Idea di una nuova rivista di filosofia

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Idea di una nuova rivista di filosofia (in: MAGAZZINODIFILOSOFIA, vol. 1 (A1-SAGGI) del 2000, p. 5-14)

Un numero di rivista, – concepito secondo la tipologia corrente, legata a un’idea antica del Parnaso e a un’interpretazione moderna, barocca e illuministica di “repubblica delle lettere” come luogo ideale di intrattenimento “culturale”, dove si unisce l’utile al dilettevole e si richiama la convivialità implicita nella curiosità informativa e nel consumo rapido e gustoso (una tipologia corrente che si è anche adattata alle forme più recenti della comunicazione o “trasmissione” scientifica e dell’editoria che la “distribuisce”) – si presenta di solito come un piatto di portata: bistecca (gli articoli), contorni (rassegne note cronache), formaggi (le recensioni). Ma oggi, e da quando la rivoluzione informatica anglosassone ha dimostrato di poter abbattere la cortina di ferro in attesa di abbattere un po’ più in là la grande muraglia, si nota da un lato, che le “persone colte” sono sparite dalla circolazione (del resto, notoriamente inquinante) – dico quelle persone amabili che sono interessate a conoscere per sentito dire, per poi ridire in omaggio a una pratica salottiera di “conversazione”, che a sua volta,non c’è più, perché anche sui salotti televisivi grava la plumbea passività dell’ascolto di massa e la bestiale serietà di chi lo governa (o si propone di farlo). Quelle brave persone visitano ormai un mondo privato e segreto, la cui cifra è nel visibile e mirabile lathe biosas dei ricchi con le loro molte jet-societies o, con pari diritto, popolano i sempre riemergenti undergrounds dei giovani, quando non sopravvivono nei giardini ecologici della terza età o nelle riserve indiane (le cosiddette “sacche”) della povertà senz’aggettivi. Solo lì, dove il tempo sembra ristagnare, si fa ancora conversazione. Ebbene, i ricchi e i giovani, i vecchi e i poveri, intesi sociologicamente come categorie privilegiate dell’ozio e del consumo, del ricordo e del sogno (delle “donne” non si può più parlare in questo senso!) non hanno alcun titolo privilegiato per la meditazione filosofica, che interessa specialmente i produttori dotati di esperienza: quelli che hanno cuore e cervello per credere, lavorare,

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produrre e che riflettendo sul mondo che hanno ideato, voluto e costruito, riflettono sempre anche su se stessi e si mettono in questione da sé. Parliamo delle donne e degli uomini (ma allora in qualche modo anche di vecchi e bambini) maturi, forti, completi, normali. Quelli di cui sempre parlava Wilhelm Dilthey: quel tipo d’uomo che regge il mondo e che regge al ritmo del mondo, quello che possiede la forza viva dell’equilibrio naturale e la forza morale delle norme, il vero protagonista della società liberale: ossessione e cattiva coscienza della moderna “civiltà cattolica” e del moderno “stato sociale”. Dalle memorie di Goethe e dai Bildungsromane romantici (gli ultimi “classici” della civiltà europea in espansione) emerge sempre di nuovo la verità di una massima di Benedetto Croce: per filosofare (ma anche per scrivere, dipingere e fare all’amore) è necessario formarsi prima un cuore e un cervello. Ma soprattutto la filosofia è della maturità (o di una giovinezza che la desidera ardentemente, o di una vecchiaia che non molla). La maturità si conquista e si perde. La maturità è tutto (questa verità shakespeariana è già tragedia per Cesare Pavese). La chiacchiera (nelle portinerie), il salotto (sempre animato da una “donna”), il divertissement (méttilo nel feuilleton), il gioco della cultura (preferito dagli uomini effeminati e feroci): sono tutte cose che non interessano la filosofia se non in quanto implicano la responsabilità che sembrano eludere. D’altro lato, osserviamo ancora, la ripetitività meccanica delle forme di produzione e di comunicazione ha fatto sì, che anche questa forma corrente di rivista (il fascicolo bi-, tri-, quadrimestrale, piccolo libro che può viaggiare attraverso magazzini e librerie, bancarelle e supermercati, biblioteche e cassette postali con la sua ben nota e “conviviale” distribuzione interna degli spazi, delle forme grafiche e dei temi) non abbia più molte giustificazioni. E ne trova sempre meno se si pensa che il Prezzo di Copertina è per metà assorbito dalla cosiddetta Distribuzione (e lo sarebbe totalmente se tale leggendaria Distribuzione venisse effettivamente compiuta): la quale tende dunque vieppiù, in quanto c’è e in quanto non c’è, a coprire comunque, se non a soppiantare o, peggio, a suggerire quale sia in sostanza il senso vero della “comunicazione” e dell’unica comunicazione possibile. L’omologazione è verso il basso: dalla cultura, all’informazione, alla mera colonna di piombo. Perché, come i bambini non sono adulti immaturi, così il basso è il basso: non il luogo dove si suppone che sarebbero disgraziatamente caduti (o d’onde soltanto emergerebbero) i più alti valori. L’Autore, per esempio (altro personaggio in crisi) diverrà presto Editore perché oggi fa già normalmente anche il mestiere dell’antico compositore a mano, dell’antico linotipista, dell’antico proto e del correttore di bozze, per non parlare del grafico, dell’impaginatore e di decine di antichi onorati mestieri legati all’“arte tipografica” fondata da Gutenberg, – fino a diventare, su richiesta pressante del suo Editore, il venditore diretto del proprio prodotto (libro). Due corsivi, questi ultimi, nei quali si può leggere agevolmente la differenza incolmabile tra appartenenza e proprietà. A questo scopo, egli scende e sale, pagando o essendo pagato, per le altrui scale, che poi sono sostanzialmente quelle della notorietà giornalistica e televisiva: la dimensione stessa (e nella sua forma più felice!)

