ALESSIO GRADOGNA FABIO TASSO
TOKYO SYNDROME le nuove frontiere dell’horror giapponese
FALSOPIANO
CINEMA
FALSOPIANO
eBOOK
Alessio Gradogna Fabio Tasso
TOKYO SYNDROME LE NUOVE FRONTIERE DELL’HORROR GIAPPONESE
FALSOPIANO
CINEMA
INDICE
Introduzione
p. 7
Hideo Nakata: entità spettrali
p. 15
Capitolo primo Il pensiero
p. 15
La biografia
p. 16
Ringu 2
p. 26
Ringu
Dark Water
The Ring 2
Capitolo secondo
p. 17 p. 31
p. 39
Takashi Miike: oltre il confine
p. 49
La biografia
p. 51
Il pensiero Audition
p. 49 p. 53
Ichi the Killer
p. 60
The Call
p. 72
Visitor Q
p. 66
Altri confini d’orrore
p. 77
Kiyoshi Kurosawa: identità perdute
p. 85
Capitolo terzo
Il pensiero
p. 85
La biografia
p. 87
Charisma
p. 93
Cure
Seance Kairo Loft
Capitolo quarto
Takashi Shimizu: le radici del terrore
Il pensiero
La biografia
p. 89
p. 99
p. 103 p. 107 p. 111
p. 111
p. 112
Ju-On e Ju-On 2
p. 113
Ju-On: The Grudge
p. 121
Tomie: Rebirth
p. 116
Ju-On: The Grudge 2
p. 126
The Grudge
p. 132
Marebito
Capitolo quinto
p. 128
Shinya Tsukamoto: la crisi della postmodernitĂ p. 137
Il pensiero
La biografia
Le avventure del ragazzo del palo elettrico
p. 137
p. 139
p. 140
Tetsuo: The Iron Man
Hiruko The Goblin
p. 145
p. 151
Tetsuo 2: Body Hammer
p. 154
Altri sintomi d’orrore
p. 159
Battle Royale
p. 163
Capitolo sesto Suicide Club Uzumaki
p. 159 p. 167
Wild Zero
p. 173
Infection
p. 180
Isola – La tredicesima personalità
p. 177
Note
p. 183
Appendice
p. 189
Schede tecniche dei film
p. 194
Filmografie
p. 189
Indice dei film citati
p. 202
Siti web di riferimento
p. 207
Bibliografia
p. 206
Ringu 2 (1999)
Introduzione
INTRODUZIONE
Il cinema si evolve. Cambia pelle, muta se stesso, si avvolge in spirali ininterrotte che lo portano ad assumere nuove forme, elaborare nuove immagini e nuovi riferimenti. In particolare il cinema di genere, nella sua accezione più volutamente esasperata della codificazione di movimenti, registi e stili autoriali, cerca sempre nuove fonti d’ispirazione, per sopravvivere e non lasciarsi fagocitare dal morbo della ripetitività. Ancor più nel dettaglio l’horror, con le sue infinite possibilità di variazione e l’incessante bisogno di autorigenerazione, è continuamente pronto ad assumere come proprie tendenze e visioni sempre differenti, a patto che esse possano portare nuova terra di conquista per appassionati e addetti ai lavori. Horror come riassunto ed estremizzazione di tutti i generi, come punto di contatto in cui il noir, il thriller, il giallo, il grottesco e perché no, il melodramma (pensiamo a La Mosca di Cronenberg), sanno solidificarsi sotto un’unica bandiera, spesso in grado di offrire significazioni sociologiche e spunti di analisi tecnica che vanno al di là dello splatter puro, inteso quest’ultimo come rivoltante susseguirsi di immagini scioccanti e quanto più possibile insopportabili all’occhio dello spettatore medio. Il cinema horror nella sua storia, e in particolare negli ultimi decenni, si è più volte eretto a rappresentazione in movimento di realtà politiche, di popoli e culture, di drammi collettivi e tragedie epocali, ed è divenuto specchio di intere nazioni e delle trasformazioni in atto e in divenire che hanno in vari periodi colpito Paesi profondamente diversi tra loro per mentalità e radici storiche. Così George A. Romero, nella sua tetralogia dedicata ai morti viventi, ha mostrato la sua visione dell’America 7
