Teleromanza. Mezzo secolo di sceneggiati e fiction

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EDIZIONI

Con una introduzione di Raffaele La Capria

FALSOPIANO

biblioteca circolante e un teatro popolare, ha moltiplicato le vendite dei classici, ha insegnato il parlare corretto, ha rilanciato vecchie glorie del palcoscenico. Fondato sul remake, la parafrasi, l’illustrazione, e apparentemente nemico della fantasia, non ha goduto i favori della critica, almeno prima di questo libro, che racconta la storia dello “sceneggiato da opera edita” dal 1954 a oggi, e ne ricostruisce modi di produzione, tecniche di adattamento, stili di regia. Si va dai primi, popolarissimi esemplari “al-

oreste de fornari

Genere principe della narrativa Rai, il teleromanzo è stato per anni una

l’antica italiana” di Anton Giulio Majano (Jane Eyre, L’isola del tesoro, La

cittadella) alle versioni più austere e accademiche di Sandro Bolchi (Il mulino del Po, I promessi sposi, I fratelli Karamazov), dai tentativi sperimentali di Gregoretti, Albertazzi e Ronconi, alle superproduzioni di gusto cosmopolita, come Marco Polo e Guerra e pace, fino alla serie del Commis-

sario Montalbano. Una ricerca nella nostra memoria collettiva di spettatori e insieme una chiave per leggere nel futuro della fiction televisiva.

ISBN 978-88-89782-34-7

Tele Romanza oreste de fornari

TeleRomanza

Oreste De Fornari, critico cinematografico, ha pubblicato libri su Sergio Leone, Walt Disney, François Truffaut, oltre al recente Classici americani e ha curato un volume su Il sorpasso di Dino Risi. Membro per alcuni anni della Commissione Cinema presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, collabora con la Rai da lungo tempo come autore e conduttore televisivo, quasi sempre in coppia con Gloria De Antoni.

€ 18,00

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oreste de fornari

Tele Romanza mezzosecolodisceneggiati&fiction


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CINEMA


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a Graziella

Š Edizioni Falsopiano - 2011 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini Stampa: Lasergroup - Milano Prima edizione - Mondadori Editore Settembre 1990 Seconda edizione aggiornata Marzo 2011


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Sommario

Presentazione

p. 9

di Raffaele La Capria

Excusatio

p. 15

Dal romanzo di…

p. 19

All’antica italiana

p. 37

Di qualità

p. 71

D’autore

p. 105

Quasifilm

p. 119

Post Scriptum

p. 153

Vent’anni dopo

p. 157

Filmografia televisiva

p. 171

Gli sceneggiati degli altri

p. 230

Nota bibliografica

p. 235

Videografia

p. 239


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Anton Giulio Majano con Anna Maria Guarnieri sul set della Cittadella.

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Presentazione di Raffaele La Capria Anni fa, invitato a far parte della commissione giudicatrice di un concorso per l’assunzione di nuovi funzionari televisivi, mi capitò di leggere un considerevole numero di dattiloscritti, coi temi dei candidati. Fu una lettura faticosa, non solo perché fatta a ritmo serrato per rispettare i tempi, ma soprattutto perché gli «elaborati» (come li chiamavamo) erano scritti per la maggior parte nella lingua delle scienze umane male apprese e mal digerite all’università, che li rendeva ostici, inutilmente concettosi e pretenziosi. Uno solo di quegli «elaborati» mi parve miracolosamente immune da quella abusata terminologia e tanto brillante da ripagarmi della noia provata fino a quel momento. Era una ricerca sugli sceneggiati televisivi condotta da tre punti di vista incrociati: quello letterario (in rapporto all’opera da cui erano stati tratti), quello cinematografico (in confronto alla versione cinematografica dello stesso soggetto, se c’era), e quello televisivo (rispetto agli altri sceneggiati dello stesso tipo prodotti dalla televisione). Fui subito colpito dalla qualità dei giudizi espressi e dalla qualità della scrittura, pervasa da una lieve ironia sempre precisa e intransigente. E ricordo che suggerii all’autore, Oreste De Fornari, conosciuto in quell’occasione, di trarre dalla sua ricerca una trasmissione culturale che rendesse visibili i tre punti di vista da lui considerati. Sarebbe stato interessante vedere la stessa scena realizzata al cinema e alla televisione e commentarla conoscendo le varianti rispetto all’originale letterario. Sarebbe stato interessante sentir citare, a proposito di uno sceneggiato, Auerbach o Debenedetti, così come lui faceva, quasi di sfuggita e senza farlo troppo 9


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pesare. Sarebbe stato interessante ricordarsi al momento giusto di aver letto bene i propri testi, e poter dire (nel commento) che Franco Rossi nell’Odissea televisiva «usa le voci di dentro (dell’eroe che ricorda o degli dèi che gli parlano) in modo tale che il suo Ulisse confina con l’“Ulysses”» o che Sandro Bolchi, quando fa leggere «la sventurata rispose» fuori campo sulle immagini di Gertrude che dalla finestra risponde a Egidio, «ottiene il risultato di trasformare un archetipo di concisione in un esempio di stile pleonastico». E così via. Sarebbe stato interessante fare un simile programma, dicevo, in un momento in cui «il rapporto della televisione con la sua memoria sta(va) migliorando» e la televisione cominciava a parlare di se stessa non più soltanto per fornire il pretesto a un’imitazione o a una scenetta di varietà. Quel programma da me suggerito non si fece, ma per fortuna De Fornari ha ripreso la sua ricerca di allora, l’ha rivista, aggiornata, riscritta, e ce la presenta in questo volume, cui do il benvenuto. Sia pur «lacunoso e impressionistico», a me il suo libro non sembra affatto «superfluo» come teme l’autore. Lui sa che «i letterati non amano la televisione e in particolare aborriscono il teleromanzo», ma da letterato (oltre che da uomo di cinema) vuol forse riparare in qualche modo a quel disamore, e perciò, nonostante il suo illuminismo, non si vergogna di citare a proposito di Majano i versi: «Non vergognatevi delle lagrime / Non vergognatevi delle lagrime, o giovani cuori!». Certo, leggendo questo libro uno si domanda se si può trattare il casuale eterogeneo avvicendarsi delle scelte televisive (che avvengono secondo il gusto o il capriccio di questo o quel regista, il criterio o la strategia di questo o quel funzionario) come se si trattasse dell’organico sviluppo delle forme espressive di una 10