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dell’alterità, estraneità, esternità, alienità. Infatti, i giornali e i mass media sono sempre altri, e appartengono sempre ad altri, perché tendono ad abolire la figura stessa del “soggetto”, della proprietà o prossimità, e della “spontaneità”: essi sono un simbolo del potere e della sua trascendentale “circolarità”, che non va scambiata per il suo contrario sublunare e pedestre, la circolazione. L’Informazione, come il potere, è ormai divenuta circolare, ma ahimé non nel senso creativo della volontà di potenza, né in quello della circolare metafisica coincidenza dei trascendentali, ma solo nel senso che, passando da un produttore a un consumatore, non viene affatto “consumata” e, anzi, non esce mai dal mercato, ma attraversa il mondo e torna su se stessa, assorbendo e succhiando da tergo quello che era una volta il suo vorace consumatore. E se per lo più resta sempre nelle stesse mani è perché, diversamente dalla caratteristica forma capitalistica della “produzione per la produzione”, essa non consuma la vita per forzarla, rilanciarla e ritrovarla moltiplicata e accresciuta da quel consumo ma, come la volontà di Schopenhauer, si sottrae via via a se stessa, diventa sempre più irresponsabile e, in questa riflessione negativa, si consuma a sua volta da sé e tende a zero. Il fatto che, ciononostante, essa resti sempre nelle stesse “mani” non fa che misurare il tasso di decadenza e l’assoluta nullità tendenziale di quella che la sociologia italiana ha definito l’élite del potere. Basterebbe che, per un miracolo inaudito, essa leggesse Eschilo e imparasse a rinnovarsi: svanirebbe così la sinergia viziosa che premia l’alleanza tra élite e decadenza. Per rinnovarsi basterebbe che essa sapesse morire, accettando via via con pura fede le sentenze ineluttabili del corpo elettorale, lasciandosi consumare da esso. Perché sembra così audace affermare che chi difende i produttori e il prodotto deve difendere anche i consumi? Non approfondiamo! Però siamo consapevoli di aver evocato, nelle ultime quattro righe, non uno ma un’intiera legione di miracoli. Ma allora, che cosa ci stanno a fare i cosiddetti Editori (altra categoria in crisi)? Se sono piccoli (chi non conosce i simpatici, “Piccoli Editori”?) essi cercano di spezzare il cerchio del potere e sembrano, a torto, configurare la fattispecie di quelli che Brecht e Grosz inchiodavano come i “pescecani piccoli”, risentiti verso i grossi, ma ansiosi di diventare come loro. A torto, perché questi ultimi non sono “veri” capitalisti, ma percettori passivi di rendite di posizione calanti, non partecipano a un concorso e non c’è in palio alcun premio per il vincitore. Ma allora in cosa differiscono dai grandi? Anche la differenza specifica è irrilevante, in quanto andrebbe collocata in un genere, il cui titolo non può essere “editoria” e neppure “capitalismo”. Valori, “gerarchia di valori” (implicita nel concetto stesso di valore) e “critica dei valori” (possibile solo sulla base dei primi due) — si danno solo là, dove la libertà cruda e verde della moderna sfida capitalistica non sia ancora cotta e decotta. Dove vi sia rischio d’impresa e concorrenza tra imprese, dove il terrore biologico (che teme la vita, odia l’altro e, nell’altro, se stesso) non abbia cancellato, col suo impulso monocromatico alla “soluzione finale”, alla “guerra totale”, al “totalmente altro” del Conformismo e della Rivoluzione (con la loro corte di divinità minori: l’Anarchia, l’Assemblearismo, il Monopolismo, il Corporativismo, lo Statalismo) la positività vitale dell’egoismo e della forza, — ma sappia ancora (salvo che non abbia mai imparato a farlo) governare e insieme