contemporanea in quattro decenni, offrendo di volta in volta metafore filmiche della società a lui contestuale; così i fantahorror degli anni Cinquanta e Sessanta riflettevano i postumi della Seconda guerra mondiale e poco dopo le angosce della Guerra fredda; così negli anni Settanta il gruppo di ribelli capitanato in prima linea da Wes Craven e Tobe Hooper esplicitava l’angoscia e la confusione di una nazione reduce dall’insopportabile vacuità post-Vietnam. Ma non solo negli Stati Uniti l’horror è stato più volte simbolo di un periodo storico: anche in Italia, e in molti altri Paesi, il cinema di genere ha frequentemente messo in luce riferimenti non tanto nascosti alla realtà storico-politica dell’epoca. Veniamo ora al Giappone, la realtà prescelta come punto focale di questo testo. Una cinematografia totalmente sconosciuta al pubblico occidentale fino alla fine degli anni Quaranta, poi gradatamente sdoganata oltreoceano dalle opere di Akira Kurosawa, Kenji Mizoguchi, Yasujiro Ozu, Shohei Imamura, Kon Ichikawa, Teinosuke Kinugasa, Masaki Kobayashi, Mikio Naruse e molti altri. In realtà il cinema in quel Paese esisteva ben prima di Rashomon (1950), nato agli albori della settima arte, dopo che i fratelli Lumière ebbero filmato alcune scene di vita nelle strade di Tokio tra il 1896 e il 1897, in un’epoca in cui il Giappone si apriva finalmente agli influssi occidentali dopo secoli di isolamento. Mescolando la riproduzione naturalistica della realtà con forme di rappresentazione derivate principalmente dal teatro Kabuki e dalla letteratura, contando su una realtà produttiva incentrata fin da subito su colossi quali la Nikkatsu e la Shochiku, sopravvivendo a cataclismi come il terremoto di Kanto del 1923, la realtà cinematografica giapponese mostrava imponente vitalità fin dagli anni del muto, in cui già operavano autori come Ozu e Mizoguchi. Dopo un difficoltoso approdo al sonoro, dovuto alla diffidenza dei grandi autori che vedevano in quest’invenzione una rottura irrecuperabile dell’arte del muto, e a imperfezioni tecniche che per molti 8
anni lo resero di qualità mediocre, e dopo una violenta stasi produttiva dovuta alle devastanti conseguenze della Seconda guerra mondiale e alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, il cinema nipponico ha saputo risorgere a nuova vita. Negli anni Cinquanta e Sessanta si è giunti a uno splendore senza pari, sia qualitativo (le migliori opere di Kurosawa, Mizoguchi e non solo) sia quantitativo 1, alternando film prodotti dalle majors a realtà indipendenti, shomin-geki (film che rappresentano la vita del popolo) a jidai-geki (film in costume, film storici), lavori ancora desunti dalla tradizione teatrale e altri modernizzati per tecnica e contenuti con l’obiettivo di soddisfare i gusti degli spettatori occidentali. A quest’epoca ha fatto seguito un periodo di leggera crisi, negli anni Settanta e Ottanta, dovuto all’influenza negativa della televisione e a una più generale mancanza di idee, intervallo in cui soltanto i grandi maestri, spesso con l’aiuto di finanziamenti stranieri, riuscivano a realizzare film di considerevole livello (ad esempio Dersu Uzala e Kagemusha di Kurosawa). Agli inizi degli anni Novanta si è verificata una nuova ripresa, merito di autori originali, spesso indipendenti e di buon talento, come Takeshi Kitano. Infine, negli ultimi anni, la presenza giapponese nel panorama mondiale è letteralmente esplosa, nelle sale di consumo quotidiano e prima ancora nei festival, al pari delle cinematografie di altre nazioni orientali, per le quali quest’epidemia d’interesse ha coinvolto un po’ tutti i generi, portando alla ribalta autori ben lontani dagli stilemi dell’horror, o comunque raramente affini tra loro (da Kim Ki-duk a John Woo, da Wong Kar-wai a Johnny To, da Tsai Ming-liang a Tsui Hark). Il cinema giapponese, invece, Kitano a parte, ha nuovamente invaso l’occidente con un punto di forza solido e predominante: l’horror. Tutto è iniziato con Ringu (1998) di Hideo Nakata, all’inizio oggetto di culto del popolo internetnauta e poi vero e proprio fenomeno di costume impostosi attraverso 9
