magazzino di filosofia quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia n° 26, anno IX, 2015/ B9: s e g m e n t i (peer review)
P.E.M.
M a g a z z i n o
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F i l o s o f i a
Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia *Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia) *Redazione: Gianvito Brindisi (Napoli), Riccardo Lazzari (Milano), Simone L. Maestrone (Bonn, D), Alfredo Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Alessandra Rauti (Milano), Giacomo Rinaldi (Urbino), Erasmo S. Storace (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Roberto Valentini (Milano), Fabio A. Volontè (Varese), Alessandra Zambelli (Parigi, F). *Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano), Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Lorenzo Giacomini (Milano), Santino Maletta (Cosenza), Carlo Montaleone (Milano), Renato Pettoello (Milano). *Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Luisa Bonesio (Pavia), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina (Lexington, Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello (Milano), Klaus Held (Wuppertal, D), Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Giovanni Piana (Roma), Stefano Poggi (Firenze), Frithjof Rodi (Bochum), Gianni Scalia (Bologna), Franz-Anton Schwarz (Freiburg i. Br., D), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven (De Haan, B), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti (Pavia), Stefano Zecchi (Milano). *Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Jan Bednarich (Gorizia), Fiorenza Bevilacqua (Milano), Cristina Boracchi (Gallarate), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia), Andrea Cudin (Trieste), Carmine Di Martino (Milano), Miriam Franchella (Milano), Andrea Gilardoni (Milano), Sergio Levi (Milano), Pier Giuseppe Milanesi (Pavia), Walter Minella (Pavia), Luca & Mirela Oliva (Chestnut Hill, Ma.), Fabrizio Palombi (Roma), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano), Paolo Volontè (Milano). *Recapiti: email: info@filosofiacontemporanea.it; Associazione P.E.M, via Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com; “Riccardo Lazzari” rlazzari@tin.it; “Massimo Mezzanzanica” massimo.mezzanzanica@gmail.com; “Gianvito Brindisi” gvbrindisi@libero.it *Rubrica “Aggiornamenti”, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@>tin.it> / o: “Erasmo S. Storace” <erasmo.storace@alice.it> *SCHEDE e RECENSIONI, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@tin.it>/ o: “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Leggi nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic su “Expand”). *Acquista copie cartacee dei nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic sulla copertina, poi su “Copie Cartacee”) *Acquista le copie cartacee dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18 salvati dal macero) con email a: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com *Leggi una selezione dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18) sul Sito www.francoangeli.it (clic su “Riviste”, o telefona all’Ufficio Riviste, tel. 02 2837141). *Autorizz. del Tribunale di Pavia n. 508 del 14.04.2000, Quadrimestrale elettr., Dir. resp.: Alfredo Marini. *2° quadrimestre 2015 – Finito di stampare nel settembre 2015.
verum ipsum factum
Sommario IDENTITÀ E TERRITORIO Massimo Venturi Ferriolo, Elogio del costruttore
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Giacomo Rinaldi, Idealismo e trascendenza. A proposito di un recente saggio di Robert M. Wallace Giacomo Rinaldi, Etica e metafisica nell’“idealismo scettico” di Francis H. Bradley
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Sara Mazzotti, Leopardi & Nietzsche (IV°. La religione)
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NUOVO REALISMO Simone L. Maestrone, Presenta il saggio di Markus Gabriel, “Il non-fondamento come inattingibile Altro della riflessione – L’uscita di Schelling dall’idealismo”
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Pavao Žitko, L’Existenzphilosophie e l’impossibilità di pensare la Trascendenza di fronte all’esposizione jaspersiana di una dottrina dell’Umgreifendes
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Roberto Redaelli, Emil Lask. Il destino del soggetto da Kant ai Greci
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EVOLUZIONISMO & SCIENZE NATURALI
Francesco M. Scudo, La terra e la storia della Vita Francesco M. Scudo, Cenni su origine ed evoluzione delle principali forme di vita Francesco M. Scudo, Le origini delle principali forme di vita Francesco M. Scudo, The Origins of Major Life Forms
195 198 203 211
chiusa in redazione da Alfredo Marini 1i 15 agosto 2015
Rivista finanziata dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia ISBN: 978-1517559229 ISSN: 1592–5919
Questa rivista prodotta in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, esce per l’“Istituto Lombardo di Studi Filosofici e Giuridici”, ora “Istituto Filosofico Lombardo presso la Società Umanitaria” di Milano ed è espressione della ASSOCIAZIONE P.E.M. ‐ MEDICINA ANTICA & SCIENZE UMANE (Pavia)
IDENTITÀ E TERRITORIO
Massimo Venturi Ferriolo, Elogio del costruttore Odisseo varca una soglia dopo essersi soffermato a lungo, esitante. Sa di oltrepassare un limite tra natura e cultura per entrare nello spazio dell’abitare del palazzo di Alcinoo prodotto delle eccezionali abilità tecniche dei Feaci1. La loro arte è il risultato di un’evoluzione culturale: il punto alto di arrivo delle capacità edificatorie degli uomini. Una dimensione ideale ma possibile, quando si possiede la materia prima. Omero apre un capitolo sull’arte delle costruzioni con il suo vocabolario, forse il più antico in nostro possesso per quanto riguarda il mondo occidentale. Ci racconta la storia dei Feaci, condotti a Scherìa dal loro eroe eponimo Nausitoo che li insediò nell’isola cingendo la polis con un muro; costruì le abitazioni nella forma compiuta dell’oikos, della casa al centro della quale era organizzata la vita. Nausitoo è l’archēgetēs, somma guida capace di individuare i luoghi idonei all’abitare, fondatore di città. Costruttore di comunità politiche e di rocche, di polis e asty, circonda la città di mura, edifica case e templi; suddivide le terre e distribuisce i campi2. La sua qualità è di essere un theos tektonikos, un architetto divino, luminoso. Da buon demiurgo ha estratto le cose del mondo dal loro disordine originario (natura) costituendole in armonia (symmetria), dando loro le proporzioni3. È anche deinos, partecipa
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Omero, Odissea V 8. Omero, Odissea VI 7-10. 3 Cf. T. Schabert, Architettura della città specchio del mondo (1990), tr. it. di S. Sorrentino, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1994, p. 43. 2
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al mysterium tremendum et fascinans, numinoso: portentoso e inquietante direbbe Heidegger lettore di Hölderlin. Questa polis, circondata da alte mura con un bel porto e un’entrata stretta, è un paesaggio gradevole con il suo diffuso pregio artistico: una polis desiderabile con l’agora e il tempio secondo le concezioni di fine del VIII secolo a.C.4. Il paesaggio – meraviglioso a vedersi – comprende un bosco di pioppi dedicato ad Atena con fonte e prato, il recinto (temenos) e l’orto fiorente di Alcinoo dove si ferma Odisseo prima di entrare in città per recarsi al palazzo del re, gioiello di Scherìa e vera fonte di stupore (ivi, VI 291-296). Le indicazioni di Nausicaa per orientarsi nella casa ne mostrano la struttura: cortile, sala, focolare, colonne e trono. Tutti questi elementi la qualificano come «ben costruita», qualità posseduta anche dalla dimora di Odisseo a Itaca (ivi, VI 325). L’esitazione dinanzi al palazzo è un invito alla pausa di riflessione per osservare e conoscere la forma delle cose con i suoi contenuti. Vedere significa entrare nella cosa per svelarne l’essenza, cogliendo le relazioni dell’accadere: di ciò che ha luogo. La sua comprensione rivela l’identità locale e l’eccellenza del costruttore di dimore. Odisseo si trova in una polis che è fonte di educazione estetica: con una buona visibilità dell’insieme, carattere dei paesaggi di qualità sottolineato da Aristotele sia nella Politica che nella Poetica con il kosmos opseōs, l’universo della visione: il cosmo composto d’immagini con le loro funzioni e livelli formativi. Un cosmo che presuppone la buona visibilità d’insieme (eysynoptos) delle trame di un paesaggio, svelando le relazioni tra gli elementi che la compongono. È il rivelatore della bontà di una polis abbracciabile con un solo sguardo che ne permette la visione, quindi la conoscenza e la comprensione delle relazioni che la pervadono. Varcata la soglia, dunque, l’eroe entra in un palazzo ampiamente descritto in tre sezioni: costruzioni e arredi, individui, giardini (ivi, VII 81132). La casa di Alcinoo ha un soffitto alto come tutte quelle «ben costruite». I muri sono di bronzo dalla soglia all’interno. Stipiti d’argento si ergono sull’ingresso. L’architrave è d’argento, la maniglia d’oro. I metalli nobili rinviano a un’architettura ideale, divina, al di fuori delle possibilità dei mortali, che però conoscono le tecniche della costruzione. Lungo il muro troviamo troni e drappi sottili, prodotti dell’arte femminile tipicamente domestica della tessitura. Uno spazio particolare ha lasciato un’impronta indelebile nell’immaginario di tutti i tempi: il megas orchatos, il grande hortus di quattro misure del palazzo, situato oltre il cortile vicino alle porte e chiuso ai due lati da un recinto (ivi, VI 112-145). 4
Omero, Odissea, VI 260-263.
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La soglia di Odisseo è la medesima varcata da Ermes quando entra nell’ombrosa dimora (doma) di Calipso, luogo di natura e cultura. La vite ricca di grappoli intorno alla grotta è la metafora dell’arte, il simbolo del lavoro, la nobiltà del coltivato, il culto (ivi, V 68-69). Le due case visitate, di Alcinoo e di Calipso, dal medesimo termine, sottintendono i significati dell’abitare e del costruire – si noti la presenza di attività lavorative all’interno degli antri delle ninfe – nella loro inscindibile unità semantica sottolineata da Heidegger5. L’azione è incessante: trasforma continuamente il mondo e appartiene all’ordine delle cose umane. Lo ha evidenziato Giambattista Vico: “L’ordine delle cose umane procedette: che prima furon le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l’accademie”6. Ogni fase rappresenta un modo dell’abitare7. Adeguando il suo ambiente, l’uomo crea il paesaggio: un cantiere eterno che esegue il progetto del suo mondo. Il mondo è affine ai suoi inquilini. L’abitare è un segno incisivo non una semplice occupazione di spazio. Significa “abitare un mondo”, quindi non soltanto avervi dimora, ma “aver luogo in senso forte – nel senso in cui si dice che qualcosa ha luogo”8. Questo tema svela i contenuti profondi del luogo e il fenomeno ampio, in superficie, e profondo, in verticale, dell’abitare: l’accadere, l’appartenere e la presenza. L’aver luogo “significa avvenire, non soltanto essere ‘sul punto di avvenire’, e neppure semplicemente ‘succedere’. Significa avvenire come un proprio ed avvenire in proprio ad un soggetto. Ciò che ha luogo, ha luogo in un mondo e in virtù di questo mondo. Il mondo è così il luogo comune di un insieme di luoghi: di presenze e di disposizioni per dei possibili aver-luogo” (ivi).
Presenze e disposizioni sono equivalenti di dimora e comportamento, riscontrabili nei significati delle due parole greche ambivalenti ēthos ed ethos, introdotte, la prima dalla vocale ēta, la seconda da epsilon. Il rimando vicendevole tra carattere e abitudine rinvia al “senso di una tenuta, di un ‘tenersi’ che è alla base di ogni etica... Un mondo è un ethos, un habitus e un’abitazione” (ivi, p. 21). Nella radice sanscrita svadha sono già evidenti i due significati di ethos: “dimora e abitudine, casa propria e condotta di vita, 5 M. Heidegger, “Costruire abitare pensare”, in: Saggi e discorsi, c/ di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, p. 96-108. 6 G. B. Vico, La scienza nuova seconda, c/ di Fausto Nicolini, capov. 239. 7 Come ha notato R.P. Harrison, Foreste. L’ombra della civiltà (1992), tr. it. di G. Bettini, Garzanti, Milano 1992, p. 269. 8 J.-L. Nancy, La creazione del mondo o la mondializzazione (2002), tr. it. di D. Tarizzo e M. Bruzzese, Einaudi, Torino 2003, p. 20-21.
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luogo che ci appartiene ma a cui apparteniamo e costumi che abbiamo acquisito scoprendoli in noi come se fossero inscritti in noi da sempre”9. L’ethos ci conduce non solo alla profonda consistenza dell’abitare, ma – di conseguenza – al significato originario dell’etica, connesso all’attività, alla vita attiva, alla continua trasformazione della realtà. L’uomo costruisce il luogo dell’abitare, la propria dimora. Costruisce e abita. Abita e costruisce. Creare e soggiornare sono attività parallele: mentre abita costruisce; mentre costruisce abita – lo ha ben dimostrato Heidegger in Costruire, abitare e pensare. L’azione è continua, incessante: trasforma senza sosta il mondo. Un’attività costante modifica l’ambiente e crea il paesaggio: il cantiere eterno del mondo umano. L’etica, disciplina filosofica dei rapporti tra l’uomo e l’ambiente, indaga l’essenza del dimorare, cioè del trattenersi più o meno a lungo in un luogo. L’ethos è originariamente il luogo, la stalla, la tana: la dimora dell’uomo e dell’animale. L’uomo, fin dalla sua nascita, sopravvive con la costruzione di un ambiente adeguato alla sua esistenza. L’ethos è lo spazio complessivo della vita umana con tutti i suoi caratteri (da ēthikos: caratteristico e, di conseguenza, carattere, abitudine, comportamento). La realtà profonda dell’abitare crea regole e una costellazione di rapporti essenziali. Non c’è luogo né realtà umana e paesaggistica senza quel rispetto di determinate norme molto dibattuto in tutta la tradizione classica. Luogo e norme sono interagenti. Il rapporto-conflitto fra ethos e nomos è la relazione tradizionale fra il carattere e la legge. L’abitare rappresenta un comportamento definito accanto ad altri tipi di condotta. Abitare è, dunque, costruire e “costruire significa originariamente abitare”. Seguiamo la lezione di Heidegger: “Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare”. L’antica parola bauen, secondo la quale l’uomo è in quanto abita, significa però anche, nello stesso tempo, custodire e coltivare il campo (den Acker bauen), coltivare la vigna. Il verbo principe della fondazione, – ktizein – nota Detienne, a partire dal VIII secolo a.C., indica da una parte il dissodare, coltivare e preparare il terreno; dall’altra il costruire, l’edificare e il fondare10. Sono tutti significati legati alla trasformazione del luogo con il lavoro e l’architektōn ne è il progettista: l’ideatore. Elogio della costruzione, dunque, che ha in sé tutti gli elementi indicati da Heidegger. Apollo, il grande architetto del mondo, si mette in cammino con il proposito di costruire, istituire e fondare: trasforma la hylē, la materia informe per teuchein un tempio e un bosco 9
S. Givone, Eros/ ethos, Einaudi, Torino 2000, p. 49. Cf. M. Detienne, Apollo con il coltello in mano, Un approccio sperimentale al politeismo greco (1998), tr. it. di F. Tissoni, Adelphi, Milano 2002, p. 36-39. 10
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sacro, cioè un bosco ben curato. L’Inno omerico ad Apollo è un vero e proprio elogio. Sulle orme di Apollo gli uomini tracciano e disegnano città: lo conferma Callimaco. Il soggiorno dell’uomo è integrato nel cosmo. Egli è Weltwesen: l’essermondo. Non sta soltanto o vive nel mondo, ma esiste nel mondo: “è grazie al mondo e creando di nuovo il mondo”11. L’essere umano è compreso nel mondo da lui costruito, abitato e trasformato. Interrogarsi su di lui significa interrogarsi sul mondo (ivi). Vi è compreso in quanto ha una parte assegnata, un nomos. Agisce, partecipando con precise regole di comportamento, cioè è attivo: il soggiorno non ammette soste. Riceve in attribuzione una parte da amministrare correttamente, vale a dire in modo conforme al luogo. L’azione umana può essere di conseguenza corretta o scorretta, giusta o ingiusta. Il coro sofocleo dell’Antigone, memore di questa tradizione, esalta il genio umano e la sua capacità di scovare soluzioni a tutti i problemi, compresi i mali, ma ricorda che l’ingegno può essere indirizzato sia verso il bene, sia verso il male: se verso il bene salvaguarda il suo luogo, se verso il male lo distrugge. Il reale conflitto tra ethos e nomos è contenuto in questi drammatici versi. L’uomo è deinos, l’essere più portentoso esistente al mondo, dotato di un’energia creativa, forza attiva di un fervore operoso che lo spinge a creare, esprimendo compiutamente il suo essere deinos, un demiurgo mirabile e portentoso12. Il fervore operoso è un trasporto emotivo, centrale per comprendere i paesaggi e il loro legame con il sacro, con il mito, con «l’impulso, la carica magnetica che sola poté indurre gli uomini a compiere opere» e sta «all’origine di qualunque creazione poetica», creazione che caratterizza i luoghi13. L’ethos comprende la prossimità dell’uomo con il divino: ethos anthrōpō daimōn, è il senso profondo dell’avere luogo. L’uomo è sulla terra come mortale, abita e, nello stesso tempo, coltiva la vigna, trasforma i luoghi in paesaggi. Il luogo dell’abitare è per Heidegger «la regione aperta dove abita l’uomo e costituisce la sua essenza»14. L’uomo è un costruttore di poleis: un animale politico. La sua attività è la costruzione. Vive in un cantiere perpetuo, dove l’arte gioca un ruolo primario: il suo operare è distinto dall’effetto di natura15. La sua opera è 11
R. Cristin, “L’abissalità del mondo. Grund e Weltproblem in Eugen Fink nel confronto con Heidegger”, in: “Magazzino di filosofia”, 5 (2001), p. 130-146, p. 133. 12 Cf. R. Otto, Il sacro, tr. it. di E. Buonaiuti, Feltrinelli, Milano 1984, p. 33. 13 Cf. C. Pavese, “Il mito”, in: Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino 1968, p. 315-321. p. 315. 14 M. Heidegger, «Costruire abitare pensare», in: Saggi e discorsi, c/ di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, p. 96-108, p. 97-98. 15 Come scrive Kant nella Metafisica dei costumi e nella Critica del giudizio.
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libertà, arte: permette l’emancipazione dalla natura e la creazione del mondo visibile come totalità di senso, con opere e simboli. Il punto di partenza e il soggiorno continuo è sempre la natura. L’uomo ricava tutto da sé con la sua capacità di manipolare. La Politica di Aristotele descrive il perfezionarsi delle tecniche di sopravvivenza in un’economia naturale, con l’arte di procurarsi i beni necessari alla vita, organizzando la casa, arte della dimora che prende il nome di oikonomia, dalla figura dell’oikos come insieme di casa, terreno, strumenti, individui e schiavi: un termine tratto dal vocabolario della totalità della vita a partire dalle forme elementari, di cui l’oikia è la casa singola indipendentemente dalla vita che si svolgeva nel suo ambito. Gli spazi dell’abitare acquistano ben presto il loro significato universale e particolare con i vocaboli offerti dal linguaggio. Così esiste una “casa” come totalità e una quale elemento particolare, vuoto, estraibile dal suo ambito complessivo. L’essere attivo è la prerogativa dell’uomo: incapace di vivere in ambienti realmente naturali e originari supera con l’ingegno le proprie deficienze organiche. Trasforma attivamente il mondo e lo rende così idoneo alla sua vita. La condizione della sua stessa esistenza è la trasformazione e il dominio della natura, la messa in opera del mondo. Con il suo lavoro trasforma la natura di un luogo e crea un ricettacolo complesso funzionale. Quest’insieme della natura trasformata dal suo maneggio è cultura: il mondo umano, l’opera storica del demiurgo, il progetto del mondo umano. Pausania lo ha ben descritto con la formazione del paesaggio arcadico attraverso l’evoluzione dallo stato selvaggio alla civiltà, favorito da Pelasgo, costruttore di capanne. Figura mitica di re, Pelasgo riuscì ad escogitare il modo di erigere queste abitazioni per ripararsi dal freddo, dalla pioggia e dal caldo e a introdurre come cibo il frutto delle querce, selezionando gli alimenti buoni da quelli nocivi. Fu un progresso. Durante il suo regno fu dato alla chōra il nome di Pelasgia, nome che muterà in Arcadia, quando il re Arcade introdurrà con l’agricoltura la coltivazione del grano e insegnerà a fare il pane16. Sono testimonianze straordinarie della trasformazione dei luoghi, che ci fanno comprendere come la stessa chōra possa subire cambiamenti tali da mutare di nome pur rimanendo il medesimo territorio. In seno alla trasformazione paesaggistica di questa chōra s’inserisce la fondazione di Licosura ad opera di Licaone, figlio di Pelasgo (ivi, 2.1): è la città più antica, che vide per prima il sole e dalla quale gli altri uomini impararono a costruire poleis (ivi, 38.1.). Un paesaggio è opera di un’intera comunità, un’opera d’arte in continuo movimento come lo spirito dell’uomo che la caratterizza. Contiene la sua storia. Questo dato di fatto è essenziale per delimitare il nostro campo 16
Pausania, VIII 1.5-6 e 4.1.
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d’azione; per dare una de-finizione (Erörterung) al nostro percorso in un senso che superi le strette maglie logico-concettuali della metafisica, per entrare nel luogo, scopo reale e finale della nostra indagine – che significa in ultimo: portare la cosa a compimento. “La de-finizione ci conduce al luogo in cui la cosa è pervenuta al suo compimento”17. L’ēthos, l’antico luogo, si configura quindi con la sua tradizione da raccogliere, da percorrere in una lettura unitaria degli eventi dove i singoli elementi particolari sono parte di un universale: il paesaggio come accordo delle singole componenti. Un percorso senza confini incontra nella sua strada gli elementi reali e immaginari di un paesaggio, a partire dai più semplici, culturali e naturali. Manufatti, vegetali, piante e acque comprese, ambiente biofisico, società, economia: uno spazio peculiare, trama d’intrecci molteplici. Comprende la storia con i suoi santuari: luoghi unici, isolati nel mondo. Può essere un metodo, nel suo antico significato, greco, di via, ricerca: un sistema indipendente dal luogo specifico, ma che di questo è la trama. La sua visibilità coglie l’immagine oltre il potere degli occhi: la storia della libertà e quella della natura. Un accadere di cose concatenate fra di loro, definito dall’accordo delle sue singole componenti, dalle cose agli stati d’animo formano un paesaggio, immagine univoca dai molteplici elementi18. Le singole cose hanno rilevanza per la loro appartenenza a una determinata totalità, dove è operante una relazione tra il singolo e l’universale. Gli elementi semplici, nella loro individualità con una propria esistenza concreta, hanno un significato se inseriti in una data totalità, dove costituiscono una comunità con le altre parti in un’esistenza complessiva, universale: paesaggistica. Questi presupposti ci invitano a riflettere sull’essenza dei luoghi. Il paesaggio è sempre più oggetto di definizione e di collocazione spaziale. Continui sono i tentativi di questo genere con la ricerca di un “genus” paesaggio che lo specifichi e lo collochi nel mondo. Bisogna insistere per questa via o è forse meglio rinunciare e rivolgersi al contenuto? Il paesaggio è oggi tema di grande interesse epistemologico della sua essenza unito alla formulazione di un vocabolario dei suoi concetti. Questa strada è percorsa dalla teoria dei geografi e dagli storici e teorici dell’architettura alla ricerca del modello con relative regole. Il rischio di questo procedere è l’astrazione di una realtà in continua trasformazione, di 17
R. Cristin, Heidegger e Leibniz. Il sentiero e la ragione, Bompiani, Milano p. 47, a cui rinviamo per il tema fine = luogo. 18 Cf. U. Guzzoni, “Ladschaften”, in: Id., Wege im Denken: Versuche mit und ohne Heidegger, Karl Alber Verlag, Freiburg/ München 1990, p. 25-59; tr. it. di A. Stavru in: Id., Paesaggi. J’aime les nuages... (1990), in: “Itinerari”, 3 (1994), p. 7-29.
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un universale composto di una molteplicità di particolari, di cui, crediamo, non si possa dare definizione ontologica. L’abbandono di questa strada per una riflessione indirizzata a un pensiero paesaggistico può aprire le porte alla comprensione dell’identità dei luoghi. La domanda concreta l’ha formulata Ute Guzzoni: “in che modo i paesaggi sono paesaggi?”. Il pensiero si rivolge ai paesaggi, entra in loro e apre prospettive interessanti. La domanda non pretende definire in senso concettuale ma de-finire come entrare nel luogo. Il quesito non verte sull’essenza del paesaggio, nemmeno sulla richiesta di che cosa vi sia di specifico da renderlo tale. Riguarda piuttosto “cosa accade quando qualcosa è un paesaggio”: l’accento è posto sull’accadere. Si apre così una ricerca che interessa la filosofia pratica. Scivola nell’ambito dell’etica, che si può rivelare produttivo nel nostro campo e nella formulazione pratica di un luogo comprensivo di luoghi, di paesaggi con le loro costellazioni. L’accadere, dunque, diventa il contenuto dei nostri luoghi caratterizzandoli. Per accadere s’intende “un modo determinato dell’essere presente l’un con l’altro di cose, luoghi e contrade, di vicinanze e lontananze, stati d’animo e atmosfere; nell’accadere, tutti questi singoli elementi fanno parte di una determinata unità, o forse meglio: di un’immagine univoca” (ivi, p. 8). La figura dell’immagine univoca pone due domande sulla sua essenza, vale a dire il tipo di univocità e come viene riconosciuto e compreso il molteplice in un paesaggio. Univoco e molteplice diventano i momenti chiave della composizione dei luoghi. Ogni singolo paesaggio assume la forma di un’universalità, diversa da quella tradizionale che si predica in molti particolari. Un’universalità non sovrapposta gerarchicamente al singolo e non astratta dalla sua particolarità e peculiarità, ma da comprendere, come abbiamo visto, nella sua univocità oppure come accordo delle sue singole componenti (ivi). Significa pensare all’universale e al singolo senza ricorrere alle categorie metafisiche, che li collocano sempre automaticamente in un ordine gerarchico razionale19. L’immagine dell’univocità paesaggistica contiene molto di più di ciò che offre alla vista in senso strettamente ottico e oltre l’istante di una raffigurazione. In questa immagine ogni singolo elemento visto o rappresentato “ha il proprio posto e il proprio senso nelle contrade e nei campi del paesaggio comune, ognuno di essi esiste dunque solo nella relazione con l’altro”20. La relazione vicendevole degli elementi fonda il
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Come nota bene G. Moretti, “Dichterische Subjektivität und Konstellation. Einige Bemerkungen zur Frage der Identität ausgehend von dem Gedanken der Landschaft bei Ute Guzzoni”, in: Das Andere der Identität. Ute Guzzoni zum 60. Geburstag, Hrsg v. K. Scheppke u. M. Tichy, Rombach Verlag, Freiburg 1996, p. 207-209, p. 207. 20 U. Guzzoni, op. cit., p. 10-11.
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paesaggio o la sua immagine univoca. Ogni singolo elemento esiste grazie a questa relazione. I rapporti sono molteplici e si manifestano contemporaneamente. Abbiamo già accennato alla molteplice, doppia contemporaneità spaziale e temporale di ogni paesaggio e alla sua conseguente caratterizzazione. Sulle relazioni spaziali si pone la riflessione per ogni ricerca sull’essenza dello spazio in ambito paesaggistico. Spazio e tempo giocano un ruolo determinante. Gli svolgimenti temporali che lo pervadono, lo fanno esistere come un paesaggio peculiare. Ciascuno ha i suoi accadimenti passati e presenti, che fissano la propria immagine attuale. Alla molteplice contemporaneità degli elementi in relazione nel medesimo tempo tra di loro, va sempre aggiunta – come abbiamo già sottolineato – quella doppia, come coesistenza di presente e passato. Gli accadimenti “hanno preso visibilmente corpo nell’aspetto odierno delle località, nel reciproco limitarsi di prati e di boschi; possono essere letti talvolta nei cimiteri e nelle tombe, così come nei santuari e negli altri luoghi sacri. Gli avvenimenti storici trascorsi sul paesaggio ne plasmano invisibili il carattere, sia che vengano ricordati e conservati in racconti e in leggende, sia che siano stati dimenticati da tanto tempo” (ivi, p.10).
Il pensiero paesaggistico ci conduce verso un percorso peculiare, un itinerario metodico. La ricerca verte sugli oggetti, sulla loro collocazione in una totalità comprensiva del tutto. Questo è il senso del “cercare (suchen) e sperimentare (versuchen) un pensiero che si occupa dei suoi oggetti proprio come il cammino si muove entro e attraverso un paesaggio facendo esperienza di ciò che incontra sulla sua strada e vedendo ciò che di volta in volta nel suo relativo arrestarsi e procedere gli appare vicino o lontano, e precisamente come qualcosa che appartiene al paesaggio che lo circonda; un paesaggio di cui esso è una parte o un momento” (ivi, p. 13). Il paesaggio “caratterizza in modo unitario, senza essergli sovraordinato concettualmente, tutto ciò che gli appartiene, vale a dire tutto ciò che nella sua rispettiva sfera ha il suo luogo, il suo tempo e la sua determinatezza. È in questione il modo in cui in un paesaggio si determinano l’universalità, la comune appartenenza e la totalità, e come si esprimano. A ciò è anche connesso, ad esempio, un altro punto: per le ‘singole’ cose ha una rilevanza, e quale, il fatto che esse si trovino ‘in’ un paesaggio – oppure parimenti ‘in’ un’altra ‘universalità’? E quale rapporto può risultare tra il comprendere e questo tipo di universalità” (ivi, p. 13-14).
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Paesaggio quindi è un universale concreto che possiede una sua peculiarità, una sua universalità: “la determinatezza costellativa del molteplice singolare, il quale ne fa parte nel suo contesto con altri singoli” (ivi, p. 20). Per comprenderlo bene nella sua totalità possiamo utilizzare con profitto la metafora offerta da Ute Guzzoni della costellazione concreta. Essa è di volta per volta individuale: prodotta da un gioco d’insieme in continuo movimento. Possiamo definire la costellazione nella sua essenza di aggruppamento – un insieme di elementi aggruppati in un contesto unitario-apparente di cose visibili, non delimitate nettamente “nel senso che questa collina apparterrebbe ancora a questo paesaggio e quell’altra già a un altro. Il paesaggio di boschi sfuma in quello fluviale, oppure ambedue formano il paesaggio di questa valle” (ivi). Entrare in un paesaggio significa cogliere le sue qualità e individuare cose, esseri viventi, tutti gli elementi. Possono essere analizzati individualmente nella loro singolarità, quella singolarità specifica che li rende unici in sé con una propria essenza autonoma e nel medesimo istante parte di una totalità che li comprende. In questa totalità esistono dei rapporti, delle trame molteplici possibili da decifrare con un’analisi paesaggistica. Tutto ciò rientra nella sfera di un pensiero del luogo che ha le stesse motivazioni di quello paesaggistico. Molte sono le domande che ci si pone quando si entra in un dato territorio delimitato da confini. Quali universalità sono costitutive di un paesaggio, quale trama lo caratterizza e lo differenzia da un altro? Qual è il suo orizzonte e che cosa c’è oltre? Quali paesaggi appartengono allo stesso luogo o altri luoghi? Dove giunge la circonferenza spaziale di un luogo e quella di un paesaggio? Quali relazioni intercorrono tra i luoghi e, conseguentemente, tra i paesaggi? La grandezza dello spazio è un fatto ottico o di universalità di un intreccio di elementi? Già Simmel in uno dei primi saggi di filosofia del paesaggio parla di connessione degli elementi aprendo una strada per la comprensione. Il problema è delimitare un paesaggio – evitiamo l’astrazione il – o entrarvi e, di conseguenza, formulare un pensiero. Se paesaggio è una realtà etica in continua trasformazione, ambito complessivo della vita e progetto del mondo umano, cantiere dell’abitare e del costruire, diventa sterile la sua collocazione esclusiva in ambiti cosiddetti naturalistico-ambientali. Le città sono paesaggi dove bisogna entrare in profondità per comprendere l’intreccio non solo degli elementi costitutivi, ma anche dei meccanismi perversi che ne condizionano l’aspetto e, di conseguenza, la vita. Ambito di vita abbiamo detto, con la sua esteticità diffusa: è un assioma da non trascurare. I nuovi paesaggi reclamano il governo del territorio. Come si può ben vedere si sta elaborando una 14
filosofia sempre più lontana dall’ontologia e sempre più etica – una filosofia che trova applicazione pratica. L’universalità dell’eterogeneo è un concetto parallelo su cui lavorare in una costellazione di rapporti, “una mutevole totalità di relazioni di cui ci si può accorgere solo quando il pensiero prova ad abbandonare il proprio carattere ontologico-oggettivo e contemporaneamente avido di origine, e si interpreta come un intrattenersi nel mondo e tra cose dotate di mondo” (ivi, p. 21). Il pensiero paesaggistico è un approccio nuovo al nostro argomento che cela realtà concrete invitandoci a svelarle. Prevede un percorso attraverso. Al nostro cammino si fanno allora incontro non singolarità pure e semplici, chiuse in sé, “ma sempre in contesti e circostanze, in relazioni di prossimità o di distanza rispetto ad altro e al pensiero stesso: tale pensiero non mira solamente a identificarlo e a farne un concetto, bensì a portarsi nella contrada nella quale esso è di casa. Perciò lo ho definito un pensiero paesaggistico” (ivi).
Il percorso attraverso l’intreccio degli elementi è interno a un dato spazio, che potremmo definire di appartenenza di questi elementi. Il tema dell’appartenenza è senz’altro determinante nel carattere di un paesaggio. Appartenere allo stesso spazio, alla stessa cultura, alla stessa realtà eterogenea, allo stesso gergo è far parte di un paesaggio. Questo spazio propone distanze e vicinanze inserite in un ambito non definito ma circoscrivibile: lo attraversano e lo completano. Come nel quadro di una costellazione con le sue linee di congiunzione tra una stella e un’altra, tra un pianeta e un altro, tra una stella e un pianeta e così via all’infinito, ci sono intrecci, corrispondenze, legami, concordanze e dissonanze dell’eterogeneo, sovrapposizioni, immagini riflesse: riflesse nella visibilità senza confini e nel pensiero senza bordi che per noi da sempre percorre i paesaggi e senza i quali non è afferrabile il loro contenuto. Ci rivelano la trama d’intrecci molteplici, e non una semplice compresenza, che pervadono i luoghi. Per usare il linguaggio di Guzzoni, ogni paesaggio è costellazione del visibile21. Quel visibile che permette all’uomo, nel rapido spazio della trasformazione, di ammirare o biasimare il suo percorso demiurgico pervaso dall’inquietante portento del deinos che lo può condurre – come recita il finale del coro sofocleo dell’Antigone – verso il bene o verso il male: verso l’elogio o verso la condanna. È una questione di scelte suggerite dall’inventiva dell’arte che è saggezza.
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Cf. ibid. p. 24.
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IDEALISMO ANGLOSASSONE
Giacomo Rinaldi, Idealismo e trascendenza. A proposito di un recente saggio di Robert M. Wallace Chiunque nutra un serio interesse per gli studi filosofici in generale, e per la filosofia di Hegel in particolare, non può leggere il saggio di Robert M. Wallace Hegel’s Philosophy of Reality, Freedom, and God (2005) senza provare un vivo senso di ammirazione e gratitudine nei confronti del suo Autore. Concentrando debitamente la propria attenzione sulla versione definitiva del “sistema” hegeliano, esposta nella Scienza della Logica e nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1830), ed evitando così di attribuire ai geniali, ma ancora provvisori e incompleti, abbozzi teorici risalenti ai periodi di Berna, Francoforte e Jena una cruciale rilevanza che in verità non spetta loro, egli offre infatti al lettore un’esposizione integrale delle tesi fondamentali, in cui il pensiero di Hegel si articola, esplicandone pazientemente, e spesso con grande acume, i rapporti di fondazione razionale che conferiscono loro unità organica, necessità logica e validità oggettiva. Ma l’attività storiografica di Wallace non si limita a ciò, bensì vivifica l’accurata riproduzione, fin nei minimi dettagli (almeno per quanto concerne la Scienza della Logica)1, della “lettera” dei testi hegeliani con una consistente interpretazione e appropriazione del loro “spirito”, che non trova certamente riscontro nella letteratura hegeliana europea. Lo spirito che, secondo Wallace, anima l’intero sistema hegeliano è quello dell’idealismo metafisico2; ed egli perciò, in polemica contro alcune recenti interpretazioni 1 Il commento di Wallace alle molteplici dottrine esposte in quest’opera si limita a un sommario accenno solo in rapporto alla teoria hegeliana del calcolo infinitesimale, nella Dottrina dell’Essere; del Fondamento, dell’Esistenza e dell’Apparenza, nella Dottrina dell’Essenza; e del Giudizio, del Sillogismo e dell’Oggettività, nella Dottrina del Concetto. Cf. R.M. Wallace, Hegel’s Philosophy of Reality, Freedom, and God (= H), Cambridge University Press, Cambridge 2005 (20102), p. xxviii, n. 6. 2 Cf. H, p. 51 e 90.
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“antifondazionalistiche”3, insiste, a ragione, sulla sua continuità con la tradizione filosofica occidentale, identificandone gli effettivi predecessori non già nei teorici moderni dell’economia politica (come vuole Lukács), e neppure nella teologia cristiana protestante (come vuole invece Kroner), bensì nei massimi esponenti dell’Idealismo greco (Platone, Aristotele e i Neoplatonici)4 e dell’Idealismo tedesco (specialmente Kant e Fichte)5. Dai primi Hegel desume la fondamentale idea che la vera realtà, su cui la filosofia si interroga, non è la molteplicità dei fenomeni o dei fatti empirici, bensì l’unità intelligibile dell’Idea, del Pensiero che pensa sé stesso o dell’Infinito; dai secondi l’idea che non già l`universo naturale, bensì il mondo morale, quale si viene costruendo in noi in virtù della nostra “buona volontà”, cioè della volontà razionale, è l’adeguato punto di partenza onde procedere alla stessa conoscenza teoretica dell’Idea, e, nel contempo, la piena realizzazione del suo concetto. Costante, e giustificata, preoccupazione di Wallace è quella di suffragare la sua interpretazione – evitando le opposte, ma entrambe fuorvianti, strategie ermeneutiche consistenti nell’appello a una presunta “privilegiata” intuizione del vero significato dei testi presi in considerazione o nella passiva sudditanza nei confronti di transeunti “mode” filosofiche o di dogmatiche autorità religiose – mediante un’accurata critica delle interpretazioni alternative del pensiero di Hegel o delle obiezioni contro di esso sollevate. Particolarmente brillanti e opportune appaiono le sue osservazioni critiche concernenti le false o inadeguate interpretazioni formulate da K. Westphal, W. Dudley, M. Theunissen, C. Iber, D. Henrich, K. Ameriks, K. Hartmann, L. Siep, R. Rorty, Ch. Taylor, D. Gauthier, C. O’Regan, P. Guyer, K. Düsing, M. Rosen, M. Forster, M. Wolf, R. Brandom, ecc. Non meno interessante del confronto critico di Wallace con la letteratura hegeliana di lingua inglese e tedesca è la controversia con Robert R. Williams, cui la pubblicazione della prima edizione di questo saggio ha dato luogo, circa la definizione, suggerita da Wallace, del cruciale concetto hegeliano del Vero Infinito come l’“autotrascendenza del finito”. Essa si è articolata in tre testi, recentemente apparsi in «The Owl of Minerva»: il primo è un capitolo del volume di Williams Tragedy, Recognition, and the 3 Cf. H, p. 91-92. Per un’analisi e valutazione critica dell’interpretazione antifondazionalistica della filosofia hegeliana delineata da Richard D. Winfield cf. G. Rinaldi, “Ragione” e “giustizia” secondo Richard D. Winfield, in: “Magazzino di filosofia”, n. 7/2002, p. 10724; Id., Teoria etica, Edizioni Goliardiche, Trieste 2004, § 84, p. 319-21 e § 115, p. 442–43; e Id., Absoluter Idealismus und zeitgenössische Philosophie. Bedeutung und Aktualität von Hegels Denken, Peter Lang, Frankfurt a. M. e a. 2012, Teil II, Kap. 4: “Die Religionsfrage in Richard D. Winfields ‘systematischer Philosophie’”, p. 229-55. 4 Cf. H, p. 39, 91-92, ecc. 5 Cf. H, p. 18-27, 71, 73, ecc.
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Death of God: Studies in Hegel and Nietzsche (2012), in cui egli aveva originariamente formulato le sue obiezioni nei confronti dell’interpretazione di Wallace6; il secondo è la replica di Wallace7; il terzo è la risposta di Williams alla replica di Wallace8. In ragione dell’indubbia rilevanza teoretica ed ermeneutica di questa controversia esporremo nel § 2 del presente articolo il contenuto delle due posizioni in conflitto, cui faremo seguire, nel § 3, la nostra valutazione critica delle ragioni addotte dai due contendenti, e, più in generale, del significato dell’interpretazione del pensiero hegeliano proposta da Wallace. Prima di entrare nel merito di questa controversia, tuttavia, è indispensabile delineare per sommi capi (§ 1) le tesi fondamentali sostenute da Wallace.
§ 1. L’“idealismo” di Hegel secondo Robert Wallace In che senso, dunque, si deve intendere la tesi di Wallace, che la filosofia hegeliana ha carattere essenzialmente “idealistico”? A fornirci una risposta chiara e inequivocabile è lo stesso Hegel nell’Annotazione al capitolo sull’“Infinità” nel Libro I della Scienza della Logica, la Dottrina dell’Essere9. La sua filosofia è “idealistica” perché ogni vera filosofia, come pure la vera religione, è una forma di “idealismo”; ed essa è tale, perché essa nega la realtà positiva del finito e lo concepisce come un mero “fenomeno” o manifestazione dell’Infinito, che è la sola vera Realtà. Wallace giustamente osserva che la collocazione sistematica di questa definizione hegeliana non è per nulla casuale: la dottrina dell’Infinito, in effetti, esplica il fondamento logico ultimo della sua intera filosofia. Nell’impossibilità di esporre qui, anche solo per sommi capi, questa assai complessa teoria hegeliana, ci limiteremo a osservare che essa distingue tre fondamentali concetti dell’Infinito (qualitativo): 1. l’Infinità immediata; 2.
6 Cf. R.R. Williams, Hegel’s Concept of the True Infinite, in:, 42:1-2 (2010-11), p. 89122; e Id., Tragedy, Recognition, and the Death of God. Studies in Hegel and Nietzsche, Oxford University Press, Oxford 2012, p. 161-89. Per una recente analisi e discussione dell’interpretazione del pensiero hegeliano proposta da Williams, cf. G. Rinaldi, Tragedia, riconoscimento e morte di Dio nel pensiero di Robert Williams, in: “Magazzino di filosofia”, n. 23/ 2014, p. 119-45. 7 Cf. R.M. Wallace, True Infinity and Hegel’s Rational Mysticism: A Reply to Professor Williams, in: “The Owl of Minerva”, 42: 1-2 (2010–11), p. 123–35. 8 Cf. R. R. Williams, Hegel’s True Infinity As Panentheism: Reply to Robert Wallace, in: «The Owl of Minerva», 42:1–2 (2010-11), p. 137-52. 9 Cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in: Id., Werke in 20 Bänden (= W5–6), Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969-71, Bd. 2, p. 172-73.
