Corti&Autori. La storia dei Corti italiani

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CORTI&AUTORI LA STORIA DEI CORTI ITALIANI 1980*2006 a cura di Lia Furxhi

EDIZIONI

FALSOPIANO



EDIZIONI

FALSOPIANO

CORTI E AUTORI LA STORIA DEI CORTI ITALIANI 1980-2006

a cura di

Lia Furxhi


REGIONE PIEMONTE Assessorato alla Cultura

MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIPARTIMENTO DELLO SPETTACOLO CNC - Centro Nazionale del Cortometraggio

promosso da

Alberto Barbera - Museo Nazionale del Cinema Gianni Volpi - AIACE Nazionale

© Edizioni Falsopiano - 2008 via Baggiolini, 3 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Roberto Dagostini Stampa: Impressioni Grafiche S.C.S. a r.l. - Acqui Terme Prima edizione - Novembre 2008


INDICE Due o tre cose che abbiamo imparato sul corto di Gianni Volpi Visioni/I critici

I corti 1980-2006 a cura di Alfio Bastiancich, Gianni Canova, Giulia Carluccio, Vittoria Castagneto, Alberto Castellano, Furio Colombo, Steve Della Casa, Goffredo Fofi, Federico Greco, Fabrizio Grosoli, Sandra Lischi, Tullio Masoni, Morando Morandini, Emiliano Morreale, Gianni Rondolino, Mario Sesti, Gaetano Stucchi, Gianni Volpi

p. 9

p. 15

Immagini

p. 53

Riflessi(oni)/Gli autori

p. 64

1979-81: in America senza miti di Silvio Soldini

p. 64

Un sogno di primitivitĂ di Maria Martinelli

Black Harvest: storia di una pellicola Kodak B&N 500 ASA di Guido Chiesa

Nome di Battaglia Bruno: le mamme degli anni di piombo di Bruno Bigoni

Dialoghi di Alphaville di Mario Martone

Sotto la nube di Chernobil di Mimmo Calopresti

La prova generale di un film di Davide Ferrario

p. 66 p. 67 p. 68

p. 69

p. 71

p. 72


La vita dei miei pensieri-disegni di Ursula Ferrara

p. 74

Voci e immagini dalla folla solitaria di Gianluca Tavarelli

p. 78

Viaggiare, sperimentare di Marco Bechis

Intervalli di contraddizione di Cocito & Pastore

Illuminati dalla rabbia di Franco Maresco (e Daniele Ciprì)

Uno schermo di dissoluzione (delle immagini e delle storie) di L. Lionello e A. Tannoia Pax Max: il viaggio di due voci di Alberto Callari Real Falchera F.C. di Giacomo Ferrante

Il vecchio dentro: il mio servizio civile di Antonio Rezza Arturo perplesso davanti alla casa abbandonata sul mare di Marilisa Calò

Le belle prove dei ragazzi del Tuscolano di Gianni Zanasi

Due mondi lontani che s’incontrano di Daniele Gaglianone

Graffiare la pellicola di Roberta Torre

Fight da Faida: un rap disegnato sulla pellicola di Vincenzo Gioanola

“Cominciare con Charlot e finire con Woody, è il problema” oppure COME CAMPARE COL CINEMA e fottersene degli imbecilli di Antonio Capuano

Dialoghi intorno ai corti e a un fabbro di Matteo Pellegrini

La (sconfortante) attualità di Ketchup di Carlo A. Sigon

p. 76

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p. 81

p. 84

p. 84

p. 85

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p. 91

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p. 97 p. 97


Brave: quelli che vivono ai margini di Alfredo Peyretti

p. 99

Quel sogno di leggerezza e surrealtà… di Marco Pozzi

p. 102

Un pranzo onirico che nasce dai miei incubi di Eros Puglielli Non cambiai nome, cambiai maniera di fare cinema di Umberto Marino Sul mare luccica è ancora oggi di Paolo De Vita e Mimmo Mancini

Appunti su Spalle al muro di Nina Di Majo

L’immaginario di San Salvario di Enrico Verra

Come un racconto orale di Fabrizio Bentivoglio Il nostro giorno del Santo di Gianluca e Massimiliano De Serio

L’inquadratura è ancora una questione di morale di Salvatore Mereu

Solo le donne possono salvare il mondo di Edoardo Winspeare

p. 101

p. 104 p. 105 p. 107

p. 109 p. 110 p. 111 p. 112

p. 114

Il problema è scrivere una bella storia di Andrea Jublin

p. 116

Immagini

p. 119

Filmografie

p. 131



Gianni Volpi

Due o tre cose che abbiamo imparato sul corto

Due o tre cose che abbiamo imparato sul corto di Gianni Volpi Davvero il corto è il racconto? Su questa visione della short story comparatistica, letteraria, incentrata sul doppio parallelismo corto-racconto, lungo-romanzo, tanto parziale quanto ricca di suggestioni in termini di poetiche, di cortocircuiti, di definizioni, si sono formate tante (in)competenze sul corto. Tutte le zone della letteratura e della critica, Borges e Calvino, Henry James ed Edgar Allan Poe, Cechov e Carver, sono state saccheggiate a piene mani per ritrarre un genere che poi difficilmente è tale e si frantuma, si disperde in una pluralità di direzioni, forme, formati e strutture, microuniversi linguistici, sfide comunicative. Una forma espressiva che sfugge a ogni assunto e richiede uno sguardo rivolto non a ciò che è stato, ma a ciò che comincia appena a prendere forma nel nostro sistema culturale. Alla fine, come fa Hector Bianciotti per quelle tre entità, la nouvelle, le conte, le récit che da noi sono male unificate nel termine racconto, anche sul corto si potrebbe rinunciare a definizioni e comparazioni e rassegnarsi a rilevarne il carattere profondo: la continua metamorfosi. Affascina la libertà che il corto permette/esige (sia chiaro: rarissima, da non confondere con la confusa e diffusa sottocultura che nel genere si esprime). È la libertà di un frammento mediatico che ha il suo punto di forza in un’intensità da motto di spirito, che o “è riuscito o non esiste“, la libertà di un’arte fondata su null’altro che “la forza interna del suo stile, come la terra, senza essere sostenuta da nulla, sta in aria“. La varietà di ritmi, di apparenze, di approcci, di risvolti singolari, svela e nasconde il segreto che ne è il cuore, quello di un cinema tra i più inquietanti e necessari: non specchio, ma sismografo di ciò che si muove. Non c’è stata molta ricerca critica sul corto in Italia, e ancor meno teoria. Il corto non ha avuto e non ha troppa coscienza di sé. Eppure, si sono fatti nel nostro paese, in questi trent’anni, infiniti corti, se si intende il termine corto nella sua accezione più logica di forma breve. Anzi, come alcuni critici di tendenza teorizzavano anni fa, molti film lunghi non sono che “sciami di corti“, dei “corti mascherati, travestiti ed allungati, ma pur sem9


