacre, 1974) di Tobe Hooper, riscossero un enorme successo di cassetta, ampliando il bacino di utenza per lo sfruttamento convenzionale di materiali horror e combinando questo aspetto con una visione negativa della società americana, in cui riecheggiava l’angoscia e l’inquietudine di un’epoca turbata e afflitta da avvenimenti come i tumulti razziali, la guerra in Vietnam e il caso Watergate. In risposta Hollywod decise di accogliere parte di questi materiali, perché si era resa conto che i tempi erano cambiati e che il pubblico era desideroso di uno 21


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stile differente rispetto al passato. Un fatto epocale fu la decisione da parte della Columbia di distribuire Easy Rider - Libertà e paura (Easy Ryder, 1969). La fama riscossa da Easy Rider contribuì a convincere gli studios a investire in una nuova generazione di cineasti che si dimostravano sensibili nel cogliere le diverse sfaccettature degli animi dei giovani, influenzati dal clima di controcultura degli anni Sessanta. Insieme ad alcuni prodotti importati dall’estero, le pellicole indipendenti comprovarono quale presa potesse avere sul pubblico un materiale più scabroso, controverso o adulto, incoraggiando l’adozione del rigido e preordinato sistema di classificazione che, a partire dal 1968, ampliò i limiti di ciò che poteva essere offerto al pubblico 6. La Hollywood Renaissance accolse in una certa misura alcuni aspetti del cinema artistico, ma il fenomeno non durò a lungo e si rivelò limitato a un periodo di transizione che presto svanì, alla fine degli anni Settanta, sia con il consolidamento del regime hollywoodiano incentrato sul blockbuster, sia con lo spostamento a destra della politica e della cultura americana. A partire dalla fine di quel decennio, ci fu sempre meno spazio per una cinematografia più aspra o d’indagine. Alcune figure associate alla cosiddetta “Rinascita di Hollywood”, come Robert Altman, Martin Scorsese, Steven Spielberg, Woody Allen, Francis Ford Coppola e George Lucas, continuarono a cimentarsi in storie originali talvolta presso gli studios, talvolta nel settore indipendente oppure con finanziamenti da parte della televisione 7. Per quanto concerne il livello industriale, il cinema indipendente americano si estende da una cinematografia a basso costo (o quasi a costo zero) fino ai margini di Hollywood, ed è proprio questo suo tratto a costituire parte del fascino romantico che si attribuisce ad un’etica che si distacca dall’oligarchia industriale e commerciale. Una generazione dopo l’altra di cineasti, critici e spettatori entusiasti, ha trovato ispirazione in lungometraggi prodotti a costi ridottissimi, girati durante il tempo libero, finanziati con carte di credito o con fondi provenienti da fonti improbabili. Se le radici del cinema indipendente, che assunse la sua massima espressione negli anni Ottanta, possono essere ricercate, per certi aspetti, alla fine degli anni Cinquanta e ai primi anni Sessanta, i due periodi si differenziano in modo sostanziale per la creazione di un’infrastruttura durevole. Durante il primo periodo sorsero alcune istituzioni in scala ridotta per consolidare il settore dell’avanguardia: fra questa la Creative Film Foundation, creata da Maya Deren nel 1955, che assegnava fondi a cineasti sperimentali 8. La proiezione di opere avanguardistiche non era economicamente remunerativa a causa del fatto che si svolgeva in musei, gallerie, spazi effimeri e cinema d’essai delle metropoli. Per quanto riguarda l’aspetto legato alla fase della distribuzione, un esercizio fu creato dal centro di 22