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letteratura. E se quella monotonia che si avverte nella successione di titoli e personaggi e trame televisive possa già configurarsi come storia, o debba attendere ancora perché si possa dirlo. Lo stesso De Fornari sembra essere cosciente di questo e mentre scrive il suo libro si chiede: «Ne varrà la pena? Una volta sembrava inutile perfino conservarli, gli sceneggiati». Io credo che ne valga la pena, anche se per ora conviene accontentarsi della approssimativa tipologia da lui offerta, che distingue tra sceneggiati «all’antica italiana», «di qualità», «d’autore», e «quasifilm», e disegna una mappa delle tendenze: «popolare», «accademica», «sperimentale», «colossale», corrispondente a modi di produzione, stili, gusti diversi. E credo che ne valga la pena anche perché il suo è un libro sulla nostra televisione finalmente piacevole a leggersi, e divertente. Ecco, per esempio, un ritratto di Majano: «Ex ufficiale di cavalleria… Majano intuisce subito che l’universo della cultura di massa è uno, e lo percorre in lungo e in largo, al galoppo». E a proposito delle sue sceneggiature: «Gran folla di vip nei saloni parigini, dove si intrecciano malignità e convenevoli: – “Simpatica serata, vero Flaubert? E voi, Sainte-Beuve, che cosa ne pensate del giovane Bizet?”». Non v’è dubbio che le simpatie di De Fornari vanno a Majano, e anche se riconosce la «grandezza» di Bolchi, non gli va troppo a genio «la sua anima cattolica, quaresimale, perfino giansenistica», né che lui «si fidi molto delle parole, poco dei fatti e niente dello spettatore», perché nei suoi sceneggiati «le parole, come al solito, hanno l’ultima parola». Come Majano e Bolchi, definiti «i due titani» dello sceneggiato, così gli altri registi sono rapidamente e causticamente sistemati: «Più enfant gâté che enfant terrible Giorgio Albertazzi… semina suspense abusivo e soprattutto non fa che ripetersi». Nel Jekyll «non ha 11


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rispettato né dissacrato: a volte è l’indecisione che genera i mostri». E Gregoretti nel Circolo Pickwick «si esprime in pickwickiano, come i tromboni che prende in giro». In lui «c’è un’ironia un po’ da cabaret, esposta a invecchiamento precoce». Nel pedagogico Rossellini televisivo si assiste al «trionfo della Storia sulla story». Franco Rossi, nell’Eneide, «se non più poeta di Virgilio, è certamente più poetico». Gli effetti speciali di De Bosio, nel Mosè (definito un «kolossal interruptus»), sono «tanto indigenti da compromettere la plausibilità dei miracoli». Il Gesù di Zeffirelli «difetta insieme di realtà e di irrealtà». Nel Sandokan di Sollima «turismo e avventura legano male». Di Nocita «si può dire che è insieme calligrafico e bozzettistico» oppure, come scriveva Manzoni del suo anonimo, «rozzo insieme e affettato». Solo per l’Orlando di Ronconi e la sua «scomplessata apoteosi del teatro filmato» c’è un’adesione senza riserve: «Non sapremmo dire se stiamo assistendo a un rito teatrale o vivendo un’illusione televisiva. Il dubbio talvolta è delizioso». E, giustamente, per Comencini, che ha riscritto Cuore «non come è veramente, ma come ci piace ricordarlo», e che in Pinocchio sa essere fedele all’originale ricreandone un equivalente, senza mai cadere in quella «insensata fedeltà» (letterale) che è stata l’ossessione di tanti volonterosi registi, come Bolchi, ad esempio, o come lo stesso Rossellini che racconta gli Atti degli Apostoli «con immagini moderne e parola accademica», quando invece sarebbero occorsi «dialoghi più infedeli, in tutti i sensi». Ecco, è questa scrittura «intelligente» che rende piacevole a leggersi e divertente il libro di De Fornari. Dov’è che non sono d’accordo con lui? Su Diario di un maestro di Vittorio De Seta, che meritava forse maggiore attenzione perché è una specie di esperimento «dal vivo» che solo la televisione poteva mettere in 12


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atto, in cui si segue il progressivo apprendimento scolastico di un gruppo di ragazzini osservati a uno a uno nella loro evoluzione, così come a volte in un documentario osserviamo un fiore rapidamente sbocciare sotto i nostri occhi. Non sono inoltre d’accordo su Cristo si è fermato a Eboli, che a me pare una bella invenzione cinematografica e insieme televisiva tratta da un libro che sembrava irriducibile sia per il cinema che per la televisione. Ammetto che non avrei dovuto dirlo, visto che uno degli sceneggiatori del libro di Levi sono stato io stesso, però, già che ci sono, aggiungo senza imbarazzo che forse De Fornari avrebbe potuto ricordare anche la serie dei Racconti italiani da me curata, non solo perché in una monografia sullo sceneggiato televisivo ci sarebbe stata bene, ma perché (a parte i risultati non sempre soddisfacenti) quella serie ruppe la preclusione che fino a quel momento era esistita verso la nostra narrativa contemporanea, e dimostrò che la misura breve del racconto poteva offrire un ottimo materiale per una trasposizione televisiva. Fu allora che i racconti di Soldati, Cassola, Bassani, Petroni, Del Buono, Tecchi, Dessi, Tobino, eccetera, passarono in televisione e aprirono la strada agli altri. Ma nonostante queste piccole divergenze e trascurabili omissioni, a lettura finita il libro di De Fornari, almeno a me, si è rivelato anche sotto un altro aspetto: non più quello di una ricerca sugli sceneggiati, ma di una «recherche» in quella specie di memoria collettiva che la televisione ci fabbrica giorno per giorno dagli ormai lontani anni Cinquanta, dove i nomi di Majano e di Bolchi e di tanti attori e personaggi acquistano la particolare risonanza del nostro «tempo perduto», dei nostri «Television Days».

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Sergio Pugliese, direttore centrale dei programmi televisivi, insieme a Vittorio Gassman, nel 1959 all’epoca del Mattatore. (Foto Teche Rai).

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Excusatio Avete presente l’amico che arriva a teatro ferratissimo sul testo e poi muore dalla voglia di segnalarvi le varianti abusive introdotte dal regista? Ebbene, temo di essere come lui, un delatore di infedeltà veniali. A essere sinceri, nelle lunghe ore trascorse nei sotterranei della Rai, a tu per tu con i vecchi sceneggiati, più che un pedante mi sentivo un censore, ultimo erede di una genia di cacciatori di streghe, inquisitori maccartisti e zdanoviani, moralisti di provincia. Mi sembrava di rivivere le loro stesse eccitazioni, disappunti, perplessità. Da buon persecutore avevo una vittima preferita: la mia bestia nera era Sandro Bolchi, quello dei Promessi sposi prima versione. A differenza degli altri registi, Bolchi può vantare un alibi di ferro, l’assoluta fedeltà agli originali: perciò è difficile commentarlo, accusarlo, perdonarlo. Il critico si sente inutile e diventa dispettoso. Il proposito comunque non era censorio, anzi perfino ludico. Dietro al giudizio universale (Majano tra i passionali, Bolchi tra gli ignavi, Albertazzi tra i superbi), si dovrebbe intravedere una specie di caccia al tesoro crossmediale, tra pagina, schermo e teleschermo, in cerca di piaceri del testo e di «specifici» un po’ chimerici: ciò che cinema, letteratura e tv possono dirci coi loro propri mezzi. Ne varrà la pena? Una volta sembrava inutile perfino conservarli, gli sceneggiati, tanto che un dirigente ne ha fatto distruggere più di cento, tra sceneggiati e commedie, per alleggerire i magazzini e recuperare il nastro magnetico: non rivedremo più I giacobini, Demetrio Pianelli… Ma oggi che il rapporto della televisione con la sua memoria sta migliorando, una monografia sullo sceneggiato, sia pure lacunosa e impressio15