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preservare le forze e gli egoismi e, secondo l’utopia platonica, volgerli di volta in volta, cavalli selvaggi domati ma non spenti, verso l’infinita varietà cromatica e l’infinita creatività formale dell’arcobaleno assiologico. L’elaborazione che Enzo Paci fece negli anni ‘50 della categoria crociana del “vitale” o dell’“economico”, nel quadro della sua critica dell’esistenzialismo e dello storicismo contemporaneo, era già una perfetta impostazione del problema sempre attuale della definizione di “ciò che è vivo e ciò che è morto”, non solo in questa o quella “filosofia”, ma nella nostra coscienza e nella nostra cultura. I Piccoli Editori rosicchiano sia pure ambiguamente spazi residuali nella Grande Omologazione e in modo infinitesimale spostano equilibri che sembrano, e non sono, stabili e forti, – finché un gesto sbagliato spezzerà l’incanto e, come dicevano una volta quelli cui mancava del tutto il senso del ridicolo, “una risata li seppellirà”. Per il momento tuttavia, tutti gli editori si dicono vittime della Grande Distribuzione, anche quelli che ne detengono la partecipazione azionaria di maggioranza. Ma non basta (poiché il re porta la croce più grossa): di questo potere di piombo l’editore soffre addirittura, in proporzione diretta ed esponenziale, in ragione delle sue dimensioni. E’ la ratio di una paralisi progressiva, che ricorda l’utopia negativa della caduta tendenziale del saggio di profitto (uno dei miti fondativi del postcapitalismo, e quindi del capitalismo), con la sua evidente nostalgia della produzione artigianale. La capacità di movimento e di movimentazione delle masse sembra, come è ovvio, inversamente proporzionale alla massa. E dei moderni Lettori, che ne è? Lo strumento della comunicazione di contenuti spirituali ad alta volatilità e instabilità critica (spiritus volitat ubi vult), si trova abbassato al livello di una ditta di trasporti intercontinentali. Non sa cosa trasporta, non sa dove e da dove. Il suo simbolo è solo per metà la grande rete mondiale di Internet, il sistema che nella sua vastità e nel suo stile ingloba i singoli operatori e fruitori: la metà di piombo. La metà libera e vitale, quella di coloro che individualmente utilizzano la rete, che nell’editoria sono i “singoli lettori” e gli scrittori singoli, sfugge all’editoria di grandi dimensioni, che tende a ridurre il Lettore a “quanto compra” e “quanto consuma”, lo Scrittore a “quanto vende” e “quanto produce” (mentre di tutto il movimento e di se stessa percepisce, dal canto suo, una cosa sola: quanto ricava). Azionando le rotative, trasportando tonnellate di carta o di CD-Rom, essa spara statisticamente nel mucchio con cartucce di pallini a rosa larga. “Qualcosa” accadrà. Saranno i sondaggi a misurare il già fatto. E’ una concezione che sembra studiata per le grandi potenze tradizionali della propaganda totale. Ma corrisponde al nuovo positivismo fantastico-statistico della fisica quantistica: nessuna “conoscenza” in un massimo di operatività. Una concezione che riduce l’individuo al ruolo, lo speciale al generico, l’essenza propria all’appartenenza e raccomanda dovunque soluzioni giacobine di governo totale, centrale, teocratico, abbastanza arbitrario e convenzionale da poter essere formulato e verificato con esattezza. Una linea di massa, una via del nulla, un metodo falsificazionista come quello della “rivoluzione culturale” cinese, che attribuiva alle masse la magia della costituzione del senso della storia e a sé la funzione negativa di apprendista stregone, di

