Roger Tailleur. Gli occhi fertili

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Gianni Volpi

Le opere e i giorni del grande cinema

Roger Tailleur Gli occhi fertili a cura di Gianni Volpi Postfazione di Frédéric Vitoux, Académie Française

“Mi piacerebbe pensare che nel mio percorso critico mi sia, almeno in parte, rimodellato sugli insegnamenti di Roger Tailleur“. Paolo Mereghetti, Roger Tailleur & Positif, 2006 “Tailleur mi sembrò da subito un modello critico irraggiungibile. Per personalità e per stile: clarté e profondità, una scrittura di essenzialità e pregnanza stendhaliane e, con molta maggior leggerezza, qualcosa della scuola americana degli Edmund Wilson, discorsiva, aperta, antiretorica e antiaccademica“. Goffredo Fofi, Roger Tailleur & Positif, 2006

Roger Tailleur (1927-1985) è uno dei più grandi critici cinematografici del dopoguerra. Per quindici anni è uno degli esponenti più prestigiosi del mensile parigino Positif. È stato critico ai settimanali Les Lettres Nouvelles, Arts, France-Observateur, ha collaborato al quotidiano Combat, ha scritto saggi fondamentali su Kazan, Antonioni, Bogart, il Western: questo volume riunisce tutti questi testi, che sono ormai dei classici per profondità di analisi e valori di scrittura.

ricerca e traduzione: Alice Volpi cura editoriale: Lia Furxhi

Le opere e i giorni del grande cinema

“Era uno dei pochi a essere apprezzato dai suoi avversari. Godard e Truffaut amavano quello che lui scriveva e ammiravano l’incisività della sua scrittura”. Michel Ciment e Louis Seguin, Viv(r)e le cinéma, Actes Sud, 1997

Roger Tailleur Gli occhi fertlili

“Assieme a François Truffaut, Roger Tailleur resterà il prototipo perfetto del cinefilo nel senso più nobile e alto”. Louis Marcorelles, Le Monde, 13 settembre 1985

Le opere e i giorni del grande cinema

Roger Tailleur Gli occhi fertili

a cura di Gianni Volpi

ISBN 978-88-89782-27-9

29,00

EDIZIONI

FALSOPIANO


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FAI cinema

SAGGI

una collana diretta da Gianni Volpi realizzazione a cura di Lia Furxhi


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ROGER TAILLEUR GLI OCCHI FERTILI

a cura di

Gianni Volpi

EDIZIONI

FALSOPIANO


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Questo libro è stato realizzato con il contributo di REGIONE PIEMONTE. Assessorato alla Cultura MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI

Traduzione e ricerca: Alice Volpi Cura editoriale: Lia Furxhi

Il curatore ringrazia per la collaborazione Georges Bollon Michel Ciment Goffredo Fofi Mario Galasso Paolo Mereghetti Paul-Louis Thirard

Un ringraziamento particolare a Frédéric Vitoux, dell’Académie française

In copertina: James Dean in La valle dell’Eden di Elia Kazan A pagina 9: Marlon Brando in Viva Zapata! di Elia Kazan

© AIACE Nazionale – 2010 © Edizioni Falsopiano – 2010


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INDICE

La leggerezza di un maestro della critica di Gianni Volpi

p. 11

Elia Kazan

p. 17

Film per film

p. 155

I. Cinéma 56 à 60 I film di Louis Armstrong L’ultima frontiera di Anthony Mann Gene Kelly Un autore storico: Frank Tashlin

p. 157 p. 160 p. 161 p. 163

II. Les Lettres Nouvelles L’ultima caccia di Richard Brooks Le amiche di Michelangelo Antonioni Un film argentino. La casa del ángel di Leopoldo Torre Nilsson Un Buñuel velato. Estasi di un delitto di Luis Buñuel Fellini batte il marciapiede. Le notti di Cabiria di Federico Fellini Un re a New York di Charles Chaplin Una vampata d’amore di Ingmar Bergman Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani Stella di Michael Cacoyannis Rapina a mano armata di Stanley Kubrick Ascensore per il patibolo di Louis Malle I piloti dell’inferno di Cyril Raker Endfield La Déroute di Ado Kyrou Un urlo nella notte di Martin Ritt Il settimo sigillo di Ingmar Bergman La stagione del sole di Yasushi Nakahira Les Girls di George Cukor La ragazza del peccato di Claude Autant-Lara Una vita di Alexandre Astruc L’infernale Quinlan di Orson Welles Les Amants di Louis Malle Peccatori in blue jeans di Marcel Carné Strada infuocata di Samson Samsonov

p. 169 p. 171 p. 175 p. 177 p. 179 p. 182 p. 185 p. 189 p. 191 p. 192 p. 193 p. 194 p. 197 p. 197 p. 200 p. 203 p. 205 p. 207 p. 210 p. 211 p. 213 p. 216 p. 218


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Il grido o la donna della sua vita di Michelangelo Antonioni Nascita di Bergman. La prigione L’altra frontiera. Alle soglie della vita di Ingmar Bergman Superba sintesi. Ivan il terribile di S. M. Ejzenštejn Il film di un visionario. La fossa dei disperati di Georges Franju Un albergo spagnolo. I cugini di Claude Chabrol Una certa follia. Il paradiso dei barbari di Nicholas Ray Aspettando Tashlin. A proposito di In licenza a Parigi di Blake Edwards e di La signora mia zia di Morton DaCosta Il posto delle fragole di Ingmar Bergman Il punto più basso. A proposito di Les Draguers di J.-P. Mocky, Questione di pelle di C. Bernard-Aubert, I vampiri del sesso e Appuntamento con il delitto di E. Molinaro Come sono stati realizzati I quattrocento colpi Howard Hawks, barbaro e classico. Un dollaro d’onore Dal piccolo trotto al gran galoppo. I quattrocento colpi Un nuovo “disastro di guerra”. Hiroshima, mon amour Gli amanti di Mizoguchi Grandezza e decadenza del Western Venezia ’59. Dodici bei film tra cui due capolavori Una strana estate L’astuto Wilder. A qualcuno piace caldo Semplicità, purezza. La sentenza di Jean Valère Mimetismo. Le jene del quarto potere di J.-P. Melville Otto Preminger cineasta della libertà. Anatomia di un omicidio I benefici dell’aria aperta. Intrigo internazionale In gran forma. Cenere e diamanti di Andrzej Wajda Pierre Kast ci parla di La dolce età Pan sull’erba. Picnic alla francese di Jean Renoir Un grande cittadino. Citizen Kane Tours 1959 Intermezzo. Una lezione d’amore di Ingmar Bergman Il vecchio e il nuovo. Il testamento di Orfeo di J. Cocteau e La dolce età di P. Kast Il cinema americano nel 1960 Contro. Zazie nel metrò di Louis Malle Tirate sul pianista di François Truffaut Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais Cinema senza sorprese

p. 219 p. 222 p. 224 p. 226 p. 228 p. 231 p. 233 p. 235 p. 237

p. 240 p. 242 p. 244 p. 247 p. 249 p. 252 p. 254 p. 257 p. 260 p. 262 p. 265 p. 267 p. 268 p. 270 p. 272 p. 275 p. 279 p. 280 p. 282 p. 285 p. 287 p. 291 p. 295 p. 298 p. 301 p. 305 p. 311


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III. Arts Cenere sotto il sole di Delmer Daves La trappola si chiude di Charles Brabant Mare caldo di Robert Wise Giochi arditi di cinepresa. La tela del ragno di Vincente Minnelli Un tempo perfetto. Destinazione Parigi di Gene Kelly Il fronte del silenzio di Karl Malden La vera Hollywood. L’animale femmina di Harry Keller La falsa Hollywood. La divina di John Cromwell La legge è legge di Christian-Jaque Desiderio sotto gli olmi di Delbert Mann Lo specchio a due facce di André Cayatte

p. 319 p. 321 p. 322 p. 324 p. 326 p. 328 p. 329 p. 331 p. 333 p. 335 p. 336

IV . Intermezzo: Présence du Cinéma, Combat, Image et son, Cahiers du Cinéma E Vadim... creò il nuovo cinema Per un ritratto di Franju Piccolo dizionario degli sceneggiatori di Western L’ebreo e il negro John Sturges, westernista L’età dell’amore Risposta a un’inchiesta sulla censura La critica

p. 339 p. 344 p. 345 p. 353 p. 355 p. 358 p. 361 p. 362

V. France-Observateur Uno, due, tre! di Billy Wilder “La ballata dei senza speranza” L’urlo della battaglia di Samuel Fuller Il bacio dell’assassino di Stanley Kubrick Le sirene urlano, i mitra sparano di Claude de Givray Placido di Luis García Berlanga Il vero Vincitori e vinti. Mein Kampf, film di montaggio di Tore Sjöberg Mister Hobbs va in vacanza di Henry Koster John Ford vent’anni dopo. L’uomo che uccise Liberty Valance I John’s brothers. I tre della Croce del Sud di John Ford Ray l’indù. Il mondo di Apu di Satyajit Ray Chiamami Buana di Gordon Douglas

p. 366 p. 367 p. 369 p. 369 p. 371 p. 371 p. 373 p. 374 p. 375 p. 376 p. 377 p. 378


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Sotto l’albero yum yum di David Swift Un Hitchcock polacco. Il treno della notte di Jerzy Kawalerowicz L’uomo di Rio di Philippe de Broca La pantera rosa di Blake Edwards Il pirata di Vincente Minnelli A 007, dalla Russia con amore di Terence Young Amore alla francese di Robert Parrish Le sette spade del vendicatore di Riccardo Freda Il giorno dopo la fine del mondo di Ray Milland I due cinema-verità La Jetée di Chris Marker Dove vai sono guai di Frank Tashlin Il mistero del castello di Don Sharp La frenesia del piacere di Jack Clayton Il furore di Clementine. La carovana dei Mormoni di John Ford La celluloide e il marmo. Samson di Andrzej Wajda David e Lisa di Frank Perry L’amaro sapore del potere di Franklin Schaffner Ogniomistrz Kalen (Morte alle SS) di Czeslaw ed Ewa Petelski Chi giace nella mia bara? di Paul Heinreid Insieme a Parigi di Richard Quine Un “hooligan” di talento. Le più belle truffe del mondo di C. Chabrol, U. Gregoretti, H. Horikawa e R. Polanski Far West di Raoul Walsh Un puntillismo esasperato. Cool World di Shirley Clarke Chaplin contro Charlot. La mia vita di Charles Chaplin Gli indiani di Monsieur Ford. Il grande sentiero di John Ford La passeggera di Andrzej Munk

p. 379 p. 379 p. 381 p. 382 p. 383 p. 384 p. 385 p. 386 p. 386 p. 387 p. 389 p. 390 p. 391 p. 392 p. 393 p. 395 p. 396 p. 397 p. 398 p. 399 p. 400 p. 401 p. 403 p. 403 p. 406 p. 408 p. 410

Ritratti

p. 427

I. Humphey Bogart. In solitudine e di notte II. Chris Marker III. Il western. L’Ovest e i suoi riflessi

p. 429 p. 443 p. 473

Mi sembra che Roger sia ormai in Italia di Frédéric Vitoux

p. 503

Bibliografia Indice dei nomi Indice dei titoli

p. 529 p. 540 p. 577


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La leggerezza di un maestro della critica di Gianni Volpi

Lo so, a lui non sarebbe piaciuto quel termine “maestro”. Eppure tale è stato per tanti, amici e “nemici”, citato, plagiato, invano imitato. Lo è stato proprio nel senso in cui Edmund Wilson dedica Il castello di Axel al suo professore Christian Gauss, un «maestro della critica che ha insegnato molto insistendo poco». Ossia con leggerezza, con ironia e – ed è la stessa cosa – con fedeltà alle proprie radici e passioni. La sua opera, poiché di un’opera si tratta, variatissima (di argomenti, occasioni, destinatari) e unitaria (nella visione, ma anche nel tempo, tutta racchiusa in appena 15 anni, tra il ’53 e il fatidico ’68) ha l’evidenza di quella di un classico, cioè è destinata a insegnare a lungo, oltre che ad affascinare per i valori di scrittura. Tailleur era un uomo e un critico che aveva, appunto, radici e passioni. Quelle cinefile, tra art-et-essai, studio, cine-club di una Parigi del dopoguerra in cui si consumavano epiche battaglie tra giovani appassionati destinati a fare scuola, e sale di seconda, terza visione, dove era dato vedere tutto il cinema americano e scoprirne i piccoli maestri, ce le hanno benissimo raccontate Ciment e Seguin nell’introduzione a Tailleur&Positif, primo volume della raccolta degli scritti di Roger. Che si muoveva tra autori (quelli veri, e non quelli della politique des auteurs) e “cultura di massa” (in anni, gli ultimi, in cui era ancora produttivo un approccio “democratico” al divertissement taylorizzato). Altre radici profonde - idee, cultura, formazione, visione critica - ce le svela l’unica monografia che scrisse autonomamente, quell’Elia Kazan che costituisce forse il titolo migliore della celebre collana di Seghers e resta uno studio esemplare per ampiezza e profondità di sguardo. Di Kazan, Tailleur rivisita le radici rooseveltiane – che, in fondo, erano anche le sue radici ideali, anche se commistionate con caratteri francesi come in pochi. Gli anni Trenta, i Fronti Popolari, l’antifascismo, esperienze di passioni e tragedie, rese grandi dalle loro 11


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stesse contraddizioni. La storia di un autore diventa storia di un’intera epoca della cultura e della società e s’intreccia con la storia di un teatro e di un cinema segnati da quegli ideali; è da questa linfa vitale che prende tutto il suo senso una delle biografie più esemplari, personali (e drammatiche nelle sue svolte, nei suoi tradimenti) del Novecento qual è quella di Kazan. Tailleur ne sintetizza genialmente gli sviluppi ipotizzando un percorso dall’oggettività dell’egli a un comunicativo tu, prima di approdare alla pienezza dell’io, sul filo di una soggettività che si nutre di storia, via via più estranea a ogni falsa coscienza rispetto a sé stesso e al mondo in cui ha scelto di vivere, via via più solitaria e penetrante nella sua introspezione. Si può essere d’accordo o no su qualche giudizio, qua e là, in bene e in male, frutto di un certo clima culturale d’epoca (vedi, all’opposto, Hitchcock e Aldrich, se non Franju), ma come non essere affascinati da questa cinefilia, da spettatore colto, libero, aperto a un ampio spettro di idee e di attività fantastica, che nello stesso tempo era quasi un progetto di critica come “crocevia”? Roger sfuggiva al rito della critica. Più valevano cinefilia colta, sensibilità, intelligenza, empatia e su questa base dialogava con altri spettatori-lettori, condividendo (ogni vero appassionato ama soprattutto condividere) visioni, analisi, culture e sottoculture e, sullo sfondo, un ethos – un’idea di moralità laica, un po’ alla Becker, certi valori personali ma fondanti i rapporti con gli altri, quindi anche i rapporti sociali, tutt’altra cosa rispetto alle “choses de la vie” di troppo cinema francese. I suoi erano veri e propri viaggi nel cinema, analoghi a quelli che poi, da “viaggiatore intellettuale d’altri tempi” compirà in Italia alla scoperta della nostra arte. Viaggi totali come tentativi di presa di possesso del reale. Un testo di Roger si sfrangiava in una molteplicità di approcci, via via allargando il proprio “orizzonte di comprensione”. Come chi molto sa e ha visto, e di molte cose è curioso e, passaggio fondamentale, tutto sa riconquistare nell’atto vissuto della scrittura. Così quello splendido saggio sul western che è “L’Ovest e i suoi riflessi” (assieme avevamo concordato questa traduzione dell’originale L’Ouest et ses miroirs, scherzando sul fatto, rivelatore dell’inconscio politico italiano, che per un miroir stendhaliano non si trovasse di meglio che un riflesso vagamente lukacsiano), diventava una vera e propria immersione nell’Ovest e nell’America, nella sua storia e nella sua geografia, nella sua civiltà materiale e nei suoi riflessi fotografici e pittorici e letterari, e nel mito che ne era nato e nella sua inesausta lotta con il 12


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documento, con relative revisioni. Era questa capacità fuori dal comune di muoversi su tanti piani di discorsi, sempre stando addosso al testo, che ce lo faceva sentire così vicino. Con lui si respirava ché il cinema e il suo immaginario, sanamente mitizzati, non erano mai raccontati in una chiave di cinefilia alienata, magica, esoterica, dannunziana. La cinefilia aveva un senso, il cinema era vissuto come una grande cosa. Rispetto ad alcuni suoi amici di Positif, noto covo di figli dei surrealisti, non aveva la pretesa di “liberare l’immaginario”, ma piuttosto di analizzarlo, anzi, di farlo entrare in azione. Amava gli autori, ma amava soprattutto i film, la sua era, per così dire, une politique des films, del “film per film” (è la ragione del titolo di una sezione di questa raccolta). Come pochi sapeva entrare dentro le mitologie e l’immaginario di massa (una volta mi aveva riassunto la necessità dei generi - per molti piccoli maestri hollywoodiani, almeno - con una citazione di un poeta non sospetto, Paul Valery: «L’arte vive di costrizioni e muore di libertà»). Ma, al contrario di tanti infantili neo-fan del trash e delle pratiche basse, sapeva vagliare, il suo era un lavoro di comprensione e scelta, magari andando a scovare piccoli, grandi film senza autore o, è lo stesso, con tanti autori. Così, cosciente dei reali modi di funzionamento del sistema cinema, ha finito per essere il grande rabdomante di «film-meteora talmente belli nella loro compattezza granitica che non si è mai potuto fare il nome di un autore che fosse degno di loro, come nel caso del Selvaggio di fronte a cui impallidiscono Benedek e Kramer, Paxton e Brando». In una sua recensione qualsiasi si potevano trovare discorsi di questo tipo, quasi teorici, o una delle più illuminanti descrizioni, nel ’56, del cinema moderno alle sue origini. Di un gruppo di autori amati, da Antonioni (su cui scrisse con Thirard una precoce monografia) a Torre Nilsson («Joyce è il loro Dio, Orson Welles il loro profeta»), diceva: «Aumentano la profondità del campo visivo, sviluppano la loro acutezza di sguardo e psicologica, rivoluzionano la tecnica, adorano la cinepresa, che non è più solo occhio, ma anche stylo, pennello, archetto, cesello, raggio X, cardiografo e filtro medianico. Sono affascinati dal tempo, l’auscultano, lo stravolgono, lo disintegrano. Ricavano dai temi più difficili le modulazioni più raffinate. Sono assai colti, femminili, pessimisti». La sua visione criticamente nostalgica - la nostalgia come componente essenziale di ogni pensiero critico, al modo dei settori più acuti della critica di oggi -, il suo gusto per ciò che gli appariva perfetto ché a lungo sperimentato, non gli impediva di 13


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capire e sostenere il nuovo come pochi altri. La sua ironica, analitica, “riformista” cinefilia continua a vincerla su tutti gli impegni e le ermeneutiche e teorie critiche di tendenza. «Come una veranda aperta su quattro lati, sono esposto a tutti i venti», scrive uno scrittore di oggi, a lui sarebbe forse piaciuta questa definizione di sé. Perché, dietro, c’era la libertà vera di un Wilson, non le teorie “dalla parte dello spettatore” di un Poulet o Starobinsky. E c’era la libertà di un modo di ragionare per intuizioni (merce rara tra i critici) e associazioni impreviste. Ricordo, una volta, a Parigi, all’inizio dei Settanta, quando già non scriveva più di cinema, ma al cinema di tanto in tanto continuava ad andare, che mi raccontò di essere stato colpito, in Una squillo per l’ispettore Klute, dalla scena in cui Sutherland dorme a casa di Jane Fonda perché gli ricordava il rapporto tra la fanciulla e il cinese di Giglio infranto di Griffith: due esseri fisicamente vicini, nella stessa stanza, ma due mondi lontani, che non si possono incontrare. Senza averne l’aria, fissava d’emblée, a nostro uso, il climax del film. Clarté, profondità, appunto, come indicava Fofi (Gli anni della gloria, ib.), per il quale la scrittura di Tailleur possedeva un’essenzialità e pregnanza stendhaliane, Stendhal funzionario di ministero come lui. Tanti altri elementi sofisticati, se si sta attenti, percorrono, però, sotterraneamente questi testi. Ad esempio, nel saggio su Marker, il gusto surrealista del catalogo come gioco razionale e autoironico, come «laboratorio linguistico e culturale, aperto a tutte le eventualità della ragione e dell’immaginazione e denso di implicazioni gnoseologiche», come recita una bella voce sui surrealisti. Erano le forme di un modo di fare critica esigente, da vero scrittore e vero amateur (così lo definiva con un gioco di parole il suo amico Thirard: “colui che ama”). Ché indiscutibile - è la sua ultima lezione - era il suo senso di responsabilità rispetto al cinema, e soprattutto rispetto ai lettori. Aveva rispetto per la pagina scritta; mai ha vissuto il proprio ruolo come routine, che scrivesse per Positif o per i settimanali France Observateur e Arts, per Les Lettres Nouvelles o il quotidiano già camusiano Combat. Il libro è organizzato in modo da rendere conto di questo varietà di approcci, nessuno dei quali nega l’altro. Tre grandi sezioni: la monografia Elia Kazan; Film per Film che riunisce le “critiche”, frutto delle più diverse collaborazioni; Ritratti che comprende i saggi di più ampio respiro, destinati a libri collettivi (In solitudine e di notte e L’Ovest e i suoi riflessi) o pubblicati in più puntate (Markeriana). 14


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Alla fine, una serie di domande si pongono di fronte a questi testi così affascinanti. Una figura di critico e di cinéphile come la sua avrebbe oggi ancora un suo spazio? Di quali strumenti mediatici potrebbe servirsi, senza snaturarsi? Infine, quanto il pessimismo di Tailleur - che il Maggio ’68 con le sue rigidità su arte e politica farà venire a galla spingendolo a una drastica rinuncia - aveva radici nella sua particolare visione del mondo, nel clima morale e sociale in cui si era formato, con tutta la nobiltà di una grande scelta, inesorabilmente però datata, e quanto nasceva, invece, da una lucida coscienza del futuro del cinema che sedimentava da tempo? Gli scritti di Tailleur hanno anche il merito di porci le questioni essenziali del fare critica oggi. I nostri due libri che, a esclusione dei ciclostilati di sanatorio, raccolgono l’intera opera di Roger Tailleur, non potevano chiudersi se non con lo splendido libretto “di amicizia” che, al momento dell’improvvisa morte di Roger, gli ha dedicato Frédéric Vitoux, accademico di Francia ed ex critico di Positif. Da vero, grande scrittore qual è, ne delinea un ritratto privato, fatto di visione delle cose e esperienze intellettuali, viaggi e relativa arte dello scegliere, chiosare e spedire cartoline, in breve: uno stile di vita. Vitoux ci restituisce un Roger Tailleur davvero vivo, infine, con poetica metafora, per sempre stabilito da noi, nel nostro paese. E, si spera, davvero presente nella nostra cultura cinematografica.

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Prima Parte ELIA KAZAN


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Il come e il perché La cronologia è una vecchia signora che non ha bisogno di presentazioni, al pari della sua sodale analisi. Far ricorso ai loro servigi per lo studio di Elia Kazan piuttosto che a un qualsiasi “taglio” sintetico, tematico, siriusoide e più o meno strutturalista, è una cosa talmente ovvia che ci si chiederà quale sia la ragione di questa premessa. Seguire con Kazan, passo a passo, lo sviluppo della sua opera, piuttosto che risalirne il corso o sorvolarne una zona artificialmente delimitata, significa già definire il proprio campo di indagine. Infatti, se c’è un artista legato ai mutamenti del suo tempo, quello è Elia Kazan, pietra che, anche se smossa, fa muschio. Lo si vede alla prima occhiata, uno sguardo più approfondito ne è la conferma: la carriera del nostro uomo è un seguito di first, come dicono gli americani («è la prima volta», ripete lui regolarmente «…che scelgo i miei soggetti, …che produco un mio film, …che giro un film interamente fuori da Hollywood, …che scrivo da solo la sceneggiatura e i dialoghi», ecc.), e la sua è una biografia fatta di date (se non altro sul piano del successo e dei riconoscimenti ufficiali), di tappe, di gradi, una successione di scalini che ha come scopo la conquista, in un bisogno sempre crescente di indipendenza, di una più completa e più esigente espressione di sé. L’opera di Kazan “gira”, il che significa (nel linguaggio dei meccanici e dei giornalisti sportivi) che è un susseguirsi di esplosioni. In lui, un successo più grande provoca un’insoddisfazione più profonda, allontana i limiti della perfezione possibile, prelude a sfide più rischiose. Fin dai suoi primi film fa man bassa di Oscar, s’impone a grandi star e ai produttori più prestigiosi; ma se ne distacca per fare orgogliosamente voto di povertà. Un tram che si chiama Desiderio trionfa sulle scene: Kazan temendo di rimanerne mortalmente travolto, si lancia nell’avventura, all’epoca incer19


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ta, dell’Actors’ Studio. Quindici anni dopo, rompendo di nuovo con una messe quasi accademica di allori, riparte da zero in un’altra avventura, molto più problematica nel momento in cui scrivo, quella del teatro di repertorio. Se qualche volta cade, si rialza in fretta e ricomincia a correre. Si nutre delle esperienze accumulate, talvolta fortunate, altre volte abiette, esperienze teatrali, giornalistiche, psicanalitiche, confronti cercati con paesi sconosciuti o collaboratori difficili o sconvolgimenti politici, che non mancano mai di segnarlo. Quello che colpisce di più nelle dichiarazioni rilasciate nel corso degli anni è la coscienza che ha dei suoi limiti, continuamente spostati un po’ più in là, come un Sisifo irresistibilmente attirato verso le vette dell’ispirazione. Il masso di Kazan, però, è una palla di neve che è cresciuta e si è affermata con il tempo, work in progress che, indeed, fa progressi. Ricostruire passo dopo passo l’opera, invece che smontarla (per vedere come è fatta: ma non è sempre stata fatta nello stesso modo), significa quindi sforzarsi di scoprire, seguendo una mutazione irreversibile della quantità in qualità, ciò che essa tradisce: un’evoluzione dal lavoro al mestiere, al talento e infine al genio (su cui si può discutere: del resto siamo qui per questo) o una progressiva personalizzazione da un “egli” applicato a un “tu” esaltato e a un “io” convinto; o ancora, visto che parliamo di qualità, la confutazione di quella tradizione della Qualità nel cui ambito Kazan è da subito accolto a Hollywood, a vantaggio di una più scomoda concezione dei mezzi e dei fini. In linea di principio bisognerebbe tenere costantemente presente l’attività teatrale che l’autore alterna alle sue realizzazioni filmiche. Sono molti i grandi autori dello schermo venuti dal teatro, da Ejzenštejn a Losey, passando per Welles e Cukor. E se in qualche caso l’esperienza scenica traspare nella loro opera filmica, si può dire che in loro la maggior parte delle volte è il cinema a esercitare un’influenza sul teatro e penso qui soprattutto a Bergman e Visconti, che come Kazan persistono nelle due attività. Non c’è niente di sorprendente in questo, dal momento che è il cinema l’elemento a loro essenziale, mentre il palcoscenico costituisce una sorta di perfezionatissimo laboratorio, l’attore come cavia principale, i cui frutti, però, si cristallizzeranno solo sullo schermo. Per l’attore a cui la scena non consente mai un ruolo diverso da quello di interprete e servitore (del testo), i successi teatrali più clamorosi sono solo abbozzi di film a venire. 20


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Questo “laboratorio” non deve però essere sottovalutato, soprattutto quando ad esso si aggiunge un vero laboratorio (l’Actors’ Studio). L’attore scrupoloso che qui si sviluppa è lo strumento principe dell’arte di Kazan, figlio di Lee Strasberg, che a sua volta è figlio adottivo di Konstantin Stanislavskij. Più che un punto di convergenza tra il mito e la pubblicità o una formula vuota puntigliosamente applicata, l’attore è il conflitto vivente tra il segreto e l’apparenza. A lui sarà dedicato un capitolo a parte (presieduto come gli altri dalle due signore: l’analisi e la cronologia) che, partendo dalle sue ascendenze russe e teatrali, arriverà fino alla sua più recente incarnazione in Il ribelle dell’Anatolia. Allo studio dello strumento si aggiungerà quello di un contesto più vasto, sociale e politico, altro vento dell’Est che soffiando sugli Stati Uniti degli anni ’30 avrà, tra le altre conseguenze, quella di aumentare il prestigio della produzione stanislavskiana; ma avrà anche come principale contraccolpo la più difficile prova mai affrontata dagli artisti e dagli intellettuali americani. Il modo in cui Kazan ha reagito a questa prova è inseparabile dalla maggior parte delle sue opere recenti, imprese in cui si mescolano giustificazione e riflessione e che sono state realizzate insieme al complice (Schulberg) o al nemico (Miller) dei periodi bui. Soprattutto bisogna stare attenti, cammin facendo, a non rilassarsi, perché abbiamo a che fare con una persona che ama dare la sveglia: lui stesso è il primo oggetto della propria tirannica solerzia che induce successivi risvegli e brutali scossoni. Ciò che Kazan insegue, la fiamma che adora e custodisce gelosamente, è la vita presa al suo grado espressivo, al di là del semplice stato di veglia. Le parole che pronuncia in tributo a Strasberg possono a ragione essere applicate a lui: «È un uomo che accende un fuoco in un altro uomo». Ora lasciamo da parte le metafore per procedere un po’ più efficacemente di quei cantanti d’opera che, pur esortandosi a partire, continuano a scalpitare sul posto. Come si è detto, l’opera di Kazan è innanzitutto un motore (che qualche volta si imballa), prima di essere telaio, carrozzeria, morbidi sedili, freni sicuri, fari antinebbia o altri accessori. Una tensione quasi perpetua la attraversa, intervallata qui e là da rare soste per recuperare le forze. In macchina, si parte!

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L’interno e l’esterno 1898: Konstantin Stanislavskij e Vladimir NemirovičDančenko fondano il Teatro d’Arte di Mosca. Qui nascerà una delle più forti correnti del teatro (e del cinema) contemporaneo, decisiva per il progresso delle arti della rappresentazione verso quella naturalezza che è il loro obiettivo costante, quella perfetta illusione che ha tratto in inganno il soldato del teatro di Baltimora di cui parla Stendhal in Racine e Shakespeare. La storia del teatro si confonde con questa ricerca, cui contribuiscono, sul piano del testo, l’unità di tempo di Corneille e la naturalezza di Marivaux, la “storia vera” di Büchner, i dialoghi da conversazione di Čechov e il teatro sociale di Brecht, Adamov o Miller. Mentre, sul piano della realizzazione scenica, vi contribuiscono le braccia nude della signorina Clairon, la dizione e i costumi semplificati di Lekain e Talma, i trucchi meccanici di messinscena di Sabattini, la recitazione sobria di Antoine, i documentari storici di Piscator, la semplicità di Gémier, Copeau e Dullin. Per ripeterci, semplicità non fa per forza rima con autenticità, ma anche con austerità, che in qualche caso si rivela un’affettazione esasperata quanto gli orpelli di cui il teatro va svestendosi. Un “realismo” eccessivo può d’altra parte soffocare l’attore sotto la montagna di scenografie archeologicamente ricostruite. L’attore, «nucleo intangibile» di mistero e verità del teatro, resta infatti al centro della ricerca realista e sarà quindi lui il motore primo dello slancio stanislavskiano. Se si fa eccezione per la tendenza estrema rappresentata da Gordon Craig, nemico di tutte le nozioni di realismo, vita, naturalezza e sostenitore della supermarionetta, tutto il teatro cerca, senza colpo ferire, di far sbocciare nell’attore questa illusione di verità. Stilizzazione e convenzioni possono periodicamente cercare di sistematizzare le conquiste, secondo la catena di alterne reazioni tipica dell’evoluzione di qualsiasi arte. Possono per esempio cercare di sostituire il tipo al prototipo e l’armonia alla sperimentazione (Mejerchol’d) o d’infrangere il cerchio ipnotico della magia tra attore e spettatore (Brecht); ma questo dialogo continuo si svolge all’interno di frontiere realiste che non saranno più superate. La ricerca stanislavskiana costituirà l’esplorazione del cuore del problema e manterrà un’importanza paragonabile a quella di Freud nel campo della psicologia. In altri termini, la storia del teatro è la storia di un’interiorizzazione, tutta a vantaggio dell’attore, tabernacolo finale. 22


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Seguendo un percorso che va dalla maschera al volto nudo, dai teatri antichi esposti al vento alla sala chiusa e imbottita, dal dibattito pubblico alla confidenza e alla confessione, la sua storia si conclude con questa metamorfosi definitiva: la verità del primo piano cinematografico. Stanislavskij, che si credeva incapace di recitare in un teatro greco, ma che aveva osservato la sua efficacia in una sala dalle dimensioni molto ridotte in cui, come ci dice Pudovkin, moltiplicava le lunghe pause di silenzio che incontravano a stento il favore del pubblico, non poteva che trovare il suo pieno sviluppo al cinema. Il Teatro d’Arte di Mosca, che sessantasette anni dopo continua ancora la sua attività, ha conosciuto i suoi momenti migliori nel suo primo quarto di secolo, sotto la direzione ispirata dell’attore-regista Stanislavskij. All’epoca si susseguono scoperte e rivelazioni, esperienze appassionanti e trionfi assoluti. Influenzato, come Antoine, dalla compagnia tedesca dei Meininger, Stanislavskij si propone in particolare di perfezionare la lezione di autori isolati come Michail Schepkin, opponendosi a un’erronea tradizione russa dell’attore-automa che voleva imitare lo stile della recitazione stereotipata alla francese. Il lavoro svolto sull’attore, per combattere la prestazione, l’artificio e i trucchi tecnici, privilegiando invece il ricorso all’esperienza umana e alle radici della vita, si affianca a ricerche di un realismo marcato nel campo dei costumi, delle scenografie, delle luci e dell’acustica. Le due esplorazioni parallele dovranno armonizzarsi, per non incorrere negli squilibri di cui testimoniano gli esperimenti shakespeariani. Le conclusioni che il maestro trarrà da tali esperimenti non potranno che essere queste: «Eravamo inferiori alle nostre scenografie». Dal 1898 al 1923, a Shakespeare viene riservato solo un 4% delle quattromila rappresentazioni della compagnia, contro un quarto di messinscene di Čechov. L’incompatibilità con Shakespeare e con i classici in generale sarà una caratteristica comune anche a tutti gli allievi di Stanislavskij. La compagnia ha bisogno di un soggetto contemporaneo: perciò i grandi autori del TAM sono, nel primo periodo che si chiude con il 1909, Čechov e Gorkij e per il secondo, che va dal 1909 al 1923, Turgenev, Ostrovskij, Tolstoj, Dostoevskij e Puškin. È però soprattutto Čechov a rappresentare, a cavallo del secolo, l’età d’oro della compagnia: ad essa lo lega uno dei grandi matrimoni d’amore della storia del teatro. Il carattere narrativo, antidrammatico, delle pièces di Čechov, costruite a mosaico e ricche di minimi dettagli, di mezzetinte psicologiche e di imper23


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cettibili melanconie, non poteva che stimolare la finezza introspettiva, il delicato impressionismo e il lirismo a fior di pelle di Stanislavskij e dei suoi allievi. D’un tratto il TAM, che fissa così il modello delle compagnie moderne, somiglia a un’università più che a un teatro: vi si dedica più tempo e più tensione alle prove che alle rappresentazioni vere e proprie. Le parole d’ordine sono: cultura, fervore, meticolosità. Le prove non si svolgono per atti, ma per scene, o per brani, maniacalmente isolati e sezionati, reinseriti solo in seguito nella continuità dell’insieme. Si lavora in campagna, a Puškino, in un clima di disciplina fisica e di rigore morale ed intellettuale. Puškino sarà il Pernand-Vergelesses di Copeau, la Néronville di Dullin, il Brookfield Center del Group Theatre. Per tutta la vita Stanislavskij apre dei teatri dove, a margine dell’attività commerciale della compagnia, forma attori e registi (alcuni di questi laboratori saranno affidati a Mejerchol’d, Vachtangov, Sulerziskij). Attraverso di essi porta in ogni campo le conquiste del realismo (naturalista, psicologico, socialista) fino ad arrivare sulle scene dell’Opera. Se per questo santo del teatro il cinema in realtà non sembra esistere, sarà il cinema, applicando il metodo di Lagardère, a venire a lui. Già ai tempi di La madre, Pudovkin nota che i migliori attori di cinema sono stanislavskiani e la Massalitinova (la nonna) dell’Infanzia di Gorkij di Donskoj sarà salutata come il trionfo del “Sistema”. Proprio perché molto diffuso, lo stanislavskismo finirà per passare inosservato in Unione Sovietica. Sarà dunque il viaggio della compagnia in Occidente e in America a far suonare per lui, con un quarto di secolo di ritardo, la tromba della fama, i cembali della gloria e i tamburi della pubblicità. 1923: dopo essersi esibito a Parigi l’anno precedente, da gennaio il TAM recita a New York, dove ritornerà l’anno dopo, al termine della sua tournée all’estero durata due anni. Il teatro americano, che si prepara a una profonda rivoluzione, si trova in uno stato di recettività e di creatività ideale e riceve in pieno il “messaggio”. Un attore russo, Richard Boleslavskij, è invitato nel 1924 a mettere in scena una pièce (The Saint di Stark Young) allestita dai Provincetown Players, una compagnia diretta da tre giovani di teatro, tra cui figura un certo Eugene O’Neill. Boleslavskij, seguito poco dopo dalla sua collega del TAM Maria Ouspenskaya, dà lezioni di recitazione e di regia all’American Laboratory Theatre: per la prima volta, i principi stanislavskiani sono insegnati in America. Nel 1925, un giovane 24


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fanatico del teatro di nome Lee Strasberg frequenta i suoi corsi. Nel 1926 è la volta di un altro fervente neofita: Harold Clurman. Nel frattempo, Strasberg mette in pratica le sue nuove competenze allestendo con una compagnia amatoriale Esther di Racine. Nel 1928, il Metodo è occasionalmente insegnato anche alla Neighborhood Playhouse e nel 1929 Maria Ouspenskaya fonda a New York la Maria Ouspenskaya School of Dramatic Arts. L’epidemia si diffonde. Con un colpo d’ala, Ouspenskaya porta il “Metodo” dall’altra parte del continente, negli studios di Hollywood, dove stabilisce la sua scuola, l’American Repertory Theatre and Studio. Quella stessa Hollywood dove Boleslavskij è chiamato a dirigere e dove Maria Ouspenskaya ritornerà a fare l’attrice (la vedremo in venti film, da Infedeltà, del 1936, a A Kiss in the Dark, del 1949). 1931: Strasberg e Clurman, assistiti da Cheryl Crawford, fondano il Group Theatre, compagnia in origine annessa alla Theatre Guild, in cui i due uomini avevano mosso i loro primi passi come attori. Il Group Theatre non tarderà a diventare la più prestigiosa delle compagnie, una specie di TAM americano, nonché l’evento fondamentale del teatro d’oltreoceano. La storia si ripete. In politica, forse, i ricorsi sono illusori, ma la stessa cosa non vale per l’arte. Per un gioco decisivo di influenze, di fatto, il TAM e il GT di New York seguono, a trent’anni di distanza, un percorso parallelo. Le due compagnie cominciano con un successo commerciale (Tsar Fjodor Ivanovitch e La casa di Connelly), possono contare innanzitutto su un solo attore di primo piano (Moskvin e Franchot Tone), si preparano in un ritiro di campagna (Puškino e Brookfield Center), si distinguono per la giovinezza, l’entusiasmo e il disinteresse dei loro membri, trovano e coltivano al loro interno il drammaturgo guida (Čechov e Clifford Odets, ma questo accostamento è estremamente lusinghiero per Odets), preferiscono i drammi contemporanei ai classici, si sviluppano in armonia con un contesto sociale pre-rivoluzionario, suscitano nei giovani scrittori un’ammirazione sfrenata (Aleksandr Blok e Arthur Miller) 1. Ben inteso, tutto questo non è estraneo all’operazione di emulazione portata avanti da Miller ha scritto: «Ho avuto la rivelazione del teatro vedendo gli spettacoli del Group Theatre. Non si trattava solo della recitazione estremamente brillante della compagnia, che secondo me non ha mai avuto eguali in America, ma dell’atmosfera di comunione creata tra gli attori e il pubblico. C’era la promessa di un teatro profetico, che mi ricordava il teatro greco, in cui la religione e la fede erano il cuore stesso del dramma». 1

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Strasberg, fanatico del teatro dalla vocazione altrettanto inconfutabile quanto quella del maestro moscovita. Come quest’ultimo, Strasberg abbandonerà per lunghi anni la professione di regista per dedicarsi alla pedagogia sperimentale (lo ritroveremo all’Actors’ Studio). Come lui dovrà fare i conti con discepoli invadenti e poco ortodossi, tra cui figura in prima fila Kazan, nel quale, sotto questa luce, possiamo vedere di volta in volta il suo Vachtangov o il suo Mejerchol’d. 1932: ecco per l’appunto Kazan, o più precisamente Elia Kazanjoglou, appena uscito dalla Yale School of Drama. Entra nel GT contemporaneamente ad Alan Baxter, a Roman Bohnen, venuto da Chicago, e a Russell Collins, in arrivo da Cleveland. La sua attività è subito frenetica: dipinge manifesti, scrive a macchina, aiuta l’addetto stampa, si ritrova con un soprannome (Gadget, contratto in Gadge e poi in Gadg) e una moglie, Molly Day Thatcher, che ben presto preferirà al GT, troppo «psicologico» per i suoi gusti, il più impegnato Theatre Union; ma, sull’aspetto politico (siamo alle soglie dei militanti anni ’30) ritorneremo nel prossimo capitolo. Kazan frequenta anche i corsi di dizione di Morris Charnovsky e quelli di drammaturgia di Harold Clurman ottenendo delle piccole parti. Nel 1935 sostituisce J. Edward Bromberg in Aspettando Lefty di Odets e desta scalpore nel ruolo di un taxista in sciopero. «È come se fosse appena uscito dal suo taxi per interpretare quel ruolo», commenta Clurman in The Fervent Years, da cui attingiamo la maggior parte di queste informazioni, «è la nostra “scoperta” di Costantinopoli, del Williams College e di Yale!». Strasberg e i suoi interpreti si preoccupano, comunque, di non perdere il contatto con le radici russe. Diversi attori del GT, al seguito della moglie di Clurman, Stella Adler, vanno a seguire delle lezioni collettive di Michael Čechov, nipote del drammaturgo e transfuga del TAM, che insegna a New York. Verso la stessa epoca (1935), Strasberg torna da un viaggio in URSS profondamente impressionato dall’incontro con Mejerchol’d; a Parigi Clurman e Stella Adler interrogano a lungo Stanislavskij. Il maestro impartisce alcune lezioni all’attrice che, una volta rientrata a New York, constata che l’insegnamento di Strasberg altera parzialmente il metodo stanislavskiano, per la maggiore importanza che l’americano dà agli esercizi di “memoria affettiva”. Nel 1936, la Metro-Goldwyn-Mayer offre una parte alla rivelazione di Aspettando Lefty, ma Kazan rifiuta e recita in 26


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Johnny Johnson, diretto da Strasberg. Questi, che aveva allestito quasi tutti gli spettacoli del GT, firma la sua ultima regia: un dissidio con Clurman mette in crisi il Group. L’anno seguente Strasberg si ritira definitivamente. Kazan entra a far parte del comitato di attori incaricato di supplire alla mancanza di un direttore e, dopo il ritorno di Clurman, del consiglio istituito per assisterlo. Tra le due riorganizzazioni, Kazan accompagna Clurman a Hollywood, si vede proporre da un produttore lo pseudonimo di “Cezanne” (all’obiezione motivata di Kazan, il produttore ribatte: «Basta che diriga un solo bel film e nessuno si ricorderà più di quell’altro tizio!»), torna a New York, incapace di adattare la sua innata inquietudine all’inattività californiana. I ferventi anni ’30 sono agli sgoccioli e anche il GT ha i giorni contati; nel 1941, il Group scompare, ma Kazan vi ha visto realizzarsi la sua ambizione di dirigere uno spettacolo ed è stato salutato come «uno dei più entusiasmanti attori d’America». Più tardi muoverà i suoi primi passi, da attore, in uno studio cinematografico e la sua carriera sarà definitivamente avviata. 1947: Kazan è diventato uno dei grandi nomi di Broadway e di Hollywood. Sei anni prima aveva abbandonato per sempre una carriera da attore che gli avrebbe aperto le porte del più brillante avvenire: tutti si trovavano d’accordo nel vedere in lui una stella di prima grandezza che, a margine di una ricca attività teatrale, avrebbe realizzato sullo schermo una sintesi esplosiva tra Cagney, Rooney e Robinson. Nel 1942, nuove prospettive si aprono al giovane regista con il premio Pulitzer a La famiglia Antropus, di Thornton Wilder. Il 1947 sarà l’anno dell’“esplosione”: un secondo Pulitzer ricompenserà Un tram che si chiama Desiderio. Kazan ha appena incontrato Tennessee Williams e anche Arthur Miller, di cui ha allestito Erano tutti miei figli; il suo ultimo film, Barriera invisibile fa man bassa dei premi dei critici newyorkesi e degli Oscar hollywoodiani. Kazan si sente di nuovo stringere dai lacci del successo. Cenando una sera con Cheryl Crawford, diventata anche lei una brillante produttrice di Broadway (Brigadoon), le propone: «Creiamo qualcosa. Ho bisogno di eccitanti, il successo comincia a intorpidirmi». Così nasce l’Actors’ Studio, di cui Kazan è presidente e Cheryl Crawford vicepresidente. In un modesto locale affittato per venti dollari al mese vengono aperte due classi (neofiti e veterani), in cui insegnano Kazan e Robert Lewis, ex membro del Group Theatre. Le condizioni di ingresso sono avere almeno diciotto anni e superare 27


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un’audizione, che non è certo cosa da poco. I corsi sono gratuiti. Il budget della scuola (20.000 dollari all’anno; nel 1964 la cifra sarà portata a 55.000 dollari) proviene da donazioni e da serate speciali (per esempio, in occasione delle anteprime di film come Fronte del porto e Baby Doll). Gli attori ammessi diventano membri a vita. Se ne contavano un po’ più di un centinaio dieci anni fa 2, oggi ce ne sono trecentododici (Strasberg at the Actors’ Studio, Robert Hethmon) 3. Alcuni “osservatori”, professionisti riconosciuti dello show-business, possono assistere ai corsi e agli esercizi. Nel 1955, l’Actors’ Studio trova il suo indirizzo definitivo nell’area in cui prima sorgeva una chiesa greca, tra la 9° e la 10° Avenue, al 432 Ovest della 44° Strada. Lee Strasberg aveva ripreso la sua attività di regista, dirigendo John Garfield in Peer Gynt e in Il grande coltello di Odets, e Dane Clark in La ragazza di campagna, sempre di Odets. Allo Studio Daniel Mann aveva sostituito nel ’48 Robert Lewis. Qualche anno dopo Strasberg prenderà il posto di Mann e condividerà con Kazan e Cheryl Crawford la direzione della scuola, di cui assicurerà la quasi totalità dell’insegnamento. Ormai l’Actors’ Studio ha trovato la sua anima, ma, senza aspettare la sua creazione, l’influenza di Stanislavskij non aveva smesso di diffondersi oltreoceano. Il nostro teatro, dicono oggi gli americani, gli è ancora più debitore di quanto lo sia il teatro russo; ci ha segnati più di chiunque altro. Il lavoro dell’attore su se stesso, il libro capitale di Stanislavskij, vi è pubblicato nel 1938 (l’edizione francese, tra l’altro tradotta dall’americano, uscirà nel ’58 grazie a Olivier Perrin) e Il lavoro dell’attore sul personaggio, che ne imposta il seguito, è uscito nel ’48. Oltre che da Strasberg, i principi stanislavskiani sono insegnati da Mira Rostova, Tamara Daykarhanova, Madame Bulgakova, Stella Adler (con cui ha esordito Marlon Brando), Sanford Meisner (altro ex componente del Group Theatre), Paul Mann e da molti altri ancora. Benché molti americani, al contrario dei sovietici, più materialisti, abbiano la tendenza a psicanalizzarlo e circondarlo di un mistero quasi mistico, il Metodo si pone degli obiettivi esclusivamente pratici. Secondo gli stessi Strasberg e Kazan, Stanislavskij non ha inventato niente: ha organizzato e 2 3

Nel 1955. [n.d.t.] Nel 1965. [n.d.t.]