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nistica, non dovrebbe sembrare del tutto superflua. È stata scritta, tra l’altro, nella speranza che ai registi di teleromanzi succeda come a quelli di melodrammi e commedie all’italiana, quando finalmente ci si è accorti che sono stati un po’ autori anche loro, con un posto non marginale nell’immaginario collettivo. A proposito del rapporto dell’azienda radiotelevisiva con la sua memoria è d’obbligo ricordare il poderoso lavoro di riordinamento dell’archivio audiovisivo e fotografico compiuto, a partire dal 1997, dalla Direzione Teche Rai, diretta da Barbara Scaramucci, che ha reso consultabile oltre un milione di ore di televisione e di radio (per maggiori informazioni si può andare al sito internet www.teche.rai.it). A questo si aggiunga la possibilità, da qualche anno, di acquistare copie in dvd di quasi tutti i romanzi sceneggiati (vedi più avanti alle voci filmografia televisiva e videografia). Non è difficile comprendere quale enorme opportunità tutto ciò rappresenti, oltre che per gli studiosi e gli autori di programmi televisivi, anche per gli autori presenti e futuri di fiction, in cerca di modelli cui ispirarsi e con cui confrontarsi criticamente. Ho ripreso qualche pagina da una mia ricerca per la Rai del 1979 e da due articoli apparsi rispettivamente sul catalogo del festival di Gabicce del 1988 e sul «Patalogo Tre» del 1981. A Raffaele La Capria va tutta la mia gratitudine per avere a suo tempo segnalato e incoraggiato la ricerca. Sono inoltre debitore di aneddoti, testimonianze, aiuti a consultare il materiale e prestiti di libri, agli indimenticati Anton Giulio Majano e Ludovico Alessandrini, e a Carlo Orichuia, Fabio Storelli, Francesco Pinto, Paola Debenedetti, Luciana Catalani, Enrico Ghezzi (per le sue “Schegge” ho curato nel 1989 un’antologia di sceneggiati, intitolata La tv dell’Ottocento), Filippo Porcelli, Eugenio Buonaccorsi, Marco Salotti, Maurizio Imbriale, Valeria Moretti, 16


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Valeria Paniccia, Fania Petrocchi e soprattutto a Gloria De Antoni, che ha videoregistrato per me in orari impossibili. Con lei ho realizzato e condotto Romanzo popolare un programma di incontri con i protagonisti dei teleromanzi, andato in onda nel 2002 su RaiSat Album, il canale diretto da Marco Giudici. Per le fotografie, una parte delle quali è stata fornita a suo tempo dal «Tv Radiocorriere» (Giuseppe Gennaro) e dall’ufficio stampa Rai (Gabriella Silvestri), ringrazio, oltre alla già menzionata Barbara Scaramucci, direttore di Rai Teche, (che ha in catalogo oltre 30.000 fotografie digitalizzate), Stefano Nespolesi e Chiara Antonelli della Biblioteca Rai di viale Mazzini 14, Roma. Quelle più recenti sono state gentilmente concesse dall’Ufficio Stampa Rai (Fabrizio Casinelli e Barbara Pellegrino).

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Un tocco di grottesco nel finale di Sorelle Materassi. Le due zitelle (Sarah Ferrati e Rina Morelli) indossano l’abito da sposa del corredo al matrimonio del nipote (Giuseppe Pambieri) con un’americana (Erna Schurer). (Foto Teche Rai).

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Dal romanzo di… Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi racconta, come noto, di due ricamatrici che vivono in provincia di Firenze, intorno agli anni Venti. Abilissime, parsimoniose, rigorosamente nubili, hanno una sola debolezza, il nipote orfano che allevano pieno di vizi. Gliele danno tutte vinte e lui, crescendo, pretende sempre più soldi, per comprarsi la moto, l’automobile, e per mettersi in affari, affari grossi, affari incerti; finirà per dilapidare i risparmi delle zie, prima di andarsene da casa con una moglie americana. Si sarebbe tentati di leggere questa storia come un’allegoria di trent’anni di televisione, sostituendo alle due ricamatrici gli umili tessitori di trame sceneggiate, esautorati da nipoti velleitari e spendaccioni, sempre in cerca di un partner americano. Ognuno vedrà alla fine se il paragone tiene e fino a che punto. Ma il romanzo di Palazzeschi è importante per noi anche perché lo sceneggiato che ne fu tratto da Mario Ferrero nel 1972 ha ottenuto un curioso e prestigioso riconoscimento. Si dice che l’ayatollah Khomeini, durante l’esilio parigino, l’abbia visto e, una volta al potere, abbia raccomandato ai responsabili della tv iraniana di rivolgersi anche all’Italia e non più soltanto agli Stati Uniti per l’acquisto dei programmi. (Ammesso che la notizia sia fondata, è probabile che a conquistare l’imam siano state le solide, antiche virtù celebrate nella vicenda delle due sorelle.) Se avesse visto anche gli altri sceneggiati Rai dei primi vent’anni, non sarebbe rimasto deluso. E se avesse conosciuto i primi dirigenti avrebbe trovato dei punti in comune, almeno il misoneismo, cioè la diffidenza nei confronti del nuovo. È proverbiale il caso del primo consigliere delegato, Filiberto Guala, 19


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che poi si farà frate trappista, il quale dichiara di non avere mai messo piede in un cinema in tutta la sua vita. L’industria delle immagini televisive, al suo nascere, è in mano a uomini libreschi, frugali, talvolta piemontesi. Da cui l’adozione del romanzo sceneggiato, che filtra serialità elettronica e pedagogia ottocentesca. D’altronde in quegli anni il pubblico, anche laico e «d’élite», indulge in piccoli esorcismi antitecnologici. Mentre il popolo si raduna nei bar per vedere «Lascia o raddoppia?», i borghesi adornano il televisore con centrini e soprammobili, gli snob lo mimetizzano dentro a mobiletti in stile e gli intellettuali si vantano di non possederlo. E non fanno che dir male delle trasmissioni. Gabriele Baldini esclude Tom Jones dai programmi di letteratura inglese perché la visione dello sceneggiato guasterebbe la lettura agli studenti, e Raul Radice minaccia Ilaria Occhini di espellerla dall’Accademia d’Arte Drammatica se accetterà di lavorare con Majano. Accetterà, come noto, e sarà espulsa. Insomma, i letterati non amano la tv e in particolare aborriscono il teleromanzo, anche più dei romanzi condensati di «Selezione»: due modi di riprodurre, togliere l’aura, mistificare forse, banalizzare certamente; con la differenza che mentre i digest di solito non risalgono oltre gli ultimi best seller, i teleromanzi attingono alla tradizione letteraria dell’Ottocento. Un compromesso, praticamente unico al mondo, tra alta e bassa cultura, opera e serie, vecchio e nuovo. Ben lontano da soap operas americane, feuilleton francesi, telenovelas brasiliane, che non ambiscono alla cultura e perciò non la contaminano (piuttosto c’è una parentela con i classic serials inglesi). Seconda novità, abbastanza inaudita, le puntate. Sono servite a creare un pubblico letterario, funzione20