pre corti; montati e cuciti fino a raggiungere la durata canonica dei 90-110 minuti, ma corti nell’anima, nel progetto, nel codice genetico“ (G. Canova). Ibridi di corti giustapposti lo sono anche film di culto, e ognuno può trovare i suoi titoli. Come dire, insomma, che nell’era post-televisiva il cinema è sempre più spesso portato, anche in alcune espressioni alte, a “pensare (e a pensarsi) corto”, nonostante l’apparente, pratica, pigra dittatura del lungo. Allora il corto si fa quasi metafora di un’erranza del cinema, di quel “incessante slittamento di ogni lessico sulla presupposta solidità delle cose”. Siamo lontani da quella che è stata una delle concezioni più in auge e più deleterie, quella utilitaristica, strumentale, quella dell’apprendistato: il corto come momento di passaggio. Una non-teoria che ha inciso sul piano dei comportamenti. Se scuole di cinema e certe cerchie di professionisti ne sono gli epicentri tradizionali, essa si generalizza in una diffusa volontà di mostrarsi adatti - tecnicamente adatti - a forme, modalità, logiche di mercato, in un’ansia di professionalità, tutta interna, specialistica, magari anche di ricerca, ma di ricerca asettica, da esibire in continuazione, da replicare, da mettere a profitto. Il corto come prove tecniche di regia è l’espressione di una visione autarchica del fare, di un nombrillismo che non si apre su nulla, nemmeno su un desiderio di cinema, segno ad un tempo di un’incapacità a misurarsi con la stessa presente realtà effettuale dei media. Forse chi ha saputo con più precisione disegnare lo scenario reale entro cui le forme brevi si trovano ad operare, la “radicale riforma di attese, percezioni, durate e materie dell’immagine” che il corto implica, sono state proprio le visioni di tipo catastrofico, connesse a una sorta di esplosione centrifuga dell’intero settore dei media. Al di là dei loro fondamenti filosofici e sociologici, esse hanno avuto il merito di lavorare sullo snodo chiave di una serie di forti relazioni tra spazio, autore e testo. Sino alla teorizzazione di possibili “nuove forme di cinema solo lontano dai cinema, dal cinema”. Sino al sogno (che si è fatto realtà ma forse non nelle forme che i suoi teorici pensavano) di una “proiettabilità illimitata” in un ovunque che può essere cineclub, discoteca, fastfood, sala videogiochi. Sino all’utopia della “produzione di ipertesti da usare in reti intermediali”. Fuori dal rito della sala, comunque. Fuori dal formato unico più che dominante dei classici “novanta minuti” (come le partite di calcio), un assurdo teorico e forse anche economico che è stato e resta legge assoluta di una forma di consumo. Quella dell’esclusività della sala è una fine che continua. Essa comporta, come causa-conseguenza, una diversa nozione del tempo e della durata. Il 10


tempo delle forme brevi non è quello accelerato e miniaturizzato oppure dilatato e infinitamente espanso delle avanguardie, è quello frammentato del consumo mediologico. E la sala è (senza dubbio: è stata) per natura, per rigidità tecnologica, per tipo di organizzazione del lavoro, ostile al diverso, ferma a mezzo secolo fa rispetto a un mondo in cui “le visioni si accavallano con frequenze inimmaginabili”. Vero motore della scomposizione della séance in infinite ipotesi di corti è ovviamente la TV matura con la sua articolazione di canali e durate, compresa quella trasversale, soggettiva, libera dello zapping. È la surmodernità del corto, per usare la terminologia di Serge Daney, esperienza espansa e illimitata nei suoi spazi d’uso, nata grazie alla TV e che in TV è arrivata - nel senso che la fine tendenziale delle reti generaliste ha accelerato la critica e la definitiva disintegrazione di una tradizionale testualità - e ad un tempo non è ancora arrivata, nel senso di una sua assunzione totale da parte dei gestori mediologici. Il disgregarsi di una nozione monolitica di tempo e di durata apre spazi di ricerca di senso nella ricostituzione del “corpo di un consumo”.. Forse non c’è stata (non c’è ancora stata) la svolta epocale prevista, a portare la “complessità temporale“ anche dentro le sale e non solo dentro le storie raccontate sugli schermi. Certo, il rinnovato interesse per le forme brevi ha rappresentato l’epifania di un sogno-bisogno “di tanti film corti, cortissimi, lunghi, lunghissimi, fluviali, interminabili o fulminei“, in grado alla fine di introdurre un’instabilità che non ha paura del caos e delle strutture dissipative in quanto utopie di un nuovo e più complesso ordine. In processi che hanno radici differenziate nei vari paesi (brutalmente liberiste eppure alla fine creative, negli USA e in Inghilterra; di difesa protezionistica di una cultura e di una identità nazionale in Francia), il corto è da sempre il segno dell’attualità del cinema. Una sorta di detector di realtà e cambiamento. Qualsiasi forma di coscienza delle forme brevi non può non muoversi su questi territori, purché li si assuma non in maniera normativa ma come linea di tendenza. Per una ragione essenziale: perché qui si trovano i fondamenti strutturali (non estemporanei, di gusto, estetici) dell’attuale esplosione di quell’area di fenomeni espressivi che possono essere ricondotti alla dimensione del corto, anche se ciascuno diverso, ciascuno risultante di processi diversi di decostruzione e ricodificazione di forme e formati dei media. Ciascuno può tentarne una classificazione: short story, video-art, videoclip, spot pubblicitari, scorie o schegge che sono “la deriva di figure, testi, memorie in disfacimento”, sigle, trailer, intervalli come “stimoli all’attenzione distratta”, ipertesti, ecc., ecc., in un elenco che sembra un gioco ed è 11