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sistematizzato alcuni principi psicologici e scenici noti a ogni buon attore. Lungi dal predicare la completa identificazione dell’attore con il ruolo che interpreta, il sistema ha come scopo di far sì che l’attore sia in grado di servirsi con maggiore coscienza di se stesso come di uno strumento per raggiungere la verità sulla scena (la definizione è di Clurman). Per Stanislavskij, infatti, l’attore sfrutta un sentimento reale, ma non per questo smette di porre il suo comportamento sul palcoscenico sotto il controllo della ragione. È facile notare che, seppur lontani dal Paradosso sull’attore di Diderot, il quale stabilisce che per commuovere il pubblico l’attore deve per parte sua rimanere esterno all’emozione, non siamo però ai suoi antipodi 4. Per Stanislavskij, che nel Paradosso vedeva un contributo importante all’arte dell’attore, se non altro perché segnava una reazione contro il sentimentalismo dilagante degli attori dell’epoca, il lavoro dell’attore è fondamentalmente quello che egli svolge sul proprio strumento, vale a dire su se stesso, dal momento che l’attore è il solo artista il cui materiale è la sua stessa persona. La parte più importante di questo lavoro è quella sull’interiorità, che precede e governa il comportamento esterno. La psicotecnica che Stanislavskij aggiorna, deve quindi mettere l’attore al riparo dagli atteggiamenti convenzionali, dai gesti formalizzati, codificati, insomma da tutti i segni di una teatralità superficiale. A questo tipo di rappresentazione il Metodo sostituisce il rivivere. L’arte della recitazione va dall’interno verso l’esterno, prima di tutto deve essere predisposto l’“interno” (l’emozione, lo stato d’animo), che poi mette in movimento l’“esterno”. Poiché le riserve emozionali dell’attore appartengono al campo dell’inconscio, bisogna aspettare che si attivino risvegliando la memoria con degli stimoli (i “se” proposti all’attore dal regista o che l’attore propone a se stesso: se mi trovassi in quella situazione, se fossi quell’oggetto…). Bisogna quindi esercitare l’immaginazione, necessaria a mettere in movimento 4 Nell’introduzione scritta per la ripubblicazione negli Stati Uniti del Paradosso nel 1957, Strasberg ricorda che il saggio di Diderot è teorico - tratta della recitazione come dovrebbe essere - e non può essere messo sullo stesso piano degli scritti tecnici di Stanislavskij, che studia il lavoro dell’attore come è effettivamente praticato. Strasberg osserva anche che il Paradosso contraddice numerose opinioni espresse da Diderot in precedenza (nella sua corrispondenza, in alcune voci dell’Enciclopedia, nel Secondo dialogo), in cui raccomandava all’attore di cercare un equilibrio tra il sentimento e il giudizio.

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il meccanismo dei “se”. Gli affioramenti di memoria affettiva e sensoriale così suscitati hanno lo scopo di innescare una molteplicità di azioni fisiche esatte. Poiché i ricordi risvegliati sono degli stati e non degli atti, è necessario, nel gioco di riflessi in cui ci si immerge, tradurre in un comportamento adeguato sentimenti in qualche caso semplicemente latenti e padroneggiare l’adattamento che si produce dagli uni all’altro. In scena l’attore deve concentrarsi fino a creare intorno a sé un cerchio di attenzione: idealmente, è in uno stato di solitudine pubblica. La concentrazione consente la decontrazione nervosa e muscolare, indispensabile a una recitazione spontanea e inventiva. Nello stesso tempo, egli deve agire ininterrottamente, sia all’interno che all’esterno. Per non smettere di vivere il ruolo, bisogna che egli si dia dei motivi per volere agire come è richiesto dal personaggio; è quindi importante suddividere la pièce in brani - con dei compiti da svolgere per ciascuno di essi - e in questo modo arrivare, attraverso piccole tappe volontarie, fino alla fine della parte senza averne mai anticipato o prematuramente riassunto il significato. Il concatenamento dei compiti successivi forma l’azione trasversale, di cui il super-compito (o idea globale, senso fondamentale che l’attore attribuisce al ruolo) costituisce l’ossatura. Ogni compito distinto, volontario ed emozionale, dunque interiore, deve trovare un’azione fisica (da cui deriva il ricorso alla memoria affettiva) che sia il tramite immediato di una verità più vasta; ne è un esempio il semplice gesto di Lady Macbeth di asciugarsi le mani insanguinate che esprime una tragicità sproporzionata rispetto a questa “piccola verità-azione fisica”. Lo spettatore crede alla piccola verità (e subisce la grande), perché ci crede l’attore, come ci credono i suoi partner soggiogati dal suo ascendente e da quello dell’azione. La continuità dei compiti successivi è assicurata dalla prospettiva del ruolo, che dosa le emozioni e gli sforzi, regola il ritmo, assicura la coerenza, in poche parole presiede all’economia recitativa. La scelta del super-compito è di capitale importanza. Stanislavskij racconta come, dovendo interpretare Argan nel Malato immaginario, si fosse prefisso come obiettivo «Voglio essere malato» e avesse trasformato la pièce in un dramma patologico in cui si trascinava dolorosamente. Tutto cambiò quando il super-compito fu rettificato. Pensando «Voglio che mi si creda malato», l’attore restituì tutta la sua forza al personaggio e alla commedia. 30


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L’attore stanislavskiano dice furiosamente «io»; agisce veramente perché reagisce; in lui, l’occhio ascolta, perché l’attore si ascolta veramente e questa partecipazione si legge nel suo sguardo; si isola dal pubblico nell’attività. Per esplorare fino in fondo il suo ruolo, lo organizza come il percorso di un combattente, come una gincana acrobatica; è innanzitutto volitivo e dotato di immaginazione; ha la memoria del cuore e dei sensi. La preminenza dell’attore, come anche certi procedimenti usati metodicamente per incoraggiarla, spiegano gli eccessi di alcune interpretazioni stanislavskiane e le frequenti critiche che esse suscitano. Già a Stanislavskij capitava di recitare in quaranta minuti un atto concepito dall’autore per durarne dodici e di fare del Giardino dei ciliegi, che secondo Čechov era una «commedia», un’opera straziante e nostalgica. Oggi ci si lamenta perché tutta l’attenzione è catturata dall’attore: non lo si giudica come il creatore di un personaggio plausibile ma secondo il grado con cui sembra credere al personaggio; d’altra parte, ci si dice, il culto della tensione emotiva, ottenuta con troppa perfezione, finisce per sacrificare la varietà in nome dell’intensità. Theodore Hoffman, attore e regista di Pittsburgh, critica tale uniformità con queste parole: «Il Metodo sembra produrre sempre lo stesso dramma, in cui si muovono dei personaggi di Strindberg che vivono una vita čechoviana con i problemi sociali di Ibsen. È sempre l’uomo contro l’ambiente esterno, l’istinto e i bisogni naturali contro le convenzioni sociali; l’attore vi spiegherà invariabilmente il suo ruolo così: “È il tipo di persona che cerca di…”». In questa affermazione si constata come l’applicazione meccanica o unilaterale dei principi possa trasformarsi in un ostacolo. Priva di prospettiva, la somma delle volontà dei compiti successivi si trasforma in una foga indiavolata. Ridotto a un’espressione troppo semplificata, il super-compito si inaridisce; prestato troppo spesso a ruoli differenti, funziona solo come denominatore comune per la monotonia. Strasberg evidentemente non ignora il problema. Michel Vaniver ce lo indica, mettendo in guardia i suoi attori: «Non abbiate paura della confusione! Don’t strive for too clear ideas! L’idea troppo chiara di un personaggio vi fa tendere verso una razionalizzazione che impoverisce la recitazione. Allora vi irrigidite in un’interpretazione». L’attore straripante è invece quello dello star-system, che però possiede una dimensione supplementare; forse come gli altri divi Brando e Dean interpretano soprattutto Brando e Dean, ma lo fanno con in più il fascino del loro tumulto interiore rivelato. 31


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Tali difetti sono dovuti meno all’incompiutezza del Metodo (almeno negli scritti di Stanislavskij) che alla sua applicazione mal calibrata che privilegia alcuni aspetti a scapito di altri. In ogni caso, non può essere considerato uno “stile” erroneo, perché il Metodo non è stile bensì tecnica, mezzo e non fine. Gli stili peculiari a Elia Kazan o a Marlon Brando non devono essere considerati stili propri del Metodo (il che non avrebbe nessun senso) perché producono una marea di imitatori dentro l’Actors’ Studio e ancora di più all’esterno, ma come i loro stili personali. Questo è il concetto che esprime Theodore Hoffman quando dice che i migliori registi del Metodo (Kazan, Clurman, Lewis) se ne servono solo per rendere più “veri” degli stili di regia estremamente dissimili. «Illusionismo, isteria, sentimentalismo esacerbato, esplosione, demoltiplicazione, seduzione, ipnosi, nevrosi, concezione passionale, parossismo»: se queste parole, che Louis Marcorelles riunisce con un tour de force nello spazio di qualche riga di un articolo dei Cahiers du Cinéma, costituiscono per certi versi la caricatura di Kazan, non hanno niente a che vedere con Stanislavskij e con il suo Sistema. Di conseguenza, se si dovesse accostare Kazan a uno stile collettivo, esso sarebbe piuttosto, come ha segnalato Michel Ciment in Positif n. 65, l’espressionismo tedesco e mitteleuropeo, con cui condivide diversi impulsi (nichilismo, tensione lirica, accento posto sul ritmo, gusto della provocazione e della violenza). Questa parentela riguarda più l’ispirazione e il temperamento che la tecnica registica: gli allestimenti teatrali di Kazan hanno poco a che fare con quelli di Jessner; come con quelli di Visconti o di Strehler. Restano fedeli al realismo immediato - che è nello stesso tempo una conseguenza uniformante dell’economia “borghese” di Broadway e l’anticamera naturale del cinema - di scenografie totalmente costruite, di costumi esatti e di un’illuminazione semplicemente funzionale. 1962: Kazan lascia l’Actors’ Studio, ormai abbastanza simile all’ultimo Studio aperto da Stanislavskij nel 1936, due anni prima della sua morte. Cioè, secondo quanto ci dice Nina Gourfinkel, «un laboratorio puro, senza sbocchi scenici, senza legami con il repertorio corrente», dove «non si lavorava né su drammi né su testi ma direttamente sullo “strumento” dell’attore». Kazan contesta molte cose all’Actors’ Studio: innanzitutto questa separazione da un teatro in attività (ha nostalgia del Group Theatre); poi di essere diventato una specie di istituzione avvolta dal prestigio di grandi nomi, di aver incentrato trop32


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po il lavoro dell’attore sull’aspetto psicologico e di aver trascurato quasi completamente l’aspetto collettivo. La situazione del teatro americano è profondamente mutata dal 1947: “offBroadway”, nuovi autori e animatori si affermano per l’importanza delle loro innovazioni; in tutti gli Stati Uniti, dinamiche compagnie di repertorio fanno dell’idea di decentralizzazione, fino ad allora inconcepibile, una realtà viva. Da parte sua, il Kazan cineasta è riuscito a ottenere la sua indipendenza. Sta al Kazan uomo di teatro imitarlo. Ancora una volta, recalcitra di fronte al successo e parte all’avventura. Dopo aver tentato, fin dal 1959 ma senza riuscirvi, di trasformare l’Actors’ Studio in una compagnia di repertorio e poi, sempre invano, di farlo entrare insieme a Strasberg nell’ensemble del Lincoln Center Repertory Theatre, Kazan si unisce a quest’ultimo. Da questo momento in poi le strade di Strasberg e di Kazan si separano. Nel 1963, per iniziativa dei suoi attori, lo Studio diventa una compagnia, l’Actors’ Studio Theatre; riceve una donazione di 250.000 dollari dalla Fondazione Ford; allestisce cinque spettacoli a Broadway e uno off-Broadway (manca per un soffio Chi ha paura di Virginia Woolf, di Albee, ma recupera con O’Neill e Čechov). Strasberg continua a insegnarvi (ha altri centosessanta allievi, oltre quelli dello Studio) e ritorna alla regia (Le tre sorelle), a fianco di José Quintero e di Burgess Meredith. Nella primavera del 1965, nel momento preciso in cui il Teatro d’Arte di Mosca è in tournée a New York (la prima dopo il 1924), l’Actors’ Studio Theatre partecipa al Festival internazionale di teatro di Londra (dove presenta Le tre sorelle e la pièce di James Baldwin Blues per l’uomo bianco). Deve però rinunciare in extremis alla tournée che aveva in programma a Parigi e a Mosca. Proprio quando Strasberg è impegnato a chiudere, in questo modo, il cerchio della storia (e della geografia), Kazan al Lincoln Center vede amaramente sprofondare i suoi sogni. Due anni prima si era lanciato nella nuova esperienza in totale euforia. Diceva che il Lincoln Center gli faceva ritrovare lo slancio e lo spirito del Group Theatre, in meno le preoccupazioni di redditività, in più il vantaggio del sistema di repertorio. Un regime di sottoscrizioni e il sostegno delle donazioni private dovevano liberarlo dall’ossessione del successo a ogni costo e, quindi, dalla dittatura della critica. Un repertorio composto da drammi moderni e classici avrebbe consentito lo sviluppo di un nuovo tipo di attore. Alla preparazione psicologica dell’attore, la sola assicurata dall’Actors’ Studio, le classi preparatorie del 33


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Lincoln Center uniscono infatti l’allenamento del suo “strumento” corporeo e teatrale, sotto l’autorità congiunta di Robert Lewis, Anna Sokolow e di un professore di dizione. È la combinazione ideale delle scuole dell’all-inside e dell’all-outside, in cui l’interno e l’esterno si fondono nell’armonia di un’espressione totale. L’espressione di gruppo deve peraltro scaturire dal lavoro di repertorio, da prove più continue cui si sottopone un gruppo permanente composto da ventisei attori, la maggior parte dei quali hanno meno di ventun’anni; tra di essi non figurano grandi divi, ma eccellenti attori (Jason Robards Jr, David Wayne, Mildred Dunnock, ecc.), tutti legati da un contratto di due anni e mezzo. I direttori artistici, assistiti da Harold Clurman, sono Robert Whitehead, ex produttore di Broadway, e Kazan. Tuttavia, alla fine della prima stagione, nell’estate del 1964, William Goyen, autore stipendiato dal Centro, fa un bilancio crepuscolare (Show di settembre) in cui sostiene che fin dall’inizio sono sorte delle difficoltà, che vanno dai problemi matrimoniali di Robards al ruolo egemone, eccessivo, assunto dal primo drammaturgo scelto, Arthur Miller. Nel bel mezzo delle prove Kazan perde la moglie, Molly Day, elemento di stabilità e personalità dotata di capacità critica e di gusto, la cui mancanza si farà crudelmente sentire. Il successo di Dopo la caduta paradossalmente aggrava la situazione, perché aumenta l’influenza di Miller. Tanto più che i due spettacoli successivi fanno fiasco. Tutto ciò risveglia nell’autore, nel regista e negli attori i riflessi condizionati di Broadway, che si supponeva seppelliti con la formazione della nuova compagnia. Alcuni attori si adattano al successo, altri se ne vanno (Ralph Meeker), i due “fiaschi” sono ritirati dal cartellone, contrariamente a ogni regola di un teatro di repertorio. Con l’inizio della stagione successiva il malessere aumenta. Kazan mette in scena la sua prima pièce classica, Il bambino scambiato, dramma elisabettiano di Middleton e Rowley: è un disastro di critica, che ricorda, in peggio, i fallimenti di Stanislavskij con Shakespeare. Ancora una volta è Arthur Miller, con Incidente a Vichy, diretto da Harold Clurman, a “riportare a galla” (secondo le regole di Broadway) l’impresa. Miller ha assunto nel LC il posto privilegiato che avevano avuto Čechov al TAM e Odets al GT, non accompagnato però dallo spirito delle due vecchie compagnie, dal loro fervore creativo se non addirittura rivoluzionario. L’atmosfera di ambizione delusa, di impaziente incoerenza, di smarrimento, si trasmet34


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te fino alle sfere dirigenziali del Centro, che decide di rivoluzionare l’areopago artistico della sezione di Teatro (non è da escludere che le sezioni vicine e rivali della Danza, della Musica e dell’Opera abbiano avuto un ruolo nella vicenda). Quando però Whitehead viene esonerato, Miller se ne va sbattendo la porta e Kazan dà le dimissioni, intenta un processo e abbandona, nello stesso tempo, il suo imminente progetto, L’Orestiade adattata dal poeta Robert Lowell. Il rosso e il nero Quando nel 1932 Kazan entra al Group Theatre, sono trascorsi tre anni dal crollo della Borsa e da quando Variety , nel numero del 30 ottobre 1929, all’indomani del “martedì nero”, ha segnalato l’avvenimento alla sua maniera: «Wall Street fa fiasco» (Wall St. lays an egg). La crisi economica, però, lungi dal riassorbirsi durante l’amministrazione Hoover, impotente a causa del suo ottimismo fuori luogo, conosce i suoi giorni più bui. 85.000 fallimenti, 15 milioni di disoccupati sono le cifre eloquenti di una situazione il cui scenario quotidiano non è meno significativo, con le sue zuppe popolari, le sue code interminabili per il pane o le patate vendute agli angoli della strada, i suoi eserciti di barboni neofiti e itineranti. La campagna elettorale per le presidenziali riflette la disperazione della nazione; ventitré “terzi partiti” vogliono detronizzare i tradizionali partiti repubblicano e democratico (uno di questi, il Partito Populista, batterà il record di insuccesso con quattro voti raccolti in tutto il paese). Il Partito Comunista americano, nato nel 1919 in seguito alla scissione dai socialisti, presenta William Z. Foster, che ritirerà la sua candidatura all’ultimo momento per ragioni tattiche, e come vicepresidente James W. Ford, il primo nero mai designato per quel posto. In loro sostegno viene pubblicato un manifesto di intellettuali, firmato da cinquantatré scrittori e artisti. «Pensiamo che l’unico modo efficace di protestare contro il caos, l’incredibile sperpero e la miseria indescrivibile inerenti all’attuale sistema economico sia votare per i candidati comunisti», dichiarano i firmatari, tra i quali figurano Theodor Dreiser, Sherwood Anderson, John Dos Passos, Waldo Frank, Erskine Caldwell, Robert Cantwell, Newton Arvin, Granville Hicks, Edmund Wilson, Malcolm Cowley, Sidney Howard, Sidney Hook, Lincoln Steffens. Malgrado il suo ritiro, Foster 35


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otterrà ufficialmente 103.152 voti, cioè più del doppio di quelli ottenuti alle precedenti elezioni; mentre il candidato socialista, con 884.274 voti, riceve più del triplo dei voti raccolti nel 1928. Sono però soprattutto le forze liberali a trionfare, nella persona del candidato democratico Franklin Delano Roosevelt, campione di un New Deal a vantaggio dei “diseredati”, che infligge al Partito Repubblicano una schiacciante sconfitta senza precedenti. In cento giorni di intensa legiferazione, avviata il giorno stesso del suo insediamento, il 4 marzo 1933, il governo Roosevelt fa segnare una battuta d’arresto alla crisi. A quei primi giorni risalgono due organismi che ritroveremo nella vita di Kazan: la TVA (Tennessee Valley Authority) e i CCC (Civilian Conservation Corps). Ciononostante, a New York la situazione economica del teatro non è brillante: nel 1931, anno di nascita del Group Theatre, due terzi delle sale vengono chiuse. L’attività culturale, sospinta dal vento del New Deal, non tarderà però a esplodere, anche se esclusivamente sul fronte proletario. Accanto alle grandi pubblicazioni di sinistra (The Nation, The New Republic, Commonsense, New Masses), proliferano le riviste letterarie, in qualche caso senza pretese e di vita breve. Si moltiplicano i club e le associazioni culturali (John Reed Clubs, ecc.), in cui si ritrova la giovane intellighenzia. Gli intellettuali e gli artisti che animano e frequentano questi gruppi sono lungi dall’essere tutti comunisti. Tra i più vecchi, Sherwood Anderson esprimeva così, con qualche eccesso, l’accertato divorzio tra scrittori e proletari, quando diceva di Dreiser: «Non è più comunista di quanto lo sia io; non potrebbe esserlo, anche se lo volesse. Sono loro che non lo vorrebbero». Malcolm Cowley dichiara oggi, nello stesso tempo disincantato e con una certa lucidità, che la strada della sinistra era il canale di una rivolta piuttosto classica e che i giovani leftists del 1933 sarebbero stati dadaisti nel 1920, esistenzialisti nel 1945 e nel 1950 adepti del buddismo Zen e dell’action painting. Elia Kazan, attore e apprendista regista di ventiquattro anni, parteciperà attivamente, come molti membri del Group Theatre, alla vita dei piccoli gruppi teatrali, vita solitamente breve ma che culminerà nel ’35 nella creazione del Teatro Federale. Le riunioni dottrinali e di lavoro del Theatre Collective e del Theatre Union sono spesso frequentate dagli attori del GT. Strasberg tiene un corso di regia per la prima di queste compa36


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gnie, che riallestisce, in un’ottica più militante, alcuni spettacoli del Group. Nel momento in cui quest’ultimo minaccia di addormentarsi sugli allori dell’inoffensivo Uomini in bianco, il Theatre Union presenta un dramma pacifista e ne prepara un altro sul problema dei neri. Kazan insegna nelle compagnie di dilettanti del League of Workers Theatre e al Theatre of Action. Tutte queste istituzioni, professionistiche o amatoriali, si ritrovano sul piano delle preoccupazioni sociali e politiche e, di conseguenza, nella scelta del repertorio: mettono in scena John Howard Lawson, Irwin Shaw e Paul Green (portati in teatro anche dal GT), Albert Maltz e Georg Sklar. Molto spesso applicano il Metodo e praticano l’agit-prop, nuova forma di teatro militante importata dall’URSS e dalla Germania. Viene fatto un tentativo con Brecht (La madre, al Theatre Union), che però non incontra il favore del pubblico, che trova l’impresa troppo sperimentale, più di quanto non ottenga quello dell’autore, insoddisfatto della regia. Il 1934 è un anno importante nella vita di Kazan: entra nel Partito Comunista (come confesserà diciotto anni dopo alla Commissione parlamentare per le attività antiamericane), muove i suoi primi passi nella regia teatrale e stabilisce un primo contatto - in qualità di attore - con il cinema. Il film è un cortometraggio di Ralph Steiner, che ritroveremo due anni più tardi alla Frontier Films e che, secondo quanto scrive Harold Clurman in Fervent Years, ha filmato il più celebre esercizio di pantomima collettiva del Group Theatre, concepito da Art Smith. Questo Pie in the Sky, del 1934, sembra essere qualcosa di diverso; brancolando nel buio più completo riguardo a questa pellicola, non possiamo che lanciarci in supposizioni a partire dal suo titolo, tratto da un celebre canto sindacale di Joe Hill, The Preacher and the Slave: You will eat, bye and bye, In that glorious land aboye the sky; Work and pray, live on hay, You’ll get pie in the sky when you die. (Mangerai a volontà In quel glorioso paese lassù nel cielo; Lavora e prega, vivi sulla paglia, Avrai una torta in cielo quando morirai.) 37


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Il dramma che Kazan allestisce, in collaborazione con Art Smith, al League of Workers Theatre è un agit-prop intitolato Dimitroff. Ha per soggetto, come dirà Kazan nel ’52, sempre davanti alla famosa Commissione: «L’incarcerazione del capo del Partito Comunista bulgaro, in seguito all’incendio del Reichstag; credo di ricordare che la pièce sia andata in scena due o tre volte di domenica sera e poi sia stata ritirata». Françoise Kourilsky ritiene, nel suo eccellente saggio sul teatro americano (Thêatre populaire, della fine 1963-inizio 1964), «che rivelando le possibilità drammatiche del genere, Dimitroff abbia aperto la strada ad Aspettando Lefty di Clifford Odets». Il 1935 è per l’appunto l’anno di Aspettando Lefty, dramma portato in scena contemporaneamente dalle compagnie amatoriali in più di cinquanta città e dal prestigioso Group Theatre. È anche l’anno dell’affondo democratico della politica rooseveltiana. Una delle sue conseguenze è la creazione di un teatro federale, destinato a dare lavoro ai 17.000 disoccupati del settore teatrale. Diretto da Hallie Flanagan, e da Elmer Rice per la costa Est, il Teatro Federale, largamente sovvenzionato dallo stato, avrà un’attività febbrile e feconda, spesso sperimentale, in qualche caso di propaganda del New Deal. Fino a quando, nel giugno del ’39, il governo gli toglierà ogni sovvenzione firmando così la sua condanna a morte (all’epoca vi lavoravano 12.000 persone), in seguito a un’inchiesta parlamentare svolta dall’appena costituita Commissione per le attività antiamericane. Kazan non lavora per il Teatro Federale, in cui entrano invece il suo complice del Group, Art Smith, in qualità di attore e regista, Orson Welles e Joseph Losey. La febbrile atmosfera di creazione e di lotta, gli entusiasmi che quest’epoca ha conosciuto, non sono stati dimenticati. Losey dichiara oggi (Thêatre populaire, primo trimestre 1964): «Credo che negli anni ’30 negli Stati Uniti ci fosse una situazione davvero rivoluzionaria», pur deplorando che vi fosse, in molti di coloro che vissero quegli anni, troppo «idealismo puerile» e troppa «ingenuità politica». Nicholas Ray è uno degli attori della pièce che Kazan dirige nel ’35 in collaborazione con Al Saxe, per il Theatre of Action. The Young Go First è un dramma sui CCC (Civilians Conservation Corps), campi di lavoro federali per i giovani, una delle più spettacolari innovazioni dei “Cento Giorni” del 1933. 38


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L’anno seguente, per lo stesso teatro e con lo stesso co-regista, Kazan allestisce The Crime di Michael Blankfort, dramma che la mia ignoranza assoluta mi costringe a citare senza nessun commento, ma di cui possiamo indovinare, senza grande rischio di errore, il carattere sociale e politico. Il 1936, anno delle elezioni presidenziali, segna il trionfo di Roosevelt. All’ultimo momento, i socialisti della “vecchia guardia” lasciano il loro partito per seguirlo. La sua vittoria è schiacciante; perfino quella di Johnson su Goldwater nel 1964 non riuscirà a uguagliarla. Tuttavia, mentre i socialisti ottengono solo 200.000 voti e i comunisti - Earl Browder e James Ford - raggiungono appena gli 80.000, il pericolo fascista conferma la sua esistenza con quasi un milione di schede. Kazan, in quello stesso anno, entra nella Frontier Films, società di produzione di documentari creata da un piccolo gruppo di giovani indipendenti, tra i quali figurano Paul Strand, Ralph Steiner (regista di Pie in the Sky), Leo Hurwitz, Jay Leyda, Lewis Jacobs, Oscar Serlin, Willard van Dyke, Herbert Kline, Sidney Meyers. Strand avrebbe poi spiegato su Positif (n. 11) che «Frontier Films era una cooperativa che aveva ottenuto dal governo un’esenzione dalle tasse. Produsse cortometraggi su argomenti che preoccupavano gli americani […], mettendoli in guardia contro la minaccia rappresentata dall’ascesa del fascismo di Hitler e Mussolini e contro il pericolo di guerra». Tra i film prodotti, Strand cita due pellicole sulla guerra di Spagna (Heart of Spain e Return to Life, realizzati da Henri Cartier-Bresson) e una sulla Cina (China Strikes Back), «che mostrava i pericoli dell’aggressione giapponese, che avrebbe poi portato a Pearl Harbor». Come si può constatare, l’opera della Frontier Films prefigura, con molti anni d’anticipo, la serie ufficiale Why We Fight (Perché combattiamo). L’attività dei suoi animatori non si limita però ai soggetti di politica estera: sponsorizzati il più delle volte da agenzie governative, si fanno propagandisti convinti della politica sociale ed economica di Roosevelt. Nel 1936 esce The Plow That Broke the Plains di Pare Lorentz (tra i suoi operatori ci sono Strand, Steiner e Hurwitz); del 1935 è The River dello stesso regista, che spiega le cause geografiche di una situazione che solo la creazione della TVA poteva risanare. Esce anche The Forgotten Village, di Herbert Kline, cui collabora John Steinbeck. Alla Frontier Films, Kazan scrive e dirige nel ’37 un documentario dello stesso genere, di cui Steiner cura la fotografia: The People of the Cumberlands. F. Gaffary ci dice in Positif n. 39


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11 (settembre-ottobre 1954) che questo film «mostrava come si poteva, con una scuola di avviamento professionale, venire in aiuto a una comunità di discendenti dei pionieri inglesi e scozzesi, che viveva sulle montagne del Tennessee e che era precipitata nell’ignoranza e nella povertà. Le questioni sindacali avevano un posto di primo piano in questo documentario romanzato». Infine, nel 1941, realizza un lungometraggio per il ministero dell’Agricoltura, It’s Up to You. La maggior parte dei film che ho appena citato hanno un argomento rurale e agricolo, in questo però non c’è niente di sorprendente: l’agricoltura è uno dei fronti principali della lotta rooseveltiana e il ministro di questo settore è, tra il ’33 e il ’40, Henry A. Wallace, che abbandonerà il suo portafoglio solo per diventare il vicepresidente di Roosevelt. Nel 1936 Kazan lascia il Partito Comunista (lo dichiarerà davanti alla Commissione nel ’52). Da qualche mese la forma della lotta comunista è sensibilmente mutata. Si produce una secessione tra il Partito e i giovani scrittori, che scava un solco reso ancora più profondo dai processi di Mosca e dal patto tedesco-sovietico. D’altra parte, nel 1935-36, la situazione internazionale è completamente cambiata: la rivoluzione proletaria, che nel 1932 si pensava potesse radicarsi in Germania e perfino negli Stati Uniti, arretra sia di fronte al capitalismo americano riadattatosi che di fronte al nascente hitlerismo. La minaccia costituita da quest’ultimo spinge la sinistra mondiale a riunirsi in un fronte unito. Così, i John Reed Clubs e la pratica del proletcult vengono soppressi dall’Internazionale comunista; gran parte delle numerose riviste e delle molte associazioni culturali giovanili scompaiono, schiacciate dalla “concorrenza” di riviste e gruppi liberali dalla reputazione più solida, diventati gli alleati necessari. In un lampo la guerra di Spagna concretizza in modo drammatico la presenza del pericolo. In soccorso dei lealisti di Madrid partono 3.200 americani, che dal febbraio del ’37 al settembre del ’38 daranno vita alla «Brigata Abraham Lincoln» delle Brigate Internazionali, perdendo quasi la metà di questo effettivo sui campi di battaglia di Belchite e del Jarama. La percentuale di comunisti presenti nel battaglione oscilla, a seconda delle stime, tra il 40% e l’80%. Per il momento ricordiamo solo due nomi di combattenti: Alvah Bessie, che ritroveremo, e James Lardner, ucciso a ventiquattro anni, figlio del grande Ring Lardner e fratello di Ring Lardner Jr, di cui avremo ugualmente occasione di riparlare. 40


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La lotta interna, combattuta interamente sul fronte economico-sociale, pur essendo meno sanguinosa, non si placa. Sul piano internazionale, la politica di Roosevelt si incammina lentamente ma inesorabilmente verso l’inevitabile showdown (regolamento di conti) con il fascismo. Scoppierà la guerra, terribile rimedio a molti problemi; per dirla con le parole di F.D. Roosevelt: «Il dott. New Deal lascia il posto al dott. Winthe-War». Così si chiudono i militanti anni ’30, che possiamo circoscrivere più precisamente agli anni 1933-41. All’incirca all’epoca di Pearl Harbor, data in cui il paese entra in guerra, l’avanguardia intellettuale e teatrale cambia quartiere, litorale. 1939: fine del Teatro Federale. 1941: fine del Group Theatre. 1942: fine della Frontier Films. Uno dopo l’altro, i protagonisti del dramma si ritrovano a Hollywood: Welles, Losey, Ray, Kazan e diversi attori del Group (Lawson, Maltz, Bessie, Lardner Jr). Registi, attori, sceneggiatori, sono tutti impegnati in una lotta che ormai si è fatta nazionale (sono molti i film di guerra di cui questi ultimi firmano la sceneggiatura). È concessa loro una proroga armata di quattro anni, che sarà interrotta nei primi mesi del 1945 (con la morte di Roosevelt e poi, dopo l’annientamento della Germania e del Giappone, l’inizio della guerra fredda), in cui, assieme al New Deal, sparirà ogni traccia di un’armonia insperata e irragionevole, di un vero e proprio patto sentimentale tra la parte più attiva della sinistra e l’amministrazione di Washington. È del tutto fuori luogo vedere in questi otto anni di pace, cui fecero seguito quattro anni di guerra, una “decade rossa”, anche se alcuni comunisti vi ebbero qualche ruolo. Quello che però avrebbe reso particolarmente vulnerabili gli intellettuali e gli artisti degli anni ’30 è la loro non dissimulata ammirazione per l’Unione Sovietica, esempio di una rivoluzione proletaria che si stava realizzando. Van Wyck Brooks, che Clurman cita ampiamente alla fine di The Fervent Years, nel ’45 dichiara: «Il mondo è stato innamorato della Russia per quindici anni, perché la ricerca della giustizia sociale è il romanzo d’amore del nostro tempo». Nel ’62, in Writers on the Left, Daniel Aaron osserva che «la tradizione americana e il comunismo messianico hanno in comune una fede: che la vita economicamente sicura e confortevole generi automaticamente la felicità». Qualunque cosa egli dica o faccia, l’artista Kazan è figlio di questo periodo. Non tanto perché è stato momentaneamente in possesso della tessera del Partito Comunista, che lascerà su di 41


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lui un segno per lo più negativo, quanto per l’attività creativa che ha caratterizzato gli anni cruciali della sua formazione. Kazan è ancora il lirico che metteva in scena degli agit-prop e che oggi, come influenze cinematografiche reali, vuole riconoscere solo quella di Ejzenštejn e di Dovzenko. A Ejzenštejn e Dovzenko renderà omaggio nella sua opera. Lo farà in Viva Zapata!, che è il suo Ejzenštejn, meno per il tema rivoluzionario del film che per la sequenza in cui, per liberare Zapata, un esercito di contadini si solleva lentamente nelle campagne, fratelli dei mugik arruolatisi di Aleksandr Nevskij. E lo farà anche in Fango sulle stelle, che è il suo Dovzenko, perché vi racconta, come Ivan nel 1932, gli sconvolgimenti provocati dalla costruzione di una diga, facendo dialogare progresso tecnico e tradizione contadina. Non si dovette attendere il 1945 perché l’anticomunismo trovasse un’espressione ufficiale. Nel ’38, gli avversari politici di F.D. Roosevelt, oppositori repubblicani e democratici conservatori, ottengono dal Congresso, un po’ frustrato dal predominio dell’esecutivo, la creazione di una nuova Commissione legislativa. Si tratta della House Un-American Activities Committee, composta da membri della Camera e che il periodo, ricco di sigle, battezza con la sigla giustamente sbraitante di HUAC. Presieduta allora da Martin Dies, poco tempo dopo comincia a essere considerata come uno strumento del Partito Repubblicano contro il governo e i suoi programmi «comunisteggianti e antiamericani», così definiti nel tentativo di screditarli e di bloccarli. Il suo rappresentante J. Parnell Thomas, che sette anni dopo presiederà la Commissione a Hollywood, nel 1940 dichiara che «la sovversione in America è fiorita sotto il New Deal; il modo più sicuro per sradicarla è sbarazzarsi del New Deal». Il ruolo della HUAC, cui la Costituzione vieta qualsiasi funzione legislativa, è raccogliere informazioni e individuare delle vittime, sottoporle a una campagna pubblicitaria che susciti più clamore possibile, mettendole alla gogna della pubblica riprovazione. Davanti a questo strano tribunale, in cui l’investigatore è ad un tempo un capopopolo, il testimone “ostile”, che non può essere soccorso da un avvocato né fare ricorso alla minima “difesa” personale, è sadicamente, machiavellicamente costretto a un’assoluta passività. In breve tempo la HUAC diventa la più costosa, rumorosa, pericolosa (e inconcludente) delle commissioni parlamentari. Intorno ai suoi nove membri si affaccenda un consistente gruppo di dipendenti (che 42