Vhs, Dvd e canali televisivi satellitari. Successivamente il passaparola ha fatto sì che autori fino a quel momento sconosciuti o comunque poco noti iniziassero a circolare nei circuiti festivalieri e non, raccogliendo proseliti impensabili fino a poco prima, entusiasmando sia la critica d’essai sia gli horrorofili accaniti. Da qui al saccheggio di idee, alle sonanti borse in denaro offerte ai registi per emigrare, e al fiorire incontrollato di remake, il passo è stato breve. Una moda, una tendenza, una colonizzazione al contrario che ribalta prepotentemente la classica direttrice da occidente verso oriente, un fenomeno di marketing al di là degli effettivi, peraltro indiscutibili, meriti di un nugolo di autori che ha saputo offire opere di valore, in grado di porsi come oggetto facilmente commercializzabile, ma al contempo capace di raggiungere l’obiettivo primario del cinema del terrore, e che da tanto tempo erano andato inesorabilmente perduto nei meandri del puritanesimo politically correct tanto in voga nell’horror contemporaneo: fare paura, spaventare, emozionare, offrire incubi visionari in grado di turbare i nostri sonni. Nell’analisi della tematica non va trascurata la tradizione degli obake-mono e dei kaidan-eiga, film di fantasmi e spettri che conobbero un discreto successo negli anni Cinquanta e Sessanta, attingendo a un genere letterario nato nel Periodo Edo (periodo storico che va dal 1603 al 1868), in cui convergevano racconti spiritici di stampo buddista e storie di folclore locale più vicine all’animismo di impronta shintoista, rese popolari dallo scrittore occidentale Lafcadio Hearn; una tradizione da cui molti degli autori contemporanei sono in qualche misura stati influenzati. Importante in tal senso, tra le altre, la figura di Nobuo Nakagawa (1905-1984), autore di Ghost of Hanging in Utusunomiya (1956), The Ghost of Kasane (1957), Black Cat Mansion (1958), The Ghost of Yotsuya (1959) 2, Jigoku (1960) e Ghost Story of the Snake Woman (1968). Tornando a quanto già detto in precedenza, l’horror giapponese di fine (e inizio) millennio si è posto come 10
esemplare cartina di tornasole della realtà nazionale contemporanea, evidenziandone i progressi, le problematiche, le inquietudini e le difficoltà. Così ogni settore della vita pubblica è stato analizzato dall’occhio di una lente attenta e spesso feroce nel denunciarne limiti e soprusi: la disumanizzazione dell’individuo a vantaggio dell’alienazione industriale (Tetsuo di Shinya Tsukamoto, antecedente a Ringu e vero e proprio padre putativo dell’intero movimento), lo sviluppo tecnologico indiscriminato e incontrollabile (Kairo di Kiyoshi Kurosawa), il mondo yakuza che riempie le strade di morti e vendette senza fine (Dead or Alive, Ichi the Killer e Gozu, tutti di Takashi Miike), la paura della restaurazione di totalitarismi dittatoriali (Battle Royale di Kinji Fukasaku), la facciata perbenista di un’istituzione sacra, quella familiare, che spesso nasconde segreti inconfessabili (Visitor Q ancora di Miike). E ancora, il ritorno di miti e leggende che portano alla luce antiche maledizioni, spiriti e fantasmi, metafore di un’identità culturale spesso confusa e ingovernabile (Ringu, ma anche Dark Water di Hideo Nakata, Ju On di Takashi Shimizu, Inugami di Harada Masato, Isola di Toshiyuki Mizutani, di nuovo Kairo), l’inadeguatezza del ruolo delle istituzioni, in particolar modo quella scolastica (Suicide Club di Shion Sono e ancora Battle Royale), il fatalismo estremo fondato sulla caducità della vita (Uzumaki di Higuchinsky), la ricognizione ultima e definitiva sul senso e la sopportazione del dolore (la serie splatter inaugurata con Guinea Pig di Hideshi Hino 3), la commistione metalinguistica tra universi reali e virtuali (St. John’s Worth di Ten Shimoyama, e ancora Kairo). Tematiche specifiche dell’universo giapponese, ma al contempo riscontrabili anche nelle altre cinematografie horror orientali, in particolar modo di Corea del Sud e Hong Kong, anch’esse floride di salute, anche se più discontinue, e ormai conosciute e apprezzate in occidente: i fantasmi di The Eye di Danny e Oxide Pang, e di Two Sisters di Kim Ji-woon, gli spiriti vendicativi e il sistema 11