in realtà una decisiva definizione di campo, necessariamente sconfinando al di là della short story. Il “corto d’autore” ha senso solo all’interno di un sistema mediologico complessivo delle forme brevi, di una logica e funzionalità di sistema che rende ragione, ben oltre tutte le forme classiche di mercato e di aiuto in atto (e soprattutto da conquistare), dello spreco economico di questo trentennio. È questa sua ragione strutturale che evita al corto la condanna a essere occasione, moda, eccentricità, episodica insorgenza di creatività. Le forme brevi rispondono a un sistema di attese materiali, frammenti di evidenze oggi, non in un ipotetico futuro. Tanto meno si richiamano a un passato (il tempo preindustriale dei pionieri, dei two reels degli anni Dieci e Venti) e a una tradizione più o meno lontana da recuperare. Siamo in presenza di un mondo discontinuo, che si muove, che dissolve statuti consolidati di fabbricazione e consumo e segna la fine di miti come quello dell’irraggiungibilità dell’immagine grazie alla diffusione di mezzi a basso costo, usabili da una pluralità di soggetti. Un fenomeno clamoroso a mezzo tra caos e liberazione. Se sarebbe deleterio trascurare l’apporto di immaginario e di sensibilità venuto da questo mondo, che vive prima di tutto nel mito dell’auto-espressione e che costituisce la variante attuale, diffusa, “liberata”, di un cineamatorismo di sempre, le sue pratiche restano al di qua di una vera consapevolezza di linguaggi e di processi che non si possono considerare come fini a se stessi. La libertà che le teorie della brevità e della condensazione, del resto consolidate nelle altre arti, apportano non significa per niente leggerezza dei mezzi, soprattutto in termini di linguaggi. Anzi, ne riaffermano una crudele imprescindibilità linguistica. Crollata la visione di un’autorialità sacra, intangibile, si assiste comunque alla fine della rigida gerarchia dei ruoli, a un’inedita reversibilità di posizioni tra autori e tecnici da set a set. Si stabiliscono altre procedure per negoziare un incessante andirivieni che è il segno di una condizione banalizzata (l’autore come funzione, come filmmaker, come colui che fa film e video, non come status, ruolo, valore) ed è causa-effetto di una diversa economia dei media. O di una diversa morale? È dentro questo paesaggio che si è svolta la storia dei corti - film e video - italiani, anzi la stessa storia della short story. Una storia non lineare, che procede per rotture, dissonanze, nostalgie, inedite trasversalità di formati e generi. Il 1980 è stata una data simbolo nella storia del cinema italiano recente, nella sua storia di crisi come condizione permanente. Segna la nascita di qualcosa di altro, che lavora su altre visioni e immaginari, un 12


diverso modo di vivere con le immagini che non è un’attesa di film impossibili. Un mondo che, venuto da altrove rispetto al nostro cinema, cerca di esprimere nuove realtà, nuove sensibilità, persino una nuova concezione dei media. Non importa troppo l’origine disparata di queste esperienze. C’è chi, di ritorno da studi o stages negli States, sogna di riprodurre il modello americano senza troppe mediazioni e chi vive gli ultimi bagliori di una controcultura che spesso degrada in sottocultura. Ci sono coloro che con Olmi e la sua Scuola di Bassano ricercano l’autenticità oltre ogni convenzione e coloro che, insoddisfatti, realizzano interessanti, professionali corti di fine corso al Centro Sperimentale, quelli che sperimentano moderne contaminazioni di mezzi, formati, arti (cinema-poesia, videoart, performance teatrale, azione multimediale) e quelli che s’avventurano ai confini di nuovi territori. Tante storie che sono confluite nella rinascita del corto, tanti protagonisti per caso di una rivoluzione mediologica in cui è obbligata la presenza di elementi di rottura e dispersione. Crisi successive sono sembrate negare questa salutare erranza, il gusto del deviare (non più, tuttavia, da una qualche strada maestra), spingendo verso sviluppi lungo strade che sono poi quelle canoniche del sogno della professione e del mercato. Un mercato che ha continuato a non esserci - e in quei termini di economia classica (domanda-offerta, acquisto-vendita: il botteghino), non potrà mai esserci - banalmente surrogato dal successo modaiolo del genere (oltre trecento festival di corti: più di uno al giorno, tutti nati, a parte due o tre storici, dopo gli anni Novanta). Ma sono anche, in alcuni casi, le strade di un’insofferenza per la “copia conforme”, le “immagini identiche”. È di questi anni una disseminazione del corto oltre i confini narrativi, in zone di non-fiction creativa, spesso a base documentaria, e in territori appartati, semi-specialistici (animazione, videoteatro, ecc.). Tanti possibili tagli, attraversamenti, commistioni. Come se il corto, all’interno di un sistema narrativo totale che vive di processi di imitazione e di conflitto, riscoprisse rapporti profondi con le altre arti e si trovasse di fronte uno spettro inedito di possibilità. È una disseminazione doppiata dalla diffusione e recupero dell’uso di un’infinità di formati, persino del vecchio super8 come emblema di ricerca sofisticata. In questo universo discontinuo si può forse ritrovare il piacere sottile di proposte diverse e, speriamo, sempre meno sagge, capaci di creare un’attesa, che si apre su una voglia di altro, un desiderio di séguito. A questo mondo così affascinante perché così diverso, il CNC intende portare un minimo di supporto che ne assicuri la libertà e la memoria, che 13