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nelle annate migliori raggiungerà la quota di cinquantacinque persone), occupato a schedare e archiviare una documentazione in piena espansione. È ormai tradizione che i dopoguerra, in America, siano accompagnati da “grandi paure rosse”. Quella del 1919-20, motivata da una forte attività sindacale, da qualche attentato terroristico e soprattutto dai timori di contagio della rivoluzione russa, si era tradotta nell’incarcerazione di circa 5.000 sospetti politici (per i quali furono scomodati dei testi di spionaggio e la sedizione del 1917-18), nella deportazione di stranieri, nella riduzione al silenzio di alcuni giornali e nella censura di alcuni professori. Dopo il 1945 la situazione è completamente diversa. A livello internazionale, si instaura una guerra “fredda” tra due parti del mondo schierate in blocchi e, in quel primo lustro che va dal ’45 al ’50, si intensifica la caccia ai “nemici interni”. Congelata durante la guerra (all’epoca l’URSS è il grande alleato), la HUAC riprende servizio. Il 1946 era stato un anno di grandi scioperi; l’anno dopo, undici leader comunisti sono incarcerati, in applicazione dello Smith Act del 1940, che prevedeva la registrazione degli stranieri e vietava le dottrine che incitavano a rovesciare il governo con la violenza. In realtà, la legislazione è scarsamente repressiva, ma i conservatori vi porranno rimedio. Nel 1947, nonostante il veto con cui Truman tenterà invano di farla annullare, è approvata la legge Taft-Hartley, che introduce una severa regolamentazione del sistema degli scioperi e prevede che i quadri sindacali firmino un certificato di non-appartenenza al Partito Comunista. Nel 1950 e sempre a dispetto del veto presidenziale, è la volta dell’Internal Security Act, che impone la registrazione dei comunisti e delle organizzazioni del “fronte” comunista, esige la deportazione degli immigrati comunisti e vieta l’immigrazione degli ex membri del Partito. Nel 1947 la HUAC prende di nuovo di mira la California (il Golden State, «capitale della sovversione», sarà da solo oggetto di più di un terzo delle inchieste e delle udienze della Commissione) e più precisamente Hollywood, con lo scopo di dimostrare che l’industria cinematografica è stata trasformata dal New Deal in fabbrica della propaganda comunista. A settembre, scattano 41 mandati di comparizione; tra tutte le persone interpellate, 19 “ostili” rifiutano di presentarsi alla convocazione. La comunità hollywoodiana si organizza per protestare: John Huston, William Wyler e Philip Dunne fondano il “Comitato per il Primo Emendamento” (ossia per quella parte 43


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della Costituzione che garantisce la libertà di espressione e di riunione), che fa sentire la sua voce alla radio e sulla stampa e manda una sua delegazione a Washington. Kazan è tra i capofila del Comitato, che tre anni dopo sovvenzionerà ancora. Tuttavia, in ottobre, 10 dei 19 testimoni “ostili” sono costretti a comparire. John Howard Lawson è il primo che si rifiuta di rispondere alla famosa domanda (ribattezzata «domanda da 64 dollari»): «Lei è in questo momento o è mai stato membro del Partito Comunista?». Altri nove seguiranno il suo esempio: Alvah Bessie, Ring Lardner Jr, Albert Maltz, Dalton Trumbo, Herbert Biberman, Edward Dmytryk, Adrian Scott, Lester Cole e Samuel Ornitz. Saranno tutti condannati a un anno di carcere e a pagare un’ammenda per «oltraggio al Congresso». La prima violenta ondata di repressione ha investito Hollywood, ma le sue conseguenze, disastrose, cominciano appena a farsi sentire. Nelle alte sfere il fronte di solidarietà mostra le prime crepe. Lodevolmente Eric Johnston promette che l’industria del cinema non ricorrerà alle liste nere, ma l’Association of Motion Pictures Producers e la Motion Picture Association of America prendono le distanze in modo netto dai Dieci e dichiarano che, da quel momento in poi, non assumeranno più comunisti e “sovversivi”. Da una parte affermano che bisogna proteggere il gregge innocente ed evitare di farsi prendere dall’isteria e dalla paura, ma dall’altra adottano delle misure che portano dritto dritto ad esse. Poco tempo dopo sarà la Screen Writers Guild a seguire il loro l’esempio, mentre il “Comitato per il Primo Emendamento” comincia a disgregarsi. I nove “ostili” che non si erano presentati conservano il loro posto a condizione di assicurare la loro non-appartenenza al Partito. Il sistema delle liste nere entra concretamente in vigore. Quando la seconda ondata di repressione tocca Hollywood, nel 1951, le due guerre fredde, quella esterna e quella civile, sono al loro culmine. Truman esonera dal comando in Corea il generale MacArthur, che avrebbe voluto portare la guerra in Cina. Accusati di spionaggio atomico, Julius e Ethel Rosenberg sono condannati a morte. Gli scandali di alti funzionari di cui è provato il comunismo si succedono, a partire dai casi di Alger Hiss e William Remington degli anni precedenti. Preso da spirito di emulazione, il Senato rilancia e crea delle sottocommissioni di inchiesta per le attività anti-americane: si tratta della Permanent Subcommittee on Investigations (derivata dalla Committee on Governmen Operations), sottocommissione che poco dopo sarà presieduta da un senatore del Wisconsin di 44


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nome Joseph R. McCarthy, e della nuova Subcommittee on Internal Security (presieduta da McCarran), che fa parte della Commissione giudiziaria del Senato. Questi due organismi, soprattutto fino al 1955, faranno una concorrenza spietata alla HUAC. La caccia a comunisti e affini raggiunge in quel periodo il culmine dell’isteria; per descriverla, i paralleli storici con la caccia alle streghe o con l’Inquisizione sono metafore modeste. Di fronte ai membri della Commissione il testimone, se vuole uscirne, non ha scelta; non basta non essere più “ostili” e confessare la propria colpa personale, l’appartenenza al Partito maledetto, bisogna anche provare la propria buona fede, la propria redenzione morale, il proprio perfetto civismo facendo dei nomi, anche se questi nomi sono già conosciuti dai membri della Commissione (l’unica cosa che conta è l’atto della denuncia). L’informatore diventa un eroe nazionale: «Il suo contributo è stato di un’importanza paragonabile a quella di una divisione dell’esercito», dice il presidente della Commissione a uno di loro, particolarmente loquace. È l’epoca dei Grandi Spioni dai palmarès impressionanti: 318, 216, 1.000, 482 nomi. La gara è a chi farà l’offerta di delazione più alta; e tuttavia, la maggior parte dei tanti trofei di caccia proviene non da comunisti rinnegati, ma da agenti dell’FBI infiltrati nelle celle. L’argomento che la HUAC ripropone continuamente (e che è anche la più evidente ragione della sua esistenza) è il pericolo che i comunisti prendano il potere in un futuro molto prossimo, dunque la cosa più importante è sventare questo o quell’altro complotto di allarmante gravità. Quando la HUAC rivolge di nuovo la sua attenzione su Hollywood, nel ’51, uno dei 10 del 1947 è crollato: si tratta di Edward Dmytryk. Questa volta, le persone che testimoniano sono 90: alcune loquaci, altre silenziose. Alla fine delle udienze, è resa pubblica una lista di 324 nomi, la maggior parte dei quali frutto di una denuncia: tante saranno le persone colpite dal divieto di lavorare nel cinema e, spesso, alla radio e alla televisione. Coloro che sono stati risparmiati tireranno un altro sospiro di sollievo, come avevano fatto, a torto, dopo il ’47? Non ne avranno il tempo. Dal dicembre dello stesso anno, l’American Legion Magazine rilancia l’offensiva con un articolo che fa altri 66 nomi. Allarmate, le grandi società di produzione entrano in contatto con l’American Legion, che manda loro una lista, ancora più generosa, di circa 300 sospetti. Le persone menzionate sono invitate a scrivere 45


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una lettera di spiegazioni ai loro datori di lavoro, i quali però si sentono un animo da giudici e, se la lettera non è abbastanza autocritica, la fanno riscrivere. Il 1952 non è un anno meno nero del precedente. La Commissione ha messo fine alle sue massicce retate hollywoodiane, ma i mandati di comparizione per Washington si susseguono. Nella stessa Washington il Congresso approva, sempre a dispetto del veto trumaniano, il McCarran-Walter Act e la sola identità dei suoi ispiratori (Walter è il presidente della HUAC e McCarran quello di una delle analoghe sottocommissioni senatoriali) basta a indicarne il carattere malsano, se non apertamente razzista: il testo aggiunge nuove restrizioni all’immigrazione e alle possibilità di naturalizzazione degli stranieri ex comunisti o simpatizzanti comunisti. Questa legge, una delle più impopolari, sarà oggetto di numerosi tentativi di abrogazione, revisione o emendamento (solo quelli deposti nel 1956 sono 78), contro di essa si mobiliteranno Eisenhower e Kennedy, il quale all’argomento dedicherà un libro. Nello stesso anno proprio Eisenhower, campione dei moderati in un Partito Repubblicano che rischiava la deriva a destra, trionfa su Adlai Stevenson alle elezioni presidenziali e succede a Harry Truman. Fin dal 1952 appare evidente, perfino ai meno perspicaci, che nei suoi tribunali ultranazionalisti l’America mette «una generazione sotto processo» (è il titolo di un libro di Alistaire Cooke dedicato al caso Hiss). La generazione della Grande Depressione e del New Deal, che meno di vent’anni prima era stata la generazione della speranza e del fermento, diventa un’altra generazione perduta, ma perduta in modo molto più irrevocabile, senza indulgenza e senza appello, rispetto a quella, letteraria, degli anni ’20. Bertold Brecht, che nel 1941 si era rifugiato in California per sfuggire al nazismo e che, dopo i suoi primi contatti con la Commissione, aveva ripreso la via dell’Europa verso Berlino Est, è il simbolo più eloquente di questo incoerente va e vieni della libertà. Fin dai primi anni ’50 sono molti gli americani che espatriano seguendo il suo esempio. Per limitarci al campo del cinema e senza nessuna pretesa di esaustività, possiamo citare Charlie Chaplin e Fritz Lang, che si ritirano prima del tempo; Joseph Losey, Cyril Endfield e Carl Foreman, che si stabiliscono in Inghilterra; Jules Dassin, John Berry e Ben Barzman, che scelgono la Francia; John Huston, che opta per la terra, e poi per la nazionalità, irlandese; Orson Welles, restituito al suo destino di cosmopolita itinerante; Michael Wilson, Paul Jarrico e Herbert Biberman, che qualche 46


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tempo dopo tenteranno l’esperienza quasi clandestina e senza futuro di Il sale della terra. Sopravvivere sul posto non è facile. Ci sono quelli che, una volta scontata la loro pena detentiva, diventano i “negri” mal pagati dei loro ex colleghi e datori di lavoro e quelli che cambiano del tutto mestiere, come Ring Lardner Jr, John Howard Lawson, Alvah Bessie, Dalton Trumbo e Albert Maltz. Solo Trumbo potrà, dieci anni dopo, abbandonare l’anonimato. Ci sono quelli che sono stati distrutti dalla loro deposizione, sia che abbiano tenuto un atteggiamento collaborativo sia che si siano mostrati ostili: c’è chi è stato stroncato nel corpo (John Garfield, J. Edward Bromberg), chi nel talento (Clifford Odets, Edward Dmytryk e, in una certa misura, Robert Rossen) e chi, più banalmente e più comunemente, nell’esercizio della propria professione (Larry Parks e Howard DaSilva). Ci sono poi quelli che non hanno parlato, a partire da Dashiell Hammett fino ad Abraham Polonsky e Lillian Hellman. Non è mia intenzione stilare un elenco completo che, per quanto riguarda le sole “liste nere”, la lista delle persone colpite da interdizione (certo Welles o Huston non ne fanno parte, ma il loro esilio è un atto di solidarietà), Adrian Scott, in un articolo di Hollywood Review, valuterà nel 1955 in 214 individui, tra cui 106 sceneggiatori, 36 attori e 11 registi. Il 14 gennaio 1952 Kazan compare davanti alla HUAC, ammette di essere stato iscritto al Partito Comunista per diciannove mesi, dall’estate del 1934 all’inizio della primavera del 1936; ma, invitato a denunciare tutti gli ex aderenti di cui ricordi i nomi, oppone il proprio rifiuto. Meno di tre mesi dopo, il 10 aprile, prima che la minaccia di «oltraggio al Congresso» abbia il tempo di colpirlo, ritorna di sua spontanea volontà davanti alla Commissione, con cui ha deciso di collaborare. In una lettera Kazan invoca la necessità di combattere la segretezza delle attività comuniste e, di conseguenza, di esporre tutti i fatti, tutti gli elementi, perché essi siano sottoposti al giudizio del popolo americano. Il loro elenco è fornito in una dichiarazione scritta divisa in tre parti: la prima riguarda le sue attività come membro del Partito, sia all’interno della cellula nel Group Theatre, sia nei gruppi teatrali dei League of Workers Theatres e del Theatre of Action; nella seconda parla della sua partecipazione ad alcuni movimenti politici nel corso dei sedici anni successivi alla sua rottura con il Partito; nella terza afferma che tutte le pièces e tutti i film da lui diretti non avevano un carattere sovversivo. In questa lettera fa il nome di otto compagni di 47


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cellula del GT, di quattro animatori dei LWT e di tre personalità del Partito. Di queste persone, due sono decedute (tra cui J. Edward Bromberg) e due hanno a loro volta lasciato il Partito (Clifford Odets e Paula Miller, diventata la signora Lee Strasberg). L’enumerazione delle sue regie è di un patriottismo stucchevole, imposto dall’occasione: di alcune è messo in luce il carattere non politico, mentre il lato apertamente critico di altre è ascritto al tradizionale amore dell’America per la libertà di espressione. Il più insignificante personaggio di pubblico ufficiale è messo in evidenza (dal ministro della Giustizia che ispirò Boomerang fino all’ufficiale medico di Bandiera Gialla), ma Kazan ricorda anche le violente critiche dei comunisti a Pinky, la negra bianca e ha la fortuna di poter chiudere la sua lista con un «film anticomunista»: Viva Zapata!. I motivi per cui lasciò il Partito nel 1936 meritano di essere conosciuti: «Ne avevo abbastanza di essere irreggimentato, di sentirmi dire che cosa dovevo pensare, che cosa dovevo dire e che cosa dovevo fare, della loro ordinaria violazione delle pratiche quotidiane della democrazia a cui ero abituato. Il vaso traboccò il giorno in cui fui invitato a esibirmi in una di quelle scene tipicamente comuniste in cui bisogna strisciare, fare le proprie scuse e ammettere i propri errori. […] Ne avevo davvero abbastanza. Avevo provato che sapore aveva la vita in uno stato poliziesco e non mi piaceva per niente. Mi ero accorto che, invece che lavorare onestamente per il bene del popolo americano, si servivano di me per aumentare l’importanza e il potere di persone per cui, a livello personale o come gruppo, provavo solo disprezzo. Il loro atteggiamento e il loro comportamento mi ispiravano un autentico orrore. […] Il fatto di aver sperimentato in prima persona la dittatura e il controllo sul pensiero mi ha portato a odiarli con la massima fermezza». Questa citazione non è inutile, basta rileggerla con attenzione per notare che essa si applica, parola per parola, alla situazione del testimone “collaborativo” di quel 10 aprile e che tra l’autocritica fatta all’interno della cellula e la deposizione letta in Commissione non c’erano molte differenze. O piuttosto, la differenza era questa: nessuno aveva trascinato Kazan nella cellula, mentre di fronte alla Commissione il suo atteggiamento, che gli sia stato o meno dettato dalle sue convinzioni, era stabilito in anticipo e non avrebbe potuto essere diverso, posto com’era sotto la minaccia di un silenzio forzato e a vita. E tuttavia, se delle differenze ci sono, non potrebbero avere un significato opposto? Non può essere che l’anticomunismo di 48


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Kazan coincida sinceramente con quello dei membri della Commissione e che l’autocritica, pretesa da lui contro il suo pensiero, trovi un’occasione tardiva di vendetta legale nella deposizione resa davanti alla HUAC? La deposizione allora prenderebbe l’aspetto di un vero atto di contrizione, di una controprova purificatrice, ossia esattamente di quello che chiedono i Torquemada parlamentari. Eppure, se vendetta (e atto politico) c’è nella denuncia, bisogna ammettere che essa è molto modesta: quindici persone, tra cui due morti e due rinnegati come lui, non è un granché per uno che da vent’anni conosce tutta Broadway e una parte non irrilevante dell’off-Broadway e di Hollywood. Dunque, una sincerità parziale, motivazioni forzate e un tradimento, visto da sinistra come da destra, incompleto? È probabile. Frank J. Donner osserva in Un-Americans, opera molto documentata su e contro la HUAC di cui mi sono servito in questo capitolo, che l’ex comunista che “si discolpava” per conservare il suo posto di lavoro, se voleva avere partita vinta, doveva essere aggressivo nella denuncia delle sue idee di un tempo. Questo veniva chiamato testimoniare secondo la propria pancia e non secondo le proprie convinzioni. Robert Rossen che nel 1951 si era rifiutato di fornire dei nomi per ragioni di «moralità personale», nel 1953 accettò di farlo «perché nessuno oggi può permettersi il lusso di una moralità personale». Era inevitabile che Kazan non sarebbe riuscito a dimenticare la prova cui era stato sottoposto, come del resto dimostrano i suoi film: realista (la pancia), ma, per orgoglio, anche idealista (la libertà d’espressione contro i comunisti) e, nell’espressione di questo “idealismo”, didascalico ed eccessivo nel suo bisogno di dimostrare e di convincere. Quando Kazan - e Rossen e Schulberg - testimonia(no), l’America tocca il punto più basso del periodo che avrebbe preso il nome da McCarthy. Sono passati cinque anni da quando Hollywood è stata colpita per la prima volta nella persona dei Dieci, bisognerà aspettare altri cinque anni perché il vento giri e, con alcune decisioni clamorose, la Corte Suprema, tornata infine liberale, rispedisca i membri del Congresso a ristudiarsi la Costituzione. Nel 1947 i Dieci, basandosi sul Primo Emendamento e su precedenti giudiziari che sembravano loro sufficientemente chiari, avevano deciso unanimemente, comunisti e non comunisti, di rifiutarsi di rispondere a un’istituzione che ritenevano anticostituzionale. Il calcolo si è rivelato ben presto sbagliato: la legge ha colpito, la Corte Suprema ha 49


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voltato la testa e al testimone successivo non è rimasta nessun’altra alternativa che rimanere in silenzio appellandosi questa volta al Quinto Emendamento (che consente al cittadino di non dire qualcosa che pensa potrebbe incriminarlo) o parlare senza riserve. Il Quinto Emendamento potrà salvarlo dal carcere, ma non dalle liste nere. D’altra parte, se acconsente a parlare solo delle sue attività personali, non può rifugiarsi dietro nessun discorso che gli permetta di tacere il nome dei suoi compagni. La scelta è tra niente (e la lista nera) e tutto (e l’assoluzione da parte della Commissione e dei suoi datori di lavoro). Anche se non sono comunisti, coloro che vogliono ammettere solo le proprie attività si espongono alla condanna per «oltraggio al Congresso», come dimostrerà quattro anni dopo l’esperienza di Arthur Miller. Rari sono i casi di coloro che, come Lillian Hellmann o Carl Foreman, non sono tormentati da inquirenti troppo “spossati” per sbaragliare le loro ultime difese contro la delazione. Avendo deciso di salvarsi finanziariamente, il testimone che ritiene di avere “troppo da perdere” (Kazan, in questo momento, è già il-più-grande-regista-di Hollywood-e-di-Broadway e, per di più, ha quattro figli rispettivamente di quattro, sei, tredici e quindici anni) cerca per quanto può di smussare gli angoli: telefona alle persone che ha intenzione di denunciare, le avverte, chiede loro il permesso e in qualche caso lo ottiene. Dopo la caduta, di Arthur Miller, con il personaggio dell’avvocato Mickey chiaramente ispirato a Kazan, e Lillian Hellman, interrogata da Paris Review (n. 33, primavera del 1965), confermano la frequenza di tali pratiche, almeno nell’ambiente teatrale. Ovviamente, se l’informatore ha qualche vero rancore, dei rimorsi sinceri per il proprio passato comunista, è libero di allegarli al dossier. Tuttavia, agli occhi di coloro che non hanno ceduto (tra l’altro, con meriti variabili a seconda delle circostanze) e perfino ai propri occhi, egli rimarrà la spia che ha tradito le regole più elementari della lealtà e dell’onore, regole così elementari che sono riconosciute allo stesso modo dalla malavita e dai boy-scout (Bessie e Lardner Jr hanno detto che, in carcere, ai detenuti del loro comportamento era rimasto impresso solo questo dettaglio: «Non avevano vuotato il sacco» davanti alla legge). Anche se politicamente sincero, il delatore è colpevole. Colpevole “prima di tutto” per gli altri e per lui stesso, “nonostante tutto”. Per quanto riguarda Kazan, quasi tutta l’opera a venire tradirà questo atteggiamento, questa ossessione, questo 50


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rimorso. Da quel momento in poi Kazan metterà in scena una colpevolezza che si dichiara innocente; ma, dal 1952, un’altra opera, quella di Arthur Miller, gli risponde e per dodici anni vedremo, nel teatro e nel cinema americani, un dibattito d’idee e di coscienze, una polemica politica e morale tra due fratelli nemici. È a Kazan che Miller deve gran parte della sua gloria: Erano tutti miei figli ottiene nel ’47 il Gran Premio della critica newyorkese; Morte di un commesso viaggiatore ne segue le orme nel ’49, con in più la consacrazione del premio Pulitzer. Nel ’52, però, in seguito alla deposizione di Kazan, i due amici litigano (non sono le malelingue comuniste a dirlo né Louella Parsons, ma il serissimo Eric Bentley) e Miller scrive Il crogiolo, presentato nel gennaio del ’53 con la regia di Jed Harris. Il protagonista di questa trasparente parabola del maccartismo (in Francia si chiamerà Le vergini di Salem) rifiuta di sottoporsi al tribunale inquisitore - «Ho tre bambini. Come potrò insegnargli ad affrontare la vita da uomini? E dovrei vendere anche i miei amici?» - ed è condannato alla forca. Kazan, in quel periodo, si sforza di razionalizzare il suo comportamento, pagando la sua colpa con l’esempio. Caso quasi unico tra i grandi registi (in precedenza c’era stato Wellman con Il sipario di ferro), si lancia nella crociata antirossi con Salto mortale, il cui soggetto è assolutamente contemporaneo; vi vediamo infatti un circo cecoslovacco passare clandestinamente nella Germania Ovest. Suo portavoce e complice è Robert Sherwood, ex collaboratore e memorialista di Franklin Roosevelt, ma nel film ci sono solo idee liberali e generali. Sarà Fronte del porto, nel 1954, a rispondere a Miller. Kazan vi si esprime di concerto con Budd Schulberg, che aveva avuto con la HUAC un’esperienza simile alla sua. Schulberg ha dichiarato che, durante le riprese, lui e Kazan avevano la sensazione di consegnare un «messaggio personale». Il protagonista di Fronte del porto è un portuale, membro di una gang sindacale, indotto da circostanze particolarmente drammatiche a denunciare alla polizia i capi della sua gang. L’idea centrale del film è quella della delazione. La parola “spia” è riproposta in tutta una gamma di variazioni linguistiche in slang e lingo portuali: stool-pigeon, cheese-eater, canary, rat, pigeon, cheesie, ecc. Denunciare o non denunciare, questo è tutto il problema: «Fare la spia vuol dire andare a raccontare i fatti di quelli con cui si lavora», gli dice suo fratello, contabile della gang; «Parli e tra51


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disci dei gangster; non parli e tradisci la giustizia e la possibilità di una situazione migliore nel porto», gli dice un prete. Il portuale parla e ai gangster che gli rinfacciano di averli traditi, risponde: «È il vostro punto di vista. In realtà, per tutti questi anni ho tradito me stesso, senza saperlo. Sono contento di quello che ho fatto». Anche qui la parabola è molto esplicita; per di più è rafforzata dal fatto che il personaggio, con la sua denuncia, libera il sindacato portuale dalla malavita che lo inquinava. Anche per Kazan e Schulberg non c’è dubbio che, dopo essersi sbarazzate della compromettente palla al piede comunista, le forze liberali americane ritroveranno tutto il loro mordente. L’anno dopo, Arthur Miller risponde a Fronte del porto. Restando nell’ambiente dei docks, anche lui con un personaggio di scaricatore (qualche anno prima aveva lavorato a questo progetto con Kazan e dovette essere piuttosto sorpreso e disturbato dalla versione di Fronte del porto confezionata senza di lui), Miller propone sulla questione del portuale delatore il suo punto di vista, nettamente più alto: è letteralmente A View from the Bridge (Uno sguardo dal ponte), messo in scena a teatro da Martin Ritt. Non faccio dell’ironia gratuita, tutto questo è stato pensato dall’autore e da lui confermato in Dopo la caduta, quando si autoaccuserà di essersi preso per Dio padre. Ad ogni modo, Uno sguardo dal ponte sostituisce all’eroe-spione lo spione-bastardo. I moventi del personaggio di Miller non sono politici ma passionali (una gelosia incestuosa), eppure le sue vittime (stranieri respinti dall’ufficio di immigrazione) sono proprio i fratelli di quei paria, etnici o politici, delle leggi reazionarie di discriminazione (Walter-McCarran Act, Internal Security Act, Communist Control Act…). Dopo aver assaporato fino in fondo la sua ignominia, non gli resterà che suicidarsi. Kazan, da parte sua, si addentra più in profondità nei problemi morali. La valle dell’Eden risale alle origini del male (Caino e Abele) e il dialogo insiste ossessivamente sulle parole good e bad, ripetute decine di volte. Questo film, in cui François Truffaut individuava «un cineasta del male assoluto, che deve essere lui stesso l’esempio vivente dell’abiezione totale», mette in scena un Caino alle prese con un destino malefico, che si lancia in una ricerca maldestra e disperata di segni di bontà e di amore e si sforza di convertirsi al bene e ottenere il perdono. Gli sviluppi della trama in questo caso non evocano confronti. Bisogna però notare quanto poco i personaggi di Cal e di Aron assomiglino ai Caino e Abele della tradizione, quanto si allontanino dalla netta opposizione manichea. Alla fine della dimo52


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strazione, Dio non riconosce più i suoi e la bilancia del Giudizio Universale impazzisce. Se si volesse a ogni costo ristabilire un manicheismo, bisognerebbe piuttosto rovesciarlo in favore di Caino-Kazan-James Dean. Nel giugno del 1956, Miller è invitato a prendere parte a un altro tipo di dialogo. È venuto il momento per lui di confermare in vivo la posizione che ha preso nella sua opera. Invitato a comparire davanti alla HUAC, ammette di essere stato invitato a partecipare a qualche riunione organizzata sotto auspici comunisti, ma si rifiuta di fare i nomi dei suoi compagni. Nel febbraio del ’57 non ha modificato la sua posizione ed è, quindi, perseguito per oltraggio al Congresso; il 31 maggio dello stesso anno è condannato a un anno di carcere e 1.000 dollari di ammenda. La situazione di Miller si discosta sotto molti aspetti da quella dei precedenti testimoni: vincolato dai suoi drammi e dal suo screzio con Kazan, difficilmente avrebbe potuto assumere una posizione diversa. Miller non era mai stato comunista. Reso famoso dal suo chiacchierato matrimonio con Marilyn Monroe, processato molti anni dopo che McCarthy era caduto in disgrazia e condannato pochi giorni dopo la morte di quest’ultimo, egli sembrava rischiare meno da una Commissione meno determinata che in passato a farsi pubblicità. Tuttavia il fatto che la condanna non gli sia stata risparmiata e che il verdetto sia stato pesante prova a posteriori, se fosse necessario, il reale coraggio di Miller. Nondimeno, nel ’57 il vento è davvero cambiato e, a giugno, ossia qualche giorno dopo la condanna di Miller, la Corte Suprema rende note una serie di decisioni che riducono i poteri d’indagine delle commissioni parlamentari e hanno come conseguenza l’assoluzione di molti condannati o la ripetizione dei loro processi. Mentre Miller evita in extremis il carcere e la lista nera (tra il ’55 e il ’64 scrive un solo film, Gli spostati, ma Il crogiolo è riallestito a New York con un successo molto maggiore di quello che aveva avuto nel ’53), Kazan e Schulberg firmano Un volto nella folla che, per la sua estrema violenza critica e i bersagli che si sceglie (i demagoghi della destra), sembra voler provare ai liberali militanti che i suoi autori, ex comunisti, non sono dei rinnegati della sinistra. Tranne che per la stampa di estrema destra, Un volto nella folla non può essere per questo accusato di essere un «film comunista»: riesce a sistemare, al centro di un quadro di un nero pessimismo, un eroe dal destino “zapatiano”, uno spirito libero corrotto dal potere. Kazan ha 53


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detto che il suo film era diretto in particolare contro il discusso vicepresidente dell’epoca, Richard Nixon, ex membro attivo della HUAC. Negli anni successivi il regista continua sullo slancio positivo. Il tempo dell’auto-giustificazione strombazzata è passato, i tormenti morali non si sono affatto placati, ma spesso passano in secondo piano rispetto ad argomenti di una solidità ineccepibile. Dopo aver diretto a Broadway La dolce ala della giovinezza, il dramma più impegnato di Tennessee Williams (forse il solo: vi si vedono all’opera dei signorotti sudisti circondati da una cricca fascistoide), Kazan gira Fango sulle stelle, film-pellegrinaggio verso il New Deal, gli anni ’35-’36, la TVA e The People of the Cumberlands. Ben inteso, la fiamma rivoluzionaria si è spenta, si capiscono meglio le ragioni dell’avversario (per meglio rifiutarle). D’altra parte, se questo film a soggetto politico-sociale sacrifica un po’ l’incisività a vantaggio della tenerezza, è perché in questo caso i trent’anni trascorsi hanno sancito una vittoria completa, ormai istituzionalizzata. La TVA, che i Goldwater giudicano ancora uno scandalo, è uno dei successi più duraturi dell’era rooseveltiana. Splendore nell’erba ritrova invece la cattiveria nell’attacco ai falsi valori, morali ed economici, che avrebbero portato al crack e, pertanto, ancora una volta, a F.D. Roosevelt. Un clima negativo e distruttivo. La speculazione esasperata, la proibizione del sesso e dell’alcol, un ottimismo che dello struzzo ha l’ingordigia e la cecità, il dispotismo paterno: nulla viene risparmiato. Con questi due film siamo entrati negli anni ’60, a cui i troppo brevi Kennedy years daranno un impulso decisivo. Kennedy ha l’intelligenza e l’abilità per mettere fine alla guerra fredda e, di conseguenza, per raffreddare gli entusiasmi dei superpatriottici fomentatori della guerra civile. Nel clima di tregua internazionale e di risveglio sociale che ne deriva, Kazan e Miller si riappacificano. La strada che separava Fronte del porto dal Crogiolo (o da Uno sguardo dal ponte) era lunga, ma fin dalla Valle dell’Eden, in cui aveva sentito la necessità di confondere le carte della morale e della responsabilità, si poteva indovinare che Kazan stesse tornando sui suoi passi. Il ribelle dell’Anatolia dimostra nel ’63 che la strada percorsa è molta. Il tema del film, l’immigrazione, era quasi un tabù nel cinema americano, nonostante sia il fondamento stesso dell’America. Kazan riprende un vecchio progetto che accarezzava da vent’anni; ma esso diventa realtà nel ’63, nel 54


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momento in cui Kennedy lancia la sua offensiva contro la legge iniqua voluta nel 1952 da MacCarran e Walter e lavora a una nuova edizione della sua opera, A Nation of Immigrants, che uscirà postuma. Inoltre, Il ribelle dell’Anatolia per Kazan è soprattutto una questione personale. L’autobiografia, pur trasposta nell’esperienza dello zio, non è per questo meno sostanziale. Quando Stavros, il ragazzo del film, dichiara: «Bisogna essere duri, pensare a se stessi; quando ero gentile ero perseguitato dalle disgrazie» e poi quando, alla fine della sua odissea, sogna il padre che gli dice di tornare e vorrebbe ricominciare tutto daccapo, ci troviamo di fronte a un atteggiamento contraddittorio, a un’oscillazione tra il cinismo e il rimorso che ci è familiare. Nello stesso tempo c’è in Stavros un’inedita umiltà nella disperazione. Quando il padre, che si umilia di fronte ai turchi per proteggere la sua famiglia, dice: «Ho sempre mantenuto salvo il mio onore, nel mio intimo. E, come vedi, siamo ancora vivi. Dopo un po’ di tempo, non si prova più vergogna », sorprendiamo l’autore in flagrante atto di confidenza intima. Stavros ripeterà la frase al marito della donna adultera che gli rimprovera di essersi prostituito: «Il mio onore è salvo, nel mio intimo». L’onore sopravvive, ma ha per inseparabile compagna la vergogna, poi non così tanto sopita: «Il bene e il male sono un lusso, cose per ricchi», urla Stavros alla fidanzata che sta abbandonando. Lo scaricatore di Fronte del porto, invece, diceva: «Questo aggeggio, la coscienza, può farti diventare pazzo». Il docker trovava la sua pace in quella versione ufficiale della confessione che è la collaborazione con una commissione d’inchiesta; ma per Stavros, che sperava di «arrivare in America pulito», la speranza di un nuovo battesimo si ferma alla promessa di qualche schizzo sulla prua del transatlantico. Il genere di rinfrescata civica e morale che era bastato al protagonista di Fronte del porto e l’aveva portato dritto dritto all’happy end di uno slancio quasi mistico, non è più in uso qui, dove fin dal primo minuto, fin dalla comparsa del primo pubblico ufficiale americano, Stavros scopre la corruzione e l’ingiustizia razziale, insomma l’esistenza di una struggle for life non meno feroce che altrove. Nel momento in cui Kazan finisce per confessare le scelte sbagliate del passato cui addossa non poche responsabilità, Miller moltiplica i mea culpa in nome dell’intera umanità. Dopo la caduta risale, come La valle dell’Eden, alle radici del male, quando l’allontanamento dal Paradiso Terrestre e poi 55


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l’uccisione di Caino spogliarono l’uomo della sua innocenza originaria e gli aprirono la pericolosa strada della maturità. Si è visto dove conducono tali frequentazioni: a mutare, se non casacca, almeno i propri principi morali. Quentin, il protagonista della pièce, aveva due amori, il socialismo e Maggie, una ragazza bionda che ricorda piuttosto da vicino Marilyn Monroe. Oggi che Maggie è morta, suo malgrado o forse a causa sua, e che il socialismo gli appare un’illusione di gioventù, Quentin non ha parole abbastanza dure per quel periodo d’incoscienza di “prima della caduta”, in cui amava gli uomini e Maggie e credeva che la terra si dividesse tra buoni, di cui lui faceva parte, e cattivi, quelli che erano schierati dall’altra parte. Oggi sa che quella purezza era una menzogna («Bastava che l’ultimo dei bastardi amasse gli ebrei e detestasse Hitler perché fosse un amico»); la verità è diversa: è impura, orribile, letale e con essa bisogna convivere perché essa è in ciascuno di noi. Quando visita i resti di un campo di sterminio con la sua futura sposa, tedesca, non condanna i nazisti, o i tedeschi, ma tutti gli uomini, nei quali si riconosce. Tutti sono dei Caino, in modo latente o dichiarato, lui lo sa, è lui che ha ucciso Maggie. La verità è pericolosa, ha ucciso Lou, che ha preferito suicidarsi piuttosto che testimoniare davanti alla Commissione di inchiesta, ha distrutto Mickey che ha scelto di fare dei nomi. Ma anche rifiutarsi di rispondere alla Commissione non è un comportamento molto puro: è sufficiente rispondere no al male per essere buoni? E se, a banchi ribaltati, gli accusatori si trovassero a essere i nostri imputati, lasceremmo che se la cavassero con un silenzio carico di disprezzo? Non è più da un semplice ponte che Miller guarda il mondo. Eppure, nonostante il tono usato, il suo rifiuto di giudicare non proviene nemmeno dal cielo, ma da un inferno in cui invita tutti gli uomini, in cui ha già raggiunto i colpevoli meno difendibili: nazisti, inquisitori, delatori, aguzzini nell’intimità della coppia. Questo umanismo masochista e livellatore è sincero e disinteressato come sembra? «No, non c’è niente per cui valga la pena che tu venda la tua anima: né il tuo appartamento di dodici camere né la tua automobile né i tuoi soldi», dice Lou a Mickey che va a testimoniare. Era necessario che Miller, per sposare una tedesca (complice passiva dei campi di sterminio) e riallacciare i rapporti con Kazan (complice attivo dell’inquisizione), accompagnasse queste riconciliazioni con un tale atto di abdicazione? Se infatti tutti fossero colpevoli e se nessuno fosse innocente, bisognerebbe evitare di giudicare, di misurare la 56


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maggiore o la minor parte di colpevolezza di ciascuno in ogni circostanza. La scoperta dell’arbusto di una verità essenziale sull’uomo sembra aver completamente nascosto agli occhi di Miller la foresta di una verità più globale sul mondo, che fino ad allora, pur idealizzandola un po’, aveva condiviso. I tormenti che Miller ha dovuto provare per chiamare, con più ragione, Kazan suo amico e suo regista non impediscono però a quest’ultimo, che certo non chiedeva tanto, di coesistere a stretto contatto con i suoi. Le centinaia di artisti che le liste nere hanno definitivamente distrutto potranno sempre dire, con l’eroe del Ribelle dell’Anatolia, che si tratta di tormenti confortevoli, idee di lusso per ricchi. Egli È una fortuna poter esaminare l’opera di Kazan nel momento in cui Il ribelle dell’ Anatolia chiude, seppure in forma provvisoria, il cerchio della sua opera (che certo sarà mutata dai film futuri). Infatti, vedendo nel ’64, alla Cinémathèque, il primo film di Kazan, A Tree Grows in Brooklyn (Un albero cresce a Brooklyn), qualche settimana dopo aver scoperto Il ribelle dell’Anatolia, si ha l’impressione che, cronologicamente, il primo film sia - per ambienti, epoca e personaggi - la continuazione del sedicesimo e al momento ultimo. Siamo appena sbarcati con Stavros Topouzoglou da qualche parte a New York, verso l’inizio del secolo. In una Brooklyn assolutamente contemporanea ritroviamo dei bambini di strada, figli di una recentissima immigrazione, che combattono con furbesca caparbietà contro le durezze quotidiane della vita. Lontano dai riferimenti letterari (Dickens, per esempio) che il racconto può evocare, ci troviamo al crocevia di diversi intrecci autobiografici: con ogni probabilità, quelli di Betty Smith, l’autrice del romanzo; quelli di Stavros-zio Avram alias Joe Kazan, che trova un suo posto grazie alla conoscenza da noi acquisita nel ’64; infine, quelli di Elia Kazanjoglou, che si è servito di qualche ricordo d’infanzia e che allora sente nascere il grande progetto che vent’anni più tardi… Dette queste cose, che risultano dai fatti (biografici e di sceneggiatura) e sono quindi indiscutibili, questo primo film è lungi dall’offrire al talentuoso e celebrato Broadway man di 35 anni tutte le soddisfazioni che potrebbe sperare. Venuto a contatto con la grande macchina hollywoodiana, è entrato in pos57


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sesso di un “meraviglioso trenino elettrico”. Un giocattolo, però, di cui non controlla ancora troppi elementi (la sceneggiatura è già interamente scritta, il produttore ne ha appena cucito insieme gli ultimi pezzi e, sull’altro versante, la tecnica è un gran mistero e bisogna mettersi nelle mani di un direttore della fotografia onnipotente che, in questo caso fortunato, è Leon Shamroy). Kazan deve acconsentire a limitare il suo ruolo di director al rapporto con gli attori. Per sua grande fortuna, il film ne conta molti e lascia loro la ribalta; la quasi totalità delle scene si svolge in interni, o in esterni girati in studio, con abbondanti dialoghi. Visivamente, non ci sono troppe possibilità di inquadrature che siano più che funzionali e realizzate con gusto, senza eccessiva monotonia, nei limiti di scenografie ben definite. Il regista del rurale - e forse bucolico - It’s Up to You del 1941, che aveva già un certo talento plastico da far valere, è costretto a mordere il freno. Nondimeno, il suo controllo sulla recitazione, il suo senso delle sfumature, dei contrasti e dei climax, degli strappi improvvisi e delle atmosfere calde e rilassate, fanno già meraviglie su Dorothy McGuire, James Dunn, che vincerà un Oscar, e soprattutto su Peggy Ann Garner, attrice bambina che raramente lascia indifferenti ma che qui è particolarmente valorizzata («era un’opera di fascino», dice oggi Kazan, «il fascino di Peggy Ann»). All’improvviso, e non solo grazie a una sceneggiatura di grande sensibilità e a una produzione intelligente, Kazan desta l’interesse di un critico perspicace e sottile quale era James Agee, uno dei primi ad aver saputo riconoscere il suo talento (eleggerà Boomerang a miglior film del 1947). Un albero cresce a Brooklyn è un film “familiare”, una saga dei buoni sentimenti sempre al limite del mélo, come il cinema americano degli anni ’40 ne produceva a pieno ritmo, ad edificazione di cellule familiari disgregate, se non gettate nel lutto, dalla guerra. Madri forti dotate di un’infinita capacità di sacrificio regnano su questi mondi, duri ma non privi di humour, in cui i piccoli piaceri si pagano con grandi dolori e i piccoli problemi si mescolano a grandi gioie. Le nascite riequilibrano i lutti e i giorni di festa risplendono di regali e saluti commossi. La durezza in questo caso è dovuta alle condizioni di vita di una Brooklyn 1900, corte dei miracoli importata dal vecchio mondo assieme agli immigrati. I bambini si misurano presto con straccivendoli che si rivelano ossi duri negli affari e con commercianti ladri, in classe sono sottoposti al rituale della caccia quo58


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tidiana ai pidocchi, esplorano il brulicante mistero di strade le cui vetrine traboccano di meraviglie. Solo il lavoro e l’istruzione permettono di uscire da questa miseria. Gran lavoratrice ed economa, la madre vede il suo cuore indurirsi, di pari passo con la sua determinazione. La figlia adolescente, che ha scelto la “cultura”, prende d’assedio la vicina biblioteca, saccheggiata con sistematicità, dalla A alla Z. Il sogno americano ha il prezzo di lunghe veglie. Al dato sociale si aggiunge un conflitto familiare che oppone la madre forte e amareggiata a un padre debole, sognatore, ubriacone, artista fallito per cui la figlioletta ha un’ammirazione e un affetto sconfinati. In questa storia è possibile individuare un gran numero di temi e situazioni che più tardi Kazan avrà cura di orientare in una direzione ben più personale. Penso non tanto allo status neo-americano dei personaggi o alle discussioni e ai rapporti tra generazioni, diventati ormai classici, quanto a un certo modo di contrapporre delle concezioni di vita più o meno realistiche e di mettere parallelamente in luce alcuni problemi morali. Anche se il film sembra schierarsi dalla sua parte, il padre poeta fa comunque la figura di un sognatore perso dietro alle illusioni e all’onore, a fronte di una madre incrollabile che deve provvedere ai bisogni collettivi. Per lei le sue parole, i suoi bisogni irrazionali sono delle indecenze che sconvolgono l’ordine delle cose, un lusso del tutto fuori dalla loro portata. Quando il padre dà il buon esempio ai figli («le tue azioni non devono fare torto a nessuno e, quando agisci, devi essere onesto con te stesso»), per la madre si tratta di una moralità incomprensibile. Come recita il proverbio: «ventre digiuno non ode nessuno». Fin dai suoi esordi Kazan aveva intravisto la possibilità di un’espressione personale, pur obbligata alla “terza persona singolare” dalla distanza che ha imposto tra sé e il proprio materiale; ma il secondo film, The Sea of Grass (Mare d’erba), toglierà al regista ogni diritto al “singolare” (punto di vista, tono, o qualsiasi altra espressione della propria personalità), sia pure di terza persona. Mare d’erba è un’impresa di pura fabbricazione e prefabbricazione in cui Kazan, regista stipendiato, è convocato tardivamente - gli attori sono già stati scelti, lo script è già stato messo a punto, le riprese in esterni necessarie ai “trasparenti” già concluse - per registrare un dialogo sontuosamente servito da star di prima grandezza (la coppia regina della Metro, Spencer Tracy e Katharine Hepburn), che hanno bisogno di appena qualche consiglio, e per gridare a intervalli 59