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il progressus in infinitum; e 3. la Vera (affermativa) Infinità10. La differenza tra questi concetti consiste nel diverso rapporto (inadeguato e astratto nei primi due, adeguato e concreto nel terzo, i quali per tale ragione vengono definiti, rispettivamente, la “cattiva” e la “vera” Infinità), in cui l’Infinito vien posto rispetto al finito. Nel primo rapporto l’Infinito viene dualisticamente contrapposto al finito come una realtà “altra”, a esso trascendente, che lo esclude dalla propria autoidentità; nel secondo rapporto questa immediata determinazione dell’Infinito viene alternativamente negata (ripristinando così la realtà del finito) e riaffermata (perché anche il finito ripristinato non è nulla più che un’apparenza contraddittoria); nel terzo rapporto le contraddizioni che inficiano sia il primo che il secondo concetto vengono infine risolte, nella misura in cui la realtà del finito non viene semplicemente negata, bensì pure conservata e inverata, in forma “ideale”, in quella dell’Infinito; la perpetua, inconcludente oscillazione tra i due momenti categoriali opposti toglie infine sé stessa; e la realtà del Vero Infinito, che così ne risulta, cessa di essere un “altro”, cioè una “potenza estranea” al finito, e si costituisce piuttosto come una Totalità contenente in sé stessa, quali propri “momenti”, sia il finito che l’astratto Infinito (cioè l’altro dal finito). La tesi cruciale, da Wallace a tale proposito avanzata, è che il Vero Infinito, come del resto lo stesso Hegel aveva esplicitamente affermato, non è – a differenza di quanto sostengono la “teologia cristiana convenzionale” (conventional Christian theology)11 e la metafisica prekantiana – un “ente” o una “res” fissa, statica, “immobile”, bensì un “movimento”, un divenire, un processo; che il cominciamento di tale processo non è lo stesso Infinito, bensì l’immediata realtà del finito (Qualcosa e Altro); e che l’Infinito, non essendo come tale l’“altro” dal finito, non è che lo stesso finito in quanto si “autotrascende”, cioè “va al di là di sé”, “divenendo” così lo stesso Infinito: Il dominio della determinazione mediante altro (other-determination), in un certo senso, va al di là di sé (goes beyond itself) […] Non c’è nulla che […] sia “semplicemente altro”, giacché l’idea dell’alterità (otherness) – essere determinato come “altro da” – si trasforma […] nell’idea di qualcosa che è sé stesso12.
Nell’accennata Annotazione Hegel prosegue osservando che, se è vero che ogni vera filosofia è idealismo, è altrettanto vero che nessuna filosofia lo è 10 Cf. ibid., p. 150–66. Questa cruciale tripartizione costituisce anche la struttura logica fondamentale degli altri due concetti di Infinità distinti dalla Logica hegeliana: quello dell’Infinità quantitativa (cf. ibid., p. 260-366) e quello dell’Infinità nella sfera della Misura (lo “Smisurato”[Maßlose] e l’“Indifferenza assoluta”: cf. ibid., p. 442-55). 11 Cf. H, p. 256. 12 H, p. 66.
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allo stesso titolo di ogni altra, ma che esiste una sorta di “Stufenfolge”, cioè di serie gerarchica, di sempre più adeguate definizioni logiche dell’Infinito, che stanno alla base, tra l’altro, dei diversi sistemi filosofici elaborati nel corso dello sviluppo storico della filosofia. Un ulteriore, cospicuo merito dell’interpretazione di Wallace consiste per l’appunto nel mostrare, con grande abbondanza di particolari, che fondamentali categorie della Logica hegeliana, quali quelle dell’Indifferenza assoluta, nella sezione della Misura13; dell’Essenza, della Realtà attuale, della Necessità assoluta e della Sostanza, nella Dottrina dell’Essenza14; e dell’Idea, nella Dottrina del Concetto15, non sono, in definitiva, altro che progressive, sempre più adeguate e consistenti formulazioni dell’idea del Vero Infinito. Dall’accurata ricostruzione della struttura della Scienza della Logica delineata da Wallace segue con incontrovertibile evidenza un’ulteriore conseguenza, ch’egli, a differenza di troppi mediocri interpreti odierni del pensiero di Hegel, non esita a trarre esplicitamente e a svolgere fino nelle sue estreme implicazioni. La teoria hegeliana del Vero Infinito prende le mosse dalla posizione della realtà del finito; ne rileva quindi l’intima inconsistenza e la necessaria risoluzione nell’Infinito; distingue, inoltre, in esso una serie di sempre più adeguate specificazioni del suo concetto, che culmina nell’Idea assoluta, la quale, tuttavia, non è altro che l’unità del Concetto soggettivo e dell’Oggettività, cioè la realizzazione del Concetto puro. Ma che cosa Hegel propriamente intende con questo termine? Sicuramente non ciò che la logica formale tradizionale denominerebbe un “concetto”, cioè l’elemento minimo del pensiero discorsivo (giudizio) e dell’inferenza (sillogismo), bensì quell’atto infinito del pensare che, pensando sé stesso, pone nel contempo la sua stessa (assoluta) realtà, e che Kant aveva sia pur oscuramente presagito quando, nella sua celebre “Deduzione trascendentale delle categorie”, pose a fondamento dell’unità dell’esperienza l’“unità sintetica originaria dell’appercezione”: cioè quell’unità “oggettiva” dell’autocoscienza, quell’“Io puro”, che «deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni», affinché l’unità e realtà del loro oggetto sia possibile16. Il Concetto puro di Hegel, dunque, non è che la soggettività infinita, assoluta, del pensiero che pensa sé stesso: è quella “egoità” (selfhood), come Wallace efficacemente si esprime17, che, dopo 13
Cf. H, p. 154. Cf. H, p. 164-65: «Essence seems to be the beginning of the process whereby / the Logic will resurrect true infinity on a more stable basis than its initial one». 15 Cf. H, p. 235-36. 16 Cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in: Kant’s gesammelte Schriften, AkademieAusgabe, Bd. III, hrsg. von B. Erdmann, Berlin 1911, §§ 15-21, p. 107-16 (B 129-46) ; tr. it. G. Gentile, Laterza, Bari 1965, p. 135-46. 17 Cf. H, p. 110, 116, 179, 188-89. 14
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essersi compiutamente realizzata nella sfera del pensiero logico come Idea assoluta, consegue un’ulteriore esplicazione nella sfera dell’esistenza reale nella forma dello “spirito” (Geist). Diviene, a questo punto, possibile formulare una seconda, più precisa, caratterizzazione dell’“idealismo” della filosofia hegeliana: essa è “idealismo” non solo in quanto nega la realtà del finito risolvendola in quella dell’Infinito, ma anche, e specialmente, in quanto non concepisce tale Infinito come una determinazione ontologica astrattamente “oggettiva”, quale quelle dell’Essere e dell’Essenza, bensì come la concreta soggettività dell’Io (puro), del sé (infinito), dello spirito (assoluto). La legittima insistenza di Wallace sull’affinità tra la concezione platonica dell’Idea e quella hegeliana, dunque, non gli fa perdere di vista la radicale differenza tra l’astratta oggettività della prima e la concreta soggettività della seconda, e il grande progresso speculativo compiuto dall’idealismo di Hegel rispetto a quello di Platone18. L’egoità, dunque, non è un ens o una res fissa, statica, immobile, bensì è essenzialmente divenire, movimento, processo: anche se, precisa opportunamente Wallace, quest’ultimo non dev’essere inteso come immediatamente coincidente con la temporalità, perché spazio e tempo sono forme a priori dell’intuizione sensibile che non hanno alcun posto nella sfera del puro pensiero logico19, bensì solo in quella della natura e dello spirito finito; e anche in rapporto a essi uno dei compiti principali della Filosofia della natura e della Filosofia dello spirito soggettivo è quello di provarne la peculiare “idealità”, cioè la vuota, inattuale contraddittorietà. Il processo dell’egoità è piuttosto un atto eterno, il cui carattere ontologico peculiare viene giustamente identificato da Wallace con la sua “negatività”20. L’egoità è negatività, anzitutto, nel senso che non è una realtà finita immediatamente sussistente nello spazio e nel tempo, ed esteriormente “verificabile” mediante l’“osservazione”, cioè la percezione sensibile: si tratta, con ogni evidenza, di quella stessa negatività che caratterizza il rapporto del finito con l’Infinito. Ma, riflettendo sulla determinazione hegeliana dell’essenza del finito, Wallace giunge a scorgere, alla radice della sua accennata negatività, una diversa, e più profonda, forma di negatività, cioè una “negazione della negazione” (negatio negationis), una “doppia negazione” (duplex negatio), che è, in realtà, un’affermazione infinita. Il finito, secondo Hegel, presuppone la precedente categoria del Qualcosa (Etwas), che, come il concetto spinoziano del “modo”, «in alio est, per quod
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Cf. H, p. 31-39, 112, 118. Cf. H, p. 67, n. 13: «Space and time, as such, do not enter into the Logic»; e anche p. 139 e 151. 20 Cf. H, p. 58-59, 64-66, 86-88, ecc. 19
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etiam concipitur»21: “altro” che, in rapporto al finito, si configura come il suo “limite” (Grenze). Ma l’altro del qualcosa, il limite del finito non sono che il loro non-essere, la loro negazione, la loro morte. La negatività del negativo, perciò, nella misura in cui si dirige contro l’immediata realtà del finito, è, in verità, la negazione di qualcosa che è già in sé negativo, ossia il superamento di un limite, di un ostacolo all’infinita espansione del proprio sé, e dunque, in definitiva, una affermazione di sé, ossia la realizzazione della propria immanente infinità. In quanto negazione della negazione, la negatività dell’egoità diviene così, nell’interpretazione di Wallace, la chiave di volta su cui riposa l’intera, monumentale costruzione del “sistema” hegeliano. I risultati ermeneutici da essa resi possibili sono certamente da annoverarsi tra quanto di meglio abbia prodotto, sul piano strettamente teoretico-sistematico, la letteratura hegeliana contemporanea. Qui potremo limitarci a prendere in esame le sue analisi della categoria logico-ontica (seinslogisch) del Qualcosa22 e della celebre, e famigerata, teoria hegeliana della contraddizione23. La categoria del Qualcosa rientra nella sfera ontologica della Qualità o Determinatezza (Bestimmtheit), dove costituisce il terzo e culminante momento della prima sottosezione, l’“Esserci come tale”, della sua prima sezione, l’“Esserci”. In ragione della sua assoluta indeterminatezza, il concetto dell’Essere immediato (Sein) trapassa in quello del Nulla, che, rovesciandosi a sua volta nell’Essere, dà luogo alla categoria del Divenire. Nel Divenire, in quanto unità dell’Essere e del Nulla, l’Essere consegue, appunto in virtù del Nulla, la sua prima determinazione, che dà origine alla successiva categoria dell’Essere determinato o Esserci (Dasein). La determinatezza dell’essere dell’Esserci è la sua “qualità”, ma, in ragione della sua originaria identità col nulla, essa è anche la sua negazione. A ragione perciò Hegel menziona, a tale proposito, la celebre sentenza spinoziana: “determinatio negatio est”24, e Wallace non manca di metterne nel debito rilievo il profondo significato filosofico. L’Esserci è quello che è in virtù della sua determinatezza o qualità; ma essa, in realtà, è la sua negazione; l’identità con sé dell’Esserci, perciò, potrà essere ripristinata solo attraverso la negazione della sua determinatezza, perché, in caso contrario, esso si risolverebbe nel vuoto Nulla, che, tuttavia, come si è visto, è in sé e per sé impossibile e impensabile. Ma tale determinatezza è già in sé una negazione, e perciò la sua negazione è in verità una negazione della negazione, cioè l’affermazione dell’identità con sé dell’Esserci nella sua negazione, che costituisce il 21 Cf. B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, in:
Id., Opera, c/ di C. Gebhardt, Heidelberg 1924, vol. 2, Pars I, Def. V. 22 Cf. H, p. 59-64; e W5, p. 116-24. 23 Cf. H, p. 184-90; e W6, p. 64-80. 24 Cf. W5, p. 121; e B. Spinoza, Epistolae, in Opera, cit., Bd. 4, “Epistola L”, p. 240.
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contenuto della successiva categoria del Qualcosa (Etwas o Daseiendes: letteralmente, “essenteci”). Come non scorgere, dunque, nella stessa categoria del Qualcosa quella medesima struttura dialettica della negazione della negazione che, in quanto “negatività che si riferisce a sé stessa”, cioè negazione che afferma, costituisce, come si è visto, l’essenza stessa dell’egoità, e dunque della soggettività del Concetto, dell’Idea, dello Spirito? Già nelle vuote, periferiche, astrattamente oggettive categorie analizzate nella Dottrina dell’essere, conclude ottimamente Wallace, l’attività infinita del Concetto, dell’Idea, dello Spirito è presente e immanente – seppur, ovviamente, non ancora in forma esplicita e autocosciente, bensì solo virtuale e, per così dire, “prolettica”. Sono perciò senz’altro gravemente in errore quelle “interpretazioni” della filosofia di Hegel che, dopo aver indebitamente ridotto il sistema categoriale esplicato nella Scienza della Logica a un mero complesso di astratte oggettività ideali, o al contenuto del pensiero di un Dio personale astrattamente oggettivo e trascendente, lo contrappongono dualisticamente all’attività temporale e finita dello spirito umano, che verrebbe esclusivamente teorizzata nell’ambito della Filosofia dello spirito, perdendo così di vista – o, peggio, negando esplicitamente – nulla meno che una delle fondamentali acquisizioni teoretiche della filosofia hegeliana, cioè l’identità assoluta dello spirito umano (finito) e dello spirito divino (infinito)25. L’inconsistenza di 25 Cf. H, p. 208: «Hegel is never a theologian as opposed to a humanist, or a humanist as opposed to a theologian, he is always both at once». L’ottima comprensione, di cui Wallace dà prova, del carattere intrinsecamente autocosciente dell’Idea assoluta gli consente altresì di scorgere il limite del celebre, e famigerato, dictum hegeliano formulato nella Prefazione alla Filosofia del diritto: «Was vernünftig ist, das ist wirklich, und was wirklich ist, das ist vernünftig» (G. F. W. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts. Naturrecht und Staatswissenschaft, in Werke, cit. (= W7), p. 24). Se è certamente innegabile che la Ragione speculativa, in quanto coincidente con l’Idea e con lo Spirito assoluto, è “reale” perché ingloba in sé stessa anche la categoria logico-oggettiva della Wirklichkeit (come pure tutte le ulteriori determinazioni che essa consegue nella sfera della natura e dello spirito), non è invece vero che ciò che è “reale” (wirklich) è anche, come tale, “razionale” (vernünftig), perché la categoria della Wirklichkeit è sì una determinazione necessaria, ma anche inadeguata e contraddittoria, dell’Idea, nella misura in cui le fa difetto il momento dell’unità soggettiva, autocosciente, che essa infatti consegue solo nella successiva sfera categoriale del Concetto. Wallace spiega plausibilmente l’imprecisione di tale formulazione col fatto che Hegel, per sua stessa ammissione, evita di far uso, nelle Prefazioni o Introduzioni alle sue opere, in ragione del loro carattere inevitabilmente essoterico, della terminologia filosofica rigorosa, di cui si serve invece all’interno delle esposizioni sistematiche del suo pensiero. Si può meglio comprendere, e debitamente apprezzare, l’acutezza e pertinenza di questa osservazione di Wallace ove la si metta a confronto con la falsa tesi sostenuta, sempre a tale proposito, da W. Jaeschke nel saggio “Das Ewige, das gegenwärtig ist. Metaphysik und Naturrecht“, in: AA. VV., Autonomie und Normativität. Zu Hegels Rechtsphilosophie, hrsg. von K. Seelmann und B.
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tale contrapposizione, d’altra parte, osserva bene Wallace26, diviene palese ove si rifletta sul fatto che l’atto del “pensare” (Denken) viene sì teorizzato da Hegel quale specifica categoria della Filosofia dello spirito soggettivo27, ma in realtà svolge un ruolo decisivo, pur non essendo ivi tematizzato come tale, nella stessa Scienza della Logica, perché tutte le sue categorie sono delle Denkbestimmungen, cioè “determinazioni del pensiero”28. La natura della differenza tra l’oggetto della Logica e quello della Filosofia dello spirito appare, per questo verso, difficilmente determinabile, se non addirittura inesistente, e una consistente interpretazione della filosofia hegeliana, di conseguenza, dovrebbe piuttosto enfatizzare la loro (sostanziale) identità che la loro (esteriore) differenza. L’autoidentità dell’egoità, dunque, coincide con la sua negatività; e tale negatività si costituisce essenzialmente come una negazione della negazione. La negazione hegeliana, tuttavia, non è identica al vuoto Nulla, ma è la qualità dell’Esserci, e come tale ha un contenuto determinato, è cioè sempre e di necessità la negazione di qualcosa. Se è dunque vero il dictum spinoziano: “determinatio negatio est”, esso deve tuttavia essere completato dalla proposizione inversa: “negatio determinatio est”. La negazione è essa stessa una determinazione, e come tale si contrappone alla determinazione affermativa immediata, formando insieme a essa un contrasto, un rapporto di “opposizione” (Gegensatz), che dà inevitabilmente luogo a un conflitto, o meglio a una “contraddizione” (Widerspruch). Affermare che la realtà è pensiero, e che il pensiero è, come tale, negatività, implica perciò di necessità che entrambi siano una contraddizione, ossia che il pensiero, pensando sé stesso, non solo ponga assolutamente sé stesso, bensì pure entri inevitabilmente in contraddizione con sé stesso. L’ineluttabile conseguenza di tale inferenza, che Hegel non esita a trarre esplicitamente, è che «tutte le cose sono in sé stesse contraddittorie»29, e che la contraddizione, lungi dall’essere, come generalmente ritenuto dalla logica formale e da buona parte dell’epistemologia antica e moderna, l’inequivocabile indizio di un errore logico, è la “regula veri”30, cioè la legge Zabel, Mohr Siebeck, Tübingen 2014, p. 423–31, dove egli fa riferimento proprio e solo a tale dictum onde provare che Hegel… afferma il primato ontologico della “ragione che è” sulla “ragione autocosciente”! 26 Cf. H, p. 211-13. 27 Cf. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), in: Werke, cit. (= W8–10), Bd. 3, § 467. 28 Del resto, aggiungiamo noi, nel § 19 dell’Enciclopedia Hegel stesso definisce esplicitamente la Logica speculativa come la «scienza dell’Idea nell’elemento astratto del pensiero (Denken)». 29 W6, p. 74. 30 Cf. G.W.F. Hegel, “Habilitationsthesen” (1801), in: Id., Jenaer Schriften, in Werke, cit. (= W2), “Erste These”, p. 533.
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fondamentale del divenire del pensiero e della realtà. Ma come negare che un pensiero che contraddice sé stesso è, comunque, un pensiero falso; che l’unico modo logicamente lecito di criticare un pensiero puramente teoretico è quello di mostrare che i suoi concetti implicano delle contraddizioni; e che lo stesso metodo della “critica immanente”, che Hegel applica sistematicamente31 alle teorie da lui giudicate false o per lo meno inadeguate, non consiste in altro che nel mettere in luce le contraddizioni, in cui esse finiscono con l’avvolgersi? Già da questo sommario accenno alla problematica della contraddizione nel pensiero hegeliano appare chiaro che essa costituisce certamente uno degli aspetti della sua filosofia di più difficile comprensione e consistente appropriazione; e non deve perciò stupire che la maggior parte delle interpretazioni a tale proposito offerte dalla letteratura hegeliana contemporanea falliscano regolarmente il proprio obiettivo32. Wallace è certamente uno dei rari studiosi che siano riusciti a districare il nodo delle difficoltà logiche e metafisiche in essa implicite, e a offrirci una plausibile esposizione del suo contenuto e giustificazione razionale della sua validità oggettiva. Prendendo opportunamente le distanze dalle interpretazioni irrazionalistiche o “assurdistiche”, oggi di moda, egli anzitutto osserva che dire che “tutte le cose sono in sé stesse contraddittorie” non è dire che la stessa realtà ultima è contraddittoria [come tali interpretazioni invece enfaticamente proclamano!], ma è dire che la “contraddizione”, come Hegel l’ha analizzata, è un aspetto o momento necessario della realtà ultima33.
Ciò che i tradizionali apologeti del principio di non contraddizione, a partire da Aristotele, hanno invece costantemente perso di vista è la necessità logica e ontologica della contraddizione; laddove il merito inestimabile della filosofia hegeliana è quello di svolgerne, con eccezionale cogenza logica e profondità metafisica, il contenuto a partire dallo stesso fondamentale principio logico-metafisico dell’identità. L’identità non è possibile né pensabile senza distinguere in essa un momento di differenza; la differenza si attua immediatamente come diversità (Verschiedenheit), che trapassa di necessità nel rapporto dell’opposizione tra le due relazioni di cui essa consta, l’eguaglianza e la disuguaglianza. Nell’opposizione viene posta una “relazione interna”, cioè una connessione inscindibile, tra gli opposti, che tuttavia, in quanto immediatamente diversi, rimangono esterni l’uno 31 Cf. Id., Über das Wesen der philosophischen Kritik überhaupt und ihr Verhältnis zum gegenwärtigen Zustand der Philosophie insbesondere, W2, p. 171-87. 32 Circa i limiti delle più recenti interpretazioni metaforiche, coerentiste e assurdiste della teoria hegeliana della contraddizione cf. G. Rinaldi, Esame e critica di una falsa interpretazione della filosofia di Hegel, in: “Itinerari”, n. 3/2014, in corso di stampa. 33 H, p. 187.
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all’altro. Ma l’esteriorità dell’opposizione, proprio come la diversità, è una determinazione della riflessione che nega sé stessa, e perciò in ciascun opposto la sua esclusione dell’altro si identifica con la propria identità con sé. Escludendo l’altro, dunque, esso esclude sé stesso, e così i due opposti si annientano a vicenda. Tale relazione di reciproco annientamento è l’essenza, logica e metafisica nel contempo, della contraddizione. Tale è la ragione per cui il rilievo di una contraddizione in una determinazione del pensiero è giustamente considerato come la prova innegabile della sua falsità. Ciò, tuttavia, non significa che la contraddizione non sia un momento necessario del processo del pensiero e della realtà: significa solo che non meno necessaria della sua posizione è la sua soluzione, e che la “contraddizione risolta”, che Hegel identifica con la successiva categoria del Grund34, e non già l’identità non contraddittoria, è la determinazione adeguata della realtà e della verità (assoluta) nella sfera riflessiva dell’Essenza. Wallace conclude ottimamente35 che la struttura logica della contraddizione risolta è la medesima di quella del Vero Infinito. Proprio come questo è un processo, in cui la realtà dell’Infinito viene generata dall’autotrascendenza del finito, che perciò viene “tolta” (cioè integrata, inglobata, assorbita) in esso quale momento necessario sì, ma anche inattuale (la vera Realtà, infatti, è l’Infinito: l’esserci del finito è solo “ideale”, e proprio per tale ragione ogni vera filosofia è idealismo!); così la “contraddizione posta”, cioè immediata, irrisolta, è sì un momento necessario, ma anche inattuale, del processo del pensiero e della realtà, che si realizza pienamente solo nell’atto in cui si risolve, ponendosi come Grund. L’analogia stabilita da Wallace appare senz’altro convincente e illuminante, e costituisce una brillante conferma della sua generale interpretazione dell’“idealismo” di Hegel, che scorge appunto, come si è visto, nel Vero Infinito – e, per implicazione, nell’egoità – la chiave di volta del suo intero sistema. Wallace ricostruisce fedelmente la struttura del sistema hegeliano insistendo sul fatto che, a differenza sia della logica formale tradizionale che della logica trascendentale kantiana (e, soggiungeremmo noi, husserliana)36, le determinazioni del pensiero puro, esplicate e dedotte dalla Logica 34 Cf. W6, p. 80-123. “Grund” può essere reso in italiano sia con “ragione” che con “fondamento”, ma nessuno di tali termini, preso isolatamente, ne rende adeguatamente l’effettivo significato. Quando Hegel ivi adduce, quale esempio di Grund, il fondamento di una casa, è chiaro che esso non può essere tradotto con “ragione”; quando afferma invece che questa categoria sta alla base del principio leibniziano di ragion sufficiente, è chiaro che esso non può essere tradotto con “fondamento”. 35 Cf. H, p. 187-88. 36 Cf. G. Rinaldi, Critica della gnoseologia fenomenologica, Giannini, Napoli 1979, cap. 4, §§ 4-5, p. 157-70.
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speculativa hegeliana, sono, nel contempo, le “potenze” oggettive che pongono in essere sia la totalità dei fenomeni naturali che l’oggettivazione del volere nel mondo morale e nella storia universale dell’umanità. Ma l’identità assoluta del pensiero e dell’essere, come Hegel stesso osserva esplicitamente nel § 28 dell’Enciclopedia, è nulla meno che l’assunto più fondamentale e peculiare della “metafisica”. Ciò significa, forse, che l’“idealismo” hegeliano sia esso stesso – non diversamente da quello platonico o aristotelico – una metafisica, o per lo meno ne implichi necessariamente una? La risposta di Wallace a questo cruciale, e spinoso, interrogativo è senz’altro all’altezza della sua generale interpretazione del pensiero di Hegel37. Dopo i tentativi di “distruzione critica” della metafisica programmaticamente attuati da Kant, Heidegger e dagli odierni fautori dell’empirismo logico, è innegabile che oggi in molti, troppi ambienti accademici la parola “metafisica” male sonat; e ciò spiega il successo di recenti interpretazioni “empiristiche” o “antifondazionalistiche” della filosofia di Hegel, che hanno fatto il possibile per provare che essa stessa, in fondo, è – a onta di alcune incaute e fuorvianti formulazioni del suo Autore – “antimetafisica”. Prendendo decisamente le distanze da siffatte futili deformazioni o trivializzazioni del pensiero hegeliano, Wallace, da un lato, esplicitamente rivendica il carattere “metafisico” della Logica speculativa e, di conseguenza, dell’intero sistema; ma, dall’altro, non esita a mettere nel debito rilievo le sostanziali differenze che la contrappongono sia a ogni forma di metafisica precritica che alla “teologia cristiana convenzionale”. La più adeguata e profonda definizione metafisica tradizionale di Dio, afferma Hegel38, è quella formulata dall’argomento ontologico, secondo cui Dio sarebbe quell’Ente il cui concetto implica necessariamente la sua esistenza, nella cui essenza, cioè, pensiero ed essere coincidono assolutamente; ma egli non si limita a difendere, contro la critica kantiana, tale argomento, ma ne offre altresì una formulazione che, osserva bene Wallace39, è assai più rigorosa e consistente di tutte le precedenti. Quest’ultime, infatti, si limitano ad attribuire all’idea di Dio il predicato dell’esistenza, laddove Hegel deduce razionalmente dall’idea dell’Essere tutte le determinazioni logiche dell’Idea assoluta, che sono, com’e noto, 37 Una posizione sostanzialmente analoga a quella di Wallace è stata da noi articolata nella relazione “The Metaphysical Presuppositions of Hegel’s Philosophy of Self-consciousness”, presentata il 31 ottobre 2014 alla Northwestern University e attualmente in corso di pubblicazione negli Atti del XXIII Congresso della Hegel Society of America presso W. De Gruyter Verlag, Berlino–New York. 38 Cf. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Beweise vom Dasein Gottes (= W17), in Id., Vorlesungen über die Philosophie der Religion (= W16–17), p. 347-535, ma spec. 522-35; e anche W8, § 51. 39 Cf. H, p. 101-02, e anche p. 212-13.
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nient’altro che le “definizioni metafisiche di Dio”, sì che il suo concetto non rimane, come nelle precedenti versioni dell’argomento ontologico, un’idea vuota e indeterminata, ma diviene un “universale concreto”, un’idea, cioè, che viene esplicata nella totalità delle sue determinazioni immanenti. Del resto, la stessa deduzione hegeliana del cruciale concetto del Concetto, nella sezione iniziale della “Logica soggettiva”, dalla “doppia transizione” dell’Essere nell’Essenza e dell’Essenza nell’Essere non è altro che un’ulteriore dimostrazione dell’identità del pensiero e dell’essere, e dunque dell’essenza di Dio. Ciò spiega, prosegue ottimamente Wallace, i “predicati teologici” – potenza infinita, intelligenza, provvidenza, amore – che Hegel ivi attribuisce al concetto del Concetto. La filosofia hegeliana, egli perciò conclude, si basa su […] un ampio argomento metafisico comparabile agli argomenti di Platone e di Aristotele […] e su una concezione dell’esperienza morale, religiosa e mistica per cui essa coincide, in importanti rispetti, con la conclusione di questo argomento metafisico e lo conferma40.
D’altra parte, non meno innegabile del deciso orientamento metafisico del pensiero di Hegel è il suo perentorio rifiuto di qualsivoglia subordinazione o “subalternazione” del pensiero filosofico alla presunta superiore autorità dei testi sacri di qualche religione positiva: «Hegel pensa che noi possiamo conoscere la natura e l’esistenza di Dio senza far appello all’autorità della Bibbia, quale presunta rivelazione divinamente ispirata»41. La ragione di ciò sta nel fatto che «la concezione hegeliana di Dio o dell’infinito non s’impernia su dei comandamenti (ancor meno sull’idea di un Dio che ci ricompensa o punisce per la nostra obbedienza o disubbidienza), e non si basa né sulla religione, come tale, né sulla “fede”»42. E il Dio che il pensiero filosofico, secondo Hegel, rivela, non è una Persona trascendente, “altra” dall’uomo, che dipenderebbe da essa così come la creatura finita dipende dal fiat arbitrario del suo Creatore, bensì si genera eternamente nell’interiorità dell’Io autocosciente: È chiaro che non possiamo intendere il discorso religioso di Hegel su Dio e sulle intenzioni di Dio come se esso implicasse che “egli” (“Dio”) esiste di contro alle cose finite e ha intenzioni per esse nella maniera in cui noi esistiamo di contro alle cose che controlliamo, e abbiamo intenzioni per esse43.
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H, p. 43. H, p. 44, n. 32. 42 H, p. 43. 43 H, p. 248. 41
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Lo stesso dogma cristiano dell’Incarnazione, Wallace osserva, ha un significato genuino solo in quanto esso «serve a unire Dio e la natura finita, inclusi gli esseri umani, piuttosto che a opporre Dio, come una persona, alle altre persone (umane)»44. Per quanto concerne, poi, un altro problema fondamentale della metafisica e della teologia tradizionale, quello dell’immortalità umana, Wallace45 osserva che, nella misura in cui il principio della soggettività dello spirito, l’egoità, è identico al Vero Infinito, esso stesso è certamente da ritenersi immortale – se, e nella misura in cui, per “immortale” non si intende appunto altro che l’attuale infinità dello spirito. Ma se, com’è il caso della “teologia cristiana convenzionale” non meno che dei miti platonici narrati nel Fedone e nella Repubblica, per “immortalità” s’intende invece la durata indefinita nel tempo dell’anima-sostanza singolare, o la sua sopravvivenza post mortem in un “altro” mondo (afterlife), o la sua reincarnazione nel corpo di un altro essere, umano o animale, allora abbiamo a che fare con mere “fantasie”, cui la ragione filosofica non può dar alcun credito. I sostenitori dell’immortalità del sé singolare non si accorgono di difendere una dottrina che non solo è in sé falsa, ma che, se coerentemente sviluppata, sottrae all’uomo l’unica vera immortalità che gli è concessa: quella ch’egli può conseguire, già in questa vita “terrena”, negando la propria soggettività finita (e, dunque, non pretendendo egoisticamente di prolungare in infinitum la sua esistenza singolare!) e ponendosi piuttosto con un “momento” ideale della totalità infinita, e perciò eterna, della Ragione autocosciente. La discrepanza tra questi assunti fondamentali della “teologia cristiana convenzionale” e il punto di vista della ragione filosofica non viene celata da Wallace, che, al contrario, trae da essa l’ulteriore conseguenza – a differenza di quanto esplicitamente affermato da Hegel –46 che neppure il cristianesimo può essere considerato come la “religione assoluta”, e che il suo dogma centrale, l’incarnazione di Dio in un unico individuo privilegiato, Cristo, dev’essere senz’altro respinto: Quello che io mi chiedo […] è: perché questa coscienza “singolare” (singular) [dell’uomo-Dio] non dovrebbe essere uno degli altri numerosi insegnanti e maestri che il mondo ha visto sacrificarsi? E allora, / riflettendo sulla dottrina hegeliana che la filosofia va oltre le “rappresentazioni” religiose, mi chiedo anche: non potrebbe Hegel dirci che la “singolarità”(singularity) o l’unicità
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H, p. 248, n. 15. H, p. 255-56. 46 Cf. W17, p. 185-344. Per una discussione odierna di questa cruciale tematica filosofica cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità. Filosofia della religione e metafisica dell’essere, Aracne Editrice, Roma 2010, Parte I, cap. 3, §§ 2-4, p. 80-101, e cap. 4, § 8, p. 132-33. 45
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(singleness) di Gesù, nella fede cristiana, “rappresenta” soltanto la singolarità di ogni soggetto, in cui lo spirito divino del sacrificio di sé è all’opera47? Aggiungerò soltanto che sembra proprio (prima facie) che altre tradizioni religiose oltre quella cristiana potrebbero essere ragionevolmente descritte come incarnanti la “religione rivelata”, nel senso di una vera infinità che è conoscibile da coloro che partecipano in essa – che è loro manifesta48.
Più che nelle religioni istituzionali, che più o meno radicalmente tengono tutte fermo alla contrapposizione dualistica tra uomo e Dio, finito e Infinito, la concezione hegeliana del Vero Infinito, che enfatizza per contro la loro (dinamica) identità, sembra trovare un preciso riscontro, osserva Wallace, nel misticismo, sia esso quello “pagano” dei filosofi neoplatonici o quello cristiano dello Pseudo-Dionigi, di Meister Eckhart e di Jakob Böhme. All’approfondimento dell’essenza del misticismo Wallace dedica ampie e pregevoli analisi49, che sottolineano, in polemica con alcune recenti interpretazioni “neokantiane” del pensiero hegeliano, la decisiva influenza da esso esercitata sulla sua formazione. Ma neppure gli sfugge il limite insuperabile di ogni misticismo, che richiede la sua critica e inveramento nel puro pensiero filosofico. Nel suo sforzo di trascendere l’inadeguato, antropomorfico elemento delle rappresentazioni religiose, infatti, esso non può evitare o di risolversi in una forma puramente “negativa”, e come tale contraddittoria, di teologia, o di dichiarare esplicitamente l’impossibilità radicale di esprimere e comunicare in un linguaggio intelligibile l’interiore esperienza del Divino. E per tale ragione anch’esso, a onta della sua profondità spirituale, soccombe, non diversamente dalla metafisica tradizionale e dalla “teologia cristiana convenzionale”, alla critica hegeliana «della cattiva infinità (spurious infinity), che dice che se qualcosa è definito puramente come ciò che non è (come nella proposizione: “per sua natura questo Dio non è per nulla intelligibile”), esso sarà reso finito da questa definizione, e sarà così certamente meno che divino»50. 47
H, p. 315-16. H, p. 316. 49 Cf. H, p. 104-09 e 256–57, n. 22; e Id., True Infinity and Hegel’s Rational Mysticism, cit., p. 122-35 ma spec. § 6, p. 131-35 e nn. 11-13. Il carattere prevalentemente teoreticosistematico dell’approccio di Wallace alla problematica del misticismo in Hegel lo distingue nettamente dall’impostazione esclusivamente storica del saggio di G.A. Magee, Hegel and the Hermetic Tradition, Cornell University Press, Ithaca, NY 2001 (ne esiste una traduzione italiana di M. Faccia col titolo Hegel e la tradizione ermetica. Le radici “occulte” dell’idealismo contemporaneo, Edizioni mediterranee, Roma 2013), al quale Wallace dedica un’ampia e illuminante discussione critica (cf. H, p. 106-09). Cf. anche G. Rinaldi, Ragione e Verità, cit., p. 412-13, 424-26, 455-57, 598-99, n. 27. 50 H, p. 257, n. 22. Un’altra acuta obiezione di Wallace alla filosofia hegeliana dello spirito, che qui ci limitiamo ad accennare, ma che meriterebbe un’apposita discussione, è che 48
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§ 2. La controversia tra Robert Williams e Robert Wallace sul concetto hegeliano del Vero Infinito In un recente saggio51 abbiamo già provveduto a esporre e discutere l’interpretazione e appropriazione della filosofia di Hegel elaborata da Robert Williams e di sottolinearne il carattere dichiaratamente “metafisico” e, in particolare, il ruolo cruciale in essa svolto dalla dottrina del Vero Infinito, sulla quale riposa l’originale concezione “panenteistica” del Divino che Hegel, a suo giudizio, contrappone sia al teismo trascendente tradizionale che all’umanesimo naturalistico e ateo. Da questo punto di vista, le prospettive hegeliane di Wallace e Williams appaiono, in sostanza, coincidenti, e ripropongono autorevolmente, nei termini del dibattito filosofico odierno, il peculiare orientamento della tradizione filosofica dell’Idealismo anglosassone. Ciò non toglie, tuttavia, che Williams sollevi alcune precise objezioni contro le “ambigue e problematiche”52 formulazioni offerte da Wallace alla concezione hegeliana della relazione tra finito e Infinito, che hanno dato luogo alla controversia cui abbiamo più sopra accennato. Le objezioni di Williams concernono principalmente: (1) la tesi di Wallace, che, secondo Hegel, il Vero Infinito «non è altro che l’autotrascendenza del finito»53; (2) la sua asserzione che, nel Vero Infinito, in quanto risultante dall’autotrascendenza del finito, il finito “diventa” l’Infinito, ossia l’uomo “diventa Dio”54; e (3) l’identità, egualmente affermata da Wallace, tra la realizzazione dell’Infinito nel finito, del Divino nell’uomo, e il mondo morale creato dalla libera volontà umana55. (1). Williams condivide con Wallace la convinzione che la filosofia hegeliana abbia scalzato alla radice la fede, tipica sia della metafisica precritica
la denominazione della prima sezione della Filosofia dello spirito soggettivo col termine “Antropologia” è fuorviante, perché «Hegel does not necessarily mean to imply that everything that he studies under this heading is distinctively human, rather than belonging to a wider range of animals» (H, p. 279). 51 Cf. G. Rinaldi, Tragedia, riconoscimento e morte di Dio nel pensiero di Robert Williams, cit. 52 Cf. R. R. Williams, Hegel’s Concept of the True Infinite, cit., p. 96; e anche Id., Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 169. 53 Cf. supra, § 2, n. 12. 54 Cf. H, p. 319: «God is the self-surpassing of humans […]. This does not reduce God to “us”, since it is only by our surpassing ourselves that we become fully real – so we become fully available, as something to which God could be “reduced”, only by going beyond ourselves, and becoming God». 55 Cf. H, p. 110: «Hegel tells us that the actions and beliefs that respond to the authority of selfhood (the “ought”) are, in effect, God. They are the finite’s going beyond itself, which is the true infinity».
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che della “teologia cristiana convenzionale”, nell’assoluta realtà di un Infinito separato e contrapposto al finito, cioè alla natura e all’autocoscienza umana, e che il rapporto razionale tra essi non sia quello della loro reciproca esclusione, bensì quello della loro unità. Egli ricorda56, a tale proposito, l’insistenza di Hegel sulla difficoltà di esprimere nel linguaggio ordinario il vero carattere di tale unità, e sostiene che neppure Wallace è riuscito a formulare correttamente l’essenza di tale rapporto. Affermando che l’Infinito non è una “potenza estranea” rispetto allo spirito umano, bensì è solo il risultato dell’autotrascendenza della sua (immediata) finitezza, egli incorrerebbe nell’errore di rendere l’Infinito, in quanto risultato del processo di autotrascendenza del finito, a esso relativo e perciò da esso dipendente; il che equivarrebbe senz’altro a negarne la realtà, giacché l’Infinito è quello che è solo in quanto ha in sé stesso la ragione della sua realtà, ossia coincide con lo stesso Assoluto, è perciò ontologicamente autosufficiente e “indipendente” dal finito57. Ma il concetto del Vero Infinito è il fondamento metafisico della rappresentazione religiosa di Dio, e perciò la critica di Wallace del teismo trascendente finirebbe col non distinguersi più in maniera significativa dal tradizionale ateismo. Nella misura, inoltre, in cui il finito che, con la propria attività, dà origine al processo della sua autotrascendenza nell’Infinito altro non è che la volontà umana, la critica del Dio trascendente svolta da Wallace si risolverebbe in una forma di “umanesimo naturalistico” analoga a quello propugnato da Feuerbach58. Williams ammette che la tesi, da cui l’interpretazione di Wallace prende le mosse, è letteralmente identica a una proposizione formulata da Hegel nel contesto della sua teoria del Vero Infinito59, ma ritiene che la detta proposizione concerna solo la genesi (logica) del Vero Infinito, non già il risultato di tale genesi, cioè il suo contenuto o struttura immanente; e che tale struttura venga resa piuttosto esplicita da un’altra dottrina hegeliana, quella dell’“idealità del finito”60. (2). A questa dottrina Williams fa appello anche per formulare e giustificare la sua seconda fondamentale obiezione all’interpretazione di Wallace. 56 Cf. R.R. Williams, Hegel’s Concept of the True Infinite, cit., p. 113; e Id., Hegel`s True Infinity As Panentheism, cit., p. 143. 57 Ibid., p. 145. 58 Cf. R.R. Williams, Hegel’s Concept of the True Infinite, cit., p. 96; e Id., Hegel`s True Infinity As Panentheism, cit., p. 144-45. 59 Cf. W5, p. 160: «Wie früher gezeigt, ist die Endlichkeit nur als Hinausgehen über sich; es ist also in ihr die Unendlichkeit, das Andere ihrer selbst, enthalten. Ebenso ist die Unendlichkeit nur als Hinausgehen über das Endliche; sie enthält also wesentlich ihr Anderes und ist somit an ihr das Andere ihrer selbst. Das Endliche wird nicht vom Unendlichen als einer außer ihm vorhandenen Macht aufgehoben, sondern es ist seine Unendlichkeit, sich selbst aufzuheben». 60 Cf. W5, p. 171-72.