ne renda più incisivo l’intervento, che ne amplii la visibilità e lo renda davvero accessibile a specialisti e a spettatori comuni. Il CNC - che, non a caso, si è voluto chiamare centro, cioè luogo attraversato dai cambiamenti reali e aperto all’intervento, e non solo luogo di studio e analisi, istituto più o meno accademico - lavora per rendere vera in tutti i suoi aspetti - di visione e di proposta - quella convinzione diffusa del corto come altra faccia, misconosciuta ma essenziale, un tempo del cinema italiano, oggi anche del nostro sistema mediatico.

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Visioni/I critici

Visioni/I critici Drimage di Silvio Soldini, 1981

Grande mito dei primi anni Ottanta: l’America della no wave, della narrazione blank e stilizzata, di Jim Jarmush che riscopre attraverso Wim Wenders il fascino del bianco e nero e che aggiunge di suo la circolazione di forme e di modi di dire dentro il vuoto pneumatico di una società che non ha più niente da raccontare. Silvio Soldini studia cinema in America e lo realizza con Drimage. I suoi personaggi sembrano fluttuare nel nulla, i colori non ci sono, forma e storia si corrispondono reciprocamente e tratteggiano un mondo che nega soprattutto gli entusiasmi. Poi Soldini tornerà in Italia e tratteggerà altre solitudini, altri vuoti esistenziali, altri personaggi che si incontrano per caso e che per caso si lasciano, altri scenari di metropoli che sono soffocanti senza neanche avere il fascino alieno di Drimage. Ma in questo suo primo cortometraggio, a ben vedere, ci sono già tutti questi elementi, che devono solo sedimentare e maturare: esattamente come avverrà. I rapporti tra i vari personaggi che compongono la storia sembrano indicare un’insoddisfazione reciproca e profonda, un malessere appena celato dentro un quadro generale che il malessere vorrebbe estirpato per sempre. E chiariscono, molto meglio di mille saggi teorici, l’insoddisfazione ancora senza cause e senza obiettivi mentre intorno, nell’Ovest così sereno, qualcuno sosteneva che si stava vivendo nel migliore dei mondi possibili. (steve della casa) Ritratto di un piccolo spacciatore di Daniele Segre, 1982

La diffusione di eroina nei quartieri popolari è un fenomeno che assume grande importanza verso la metà degli anni ’70. In quegli anni Daniele Segre fa 15


il fotografo, rapisce con le sue istantanee tempi e modi di città che stanno rapidamente modificandosi, nelle quali poco o niente resta di quanto era stato dato per acquisito e noto fino a quel momento. Nei confronti dello spacciatore (così come dell’ultrà da stadio, altro argomento che è molto importante nei primi film di Segre) non c’è nessuna forma di conoscenza specifica: è come se fosse stato piantato il cartello hic sunt leones, come se si trattasse di un mondo parallelo nei confronti del quale non è interessante nemmeno la semplice conoscenza. Segre, che nel frattempo ha iniziato a fare il filmmaker, non si accontenta di quel cartello e valica di conseguenza le colonne d’Ercole, il mondo noto fino a quel momento. Conosce un ragazzo che vive vendendo la droga, la classica rotella da ingranaggio, e lo convince a raccontare la sua storia, la sua vita, i suoi pensieri. Lo spacciatore racconta con durezza e cinismo storie di vita quotidiana che mostrano come la droga sia solo il grado zero della mercificazione della vita: non è molto diverso da un bottegaio, che come valore principale ha quello di vendere più merci possibile, ha le stesse nevrosi, lo stesso disprezzo, la stessa finalizzazione di atti e pensieri. Per i critici più attenti è come se si spalancasse un nuovo mondo: siamo nel 1982, il cinema militante non c’è più, tutti parlano di videoclip e di professionalità, Segre invece inizia un percorso che lo porta a raccontare meglio di ogni altro l’Italia che cambia, l’altra Italia che (come sanzionerà poi De André) “Non vuole sentire il rumore di questo motore che ci porta quasi tutti quanti – maschi femmine cantanti – su un tappeto di contanti nel cielo blu”. (steve della casa) Ammutinamenti da sbarco di Maria Martinelli, 1983

Un uomo, un gruppo di uomini: il montaggio ne alterna le immagini, senz’altro commento che quello di un sonoro che struttura l’andamento enigmatico e inquietante di un incontro annunciato. Il gioco, fatto di ritmi spezzati e di movimenti fluidi, è fra interni ed esterni, fra il singolo e il gruppo, fra i luoghi anonimi (o non-luoghi: stazioni, sottopassaggi, marciapiede...) e dettagli di una casa abitata da oggetti, ricordi, una carta del mondo... Ma anche di contrasti di bianchi e neri della fotografia, di interruzioni nella parte sonora (rumori forti e improvvisi, bruschi sprofondamenti nel silenzio, musica ripetitiva che va e viene). Un’immagine quasi astratta, che tornerà più tardi, 16


mitraglia punti-luce, come contatti elettrici, percussioni enigmatiche. Nel groviglio delle ipotesi su questo incontro - un duello? - si riconoscono le forme note dei rituali: il bagno per l’uomo, la vestizione (guanti, oggetti offensivi) e ancora, l’acqua per il gruppo. Qualcuno corre lungo una strada, lungo le scie dei fari delle auto, nella notte. L’intravisto, l’oscurità, l’assenza di parola, il potere dei gesti, il ritmo e l’andamento spezzato eppure stranamente armonioso delle immagini e dei suoni fanno di quest’opera (segnalata anche dai Cahiers du Cinéma) uno dei lavori più affascinanti ed enigmatici della creazione videoteatrale degli anni Ottanta. Gli attori, più di trenta, alternano staticità di pietre a sinuosità minacciose, impenetrabili. Costruiscono eventi minimi: non c’è narrazione in senso classico, eppure una storia è abbozzata, forse immaginata: per frammenti, come le immagini; spezzata come i suoni. I “dialoghi” non fanno parte di questo universo, sono semmai eventi, gesti, sguardi, lievi avvicinamenti muti. E c’è qualcosa di inquietante nell’eleganza ottusa del gruppo e nella sorda inconsapevolezza dell’uomo solo. (sandra lischi) La guerra appena finita di Francesca Archibugi, 1983