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distanziati gli ordini «action» e «cut» davanti a una cinepresa dal cavalletto solidamente piantato a terra. Di questo film visto ben diciassette anni fa, conservo solo un ricordo pallido e annoiato che corrisponde perfettamente all’attuale disagio, se non vergogna, di Kazan per averlo firmato. Mare d’erba è un falso western, anche se del genere ha l’ambiente (il Nuovo Messico nel 1880) e una situazione di base classica (le lotte tra allevatori e contadini). Tracy, dispotico “re del bestiame”, finirà per essere sconfitto dai coltivatori che per molto tempo ha ingannato, ma in questo scontro dall’esito democratico (il produttore è il solitamente ispirato Pandro S. Berman), è l’avvocato Melvyn Douglas a trionfare e non lo sceriffo della tradizione. D’altro canto, l’accento è posto soprattutto sul personaggio femminile e sui suoi rapporti con i due uomini. Katharine Hepburn va dall’uno all’altro, in preda alle stesse incertezze che Michel Ciment ha notato nel regista, abbandona Tracy a due riprese, gli porta a casa un figlio che, tra l’altro, non è suo ma di Douglas, e lo ritrova alla fine, invecchiato, quando loro figlio, diventato un fuorilegge, è ucciso dalla polizia. Che cosa si può osservare in questo film, al di là degli sviluppi stereotipati da letteratura ad alta tiratura e a grande verbosità (sullo schermo, le due ore sembrano quattro)? Una prima fascinazione per il male, un male seducente a cui si torna sempre, proprio malgrado, un male incarnato qui da Spencer Tracy, per quanto questo personaggio sia, come ripeto, un good badman dallo stile consumato? Sul piano della creazione, Kazan fa conoscenza con un altro male, quello del “sistema” hollywoodiano. Cercherà di adeguarvisi ancora per qualche film e sarà perfino accusato di esserci riuscito in modo trionfale; dopo, però, sarà la rottura definitiva, che Mare d’erba annuncia in modo eloquente. Il film successivo gli consentirà una prima evasione. Le serre climatizzate degli studios gli sono poco congeniali, e a Stamford, cittadina del Connecticut, può dimenticarle. Questo Lumière perso nel paese di Méliès, questo Stanislavskij sviato da Maeterlinck e Gordon Craig, ha bisogno come Anteo di toccare la dura terra della realtà, lontano dalla quale si infiacchisce. L’esperienza di Boomerang gli offre quello che Hollywood produce all’epoca di più “realista” e lo dico mettendo due volte davanti a questa parola il prefisso “neo”. Infatti, è per tentare di fare concorrenza in terra americana all’allora fiorente e celebrato “neorealismo” italiano che 60


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Louis de Rochemont, proveniente dalla serie documentaria The March of Time, ha dato inizio alla Fox, con La casa della 92° strada e Il tredici non risponde, a una serie di film ossessionati dall’autenticità dei luoghi. Girati sul posto e dotati di una consistente parte documentaria debitamente commentata, questi film rivelarono presto pecche di timidezza e uniformità di soggetti, quasi esclusivamente polizieschi. A essi fecero però seguito altre opere dal realismo totalmente trasfigurato, strappate a Rochemont e messe nelle mani di uomini come Kazan o Dassin. Boomerang, uscito nel ’46, appartiene alla prima fase, saggia, scrupolosa e molto documentata, della serie. Oltre al luogo delle riprese molto decentrato e che ci trasporta nella Nuova Inghilterra, Kazan in Boomerang beneficia di altre due bombole d’ossigeno provenienti dalla realtà: il fatto autentico che è all’origine della sceneggiatura, di cui era stato protagonista Homer Cummings, futuro ministro della Giustizia, e gli attori, reclutati in parte tra gli abitanti di Stamford, in parte tra i membri della troupe del film (lo sceneggiatore fa la parte del detective, una parrucchiera quella di una cameriera…), in parte tra le conoscenze teatrali di Kazan (ritroviamo qui alcuni veterani del Group Theatre come Lee J. Cobb o, in un ruolo molto più nero, Karl Malden). Per fare buon peso, il regista arruola anche la sua famiglia, rappresentata da Joe Kazan, ispiratore di Il ribelle dell’Anatolia (di cui è decisamente difficile sbarazzarsi). È comunque Dana Andrews, un hollywoodiano puro, anche se fra i meno inclini a leziosaggini e facilità, a guidare questo cast dalle origini così disparate, ma che con la sua omogeneità e il suo carattere veritiero è una prova della competenza di chi lo ha diretto. Come i suoi fratelli di serie, Boomerang ha la struttura di un enigma poliziesco, deviato sulla riparazione in extremis di un errore giudiziario. Se l’enigma in sé rimane irrisolto, il film però, grazie agli sforzi ostinati dello State Attorney, si chiude con l’assoluzione di un falso colpevole sul punto di essere condannato. A dominare il film è quindi, più che l’elemento del mistero criminale, l’idea di giustizia con le sue molteplici implicazioni, resa attraverso l’abile resoconto delle complesse interferenze amministrative e giurisdizionali. Quello che nel ’54 spaventerà Schulberg e Kazan, interessatisi a un fatto di cronaca con conseguenze troppo ramificate, non aveva scoraggiato de Rochemont, Kazan e lo sceneggiatore di Boomerang, Richard Murphy. È pur vero che la valutazione politica non si spinge oltre la critica di costume (il gioco delle contrapposizio61


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ni, l’eterna paura di non essere rieletto e la corruzione), non arrischiandosi minimamente a esaminare le ideologie (magari, nella realtà del fatto di cronaca che è all’origine del film, l’accusato era un «pericoloso estremista» o uno «straniero» o un individuo di razza incerta, una specie di Sacco-Vanzetti riuniti in una sola persona). Eccoci dunque immersi nell’atmosfera di una città di provincia in periodo pre-elettorale. Il giornale dell’opposizione attacca l’amministrazione locale sulla sua inefficienza nel caso in corso. Il sindaco sprona il capo della polizia (Lee Cobb) ad agire in fretta e poi, non volendo perdere il suo capro espiatorio, esercita delle pressioni sullo State Attorney (Dana Andrews) affinché non chieda l’assoluzione dell’imputato, ma la sua condanna. Un’autorità locale (Ed Begley), per suoi interessi in un progetto municipale, ricatta lo S.A. attraverso la moglie. Ma lo S.A. resiste a tutti i tentativi di intimidazione e fa liberare l’imputato (Arthur Kennedy), senza per questo compromettere la propria carriera; il resto della storia lo dimostrerà. Questo film, interessato più ai meccanismi che agli aspetti filosofici, più agli ingranaggi politici che a ciò che li fa muovere, trova la sua forza nei suoi stessi limiti. È un’opera di «ottimo giornalismo», elogiata da Agee, è ciò cui ha sempre aspirato Rochemont: un lavoro denso, preciso, chiaro, informato, efficace, efficace, efficace. La potente sobrietà del regista, applaudita con gli spettatori dell’epoca da Jean-George Auriol, è l’elemento che oggi stupisce di più i testimoni dell’opera posteriore. È evidente che nella terza persona del singolare Kazan trovava il terreno ideale per esprimersi, secondo la regola d’oro del suo produttore. Nell’opera del regista, Boomerang ha in ogni caso una certa importanza: oltre a stabilire, come si è già ricordato, i primi contatti con il reale, inaugura una critica della società americana contemporanea. Tale critica, avviata a teatro solo l’anno precedente con l’allestimento di Profonde sono le radici, pièce di Arnaud d’Usseau e James Gow sulla questione nera (mi chiedo se ce ne siano state molte prima su questo tema), sarà portata avanti l’anno dopo dal dramma di Arthur Miller Erano tutti miei figli (in cui Kazan ritrova quattro attori di Boomerang: Kennedy, Begley, Malden, Dudley Sadler), sui profittatori di guerra nell’industria; culminerà con Morte di un commesso viaggiatore in cui lo stesso Miller fa un’analisi devastante dell’american way of life e del sogno di riuscita sociale; si svilupperà in dieci film che in qualche caso susciteranno, ma molti anni dopo che Kazan avrà “lavato le sue colpe” di fronte alla HUAC, l’accu62


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sa di «antiamericanismo». Accusa che nel ’46 sarebbe stata del tutto gratuita, dal momento che Boomerang illustra drammaticamente il trionfo delle istituzioni, lodate con più discrezione nei due film precedenti. Il desiderio di istruirsi e di lavorare sodo di Un albero cresce a Brooklyn denota la fede in un “sistema” giusto e, a lungo termine, remunerativo. In Mare d’erba, un avvocato si appella alla legge affinché l’allevatore capitalista restituisca il maltolto. In Boomerang è di nuovo un avvocato che, per l’intera durata del film, lotta contro la plebaglia assetata di linciaggio e contro alcuni funzionari corrotti o stolidi, sforzandosi di salvare un uomo dall’ingiustizia. Questa fede nelle istituzioni, ultimo rifugio degli umiliati e sfruttati, ritorna sotto le maschere più diverse: è la stampa, che con il potere che gli fornisce la sua libertà in regime democratico, combatte l’antisemitismo in Barriera invisibile; è un semplice tribunale che decide, in pieno conflitto razziale, che Pinky, ereditiera nera, può godere del lascito di una bianca; è un ufficiale medico che, con l’aiuto del capo della polizia, salva New Orleans dalla peste in Bandiera gialla; è l’inviato di Washington che prepara, per il benessere locale, il piccolo miracolo dell’elettrificazione con l’installazione della TVA; è la stessa Commissione di inchiesta - ma quest’altra faccia della medaglia diventa palese solo se si fa riferimento all’esperienza personale di Kazan, che il film pretendeva di illustrare - che salva il sindacato portuale dalla corruzione. Può venire allora da pensare che questa fede nelle istituzioni indebolisca la posizione critica di cui parlavo prima. Ma critica e difesa del “sistema” spesso si mescolano in uno stesso film ed è la presenza della seconda che permette l’esistenza della prima (questo non è un concetto nuovo, tutto il cinema americano ce lo insegna). D’altra parte, con qualche rara eccezione, sono i film contemporanei del Fair Deal trumaniano a insistere sulla difesa del “sistema”: in essi Kazan in un certo senso continua ad affermare la sua fede nell’America rooseveltiana di Young Go First, The People of the Cumberlands e It’s Up to You. Quando Kazan sceglie di rifiutare istituzioni degeneri e di predicare quindi una rivoluzione continua, lo fa con il duplice filtro del tempo e dello spazio (il Messico dopo il 1910 di Viva Zapata!). Quando, volgendosi di nuovo all’America, decide di ignorare le istituzioni, realizza i suoi film più spaventosamente pessimisti: Baby Doll e il suo «occhio per occhio» (tit for tat), la sua giustizia della giungla; Un volto nella folla, che rispecchia alla perfezione l’era di 63


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Eisenhower, Nixon e di tutti i McCarthy 5; infine Splendore nell’erba, affresco pre-New Deal degli sregolati anni della lawless decade. Torniamo allora a quel Fronte del porto decisamente eloquente: la Commissione d’inchiesta è il solo “servizio pubblico” che Kazan abbia trovato l’occasione di esaltare durante gli otto anni del doppio mandato di Eisenhower (e, oltre tutto, per ragioni molto personali). Nel ’47, tuttavia, Gentleman’s Agreement (Barriera invisibile) mostra ancora un Kazan critico e idealista. Il regista è rientrato a Hollywood dalla porta principale. La Twentieth-Century Fox gli offre i collaboratori più prestigiosi per ogni settore: Darryl Zanuck è il suo produttore, il celebre drammaturgo Moss Hart il suo sceneggiatore (con questo film muove i suoi primi passi nel cinema), il grande - e compianto - direttore della fotografia Arthur Miller il suo fotografo (il secondo Arthur Miller della vita di Kazan), Alfred Newman il suo musicista. E le stars, dietro Gregory Peck, brillano ancora più intensamente. Rimasto nonostante tutto prudente e sempre attento agli attori, Kazan raduna il maggior numero possibile di collaboratori che abbiano già dato buona prova di sé con lui: Dorothy McGuire, John Garfield, forse il prodotto più famoso del Group Theatre, June Havoc, Albert Dekker, Sam Jaffe, Jane Wyatt, Curt Conway, Harold Vermilyea… Il film è un trionfo. Vince tre Oscar, tra cui quelli per il miglior film e per la miglior regia, il Premio dei critici newyorkesi e, in tutto, più di cinquanta awards diversi. Sulla stampa è tutto un concerto senza note stonate. Il New York Herald Tribune, quotidiano non specialistico, dedica un editoriale al film. In poche parole, come dicono i manifesti: «the most sensational reviews in film history». Risultato: Barriera invisibile è uno dei film meno riusciti di Kazan, se non uno dei peggiori. Non è che, rivisto oggi, mostri i segni del tempo, piuttosto, per cambiare metafora, appare mummificato nella rigidità di un sonno eterno, e contagioso. È il prototipo del film di prestigio, di una Qualità con la lettera maiuscola; con esso Kazan sembra adattarsi a un tipo di carriera che potremmo definire, con riferimento ai suoi due capofila, wyler-stevensiana. A salvarlo sarà ancora una volta il fatto che il film non è frutto della sua espressione personale. Infatti se si dovesse scegliere un “autore” per Barriera invisibile e, di con5

Tutti in italiano nel testo. [n.d.t.]

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seguenza, un responsabile del suo reale fallimento, la scelta ricadrebbe indiscutibilmente su Darryl Zanuck. Quando il produttore non ha di fronte a sé un regista dalla fortissima personalità (sarà questo il caso, quattro anni dopo e sempre con Kazan, di Viva Zapata!), il film appartiene in tutto e per tutto a Zanuck. Di Zanuck, qui, è la scelta iniziale di un best-seller d’autore, di un sentimentalismo “femminile” che culmina in un falso epilogo; suo il carattere esageratamente parlato, traboccante di frasi, prodigo di grandi scene, di una sceneggiatura scritta da un drammaturgo manifestamente incoraggiato a lavorare “come per il teatro”; suo l’aspetto uniformemente facoltoso e convenzionalmente realista degli ambienti, in una produzione che aspirerebbe allo sfarzo delle grandi strutture della vicina Metro. Sua, quindi, è la regia misurata, perché costretta a rispettare le parole dell’uno e l’arredamento dell’altro, salvo poi dibattersi, come la farfalla in una stanza, nello stretto registro di un’atmosfera a metà tra il familiare e il mondano. Il tema di Barriera invisibile è comunque oro colato; se ne scorgono le pagliuzze sparse qui e là nel film. Un giornalista decide di basarsi, per un’inchiesta sull’antisemitismo, sulla propria esperienza personale e per questo si fa passare per ebreo. Il procedimento sarà applicato alla questione nera molti anni dopo dal libro, poi diventato un film, Black Like Me. Questo gioco di maschere si invertirà, per Kazan, a partire dal film successivo, Pinky, in cui una ragazzina nera passa in tutta naturalezza per bianca. I meriti di Barriera invisibile risiedono nel carattere ordinario del suo antisemitismo. Non ci si trova di fronte al razzismo brutale, eccezionale, di Odio implacabile, vizio di un criminale nevrotico; è la piccola malattia subdola, inconscia o nascosta, perfino negata, ma latente e altrettanto deleteria nella sua banale quotidianità. Il giornalista (Peck), via via che procede, ne scopre le tracce dappertutto: è nella sua stessa segretaria, israelita antisemita; è il gelo che semina tra i suoi colleghi progressisti quando con noncuranza dice: «anch’io sono ebreo»; è la sua fidanzata (Dorothy McGuire), che, informata del suo progetto, ne rimane sconvolta; sono gli amici di lei che lo tengono a distanza; è suo figlio, insultato dai compagni di classe; è il suo amico, militare ebreo (Garfield) che non riesce a reinserirsi nella vita civile; è l’albergo di campagna, esclusivo ma «restricted», cioè vietato ai «non-Gentili»; sono le umiliazioni psicologiche e morali di ogni giorno, a cominciare dalla passività vigliacca di ognuno in presenza di manifestazioni di antisemitismo. Il tutto impregnato di uno spirito didascalico (a par65


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tire dalla spiegazione data a un bambino che fa molte domande), anche se spesso non manca di finezze, sino a un diluvio di happy end e di buona coscienza: il giornalista riacquista la sua identità e il suo reportage, come il film, è un trionfo; sua madre, gravemente malata, guarisce; il suo amico smobilitato trova un lavoro e un appartamento; la sua fidanzata si riconcilia con lui e si getta tra le sue braccia. Sotto l’autorità persuasiva di Kazan, certe scene tra Gregory Peck e Dorothy McGuire assumono un loro straordinario respiro di intimità, momenti complici di solitudine rispetto al mondo, oasi perfette definibili solo in inglese: cool e relax sono le prime parole di un opus che di essi non sarà affatto avaro. Segnaliamo ancora per i collezionisti di situazioni una scena in cui Celeste Holm, giornalista innamorata di Peck, chiede letteralmente la sua mano vantandogli a lungo le proprie qualità; ne troveremo una simile, ma in un contesto molto più drammatico, tra Lee Remick e Montgomery Clift in Fango sulle stelle. Due anni dopo Barriera invisibile, Kazan ritrova Hollywood, Darryl Zanuck e la Qualità (Quality è il titolo del romanzo da cui è tratto questo film). Pinky (Pinky, la negra bianca) era stato cominciato da John Ford, di cui ritroviamo nei titoli di testa due sceneggiatori feticcio: Dudley Nichols e Philip Dunne. Kazan cercherà di onorare questa pericolosa ma stimolante sostituzione esperimentando per la prima volta un lirismo plastico favorito dalla presenza dietro la cinepresa di Joe MacDonald e, davanti ad essa, del vecchio Sud degli Stati Uniti. MacDonald, forse il miglior fotografo della Fox, è un virtuoso di quelle tonalità calde e contrastate che daranno all’opera di Kazan un apporto incalcolabile, come sarà magistralmente dimostrato dai film posteriori. Il Sud, invece, mescolato con la questione nera, era per il regista di The People of the Cumberlands una conoscenza soprattutto teatrale. Gli allestimenti di Harriet, dramma sull’autrice di La capanna dello zio Tom (Harriet Beecher-Stowe), portato in scena nel ’43, di Profonde sono le radici (1945) e di Un tram che si chiama Desiderio (1947), erano state le tappe, replicate, di una preoccupazione che si farà via via più pressante. Dal momento che il cortometraggio realizzato prima della guerra ci è ignoto, è Pinky a presentarci le prime immagini kazaniane di quei languidi paesaggi, quelle bianche dimore fuori dal tempo, quelle “capanne” dalla miseria altrettanto anacronistica, tutta una fotogenia del Sud, qui forse in parte dovuta a Ford e in ogni caso 66


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troppo sacrificata alle numerose scene girate in studio, ma che in futuro sarà da Kazan cantata come conviene: dalla New Orleans, portuale o ricostruita nella sua interezza, al Tennessee selvaggio e al Mississippi cotoniero. Lo splendido lirismo di Fango sulle stelle, che ho accostato a Dovzenko e che alcuni dicono fordiano (è un po’ la stessa cosa: sono entrambi due rurali ispirati), ha la sua origine in Pinky. Oltre a questa nuova bellezza e a questo nuovo calore dell’immagine, il film sfoggia diversi segni di una più acuta consapevolezza dei mezzi espressivi specificamente cinematografici. D’ora in poi la regia sarà per lui qualcosa di radicalmente diverso: non gli basterà più fotografare nel modo più razionale ed economico una messinscena teatrale; si tratterà invece di dare corpo a un’altra regia legata non solo all’attore e ai dialoghi, prìncipi della scena, ma anche alla scenografia e allo spazio, ai molteplici rapporti di coesistenza degli uni con gli altri e con la cinepresa, alla relazione tra gesti e movimenti, sia dell’attore sia della cinepresa, al rapporto tra i ritmi (quello delle riprese e quello che sarà stabilito dal montaggio), ecc. Può darsi che sia eccessivo far cominciare con Pinky questa coscienza di cineasta, di cui i film precedenti non erano totalmente sprovvisti e che il film in questione non padroneggia del tutto. In Pinky, però, si può osservare la messa in moto di quel famoso “trenino elettrico” (il complesso apparato tecnico che, se controllato, permette di accedere a un’espressione “articolata”) che presto brucerà le stazioni a velocità folle e la cui corsa forsennata, spesso sull’orlo del deragliamento, è ben nota agli spettatori del Kazan di oggi. Il soggetto di Pinky, come il suo stile di regia stretto tra due registi (e un produttore), oscilla tra l’avanzata coraggiosa e il ripiegamento, tra l’integrazione razziale e la “negritudine” fieramente assunta. Innanzitutto, Zanuck abbandona, per ragioni puramente commerciali, l’idea di affidare il ruolo della sua negra bianca a un’attrice nera di carnagione chiara e completamente sconosciuta. A ottenere la parte, falsando così il ruolo, sarà Jeanne Crain, giovane fiore all’occhiello della Fox (non era necessario che il Peck di Barriera invisibile fosse ebreo, dal momento che doveva solo fingersi tale per un espediente di sceneggiatura). Pinky, infermiera che nel Nord tutti credono di razza bianca, si è innamorata di un medico bianco e fugge da questo amore per tornare a vivere con la sua famiglia, nel Sud, dalla nonna nera. Il medico viene a cercarla e, di fronte alla verità, le rinnova la sua proposta di matrimonio, proponendole 67


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di scappare con lui lontano dal Sud. Pinky rifiuta l’offerta e usa l’eredità lasciatale da una vecchia signora bianca per creare un ospedale-scuola destinato ai bambini e ai malati neri della regione. Il film prende quindi posizione contro l’integrazione, idea che nel 1949 non aveva la forza che ha assunto nel 1965, assimilandola a una “salvezza” individuale, una fuga (dal Sud e dalla scandalosa verità: la coppia vivendo nel Nord o nell’Ovest non si distinguerebbe affatto da una coppia completamente bianca), un attraversamento egoistico della linea, un viaggio senza ritorno: insomma, una diserzione. Pur offrendo un’immagine negativa dell’integrazione, il film mette però in luce diversi aspetti positivi della scelta di Pinky. Rimanendo nera, nel Sud, la protagonista lotta contro il razzismo meschino e crudele degli autoctoni bianchi (che cercano di privarla dei suoi diritti sull’eredità) e per il miglioramento della situazione sociale e la promozione delle persone della sua razza (a dare la libertà sono, come in Un albero cresce a Brooklyn, i lumi dell’istruzione e, come in tutti gli altri film, il progresso). Questo approccio a una condizione che rovescia gli argomenti di un progressismo manicheo e di buona coscienza è senz’altro specioso e motivo di possibili contestazioni agli autori. A ripensarci, si può trovarlo realista e considerarlo, più che una presa di posizione degli autori, una scelta abnorme, ma al momento innegabile, della società sudista. Non si tratterebbe quindi di un film razzista nelle intenzioni, ma del ritratto fedele di una società razzista, pur adattandosi forse troppo facilmente ai tabù di tale società, fino al punto di vedervi un aspetto positivo. Pinky, film obiettivamente razzista, non è dunque totalmente difendibile, se non in quanto constatazione di un dato di fatto. È anche la prima pellicola in cui Kazan presenta una situazione delicata da una prospettiva e in circostanze tali da scuotere, con la sua inevitabile conclusione, le opzioni morali più salde. Il comportamento di Pinky e poi quello del docker delatore di Fronte del porto o del Cal della Valle dell’Eden sono circondati da tali “garanzie” realistiche che la posizione contraria (via via: l’integrazione, il codice d’onore della malavita, Aaron) appare in confronto un atteggiamento idealista, debole, un riflesso egoistico di difesa che si oppone al sacrificio per la collettività. Non c’è nessun dubbio che nella mente di Kazan questo elogio di ambiguità anti-manichee sia servito anche a spiegare il suo comportamento, nella realtà, davanti alla Commissione parlamentare. Da questo punto di vista, si noti che Pinky, rifiutando di “fuggire” nel Nord con il suo fidanza68


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to, gli dice la stessa frase («ne ho abbastanza di mentire») con cui Kazan risponderà ai membri della Commissione e che sarà ripetuta anche dal Mickey di Dopo la caduta. Le eredità del passato, genealogiche per l’una, politiche per gli altri, portano alla confessione, al bisogno di proclamare “la propria verità” seguendo un’esigenza morale e una sete di sacrificio masochistiche, perlomeno nella misura in cui sono totalmente sincere (la scelta di Pinky è più libera di quella di Mickey-Kazan, indotto al rituale della confessione con il ricatto). Sarebbe certo imprudente sviluppare questo parallelo, che tuttavia era necessario segnalare. Kazan, nel 1949, non è ancora in grado di formulare dei “messaggi personali”; è però giunto il tempo per lui di abbandonare l’“egli” un po’ distante della passività forzata per il “tu” diretto di un dialogo più animato e argomentato. Tu Panic in the Streets (Bandiera gialla) segna una profonda modificazione nello stile di Kazan. Dico “modificazione”, in riferimento al romanzo di Michel Butor che porta questo nome e che si rivolge al lettore alla seconda persona plurale («voi fate questo e quest’altro…»). Kazan, invece, adotta il “tu” familiare e spesso brusco, ma in un modo non così sistematico da richiedere un minimo di spiegazioni. Quello che io chiamo con una certa arbitrarietà (ma che cosa sarebbe un autore se non avesse il suo libero arbitrio?) il “tu” nell’opera di Kazan è quella zona violenta compresa tra la parte “egli” che ho appena illustrato, in cui il regista impara il suo mestiere e contemporaneamente prende le misure dei vincoli del sistema hollywoodiano e morde il freno, e l’“io” dell’espressione completamente padroneggiata, limitandosi, in un primo tempo, al piano della produzione, di cui non si sottolinea mai troppo l’importanza (molto spesso a Hollywood gli autori dei film sono i loro producers). Kazan inizia a dire “io” solo alla fine del ’54, quando può comparire come producer nei titoli di testa dei suoi film (producer della Valle dell’Eden per la Warner, così come sarà il producer di Fango sulle stelle per la Fox), prima di poter interamente produrre le sue opere, con l’etichetta “Newtown”. La fase dell’ “io” non corrisponde per forza a film più autobiografici a livello di soggetto, ma al momento in cui Kazan si trova nella condizione di poter creare in piena libertà, e la possibilità 69


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di espressione personale, e di relativa responsabilità, è totale anche sul piano estetico. La fase del “tu” si colloca, in questa geografia particolare, tra la strada e i docks o, per rispettare i nomi originali, tra the streets (Panic in) e the waterfront (On). Nel corso di quei quattro anni e di quei cinque film, Kazan si libera dei soprusi subiti agli inizi e ostenta uno stile deciso e spesso provocatorio. Il nuovo stile è il “tu” del dialogo imposto, che nessuno spettatore può eludere, tanto la forza dei dispositivi formali e l’audacia sfrontata dei temi rendono impossibile qualsiasi atteggiamento di indifferenza. È anche un cinema di confidenze a tu per tu, che cade facilmente nell’eccesso, perché viene dopo un periodo di frustrazione e dà infine sfogo a un temperamento naturalmente acceso. Per tale motivo gli spettatori che smettono di considerare con favore la carriera di Kazan dopo il 1950, come i critici inglesi di Sight and Sound, possono certo rimproverare al regista la mancanza di ritegno, ma non possono giustificare la propria posizione affermando che i suoi film di inizio carriera riflettono con maggiore fedeltà la sensibilità dell’autore rispetto ai film posteriori. Trovando il “suo” segreto del cinema, Kazan ha permesso alla sua vitalità, alla sua sensibilità, alla sua rivolta di esplodere direttamente sullo schermo; per tutta la sua vita, fin dai lontani anni ’30, Kazan si è sentito ripetere che era troppo nervoso, eccessivo e altre cose di questo genere; bisognava dunque che questa sovreccitazione fosse visibile sullo schermo perché i suoi film fossero finalmente suoi. Per quattro anni, inebriato dal suo nuovo potere, Kazan non si è trattenuto dall’afferrare lo spettatore per il bavero dandogli del tu senza tante cerimonie. (Proprio per questo, Fronte del porto fa parte di questo periodo più che di quello successivo: così vuole lo stile, indissolubile dal contenuto. Come si è visto nel capitolo dedicato alla politica, indubbiamente Kazan vi traspone un episodio autobiografico, ma dal momento che con lui c’è Schulberg, potrebbero pretendere di dire “noi” e non “io”, entrambi più preoccupati di convincere che di semplicemente esporre. Non stupisce, allora, che questo film sia considerato un film che non solo dialoga, ma accusa). A New Orleans, nel 1950, Kazan è felice. Hollywood è a migliaia di chilometri di distanza e il suo nuovo produttore, Sol Siegel, è comprensivo. Come in un ritorno alla maniera di Boomerang, Bandiera gialla è girato quasi completamente in esterni; ovviamente, siamo lontani da Boomerang: il soggetto del film è inventato e d’altra parte il genere semi-documentaristico lanciato da de Rochemont ha ormai raggiunto nel 1950 70


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una sua compiutezza, come mostra, alla stessa epoca, il Jules Dassin dei Trafficanti della notte. Ai dodici attori importati da New York e da Hollywood (Kazan ritrova Richard Widmark e Barbara Bel Geddes che aveva diretto a teatro cinque anni prima; Walter Jack Palance, “sostituto” di Marlon Brando in Un tram che si chiama Desiderio e suo erede nel ruolo di Kowalski; Zero Mostel, imponente membro del relativamente recente Actors’ Studio), il regista aggiunge un centinaio di attori locali e di perfetti principianti (tra i quali il taxista Emile Meyer, che interpreta il ruolo di capitano di una nave; Meyer non smetterà più di imperversare nei film americani con la sua presenza ruvida e talentuosa). Durante le riprese, effettuate nei cento posti più straordinariamente fotogenici di una città straordinariamente fotogenica, Kazan inaugura un metodo creativo che, sul piano politico, era stato reso popolare da F.D. Roosevelt. Si circonda di un brain trust permanente composto da Joe MacDonald, Harmon Jones e Richard Murphy, vale a dire dai due tecnici chiave, direttore della fotografia e montatore, e da uno sceneggiatore-dialoghista chiamati, ognuno nel proprio campo, a tirar fuori il massimo dalle scene in rapporto all’ambiente e a riadattare su due piedi i particolari del copione (tre quarti dei dialoghi sono stati modificati così). Kazan si “apre” agli esterni e nello stesso tempo resta aperto ai suggerimenti dei suoi collaboratori. È una creazione collettiva al servizio di uno stile personale. La New Orleans del film è doppiamente sudista, per la posizione geografica e perché è soprattutto il porto a interessare Kazan. I porti e il Sud hanno una cosa in comune: possiedono ad usura la poesia della muffa. Corrosi dal tempo o dall’acqua di mare, sono l’eco di splendori scomparsi, di Indie meravigliose. I pontoni mezzi tarlati, i cargo lasciati ad arrugginire all’ancora sono fratelli d’anima dei frontoni in rovina retti da colonne di marmo. Le erbacce e le paludi ombrose delle antiche piantagioni si mescolano ai ricordi stagnanti dei vecchi moli. I porti (che siano, come vedremo, di New York o di Costantinopoli) e il Sud, che da cent’anni rimugina sulla sua sconfitta, hanno lo stesso odore tenace di cimitero marino e New Orleans, porto della Louisiana, è la sorella americana di Venezia, dove una storia antichissima continua a sprofondare nell’acqua. La cinepresa di Kazan si getta in Decatur Street con i suoi clamori di jazz, esplora i quartieri infetti, le bettole losche (oltre a molti attori dilettanti, il cast del film ha radunato innumerevoli esemplari della fauna portuale: ubriaconi, drogati e barboni 71


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vari) e attraversa di gran carriera i labirinti dei magazzini. La libertà del regista non è solo una libertà dell’occhio (tutta una realtà tangibile da accarezzare, grazie a talento di Joe MacDonald), è anche una libertà delle gambe: le promesse che Pinky faceva frugalmente pregustare, esplodono con uno splendore non ancora inficiato dall’ostentazione. Bandiera gialla è, nell’opera di Kazan, il primo film salutato dalla stampa come un director’s picture, un film in cui la personalità degli attori o di qualsiasi altro collaboratore, per quanto prorompente sia, cede il passo di fronte a quella del regista; si potrà dire altrettanto di quasi tutti i film a venire. È il primo film che Kazan abbia fatto esattamente come l’intendeva, il primo (e quasi l’ultimo, tanto i temi delle opere seguenti saranno controversi) in cui lo si possa ammirare pienamente, liberamente, senza rimorsi. Il realismo scrupoloso, terra terra, di Boomerang ha spiccato il volo verso la fantasmagoria; del resto, le ambizioni sono diverse da un film all’altro, al pari delle risorse del regista: Boomerang calava un fatto autentico nella sua realtà originale; Bandiera gialla confronta una “favola” con la realtà, sino a darle la dimensione del mito. «Potrebbe succedere anche nella vostra città!», proclama la pubblicità del film. Questo propagarsi del mito è certo il frutto di una costruzione scenaristica che coinvolge, per approfondimenti successivi, tutti gli strati di una comunità, ma deriva anche dalla forza di suggestione della tecnica registica e dell’interpretazione. Il giornalista di ieri si è fatto poeta della notte, la sua cinepresa non si accontenta più di una registrazione impassibile, ma si esalta in frasi febbrili. Questa dinamizzazione, questa “personificazione” della cinepresa sono paragonabili solo a quelle degli attori che le stanno davanti. Gli attori di Kazan sono attraversati da una nuova intensità, dovuta innanzitutto allo stanislavskismo aggiornato che, da due o tre anni, li mantiene allo Studio in stato di “veglia” perenne, ma anche al clima di emulazione che regna sulla scena e alla maggiore fiducia di Kazan nei propri molteplici poteri. (In lui, lo stregone che c’è in ogni regista ispirato, non si è ancora trasformato in apprendista stregone sopraffatto dallo straripare di quegli stessi poteri). Le idee particolari, quelle “piccole verità fisiche” di cui ho parlato nel secondo capitolo, abbondano. Widmark, attore peraltro sostanzialmente timido, non è mai tanto a suo agio come durante le riprese in esterni (come numerosi western dimostreranno). Jack Palance e Zero Mostel fanno faville nei panni di assassini dall’aspetto fisico e dal comportamento diametralmente opposti; Kazan si 72


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ingegna ad accostare alla nervosa magrezza dell’uno l’obesità ansimante dell’altro - cui, a volte, offre come elemento di contrasto la piccolezza ossequiosa di uno strillone nano. Nella scelta delle comparse il regista dà prova di un temperamento plastico pari a quello che dimostra per le ambientazioni: la fotogenia delle une e delle altre si combina in una luce di allucinazione. Per non frenare il dinamismo dei suoi attori, anzi, all’occorrenza, per moltiplicarlo, Kazan fa spesso ricorso al piano sequenza alla Welles-Wyler, all’interno del quale l’attore “costruisce” la sua performance, muovendosi dentro il campo e qualche volta uscendone, per poi rientrarvi se la cinepresa non l’ha seguito nei suoi spostamenti. Tuttavia, più che su un singolo attore, il regista fonda la sua direzione sull’unità della scena che, collettiva o individuale, statica o dinamica, composta da uno o più piani, si sviluppa con un’efficacia drammatica che resta ottimale fino al suo esaurimento logico. Il risalto dato alla scena è, ancora una volta, una conseguenza dello stanislavskismo che - come si è detto - divide ogni ruolo in “compiti” successivi, per cui il film procede per accumulazione di piccoli drammi giustapposti, di un’intensità e accuratezza che sfiorano la perfezione. Il rischio, se il regista perde di vista o trascura lo stretto controllo della sua visione di insieme, o se si preferisce del suo “super-compito”, è che il film si risolva in un’opera squilibrata, eterogenea, priva di movimenti (nel senso musicale del termine), in cui i pezzi di bravura si inficiano a vicenda, generando monotonia. Tali difetti, che non sempre Kazan riesce a evitare e in cui, in genere, cadono i suoi epigoni, sono splendidamente assenti in Barriera invisibile. Il film potrebbe intitolarsi La peste: un’epidemia di peste polmonare minaccia New Orleans e a portarla è stato un uomo imbarcatosi a Orano, proprio là dove imperversava il flagello camusiano. Dopodiché, tutto è affidato agli sforzi di pochi uomini per circoscrivere il male. Il film, così come il romanzo di Camus, può essere interpretato come un’allegoria umanista della responsabilità. Tuttavia, mentre lo scrittore offre una visione metafisica della condizione umana, i cineasti si accontentano pragmaticamente di una responsabilità a scala terrena. Quando il sindaco della città pretende di proteggere solo la sua «comunità», gli viene risposto che il Medioevo è finito e che il mondo è un’unica comunità, perché a un malato sono sufficienti poche ore per portare i suoi microbi nella punta estrema dell’Africa. In questo mondo profondamente kazaniano di lupi e di pecore appestate, in prima linea nella lotta ci sono due 73


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pubblici ufficiali: un medico oberato di lavoro, malpagato e indebitato, e un ufficiale di polizia grezzo di corpo come di spirito, che il medico di primo acchito disprezza, ma che finirà, nel fervore del comune impegno, per apprezzare e stimare profondamente. Nella corsa contro il tempo narrata dal film, la malattia mortale e la teppaglia sono accostati al male assoluto, mentre le istituzioni pubbliche, dal personale sanitario ai poliziotti passando per gli impiegati dell’amministrazione, rappresentano il bene incontaminato. Le sottigliezze antimanichee non sono le benvenute quando è proclamato lo stato di quarantena e quando bisogna ridurre al silenzio dei giornalisti irresponsabili, che vogliono rivelare la verità pur sapendo di provocare il panico. Nelle rare pause strappate al suo incubo, il medico trova in sua moglie tutta la pace, la freschezza, l’affetto, la comprensione quasi materna di cui quasi tutte le eroine di Kazan sono dispensatrici. Con A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama Desiderio) rimaniamo a New Orleans, ma questa nuova New Orleans è esteticamente agli antipodi della prima. Il film rappresenta un’esperienza unica nell’opera di Kazan: un dramma filmato. Da esso Kazan trae pochi insegnamenti, se non negativi: l’animatore teatrale imparerà che la sua attività cinematografica deve distinguersi nettamente dal suo lavoro sulle scene, tanto gli strumenti e gli obiettivi dei due campi gli appariranno divergenti (Baby Doll, tratto da alcuni drammi brevi di Tennessee Williams, subirà un normale trattamento di sceneggiatura e sarà sottoposto a un’ immersione totale nella realtà; in seguito Kazan dirà di non volere più lavorare con Williams e preferirà chiedere degli script originali a sceneggiatori-drammaturghi, come William Inge). Il Tram porta sullo schermo nel 1950 la pièce che tre anni prima aveva vinto il premio Pulitzer, senza cambiarne il cast, fatta l’importante eccezione per Vivien Leigh, che eredita da Jessica Tandy il personaggio centrale di Blanche DuBois. Ci sono tutte le ragioni per credere che la regia cinematografica ricalchi molto da vicino l’allestimento teatrale nelle scenografie e nei dialoghi, mantenuti, se non nella loro integrità (ci sono dei particolari edulcorati e un finale “morale” che separa Stella da Stanley Kowalski), almeno nella loro struttura drammatica e nei loro confini teatrali. La cinepresa segue da vicino lo sviluppo delle scene, avanza verso uno e poi verso l’altro, quasi da confidente, e non riesce a sfuggire, a dispetto di una gran74


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de fluidità, a una certa monotonia di découpage, perché deve agire e comporre un’opera cinematografica all’interno di una rigida architettura teatrale prestabilita. La formula-scommessa del “teatro filmato” è rispettata: non si è in presenza di uno spettacolo nuovo, di natura diversa, ma ci si ritrova trasformati in spettatori privilegiati dello spettacolo originario. D’altra parte, qualsiasi aspirazione al realismo doveva essere messa al bando in un’opera che si identifica con il personaggio di Blanche nella ricerca di ogni forma di evasione, per quanto insignificante sia. «Non voglio realismo, voglio della magia», dice Blanche, che si isola e si purifica dalla ruvida realtà dietro i fragili scudi dei paralumi di carta e dei bagni ripetuti, che si rifugia in fantasie schizofreniche in cui il ricordo di un Sud un tempo meraviglioso si mischia alla disperazione di una giovinezza perduta, sprofondando alla fine nell’evasione definitiva della follia. Di fronte a questo atteggiamento di fuga perenne, la realtà fa delle brutali irruzioni, che appaiono ancora più brutali perché filtrate attraverso una visione malata; ed è una realtà eccessiva, caricaturalmente tragica, che assume l’aspetto di un vero e proprio uomo di Neanderthal schiumante e urlante. La straordinaria coppia dell’uomo delle caverne e della ninfomane invecchiata dalla raffinatezza ipocrita pone l’opera di Tennessee Williams nella sua vera luce, evidenziandone l’unico aspetto serio, quello sessuale, con i conseguenti conflitti tra realismo e irrealismo. Con la scoperta di Williams, nel 1947, Kazan si è concesso un occhio nuovo, un occhio interiore. Questo “marxista”, fino ad allora preoccupato soprattutto di problemi di disciplina sociale, si interesserà insieme al drammaturgo (che dirigerà ancora tre volte a teatro e due al cinema) a problemi “freudiani”, non meno impellenti per il fatto di agitarsi nelle zone più intime della persona umana. E, a proposito di Williams, Kazan dice: «È il primo drammaturgo che abbia osato liberare alcune rimozioni dell’anima americana con così tanta insistenza e poesia. Per chi sa vedere e capire, le sue arringhe di ambito sessuale equivalgono a una crociata antirazzista» (intervista rilasciata a Cinémonde, il Playboy settimanale del giovane cinefilo). Dopo Williams, l’opera di Kazan trova, anche sotto questo aspetto, un equilibrio tra un “interno” e un “esterno” che, benché portatori di miglioramenti di tutt’altro genere rispetto a quelli del Metodo stanislavskiano, si risolvono in certi casi in felicissime sintesi di cui sono prova, tra l’altro, Baby Doll e Splendore nell’erba. 75