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“levatrice” violenta e, insieme, vittima sacrificale della violenza storica. Una democrazia fondata insieme sul “mito” tellurico del fatto elevato a ragione e su una “religione celeste” della libertà irresponsabile. Ma se è vero che solo coloro che sanno di essere soli a pensare sanno anche quello che fanno, se questi sono i soli a cercare di farsi responsabili del tutto e (riescano o non riescano a capire il mondo) i soli che saranno presenti nell’ora delle decisioni, che proveranno a governare l’evento, che avranno successo o falliranno, — è vero anche che solo la somma imprevedibile delle buone volontà conterà e traccerà la risultante del parallelogramma delle forze. Ebbene, queste volontà non devono trovarsi soltanto nella cerchia decotta della classe politica, né miticamente collocarsi nel monotono capriccio delle masse, ma devono formarsi ed emergere dalla massa indifferenziata come libere personalità sovrane di utenti, lettori, cittadini, credenti nella libertà e nella democrazia. Ma “religione della libertà” è accettare le sentenze del corpo elettorale emesse correttamente secondo il rito, orientare le forze vive secondo valori alternativi, rendere trasparente la delega e (perché costretti dalle regole della concorrenza) rispettarne i limiti, saper ricominciare da capo riesaminando via via le componenti elementari della situazione, rinunciare a un “procedimento deduttivo” che, invece di guardare le cose coi propri occhi, deriva la verità da eredità istituzionali originariamente fondate su esperienze altrui o d’altri tempi; o a un “procedimento pragmatico” che manovra con algoritmi arbitrari un materiale simbolico cieco. Gestire le istituzioni come macchinette mangiasoldi corrisponde a una prassi di potere che solo l’istorìa può chiarire, “a babbo morto”, — ma anche a una prassi produttiva, partecipativa, comunicativa, educativa che potrebbe a sua volta adeguatamente definirsi soltanto come “manomissione di slot-machine”. Contro l’ossequio al potere costituito, bisogna creare non già una rivoluzione permanente, ma un margine ragionevole di istituzione permanente. Così anche nel campo delle Riviste di Filosofia noi sentiamo che esiste una complicità invincibile tra le forme generali della comunicazione e i suoi contenuti e vogliamo rinunciare per principio a inalberare una bandiera di scuola accademica o di Weltanschauung filosofica, che non sia quella della ricerca scientifica in tutte le forme e gli stili critici e autocritici della modernità e nell’apertura indiscriminata a tutte le tesi e gli orientamenti ideologici. Di nuovo: non per un partito preso prudenziale di equidistanza negativa, ma purché questi orientamenti sappiano interpretare sempre di nuovo “scientificamente” queste forme e questi stili. Qui il cerchio si chiude: la scienza e lo spirito scientifico presiedono alla tecnica e alla produzione capitalistica, come all’informazione, all’educazione e alla costituzione stessa di una società liberale e democratica. Ma ciò non significa che lo spirito conviviale dovrebbe ormai aggiornarsi imbandendo senz’altro, anche nelle riviste di cultura e di ricerca scientifica, manicaretti fatti di lipidi e glucidi, di proteine e di fibre, di vitamine, enzimi e ormoni. L’adeguazione alle convenzioni della produzione e della distribuzione non deve arrivare al punto di scambiare gli “pseudoconcetti” scientifico-pragmatici delle “operazioni” tecnico-scientifiche per