Questa storia, ambientata a guerra appena finita, il 26 aprile 1945, è la prima delle storie “dalla parte degli adolescenti” narrate da Francesca Archibugi, segnate dalla necessità di uno “sguardo bambino che faccia da asse a tutto il racconto”. Saggio di diploma e nello stesso tempo opera già matura, cioè già inscritta nel mondo poetico dell’autrice, è il racconto minimale di una dolceamara educazione sentimentale, di una giornata che segna il passaggio dall’infanzia (la sepoltura sulle rive di un piccolo lago toscano dell’amato gatto Pasqualino) all’età adulta (la scoperta del sesso, sfiorato e intravisto tramite una giovanissima prostituta, giunta con un gruppo di balordi). Alla fine il ragazzino è già cosciente del suo potere da grande: “Voltati, voltati”, sussurra alla ragazza che, lontana, rincorre il camion che riparte e il suo desiderio imperioso è esaudito. Ciò che tocca sono le qualità “morali” (il microrealismo di una condizione che non finisce con la fine della guerra) e narrative (non “letterarie”, nonostante le apparenze) che l’Archibugi riversa nel “corto”, il suo insolito talento a lavorare dentro questi limiti, l’acutezza di sguardo che sembra coincidere con quello del ragazzo (sino a sfocare quan17


do lui si toglie gli occhiali) e in realtà lo doppia. Detto in altri termini, la sua capacità di calare il racconto in ambienti, figure, attori verosimili, in un’esperienza di cinema mai estrema. (gianni volpi) The Pit di Gianluca Di Re, 1984

All’inizio ciò che abbaglia è innanzitutto la precisione del rifacimento di uno stile: lo slapstick. Nei corti italiani la cinefilia è sempre troppa o troppo poca. Vi troverete una montagna di citazioni di genere, dall’horror alla fantascienza al crime movie, ma The Pit rimane l’unico, che io ricordi, ad aver ricreato la grana di un’immagine e l’effetto di un cinema inconfondibile, il disegno dei corpi e il sapore di un’epoca d’immaginario, con la accuratezza di un archeologo. All’inizio, insomma, ciò che colpisce sono, paradossalmente, proprio i production values. Che non sarebbero sufficienti a renderlo memorabile se lentamente non si insediasse anche il sospetto di una crudeltà enigmatica e insensata che rende lo slapstick non una rievocazione gaia ma lo scenario di una persecuzione (come potrebbero trovarsene, per intenderci, in Buñuel). Perché Big e Tiny sono prigionieri di una capricciosa principessa? Perché non si ribellano ad essa? Perché sembrano tenere alla fedeltà alle regole del gioco quanto la loro stessa carnefice? Smettiamo di chiederci quando e dove tutto questo sia rappresentato (se in una favola o in un’epoca lontana) perché lo spettacolo di quella schiavitù mentale e dell’oppressione di una legge invisibile ci attrae assai più della ricostruzione della sua verosimiglianza storica. The Pit ha questo di rigorosamente inedito: mostrare quanto poco sarebbe stato necessario per spingere Buster Keaton, solo un poco, per farlo precipitare nella Colonia penale di Kafka. (mario sesti) Incubus di Guido Manuli, 1985

L’uomo solo è il riferimento principale dell’universo poetico di Guido Manuli. Nei cortometraggi della sua maturità artistica, Solo un bacio (1983), Incubus (1985), +1-1 (1987), egli rappresenta con il consueto sarcasmo sur18


reale e corrosivo tre diversi stadi del disagio esistenziale. Nel primo le quotidiane frustrazioni sessuali a cui è sottoposto l’individuo, costretto volente o nolente ad occhieggiare beltà femminili tra edicole e schermi tv, si riversano su Biancaneve, l’archetipo della femminilità perbenista. Nel terzo il protagonista viene spietatamente messo di fronte alle conseguenze della propria esistenza (+1), ovvero della non esistenza (-1). Il risultato non può che essere malinconicamente sconfortante. In Incubus Manuli gioca invece crudamente con le paure dell’inconscio metropolitano. I nove incubi del solitario protagonista sono il campionario dello psicanalista alleniano di Manhattan o, meglio, di quello della ASL di Cinisello Balsamo. È tuttavia inutile cercare riferimenti all’analisi classica nell’incubo della donnina incinta che ti accusa o nella parete crepata che ti vomita addosso una montagna di intestino. Manuli non pare darsi la pena della coerenza scientifica. I suoi sono “incubi in libertà”. Lasciamoci dunque calare nel delirio onirico dell’ometto che si trova a baciare avidamente un capezzolo femminile trovandosi poi le labbra poggiate su un roseo e viscido naso di topo; affacciarsi quindi alla finestra ed incocciare in un pompiere poiché la sua stanza è sospesa nel vuoto; andare in bagno, schiacciarsi un brufolo e vedere il proprio volto sgonfiarsi come un pallone vuoto; concedersi un sorso d’acqua consolatorio e vedere il proprio corpo diviso a metà, con l’acqua che sgorga come da un rubinetto aperto. E così via da un incubo all’altro, in un impasto intervallato didascalicamente da bruschi risvegli. Finché l’inquietante nottata si stempera in una laboriosa alba metropolitana, o almeno così dovrebbe essere. Tra i cortometraggi di Manuli Incubus è forse il più riuscito. Alcune gag possono forse apparire scontate ma la regia ha una mano sicura per ritmo e coerenza dell’insieme. Fino alla sequenza finale, di notevole efficacia visiva e narrativa. (alfio bastiancich) Black Harvest di Guido Chiesa, 1985