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ranno anche con quello televisivo. Per trent’anni il romanzo sceneggiato a puntate sarà il genere principe della narrativa Rai e il simbolo del suo progetto culturale, umanistico e cattolico. I teleromanzi sapranno erudirci, intrattenerci, edificarci, commuoverci, farci sentire più buoni e forse anche più italiani. Ma pochi li ameranno senza riserve, dentro e fuori la Rai. Forse perché non si tratta di opere originali e il pregiudizio romantico contro i remake accomuna, sotto sotto, registi e critici. Infatti, da parte dei registi, esagerate professioni di umiltà: non si prendono mai per autori, appena illustratori, figurinai, contenti al massimo che le tirature del romanzo siano aumentate. Da parte dei critici, perlopiù i soliti «traduttore traditore», «fedele alla lettera, infedele allo spirito» e «guardate come hanno massacrato il romanzo». Eppure, direbbe Manzoni, le favole si possono raccontare in tanti modi. Saltando certi passi, aggiungendo particolari, cambiando il finale, a seconda dell’estro del narratore e della sensibilità del pubblico. Lo stesso, fino a un certo punto, con la prosa. Il repertorio dei teatri è composto in massima parte di classici riletti secondo il gusto di oggi. Con i romanzi, «compiuti» già sulla pagina, cominciano i problemi. Flaubert per esempio inorridiva all’ipotesi di una Bovary illustrata. E il cinema, si sa, è responsabile di innumerevoli maltrattamenti. Ma perlomeno i riduttori per lo schermo cercavano spesso di creare un’opera originale e se toglievano molto, aggiungevano qualcosa, un punto di vista, un ritmo, un’inflessione. La mortuaria festa da ballo del Gattopardo, le facce arcaiche del Decameron, i gesti da burattino del Conformista, tutte cose che un po’ violentano gli originali e un po’ li completano (quel che si dice «essere fedeli allo spirito», «creare degli equivalenti»). 21


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In tv si punta piuttosto sulla fedeltà alla lettera, cioè alla trama e ai dialoghi, facendo un misto di riassunto e di parafrasi, nell’illusione di ottenere una copia, magari un po’ sbiadita, dell’originale. Ironia della sorte, il primo sceneggiato Rai, Il dottor Antonio, è tratto da un romanzo di cui non esiste originale, è nato direttamente come remake. Niente autore e nemmeno nazionalità. Ruffini l’ha pensato in italiano e abbozzato in inglese, Cornelia Turner e Henrietta Jenkin l’hanno riscritto e abbellito in inglese e tempo dopo Bartolomeo Aquarone l’ha tradotto in italiano. Sembra che non ci sia nemmeno un regista. Affidato ad Alberto Casella, un drammaturgo digiuno di regia, di fatto viene realizzato da due assistenti. È un successo. Gli ingredienti: amori impossibili, Risorgimento, rinunce, un medico come eroe, insomma l’Ottocento. È televisione sull’Ottocento e Ottocento della televisione. Ottocenteschi i testi, le ambientazioni, i valori, l’idea stessa di una televisione concepita come scuola serale, dove gli sceneggiati fungono da biblioteca circolante. Nei titoli non si legge, come al cinema, «Cime tempestose, dal romanzo di Emily Brontë», ma «Cime tempestose di Emily Brontë, libero adattamento televisivo di…». E alla fine, una romantica postilla: «Finisce così la storia di Caterina e di Heathcliff come fu raccontata, nella prima metà del secolo scorso, da Emily Brontë, una giovane donna che visse in una desolata contrada d’Inghilterra. In quella triste brughiera dove trascorse la sua breve esistenza, ella non conobbe l’amore e tuttavia seppe immaginare questa storia che è tutta un grido d’amore, una delle più belle che fantasia di poeta abbia mai creato». Oppure, all’inizio, il libro che si apre, come già in molti film, con copertine arabescate in similpelle (poi molto in voga per le edizio22


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Un medico patriota (Luciano Alberici) è l’eroe del primo teleromanzo, Il dottor Antonio. (Foto Teche Rai).

Il regista come Gulliver. Mario Landi a confronto con il modellino della casa nella brughiera di Cime tempestose. (Foto Teche Rai).

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ni da edicola), o magari un Albertazzi giovanissimo in costume Ottocento e fresco di «Appuntamento con la novella», che preleva religiosamente il volume dallo scaffale e comincia a leggere: «Risotto e tartufi. Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciare le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando il Pasotti…». Prosa aulica, voce flautata, modi desueti per mettere la televisione sottovento alla letteratura. Sul «Radiocorriere» la presentazione dello sceneggiato in programma non prevede interviste al regista, ma solo l’intervento di uno scrittore (Siciliano, Ripellino, Spaziani) che presenta il romanzo: come se fosse questo a andare in onda. L’altro grande modello del teleromanzo, dopo la letteratura, è il teatro. Preferito al cinema perché più adatto allo studio televisivo, meno costoso e forse per ragioni morali. «Non voglio far entrare i produttori cinematografici coi loro pacchetti di cambiali in via del Babuino» tuona il direttore dei programmi Sergio Pugliese. E i teorici pronti a spiegare che «la televisione non è cinema, bensì teatro avvicinato all’occhio dello spettatore» (Alberto Perrini). O perfino, come Renato May, a statuire che l’illusionismo, proprio del cinema, è estraneo al mezzo televisivo, che non deve mai far dimenticare la presenza delle telecamere e del narratore. Chissà perché. È un teatro all’antica italiana, con una compagnia formata da veterani della scena, legati a ruoli fissi. Il padre nobile Aldo Silvani, il padre severo Roldano Lupi, il povero diavolo Andrea Checchi, il fellone Ubaldo Lay, il brillante Leonardo Cortese. E ancora madri nobili (Wanda Capodaglio, Elsa Merlini), primi amorosi e prime amorose (Warner Bentivegna, Sergio Fantoni, Corrado Pani, Anna Maria Guarnieri), eterne governanti (Laura Carli). E anche medici barbuti, mercanti che si fregano le mani, malvagi che lanciano occhiate sinistre. 24