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la costituzione ontologica stessa della merce, banalmente ignorando le civetterie teologiche (ma anche quelle psicologiche, cosmologiche o sociologiche, per restare nel quadro delle definizioni kantiane e comtiane) che Marx ravvisava in essa e delle quali a buon diritto solo un pubblico borghese e maturo, assimilando e dissimilando, sa tener conto. Reciprocamente: dopo Marx nessun comunismo, nessuna identificazione sociale è più possibile, dopo Freud nessuna psicologia generale, dopo Nietzsche nessuna teologia e nessuna parola divina può più aspirare a dominare gli spiriti. Dio, l’individuo, la società sono pure civetterie, risvolti della “vita stessa” che fanno capolino qua e là. Orbene: se le categorie della vita sono etichette, noi vogliamo scrivere su queste etichette l’esatta sequela delle sostanze che la scienza esatta analiticamente vi ravvisa. Se accettiamo la cosa anche senza la sua anima, vogliamo anche la sua anima pur senza la cosa. Se qualcosa s’è rotto, noi ne raccoglieremo i cocci ad uno ad uno. Non si vorrebbe sembrare superiori a buon mercato. Anche a rischio di riscoprire, tardi e a caro prezzo, “l’acqua calda” dell’empirismo inglese. Questa sembra invece la tendenza prevalente: gli articoli (come i “papers” congressuali) devono essere sempre più brevi: ciò che si vorrebbe dire in quaranta pagine, non può esser detto in venti? E piuttosto che in venti, perché non dirlo in quindici pagine? Così si scivola verso l’infinitamente piccolo della microbiologia e della fisica subatomica. Ma il risultato non è quello forse sperato (di una potente sinteticità, icastica espressività, scarna ed austera oggettività), bensì quello opposto: di favorire e suscitare un linguaggio pedestremente allusivo, pieno di riserve e imbarazzi, ricco nel suo dire soltanto di non detto. Se hai un’idea, ti è proibito di svolgerla e ti si invita a dimezzarla, se hai una mezza idea, squartala. Su questi misfatti fioriranno titolazioni fatte di metafore inafferrabili, che spesso neppure la più attenta analisi dello striminzito testo riesce a spiegare. Che se poi ci riuscisse, avremmo il massimo concesso dalla formula: una circolarità barocca tra piattezza e acutezza, un vuoto gioco di parole. Come insegna lo stile “scalfariano”, il cui magistero post-togliattiano ha conquistato in venticinque anni (e si badi, non solo con l’acquisto diretto, ma soprattutto con la semplice “persuasione”!) tutti i quotidiani italiani e molte altre potenze affini della nostra vita quotidiana. Uno stile che raramente nasconde la notizia (la verità, la giustizia, il successo, la forza al potere, i soggetti e le responsabilità…) in qualche segreto recesso del testo, solo perché di norma la posticipa al “prossimo numero” in una telenovela di voci, rimandi e rimbalzi senza capo né coda, fino a farci desiderare di non esser informati, di non voler sapere, di non esser mai nati. Quanto al “nondetto”: ci interessa veramente solo quello di chi aveva qualcosa da dire, non più di una trentina di grandi comunicatori (diciamo: Parmenide, Socrate, Platone, Aristotele, Cristo, Agostino, Francesco, Giotto, Tommaso, Dante, Scoto, Occam, Leonardo, Michelangelo, Rabelais, Montaigne, Shakespeare, Cartesio, Locke, Spinoza, Calderon, Vico, Cervantes, Goya, Goethe, Kant, Hegel, Dostojevski, Husserl e Picasso…). Quello che la mamma cercava nel neonato o il curato psicanalista nel deviante quotidiano è invece solo componente infinitesimale del grande Non-detto del potere e del destino che, come lo Spirito Santo, accompagna ogni consultazione elettorale. Un Non-detto, il cui profondo messaggio politico, per emergere, deve essere preservato dall’eccesso di manipolazione insignificante.