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noleggio Cinema 16 a New York nel 1950, che trattava film sperimentali e autoriali internazionali di registi come Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni. In seguito si aggiunse la Filmmakers Cooperative, un’impresa senza fini di lucro, fondata nel 1962 da Jonas Mekas, il quale divenne il più aperto fautore dell’avanguardia americana 9. Questo determinato genere indie rimase un’attività estremamente marginale in termini commerciali, ma il mercato del cinema d’essai internazionale fiorì in centri metropolitani come New York e San Francisco, traendo vantaggio da un certo numero di fattori, tra cui una diminuzione del livello di produzione delle majors di Hollywood 10. Il numero di cinema d’autore negli USA era aumentato dai 12 nel 1945 a circa 550 nel 1960. All’interno del panorama indie una figura chiave fu Don Rugoff, il cui Cinema V esercitava il controllo su alcuni cinema d’essai di New York. Cinema V iniziò un’attività di distribuzione nel 1963, una mossa strategica per lo sviluppo di un’infrastruttura nascente. Justin Wyatt sostiene che Cinema V sia stato assunto come modello da distributori indipendenti di grandi dimensioni come la Miramax e la New Line, negli anni Novanta, in particolare nell’uso di strategie e proposte destinate a mercati di nicchia, che dovevano sottolineare le particolari qualità di ogni singolo film 11. La New Yorker Films e la Bauer International, due società minori, realizzarono un analogo spostamento dall’esercizio della proiezione a quello della distribuzione. La prima fu fondata nel 1965 da Dan Talbot, proprietario del New York Theatre; interessato a proiettare numerosi film internazionali, tra cui Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo Bertolucci, Les Carabiniers (id. , 1963) di Jean-Luc Godard e numerosi film di Federico Fellini e dei neorealisti italiani, Talbot fu costretto a importarli personalmente. Il pubblico dei giovani universitari, che procurava spettatori per i concerti rock e per i film sui concerti, rappresentò il punto di partenza delle carriere di Harvey e Bob Weinstein, i fondatori della Miramax, che sarebbe divenuta una delle più autorevoli società indie di distribuzione, a partire dagli anni Novanta. Il circuito del festival, che rappresenta una base istituzionale e di prestigio dell’indipendenza cinematografica, può essere fatto risalire agli ultimi anni Cinquanta e Sessanta. Il San Francisco International Film Festival iniziò nel 1957, seguito dal New York Film Festival nel 1962. Come nei cinema d’essai del periodo, i film maggiormente proiettati erano stranieri più che statunitensi. Altri sviluppi seguirono negli anni Settanta, con l’istituzione del Telluride Festival in Colorado nel 1973, a Toronto e Seattle nel 1975 e a Montreal nel 1977. Nel 1978, a Salt Lake City, Utah, nacque l’US Film Festival. Inizialmente fu organizzato attorno ad una retrospettiva accompagnata da tavole rotonde di cineasti e critici dai nomi prestigiosi, ma già dal primo anno di vita il settore più frequentato fu una competizione per quelli che allora venivano chiamati piccoli film regionali 12. Ma il 23