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Alcuni attori, come Fosco Giachetti e Massimo Girotti, sono stati celebri sugli schermi, altri, come Virna Lisi, lo saranno, ma nessun divo del cinema lavora in tv, perché la tv imbruttisce, paga male e non è di moda. I registi vengono dal teatro (Landi, Blasi) o dal cinema popolare (Majano, Cottafavi) e sono passati dalla radio. Se il cinema B ha praticato a lungo il feuilleton in costume, ormai soppiantato nei gusti del pubblico dai vari Pane, amore… e Poveri ma belli, la radio ha nel romanzo sceneggiato uno dei suoi filoni di prestigio. Sono queste le fonti immediate del teleromanzo; per quelle remote si può risalire all’illustrazione popolare ottocentesca e su fino alla Biblia pauperum medievale. Il modo di produzione è più vicino al teatro che al cinema; si prova una settimana per andare in scena, cioè in onda, il sabato sera, e replicare, sempre in diretta, la domenica. Inevitabile prevalenza di interni e di fondali dipinti, ma non mancano le costruzioni da cinema, come la nave Hispaniola dell’Isola del tesoro. I rari inserti, filmati precedentemente in esterni, vengono mandati in diretta come contributi, con perfetto tempismo. «C’era il duello sul brigantino tra Jim e un pirata. Il brigantino era in studio. Il pirata ferito si staccava dall’albero e cadeva sulla rete; in quel momento partiva il contributo, di quattro secondi, girato sul lago di Fogliano, dove il pirata cade in acqua» ricorda Majano, che ha vissuto avventurosamente il «bello della diretta». Ilaria Occhini che sviene tra le braccia di Raf Vallone, Fabrizio Mioni colto da un attacco di fou rire nel mezzo di una scena drammatica (e il regista deve staccare sulle pareti), Giovanni Cimara che si cambia in scena e sbaglia pantaloni, la spada di Foà che si piega durante il duello. E anche piccole papere degli attori, piccoli ritardi negli attacchi, magari sul gesto già cominciato… 25


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Teatro filmato dunque, con tutte le convenzioni del teatro e le imperfezioni della diretta. Facile distinguerlo allora dai film, anche dai più sobri e «da camera», ma girati inquadratura per inquadratura, cambiando ogni volta luci, posizioni degli attori, della macchina da presa… Nel teatrino dello sceneggiato, ripreso contemporaneamente e alla meno peggio da quattro telecamere, non si può piegare lo spazio-tempo alle esigenze del racconto, per cui si vede sempre un po’ troppo e troppo a lungo: luci uniformi, passi superflui, corpi opachi dove non si dimentica del tutto l’attore dietro al personaggio. Niente a che vedere, tuttavia, con la piattezza di situation comedies e telenovelas a venire. Anche il cinema è un modello, sia pure in subordine. Infatti si possono ammirare movimenti di macchina virtuosistici e profondità di campo fortemente drammatiche. Come quando la telecamera si allontana dai due prepotenti, arretra fino a inquadrare l’elsa di una spada e quindi risale al primo piano di Capitan Fracassa, appostato nell’ombra. Fine della terza puntata. Né mancano altri topoi del linguaggio cinematografico: immagini soggettive, effetti fantasma, dettagli funzionali, voci fuori campo evocative… Insomma, quando si dice teatro filmato non suoni più come un insulto. Ripresa in diretta, l’azione si svolge in tempo reale e non evita i tempi morti. Se qualcuno per arrivare alla porta deve attraversare la stanza, non si può barare, come si fa al cinema col montaggio. E per evitare che le telecamere entrino in campo, gli attori si muovono con prudenza. Se poi un personaggio deve passare da un set all’altro e magari cambiarsi d’abito, è necessario chiudere la scena su un attore che dopo non compare; da cui gli indugi sulla serva che sparecchia, il maggiordomo che accende il lume… Si parla anche lentamente e staccando bene le 26


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parole. Perché non tutti intendono con la stessa prontezza e perché la cultura deve essere solenne. Diretta, dominio dello studio, autarchia, pedagogia, ciclo integrato, dal soggetto alla messa in onda; c’è qualche affinità con lo studio system hollywoodiano. Il direttore dei programmi, il commediografo Sergio Pugliese, sceglie testi, registi, attori, come facevano Harry Cohn o Jack Warner: un monarca assoluto. Non può mancare un codice di autocensura, il codice Guala, altrettanto meticoloso del codice Hays nell’enumerare i tabù («le relazioni illegali debbono sempre essere configurate come anormali… le danze non debbono consentire nudità immodeste…») e come quello destinato a tacite, clamorose violazioni: la Pisana-Lydia Alfonsi che in camicia da notte si offre a Carlino-Giulio Bosetti invitandolo a seguirla nella sua stanza. Eppure è soltanto il 1960. Ufficialmente l’anno in cui l’Italia diventa un paese industriale; di qui a poco, nel 1962, anche lo sceneggiato diventa più industriale, e meno effimero, grazie all’introduzione dell’ampex, il nastro magnetico, in anticipo sulle altre tv europee. Non è più necessario fare tutto in diretta, si può registrare prima e trasmettere poi, senza perdita di qualità. E si possono pianificare le riprese, come al cinema, raggruppando tutte le scene che si svolgono in un certo ambiente, o con certi attori, che invece prima d’ora, se comparivano per esempio nella seconda e nella quinta puntata, per le settimane intermedie dovevano restare a disposizione e venir retribuiti. Ma siccome all’inizio il taglio del magnetico è quasi impraticabile, ripresa e montaggio sono ancora contemporanei: si registra una scena tutta di seguito e il montaggio a posteriori è perlopiù di ripulitura, davvero non come al cinema. Risultato, dai dieci ai quindici minuti di registrato al giorno. E ancora, dati i 27


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budget modesti e i tempi stretti, stessa impronta teatrale, stesse imperfezioni negli attacchi e lentezze perfino assurde. In Papà Goriot di Buazzelli, Rastignac esce dal palco di una contessa per raggiungere il palco di fronte. Dopo che è uscito, la telecamera arretra dalla nobildonna rimasta sola, senza scoprire niente, senza che venga pronunciata una battuta, giusto per far passare tutto il tempo che Rastignac si presuma impieghi per attraversare un corridoio. In compenso l’occhio della telecamera aspira alla velocità. Invece di carrelli, zoom. Sottolineano violentemente sorprese, trasalimenti, colpi di scena, appiattendo lo spazio e cancellando la profondità: ma i registi, almeno nei primi tempi, ne abusano. Nel cinema, i vari Petri, Damiani, Rosi fanno lo stesso. Prevale, tra i tipi di inquadratura, quella più adatta all’introspezione, il primo piano; qualcuno, come Saverio Vertone, è convinto che si tratti dello specifico televisivo. Aumenta lo sforzo scenografico. Bolchi, per l’alluvione del Mulino del Po, fa allagare lo studio 3 di Milano, con i getti dei pompieri che sommergono gli attori. Anche gli affollati tumulti per il pane dei Promessi sposi vengono ricostruiti in studio. Aumenta, moderatamente, la percentuale di esterni, sempre ripresi a parte, in cinematografico. Ogni tanto si vedono attori in costume Ottocento uscire in strada e incrociare qualche comparsa, magari un cavaliere, un calesse, in un clima da ferragosto o da coprifuoco. Aumenta, comunque, l’impressione di realtà. Basta confrontare la Sardegna di Canne al vento (1957) con quella dell’Edera (1974): altre strade, altre barbe, altri baci, altre agonie. Perché nello sceneggiato, come nel romanzo naturalista, agonie e eredità contese ricorrono: gli estremi sospiri di Carlo Ninchi nell’Edera saranno eguagliati solo dai rantoli di Tino Carraro in Arabella. 28


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Il direttore generale della Rai Ettore Bernabei e il ministro della Difesa Giulio Andreotti, fra il pubblico di Sorella Radio, nel 1963. (Foto Teche Rai).