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Un messaggio che tuttavia, per le infinite vie del Signore, peserà sempre sull’interpretazione dei risultati elettorali e sul destino delle maggioranze che essi determinano. A farla breve, nella nostra rivista (dal titolo antico, ma umile, forte e perfino brutale “Magazzino di Filosofia”), la bistecca dovrà essere di tipo americano: alta due dita e cotta a puntino. E perché non si tenti, circondandola di orpelli, di infinocchiare il lettore, le riserviamo un luogo apposito: il primo tomo (A) della rivista stessa dal titolo fisso e veridico “Sa g g i : analisi e prospettive” destinato a contenere quattro, tre o perfino un solo saggio autentico per volta, per un volume di ca. 150/200 pagine, a periodicità minima e dotato, come gli altri due, di un numerus currens (2000 A1,B1,C1; 2001 A2,B2,C2…), e contraddistinto da una copertina verde-senape. Noi inviteremo i nostri collaboratori (potenzialmente, tutti coloro che davvero studiano qualcosa) a svolgere fino in fondo la loro idea, sottraendosi da un lato alla stretta ideologia contenuta nella misura “paper”, dall’altra all’opposta necessità di scrivere una monografia di 350/400 pagine, come è richiesto dai concorsi universitari e da altre forme di ufficialità arcaica. Qui, con la scusa di presentare lo status quaestionis e di giustificare in esso il proprio “contributo personale”, l’infelice scrittore è invitato dalla repubblica dei dotti a riscoprire tutti gli ombrelli del passato e nel mucchio, spesso in posizione di scarsa visibilità, a incastonare il proprio gioiello. La nostra rivista offre invece la dimensione ideale per portare a conclusioni plausibili una tesi: non meno di quaranta o cinquanta pagine, non più di un centinaio. La forma del saggio ha una sua dignità che va difesa e favorita: in essa trovano un giusto equilibrio l’analisi oggettiva e la prospettiva soggettiva. E’ una palestra non per formarsi, ma per maturare. Vi si può esprimere con piena soddisfazione solo l’autore maturo e senza turbe psicologiche, quello che conosce la situazione obbiettiva (meglio mondiale che comunale) del problema ed è pienamente consapevole del proprio punto di vista. Da quel piatto tradizionale noi strapperemo via anche i “contorni” (note, rassegne, cronache), per autonomizzarli in un secondo tomo B, liberamente ricorrente all’interno della stessa numerazione, di mole analoga a quella del primo, contrassegnato da una copertina bianco-sporco. Anche su questi “sottogeneri” della letteratura di rivista vogliamo puntare i riflettori per farne risaltare le potenzialità insostituibili. Quanto alla “rassegna”, vi è una prassi che consiste nel raccogliere quattro o cinque saggi o volumi sullo stesso tema o su argomenti analoghi e “passarli in rassegna”, sia per dar notizia della loro avvenuta pubblicazione, sia per illustrare una convergenza di interessi su una determinata problematica (si veda ad es. La Philosophische Rundschau di H-G. Gadamer, la rivista francese Critique, o il vecchio quindicinale italiano Alfabeta). Noi ospiteremo rassegne, seminari tematici, biografie e interviste nel tomo B, intitolato in modo veritiero “Rassegne, Ritratti, Progetti, Commenti, Storia di Concetti, Seminari, Interviste”, dove “Rassegna” non sarà la raccolta paratattica di testi recenti con la stessa parola nel titolo, ma l’individuazione di un trend teorico o critico presente nella contemporaneità e dotato di una reale consistenza storica e teorica.