Un aquilone che si chiama “alba del ’69” e un paio di nomi-chiave come Jimi Hendrix e Jim Jarmusch sono l’unica, essenziale cornice storico-culturale di questo corto “americano” di Guido Chiesa. Narrato con grande intensità psicologica e visuale, è il viaggio gratuito e beckettiano “alla ricerca di Danny”, che due giovani “dark” con qualche passato politico, Frances e Bill fanno 19


insieme, senza essere una coppia, lungo una spiaggia oceanica dal sapore inconfondibilmente metafisico, tra sole, mare, sabbia, mute presenze e passanti simbolici. Danny è solo un richiamo indistinto, portato da qualche cartolina di provenienza incerta, che attira molto più l’apatico Billy (“è come se avesse perso tutta la sua energia, uno che va sempre più giù e gli piace”) che la vitale, dinamica Frances . “There is no Danny”, dice la ragazza; ma soltanto lei tornerà verso la città, traversando come un confine i binari della ferrovia (feticcio ricorrente di tanta drammaturgia USA) e riportando indietro questa sua cupa certezza. Bill è sparito come Danny, inghiottito dalla notte, la sola notte del racconto, e da questa spiaggia desertica e surreale, dove le case sono abbandonate come le persone, dove tutto può esserci, mi pare, là in fondo..., ma niente si trova. Frances che ride, scherza, lavora e maneggia i soldi, Frances che “vive” i celebri assoli di Hendrix (l’unica scena in macchina), rifiuta di sciupare la sua voglia di vivere su quella grande spiaggia, che Bill trova “piena di pace” e lei solo “vuota”: così le loro due “brevi vite” (Short Lives è il titolo, molto più suggestivo, della serie che il corto doveva inaugurare) si separano al bivio preparato dal destino. Scelgono entrambi la solitudine, pagando forse il prezzo leggero di una lontana, esile nostalgia della diversità misteriosa dell’altro. Un corto di grande ritmo e qualità narrativa, con tempi densi e perfetti, costruiti con naturale maestria cinematografica sopra la magra struttura di un racconto vuoto di aneddoti: non poche immagini, soprattutto in esterni e sulla spiaggia, fanno pensare ad Antonioni, mentre l’evidenza quasi fisica dello sguardo cinematografico ricorda, non a caso, un altro giovane “emigrante” rientrato dagli USA come Antonio Tibaldi. Sarà anche una semplice simmetria biografica, ma scorrendo i film di questi due cineasti, si riconosce spesso un modo di “parlare cinema” che potrebbero entrambi aver appreso dalle stesse parti. (gaetano stucchi) La camera astratta di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro, 1987

Con Prologo segreto contraffatto e La camera astratta, il video fa la sua entrata sulla scena teatrale, sia come dispositivo scenografico sia, più sottilmente, come elemento narrativo e dialettico. La camera astratta, opera frequentatissima dalla critica, è indubbiamente una delle pietre miliari nella sto20


ria dell’incontro fra immagine elettronica e “nuovo teatro”, e in particolare fra l’esperienza teatrale di Barberio Corsetti e quella cinematografica e video del gruppo milanese di Studio Azzurro. Il video che ne è stato tratto, è un felice esempio di documentazione sintetica ed efficace. Lo spettacolo, rappresentato la prima volta a Kassel, nell’ambito di “Documenta 8”, nel 1987, poi messo in scena molte altre volte con grande successo in tutto il mondo, è una complessa rappresentazione per venti monitor, tredici telecamere e sette attori. In teatro l’elegante dispositivo teatro-video (immagini registrate e immagini in diretta, corpi “reali” e corpi rappresentati, natura e tecnologia...) poggiava sulla creazione di una doppia scena: “una parte visibile agli spettatori e una occultata… gli attori dovevano entrare e uscire da questi due spazi, praticare il palcoscenico grande del teatro e subito dopo quello minuscolo ma infinito della telecamera; dovevano con il proprio movimento, la propria espressività, divenire l’elemento dinamico che rimescolava la diversa natura delle sue scene”, ha scritto Paolo Rosa. Basato sulla fragile trama di una passeggiata all’aria aperta, coi suoi ricordi e le sue associazioni mentali, lo spettacolo intreccia i vari piani di un monologo interiore che dà corpo a oggetti e personaggi. Cercavamo - scrive ancora Rosa - di “dare visibilità a quella camera astratta che ci sta dentro e che si è enormemente dilatata per l’affollarsi di informazioni, spesso inutili e prive di esperienza diretta...” Ha scritto Maria Grazia Mattei: “Nella Camera astratta lo spazio scenico diventa spazio mentale; in quell’ora di spettacolo il pubblico vive i suoi stessi sogni in diretta”. (sandra lischi) Nome di battaglia: Bruno di Bruno Bigoni, 1987