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festival che ancora oggi è considerato come l’imperatore del cinema indipendente statunitense, e da dove passano le pellicole più originali e controverse, è senza ombra di dubbio il Sundance Institute Fim Festival, fondato in Colorado nel 1981, dall’attore e regista Robert Redford, per sostenere i cineasti indipendenti. Il modello di riferimento era l’Eugene O’Neill Theater nel Connecticut, un luogo appartato in cui si mettevano in scena nuove opere teatrali riviste e rielaborate con l’aiuto di noti professionisti. Il coinvolgimento del Sundance conferì sicurezza all’evento e aumentò il prestigio sia del festival che dell’intero panorama indipendente. La manifestazione divenne fin da subito il principale punto di riferimento nel calendario annuale del cinema indipendente americano, e il nome fu cambiato nel 1990 in Sundance United States Film Festival. Quello che è utile sottolineare è che si stabilirono forti legami fra il Sundance Institute e importanti figure hollywoodiane, alcune delle quali entrarono a far parte del consiglio di amministrazione durante gli anni Ottanta. Entro la metà degli anni Novanta, il Sundance divenne un mercato chiave, affollato di agenti e dirigenti della distribuzione sia degli studios che dell’area indipendente. La competizione per parteciparvi divenne feroce e i tempi di produzione e postproduzione di molti film indipendenti vennero organizzati in funzione della scadenza d’iscrizione all’evento nel mese di gennaio. Da allora il Sundance Film Festival ha selezionato e promosso film di culto fra i quali spiccano I Soliti Sospetti (The Usual Suspects, 1995), Le Iene (Reservoir dogs, 1992), fino ad arrivare, come vedremo più avanti, ai successi dei nuovi cineasti indipendenti, formatisi negli anni Novanta. Un formidabile successo che non è da attribuire soltanto alla qualità dei singoli film, ma soprattutto ad una inversione di tendenza oramai necessaria per contrastare lo strapotere delle grandi produzioni hollywoodiane. Le storie e gli intrecci possiedono diversi modi di essere raccontati sullo schermo e possono ritagliarsi un posto più o meno preminente all’interno della narrazione. Una particolare versione della struttura narrativa è prevalsa nel filone tradizionale di Hollywood e tra i suoi imitatori: una forma generalmente denominata narrazione classica hollywoodiana che possiede come elementi fondamentali un inizio, una parte centrale e una fine ben delineati. Alcuni lungometraggi indipendenti si caratterizzano invece per la mancanza di una forte spinta narrativa che faccia progredire gli eventi secondo una logica ordinata, come i lavori di Harmony Korine. Altri optano per strutture decentrate tipiche del cinema postmoderno internazionale, come l’opera filmografica di Quentin Tarantino o di nuove leve del calibro di Christopher Nolan e Michel Gondry. Altri ancora presentano una complessità drammaturgica della tipica narrazione hollywoodiana, che di solito ruota attorno a pochi fili conduttori. Le pellicole indie degli ultimi decenni includono vari tipi di narrazione in cui si intersecano molteplici fili e in cui la narrazione procede a 24


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ritroso. Nell’avanguardia solitamente si cerca di abbandonare completamente la narrazione a favore di una visione artistica della finzione scenica. La narrazione classica hollywoodiana si può descrivere attraverso una serie di caratteristiche concatenate, alcune delle quali, sono derivate da altre fonti narrative. Si rompe un’iniziale condizione di equilibrio che, dopo varie complicazioni, viene infine restaurata o ristabilita in forma differente. La narrazione classica si muove attraverso questi stadi con una progressione lineare in avanti, attraverso la quale è evidente un chiaro procedimento di causa-effetto che collega scene individuali in una sequenza coerente e facilmente comprensibile. Secondo lo storico David Bordwell, ciascuna scena viene divisa in fasi distinte. Dopo una fase di esposizione segue l’azione, tesa a raggiungere gli obiettivi dei personaggi: «Nel corso di tutto questo, la scena classica continua o chiude le vicende basate su un rapporto di causa-effetto lasciate irrisolte nelle scene precedenti, mentre offre nel contempo nuove motivazioni per lo sviluppo successivo» 13. La narrazione classica contiene di solito una certa ridondanza, ovvero elementi che sono ripetuti o reiterati, per assicurare che non vada perduta nessuna informazione cruciale nella catena sequenziale di causa-effetto. La trama principale è costruita attraverso una situazione determinante, che conferisce alla narrazione il suo carattere primario e stabilisce le caratteristiche che permettano allo spettatore di identificare il genere di appartenenza. L’intreccio secondario invece ruota nella maggior parte dei casi attorno a una storia d’amore (eterosessuale) e ai conseguenti risvolti. I due fili narrativi rimangono strettamente correlati e la risoluzione del primo intreccio diventa spesso un elemento fondamentale della chiusura emotiva del secondo 14. L’indipendenza cinematografica si differenzia invece per un effetto di rottura delle convenzioni, marcato da artifizi narrativi come ellissi, digressioni, ralenti, flashback, flashforward, che vestono il ruolo di negare, bloccare, anticipare, ritardare o complicare lo sviluppo narrativo previsto, tendendo alla riduzione dalla linearità drammaturgica e dell’autoreferenzialità narrativa. La vita reale è un fenomeno complesso e non qualcosa di cui si ha esperienza in modo puro. Harmony Korine, uno dei registi più discussi e controversi della scena indie americana, fautore della cosiddetta antinarrazione, sostiene che gli eventi che pervadono la nostra esistenza non hanno incorporato un inizio, uno sviluppo e una fine prestabiliti, al di là del minimo meccanismo biologico di nascita, esistenza e morte. La vita non rispetta dei canoni ma si limita a divagare seguendo uno sviluppo non saldamente strutturato, senza essere soggetta a un regime di dinamiche concatenate di progressione o momenti di profonda crisi 15. Molte volte la frammentazione linguistica, che avviene all’interno del tessuto narrativo, funge da cerniera per rappresentare la crisi dei rapporti umani e l’incomunicabi25