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L’Infinito non è una potenza estranea al finito, bensì risulta dalla sua autotrascendenza, è, in tal senso, l’identità del finito e dell’Infinito: ciò significa, forse, come vuole Wallace, che il finito “diventa” l’Infinito, e che perciò l’uomo “diventa Dio”? A questa possibile interpretazione del concetto hegeliano dell’identità del finito e dell’Infinito, che a Williams appare eccessivamente “umanistica” e non in linea con la propria interpretazione “panenteistica” della filosofia hegeliana, egli obietta che il concetto speculativo dell’Identità implica di necessità la posizione di una essenziale differenza al suo interno; e che tale differenza, nel caso del rapporto tra finito e Infinito, è quella stessa che all’interno del Vero Infinito sussiste tra l’idealità del finito, in esso tolto, e la sua realtà onnicomprensiva. Il processo di autorealizzazione del Vero Infinito, infatti, prende le mosse dalla presupposta, ma inadeguata, realtà positiva sia del finito che dell’Infinito trascendente (che, in realtà, è esso stesso un finito), e mette capo alla posizione dell’(assoluta) Realtà del (Vero) Infinito, la quale, tuttavia, è tale solo perché contiene in sé stessa anche il finito, che così viene non solo annullato, ma anche conservato nel Vero Infinito; e l’“idealità” non è appunto altro cha la modalità ontologica peculiare della sua esistenza nell’Infinito in quanto suo “momento”. Ma è chiaro che l’idealità (apparenza, inattualità) non è lo stesso che la realtà (attualità, sostanzialità); che, perciò, nell’identità del finito e del Vero Infinito è contenuto anche un momento di essenziale differenza; che, in conseguenza di tale differenza, anche nel Vero Infinito Dio rimane un “altro” dal finito, e che perciò una tesi, quale quella sostenuta da Wallace, che afferma che nella conoscenza speculativa dell’Infinito l’uomo “diventa Dio” è da reputarsi senz’altro falsa: Ogni supposizione che il finito nella sua autotrascendenza diventa infinito è esclusa dall’idealità del finito. Hegel decostruisce siffatte unilaterali vedute concependo il finito astratto e l’infinito astratto nel loro contesto speculativo, cioè come momenti del vero infinito: un tutto che li riconcilia e preserva la loro differenza entro la loro unione. Senza la preservazione delle differenze costitutive della finitezza nell’infinito, non ci sarebbe nessuna divinità sofferente, nessuna morte di Dio e nulla da riconciliare.61
(3). Un ulteriore indizio del carattere “umanistico”, e non già genuinamente “panenteistico” dell’interpretazione della filosofia hegeliana delineata da Wallace Williams lo scorge nel suo tentativo di chiarire il vero senso della concezione hegeliana della realizzazione dell’Infinito nel finito identificando tale realizzazione col mondo morale creato dalla volontà
61
R.R. Williams, Hegel`s True Infinity As Panentheism, cit., p. 150.
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umana in virtù della sua “autonomia”62, sì che la teoria kantiana della moralità e della libertà umana, e specialmente la sua “eticoteologia”, dovrebbero essere considerate come l’immediato antecedente della dottrina hegeliana del Vero Infinito. L’objezione di Williams, a questo proposito, è che Wallace, sostenendo che il mondo morale è l’adeguata realizzazione del Vero Infinito, da un lato ricade nell’astratto soggettivismo dell’eticoteologia kantiana, dall’altro perde di vista il primato ontologico che Hegel attribuisce alla religione, in quanto forma dello spirito assoluto, rispetto alla morale, che è invece solo una determinazione concettuale del finito spirito oggettivo; la conseguente centralità della Filosofia della religione, che sarebbe la disciplina fondamentale del sistema hegeliano e ingloberebbe la stessa Logica, perché questa non sarebbe altro che una “teologia speculativa”; e infine la possibilità di configurare – come Hegel invece fa specialmente nei suoi scritti teologici giovanili – il Vero Infinito, cioè Dio, come “amore”: Al livello più profondo Hegel concepisce ontologicamente l’amore come la riunione del separato; l’amore presuppone l’alterità (otherness) reale, e delle differenze reali che esso riconcilia. […] La disciplina finale nella Filosofia dello spirito di Hegel, la Filosofia della religione, contiene l’intuizione speculativa fondamentale – l’unione di Dio e della morte nell’amore che si sacrifica63.
La replica di Wallace alla critica di Williams insiste, anzitutto, sul fatto che la tesi che l’Infinito non è che l’autotrascendenza del finito non viene da lui intesa nel senso in essa interpolato da Williams, e cioè che l’Infinito altro non sia che una “proiezione” dell’“autodeterminazione umana”, e come tale privo di vera realtà. Citando, a tale proposito, un’ampia trattazione svolta nel proprio saggio64, che Williams avrebbe indebitamente trascurato di prendere in considerazione, Wallace replica65 (1) che il finito, da cui procede la genesi logica dell’Infinito, non viene da lui concepito come l’esistenza “naturale” degli esseri umani – come l’accusa di “umanesimo naturalistico” palesemente implica – bensì come una pura determinazione del pensiero, cioè la categoria logica della Finitezza; e (2) che il processo di autotrascendenza ha carattere essenzialmente negativo: il finito va al di là di sé, e pone l’Infinito, solo perché si contraddice, nega sé stesso, annienta la sua pretesa positività immediata, e così si risolve – proprio come vuole Williams! – in un “momento ideale” dell’Infinito. La tesi che l’Infinito non è che l’autotrascendenza del finito, conclude perciò Wallace,
62
Cf. supra, n. 55. R R. Williams, Hegel`s True Infinity As Panentheism, cit., p. 139. 64 Cf. H, Ch. 3, p. 48-140. 65 Cf. R.M. Wallace, True Infinity and Hegel’s Rational Mysticism, cit., p. 124 ss. 63
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non implica che il mondo finito e la natura siano la realtà fondamentale, e Dio / sia una mera projezione (projection) di questa realtà. Essa non implica ciò perché il finito e la natura sono (sono “reali”) solo trascendendo, andando al di là, superando sé stessi. Ma essa senz’altro implica che Dio e il mondo finito o la natura sono più intimamente uniti (related) di quanto non lo siano nel pensiero convenzionale. Essi debbono essere più intimamente uniti perché Dio, com’è tradizionalmente concepito, cioè come un essere separato dal mondo finito, è esso stesso reso finito dalla sua relazione (himself (herself) made finite by his (her) relation) con quel mondo. E così, se si suppone che “Dio” è infinito, questo Dio convenzionale non merita di esser chiamato “Dio”66.
La ricaduta di Williams nella “concezione convenzionale” del rapporto tra Dio e uomo appare a Wallace confermata dalla sua definizione del Vero Infinito come l’“altro” dal finito (per contenendolo in sé quale proprio “momento ideale”). La relazione tra il Qualcosa e l’Altro, infatti, implica inevitabilmente una “separazione” tra i due termini del rapporto, che è l’esatto contrario, objetta Wallace, di quell’“intima” relazione tra finito e Infinito, che costituisce il carattere peculiare del misticismo, il cui punto di vista, come si è visto67, egli ritiene assai più prossimo alla Verità, e alla stessa prospettiva filosofica dell’Idealismo hegeliano, di quanto non lo sia la “teologia convenzionale” generalmente avallata dalle religioni istituzionali. Wallace objetta infine a Williams che la realizzazione dell’Infinito nel mondo morale, da lui ritenuta implicita nella dottrina hegeliana del Vero Infinito, non implica la certamente contraddittoria affermazione della “dipendenza” dell’Assoluto dall’autodeterminazione del soggetto umano finito, perché la concezione hegeliana della libertà come autodeterminazione del volere non presuppone, anzi perentoriamente esclude, che questo possa esser legittimamente inteso – alla maniera della “vecchia metafisica”, ma anche dello stesso criticismo kantiano – come una “facoltà” del soggetto finito, perché esso viene piuttosto a identificarsi con l’attività assoluta dell’Idea in quanto soggettività infinita: «[L]’Io che possiede questa libertà, o che è questa libertà, dev’essere infinito […] nella misura in cui noi esseri umani siamo liberi, noi siamo infiniti»68. Di conseguenza, Wallace ritiene inopportuna, se non addirittura fuorviante, la proposta di Williams di trascendere la presunta finitezza dell’autodeterminazione della volontà (umana) integrandola con quello che Kant riteneva fosse invece il suo opposto contraddittorio, cioè l’eteronomia del volere, nel superiore, “inconsueto” (unusual) concetto della “teonomia” (theonomy)69. 66
Ibid., p. 129. Cf. supra, § 1. 68 Cf. R.M. Wallace, True Infinity and Hegel’s Rational Mysticism, cit., p. 130. 69 Ibid. Cf. R.R. Williams, Hegel’s Concept of the True Infinite, cit., p. 111. 67
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§ 3. Immanenza o trascendenza del Vero Infinito? Noi riteniamo che il sommario profilo, qui delineato, dei termini della controversia tra Williams e Wallace sul concetto hegeliano del Vero Infinito sia sufficiente a mettere in luce, da un lato, la primaria rilevanza filosofica della problematica in discussione e, dall’altro, la sostanziale convergenza, se non addirittura coincidenza, delle loro prospettive teoretiche. Entrambi, infatti, proclamano apertamente la loro adesione alla filosofia dell’Idealismo assoluto; entrambi la interpretano nel senso di una metafisica “olistica” dell’Assoluto (il Vero Infinito, infatti, altro non è che la Totalità assoluta del reale); entrambi, infine, identificano nel sistema hegeliano la versione ancor oggi più adeguata di tale metafisica. Il loro dissenso concerne, più che altro, questioni teoretiche particolari, e a volte soltanto la difficile scelta delle formulazioni più idonee a esprimere correttamente complessi rapporti speculativi che, come tali, trascendono i limiti dell’intelletto finito e, di conseguenza, le correnti terminologie da esso coniate. Ciò non toglie, tuttavia, che la riflessione critica possa e debba prendere posizione su ciascuno dei punti su cui la loro controversia verte. 1. Autotrascendenza del finito. Sebbene si debba, da un lato, riconoscere la legittimità teoretica della preoccupazione di Williams di rifiutare qualsiasi interpretazione della dottrina hegeliana del Vero Infinito che degradi l’Infinito a una mera “projezione” inattuale del finito, cadendo così nell’inaccettabile antropologismo di Feuerbach (perpetuantesi nell’assai più influente materialismo storico e dialettico di Marx e Engels), si deve, dall’altro, prendere atto del fatto che la sua polemica contro l’interpretazione di Wallace non tocca nel segno, perché questi non trascura mai di insistere sull’autonegazione del finito quale imprescindibile condizione della sua identificazione con l’Infinito. E anche il luogo del saggio di Wallace, specialmente contestato da Williams, in cui egli afferma la “dipendenza” dell’Infinito dal finito70, ove opportunamente interpretato, appare, da questo punto di vista, plausibile e anzi illuminante: perché, se è vero che l’Infinito, in quanto Totalità assoluta, ha in sé stesso il suo fondamento, e perciò la sua realtà è certamente “indipendente”, per tal verso, da quella del finito, è altresì vero che esso è tale solo nel suo “concetto” (Ansichsein), non già nella sua realizzazione e autocoscienza (Fürsichsein), perché, presentandosi in questa come un risultato dell’autotrascendenza del finito, esso è condizionato, e perciò “dipendente”, da quest’ultimo: l’Infinito è perché il finito non è. L’errore dell’antropologismo di Feuerbach, dunque, è quello di attribuire 70 Cf. H, p. 76: «Hegel is also going to insist that infinity does not have its reality independently of finite being»; e anche p. 147 ss.
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alla dipendenza dell’Infinito dal processo di autotrascendenza del finito un significato assoluto, e non già solo relativo, e di non avvertire che, in tale processo, “assoluta” è piuttosto la risultante indipendenza dell’Infinito dal finito, perché la mediazione del primo da parte del secondo, che in esso ha luogo – come, del resto, ogni genuina mediazione dialettica –, ha carattere negativo: è cioè una mediazione che nel suo risultato toglie sé stessa. 2. Identità e differenza del finito e dell’Infinito. Williams ha certamente ragione a insistere sul fatto che l’identità del finito e dell’Infinito, asserita e provata dalla Logica hegeliana, è un rapporto essenzialmente dinamico, e implica perciò un momento di non meno essenziale differenza; e che tale differenza nel Vero Infinito assume la forma della differenza tra l’“idealità” del finito e la realtà dell’Infinito. Ma non meno ragione ha Wallace a negare perentoriamente che tale differenza possa essere adeguatamente determinata mediante la categoria dell’“alterità” (otherness). Non solo, infatti, essa stabilisce indebitamente tra i termini posti in relazione una differenza immediata che è esattamente ciò che la “teologia convenzionale” intende quando dualisticamente contrappone Dio al mondo; ma uno dei più geniali, illuminanti e convincenti sviluppi dialettici della Dottrina dell’essere consiste per l’appunto nel mostrare (facendo ricorso non solo all’analisi logica dei rispettivi concetti, ma anche a certi significativi usi linguistici, quale quello latino, che per dire “qualcosa e altro” dice: aliud aliud)71 che “qualcosa” e “altro” sono determinazioni del pensiero meramente relative, che la loro contrapposizione è perciò inconsistente, perché presuppone una differenza che, in realtà, non è una differenza: qualcosa (o qualcuno) non è un altro, ma l’altro è esso stesso un qualcosa (o qualcuno), perché i momenti categoriali che costituiscono i due concetti sono identici; e il primo qualcosa (o qualcuno), viceversa, è esso stesso un altro – l’altro dell’altro72. Ed è altresì vero che, a onta delle sue intrinseche difficoltà, che Wallace stesso, del resto, esplicitamente riconosce73, il punto di vista del misticismo, che vuole istituire tra uomo e Dio una relazione più “intima” di quella stabilita
71
Cf. W5, p. 125-31; e W8, § 92, Zusatz. Un concreto esempio della dialettica, in cui si avvolgono i concetti del Qualcosa e dell’Altro, è l’identificazione, tipica della morale eteronoma, del principio etico con l’“altruismo”. Per agire moralmente io devo reprimere i miei istinti egoistici e fare il bene degli “altri”. Ma io stesso sono un altro per gli altri, e così, predicando la morale dell’altruismo, io in realtà non faccio altro che chiedere agli altri di sacrificarsi per la soddisfazione dei miei bisogni egoistici. Cf. G. Rinaldi, Teoria etica, cit., p. 134; e anche Id., A Hegelian Critique of Derrida’s Deconstructionism, in: “Philosophy & Theology”, 11: 2 (1999), p. 311–47, qui § 3, p. 336-43, dove abbiamo cercato di mettere in rilievo le insuperabili contraddizioni, in cui il ricorso di Heidegger e Derrida alla nozione dell’“altro” si avvolge. 73 Cf. supra, § 1 e n. 50. 72
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tra essi dalle religioni istituzionali, “sta più in alto” di esse, perché è più prossimo alla Verità. 3. Morale e religione. Assai più arduo, invece, è stabilire il rapporto razionale tra morale e religione nella prospettiva dell’Idealismo assoluto, non solo perché il problema è in sé di difficile soluzione, in ragione dell’estrema complessità di queste sfere spirituali, ma anche e soprattutto perché è possibile reperire nelle opere di Hegel dichiarazioni in apparente contrasto tra loro. Williams ha indubbiamente ragione a insistere sul fatto che la concezione kantiana del mondo morale come prodotto dell’autodeterminazione della ragion pratica esclude per principio la possibilità di scorgere in esso l’adeguata realizzazione del Vero Infinito, per la semplice ragione che per Kant la volontà umana è insuperabilmente finita. Ma è altresì vero che una delle acquisizioni teoretiche fondamentali della filosofia hegeliana dello spirito oggettivo è la distinzione tra la determinazione concettuale astrattamente soggettiva della Moralità (Moralität) e quella attualmente concreta dell’Eticità (Sittlichkeit), in rapporto alla quale l’accennata tesi di Wallace, che il mondo morale è la realizzazione del vero Infinito, appare assai meno implausibile. In un cruciale luogo della Filosofia del diritto, infatti, Hegel afferma enfaticamente che lo Stato, nella misura in cui è la realizzazione più elevata dell’idea dell’Eticità, è «ciò che è in sé e per sé infinito e razionale» (das an und für sich Unendliche und Vernünftige)74, e addirittura che «l’esistenza dello Stato è l’ingresso di Dio nel mondo, il suo fondamento è la potenza della Ragione che si realizza come volontà»75. È dunque innegabile che, se non nella forma della moralità (individuale), certamente in quella dell’Eticità (statuale) il mondo morale prodotto dalla volontà umana è per Hegel l’adeguata realizzazione del Vero Infinito nell’attualità dello spirito. Ma v’è di più. Nel celebre § 270 della Filosofia del diritto Hegel, dopo aver asserito che la religione è la “Grundlage” (ma solo la Grundlage, cioè la base, non già anche il Grund, ossia la ragion d’essere!) dello Stato, rivendica esplicitamente la superiorità etica dello Stato sulla religione, per il fatto che l’elemento gnoseologico peculiare del primo, il Concetto razionale, sta più in alto della forma essenziale della seconda, la rappresentazione; e quale eloquente esempio delle disastrose conseguenze che il mancato riconoscimento di tale primato può avere egli cita i processi e le condanne di Giordano Bruno e di Galileo Galilei da parte della chiesa cattolica. A suffragare la tesi, che la religione, e non la stessa Eticità, è l’adeguata 74
W7, § 258, Anm. «Es ist der Gang Gottes in der Welt, daß der Staat ist, sein Grund ist die Gewalt der sich als Wille verwirklichenden Vernunft» (W7, § 258, Zusatz). 75
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realizzazione del Vero Infinito nello spirito umano, rimane soltanto il fatto che per Hegel la religione è una determinazione concettuale dello Spirito assoluto, laddove l’Eticità rimane confinata nella sfera del “finito” spirito oggettivo. Il rapporto gerarchico tra morale e religione, che così viene a configurarsi, sarebbe senz’altro ontologicamente decisivo se la Filosofia della religione, come Williams esplicitamente sostiene76, fosse la disciplina “finale” (final), e dunque culminante, del sistema filosofico hegeliano, e la stessa Scienza della Logica, non essendo in fondo altro che una sorta di “teologia speculativa”77, rientrasse come tale nella sfera della Filosofia della religione. Ma a questa tentata risoluzione della morale – e, in fondo, della stessa filosofia – nella religione si possono opporre almeno tre, a nostro giudizio decisive, objezioni. Anzitutto, la configurazione teologica dell’Assoluto, delineata da Hegel negli Scritti teologici giovanili, come amore e come una divinità sofferente che, mediante la sua morte, riconcilia l’umanità con Dio, appartiene a una fase giovanile del suo pensiero, ancora fortemente influenzata dall’allora nascente Romanticismo religioso, da cui egli, tuttavia – a differenza, a es., di Schleiermacher e del “secondo” Fichte78 –, prenderà le distanze (pur senza rinnegarne le profonde e permanenti acquisizioni speculative) nella piena maturità del suo pensiero, quando il concetto teologico di “amore” (Liebe) si trasformerà in quello filosofico di “spirito” (Geist), e la divinità sofferente di Cristo diverrà la metafora dell’eterno processo di autoctisi del Concetto puro. In secondo luogo, è sufficiente gettare uno sguardo sull’estrinseca articolazione del sistema hegeliano onde avvertire che in esso l’ultima e culminante disciplina non è la Filosofia della religione, bensì la stessa Filosofia, intesa come un’esplicazione sistematica dell’Assoluto che contiene in sé stessa il suo organico sviluppo storico e culmina nella Logica speculativa. Certamente le cose starebbero diversamente se la stessa Logica speculativa, che è senz’altro una teologia speculativa, potesse essere plausibilmente intesa come una parte della Filosofia della religione; ma a ciò osta il fatto che la struttura gnoseologica delle due discipline è profondamente diversa. Mentre, infatti, la Filosofia della religione ha quale proprio oggetto l’essenza dello spirito religioso, la cui forma peculiare, la rappresentazione, non coincide col suo contenuto essenziale, l’Idea o Ragione autocosciente, e perciò la forma gnoseologica della Filosofia della religione, che, in quanto disciplina filosofica, è quella del Concetto puro, non coincide con quella del suo oggetto; nella Logica speculativa, al contrario, il suo contenuto 76
R. R. Williams, Hegel`s True Infinity As Panentheism, cit., p. 139. Ibid., p. 150, n. 7. 78 Per una recente valutazione critica della filosofia della religione di Schleiermacher e di Fichte, cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità, cit., Parte I, cap. 13, § 5, p. 355-64, e Parte II, cap. 1, § 4, p. 410-19. 77
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essenziale non è altro che lo stesso sviluppo immanente del Concetto puro, e perciò in essa forma e contenuto coincidono. La radicale eterogeneità della relazione tra forma e contenuto nella Logica speculativa e nella Filosofia della religione implica, dunque, che la prima non possa essere considerata come una parte integrante della seconda, bensì come una differente scienza a essa sopraordinata per certezza, verità e dignità. In terzo luogo, sia l’analisi della determinazione concettuale della “rappresentazione”, svolta da Hegel nella Filosofia dello spirito soggettivo79, che quella da lui abbozzata nelle Lezioni sulla filosofia della religione80 mostrano con incontrovertibile evidenza l’intima contraddittorietà di tale forma spirituale, e dunque la conseguente insufficienza ontologica della stessa religione in quanto tale, che diviene tanto più perspicua quanto più essa avanza nel suo sviluppo storico, e che la costringe infine a togliere sé stessa – non solo idealmente, ma anche realmente – nella superiore, più adeguata forma spirituale della filosofia in quanto “sapere speculativo”81. Se, dunque, un limite insuperabile dev’essere ammesso nella realizzazione del Vero Infinito entro la sfera dell’Eticità, se cioè la stessa sostanzialità etica in sé “infinita” dello Stato rimane, per qualche altro verso, insuperabilmente finita, allora l’unico vero, affidabile, non illusorio superamento di tale finitezza andrà cercato nella stessa filosofia, in quanto sapere speculativo, piuttosto che nell’ormai trascesa e obsoleta forma delle rappresentazioni religiose. Da questo punto di vista, la tesi di Wallace, che scorge nel mondo morale la perfetta realizzazione del Vero Infinito e relativizza la stessa pretesa assolutezza del cristianesimo, appare senz’altro assai più plausibile di quanto Williams creda, e ricca di suggestioni e ispirazioni filosofiche che accennano a ulteriori, importanti sviluppi dell’Idealismo contemporaneo82. 4. Autonomia e teonomia. L’insistenza di Williams sull’incapacità del mondo morale stricto sensu inteso a realizzare adeguatamente il Vero 79
Cf. W10, §§ 451-64. Cf. W16, p. 139-51. 81 Cf. W17, Dritter Teil, III, § 3: “Die Realisierung der geistigen zur allgemeinen Wirklichkeit”, p. 329-44. 82 Sarà qui sufficiente ricordare che uno dei fondamentali risultati della celebre “riforma” gentiliana della dialettica hegeliana è per l’appunto la critica della distinzione hegeliana tra “mondo” e “sopramondo”, cioè tra spirito oggettivo e Spirito assoluto, e la conseguente assoluta identificazione di eticità e filosofia. Nella prospettiva teoretica dell’attualismo, la tesi di Wallace criticata da Williams non è nulla meno che la stessa definizione assoluta dell’atto puro dello spirito, è la rivelazione di quel “segreto” della sua essenza che neppure Hegel sarebbe riuscito a svelare completamente. Sul carattere e significato dell’Idealismo attuale, e specialmente sulla sua relazione con la filosofia hegeliana, cf. G. Rinaldi, L’idealismo attuale tra filosofia speculativa e concezione del mondo, QuattroVenti, Urbino 1998, cap. 3, p. 61-83, e Id., Attualità dell’Idealismo attuale. Hegel e Gentile, in: “Magazzino di filosofia”, n. 21/ 2012-2013, p. 153-67. 80
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Infinito lo induce a contrapporre all’identificazione del principio etico con l’autonomia del puro volere umano, formulata da Kant e difesa da Wallace, l’idea che esso debba esser piuttosto concepito come una “teonomia”, che sarebbe l’unità di autonomia ed eteronomia83. L’autonomia del volere, intesa in senso kantiano come la possibile, ma non necessaria conformità delle massime della volontà umana finita alla legge morale universale, che essa ha dato a sé stessa (in quanto ragion pura pratica), tien palesemente fermo alla realtà positiva dell’individuo finito, e perciò Williams ha certamente ragione a negare che essa possa essere considerata come l’adeguata realizzazione del Vero Infinito nello spirito umano. Nella nostra Teoria etica abbiamo cercato di risolvere la difficoltà distinguendo84 dall’autodeterminazione della volontà finita, che si realizza, in forma sempre e solo inadeguata, nella sfera della moralità individuale, l’autodeterminazione della volontà infinita, che è il vero fondamento del mondo morale e che si attua necessariamente nello sviluppo storico dello spirito universale. Ciò implica senz’altro l’ammissione di una differenza essenziale tra la volontà infinita dell’Idea e la volontà finita dell’individuo; ma la già accennata inconsistenza logico-metafisica della categoria dell’Alterità esclude, a nostro giudizio, la possibilità di concepire tale differenza come un rapporto di alterità o eteronomia, in qualsivoglia senso intesa, e dunque anche come momento complementare di una possibile “teonomia”. 5. Immanenza e trascendenza. La polemica di Williams contro l’interpretazione, proposta da Wallace, del concetto dell’autotrascendenza del finito insiste sul fatto che essa comprometterebbe non solo l’essenziale “indipendenza” dell’Infinito dal finito, ma anche la sua “trascendenza” rispetto all’uomo e al mondo (che non sarebbe, comunque, da confondersi con la “trascendenza astratta” presupposta dal concetto “convenzionale” di Dio formulato dalla teologia cristiana tradizionale). In realtà, Wallace non solo afferma che l’Infinito, in quanto risultato dell’autonegazione del finito nel processo della sua autotrascendenza, è esso stesso una realtà “trascendente”85, ma proprio per tale ragione critica esplicitamente l’interpretazione “immanentistica” del pensiero hegeliano proposta da P. Stekeler-Weithofer86. Entrambi i pensatori, dunque, condividono 83
Cf. supra, § 2 e n. 69. Cf. G. Rinaldi, Teoria etica, cit., Parte I, cap. 4, §§ 38-40, p. 155-63. 85 Cf. R.M. Wallace, True Infinity and Hegel’s Rational Mysticism, cit., p. 130: «Like the conventional conception of God that Hegel is criticizing, Hegel’s conception continues to be built around the idea of transcendence, though the transcendent for him is to be understood as a true infinity rather than a spurious one». 86 Cf. H, p. 96-97. 84
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palesemente la tesi che l’incondizionata negazione della “trascendenza” dell’Infinito implichi inevitabilmente la negazione della sua stessa realtà. Alla radice di tale convinzione sembra stare la tacita identificazione (che trova un preciso riscontro nella celebre contrapposizione kantiana tra i “principi immanenti” dell’intelletto, che si manterrebbe opportunamente entro i limiti dell’“esperienza possibile”, e i “principi trascendenti” della ragion pura, che a torto ci indurrebbero invece a superarli)87 dell’“immanenza” col mondo dei fatti empirici manifestati dalla percezione sensibile, con cui abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana. Ma qual è il genuino concetto hegeliano dell’“immanenza” e della “trascendenza”? Anzitutto, possiamo osservare che Hegel usa il termine “immanenza” in tutt’altro senso che quello kantiano accennato, quando a es. definisce il metodo dialettico (che, com’è noto, costituisce nulla meno che la forma assoluta della suprema categoria logica, l’Idea assoluta) come lo “sviluppo immanente del Concetto”, lo sviluppo cioè che istituisce “una connessione immanente” (einen immanenten Zusammenhang) 88 tra le determinazioni del pensiero: «Il metodo […] nella scienza si sviluppa da sé stesso ed è solo un immanente avanzare e produrre le sue determinazioni»89. Tale sviluppo, infatti, è “immanente” non già perché il suo contenuto rientri nei limiti dell’esperienza possibile, giacché il Concetto puro è per definizione attualmente infinito, bensì nel senso che tutte le determinazioni che vengono poste nel suo «corso inesorabile, puro, che non prende nulla dall’esterno» (unaufhaltsamem, reinem, von außen nichts hereinnehmendem Gange)90 non sono casualmente o arbitrariamente desunte da una realtà empirica, storica o teologica a esso “trascendente”, ma sono piuttosto l’esplicazione della sua infinita, assoluta identità con sé, che, come si è detto, coincide, in definitiva, con lo stesso concetto filosofico di Dio. Da questo punto di vista, asserire che Hegel sostiene una concezione “immanentistica” dell’Assoluto o del Divino – una concezione, cioè, per la quale il punto di vista di Dio e quello del pensiero umano che lo contempla, in definitiva, si identificano – non significa certamente, come sia Williams che Wallace sembrano credere, formulare una contradictio in adiecto. L’uso dei termini “trascendenza” o “trascendente” è invece assai raro in Hegel, e sembra restringersi al luogo dell’Enciclopedia91, in cui egli osserva che in matematica vengono definite “trascendenti” quelle relazioni tra 87
Cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 243 (B 365); tr. it. G. Gentile, cit., p.
293. 88
W8, § 81, Anm. «Die Methode […] in der Wissenschaft sich aus sich selbst entwickelt und nur ein immanentes Fortschreiten und Hervorbringen seiner Bestimmungen ist» (W7, § 31). 90 W5, p. 49. 91 Cf. W8, § 42, Zusatz. 89
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grandezze – quali, a es., una linea retta e un circolo infinitamente piccoli –, in cui vengono posti come identici concetti che la matematica, in quanto scienza dell’intelletto finito, in genere contrappone invece l’uno all’altro; e aggiunge che il vero concetto dell’unità sintetica originaria dell’appercezione, nella misura in cui implica la sua identità col suo presunto opposto, cioè la realtà noumenica della cosa-in-sé, dovrebbe esser propriamente definito “trascendente”, e non “trascendentale”, come Kant, tenendo fermo alla loro radicale differenza, invece fa. Ciò significa che il principio “speculativo” dell’unità degli opposti – proprio come il “mistico” –92 è sì “trascendente” rispetto all’intelletto finito, ma non già rispetto alla Ragione autocosciente, con la quale piuttosto si identifica, ed è perciò, nel senso su accennato, assolutamente immanente. Il termine, di cui Hegel invece costantemente si serve per designare ciò che la filosofia e la teologia tradizionale hanno generalmente inteso col concetto di “trascendenza”, è “Jenseits”, cioè l’“Al di là”, ed è senz’altro appropriato, perché nel linguaggio filosofico “trascendenza” in genere significa o (1) l’intima essenza di Dio, nella misura in cui essa è ritenuta essenzialmente “altra” dalla natura e dallo spirito umano, e (2) rimane perciò un “mistero” impenetrabile per la “nostra” ragione finita (è noto, infatti, che è convinzione condivisa dall’intera teologia scolastica e neoscolastica che di Dio la ragione umana può conoscere dimostrativamente, nel migliore dei casi, la sola esistenza, laddove della sua essenza sarebbe possibile aver solo una vaga cognizione di ordine meramente metaforico o analogico)93; o (3) l’“altro” mondo, in cui l’anima-sostanza dell’individuo finito entrerebbe dopo la propria morte94; o (4) la stessa identità originaria delle cose materiali, nella misura in cui essa cade al di fuori dell’esperienza del soggetto umano finito95. Nei confronti di siffatta “trascendenza” la posizione di Hegel è radicalmente negativa, e le sue critiche – e, a volte, addirittura sarcasmi – in proposito sono così numerose e facilmente reperibili in tutti i suoi scritti, che appare superfluo addurne qui degli esempi. Da questo punto di vista, si può senza tema d’errore asserire che la critica radicale della trascendenza di Dio e, nella misura in cui per Hegel Dio non è che la Totalità del reale, di ogni possibile oggettività che appaia in qualche modo “altra” rispetto 92
Cf. W8, § 82, Zusatz. Per un’ampia analisi e critica del concetto di trascendenza elaborato dalla metafisica e teologia cristiana tradizionale cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità, cit., Parte III, cap. 1, § 2, p. 557-560 e §§ 6-7, p. 571-88. 94 Cf. ibid., Parte III, cap. 4, §§ 5-6, p. 656-72. 95 Questo concetto puramente gnoseologico di trascendenza è stato sistematicamente sviluppato, nel secolo XX, specialmente dall’ontologia atea di Nicolai Hartmann. Cf. Id., Carattere e limiti della “filosofia sistematica” di Nicolai Hartmann, in: “Magazzino di filosofia”, n. 23/2014, p. 146-78. 93
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all’autocoscienza infinita dello spirito (umano), è il più fondamentale e plausibile assunto della teologia speculativa hegeliana; e che la stessa celebre definizione gentiliana dell’Idealismo attuale come una filosofia dell’“immanenza assoluta”96 vale perciò, con non minor ragione, per lo stesso idealismo hegeliano97. Le interpretazioni proposte da Williams e da Wallace colgono ottimamente entrambe questo suo profondo spirito “immanentistico”, nella misura in cui la “trascendenza astratta”, affermata dal teismo tradizionale, che entrambi respingono, coincide palesemente con quello “Jenseits”, cui l’idealismo hegeliano decisamente si oppone. Ma, in tal caso, la loro comune rivendicazione della “trascendenza” dell’Infinito rispetto al finito, che cosa mai può propriamente significare se non che nel Vero Infinito la differenza tra finito e Infinito non è solo annullata, ma anche conservata e inverata? In questo senso, noi non abbiamo certamente difficoltà a condividere, in linea di principio, la tesi che l’Infinito non sarebbe Infinito, l’Assoluto non sarebbe Assoluto, Dio non sarebbe Dio, se 96
Cf. G. Gentile, “L’atto del pensare come atto puro”, in: Id., La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 1975, § 16: “L’immanenza assoluta”, p. 193; e Id., “Il metodo dell’immanenza”, ibid., p. 196-232. 97 Ovviamente il punto di vista dello stesso Gentile, a tale proposito, è assai differente, perché egli ritiene di poter scorgere nella tripartizione del sistema hegeliano e nella relazione tra Fenomenologia e Logica dei negativi “residui di trascendenza”, che di fatto comprometterebbero la pretesa assoluta immanenza della realtà nel pensiero autocosciente. La soluzione proposta da Gentile consiste, com’è noto, nella negazione della possibilità di principio della Filosofia della natura, e nella conseguente assoluta identificazione della Logica con la Filosofia dello spirito (assoluto) e della Fenomenologia con la Logica. Abbiamo già provveduto a discutere in dettaglio il significato e i limiti della riforma gentiliana della dialettica hegeliana (cf. G. Rinaldi, L’idealismo attuale tra filosofia speculativa e concezione del mondo, cit., cap. 3, p. 61-83). Qui potremo limitarci a osservare che tra tali residui Gentile annovera anche la differenza, che nell’articolazione del pensiero hegeliano svolge certamente un ruolo cruciale, tra “certezza” e “verità”, “essere-in-sé” (Ansichsein) ed “essere-per-sé” (Fürsichsein), la quale caratterizza, in maniera diversa, sia il cominciamento di ogni processo dialettico che tutte le sue fasi intermedie, e si toglie solo nel suo risultato, l’Idea assoluta, in cui tali opposti vengono a identificarsi senza residuo. Per Gentile, al contrario, tale identità, ch’egli suole designare coi termini “pensiero attuale” o “pensiero pensante” o “atto puro”, è l’unica realtà concreta che sia veramente possibile e pensabile, perché il suo opposto immanente, il “pensiero pensato” in quanto molteplicità dei “fatti”, è in sé privo di unità organica e ordine sistematico. A noi, tuttavia, riesce difficile comprendere come egli possa insistere – con enfasi ancor maggiore di quella di Hegel – sul carattere dinamico dell’atto del pensare senza concepirlo come un processo, in cui è necessario distinguere un cominciamento, una serie di fasi intermedie progressivamente più adeguate al suo concetto, e una conclusione o “risultato”; e come sia possibile tracciare tale distinzione senza affermare che ciò che nel risultato è posto attualmente, “in sé e per sé”, nel suo cominciamento è ancora solo “in sé”, e che perciò il suo essere in sé e per sé, nella misura in cui non è ancora in esso attualmente posto, in qualche modo lo “trascende”. Degradare anche la (relativa) trascendenza del risultato rispetto al cominciamento del processo dell’Idea a un fuorviante “residuo di trascendenza” significa, a nostro giudizio, solo sottrarre al concetto del processo ogni suo contenuto logico determinato, e renderlo così, in definitiva, impensabile.
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esso (o egli) non “trascendesse” il finito, il relativo, il mondo; e che l’immanenza (assoluta) della Ragione autocosciente non esclude, anzi implica, al suo interno, la trascendenza (relativa) degli stadi superiori (e del risultato) del processo della sua realizzazione rispetto a quelli inferiori (e al cominciamento). Ma, visti gli overtones teistici e dualistici che per una tradizione millenaria inevitabilmente ineriscono alla parola “trascendenza”, riteniamo che il termine più appropriato per definire il carattere di tale rapporto sia quello di “differenza”, non di “trascendenza”, e che perciò sia in definitiva lecito concludere che la filosofia hegeliana propugna e dimostra una dottrina teologica che nega perentoriamente la trascendenza di Dio e ne rivendica per contro l’“assoluta immanenza” nell’autocoscienza infinita dello spirito umano98. E il merito inestimabile degli scritti di Williams e di Scarso, invece, è il contributo alla soluzione del problema della relazione tra immanenza e trascendenza arrecato dal saggio di R. Franchini Un’antinomia inattuale: immanenza o trascendenza, in: “Criterio”, 3: 4 (1985), p. 241-54. Dopo aver messo opportunamente in rilievo le insuperabili antinomie inerenti nel concetto metafisico e teologico tradizionale della trascendenza assoluta, egli polemizza vivacemente anche contro il concetto attualistico dell’immanenza assoluta, che non sarebbe in grado di render ragione dell’“infinita molteplicità dei contenuti” del “giudizio storico” (ibid., p. 253), e a entrambi contrappone l’«unificazione dialettica della trascendenza col suo opposto, l’immanenza» (ibid., p. 252) – termine, questo, che Hegel non userebbe “mai” (ibid., p. 253). Quest’ultima asserzione, come si è poc’anzi visto (cf. supra, § 3, nn. 88 e 89), è semplicemente falsa; né si comprende com’egli, poche righe dopo, possa tranquillamente affermare che l’“unica sintesi valida” è “quella di soggetto e predicato”, perché «le altre danno luogo a posizioni estremistiche come soggettivismo e ontologismo, spiritualismo e materialismo etc.» (ibid., p. 253). Com’è possibile concepire una “unificazione” che non sia una “sintesi”, ed evitar quindi di concludere che la stessa unificazione di trascendenza e immanenza, da lui suggerita, sia perciò stesso non “valida”? Le innegabili difficoltà, che noi stessi non abbiamo mancato di mettere in rilievo (cf. G. Rinaldi, L’idealismo attuale tra filosofia speculativa e concezione del mondo, cit., cap. 4, p. 85108), inerenti nella dicotomia gentiliana tra l’unità immoltiplicabile dell’atto del pensare e l’infinita molteplicità dei fatti, non potrebbero essere risolte, come invece noi crediamo, mediante la dottrina hegeliana dell’universale concreto come totalità sistematica, perché la stessa filosofia hegeliana non sarebbe che una di quelle “filosofie fenomenologico-rivelative” cui farebbe difetto «la teoria e l’esigenza della mediazione» (p. 253). Anche quest’ultima affermazione è palesemente falsa, vista l’enfasi con cui Hegel costantemente insiste sul carattere “dimostrativo” della sua filosofia e sul ruolo cruciale che la mediazione svolge sia nel processo del conoscere che nella realtà: «[E]s Nichts gibt, nichts im Himmel oder in der Natur oder im Geist oder wie es sei, was nicht ebenso die Unmittelbarkeit enthält als die Vermittlung, so daß sich diese beiden Bestimmungen als ungetrennt und untrennbar und jener Gegensatz sich als ein Nichtiges zeigt»! (W5, p. 66.) 98 Si potrebbe cercare di riassumere il senso della controversia tra Williams e Wallace, e della nostra prospettiva critica nei confronti di entrambi, osservando che per Williams l’Infinito, pur contenendo in sé stesso il finito, è tuttavia anche “altro” e “trascendente” rispetto a esso; che per Wallace esso è sì “trascendente”, ma non “altro”; e che per noi esso non è né trascendente né altro, bensì solo differente; e che la ragione, per cui noi propendiamo per il concetto di differenza, è che esso, diversamente da quelli dell’altro e della trascendenza, è una determinazione della riflessione (cf. W6, p. 35 ss.), e come tale è l’unità di riflessione-
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Wallace – al di là di una terminologia a volte fuorviante e di una vicendevole polemica che non ha ragion d’essere – è certamente quello di aver autorevolmente richiamato l’attenzione del pensiero filosofico contemporaneo sul vero significato, e sulle solide ragioni, della teologia speculativa di Hegel.
in-sé e di riflessione-in-altro, e perciò dà anche ragione della loro unità o identità, laddove gli altri concetti per lo più accennano, direttamente o indirettamente, a un rapporto di esclusione reciproca tra finito e Infinito, che mina alla radice la loro pur asserita identità.
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Giacomo Rinaldi, Etica e metafisica nell’“idealismo scettico” di Francis Herbert Bradley* § 1. F. H. Bradley e l’Idealismo anglosassone Francis Herbert Bradley (1846–1924) è certamente uno dei più significativi e influenti esponenti dell’Idealismo anglosassone. Questa corrente filosofica, in cui noi non esitiamo a scorgere la tendenza teoreticamente più viva della filosofia contemporanea, nasce in Inghilterra nella seconda metà del XIX secolo come energica reazione all’orientamento prevalentemente empiristico, naturalistico, se non addirittura materialistico, assunto dalla filosofia europea in tale epoca, e desume le sue peculiari tematiche, metodi e soluzioni – assai più che dalla tradizione indigena del Platonismo della scuola di Cambridge – dai sistemi filosofici elaborati dall’Idealismo tedesco, due dei cui maggiori esponenti (Hegel e Schelling) erano scomparsi solo qualche decennio prima. Nel secolo e mezzo che da allora è trascorso, esso ha prosperato anzitutto nell’Inghilterra dell’età vittoriana, trovando nell’Università di Oxford il centro della sua diffusione, che si è estesa presto anche alla Scozia, agli Stati Uniti e ai territori dell’Impero britannico. Dopo la profonda crisi e l’indubbia contrazione della sua influenza, causate dalla virulenta reazione empirista, capeggiata da B. Russell, all’inizio del Novecento, esso ha dato tuttavia segni convincenti di rinnovata vitalità nella seconda metà del XX secolo, e a tutt’oggi costituisce senz’altro un imprescindibile punto di riferimento per ogni serio tentativo odierno di ulteriore sviluppo dell’Idealismo filosofico. Laddove l’appropriazione del pensiero di Hegel nella filosofia tedesca contemporanea appare caratterizzata – con le significative ma marginali eccezioni di Karl-Ludwig Michelet, Kuno Fischer e Richard Kroner1 – dall’arbitrario isolamento di alcuni aspetti particolari della sua complessa costruzione sistematica e dal più o meno parziale rifiuto del suo più profondo “nucleo speculativo”; e laddove l’Idealismo italiano, pur tenendo fermo alla “dimensione fenomenologica” del sistema hegeliano e al primato gnoseologico dell’autocoscienza, perde spesso di vista, o rifiuta esplicitamente, le sue implicazioni logico-metafisiche o mistico-religiose; l’Idealismo britannico propende piuttosto per un approccio decisamente * Questo saggio è il testo, riveduto e ampliato, dell’omonima relazione da noi tenuta il 12 dicembre 2014 presso l’Università di Urbino nell’ambito del Congresso internazionale “Etica e metafisica”. 1 Cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, The Edwin Mellen Press, Lewiston NY 1992, §§ 43 e 47.