scolastico coreano insano e violento nella trilogia iniziata con Whispering Corridors di Park Ki-Hyung, l’apoteosi della vendetta nel trittico di Park Chan-wook inaugurato con Sympathy for Mr. Vengeance, e tornando indietro di alcuni anni, i deliri splatter degli hongkonghesi Herman Yau (The Untold Story, Ebola Syndrome) e Nam Lai Choi (Story of Ricky). Anche in Italia, come abbiamo accennato, l’interesse per l’horror orientale è aumentato esponenzialmente in questi ultimi anni. Se all’inizio degli anni Novanta il passaggio di Tetsuo su Rai Tre era da considerarsi un fatto straordinario, capace di circondare questo film di un vero e proprio alone di culto, mai si sarebbe potuto immaginare che una decina d’anni dopo avremmo potuto trovare proiettati nelle nostre sale, con continuo successo di pubblico, i vari Phone, The Call, Two Sisters, The Eye, per non parlare dell’appeal commerciale che ha permesso ai remake americani The Ring e The Grudge di sbancare il botteghino nostrano, con l’aiuto di prominenti star del mercato d’oltreoceano come Naomi Watts e Sarah Michelle Gellar. E prim’ancora delle sale di consumo ci avevano pensato i festival, in Italia e non solo, a dare ampia visibilità al fenomeno: Berlino e Cannes, Battle Royale 1 e 2 e Ichi the Killer proiettati al Torino Film Festival, il FarEast Festival di Udine, retrospettive organizzate un po’ ovunque nelle manifestazioni di genere e non, fino al 2005, con il corposo omaggio alla storia del cinema orientale dedicato dalla Mostra del Cinema di Venezia, e l’imponente presenza (Loft e House Of Bugs di Kurosawa, Haze di Tsukamoto) al Torino Film Festival, senza dimenticare l’anteprima italiana di Yokai Daisenso (Miike) e l’omaggio alla tradizione degli spettri nel cinema giapponese al Future Film Festival di inizio 2006. Quali sono le ragioni? Da dove nasce una simile invasione? Dove risiedono le motivazioni intrinseche di cotanta razzia visiva? Le risposte a queste domande sono complesse, stratificate, difficilmente univoche. Forse il 12
desiderio di scoprire una realtà nuova che ci rendiamo conto di conoscere molto meno di quanto crediamo, o di non conoscere affatto; forse l’atavica paura dell’altro, di ciò che è lontano da noi, che non ci appartiene e che dunque non ci permette di rinchiuderci nel nostro bozzolo di certezze; forse un processo inconscio e inevitabile, come unica modalità di rinascita (la sopracitata autorigenerazione) di un cinema horror che da molti anni annaspava imprigionato in schemi consunti e ormai senza nerbo, e che soltanto nell’esplorazione di un movimento nuovo poteva trovare ossigeno e indispensabile linfa vitale; forse semplicemente il piacere di gustare un po’ di quell’esotico profumo d’oriente glorificato anche da pellicole in antitesi con l’horror (Lost in Translation di Sofia Coppola, con un Bill Murray, nel quale ben ci identifichiamo, esiliato, confuso e sperduto in una realtà pressoché incomprensibile, e non solo a livello lessicale); forse ancor più semplicemente l’invidiabile capacità degli autori di questa nouvelle vague di scavare nel profondo dei nostri cuori per estrarne le paure più recondite e le infinite insicurezze che si nascondono nell’apparente quotidianità, glorificando non a caso (s)oggetti di consumo giornaliero come il telefono cellulare, le videocassette e Internet. Risposte multiple e autonomamente interpretabili. Non c’è una verità, e ce ne sono infinite. Questo testo si propone di aiutare ogni lettore a trovare le proprie, attraverso un’analisi approfondita dei film e degli autori a nostro giudizio più significativi, fornendo sia le notizie biografiche essenziali, sia gli strumenti per una migliore valutazione delle opere che tanto hanno saputo terrorizzarci. E che, ne siamo certi, continueranno a farlo.