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lità che si manifesta all’interno della sfera sociale. Ma se alcuni film indipendenti hanno come prerogativa la frammentazione visiva dell’immagine, altri ne mettono in luce l’abbondanza attraverso la variegata combinazione di fili conduttori disparati, con l’intreccio di molteplici tematiche sovrapposte le une alle altre, che creano nello spettatore instabilità emotiva, poiché non è in grado di capire il punto di vista del regista, indispensabile invece nel cinema classico. L’indipendenza risulta quindi essere una qualità relativa piuttosto che assoluta e può essere applicata a ciascun livello estetico ed etico di narrazione. È questa dinamicità, che attinge a una varietà di tradizioni, a fare di questa qualità una parte così ricca, variabile, affascinante del panorama cinematografico mondiale. Il settore indie, rispetto allo stile dei film a scopo commerciale, offre chiaramente una più profonda opportunità di ricerca della libertà d’espressione individuale, da parte del singolo autore, che possiede la capacità di descrivere e rappresentare la realtà in cui viviamo, riproducendola attraverso quello che il teorico Francesco Casetti, denomina “Occhio del Novecento” 16, riprendendo un famoso spunto di Bèla Bàlasz, secondo cui il cinema ripristina la visibilità dell’uomo restituendo la realtà allo sguardo. E se il significato ontologico del cinema è il vedere, i registi indipendenti si dimostrano abili ad esprimere la loro visione del mondo, attraverso mirate scelte formali e contenutistiche, che permettono di fornire a questo tipo di opere un inconfondibile e personale tratto stilistico. È il caso questo delle opere di Todd Solondz, la cui prerogativa principale è quella di indagare l’universo sociale contemporaneo, attraverso l’impiego di precise marche stilistiche volte a dare una visione satirica e derisoria dell’ambiente in cui l’uomo è costretto a relazionarsi. Film come Fuga dalla scuola media (Welcome to The Dollhouse, 1995), Happiness (id., 1998), Storytelling (id., 2001) e Palindromi (Palindromes, 2004) possiedono il merito di svolgere una profonda quanto scrupolosa radiografia della situazione attuale della nostra società, cogliendone gli squilibri e le malformazioni, tramite la rappresentazione di personaggi scomodi e singolari e la descrizione dei loro stati d’animo. Le opere di Solondz, il cui primo film di successo risale alla metà degli anni Novanta, hanno avuto il merito di aprire un determinato filone, ovvero quello delle cosiddette pellicole autoriali attente all’evolversi della situazione sociale contemporanea con le relative conseguenze sulle vite degli individui. Quindi se i film indipendenti realizzati da Todd Solondz attirano l’attenzione, suscitando sovente critiche di varia natura, a causa degli argomenti scottanti che trattano, ciò non può essere sempre casuale. Figure come quelle di pedofili e pervertiti sessuali compaiono con una frequenza sproporzionata nei film indie. Uno dei motivi principali è che il cinema indipendente, meglio di Hollywood, è in 26