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In una contemporaneità che non sarà il “fresco di stampa” (altri strumenti se ne occupano o se ne sono occupati, come L’Indice o l’Informazione filosofica o, dopo le prove classiche de “Il Saggiatore”, molti ottimi bollettini editoriali) ma un vero e proprio, anche se minimo, segmento di storia della filosofia contemporanea negli ultimi cinquant’anni: per es. la scuola platonica di Tubinga, le letture francesi di teorici tedeschi (Hegel, Husserl, Freud, Nietzsche, Heidegger), le forme dell’aristotelismo novecentesco (per es. la riabilitazione tedesca della filosofia pratica; McIntyre e gli studi anglosassoni; René Thom e la moderna biologia), le tradizioni analitiche, logiche, grammaticali, linguistiche degli Sprachspiele di Wittgenstein, le recenti letture filosofiche di Leopardi e via dicendo. E ogni sorta di problematizzazione che possa andare sotto il titolo “Filosofia di…” (della scienza, dell’arte, della politica…; della fisica, dei giardini, del diritto pubblico… e via specificando). L’impostazione sarà essenzialmente storico-filosofica e, data l’oggettività dell’esposizione, il giudizio che l’accompagna sarà il più possibile esplicito e argomentato. I “Ritratti” seguiranno l’evoluzione di un autore attraverso le sue pubblicazioni. Le “Cronache” saranno dedicate solo a eventi di notevole rilievo per la qualità del loro oggetto. I “Seminari” riguarderanno convegni filosofici di particolare organicità e concentrazione tematica. L’ultimo pezzo del piatto tradizionale (i formaggi) sono le “Recensioni”, o meglio le “Schede essenziali”, le “Cronache” e gli “Strumenti”. Gli “Strumenti” saranno testi di interesse metodologico e pratico (speciali traduzioni, glossari, bibliografie, indirizzarî). Ma cosa si intende per “Scheda essenziale”? Anche qui l’autonomizzazione in un terzo e a se stante “tomo C” dalla copertina rosa-pallida-di-siepe presenterà da un lato la “Recensione”, ancorata all’attualità e dichiaratamente soggettiva, impressionistica, umorale; mentre, dall’altro, esalterà il ruolo della “Scheda essenziale”, che non è strillare l’apparizione del nuovo volume, ma far capire in prima istanza cos’è l’articolo o il libro schedato, vicina o lontana che ne sia la comparsa. Il “cos’è” <ti esti?> è naturalmente soltanto un punto di vista <eidos> Ma non uno qualunque, bensì quello della competenza. Anche queste “schede ” recheranno un numerus currens e non verranno “affidate” a giovani inesperti affinché, esercitandosi, rendano un mezzo servizio a tutti e non si sa a chi, ma verranno “richieste” solo a competenti nell’esercizio della loro competenza. Chi studia e scrive legge molti saggi, articoli, libri attinenti a ciò che fa. Noi lo chiamiamo a dedicare uno “stacco obbiettivante” a qualcuno dei più importanti, dimenticando per un’ora l’uso che ne sta facendo ai propri scopi, per isolare una serie di elementi obbiettivi che lo riguardano: dati sull’autore; tema o problema del saggio; angolazione caratteristica, proposta o tesi; il giudizio critico (limiti di validità o di interesse) può coincidere con l’esposizione stessa. Se si tratta di una traduzione è essenziale una classificazione schematica ed esemplificante di essa (un essenziale servizio di orientamento per gli editori meno rigorosi o mal consigliati). Del resto, solo chi è immerso nella propria impresa può dimostrare, uscendone, cos’è “obbiettivo”.

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La forma deve essere descrittiva e assertoria, un esercizio di verità: il recensore non deve “giustificare” la propria viva intuizione della cosa stessa. Egli deve esprimersi come chi dice la verità nuda e cruda al suo stretto collaboratore, allo scopo di orientarlo sulla sostanza della cosa e fargli risparmiare tempo prezioso e inutili giri a vuoto. Lo stile richiesto è lo stile di lavoro, senza fronzoli, di chi è del mestiere: precisione tecnico-terminologica e semplicità espressiva. Il lettore incompetente deve pagare la chiarezza e la comprensibilità del dettato con la netta sensazione di non essere del mestiere. Anche il lettore dovrà “insistere nella verità”, non essere illuso da una divulgazione corriva. La recensione deve esser lunga una pagina e mezzo. Ma eccezionalmente anche quattro pagine. Così come, eccezionalmente, il professionista, altrimenti metodico, passa una notte in bianco per assistere un malato o per scrivere una relazione urgente. Uno stile comunicativo di questo genere può essere rintracciato nel più provocatorio e sconcertante quotidiano milanese Il Foglio, che è provocatorio e sconcertante non per le sue tesi, ma proprio perché riscopre il gusto della notizia (l’essere!) nel modo più ovvio: assegnando alle “agenzie” lo spazio principale della prima pagina; e perché scatena il massimo di “soggettiva” incisività nella gabbia schematica di rubriche fisse, per lo più anonime (rigore metodico che non imponiamo ai nostri collaboratori: noi le firmiamo). Ciascuno dei tre volumi (A, B, C) che, insieme, costituiscono un’annata, sarà chiuso (a contrassegno dell’impegno informativo di base che deve accompagnare ogni lavoro di selezione e di controllo formale, tematico, metodologico e stilistico) da almeno una ventina di pagine di

rubrica permanente dedicata alla raccolta e all’eventuale segnalazione di indici di riviste, di seminari, listini editoriali, corsi universitari, schede minime di pubblicazioni recenti di editori specializzati, con inquadramenti sommarî.