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Avvertenza
Nella stesura di questo libro, gli autori hanno deciso di scrivere i nomi propri orientali alla maniera occidentale, quindi con il nome anteposto al cognome. Ciò al fine di rispettare la nomenclatura comunemente utilizzata, sebbene filologicamente non corretta. Si è inoltre stabilito di citare i film, tranne rari casi (Ringu, Kairo), secondo la traduzione italiana, quando presente, o in alternativa inglese, per facilitare la fruizione a ogni tipo di lettore. Nell’appendice finale sono comunque presenti i titoli originali di ciascuna opera. La data dei film è solitamente quella di produzione, non di distribuzione.
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Capitolo primo
Hideo Nakata: entità spettrali
Capitolo Primo
HIDEO NAKATA: ENTITÀ SPETTRALI I. Il pensiero
Ho la tendenza ad accentuare lunghi intervalli nelle mie colonne sonore. Altri utilizzano insieme diversi suoni per esprimere la sensazione dell’orrore, ma io posso aumentare al massimo la percezione utilizzando un suono molto tenue. Nella cultura giapponese c’è questa idea dell’“estetica della sottrazione”. Anche un atto di repressione può essere considerato una forma di bellezza. Mi piace paragonare il lavoro sul suono di un film a una sinfonia. Essa è costituita da vari movimenti, alcuni tranquilli, altri più vivaci, ma sono tutti collegati in modo da formare un flusso sonoro e di conseguenza la sinfonia completa. Una colonna sonora cinematografica viene creata nello stesso modo 4.
Non credo nei fenomeni sovrannaturali ma ho imparato che è interessante, facendo questo tipo di film, avere a che fare con il sovrannaturale. Ogni volta che ho scene con i fantasmi, parto dalla realtà, sono come un bimbo che gioca e pensa a inventare spiriti che impressionino il pubblico. Mi piace anche pensare che gli spiriti siano un po’ come gli umani 5.
… Il pubblico di questo genere di film è formato prevalentemente da teenagers e l’horror orientale ha la caratteristica di non essere splatter ma di fare molta paura, una cosa che questo giovane pubblico trova molto 15
interessante e che di conseguenza trovano interessante anche i produttori, visto che quella fascia di pubblico è quella che porta più soldi e questi film portano tanti soldi. Ma devo dire che i registi di horror orientali sono molto influenzati dai film di genere americani, ma anche europei e italiani, e si sono anche influenzati a vicenda. In questo momento gli horror asiatici e i J-horror fanno tendenza, ma presto ci sarà una nuova ondata con nuovi stili e influenze 6.
Vorrei precisare che sebbene abbia diretto cinque film horror, non desidero essere etichettato solo in questo genere. Ho diretto altri tipi di film e perfino due documentari. Comunque l’horror mi piace molto, anche perché ancora mi spaventa. La cosa principale è riuscire a creare un “arco di ansia” in grado di catturare e tenere viva l’attenzione dello spettatore. Il quale deve ovviamente identificarsi nelle paure dei protagonisti. Caratterialmente credo di essere una persona piuttosto insicura e apprensiva. Questo però mi aiuta a capire come raccontare la paura, perché mi spavento io stesso in prima persona. Non sono, però, un maniaco di questo genere. Né come regista, né come spettatore 7. Visualizzo nella mia mente quello che voglio raccontare e - con l’aiuto di un artista - creo lo storyboard delle scene che intendo realizzare con la macchina da presa. Se mi chiede come queste cose emergano dal mio cervello credo che sia qualcosa molto complesso da raccontare e - forse - più sinceramente non lo so. Leggo una sceneggiatura e questa - pian piano - prende corpo dinanzi ai miei occhi 8.