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metafisico all’intero sistema dell’Idealismo assoluto, che viene in esso sottoposto ad accurate analisi intese ad accertarne non solo la configurazione storico-filologica o il significato ermeneutico, bensì pure l’intima consistenza teoretica. Particolare rilevanza filosofica viene in genere attribuita alle fondamentali tesi hegeliane: (1) che l’Assoluto costituisce l’oggetto immanente del sapere filosofico, e non coincide senz’altro col Dio trascendente del teismo tradizionale; (2) che esso si identifica piuttosto col “Vero Infinito”, cioè con la totalità organica della Realtà, che comprende in sé stessa anche la molteplicità dei fenomeni dell’esperienza finita; (3) che esso si costituisce come un sistema “gerarchico” di “gradi di realtà e di verità”, in cui l’identità dell’Universale si differenzia in una serie dinamica di forme specifiche progressivamente più adeguate al suo concetto; (4) che l’interna “coerenza” di una teoria è il criterio necessario e sufficiente della sua verità; e infine (5) che la totalità dell’Assoluto non è un fatto originario immediatamente sussistente, bensì è il risultato di un processo (ideale e reale) di autoproduzione, automediazione o “autotrascendenza”2.
2 Questa sintetica indicazione dei caratteri peculiari della filosofia dell’Idealismo anglosassone è il risultato di più che trentennali ricerche da noi a tale proposito svolte, e in esse trova il suo fondamento e la sua giustificazione. Cf. G. Rinaldi, Saggio sulla metafisica di Harris, Li Causi, Bologna 1984; Id., Nota su Errol E. Harris, seguita dalla tr. it. di alcuni estratti di opere recenti di Errol E. Harris, in: “Criterio”, 3:3 (1985), p. 186-201, e 3:4 (1985), p. 281-92; Id., Recenti prospettive e tendenze della letteratura hegeliana anglosassone, in: “Cultura e scuola”, CIV (1987), p. 127-36; Id., L’esperienza di «Idealistic Studies», in: “Criterio”, 6:2 (1988), p. 132-45 e 6:3 (1988), p. 216-24; Id., The Identity of Thought and Being in Harris’s Interpretation of Hegel’s Logic, in: AA. VV., Dialectic and Contemporary Science: Essays in Honor of Errol E. Harris, c/ di Philip T. Grier, University Press of America, Lanham–London–New York 1989, p. 69–88; ristampato in G. Rinaldi, Absoluter Idealismus und zeitgenössische Philosophie. Bedeutung und Aktualität von Hegels Denken, Peter Lang, Frankfurt a. M.-Berlin-Bern-Bruxelles-New York-Oxford-Wien 2012, p. 185-204; Id., Attualità di Hegel. Concretezza, autocoscienza e processo in Gentile e in Christensen, in: “Studi filosofici”, XII-XIII (1989-1990), p. 63-104; Errol E. Harris, Salvezza dalla disperazione. Rivalutazione della filosofia di Spinoza. Tr. it. e “Introduzione” di G. Rinaldi, Guerini, Milano 1991; G. Rinaldi., A History and Interpretation of the Logic of Hegel, cit., Part III, Ch. 3: “The ‘Science of Logic’ in Anglo-Saxon Idealism”, p. 431-94; Id., Zur gegenwärtigen Bedeutung von Hegels Naturphilosophie, in: “Jahrbuch für Hegelforschung”, VI-VII (20002001), p. 219–52; Id., “Ragione” e “giustizia” secondo Richard D. Winfield, in: “Magazzino di filosofia”, VII (2002), p. 107-24; Id., Errol E. Harris, in: AA. VV., Dictionary of Modern American Philosophers, c/ di J.R. Shook, Thoemmes Press, Bristol-London-New York 2005, p. 1036-40; ristampato in: AA. VV., Biographical Encyclopedia of British Idealism, c/ di W. Sweet, Continuum, Bristol-London-New York 2010, p. 202-06; Id., Über das Verhältnis der dialektischen Methode zu den Naturwissenschaften in Hegels absolutem Idealismus, in: AA. VV., Naturwissenschaft und Methode in Hegels Naturphilosophie, c/ di W. Neuser, Königshausen & Neumann, Würzburg 2009, p. 38-57; ristampato in: G. Rinaldi, Absoluter Idealismus und zeitgenössische Philosophie, cit., p. 103-22, Id., Il problema religioso nella Filosofia sistematica di Richard D. Winfield, in: “Magazzino di filosofia”, XVIII
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Il pensiero di Bradley appare particolarmente interessante, oltre che per i suoi intrinseci meriti teoretici, anche in relazione alla tematica del nostro Congresso, “Etica e metafisica”, avendo egli dedicato alla trattazione dell’Etica e della Metafisica due complesse opere sistematiche, Ethical Studies (1876)3 e Appearance and Reality: A Metaphysical Essay (1893), che è generalmente considerato il suo capolavoro, sebbene – ci affrettiamo subito a dirlo – noi non esitiamo a esprimere la nostra preferenza per il primo saggio. Tra le due opere, infatti, noi rileviamo una profonda soluzione di continuità (forse motivata anche da ragioni di carattere personale, che l’estrema riservatezza di questo pensatore rende difficile accertare, e che, comunque, non sono teoreticamente decisive), che è bene cercare di mettere a fuoco fin d’ora, perché la sua identificazione e interpretazione è l’imprescindibile condizione di una adeguata valutazione critica della sua filosofia. Bradley è e rimane nell’intero arco della sua carriera filosofica e letteraria un pensatore rigorosamente idealista, e “idealista” nel senso moderno, “trascendentale”, e non già in quello antico (platonico) del termine. Con Berkeley, Fichte, Hegel e Gentile, infatti, egli condivide il fondamentale assunto che la forma del “sé” (self), o meglio l’“esperienza” della coscienza, è l’originaria, universale condizione di possibilità non solo di ogni “nostra” conoscenza della realtà oggettiva, ma della stessa essenza di tale realtà: «Il reale, per essere reale», egli perentoriamente afferma, «dev’essere sentito»4. L’Assoluto, di conseguenza, non è né una “inconoscibile” cosa-in-sé (come credevano Kant e Herbert Spencer), né una realtà “inconscia” (come voleva Eduard von Hartmann)5, né una molteplicità di entità atomiche “semplici” (come voleva Herbart) – la distruzione critica delle teorie metafisiche di Herbart6 e di Spencer7 costituisce indubbiamente (2005-2010), p. 165-84; Id., Ragione e Verità. Filosofia della religione e metafisica dell’essere, Aracne Editrice, Roma 2010, Parte II, cap. 2, § 5: “F.H. Bradley e l’Idealismo anglosassone”, p. 461-77; Id., Tragedia, riconoscimento e morte di Dio nel pensiero di Robert Williams, in: “Magazzino di filosofia”, XXIII (2014), p. 146-78; Id., Idealismo e trascendenza. A proposito di un recente saggio di Robert M. Wallace, in: “Magazzino di filosofia”, XXVI (2015), in qs. pubblicazione. 3 Cf. F.H. Bradley, Ethical Studies, H.S. King & Co., London 1876 (reprint Thoemmes Antiquarian Books 1990), p. 59, dove egli significativamente osserva che per risolvere i fondamentali problemi della filosofia morale è necessario «to have something like a system of metaphysics». 4 «[T]he real, to be real, must be felt» (Id., Essays on Truth and Reality, Clarendon Press, Oxford 1914, Ch. 6: “On Our Knowledge of Immediate Experience”, p. 190, n. 1). Cf. anche ibid., p. 190: «Nothing in the end is real but what is felt, and for me nothing in the end is real but that which I feel». Ovvia l’analogia col celebre dictum di Berkeley: “esse est percipi”. 5 Cf. ibid., p. 172. 6 Cf. Id., Appearance and Reality: A Metaphysical Essay, Oxford, Clarendon Press 197817, p. 124-26. 7 Cf. Id., Ethical Studies, cit., p. 288-89 n.
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una delle più valide acquisizioni teoretiche del “capolavoro” di Bradley –, bensì un “tutto non-relazionale” (non-relational whole) di “esperienza senziente” (sentient experience)8 – dell’esperienza, cioè, che si concentra e riassume nel ”sentimento” (feeling) immediato che la coscienza ha di sé. In Ethical Studies, tuttavia, la totalità dell’esperienza viene ancora concepita – conformemente alla lettera e allo spirito della filosofia hegeliana – come un “processo”, in cui l’unità originaria dell’autocoscienza differenzia sé stessa, e si pone così in contraddizione con sé stessa, ma risolve anche le proprie contraddizioni in una superiore unità concreta: «Qui [cioè nel sistema dell’Eticità]», egli afferma, «la nostra moralità si compie in unità con Dio, e noi troviamo ovunque quell’“Amore immortale”, che si costruisce sempre sulla contraddizione, ma in cui la contraddizione eternamente si risolve»9. La vuota, astratta identità garantita dal tradizionale principio di noncontraddizione, al contrario, non può che produrre “tautologie del tutto sterili” (barest tautologies)10. E anche il supremo valore, che in quest’opera egli ancora riconosce alla fede religiosa – che, egli afferma con Lutero, sola justificat, e che perciò, a differenza di Hegel, egli non concepisce come la forma inadeguata di un contenuto assoluto che dev’essere tolta nel puro pensiero filosofico11 –, consiste nel fatto che, a differenza del carattere unilateralmente contemplativo ch’egli attribuisce al sapere teoretico, essa implica un atto del volere, in cui la realtà dell’ideale non è solo “creduta” nel senso del belief, cioè come qualcosa che semplicemente “c’è”, bensì si identifica con un assoluto dovere morale che l’attività “pratica” dello stesso individuo singolare è chiamata a realizzare, e infallibilmente realizza, nella sua vita reale12. Questa concezione, ancora genuinamente hegeliana, dell’Assoluto come attività, processo e autocoscienza viene invece esplicitamente criticata e respinta da Bradley in Appearance and Reality. Egli ora sostiene che negli stessi concetti del sé, del movimento, del pensiero, del Bene e della Verità, in cui il contenuto essenziale dell’Idea hegeliana si articola, siano contenute 8
Cf. Id., Appearance and Reality, cit., p. 128-29. «Here our morality is consummated in oneness with God, and everywhere we find that “immortal Love”, which builds itself for ever on contradiction, but in which the contradiction is eternally resolved» (Id., Ethical Studies, cit., p. 305). 10 Ibid., p. 228. Cf. anche p. 147. 11 Cf. ibid., p. 285, dove Bradley nega esplicitamente che la religione possa essere considerata «a lower form or stage of philosophy». 12 Cf. ibid., p. 298: «The importance for practice of this religious point of view is that what is to be done is approached, not with the knowledge of a doubtful success, but with the fore-felt certainty of already accomplished victory. / Morality, the process of realization, thus survives within religion. It is only as mere morality that it vanishes; as an element it remains and is stimulated. Not only is strength increased by assurance of success, but in addition the importance of success is magnified». 9
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– non diversamente che in quelli del finito, dello spazio, del tempo, della natura, della causalità, ecc. – delle contraddizioni che non possono essere risolte dalla ragione speculativa, per la semplice ragione che in quest’opera egli torna inspiegabilmente a presupporre la validità assoluta del tradizionale principio di non-contraddizione, il quale esplicitamente proibisce, sul piano ontologico, quell’unità di identità e differenza, senza la quale è impossibile pensare in maniera coerente l’intera “dimensione processuale” della conoscenza e della realtà13. E, in effetti, egli ora insiste piuttosto sul carattere “stazionario” (stationary) dell’Assoluto, che sarebbe sì un Tutto che contiene in sé, quali sue “apparenze”, “innumerevoli storie”, ma che, in sé e per sé considerato, sarebbe – proprio come l’Essere “perfetto” tematizzato dalla “vecchia metafisica” – “immobile”14; e si spinge sino al punto di rifiutarsi di considerare “cristiani” quei filosofi o teologi che concepiscono il “progresso” come un predicato fondamentale della stessa Realtà assoluta: Se il progresso dev’essere più che relativo, se è qualcosa di più di un mero fenomeno parziale, allora la religione più comunemente professata tra noi è stata abbandonata. Tu non puoi essere un cristiano se sostieni che il progresso è assolutamente reale ed è la verità ultima circa le cose15. 13 Cf. Id., Appearance and Reality, cit., p. 120: «Ultimate reality is such that it does not contradict itself, here is an absolute criterion». Ma è anche vero che sia in quest’opera che in The Principles of Logic è possibile reperire accurate formulazioni del Principio di non contraddizione, che prendono esplicitamente le distanze dal vuoto concetto dell’identità analitica, che sta alla base delle sue versioni tradizionali, cui egli contrappone l’idea che l’identità da esso affermata, proprio come l’“identità concreta” del pensiero speculativo hegeliano, da un lato abbia una rilevanza non solo logico-formale, ma anche metafisica, dall’altro comprenda in sé stessa anche il momento della differenza. Cf. Id., The Principles of Logic, Oxford University Press, Oxford 1883 (19122; ristampato nel 1958), Book I, Ch. 5, §§ 10–15, p. 14551; e Id., Appearance and Reality, cit., p. 307: «If you will not assume that identity holds throughout different contexts, you cannot advance one single step in apprehending the world»; e ibid., “Appendix”, p. 507: «In short “the identity of opposites”, far from conflicting with the law of Contradiction, may claim to be the one view which satisfies its demands, the only theory which everywhere refuses to accept a standing contradiction». L’uso teoretico, tuttavia, che nel suo presunto “capolavoro” Bradley generalmente fa di tale principio, non si distingue in sostanza da quello legittimato dalla sua versione tradizionale (aristotelica e logico-formale), che mira a sancire piuttosto l’esclusione che la compenetrazione degli opposti nell’identità del concetto. Anche a questo proposito, dunque, non diversamente da quanto avviene in numerosi altri contesti teorici (cf. infra, § 3), la posizione di Bradley appare radicalmente inconsistente. 14 Cf. Id., Appearance and Reality, cit., p. 442: «The Absolute has no history of its own, though it contains histories without number […] For nothing perfect, nothing genuinely real, can move». 15 «If progress is to be more than relative, and is something beyond a mere partial phenomenon, then the religion professed most commonly among us has been abandoned. You cannot be a Christian if you maintain that progress is final and ultimate and the last truth
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Questo estremo esito del pensiero di Bradley, che noi non possiamo condividere, e il cui fondamento logico abbiamo già avuto modo di criticare altrove16, spiega la preferenza da noi accordata a Ethical Studies, su cui perciò concentreremo la nostra attenzione in questo saggio, mettendone in luce le fondamentali acquisizioni teoretiche, ma accennando anche ad alcune difficoltà, in cui è possibile scorgere in nuce quella tendenza ipercritica e autodistruttiva del suo pensiero, che trionferà in Appearance and Reality, e che giustifica senz’altro la denominazione di “idealismo scettico”, da lui stesso attribuita alla sua filosofia17.
§ 2. Lineamenti dell’etica di Bradley La teoria etica di Bradley si articola in tre nuclei dottrinali fondamentali: (1) la critica dell’utilitarismo, e più in genere dell’edonismo e dell’empirismo morale, che aveva conseguito una formulazione divenuta per così dire “canonica” in un celebre saggio di J.S. Mill apparso nel 186318; (2) la critica dell’opposta, ma non meno unilaterale, concezione deontologica della morale sostenuta da Kant19; e infine (3) la formulazione affermativa del risultato ottenuto dalle sue precedenti analisi critiche, e cioè l’identificazione dell’ideale morale con la totalità organica dell’Eticità20, risultante dalla about things» (ibid., p. 443). Il carattere pretestuoso, se non addirittura “sofistico”, come vuole il de Ruggiero (cfr. G. de Ruggiero, La filosofia contemporanea, Laterza, Bari 19627, p. 329), di questa, come di molte altre argomentazioni di Bradley, diviene palese qualora si tenga presente la concezione della religione da lui brevemente accennata nel cap. 25 di Appearance and Reality, in cui essa non solo viene degradata – come, del resto, ogni altra forma dell’esperienza umana – a una mera apparenza contraddittoria dell’Assoluto, ma viene addirittura accusata di costituzionale “immoralità” (cf. ibid., p. 393). Ma le contraddizioni, in cui Bradley a questo proposito si avvolge, non finiscono qui. Nel medesimo capitolo, infatti, in cui formula la sua critica della realtà e verità della religione, egli non esita a insistere sulle insuperabili antinomie che minerebbero alla radice la stessa presunta realtà e verità della moralità (cf. ibid., p. 355 s.). Ma come è possibile condannare l’asserita immoralità della religione senza presupporre una legge morale, o meglio un principio etico, che sia in sé e per sé valido? 16 Cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, cit., § 54. 17 Cf. F.H. Bradley, Appearance and Reality, cit., p. 4–5. M. Truglia a torto adduce, quale indizio del futuro esito scettico del pensiero di Bradley, l’ironico “aforisma”: «Every truth is so true that any truth must be false», che si troverebbe a p. 3 di Ethical Studies (cf. M. Truglia, La funzione del “feeling” nella dottrina del giudizio di F.H. Bradley, in: “Magazzino di filosofia”, VII (2002), p. 89-106, qui 103 e n. 31). Esso, in realtà, è a p. X di Appearance and Reality, e, inoltre, è diretto, più che contro l’idea della verità, contro l’eclettismo, che, riconoscendo il valore di una pluralità di eterogenee dottrine filosofiche, è infatti costretto a negare l’esclusiva verità di ciascuna di esse. 18 Cf. F.H. Bradley, Ethical Studies, cit., p. 78-127. 19 Cf. ibid., p. 128-44. 20 Cf. ibid., p. 144-92.
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confluenza di tre fondamentali sfere assiologiche: (a) il sistema reale dei doveri determinati di ciascun individuo, che Bradley designa con la celebre formula “my station and its duties”, cioè “il mio posto e i suoi doveri”; (b) l’“ideale sociale”, cioè un principio etico “cosmopolitico”, che integra la fatticità immediata dell’eticità reale e dei suoi doveri determinati; e infine (c) l’“ideale non-sociale”, cioè quella sfera di puri valori teoretici – artistici o filosofici – che trascende il processo reale della volontà stricto sensu, ma non perciò è sprovvista di intrinseco valore morale. In rapporto a ciascuno degli ambiti teoretici ora accennati il pensiero di Bradley consegue risultati di indubbia rilevanza filosofica. (a) La critica bradleyana dell’utilitarismo costituisce senz’altro – per radicalità21, consistenza e influenza – uno dei culmini teorici della filosofia morale contemporanea. Bradley anzitutto osserva che ciò che viene spacciato da Mill per una nuova, originale teoria etica non è in realtà altro che una forma di mascherato edonismo, perché il concetto dell’“utile” come totalità dei mezzi idonei a conseguire il piacere rimane in sé indeterminato, e non può essere dedotto in maniera stringente dal suo presupposto, il concetto del piacere, perché la connessione tra mezzo e fine in questo ambito teorico rimane meramente esterna, sì che l’unica possibile determinazione del concetto dell’utile ha inevitabilmente carattere empirico e contingente. Il piacere, dunque, in quanto sentimento di “realizzazione” del sé individuale, “privato”, è l’unico “fine in sé stesso”, o valore intrinseco, che l’utilitarista sia in realtà disposto a concedere (nel che la sua posizione si distingue, osserva acutamente Bradley, da quella del puro egoista, che invece nega l’esistenza di qualsiasi fine in sé stesso o valore intrinseco)22. Il primo esiziale errore – prima ancora metafisico che etico – dell’utilitarismo è perciò quello di identificare la realtà del sé con quella dell’individuo singolare, isolato, esistente nel mondo esterno spaziotemporale23, e di perdere così di vista, da un lato, l’insuperabile contraddittorietà delle “relazioni esterne” in generale (al qual proposito Bradley ha svolto in Appearance and Reality una illuminante analisi divenuta giustamente celebre)24, e di non avvertire, dall’altro, che anche nel caso del sé solo il pensiero, l’universale, l’Idea può costituire l’adeguato principio della sua realizzazione. Ciò, tuttavia, non significa negare – come a torto vuole l’Ascetismo25 – che la forma immediata del sé sia un imprescindibile elemento della sua piena realizzazione, la quale costituisce, 21 Cf. spec. ibid., p. 113, dove Bradley afferma, a proposito del principio dell’utilitarismo, che egli è «ready to endorse the saying, Hedone telos, pornes dogma». 22 Cf. ibid., p. 249 s. 23 Cf. ibid., p. 115. 24 Cf. Id., Appearance and Reality, cit., p. 21-29. 25 Cf. Id., Ethical Studies, cit., p. 199 n. e 229.
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come tale, la stessa sostanza del mondo morale: solo che l’utilitarista inverte il rapporto tra la “funzione” razionale del sé, cioè la virtù, e il conseguente stato di piacere, trasformando indebitamente il secondo nella causa della sua vera causa. Il secondo errore fondamentale dell’utilitarismo è quello di fraintendere l’essenza del suo stesso principio, il piacere. Il piacere è uno stato immediato del sé singolare, come tale essenzialmente inerente alla sua esperienza presente, che viene perciò annientato nell’atto stesso in cui lo si vuole trasformare in una rappresentazione o concetto generale, ossia in un oggetto della riflessione, e proiettarlo quindi nel futuro come predicato di uno stato di coscienza ancora inattuale, indeterminato e incerto. Ma elevando il piacere a “movente” ultimo di ogni azione o comportamento umano o animale, l’edonismo lo trasforma per l’appunto in un principio universale, ossia nell’opposto contraddittorio della sua singolarità, e, inoltre, essendo il movente il fine di un’azione che potrà conseguire realtà solo in un istante temporale che non è quello presente, in cui esso viene rappresentato, bensì è a esso successivo, lo colloca dove esso non può per principio essere. Il terzo errore fondamentale dell’utilitarismo è quello di non avvertire che il comportamento dell’edonista si avvolge inevitabilmente nella contraddizione che inficia la “cattiva infinità” del progressus in infinitum. In quanto movente del comportamento umano, abbiamo detto, il piacere diviene una rappresentazione generale, un oggetto della riflessione, laddove ogni sua possibile realizzazione, in quanto contenuto del senso interno, è sempre e di necessità individuata nel tempo, e come tale singolare, transeunte e peritura. Nessuna specie di piacere è caratterizzata da quella permanenza, certezza e universalità che è pur in esso implicita in quanto oggetto della riflessione, e che diviene particolarmente evidente e facilmente intelligibile quando tale oggetto assume la forma della rappresentazione della felicità. Nessun piacere determinato può renderci costantemente felici, e perciò l’edonista, nell’affannosa ricerca di sempre nuovi ma sempre fuggevoli e, in definitiva, insoddisfacenti piaceri, è inevitabilmente condannato a divenir infelice – l’esatto contrario di ciò che voleva essere! Il quarto errore fondamentale dell’edonista è quello di astrarre indebitamente la singola rappresentazione del piacere dalla totalità concreta del sé e della sua realizzazione. Un oggetto, al quale io in genere “associo” – afferma Bradley facendo ricorso a un termine particolarmente caro alla gnoseologia empirista –26 l’idea del piacere, non è come tale in grado di divenire il
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Ci riferiamo, ovviamente, alla celebre teoria dell’“associazione delle idee”, la cui radicale distruzione critica costituisce indubbiamente una delle più validi acquisizioni teoretiche del pensiero di Bradley. Cf. Id., The Principles of Logic, cit., Book I, Ch. 1, p. 14-17, 34-38; Book II, Part II, Ch. 1, p. 299-347. In una nota, aggiunta nella seconda edizione, al cap. 7 della Parte I del Libro III Bradley riconosce esplicitamente, anche a tale proposito, il suo
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movente della mia volontà se la mia percezione di tale oggetto non è preceduta in me da uno stato d’animo, il bisogno o il desiderio, che solo relativamente è piacevole (se la sua soddisfazione appare prossima o agevole), ma che diviene tanto più spiacevole, se non addirittura doloroso, quanto più essa appare remota o difficile, se non addirittura impossibile. Io posso essere teoreticamente certo che bere un bicchiere d’acqua fresca in un assolato pomeriggio estivo provoca in me una sensazione di piacere, ma se in quel momento, per una qualsiasi ragione, non ho sete, io tuttavia non lo bevo, perché per me questo non è ora un piacere – e, siccome il piacere è solo uno stato soggettivo della coscienza empirica, esso non lo è neppure in sé. La critica bradleyana dell’utilitarismo è estremamente sottile e minuziosa, e mette in luce molti altri limiti e contraddizioni che inficiano questa teoria etica. L’argomento più interessante è quello ch’egli rivolge contro la teoria della differenza qualitativa delle specie di piacere, che Mill svolge al fine di distinguere la sua posizione da quella dell’edonismo “volgare”, che non ammette in esso, .in ragione della sua soggettiva immediatezza, altra differenza che quella meramente quantitativa della sua intensità. Bradley objetta che Mill può distinguere tra “piaceri nobili”, quali i piaceri spirituali, e “piaceri volgari”, quali i piaceri carnali, e affermare la loro differenza qualitativa e il primato assiologico dei primi sui secondi, solo facendo surrettiziamente ricorso a un criterio di differenziazione estraneo alla natura del piacere – in quanto quest’ultimo è essenzialmente immediato, e quindi indifferenziato e non discriminabile –, il quale perciò, pur essendo in sé valido, non può essere giustificato nell’ambito dell’etica utilitaristica, giacché essa non ammette altro fine intrinseco che lo stesso piacere27. (b) Il Bene, dunque, non è né il piacere, né l’utile, né la felicità. Possiamo, dunque, concludere che esso coincide, come vuole l’etica deontologica di Kant, con la pura idea del “dovere per il dovere” (duty for duty’s sake)? Anche la risposta di Bradley a questo cruciale interrogativo della filosofia morale è non meno precisa, convincente e, per molti aspetti, originale. A differenza della valutazione dell’utilitarismo, che è, come si è visto, drasticamente negativa, egli, non diversamente da Hegel, riconosce almeno un merito innegabile alla dottrina morale kantiana, e cioè quello di escludere per principio, concependo la legge morale come un dovere incondizionato che è un prodotto dell’“autolegislazione” (Selbstgesetzgebung) della ragion pratica umana, che l’essenza della moralità possa essere intesa come qualcosa di fondamentalmente diverso debito nei confronti della “Psicologia” di Hegel: «To learn that Association holds only between universals was to pass from darkness into light» (ibid., p. 515). 27 Ibid., p. 85.
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dalla realizzazione della “vera volontà del sé” (true will of the self)28, com’è inevitabile quando il Bene venga identificato, alla maniera dell’utilitarismo, con uno stato d’animo del “sé privato”29, oppure – com’è invece il caso della teologia scolastica e, oggi, dell’ontologia fenomenologica – con un comandamento divino o con un’oggettività ideale ritenuti sì in sé e per sé validi, ma anche trascendenti l’autocoscienza del sé30, e perciò esterni alla pura autodeterminazione (autonomia) del volere. Ma il genuino spirito idealistico, che per tal verso indubbiamente anima e vivifica l’etica kantiana, non è tuttavia in grado di salvarne l’intima consistenza e plausibilità, per numerose e cogenti ragioni che, anche in questo caso, Bradley non manca di enumerare minuziosamente. In primo luogo, la peculiare modalità ontologica della legge morale kantiana è quella del Sollen, cioè di una norma ideale che vale ma non è, perché l’essere, il Sein, che noi possiamo conoscere solo nella forma soggettiva del fenomeno e del determinismo naturale, è una molteplicità di fatti o eventi temporali, interni o esterni, che, come tale, è la negazione dell’unità e universalità dell’ideale. Nell’idea del dover-essere o della legge morale, tuttavia, è implicitamente contenuta anche l’esigenza della sua incondizionata realizzazione: ma questa è per principio impossibile, perché, realizzandosi, l’universalità della legge morale diverrebbe essa stessa un fenomeno particolare, annientando così la sua stessa essenza e possibilità. In secondo luogo, la legge morale è un imperativo puramente formale, non è altro che la vuota forma dell’universalità del volere o della ragion pratica. Ma siccome non è possibile forma senza contenuto, l’universalità 28
Ibid., p. 268. Cf. ibid., p. 61 e n. 1, e 73. 30 Cf. p. 57-59, n., e 247. Il fondamentale errore filosofico commesso da P. Forrest nell’assai mediocre saggio Bradley and Realism About Universals, in: “Idealistic Studies”, 14:3 (1984), p. 200-12, è quello di isolare arbitrariamente, nella totalità concreta del pensiero di Bradley, il cap: 2 della Parte I di Appearance and Reality, e di contrapporre quindi alla critica, da lui ivi giustamente svolta, della realtà degli “aggettivi” (cioè delle proprietà o universali sensibili) inerenti nei “sostantivi” (cioè nelle cose empiricamente percepibili) la tesi che essi, pur non essendo delle vere e proprie “cose”, sarebbero pur tuttavia degli essenziali elementi costitutivi della realtà oggettiva. La scarsa cultura filosofica di Forrest non gli consente di avvertire l’analogia tra la concezione da lui sostenuta e la teoria dell’esistenza irreale degli “oggetti ideali”, elaborata nel secolo XX da E. Husserl, A. von Meinong e N. Hartmann (che, a sua volta, presenta una palese analogia con la soluzione “concettualista” del celebre problema scolastico degli universali), né di apprezzare la consistenza della distruzione critica che di tali “pseudoconcetti” ha effettuato l’Idealismo moderno nella totalità del suo sviluppo. Riassumendone qui per sommi capi il risultato essenziale, possiamo osservare che tali “aggettivi” sono in effetti, proprio come vuole Bradley, mera apparenza perché: (1) non esistono, in realtà, universali, bensì solo l’Universale; (2) tale Universale non è una proprietà sensibile, bensì una determinazione del pensiero puro; (3) inoltre, non è “altro” dalla realtà effettiva, bensì la genera eternamente da sé; (4) infine, non è un’astratta oggettività, comunque intesa, bensì è lo stesso “Io penso” in quanto identità di soggetto e oggetto o autocoscienza infinita. 29
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della legge morale dovrà essere riempita mediante un contenuto che, non potendo essere dedotto dalla sua vuota identità con sé, potrà essere desunto solo dall’esterno, cioè dalla sfera soggettiva delle inclinazioni sensibili. Ma, in tal modo – a parte il fatto, aggiungiamo noi, che la volontà che identifica il proprio contenuto con le inclinazioni sensibili è per Kant l’esatto contrario della “buona volontà”, cioè la volontà egoistica, malvagia, immorale –, la determinata connessione tra il contenuto particolare della volontà e la sua forma universale non potrà essere determinata a priori, cioè in maniera universale, necessaria e perciò oggettivamente valida, bensì sarà il risultato di una sintesi meramente soggettiva, e quindi “arbitraria” se non addirittura “capricciosa”31. Ciò significa che ogni contenuto particolare della coscienza empirica, ivi compreso il piacere o gli interessi egoistici del sé privato, può essere elevato a principio di specificazione della legge morale, e perciò l’etica kantiana finisce col non distinguersi più dal suo diretto avversario, l’edonismo, se non per il fatto che all’eteronomia, e perciò immoralità, del contenuto del volere ora si aggiunge anche il vizio dell’ipocrisia, giacché a questo punto qualsiasi azione viziosa o interessata dell’individuo può essere da lui presentata e giustificata come un esercizio della virtù: «La moralità del puro dovere», conclude ottimamente Bradley, «risulta esser dunque qualcosa di simile o a una regola edonistica o alla mancanza di qualsiasi regola, salvo la massima ipocrita che, prima di fare quello che ti piace, tu dovresti chiamarlo dovere; e questo è peggio del Probabilismo [cioè della morale gesuitica]»32. In secondo luogo, la realizzazione della legge morale implica, come si è detto, la sua particolarizzazione; ma la volontà particolare è quella che agisce per un interesse determinato, laddove la “buona volontà” dovrebbe essere disinteressata, cioè non avere altro movente che il “rispetto” (Achtung) per la legge morale. Tale pura autodeterminazione del volere, ammette Kant, non è un fenomeno psicologico empiricamente osservabile, ma non è neppure una determinazione metafisica del volere razionalmente conoscibile; e perciò Bradley conclude che essa, non essendo né empiricamente né razionalmente conoscibile, è “semplicemente un mostro psicologico” (simply a psychological monster)33. Si potrebbe, a questo 31
Cf. ibid., p. 141. «The morality of pure duty turns out then to be either something like a Hedonistic rule, or no rule at all, save the hypocritical maxim that, before you do what you like, you should call it duty; and this outdoes Probabilism» (ibid.). 33 Ibid., p. 139. A difesa della dottrina morale kantiana Don McNiven solleva due obiezioni nell’interessante articolo Bradley’s Critiques of Utilitarian and Kantian Ethics, in: “Idealistic Studies”, 14:1 (1984), p. 67-83. Anzitutto, Bradley è in errore quando concepisce la legge morale kantiana come una forma universale vuota, la cui validità viene garantita solo dal principio logico dell’identità analitica (non contraddizione), giacché Kant dichiara esplicitamente che essa è una proposizione sintetica a priori, che, come tale, connette inscindibil32
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punto, tentare di difendere la teoria kantiana replicando che Kant, pur negando la possibilità di conoscere direttamente gli intimi moventi della volontà umana, ammette tuttavia che noi possiamo conoscere, o meglio “postulare”, la possibilità di principio della moralità, giacché il comando incondizionato, che quel “fatto della ragione” (Tatsache der Vernunft) che è l’imperativo categorico rivolge all’individuo, sarebbe privo di senso se non si ammettesse la possibilità di una determinazione “disinteressata” della sua volontà (che coincide, com’è noto, con la sua libertà trascendentale): «se tu devi, allora puoi fare ciò che devi». Ma, in realtà, anche questa soluzione kantiana è insoddisfacente, perché essa presuppone l’esistenza di qualcosa come un “fatto della ragione”, che in verità – come noi abbiamo cercato di mostrare nella nostra Teoria etica –34 non è che una contradictio in adiecto: perché il “fatto”, come tale, è un’esistenza immediata, laddove la “ragione” è la mediazione, cioè la negazione, di ogni immediata fatticità. In quarto luogo, dal carattere incondizionato della legge morale segue per Kant il fatto che essa è in sé “sacra” e “inviolabile” – anzi, egli enfaticamente afferma, è l’unico principio razionale che sia identico nella mente umana e nella Mente divina –, laddove la concreta esperienza morale mostra che l’individuo nella vita reale si trova costantemente impigliato in un conflitto di doveri, in cui l’adempimento dell’uno (che è imprescindibile, perché la volontà non può mente l’universalità (razionale) del principio etico con la particolarità (sensibile) in e mediante cui esso deve essere realizzato dalla volontà umana. In secondo luogo, l’universalità formale della legge morale kantiana non esclude la possibilità di una sua immanente specificazione, che consente la deduzione da essa di proposizioni più determinate quanto al loro contenuto, ma non perciò meno universali (e quindi necessarie e incondizionate). Dall’imperativo categorico generale: “Non devi mentire”, a es., è possibile dedurre a priori l’imperativo più specifico, ma sempre categorico: “Non devi mentire a tua moglie”. Entrambi gli argomenti di McNiven sono acuti e condivisibili, ma risolvono le difficoltà inerenti in questa dottrina di Kant solo chiamando in causa altri fondamentali concetti della sua filosofia che non sono in sé meno contraddittori. Se, infatti, è innegabile che la legge morale è per Kant una proposizione sintetica a priori, è altresì vero che la sua dottrina dei giudizi sintetici a priori è minata alla radice da una contraddizione nel suo ambito insolubile: nella misura in cui essa stabilisce una connessione a priori tra il suo soggetto (sensibile) e il suo predicato (categoriale), essa implica che la loro relazione sia interna; ma in quanto essa concepisce la sensibilità e l’intelletto come due fonti della conoscenza originariamente eterogenee e indipendenti, essa può ammettere tra loro solo una relazione esterna. Quanto al secondo argomento, esso si avvolge nella difficoltà inerente ai concetti di genere tematizzati dalla logica formale tradizionale (che è ancora presente e determinante nello stesso ambito teoretico della logica trascendentale kantiana), e cioè che, se è vero che la specie sta in una relazione interna col suo genere (non possiamo, a es., pensare a un marito che non sia un essere razionale, come tale capace di mentire o non mentire), non è invece vero l’inverso, cioè dal concetto di “essere razionale, capace di mentire o non mentire” non posso dedurre quelli di “marito” e “moglie”, e perciò la loro relazione è esterna, e dunque contraddittoria. 34 Cf. G. Rinaldi, Teoria etica, Edizioni Goliardiche, Trieste 2004, § 30, p. 127 e § 31, p. 137.
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non agire) richiede, tuttavia, la violazione del dovere opposto. In uno dei luoghi più originali, ma anche inquietanti, di Ethical Studies, Bradley adduce una serie di illuminanti esempi, che mostrano con evidenza incontrovertibile come doveri che Kant ritiene essere assolutamente sacri e inviolabili, quali la veracità, il rispetto della vita propria e altrui, in determinate circostanze possono e debbono essere invece violati onde adempiere a un dovere opposto ma “superiore”, non solo legittimando così azioni in sé immorali quali la menzogna, il suicidio o l’omicidio, ma trasformandole addirittura in atti “eroici”, cioè morali in senso eminente. Tra gli esempi addotti da Bradley c’è anche quello del suicidio del patriota italiano, che decise di togliersi la vita perché era certo che la polizia l’avrebbe sottoposto a torture tali per cui egli sarebbe stato infine costretto a denunciare altri patrioti, condannandoli così involontariamente a morte35. Infine, facendo proprio e sviluppando ulteriormente un celebre argomento hegeliano, ampiamente svolto nella Fenomenologia dello spirito36, egli osserva che il criterio kantiano della possibilità di universalizzare senza contraddizione la massima delle nostre azioni è falso, o per lo meno insufficiente, perché la categoria dell’identità astratta o tautologica, salvaguardata dal principio di noncontraddizione, non solo è in sé gnoseologicamente sterile (del che, purtroppo, lo stesso Bradley in troppe pagine di Appearance and Reality sembra essersi dimenticato!) e non è perciò in grado di discriminare il comportamento buono da quello cattivo, ma sta anche in palese contraddizione con la concezione, sempre kantiana, della moralità come perenne conflitto tra la virtù e le inclinazioni sensibili, che dà luogo a un progressus in infinitum (estendentesi, secondo Kant, anche al di là dei limiti della nostra vita terrena!), il quale rende palese che la moralità non solo è una contraddizione (cioè l’esatto contrario dell’identità tautologica affermata dal suo principio!), ma addirittura una contraddizione destinata a rimanere eternamente insoluta. In parole più semplici, la morale kantiana impone all’individuo di sacrificarsi per la realizzazione di un ideale morale che tuttavia è, per sua stessa ammissione, irrealizzabile – non solo, si badi bene, in “questa” vita, ma anche nell’“altra” – il che appare chiaramente essere un puro nonsenso. (c) In Ethical Studies Bradley mostra ancora di condividere la tesi hegeliana che le accennate contraddizioni della moralità non provano il carattere meramente apparente, e non già reale, dell’intero processo del volere (come sarà invece il caso di Appearance and Reality)37, perché esse trovano la loro soluzione nella superiore sfera spirituale dell’Eticità. 35
Cf. F.H. Bradley, Ethical Studies, cit., p. 142-43 e n. 1. Cf. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in: Id., Werke in 20 Bänden, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1970, V, C, c: “Die gesetzprüfende Vernunft”, p. 316-23. 37 Cf. F.H. Bradley, Appearance and Reality, cit., Book II, Ch. 25, p. 355-402. 36
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Bradley ne delinea con ammirabile vigore il carattere fondamentale, che è quello di essere la dinamica realizzazione dell’ideale morale, che nella sua vivente totalità organica si presenta all’individuo come un’“autorità” o potenza etica reale, già data, cui egli è debitore della formazione della sua stessa identità personale. Polemizzando con intransigente fermezza contro ogni possibile forma di individualismo atomistico, egli scorge nel sé privato nulla più che la “particolarizzazione” dell’universale, della “totalità sociale”38, che, tuttavia, dipende a sua volta dall’attività dell’individuo per la realizzazione dei suoi fini sostanziali. Tale determinazione reciproca tra l’agire del singolo e quello dell’universale costituisce la sostanza metafisica dell’Eticità39, e consegue la sua adeguata manifestazione per la coscienza soggettiva nel sentimento dell’amore, che diviene così la chiave indispensabile, afferma Bradley citando Hegel e Shakespeare, per intendere la vera essenza del mondo morale40. D’altra parte, a differenza di troppi cattivi interpreti della teoria hegeliana dell’Autocoscienza riconoscitiva, Bradley mostra di comprendere chiaramente che la totalità etica, con cui l’individuo deve identificarsi, non può essere in alcun modo intesa come una “unità collettiva” (collective unity)41 o come un “aggregato” (collection)42 di individui finiti più o meno casualmente “emergenti” dal divenire della natura (ciò che oggi generalmente si intende col termine “intersoggettività”), bensì 38
Cf. Id., Ethical Studies, cit., p. 148-58. Cf. ibid., p. 166, dove Bradley asserisce che nell’Eticità l’individuo «is related to the living moral system not as a foreign body; his relation to it is ‘too inward even for faith’, since faith implies a certain separation. It is no other-world that he can not see but must trust to: he feels himself in it, and it in him; in a word, the self-consciousness of himself is the self-consciousness of the whole in him, and his will is the will which sees in him its accomplishment by him». 40 Cf. ibid., p. 168-69 e n. 1. Don McNiven sottolinea, a questo proposito, il rilevante progresso compiuto dall’etica di Bradley rispetto all’ascetica morale kantiana, che, contrapponendo dualisticamente la volontà razionale alle inclinazioni sensibili, crea inevitabilmente una “personalità emotivamente repressa”, mostrando di non comprendere che il “rispetto” (Achtung) che secondo Kant si deve alla persona, in quanto soggetto morale, vale non solo per la sua parte razionale, ma anche per quella sensibile: «If we examine the virtues of any individual, we can see that the natural basis of every virtue might under certain conditions have been developed into a vice and the natural basis of every vice into a virtue. […] It is obvious that sexual desire in itself is not intrinsically evil: it is neither good nor bad but just part of the human condition. Sexual desire can be turned into something good or evil. Sexual desire forms the root of some of the greatest human virtues – the good lover and the devoted spouse – as it does of some of the greatest human vices – the sexual brutality of the rapist and the extraordinary cruelty of the sadist. To conquer sexual violence and cruelty we need to integrate will and sexual desire, as Bradley suggests, rather than trying to spike them out with the sadistic heel of fear» (D. McNiven, Bradley’s Critiques of Utilitarian and Kantian Ethics, cit., p. 81). 41 F.H. Bradley, Ethical Studies, cit., p. 305 n. 42 Ibid., p. 272 e 298 n. 39
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come un’“identità reale” (real identity)43, come una unità “semplice”, che non si risolve senza residuo nella somma dei suoi elementi costitutivi, e che solo come tale suscita in noi “venerazione” (worship)44: Se l’umanità è adorabile – afferma Bradley alla conclusione del suo saggio, in polemica con la positivistica religione dell’umanità – essa lo è solo perché non è semplicemente l’ultimo prodotto dello sviluppo terrestre, ma perché l’idea dell’identità di Dio e dell’uomo è la verità assoluta, perché lo spirito razionale finito (dovunque esso esista) non è meramente tale, ma, in un senso diverso dalla natura fisica o animale, è l’autorealizzazione dello Spirito, in cui tutto si muove e vive, e così è un tutto organico in quell’unità45.