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«Prendete La gatta sul tetto che scotta», dice Kazan (su Theatre-Arts), «di che cosa si tratta veramente? Di una donna con cui il marito non vuole andare a letto. La storia sta tutta qui». Nello stesso modo, Un tram che si chiama Desiderio mostra innanzitutto due donne e un uomo che coabitano in pochi metri quadrati; anche se sposato con l’una, che ha messo incinta, l’uomo si porta a letto l’altra, che è sua cognata; nel frattempo, ci sono state mostrate le due donne che si spogliano a fianco di uomini mezzi ubriachi che giocano a poker. Qui è il Desiderio che regna e si pone come unico/a fine (fine della linea del tram e anche fine esistenziale): «Ci sono alcune cose», dice Stella, «che succedono al buio tra un uomo e una donna che rendono prive d’importanza tutte le altre». Blanche, che porta un nome antifrastico rispetto ai suoi costumi non proprio immacolati, cerca di sedurre il virginale commesso viaggiatore che suona alla sua porta: «Young, young, young man», è l’incantesimo permanente e disperato di Williams indirizzato allo Sweet Bird of Youth. Williams non lo nasconde, la sua opera «è una psicoterapia». Non sorprende che sua sorella, Rose, sia stata internata perché pazza né che lo scrittore, che il padre da piccolo chiamava “Miss Nancy”, abbia come suo portavoce preferito la donna appassita, ossessionata da una giovinezza perduta, che un uomo-bambino, maschio brutale ai limiti dell’animalità, appagherà, non senza prima averle fatto subire tormenti e umiliazioni. La requisitoria dell’autore in favore di una tolleranza sessuale assoluta include, oltre all’eterosessualità più schietta, tutte le forme di sessualità cosiddette perverse, per le quali è invocata un’uguale passione; si reclamano nuove regole morali, e una diversa considerazione delle “miserie” della condizione umana. Come i greci traevano ispirazione dai crimini per i loro miti e le loro tragedie, Williams nutre i suoi drammi di vizi. Decisamente più che un realista, poetico o non poetico che sia, è un simbolista morale, che ha in comune con Hawthorne, Melville e Poe, se non la statura, la stessa tradizione profondamente americana. In Williams però c’è una forma di realismo cui Kazan non poteva rimanere insensibile: è quello che presiede alla concezione di personaggi privi delle etichette morali tradizionali o tipiche del repertorio. In lui non ci sono né buoni né cattivi, né giudici né condannati; solo persone reali, inevitabilmente sessuate, in qualche caso dotate di una coscienza sociale, di un’ambiguità ontologica. 76


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Il “trenino elettrico” di Kazan, adottando nel ’50 il ritmo del tram williamsiano, più che rallentare fa una deviazione. Il più famoso passeggero del nuovo veicolo, Marlon Brando, che ritroveremo, fatto eccezionale, in due stazioni dell’opera, porta infatti con sé lo sfavillio di una recitazione vulcanica e tutta una scienza ineguagliata del parossismo, ormai inseparabili dal discorso dell’autore. L’anno dopo Kazan ritrova tutta una serie di cose familiari: Brando, il cinema, Darryl Zanuck, un soggetto politico-sociale, Joe MacDonald e gli esterni (e anche un personaggio di secondo piano, il compositore Alex North, che aveva collaborato a Un tram che si chiama Desiderio). Per quanto riguarda il cinema, Viva Zapata! si confronta addirittura con una delle forme più sofisticate del cinema tradizionale: il western (ci troviamo pochi paralleli a sud del Rio Grande, qualche decimetro in più per via del diametro dei cappelli). Il regista innova però su un punto fondamentale e, così facendo, porta avanti la sua progressiva liberazione dal “sistema” e tenta l’annessione alla sua opera di universi estranei appositamente costituiti. Segna questa tappa la sceneggiatura firmata da John Steinbeck che ricalca l’esperienza dell’esordio cinematografico di Moss Hart in Barriera invisibile, voluto anni prima da Zanuck Scegliendo di lavorare con quei non-professionisti della sceneggiatura che saranno Steinbeck e, più tardi, Schulberg, Williams, Inge e un novellino di nome Elia Kazan, il regista si mostra diffidente non tanto riguardo al talento dei più accreditati screenwriter quanto verso un sistema di produzione che, di regola maltrattandoli, finisce per sviluppare in loro riflessi da funzionari autocensori. D’altra parte, un outsider dalla forte personalità è più stimolante per un cineasta, costretto a superarsi per non sfigurare nel confronto e spesso portato ad assumere lui stesso un ruolo di co-sceneggiatore tecnico (adattamento, découpage) in quanto unica persona competente nel campo. Il crescente controllo del regista sulla sua sceneggiatura prelude alla creazione della figura unica di autore/produttore/regista di Il ribelle dell’Anatolia. La simpatia di Steinbeck per il Messico e per l’ideale rivoluzionario lo rendeva la persona più adatta per una rievocazione della rivoluzione messicana, la prima rivoluzione sociale del continente americano. Scoppiata nel 1910, sette anni prima di quella bolscevica, si era conclusa con la promulgazione della costituzione del 1917 (costituzione che nazionalizzava le terre e le miniere: ricca di provvedimenti sociali, conoscerà un inizio 77


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di applicazione solo nel ’34, sotto la presidenza di Cardenas). Tra i protagonisti di questa sommossa sociale e razziale, nata in occasione del centenario dell’indipendenza del 1810, Steinbeck e Kazan hanno preferito, ai pittoreschi avventurieri e ladri di cavalli sul genere di Villa o agli idealisti visionari alla Madero, il modesto contadino Emiliano Zapata, cugino dotato di grande acume dei paisanos della regione di Monterey cara al romanziere, fratello maggiore - ma molto meno tenace e realista - di Fidel Castro, che guidava i suoi contadini cenciosi al grido di «Tierra y Libertad». In un paese in cui la popolazione era per tre quarti contadina, in cui due terzi degli agricoltori non possedevano neppure un fazzoletto di terra, la rivoluzione agraria si imponeva come la prima urgenza. Il film, che copre un arco temporale di dieci anni (dall’anno precedente allo scoppio della rivoluzione fino alla morte di Zapata, nel 1919), non riesce a nascondere un aspetto frammentario difficile da evitare. Non vuole essere una cronaca, anche se per sommi capi, degli anni della rivoluzione (c’è poco su Madero e Huerta, niente su Carranza, quasi niente su Villa, niente sulla spedizione Pershing) e non cerca nemmeno di abbozzare una biografia di Zapata, del quale sono comunque delineati con esattezza diversi tratti del carattere e ripercorsi molti episodi vissuti. L’accento è posto sul disinteresse del generale-contadino, uno dei pochi capi onesti dell’epoca, che rifiuta il ranch con cui lo si vuole ricompensare, per la disperazione dell’avido suocero. Esatte sono anche la sua insistenza nel reclamare una riforma agraria e il suo scarso entusiasmo nel disarmare i suoi uomini prima di aver avuto partita vinta; così come lo sono le circostanze del suo assassinio, crivellato dai proiettili di un reggimento intero, e la presenza del suo cavallo bianco, eroe leggendario di innumerevoli ballate dell’epoca. Il ritratto che ne presenta il film, pur distaccandosi in certi momenti dalla storia, non dev’essere molto lontano dal modello, ricco di sfumature e complesso com’è, al punto da suscitare da parte di due “esperti” come Howard Hawks e Samuel Fuller i giudizi tipicamente contradditori che spesso i personaggi vivi attirano su di sé (Hawks dice che Zapata era un ignobile bandito e che il film ne fa un «Babbo Natale», mentre Fuller ritiene che Zapata fosse un idealista radicale che il film traveste da assassino). Ciò che più interessa agli autori e a Elia Kazan in primis, che ne è l’istigatore («Ho cominciato il film da solo, su una mia idea personale», dichiara), è la lezione di morale politica che ricavano dal loro soggetto, a rischio di applicare ad esso in 78


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modo anacronistico alcune riflessioni attuali. Viva Zapata! mette a confronto due tipi di rivoluzionari: da una parte l’intellettuale astratto Aguirre, che ha la fredda determinazione dei fanatici e si afferma grazie alle sue qualità di organizzatore; più che un combattente liberatore, è il commissario burocrate che non teme di dichiarare: «Io non sono amico di nessuno, solo della logica». Dall’altra, c’è il contadino istintivo Zapata, che preferisce il titolo di Generale a quello di Presidente e per il quale il fine deve essere immediato e i mezzi al di sopra di ogni sospetto; la sua rottura con Aguirre sarà segnata da queste parole: «Ti conosco: niente donne, niente sentimenti, senza una casa! Niente amore e niente amici… Il tuo unico amore è distruggere». I destini di Zapata e di Aguirre coincidono finché dura la guerra civile, ma l’entusiasmo di Zapata non riesce a resistere all’esercizio del potere, che genera il culto della personalità (nel corso di tutto il film, giganteschi ritratti dei successivi governanti si succedono sui muri) e finisce per corrompere chi lo detiene, anche se dotato della tempra più resistente. Zapata deve giustiziare, con la morte nel cuore, il suo fedele luogotenente Pablo Gomez, che gli indirizza prima di morire un vibrante discorso umanista; poi, ricevendo nel suo palazzo di Presidente una delegazione di contadini armati delle loro rivendicazioni, si accorge di avere con loro gli stessi atteggiamenti repressivi usati, cinque o sei anni prima, dal Presidente rovesciato Diaz con lui. Il cerchio è chiuso, la lebbra del potere ha contaminato Zapata, così come ha corrotto suo fratello Eufemio. Zapata abbandona la Presidenza e si rifugia in montagna per unirsi a un’insurrezione ormai permanente. Arringa i contadini ancora defraudati: «Sopravvivete, resistete, combattete; la vostra forza siete voi, non ci sono capi, ma solo uomini», «Un popolo forte non ha bisogno di uomini forti». Quando lo uccidono, il popolo finge di non riconoscere il suo cadavere per crederlo sempre vivo. Sempre vivo, ossia immortale, come l’immagine simbolica del suo cavallo bianco sfuggito al massacro e che abiterà per sempre la montagna. Un simile atteggiamento, per quanto comporti non pochi aspetti positivi (la fede nella saggezza del popolo e il continuo richiamo alla sua vigilanza), non può nascondere la facilità del suo idealismo. Il film elude precisamente ciò che è difficile: la gestione della rivoluzione, la concretizzazione delle promesse. Fino a che punto è lecito sporcarsi le mani per arrivarci? Ilpotere-che-corrompe non è un’idea sbagliata, ma per Kazan è nel ’51 un’idea molto comoda. Siamo due anni prima della 79


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morte di Stalin, cinque prima della destalinizzazione; colpendo il comunismo internazionale nel suo tallone d’Achille, nel suo punto più vulnerabile, Kazan sancisce il proprio anticomunismo e offre un’attendibilità ideologica al suo spettacolare voltafaccia dell’anno seguente. La posizione estetica del film ribadisce la sua scelta politica, prendendo come punto di riferimento il cinema russo dei tempi d’oro, cioè di prima dello stalinismo, e in particolare uno dei maestri russi meno staliniani, Sergej Ejzenštejn (l’Aleksandr Nevskij, che gli ho attribuito come modello nel secondo capitolo, può apparire abbastanza staliniano, ma in una chiave incentrata sul pericolo esterno). A essere russe in Viva Zapata! non sono tanto la fotogenia post-ejzensteiniana del Messico e le inquadrature altezzosamente classiche che infallibilmente essa genera: non bisogna confondere stile e soggetto e le immagini di un’impeccabile bellezza plastica di MacDonald si ispirano tanto all’Orozco di Zapatistas quanto al Tissé di Que viva Mexico!. Russa è la rivoluzione, più che la geografia. È la maestà del tono, la dignità e il fervore della rivolta, il sentimento profondamente popolare, l’autenticità quasi folclorica, nel senso più positivo del termine, nella scelta dei volti e nella gestione delle folle. È la gioia popolare che accompagna la liberazione di Morelos, con gli scambi di canti, fiori, frutta e maiali, tra il remissivo anonimato delle soldateras che confezionano le tortillas. È il paziente martellamento delle pietre da parte delle contadine che prepara l’inarrestabile liberazione di Zapata. Sono i simboli di immediata eloquenza: la macchina da scrivere di Aguirre che è “l’arma dello spirito”, è Zapata che dimostra rudemente a Madero quanto poco valga un orologio di fronte a un fucile. Sono le sequenze dal montaggio serrato ed ellittico, in cui abbondano le inquadrature cariche di atmosfera (come l’esecuzione di Madero alla luce dei fari, in una notte piovosa), modellate con una cura maniacale da “cinema muto”. Un senso di sicura padronanza domina Viva Zapata!. Dal momento che il produttore Zanuck, bisogna scusarlo, sembra essere assente (anche se possiamo perfidamente addebitargli alcune delle mancanze del film), Kazan ha il controllo assoluto su tutti gli elementi della sua opera: il paesaggio (il bivacco esposto al vento sulla pietraia), la tavolozza dei contrasti (più costante di prima, più continua), gli attori (un Marlon Brando impacciato, imponente, vegetale, radica il film nella mente), il filo del racconto (brusche frenate si alternano a ballate di gran80


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de respiro e le oasi notturne della coppia al furore della lotta) e tutto l’indicibile-ineffabile-inimitabile-imponderabile-impalpabile-impenetrabile-eccetera che i furbastri racchiudono nella felice definizione di “regia”. La scena in cui Zapata, tirato a lucido, vestito di tutto punto, si lancia nel corteggiamento, tra proverbi paesani e risate trattenute delle donne, che all’epoca si credeva fosse da attribuire a Steinbeck per la sua aria letterariamente sentenziosa, appartiene invece a Kazan, come è dimostrato dalla sequenza parallela del Ribelle dell’Anatolia. Viva Zapata!, per molto tempo il film preferito dal suo autore (e non sono sicuro che si debba mantenere «per molto tempo»), conserva, nonostante la sua bellezza, le sue tare di partenza: le lacune della sceneggiatura e la speciosità dell’idea iniziale. Non è un grande film sbagliato, ma quasi un grandissimo film. Ho già illustrato come i due film successivi, Man on a Tightrope (Salto mortale) 6 e On the Waterfront (Fronte del porto), avvaloreranno la deposizione dell’autore davanti alla HUAC, cui il “messaggio” di Zapata aveva già un po’ preparato il terreno. Il rispetto, l’indulgenza e la mancanza di interesse suggeriscono di non dilungarsi su Salto mortale che è, dopo Mare d’erba, la seconda “caduta”, il secondo anticlimax dell’opera, l’ultimo film in cui Kazan non abbia lavorato alla sceneggiatura, l’unico - sempre con Mare d’erba - di cui oggi parli in termini assai negativi. Completamente sradicato in Europa centrale, luogo delle riprese, e per di più alle prese con una troupe per metà tedesca, il nostro greco-turco americano non può nemmeno appellarsi al fatto, in quelle condizioni irrilevante, che all’origine del film ci sia un fatto reale. La Cecoslovacchia è davvero troppo lontana da Costantinopoli e da New York e la soddisfazione di operare questa volta a 12.000 o 13.000 chilometri dalla concentrazionaria Hollywood si stempera nella noia di un’ingannevole libertà e nella necessità di distrarsi giocando al turista esteta. Chiamo turismo estetico quel mimetismo del luogo che contrassegna spesso i cineasti “in trasferta” e che qui ci regala un espressionismo all’europea non privo di valore, ad esempio con quel circo di atmosfere quasi bergmaniane benché vi lavorino dei giocolieri cinesi. Mentre i personaggi di Robert Sherwood, un commissario e un uomo onesto, discutono, come dei Kœstler dei poveri, di verità primarie ed essenziali, Kazan bracca con 6

In Francia era inedito all’epoca della pubblicazione del saggio. [n.d.t.]

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indiscutibile zelo il traditore e la spia in ogni angolo di un intreccio che certo vi si presta. Questa ossessione del delatore onnipresente, messa in scena nel ’52 da uno dei principali “testimoni” del male maccartista, è ciò che identifica con più chiarezza la data e l’autore del film e che fa di esso, anche se in senso negativo e forse senza volerlo (a parte episodiche qualità e l’abituale eccellenza della recitazione), un’opera personale. Non si può affrontare nella stessa maniera Fronte del porto, film prestigioso, ricoperto di Oscar, il secondo della sua carriera a ricevere così tanti premi e che, come l’altro, si colloca alla vigilia di una svolta nella sua opera. Film molto criticato, tanto per il suo contenuto quanto per il suo stile, ma che l’autore difende a spada tratta contro i suoi detrattori, Fronte del porto è importante anche perché àncora l’opera in un porto praticamente definitivo: il centro cinematografico newyorkese inaugurato dal film sarà usato di nuovo, studios e troupe, per Baby Doll, Un volto nella folla e Splendore nell’erba, senza per questo abbandonare il principio di lasciare il maggiore spazio possibile alle riprese in esterni. Fronte del porto applica perfettamente, senza sfasamento esotico (Viva Zapata!, Salto mortale), temporale (Boomerang) o immaginario (Bandiera gialla), le regole del credo estetico di Kazan. Questa volta ci sono il fatto autentico, la contemporaneità, le riprese nei luoghi originali, la conoscenza diretta del posto e dell’ambiente, gli attori non professionisti. Con una sola eccezione, ma decisiva: tra i volti sconosciuti rivelati dal film, oltre a due habitués del cinema, quali sono diventati gli ex membri del Group Theatre Karl Malden e Lee Cobb, s’impone in primo piano il mostro sacro Marlon Brando. Per questo c’è tuttavia una scusa - è la sua presenza che ha permesso la realizzazione di un film prima del suo arrivo in bilico - e una giustificazione - Brando possiede una capacità di rinnovarsi poco comune, che compensa l’antipatia del regista per le star in generale. Kazan ritorna alla situazione privilegiata di Viva Zapata!, che per un attimo aveva perso ma che ormai non abbandonerà più: sceglie il suo co-autore e lavora con lui al trattamento del soggetto (quando non è anche all’origine della scelta di tale soggetto). Kazan sceglie Budd Schulberg e Schulberg propone una storia di gangsterismo sindacale nei porti, su cui ha già avuto occasione di riflettere. Dopo il film pubblicherà un libro, Waterfront (Fronte del porto) che, allontanandosi dall’ossessione comune ai due autori di cui il film è lo specchio, è un resoconto assai più esaustivo e fedele dei fatti presentati nell’adat82


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tamento cinematografico. In Waterfront il contesto politico è più esplicito e il personaggio centrale è il prete interpretato da Malden e non Terry Malloy, il portuale delatore. Soprattutto, l’epilogo è di un pessimismo che il film elude completamente: Johnny Friendly, il gangster denunciato, resta alla testa del sindacato, mentre il prete è trasferito in un’altra parrocchia, dopo esser stato ammonito dal vescovo. Qualche settimana dopo, in un barile di spazzatura in mezzo alle paludi del Jersey, è ritrovato un corpo trafitto da ventisette colpi sferrati con un martello da ghiaccio, che si ritiene sia, nuovo Zapata passato all’arma bianca, quello di Terry Malloy. In realtà, anche se questi ultimi fatti sono stati elusi, il pessimismo è ampiamente presente nel film. Paradossalmente, in altri punti, esso è perfino rafforzato dal carattere frammentario del quadro. Il sindacato incancrenito di Fronte del porto è dato come tale senza speranze né sfumature. Sembra che niente sia possibile per risanare la situazione dall’interno, nessuna azione collettiva, nessuna iniziativa individuale; nessuno si muove, tutti sono imbavagliati da un elementare senso dell’onore. A margine, lavorano la polizia e la commissione d’inchiesta, le forze della legge e dell’ordine, custodi istituzionali - secondo una vecchia visione kazaniana del bene sociale. Il male, però, non è meno assoluto. Siamo molto vicini all’assimilazione del concetto di sindacato a quello di malavita, il sindacato dei portuali di New York quasi come un altro di quei “sindacati del crimine” che riempiono i romanzi noir. I gangster sindacali, come è noto, non sono una pura invenzione letteraria ed è facile evocare a questo proposito la figura di Jimmy Hoffa, capo incontestato del sindacato dei camionisti e bestia nera delle commissioni d’inchiesta. Tuttavia, non dispiaccia a Robert Kennedy, l’azione sociale di Hoffa per gli iscritti al suo sindacato è notevole e il loro attaccamento verso di lui fondato su una reale riconoscenza, che fa un po’ chiudere gli occhi su una gestione finanziaria certo piuttosto discutibile. In Fronte del porto, il sindacato di Johnny Friendly ignora questi pro e contro elementari; si accontenta, da volgare racket cinematografico, di taglieggiare dei lavoratori mantenuti in condizioni di lavoro e di vita miserevoli. D’altra parte, la collusione di questi gangster molto manichei con i loro protettori (dirigenti sindacali, datori di lavoro e alti funzionari) è evocata il tempo di una sola inquadratura, sovrastata da una schiena evidentemente danarosa ma rigorosamente anonima. In ogni caso, anche se fosse stata mostrata, non avrebbe potuto colmare le lacune precedenti. 83


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Questo film, che nelle sue ambizioni si vorrebbe realista, non lo è per due ragioni contradditorie: un eccesso di pessimismo di voluta oscurità di descrizione, un eccesso di ottimismo nell’happy-end che, se non pretende di essere definitivo sotto nessuno aspetto, sacrifica troppo alle regole hollywoodiane, peraltro detestate dall’autore. Inoltre, l’ottimismo finale non compensa un pessimismo di fondo che ha i caratteri di un disincanto assai vicino al nichilismo. La realtà, pur non essendo rosea, è diversa: anche se i fatti riferiti da Schulberg in Waterfront sembrano indiscutibili, la loro importanza è marginale, perché non è quella di Terry Malloy e del prete la lotta giusta. Infatti, quando il film è uscito, è stato ricordato che, nella realtà, i portuali newyorkesi hanno combattuto, attraverso e insieme al loro sindacato, contro i gangster del porto e i datori di lavoro che li proteggevano. Questo soggetto era, però, troppo sindacale e troppo poco eroico. Non poteva interessare né Kazan né Schulberg. Contrariamente a quanto proclamano i titoli di testa, gli autori sono più interessati ai problemi di coscienza che ai problemi sociali. La cattiva coscienza, con le sue varianti di ipocrisia, rimorso, vergogna o rancore, è sempre stata una costante dell’opera di Kazan, in cui si succedono Dorothy McGuire, madre eccessiva e poi antisemita latente, Katharine Hepburn, moglie e madre adultera, Pinky, dissimulatrice per amore, Blanche DuBois, ninfomane puritana, Zapata, stanco e schiacciato dai rimorsi per aver ucciso il suo fedele amico Pablo Gomez, e tutti i malfidenti con gli occhi fuori dalle orbite di Salto mortale. Da Fronte del porto in poi la cattiva coscienza non scomparirà più, al contrario (cfr. cap. Il rosso e il nero), ma si cristallizzerà intorno all’esperienza della HUAC. Gli eroi successivi hanno un bel rompere il cerchio vergognoso del silenzio e affrontare la prova dell’ammissione/deposizione/confessione, non ne segue nessun riscatto cristiano, non ne scaturisce nessuna pace dell’anima, la cattiva coscienza cambia segno ma resta cattiva. Terry Malloy, testimone di molti crimini della gang, è tormentato dalla sua coscienza («This stuff can drive you nuts»); in definitiva, a spingerlo a lottare contro la gang sarà tanto una voglia di vendetta quanto un sussulto della coscienza (suo fratello è stato assassinato). Un altro calvario, accompagnato dalla solitudine, aspetta allora la spia: il suo migliore amico, un ragazzino, strangola i suoi piccioni; gli scaricatori non gli rivolgono più la parola; uno dei poliziotti addetti alla sua sorveglianza gli mostra apertamente il suo disprezzo. E, grazie al libro Waterfront, sappiamo le 84


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conseguenze ultime del suo scontro con Johnny Friendly, un’odissea disperata che va dal male al sacrificio inutile. Lo stile del film è anche quello della forza della disperazione, della veemenza delle cause, se non perse, almeno molto compromesse, del discorso appassionato che cerca innanzitutto di dimostrare. È un cinema del tu, dell’urlo come della confidenza e, attraverso il tu, è un cinema che chiama in causa, che parla ad alta voce e troppo vicino al nostro orecchio, un cinema che si da delle arie e perfino, Dio mi perdoni, che sputacchia. So bene che è tradizione che anche lo spettatore di Kazan cristallizzi, su Fronte del porto, tutta la repulsione che spesso si mescola all’ammirazione per l’opera. Fronte del porto è la pecora nera della famiglia, il film cattivo, inteso più nel senso morale di malvagio che in quello di privo di qualità, il capro espiatorio su cui sfogare la propria bile una volta per tutte e per tutti. Tale tradizione ha un certo numero di vantaggi e, nel complesso, è abbastanza giusta perché anch’io la segua. Bisogna tuttavia notare che molte delle cose rimproverate a questo film sono presenti anche in altri film, precedenti e in qualche caso posteriori, film per altro molto meno discutibili. È necessario inoltre sottolineare gli aspetti nettamente positivi dello stile del film: l’interpretazione di Brando, per esempio, meno sorprendente delle due precedenti e di alcune performances in film di altri registi, ma che comunque risplende dell’abituale lirismo, della rara intensità poetica di quello che è «oggi, il miglior attore al mondo» (Kazan dixit, 1954); ma, anche, la bellezza dolorosa della fotografia di Boris Kaufman, più delicata e romantica di quella di MacDonald. Gli alterni stridori e abbandoni della musica di Leonard Bernstein, invece, coincidono così puntigliosamente con il copione e la messinscena che il film a tratti sfiora la monotonia di un pleonasmo a tre voci. Sembra che tutte le scoperte fatte e applicate da Kazan dopo il ’50 qui siano spinte un passo troppo in là, ricadendo una dopo l’altra nell’inefficacia dell’eccesso. La scelta di comparse con “musi” pittoreschi finisce per radunare (soprattutto per i gangster) tutto un museo Grevin di un facile espressionismo. Le scene di tenera pausa tra innamorati si deformano in gemiti e premure di un pudore che sembra sottolineato con la matita rossa. La vivacità tecnica è gonfia di un’ostentazione compiaciuta della propria abilità. Gli squarci esaltati si susseguono (nel montaggio, negli attori, nei movimenti di macchina, nell’inquadratura singola), concerto di immutabile frenesia in cui gli unici a dialogare sono i piatti e la grancassa. Come in un’estetica dello slam-bang, 85


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stile - se si preferisce - detonazione e porta sbattuta. Kazan, vittima delle forze che ha scatenato, è ora l’apprendista stregone sopraffatto dalla sua cinepresa, dal suo Bernstein, dal suo Malden e dal suo Cobb. Dovrà riprendere il controllo di se stesso, dei suoi mezzi e dei suoi strumenti, umani e meccanici, e così facendo imparare l’uso di una nuova distanza. Io Riprendiamo l’attento studio dei titoli di testa - questo mazzo di chiavi pubbliche con cui penetrare il segreto dei film - nel momento in cui Kazan inizia East of Eden (La valle dell’Eden). Essendo un autore perennemente teso verso nuove esperienze, quello che ritrova con questo nuovo film è infinitamente meno importante di quello che scopre. I legami che riallaccia sono del resto molto relativi: sono quelli con la produzione hollywoodiana, che però sottopone al proprio personale controllo nella sua nuova veste di produttore; è un soggetto di Steinbeck, ma nella forma indiretta di sessanta pagine di un lungo romanzo adattate senza la partecipazione del romanziere. Le novità consistono per l’appunto in quei poteri da producer che non lascerà più e che, in qualche caso, rafforzerà ancora di più. Nuovi sono anche lo schermo allargato del Cinemascope, il colore, lo sceneggiatore Paul Osborn, il prodigioso operatore Ted McCord, il compositore Leonard Rosenman e alcuni attori, famosi o sconosciuti, usciti dall’Actors’ Studio o da esso influenzati: Julie Harris, Jo Van Fleet, James Dean. Tra questi nuovi elementi entrati a far parte dell’opera di Kazan, ce n’è uno di importanza capitale, con cui si spiega il tono più disteso, il linguaggio più sciolto, la maggior plasticità e il lirismo più marcato della Valle dell’Eden. Il colore non può essere considerato l’unico responsabile di questo cambiamento nella maniera del cineasta, dal momento che Splendore nell’erba, film anch’esso a colori, brilla per tensione e crudeltà. Non è nemmeno il ricorso alla natura, in questo caso la valle di Salinas, ad ammansire così Kazan; il Mississippi isolatissimo di Baby Doll e gli angoli sperduti dell’Arkansas in Un volto nella folla non gli impediscono infatti di confezionare due opere stridenti e amare. Non è nemmeno il distacco temporale, qui di una quarantina d’anni, a smorzare la violenza a vantaggio di una nostalgia colpevole; ancora Splendore nell’erba e Il ribelle dell’Anatolia dimostrano, con l’intatta intensità della loro forza 86


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d’urto, che il tempo non gioca nessun ruolo in proposito. Solo un altro film¸ Fango sulle stelle, è paragonabile sotto questo aspetto a La valle dell’Eden e addirittura lo supera per pacificato lirismo. Ebbene, Fango sulle stelle e La valle dell’Eden hanno in comune, oltre al colore, lo sceneggiatore, lo sfondo rurale e lo scarto temporale - tutti elementi che, pur non essendo di per sé determinanti, hanno un loro peso - tre caratteristiche che mancano a tutti gli altri film del periodo. Tali caratteristiche, che ne fondano le affinità di stile, sono, in ordine crescente di importanza: Primo, la produzione hollywoodiana che, consentendo l’organizzazione e l’impeccabile realizzazione di riprese in qualche caso molto costose (penso per esempio, in La valle dell’Eden, alle scene nel luna-park risolte con qualche piano lunghissimo girato con una tecnica complessa e affollato da un gran numero di comparse), migliora non lo stile, che dipende solo dall’autore, ma la resa, la chiusura, la perfetta impaginazione di quello stile, conferendogli oltretutto quel classicismo hollywoodiano che resta impersonale solo se chi si mette al suo servizio è lui stesso privo di personalità, o di mezzi per farla emergere. Il sistema dei grandi studios tende alla perfezione solo quando la forte personalità di un regista è garantita dalla sua presenza al posto di producer: il miglior conduttore del famoso trenino elettrico è proprio il capotreno. Bisogna però tenere conto anche dei gradini più alti della produzione, che possono pesare molto, se non altro a livello distributivo, sulla sorte di un film: da questo punto di vista La valle dell’Eden non ha avuto niente di cui lamentarsi con la Warner, ma per Fango sulle stelle, della Fox, le cose sono andate in modo molto diverso. Secundo, i due film sono adattamenti di romanzi - di due libri diversi nel caso di Fango sulle stelle - e sostuiscono, ai contrasti drammatici delle opere di origine teatrale e all’inarrestabile dinamismo di scrittori-giornalisti alla Schulberg, la maggior varietà e mutevolezza della materia, il ricco spessore, la durata particolare delle opere narrative di ampio respiro. Tertio, e questo è l’elemento fondamentale, il formato dilatato dello schermo Cinemascope. Il Cinemascope non modifica solo le proporzioni del quadro, cambia anche la natura della visione, a cominciare da quella del primo spettatore dell’opera, il regista, che vede e poi è visto in modo diverso. Così si è visto il Cinemascope rivelare la mancanza di carattere dei pigri e dei mediocri (Koster, 87


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Negulesco, Walter Lang), il temperamento decorativo di persone dotate di gusto (Cukor, Minnelli, Vadim, Ophüls), la precisione maniacale di drammaturghi di razza (Preminger). L’effetto del formato dilatato sul nervoso Kazan non è di minore portata, al contrario, ma è quello di un tranquillante invece che di uno stimolante. Solo un formato “orizzontale” poteva riuscire a domare, placare l’uomo “verticale” che è Kazan, costringerlo al riposo, prima tappa verso la serenità. L’autore non soccombe immediatamente all’orizzontalità tentatrice, resa ancora più seducente dal verde disarmante delle quiete valli di Salinas o di Cumberland. Si aggrappa ancora alle linee oblique di inquadrature inclinate nelle scene di conflitto (durante il pranzo di famiglia in cui Adam e Cal si scontrano e, più avanti, quando il padre rifiuta il regalo di Cal), ai movimenti pendolari che accompagnano un’altalena, agli elementi in pendenza della scenografia all’interno di inquadrature normali (quando Cal fa scendere i blocchi di ghiaccio da un deposito soprelevato). Si ingegna perfino a creare delle composizioni verticali nel bel mezzo della sua immagine in Cinemascope, come per esempio l’antro di Kate, corridoio buio e maestoso immerso nella penombra, in cui scoppia la scena più violenta del film (Cal buttato fuori dal cerbero). Il Kazan rasserenato di Fango sulle stelle non ricorrerà più a artifici tecnici per verticalizzare i momenti di tensione, ma le scene violente di questo film mostreranno comunque, seppur discretamente, la necessità di un rapporto con la verticalità (Montgomery Clift buttato nel fiume dalla cima della sponda, poi quando si arrampica sulla scala verso camera sua dove Albert Salmi lo prenderà a pugni e Lee Remick che, durante la mischia finale, salta sulle spalle di Salmi come per scaraventarlo a terra). Lo scambio Kazan-Cinemascope non si misura solo, né principalmente, nei conflitti di linee in cui una retta verticale resiste prima di inclinarsi e, infine, distendersi. Il compasso di Kazan va cercato, più che nei suoi occhi, nella sua testa e nel suo cuore. La serenità è soprattutto una questione di visione interiore, di stati d’animo e di sentimenti. Facendolo distendere sul suo “lettino”, l’esperienza del Cinemascope sarà per Kazan l’equivalente di una cura psicanalitica, al termine della quale doterà la sua parola (mantenuta fino in fondo, grazie al suo nuovo privilegio di produttore) di una profondità di espressione liberata dai limiti e dalle tensioni del passato. Questa libertà a più facce si riflette in diversi modi nel film. C’è l’autobiografia più intima e misteriosa dei rapporti tra genitori e figli, basata tanto sulla quadruplice esperienza di padre del regista quan88


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to sui suoi personali ricordi di infanzia; autobiografia che si contrappone a quella, pubblica e sbandierata come un manifesto, di cui ho parlato in un capitolo precedente. C’è una notevole espansione del registro drammatico dell’opera, che si aggiunge all’estensione plastica, allegorica e sensoriale. La comicità, l’eccentricità, la malizia si affermano per la prima volta in un’opera, il cui passato, in confronto, sembra affettato. Oggi consideriamo questi scatti capricciosi e imprevedibili come inseparabili da James Dean; ma Dean non esisteva prima della Valle dell’Eden e, se è pur vero che il film li deve all’attore, si tratta solo di una ricompensa per averlo creato e per aver saputo servirsi di lui. Ci sono però almeno due scene, di una comicità dolcemente contagiosa, in cui Dean è solo spettatore: una sfilata comicamente marziale di coscritti ed ex combattenti e una lezione di scuola-guida in cui, di fronte a un istruttore gonfio di una boria ridicola, Raymond Massey se la gode con la più evidente falsa modestia. A questi momenti di una qualità inedita, dovuti il più delle volte a un’accresciuta sottigliezza di sfumature nella direzione degli attori, La valle dell’Eden aggiunge altri exploit e giochi: quelli che la cinepresa di Ted McCord carpisce alla luce della California, quando capta l’ombra mutevole di una nuvola perlustrando i campi di fagioli, quando caracolla lungo strade avvolte dalla foschia mattutina o si esalta al sole di una pianura inondata di fiori di un giallo magnifico. A questa finezza impressionistica Kazan accosta la bellezza plastica di scene e ambienti che hanno una forza e una grandezza in grado di evocare la parabola biblica trasposta da Steinbeck. Il letto monumentale di Adam malato troneggia nella maestosità di una camera degna di un re; il grande corridoio buio in casa di Kate è la porta stessa dell’inferno; l’albero dalla lunga chioma cadente, sotto cui Cal, Aron e Abra scompaiono fino alla cintola e si nascondono l’uno l’altro all’occhio della cinepresa, ricorda l’albero della conoscenza mutato dal peccato in albero del giudizio e del rimorso. Infine, davanti alla tavola patriarcale di Adam, mostrata in tutta la larghezza dell’immagine Cinemascope sotto un’unica luce centrale, non si può fare a meno, nonostante il numero ridotto dei convitati, di parlare di messa-in-Cena. Le atmosfere pittoriche possono anche fare riferimento a Testamenti o saghe diversi, il che tra l’altro può valere anche per la storia (Adam ha qualcosa di Dio padre e Cal-Caino alcuni tratti di Giuda), ma quello che conta è che le risonanze poetiche che trasmettono appartengono a una stessa 89


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tradizione culturale, di cui fanno sorgere antichi echi nella memoria della nostra sensibilità. La valle dell’Eden è comunque la storia di Caino e Abele e il film, ancora più di quanto non sembri, rispetta la Bibbia alla lettera, pur deformandone lo spirito. Caino, qui come là, è un coltivatore prospero (il Cal del film, con il suo gusto per gli affari e la speculazione, conferma anche l’etimologia di Caino, che significa “acquisto”) ed è sempre il rifiuto da parte del padre di un regalo che egli gli offre in tutta innocenza a provocare in lui una gelosia omicida. Peccato che nel film ci sia una piccola lacuna che, se colmata, avrebbe portato acqua al mulino di Kazan: Aron-Abele non è più l’allevatore di bestiame della Bibbia, che placa Geova con l’offerta di qualche animale. Questo antico e poco vegetariano simbolismo che assimila l’allevamento al Bene e il lavoro dei campi al Male potrebbe destare un certo stupore. Tanto più che la storia americana, trasmessa da decenni di western, dimostra il contrario: nel western, il Male spetta incontestabilmente all’allevatore, dispotico, monopolista, insomma Repubblicano, mentre il Bene è appannaggio del coltivatore, modesto, perseguitato, democratico, cioè Democratico. Dopo Mare d’erba, in cui prendeva anche lui le difese del contadino contro il cattle man, Kazan ha trovato nelle fonti bibliche di La valle dell’Eden, in cui si sforza di riabilitare Caino a spese di Abele, delle ragioni supplementari per essere coerente con se stesso. Chiudo la parentesi, ma a malincuore. La riabilitazione di Caino avviene prima di tutto sul piano affettivo. Vittima della pesante ascendenza materna, di cui è il solo ad avere scoperto il mistero, Cal aggiunge alla gelosia filiale la gelosia sentimentale, a causa del suo amore per Abra, fidanzata di Aron, che gli si butta letteralmente tra le braccia. Ma è solo una fatalità incomprensibile quella che gli fa colpire più volte Aron. In ogni caso, a differenza degli dei, l’uomo è libero e può scegliere; Cal sceglie il bene decidendo di assistere il padre malato e questi gli concede l’ingresso nell’età adulta accordandogli il suo perdono («Dovete fargli capire che lo amate», lo supplica Abra, «se no non sarà mai un uomo»). Dimmi se sei amato e ti dirò chi sei. Cal è assolto anche sul piano sociale. Altrettanto puro nel suo dono che il Caino della Bibbia, questo inconsapevole profittatore di guerra non comprende il rifiuto scandalizzato del padre. La rigida morale di questi («Per me hanno valore solo le qualità del cuore e l’onore»), già piuttosto svalutata dal rigori90


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smo oltranzista del personaggio, non ha molto peso di fronte alla prova cui è sottoposto quando, dopo la diserzione del figlio buono, sono le risorse di Cal a costituire l’unica fonte di sostentamento. Io rimango e continuo a servire, allora tanto vale perdonarmi. In tempi di crisi e in presenza di una verità difficile da guardare in faccia, sopravvive solo il più forte, il più abile, colui che ha saputo adattarsi meglio. L’elogio del realismo efficace, contrapposto a una tradizione morale sterile, s’innesta sottilmente in quel relativismo morale caro agli psicologi, e ai cineasti, moderni. Venendo dopo la non-colpevolezza, conseguenza della fatalità interiore, esso si inserisce nel discorso pro domo di Kazan, di cui si è parlato. Ancora una volta, dopo Pinky e Fronte del porto, Kazan riesce, a forza di argomenti capziosi, di circostanze molto particolari e grazie all’eloquenza del suo talento, a fare in modo che ciò che è scandaloso appaia accettabile, anzi raccomandabile. Eccolo lavato, pensa lui, dal marchio di infamia di Caino, di cui ha fatto una specie di imprevisto badge (anticomunista) del coraggio. Nel 1956 Baby Doll ristabilisce l’alternanza. Dopo quattro film e sei anni, Kazan ritrova il Sud, immergendosi nella sua parte più profonda e portando con sé Tennessee Williams, di cui l’anno prima ha allestito La gatta sul tetto che scotta. È difficile immaginare un South più deep di questo. Benoit, dove si svolgono le riprese, è un paesino di quattrocento abitanti, un tempo porto fiorente del Mississippi. New Orleans è il secondo porto degli Stati Uniti, ma con questa Aigues-Mortes americana siamo in presenza di un Sud decadente e in rovina, dove il tempo si è fermato, quasi troppo bello per essere vero, troppo fedele alla sua leggenda per non sfiorare la caricatura. Williams - chiamiamolo per un momento Mississippi Williams, per migliorare il suo pseudonimo - è messo violentemente a confronto con le sue radici. Senza il doppio filtro del teatro e dell’opera di successo (i due atti unici adattati risalgono al ’45 e al ’46), eccolo “trapiantato” nella realtà del suo mondo, come un germoglio fragile tenuto per troppo tempo - dieci anni - in un vivaio. (Quando parlo di Williams è perché voglio evocare quel mondo letterario preesistente al film e non il ruolo che l’autore avrebbe avuto nel suo adattamento. Kazan, che lascia firmare la sceneggiatura al drammaturgo, ne è in pratica l’unico responsabile). Il Sud di Baby Doll è, nella sua geografia fisica ed economica come nella sua etnografia, il Sud misero e spietato, osses91