Tra musical e parodia. Virgilio Savona, Carlo Campanini, Renato Rascel, Silvio Gigli e Lucia Mannucci nella Primula rossa, episodio di Biblioteca di Studio Uno. ( Foto Teche Rai).

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Siccome molti sceneggiati vengono registrati a Milano, e grazie ai talenti persuasivi di Sandro Bolchi, al cast si aggiungono attori del Piccolo, come Tino Carraro e Gastone Moschin. Intanto Alberto Lupo si consacra divo con migliaia di fan, che come al solito confondono il personaggio e l’attore e magari gli scrivono chiedendo consigli per il mal di schiena. Giancarlo Giannini debutta, attonito, in David Copperfield, Enrica Bonaccorti è una pimpante fantesca nella Pietra di luna e Roberto Benigni transita sotto al balcone delle Materassi. Loretta Goggi percorre la sua infanzia dickensiana: sorellina dell’arrivista di Una tragedia americana, figlia della cameriera del dottor Manson, figlia adottiva di Jean Valjean… I bambini, dentro e fuori dal teleschermo, non hanno conquistato del tutto il diritto a non annoiarsi. I registi continuano a venire dal teatro (Bolchi, Fenoglio); qualcuno, come Vaccari, sogna il cinema. Alla metà degli anni Sessanta lo sceneggiato è uno degli appuntamenti più attesi, di poco inferiore, nel gradimento, a film e telegiornali, ma superiore a varietà e prosa. Già dai tempi del «Musichiere» la sua collocazione viene spostata alla domenica. La sera del dì di festa è notoriamente meno euforica del sabato del villaggio, più adatta alla degustazione istruttiva dello sceneggiato. Fioriscono in questo periodo varie ramificazioni del teleromanzo, come i gialli a episodi, sempre d’autore e d’attore: Maigret-Gino Cervi, padre BrownRascel, Nero Wolfe-Buazzelli, Philo VanceAlbertazzi. Cui si affiancano i cicli, meno classici, del tenente Sheridan (La donna di fiori, di quadri, ecc.), che impongono il profilo ligneo di Ubaldo Lay. Anche il varietà occhieggia alla letteratura negli indimenticati minimusical della «Biblioteca di Studio Uno», interpretati dal Quartetto Cetra. E la letteratura si con30


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tamina audacemente con il giornalismo e con la storia, nelle vite dei grandi (Dante, Michelangelo) e nei vari «Teatro inchiesta». Insomma, un genere albero, con radici profonde e lunghi rami. È ancora cautamente ottocentesco. Il nuovo direttore generale Bernabei, entrato in carica nel 1961, ha modernizzato diverse cose, un secondo canale più aperto alla sperimentazione, giornalistici più coraggiosi (ricordate «TV7»?), ma nel teleromanzo la sola grande apertura sono I giacobini di Zardi, dove fa scalpore che si dica bene di Robespierre (in omaggio al centrosinistra, insinua qualcuno). Il cinema, certo, viaggia ad altre velocità, ma in uno sceneggiato ’68 si potrebbe gridare al massimo: «Pellico libero!», «Radetzky boia!» o «Più potere alle Trade Unions!». Un ghost writer infila una citazione di Marcuse nel copione di Papà Goriot, ma nessuno se ne accorge. Il potere non sembra del tutto estraneo a questi ritardi. Certe dichiarazioni impertinenti di Paola Pitagora sulla Lucia dei Promessi sposi, riportate da un rotocalco, inducono il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat a telefonare personalmente a Sandro Bolchi per chiedere garanzie circa la «fedeltà allo spirito» dell’imminente sceneggiato manzoniano. Ma l’aria dei tempi filtra sotto la porta: il cast della Fiera della vanità riunisce Pietro Valpreda e Giusva Fioravanti. Nei Settanta l’evoluzione del costume si avverte di più. Si vedono i primi nudi (Madame Bovary), circolano le prime femministe e i primi terroristi, quelli di Dostoevskij naturalmente. Arrivano registi filologici e professorali, come Leandro Castellani e Marco Leto e arriva Rossellini, in fuga dal cinema. Lo studio si apre al mondo e lo ingloba grazie a un nuovo effetto speciale, il chromakey, simile al «tra31


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sparente» cinematografico, per cui gli attori, in studio, si muovono su sfondi ripresi altrove: trucco vistoso che può avere conseguenze ironiche, come in Ma cos’è questo amore? di Gregoretti. Viene adottato, nel 1975, il colore, che dovrebbe nascondere la povertà di certe ricostruzioni e che rischia invece di metterla impietosamente a nudo. Più decisiva l’introduzione del montaggio elettronico, per cui si può montare un’inquadratura per volta, come in un film, o quasi. E molti sceneggiati sono già tecnicamente dei film. Perché alla fine degli anni Sessanta, anche per arginare l’invasione di telefilm americani, si sono cominciati a produrre, oltre a film d’autore (Bertolucci, Olmi, Taviani) e a telefilm sperimentali (a cura di Italo Moscati), anche sceneggiati su pellicola, abbastanza costosi. Numi tutelari della nuova tendenza, due autori-produttori cattolici, Vittorio Bonicelli e Pier Emilio Gennarini: quest’ultimo concluderà la sua carriera nei tardi anni Ottanta, come consulente alla sceneggiatura dei Promessi sposi (sembra, stranamente, che certe sottolineature anticlaustrali siano state incoraggiate da lui). La realizzazione degli sceneggiati filmati non avviene più internamente all’azienda, ma in appalto a produttori cinematografici anche grandi, come De Laurentiis, che firma il primo della serie, Odissea, in coproduzione con Francia e Germania. Matrice sempre letteraria, linguaggio quasi cinematografico, ritmi ancora lenti. De Laurentiis, per paura di annoiarsi, si fa proiettare Odissea a velocità doppia. Nel cast si cominciano a leggere nomi di divi o ex divi del cinema, da Claudia Cardinale a Anthony Quinn, inseriti nella speranza di raggiungere i mercati internazionali, mentre grandi nomi della regia Rosi, Comencini, Antonioni - non disdegnano più di lavorare per la Rai. 32