II. La biografia
Nato a Okayama nel 1961, Hideo Nakata si trasferisce 16
a Tokyo per studiare giornalismo. Durante gli anni universitari matura il suo interesse per il cinema, che lo induce a guardare diverse centinaia di film all’anno. Dopo la laurea trova lavoro come assistente alla regia presso gli studi Nikkatsu ed esordisce nel 1992 con il film per la televisione God’s Hand. Nel 1996 realizza l’horror Ghost Actress, il suo primo film a uscire in sala. Entrato in contatto con lo sceneggiatore Hiroshi Takahashi, a Nakata viene proposto di realizzare la versione cinematografica di un romanzo del celebre scrittore horror giapponese Koji Suzuki; nel 1998 esce così Ringu, che diventerà uno dei più grandi successi della storia del cinema horror giapponese. Segue l’anno dopo Ringu 2, ma Nakata, per non rischiare di rimanere confinato nel genere, decide un’incursione nel giallo di matrice hitchcockiana con il film Chaos (1999). Nel 2000 realizza altre opere piuttosto eterogenee, quali il documentario Sadistic and Masochistic, Sleeping Bride e Sotohiro, ma è nel 2002, con Dark Water (vincitore del Gerardmer Film Festival in Francia) che Nakata ottiene un altro successo commerciale e si segnala come uno dei registi di punta dell’horror nipponico. Con l’uscita, nello stesso anno, del remake americano di Ringu, intitolato The Ring, diretto da Gore Verbinski e interpretato da Naomi Watts, il nome di Nakata comincia a circolare anche tra gli spettatori occidentali. Dopo aver realizzato Last Scene (2002), Nakata viene contattato da una produzione americana e incaricato di dirigere il sequel The Ring 2, che esce nel 2005 e lo impone definitivamente come uno dei registi horror più importanti del mondo. L’interesse delle produzioni americane per le sue opere è testimoniato dal remake di Dark Water, diretto da Walter Salles e interpretato da Jennifer Connelly, uscito anch’esso nel 2005. III. Ringu
Il film che permette a Hideo Nakata di acquisire la noto17
Hideo Nakata
Ringu (1998)
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rietà è una riuscita commistione di elementi antichi e moderni, di tradizione e tecnologia. Nakata adatta per lo schermo il fortunato romanzo di Koji Suzuki, e con il secondo film definisce il proprio stile, codificando gran parte degli elementi che si ritroveranno poi nei film successivi. Una leggenda metropolitana vuole che esista una videocassetta con un filmato spaventoso, dopo aver visto il quale si riceve una telefonata che annuncia la morte a distanza di una settimana esatta dalla visione. Dopo la morte della nipote, una giornalista decide di indagare sulle circostanze misteriose che l’hanno provocata. Rintracciata la cassetta, riceve la terribile telefonata, e aiutata dall’ex marito cerca di identificare i personaggi che appaiono nel video. Dopo che anche il figlio Yoichi ha visto la cassetta, la donna scopre su un’isola vicina al Giappone parte del mistero che si cela dietro il filmato, ma non riesce a evitare la morte dell’ex marito. Per salvare la vita al figlio dovrà accettare di perdere un altro membro della sua famiglia.