Girato in video e in super8, Nome di battaglia è uno tra i migliori esempi e forse il capostipite - di quel lavoro tra finzione e documentazione, intervista e messa in scena, all’interno del quale si troveranno spesso i corti più originali del nuovo cinema italiano (come testimonierà il lavoro di Antonietta De Lillo e Roberta Torre). Lo schema più convenzionale della messa in scena tv (l’intervista, la conversazione, la testimonianza, il ritratto di cronaca) viene costantemente, e quasi inavvertibilmente, sottoposto ad una pressione estranea che trasforma questa scena in qualcosa di più complesso e suggestivo. Come se in un articolo di un quotidiano trovaste 21


improvvisamente la voce narrante di un racconto o frammenti epistolari o qualsiasi altra traccia della costruzione di una finzione o di una scrittura che vi irrompono senza preavviso. I soprammobili, la chitarra, i giornali dell’epoca, le impossibili soggettive, l’allucinazione acustica della voce indecifrabile, tessono nella neutralità del resoconto il tremore di uno sguardo che assottiglia senza incertezze le distanze col cinema vero e proprio. Dietro l’approfondimento giornalistico, Bigoni ricostruisce con tocchi da videoclip una silenziosa analisi sentimentale: perché è entrato nelle BR, cos’altro avrebbe potuto soddisfare la sua sete di giustizia, come fa la madre a credere di parlare con lui attraverso una medium e un registratore, si può rinunciare a crederlo di fronte alla scomparsa di un figlio? Proprio quelle risposte in forma di domande che la finzione, e non la cronaca (e neanche la politica) possono fornire. (mario sesti) Dialoghi di Alphaville di Mario Martone, 1987

Nel percorso di ricerca che da sempre ha caratterizzato la compagnia Falso Movimento diretta da Mario Martone, non poteva mancare un capitolo dedicato all’indagine sui mass media in rapporto al teatro. In particolare, sulla mutata percezione della realtà che ha il fruitore di televisione. Parte da lontano e da precedenti illustri Martone per svolgere il suo lavoro. Questo cortometraggio ha infatti le sue radici nel film di Jean-Luc Godard Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution del 1965, che a sua volta si ispirò ad un personaggio di romanzi gialli degli anni ’40. Il regista francese ambienta la sua storia in un paesaggio di fantascienza a sottolineare il contrasto tra tradizione culturale e tecnologia. Martone in un certo senso segue la stessa pista del gioco degli opposti, mischiando in un film narrativo unico, televisione e recitazione teatrale. Lo spiazzamento dello spettatore di teatro è assicurato. Qui tutto ruota intono al rapporto che l’attore instaura con l’altro protagonista dello spettacolo che però è filmato: dentro un monitor. Il dialogo tra i due appare reale, diretto, come se avvenisse in quel preciso istante. Seguendo la logica della narrazione teatrale è ovvio che questo non può avvenire, ma il rapporto con i media diventa qui così forte e preciso che scavalla ogni tipo di percezione del reale per entrare direttamente ai giorni nostri. Dialoghi di Alphaville è datato 1987, Martone adoperava il linguaggio tea22


trale per riflettere sul presente, cercare e porsi delle domande su quelli che allora altro non erano che labili segnali di una realtà oggi molto chiara: può la televisione, il virtuale entrare nella nostra personale percezione della realtà? Convivere con essa, se non addirittura mischiarsi? Per il nostro quotidiano la risposta mi sembra implicita, ma quando Martone propose questo lavoro, tutto era fantascienza. Fare teatro di ricerca voleva dire fondamentalmente porsi delle domande, riflettere. Quello che oggi è fantascienza. (vittoria castagneto) A Love Song di Mimmo Calopresti, 1987

A Love Song, breve esordio nella fiction e nella regia (da solo) di Calopresti, non assomiglia a nulla nella sua opera. Né ai documentari sociali, dapprima integrati alla musica, poi segnati da universi chiusi, prigione, casa circondariale, fabbrica. Né alle esperienze collettive con la Blood Video e la West Front, pur quasi integralmente trasferita nella troupe (a cominciare dal “socio” Claudio Paletto co-sceneggiatore). Né alle fiction lunghe di là da venire. Siamo, invece, dalle parti del tipico film d’autore indipendente di quegli anni. Una crisi esistenziale (una storia di non-ménage a tre), un genere (un noir vagamente ribellistico: c’è sempre una pistola che circola, c’è sempre una rapina, segni immediati e facili di non-conciliazione) e la presenza ossessiva del video, prevaricante l’immagine-cinema. Brusii, allarmi di teleschermi vuoti, monitor polizieschi, video di concerti, persino Vivere di Kurosawa in tv, occupano il grande schermo, lo negano. A contrastarlo l’“effetto cinema”, inquadrature rasoterra, discese nel ventre dei locali alternativi e dei cinema a luci rosse, scene d’amore ridotte a pose artistiche, a dettaglio di lobo femminile. Il montaggio è raccorciato, quindi dissennato, il sonoro sporco, disturbatissimo. E c’è un cult come “Gloria” tra Franti, Doors e U2, Hendrix e Patti Smith, prima di finire con il calcio, con un brutto fallo su Stielike. Come un ultimo scherzo nichilista in forma di infrazione della retorica del racconto. (gianni volpi)

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Parricidio di Eugenio Sandri, 1987

Tredici asciutti minuti in 16mm bianconero per un racconto esplicito e diretto come il suo titolo. Drugo, ragazzino di campagna, ha un difficile rapporto col padre/padrone e sogna di ucciderlo; al risveglio la pulsione parricida non si spegne. È curioso che, come raccontò l’autore, vicentino trentenne trapiantato in Romagna, quel corto autoprodotto fu il frutto - e il risarcimento di un’inchiesta sull’affido familiare che doveva essere finanziata da un ente pubblico di Rimini e non fu mai fatta. Nulla di sociologico in questo piccolo e denso racconto, in bilico tra incubo e realtà. In Pel di carota (1894) Jules Renard raccontò l’infelicità di un bambino nella campagna francese dell’ultimo Ottocento. Sandri, non ignorante di psicoanalisi, ha dato un colpo di sonda negli abissi di violenza adulta sui bambini nella campagna italiana di oggi, affidandosi soltanto alla forza delle immagini. (morando morandini) Non date da mangiare agli animali di Davide Ferrario, 1987