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L’incontro di capitali e talenti, al servizio di una concezione lievemente funerea della cultura, è all’origine di nuovi brani da manuale. Non più anguste agonie da studio, ma due sontuosi funerali acquatici, di Anchise e di Ombretta, che Virgilio e Fogazzaro non avevano previsto. Assieme alla centralità dello studio, comincia e declinare l’immagine della Rai come azienda a ciclo completo (dalla produzione alla diffusione): qualcuno comincia a temere, o ad augurarsi, che si trasformi in una finanziaria. Vale ancora la similitudine con lo studio system hollywoodiano, che ha conosciuto un analogo processo di disgregazione, a cui si è reagito entrando nella logica del big budget, della singola operazione miliardaria. Logica premiata, per quanto riguarda la Rai, dallo sfondamento sul mercato americano, come partner minoritario degli inglesi (Mosè, Gesù di Nazareth), e quindi da sola, col Marco Polo. Non tutti sono d’accordo su questa politica del grande evento, e non hanno tutti i torti. «Quanti sceneggiati medi si sarebbero potuti produrre con i tanto discussi miliardi di Marco Polo? Quante persone in più sarebbero state impiegate, quante idee e progetti realizzati?» si domanda lo sceneggiatore Calligarich sulla rivista della Siae. Ma per venderli a chi, non certo agli americani, è lecito obiettare, e dunque come sarebbero rientrati quei miliardi? Accanto ai big hits internazionali (Gesù, Mosè, Marco Polo sono entrati nei «primi dieci» della tv americana) non mancano comunque i flops come L’isola del tesoro di Margheriti. Accanto alle operazioni coperte in partenza dai coproduttori stranieri, le false coproduzioni, dove invece di finanziamenti, dall’estero arrivano programmi di scambio, talvolta inservibili. Il nipote delle Materassi ormai legge «Capital» e «Variety» e parla da manager, ma non ha 33


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perso del tutto il vizio di vedere il grande affare anche dove non c’è. Ancora una domanda. È lecito continuare a chiamarli sceneggiati visto che da qualche tempo sono entrati nell’uso termini come fiction, miniserie e film per la tv? Accontentiamoci per il momento di definire romanzo sceneggiato o teleromanzo qualsiasi opera di narrativa a puntate e di origine letteraria. Sono questi probabilmente i segni di riconoscimento del genere, i suoi tratti distintivi, che lo differenziano sia dai generi a puntate, ma senza matrici letterarie, come gli originali televisivi, sia da quelli di derivazione letteraria, ma non sempre a puntate, come certi gialli a episodi. Fra tutti il teleromanzo è il più intensamente italiano, quello che rappresenta meglio il progetto, mai abbandonato, di educare divertendo. Perciò qui ci occupiamo solo di teleromanzi. Individuato il profilo del genere (uno dei profili possibili), cercheremo di disegnare, nei capitoli seguenti, una mappa approssimativa delle tendenze: popolare, accademica, sperimentale, colossale. Ognuna corrisponde a modi di produzione, tecniche, gusti, stili diversi, ma non si tratta, come si è visto, di uno sviluppo lineare, perché tendenze diverse coesistono in uno stesso periodo, mentre lo stile di un regista può attraversare diversi periodi; né vanno dimenticati i casi di attribuzione dubbia e certe costanti generali. Per esempio l’ascolto. Almeno prima di Berlusconi e del telecomando, il pubblico della domenica si nutriva di Fogazzaro e Dostoevskij, Bolchi e Vaccari, con la stessa voracità (rarissime le eccezioni, come lo sfortunato Circolo Pickwick di Gregoretti). Altra costante, il ritmo, o la sua mancanza. Dopo tanti anni gli sceneggiati sono più veloci, ma sempre diluiti, a una marcia sola (mentre il cinema oggi 34


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eccelle in sincopi, accelerazioni…) e lo sono per il solito vecchio motivo: più si allunga una scena, più puntate si fanno, più si ammortizzano i costi. Parafrasando McLuhan, il medium è il metraggio. O più crudamente con Godard: «In tv non si fanno opere, non si fanno che ore».

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Anton Giulio Majano con Renato Salvatori e Sophia Loren: La domenica della buona gente. (Foto Teche Rai).

Anton Giulio Majano con Maria Fiore: La domenica della buona gente. (Foto Teche Rai).

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All’antica italiana «Chi lascia un trono per amore non può dare scandalo: ricorda al mondo intero che cos’è l’amore». «E qui, mentre le coppie ballano e la musica suona, forse si fa la storia». «Andrew, per l’amor di Dio, non venderti». «Vent’anni: come mi pareva pulito il mondo a vent’anni, e pieno di sole». Chi è l’autore di queste battute? Anton Giulio Majano, naturalmente. Ammesso che siano stati Cronin e Salvator Gotta a scriverle, lui le ha migliorate, le ha rese degne della lapide. Come? Aggiungendovi il pathos, un pathos inconfondibile, fatto di pause eloquenti, voci vibranti, violini sullo sfondo. Perché fra i registi di teleromanzi Majano è il più popolare, in tutti i sensi. Le origini della sua maniera precedono l’introduzione della tv in Italia, e sono da ricercarsi in uno dei luoghi più malfamati del nostro cinema, il dittico Noi vivi, Addio Kira!, diretto nel 1942 da Goffredo Alessandrini, dal romanzo dell’emigrata russa Ayn Rand. Majano, già aiuto di Luis Trenker in Germania per Condottieri, firma come cosceneggiatore e collaboratore alla regia. A metà fra il pamphlet antisovietico, ma inefficace e senza gulag, e il feuilleton sentimentale, il film di Alessandrini racconta gli amori della studentessa Alida Valli, titubante tra un Rossano Brazzi aristocratico senza qualità e un Fosco Giachetti onesto commissario della Ghepeu, che alla fine si sacrifica per lei lasciandosi «suicidare» dai suoi compagni. Dalle colonne di «Bianco e Nero» un giovane critico di sicuro avvenire, Antonio Pietrangeli, lamenta l’abuso di primi piani, la regia statica, l’ambientazione stereotipata: difetti che nel giro di cinquant’anni forse diventeranno pregi, perché facilitano la riproduzione in 37


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serie. E poi si tratta di un film in due puntate, quasi un prototipo per gli sceneggiati a venire. Non che il piacere dell’occhio sia proprio assente. Basta ricordare il finale, quando Alida Valli in abito da sposa viene uccisa mentre tenta di passare la frontiera, sagoma bianca nel bianco assoluto di una steppa ricostruita in studio. E di belle inquadrature ce ne saranno, all’occasione, anche nei teleromanzi, purché non guastino il pathos. In Majano è sempre il drammaturgo a prevalere inesorabilmente sul regista. Ex ufficiale di cavalleria, la leggenda vuole che il suo genio strategico venisse apprezzato dal maresciallo Rommel, e in televisione continuerà a comportarsi come uno stratega astuto e tenace che, penalizzato da una cronica scarsità di uomini e mezzi, riesce sempre a trovare la via più breve per centrare l’obiettivo; con una tattica molto semplice: colpire al cuore. Da stratega e da pioniere, Majano intuisce subito che l’universo della cultura di massa è uno, e lo percorre in lungo e in largo, al galoppo. Dopo l’esordio rivelatore di Noi vivi, continua a scrivere film, a produrli, come capo ufficio sceneggiature della Scalera Film e a dirigerli, una decina, tra avventurosi e mélo. Sforna anche romanzi, commedie e soprattutto è un assiduo della radio, specialista nelle riduzioni dei classici: Jane Eyre, con Ubaldo Lay come protagonista, viene replicato oltre dieci volte. Al neorealismo ci arriva in ritardo e con poca devozione. Non è escluso che abbia visto in Pratolini e nelle sue tranches de vie un potenziale autore di situation comedies, trasferibili da un medium all’altro. Nel 1952 alla radio firma la regia della Domenica della buona gente, da un testo appunto dello scrittore fiorentino. Soliti bozzetti un po’ grigi di innamorati infelici, disoccupati di buona volontà, pensionati che giocano al totocalcio, sullo sfondo di una partita RomaNapoli e perciò vagamente «in diretta» (e moltiplica38