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grado di trattare temi delicati con un certo spessore narrativo e stilistico. Ma anche perché offrono l’occasione di realizzare incassi notevoli con film che vanno diretti al cuore dello spettatore, come dimostrano gli ultimi casi eclatanti de Il Calamaro e la balena (The Squid and the Whale, 2006), Little Miss Sunshine (id., 2006) della coppia di registi Jonhatan Dayton e Valerie Faris o Juno (id., 2007) di Jason Reitman. I film indipendenti offrono visioni sociali alternative e spesso sono indirizzate a un pubblico di nicchia, radicato in particolari gruppi sociali. Chi opera in questo determinato settore è incerto tra la volontà di soddisfare i gusti di gruppi appartenenti a specifiche categorie socio-culturali, come i neri o i gay, o di quelli che molto probabilmente guardano produzioni marginali da circuito d’essai. Le visioni alternative più forti solitamente uniscono temi di provocazione socio-politica a innovazioni formali, rischiando però di limitare le dimensioni del pubblico potenziale all’interno di una fascia specifica. L’utilizzo di strategie formali radicalmente anticonvenzionali richiede lo sfruttamento di un capitale culturale che è distribuito in misura ineguale nella società. Per massimizzare il pubblico potenziale, anche i produttori indipendenti tendono al compromesso fra le innovazioni estetiche e la trattazione esplicita di tematiche scomode. C’è un film che illustra approfonditamente questo concetto ed è Boys Don’t Cry (id., 1999) di Kimberley Peirce. Ambientato nel Nebraska, all’interno di un gruppo sociale di giovani bianchi emarginati e annoiati, che abitano in roulotte illuminate al neon, narra le vicissitudini di una giovane donna che si fa passare per uomo per via del suo fisico androgino e diventa causa di una violenta provocazione. Si fa chiamare da tutti Brandon, mentre in realtà si chiama Teena, suggerendo che la fisiologia stessa del suo corpo possa essere ambigua, sebbene la supposizione si riveli poi infondata. L’amante di Brandon mantiene intatto il suo attaccamento, sia fisico che emotivo, nonostante vi siano indicazioni che sia consapevole della reale condizione fisica dell’amato. Durante il corso della storia, si ammette la possibilità di accettare una relazione così anticonvenzionale, la cui ambiguità rappresenta una minaccia ben più grave nell’economia dei generi sessuali prevalenti, che un normale episodio di omosessualità. La struttura narrativa della storia, segue le convenzioni dell’amore sfortunato che può essere elevato a valore universale in nome della commercializzazione. Infatti, come la stessa regista ha affermato, uno dei modelli di riferimento del film è Romeo e Giulietta 17. Quello che è evidente, però, è che l’amore sfortunato è raccontato attraverso l’atmosfera particolarmente attraente del mercato indie, del formato del road movie adolescenziale con vite sprecate che si autodistruggono, in cui le impressioni di verosimiglianza si mescolano a tocchi stilizzati al rallentatore e con l’effetto straniante del realismo. Boys Don’t Cry è un film che ha dimostrato il suo potenziale di suscitare inte27