Il dialogo fuori campo che incornicia il film, aprendolo sui titoli e chiudendolo sul nero, non solo rinvia, nel suo contenuto, alla dimensione fiabesca e fantastica del racconto, ma anche fa riferimento alla presenza di una madre e a una bimba che non prenderanno corpo all’interno della narrazione, almeno così come le abbiamo immaginate. Voci acusmatiche, mentali o immaginarie, evocano un momento della relazione tra madre e figlia che è destinato a finire, o a esistere in quanto perdita. L’incipit del film, nel passaggio dalle voci off all’immagine di un unico soggetto femminile laddove ne avevamo percepiti due, segna fin da subito e definitivamente lo strappo, la perdita, la castrazione come ferita e cicatrice, traccia di ciò che è seguito a quel momento lontano. La macchina da presa, in effetti, muove lentamente e circolarmente intorno a una figura femminile sdraiata su di un letto che immaginiamo occupato anche dalla bambina di cui abbiamo udito la voce, finché il progressivo ampliamento del campo visivo, dopo aver potenziato l’attesa dello spettatore, la nega traumaticamente. Non c’è una bambina, non c’è necessariamente una madre, c’è solo una donna che (si) legge un libro, che (si) racconta quindi una storia, accanto alla protesi di una gamba e un bastone. Che fine hanno 24


fatto le voci che abbiamo udito prima? Lo sviluppo del film ci mostra poi sì una madre, ma questa madre non è più di sicuro quella, non sa più parlare a una figlia che continua a chiamare assurdamente “la bambina”. Il tempo sembra sfalsato, rispetto alle voci inaugurali. E “la bambina” che ora vediamo con chiarezza è la donna che abbiamo visto solo da dietro all’inizio. Anche lei non sa più parlare, non vuole parlare con la madre, e si trascina la sua ferita, la sua protesi, insieme al libro che è l’elemento di continuità tra tutti gli accadimenti, puramente sonori e poi pienamente visivi e sonori del film, fino a incontrare l’uomo di cui accennava la storia narrata all’inizio. La crescita, la ricerca di una propria identità e di una nuova relazione che non è più quella parentale, ma è quella sessuale con un soggetto maschile, l’età adulta, avvengono nel film di Ferrario come le tappe e i momenti iniziatici e dolorosi, traumatici di una fiaba, quella fiaba che, come dice la voce materna nel fuori campo sonoro finale, deve far paura per aiutare a crescere. La forza di questo racconto è anche quella di riscattare, di risolvere definitivamente il sottotesto psicanalitico in uno scenario che, pur partendo da location reali, rende la dimensione mitica del parco preistorico e zoologico, la presenza biologica e metaforica dei primati in gabbia, qualcosa di fantastico e sensibile insieme. (giulia carluccio) Congiuntivo futuro di Ursula Ferrara, 1988

Splendida Ursula, un disegno trascinante, dall’incredibile dinamismo grafico e volumetrico, che sembra direttamente “ispirato” e animato dal tema scelto, il tema solidamente godurioso e vitalistico della copula. La “congiunzione” io credo - è per lei una figura primaria della vita, che nel suo mondo di giovani donne dai seni rotondi e dalle carni sode s’intreccia instancabilmente con i simboli dell’intero ciclo biologico e storico, con l’acqua e i pesci e gli uccelli, con la guerra e la morte, con l’uovo e la gravidanza, con le quadruple mammelle dei nostri ultimi antenati e dei nostri successori più lontani. L’erotismo inconfondibile e visionario dei suoi racconti, il segno sano e impudico al tempo stesso che compone le sue animazioni, con quel ritmo incessante tra la saga popolare e l’ammucchiata borghese, fanno della Ferrara una presenza sicura e originalissima nel cinema corto italiano. La sua brevità è fisiologica (tempo e fatica del disegno artigianale) e folgorante, ma non le 25


impedisce inattesi spessori ed echi sorprendenti, lampi e memorie visive o letterarie. Insomma una densità tutt’altro che dotta, ma nutriente ed energica come un buon pasto per gastrosessuali quali siamo tutti (Flaiano). E forse, da bravi coccodrilli, non ci può sfuggire il retrogusto contraddittorio e un po’ aspro delle sue filastrocche, quella vena finale di stanchezza. O di tristezza. (gaetano stucchi) Storie metropolitane di Marco Bechis, 1988

Con un budget importante e qualche attore di grido in brevi apparizioni, avrebbe potuto dilatarsi fino a diventare uno di quei film a episodi che andavano di moda negli anni Cinquanta: Sotto i tetti di Parigi, Racconti romani, Stazione centrale del Cairo… E se Vittorini non avesse ancora depositato il suo titolo, avrebbe potuto chiamarsi Le città del mondo. Il fatto curioso è che il film sarebbe stato molto diverso da questo mediometraggio se Bechis l’avesse fatto con un budget importante, e sarebbe certo somigliato di più ai due film del regista su Buenos Aires, nel senso che avrebbe proposto aneddoti d’altro significato, e li avrebbe affrontati con ben altre esigenze. Qui si passa da Los Angeles a Parigi centro a Parigi banlieu a Milano a Istanbul a La Paz a Buenos Aires (tappa obbligata come Milano!) mescolando, su pretesti narrativi esili esili, vicende e paesaggi, cercando di integrare le vicende nei paesaggi urbani per “interpretare” infine quei paesaggi restituendocene un sapore: il sapore della città, la specifica “qualità” di quella città. I luoghi sono sempre di passaggio, di folle e persone che vanno e che vengono, e la direzione è incerta, mentre l’origine nascosta. Comunicano un sentimento di precarietà, queste storie; le città sono lì, possenti, che sembrano eterne, e noi che le viviamo e attraversiamo ci siamo invece per poco. Per questo bisognerebbe che fossero migliori, o che noi contribuissimo a renderle tali. La loro varietà ci incanta ancora, nonostante tutto esiste ancora, ma le nostre facce si somigliano tra loro sempre di più, e la nostra ricerca di facce che corrispondano alle nostre è più delicata che mai. La città non avvicina i suoi abitanti, li allontana. La città dovrebbe tornarci amica, dice Bechis. (goffredo fofi)

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