Innanzitutto, Ringu è un film di fantasmi, di presenze che si materializzano da un passato oscuro e sconosciuto, di entità spettrali e misteriose che portano con sé una maledizione che non si conosce o non si riesce a svelare. Non va dimenticato che il tema portante di Ringu trae origine da una cultura, com’è quella giapponese, che da più di duemila anni è legata agli spiriti e alla loro influenza sul mondo dei vivi (il recente capolavoro d’animazione di Hayao Miyazaki La città incantata ne rappresenta un fulgido esempio). Da questa concezione della vita, che trae origine anche dallo shintoismo, la religione più praticata in Giappone, deriva la convinzione che il mondo dei vivi sia circondato da un mondo parallelo, invisibile, che in qualche modo riesce a influenzarlo. Come ha detto lo stesso Nakata, la differenza fondamentale tra l’horror occidentale e quello giapponese è che il primo tende a 19
mostrare la lotta basilare tra Bene e Male (derivata dal Cristianesimo, che è una religione monoteistica), mentre il secondo enfatizza il ruolo del mondo degli spiriti su quello dei vivi. Le paure ancestrali che Ringu mette in scena, quindi, non nascono dal nulla, ma sono il prodotto e la rielaborazione di duemila anni di cultura giapponese, che evidentemente ancora non ha smesso di generare ansia e inquietudine. Ma il sostrato storico-culturale di Ringu non si limita a questo; il film, infatti, riprende la tradizione del cinema horror giapponese, piuttosto popolare negli anni Cinquanta e Sessanta, e che era conosciuto all’epoca con il nome di yurei eiga o obake-mono (film di fantasmi); un cinema che attingeva a piene mani dalla tradizione del teatro Kabuki e Nô e che aveva raggiunto il culmine con The Ghost of Yotsuya, film del 1959 diretto da Nobuo Nagakawa e più volte citato da Nakata come fonte diretta di ispirazione per Ringu. Non va sottovalutata nemmeno l’attinenza con un particolare genere di fumetti dell’orrore, i cosiddetti kowai manga, molto in voga in Giappone soprattutto tra le lettrici femminili, che infatti sono state le prime accanite spettatrici di Ringu. Il film, pertanto, si inserisce a pieno titolo nella cultura dalla quale proviene. L’ambizione di Nakata, però, sembra andare addirittura oltre; egli cerca di instillare nello spettatore la paura dell’ignoto, il senso di terrore e spaesamento che si avverte di fronte a ciò che non si conosce. Siamo lontani dallo splatter o dalla ricerca esasperata di effetti speciali per terrorizzare chi guarda; l’origine della paura, qui, è dovuta soprattutto a presenze che appaiono e svaniscono, a un commento musicale perennemente carico di senso extra-diegetico (le musiche di Ringu e Ringu 2 sono composte da Kenji Kawai, che aveva già composto quelle del celebre anime Ghost in the Shell), a movimenti di macchina lenti e uniformi che incutono timore proprio perché non si sa ciò che potrebbero rivelare. Lo stile di regia di Nakata è già pienamen20
Ringu (1998)
Ringu (1998)
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te riconoscibile in quest’opera e caratterizzerà anche quelle che seguiranno. Come si è detto, uno degli elementi di maggior fascino di Ringu è certamente la commistione di tradizione e modernità. L’idea che una maledizione causata da eventi risalenti a trent’anni prima possa provocare la morte tramite una videocassetta, oltre a essere il tema conduttore della storia, rappresenta anche un fattore di indubbio fascino. La diffidenza nei confronti della tecnologia, di qualcosa che non si riesce né a capire né a controllare, è il leitmotiv che attraversa verticalmente tutto il film. Il nastro che precede lo squillo del telefono è uno spauracchio che catalizza l’attenzione morbosa dei personaggi del film e per estensione anche quella dello spettatore. Si attua così un passaggio, raro e spesso difficile, tra la dimensione interna del film e quella esterna. Lo spettatore stesso, dopo aver visto la cassetta insieme ai protagonisti, attua un trasferimento (in gran parte probabilmente inconscio) della maledizione dall’universo filmico a quello reale, immedesimandosi nella situazione che viene messa in scena e arrivando quasi a sentirsi anch’egli vittima. A creare questo fascino disturbante contribuisce certamente anche il video “maledetto”, girato in 16mm secondo dichiarati stilemi surrealisti e privo di un senso logico, ma proprio per questo ancora più misterioso e inquietante. Vale la pena di sottolineare l’importanza dei simboli, non solo in Ringu, ma in tutta l’opera di Nakata. Il simbolo è un richiamo forte, privo di mediazioni, a un archetipo ancestrale in grado di coinvolgere immediatamente chi vi si trova davanti nel proprio universo. In Ringu il simbolo per eccellenza è ovviamente il pozzo. Un elemento che di per sé rappresenta il passaggio possibile e potenziale a un altro mondo, un foro nel continuum spazio-temporale attraverso il quale si accede a dimensioni altre, alternative. In Ringu il pozzo appare fin da subito come elemento destabilizzante; la cassetta offre un’immagine distorta, sfocata, non ben definibile, ed esso 22