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resse anche nel cinema mainstream, pur mantenendo una sua dimensione intima, includendo un forte attacco contro la violenza, utilizzata per definire i confini fra generi sessuali, anche se tutto questo si mescola a ingredienti più famigliari. Ha ottenuto il prestigioso risultato di un Oscar per Hilary Swank come migliore attrice protagonista e molti altri riconoscimenti in giro per il mondo. I film indipendenti quindi, rispetto alle sfavillanti produzioni hollywoodiane, mettono il pubblico a diretto confronto con personaggi sgradevoli o scabrosi, offrendo uno spaccato generazionale sull’orlo del baratro. Il film di Alexander Payne La storia di Ruth, donna americana (Citizen Ruth, 1996), presenta sia una coraggiosa trattazione della questione profondamente controversa del diritto all’aborto, sia un personaggio, la donna del titolo, essenzialmente egoista, afflitta da problemi di alcolismo e di dipendenza dalla droga e dall’inalazione dei vapori di colla; la figura di questa antieroina non viene ammorbidita né resa più sentimentale dallo sviluppo della vicenda, anche se la dinamica rimane convenzionalmente individualista. La costruzione tematica dell’opera delinea Ruth come il punto focale, in mezzo fra le due fazioni in lotta: chi è favorevole all’aborto e chi è contrario. Il senso del paradosso del regista non arriva a delineare una visione del mondo, ma si respira comunque un gusto irriverente (lo stesso che anche Solondz più volte manifesta), e una libertà di racconto e un talento davvero fresco e genuino. Un altro regista provocatore, che si diletta a rappresentare sullo schermo figure alquanto discutibili, è il regista filippino d’origine, ma americano di adozione, Gregg Araki. In apertura di carriera i suoi film The Living End, (id., 1992), Totally Fucked up (id., 1994) e Doom Generation (id., 1995), annunciano l’intenzione di provocare già dai titoli di testa, che dichiarano rispettivamente nell’ordine: «”Un film irresponsabile” di Gregg Araki», «“Un altro film omo” di Gregg Araki» e «“Un film eterosessuale” di Gregg Araki». In questi lavori lo stile del regista è una versione sconvolgente e sessualmente polimorfa dei film commerciali sull’angoscia adolescenziale, con una spiccata vena di rabbia emotiva. Nell’universo giovanile di Araki, i protagonisti della cosiddetta generazione slacker 18, sono dei nullafacenti che non hanno difficoltà ad accettare l’idea di una fluidità fra gli orientamenti sessuali, sullo sfondo di un’omofobia sporadica e spesso violenta. Quest’ultimo elemento raggiunge il picco più alto nella scena madre di Doom Generation che mostra un’aggressione razzista, contro i tre protagonisti, che culmina in una sequenza scioccante intrisa di sangue. Il fatto che gli assalitori abbiano con sé una bandiera americana e conducano l’attacco sull’accompagnamento dell’inno nazionale americano, mentre uno recita il giuramento di fedeltà alla bandiera, sottintende un significato politico e ideologico preciso. Araki costringe lo spettatore a confrontarsi con l’esistenza di una viru28


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lenta omofobia nell’era dell’AIDS, usando la malattia stessa o come strumento narrativo evidenziato in primo piano, o come significato sotterraneo persistente. I film di Araki sono chiaramente un prodotto, frutto di una sensibilità, che si vuole imporre mescolando risonanze socio-politiche, con aspetti di generi cinematografici, su temi giovanili che mirano a porre l’accento su una generazione di giovani disperati o condannati alle prese con gravi problematiche. Un aspetto dei suoi lavori che colpisce in modo particolare è l’uso di un’estetica dell’eccesso, basata su immagini vistose e sovra stilizzate, attraverso l’impiego di colori sgargianti e forti. Uno dei più significativi film di Araki, Mysterious Skin (id., 2005), tratta il tema della pedofilia attraverso una drammatizzazione potente e vigorosa della messa in scena, che verte sulla figura di due ragazzi che da bambini sono rimasti vittima di violenze e che hanno a loro modo assorbito il dramma: Brian, il più fragile emotivamente, si è convinto di essere stato rapito dagli alieni, e da allora ha paura del buio e fa terrificanti incubi; Neil Mc Cormick, suo coetaneo, ha deciso di trascorrere la sua adolescenza concedendosi fisicamente a viziosi uomini adulti. La forza dell’opera risiede nella sua poeticità trasgressiva, che risulta essere il motore del dramma. Mysterious Skin, così come le opere di Solondz, è un film considerato dai critici cinematografici e dagli addetti ai lavori un prodotto scomodo e di difficile collocazione produttiva. Non solo perché affronta di petto e senza moralismi l’ostico problema della pedofilia, ma anche perché comunica alcune cose non propriamente gradite sul desiderio sessuale (a cominciare da quello dei bambini), e sulla sua ambigua natura. Il regista è abile ad evitare il rischio di cadere in un inopportuno moralismo, perché ignora deliberatamente la prospettiva del gruppo sociale, formato dalla famiglia, da psicologi, educatori (allontanandosi dalla visione psicopatologica famigliare di Happiness di cui discuteremo in seguito), mantenendo però intatta la spietatezza e l’occhio critico. Araki opta per la strada più ardua e diretta, la più sinceramente interessata ai giovanissimi protagonisti, in quanto individui e non in quanto vittime; dunque la più rischiosa sul piano estetico quanto su quello teorico. Ci racconta, senza fare della retorica, come uno dei due ragazzini, Neill Mc Cormick, fosse sessualmente attratto dal proprio coach; e poi racconta le differenti reazioni che i due personaggi hanno: c’è chi introietta l’abominio subito all’interno della propria coscienza personale come Neill, e chi come Brian lo rimuove, costruendosi come armatura l’angosciante quanto geniale metafora del rapimento degli alieni. Ma non per questo il regista cade nell’apologia: non c’è nel suo sguardo nessuna concessione per l’allenatore di football che commette violenza su dei ragazzini, al con29