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sionato dal sesso, xenofobo e carico di un odio che non conosce date: di cui i giornali ci confermano nel 1965 la perennità. È il paese in cui “l’uomo sociale” degli anni ’30 può ritrovarsi, senza avere l’impressione di essere invecchiato: allora c’erano il “bianco povero”, il proletariato nero, il linciaggio, la creazione della TVA; oggi c’è ancora il “bianco povero”, pietra di paragone di un razzismo tanto più vivo perché trova a chi rivolgersi, c’è la rivolta attiva dei neri, la lotta ufficiale contro le “sacche” di povertà. Caldwell per esempio può scrivere, trent’anni dopo La via del tabacco, quella constatazione di razzismo che è In cerca di Bisco. Kazan incorre spesso in un improvviso bagno di giovinezza, quando torna in questa regione di “poetico” anacronismo, dove è difficile mantenere il sangue freddo e impossibile evitare le analisi sociali. Archie Lee Meighan, in Baby Doll, è quel poor white di un folclore continuamente confermato dalla realtà. Vive in una sontuosa dimora che cade in rovina, tra stanze immense che i suoi creditori hanno svuotato dei mobili. Il suo laboratorio per cardare il cotone è corroso dalla stessa fatiscenza. La sua attività non è quindi molto più intensa di quella di quei neri sfaccendati che si atteggiano perennemente a totem dal sorriso vago, agli angoli di strade addormentate. Il vicino prospero è tanto più odiato perché straniero, uno spregevole italiano, un wop. Legato a una donna giovanissima, moglie solo di nome, Archie Lee non si placa e sfoga i propri nervi di sadico poco raccomandabile sulla prima vecchia che gli capita sotto tiro, una zia mezzo rimbecillita. Il giorno (promesso) delle nozze, diventa completamente matto. Baby Doll sfrutta una vena drammatica seguendo contemporaneamente, alla Caldwell, il filone comico e quello erotico. L’arte di Kazan peraltro non si accontenta di questa stridente mescolanza di generi e arricchisce ulteriormente il suo registro di nuove sfumature, innestando tenerezza e pietà in atmosfere cariche di minacce e maledizioni shakespeariane. Sotto molti punti di vista, questo film appare un’esperienza tipicamente Actors’ Studio, equivalente cinematografico di ciò che furono a teatro Sundown Beach e A Hatful of Rain. Nonostante le riprese in esterni, è un progetto di cinema “da camera” o “da laboratorio”. Per il Kazan produttore indipendente per la prima volta nella sua carriera, questo film quasi artigianale è in qualche misura un esercizio. In esso figurano solo tre personaggi, interpretati da tre membri dello Studio (le poche comparse provengono o anch’esse dallo Studio, come Mildred Dunnock, o 92


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dalla popolazione locale) e lui stesso ha messo a punto lo script tratto dall’opera di un amico. La relativa povertà della produzione, l’unità di luogo, la linearità dello schema drammatico sono un fatto unico nella sua opera (fa eccezione, per quanto riguarda l’unità di luogo, Un tram che si chiama Desiderio). Lungi dall’essere un difetto, la sobrietà forza l’autore a esplorare più a fondo il suo soggetto e i suoi personaggi, il loro ambiente e i rapporti che li legano. La mansion fatiscente è perlustrata dal portico alla soffitta, dalla cucina al bagno, illuminata con ogni tipo di luce, di volta in volta nostalgica o stravagante. Gli attori danno il meglio di sé. In questa scommessa di due ore di cinema incentrate su tre volti e su scene a due o tre personaggi, Kazan ottiene da loro un recital di virtuosi. Si svaria dal gioco libero alla Mack Sennett, in una casa infestata da fantasmi burloni, alla frenesia dostoevskiana (è scritto nel copione di Williams e i ruggiti da bestia ferita di Karl Malden traggono davvero in inganno). Tra i due estremi, dei duetti immensamente ispirati che restano, dieci anni dopo, non solo la cosa più perfetta che Kazan abbia mai girato, ma delle vette di interpretazione cinematografica. L’esempio migliore è offerto da quella scena di seduzione/fascinazione/intimidazione sulla vecchia altalena in cui due novizi dello schermo, Carroll Baker ed Eli Wallach, danno una prova sconcertante di un’arte del realismo erede delle lezioni stanislavskiane. Vacarro stringe d’assedio Baby Doll con imbarazzanti domande sulla colpa del marito e con una presenza fisica, sempre più inquietante, sempre più vicina. La cinepresa abbandona il placido campo-controcampo per un piano ravvicinato dei due, seguito da un primo piano di Carroll, poi stringe lentamente sul suo viso per non lasciarlo più. Man mano che il dialogo si fa più incalzante e l’emozione della ragazza più intensa, l’uomo entra nel primo piano, ne forza l’intimità, avventurandosi con una mano sul suo volto e sfiorandole i capelli con le labbra. Carroll osa appena sollevare le palpebre, in due o tre brevissime inquadrature senza scampo, e la sua voce che protesta è ormai ridotta a un sussurro. È una scena di condizionamento, nettamente più fisico che intellettuale, che non sembra recitata; mostra un possesso che non è solo esercitato da un personaggio sull’altro, anche la persona di Carroll Baker è vittima di questo possesso, cui si abbandona a sua volta anche una cinepresa che non conosce pudore di sguardo. Eccoci al cuore del soggetto. Più ancora che in Un tram che si chiama Desiderio e come sempre in Williams, la vita sessua93


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le dei personaggi è essenziale ed è appena esagerato scrivere, come è stato fatto (da Truffaut), che «l’unico argomento era il sesso». Baby Doll, oggetto di scandalo denunciato dal cardinale Spellmann e dalla Legione della Decenza; film che ha dato il nome al mezzo-pigiama, senza parte inferiore, indossato dalla protagonista; opera che ha preannunciato e preparato il terreno a Lolita e che ha avuto, alla pari del romanzo di Nabokov e della rivista Playboy, un ruolo capitale nella nascita della rivoluzione sessuale che oggi vive l’America, Baby Doll, prima di essere questo evento sociologico, è un tour de force formale impregnato di un erotismo piuttosto piacevole. In vena di riassunti lapidari, come quello con cui definiva La gatto sul tetto che scotta, Kazan oggi potrebbe dire, assegnando ai suoi tre attori il loro super-compito: «È la storia di una giovanissima ragazza che non vuole fare l’amore con suo marito e che è desiderata ardentemente da un vicino intraprendente, che a sua volta non la lascia affatto indifferente». Siamo di nuovo, sotto la spinta di un triplice impulso, nell’universo onnipotente del desiderio, anzi del desiderio ossessivo, dal momento che tutti qui, come nelle storie specializzate, «pensano solo a quello». Si noti di quale abbondanza di particolari Kazan arricchisca le sue situazioni. Attraverso un buco che ha fatto nel tramezzo, Archie Lee guarda, non potendo far altro, Baby Doll che si succhia il pollice nella sua culla nella camera dei bambini. La data in cui la ragazza ha promesso di condividere il letto coniugale non è più molto lontana, ma il marito fatica a trattenersi e spesso si immerge nella vasca da bagno da lei occupata, in vani tentativi di stupro pieni di spruzzi. Vacarro, invece, pur maneggiando il frustino con mano ferma e disinvolta, fa una corte più europea, in cui il calcolo è accompagnato da una galanteria ironicamente cerimoniosa. Da buon italiano, è un maestro del tempo, e dei crescendi 7 eseguiti senza incertezze fino alla loro meritata conclusione. Dopo una scena isterica in cui l’uomo mette un piede sulla pancia della donna che si rotola dalle risate, la coppia entra nella stanza dei bambini. Baby Doll rimbocca le coperte a Vacarro, sdraiato nella culla per una siesta (vespri classici per questo siciliano), e si inginocchia al suo capezzale in camicia da notte. La tensione erotica a questo punto è così alta che si crederebbe che l’adulterio sia ormai consumato. Eppure - è per prudenza di fronte alla censura o per fornire un’ulteriore ricchezza ai personaggi? - lo è stato solo tacitamente, nel consenso più che 7

Tempo e crescendi in italiano nel testo. [n.d.t.]

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nell’atto. Tradito dalla sua foga, travolto ancora una volta dai suoi attori sotto incantesimo, Kazan ha espresso più di quanto doveva. Quando Baby Doll e Vacarro scendono dalla camera, li lega una vera complicità di amanti: si baciano mentre il marito telefona e con non meno voluttà mangiano davanti a lui del pane inzuppato nella minestra. Baby Doll è diventata un’altra persona, improvvisamente adulta (il termine adulterio comprende quello di adulto), rilassata per la prima volta nella sua vita, mentre si abbandona ai baci con un rantolo di piacere. Lei è indubbiamente un’eroina di Tennessee Williams. Ancora una volta, è la donna che dipende sessualmente dall’uomo, che cerca e ottiene da lui la pace di un corpo per sua stessa definizione insoddisfatto. (Anche se per una volta il rapporto di età è invertito in questa coppia in cui la donna è giovane e l’uomo maturo). Inoltre, rispetto allo script, il film approfondisce questo aspetto di precarietà e dipendenza della donna. La sceneggiatura, pubblicata, in effetti cambia bruscamente direzione con gioiosa facilità: la polizia porta via il marito incendiario e mezzo matto, mentre Vacarro e Baby Doll scendono dall’albero su cui si erano rifugiati e contro il cui tronco Archie Lee sbatteva la testa dalla disperazione (un altro albero che mette in scena un “triangolo” in conflitto, dopo quello della Valle dell’Eden davanti al quale Cal, Aron e Abra si cancellavano l’uno l’altro). Il film, invece, mantiene di più il contatto con la realtà, la sua conclusione è infinitamente più incerta e minacciosa: la polizia assicura ad Archie Lee che il processo gli sarà favorevole, nonostante la prova irrefutabile brandita dall’italiano; da parte sua, Vacarro torna a casa, abbandonando sulla gradinata ormai deserta Baby Doll e la vecchia zia, cui promette di venire a prenderle l’indomani ma lasciandole con una speranza da questo momento più fragile. Il pessimismo sociale e l’ambiguità misogina di questo finale - il Sud e la donna hanno un medesimo status: un’arretratezza di sacrificati - si mescolano in una stessa drammatica verosimiglianza che si addice all’atmosfera di un film prima di tutto disperato. L’atmosfera si fa ancora più cupa con il film successivo, A Face in the Crowd (Un volto nella folla), nuova produzione indipendente realizzata in parte negli stessi studios newyorkesi e in parte in esterni (a Piggott, Arkansas, e a Memphis, Tennessee), ma di una levatura e di un’ambizione di tutt’altra portata rispetto alla precedente. Kazan e il suo vecchio complice Schulberg ne avevano cominciato la preparazione nell’esta95


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te del ’55, ma più che a Fronte del porto, Un volto nella folla si apparenta - nell’opera di Kazan - a Viva Zapata!. Di Fronte del porto restano una parte della troupe tecnica e la cupa verve del romanziere-sceneggiatore, ora infinitamente più libero e pessimista, e utilizzato per l’eloquenza della sua faccia perfino come comparsa-gangster. Tuttavia, per il tema e le idee che suscita, l’ultimo film lavora soprattutto nella scia di Viva Zapata!. Come per il film del ’51, non ci si accontenta di peripezie spicciole e di piccoli drammi individuali. L’azione prende rapidamente le dimensioni di un paese, di una società. Come Zapata passava dalla cittadina di Morelos al palazzo del Governo di Città del Messico, Lonesome Rhodes, protagonista di Un volto nella folla, comincia il suo folgorante destino in un sudicio carcere dell’Arkansas e finisce per aspirare seriamente a un posto chiave di Washington. Nel frattempo, saranno stati messi a nudo costumi, sistemi economici, istituzioni, si saranno inevitabilmente affrontati grandi temi politici, e questo non più nel Messico di mezzo secolo prima, ma negli Stati Uniti più rigorosamente contemporanei. Si passa insensibilmente dallo showbiz alla pubblicità, poi al commercio e alla politica, dalla radio alla televisione e al controllo di un senatore, dai trafiletti di Variety alle copertine di Life e agli editoriali di Newsweek. Prima di diventare il mostro di un Frankenstein 1957 (sempre attuale) che supera e tradisce le aspirazioni del suo creatore, Lonesome Rhodes era stato lo spirito libero, il ribelle assoluto, colui che rifiuta un contratto migliore perché al lavoro preferisce la pesca con l’arpione, il ribelle generoso che fa i suoi primi passi in politica denunciando uno sceriffo corrotto, che sbeffeggia i prodotti che è pagato per promuovere, che smitizza tutto ciò che tocca (dalla radio con le sue trasmissioni “in diretta” alla televisione con i suoi schermi-testimoni) e soccorre mendicanti senza tetto. Un giorno decide che ha riso abbastanza: rifiuta la ricca carriera che gli è proposta e se ne va; ma l’amore per la giornalista demiurgo Marcia Jeffries, che gli si concede per trattenerlo, gli fa nonostante tutto attraversare quei ponti d’oro, oltrepassati i quali gli piomberanno addosso i fantasmi della corruzione e del male. Ciò da cui Zapata era fuggito abbandonando Città del Messico, distruggerà Lonesome Rhodes. «Il potere è pericoloso», commenta l’intellettuale Mel Miller, «bisogna essere dei santi per resistere sotto il suo peso». All’apice della sua potenza, Rhodes scopre di essere diverso da Hank Williams o da Eddy Arnold, ex protetti del suo impresario, di essere una variante migliorata e inedita di un Will Rogers 96


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con un tocco - precisano i giornalisti - di Arthur Godfrey e di Tennessee Ernie, un pizzico di Herb Shriner e qualcosa di George Gobel. Diventa una personalità che nei dibattiti televisivi dà del filo da torcere a Faye Emerson, Bennett Cerf, Betty Furness, Earl Wilson, Walter Winchell o Mike Wallace; poi si trasforma in una vera istituzione ai cui piedi si prostrano i vari Jerry Stone, Flanders Dunn, Ned Tremaine e Florabel Keane. Invitato alle riunioni del Pentagono, vi reincarna lo spirito di Edwin Walker anche se, nelle sue insinuazioni anticomuniste, ricorda piuttosto Joe McCarthy. Nella sua campagna a favore del senatore reazionario Fuller (Fuller, nome curioso per un senatore di destra!), inveisce contro l’emancipazione della donna, le pensioni sociali e gli aiuti agli stranieri, sfoderando i cavalli di battaglia oggi regolarmente riproposti da Barry Goldwater. Siamo ormai alla fine del percorso che ha visto un Woody Guthrie in potenza (irriducibile cantore degli oppressi) 8 trasformarsi in un piccolo Goebbels americano (i miei ascoltatori-spettatori sono delle foche ammaestrate, degli idioti, un gregge di pecore da comandare a bacchetta), per il quale si progetta di creare, una volta entrato alla Casa Bianca, un nuovo portafoglio nel governo. Non sorprende quindi sentir dire, in questo remake in negativo di Viva Zapata!, l’esatto contrario di quanto affermava il rivoluzionario messicano. «Un popolo sano e forte ha bisogno di grande fermezza e di una classe dirigente responsabile», dichiara un dirigente del clan di Lonesome Rhodes. La sceneggiatura caleidoscopica di Schulberg, portata da Kazan a un ritmo infernale, fa sfilare nel corso di due ore tutto un Who’s Who della società americana, di cui le raffiche di nomi del paragrafo precedente danno solo una pallida idea. I nomi hanno d’altronde anche un’altra funzione; sottolineando il carattere artificiale di Lonesome Rhodes, illustrano le intenzioni degli autori: «Denunciare il potere che ha la TV di vendere personaggi artificiali come vende il sapone o le sigarette» (Kazan e Schulberg vi aggiungono anche i nomi di Billy 8 Il compositore scelto dagli autori, Tom Glazer, è un autentico folksinger, uno di quei trovatori americani che qualche anno dopo, con la rinascita del folk, si sarebbero moltiplicati. Le canzoni composte da Blazer per Andy Griffith, su testi di Schulberg (Free Man in the Morning, Guitar Mama, A Face in the Crowd), si sposano perfettamente con lo spirito di quel patrimonio musicale che mescola ispirazioni ed espressioni diverse - bluegrass, country-style, blues, skiffle, rhythm and blues, broadside, ecc. - dal gusto inimitabile. Glazer, alla fine, scriverà la partitura completa del film.

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Graham, James Dean e Huey Long). Con la sua mescolanza di persone reali e personaggi fittizi, inframmezzato da newsreels ricostruiti alla Dos Passos, da sequenze unanimiste alla CapraRiskin, se non addirittura deliranti alla Tashlin (sequenza Vitajex), infarcito di titoli a caratteri cubitali e di citazioni della stampa, dilatato dall’esplorazione dell’ambiente frenetico chiassoso e ricco di riflessi della televisione, il film è strabiliante per densità, ritmo e ubiquità. Di volta in volta allusivo o di brutale schiettezza, non cade mai nella confusione grazie all’ intelligenza penetrante dello sceneggiatore e al virtuosismo narrativo del regista. Il mondo satirico di Schulberg è interamente racchiuso nel film, innerva quest’odissea così simile a quella dei suoi eroi romanzeschi, tra cui quel famoso Sammy Glick che qui sembra resuscitato nella figura di Joey De Palma. Ci sono la cattiveria di Schulberg, la sua verve, la sua misantropia, la sua irruenza, la sua perfidia, il suo senso dell’umorismo e la lista sarebbe ancora lunga. Kazan deve moltiplicare gli sforzi per non passare in secondo piano. Se Un volto nella folla non è, come i precedenti, un director’s picture, non è nemmeno un “film di sceneggiatura”, ad autore e regista spetta qui lo stesso gradino del podio. Eppure, la vivacità della regia, per quanto personale si riveli a questo stadio della sua carriera, non basta più a un creatore troppo avanzato nella fase dell’“io”. Oltre l’evidente eredità di Zapata, è la figura di Kazan che gli specchi, a più riprese nel corso del film, riflettono più o meno fugacemente, in una sorta di pirandellismo, in qualche caso inconscio. Giochi di specchi in un primo tempo estranei perfino alla sua persona, ma che il film si ingegna a stabilire tra gli attori e il loro personaggio: Andy Griffith, per esempio, vede nel suo ruolo di Lonesome Rhodes una sorta di accelerazione prodigiosa del suo destino di attore, che va però nella stessa direzione. Comico da cabaret sconosciuto sullo schermo, sale alla ribalta in questa occasione per poi scomparire poco dopo, come bruciato dal film, esempio forse unico di carriera effimera tra le “scoperte” di Kazan. Lee Remick, invece, presenta diversi aspetti - giovane ragazza di buona famiglia arsa dal demone della scena a sedici anni, ballerina e attrice pescata alla televisione - che sembrano più plagiati dal suo personaggio che ricalcati su di lei a posteriori dai suoi impresari. Gli specchi riflettono ancora di più quando toccano lo stesso Kazan, che il personaggio di Marcia Jeffries sembra illustrare sotto molti punti di vista. Marcia è la conduttrice radiofonica di una trasmissio98


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ne che porta alla ribalta dei perfetti sconosciuti: «Ecco la trasmissione “Un volto nella folla”. Quale volto? Potrebbe essere il vostro… il vostro… o il vostro… Perché le persone sono affascinanti, dovunque le troviate». Questo è anche il credo di Kazan, che niente irrita di più di una star affermata e la cui predilezione per i volti nuovi - professionisti ignoti allo schermo o perfetti dilettanti - non fa che crescere man mano che l’opera progredisce; fino al punto di presentare, con il cast del Ribelle dell’Anatolia, una costellazione di volti in cui le stars brillano per la loro assenza. Ecco un altro punto di contatto: Marcia Jeffries, che poco fa ho presentato con i tratti del dottor Frankenstein, si presta altrettanto bene a un’altra immagine, quella dell’apprendista stregone, già applicata in diverse occasioni a Kazan per quanto riguarda la direzione degli attori. In questo caso, l’eccesso e l’enfasi non disturbano, in quanto parte integrante del soggetto. La pacchianeria, la retorica, la dismisura di Lonesome Rhodes giustificano l’eventuale presenza di difetti simili nell’attore Andy Griffith, condannato fin dall’inizio a “strafare” per raggiungere una maggiore esattezza (e forse si spiega con il segno che su di lui ha lasciato questa figura, la brevità della sua carriera). Non è quindi sul piano formale che si può cogliere in flagrante l’autore nell’atto di superare i propri limiti. Superare però significa doppiare e doppiare è tradire e così il film tradisce Kazan e Schulberg rivelando più di quanto essi volessero dire. Infatti, pur denunciando dei personaggi reazionari (per i quali il mondo si divide in pecore e lupi e che si atteggiano a uomini forti per governare la marmaglia), il loro film non fa che mettere in scena pecore e lupi e non è molto più tenero con le vittime ingannate, rappresentate come masochisti rancorosi o plebaglia sbraitante, che con i loro arroganti avversari. Ammettiamo l’acutezza della loro critica del sistema socio-economico-politico che, in un ritorno all’ovile (cinque anni prima sarebbero stati definiti “antiamericani”), colpisce esclusivamente a destra, ma la critica resta comunque di una negazione pessimista. L’ascesa di Lonesome Rhodes è così irresistibile proprio perché l’uomo comune da lui sbeffeggiato non sembra meritarsi di meglio. Inoltre, la caduta spettacolare dell’eroe, giustiziato il tempo di una discesa in ascensore di 43 piani più simbolica che verosimile, non restituisce affatto alla vittima la dignità che le rifiutano degli autori troppo misantropi. Kazan dovrà abbandonare Schulberg e soprattutto l’attualità, dovrà guardare venticinque, trenta e perfino cinquant’anni 99


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indietro, per rinunciare a un’indignazione così radicale e ritrovare, senza bisogno di smussare troppo la sua virulenza critica, un po’ di tenerezza e di speranza. Trascorrono quattro anni tra Un volto nella folla e Wild River (Fango sulle stelle). Deluso dall’insuccesso commerciale del suo film, produzione personale poco redditizia, Kazan si dedica esclusivamente al teatro per cui allestisce, con enorme successo, una pièce all’anno. Fango sulle stelle ristabilisce i rapporti non solo con il cinema ma, superando la parentesi nera della Newtown Productions, con il cinema della Valle dell’Eden: una grande società hollywoodiana, all’interno della quale opera come producer relativamente indipendente, lo schermo Cinemascope, il colore, Paul Osborn, l’evocazione di un’America corrispondente se non all’infanzia, almeno alla giovinezza dell’autore, il connesso lirismo e gioco dei sentimenti, ecc. Inoltre, per l’ultima volta nella sua carriera, Kazan torna a riadattare un romanzo. Non porta sullo schermo un’opera letteraria fortemente personale, per cui gli specialisti parleranno poi di fedeltà o tradimento. Fango sulle stelle si serve di due libri diversi, come Baby Doll amalgamava due pièces distinte, come un lontano materiale da cui partire per creare un’opera originale. Di Baby Doll, Kazan riprende il musicista Kenyon Hepkins, che con le sue lamentose melodie ricorda il Rosenman della Valle dell’Eden. Il direttore della fotografia scelto, Ellsworth Fredericks, non ha il prestigio dei Kaufman, Stradling, MacDonald e McCord precedenti, dimostrando con la costante bellezza delle sue immagini che è davvero il regista l’anima pittorica del film. Le riprese, ovviamente, si svolgono in gran parte in esterni, nel Sud-Est del Tenneessee. Ad attori sperimentati - Montgomery Clift che aveva diretto a teatro, ai suoi esordi, in The Skin of Our Teeth; Lee Remick, ora in un ruolo assai più importante; Jo Van Fleet chiamata a una performance abbastanza straordinaria: interpretare, a trentasette anni, una nonna di settantacinque; Frank Overton, Barbara Loden, ecc. - il regista affianca dei campioni di popolazione locale: un idraulico e il proprietario di un locale notturno, un professore di disegno e un marshall Usa. La scelta rituale di ingaggiare la popolazione autoctona è l’equivalente delle riprese “sul posto” o del passaggio, nella colonna sonora, di una canzone d’epoca come You Are My Lucky Star (in Splendore nell’erba sarà She’s the Talk of the Town). Sono altrettante manifestazioni della sua volontà di 100


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mantenere il contatto con il realismo, volontà che la scelta di divi formati con il Metodo non può che confermare. «Sono del tutto privo di immaginazione», dice Kazan, nel bel mezzo delle riprese, a un giornalista che gli chiede se gli piacerebbe dirigere un film sulla guerra di Secessione. Il fatto di non aver vissuto gli anni 1860 rende Kazan del tutto inadatto alla realizzazione di un film del genere (impossibilità rivelata già in precedenza dall’insuccesso di Mare d’erba). Kazan fa parte di quei creatori forse sprovvisti di immaginazione, ma che hanno una sensibilità dotata di memoria. Questo artista, disorientato da un passato sconosciuto e così portato per le lotte contemporanee, è al meglio quando un leggero scarto temporale gli consente di aggiungere alla presenza di un soggetto vissuto il distacco della riflessione e del ricordo. Dopo Un albero cresce a Brooklyn e La valle dell’Eden (e, su una scala più vasta, Viva Zapata!) e prima delle due opere più recenti, Fango sulle stelle trova nei venticinque anni che separano il soggetto dalla realizzazione del film l’occasione di “bonificarlo” e permette a Kazan di nutrire, di irrigare la sua regia con una moltitudine di particolari, non resuscitati attraverso una fredda ricostruzione “archeologica”, ma da lui vissuti nei luoghi e nelle date dell’azione. Anche quando lavora sul presente, l’autore ha bisogno di una qualche forma di sfasamento, di una dimensione diversa. In Baby Doll lo trova nell’anacronismo intrinseco al Sud, in quel passato che non vuole gettare le armi; in Bandiera gialla e in Un volto nella folla lo ottiene con un tema anticipatore, che gli consente di evitare una piatta registrazione, trasformando invece il reale in oggetto di riflessione. La necessità di questi stimuli, che non esito a definire stanislavskiani, mitiga notevolmente la qualità del realismo kazaniano: nessuna immaginazione, dunque, ma una realtà meditata e ricondotta a se stesso, personalizzata. Fango sulle stelle ristabilisce nelle sue funzioni un personaggio che ritorna regolarmente nell’opera: il funzionario portatore di progresso, di giustizia e di salute, che abbiamo già visto in azione in Louisiana o nel Connecticut. Inviato da Washington verso il 1935-36 in un angolo sperduto del Tennessee, per sistemare dei dettagli minori nella gigantesca opera di costruzione della Tennessee Valley Authority, Glover è incaricato di espropriare una famiglia recalcitrante in nome del benessere futuro. Il progresso è: la sconfitta della malaria, l’incanalamento di più di due terzi del corso del fiume, l’elettricità a buon mercato, parità di salario e alloggi migliori per i neri, la trasformazione di una terra improduttiva in uno dei più ricchi 101


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frutteti d’America. Il prezzo da pagare è: la creazione di un complesso sistema composto da più di trenta dighe di sbarramento coordinate e l’esilio dei proprietari che si trovano nel posto sbagliato. Nella lotta dall’esito quasi sicuro che ingaggiano il pro e il contro o, come diceva Ejzenštejn, il nuovo e il vecchio, le contrapposizioni sono quelle mostrate un tempo dal cinema sovietico rivoluzionario (nonostante la sua timidezza economica in termini assoluti, la TVA era rivoluzionaria nel paese della libera impresa - individuale - in cui susciterà una controversia che non si è ancora chiusa nel 1965): è il duello tra lo Stato e l’individuo, il tecnico e l’umano, i fatti e i valori intangibili, o ancora, per parlar chiaro, tra Jaurès e Maurras. Sicuro della sua vittoria, Chuck - e ancora di più Kazan, nel 1960 - lascia per molto tempo la parola al suo avversario. «Rubare l’anima alle persone per offrir loro dell’elettricità non è progresso», protesta la nonna Ella Garth, che si dichiara a favore della natura come è stata creata e contro qualsiasi tipo di barriera che sia imposta alla libertà degli uomini o al corso dei fiumi. L’anima è il diritto di morire dove si è sempre vissuto, di essere sepolti accanto al compagno di tutta la vita. Tutto questo porta anche il nome di usanze o tradizione: quella per esempio di dare al bracciante nero che lavora alla giornata un salario di due volte inferiore a quello di un bianco. In questo caso Glover interviene senza esitazioni, forte del fatto che «la TVA, organismo nuovo, non ha usanze». Su questo fronte, tuttavia, egli resta l’idealista che conduce una lotta materialista, l’Eroe americano di cento romanzi e di mille film che pretende di vincere una guerra senza versare sangue innocente. Perfino nella più legittima delle lotte, l’eroe di Kazan non può fare a meno di essere tormentato dalla cattiva coscienza. «Il suo liberalismo», commenta Penelope Houston, «a volte ha i tratti della stanchezza». Anzi, nel suo essere sempre perdente, picchiato e maltrattato, prostrato, esitante, debole, sentimentalmente indeciso e infine costretto a rotolarsi nel fango, insomma cliftiano al massimo grado, Chuck assomiglia a quegli eroi masochisti dei film noir anni ’40. Trionfa in extremis, come per incanto, senz’altro perché dalla sua parte ha la Storia; ma in realtà, anche se lui ha raggiunto il suo scopo, la sua lotta ha assunto un significato diverso. Scelto per la sua profonda comprensione dell’avversaria (anche lui viene dalla campagna), nel giro di poco tempo fa causa comune con lei contro i cattivi; non è più il duello del vecchio e del nuovo, ma la cesura più classicamente manichea che divide i buoni dai cattivi, la comunione della gente perbene contro le carogne sadiche e 102


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razziste (i tre figli Garth, lo sceriffo, Bailey il bruto e i sudisti in generale, linciatori impenitenti). Nel cuore della battaglia, che crede perduta, Chuck si ubriaca ignobilmente in compagnia dell’uomo a cui ha rubato la fidanzata e fa, sotto il portico dell’intrattabile vecchia, un piccolo speech sulla «dignità, orgogliosa ed eterna», concluso in stato d’incoscienza. L’ironia è solo di facciata e la nonna, comprendendo che l’uomo del progresso non intende vivere solo di pane e che non è per niente sprovvisto di un’anima, accetta di andarsene. Chuck, che aveva rifiutato le ciniche proposte dei figli di far internare la madre, sceglie di persona, con un amore quasi filiale, la casa dove sarà rialloggiata Ella Garth, pretendendo che in essa vi sia un portico simile in tutto e per tutto a quello della casa condannata. Per lui, che sposerà la nuora e adotterà i nipoti, è diventato ormai un affare di famiglia. L’Eroe americano ha salvato tutto il salvabile e ha compiuto la sua missione. Il giorno stesso dell’ evacuazione un vecchio contadino ara insensatamente, solo per la bellezza del gesto, un campo che sarà sommerso. Sul portico della sua nuova casa, Ella Garth si pietrifica tra la sua mucca e i suoi negri ormai senza più ragion d’essere e poi muore, privata delle radici, non tanto della sua terra natale, ma delle abitudini e del ritmo di una vita; come quei vecchi pensionati fulminati dal loro pensionamento. Per molti aspetti Fango sulle stelle sembra collocarsi agli antipodi di Un volto nella folla. Le forze liberali tengono le leve del comando e trionfano su una reazione moderata prendendo la precauzione di riconoscere l’avversario e di non fossilizzarsi, a loro volta, nell’aridità teorica del pieno diritto. C’è in loro una generosità e una dignità difficili da trovare nei protagonisti sarcastici del film precedente. Non è che qui il cuore tradisca la testa (se il riassunto che ho fatto da quest’impressione, me ne rammarico) ma, una volta che ha le spalle coperte, la ragione può permettersi di essere magnanima: la ragione ha il suo cuore, che il cuore conosce bene 9. Oltre Chuck Glover e i suoi problemi morali, è dato ritrovare in altri personaggi la stessa multiforme generosità, i cui slanci sono il frutto della combinazione di sentimenti di stima e di fiducia, di giustizia e d’amore. La si sente nella tacita meraviglia suscitata da una semplice lampadina elettrica, così come nella simpatia a prima vista che La frase è la citazione rovesciata di una massima di Blaise Pascal: «Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point» («Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto»). [n.d.t.] 9

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Walter Clark, il fidanzato abbandonato, prova per il suo rivale Chuck, o nello sguardo, di un’acutezza e sensibilità straordinarie, che il regista porta sui bambini del film. La si sente nei rapporti amorosi, traboccanti di sensualità fra Chuck e Carol, lei, di una lucidissima sincerità, lui che ancora si porta dietro la sua eterna cattiva coscienza. In Fango sulle stelle Kazan non si limita a usare il pronome personale di prima persona, ad esso aggiunge il verbo amare; e infatti qui l’amore occupa il centro della scena, con i suoi complementi di specificazione (della terra, filiale, materno, appassionato), le sue varianti e declinazioni: amo, dunque sono. Per il creatore, l’amore è innanzitutto quello per la sua opera, per gli esseri e le cose che mette in scena. È la luminosità offuscata di un giorno d’ottobre sotto la pioggia, è un traghetto rudimentale che attraversa lentamente un fiume lambito dalla foschia e dall’eco sussurrato di un canto, è una casa abbandonata, tomba coniugale di polvere e foglie morte, è, in un’ultima sequenza da antologia, lo sbrigativo assassinio di un’isola compiuto dalle ascie, dal fuoco e dall’acqua fino a quando le inquadrature aeree ne rivelano, in extremis, con la prima immagine della diga, l’esito e la causa. Lo scenario rurale americano, fonte di potente ispirazione per i migliori, da Ford a Renoir o Vidor, e stimolo perfino per i mediocri, permette a Kazan il suo film più sconvolgente, rifinito, placato da un “trattamento” del Cinemascope che sostituisce agli artifici la tranquilla evidenza della bellezza. Queste caratteristiche di verità e di maturità si precisano nel disegno acuto e originale di ogni personaggio e degli attori - o non-attori - chiamati a interpretarli, dalla più defilata ma mai anonima comparsa (così vuole il talento!) alla coppia centrale. In Carol e Chuck riconosciamo diversi tratti e tipi di rapporti delle precedenti coppie kazaniane, ma anch’essi ampiamente approfonditi. Tutte le scene che li riuniscono possono essere definite magistrali. Lee Remick e Montgomery Clift vibrano letteralmente di desiderio e di passione, subendone contemporaneamente la felicità e i tormenti. Come la maggior parte delle Kazan girls, patrocinate o no da Tennessee Williams, è Carol a provare per prima un sentimento di attrazione e ad avere il primo slancio (è lei che si getta tra le braccia di Chuck, saltando sul traghetto che lo riporta indietro), un desiderio che tre anni di vedovanza hanno reso più imperioso. Più di tutte le altre, risplende di una sensualità priva di ambiguità, di cui si intuiscono i rischi; ma la novità maggiore è che Chuck non è 104


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meno “preso” di lei. Il loro rapporto raggiunge un equilibrio tanto pericoloso quanto inedito, che nulla ha a che fare con le relazioni soggetto-oggetto della maggior parte delle coppie da film. Il tormento sensuale di Chuck è lontano dalla freddezza come dai calcoli del seduttore, dall’ossessione violenta come dall’ipocrisia adolescenziale. Differente sotto questo aspetto dai precedenti maschi dell’opera, prefigura perfettamente, nonostante i suoi quasi quarant’anni, il ragazzo straziato dal desiderio di Splendore nell’erba. Poco per volta, Carol acquisisce su di lui un ascendente morale che ne fa una di quelle eroine kazaniane forti e quasi materne, che calmano, assistono, educano, consigliano, confortano. Nella loro scena capitale, la piccola campagnola passa in rassegna tutti i suoi punti di superiorità rispetto al delegato di Washington, anche sul piano intellettuale; vanta la “propria” merce con un’eloquenza infiammata e conquista a viva forza la mano di un partner indeciso e, soprattutto, sbalordito dal rovesciamento dei ruoli Splendor in the Grass (Splendore nell’erba) ripropone, ma in modo molto più sistematico, i problemi della gioventù e della sessualità nella società americana, concludendo la parte preadulta dell’opera di Kazan. Chiamo semplicemente “pre-adulti” i film che hanno per protagonisti dei bambini o degli adolescenti. A riguardo, si può notare che questi personaggi sono nati con il secolo: sono bambini durante il suo primo decennio (Un albero cresce a Brooklyn), adolescenti nel 1917 quando l’America entra in guerra (La valle dell’Eden) e, infine, adulti quando il secolo raggiunge i trentacinque anni (Fango sulle stelle). I protagonisti di Splendore nell’erba non seguono questa evoluzione parallela e sono invece più vicini all’autore. Siamo nel ’28-’29, e loro hanno nove o dieci anni meno del secolo, vale a dire l’età che all’epoca aveva il regista. Kazan smette di mettere in scena dei personaggi di qualche anno più vecchi di lui (naturalmente, intendo nella data in cui si svolge l’azione), tendenza che sarà ulteriormente rafforzata dal Ribelle dell’Anatolia e dal suo flashback genealogico. In questo film ci mostra i suoi fratelli gemelli. Schematizzando un po’, si potrebbe dire che Kazan, cineasta adulto, dopo aver descritto un mondo che per lui era il passato (Un albero cresce a Brooklyn), poi il mondo dell’adolescenza riflesso nel ricordo del suo sguardo di bambino (La valle dell’Eden) e infine un mondo adulto, conosciuto nell’entusiasmo della prima giovinezza (Fango sulle stelle), ritrova il proprio universo adolescenziale, 105


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quello che anche lui aveva vissuto, una volta per tutte, nel 1928-29. Lo descrive, certo a trentatré anni di distanza (un tempo di riflessione biblico), ma senza la minima ombra di adattamento o di trasposizione del reale. Per un autore così profondamente legato al realismo come Kazan, tali esercizi di cronologia comparata non sono affatto inutili. I suoi due film più cupi sono quelli contemporanei alla propria esperienza: Un volto nella folla, in cui un artista di 47 anni ci mostra il mondo disincantato e corrotto dei suoi quarantasette anni, e Splendore nell’erba, in cui l’autore, a 52 anni, si volta a considerare i suoi diciannove anni e il crollo di un universo di cui all’epoca fu testimone. Spiegare tutti i nessi che legano il regista ai suoi film non significa tirare abusivamente l’acqua al suo mulino. A questo punto della sua opera e arrivati alla fine di questo capitolo dell’“io”, si sarà convenuto da un pezzo, piaccia o meno ai faziosi, sul fatto che egli stesso costituisce per i suoi film un denominatore comune. La presenza oggi di William Inge nei titoli di testa non ha molto peso come argomento contrario. Dopo Williams, Steinbeck, Sherwood, Schulberg e Osborn, Inge è solo l’ultima delle reincarnazioni di quella politica kazaniana degli autori, posti al servizio dell’unico vero Autore, che tra l’altro non tarderà a firmare da solo le sue sceneggiature. Inoltre, con Splendore nell’erba, Kazan ritorna al sistema “un solo comandante a bordo”, che era stato quello della Newtown Productions. Dal punto di vista materiale, questo significa: riprese negli studios Filmways della costa Est ed esterni girati, in mancanza di un Kansas troppo cambiato, in alcune cittadine dello stato di New York; la scelta di attori sconosciuti, fatta eccezione per l’ambiziosa e dotata Natalie Wood, e di figuranti locali, tutti newyorkesi, preferiti a quelli di Hollywood giudicati troppo pigri. Il che significa anche, in definitiva, un’opera ricca di violenza e di tensione, come le altre produzioni indipendenti, in qualche caso spigolosa, con delle sbandate e degli eccessi dovuti a un’ambizione sempre più grande, alla passione per la sperimentazione, all’incessante inaugurazione di nuovi registri linguistici. Questa diversità di aspetto dell’opera da un film all’altro non è solo la conseguenza della maggiore o minore libertà dell’autore. La considero il migliore modo per lui di vincere il processo per il riconoscimento della non-paternità che gli si potrebbe intentare. Un autore non è qualcuno che adotta l’equazione tic = stile e che si attiene all’uso esclusivo del formato 106


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Cinemascope, o dello zoom inadatto o del piano sequenza o di interpreti omosessuali o di attrici affette da prognatismo e balbuzienti, di meno di undici anni e mezzo, bionde con tre trecce, forse senza una gamba e dotate di un girovita che qualcuno più spirituale dovrebbe proprio aiutarmi a definire. (Questo genere di “creatori” imperversa soprattutto in pittura e in letteratura). Per Kazan, lo stile è la varietà stessa dell’uomo, la delicatezza della sua epidermide, la diversità del suo sguardo, illuminato o stravolto dallo spettacolo sempre mutevole di un mondo che ha scelto come oggetto di studio e di contemplazione. Esso è dunque il riflesso di un temperamento ciclico e alternato, di una vitalità elettrica che funziona a scariche e ricariche, che alterna frenesia e pause, di una respirazione profonda e ritmica che non trascura nessun aspetto dell’ispirazione. All’apice della crisi, può arrivare a esplosioni nevrotiche i cui eccessi non sono più fondati della “sporcizia” con cui Clouzot macchia le sue scenografie per fare “realista”; ma le sue vette di limpido lirismo lo innalzano al livello dei più grandi poeti dello schermo. Come per La valle dell’Eden, di cui Splendore nell’erba risulta quindi la parte complementare, i rimandi autobiografici sono di due tipi e il problema centrale del film - i rapporti tra padri e figli, il dialogo tra le generazioni - è illuminato dall’autore in una duplice prospettiva. Da una parte, quella dei suoi ricordi personali di ragazzo che si libera a fatica dall’autorità di una famiglia poco disposta a vederlo, tra le altre cose, imboccare la strada del teatro. Dall’altra, quella della sua esperienza presente di padre i cui due figli maggiori hanno, in quel momento, 24 e 22 anni (e quest’ultimo è il primo figlio maschio), mentre all’epoca della Valle dell’Eden avevano, rispettivamente, 17 e 15 anni. La lezione socratica di Splendore nell’erba (quel che conta, per ogni individuo, è imparare a conoscere se stesso, a piacere a se stesso e non agli altri), che l’autore-produttore applica così bene sul piano professionale, fa del film un’educazione asentimentale, una formazione alla maturità nella scia della Valle dell’Eden: i genitori hanno una grande responsabilità, ma arriva il momento in cui il bambino cambia e comincia a crescere da solo, a fare le sue scelte (come si diceva nel 1954), anche in contrasto con le loro. Qui la coercizione parentale si afferma ancora più nettamente con i volti gemelli dell’egoismo e del puritanesimo, che sono anche i volti - speculazione e proibizione - dell’America adolescente degli anni ’20, che una crisi colossale costringerà a una maggiore maturità. C’è un’intima affinità tra la nazione nel suo 107