La parte più originale e profonda della dottrina bradleyana dell’Eticità è la sua articolazione in tre principali sfere assiologiche, ch’egli denomina, come si è detto: (1) “my station and its duties”; (2) l’“ideale sociale”; e (3) l’“ideale non-sociale”. La prima sfera coincide col sistema dei doveri determinati che l’individuo è tenuto ad adempiere nella misura in cui è un membro, un organo parziale della totalità etica reale, che coincide con la vita spirituale della nazione cui egli appartiene. Da questo punto di vista, Bradley rivendica alla stessa “morale volgare”, cioè al comune sentimento etico, una dignità e affidabilità che sia l’“intelletto raziocinante”, dominante nell’etica utilitaristica e in quella kantiana, che l’utopismo romantico invece in genere le negano46. L’esiguità o marginalità della “funzione” che l’individuo può essere chiamato a svolgere nell’organismo etico dello Stato non detrae in alcun modo al suo intimo significato morale, consentendo anche in tal caso una piena realizzazione del sé, perché ciò che conta non è il suo carattere esteriore, bensì lo spirito con cui l’individuo adempie ai propri doveri, e può così identificarsi con la stessa eticità reale47. Ciò non esclude, tuttavia, che il reiterato, monotono adempimento dei propri doveri finisca con l’“ossificare” l’individuo e la stessa comunità in una morta abitudine; e perciò, di contro a tale sfera reale, l’ideale etico assume piuttosto la forma “cosmopolitica”48 di una possibile realizzazione dell’essenza umana che trascende i limiti di ogni comunità reale, 43
Ibid. Ibid., p. 284 n. 45 «If humanity is adorable, it is so only because it is not merely the last product of terrestrial development, but because the idea of the identity of God and man is the absolute truth, because finite rational mind (wherever it exist) is not merely such, but, in another sense than physical or animal nature, is the self-realization of the Spirit in which all moves and lives, and so is an organic whole in that unity» (ibid., p. 307). 46 Cf. ibid., p. 26-27 e 184: «There is nothing better than my station and its duties, nor anything higher or more truly beautiful». 47 Cf. ibid., p. 171. 48 Cf. ibid., p. 185. 44
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storicamente data. Possiamo scorgere, in questa seconda sfera assiologica, qualcosa come la legittimazione morale dell’umanitarismo, che riconosce infatti a ciascun individuo, indipendentemente dalla sua appartenenza a una data comunità o nazione, una intrinseca dignità morale – sebbene, Bradley si affretta subito ad aggiungere, esistano anche forme “immorali” di umanitarismo49. La terza sfera assiologica, quella dell’“ideale non-sociale”, sta con quella dell’eticità reale di “my station and its duties” in un rapporto simile a quello in cui la sfera dello Spirito assoluto – cioè della realizzazione dell’individuo nelle attività puramente teoretiche e spirituali dell’arte, della religione e della filosofia – sta con quella dello spirito oggettivo nel sistema hegeliano. Ma Bradley non si limita, a tale proposito, a enumerare minuziosamente50 le ragioni per cui anche la forma più organica ed evoluta di eticità rimane comunque una finita, e perciò contraddittoria, realizzazione dell’idea del Bene, e deve perciò trapassare in quella superiore dello Spirito assoluto, ma da tale rilievo trae anche delle conseguenze di ordine strettamente morale che Hegel aveva invece preferito non prendere in considerazione. L’attuazione della conoscenza razionale dell’Assoluto nella filosofia, o la sua rappresentazione sensibile nella forma dell’arte, costituiscono per individui “non comuni”, cioè particolarmente dotati, un dovere che non solo non è meno incondizionato di quelli a loro imposti dalla comunità reale, ma che è addirittura “superiore” rispetto ad essi, sì che, qualora si delinei un conflitto tra le due sfere assiologiche, l’individuo geniale ha non solo il diritto, ma anche il dovere di violare i primi onde adempiere ai secondi. Per comprendere il significato e la portata delle implicazioni di questa tesi di Bradley, sarà sufficiente osservare che in base a essa assai diversa potrebbe essere la soluzione del dilemma morale di Raskolnikov, il protagonista di Delitto e castigo, da quella prospettata dall’autore di questo celebre romanzo, Fjodor Dostojevskij. Ma il possibile conflitto tra l’ideale non-sociale e i doveri determinati dell’eticità reale è in realtà soltanto un caso particolare del più generale 49
Cf. ibid., p. 26-27, n. 1. Le ragioni qui addotte da Bradley (cf. ibid., p. 183–86) per provare l’insuperabile finitezza della stessa Eticità sono: (1) la restrizione della piena realizzazione dell’ideale morale alla sola parte nella vita dell’individuo, in cui egli è moralmente attivo, e (2) alla sola persona moralmente integra, perché esistono anche individui radicalmente immorali, per i quali l’unica forma di virtù praticabile è il conflitto morale in senso kantiano, cioè la repressione degli istinti malvagi; (3) la stessa eticità reale, di cui l’individuo è una particolarizzazione, può essere in sé corrotta; (4) per quanto coerente e sviluppata, l’eticità di una comunità reale non arriva fino al punto di determinare i “dettagli” del comportamento individuale; (5) esistono atti virtuosi, quali a es. il martirio, che non sono propriamente forme di compiuta realizzazione del sé, perché la sua esistenza singolare viene semplicemente annientata, e non anche conservata, nell’atto del suo sacrificio; e infine (6) l’individuo può patire sofferenze tali che possono essere solo “lenite”, ma non eliminate, dall’attività etica dello spirito. 50
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conflitto dei doveri che, come si è già detto, Bradley – sulla traccia, ancora una volta, di Hegel e in esplicita polemica con Kant – ritiene inerire essenzialmente al processo della volontà etica. Tale conflitto, infatti, altro non è che la manifestazione della (necessaria) contraddizione della volontà con sé stessa; ma, come ogni altra contraddizione nella sfera dello spirito, esso può e deve infine risolversi; e la soluzione proposta da Bradley consiste nel distinguere tra doveri “inferiori” e doveri “superiori”, e nell’affermare che, sebbene ogni dovere, in quanto tale, sollevi l’incondizionata esigenza di essere adempiuto dall’individuo, quest’ultimo, qualora si profili, in una determinata situazione morale, il conflitto tra un dovere superiore e uno inferiore, deve incondizionatamente optare per la realizzazione del dovere superiore e per la violazione del dovere inferiore. Ciò, tuttavia, non equivale in alcun modo, osserva opportunamente Bradley, alla giustificazione del lassismo o del relativismo morale, perché tutto ciò che questo implica […] è che tu non devi mai infrangere una legge del dovere per il tuo piacere, o a causa di un fine che non sia il dovere, ma solo a causa di un dovere superiore e più importante. Ogni infrazione di un dovere, in quanto dovere, e non in quanto dovere inferiore, è sempre assolutamente illecita51.
§ 3. Critica Fin qui il discorso di Bradley appare chiaro e convincente, e conferma il carattere genuinamente idealistico dell’etica delineata nella sua prima opera importante, nella misura in cui essa esige la subordinazione della sfera dei bisogni finiti e immediati dell’individuo, e degli stessi doveri in essa inerenti, alla realizzazione dei superiori valori dello spirito. A questo punto, tuttavia, non è più possibile eludere il cruciale interrogativo: in base a quale criterio possiamo distinguere in maniera oggettivamente valida i doveri superiori da quelli inferiori? La risposta di Bradley è che tale distinzione può essere effettuata dal “giudizio intuitivo” dell’individuo che, analogamente al phronimos aristotelico, ha saputo assimilare i costumi, cioè l’eticità reale del suo popolo, e trasformarli così in un’immediata percezione emozionale della gerarchia oggettiva dei valori morali inerenti nella situazione reale in cui egli pensa e agisce52. Ma, ammesso e non concesso che tali giudizi intuitivi non soccombano alle contraddizioni che – come 51
«All that it comes to is this […], that you must never break a law of duty to please yourself, never for the sake of an end not duty, but only for the sake of a superior and overruling duty. Any breach of duty, as duty, and not as a lower duty, is always and absolutely wrong» (ibid., p. 143). 52 Cf. ibid., p. 174-80.
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Bradley stesso mostrerà nel successivo saggio The Principles of Logic (1883) e in Appearance and Reality – inficiano alla radice la forma logica del giudizio in quanto tale53, è chiaro che la validità che può essere a essi attribuita non è assoluta (come pure dovrebbe), bensì essenzialmente relativa al carattere della particolare eticità in cui l’individuo in questione vive; il quale, se è nato e cresciuto in un’epoca moralmente corrotta, formulerà inevitabilmente tali giudizi in maniera inadeguata. A questo proposito si può osservare che in un illuminante luogo di Ethical Studies54 Bradley accenna en passant alla filosofia hegeliana della storia universale, in cui le differenti, più o meno imperfette concezioni morali elaborate dai singoli popoli non sono in verità altro che i “momenti” di uno sviluppo organico e teleologico unitario, in cui le forme imperfette e unilaterali di eticità vengono gradualmente superate da quelle più perfette e concrete, realizzando infine una forma culminante, in cui la sua realtà individuale è identica al Concetto universale, e che perciò consente all’individuo in essa educato di formulare giudizi morali intuitivi oggettivamente validi. Ma è chiaro che, in tal caso, il vero fondamento ultimo della validità di tali giudizi non è già l’intuizione immediata del singolo phronimos, bensì la stessa concezione speculativa della storia dello spirito, che non è un giudizio intuitivo immediato, bensì una elaborata costruzione concettuale. Il rilievo delle contraddizioni che inficiano l’eticità reale, tuttavia, non motiva solo la sua integrazione con le due successive sfere assiologiche distinte da Bradley, bensì solleva pure l’esigenza metafisica della loro riconciliazione in una attività spirituale, in cui la realtà del male venga definitivamente tolta, sì da garantire all’individuo che i suoi sforzi morali saranno infine coronati dal successo – se non in “questo”, per lo meno nell’“altro” mondo. Tale attività è la religione, la cui sostanza, come si è detto, per il protestante Bradley è la sola fede, intesa come l’identificazione interiore, l’unione mistica dell’uomo e di Dio; alla quale egli, come si è detto, attribuisce una realtà metafisica superiore a quella della stessa filosofia, perché solo in essa l’individuo può trovare la soddisfazione della concreta totalità del suo essere. A questo proposito, tuttavia, è agevole scorgere nelle pur avvincenti argomentazioni di Bradley una palese difficoltà. Quale carattere peculiare della fede religiosa egli indica la contrapposizione tra “questo” mondo, cioè la vita reale dell’individuo con le sue insuperabili contraddizioni, e l’“altro” mondo, in cui esse sarebbero invece risolte, ma che, a differenza del primo, è solo “creduto” e non già “visto”, è dunque privo di realtà presente e immanente. Bradley ammette 53
Cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, cit., p. 438; e anche infra, § 3, sub finem. 54 Cf. F.H. Bradley, Ethical Studies, cit., p. 171-74.
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che in tal modo la fede religiosa contraddice al principio idealistico, da lui stesso fatto energicamente valere, dell’assoluta immanenza dell’oggetto nel soggetto55, il quale definisce l’essenza affermativa dello spirito ed è perciò “in sé” inerente anche in quella della religione; ma asserisce che tale contraddizione sussiste solo “per noi”, che riflettiamo sull’essenza della religione, ma non per la stessa rappresentazione religiosa, che come tale è da essa immune. Ma, in tal caso, è chiaro – si potrebbe objettare a Bradley – che, nella misura in cui l’“essere-in-sé” della religione diviene “in sé e per sé”, cioè attuale e concreto, solo nel “nostro” pensiero filosofico, quest’ultimo gode in quanto tale, rispetto alla fede religiosa, dello stesso primato metafisico che spetta in genere alla realtà attuale e concreta rispetto a quella meramente astratta e virtuale. Questa perentoria svalutazione del pensiero filosofico, che nelle pagine finali di Ethical Studies, pervase di appassionato fervore religioso, svolge soltanto un ruolo, per così dire, parentetico, servendo più che altro a mettere in luce, per contrasto, la superiore concretezza della fede, acquista ampiezza e rilevanza decisiva in Appearance and Reality, dove diviene certamente una delle tesi cruciali della tarda filosofia di Bradley. Il pensiero filosofico, egli ivi afferma, è “apparenza”, e non già “realtà”, perché esso – come, del resto, ogni altra specie di conoscenza umana – può essere espresso solo nella forma logica del giudizio, che è in sé e per sé contraddittoria, e, inoltre, perché lo stesso scopo finale che esso persegue, la conoscenza della Verità, non è in realtà nulla più che un’inconsistente apparenza. Ma siccome non è possibile né pensabile apparenza senza Realtà, egli sostiene altresì che l’intero mondo delle apparenze contraddittorie – nel quale, contraddicendo palesemente alla sua precedente concezione articolata in Ethical Studies, egli relega ora anche morale e religione56, e che perciò viene a comprendere ogni possibile contenuto determinato della nostra esperienza – non solo è inscindibile dalla Realtà, bensì è inglobato in essa come una sua essenziale parte integrante o momento costitutivo. Ma non è evidente che, in tal modo, la Realtà, contenendo nella sua totalità, quale sua parte o momento, anche la nonrealtà dell’apparenza, si configura essa stessa come quell’unità di identità e di differenza, di essere e di non-essere, cioè come quell’unità dialettica degli opposti, che di per sé costituisce la perentoria confutazione del principio dell’identità astratta, su cui buona parte della metafisica di Bradley invece riposa? E che nell’Assoluto apparenza e realtà sono perciò i “termini” di una “relazione”, che non solo è, come tale, possibile e pensabile (perché, qualificando essa la stessa autoidentità dell’Assoluto, non può essere solo una delle apparenze che, pur essendo altro da esso, sono tuttavia in esso 55 56
Cf. ibid., p. 288-89, n. Cf. supra, n. 37.
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contenute), ma che è anche una relazione “interna” (perché le apparenze sono contenute nella realtà dell’Assoluto, e non sono perciò un termine a essa esterno), confutando così nulla meno che due assunti fondamentali della metafisica di Bradley, e cioè che: (1) ogni relazione è inevitabilmente esterna (perché i termini della relazione sono altri da essa), e perciò: (2) essa è per principio impossibile e impensabile57? Non più plausibile appare la teoria del giudizio di Bradley, pur da lui ampiamente svolta sia in Appearance and Reality che nei Principles of Logic58. Non diversamente da Aristotele e da Kant, Bradley sostiene che la conoscenza umana della verità si esprime di necessità nella forma logica del giudizio, perché il concetto, di per sé, è solo una “costruzione ideale”, mentre 57 A questo proposito Guido de Ruggiero giustamente osserva che «il Bradley, dopo aver negato la relazione, si vede costretto a riammetterla. Solo che, essendosi già tagliati i ponti, riesce a delle vere assurdità. […] Bradley dà l’idea di chi s’è accecato e poi pretende di vedere» (G. de Ruggiero, La filosofia contemporanea, cit., p. 330). A difesa di Bradley si potrebbe tentare di replicare che questa difficoltà non è sfuggita alla sua attenzione in uno dei suoi ultimi scritti, in cui egli identifica la natura dell’Assoluto con una “esperienza immediata”, che si costituisce nel nostro “sentimento” come «a positive non-distinguished nonrelational whole» (F.H. Bradley, Essays on Truth and Reality, cit., Ch. 6: “On Our Knowledge of Immediate Experience” (1909), p.180; corsivo nostro), il quale, tuttavia, proprio come contiene in sé ogni apparenza, così comprende in sé anche ogni distinzione e ogni relazione. Distinzioni e relazioni, dunque, “alienano” la sua originaria unità, ma non sussistono fuori di essa: in un senso la “trascendono”, ma in un altro «never […] go beyond immediate experience» (ibid., p. 190, n. 1). Ma anche questa tesi di Bradley – che ricorda dappresso, a nostro giudizio, la concezione schellinghiana dell’Assoluto come «la notte in cui tutte le vacche erano nere» –appare, in definitiva, inaccettabile. In primo luogo, un “tutto indistinto” non si distingue proprio perciò in nulla – come invece dovrebbe, per essere un vero Tutto –dalla vuota identità dell’Uno. In secondo luogo, se la totalità dell’Assoluto è in sé indistinta, e perciò “inintelligibile” (ibid., p. 189), è chiaro che essa non può essere spiegata non solo da un sistema “completo” di metafisica, fondato, quale quello hegeliano, sulla “ridicola” convinzione che la realtà sia uno “schema relazionale” (ibid., p. 190), ma neppure da una teoria generica, incompleta e approssimativa, quale è quella ch’egli abbozza in Appearance and Reality. Contrariamente a quanto egli crede, la sua sostituzione del primo con la seconda non solo non arreca alcun vantaggio gnoseologico, ma crea un’ulteriore difficoltà, da cui il primo era invece fortunatamente esente. Astraendo dalla concreta totalità dell’Assoluto, che sarebbe in sé inintelligibile, alcune povere e vuote determinazioni, che sarebbero invece intelligibili, Bradley istituisce con ogni evidenza una differenza, in tale totalità, tra la sua “parte” conoscibile e quella non conoscibile, che, come tale, è una relazione (e tale, a fortiori, è la stessa categoria riflessiva della Totalità in quanto tale) e, di conseguenza, è essa stessa impossibile e impensabile, sì che la sua teoria delle relazioni scalza alla radice la plausibilità della sua teoria dell’Assoluto. E lo stesso vale per la sua teoria psicologica dell’Introspezione, ch’egli cerca di integrare nella teoria dell’Assoluto come esperienza immediata (cf. ibid., p. 166-71), nella misura in cui egli distingue in questa una “parte” che è solo sentita e una “parte” oggettiva che invece la qualifica. 58 Cf. F.H. Bradley, Appearance and Reality, cit., Book II, Ch. 15, p.143-62; Id., The Principles of Logic, cit., Book I, p. 1 ss.; ecc.
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il sillogismo presuppone la possibilità del giudizio, in quanto gli elementi da cui è composto, le due premesse e la conclusione, sono esse stesse dei giudizi. E anche la “proposizione” può essere ridotta al giudizio, perché essa non ne è che l’esteriore formulazione verbale. Nel giudizio, dunque, si esplica l’intima essenza del pensiero logico, ed esso consiste fondamentalmente nella relazione tra un soggetto singolare, che viene desunto per astrazione dall’“esperienza immediata”, e un predicato universale, che è invece una “costruzione ideale” prodotta dall’attività “discriminante” della coscienza. Ma così è chiaro che nella sfera logica del giudizio si ripropone la fondamentale antinomia che mina alla radice la possibilità delle relazioni esterne. Nel giudizio, infatti, vengono identificati, mediante la copula “è”, due termini, il dato sensibile e il concetto ideale, che sono invece originariamente eterogenei, ossia non-identici. Pensare è giudicare; ma il giudizio è l’identificazione di ciò che in sé non è identico; dunque, lo stesso atto del pensare non è che la formulazione di una contraddizione, e perciò non è esso stesso altro che un’apparenza contraddittoria dell’Assoluto. E alla negazione della verità del pensiero non può che far seguito, anche nella teoria di Bradley, la negazione della stessa verità della Verità, proprio perché essa altro non è che l’obiettivo peculiare, lo scopo finale perseguito da un’attività in sé insuperabilmente inconsistente quale sarebbe per l’appunto quella del pensiero. Emerge con incontrovertibile chiarezza, in questa perentoria conclusione della teoria del giudizio di Bradley, il carattere fondamentalmente “scettico” della sua filosofia, che veniva invece in qualche modo celato dal suo tentativo di delineare una sommaria metafisica dell’Assoluto. A tale conclusione, tuttavia, si può objettare, anzitutto, che, se è vero che esiste un’attività logica, quella dell’“intelletto finito”, che consiste nella costruzione di un sistema di relazioni esterne tra il dato sensibile e il concetto logico, e che si esprime nella forma predicativa del “giudizio immediato” (o “giudizio dell’esserci”), è altresì vero che è possibile e pensabile una diversa attività logica, quella della “ragione speculativa”, che istituisce invece tra essi una “relazione interna”, la quale, come tale, “toglie”, ingloba in sé stessa entrambi i suoi termini, e dunque anche l’esperienza immediata, che, perciò, solo relativamente è tale, perché, in definitiva, è essa stessa nulla più che un “momento ideale” dell’atto del pensare, come tale essenzialmente mediato dalla sua attività autoanalitica. Alla radice della distruzione, tentata da Bradley, della forma logica del giudizio, e con essa della stessa idea della Verità, c’è in realtà soltanto la tacita adesione al fallace dogma di ogni filosofia del “sapere immediato” – e cioè che esiste qualcosa come una “immacolata percezione”, ossia un’esperienza puramente immediata o “antepredicativa”, cioè radicalmente pre-logica, nel senso che non contiene già in sé, neppure in nuce, la forma riflessiva della mediazione. Onde 68
provare la radicale inconsistenza della fede di Bradley nella possibilità di un puro sapere immediato, sarà qui sufficiente esaminare i predicati ch’egli a esso generalmente attribuisce. L’esperienza immediata, egli afferma59, (1) è una “unità”, nel senso che è una “totalità organica”; (2) contiene, inoltre, “virtualmente” in sé stessa i molteplici contenuti che verranno quindi logicamente esplicati nel soggetto del giudizio; (3) ed è perciò il “fondamento” ultimo delle “discriminazioni” che l’attività logica della coscienza in essa istituisce. Ma, in realtà, un’esperienza puramente immediata esclude di necessità la presenza in essa di qualsivoglia mediazione, e dunque anche relazione, in quanto la relazione è come tale una mediazione. È dunque per principio impossibile affermare (1) che essa sia una totalità organica, perché questa altro non è che la relazione interna di unità e molteplicità; (2) che essa sia un’unità in sé molteplice, anche se solo “virtualmente” tale, perché una siffatta unità implica di necessità, da un lato, la distinzione – e dunque, di nuovo, la relazione – tra le modalità categoriali della possibilità e della realtà, e, dall’altro, la relazione tra queste forme categoriali e il contenuto sensibile; (3) che essa sia il fondamento del giudizio, perché il “fondamento” non è che l’identità – e dunque, di nuovo, la relazione – tra la propria idealità (che è già di per sé una relazione!) e la realtà del fondato. Come negare, dunque, che la stessa presunta esperienza immediata sia in realtà – proprio come l’Idea hegeliana, che Bradley per tale ragione giudica invece “ridicola”60 – nulla più che uno “schema relazionale”, e dunque un prodotto dello stesso giudizio? Ma se il giudizio produce e contiene originariamente in sé stesso anche il contenuto immediato che ne diverrà il soggetto, allora l’esperienza sensibile non costituirà un presupposto esterno della validità del giudizio, da cui quest’ultimo sarebbe perciò condizionato, né, di conseguenza, ogni giudizio sarà, in definitiva, com’egli invece sostiene, un mero giudizio ipotetico, e sarà invece possibile formulare dei genuini giudizi categorici. La critica, da noi ora svolta, del primo assunto fondamentale della teoria del giudizio di Bradley – che esso consiste in una relazione esterna tra soggetto e predicato – è dunque sufficiente a inficiare anche il suo secondo assunto fondamentale – che non sono possibili giudizi categorici. Ma v’è di più. È innegabile che sia il giudizio: «Non sono possibili giudizi categorici», cui mette capo la sua teoria del pensiero logico, che i giudizi: «L’Assoluto è una totalità stazionaria»; «L’Assoluto contiene in sé infinite storie»; «Il modo, in cui le apparenze si armonizzano nella totalità dell’Assoluto, è diverso da quello in cui esse si presentano nella nostra esperienza finita», nei quali la sua metafisica dell’Assoluto si articola, sono giudizi categorici, e che la 59 60
Cf. Id., Essays on Truth and Reality, cit., p. 160–61, 173-78, ecc. Cf. supra, n. 57.
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possibilità dei giudizi categorici viene dunque provata dal semplice fatto ch’egli ne formula alcuni (ammesso, ovviamente, e non concesso che essi siano veri). D’altra parte, se la stessa verità non è nulla più che un’apparenza contraddittoria dell’Assoluto, riesce difficile comprendere in che cosa essa si distingua essenzialmente dall’errore, che è senz’altro anch’esso un’apparenza contraddittoria dell’Assoluto, e quale decisiva ragione perciò vi sia per ritener vera la metafisica di Bradley, e anzi la sua intera filosofia, e quindi accettarla, e non respingerla invece perché palesemente falsa. Né più convincente appare il suo rifiuto della soluzione hegeliana dell’antinomia del giudizio, la quale consiste, com’è noto, nell’identificare nel terminus medius del sillogismo la richiesta mediazione o fondazione della relazione tra soggetto e predicato, dal momento che era la sua contingente immediatezza nella sintesi predicativa a dar luogo alle accennate difficoltà61. Bradley sostiene infatti che ogni specie di inferenza – ivi comprese, dunque, quelle in cui Hegel scorgeva la realizzazione adeguata del suo concetto, cioè il sillogismo disgiuntivo e il metodo dialettico – è, in definitiva, insuperabilmente contraddittoria62. La possibilità di principio dell’inferenza viene “rovinata”, egli afferma63, dal dilemma, che, se la conclusione è identica alle premesse, essa è solo una vuota, logicamente sterile tautologia; ma se la conclusione aggiunge a esse qualcosa di nuovo, e dunque di differente, essa distrugge eo ipso l’identità del suo soggetto, e dunque la sua stessa possibilità. Il difetto del “sillogismo positivo ordinario”, cioè del sillogismo dimostrativo aristotelico, consiste invece nel fatto che il terminus medius è sì una totalità logica che, comprendendo in sé i due estremi, può istituire tra essi la relazione interna, cioè la connessione inscindibile; richiesta dal concetto dell’inferenza; ma, nella misura in cui è ciò nondimeno un concetto particolare, esso sta in una relazione esterna con gli altri elementi dell’inferenza, che così, lungi dal risolvere l’antinomia del giudizio, presuppone piuttosto la validità della sua forma logica, e ne condivide perciò l’inconsistenza64. L’antinomia di questa specie di sillogismo non viene secondo Bradley neppure risolta – come invece sosteneva Hegel –65 dalla superiore forma logica del sillogismo disgiuntivo, perché la differenziazione del terminus medius in una totalità di alternative 61
Cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in: Id., Werke, cit., Bd. 2, p. 349-53; e Id., Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in: Id., Werke, cit., Bd. 1, §§ 179-81. 62 Cf. F.H. Bradley, The Principles of Logic, cit., “Terminal Essays. Essay I”, p. 597. «Everywhere inference […] must be more or less defective, and […] the defect ]…] is in principle irremovable». 63 Ibid., p. 599. 64 Ibid., p.603. 65 Cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., Bd. 2, p. 398-401; e Id., Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, cit., Bd. 1, §§ 191-93.
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esclusive, che in esso ha luogo, da un lato è priva del fondamento razionale che solo potrebbe garantirne la necessità, dall’altro non necessariamente è esaustiva, come invece dovrebbe66. Al primo argomento si può replicare che esso altro non è che un grossolano paralogismo, perché il dilemma, in cui esso consiste, può essere plausibilmente formulato solo se si rifiuta la dottrina del principio di non contraddizione formulata dallo stesso Bradley sia nei Principles of Logic che in Appearance and Reality67, e cioè che esso è compatibile col principio dell’unità dialettica degli opposti. Non v’è, dunque, contraddizione nell’affermare che, da un lato, le premesse dell’inferenza sono “in sé” (cioè virtualmente) identiche alla sua conclusione, e quindi che essa ha un unico soggetto, ma che, dall’altro, proprio per tale ragione le prime sono “per sé” (cioè attualmente) differenti dalla seconda, e che il processo dell’inferenza consiste per l’appunto nel superamento dell’immediata contraddizione tra il suo essere-in-sé e il suo essere-per-sé mediante la posizione del suo essere-in-sé-e-per-sé, cioè mediante la realizzazione della sua verità. Per quanto concerne, poi, il sillogismo aristotelico (o “sillogismo immediato”, nella terminologia hegeliana), è innegabile che, sebbene il terminus medius stabilisca nella conclusione una relazione interna tra i due estremi, entrambe le premesse esplicano solo una relazione esterna tra soggetto e predicato, soccombendo così all’antinomia del giudizio. Ma Bradley non si accorge che la soluzione della contraddizione che inficia il sillogismo immediato non solo è possibile e pensabile, bensì ci viene offerta proprio dal sillogismo disgiuntivo, qualora, ovviamente, esso non sia considerato – com’è il caso della logica formale – come una figura silllogistica particolare, bensì – come vuole la concezione speculativa del sillogismo elaborata dalla Logica hegeliana – come una totalità inferenziale che contiene in sé stessa, quale loro “verità”, anche le inadeguate forme logiche del sillogismo categorico e del sillogismo ipotetico68. Nella misura, infatti, in cui il sillogismo disgiuntivo comprende in sé il sillogismo categorico, la differenziazione del suo soggetto nella totalità disgiuntiva del terminus medius non è che la necessaria esplicazione del suo contenuto logico, cioè la totalità della sostanza, nei suoi accidenti essenziali, ed essa perciò non può per principio essere né empirica (contingente) né incompleta. D’altra parte, nella misura in cui il sillogismo disgiuntivo è la verità del sillogismo ipotetico, esso toglie anche la residua immediatezza della relazione sostanza-accidenti, che costituisce il limite del sillogismo categorico, e quindi stabilisce tra tutte le relazioni che lo costituiscono quella 66
Cf. F.H. Bradley, The Principles of Logic, cit., p. 602-03. Cf. supra, n. 13. 68 Cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., Bd. 2, p. 391-98. 67
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forma della necessità a priori (“Se A, allora B”), che ne elimina definitivamente l’immediatezza (e dunque la contingenza), evitando così la ricaduta del sillogismo disgiuntivo nell’antinomia del giudizio. Si deve, infine, ascrivere solo alla sua deplorevolmente scarsa, o superficiale, conoscenza della Scienza della Logica l’ulteriore argomento rivolto da Bradley contro il metodo dialettico hegeliano, e cioè che sia il cominciamento che la conclusione della deduzione delle categorie logiche mediante esso effettuata siano inevitabilmente “arbitrari”69. Hegel, in realtà, svolge in tale opera ampie e convincenti considerazioni70 intese a provare che la determinazione del cominciamento non solo non è arbitraria, ma non è neppure meramente “problematica” (come voleva invece Reinhold), bensì coincide necessariamente con l’idea dell’Essere indeterminato, perché il concetto iniziale della deduzione, in quanto non ne presuppone altri, dev’essere assolutamente immediato, e tale è solo l’idea dell’Essere indeterminato. E la conclusione dell’inferenza dialettica può esser soltanto la categoria dell’Idea assoluta, perché solo essa contiene in sé stessa, quale suo contenuto, il sistema totale delle categorie precedentemente svolte e, quale sua forma, il metodo universale del pensiero speculativo, cioè la dialettica. Le difficoltà, in cui la logica e la metafisica di Bradley – come, del resto, ogni altra forma di consistente scetticismo – a tale proposito si avvolge, sono così evidenti che non poterono sfuggire al suo acume. La soluzione da lui proposta consiste nel distinguere una pluralità di “gradi di verità e di realtà”71, in base ai quali sarebbe sì possibile discernere il vero dal falso, ma tale differenza sarebbe puramente quantitativa e perciò relativa: nessun giudizio, egli afferma, è in sé assolutamente vero o assolutamente falso (e, in tal senso, l’idea della verità è certamente solo un’apparenza contraddittoria), bensì ci appare vero o falso solo in rapporto al nostro punto di vista: se lo confrontiamo con un giudizio “più” vero, esso ci sembrerà falso; se lo paragoniamo, invece, a un giudizio “più” falso, esso ci sembrerà vero. Analogamente i giudizi categorici, in cui la sua metafisica dell’Assoluto si articola, ci appaiono tali solo se li confrontiamo con quelli più esplicitamente ipotetici (perché concernenti un contenuto empirico contingente, da cui la loro validità è condizionata) formulati dalle scienze positive; ma in sé stessi considerati non sono, in definitiva, meno ipotetici, perché la loro validità effettiva non è che quella “pragmatica” consistente 69 Cf. F.H. Bradley, The Principles of Logic, cit., p. 601-02: «The inference here may be called arbitrary, so far as the point where you happen to begin, and so far again as the result – where, short of the whole, you are pleased to stop – are taken to depend on your choice». 70 Cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., Bd. 1, p. 65-78. “Womit muß der Anfang der Wissenschaft gemacht werden?” 71 Cf. F.H. Bradley, Appearance and Reality, cit., Book II, Ch. 24, p. 318-54.
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nella loro capacità di soddisfare un nostro “bisogno d’azione”. Contro la plausibilità di questa tesi di Bradley si può osservare, anzitutto, che si può sensatamente distinguere una gerarchia di gradi di realtà e di verità solo se si dispone di un criterio di verità consistente e determinato, in base al quale poter stabilire, in rapporto a ciascun caso concreto, tale differenza; ma esso non sarà certamente tale se esso stesso non è altro – com’è inevitabile nella prospettiva metafisica di Bradley – che un’apparenza contraddittoria di un indeterminato Assoluto. E neppure si comprende come la finitezza, particolarità e soggettività, che essenzialmente caratterizza ogni nostro “sentimento” (per quanto radicato e profondo) come pure ogni nostro bisogno d’azione (per quanto urgente e imprescindibile), possa essere sufficiente a legittimare la validità categorica di una metafisica dell’Assoluto. D’altra parte, se si nega, come Bradley esplicitamente fa, la verità e realtà del pensiero logico, non si può non negare anche quella dello “spirito”, che non è infatti altro che la realizzazione di tale pensiero nella soggettività dell’autocoscienza umana; ma allora diviene assai problematico rivendicare il carattere fondamentalmente “spirituale” dell’Assoluto, com’egli ciò nondimeno fa nell’eloquente conclusione di Appearance and Reality: Noi possiamo opportunamente concludere quest’opera insistendo sul fatto che la Realtà è spirituale. C’è una grande sentenza di Hegel, che è fin troppo nota, e che senza qualche spiegazione io non sarei disposto ad avallare. Ma io voglio finire con qualcosa di non molto differente, qualcosa che più certamente è il messaggio essenziale di Hegel. Fuori dallo spirito non c’è, né ci può essere, alcuna realtà, e quanto più qualcosa è spirituale, tanto più è veramente reale72.
Mentre noi non possiamo che condividere questa pregnante formulazione del principio dell’idealismo filosofico di Bradley, riteniamo tuttavia che essa possa esser coerentemente sviluppata e fondata in una prospettiva teoretica più simile a quella originariamente elaborata da Hegel, e a quella stessa che costituisce il background metafisico di Ethical Studies, che all’inconsistente e autodistruttiva dialettica negativa che troppe pagine riempie del suo presunto “capolavoro”.73 72
«We may fairly close this work then by insisting that Reality is spiritual. There is a great saying of Hegel’s, a saying too well known, and one which without some explanation I should not like to endorse. But I will end with something not very different, something more certainly the essential message of Hegel. Outside of spirit there is not, and there cannot be, any reality, and, the more that anything is spiritual, so much the more is it veritably real» (F.H. Bradley, Appearance and Reality, cit., p. 489). 73 Dobbiamo perciò giudicare senz’altro in errore M. Truglia, non meno di N. Abbagnano e V. Mathieu, da lui a tale proposito chiamati in causa, quando sostengono che il più alto merito del pensiero di Bradley consisterebbe per l’appunto nella “consumazione”, cioè nella liquidazione, della filosofia di Hegel e dell’“idealismo britannico di quegli anni”. Se, infatti,
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§ 4. Oltre l’“idealismo scettico” di Bradley Gettando uno sguardo retrospettivo sulle teorie filosofiche di Bradley da noi ora discusse, possiamo individuarne il carattere fondamentale in una consistente adesione a una concezione schiettamente idealistica della conoscenza e della realtà, e la peculiare tendenza evolutiva in un itinerario speculativo che, prendendo le mosse da una originale appropriazione della filosofia hegeliana dello spirito oggettivo, sembra ripercorrere a ritroso gli stadi più significativi dello sviluppo storico dell’Idealismo e del Romanticismo moderno e contemporaneo. La degradazione del pensiero logico a una mera apparenza contraddittoria di un Assoluto concepito come un “tutto indiviso” e “immobile”, e l’ammissione di una differenza meramente quantitativa tra verità ed errore, trovano un preciso riscontro nella concezione schellighiana dell’Assoluto come “identità indifferente” di “fattori” solo quantitativamente distinguibili. L’identificazione del fondamento ultimo della validità dei giudizi categorici, in cui la sua metafisica dell’Assoluto si articola, con la loro capacità di soddisfare un soggettivo “bisogno di azione”, come pure la rivendicazione del primato ontologico della fede (religiosa) rispetto al sapere (filosofico), possono essere considerate come una originale variante della concezione kantiana e fichtiana del primato della ragion pratica. La teoria dell’esperienza immediata, che la concepisce come una “totalità senziente” e “sentita”, che è più reale e originaria del pensiero relazionale, e il cui contenuto è la coscienza dell’unità del “questo” e del “tutto”, sembra palesemente riformulare l’assunto fondamentale della romantica e mistica “teologia del sentimento” di Schleiermacher, e cioè che l’essenza della religione è il “sentimento di dipendenza dall’Infinito”. E molti sviluppi della dialettica negativa di Bradley, ma soprattutto i paradossali aforismi in cui egli a volte ne esprime in forma concentrata il senso profondo, appaiono, per molti versi, come una sottile, intellettualistica versione dell’“ironia” romantica. Idealismo, misticismo, Romanticismo, umanitarismo, che sono i tipici elementi costitutivi dello spirito del mondo moderno, e in particolare della Cristianità protestante, luterana ma anche anglicana, si ripropongono dunque in forma originale e suggestiva nella filosofia di Bradley, e spiegano l’interesse e l’influenza da essa esercitati sul pensiero contemporaneo. Ma le insolubili antinomie, in cui essa finisce con l’avvolgersi, e che abbiamo già avuto modo di mettere in luce nel § 3, ne rivelano altresì i limiti insuperabili. Limiti che non sfuggirono all’attenzione dei suoi stessi allievi è innegabile che tale, in definitiva, è l’objettivo teorico per lo meno della logica e della metafisica di Bradley, altrettanto innegabile – se sono vere le considerazioni da noi svolte nel presente saggio – è che egli lo ha fallito. Cf. M. Truglia, La funzione del “feeling” nella dottrina del giudizio di F. H. Bradley, cit., p. 92 e n. 6, 93 e n. 9, 97, 99 e n. 19.
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e seguaci, e che hanno dato luogo a una decisa critica e superamento del suo “idealismo scettico”, che possono senz’altro essere annoverati tra le più rilevanti acquisizioni filosofiche del pensiero anglosassone contemporaneo. Il più significativo allievo di Bradley, Harold H. Joachim (1868-1938), conclude il suo eccellente saggio Logical Studies (1948) con una serrata analisi e critica della teoria dell’Assoluto come esperienza immediata formulata dal suo Maestro. «Quanto più si considera l’atteggiamento di Bradley nei confronti dell’ideale», egli osserva, «tanto più difficile diviene difenderlo»74. La ragione di ciò sta nel fatto che egli considera, come si è visto, il giudizio, il pensiero, la stesso idea della Verità come nulla più che apparenze contraddittorie dell’Assoluto, in cui esse conseguono una realtà adeguata al loro concetto solo nella misura in cui sono “trasformate” e “armonizzate” in un modo che è destinato a rimanerci ignoto. L’acuta objezione di Joachim è che la stessa metafisica di Bradley è una costruzione del suo pensiero, la cui pretesa alla verità può essere perciò soddisfatta solo in virtù di un’analoga trasformazione delle proposizioni di cui essa consta, della quale, tuttavia, non possiamo per principio conoscere né i limiti né le effettive condizioni di possibilità. Non si può perciò escludere che tale trasformazione possa essere così radicale da togliere a essa qualsiasi senso determinato. L’idealismo scettico di Bradley, dunque, è in definitiva selfrefuting, e il suo errore fondamentale viene giustamente individuato da Joachim nella sua incapacità di comprendere che il discorso, la mediazione, lo “sviluppo” della “conoscenza-o-verità” (knowledge-or-truth)75 è un elemento della sua natura non meno essenziale e imprescindibile della sua immediata evidenza intuitiva. Più articolata e profonda è la critica dell’idealismo di Bradley svolta da Errol E. Harris (1908-2009), che fu allievo di Joachim, in una delle opere più importanti prodotte dalla filosofia europea del secolo XX, Nature, Mind and Modern Science (1954)76. L’Assoluto per Bradley, come si è visto, è un “tutto indistinto non-relazionale”, e quindi la stessa distinzione tra soggetto e oggetto – e, di conseguenza, l’identità del sé finito – non è altro che una delle “costruzioni ideali”, cioè delle apparenze contraddittorie inesplicabilmente contenute nella sua totalità. Ma com’è possibile concepire coerentemente un’apparenza senza un soggetto al quale essa appaia? E una costruzione ideale senza un’attività che la costruisca? Bradley non può offrire una risposta soddisfacente a nessuno di questi interrogativi, perché il 74
Cf. H.H. Joachim, Logical Studies, Clarendon Press, Oxford 1948, p. 287. Ibid., p. 290. 76 Cf. E.E. Harris, Nature, Mind and Modern Science, G. Allen & Unwin, London 1954, Ch. 13, p. 256-64; e anche Id., The Problem of Self-Constitution in Idealism and Phenomenology, in: “Idealistic Studies”, 7: 1 (1977), p. 1-27; e Id., Bradley’s Concept of Nature, in: “Idealistic Studies”, 15:3 (1985), p. 185-98. 75
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suo Assoluto non è un soggetto né esplica una qualsiasi attività. Egli ammette esplicitamente di non essere in grado di spiegare il come e il perché della genesi delle apparenze dall’unità originaria della Realtà, e Harris perciò giustamente conclude che, da questo punto di vista, l’assunto fondamentale della sua filosofia – che l’Assoluto sia una totalità che comprende in sé innumerevoli apparenze – è solo un’asserzione “dogmatica” priva di qualsiasi fondamento. Ma non è neppur lecito supporre che la stessa mente del sé finito sia il principio creatore della molteplicità delle apparenze, perché essa stessa non è che un’apparenza contraddittoria, che, come tale, a sua volta presuppone un altro sé finito al quale essa appaia, ingenerando così un irrazionale regressus in infinitum che mina alla radice la plausibilità anche di questo tentativo di spiegazione. In uno dei suoi ultimi scritti, On Our Knowledge of Immediate Experience (1909), Bradley sembra essersi reso conto delle insuperabili difficoltà che inficiano ogni possibile teoria metafisica che neghi l’intima soggettività dell’Assoluto, e afferma ora che l’esperienza immediata, che, da un lato, in quanto “totalità senziente”, coincide con lo stesso Assoluto, dall’altro è pur sempre la “mia” esperienza immediata, non già nel senso che ’“io” ne sia il soggetto (perché il sé, come sappiamo, è solo un’apparenza contraddittoria), bensì nel senso che essa coincide col mio “centro finito di esperienza” (finite centre of experience)77, che è invece reale anche se non si identifica senz’altro con l’unità dell’Assoluto, perché esistono anche altri centri finiti di esperienza. Harris giustamente replica che anche questa teoria di Bradley è inconsistente, perché si avvolge nel seguente, esiziale dilemma: (a) se esistono realmente molteplici centri di esperienza diversi dal mio, essi saranno per principio inconoscibili, perché anche la distinzione “mio– non mio” è una relazione, e come tale è un’apparenza contraddittoria contenuta nel “mio” centro finito di esperienza, che è perciò l’unica realtà per me conoscibile. L’asserzione della loro realtà è così, di nuovo, una tesi dogmatica non suffragata da alcun plausibile fondamento. (b) Se essi, invece, sono per me conoscibili, allora sarà sì lecito costruire una teoria di tali centri; ma essi non saranno perciò stesso altro che una costruzione ideale contenuta nel mio centro finito di esperienza, il quale così sarà l’unica vera realtà, e come tale coinciderà senz’altro con la stessa totalità dell’Assoluto. Ma la tesi dell’identità immediata del singolare e dell’universale – «questo mio io è l’unica vera realtà» – non è altro che il palese controsenso logico e metafisico del solipsismo78. La conclusione di Harris, che noi condividiamo e che apre la strada ai più recenti e creativi sviluppi della filosofia dell’Idealismo anglosassone, è che le contraddizioni, 77 78
Cf. F.H. Bradley, Essays on Truth and Reality, cit., p. 172-73. Cf. E.E. Harris, Nature, Mind and Modern Science, cit., p. 261.