ricompare ogni qual volta gli incubi assumono una consistenza materica, quando si fanno concreti e “insistono” maggiormente sui personaggi e sullo spettatore. Il pozzo diventa quindi qualcosa dentro il quale ci si può perdere, un luogo nel quale la propria anima, la propria identità, la propria stessa vita vengono meno. Un simbolo di morte, ma non solo; soprattutto di qualcosa che può ancora portare, e porterà, morte. E anche una metafora dell’inconscio umano, quel territorio insondabile di freudiana memoria che, dominato dalla parte razionale del cervello, a volte fuoriesce dalle coordinate ordinarie e permette l’accesso a dimensioni sconosciute e terrificanti. Un altro simbolo, forse ancora più destabilizzante, è la figura di Sadako. La silhouette della bambina vestita di bianco, dall’andatura dinoccolata e faticosa, con il viso coperto dai capelli, mani e braccia rovinate dall’eccessiva permanenza nell’acqua, è una presenza dall’impatto visivo devastante, una figura in grado di catalizzare il terrore su di sé. Un simbolo del male, ma prima ancora della paura più immediata e naturale, quella che si prova all’apparizione di un elemento estraneo al proprio mondo. Sadako spaventa appena appare, per il solo fatto di “essere”, prima ancora di compiere qualsiasi gesto. Ma quando Sadako agisce, come nella sequenza della morte dell’ex marito della protagonista, in cui esce dal televisore e compie ineluttabilmente, con irreversibile e meccanica spietatezza, il suo progetto di morte, la sua presenza diventa intollerabile, ed essa emerge nella sua autenticità. È fondamentale e curioso insieme osservare i microcosmi familiari che Nakata mette in scena, un tema che si rivelerà fondamentale in tutta la produzione successiva; in Ringu, per esempio, la protagonista è una donna che vive sola con il figlio, ma questa condizione è chiaramente identificabile anche nel successivo Dark Water, dove la protagonista sarà una donna che vive sola con la figlia piccola. La famiglia, insomma, per il regista giapponese non è affatto il luogo della sicurezza e della stabilità, ma 23
Ringu sequel (1999)
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anzi una struttura fortemente esposta a subire attacchi esterni che possano minarne l’esistenza stessa. La mancanza di una forte figura paterna nella famiglia del bambino, in Ringu, trova inoltre un ideale richiamo nella condizione famigliare di Sadako, della quale non si conosce il vero padre, la cui origine non verrà mai completamente chiarita (nemmeno nei successivi Ringu 2 e Ringu 0. Birthday). È probabilmente esagerato pensare a un desiderio di analisi o critica sociale da parte di Nakata; più probabilmente, la scelta di mettere al centro dei film famiglie monoparentali risponde alla necessità drammaturgica di mostrare personaggi che lottano per affermare la propria individualità nel tessuto sociale, acuendo in questo modo la distanza tra il nucleo famigliare e il mondo esterno e contribuendo ad aumentare il senso di minaccia e pericolo che rappresenta una parte così importante nell’economia narrativa del film. Ringu sorprende per molti altri aspetti, uno dei quali è l’estrema linearità della storia. La sceneggiatura, in effetti, è una successione piuttosto ordinata e consequenziale (ma non prevedibile) di fatti indissolubilmente legati gli uni agli altri, addirittura così connessi tra loro che il precedente conduce al successivo secondo una catena causale serrata e senza soluzione di continuità. Il film diventa in questo modo una vera e propria ricerca (la cosiddetta quête), nella quale tutti i tasselli vengono volta per volta ricomposti, fino alla soluzione finale. Paradigmatica la sequenza iniziale, che codifica le coordinate lungo le quali si svilupperà l’intero film (e che Nakata ripeterà con minime differenze in The Ring 2): la stasi, l’evento che scuote la precedente immobilità (lo squillo del telefono), il senso di mistero e infine la morte, che sopraggiunge in modo improvviso e in circostanze poco chiare. Ringu procede secondo un disegno schematicamente rigido, nel quale le varie tappe si snodano in maniera immediata e palese. Anche i luoghi sono facilmente identificabili, ma mostrati in modo da risultare inquietanti e carichi di una 25
FALSOPIANO
CINEMA
Alessio Gradogna ha curato i capitoli dedicati a Takashi Miike, Kiyoshi Kurosawa e il capitolo “Altri sintomi d’orrore”. Fabio Tasso ha curato i capitoli dedicati a Hideo Nakata, Takashi Shimizu e Shinya Tsukamoto.
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