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insieme e la coppia di protagonisti, che dà vita, nel corso di tutto il film, a un minuzioso parallelismo che non trascura nessuna reciproca influenza. Questo Romeo e Giulietta delle convenienze e dell’avidità della società capitalista è una tragedia profondamente americana. La sua struttura è quella di Hiroshima, mon amour: la prima inquadratura (i baci proibiti degli amanti) determina il primo dialogo (in cui ci si inquieta per alcune azioni in ribasso); il dramma individuale, morale e sessuale, ha costantemente il suo contrappunto, la sua causa e il suo specchio, nel dramma di una società. Come nel manifesto contro l’alcolismo, quando i genitori bevono sono i figli a farne le spese. I genitori si abbuffano, si arricchiscono, esitano a vendere le loro preziose azioni per far curare la figlia; oppure chiedono al figlio di realizzare il sogno di gloria sportiva che loro stessi non sono riusciti a concretizzare. Fanno dei figli per prolungare se stessi, per essere serviti, per avere una successione, perché realizzino per procura i loro desideri. Li conoscono meglio di quanto i figli non conoscano se stessi («Un ragazzo, alla tua età, non sa ancora cosa desidera»), ne sanno di più degli psichiatri sui loro problemi di salute e di più dei professori sulle loro capacità intellettuali. Quando i figli crollano sotto il peso delle costrizioni, in preda a un esaurimento nervoso o al disgusto per tutto, individuano l’unica causa del male nel partner adolescente: «Lui (o lei) non è fatto(a) per te, te l’avevo detto». Questa opprimente atmosfera di incoscienza regna fino alla fine, quando il padre di Bud “paga” un’amante a suo figlio per provargli che aveva ragione o quando la madre di Deanie protesta «E io, allora?», nel momento in cui la figlia le annuncia il suo matrimonio e la sua partenza. Eppure, dopo questa accusa in piena regola, Kazan e Inge non scagliano l’ultima pietra contro gli anziani. Tutto sommato, hanno fatto come hanno saputo, come i loro genitori prima di loro e, prima ancora, i loro nonni. Come dice lo psichiatra a Deanie: «Non sono i vostri genitori a dover cambiare. Voi dovete cambiare, loro non possono». Quando, alla fine, Deanie dice a sua madre che la perdona, gli autori non ritornano sulla loro requisitoria, vi mettono semplicemente fine. Con il suo perdono, Deanie rovescia il rapporto che la lega alla madre, è lei che agisce da adulta indipendente e, a sua volta, un po’ paternalista. Le parole che pronuncia sono quelle che, scherzando, diceva già Julie Harris in La valle dell’Eden, quando raccontava a un James Dean incredulo e piuttosto divertito il brutto tiro che aveva giocato a suo padre, risposatosi, e come fosse stata lei in seguito a perdonarlo. 108


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Il principale punto di conflitto è ovviamente il sesso. È in questo campo che il divieto imposto dai genitori e, perciò, dalla moralità di un’intera nazione è meno facilmente superabile. Alle lotte di liberazione che Kazan ha combattuto contro la miseria, l’ignoranza o l’ingiustizia, si aggiunge la lotta di liberazione sessuale, già ampiamente portata avanti in compagnia di Tennessee Williams e sostenuta qui in modo incondizionato dal più grande discepolo teatrale di colui che l’abituale collocazione del suo mondo ci autorizza a ribattezzare Kansas Williams. Dalla prima inquadratura di un bacio appassionato bruscamente interrotto, in una sorta di petting interruptus, fino all’incontro finale pieno di rimpianti senza amarezza, che vede Romeo e Giulietta concludersi come Les Parapluies de Cherbourg, siamo e rimaniamo nel cuore del problema. Kazan si impone, ora più che mai, come il cineasta del desiderio, guida ardente di una cinepresa chiamata Desiderio. Agli occhi di un creatore così vitale e terreno, il desiderio non può essere altro che quello che è: lo stato più importante perché il primo, lo stato-motore, quello in cui tutto si decide e si scatena (l’amore, la passione, ma anche la vita, la sopravvivenza della specie…). Il desiderio è anche una garanzia unica di sincerità, l’unica cosa al mondo che non si possa fingere (nella realtà, certo, ma qualche volta anche sullo schermo, come è dimostrato qui dal rapporto personale, off-screen, dei due attori principali). Natalie Wood è dunque l’immagine stessa del desiderio: i suoi baci a corpo morto, i suoi occhi che passano dall’intensità crudele dell’invito allo smarrimento turbato del piacere... E ci si può consolare della recitazione monolitica e dolente (e un po’ fastidiosa) di Warren Beatty vedendovi la rappresentazione più appropriata di un simbolo di erezione permanente. Insieme o separati, Deanie e Bud ritrovano gli stessi gesti di comunione sensuale: così nella sequenza di apertura, la ragazza, appena rientrata, si sdraia a pancia in giù, con le gambe divaricate, su un divano e poi sul suo letto; a casa sua, il ragazzo si sdraia a pancia in giù come lei e in qualche modo la raggiunge sul suo letto deserto, dopo aver superato i genitori egoisti, rigidi e indiscreti. Il piacere, ecco qual è il nemico per il genitori. L’elemento da espellere a qualsiasi costo dalle unioni rispettabili e fondate sulla ragione. Per la frigida madre di Deanie non esiste: l’amore si pratica solo per fare dei bambini. Per il padre di Bud, che consiglia a suo figlio di andare a letto con delle ragazze facili, deve essere tenuto separato dal matrimonio. L’amore stesso, 109


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nella sua accezione più ampia, è sbeffeggiato dappertutto da una società che ha innalzato la proibizione al rango di legge e vive nell’ipocrisia, sua conseguenza ineluttabile. Lo è quando una maestra zitella, invidiosa e frustrata, fa biascicare ai suoi allievi i principi della galanteria; quando la ragazza facile della classe esalta la purezza dell’amore cortese e il culto medievale della donna. L’eccesso di repressione provoca all’occasione un eccesso di reazione, quale è il personaggio di Ginny, la flapper emancipata, che beve, fuma, si fa espellere da tutte le scuole, colleziona amanti, abortisce e muore in un incidente d’auto. L’eccesso è nel soggetto e la caricatura, clausola formale, è innanzitutto garanzia di realismo. Fidiamoci di Kazan: quei salamelecchi sregolati all’anno nuovo sono il “peabody” dell’epoca e quel night club di potente volgarità, tappezzato di rosso sgargiante, popolato di gigolò e vecchie befane, carico di fronzoli e natiche al vento, è il locale notturno della famosa Texas Guinan dove le battute di maggior successo, nei giorni bui del ’29, erano quelle sui suicidi che si ammassavano sui marciapiedi di New York. Lo stile di caricatura vendicativa impregna tutto il film, il personaggio del padre (Pat Hingle) colorito nel linguaggio e nella caratterizzazione, con il suo nervosismo da automa e i suoi pugni maniacali, come la cerchia schiamazzante delle amiche di Deanie, gli sfondi beffardi come le comparse che sfiorano il ridicolo. Vi ritroviamo spesso il gioco al massacro di Un volto nella folla, ma su un piano nettamente più visivo; dal momento che i dialoghi di Inge non eguagliano, sotto l’aspetto satirico, quelli di Schulberg, Kazan compensa abbondantemente con l’immagine, anzi dovrei dire con l’acquaforte. Splendore nell’erba è un film inciso, l’opera di uno Zola che scrivesse con il cesello-pennello di Daumier o, per restare nel campo del cinema, un’opera da accostare - ci si ricordi della rissa della notte del veglione - ai migliori Stroheim e Autant-Lara. Il paragrafo che precede risulterebbe monco di una parte del suo entusiasmo senza avere il piacere di ringraziare il vecchio maestro Boris Kaufman, al posto chiave di direttore della fotografia. Grazie a lui, Splendore nell’erba, capolavoro plastico, è in ogni suo punto degno del suo titolo sublime. Lo splendore dell’erba, il più bel verde che una pellicola abbia mai registrato, è quello del prato nel parco della casa di cura che Natalie Wood attraversa per precipitarsi verso di noi. Lo splendore del cinema è anche l’immagine di una chiesa sotto la pioggia, la lucentezza ambrata dei rivestimenti di legno ambersoniani in casa Stamper, una selva notturna di pozzi 110


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petroliferi, l’ombra azzurrognola di un parcheggio, l’alba newyorkese. Ogni inquadratura di Kazan e Kaufman è un frammento dell’opera e un gioiello in se stesso, solitario e solidale. La ricerca estetica che salta agli occhi in diverse sequenze, come quella della passeggiata in assenza del padre Stamper (ellissi spazio-temporali, racconto polverizzato alla Resnais, mosaico di immagini), è in realtà alla base di tutto il film. Se è per offrire un piacere a se stessi che K and K ne fanno un uso così costante e felice, possiamo garantire che il piacere è una malattia contagiosa. Il mio nome è Elia Kazan Il mio nome è Aram è il titolo dato da William Saroyan alla più celebre delle sue raccolte di racconti sui suoi fratelli armeni d’America. È alla stessa semplicità da narratore orale d’Oriente, ma con ben altro respiro, che ricorre il suo antico compagno di persecuzione, il greco-turco Elia Kazan in America, America (Il ribelle dell’Anatolia). È quella stessa loquacità che lo percorre, dalla frase iniziale con cui l’autore si presenta («Il mio nome è Elia Kazan») fino alla sospesa conclusione del racconto («… e fece venire tutti i suoi, uno per uno, meno suo padre»). A Kazan non basta più dire “io”, e dirlo in modo più solitario che mai, gli è necessario cercare l’identità di questo “io” e le sue radici più lontane. Il paragone con uno scrittore si impone anche perché quella di Kazan è un’opera presentata inizialmente in forma letteraria. Maturata e ruminata nel corso di vent’ anni, ha dapprima preso la forma di un’opera drammatica, Hamal (1961), poi di un trattamento dialogato (Il sorriso dell’Anatolia), ed è infine pubblicata nel 1962 da Stein and Day con la qualifica di “romanzo” e il titolo di America, America 10. L’eroe della vicenda, Stavros Topouzoglou, è il ritratto dello zio dell’autore, Avraam Elia Kazanjoklou 11, ossia il Joe Kazan che sosteneva un piccolissimo ruolo nel primo film del regista, Boomerang, come Mister Lukash. Questo zio Avraam («Il mio 10 È anche il titolo con cui il libro uscì in Italia nella Medusa rossa di Mondadori, mentre il film si chiamò Il ribelle dell’Anatolia. [n.d.t.]

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La figura dello zio comparirà di nuovo in Il compromesso. [n.d.t.]

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nome è…» eccetera) è il primo dei Kazan a essere sbarcato in America, la testa di ponte di una vasta famiglia che presto lo seguirà («e fece venire tutti i suoi, uno per uno…» ecc.). Kazan dice oggi di lui che «era un mostro, un satiro, che ha fatto fortuna con i tappeti e l’ha persa alle corse e che per arrivare fin qui si è abbassato a tutto», dipingendolo appena un po’ più in nero del vero, ma non molto di più. L’odissea di Avraam-Stavros è ancora una volta in Kazan densa di significati collettivi, anzi nazionali, che vanno ben al di là dello specifico aneddoto. Dopo il dramma americano di Fango sulle stelle e la tragedia americana di Splendore nell’erba, America, America racconta un’avventura doppiamente americana, come recita il titolo. Il racconto è quello di un successo individuale, di un sogno che si è realizzato, di un’odissea alla Horatio Alger, ma dura e realistica, insomma un tema così americano da risultare quasi folclorico. Ma è anche, per la natura dei suoi eroi immigranti, la narrazione sempre rinnovata della perpetua genesi dell’America. Un americano nato americano (o con i parenti nati americani, e qui intendiamo “americano” nel senso di statunitense) è più o meno raro quanto un parigino nato a Parigi e pare inoltre dimostrato che in questa “nazione di immigrati” (John Kennedy dixit) non ci sono mai stati dei veri indigeni (anche gli indiani o pellirosse non sono altro che occupanti arrivati per primi da altri luoghi). Per l’americano, trapianto e assimilazione sono i problemi di un eterno presente; in mancanza di meglio, il meteco più o meno recente è interamente cittadino (si è visto, nel terzo capitolo, che nemmeno questo era vero). La moglie di Kazan, Molly Day, i cui avi emigrarono dall’Inghilterra nel XVIII secolo, ha esclamato leggendo America, America: «Ma è la storia della mia famiglia!». E tra gli stessi attori del film, sono rari gli americani consolidati e sono frequenti quelli naturalizzati da una sola generazione, tedeschi, greci, russi, francolibanesi e polacco-lituani. Questo soggetto, cioè l’immigrazione, che il cinema americano ha sempre vergognosamente o vigliaccamente trascurato, con l’eccezione del solo Chaplin, un immigrato più recente e adulto (e peraltro provvisorio) di Kazan, l’autore di Un albero cresce a Brooklyn lo aggiunge alla sua opera come un testamento o ritorno alle origini, come un’illuminante postfazione o come il frontespizio monumentale, anticipato già dal suo primo film. Quest’opera che, da crisi a conflitti, dal Connecticut alla Louisiana, da generazione a generazione, da sconvolgimenti sociali a rivoluzioni morali, da raz112


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zismi a corruzioni, e da estrema sinistra a estrema destra, quest’opera che, con solo una o due eccezioni, costituisce una grande opera sull’America di mezzo secolo, si ripiega all’improvviso su se stessa, ritorna sul suo breve passato (passato dell’autore, dei personaggi, del XX secolo americano), e prende atto del suo sradicamento. Non è sorprendente, in queste condizioni, ritrovare nella sua postfazione tanti personaggi, temi, situazioni e particolari, consci o inconsci, delle opere passate, alle quali vengono in qualche modo rilasciati dei certificati di paternità autentica. I turchi, occupanti di sei secoli, e le loro brutalità equestri, sono per i perseguitati greci e armeni quello che erano i soldati di Porfirio Diaz per i peones di Zapata. Stavros che scende dal monte Aergius, un blocco di ghiaccio tra le braccia, è una nuova versione del furioso James Dean di La valle dell’Eden, che saccheggia la cella frigorifera. E ancora richiama Dean l’aria da folletto di Stavros che batte con impazienza la mano sulla locomotiva per far partire il treno o che compare e scompare nell’ufficio della compagnia di navigazione, a chiedere il prezzo del biglietto del viaggio o se quel tal turista con la paglietta è proprio americano. Da La valle dell’Eden viene anche il padre eccessivamente moralista, che elargisce preghiere e consigli, e l’ossessione del figlio di non deluderlo mai (Stavros a suo zio: «Soprattutto non dire a mio padre che mi hanno derubato; io ce la farò e lui sarà fiero di me»). La giungla sfiancante dei docks o lo sprezzante ostracismo con il quale i colleghi trattano chi non obbedisce alle regole della comunità, sono quelli di Fronte del porto (il modo in cui i dockers trattano Stavros da “crumiro” aggiunge al titolo qualcosa di derisorio alla stessa invocazione piena di speranza dell’eroe). Il corteggiamento silenzioso di Stavros, nella famiglia patrizia in ghingheri, amplia notevolmente una scena simile di Viva Zapata!. Sono ricorrenti in tutta l’opera quegli improvvisi contrasti per cui una rumorosa agitazione si muta bruscamente in calma, come qui quando il silenzio del “quartiere dei tappeti” succede al caos del suk. Queste oasi di pace sono come sempre quelle della coppia, quando l’ingombrante e prolissa famiglia permette che essa resti sola. La fidanzata Thomna si propone, si fa valere, si vende a un “promesso sposo” inquietante e inafferrabile, un po’ come Lee Remick faceva con Montgomery Clift in Fango sulle stelle, e prima di loro Celeste Holm in Barriera invisibile. E la coppia formata da Stavros e dalla moglie insoddisfatta del ricco negoziante di tappeti è tipicamente una coppia alla Tennessee 113


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Williams, con la differenza che l’infelicità dell’eroina di Kazan («Il mio ventesimo anno è sempre dentro di me, come un bebè che deve ancora nascere») è infinitamente più commovente (e meglio espressa) di quella delle sue simili sulla scena. E continuamente tornano il desiderio che presiede all’amore, la sensualità e la sua ricompensa, il piacere, espressi qui dagli occhi di Stavros (davanti al quale, in una mattina di sole sul porto, la donna appare, inedita e ammaliante) e dalla bocca del turco Abdul: «Questa donna mi ha dato un piacere indicibile; e io l’ho penetrata fino all’anima». Ma non la finiremo più di segnalare qua e là i mille richiami contemplati, in una vasta e molteplice risonanza, da questa opera-eco… Ma è nell’anima stessa del film, nella sua sostanza morale, alla quale molti dei particolari qui elencati si riferiscono, che Il ribelle dell’Anatolia segna in forma definitiva un’opera di raddoppiata coerenza. Stavros ha l’età del Bud di Splendore nell’erba, qualche anno di più del Cal di La valle dell’Eden. La sua esperienza, parallela alla loro, è però incomparabilmente più drammatica della loro, così come sono più radicali il suo “invecchiamento”, la sua adulterazione. Adulterazione: azione di sciupare, di falsare; riproponiamo qui un gioco di parole abbozzato, parlando di Baby Doll, tra adulto e adulterio, con una parola nuova e più lunga, che le lettere aggiunte caricano di ulteriori significati. C’è a volte un adulterio, ad accompagnare il passaggio all’età adulta di questi eroi: Baby Doll con Vacarro, Cal con la fidanzata del fratello, Bud con Juanita, Stavros con Sophia Kebabian (per non risalire a due adulti che quest’atto rivela nella loro bassezza: Stanley Kowalski che - come un Cal forsennato - si fa la sorella della moglie, in Un tram che si chiama Desiderio, e Lonesome Rhodes in Un volto nella folla in cui, agli occhi di Marcia Jeffries e dello spettatore, è il matrimonio a sorpresa che prende il posto dell’adulterio). Se l’adulterio kazaniano non sempre è un fatto assolutamente negativo (per Baby Doll è come una liberazione), bisogna convenire che con Stavros si tocca il fondo, poiché per lui quest’atto fa rima con prostituzione. Per il giovane che sbarca in America alla fine del film, le tre parole di adulto, adulterio e adulterazione sono, alla faccia del dizionari, dei sinonimi. E per finire questo piccolo gioco con una formula greve, citiamo dallo stoico Petit Littré questo significato estensivo di adulterio: «che offre una mescolanza viziosa, colpevole»; per concludere - seguirà spiegazione - che tutta l’opera di Kazan è un’opera dell’adulterio, ovviamente nel senso più largo del termine. 114


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Agli occhi di colui che sta per entrarvi, il mondo adulto è anzitutto il mondo della vergogna. Per Stavros è la vergogna dei greci passivi di fronte all’occupante turco, quando invece gli armeni gli resistono; la vergogna del padre “collaborazionista” per la liberazione del figlio, la vergogna della nonna di fronte alla viltà dei suoi. Prima della fine del viaggio, egli avrà conosciuto in se stesso questo stato d’animo degradato. Ma la vergogna è solo uno dei volti interiori dell’età adulta. Brutale è il contrasto con il mondo dell’infanzia sul filo di una mutazione tanto fatale quanto familiare che è possibile definire attraverso le opposizioni classiche di illusione-disincanto, purezza-compromesso, vulnerabilità-durezza, generosità-calcolo, e anche ottimismo-pessimismo. Al di là delle varie formulazioni, si tratta davvero della perdita di qualcosa di essenziale, milioni di adulti l’hanno vissuta, tanta cultura l’ha mostrato, dalla poesia di Wordsworth che dà il titolo a Splendore nell’erba, a Scott Fitzgerald per cui «ogni vita è un processo di demolizione». È qualcosa che in Stavros si fissa in un sorriso da rictus, il “sorriso dell’Anatolia” della soggezione timorosa, il keep smiling americano dell’efficienza. Ciò che permette di giudicare della qualità dell’uomo è ciò che egli riesce a salvare dal grande naufragio. Il giorno in cui lascia i suoi, Stavros riceve dal padre questi consigli contradditori, sarcasticamente commentati sottovoce da uno zio: Padre - Gesù, insegnategli che gli umili erediteranno la terra… Zio - Ma non da queste parti! Padre - Insegnategli che tutti gli uomini sono fratelli… Zio - … e comunque, non fidarti di nessuno! Padre - … e che una parola gentile e un sorriso cristiano estingueranno la collera. Zio - Dormi però con un occhio solo! Conservando bene a mente questa doppia regola di vita, Stavros affronta il dilemma classico che il linguaggio popolare esprime in questo modo: o si è mascalzoni o si è coglioni. Per sopravvivere egli sceglie di essere un mascalzone perché vede come i “coglioni” finiscono (Vartan Damadian, Garabet, Hohannes) o come vengono ingannati e derisi (Thomna); non contento di veder morire al suo fianco i generosi egli deve, sempre per sopravvivere, uccidere a sua volta (Abdul). Di prova in 115


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prova e di indurimento in indurimento, egli colleziona “lezioni”, che diventano subito aforismi del tipo: «non sorridere, è un segno di debolezza», «nella vita, ci sono solo incontri e separazioni» (a Hohannes che gli dice che resteranno sempre amici), oppure: «quando si costringe una donna a scegliere, sceglie il denaro». Ma questo crescente cinismo non è mai assoluto, si accompagna sempre in Stavros all’amarezza del rimorso. Anche se, quasi a conferma della validità della sua scelta, può verificare la falsità delle morali correnti, cristiana o ufficiale. Vede per esempio il padre che accetta di mediare con il nemico turco. Constata che in questo mondo è la quantità a creare la qualità, per il denaro («c’è il denaro spicciolo», dice Garabet, «che è una prostituta, che passa di mano in mano… e c’è il denaro vero, che si riproduce e si moltiplica, quello che bisogna o rubare o sposare») come per il delitto, in cui la quantità legalizzata trasforma un assassino in eroe. Riconosce ancora, in extremis, che la delusione del muratore che torna sciancato dall’America non era esagerata: tocca lui stesso con mano che cosa sia il miraggio dell’America purificatrice, i limiti di questo mito morale. Tutte queste giuste osservazioni sulla relatività della morale, questa virulenta critica di una morale “per i ricchi” non impediscono a Stavros di avvertire la cocente nostalgia di un’altra morale, diversamente autentica, che nel più profondo di sé sa di aver tradito. Questa morale è quella degli «unici esseri umani» che egli ha incontrato (per citare le parole che ha detto a Garabet), quelli che si sono aperti all’altro, per amore, fierezza o dignità: Vartan che cade sotto i colpi dei turchi, Garabet che scompare con il suo sogno di rivoluzione universale, Hohannes il cui sacrificio salva Stavros, in vista del porto, dall’essere rispedito al punto di partenza, Thomna pronta a sacrificare per lui onore e fortuna. Stavros non imita il loro esempio, ha troppo paura di doverli seguire nella loro morte precoce. Ma non li dimentica mai, e guarda in avanti, Stavros bifronte dai sorrisi ambigui, immagine della duplicità, sadomasochista evidente (sceglie il male, o piuttosto un male, e ne soffre), vincitore sociale (è indubitabile che farà carriera, nei tappeti come lo zio Avraam, o in altri campi) e fallito morale, colosso dall’anima d’argilla, e insomma “un miscuglio di vizio e colpa”. Quel che Stavros salva dal suo naufragio, per rispondere alla domanda che mi facevo, non è soltanto quella coscienza viva, piena di cicatrici che continuano a sanguinare, è anche, anzitutto, lo slancio animale della vita. Al termine della ricerca d’iden116


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tità, già accennata dagli eroi di La valle dell’Eden e Splendore nell’erba, che continua qui in una luce più crepuscolare, c’è la scintilla vitale che resta - fisicamente - della vita, che illumina e “reincanta” il disincanto. L’angelo, per quanto caduto, mantiene, deaniano o “giallelesco”, i poteri di seduzione dell’angelo; che sono indubbiamente accresciuti proprio dalla sua oscurità (nerezza). Sembra dire che chi vuole la vita vuole i mezzi (per vivere) e anche che è indispensabile restare in vita per poter testimoniare. Non possiamo, per liberarci del personaggio (e, dietro di lui, liberarci di Kazan e della sua opera), accontentarci di contrapporre i due atteggiamenti “morire in piedi” e “vivere in ginocchio”. Come il vitello d’oro, l’uomo di Kazan è in piedi; con il pugno del mea culpa fermo sul petto 12. Sono la pratica del Metodo, i suoi scandagliamenti dell’inconscio, i tormenti interiori, le nevrosi a esigere da Kazan e dai suoi personaggi dei moventi fondati su principi così complessi e maliziosi? O, al contrario, Kazan e i suoi eroi sarebbero degli incalliti lupi-pecore, dei carnefici-vittime che si vergognano di se stessi, insomma degli heautontimoroumenos che non avrebbero potuto esprimersi completamente senza l’aiuto del sistema 12 Eppure, in ultima analisi, e proprio alla fine del film, Stavros appare anche lui come uno di quegli esseri generosi che si aprono all’altro «… E fece venire tutti i suoi, uno per uno», è questo il risultato del suo grande progetto, il suo big plan, la realizzazione della sua profezia («e saranno fieri di me»). Non c’è solo l’egoismo, qui, ma anche il senso del sacrificio che ha guidato quest’eroe per il quale gli altri esistono e come, e ne fanno fede le sue ultime parole: «People’s waiting», e cioè tanto i clienti di cui bisogna lustrare le scarpe che, al di là dei mari, i quattro fratelli e le tre sorelle di cui pagherà la traversata. Battuto, derubato, carico di pene, prostituito, criminale, dieci volte dannato, egli ha perso la sua anima per preservare il corpo, ma anche il corpo dei suoi. Il suo sacrificio è stato di restar a ogni costo in vita, poi di fare fortuna - un sacrificio velocemente riconfortante, sul piano sociale - e di non avere l’anima immacolata dei martiri Vartan, Garabet, Hohannes. Quest’anima candida, questa buona coscienza, non sono forse il massimo dell’egoismo, un lusso agli occhi delle famiglie che aspettano? La morte di Hohannes salva Stavros ma priva sua madre del pozzo che egli voleva offrirle. Lassù devono pur saperlo, pronunciare un giudizio finale non è facile. Per i suoi, Stavros sarà un eroe. Per il mondo, se avrà successo, diventerà presto qualcuno “assai perbene”. Ma ai propri occhi, come a quelli di Dio suo padre e creatore, il nipote, il cineasta Elia Kazan, rimarrà assolutamente un mascalzone. Il suo riscatto possibile e oggettivo, Kazan lo mette quasi fuori dal film: un commento in extremis. Non permette al suo eroe di giustificarsi completamente. Stavros e Kazan optano per la cattiva coscienza, il tormento, la circostanza aggravante del conforto materiale. Per questo allego come semplice nota quest’ultimo rovesciamento - duplicità delle duplicità - che non smentisce l’analisi delle pagine precedenti.

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stanislavskiano? Non sapremo mai qual è il primo anello della catena “vizioso-colpevole”, ma resta il fatto che Il ribelle dell’Anatolia porta alla loro massima espressione i metodi di lavoro delle opere passate. Regole del realismo esterno: Kazan comincia il suo film in Turchia, lo continua in Grecia, lo termina ovviamente in America. Regole del realismo interno: pesca nelle ampie riserve dell’Actors’ Studio (Lou Antonio, Gregory Rozakis, Joanna Frank, Linda Marsh), tra le sue vecchie conoscenze (Paul Mann, Harry Davis, Elena Karm, Robert H. Harris, John Merley), non assolda nessuno che non sia già in qualche modo della sua famiglia (Paul Mann è stato suo collaboratore al Lincoln Center Repertory e Gregory Rozakis, l’ha visto all’opera in una pièce di William Inge). Realismo di secondo grado e pirandelliano, che abbiamo già visto manifestarsi in Kazan: secondo Ciné-Revue, Stathis Giallelis ha vissuto la stessa storia di Stavros, è venuto a sue spese dalla Grecia a New York per ricordare a Kazan la sua promessa di scritturarlo e convincere il regista (che all’epoca pensava a Michel Subor) di essere perfetto per il personaggio. Lacune del realismo: qui tutti si esprimono in inglese (il che è verosimile solo nelle ultime sequenze) e ciascuno con un accento diverso (chi greco, chi turco, chi vero, chi affettato), formando una colonna sonora che è riuscita a irritare lo spettatore americano. All’improvviso, Il ribelle dell’Anatolia adotta un registro più alto. Non si tratta del modernismo innovativo di alcune sequenze del film precedente (al contrario, qui ci saranno addirittura, verso la fine, alcune sovrimpressioni vecchiotte), ma di una semplicità ereditata dal terzultimo film, unita a un’elevatezza e a un’ampiezza sconosciute. La semplicità e intensità emotiva della Bibbia, che S.N. Behrman salutava nelle pagine di Il sorriso dell’Anatolia, Kazan la riproduce sullo schermo, raggiungendo senza sforzo il mito. Il ribelle dell’Anatolia, e questo è per l’autore anche un ritorno alle origini, è il suo terzo film “russo”. L’epopea e il lirismo sono presenti e tuttavia radicati in un’umanità così piena e così poco contraffatta da farli passare in secondo piano. Come se l’Ejzenštejn dell’altroieri e il Dovzenko di ieri cedessero oggi il passo a Marc Donskoj. Oltre al russo, Kazan fa riferimento anche al suo più stretto cugino d’America, John Ford, per il quale l’autore di Pinky non ha mai nascosto un’ammirazione senz’altro piena di debiti. La partenza di Stavros al crepuscolo, concerto di ombre cinesi tra canti locali, la ricomparsa nella colonna sonora delle melodie del paese natale, la comicità di quella scena in chiesa in cui, con 118


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gli occhi e con il mento, si designano i futuri partner di una serratissima contrattazione di dote, sono fordiani, quanto è fordiana la saggezza profonda (di sguardo e di gambe) della cinepresa. Donskoj, Ford: ci si sente davvero un po’ allo stretto in un mondo di riferimenti esclusivamente cinematografici. Kazan fa il suo ingresso anche nella famiglia Rodin-Balzac e la lettura del libro lo conferma dopo la visione del film: Kazan scolpisce a piene e potenti mani una pasta pienamente umana. Non ci si può far nulla se la parola “pieno” ritorna così di frequente sotto la penna, tanto è il senso di pienezza che qui si impone! L’autore sviluppa la propria arte in due direzioni contradditorie, cerca di incorporare nel suo racconto il globale e il frammentario, di sposare nel suo universo l’atomo e il cosmo. La progressione verso la globalità è la prima conseguenza della redazione preliminare dello script. Lavorando sui canovacci di altri autori - sceneggiature e, ancora più spesso, pièces - nella veste di tecnico dello stanislavskismo, Kazan era diventato un maestro nell’arte della “scena”, la scena come momento drammatico quasi del tutto autonomo, valorizzato con un’applicazione e un’efficacia sbalorditive, poi reinserito nella continuità drammatica dell’insieme con una più o meno perfetta economia di ritmo. Si potrebbe dire che la scena si espande qui alle dimensioni dell’atto, se questa nozione teatrale non rivelasse immediatamente la sua inadeguatezza. Piuttosto, è come se un maestro del ritratto si misurasse con un affresco o uno specialista dell’accordo non padroneggiasse anche il movimento sinfonico. Molto semplicemente (e potrebbe sembrare strano per un regista al suo sedicesimo film, ma schematizzo un po’), è come se Kazan scoprisse la sequenza. Il film ne conta sei, più un epilogo, corrispondenti alle sette parti del romanzo, ognuna con il suo tono e la sua coloritura, le sue dominanti ritmiche e plastiche, la sua esplorazione geografica, la sua tavolozza psicologica. L’inizio anatolico, violento e contrastato, lascia spazio al picaresco crudele del viaggio verso Costantinopoli, che sfocia nel realismo e nei colori infernali del lavoro nel porto. Si apre quindi l’oasi dolce e rinfrancante della tentazione di Sinnikoglou, cui succedono la confusa compassione dell’episodio di Kebabian, la traversata in mare carica di minacce e speranza e infine l’anticamera concentrazionaria (Ellis Island) di un’America di una durezza molto familiare. In certi casi, la sequenza si dispone intorno al nucleo kazaniano della scena e spesso si organizza intorno a un personaggio particolare e provvisorio; ma, che si tratti di un personaggio o di una scena, il 119


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ritratto è di una raffinatezza e di un impatto tali e il testo, perfino quando è dilatato, rimane di una tale poetica densità da alimentare l’intera sequenza, che ne risulta moltiplicata. Alle quotazioni di una Wall Street dell’estetica, è evidente che Kazan non è mai stato così ricco. Garabet direbbe che gioca con «il denaro vero» e non conosco nella sua opera, e neppure nel cinema, molte creazioni geniali come questo turco Abdul, di un sadismo velato e ossessionante (che ha una serie di “scene”), o come il “re” Aleko (che in pratica ne ha una sola), despota obeso e benevolo della dinastia dei Sinnikoglou. Contemporaneamente, Kazan rafforza l’unità organica del suo discorso: l’inquadratura. Parte di un momento drammatico debitamente costruito e sviluppato, o iscritta in una pausa narrativa o ancora blocco ellittico, essa non rinuncia mai alle proprie ambizioni. In un’arte così concentrica e sintetica come può essere quella di Kazan, essa conserva tutta la sua intensità, quando non ha il compito di narrare, da sola, tutto un episodio. Questa condensazione non va in senso contrario rispetto alla dilatazione in sequenze di cui parlavo prima. In realtà, condensazione e dilatazione concorrono alla stessa funzione: corrodere, dal basso e dall’alto, nel senso dell’istante e in quello della durata, dunque da tutte le estremità possibili, il nodo drammatico della “scena”. Eliminare in qualche maniera questo nodo, ridurlo il più possibile, distaccarlo dalle sue tiranniche potenzialità teatrali per rimodellarlo secondo delle categorie, non tanto letterarie, plastiche o musicali, quanto le più vicine possibili ai ritmi e agli slanci non codificati della vita. «Cercherò di esprimermi di più in termini plastici», confidava Kazan all’indomani di Fango sulle stelle e di Splendore nell’erba. Di fatto, l’inquadratura qui si affida con più decisione alla sua pura forza visiva. Gli oggetti, posti semplicemente tra le mani o sotto gli occhi dei protagonisti, sono investiti da una freschezza espressiva che data degli inizi del cinema. Il coltello dato a Stavros dalla nonna e con cui egli ucciderà Abdul; le scarpe regalate a Hohannes, che questi lascerà sul ponte della nave la notte del suo suicidio; il fez di Vartan che Stavros indossa il giorno della sua partenza e che si toglierà solo alla vista dell’America; la paglietta regalata da Sophia Kebabian che lo naturalizza cittadino americano il giorno del suo sbarco; il vestito da scaricatore che si porta fino a New York. Tutti questi oggetti hanno un valore sentimentale, o se si vuole simbolico, ma non maggiore di quello che hanno nella vita, dove sono la testimonianza di un dono o di una schiavitù, di una vecchia 120


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amicizia o di un periodo concluso dell’esistenza. La loro presenza è un segno permanente, che non richiede inquadrature particolari, vantaggioso sostituto di discorsi più lunghi. Attraverso questi oggetti si manifesta, naturalmente l’ossessione dell’America che Stavros coltiva nel corso di tutto il film; il ricorso alle parole non potrebbe che distruggerne il carattere spesso inconscio. L’America è, in successione: una nave ferma al molo, il rumore della sua sirena (“oggetto” sonoro), il manifesto di un transatlantico («Il S.S. Wilhelm Kaiser per l’America»), il plastico dello stesso nell’ufficio della compagnia, un viaggiatore con la paglietta, due riviste americane, un Saturday Evening Post e un Ladies’ Home Journal; all’arrivo è, ovviamente, la Statua della Libertà e la bandiera a stelle e strisce mossa dal vento, immagini iper-simboliche (e immancabili in un film sull’immigrazione), ma ricche solo dei significati di cui le tre ore precedenti hanno saputo caricarle. Le qualità dell’artista bastano per definire plastico questo ricorso alla visualità. Kazan e il suo direttore della fotografia Haskell Wexler, anche lui cineasta, lo confermano con il loro talento. La loro cinepresa non ha bisogno di scegliere tra i diversi “epiteti” con cui la si gratifica di solito (stilo, pennello, cesello, archetto o chissà cos’altro) e che formano con essa dei nomi composti che i grandi cineasti considerano peraltro inutili pleonasmi. Cinepresa-pennello, quella di Il ribelle dell’Anatolia lo è senz’altro, sia che sovrasti possentemente le valli dell’Anatolia o sprofondi nell’ombra dantesca di una cantina mitragliata, che segua le prefiche tipiche della tragedia o scopra con un travelling Costantinopoli, che capti il tremore ammirato che accompagna un passaggio di donne al sole o affronti le celle chiuse dalle inferriate di Ellis Island con la “grana” deteriorata di un “cinema-verità” improvvisamente attualissimo e tuttavia impossibile. Il cineasta di Il ribelle dell’Anatolia conferma con la sua cinepresa che, oltre a essere il grande direttore di attori che giustamente vuole la sua leggenda, e un autore-dialoghista dal temperamento senza pari, è anche un “direttore di fotografi” tra i più costantemente ispirati. Oggi In questi ultimi giorni del 1965, Elia Kazan è arrivato a un’altra tappa cruciale della sua carriera. Da due anni non tocca una cinepresa e da uno non affronta le luci della ribalta. Scrive. 121


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Ha dovuto affrontare tre prove successive nel giro di qualche mese: il terribile lutto che l’ha colpito durante le prove di Dopo la caduta, la brutale rottura con il Lincoln Center Repertory Theatre e il relativo insuccesso di pubblico di Il ribelle dell’Anatolia, che rischia di ripetere il fallimento commerciale di Un volto nella folla. Kazan ha accusato il triplice colpo, diserta i riflettori, si ritira in se stesso e smaltisce l’amarezza del fiasco e del dolore. Come una tigre ferita, si è raccolto su se stesso per leccarsi le ferite e per spiccare un nuovo balzo. «Ho rimesso in discussione molte cose che finora avevo considerato naturali, sia di me stesso - della mia opera e del mio carattere - che della civiltà in cui viviamo». Quest’esperienza è l’argomento di un voluminoso e ambiziosissimo romanzo di cui ha appena terminato la prima stesura, ma che più avanti potrà diventare un film, seguendo la metamorfosi già subita da America, America. Senza aspettare il risultato di questa paziente gestazione Kazan ha cominciato, da solo, la stesura di una sceneggiatura che è la continuazione del suo ultimo film. A Manhattan, cinque anni dopo il suo sbarco, ritroveremo Stavros in questa saga tanto attesa che è “la formazione di un americano”. Tutto, in quest’anno falsamente improduttivo, corrisponde al cineasta delle pagine precedenti. Più che mai artefice dei suoi progressi, Kazan raggiunge le vette solitarie del creatore privo di compiacimento, che volta le spalle alle facilità del pubblico intrattenitore e a cui il successo restituisce la scortesia. La sua grandezza è più che mai quella di una ricerca disperata, quasi masochistica, della sua sincerità, della sua identità, della sua verità. Intestardendosi a scavare in se stesso, porta alla luce la sua ricerca nel mondo e la sua visione degli altri. Forte della maggiore conoscenza che ha di sé, può sfruttare con più efficacia le proprie capacità ed esigere di più da un’arte che con ambizione ostinata serve e nobilita. Così prosegue l’itinerario di quell’evoluzione che di un attore fece un regista, e di un regista un autore. Un autore dietro cui si rivela, con sempre più precisione e complessità e sempre meno sufficienza e facilità, un uomo.

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FILMOGRAFIA 13 (stabilita in collaborazione con Bernard Eisenschitz e Elia Kazan) Attore 1934 Pie in the Sky di Ralph Steiner, c.m., 10 mn. Int.: Elnan Koalish e Elia Kazan. 1940 City for Conquest di Anatol Litvak. Personaggio: Googie, un gangster. Int.: James Cagney, Ann Sheridan, Anthony Quinn, Arthur Kennedy, Frank McHugh. 1941 Blues in the Night di Anatol Litvak. Personaggio: un clarinettista. Int.: Priscilla Lane, Richard Whorf, Betty Field. Regista prima di Hollywood 1937 The People of the Cumberlands, c.m., 20 mn. Produzione: Frontier Films. Sceneggiatura: Elia Kazan. Fotografia: Ralph Steiner. Int.: non professionisti. 1941 It’s Up to You. Durata: 120 mn. Produzione: Ministero dell’Agricoltura. Sceneggiatura: Arthur Arent. Musica: Earl Robinson. Int.: Helen Tamiris. Hollywood e seguenti 1944 A Tree Grows in Brooklyn (Un albero cresce a Brooklyn). Sceneggiatura: Tess Slesinger, Frank Davis, dal romanzo di Betty Smith. Fotografia: Leon Shamroy. Musica: Alfred Newman.

13 Necessario complemento a questa monografia esemplare erano una filmografia e una teatrografia accuratissime, che ci è sembrano opportuno lasciare, la prima nella sua integrità, la seconda essenzializzata nei cast, l’una e l’altra segni di una ricerca non solo acutissima nell’analisi, ma filologicamente precisissima, e utili a una lettura critica del saggio. Interessanti ma marginali rispetto all’impostazione di questo libro di scritti di Roger Tailleur, ci sono invece sembrati il Panorama critique, i Témoignages, gli Eléments de biographie, la Bibliographie, più legati all’impostazione della collana. [n.d.c.]