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in cui la metafisica di Bradley si avvolge, possono esser positivamente risolte solo in una teoria dell’Assoluto che – proprio com’era il caso dell’idealismo hegeliano – lo concepisca come un Soggetto infinito che, divenendo consapevole di sé in e mediante la mente finita dell’uomo, rende in tal modo possibile l’esplicazione della sua natura in un “sistema completo” di metafisica – la cui realizzazione, ovviamente, non è l’opera di un singolo, per quanto grande filosofo, bensì è l’anima motrice e, nel contempo, lo scopo finale dell’intero sviluppo storico della filosofia.
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Sara Mazzotti
LEOPARDI E NIETZSCHE: UN’AFFINITÀ ELETTIVA? IV. LA RELIGIONE 4.1 Il dio “inquisitore” di Leopardi L’immaginario viaggio di navigazione che ci ha permesso di esplorare alcune delle numerose sinuosità che caratterizzano il corso del fiume di pensiero leopardiano e nietzschiano, ci rivela ora un’ulteriore ansa, quella della religione. Leopardi e Nietzsche conobbero Dio da bimbi e credettero in lui con quella cocciutaggine frammista di spontaneità e priva di incertezza che solo l’emozione, propria dell’infanzia, rende reale. L’emozione è, infatti, l’unico strumento che il bambino possiede per valutare ed elaborare gli input che incessantemente il mondo circostante gli invia e, quando giudica vera un’informazione, lo fa in modo assoluto, totale e senza perplessità. È come se le convinzioni infantili fossero oggetti ammucchiati disordinatamente in una stanza in penombra dell’anima. L’avvento della razionalità sancisce in modo decisivo il passaggio a una più complessa e articolata dimensione di pensiero che, assicurando all’individuo nuove potenzialità, lo spinge a riaprire la porta di quella stanza per ordinare finalmente il suo contenuto con l’ausilio della chiara luce dell’indagine razionale. Entrambi i nostri pensatori furono pungolati da un siffatto bisogno che appagarono facendo della religione un oggetto privilegiato di riflessione. Prima, però, di descrivere con dovizia di particolari la dimensione analitico-razionale di tale meditazione, è necessario soffermarci a tratteggiare l’emozione di quel primo incontro che ebbe luogo nell’oscuro e impreciso tempo dell’infanzia. Leopardi nacque in grembo a una famiglia particolarmente devota e religiosa. Le due figure genitoriali, che ne accompagnarono la crescita, 79
furono contraddistinte da un diverso atteggiamento dinnanzi alla sfera religiosa. Il padre Monaldo, infatti, riteneva basilare annientare i nemici della religione, sguainando l’arma vincente della razionalità. Il suo sentimento religioso era, dunque, ammantato di ragione e non concedeva assolutamente nulla alla superstizione. La madre Adelaide, invece, incarnava quell’aspetto pratico della religiosità che si palesava nel comportamento cui un perfetto cristiano necessariamente doveva attenersi. La prima idea di religione che baluginò nella mente del piccolo Giacomo fu intimamente collegata al rapporto con la madre. Adelaide era una donna volitiva e fredda che, soprattutto dopo il 1815, anno della sua ultima gravidanza, volle allontanare da sé ogni possibile segno di debolezza. Divenne dura e tirannica per riuscire a realizzare il suo delirio cristiano fondato sul dovere domestico. Non abbracciò mai i suoi bambini, né mai diede loro una carezza. La sua forma d’amore si esauriva nella cura esteriore dei figli, nella sollecitudine che ella dimostrava quando erano malati e, in modo particolare, nella costante sorveglianza che indefessamente esercitava. Era un’ossessione per Giacomo e i fratelli quel suo passo tintinnante e quello sguardo glaciale che si posava su ogni loro più recondito pensiero. Adelaide tentava, poi, di captare le parole sussurrate delle confidenze che in segreto si scambiavano, non per morbosa curiosità o incredibile cattiveria, come quando si mise ad ascoltare la prima confessione di Giacomo, ma per evidenziare possibili punti deboli e prevenire così futuri peccati ad essi connaturati. Adelaide, inoltre, a differenza dello stesso marito e dei figli, non si era mai appassionata allo studio o alla lettura di libri che non avessero contenuto religioso. Anch’ella possedeva una piccola biblioteca, ricca, però, soltanto di libri devozionali che sfogliava per ritrovare tra le loro pagine i ricordi della sua famiglia accanto a una preghiera per ognuno. Un simile comportamento di ostinata chiusura nei confronti di tutto ciò che proviene da un indistinto esterno denota, senza la minima ombra di dubbio, la labilità e la completa mancanza di stabilità della sua credenza religiosa. È come se ella si premurasse di chiudere tutte le finestre, convinta che anche un leggero refolo di vento avesse forza sufficiente per demolire quelle sue precarie opinioni, alla stessa stregua di un castello di carte. La sua mente, quindi, appariva delimitata dagli invalicabili confini di una bigotta e austera religiosità, che la faceva tremare davanti a tutto ciò che si trovava al di fuori di essi. Per lei, infatti, l’inferno cominciava appena varcato il portone di casa, tendeva perciò a lasciare il palazzo solo per assistere a funzioni religiose o per svolgere mansioni caritatevoli. 80
Quest’assurda paura le faceva percepire il mondo come luogo favorito della tentazione e del peccato. Per evitare spiacevoli incontri, non soltanto imponeva a se stessa il più rigoroso isolamento, ma metteva anche in atto, nei confronti di tutti i membri della famiglia, innumerevoli restrizioni e divieti. Arrivò addirittura a censurare la corrispondenza dei figli o a impedire che passeggiassero per le strette stradine di Recanati senza la scorta del pedante. Lo stesso Giacomo uscì di casa da solo, la prima volta, a vent’anni, per incontrare l’amico Giordani. Tra i figli di Adelaide, quella che maggiormente soffrì il peso di questo regime, fu l’unica bimba, Paolina. La mamma volle, infatti, che anche lei diventasse un modello di donna virtuosa sacrificata alla famiglia. Purtroppo Paolina, a causa di sfortunate circostanze e di un’esigua dote, non riuscì a sottrarsi a un destino da zitella. Paolina ebbe, comunque, la possibilità di ritagliarsi dei piccoli spazi, attraverso i quali assaporare un po’ di quella vita che le era negata. Con uno stratagemma e la complicità di Don Sanchini, uno dei suoi precettori, godette di un intenso scambio epistolare con un’amica conosciuta grazie al provvidenziale aiuto di Giacomo, fu affascinata, inoltre, dai romanzi e dalle memorie di viaggio. Si fece narrare la vita dagli occhi, identificandosi con i personaggi nati dalla penna di Scott e Shakespeare, di Stendhal e Dickens. Confesserà un giorno di aver letto più di duemila volumi. Soltanto dopo la scomparsa di entrambi i genitori, la non più giovane Paolina si toglierà qualche sfizio, acquisterà vistosi cappellini alla moda e morirà a Pisa, dove si era recata nel ricordo delle bellezze descritte da Giacomo. Uno dei tratti predominanti che Leopardi utilizza per delineare la sua prima religiosità è quello di un’indiscussa supremazia dell’anima rispetto al corpo. La sua religione è, infatti, totalmente spiritualistica. Nella formazione di questa concezione, Giacomo può essere stato fortemente influenzato da molteplici fattori. Uno di essi potrebbe risultare il rapporto anaffettivo e desomatizzato con la distante mamma o il tentativo perpetrato dal papà di considerarlo un puro cervello pensante. Monaldo sosteneva, infatti, che l’uomo, per essere veramente tale, dovesse sviluppare l’unica parte divina in suo possesso, ossia la mente. L’educazione impartita dai genitori mirava, quindi, con ogni mezzo, a cancellare la dimensione istintiva e corporale dell’individuo. Leopardi può, inoltre, aver incontrato quest’idea sfogliando i numerosi volumi di materia religiosa presenti nella fornita biblioteca paterna. Monaldo scelse sovente testi di impostazione gesuitica che richiamavano da 81
vicino la sua stessa formazione religiosa e che affermavano un orientamento spirituale di tipo prevalentemente ascetico-volontaristico. La curiosità vivace del piccolo Giacomo fu catturata innanzitutto dalla Bibbia, benché non fosse disponibile in forma diretta. Ecco, poi, la lettura di poesie, con tematica religiosa, dell’abate Carlo Innocenzo Frugoni. Notevole anche l’influsso esercitato dai testi del gesuita Giovanni Granelli, di cui Leopardi si avvalse spesso della consultazione della sua Istoria Santa dell’Antico Testamento spiegato in lezioni morali, istoriche, critiche e cronologiche. Altra lettura è quella di Alfonso Varano, dalla rigida ortodossia religiosa, acceso nemico dell’Illuminismo. Ricordiamo, quindi, le favole in versi composte dal gesuita Gianbattista Roberti, le opere di Onofrio Minzoni, noto predicatore e di un altro gesuita seicentesco, Daniello Bartoli. Naturalmente, per ragioni geografiche, non poteva mancare l’antologia I versi sacri e profani di Autori Piceni viventi, scrittori considerati a Recanati come autorità. O ancora, è possibile che Leopardi fosse indotto a una tale interpretazione della religione dai suoi giovanili studi patristici e dal clima platonizzante che qualificò la cultura cattolica del primo Ottocento. La lettura cristiana di Platone, ricorrente nella letteratura apologetica, conobbe un momento di rinnovata fortuna nell’ambito dello spiritualismo romantico. I maggiori apologeti studiati da Leopardi nei suoi Fragmenta Patrum Graecorum, cui si dedicò fra il 1814 e il 1815, furono dei platonici. Possiamo pensare, ad esempio, a Clemente Alessandrino o a Giustino. La teologia del primo si basa sull’ascesi, che viene praticata mediante la completa resistenza alle passioni e la sopportazione del dolore, e culmina nell’unione divina che produce nell’anima un’insensibilità tale da liberarla dal corpo. Giustino, invece, educato nel paganesimo, si convertì al cristianesimo molto tardi, come egli stesso racconta nel Dialogo con Trifone, passando attraverso il platonismo. Se da un lato Giacomo patì l’imposizione di una siffatta religiosità desomatizzata, dall’altro si prefisse lo scopo di recuperare quella dimensione negata, dirigendo il suo interesse proprio sulla figura di Cristo, il volto umano di Dio. Nella biblioteca leopardiana sono conservati, infatti, undici Discorsi sacri, la cui origine è spiegata in una lapide posta sulla facciata della chiesa di San Vito a Recanati, dove si legge: “tra il 1809 e il 1814 Giacomo Leopardi, fanciullo, recitando nell’annessa cappellina della Congregazione dei Nobili i Ragionamenti sulla passione di Cristo, conferì nuovo pregio all’antico monumento”. 82
In queste composizioni, occasionate dalla liturgia della Settimana santa, domina incontrastata la descrizione di un Cristo sofferente e moribondo, che testimonia con il dolore e le ferite del corpo quell’umanità da lui pienamente accettata e condivisa. Nella produzione leopardiana puerile di argomento sacro, poi, l’immagine di Dio che compare non è quella misericordiosa e disposta al perdono del Nuovo Testamento, bensì quella castigatrice e vendicativa dell’Antico. Un Dio onnipresente, quindi, che possiede la capacità di scovare il peccato e inviare la punizione ad esso commisurata, ci riporta immediatamente al pensiero il ruolo di rigida sentinella, svolto dalla madre. Giacomo, da bambino, sentì gravare su di sé il peso di un’indeterminata colpa e l’esigenza di sacrificarsi per espiarla. Immedesimandosi, in un gioco di specchi, con la sfortunata poetessa greca Saffo, con queste parole esprime tutto il suo lucido tormento: “Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso macchiommi anzi il natale, onde sì torvo il ciel mi fosse e di fortuna il volto? in che peccai bambina, allor che ignara di misfatto è la vita […]?”1. (vv. 37-41) Le scritture infantili e adolescenziali di Leopardi sono gremite, infatti, dalla terribile presenza di una colpa e di un’ineluttabile penitenza, come nell’emblematica poesia Il diluvio universale, nella quale Dio assume le sembianze dello Zeus saettante della mitologia greca che, inalberato, castiga l’essere umano peccatore, indirizzando alla volta della terra una spaventosa tempesta, paura ancestrale dell’uomo. Questa è l’immagine angosciante che Leopardi dipinge con il linguaggio poetico: “Il ciglio infosca, col possente braccio tende l’arco di foco, e balenando tutte del suo furor l’ardenti frecce orribilmente scuote; alto dolore il cuor gli preme, e l’uomo iniquo, e stolto quasi gli spiace aver tratto dal nulla. Il decreto è già fatto, il rio peccato inulto non sarà, l’empie sue macchie l’immense laveranno acque stagnanti d’universale Diluvio”2. (vv. 15-24) 1 2
G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, 1822, vv. 37-41. G. Leopardi, Il diluvio universale, 1810, vv. 15-24.
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Il personale rapporto di Leopardi con Dio, che si riflette in quello avuto con la madre, era sì improntato su un affetto sincero misto, però, a un pungente timore. In una delle sue prime composizioni, intitolata Per il giorno delle ceneri, così, infatti, chiarisce: “Fa, che governi l’alma il santo tuo Timore, e il tuo Divino Amore non parta mai da me”3. (vv. 53-56) Un ultimo aspetto che connota le opere giovanili di Giacomo, aventi per oggetto la sfera religiosa è il fascino esercitato su di lui dall’atmosfera densa di magia che si respira in alcune vicende narrate nell’Antico Testamento. Citiamo come esempio chiarificatore il poemetto Il balaamo4, formato da tre canti in sestine, in cui egli rievoca l’episodio miracoloso e fiabesco che il libro dei Numeri narra a proposito dell’asina parlante di Balaam. Oppure l’Inno ai Patriarchi, o de’principii del genere umano, composto nel 1822, che riprendeva il fumoso progetto degli Inni cristiani, concepito da Leopardi tre anni prima. Anche qui, infatti, la religione è sentita soprattutto come un repertorio di miti poeticamente usufruibili. Due i motivi presenti: la rievocazione fantastica dell’incontaminato mondo primitivo e la polemica, accentrata nell’ultima parte del canto, contro la civiltà che distrugge gli ultimi rifugi della natura. Come già abbiamo avuto modo di comprendere, la stessa casa in cui Giacomo crebbe, trasudava religiosità. Ogni angolo del palazzo, infatti, aveva la sua storia e Monaldo, che ne era l’indiscusso portavoce, con un particolare tono di mistero, la raccontava ai figli divorati dalla curiosità. Da bambino Giacomo sentì mormorare delle stranezze di una zia materna, Enrica, che sarebbe poi diventata suor Margherita. Si narra che ella, infelice per uno stato di forzata clausura, s’invaghì di un raggio di sole penetrato dalla finestra della sua cella, e si unì a lui con una danza liberatrice. A casa Leopardi, inoltre, si conservò intatta per molti anni la stanza dello zio di Monaldo, Luigi Bernardino. Accanto al letto spiccava una campana legata ad una corda che pendeva in strada, così che i fedeli potessero sempre chiamare il sacerdote. L’estrema sensibilità di Giacomo subì e incorporò la potente fascinazione promanata dalla religione al punto tale che così il padre ricorda:
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Id., Per il giorno delle ceneri, 1810, vv. 53-56. Id., Il Balaamo, 1810.
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“Era sommamente inclinato alla divozione: e pochissimo dato ai sollazzi puerili, si divertiva solo molto impegnatamente con l’altarino. Voleva sempre ascoltare molte messe, e chiamava felice il giorno in cui aveva potuto udirne di più”5.
O ancora: “Una volta all’età di circa 14 anni soggiacque al travaglio degli scrupoli, e tanto esageratamente che temeva di camminare per non mettere il piede sopra la croce nella congiunzione dei mattoni”6.
Giacomo, durante l’infanzia e l’adolescenza, anche a causa del progressivo deterioramento della sua corporatura già gracile, dovuto all’eccessivo studio, accettò con remissività la prospettiva di una futura carriera ecclesiastica tracciata in famiglia. Essendo, poi, nipote di un cardinale, avrebbe ricevuto senz’altro un aiuto dallo zio che, frequentando l’ambiente dei porporati, gli avrebbe spianato la strada. Tra il 1814 e il 1815, Leopardi redasse, inoltre, i poderosi manoscritti dei Fragmenta Patrum Graecorum e degli Auctorum historiae ecclesiasticae fragmenta, che gli avrebbero ingraziato la Curia romana. I genitori pensarono quindi, a buon diritto, di aver allevato un cristiano che attestava con fermezza la sua fede, servendosi anche dell’immenso potere della scrittura. Leopardi, dunque, avanzò negli anni e quella palpitante emozione dell’infanzia cedette il passo a una ragione diffidente e sospettosa. Questo passaggio non sortì, però, gli effetti che il padre Monaldo e soprattutto lo zio Carlo avevano caldamente pronosticato. È come se Giacomo, nel tentativo di rischiarare le copiose zone d’ombra che l’oggetto da analizzare mostrava, impugnando la fiaccola della razionalità, gli si fosse avvicinato troppo ed esso fosse avvampato, riducendosi a un inerte mucchietto di cenere fumante. La ragione, nelle mani di Leopardi, divenne un efficace strumento per abbattere in modo risolutivo le convinzioni religiose che avevano preso dimora in lui, e non per rafforzarle o avvalorarle inoppugnabilmente. Il sogno di Monaldo quindi, di veder sfoggiare al figlio Giacomo l’abito talare, s’infranse definitivamente di fronte ad un suo ennesimo, diplomatico rifiuto. Nel gennaio del 1826, in seguito alla morte dello zio Ettore, erano, infatti, divenuti vacanti due benefici ecclesiastici. Lo stesso Monaldo esercitava il diritto di patronato su quei canonicati e poteva conferirli di sua volontà. Assegnò quindi, il beneficio minore a Pierfrancesco, che pareva avviato al sacerdozio, ripromettendosi di concedere al primogenito la rendita 5
M. Leopardi, Memoriale, 1837, contenuto in: A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, cit., p. 337. 6 Ibid., p. 338.
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superiore. La prebenda esigeva, tuttavia, l’abito talare e la recita quotidiana del Breviario. Benché Giacomo fosse costantemente assillato da problemi economici, e un’entrata aggiuntiva come quella garantita dall’accettazione del beneficio ecclesiastico lo avrebbe agevolato nell’affrontarli, per non venire meno alle sue idee, dirimette così la questione, scrivendo al padre: “Le considerazioni giustissime che Ella mi pone innanzi […] mi convincono pienamente della impossibilità di conciliare la mia vita presente colla condizione di benefiziato ecclesiastico. Quanto al mutare stato […] debbo confessare con libertà e sincerità filiale che io vi provo presentemente tal repugnanza, che quasi mi assicura di non esservi chiamato […]”7.
Anche i progetti che lo zio Carlo Antici aveva lungamente elucubrato e che consistevano nello sfruttare la sagace intelligenza e la spropositata cultura del nipote al fine di giovare al ripristino della fede in Italia, si spezzarono inesorabilmente. Lo zio, infatti, incitava spesso Giacomo ad inviare qualche articolo edificante al Giornale Ecclesiastico, o lo spronava a leggere le opere di autori quali Bossuet e Fenelon, Lamennais e Bonald, col manifesto intento di fargli incarnare quell’analoga figura di pensatore cristiano, da loro impersonata in Francia. Nessuna idea fu più inaccettabile per Leopardi che lottò valorosamente tutta la vita per assicurare alla cultura una piena autonomia e per non vederla costretta alla servitù di argomenti estrinseci, capaci solo di immiserirla. Col tempo, dunque, le idee religiose di Giacomo mutarono nettamente fisionomia, conducendolo su un percorso dalla meta finora imprevista, che tra breve avremo modo di enucleare. Leopardi, però, non si sentì mai realmente pronto a spiegare con chiarezza ai genitori le linee fondamentali di questo suo intimo cambiamento. Cercò, anzi, di apparire sempre, specialmente agli occhi della mamma, un giovane devoto agli insegnamenti religiosi e morali. In una delle rarissime lettere inviatele, così si rivolge a lei: “Cara mamma. Io mi ricordo ch’Ella quasi mi proibì di scriverle, ma intanto non vorrei che pian piano, Ella si scordasse di me. […] S’Ella non mi vuole rispondere di sua mano, basterà che lo faccia fare […]. Ma soprattutto la prego a volermi bene, com’è obbligata in coscienza, tanto più ch’alla fine io sono un buon ragazzo, e le voglio quel bene ch’Ella sa o dovrebbe sapere. Le bacio la mano, il che non potrei fare in Recanati”8.
7 8
G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1304. G. Leopardi, Epistolario, cit., pp. 1233-34.
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Non fu affatto per mancanza di coraggio o per debole convinzione nei propri pensieri, se Giacomo non affrontò mai di petto questo argomento. Fu, invece, la lucida consapevolezza di perdere quell’unica chiave d’accesso all’affetto familiare a farlo desistere dall’impresa, rendendo ancora più salda questa sua decisione. È come se Giacomo fosse un bimbo adagiato nel ventre materno, e la religione una sorta di cordone ombelicale dal quale transitano nutrimento e amore. Atteggiamento, questo, che divenne palese quando il fratello Luigi morì di tisi, il 4 maggio del 1828. Appresa la luttuosa notizia, Giacomo non trovò altra soluzione, per lenire il dolore che aveva prostrato i suoi congiunti e se stesso, che quella di appellarsi alla religione con sincera tenerezza e rientrare così nell’ideologia del suo mondo familiare. Queste le toccanti parole che scrisse al padre: “[…] ora la vita non mi è cara se non in vista del dolore che cagionerei a loro se la perdessi. […] Anch’io in questi giorni ho ricevuto i SS. Sacramenti colla intenzione ch’Ella sa”9.
Leopardi non intraprese mai la carriera ecclesiastica, né tanto meno difese con le parole un’idea religiosa, per lui, ridotta a brandelli dall’impetuoso scontro con la ragione, tuttavia gli fu proprio un pudore delicato mescolato a un profondo senso di rispetto di sé e degli altri, che lo spinse a intavolare schiette discussioni sulla realtà della religione soltanto con chi avesse manifestato una medesima sensibilità sull’argomento. Questo accadde, con ogni probabilità, durante il viaggio alla volta di Pisa, quando strinse amicizia con Tommaso de Ocheda, un bibliotecario nativo di Tortona che aveva lavorato a Londra ventisei anni, esperto in controversie religiose, o ancora nel 1828, quando la carrozza che lo avrebbe riportato a Recanati divenne la sede di un vivace e intenso scambio di pensieri con il ventisettenne abate torinese Vincenzo Gioberti, il quale era uscito dal seminario con una fede tiepida, ma un’ardente passione per gli studi filosofici e la poesia. La decisione, presa da Leopardi, di rigettare in modo definitivo i dettami imposti dalla religione cristiana fu ulteriormente rinsaldata anche dalle esperienze negative derivanti dall’incontro con alcuni di quelli che avrebbero dovuto essere i rappresentanti di quei nobili e sublimi ideali. A Roma, nel 1822, Leopardi rimase letteralmente sconcertato dall’acuto stridore prodotto dall’insulsa leggerezza e vacuità dei discorsi dei prelati di contro alla profondità e altezza che tali conversazioni avrebbero dovuto possedere. Egli condannò, infatti, senza appello, la futilità di interminabili discussioni aventi per oggetto la qualità della voce di un ecclesiastico che 9
Ibid., p. 1365.
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cantava messa10, o ancora, lo squallore di meticolose descrizioni delle “gesta erotiche” che si consumavano nelle alcove dei membri del clero11. Senza peli sulla lingua, così dipinse al fratello Carlo l’abate Cancellieri: “Ieri fui da Cancellieri, il quale è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile […]”12.
Se il soggiorno romano aveva destato in Leopardi turbamento, quello napoletano produsse in lui sommo disprezzo nei confronti di una cultura legata indissolubilmente a un cattolicesimo meschino e conciliante. Nella cultura napoletana, infatti, cui dava voce la rivista Il Progresso, diretta da Giuseppe Ricciardi, con la collaborazione di scrittori e filosofi meridionali, avevano ottenuto un’enorme diffusione le idee puristiche, cattoliche e liberali, unite insieme a un vivo nazionalismo letterario. Leopardi giudicò indegni di stima quegli omuncoli dai pensieri e sentimenti gretti, angusti e limitati che, invece di guerreggiare contro di lui, brandendo con forza le proprie idee, misero in atto un vile sotterfugio, allertando la censura borbonica sull’ateismo del volume e riuscendo così a impedire la stampa delle Operette morali. Sul finire del 1839, due anni dopo la scomparsa di Leopardi, anche la Curia romana avallerà questo giudizio, promuovendo una vera e propria ricerca poliziesca dei manoscritti irreligiosi del pensatore, che durò alcuni anni e il cui successo avrebbe compromesso la conoscenza futura dello Zibaldone. Leopardi, punto sul vivo da questa deprecabile vicenda, indirizzerà a De Sinner il suo sfogo risentito, giungendo a queste conclusioni: “L’edizione delle mie Opere è sospesa, e più probabilmente abolita […]. La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto”13.
Per riscattare la dignità vilipesa, Leopardi, inoltre, compì la propria vendetta scrivendo una satira di stile bernesco contro I nuovi credenti, ferendoli con ripugnanza malcelata, come questi pochi versi testimoniano: “Racquetatevi, amici. A voi non tocca dell’umana miseria alcuna parte,
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Cf. G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1224. Ibid., p. 1227. 12 Ibid., p. 1223. 13 Cf. G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1441. 11
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che misera non è la gente sciocca”14. (vv. 76-78) Queste sono le fertili zolle, sulle quali si svilupperà l’albero frondoso della riflessione analitico-razionale di Leopardi sulla religione.
4.2 Il dio “guida” di Nietzsche Prima, però, di inoltrarci nella descrizione dell’emozione che l’incontro con la religione destò nel piccolo Nietzsche, è utile indugiare brevemente sull’analisi di una considerazione introduttiva. Nietzsche fu protestante, laddove Leopardi fu cattolico. Il protestantesimo è l’insieme dei movimenti religiosi e delle relative dottrine che si sviluppò a seguito della riforma di Lutero. Il nome risale alla “protesta” che i principi e le città luterane della Germania elevarono alla dieta di Spira del 1529 contro la decisione di Carlo V e della maggioranza degli stati di dare esecuzione alla condanna di Lutero e di proibire le innovazioni da lui promosse. Il protestantesimo si caratterizzò come contestazione radicale di istituzioni, dogmi, forme di culto, pratiche religiose della chiesa di Roma, al fine di ristabilire il “vero cristianesimo”. I primi movimenti protestanti furono il luteranesimo e il calvinismo, cui seguirono numerose correnti più radicali. Il luteranesimo è quel movimento religioso che nella teologia, nella disciplina ecclesiastica, nella liturgia e nell’etica è stato improntato dal pensiero e dall’opera di Lutero. Gli scritti su cui esso si fonda furono raccolti nel 1580 nel Liber concordiae, basato principalmente sulla Confessione di Augusta, redatta nel 1530. I suoi principali fondamenti teologici sono il riconoscimento della Bibbia come unica norma in materia di fede e di morale, la dottrina della giustificazione per grazia mediante la fede, il rifiuto del magistero ecclesiastico in nome del sacerdozio universale dei credenti, il libero esame, nel senso che i credenti, nella comprensione della Bibbia, sono assistiti direttamente dallo Spirito Santo. Base della costituzione ecclesiastica è la comunità dei fedeli in cui i pastori, eletti, ma destituibili qualora si discostino dal puro Vangelo, hanno il compito di predicare la parola di Dio e di amministrare gli unici due sacramenti riconosciuti, il battesimo e la santa cena. Nel culto luterano hanno un posto rilevante anche i canti in volgare e la meditazione di pagine bibliche. Dal punto di vista storico, dopo essersi diffuso nella regione tedesca, in particolare in quella centro-settentrionale, fu introdotto come religione di stato nei paesi scandinavi e in Prussia. Attualmente le comunità
14
G. Leopardi, I nuovi credenti, 1835, vv. 76-78.
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luterane più numerose, oltre che in Germania e Scandinavia, le troviamo in America settentrionale e in alcune regioni dell’Asia. Un ultimo cenno è da riservare al protestantesimo liberale, corrente teologica sorta in seno al protestantesimo, specificamente luterano, nel secolo XIX e nei primi decenni del XX. Applicando con radicalità il principio del libero esame, essa si oppose all’ortodossia protestante – conservatrice del dogma definito nelle confessioni di fede dei secoli XVI e XVII e delle forme di culto ereditate dalla Riforma – e approdò a posizioni contestatrici del cristianesimo come dottrina rivelata, come chiesa e come culto. Il protestantesimo liberale non presenta un sistema unitario, ma un insieme di orientamenti diversi. Sul terreno biblico, con E. Renan (Vita di Gesù, 1863) e con A. von Harnack (L’essenza del cristianesimo, 1900), assunse le conclusioni della critica razionalistica della Bibbia, che espungeva il miracolo dai libri sacri e contestava la divinità e la stessa esistenza storica di Gesù (D.F. Strauss, F.Ch. Baur, B. Bauer) e studiò le origini cristiane prescindendo dalla tradizione ecclesiastica antica. Sul terreno filosofico-teologico fu influenzato dalla teologia dell’interiorità di F. Schleiermacher (Discorsi sulla religione), e dalle interpretazioni che del fenomeno religioso davano il criticismo kantiano e l’idealismo hegeliano: Lutero diventava il campione della libertà dello spirito, la Riforma la sua clamorosa rivendicazione, i dogmi cristiani momenti necessari dello sviluppo dello spirito verso la pienezza dell’autocoscienza. In conseguenza di questo orientamento di pensiero, la teologia delle facoltà universitarie viene ridotta all’analisi filologica e storico-critica dei testi biblici, a un’interpretazione storico-sociologica del cristianesimo come idea e come fatto (E. Troeltsch), a una psicologia della religione (R. Otto), ovvero a una delineazione puramente etica del cristianesimo (Harnack). Il cattolicesimo è, invece, il complesso dottrinario e istituzionale della chiesa cattolica romana. Esso concepisce la chiesa come una società fondata da Gesù Cristo, che ne affidò la guida a Pietro e ai suoi successori, i pontefici; a questi seguono gerarchicamente i vescovi, successori degli apostoli, cui spetta il controllo delle chiese locali (diocesi), e infine ai sacerdoti, che attraverso il sacramento dell’ordine, ricevono l’autorità di compiere le sacre funzioni. Dalle chiese nate dalla riforma, il cattolicesimo di differenzia perché pone quale fonte della dottrina, accanto alla Scrittura, la tradizione apostolica di cui la chiesa docente si afferma esclusiva interprete con l’assistenza dello Spirito Santo; perché attribuisce ai sacramenti efficacia ex opere operato, cioè per l’atto liturgico in sé, e non per la pura fede, per l’impegno etico-religioso del credente; perché accentua la chiesa docente (il clero) rispetto a quella discente (i laici) in dottrina, organizzazione e culto. 90
Il cattolicesimo, inoltre, si distanzia dalla teologia liberale nel subordinare l’esegesi, la critica delle istituzioni ricevute, l’elaborazione del dogma al “senso della chiesa”, alla tradizione. Anche Nietzsche, dunque, fu allevato da una famiglia pia e fortemente religiosa. Il padre, Karl Ludwig, era ministro del culto luterano, come entrambi i nonni. Non appena il piccolo “Fritz” iniziò a sgambettare, i territori più amati delle sue esplorazioni furono la buia sagrestia, il cimitero e la canonica. Così rammenta nelle pagine del suo diario autobiografico: “Ma se nell’anima conservo ogni immagine, quella che meno d’ogni altra potrò dimenticare è la familiare canonica: la reco impressa nello spirito a tratti indelebili. […] Ricordo ancora lo studio, al piano superiore. Le file di libri, molti dei quali illustrati, le pergamene, rendevano quel luogo uno dei miei soggiorni prediletti”15.
Ma l’apparenza inganna. Infatti, dentro quel corpicino goffo e incompiuto di bimbo, si celavano i germi di una precoce indipendenza, che trovava piena realizzazione nel passare al vaglio ogni emozione, intellettualizzandola e rendendola perciò dominabile. L’esasperata passione di Nietzsche per la mente e le sue infinite possibilità e conoscenze, gli fece venerare la figura del padre, raffinato e sensibile intellettuale, mentre gli fece provare un imperturbabile e profondo disinteresse per la madre, che per lui non ebbe mai il benché minimo peso spirituale. A questo punto, però, una precisazione è doverosa. Tale situazione non è da imputare esclusivamente al carattere o alle velleità individuali dei genitori di Nietzsche, bensì ai dettami di una cultura borghese che, nella Germania del XIX secolo, ancora relegava la donna alla cucina e alla dispensa, imprigionandola in una decisa mancanza di cultura, prerogativa assoluta e privilegio riservato unicamente agli uomini. Discrepanza, questa, ancor più marcata nelle case dei pastori protestanti, dove l’ideale di cultura classico-umanistica raggiungeva il suo livello più elevato. Nei soli cinque anni in cui Nietzsche poté godere della presenza del padre accanto a sé, dunque, instaurò con lui un legame di una tale intimità e profondità che l’intera vita con la madre non seppe, neppur vagamente, riprodurre. Che emozione, per il piccolo Friedrich, guardare estasiato il papà lavorare ore intere nel suo studio e accompagnarne, con un rispettoso silenzio, il momento sacrale della nascita dei pensieri. Sempre, Nietzsche serbò, in quella sua anima magmatica e ribollente, un luogo tranquillo e
15
F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 9.
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intoccabile in cui far continuare a vivere il ricordo del padre che, in Ecce homo, descrive con parole colme di devozione: “Mio padre morì a trentasei anni: era dolce, amabile, morboso, come un essere fatto per passare oltre […]”16.
O, ancora: “Considero come un grande privilegio avere avuto un tale padre: di lui dicevano i contadini a cui predicava […] che un angelo doveva avere il suo aspetto”17.
Di diversa natura fu, invece, il vincolo che lo unì alla vivace e allegra mamma Franziska. Nietzsche sentì di non essere compreso da questa madre che interagiva con lui alla stessa stregua in cui un animale si rapporta alla propria prole. Il suo spirito pratico, infatti, lo curava in ogni cosa relativa al benessere fisico, ma era totalmente incapace di abbandonare la superficie, per immergersi nei penetrali del suo animo e saggiarne i pensieri. Franziska, inoltre, era caparbiamente convinta che, come i giovani di certe specie animali apprendono, mediante l’imprinting, le proprie caratteristiche specifiche e non si discostano più da esse, così dovesse accadere anche ai suoi figli. Ogniqualvolta, quindi, ella si accorgeva che il piccolo Fritz aveva elaborato idee del tutto dissimili da quelle dei più, invece di essere lusingata dal pensatore in formazione, era avvinta da un timore intenso e improvviso, ingenerato da quella biasimevole differenza per lei inaccettabile. La prima immagine di Dio che Nietzsche plasmò, riprodusse con fedeltà le fattezze dell’amato padre perduto, e l’emozione che lo spinse a consolarsi nell’abbraccio della divinità, fu la paura di aver smarrito quella guida saggia e indispensabile che avrebbe dovuto sostenerne i passi ancora malsicuri. Questa la suggestiva immagine che Nietzsche adopera per rappresentare l’incommensurabilità di quella mancanza: “Quando un albero viene spogliato della sua corona, esso rimane brullo e nudo e gli uccelli ne abbandonano i rami. La nostra famiglia era orba del suo capo […]”18.
Così fu Dio ad assumere il ruolo di necessario sostituto: “Ho vissuto ormai tante esperienze, liete e tristi, che mi hanno rasserenato e afflitto, ma in ogni cosa Iddio mi ha guidato sicuro, come un padre il suo debole fanciullino. […] Ho preso nel mio intimo la salda decisione di dedicarmi per 16
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 17. Ibid., p. 21. 18 F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 13. 17
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sempre al Suo servizio. […] Tutto ciò che mi assegnerà lo accetterò con gioia […]”19.
Nietzsche era, poi, costantemente tormentato dal bisogno di trovare comunque una giustificazione a quell’assenza lacerante. Non la scovò nella sua mente ancora in fase di sviluppo e fu costretto, allora, a proiettare psichicamente al di là di sé la figura di una divinità intesa come “Essere eterno” o più precisamente “principio di bontà” a cui poter ricondurre la ripartizione dei destini “secondo ragione e criterio”20. Nietzsche pensa a Dio come ad un artista in procinto di realizzare un imperscrutabile mosaico, che utilizza gli uomini come tessere, disponendoli secondo le linee di un disegno prefissato. Il caso viene, quindi, radicalmente abolito e ogni singolo accadimento assurge a degno depositario di un profondo significato in merito al Tutto. Nietzsche mantenne un certo fervore religioso fino all’anno 1861, quando ricevette la Confermazione. Un compagno e amico di quel periodo, Paul Deussen, racconta così quell’evento: “Mi ricordo ancora molto bene di quell’aura sacra, distaccata dal mondo […]. Saremmo stati pronti a morire per essere vicini a Cristo e tutti i nostri sentimenti, tutte le nostre azioni erano compenetrati di una letizia sovrumana, che però non poteva durare molto e che, così com’era venuta, presto si dileguò sotto gli effetti dello studio e della vita […]”21.
Entro breve tempo, dunque, l’abbraccio di Dio cominciò a soffocare Nietzsche, che si divincolò per sciogliersi da quell’opprimente stretta, facendo completo affidamento su quella sua mente ormai ben modellata. Nietzsche, infatti, non indugiò oltre nell’emozione e, con piglio risoluto e ardito, fece diventare la religione un problema filosofico e un oggetto di ricerca filologica e di critica razionale. A differenza di Leopardi che, come abbiamo visto, nel compiere tale passaggio non manifestò altrettanta sicurezza e decisione, Nietzsche fu agevolato dall’imboccare senza tentennamenti questa direzione, sia da un’attitudine personale che non gli permise mai di crogiolarsi nell’emozione, sia da un modello religioso di riferimento che induceva all’autonomia e alla contestazione di contro ad un cattolicesimo che esigeva dai credenti assoggettamento e subalternità. Quest’energica inversione di tendenza divenne palese, nel Nietzsche diciassettenne, con il saggio Fato e storia, del 1862. Nel frattempo c’era 19
F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 39. Ibid., p. 98-99. 21 Testimonianza di Paul Deussen, in: C. Pozzoli, Nietzsche (nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei), cit., p. 148. 20
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stata la lettura di autori quali Puškin, Lermontov, von Chamisso, Machiavelli, Hoffman, Petöfi e, con Emerson e Feuerbach, il primo contatto con la filosofia. In questo scritto, escono con impeto dalla penna di Nietzsche dirompenti dubbi, molteplici incertezze e dilemmi, che investono con violenza il cristianesimo e che lo stesso Nietzsche cerca di dissolvere con l’aiuto di una consapevole indagine razionale. Ecco, il suo tentativo: “Se potessimo guardare con occhio libero e spregiudicato alla dottrina cristiana e alla storia della chiesa, non potremmo non enunciare certe opinioni contrarie alle idee generali. Ma così, costretti come siamo fin dai primi giorni nella nostra vita nel giogo dell’abitudine e dei pregiudizi, impediti nello sviluppo naturale del nostro spirito e determinati nella formazione del nostro temperamento dalle impressioni dell’infanzia, crediamo di dover considerare quasi un delitto la scelta di un più libero punto di vista […]”22.
Ma più l’analisi intellettuale avanza nei meandri della religione, più vengono a galla, proliferando con rapidità, innumerevoli aspetti negativi che indispettiscono Nietzsche a tal punto da costringerlo ad un definitivo allontanamento da essa. Il saggio, testé citato, è di particolare rilevanza perché in esso sono presenti, allo stato embrionale, concetti che il Nietzsche maturo renderà più articolati, ma che saranno comunque il fulcro della sua teoria. L’adolescente Nietzsche è già sufficientemente incattivito e umiliato dall’osservare uomini che, seguendo i precetti religiosi, si privano della dignità e si avviliscono, vivendo una vita del tutto simile alla morte, compiacendosi di demandare qualsivoglia scelta nelle mani di un’ipotetica divinità. Queste le sue dure parole: “Noi troviamo che popoli i quali credono a un fato si distinguono per energia e forza di volontà, mentre invece uomini e donne che lasciano andare le cose come vanno in base a principi cristiani falsamente intesi, dato che “quel che Dio ha fatto è fatto bene”, si lasciano guidare dalle circostanze in modo degradante”23.