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trario la simpatia, la partecipazione emotiva, il lirismo o l’intensità drammatica di certi momenti, sono tutti dalla parte dei due giovani attori protagonisti. Araki, a livello drammaturgico, fa un sapiente uso della linearità e della trasparenza del testo narrativo, attraverso uno sguardo cinematografico individuale e intimo. In definitiva il merito maggiore dell’intraprendente regista americano è aver trattato con estrema limpidezza, intatta e militante al tempo stesso, un argomento tanto scabroso da suscitare incontrollate reazioni emotive, con il risultato, a nostro avviso, di avere fortemente portato le forme e la stessa narrazione all’immaginario, all’attrazione, al turbamento e all’inesausta sete d’affetto che raccontano. Per concludere questa nostra dissertazione sul settore indipendente, è opportuno citare anche il lavoro di un altro cineasta affermatosi anch’esso negli anni Novanta e particolarmente sensibile alle questioni riguardanti la società ed in particolare il difficile mondo dei teenager. Il regista in questione, che abbiamo già preso in considerazione quando abbiamo parlato della cosiddetta antinarrazione tipica di certo cinema indipendente, è Harmony Korine. Il suo primo film Gummo, (id., 1997) trova la sua spinta propulsiva nel ritratto frammentario delle vite senza speranza di alcuni ragazzi senza futuro, rappresentate attraverso uno stile visivo discontinuo dove abbondano ellissi e tempi morti. Il suo film successivo, Julien Donkey Boy (id., 1999) pur avendo una focalizzazione narrativa più precisa di Gummo, mantiene invariate alcune caratteristiche. L’ intreccio ruota attorno alle vicende di una singola famiglia, quella del personaggio schizofrenico del titolo, Julien (Ewen Bremmer), invece di una comunità, ma i tratti stilistici a livello di tensione narrativa sono gli stessi. Film come quelli di Korine, così come quelli esplicati in questo capitolo, ed in particolare i prodotti di Solondz (che sono al centro dell’analisi di questo libro e che verranno analizzati nello specifico nelle pagine seguenti), non sono certamente riflessi informi della realtà, anche per quanto riguarda la loro dimensione narrativa ed estetica; non crediamo che questa sia una rivendicazione che tale schiera di cineasti indipendenti avanzerebbero. Le opere prese in considerazione nella nostra breve analisi sul cinema indipendente americano offrono un perfetto amalgamarsi tra ciò che è apparentemente più reale e autentico del nostro modo di vivere, e l’elemento poetico e satirico, adoperato come farsa, senza però emettere delle sentenze definitive, ma offrendo l’opportunità allo spettatore di farsi un’idea su ciò che accade all’interno della nostra vita sociale.

Note Cit. di Hamony Korine in un’intervista rilasciata a Werner Herzog, Interview 1997, su www.angelfire. com/ab/harmonykorine/interviewmag.html, contenuta in Geoff King, 1

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Il cinema indipendente Americano, Einaudi, Torino 2005, p. 81. Cfr. Greg Merritt, Celluloid Mavericks: A History of American Independent Film, Thunder’s Mouth Press, New York 2000, p. 4. 2

3 Cfr. Janet Staiger, Combination and Litigation: Structures of US Film Distribution, 1896- 1917, in Thomas Elsaesser (a cura di), Early Cinema: Space, Frame, Narrative, British Film Institute, London 1995, p. 195.