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bili, volendo, per tutte le domeniche di tutti i campionati). L’anno seguente il regista trasforma il radioracconto in un film, con Sophia Loren, Renato Salvatori, Maria Fiore. Segnale di una vocazione al remake, in anticipo sull’industria culturale, ribadita clamorosamente nel 1955, quando Majano concepisce l’idea temeraria di rifare per la tv Piccole donne, a breve distanza dall’ultima versione americana. Vincere la diffidenza del direttore Pugliese non gli è difficile. «Gli ho ricordato i romanzi a puntate nei quotidiani E lui alzò il pugnale su di lei. Il seguito a domani - la folla al porto di Boston in attesa della nave che veniva dall’Inghilterra con le nuove puntate di David Copperfield… E Pugliese - Due puntate al massimo Almeno quattro». È subito un trionfo, tanto che per esaudire le richieste del pubblico viene aggiunta in extremis una quinta puntata, a base di flash back. Che il pubblico preferisca Vira Silenti a Liz Taylor, Lea Padovani a June Allyson? Chissà. Sono meno splendenti, meno remote, più intonate ai nostri tinelli. Nel 1956, invece di un remake una novità, quasi un evento, L’alfiere, di Alianello, itinerario bellico e spirituale, da Calatafimi a Gaeta, di un ufficialetto borbonico fedele fino all’ultimo alla bandiera. D’autore e anche da producer l’idea di giocare d’anticipo sul cinema, rovesciando l’agiografia garibaldina sulla conquista del Sud, fino allora vigente nella scuola e sugli schermi, e mettendosi dalla parte dei vinti. «Mi piaceva fare come gli americani con la guerra di Secessione. Prima tutti gentiluomini al Nord e figli di buona donna al Sud, poi il contrario, poi sono arrivati a un compromesso; hanno fatto lo stesso con le guerre contro gli indiani. Soltanto noi facevamo tutti i piemontesi gentiluomini e al Sud tutti briganti». Majano non dice male di Garibaldi, ma basta la scena in cui un gruppo di camicie rosse cade prigioniero dei borbonici per scate39


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nare le proteste dei circoli garibaldini: «Evidentemente per loro un tenente garibaldino può venire ucciso, e allora monumento in bronzo con la spada alzata in mezzo alla piazza del paese, oppure uscire vincitore, ma prigioniero no». Con la scelta dell’Alfiere Majano gioca un tiro birbone a Visconti, che aveva messo gli occhi sul romanzo fin dalla sua uscita, nel 1943, e lui fintamente premuroso a sconsigliarlo: «È troppo lungo, rischi di fare un condensato. Ci vorrebbero almeno due film, come per Noi vivi». Curiosamente, ma non troppo, la censura, tanto sospettosa due anni prima con Senso, non ha trovato da ridire sull’Alfiere. Forse perché, parallela all’odissea dell’ufficiale, si snoda la via crucis di un frate (Aroldo Tieri), praticamente un santo, che vorrebbe unirsi ai garibaldini, ma diventa invece cappellano dei borbonici; morirà per una cannonata nel mezzo di una predica durante l’assedio di Gaeta. Tra anime belle e soldati tutti d’un pezzo, si muovono generali abbastanza cinici e fanciulle evanescenti: la frivola Emma Danieli, la romantica Ilaria Occhini, la maliziosa Maria Fiore, meno maliziosa che nel libro. Dove, a proposito di censura, il frate era scortato da un terzetto fortemente emblematico (padre brutale, figlia sensuale, genero losco) e cercava invano di redimerli. Come in un Buñuel, o giù di lì. Mentre nella versione Majano, accanto al frate c’è solo Domenico Modugno, scapestrato di buon cuore, che appena può si mette a cantare accompagnandosi con la chitarra. Anche questa di inserire il cantante nel cast un’idea da cinema; e dal cinema arrivano alcune guest stars, come Monica Vitti, la poco regale regina Sofia, moglie di Francesco II; Nino Manfredi, un garibaldino assolutamente non comico e anzi costantemente imbronciato; Carlo Croccolo, che fa la macchietta del soldato codardo e 40


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Videografia

La grande maggioranza dei titoli compresi nella filmografia, dal 1956 a tutti gli anni Settanta (e qualche titolo degli Ottanta) è pubblicata in dvd da Fabbri editore con Rai Trade, divisa tre collane. La prima, “I grandi sceneggiati RAI”, comprende tutti i titoli classici: molti Majano (da L’alfiere in poi), Bolchi (da Il mulino del Po), Fenoglio, ma anche sceneggiati meno celebri come Questa sera parla Mark Twain, Arabella o Quaderno proibito. In tutto più di ottanta sceneggiati in un centinaio di dvd. La collana “Gli sceneggiati RAI - I grandi classici per ragazzi” comprende circa 50 dvd da Il giornalino di Gian Burrasca a Cuore, Le avventure di Pinocchio, La freccia nera, ma anche titoli un po’ meno infantili come Il signore di Ballantrae, Tom Jones e Martin Eden. Infine la collana “Gli sceneggiati RAI - Giallo e Mistero” (uscite previste 85 dvd) con le serie poliziesche (Sherlock Holmes, Philo Vance) e classici come Una pistola in vendita. Abbastanza nutrita la collezione di dvd di Elleu Multimedia con RaiTrade, ordinata per cofanetti: Sherlock Holmes, Montalbano, Nero Wolfe, ecc. Nel catalogo Warner Video (sempre con Rai Trade) spiccano Le inchieste del commissario Maigret. Solo otto titoli, per ora, nella raccolta “La grande letteratura sceneggiata” di La Repubblica - L’Espresso, in collaborazione con Rai Trade: I Buddenbrook, I fratelli Karamazov…

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FALSOPIANO

NOVITĂ€

Andrea Antolini Hitchcock umanodisumano

Umberto Calamita e Giuseppe Zanlungo La classe operaia non va in paradiso. il cinema di lotta e di protesta

Mario Gerosa robert Fuest e L’abominevole Dottor Phibes

Gianni Volpi roger Tailleur. Gli occhi fertili

Paola Boioli Carmelo Bene

Alberto Brumana - Carlo Prevosti - Sara Sagrati - Marco Valsecchi Dispersi. Guida ai film che non vi fanno vedere

In libreria e su www.falsopiano.com (le spese di spedizione sono gratuite)


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