Ancor più sgomento, Nietzsche rimane dinnanzi alla constatazione che tali persone idolatrano incondizionatamente un Dio che nuoce loro, nella totale inconsapevolezza di averlo creato essi stessi. Riportiamo una frase indicativa in tal senso, che prelude ad un’auspicata e rinnovata conoscenza: “L’umanità acquista la sua virilità attraverso gravi perplessità e ardue battaglie: essa riconosce in sé l’inizio, il centro e la fine della religione”24. 22
F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 108-109. Ibid., p. 115. 24 F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 118. 23
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Al termine della formazione liceale, Nietzsche era ormai pronto a gettarsi a capofitto nel variegato mondo universitario. Dopo la partenza da Pforta, nel settembre del 1864, trascorse i primi giorni da matricola a Naumburg. La scelta dell’università di Bonn e della facoltà di teologia era stata tracciata sul solco di una tradizione familiare salda e onorata. Ben presto, però, Nietzsche capì di attendere ai suoi studi con apatia e una certa neghittosità, di accostarsi alla teologia solo dal punto di vista critico e filologico e di veicolare operosità e solerzia verso interessi di diversa matrice. Alla fine di gennaio del 1865 smise di temporeggiare e prese la decisione definitiva di passare a filologia e di trasferirsi a Lipsia. Se, fino a questo momento, il nuovo corso che Nietzsche aveva dato al suo pensiero in materia religiosa, aveva potuto lavorare in modo sotterraneo, rimanendo occultato tra le pagine del suo diario, ora doveva comparire alla luce del sole, allo scopo di motivare plausibilmente un tale cambiamento. L’occasione fu il suo ritorno a casa per le vacanze di Pasqua. Egli, dapprima si rifiutò di fare la comunione e poi, come un fiume in piena, si scagliò con veemenza contro il cristianesimo in presenza della madre. Dopo la sfuriata, la mamma comprese perfettamente l’antifona e, pur delusa e ferita dalla crudezza di quelle parole, rimase arroccata sulla sua posizione religiosa e seppe preservare immutato l’affetto nei suoi confronti. Quello che più restò amareggiato dalla vicenda, fu lo stesso Nietzsche, che capì di aver combattuto una guerra giusta per debellare una volta per tutte mascheramenti e finzioni, sebbene nel modo sbagliato. È, infatti, come se avesse lottato, armato fino ai denti, con una persona inerme, priva, cioè, delle indispensabili armi dialettiche per tenergli testa. Immediatamente si scusò e si ripromise di trattenersi, in futuro, dall’affrontare simili discorsi in famiglia25. Nietzsche, però, mal sopportava che proprio la mamma fosse sulla sua personale lista nera delle persone che, in ambito religioso, non si arrovellavano mai il cervello per trovare risposte, ma facevano della cieca obbedienza una virtù e della saggezza biblica, sotto forma di citazione, un’autorità. Nietzsche, nel corso della sua vita, s’imbatté in due compagni di viaggio, in particolare, con i quali poté dare libero sfogo a pregnanti discussioni religiose, certo di una loro piena comprensione e corrispondenza di pensiero e grato di un immancabile arricchimento, Franz Overbeck e Lou von Salomé. Overbeck proveniva da una famiglia singolarmente cosmopolita. Il nonno paterno, infatti, era tedesco, emigrato a Londra. Il papà si trasferì, 25 Cf. la testimonianza di Elisabeth Förster-Nietzsche, in: C. Pozzoli, Nietzsche (nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei), cit., p. 155-156.
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come commerciante, a Pietroburgo, dove conobbe la mamma, cattolica di origine francese. Anche Franz nacque, nel 1837, a Pietroburgo, ma studiò in un collegio a Parigi, per poi soggiornare a Dresda e ultimare il suo percorso formativo in teologia a Lipsia e Gottinga. Possedeva completa padronanza della lingua francese, inglese, russa, tedesca, latina, greca ed ebraica. L’aver viaggiato in molti paesi e l’aver assimilato abitudini, mentalità e culture diverse, fece di lui un amico delle sfumature e non un rigido estimatore del bianco e del nero. La sua mente aperta e aliena da pregiudizi era sempre pronta a vagliare idee nuove con inarrestabile entusiasmo e autonomia. Allo stesso modo si mosse sul terreno della teologia. Appoggiandosi al suo solido apparato scientifico, infatti, si accostò al testo sacro non come ad una dottrina rivelata, bensì come ad un documento storico e filosofico. La sua specialità era l’esegesi del Nuovo Testamento e la storia antica della Chiesa. Il fatidico incontro avvenne a Basilea. Nel 1870, infatti, Overbeck arrivò all’università della città elvetica per occuparvi la cattedra di teologia, laddove Nietzsche era, già da un anno, docente di filologia classica. Abitando nella stessa casa, poi, ebbero la possibilità di conoscersi e divennero, in breve tempo, ottimi e fidati amici. Non ci fu mai stanchezza sufficiente da farli rinunciare a quelle interminabili maratone serali, in cui la religione veniva scandagliata e sezionata con precisione millimetrica. Condivisero gioie e dolori, ma soprattutto pensiero. In una lettera, indirizzata a Malwida von Meysenbug, con queste stuzzicanti parole la rende partecipe degli interessanti sviluppi che tale sodalizio stava fruttando: “Nella casa dove abito nasce una cosa nuova che già in anticipo merita incoraggiamento […]. Vi lavora il mio compagno […] e fratello spirituale prof. Overbeck, il più libero teologo, credo, che esista oggi […]. Per quel che ne so (e io sono interamente d’accordo con lui) egli metterà in pubblico alcune terribili verità. Direi che Basilea sta diventando un luogo pericoloso…”26.
Louise Salomé, invece, era nata a Pietroburgo il 12 febbraio 1861. Il padre, Gustav von Salomé, era originario della Francia meridionale. Successivamente si trasferì con i genitori a Pietroburgo dove, infervorato dalla vittoria russa su Napoleone, si decise ad abbracciare la carriera militare. La sua ascesa in essa fu talmente rapida da attirare l’attenzione dello zar Nicola che subito lo chiamò a corte, promuovendolo al grado di generale dello Stato Maggiore. Sposò tardi Louise Wilms, discendente da
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F. Nietzsche, Epistolario (1865-1900), a cura di B.Allason, cit., p. 83.
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una facoltosa famiglia di industriali tedeschi, dalla quale ebbe sei figli, cinque maschi e un’unica bambina, Lou, appunto. L’infanzia di Lou trascorse nella bambagia del sincero e tenero affetto dell’anziano padre e nella durezza del freddo distacco della madre. Il carattere forte e cocciuto della bimba, però, le consentiva di ottenere sempre ciò che desiderava. Così, anche l’immagine di Dio che ella formò nella sua mente, era quella di un’entità paziente e disponibile a soddisfare ogni sua esigenza. Lou, infatti, placcava Dio tutte le sere per fargli resoconti dettagliati e non sempre veritieri delle sue imprese giornaliere. Il silenzio che riceveva in cambio, veniva interpretato come segno di costante interesse e rispetto. Ma, un giorno, dopo un banale incidente, la bambina si aspettò da Dio un intervento più deciso che non giunse, e da allora capì che quel silenzio altro non era che assenza. La “morte di Dio” avvenne quasi in contemporanea con la scomparsa dell’amatissimo padre. Lou, privata degli affetti a lei più cari, trovò esclusivo conforto nella passione per la conoscenza. Nietzsche la conobbe a Roma nel 1882 e fu avvinto dal constatare che Lou, una donna, aveva vissuto esperienze del tutto simili alle sue, reagendo ad esse nel suo identico modo. Se ne innamorò. Il loro fare l’amore non si concretizzò nell’unione dei corpi, bensì nella compenetrazione dei pensieri. Ascoltiamo, quindi, le delicate parole di Lou: “Mi ero ripromessa di prendere appunti sulle nostre conversazioni, ma la cosa è quasi impossibile: esse si prestano troppo poco […] a farsi racchiudere in singoli enunciati ben definiti. E in realtà il vero contenuto dei nostri discorsi sta in ciò che non viene propriamente espresso, ma nasce da sé nell’incontro a metà strada di ciascuno di noi”27.
Lou, invece, fu rapita dalla visione religiosa di cui Nietzsche si fece portavoce e ben la delineò in alcuni stralci del suo diario: “Proprio all’inizio della mia conoscenza con Nietzsche scrissi una volta a Malwida dall’Italia che la sua era una natura religiosa, suscitando in lei forti perplessità. Oggi vorrei doppiamente sottolineare questo concetto. Il fondamento religioso della nostra natura è ciò che ci accomuna […]. Nello spirito libero il sentimento religioso non può riferirsi, al di fuori di sé, a nessun dio e a nessun cielo […]. Nello spirito libero, l’esigenza di religiosità […] può trasformarsi, quasi ripiegandosi su se stessa, nella forza eroica del proprio essere […]”28.
27
Triangolo di lettere (carteggio Friedrich Nietzsche, Lou von Salomé e Paul Rée), cit., p. 158. 28 Ibid., p. 159.
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Lou ebbe la giusta intuizione. A noi, ora, il compito di tratteggiare con scrupolosità la meditazione razionale di Nietzsche avente per oggetto la religione.
4.3 Leopardi, Nietzsche e la religione antica Non c’è domanda più calzante, per instillare nelle nostre menti il tarlo del dubbio e farci calare nel ruolo di indagatori dell’occulto, di quella che Nietzsche ci rivolge all’inizio del Crepuscolo degli idoli: “Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?”29.
Leopardi, poi, gli dà corda, sostenendo che alla scaturigine di una simile perplessità vi sia proprio la religione, che ha avvezzato “gli uomini a guardar più alto del campanile” e “a mirar più giù del pavimento”30, spingendoli ad abbandonare le credenze naturali e spontanee. Il problema non consiste, infatti, nel tentativo che l’individuo mette in atto per diradare i dubbi che si protendono oltre la concretezza dell’esperienza quotidiana, bensì alberga nelle barcollanti e inadeguate risposte che l’istituzione religiosa gli propina. Al che, Nietzsche ribatte: “L’ateismo, per me, non è un risultato, e tanto meno un avvenimento, – come tale non lo conosco: io lo intendo per istinto. Sono troppo curioso, troppo problematico, troppo tracotante, perché possa piacermi una risposta grossolana. Dio è una risposta grossolana, una indelicatezza verso noi pensatori –, in fondo è un grossolano divieto che ci vien fatto: non dovete pensare!”31.
È come se la religione fosse un enorme serpente intento a mordersi la coda. Da un lato, infatti, essa incita l’uomo all’elevazione della mente, per costringerlo poi, dall’altro, ad accettare concezioni che ne minerebbero irrimediabilmente la basilare onestà intellettuale. Siamo ormai ben equipaggiati per cominciare a percorrere il tragitto che ci farà addentrare fin nel cuore della riflessione religiosa leopardiana e nietzschiana. Cammineremo fianco a fianco di entrambi i nostri pensatori per parte del tragitto. Ad un certo punto, però, Leopardi si fermerà con l’intenzione di riposare, e noi termineremo l’itinerario programmato con il solo Nietzsche. Il nostro punto di partenza sarà il cercare di motivare l’enorme interesse destato, in Leopardi e Nietzsche, dalle vicende narrate nella Genesi e 29
F .Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 25. G. Leopardi, Zibaldone, 1060, 18 maggio 1821. 31 F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 33-34. 30
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l’intenso bisogno di accostarsi ad esse, impugnando saldamente tra le mani una visione propria e originale. Leopardi esordisce, dunque, con questa considerazione: “Osservate che il mio sistema è l’unico che possa dare alla narrazione della Genesi, una spiegazione quanto nuova, tanto letterale, facile, spontanea, anzi tale che non può esser diversa, senza o far forza al testo, o considerarlo come assurdo”. (Zib., 435, 19 dicembre 1820)
È come se l’analisi religiosa dei nostri due filosofi fosse un grande albero frondoso, i cui rami, sparsi qua e là nel cielo, avessero conquistato porzioni diverse di esso, pur mantenendosi ancorati ad un’unica salda radice. Questa, come già in precedenza abbiamo avuto modo di sottolineare, è rappresentata dal cambiamento fondamentale di cui l’uomo è protagonista, che si concretizza, a sua volta, nel progressivo allontanamento dalla sua stessa natura, o perlomeno da parte di essa. Il racconto della Genesi potrebbe assumere così un ruolo di spicco nella meditazione, assurgendo a spiegazione simbolica di tale nevralgica concezione. Se, infatti, facciamo indossare a Dio i panni della natura e all’uomo quelli della ragione, il gioco è fatto32. Gli idilliaci rapporti che l’essere umano intrattenne con Dio, agli albori della creazione, quando si deliziava della sua compagnia e dei numerosi trastulli che il lussureggiante giardino dell’Eden, apprestato proprio per salvaguardare il suo benessere, gli elargiva copiosi, indicano emblematicamente la capacità, che fu propria dell’uomo antico, di realizzare pienamente se stesso, riuscendo ad armonizzare la parte razionale con quella corporea e istintuale, ossia ragione e natura. Il forzato allontanamento dell’uomo dal paradiso terrestre, invece, decretato da un Dio risentito per il fatto che la sua creatura aveva agito di testa propria, contravvenendo al suo ordine perentorio, e aveva gustato il saporoso e proibito frutto dell’albero della conoscenza, delinea la situazione vissuta dall’uomo moderno, il quale decise di soggiogare la propria dimensione istintuale e corporea, tributando dominio assoluto alla sola ragione. Una tale presa di posizione da parte dell’individuo produsse un radicale distacco da una cospicua sezione della sua natura, qui egregiamente raffigurata da Dio. Per Leopardi, quindi, la decadenza dell’uomo da quello stato di felicità primigenia non deriva dalla diminuzione dell’uso della ragione, bensì da un suo eccessivo incremento. A causa di ciò, Leopardi rimbrotta, infatti, quei teologi che, considerando l’aumento della ragione e del sapere come bene assoluto per l’individuo, si ostinano a spiegare che il peccato di cui l’uomo si macchiò, consistette nella ribellione della carne allo spirito, e non 32
Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 393-394, 9-15 dicembre 1820.
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viceversa, rendendo perciò assurde e contraddittorie le parole del testo sacro33. Nietzsche concorda con Leopardi su questo punto, ovvero nell’imputare proprio ad un accrescimento di conoscenza, verificatosi nell’individuo, la cagione di quell’immediato allontanamento sancito da Dio, anche se la spiegazione da lui fornita si sviluppa facendo perno sulla paura che tale situazione produsse in Dio. Ma, ascoltiamo la sua disamina: “Il vecchio Dio fu colto da una paura maledetta. L’uomo stesso era divenuto il suo più grande errore, si era creato un rivale, la scienza rende simile a Dio […]. Risposta: cacciamo l’uomo dal paradiso! La felicità, l’ozio inducono a pensare – tutti i pensieri sono cattivi pensieri… L’uomo non deve pensare”34.
Il nostro attardarci ad esaminare con attenzione questa essenziale teoria, resta oscuro da intendere, se non viene rapportato all’idea che Nietzsche e Leopardi plasmarono della religione. Per essi, infatti, la religione non fu mai verità, blocco granitico e massa compatta, priva di modificazioni, sussistente in sé, ma produzione diretta dell’uomo che, come tale, ne riproduceva con accuratezza le peculiarità. Se, dunque, l’essere umano subisce mutamenti, anche la struttura dell’immagine religiosa a cui ha dato vita, sarà investita da un subitaneo cambiamento. Leopardi, in un pensiero dello Zibaldone, chiarisce nettamente il suo punto di vista: “Ripetono spesso gli apologisti della Religione che il mondo era in uno stato di morte all’epoca della prima comparsa del Cristianesimo […]. Quindi conchiudono che questo non poteva essere effetto se non dell’onnipotenza divina, che prova chiaramente la sua verità, che l’errore perdeva il mondo, la verità lo salvò. Solito controsenso. Quello che uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni; il Cristianesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione”. (Zib., 334-35, 17 novembre 1820)
Ancora una volta, Nietzsche condivide l’affermazione di Leopardi, ed aggiunge: “[…] nessuna religione ha mai finora contenuto […] una verità. Poiché ciascuna è nata dalla paura e dal bisogno e si è insinuata nell’esistenza fondandosi su errori della ragione […]”35.
33
Ibid., 434-436, 19 dicembre 1820. F. Nietzsche, L’anticristo, Adelphi 1970, pp. 67-68. 35 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, cit., p. 91. 34
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Neppure i martiri, prorompe ancora Nietzsche nell’Anticristo, che sacrificarono la loro stessa vita per difendere la propria fede, riuscirono a dimostrare alcunché a favore della verità di essa, se non la forza della fede in ciò che si crede la verità. Assistiamo, così, ad un deciso capovolgimento di prospettiva. Ora è Dio ad essere sagomato a immagine e somiglianza dell’uomo. A tal proposito, nuovamente Leopardi puntualizza: “L’antica e la moderna Divinità è parimente formata sulle idee puramente umane, benché diverse secondo i tempi. Il suo modello è sempre l’uomo”. (Zib., 1470, 8 agosto 1821)
Tutto ciò confluisce, dunque, in un risoluto politeismo, l’atmosfera del quale, ben viene descritta da Nietzsche: “Nel politeismo era come preformata la libertà di spirito e la multiforme spiritualità dell’uomo: la forza di crearsi occhi nuovi e personali: cosicché per l’uomo soltanto […] non esistono orizzonti e prospettive eterne”36.
Richiamando alla mente un discorso che già nei capitoli precedenti aveva catturato la nostra attenzione, sarà per noi estremamente facile comprendere, come per Leopardi e Nietzsche, la religione, pur essendo errore, produzione umana e non verità, mantenga un’accezione positiva fintantoché si presenta come “errore vitale”, ossia errore capace di incentivare la passione dell’uomo per la vita. Perfettamente conforme ad una simile aspettativa è, a parere di ambedue i nostri pensatori, la religione antica, rappresentata simbolicamente, nelle loro riflessioni, dalla religione greca degli dei olimpici. Con la sovranità di Zeus ha inizio la vera e propria società divina: essa ha scelto l’Olimpo quale sua dimora celeste. Benché gli dei vivano, dunque, nelle loro regge costruite da Efesto sull’Olimpo, partecipano tuttavia calorosamente alla vita degli uomini, alle loro passioni, alle loro imprese. Anzi, gli dei possiedono in sommo grado le qualità fisiche e morali degli esseri umani e giungono perfino a scatenare litigi e zuffe a causa loro. Omero, nel XXI libro dell’Iliade, ci descrive, ad esempio, una vera e propria battaglia degli dei che avevano attivamente preso parte alla guerra di Troia al fianco dei loro protetti. Il fatto più considerevole, quindi, introdotto dall’epica omerica consiste senz’altro nell’attribuzione d’uno spiccato carattere personale e umano all’essere divino. Il dio assume, cioè, le caratteristiche proprie di un individuo, a prescindere da possibili connessioni con i fenomeni della natura. In realtà la poesia epica rappresenta un mondo 36
Id., La gaia scienza, cit., p. 173.
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di dei, avendo come modello il regno miceneo con le sue istituzioni e le sue rigorose gerarchie. Lo stato olimpico risulta, perciò, essere una monarchia con un’aristocrazia faziosa e irrequieta. Gli antichi costrinsero, dunque, gli dei a condividere la loro stessa vita e, così facendo, l’ammantarono di senso ed elevato valore. Azzeccata la considerazione di Nietzsche: “Così gli dei giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente!”37. Gli antichi, inoltre, seppero foggiare un’immagine divina, facendo in modo di diventarne essi stessi il modello. Leopardi così ci motiva questa scelta: “[Gli antichi] umanizzando gli Dei, non tanto vollero abbassar questi, quanto onorare e innalzar gli uomini; e ch’effettivamente non più fecero umana la divinità che divina l’umanità […]”. (Zib., 3495, 22 settembre 1823)
A tal punto essi amarono e credettero in se stessi e nella vita, che si impegnarono a tratteggiare nella divinità non soltanto la luce delle loro virtù, ma anche le zone d’ombra dei loro difetti. Nietzsche, infatti, commenta: “Quale fu l’immenso bisogno da cui scaturì una così splendente società di esseri olimpici? […] Niente ricorda qui ascesi, spiritualità e dovere: qui parla a noi soltanto un’esistenza rigogliosa, anzi trionfante, in cui tutto ciò che esiste è divinizzato, non importa se sia buono o malvagio”38.
Nella mitologia greca, infatti, numerose sono le storie che narrano di dei incattiviti dalla gelosia, rancorosi o accecati dalla sete di vendetta. Come Afrodite che, rosa dall’invidia che la lucente bellezza della giovane principessa Psiche aveva suscitato in lei, volle renderla per sempre infelice, o la tremenda vendetta di Circe, figlia del Sole, che, innamorata respinta del giovane dio marino Glauco, rivolse il suo odio verso Scilla, l’ignara fanciulla da lui perdutamente amata. Leopardi e Nietzsche, appoggiandosi, quindi, sulla solidità di tali premesse, non stimarono infinita e incolmabile la distanza tra la dimensione umana e quella divina. Nietzsche afferma: “I Greci vedevano sopra di sé gli dei omerici non come padroni, e se stessi sotto di loro non come servi […]. Essi vedevano per così dire solo l’immagine riflessa degli esemplari meglio riusciti della loro stessa casta, cioè un ideale non un opposto della loro natura. Ci si sente reciprocamente imparentati […]. L’uomo pensa nobilmente di sé, quando si dà simili dei […]”39.
37F.
Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 33. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 31. 39 Id., Umano, troppo umano, I, cit., p. 98. 38
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E Leopardi fa da eco a quello stesso pensiero: “Tanto grande idea ebbero gli antichi dell’uomo e delle cose umane, tanto poco intervallo posero fra quello e la divinità […], ch’essi stimarono la divinità e l’umanità potersi congiungere insieme in un solo subbjetto, formando una persona sola”. (Zib., 3495, 22 settembre 1823)
Il cenno fatto da Leopardi, nel passo dello Zibaldone appena citato, si riferisce specificamente alle cosiddette “semidivinità”, ovvero a quegli esseri nati dall’unione di un dio con un mortale. In ambito mitologico, i racconti che riferiscono di tali avvenimenti prendono il nome di “metamorfosi”. A questo ciclo appartengono tutte le storie d’amore di Zeus con bellissime principesse o regine mortali. Una su tutte. Europa era una splendida giovane, figlia di Agenore, re di Sidone e Telefassa. Ella era così piena di fascino da attrarre l’attenzione del padre degli dei, il celeste Zeus che, non appena gli si presentò l’occasione, la rapì, portandola sull’isola di Creta. Divenne sua compagna e da quell’amore cretese nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedonte, e una meravigliosa civiltà. I greci, poi, furono legati con una tale intensità a questa vita da immaginare l’oltretomba come una sorta di languente brutta copia di essa, mentre il defunto, costretto ad un “esilio forzato”, rimaneva la stessa persona, con la sua individualità cosciente di sé. Il nome Ade indica nello stesso tempo il luogo invisibile del regno dei morti e il suo sovrano. Ade è raffigurato come una divinità severa e inflessibile difficilmente disgiungibile dalla realtà che la morte rappresenta per l’uomo. In quanto dio sotterraneo, egli è congiunto anche alle fertili e feconde ricchezze vegetali e minerali della terra. Anche qui è reperibile un rapporto simbolico tra la vita e la morte: nel germinare dei semi è la vita che sorge dalla morte; la terra restituisce la vita a ciò che in altra forma era morto. L’uomo moderno, invece, spezzò quel fragile equilibrio tra l’aspetto razionale e quello corporeo-istintuale di sé, facendo in modo che la ragione diventasse unica potenza egemone. Tale cambiamento produsse una religione moderna, simboleggiata dal cristianesimo, che si adoperò, ingegnandosi in tutti i modi, affinché l’uomo guardasse questa vita con occhi colmi di disprezzo e, come una tartaruga, ritraesse dentro di sé ogni istinto e passione, vivendo come puro cervello pensante. Sia Leopardi che Nietzsche suffragarono la medesima tesi, ossia l’attribuire connotazioni fortemente negative ad una simile idea religiosa, basandosi però su ragioni valide ma differenti. Per meglio assaporare, quindi, la ricchezza di queste sfumature, seguiremo dapprima il pensiero di Leopardi, lasciandoci trasportare poi da quello di Nietzsche. 103
Un appunto introduttivo è indispensabile. Leopardi, infatti, adotterà una duplice posizione concettuale rispetto alla religione, mentre Nietzsche porrà in essere un atteggiamento risoluto e adamantino.
4.4 Il Cristianesimo: “parto mostruoso della ragione” per Leopardi Possiamo proficuamente dare l’avvio alla nostra analisi con la lettura di un brano significativo dello Zibaldone, nel quale Leopardi asserisce: “L’uomo non vive d’altro che di religione o d’illusioni. Questa è proposizione esatta e incontrastabile. Tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà di ragionare […] si ucciderebbe infallibilmente di propria mano, e la razza nostra sarebbe rimasta spenta nel suo nascere per necessità ingenita, e sostanziale”. (Zib., 216, 18-20 agosto 1820)
L’edificio della meditazione religiosa leopardiana poggia saldamente sui pilastri portanti del suo sistema filosofico. Leopardi sostiene in primo luogo, infatti, che l’uomo non sarebbe in grado di continuare a vivere, sorretto unicamente dalle informazioni reperite dalla pura ragione, se queste non fossero necessariamente mescolate alle illusioni. L’uomo antico, dunque, credeva con tenacia alle cosiddette “illusioni naturali”, quelle, cioè, che la natura aveva messo a punto per proteggerlo dalla crudezza della verità, grazie ad una ragione che, ancora allo stadio iniziale del suo sviluppo, non possedeva forza sufficiente per palesarne l’inconsistenza e la labilità. I problemi cominciano a sorgere, infatti, a parere di Leopardi, proprio nell’uomo moderno che, avendo puntato tutto sulla sola ragione, ha promosso un tale rapido impulso per farla progredire, da essere ormai perfettamente conscio della falsità di quegli inganni dolciastri. È a questo punto che entra trionfalmente in scena la religione cristiana e mette una toppa alla drammatica situazione venutasi a creare. Pur essendo, infatti, anch’essa illusione, quindi errore, come le precedenti, è, a loro confronto, più potente e gagliarda perché stimata vera dalla ragione. L’uomo possiede un’ultima possibilità per tornare a credere vere le illusioni, ovvero sottoporle al vaglio rigoroso e attento della ragione e ottenerne il beneplacito. Una domanda, però, sorge spontanea. Come fa la ragione a dare il suo consenso alla religione cristiana che è pur sempre errore e non verità? È qui che arriviamo a toccare il nucleo pulsante del ragionamento leopardiano. La ragione, infatti, portato a termine il percorso del suo sviluppo, non soltanto ha raggiunto la perfezione del suo essere, ma ha anche saggiato i limiti ad essa assegnati.
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Essa quindi accetta come verità il cristianesimo perché, essendo basato sulla “rivelazione”, ne trascende completamente i confini. La rivelazione è, infatti, per Leopardi, un sistema di verità, espresse nelle proposizioni di fede, che si pretendevano manifestate da Dio perché non altrimenti accessibili alla ragione umana e non spiegabili adeguatamente da essa. In un primo tempo, perciò, Leopardi valuta positivamente la religione cristiana, percependola come solida base e valido sostegno per numerose e nuove illusioni, la cui realizzazione è affidata all’“altra vita”40. Ben presto, però, questo suo convincimento si trasforma totalmente, capovolgendosi. Leopardi, infatti, si rende conto che tutte le illusioni e le speranze che la religione si impegna, di fronte all’uomo, ad attuare nell’ipotetica vita futura, non possono fungere per lui da conforto o sollievo all’inevitabile dolore di questa vita. La promessa di una felicità “grandissima e somma ed intiera”41, ma, né temporale, né materiale e nemmanco percepibile dai sensi, non riesce ad allettare in alcun modo l’essere umano. Come può, dunque, pretendere che egli la brami ardentemente o si strugga di desiderio per raggiungerla, se tale felicità, eludendo scaltramente i limiti della materia, rimane inconoscibile e addirittura inconcepibile per la mente dell’uomo? A tal proposito, Leopardi commenta con sagacia: “Or tutti questi desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti, ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all’uomo, promettere all’infelice una felicità celeste, benché intera e infinita, e superiore senza paragone alla terrena […], si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo […]”. (Zib., 3501, 23 settembre 1823)
A conti fatti, quindi, la religione cristiana non appare più, agli occhi di Leopardi, una religione “promettente” che consola, bensì una religione “minacciante”42 che atterrisce l’individuo con pressanti intimidazioni di future pene e castighi, questi sì sensibili e materiali. Leopardi sconsolato, non riuscendo a trattenere oltre queste parole, sbotta: “Se la religione non è vera, s’ella non è se non un’idea concepita dalla nostra misera ragione, quest’idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella mente dell’uomo: è il parto mostruoso della ragione il più spietato […]”. (Zib., 817, 19 marzo 1821)
40
Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 393-451, 19 dicembre 1820. G. Leopardi, Zibaldone, 3497, 23 settembre 1823. 42 Ibid., 3507, 23 settembre 1823. 41
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Per chiarire ancor più la crudeltà e il raccapriccio che Leopardi oramai assegna alla religione cristiana, è d’estremo interesse riportare una parte considerevole del lungo pensiero che, nello Zibaldone, egli dedica alla descrizione della madre, perfetto esempio di cristiana praticante: “Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. […] Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero interamente alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n’era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll’opinione i loro successi (tanto de’ brutti quanto de’ belli, perché n’ebbe molti), e non lasciava passare anzi cercava studiosamente l’occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce”. (Zib., 353-55, 25 novembre 1820)
Per il cristianesimo, dunque, la vita non è altro che “male assoluto”43, in quanto brulica di innumerevoli tentazioni e succulente occasioni di peccato, ma anche ineluttabile banco di prova per verificare se il singolo individuo possiede i requisiti necessari per godere del premio o per straziarsi eternamente con il castigo. Immaginiamoci un’imponente piramide egizia. È come se la stanza che ospita la mummia del faraone e le magnifiche ricchezze che fungono da viatico per il suo viaggio nell’aldilà simboleggiassero quell’ipotetica vita futura che l’uomo deve raggiungere, e le molteplici stradine, infarcite di trappole ingegnose da un accorto e prudente progettista con l’intenzione di impedire ad un ladro sacrilego di profanare la tomba, depredandone l’immensa fortuna, rappresentassero invece questa vita mortale. L’essere umano, quindi, metaforicamente, indosserebbe i panni di questo supposto ladro. Un ventaglio di possibilità gli si paleserebbero innanzi. Egli potrebbe, infatti, imboccare 43
G. Leopardi, Zibaldone, 2382, 2 febbraio 1822.
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immediatamente la via giusta, ottenendo così il suo obiettivo, oppure potrebbe perdersi nelle strette gallerie sotterranee, evitandone però i trabocchetti, o ancora, cadere in essi senza più speranza. Seguendo il ragionamento di Leopardi, dunque, se la religione cristiana considera questa vita come male, in quanto pullulante di sollecitazioni al peccato, e, d’altro canto, impedisce per sfuggirle che l’individuo si dia da sé la morte, o l’uomo in questione è favorito dalla sorte a tal punto da morire in tenera età e passare direttamente alla “vera vita” senza impedimenti, oppure deve adoperarsi a sfiorare soltanto questa vita, senza mai immergersi in essa, alla stessa stregua di un insetto acquatico, abile danzatore a pelo d’acqua. La situazione creatasi, prorompe Leopardi, consistente in un rannicchiamento dell’essere umano all’interno di sé e in una totale chiusura al mondo, non ha più il diritto di essere definita “vita”, dal momento che tale più non è. Leopardi conia, quindi, un termine certamente più attinente per delineare la ferocia di quell’assurdo proponimento, quello di “nonesitenza”44. Il prototipo del perfetto cristiano, infatti, dovrebbe trascorrere l’intera vita a lambiccarsi il cervello al fine di riuscire ad annullarla, questa stessa esistenza, privandosi, se necessario, anche dell’aria e della luce. A detta del cristianesimo, poi, l’individuo riceve, per la realizzazione di un simile, particolareggiato disegno, un validissimo aiuto proprio dalle disgrazie. Più sarà, infatti, travagliato dalla malattia o attanagliato da indigenza, o ancora, provvisto di particolare bruttezza e deformità, più facilmente saprà rinunciare alla vita, astenendosene quasi completamente. Ha il sapore dolceamaro della beffa, pensa Leopardi, reputare quelle avversità, quelle “croci”45, come incontrastabili segni di benevolenza divina. Leopardi ci spinge, inoltre, a riflettere con maggiore attenzione. Il cristiano che, aderendo con rigore alle norme prescritte dalla religione, si fa assorbire totalmente da sé, dal suo progetto e da una piena “inattività”46, non solo non procura danno alle persone che gli stanno accanto, ma neppure può far loro del bene. Questa indifferenza, questa freddezza, tipica di chi è concentrato unicamente su sé, non è paragonabile ad una suprema forma di “egoismo”47? È degno di approfondimento anche lo studio meticoloso delle argomentazioni, disseminate da Leopardi in più punti dello Zibaldone, aventi per oggetto proprio la figura di Dio. Richiamiamo, dunque, 44
G. Leopardi, Zibaldone, 2382, 2 febbraio 1822. Ibid., 2457, 4 giugno 1822. 46 Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 253, 29 settembre 1820. 47 G. Leopardi, Zibaldone, 1686, 13 settembre 1821. 45
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l’attenzione su un particolare pensiero che già nei precedenti capitoli avevamo preso in esame, nel quale Leopardi afferma con vigore: “[…] il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo”. (Zib., 1341, 18 luglio 1821)
Per Leopardi, quindi, non esiste alcuna ragione assoluta, ovvero universale, eterna ed immutabile che, preesistendo alle cose, imponga loro un modo specifico di essere. Non c’è, infatti, alcun ente che, condensando in sé la perfezione assoluta, assurga ad unico modello da imitare. Tutto diventa, perciò, relativo, in quanto giudicabile soltanto come puro fatto reale, ossia a partire dalla sua esistenza concreta. Al che, Leopardi aggiunge: “Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio”. (Zib., 1342, 18 luglio 1821)
Queste elucubrazioni portano effettivamente Leopardi a demolire una particolare immagine di Dio, quella del Dio cristiano, trascendente e creatore, che ha lavorato una materia morbida e informe secondo il modello voluto, legiferando a proprio piacimento. Anzi, commenta nuovamente Leopardi, uno degli errori più comuni in cui l’uomo sovente incappa, è quello di pensare che il sistema di cose nel quale è immerso, sia l’unico possibile. Così egli, per formare l’idea di Dio, tende a proiettare al di fuori di tale ordine di cose, ciò che stima buono e perfetto in esso, tributandogli assolutezza e non relatività. Leopardi, poi, per rimarcare la pochezza e la limitatezza di un simile modo di pensare fa un rapido cenno a Senofane48, il quale era profondamente convinto che se un animale, un bue per esempio, avesse avuto la facoltà di dipingere la propria divinità, essa avrebbe avuto non altre fattezze che quelle dello stesso bue. Abbandonata la grettezza di tale ragionamento, Leopardi approda ad un nuovo, interessante punto di vista che collima pienamente con i risultati a cui è giunta la sua meditazione filosofica. Se, infatti, le cose esistono, ciò significa che esse, prima di arrivare ad un’esistenza concreta, erano necessariamente possibili. È, quindi, l’infinita possibilità che precede l’esistenza reale delle cose, e se fosse proprio questa l’essenza di Dio? Leopardi chiarisce: 48
G. Leopardi, Zibaldone, 1469, 8 agosto 1821.
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“Io considero dunque Iddio, non come il migliore di tutti gli esseri possibili, giacché non si dà migliore né peggiore assoluto, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili”. (Zib., 1620, 3 settembre 1821)
L’essenza di Dio, però, non risulta totalmente enucleata se all’infinita possibilità non viene unita “l’infinita onnipotenza”49, quel potere, cioè, che garantisce alle cose il passaggio dalla mera possibilità all’esistenza. Ecco Dio! È necessario fermarci ad esaminare un’ulteriore considerazione, quella inerente alla perfezione di un tale Dio. Se, infatti, noi ci ostiniamo ad attribuire a Dio una sola perfezione, ossia un unico modo di esistere, egli certo perfetto non sarà, dal momento che, come abbiamo visto, non esiste una sola “perfezione assoluta”. L’assolutezza della perfezione sarà raggiunta da Dio soltanto nel caso in cui egli esista in tutti i possibili modi, e in tutti sia perfetto, cioè perfettamente conveniente in relazione alle caratteristiche distintive di ogni singolo modo di esistere50. Affinché tutto ciò sia realizzabile Dio dovrà, dunque, accogliere in sé, come qualità fondamentali, non solo attributi che sono parte integrante del nostro sistema di cose, bensì anche attributi che si opporranno nettamente all’idea che noi abbiamo dell’estensione del possibile. I cosiddetti “misteri”, come quello della Trinità e dell’Eucarestia, alla luce di questa riflessione, possono essere intesi come esempi ipotetici di due tra gli infiniti attributi di Dio, che esulano completamente dalla nostra maniera di concepire e ragionare51. Un altro sbaglio, altrettanto gravido di conseguenze, sarebbe escludere affatto la materia dall’essenza di Dio. Così facendo, infatti, gli negheremmo l’opportunità di un’esistenza completa, quindi la perfezione. La presenza, poi, della materia in Dio, non sottintenderebbe necessariamente una sua esistenza solo materiale. Dio può esistere tranquillamente in due o più modi apparentemente contrari tra loro, senza ingenerare la benché minima perplessità assoluta52. Leopardi, inoltre, mentre considera questa argomentazione, fa un fugace cenno all’opinione dei teologi, il che fa pensare che egli abbia in mente un’eco di un antica disputa sulla “corporeità di Dio”, di cui era al corrente fin dall’epoca delle sue letture giovanili patristiche. Nei Fragmenta, infatti,
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Ibid., 1645, 5-7 settembre 1821 Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 1625-26, 4 settembre 1821. 51 Ibid., 1627, 4 settembre 1821. 52 Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 2073-75, 8 novembre 1821. 50
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Leopardi sottopose ad attento esame l’opera di Militone di Sardi, De incarnato Deo, dedicata interamente all’argomento. Per Leopardi, quindi, Dio è da intendersi come quell’unico principio in grado di fornirci una spiegazione del reale. La meditazione filosofica matura conduce Leopardi a percepire la realtà essenzialmente come male, come sofferenza fine a se stessa. Con crude parole, ci rende partecipi delle conclusioni a cui è giunto: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è”. (Zib., 4174, 22 aprile 1826)
È, pertanto, evidente che una realtà, munita di simili caratteristiche, non potrà avere alla sua base altro che un principio negativo a sua volta, tale da fondare l’ordine esistente sul male, includendolo in esso necessariamente come “essenziale” e non “accidentale”53. Se, dunque, secondo Leopardi, è l’esistenza stessa ad essere una “mostruosità” colma di patimento, allora l’infelicità non sarà più prerogativa esclusiva del solo genere umano, bensì si estenderà agli animali, alle piante, insomma a tutto ciò che è. Celeberrimo, a tal proposito, il passo dello Zibaldone in cui Leopardi descrive un giardino assolato, ma “sofferente”: “Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. […] Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là uno zefiretto va stracciando un fiore […]”. (Zib., 4175, 22 aprile 1826)
Leopardi propaga, poi, tale insolubile e funesta infelicità addirittura all’intero universo, come viene ribadito nel Dialogo della Terra e della Luna, in cui si arriva alla conclusione che “il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo”54. La terra viene ridotta così ad interpretare un ruolo marginale nel sistema planetario e l’umanità viene privata persino del monopolio di sentire l’infelicità. 53 54
G. Leopardi, Zibaldone, 4511, 17 maggio. G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 518.
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L’orizzonte di sofferenza dell’esistenza gli si staglia nitido dinnanzi, e Leopardi cerca di porvi rimedio, predicando la positività del suicidio e invitando a non mettere più al mondo bimbi gravati ineluttabilmente dal peso del dolore. Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, infatti, si domanda: “Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, perché da noi si dura?”55. (vv. 52-56) L’estrema negatività con la quale Leopardi ricopre la vita, avvolgendola completamente, e le pratiche che sollecita a seguire per sentirne meno l’opprimente fardello, vengono condivise da alcune correnti filosoficoreligiose che ora prenderemo in esame. Lo gnosticismo è, per esempio, un termine raggruppante parecchi sistemi filosofico-religiosi, risalente ai primi secoli dell’era cristiana. Tutti questi hanno in comune il principio che i dogmi religiosi non debbano essere accettati come articoli di fede, ma debbano, bensì, divenire oggetto di conoscenza, di vera e propria scienza. Gli gnostici furono sincretisti, poiché, scegliendo principi da scuole e confessioni differenti, pretesero di conciliarli in una scienza superiore, di cui si professavano soli depositari. Al politeismo greco e al monoteismo giudaico e cristiano, mescolarono materiali prelevati dalla filosofia greca e dalle religioni misteriche egiziane, caldaiche, assire. Elemento comune alle varie tendenze gnostiche è l’esasperato dualismo di spirito e materia, anima e corpo, che produce atteggiamenti spiccatamente ascetici. Le dottrine gnostiche di maggior impegno speculativo fanno largo uso del concetto neoplatonico di emanazione. Da Dio, Eone perfetto, procedono vari eoni inferiori che formano tutti insieme il Pleroma, o pienezza del divino. Di qui deriva, per degenerazione, il mondo materiale, ordinato da un demiurgo inferiore. L’uomo, la cui anima contiene una scintilla della luce divina, si trova perduto nel corpo e potrà salvarsi soltanto compiendo un viaggio a ritroso, cui corrisponde un progressivo abbandono degli aspetti materiali e corporei. Anche il manicheismo può essere utilmente citato. Religione fondata da Mani (216-277 d.C.), principe persiano che, in seguito a una rivelazione, si convertì ad una rigorosa disciplina di vita. Egli indicò due principi generatori del mondo: il principio del bene o della luce (Ormuzd), da cui
55
Id., Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 1829-1830, vv. 52-56
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derivano per emanazione le anime, e il principio del male o delle tenebre (Arimane), da cui giungono le cose materiali. Questo nucleo dottrinale viene espresso in innumerevoli varianti di un unico mito, ossia quello di liberazione dell’anima-luce dal corpo-tenebre. Scopo dell’uomo è, dunque, separare l’io divino dall’io demoniaco. Il grado perfetto di liberazione implica gravissimi sacrifici (astensione completa dal rapporto sessuale, frequenti digiuni). Un ultimo cenno è da destinare ai Catari. Questo è un termine di origine greca indicante, nella storia del cristianesimo, gruppi e sette religiose che si richiamano a un particolare stato di purezza dottrinaria e morale. Specificamente, nel medioevo il nome di catari è usato per designare un vasto movimento settario che si diffonde nell’Europa centrale tra l’XI e il XIII secolo, interessando soprattutto la Francia meridionale e l’Italia. La loro dottrina dualistica traeva elementi dallo gnosticismo e dal manicheismo e considerava il mondo campo di lotta tra lo spirito (Dio) e la materia (Satana). Condannavano, quindi, l’Antico Testamento, che attesta che la materia è creata da Dio; praticavano un rigido ascetismo (condanna del matrimonio, della nutrizione a base di carne, della caccia); professavano la castità ed ammettevano, come mezzo rapido per liberare l’anima dal corpo, la morte volontaria per fame (endura). Da questa nostra analisi emerge, però, prepotente, una differenza fondamentale, ovvero, per tutte le correnti filosofico-religiose considerate, la concezione negativa è sempre controbilanciata da una positiva, in Leopardi, invece, il principio negativo cessa di avere una funzione dialettica e subordinata rispetto a quello positivo, e diviene il solo che possiede la facoltà di chiarire il reale. Leopardi, quindi, perseverando nelle proprie idee, assegna a quest’unico principio dall’essenza negativa, il nome di Arimane, prendendolo in prestito dal mazdeismo o zoroastrismo, religione dell’Iran preislamico, in cui tale termine simboleggia la divinità del male. Non contento, gli consacra anche un accenno di poesia, scritto con ogni probabilità a Firenze, nella primavera del 1833, invocandolo con queste parole: “Re delle cose, autor del mondo, arcana malvagità, sommo potere e somma intelligenza, eterno dator de’ mali e reggitor del moto […]”. Un’ultima riflessione leopardiana appare meritevole di nota per l’interesse che suscita in relazione all’ambito religioso che stiamo trattando, quella che riguarda l’“anima”. Prima, però, di rigettarci a capofitto nell’intricato guazzabuglio dello Zibaldone, dobbiamo ricordare che l’argomento-anima 112
fu, per Leopardi, una vera e propria passione che pervase anche i suoi scritti giovanili. Leopardi, infatti, non fu allettato soltanto da un’approfondita disamina degli elementi concreti e dei peculiari requisiti che costituiscono l’anima dell’uomo, cui dedicò le Dissertazioni sopra le doti dell’anima umana, scritto del 1812, ma fu anche enormemente stimolato dal vivace dibattito avente per oggetto l’ipotetica anima degli animali, come testimoniato dai divertenti versi puerili del 1810, I filosofi e il cane e dalla Dissertazione sopra l’anima delle bestie, redatta nel 1811. I quesiti filosofici, presenti in questi primi lavori, vengono affrontati da Leopardi con la prospettiva limitata della rigida ortodossia cattolica, prospettiva che il Leopardi maturo porrà sostanzialmente in discussione, come tra breve vedremo. Ritorniamo, dunque, allo Zibaldone e indugiamo su questa asserzione leopardiana: “Una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonata alle bestie che sono felici […]”. (Zib., 40)
L’iniziale meditazione di Leopardi individua nell’infelicità, propria del genere umano, una testimonianza inconfutabile della conseguente e necessaria immortalità dell’anima. Se, infatti, a differenza degli animali, l’uomo non riesce a raggiungere la felicità, ossia la perfezione del proprio essere, nel fugace lasso di tempo di questa vita, è manifesto che la sua anima, sopravvivendo al corpo, continui a vivere per ottenere quella perfezione tanto anelata56. Il prosieguo di questo ragionamento discende direttamente dalla premessa appena formulata. Se il corpo, quindi, formato da materia, a un certo punto perisce, esaurendosi completamente le forze vitali che lo vivificano, l’anima non potrà essere, a sua volta, composta da materia, altrimenti anch’essa si estinguerebbe nel medesimo modo, dovrà, perciò, essere costituita da “spirito” per assicurarsi l’immortalità57. A questo punto, però, si presenta un problema di non facile risoluzione, che non permetterà a Leopardi di dirimere, una volta per tutte, la questione in gioco. Siccome, per Leopardi, “i limiti della materia sono i limiti delle umane idee”58, ciò significa che l’anima, essendo non-materia, rimarrà non soltanto “inconoscibile”, ma addirittura “inconcepibile” per la mente dell’essere
56
Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 44. Ibid., 281-282, 17 ottobre 1820. 58 Ibid., 3341, 3 settembre 1823. 57
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umano59. Al che, l’individuo potrà assegnare all’anima qualità unicamente per via negativa60, ovvero le attribuirà caratteristiche contrarie a quelle della materia, da lui ben conosciuta, oppure tenterà di costruirsene un’immagine, assottigliando quanto più possibile la stessa materia, ottenendo così similitudini come quella del “vento” o della “fiamma”61. Leopardi, poi, rimane sgomento di fronte alla cocciutaggine di taluni pensatori, i quali si impuntano ad asserire che l’anima sia “indivisibile”, “semplice”, e pertanto imperitura, senza alcun valido sostegno speculativo. Anche l’esperienza, objetta stizzito Leopardi, ci incita a sostenere che l’anima non sia indivisibile, dal momento che ammettiamo una pluralità di spiriti e non una sola grande anima, ed ancora, che l’anima non sia neppure semplice, poiché vediamo agire in essa diversissime facoltà, come memoria, intelletto, volontà e immaginazione62. Pur ammettendo l’indivisibilità e la semplicità dell’anima, si chiede di nuovo Leopardi, perché affermare con certezza anche la sua immortalità? Se l’uomo non può conoscere il modo di essere dell’anima, ovvero la sua esistenza, in quanto l’anima travalica i confini della materia, a maggior ragione come potrebbe concepire il suo presunto soccombere?63 Leopardi conclude questa dissertazione, facendo riferimento a quei filosofi che, come ulteriore dimostrazione a favore dell’immortalità dell’anima, portano il “consenso” degli uomini. Anche in questo caso, Leopardi dissente dal condividere una simile posizione. Egli sostiene, infatti, che un assenso unanime non lo si possa certo trovare in ambito speculativo, bensì lo si possa reperire, tutt’al più, a livello emotivo. L’emozione, però, non ci fa sentire l’anima come imperitura, ma piuttosto, pervadendoci di gelidi brividi, ci spinge a percepire l’“estinzione totale dell’uomo”64. Quel sentimento “puro” e “intimo”65 che ci invade, diffondendosi ovunque nel nostro essere, alla scomparsa di una persona cara, e che ci scatena un pianto irrefrenabile, è legato indissolubilmente al pensiero che quella persona più non è, che è stata privata per sempre della vita e dell’esistenza66.