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Scenografia: Lyle R. Wheeler (a.d.), Thomas Little (s.d.). Montaggio: Dorothy Spencer. Eff. spec.: Fred Sersen. Costumi: Bonnie Cassin. Produzione: Louis D. Lighton, 20th Century Fox, 128 mn. Int.: Dorothy McGuire (Kathy Nolan), Joan Blondell (zia Sissy), James Dunn (Johnny Nolan), Lloyd Nolan (det. McShayne), Peggy Ann Garner (Francie Nolan), Ted Donaldson (Neely Nolan), James Gleason (McGarrity), Ruth Nelson (Miss McDonolough), John Alexander (Steve Edwards), J. Farrell McDonald (Garney), B.S. Pully (mercante d’alberi di Natale), Charles Halton (Mr. Barker), Art Smith (distributore di ghiaccio), Ferike Bozos (nonna Rommely), Lilian Bronson (libraia), Peter Cusanelli (barbiere), Adeline de Walt Reynolds (Mrs. Waters), George Melford (Mr. Spencer), Mae Marsh e Edna Jackson (sorelle Timmore), Vincent Graeff (Henry Gaddis), Susan Lester (Flossie Gaddis), Johnnie Barnes (Mr. Grackenbox), Alec Craig (Werner), Al Bridge (Charlie), Joseph J. Greene (Hassler), Virginia Brissac (Miss Tilford), Harry Harvey Jr (Herschel), Robert Andersen (Angie), Erskine Sanford (impresario di pompe funebri), Martha Wentworth (la madre), Francis Pierlot (il prete). Oscar per il miglior attore non protagonista a James Dunn. 1946 The Sea of Grass (Mare d’erba). Scenegg.: Marguerite Roberts e Vincent Lawrence, dal romanzo di Conrad Richter. Fot.: Harry Stradling. Mus.: Herbert Stothart. Scenogr.: Cedric Gibbons, Paul Groesse (a.d.), Edwin B. Willis, Mildred Griffiths (s.d.). Mont.: Robert J. Kern. Eff. spec.: A. Arnold Gillespie, Warren Newcombe. Cost.: Walter Plunkett. Prod.: Pandro S. Berman, MGM, 121 mn. Int.: Spencer Tracy (colonnello Jim Brewton), Katharine Hepburn (Lutie Cameron), Melvyn Douglas (Brice Chamberlain), Robert Walker (Brock Brewton), Phylis Thaxter (Sarah Beth Brewton), Edgar Buchanan (Jeff), Harry Carey (Dr. Reid), Ruth Nelson (Selina Hall), Robert Armstrong (Floyd McCurtin), James Bell (Sam Hall), Charles Trowbridge (George Cameron), Russel Hicks (maggiore Harney), Morris Ankrum (Crane), Robert Barrat (White), William Phipps (Brandy), Trevor Bardette (Andy Boggs). 1946 Boomerang (id.). Scenegg.: Richard Murphy, dall’articolo “The Perfect Case” di Anthony Abbott (pseudonimo di Fulton Oursler). Fot.: Norbert Brodine. Mus.: David Buttolph. Scenogr.: Richard Day, Chester Gore, Thomas Little (s.d.). Mont.: Harmon Jones. Eff. spec.: Fred Sersen. Prod.: Louis de Rochemont, 20th Century Fox, 88 mn. Int.: Dana Andrews (Henry L. Harvey), Jane Wyatt (Mrs. Harvey), Lee J. Cobb (Robinson), Sam Levene (Woods), Cara Williams (Irene Nelson), Arthur Kennedy (John 124


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Waldron), Robert Keith (McGreery), Taylor Holmes (Wade), Leona Roberts (Mrs. Grossman), Philip Coolidge (Grossman), Ben Lackland (James), Ed Begley (Harris), Wyrley Birch (padre Lambert), Karl Malden (lt. White), Lester Lonergan (Gary), Lewis Leverett (Whitney), Barry Kelley (sergente Dugan), Richard Garrick (Mr. Rogers), Richard Murphy, Joe Kazan (Mr. Lukash), Ida McGuire (Miss Roberts), Clay Clement (giudice Tate), Helen Carew (Annie), Johnny Stearns (rev. Gardiner), Guy Thomajan (Cartucci), Lucia Segher (Mrs. Lukash), George Petrie (O’Shea), John Carmody (Callahan), E. J. Ballantine (McDonald), William Chaclee (Stone), Edgar Stehli (colonnello), Jimmy Dobson (Bill), Bernard Hoffman (Tom), Lee Roberts (criminale), Pauline Myers (una ragazza), Jacob Sandler (barman), Herbert Rather (inquirente), Fred Stewart (Graham), Lawrence Paquin (sceriffo), Anna Minot (segretaria), Dudley Sadler (Dr. Rainsford), Walter Greaza (sindaco Swayze), Helen Hatch (Miss Mardon). 1947 Gentleman’s Agreement (Barriera invisibile). Scenegg.: Moss Hart, dal romanzo di Laura Z. Hobson. Fot.: Arthur Miller. Mus.: Alfred Newman. Scenogr.: Lyle R. Wheeler, Mark-Lee Kirk (a.d.), Thomas Little, Paul S. Fox (s.d.). Mont.: Harmon Jones. Eff. spec.: Fred Sersen. Cost.: Kay Nelson, Charles Le Maire. Prod.: Darryl F. Zanuck, 20th Century Fox, 118 mn. Int.: Gregory Peck (Phil Green), Dorothy McGuire (Kathy Lacey), John Garfield (Dave Goldmann), Celeste Holm (Anne Dettrey), Anne Revere (Mrs. Green), Dean Stockwell (Tommy Green), Albert Dekker (John Minifee), June Havoc (Elaine Wales), Jane Wyatt (Jane), Nicholas Joy (Dr. William Craigie), Sam Jaffe (Pr. Liebermann), Harold Vermilyea (Lou Jordan), Robert Warwick (Sterling White), Victor Kilian (Olsen), Ranson S. Sherman (Bill Payson), Roy Roberts (Mr. Calkins), Curt Conway (Bert McAnny), John Newlanl (Bill), Louise Lorimer (Miss Miller), Howard Negley (Tingler), Frank Wilcox (maître d’hotel), Morgan Farley (impiegato), Kathleen Lockart (Mrs. Minifee), Marlyn Monk (receptionist). Oscar per il miglior film e per la miglior regia. 1949 Pinky (Pinky, la negra bianca). Scenegg.: Philip Dunne e Dudley Nichols, dal romanzo Quality di Cid Rocketts Summer. Fot.: Joe McDonald. Mus.: Alfred Newman. Scenogr.: Lyle R. Wheeler, J. Russell Spencer (a.d.), Thomas Little, Walter M. Scott (s.d.). Mont.: Harmon Jones. Cost.: Charles Le Maire. Prod.: Darryl F. Zanuck, 20th Century Fox, 102 mn. Int.: Jeanne Crain (Pinky Johnson), Ethel Barrymore (Miss Em), Ethel Waters (Granny Dicey Johnson), William Lundigan (Dr. Thomas Adams), Basil Ruysdael (John Walters), Kenny Washington (Dr. Canady), Nina Mae 125


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McKinney (Rozelia Walters), Griff Barnett (Dr. Joe), Frederick O’Neal (Jake Walters), Evelyn Warden (Melba Wooley), Raymond Greenleaf (giudice Shoreham), Dan Riss (Stanley), William Hansen (Mr. Goolby), Arthur Hunnicutt (capo della polizia). Pinky era stato cominciato da John Ford che, però, rinunciò dopo pochi giorni di riprese per ragioni rimaste oscure (malattia, malintesi con Zanuck); Kazan gli subentrò e rigirò tutte le scene che Ford aveva già realizzato. 1950 Panic in the Streets (Bandiera gialla). Scenegg.: Richard Murphy, dall’adattamento di Daniel Fucks di un soggetto di Edward e Edna Anhalt. Fot.: Joe McDonald. Mus.: Alfred Newman. Scenogr.: Lyle R. Wheeler, Maurice Ransford (a.d.), Thomas Little, Fred J. Rode (s.d.). Mont.: Harmon Jones. Eff. spec.: Fred Sersen. Cost.: Charles Le Maire. Prod.: Sol C. Siegel, 20th Century Fox, 96 mn. Int.: Richard Widmark (Dr. Clinton Reed), Paul Douglas (cap. Warren), Barbara Bel Geddes (Nancy Reed), Walter Jack Palance (Blackie), Zero Mostel (Fitch), Dan Riss (Neff), Alexis Minotis (John Mefaris), Guy Thomajan (Poldi), Tommy Cook (Vince), Edward Kennedy (Jordan), H. T. Tsiang (cuoco), Lewis Charles (Kockak), Ray Muller (Dubin), Tommy Rettig (Tommy), Lenka Peterson (Jeanette), Pat Walshe (Pat), Paul Hostetler (Dr. Gafney), George Ehmig (Kleber), Joseph Schilleci (Lee), Waldo Pitkin (Ben), Leo Zinser (sergente Pelps), Beverly C. Brown (Dr. McKay), Emile Meyer (Beauclyde), William A. Dean, H. Waller Fowler Jr, Red Noad, Val Winter, Wilson Bourg Jr, Tiger Joe Marsh. 1950 A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama Desiderio). Scenegg.: Tennessee Williams, dall’adattamento del suo dramma di Oscar Saul. Fot.: Harry Stradling. Mus.: Alex North. Scenogr.: Richard Day (a.d.), George James Hopkins (s.d.). Mont.: David Weisbart. Cost.: Lucinda Ballard. Prod.: Charles K. Feldman, Charles K. Feldman Group Productions, Warner Bros., 122 mn. Int.: Vivien Leigh (Blanche DuBois), Marlon Brando (Stanley Kowalski), Kim Hunter (Stella Kowalski), Karl Malden (Harold Mitchell, Mitch), Rudy Bond (Steve Hubbell), Nick Dennis (Pablo Gonzales), Peg Hillias (Eunice Hubbell), Wright King (giovane fattorino), Richard Garrick (dottore), Anne Dere (infermiera), Edna Thomas (donna messicana), Mickey Kuhn (un marinaio). Oscar a Vivien Leigh (attrice protagonista), Kim Hunter (attrice non protagonista), Karl Malden (attore non protagonista), Richard Day (art director), George James Hopkins (scenografie). 1951 Viva Zapata! (id.). Scenegg.: John Steinbeck, dal libro Zapata the Unconquerable di Edgcumb Pichon. Fot.: Joe 126


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MacDonald. Mus.: Alex North. Scenogr.: Lyle R. Wheeler, Leland Fuller (a.d.), Thomas Little, Claude Carpenter (s.d.). Mont.: Barbara McLean. Cost.: Travilla, Charles Le Maire. Prod.: Darryl F. Zanuck, 20th Century Fox, 113 o 125 mn. Int.: Marlon Brando (Emiliano Zapata), Jean Peters (Josefa Espejo), Anthony Quinn (Eufemio Zapata), Joseph Wiseman (Fernando Aguirre), Arnold Moss (don Nacio de la Torre), Lou Gilbert (Pablo), Alan Reed (Pancho Villa), Margo (Posadera), Harold Gordon (Francisco Madero), Mildred Dunnock (señora Espejo), Frank Silvera (gen. Huerta), Nina Varela (tia Espejo), Florenz Ames (señor Espejo), Bernie Gozier (zapatista), Frank De Kova (col. Jesùs Guardajo), Fay Roope (Porfirio Diaz), Abner Biberman (capitano), Harry Kingston (don Garcia), Wil Kuluva (Làzaro), Joseph Granby (gen. Fuerta), Pedro Gegas (Inocente), Richard Garrick (vecchio generale), Ross Bagdasarian (ufficiale), Leonard George (Maeido), Fernanda Eliseu (moglie di Fuentes), Lisa Fusaro (moglie di Garcia), Brile Mitchel (moglie di Nacio). Oscar a Anthony Quinn come miglior attore non protagonista. 1952 Man on a Tightrope (Salto mortale). Scenegg.: Robert E. Sherwood, dal racconto International Incident di Neil Paterson. Fot.: Georg Krause. Mus.: Franz Waxman, canzoni di Bert Reisfeld. Scenogr.: Hans H. Kuhnert, Theo Zwirsky. Mont.: Dorothy Spencer. Prod.: Gerd Oswald per Robert L. Jacks, 20th Century Fox, 105 mn., girato in Germania. Int.: Fredric March (Karel Cernik), Gloria Grahame (Zama Cernik), Terry Moore (Tereza Cernik), Cameron Mitchell (Joe Vosdek), Richard Boone (Krofta), Paul Hartman (Jaromir), Pat Henning (Konradin), Alexander D’Arcy (Rudolph), il nano Hansi (Kalka), Dorothea Wieck (la duchessa), Adolphe Menjou (ufficiale di polizia Fesker), Robert Beatty (Barovic), John Dehner (il capo), William Castello (il capitano), Margaret Slezak (direttrice dell’orchestra), Edelweiss Malchin (Vina), Philipp Kenelly (il sergente), e il circo Brumbach. 1954 On the Waterfront (Fronte del porto.). Scenegg.: Budd Schulberg, da una serie di articoli di Malcolm Johnson. Fot.: Boris Kaufman. Mus.: Leonard Bernstein. Scenogr.: Richard Day (a.d.). Mont.: Gene Milford. Prod.: Sol Spiegel, Horizon Pictures, Columbia, 108 mn. Int.: Marlon Brando (Terry Malloy), Eva Marie Saint (Edie Doyle), Lee J. Cobb (Johnny Friendly), Karl Malden (padre Barry), Rod Steiger (Charley Malloy), Pat Henning (“Kayo” Dugan), Leif Erickson (Glover), Arthur Keegan (Jimmy), James Westerfield (Big Mac), Tony Galento (Truck), Tami Mauriello (Tillio), John Hamilton (“Pop” Doyle), John Helderbrand (Mutt), Rudy Bond (Moose), Don Blackman (Luke), Abe Simon (Barney), 127


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Barry McCollum (J.P.), Mike O’Dowd (Specs), Martin Balsam (Gillette), Fred Gwynne (Slim), Ann Hegira (Mrs. Collins), Thomas Hanley (Tommy), Joyce Leal. 8 Oscar: miglior film, miglior regia (Kazan), sceneggiatura (Budd Schulberg), fotografia (Boris Kaufman), scenografia (Richard Day), montaggio (Gene Milford), miglior attore protagonista (Marlon Brando), miglior attrice non protagonista (Eva Marie Saint). 1954 East of Eden (La valle dell’Eden). Scenegg.: Paul Osborn, dal romanzo di John Steinbeck. Fot.: Ted McCord (Cinemascope, Warnercolor). Mus.: Leonard Rosenmann. Scenogr.: James Basevi, Malcolm Bert (a.d.), George James Hopkins (s.d.). Mont.: Owen Marks. Cost.: Anna Hill Johnstone. Prod.: Elia Kazan, Warner Bros., 115 mn. Int.: Julie Garris (Abra), James Dean (Cal Trask), Raymond Massey (Adam Tarsk), Richard Davalos (Aron Trask), Jo van Fleet (Kate), Burl Ives (sceriffo Sam Cooper), Albert Dekker (Will Hamilton), Lois Smith (Anne), Harold Gordon (Mr. Albrecht), Timothy Carey (Joe), Mario Siletti (Piscora), Lonny Chapman (Roy), Nick Dennis (Rantany). Oscar a Jo van Fleet come miglior attrice non protagonista. 1956 Baby Doll (id.). Scenegg.: Tennessee Williams (in realtà adattamento di Elia Kazan di due drammi di Williams: The Long Stay Cut Short o The Unsatisfactoty Meal e 27 Wagons Full of Cotton). Fot.: Boris Kaufman. Mus.: Kenyon Hopkins. Scenogr.: Richard Sylbert, Paul Sylbert (a.d.). Mont.: Gene Milford. Cost.: Anna Hill Johnstone. Prod.: Newtown Productions (Elia Kazan), Warner Bros., 114 mn. Int.: Karl Malden (Archie Lee Meigham), Carroll Baker (Baby Doll), Eli Wallach (Silva Vacarro), Mildred Dunnock (zia Rose Comfort), Lonny Chapman (Rock), Eades Hogue (marshall), Noah Williamson (il sindaco), John S. Dudley (il dottore), Madeleine Sherwood (nurse), Will Lester (sceriffo). 1956 A Face in the Crowd (Un volto nella folla). Scenegg.: Budd Schulberg, dal suo racconto Your Arkansas Traveller della raccolta Some Faces in the Crowd. Fot.: Harry Stradling, Gayne Rescher. Mus.: Tom Glazer. Scenogr.: Richard Sylbert, Paul Sylbert (a.d.). Mont.: Gene Milford. Cost.: Anna Hill Johnstone. Prod.: Newtown Productions (Elia Kazan), Warner Bros., 126 mn. Int.: Andy Griffith (Lonesome Rhodes), Patricia Neal (Marcia Jeffries), Anthony Franciosa (Joey De Palma), Walter Matthau (Mel Miller), Lee Reemick (Betty Lou Fleckum), Percy Waram (col. Hollister), Rod Brasfield (Beanie), Charles Irving (Mr. Luffler), Howard Smith (J.B. Jeffries), Paul McGrath (Macey), Kay Medford (prima Mrs. Rodhes), Alexander Kirkland (Jim Collier), Marshall “Mickey” 128


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Neilan (senatore Fuller), Big Jeff Bess (sceriffo), Henry Sharp (Abe Steiner), P. Jay Sidney (Llewellyn), Eva Vaughan (Mrs. Cooley). 1960 Wild River (Fango sulle stelle). Scenegg.: Paul Osborn, dai romanzi Mud on the Stars di William Bredford Huie e Dunbar’s Cove di Borden Deal. Fot.: Ellsworth Fredericks (Scope, De Luxe). Mus.: Kenyon Hopkins. Scenogr.: Lyle R. Wheeler e Herman R. Blumenthal (a.d.), Walter M. Scott, Joseph Kish (s.d.). Mont.: William Reynolds. Prod.: Elia Kazan, 20th Century Fox, 110 mn. Int.: Montgomery Clift (Chuck Glover), Lee Reemick (Carol), Jo van Fleet (Ella Garth), Albert Salmi (Hank Bailey), Barbara Loden (Betty Jackson), Frank Overton (Walter Clark), Malcolm Atterbury (Sy Moore), Robert Earl Jones (Ben), Bruce Dern (Jack Roper), James Steakley (il sindaco Maynard), Hardwick Stuart (marshall Hogue). 1960 Splendor in the Grass (Splendore nell’erba). Scenegg.: William Inge. Fot.: Boris Kaufman (Technicolor). Mus.: David Amran. Scenogr.: Richard Sylbert (a.d.). Mont.: Gene Milford. Cost.: Anna Hill Johnstone. Coreografie: George Tapps. Prod. Ass.: William Inge, Charles Maguire. Prod.: Newtown Productions (Elia Kazan), Warner Bros., 124 mn. Int.: Natalie Wood (Wilma Dean “Deanie” Loomis), Warren Beatty (Bud Stamper), Pat Hingle (Ace Stamper), Audrey Christie (Mrs. Loomis), Barbara Loden (Ginny Stamper), Zohra Lampert (Angelina), Fred Stewart (Del Loomis), Joanna Roos (Mrs. Stamper), Jan Norris (Juanita Howard), Gary Loockwood (Toots), Sandy Dennis (Kay), Crystal Field (Hazel), Marla Adams (June), Lynn Loring (Carolyn), John McGovern (Doc Smiley), Martine Bartlett (Miss Matcalf), Charles Robinson (Johnny Masterson), Sean Garrison (Glenn), William Inge (rev. Whiteman), Phyllis Diller (Texas Guinan), Buster Bailey (vecchio al Country Club), Jake La Motta (l’uomo che porta le ostriche), Billy Graham e Charlie Norkus (ragazzi che si picchiano con Bud al parcheggio). 1964 America, America (Il ribelle dell’Anatolia). Scenegg.: Elia Kazan, dal suo romanzo America, America. Fot.: Haskell Wexler. Mus.: Manos Hadjidakis, parole di Nikos Gatsos. Scenogr.: Gene Callahan. Mont.: Dede Allen Spencer. Cost.: Anna Hill Johnstone. Produzione: Elia Kazan, Warner Bros., 168 mn. Int.: Stathis Giallelis (Stavros Topouzoglou), Frank Wolff (Vartan Damadian), Harry Davis (Isaac Topouzoglou), Elena Karam (Vasso Topouzoglou), Estelle Hemsley (la nonna), Gregory Rozakis (Hohannes Gardashian), Lou Antonio (Abdul), Salem Ludwig (Odysseus Topouzoglou), John Marley (Garabet), Joanna Frank 129


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(Vartuhi), Linda Marsh (Thomna Sinnikoglou), Paul Mann (Aleko Sinnikoglou), Robert H. Harris (Aratoon Kebabian), Katharine Balfour (Sophia Kebabian). TEATROGRAFIA (stabilita in collaborazione con Bernard Eisenschitz e Elia Kazan) Attore 1932 Chrysalis di Rose Albert Porter. Regia: Theresa Helburn. Int.: Margaret Sullivan, Humphrey Bogart, June Walker. Elia Kazan: Louis, un barman. 1933 Men in White di Sidney Kingsley. Regia: Lee Straberg. Int.: Alexander Kirkland, Margaret Baker, J. Edward Bromberg, Clifford Odets, Luther Adler, Sanford Meisner, Robert Lewis. E.K.: ruolo di infermiere. 1934 Gold Eagle Guy di Melvin Levy. Regia: Lee Straberg. Int.: Stella Adler, Morris Carnovsky, Margaret Baker, J. Edward Bromberg, Russell Collins, Walter Coy, Clifford Odets. E.K.: Polyzoides. 1935 Waiting for Lefty (Aspettando Lefty) di Clifford Odets. Regia: Clifford Odets e Sanford Meisner. Int.: Lee J. Cobb, Russell Collins, Robert Lewis, Abner Biberman, Clifford Odets. E.K.: Agate Keller. Till the Day I Die (Fino al giorno che morii) di Clifford Odets. Regia: Cheryl Crawford. Int.: Alexander Kirkland, Margaret Baker, Eunice Stoddard, Walter Coy. E.K.: Dr. Baum. Paradise Lost (Paradiso perduto) di Clifford Odets. Regia: Harold Clurman. Int.: Stella Adler, Morris Carnovsky, Sanford Meisner, Luther Adler, Robert Lewis. E.K.: Kewpie. 1936 Johnny Johnson di Paul Green. Regia: Lee Straberg. Int.: Katherine Allen, Morris Carnovsky, Russell Collins, Grover Burgess, Phoebe Brand, Luther Adler, Lee J. Cobb, John Garfield, Art Smith, Robert Lewis. E.K.: il soldato Kearns. 1937 Golden Boy (Ragazzo d’oro) di Clifford Odets. Regia: Harold Clurman. Int.: Luther Adler, Lee J. Cobb, Morris Carnovsky, 130


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John Garfield, Frances Farmer, Phoebe Brand, Martin Ritt, Howard Da Silva, Robert Lewis. E.K.: Eddie Fuselli e Joe Bonaparte. 1939 The Gentle People di Irwin Shaw. Regia: Harold Clurman. Int.: Sylvia Sidney, Franchot Tone, Sam Jaffe, Lee J. Cobb, Rornan Bohnen, Martin Ritt. E.K.: Eli Lieber. 1940 Night Music (Notturno) di Clifford Odets. Regia: Harold Clurman. Int.: Morris Carnovsky, Jane Wyatt, Sanford Meisner, Ruth Nelson, Art Smith. E.K.: Steve Takis. Liliom di Ferenc Molnar. Regia: Benno Schneider. Int.: Burges Meredith, Ingrid Bergman. E.K.: Ficzur, “Il Monaco”. 1941 Five Alarm Waltz di Lucille S. Prumbs. Regia: Robert Lewis. Int.: Louise Platt, Howard Freeman. E.K.: Adam Boguris. Stage manager 1933 Gentlewoman di John Howard Lawson. Regia: Lee Straberg. Int.: Stella Adler, Morris Carnovsky. Prod.: Group Theatre. Produttore 1946 Truckline Cafe di Maxwell Anderson. Regia: Harold Clurman. Int.: Frank Overton, Virginia Gilmore, Marlon Brando, Kevin McCarthy, Karl Malden, Kenneth Tobey, Lou Gilbert. Coprod.: Harold Clurman. Regista 1934 Dimitroff di Elia Kazan e Art Smith. Regia: Elia Kazan e Art Smith. Mus.: registrazioni di musica tedesca. Cost.: League of Workers Theatres, su fotografie d’epoca. Int.: J. Edward Bromberg, Art Smith. Presentato dalla League of Workers Theatres all’Old Civic Repertory Theatre. 1935 The Young Go First, commedia in tre atti di Peter Martin, Charles Scudder e Charles Freeman. Regia: Elia Kazan e Alfred Saxe. Mus.: Earl Robinson. Scenogr.: Mordecai Gorelik. Cost.: degli attori. Int.: Philip Robinson (cap. Hood), Stephen Carnot 131


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(Christy Stark), Jack Arnold (infermiere), Will Lee (Beebie Menucci), Edward Mann (Jeff Oatten), Nicholas Ray (Glenn Campbell), Earl Robinson (Paul Crosby). Presentato dal Theatre of Action al Park Theatre. 39 repliche a partire dal 28 maggio. 1936 The Crime di Michael Blankfort. Regia: Elia Kazan e Alfred Saxe. Int.: Martin Ritt, Nicholas Ray. Presentato dal Theatre of Action in una soffitta di New York. Prima rappresentazione 1 marzo. 1938 Casey Jones, dramma in tre atti di Robert Ardrey. Regia: Elia Kazan. Mus.: Earl Robinson. Scenogr.: Mordecai Gorelik. Int.: Van Heflin (Jed Sherman), Charles Bickford (Casey Jones), Joseph Sawyer (Mac), Curt Conway (Elzy), Howard Da Silva (il vecchio), Robert Strauss (Jones), Charles Thompson (il meccanico), Eunice Stoddard (Mrs. McGuinness), Clancy Cooper (Gassiman). Presentato dal Group Theatre al Fulton Theatre. 25 repliche a partire dal 19 febbraio. 1939 Quiet City di Irwin Shaw. R.: E. Kazan. Mus.: Aaron Copland. Scenogr.: Mordecai Gorelik. Int.: Frances Farmer, Morris Carnovsky, J. Edward Bromberg. Presentato dal Group Theatre al Belasco Theatre. Due rappresentazioni di prova il 16 e 25 aprile. Thunder Rock, dramma in tre atti di Robert Ardrey. R.: E. Kazan. Scenogr.: Mordecai Gorelik. Int.: Myron McCormick (Streeter), Harry Bratsburg (Nonny), Roman Bohnen (isp. Flanning), Luther Adler (Charleston), Frances Farmer (Melanie), Morris Carnovsky (cap. Joshua), Art Smith (Briggs), Lee J. Cobb (Dr. Stefan Kurtz). Presentato dal Group Theatre al Mansfield Theatre. 23 repliche a partire dal 14 novembre. 1942 Cafe Crown, dramma in tre atti di Hy S. Craft. R.: E. Kazan. Scenogr.: Boris Aronson. Int.: Jed Cogut (Rubin), Jay Adler (Sam), Alfred White (Kaplan), Daniel Ocko (Mendel Polan), Frank Gould (Jacobson), Morris Carnovsky (David Cole), Sam Jaffe (Hymie), Lou Polan (Looie), Sam Wanamaker (Lester Freed), Mitzi Hajos (Ida Polan). Prodotto da Charly Wharton e Martin Gabel al Court Theatre. 141 repliche a partire dal 23 gennaio. The Strings, My Lord, Are False, dramma in due atti di Paul Vincent Carroll. R.: E. Kazan. Scenogr.: Howard Bay. Int.: Ralph Cullinan (Alec), Sherman MacGregor (Georgie), Frances Bavier (Sarah), Walter Hampden (Canon Courtenay), Colin KeithJohnson (Bill Randall), Ruth Vivian (“Ma� Morrisey), Constance 132


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Dowling (Maisie Gillespie), Ruth Gordon (Iris Ryan), Art Smith (Ted Bogle). Prodotto da Edward Choate al Royal Theatre. 15 repliche a partire dal 19 maggio. The Skin of Our Teeth (La famiglia Antropus) commedia fantastica in tre atti di Thornton Wilder. R.: E. Kazan. Scenogr.: Albert Johnson. Cost.: Mary Percy Schenk. Int.: Tallulah Bankhead (Sabina), E.G. Marshall (Mr. Fitzgerald), Florence Eldrige (Mrs. Antropus), Remo Buffano (il dinosauro), Andrew Ratousheff (il mammuth), Francis Heflin (Gladys), Montgomery Clift (Henry), Fredric March (Mr. Antropus), Ralph Cullinan (Homer). Prodotto da Michael Myerberg al Plymouth Theatre. 359 repliche dal 18 novembre 1942 al 25 settembre 1943. 1943 Harriet, commedia in tre atti di Florence Ryerson e Colin Clements. R.: E. Kazan. Scenogr.: Lemuel Ayers. Cost.: Alice Bernstein Int.: Helen Hayes (Harriet Beecher-Stowe), Alberta Perkins (zia Zeb), Sidney poi Richard Wilder (Henry Ward Beecker), Jane Seymour (Catharine Beecker), Rhys Williams poi Robert Emhardt (Calvin Stowe), Guy Sorel poi John Hayes (William Beecker), Geoffrey Lumb poi Ralph Stanley (Edward Beecker), Carmen Matthews poi Martha Jones (Moory Beecker). Prodotto da Gilbert Miller all’Henry Miller Theatre. 337 repliche dal 3 marzo 1943 al 1 aprile 1944, poi 11 repliche dal 27 settembre al 5 ottobre 1944. One Touch of Venus, commedia musicale in due atti di S.J. Perelman e Ogden Nash, ispirata alla storia The Tinted Venus di F. Anstey. R.: E. Kazan. Lyrics: Ogden Nash. Mus.: Kurt Weill, diretta da Maurice Abravanel. Coreografie: Agnes De Mille. Scenogr.: Howard Bay. Cost.: Paul su Pont, Kermit Love, Mainbocher. Int.: Mary Martin (Venus), John Boles (Witelaw Savory), Paula Lawrence (Molly Grant), Teddy Hart (Taxi Black), Harry Clark (Stanley), Kenny Baker (Rodney Hatch). Prodotto da Cheryl Crawford e John Wildberg all’Imperial Theatre. 567 repliche dal 7 ottobre 1943 al 10 febbraio 1945. 1944 Jacobowsky and the Colonel, commedia in tre atti di S.N. Behrman, dalla pièce di Franz Werfel. R.: E. Kazan. Mus.: Paul Bowles. Scenogr.: Edward Chaney. Prod.: supervisione di Lawrence Langner e Theresa Helburn. Int.: Oskar Karlweis (S.L. Jacobowsky), Louis Calhern (col. Tadeusz Boleslav Stjerbinsky), Kitty Mattern (Cosette), Annabella (Marianne), E.G. Marshall (il generale), Frank Overton (il luogotenente) Harold Vermilyea (il capo della Gestapo). Prodotto dal Theatre Guild e John H. Skirball 133


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al Martin Beck Theatre. 417 repliche dal 14 marzo 1944 al 10 marzo 1945. Sing Out, Sweet Land, commedia musicale di Jean e Walter Kerr. R.: E. Kazan. Mus: Elie Siegmeister e melodie del folklore americano. Scenogr.: Albert Johnson. Coreografie: Leon Leonidoff. Int.: Alfred Drake, Burl Ives, Bibi Osterwlad, Alma Kaye. Prodotto da Lawrence Langner e Theresa Helburn all’International Theatre. Prima rappresentazione: 27 dicembre. 1945 Deep Are the Roots, commedia in tre atti di Arnaud D’Usseau e James Gow. R.: E. Kazan. Scenogr.: Howard Bay. Cost.: Emeline Roche. Int.: Helen Martin (Honey Turner), Evelyn Ellis (Bella Charles), Charles Waldron (sen. Ellsworth Langdon), Barbara Bel Geddes (Ginevra Langdon), Carol Goodner (Alice Langdon), Harold Vermilyea (Roy Maxwell), Lloyd Gough (Howard Merrick), Gordon Heath (Brett Charles). Prodotto da Kermit Bloomgarden e George Heller al Fulton Theatre. Prima rappresentazione: 26 settembre. Dunnigan’s Daughter, dramma in tre atti di S.N. Behrman. R.: E. Kazan. Scenogr.: Stewart Chaney. Prod.: supervisione di Lawrence Langner e Theresa Helburn. Int.: Richard Widmark (Jim Baird), Hale Norcross (Robert), Jan Sterling (Zelda Rainier), Luther Adler (Miguel Riachi), June Havoc (Ferne Rainier), Dennis King (Clay Rainier), Arthur Gondra (Jesus y Blasco Hernandez). Prodotto dal Theatre Guild al Golden Theatre. 38 repliche dal 26 dicembre 1945 al 26 gennaio 1946. 1947 All My Sons (Erano tutti miei figli), dramma in tre atti di Arthur Miller. R.: E. Kazan. Scenogr.: Mordecai Gorelik. Cost.: Paul Morrison. Int.: Ed Begley (Joe Keller), John McGovern (Dr. Jim Bayliss), Dudley Sadler (Frank Lubey), Peggy Meredith (Sue Bayliss), Hope Cameron (Lydia Lubey), Arthur Kennedy (Chris Keller), Beth Merrill (Kate Keller), Eugene Steiner (Bert), Lois Wheeler (Ann Deever), Karl Malden (George Deever). Prodotto da Harold Clurman, E. Kazan, Walter Fried e Herbert H. Harris al Coronet Theatre. 328 repliche dal 29 gennaio all’8 novembre. A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama Desiderio), dramma in 11 scene di Tennessee Williams. R.: E. Kazan. Scenogr.: Jo Mielziner. Mus.: Lehmann Engel. Cost.: Lucinda Ballard. Int.: Marlon Brando (Stanley Kowalski), Kim Hunter (Stella Kowalski), Jessica Tandy (Blanche DuBois), Rudy Bond (Steve Hubbell), Karl Malden (Harold Mitchell, “Mitch”), 134


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Peg Hillias (Eunice Hubbell), Nick Dennis (Pablo Gonzales), Richard Garrick (il dottore), Ann Dere (infermiera). Prodotto da Irene Selznick al Barrymore Theatre. 855 repliche a partire dal 3 dicembre. Ripreso nel 1950, con Walter Jack Palance come sostituto di Marlon Brando. 1948 Sundown Beach, dramma in tre atti di Bessie Breuer. R.: E. Kazan. Scenogr.: Ben Edwards. Luci: Jean Rosenthal. Int.: Nehemiah Persoff (Cecil), Martin Balsam (Merle), Treva Frazee (Hazel), Jennifer Howard (Vanilla), Vivian Firko (Helen), Ralph Cullinan (Pop), Steven Hill (Thaddeus Long), Julie Harris (Ida Mae), Don Hammer (Otis), Joe Sullivan (Buster). Prodotto da Louis Singer per l’Actors’ Studio al Belasco Theatre. 7 repliche dal 7 all’11 settembre. Love Life, commedia musicale in due atti di Alan Jay Lerner. R.: E. Kazan. Lyrics: A. J. Lerner. Mus.: Kurt Weill. Coreografie: Michael Kidd. Scenogr.: Boris Aronson. Luci: Peggy Clark. Cost.: Lucinda Ballard. Int.: Jay Marshall (il mago), Nanette Fabray (Susan Cooper), Ray Middleton (Sam Cooper), Cheryl Archer (Elizabeth Cooper), Johnny Stewart (Johnny Cooper), Holly Harris (Miss Horoscope), Carolyn Maye (Miss Mysticism). Prodotto da Cheryl Crawford al 46th St. Theatre. 252 repliche dal 7 ottobre 1948 al 14 maggio 1949. 1949 Death of a Salesman (Morte di un commesso viaggiatore), dramma in due atti di Arthur Miller. R.: E. Kazan. Scenogr.: Jo Mielziner. Mus.: Alex North. Cost.: Julia Sze. Int.: Lee J. Cobb (Willy Loman), Mildred Dunnock (Linda), Cameron Mitchell (Happy), Arthur Kennedy (Biff), Don Keefer (Bernard), Winifred Cushing (la moglie), Howard Smith (Charley), Thomas Chalmer (zio Ben), Alan Hewitt (Howard Wagner), Ann Driscoll (Jenny). Prodotto da Kermit Bloomgarden e Walter Fried al Morosco Theatre. Prima rappresentazione: 10 febbraio. 1952 Flight into Egypt, dramma in due atti di George Tabori. R.: E. Kazan. Scenogr.: Jo Mielziner. Cost.: Anna Hill Johnstone. Int.: Zero Mostel (Glubb), Fred Williams (Hassan), David Opatoshu (Tewfik Bey), Gusti Huber (Lili Engel), Paul Lukas (Franz Engel), Voytek Dolinski (Bubi Engel), Jo van Fleet (Miss Foster), Paul Mann (Freund), Don Keefer (Bronson). Prodotto da Irene Selznick al Music Box Theatre. 46 repliche dal 18 marzo al 19 aprile. 1953 Camino Real, dramma in tre atti di Tennessee Williams. R.: E. Kazan. Scenogr.: Lemuel Ayers. Mus.: Bernardo Segall. Int.: 135


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Frank Silvera (Gutman), Aza Bard (Rosita), Eli Wallach (Kilroy), Guy Thomajan (il sopravvissuto), Joseph Anthony (un avventuriero), Vivian Nathan (la Madrecita de los Perdidos), Jo van Fleet (una signora della leggenda), Martin Balsam (un barbone; il pilota del Fuggitivo). Prodotto da Cheryl Crawford, Ethel Reiner e Walter P. Chrysler Jr al National Theatre. 60 repliche dal 19 marzo al 9 maggio. Tea and Sympathy, (Tè e simpatia) dramma in tre atti di Robert Anderson. R.: E. Kazan. Scenogr.: Jo Mielziner. Cost.: Anna Hill Johnstone. Int.: Deborah Kerr (Laura Reynolds), Florida Friebus (Lilly Sears), John Kerr (Tom Lee), Richard Midgley (David Harris), Alan Sues (Ralph), Dick York (Al), Arthur Steuer (Steve), Leif Erickson (Billy Reynolds), Richard Franchot (Phil), John McGovern (Herbert Lee), Yale Wexler (Paul). Prodotto dalla Playwright’s Company e Mary K. Frank all’Ethel Barrymore Theatre. 712 repliche a partire dal 30 settembre. 1955 Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta), dramma in tre atti di Tennessee Williams. R.: E. Kazan. Scenogr.: Jo Mielziner. Cost.: Lucinda Ballard. Int.: Maxwell Glanville (Lacey), Musa Williams (Sookey), Barbara Bel Geddes (Margaret), Ben Gazzara (Brick), Madeleine Sherwood (Mae, “Sister Woman”), Pat Hingle (Gooper, “Brother Man”), Mildred Dunnock (Big Mama), Pauline Hahn (Dixie), Burl Ives (Big Daddy, rimpiazzato a Chicago da Thomas Gomez). Prodotto dalla Playwright’s Company al Morosco Theatre. 694 repliche a partire dal 24 marzo. 1957 The Dark at the Top of the Stars (Il buio in cima alle scale), dramma in tre atti di William Inge. R.: E. Kazan. Scenogr.: Ben Edwards. Luci: Jean Rosenthal. Cost.: Lucinda Ballard. Int.: Pat Hingle (Rubin Flood), Teresa Wright (Cora Flood), Charles Saari (Sonny Flood), Judith Robinson (Reenie Flood), Evans Evans (Flirt Conroy), Frank Overton (Morris Lacey), Eileen Eckhart (Lottie Lacey). Prodotto da Saint Subber e Elia Kazan al Music Box Theatre. 468 repliche a partire dal 5 dicembre. 1958 J.B., commedia musicale in due atti di Archibald MacLeish. R.: E. Kazan. Scenogr.: Boris Aronson. Mus.: David Amram. Luci: Tharon Musser. Cost.: Lucinda Ballard. Int.: Christopher Plummer (Nickles), Raymond Massey (Mr. Zuss), Pat Hingle (J.B.), Nan Martin (Sarah), Arnold Merritt (David), Ciri Jacobsen (Mary), Jeffrey Rowland (Jonathan), Candy Moore (Ruth), Merry Martin (Rebecca), Helen Waters (Mrs. Botticelli). Prodotto da Alfred De Liagre Jr all’ANTA Washington Square Theatre. 364 repliche a partire dall’11 dicembre. 136


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1959 Sweet Bird of Youth (La dolce ala della giovinezza) dramma in tre atti di Tennessee Williams. R.: E. Kazan. Scenogr. e luci: Jo Mielziner. Mus.: Paul Bowles. Cost.: Anna Hill Johnstone. Int.: Paul Newman (Chance Wayne), Geraldine Page (la principessa Kosmonopolis), Milton J. Williams (Fly), Patricia Ripley (la serva), Logan Ramsey (George Scudder), John Napier (Hatcher), Sidney Blackmer (boss Finley), Diana Hyland (Heavenly Finley). Prodotto da Cheryl Crawford al Martin Beck Theatre. 375 repliche a partire dal 10 marzo. 1964 After the Fall (Dopo la caduta) dramma in due atti di Arthur Miller. R.: E. Kazan. Scenogr. e luci: Jo Mielziner. Mus.: David Amram. Cost.: Anna Hill Johnstone. Int.: Jason Robards Jr (Quentin), Zohra Lampert (Felice), Salome Jens (Holga), Virginia Kaye (la madre), Michael Strong (Dan), Paul Mann (il padre), Faye Dunaway e Diane Shalet (infermiere), Scott Cunnigham (il dottore), Barbara Loden (Maggie), Ralph Meeker (Mickey). Prodotto dal Repertory Theatre of Lincoln Center all’ANTA Washington Sq. Theatre. Prima rappresentazione: 23 gennaio. But for Whom Charlie, commedia in due atti di S.N. Behrman. R.: E. Kazan. Scenogr. e luci: Jo Mielziner. Mus.: David Amram. Cost.: Theoni V. Aldredge. Int.: Jason Robards Jr (Seymour Rosenthal), Diane Shalet (Anna), Patricia Roe (Naomi Saunders), Ralph Meeker (Charles Taney), Faye Dunaway (Faith Prosper), Clinton Kimbrough (Willard Prosper), Mariclare Costello o Barbara Loden (Sheila Maloney). Prodotto dal Repertory Theatre of Lincoln Center all’ANTA Washington Sq. Theatre. Prima rappresentazione: 12 marzo. The Changeling (I lunatici), dramma di Thomas Middleton e William Rowley. R.: E. Kazan. Scenogr.: David Hays. Int.: Barbara Loden (Beatrice), Barry Primus (De Flores), Stanley Beck, Diane Shalet, Jack Waltzer, David Stewart, Michael Strong. Prodotto dal Repertory Theatre of Lincoln Center all’ANTA Washington Square Theatre. 33 repliche sino al 23 dicembre.

Elia Kazan, Cinéma d’Aujourd’hui, Editions Seghers, 1966 137


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Il saggio di Tailleur e le relative filmografia e teatrografia si fermano al 1964, non la carriera di Kazan, una delle più straordinarie vicende umane e artistiche del ’900. Come promemoria per il lettore, vogliamo solo ricordarne le più importanti tappe successive. Dopo il 1964 Kazan ha diretto altri tre film: The Arrangement (Il compromesso), tratto dal proprio romanzo omonimo, interpretato da Kirk Douglas, Faye Dunaway, Deborah Kerr, Richard Boone, produzione Athena Enterprise-Warner Bros., 125 mn, 1969. The Visitors, sceneggiatura del figlio Chris Kazan, interpreti Patrick McVey, Patricia Joyce, James Woods, Chico Martinez, Steve Railsback, 16mm gonfiato a 35mm, produzione United Artists, 90 mn, 1972. The Last Tycoon (Gli ultimi fuochi), tratto dal romanzo di Francis Scott Fitzgerald, scritto da Harold Pinter, interpretato da Robert De Niro, Tony Curtis, Robert Mitchum, Jeanne Moreau, Ingrid Boulting, Jack Nicholson, Donald Pleasance, Ray Milland, Dana Andrews, Theresa Russell, Seymour Cassell, Anjelica Huston, produzione Sam Spiegel, Paramount, 124 mn, 1976. Parallelamente è venuto assumendo un peso sempre maggiore l’attività letteraria. Ha scritto: America, America (1963; America, America, Mondadori ed.); The Arrangement (1967; traduzione italiana: Il compromesso, Ferro editore); The Assassins (1972; traduzione italiana: Gli assassini, Ferro ed.); Understudy (1975); Act of Love (1978); l’autobiografia Elia Kazan: a Life (1988). Dopo la morte nel 1964 della moglie Molly Day Thatcher, Kazan si è risposato nel ’67 con Barbara Loden, morta nell’80. Nell’82 ha sposato in terze nozze Frances Rudge. Nel ’92 ha avuto un Oscar alla carriera che ha suscitato le vivaci proteste di alcuni esponenti progressisti di Hollywood che non gli hanno mai perdonato il tradimento del 1952, cioè la deposizione di fronte alla Commissione per le attività anti-americane. Tra essi, il suo pupillo Marlon Brando. Elia Kazan è morto nel 2003. [n.d.c.]

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Kazan al lavoro 1935. Kazan al Group Theatre nel ruolo di Kewpie in Paradise Lost di Clifford Odets


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