A questa rubrica fissa generale puramente informativa e ad altre variabili si aggiungono quattro Rubriche tematiche, annuali, sui seguenti argomenti:

“Storia della medicina antica” con cui questa Rivista (che si presenta addirittura come “organo dell’Associazione “Paola Eliana Manuli — per la Storia della Medicina antica e dell’Epistemologia delle scienze umane”) intende onorare questi studi nella memoria di quella giovane studiosa prematuramente scomparsa);

“Insegnamento della Filosofia” e delle sue lingue-madri, il greco, il latino, l’ebraico, il tedesco nelle nostre scuole superiori;

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“La Biblioteca e i Media” nel mondo contemporaneo, nei suoi aspetti tecnico-scientifici e civili, con speciale riferimento alla comunicazione telematica; e infine

“La Traduzione” con particolare riguardo alla traduzione filosofica e alle lingue della filosofia universale (antiche e moderne, europee e orientali). Si aggiungono, se è il caso, un F

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delle partecipazioni apparse sulla stampa periodica e sui giornali a proposito di una celebrazione o scomparsa rilevante nel mondo della filosofia; e una o più

Cartoline di singoli filosofi su fatti rilevanti del momento che impegnino in modo particolare l’opinione culturale in Italia e nel mondo. In conclusione: il volume A presenta saggi dove un’idea personale è chiamata a mostrare compiutamente la propria suscettibilità di definizione e svolgimento senza degenerare nell’esibizionismo della compilazione totale: qui l’essere si risolve nella coerenza e nell’originalità dell’autore; il volume B presenta una raccolta di rassegne e documentazioni sulla realtà concreta della ricerca scientifico-filosofica e le sue tendenze recenti e in atto: come segmento di storia contemporanea (tendenze teoriche, critiche, più o meno univoche o problematiche emerse negli ultimi decenni in qualsiasi campo d’indagine in qualsiasi paese); come biografia (l’evoluzione intellettuale di una personalità scientifica ben nota o malnota, ma solida: cosa che la Rivista mostrerà attraverso la documentazione articolata di una carriera essenziale o attraverso un’intervista autobiograficamente impegnativa); nello studio concentrico di un seminario tematico (evitando i seminari o i congressi d’occasione e quelle raccolte tematiche in cui il tema risulti eccessivamente generico o pretestuoso e valutando a fondo la rilevanza oggettiva di posizioni diverse); come intervista; come commento; come progetto; come ricezione; come storia di concetti o di idee. Qui dunque l’essere è via via la realtà storica, personale, collettiva, tecnicoistituzionale della filosofia contemporanea; il volume C raccoglie cronache tematiche, notizie bibliografiche, analisi critiche di traduzioni o di strumenti terminologici (repertori, glossari, manuali, enciclopedie), assieme a decine di recensioni attuali e di schede essenziali condotte, queste ultime, secondo lo schema: dieci/quindici righe sull’autore del

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libro o dell’articolo da recensire (dati personali, ascendenze formative, luogo d’attività, opere principali); definizione della quaestio oggettiva in termini storicosistematici; definizione dell’interpretazione di essa nel contributo dell’autore trattato. Quindi si tratta di un vero e proprio “identikit” dell’opera in sé e per sé. Qui l’essere è l’opera scritta, che può non essere affatto recente, ma è sicuramente letta oggi da qualcuno che pratica e ama la filosofia. Di essa la rubrica denuncia:

1) il chi (colui che discute una questione) 2) il che cosa (la quaestio oggettiva, come quadro, contesto, condizione di possibilità) 3) il come e perché (disputatio soggettiva di tale quaestio) e, infine, 4) la strumentazione (eventualmente, stile, genere letterario, tradizione di appartenenza, qualità della traduzione). AlfredoMarini

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