4 Cfr. Brian Taves, The B Film: Hollywood’s Other Half, in T. Balio (a cura di), Grand Design: Hollywood as a Modern Business Enterprise, 1930-1939, University of California Press, Berkeley Call 1995, p. 6.

5

Cfr. Geoff King, op. cit., p. 7.

6

Ivi, p. 10.

7

Ivi, p. 11.

8

Ivi, p. 23.

9

Ibid.

Cfr. Justin Wyatt, From Roadshowing to Saturation Release: Mayors, Independents and Marketing/Distribution Innovations, Durham N.C. in J. Lewis (a cura di), The New American Cinema, 1998, p. 67.

10

11

Geoff King, op.cit., p. 24.

12 Cfr. Lory Smith, Party in a box: The Story of the Sundance Film Festival, Ed. GibbsSmith, Salt Lake City Utah 1999, pp. 6-24.

13

David Bordwell, Narration in The Fiction Film, Routledge, London 1986, p. 158.

14

Cfr. Geoff King, op. cit., pp. 83-84.

15

Ivi, p. 92.

16

Francesco Casetti, L’occhio del Novecento, Bompiani, Milano 2005, p. 10.

Intervista a cura di Danny Leigh in Jim Hillier, American independent of cinema: A sight and sound reader, British film Institute, London 2001, p. 112. 17

Il termine slacker è comunemente usato in riferimento a quelle persone che evitano il lavoro o il servizio militare e che hanno una visione della vita materialista e menefreghista.

18

31


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Fuga dalla scuola media (1995)

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2 - Distribuzione

«È vero che nel migliore dei mondi possibili i film indipendenti sono genuinamente alternativi e offrono delle visioni genuinamente originali, ma un film che sia del tutto indipendente non esiste. C’è pur sempre un’economia dietro tutto questo: il film deve affrontare un mercato e la gente deve volerlo vedere» 19.

A partire dalla metà degli anni Settanta, il mercato americano ha deciso di adottare una strategia di marketing e distribuzione basata sull’uscita di film in moltissime sale attraverso l’impiego di una martellante pubblicità televisiva, in modo da fare maggiore presa diretta sul pubblico. Dalla fine degli anni Novanta la prassi diventa quella di distribuire i film simultaneamente su più di 3000 schermi americani. L’obiettivo dei distributori è quello di ottenere rapidamente una vastissima fetta di pubblico all’interno di una gamma di gruppi diversi di fruitori. Le esigenze dei film indipendenti di impronta anticonformista sono decisamente diverse, come lo sono quelle di alcuni film non convenzionali trattati dalle maggiori case di produzione americane. Alla base di gran parte del successo dei distributori indipendenti c’è l’abilità di dedicare un’attenzione e uno sguardo speciali ai particolari requisiti di singoli titoli che necessitano un accurato trattamento per conquistare tutto il loro pubblico potenziale. L’approccio tradizionale consiste nel mandare nelle sale i film indie e quelli di impronta autoriale in modo graduale, compiendo una sorta di uscita sbilanciata. Spesso infatti si cerca di creare attesa e anticipazione proiettando un film in anteprima nel corso di un festival, poiché i film che vincono premi, soprattutto a manifestazioni prestigiose come Sundance, Venezia, Toronto e Cannes, esercitano un grande richiamo. L’uscita di Fuga dalla scuola media fu preceduta da una serie di apparizioni a vari festival, attentamente pianificate dal distributore con lo scopo preciso di creare curiosità per un film altrimenti potenzialmente difficile da commerciare. Per l’opera di Solondz il lancio iniziale avvenne a New York e a Los Angeles. Vi fu poi in seguito un’ulteriore espansione che raggiunse 85 sale della nazione, arrivando fino ad un totale di 700, incassando un buon profitto di 6 milioni di dollari. In questo specifico caso la strategia consisteva nel cercare un punto d’equilibrio tra il circuito d’essai e un più vasto pubblico di giovani, in modo da sensibilizzare il pubblico alle tematiche dell’opera. Happiness, il film che molti considerano l’apice della maturità di Solondz, 33


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