59
Ibid., 601-602, 4 febbraio 1821. Ibid., 4111, 11 luglio 1824. 61 Ibid., 602, 4 febbraio 1821. 62 Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 603-605, 4 febbraio 1821. 63 Ibid., 629-630, 9 febbraio 1821. 64 G. Leopardi, Zibaldone, 4279, 9 aprile 1827. 65 Ibid., 4277, 9 aprile 1827. 66 Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 4277-79, 9 aprile 1827. 60
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Il vortice delle rapide sensazioni che ci avviluppa, ci palesa la nostra caducità, con la consapevolezza di ciò che quell’essere, ormai dissolto, non potrà fare: “Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degl’anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; ne teco le compagne ai dì festivi ragionavan d’amore”67. (vv. 40-48) O più non farà: “Se a feste anco talvolta, se a radunanze io movo, infra me stesso dico: o Nerina, a radunanze, a feste tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni van gli amanti recando alle fanciulle, dico: Nerina mia, per te non torna primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento, dico: Nerina or più non gode; i campi, l’aria non mira”68. (vv. 158-169)
4.5 Il Cristianesimo: “immortale macchia d’infamia dell’umanitá” per Nietzsche Come più volte accennato nel corso della trattazione, la nota di maggior biasimo e del più profondo disprezzo, Nietzsche l’aggiudica, senz’ombra di ripensamento, proprio all’interpretazione religiosa del reale, brillantemente simboleggiata dal cristianesimo. Essa, infatti, spiega Nietzsche, al fine di conservare la vita di esseri deboli e malriusciti, fa pagare all’esistenza un fio troppo alto, privandola di tutto il suo vigore e della stessa sua essenza. 67 68
G. Leopardi, A Silvia, 1828, vv. 40-48. G. Leopardi, Le ricordanze, 1829, vv. 158-169.
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L’unico aspetto positivo che Nietzsche, con evidente difficoltà, riesce a rintracciare in una tale espressione interpretativa, è quello di aver comunque avviluppato la realtà, stringendola nella morsa forte e tenace di un senso. Nietzsche, così, chiarisce: “[…] l’uomo venne in questo modo salvato, ebbe un senso, non fu più, da quel momento in poi, una foglia al vento, un trastullo dell’assurdo, del “senza-senso”, ormai poteva volere qualcosa – e soprattutto senza che avesse la minima importanza in che direzione, a che scopo, con che mezzo egli volesse: restava salvata la volontà stessa”69.
Ogniqualvolta, infatti, un individuo interpreta, dalla sua organica prospettiva umana, il mondo, ossia foggia valori, questi ultimi riverbereranno necessariamente l’immagine della volontà di potenza dalla quale dipendono. Tutto ciò è valevole anche nel caso dell’interpretazione morale, che assegna valori positivi o negativi alle azioni umane, appellandole rispettivamente virtù oppure vizi, senza però poter far capo ad alcuna prospettiva assoluta e immodificabile. Per Nietzsche, infatti, anche la morale è un prodotto della necessità organica e non la vittoria piena e totale su di essa. Nietzsche dedica, poi, l’intera prima dissertazione della sua Genealogia della morale alla scrupolosa descrizione dell’incolmabile differenza che intercorre tra i valori stabiliti dall’uomo “nobile” che, rappresentando con efficacia una volontà di potenza forte, danno vita alla cosiddetta “morale aristocratica”, e quelli decretati, invece, dal “plebeo”, emblema di una volontà debole e fiacca, da cui procede la “morale degli schiavi”70. Seguendo, perciò, il filo conduttore del ragionamento nietzschiano, per ben discernere la qualità di un’azione, memori dell’attribuzione di valore del mondo greco arcaico, non dobbiamo soffermarci ad esaminare il giudizio oggettivo dell’azione stessa compiuta dal soggetto, bensì l’essere dell’attore. Pertanto i valori fissati dall’essere umano di specie nobile e le azioni di cui sarà protagonista, verranno stimate buone perché, provenendo proprio da lui, sapranno riflettere quella traboccante potenza che, non potendo in alcun modo essere trattenuta, viene elargita generosamente all’esistenza. I valori, invece, di coloro che non sono muniti di una natura altrettanto potente, ovvero i valori che vengono deliberati dalla specie più debole, rispecchiano la peculiare inadeguatezza dei loro creatori. A questo proposito, Nietzsche puntualizza:
69 70
F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 157. Cf. F. Nietzsche,Genealogia della morale, cit., p. 15.
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“Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore […]. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un “di fuori”, a un “altro”, a un “non io”: è questo no la sua azione creatrice. […] la sua azione è fondamentalmente una reazione”71.
Per Nietzsche, infatti, la morale aristocratica riuscì a soggiogare la sua antitesi per un certo lasso di tempo, fino a quando quest’ultima non decise di alzare la testa, rivoltandosi contro quell’autorità. La volontà di potenza, dunque, qualunque sia la sua natura, sia essa debole o forte, è contraddistinta da una smodata brama di dominio e dall’ardente desiderio di estendere, alle entità confinanti, la sua egemonia. Risultato facilmente ottenibile se, a gettarsi nell’impresa è una volontà forte, corredata di una potenza straripante, ma certamente più difficile da raggiungere nel caso di una volontà debole, la quale, prima di pensare a come imporre la propria potenza, deve necessariamente elucubrare un modo efficace per acquisirla. A parere di Nietzsche, la carta vincente giocata dalla volontà di potenza debole è quella dell’“ascetismo”. Spiega, infatti: “Certi uomini hanno un bisogno così grande di esercitare la loro forza e la loro sete di dominio, che in mancanza di altri oggetti, […] essi finiscono col tiranneggiare certe parti del proprio essere, per così dire sezioni o gradi di se stessi”72.
La volontà debole, quindi, non potendo propagare sugli altri un potere che ancora non possiede, o talmente fievole da non essere sufficiente a conseguire la meta anelata, si trova costretta ad esercitare quella scarsa potenza su se stessa. Tuttavia è proprio così che l’impotenza riesce a trasmettere di sé un’immagine di vigorosa potenza: con un astuto stratagemma, infatti, quella che in realtà è un’inevitabile forzatura e un invalicabile limite, diviene il frutto di una scelta intenzionale e di una “deliberata rinuncia”73. Ogni essere, secondo la riflessione nietzschiana, è provvisto di una specifica natura che lo determina in ogni aspetto e contro i dettami della quale non può in alcun modo opporsi. La forza, infatti, si può estrinsecare solo come tale e così la debolezza, tranne nel caso appena preso in esame, in cui l’essere umano debole, in una sorta di sublime inganno di sé, mosso dalla furbizia, avida di vendetta, interpreta la debolezza stessa come “libertà”, come “merito” e non come ineluttabile carenza. 71
F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., pp.25-26. F. Nietzsche, Umano, troppo umano , I, cit., p. 109. 73 Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 58. 72
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C’è una divertente storiella che ci può aiutare a capire cosa intenda Nietzsche, quando pensa all’impossibilità, da parte di qualsivoglia essere, di agire contrariamente alla propria indole. I personaggi principali di questa narrazione, sono uno scorpione e una rana. Uno scorpione, infatti, giunto in prossimità di un fiume, impossibilitato ad attraversarlo, chiese gentilmente a una rana, in cambio della solenne promessa di non pungerla, di scortarlo sulla riva opposta. Nel mezzo esatto della traversata però, l’ingenua rana fu pizzicata dal suo passeggero e, poco prima di essere inghiottita dall’acqua, gli chiese il perché del suo gesto, visto che ora sarebbero morti entrambi. Lo scorpione, allora, placidamente rispose: “Perché questa è la mia natura”. La volontà debole, perciò, grazie al sagace imbroglio messo in atto, è riuscita a ottenere quell’ambita potenza. Il suo precipuo compito consisterà, ora, nell’imporre la sua prospettiva, plasmando valori che sappiano trasformare quella che altro non è se non penuria e insufficienza in positività e pienezza, debilitando così la parte avversa. L’unico metodo attuabile, a parere di Nietzsche, in grado di realizzare questo proposito, ha il proprio fondamento nell’intraprendere “una valutazione rovesciata di tutti gli antichi valori”74, in modo tale che le prische virtù divengano vizi, e tutti gli angeli si mutino in diavoli. Per ben chiarire come tutto questo fu possibile, Nietzsche, nella seconda dissertazione della Genealogia della morale, indugia nello spiegare anzitutto quale fu la scaturigine dell’idea che percepì la sofferenza come diretto equivalente della colpa. Quando, infatti, prosegue Nietzsche, l’uomo viveva ancora in solitudine, era del tutto simile a un “animale oblioso”75, attaccato cioè “al piuolo dell’istante”76, ossia al solo presente. L’avvento della società, poi, fece in modo che nell’individuo nascesse una “memoria”, al fine di fargli godere i vantaggi di cui la società stessa si faceva garante, rammentandogli però i doveri e gli obblighi assunti. Fu proprio l’uomo a comprendere che il più efficace coadiuvante e il più valido strumento per l’insorgenza di una stabile funzione della memorizzazione fosse il dolore77. Se, infatti, richiamiamo alla mente lo sviluppo storico delle leggi penali e del diritto, ciò che immediatamente balza all’occhio è la maggior disumanità e spietatezza delle più vetuste punizioni inflitte rispetto a quelle odierne. L’intensa afflizione aveva, quindi, lo scopo di rendere duratura e costante una memoria ancora fresca e inesperta. 74
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 54. Id., Genealogia della morale, cit., p. 46. 76 Id., Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 6. 77 Cf. F.Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 49. 75
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Per Nietzsche, inoltre, il concetto basilare della morale, ossia quello della “colpa”, ha tratto la sua origine dal concetto materiale di “debito”78. Quando, infatti, un debitore non riesce a tener fede all’impegno preso e a rispettare la parola data, commette una colpa, e il suo creditore può rivalersi su di lui, non accettando un vantaggio in diretto equilibrio con il danno subito, bensì esigendo in cambio la sua sofferenza. Il colpo da maestro, attuato dal prete asceta nell’ambito di un’interpretazione religiosa del reale, fu proprio il trasformare il dolore dell’esistenza, ingrediente indispensabile della vita, in una punizione, facendo sorgere nell’uomo il rimorso per una colpa commessa e il bisogno di una sua pronta individuazione. L’implacabile esattore che si prende soddisfazione sull’essere umano, altri non è che Dio. Nietzsche esplicita il suo punto di vista: “Un debito verso Dio: questo pensiero diventa per lui [per l’uomo] strumento di tortura. Afferra in Dio le antitesi estreme che riesce a trovare in rapporto ai suoi caratteristici e non riscattabili istinti animali, reinterpreta questi stessi istinti animali come una colpa verso Dio […], ogni no che dice a se stesso, alla natura, alla naturalità, alla realtà del suo essere, lo projetta fuori di sé come un sì, come qualcosa d’esistente, di corporeo, di reale, come Dio […]”79.
Il prete è, infatti, per Nietzsche, “il modificatore di direzione del ressentiment”80, ovverosia di quella reazione di sdegno e irritazione che ogni individuo sofferente riversa su quella che reputa la causa o l’autore di quel suo dolore: “Io soffro: qualcuno deve averne la colpa” – così pensa ogni pecora malaticcia. Ma il suo pastore, il prete asceta, dice a essa: “Bene così, la mia pecora! qualcuno deve averne la colpa: ma sei tu stessa questo qualcuno […]”81.
Il prete asceta, dunque, simbolo della debolezza, ha tutto di guadagnato dal far credere all’uomo che la colpa di cui si è insozzato e che grava su di lui come una spada di Damocle, altro non sia che la sua stessa natura. Soltanto “una realtà malfatta”82 sente, infatti, l’impellente bisogno di evadere da un’esistenza che la spaventa e la intimidisce con minacce continue alla sua sopravvivenza. L’estrema debolezza di una tal natura la rende del tutto incapace di gestire le passioni e gli istinti vitali, optando a favore di una loro completa 78
Ibid., p. 51. Cf. F.Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 83. 80 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 121. 81 Ibid., p. 122. 82 F. Nietzsche, L’anticristo, cit., p. 18. 79
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estirpazione, per evitare di esserne totalmente sovrastata e dominata83. L’indovinato termine che Nietzsche utilizza per spiegare questa particolare terapia che la chiesa realizza, è quello di “castratismo”84, ovvero il subitaneo sradicamento di ogni passione umana. Nietzsche, indignato, così si sfoga: “Soltanto il cristianesimo, fondato sul risentimento contro la vita, ha fatto della sessualità qualcosa di impuro: ha gettato fango sul principio, sul presupposto della nostra vita…”85.
Svellere alla radice gli istinti non significa altro che annientare la vita e ridurre gli esseri umani “come cadaveri” che pronunziano discorsi emananti “l’aroma cattivo dell’obitorio”86. L’uomo, quindi, divenuto ormai persona macilenta e dall’aspetto esangue a causa del risoluto rifiuto della propria natura, materializza, come abbiamo visto, quello stesso diniego di fronte a sé, facendogli indossare i panni di Dio. Anzi, sbotta Nietzsche, gli uomini non hanno saputo amare Dio, se non crocifiggendo preventivamente se stessi87. Questa idea dell’oggettivazione religiosa, intesa come inconsapevole alienazione di proprietà umane, Nietzsche la coltivò, con tutta probabilità, sin dalla lettura, avvenuta nel lontano 1862, dell’opera più famosa di Feuerbach, L’essenza del cristianesimo. La tesi di Feuerbach sostiene, infatti, che tutti i predicati che definiscono Dio siano riconducibili ad attributi dell’essenza umana. Il cristianesimo insegna, inoltre, che quanto più l’essere umano rende ricca la sua immagine speculare, tanto più toglie a se stesso e alla sua natura. Il compito di emanciparsi dalla religione non è associato, da Feuerbach, a una proclamazione di ateismo, bensì al principio: homo homini deus est. Per Nietzsche, inoltre, soltanto i superuomini, quegli “uomini aristocratici”, cioè, nei quali si immedesima la volontà di potenza forte e attiva, edotti della loro potenzialità creativa, sono in grado di “assassinare” Dio, ossia di riporlo tra le infinite loro invenzioni. Anzi, “alla notizia che “il vecchio Dio è morto”, ci sentiamo” – dicono esultanti – “come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, d’attesa – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero […]”88. 83
Cf. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 49. Ibid. 85 Cf. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 137. 86 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 102. 87 Cf. ibid. 88 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 252. 84
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La conclusione cui ci spinge la meditazione nietzschiana è che non si frappone alcuna differenza tra l’uomo e Dio. Anche l’essere umano, infatti, beneficia di quella peculiare caratteristica di Dio, che riesce a far coincidere totalmente il “pensare” con il “creare”89. L’uomo, dunque, come più volte abbiamo rilevato nel corso della riflessione, stabilendo valori e plasmando con essi la realtà, altro non fa che creare il mondo in cui vive. Un ultimo cenno è da tenere in serbo per l’interesse e la simpatia che la figura di Gesù innescò in Nietzsche tanto che, nell’Anticristo, le consacrò un’analisi assai particolare. Partendo dal presupposto che, secondo Nietzsche, “è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce”90, e che tutto ciò che in seguito è stato definito tale, non fosse altro che un “equivoco”91 e “un auto-fraintendimento psicologico”92, egli fornì una spiegazione del modo di agire di Gesù che suscita una certa attrazione. Per Nietzsche, dunque, Gesù fu un essere dal temperamento sensibile e dalla volontà debole, tratti che lo spinsero a stipulare con la realtà esterna un patto di non belligeranza93, al fine di edificare dentro di sé un mondo illusorio in cui esistere agevolmente. Il “regno di Dio” è, infatti, “l’esperienza di un cuore; esiste ovunque e in nessun luogo…”94. Proprio perché il regno di Dio viene vissuto come una realtà intramondana, esclude ogni possibile reazione di sdegno nei confronti della vita dal momento che solo in essa questo piano si può attuare. Così il cristianesimo autentico non ha nulla a che vedere con le interpretazioni messianiche e millenaristiche di cui il risentimento ebraico lo ha rivestito, e contro le quali Nietzsche non smetterà mai di battersi, opponendovisi con inarrestabile energia, per far signoreggiare su tutto, sempre e solo la vita.
Bibliografia essenziale Opere di Giacomo Leopardi Tutte le poesie e tutte le prose, Newton, Roma 1997. Zibaldone, Newton, Roma 1997. Epistolario, Newton, Roma 1997. 89
Cf. F. Nietzsche Frammenti postumi, 1885, 38 [19]. F. Nietzsche, L’anticristo, cit., p. 50. 91 Ibid. 92 Ibid., p. 51. 93 Cf. F .Nietzsche, L’anticristo, cit., p. 39. 94 F. Nietzsche, L’anticristo, cit., p. 46. 90
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NUOVO REALISMO
Simone L. Maestrone, Presenta il saggio di Markus Gabriel, “Il non-fondamento come inattingibile Altro della riflessione – L’uscita di Schelling dall’idealismo” Lo scritto1 di Markus Gabriel qui tradotto è per certi versi un ampliamento dell’interpretazione che egli propose nella sua prima opera concernente le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana di F.W.J. Schelling2. Il saggio non si limita tuttavia a riprendere per sommi capi i nodi centrali della sua precedente lettura, ma offre un’ulteriore elaborazione degli elementi epistemologici descritti in quell’opera. Come allora anche in questo scritto il nucleo tematico dell’analisi di Gabriel si concentra principalmente sulla questione dell’assoluto. La peculiarità del significato assunto dall’assoluto in quest’opera schellinghiana è stata del resto più volte evidenziata dalla Forschung, anche ultimamente3. Spesso questo rilievo è accompagnato da una critica all’interpretazione heideggeriana4, la quale5, rimanendo di certo la miglior interpretazione complessiva del testo, ha nella mancata discussione di quest’argomento un fin troppo evidente punto debole. 1 Ringrazio la casa editrice Ergon per aver gentilmente concesso i diritti del testo qui tradotto. L’originale tedesco è contenuto in: Schellings Philosophie der Freiheit. Studien zu den Philosophischen Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit, c/ di D. Ferrer e T. Pedro, Ergon, Würzburg 2012, p. 177-190. 2 M. Gabriel, L’assoluto e il mondo nella Freiheitsschrift di Schelling, tr. it. S.L. Maestrone, Rosenberg & Sellier, Torino 2012. 3 Cf. P. Schwab, “‘Übergang von Identität zu Differenz’. Die Bestimmung des Systemprinzips in den Stuttgarter Privatvorlesungen vor dem Hintergrund von Schellings Denkentwicklung seit 1801”, in: System, Natur, Anthropologie. Zum 200. Jubiläum von Schellings Stuttgarter Privatvorlesungen, c/ di L. Hühn e P. Schwab, Alber, FreiburgMünchen 2014, p. 35-70; qui: p. 37, 52. 4 Sull’argomento si veda a esempio R. Ohashi, “Il non-fondamento e il sistema”, in: F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi. Commentario, c/ di F. Moiso e F. Viganò, Guerini, Milano 1997, p. 315-330. 5 M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, c/ di E. Mazzarella e C. Tatasciore, Guida, Napoli 1994.
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Il mutamento di prospettiva riscontrabile nel passaggio dagli scritti precedenti all’opera del 1809 è a tutti gli effetti radicale: mentre nella Filosofia dell’identità l’assoluto era concepito come la totalità intuita sub specie necessitatis, nella Freiheitsschrift il suo significato si rovescia in una specie di nulla mistico6, a cui è attribuibile solo il paradossale predicato dell’assenza di predicati. Nel saggio di Gabriel questa concezione dell’assoluto, ontologicamente minimale, viene interpretata in termini razionali come uno sfondo o “spazio logico” dentro al quale possono in generale presentarsi distinzioni. L’assoluto diviene in tal modo il neutrale presupposto logico, teorizzabile solo a posteriori, di un’“ontologia della predicazione”. Nel richiamarsi a un’ontologia della predicazione lo scritto di Gabriel appare fortemente debitore dell’impostazione proposta da Wolfram Hogrebe nel suo Predicazione e genesi7, opera che ancor oggi si propone come una delle più efficaci chiavi ermeneutiche per la comprensione della complessa dottrina delle potenze nella tarda filosofia schellinghiana. Il significato dell’articolo va però ben oltre la semplice presentazione di un approccio teoretico proiettato su un celebre, forse il più celebre, scritto di Schelling. Nella catena di argomenti da lui sviluppata, Gabriel inserisce una generale riflessione sull’ontologia schellinghiana nel tentativo di cogliere a pieno il significato del suo idealismo oggettivo, o come direbbe Schelling stesso del suo “ideal-realismo”. Gabriel parla di un’“intuizione essenziale di Schelling”, consistente nel punto di vista ontologico secondo il quale anche il nostro riferirci alle cose esiste e è parte del mondo. Nella sua ricostruzione egli porta questa intuizione alle sue estreme conseguenze: lo stesso testo di Schelling diviene parte della realtà che sta descrivendo. Il testo non è solo un’ontologia del vivente, bensì “ontologia vivente”. Detto altrimenti, una teoria sul mondo, inteso come totalità, deve essere in grado di immettere se stessa nel mondo che sta descrivendo, per poterlo davvero descrivere come totalità. Che in ultima istanza questa descrizione si dimostri impossibile per principio, e non solo a causa dell’ovvia finitezza epistemica dell’uomo, è l’esito su cui insiste Gabriel nelle sue opere più recenti8. È in fondo a questo pensiero che si rifà la sua tesi programmatica di un’inesistenza del mondo, di passaggio menzionata anche nel saggio. Ciò nonostante la sua ontologia dei “campi di senso” si nutre fortemente dell’inusuale approccio “a parte rei” 6 H.-J. Friedrich, Der Ungrund der Freiheit im Denken von Böhme, Schelling und Heidegger, Froomann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2009. 7 W. Hogrebe, Predicazione e genesi. La metafisica come euristica fondamentale a partire dai Weltalter di Schelling, tr. it. S.L. Maestrone, Rosenberg & Sellier, Torino 2012. 8 Cf. M. Gabriel, Perché non esiste il mondo, tr. it. S.L. Maestrone, Bompiani Milano 2015; Fields of Sense. A New Realist Ontology, Edinburgh University Press, Edinburgh 2015; Sinn und Existenz: Eine realistische Ontologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2015.
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che egli fin dal principio rinviene nel pensiero di Schelling. Il senso, non importa in che forma si manifesti, è fondamentalmente oggettivo. Anche l’esperienza più soggettiva è costituita da fatti, direbbe Gabriel, dunque da oggetti che esistono in un determinato campo di senso, indipendentemente dalla soggettività che li coglie. Con la sua concezione monistica dello “spirito”, Schelling è il precursore di questo radicale anti-costruttivismo. Il suo tentato ribaltamento dell’idealismo soggettivo ha per Gabriel il non trascurabile pregio di colmare lo jato fra io e mondo, fonte ultima di qualsiasi forma di scetticismo. Come è certamente noto a chi conosce i suoi scritti, il cuore pulsante del “nuovo realismo” di Gabriel è costituito dalla sua ridefinizione della nozione di esistenza. Si tratta di un vero e proprio mutamento di paradigma ontologico, che può rendersi a nostro avviso sufficientemente intelligibile solo dopo aver compreso a pieno il modo del tutto particolare in cui egli interpreta l’ontologia realista di Schelling. Per questo motivo il saggio che abbiamo qui tradotto non offre solo stimoli per una lettura contemporanea di Schelling, ma è anche un prezioso strumento per chi fosse intenzionato a comprendere, al di là di certe superficiali formule, l’attuale programma teorico di Gabriel.
Markus Gabriel, Il non-fondamento come inattingibile Altro della riflessione – L’uscita di Schelling dall’idealismo Com’è noto, la Freiheitsschrift comincia con un richiamo all’apparente incompatibilità fra la libertà e il sistema: “Secondo un’antica leggenda, la cui eco non si è ancora spenta, il concetto di libertà sarebbe del tutto incompatibile col sistema in generale e ogni filosofia che abbia pretesa di unità e totalità dovrebbe sfociare nella negazione della libertà”9.
Fin dall’esordio del Pantheismus-Streit per mano di Jacobi l’idealismo – innanzitutto quello trascendentale, ma dal diciannovesimo secolo soprattutto l’idealismo assoluto hegeliano – ha suscitato il ben fondato sospetto di non 9 F.W.J. Schelling, Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden Gegenstände, in: Id., Sämmtliche Werke, Bd. VII, hrsg. v. K.F.A. Schelling, Cotta, Stuttgart-Augsburg 1860, p. 333-416 [Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi, c/ di G. Strummiello, Bompiani, Milano 2007]; d’ora in poi l’opera di Schelling sarà abbreviata con SW, seguito dal volume, dalla pagina originale e dalla pagina della traduzione, talvolta leggermente modificata: SW, VII, 336; p. 93.
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poter pensar a un Altro che non appartenesse all’auto-posizione. A ben guardare, agli occhi della critica all’idealismo quest’“Altro” non si riferiva all’altro dialettico, al tateron, la negatività, che già la dialettica platonica aveva integrato logicamente nel Sofista e nel Parmenide. La critica sollevata contro l’idealismo si richiamava piuttosto al fatto che esso avesse introdotto un concetto di totalità tendente a far pensare a un’immanente interconnessione complessiva alla quale nulla poteva sfuggire. L’immanente interconnessione complessiva idealistica sembra del resto implicare, nella sua chiusura, un radicale fatalismo che necessita in un modo o nell’altro di un acritico consenso del dato. L’amor dei intellectualis e la rassegnazione di Hegel di fronte alla storia, in nome dell’intero e della sua verità, sembrano fondarsi sullo stesso presupposto metafisico. Nel ventesimo secolo la critica di Jacobi si palesò nuovamente per differenti ragioni. Heidegger, Levinas, Derrida, Nancy, ma anche Adorno, si ribellarono al concetto dialettico di negatività cercando di associargli un gesto fondativo che non si lasciasse includere dialetticamente. Su questa via essi crearono spazio per una forma di libertà da intendersi come una radicale contingenza, dialetticamente non mediabile, e con ciò, eccezion fatta per Heidegger, spazio per un’etica. Come Derrida ha messo in luce in Violence et métaphysique, si tratta di contrapporre all’idealistica connessione d’insieme un “dehors absolu”, un’“exterioritè qui deborde infinitement la monade de l’ego cogito”10. Ciò accade in nome della libertà, la quale pare essere minacciata dalla totalità introdotta dall’ambizione sistematica. Proprio in questo contesto Derrida sancisce en passant una sorprendente alleanza con Schelling attribuendogli una radicalizzazione del tema kantiano della cosa in sé, cioè dell’“altérité absolu”11. Già nella Freiheitsschrift Schelling si confronta col problema sopra abbozzato. Egli cerca tuttavia una conciliazione fra sistema e libertà che sfoci in un sistema libero. Un sistema la cui forma e il cui contenuto non siano nient’altro che libertà. In questa maniera egli spezza l’opposizione fra sistema e libertà: il totalmente Altro si dimostra essere un’energia che vuol prendere la forma di un sistema e che si schiude ininterrottamente nel sistema configurato. L’innovazione decisiva di Schelling consiste nella fondazione di un’ontologia della libertà, la quale, come potrò qui solo a grandi linee mostrare, prospetta un’ontologia della contingenza, alla quale 10 J. Derrida, Violence et métapysique, in: L’ecriture e la difference, Seuil, Paris 1967, p. 117-228, qui: p. 156. 11 Ibid., S. 225. Il tardo Schelling pensa l’essere imprepensabile come un fuori assoluto. Ho cercato di spiegare ampiamente la questione nel mio Der Mensch im Mythos. Untersuchungen über Ontotheologie, Anthropologie und Selbstbewußtseinsgeschichte in Schellings Philosophie der Mythologie, de Gruyter, Berlin-New York 2006.
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io stesso mi ricollego sistematicamente12. Un’ontologia della contingenza costruita nello spirito di Schelling si lascia motivare ricorrendo all’esplicita ontologia della predicazione schellinghiana. Pertanto vorrei integrare col mio saggio la concezione del “senso della copula nel giudizio”13 proposta da Schelling, attraverso l’introduzione del non-fondamento quale tema di un’ontologia della predicazione. Sebbene Schelling definisca espressamente il non-fondamento “il punto culminante dell’intera ricerca”14, si è finora a mala pena dato seguito a questa indicazione15. A tal proposito stupisce in particolare l’interpretazione heideggeriana di Schelling che non coglie nell’introduzione del non-fondamento il suo allontanarsi dalla metafisica della volontà. Il non-fondamento non è l’essere originario, vale a dire il volere, poiché a esso, a differenza che all’essere originario, non corrisponde alcun predicato. Nella prima parte del mio saggio ricostruirò la svolta ontologica schellinghiana, tramite cui egli si oppone esplicitamente all’idealismo, in particolar modo a quello di matrice fichtiana. Nella seconda parte mi rivolgerò all’elementare paradosso di Schelling nei confronti della delimitazione kantiana, ricorrendo al non-fondamento. Poiché, mentre Kant traccia un confine trascendentale, e dunque per lui non ontologico, tra il fenomeno e la cosa in sé, per aprire uno spazio alla possibilità della libertà, Schelling traccia un confine tra la determinatezza del mondo stesso, esplicabile predicativamente, e una ritrazione costitutiva, cioè il nonfondamento. Quest’ultimo garantisce nella sua inattingibile assenza, nella sua radicale indisponibilità, che si possa stabilire un sistema contingente di cose, colto nel suo divenire, ma allo stesso tempo strutturalmente determinato e perennemente in movimento. I. La schellinghiana ontologia trascendentale della libertà Schelling attribuisce all’idealismo la scoperta che l’essere originario sia il volere. Con ciò mette in contrapposizione l’idealismo, da intendersi qui come il concetto kantiano e fichtiano di soggettività in quanto autonomia o auto-posizione, con il sistema “unilaterale in senso realistico o dogmatico”16. La lettura classica di questo passaggio del testo sostiene che l’idealismo reinterpreta l’irrigidita sostanza spinozistica (che sicuramente non può 12 Cf. M. Gabriel e S. Žižek, Mythology, Madness and Laughter. Subjectivity in German Idealism, Continuum, New York-London 2009; M. Gabriel, Trascendental Ontology. Essays in German Idealism, Continuum, New York-London 2011. 13 SW, VII, 342; p. 103. 14 SW, VII, 406; p. 255. 15 Cf. M. Gabriel, L’assoluto e il mondo…, cit. 16 SW, VII, 351; p. 127.
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sempre dirsi riferita alla soggettività) come un soggetto, e perciò come una struttura dell’autoriferimento – o per dirla con Schelling come un’“autoaffermazione”17. Con l’idealismo la sostanza diviene dunque soggetto18. Con ciò non si può certamente tralasciare, come nella celebre formulazione programmatica di Hegel, che non solo la sostanza viene pensata come soggetto, ma che anche al soggetto viene attribuita una sostanza. La formulazione schellinghiana, il volere è l’essere originario, si può interpretare come la dichiarazione di una svolta ontologica che si oppone all’implicito cartesianismo di Kant e Fichte. Costituitosi a partire da un cartesianismo residuale, l’idealismo trascendentale si basa appunto sull’assunto metodologico che la filosofia debba intendersi come una riflessione sulla struttura dei nostri riferimenti agli oggetti. Di conseguenza, nel nostro rivolgerci a essi, possiamo certamente anticipare la forma degli oggetti, in modo che questa debba essere compatibile con il nostro accesso agli oggetti. Altrimenti la conoscenza sarebbe impossibile. Da ciò non consegue comunque che possiamo tralasciare il nostro accesso e cominciare direttamente dagli oggetti stessi. L’ontologia tradizionale viene sostituta da una teoria dell’intenzionalità grazie alla quale il paradigma cartesiano della gnoseologia trapassa in una philosophia prima. Anche se per principio ciò viene limitato attraverso il primato del pratico, resta tuttavia il fatto che Kant e Fichte elaborano primariamente una teoria della soggettività e non certamente un’ontologia. Loro non si domandano dunque quali sono le condizioni materiali di possibilità della soggettività, trascurando in tal modo il fatto che la soggettività esiste. La soggettività, cioè il tipo di struttura del nostro riferimento agli oggetti, non può venir opposto al mondo inteso come totalità dell’esistente (ed è qui che si colloca l’intuizione essenziale di Schelling), senza che con ciò la soggettività divenga priva di mondo. Ciò si manifesta in Kant e Fichte nell’insuperabile problema del solipsismo. Se la soggettività esiste, l’analisi del concetto di esistenza deve metodologicamente precedere la teoria della soggettività, la quale a sua volta si dimostra essere più un’ontologia regionale che un inaggirabile punto di partenza.
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SW, VII, 350; p. 125. Non è stato Hegel a esprimersi per primo in questi termini, bensì lo stesso giovane Schelling nel suo allontanarsi dal “dogmatismo” di Spinoza. Quest’ultimo esigeva una fusione del soggetto nella necessità della sostanza. In tal modo Spinoza “non conosceva alcun soggetto come tale. Già prima di porre quel postulato, egli aveva eliminato dal suo sistema quel concetto del soggetto” (F.W.J. Schelling, Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, c/ di G. Semerari, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 48 [SW, I, 315]). 18
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Su questo sfondo Schelling propone un “più elevato realismo”19. Quest’ultimo sorvola la cartesiana cesura fra mente e mondo, così come quella kantiana fra fenomeno e cosa in sé, spostando l’accento sul fatto che tanto il mondo quanto la soggettività esistono. Un’analisi del concetto di esistenza è dunque più fondamentale di qualsiasi teoria della soggettività: il tipo di struttura del nostro riferimento agli oggetti è, in quanto esistente, un caso dell’essere. Ogni riferimento agli oggetti si riferisce a un qualche cosa di determinato. Ogni determinato, nella forma del così-e-così, si distingue da qualcos’altro di determinato. Appunto questo si esprime nel giudizio che qualche cosa si distingue da qualcos’altro, venendo registrato come un caso particolare. Chi afferma che qualcosa è così-e-così, vale a dire F(x), colloca in un ambiente predicativo un “che [precedentemente] ignoto”20. In ciò devono essere al lavoro energie sub-semantiche, giacché il collegamento tra F e x non può ancora dipendere dalle condizioni del giudizio che si stabilisce a posteriori. Le condizioni di una logica identitaria si stabiliscono sempre a posteriori, ossia nel contesto dell’accadimento del giudizio21. Schelling esprime questo pensiero nella più classica delle formulazioni: “L’essere acquista la sensazione di sé solo nel divenire. Nell’essere certamente non c’è nessun divenire; in quest’ultimo l’essere è posto piuttosto di nuovo come eternità; ma nella realizzazione per opposizione c’è necessariamente un divenire”22.
L’essere, da intendersi qui come l’essere così-e-così, può venir constatato solo a posteriori, perché l’essere senza giudizio non può apparire, l’essere si rende percepibile solo nel divenire. Proprio per mezzo di ciò “sorge lo spirito”23, termine col quale Schelling intende un fragile ambiente predicativo. Lo spirito è quell’energia sub-semantica che si manifesta nella copula. Prima e indipendentemente da questa manifestazione lo spirito non è ancora certamente spirito. In quanto spirito egli si manifesta solo nella copula, vale a dire a posteriori. Lo spirito non è dunque una misteriosa entità, bensì è il nome per l’esistenza d’intelligibilità, il nome, perciò, per il fatto che qualche cosa esiste in maniera constatabile. Partendo dall’osservazione che l’essere in quanto constatabile si rifà a un divenire che non può certo ancora essere rinchiuso predicativamente – essendo tutte le 19
SW, VII, 351; p. 127. I. Kant, Critica della ragion pura, c/ di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 211 [KrV, B 312]. 21 Cf. su questo C. Castoriadis, The Logic of Magmas and the Question of Autonomy, in: The Castoriadis Reader, c/ di D.A. Curtis, Oxford 1997, p. 290-318. 22 SW, VII, 403; p. 249-251. 23 SW, VII, 404; p. 251. 20
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predicazioni, e quindi la determinatezza in generale, una cristallizzazione semantica di energie sub-semantiche –, Schelling legittima il trasferimento della libertà all’in-sé. Come egli giustamente nota, quest’opzione è rinvenibile nelle premesse della Critica della ragione pratica, la quale tuttavia prende in considerazione la possibilità di cogliere l’ambito della cosa in sé come libertà solamente distinguendola dal mondo fenomenico completamente determinato. Schelling viceversa manifesta la pretesa “che tutto il reale (la natura, il mondo delle cose) abbia come fondamento l’attività, la vita e la libertà, o, per usare i termini fichtiani, non solo che l’egoità sia tutto, ma anche inversamente che tutto sia egoità”24.
Schelling salda questa svolta ontologica al programma di “fare della libertà insieme l’uno e il tutto della filosofia”25. La libertà viene elevata all’hen kai pan, al principio della filosofia. Essa diviene “il concetto positivo dell’insé in generale”26. Tutto questo permette di comprendere che Schelling sta qui sviluppando un’ontologia trascendentale della libertà. Con “ontologia trascendentale” intendo una teoria delle condizioni ontologiche del nostro riferimento a oggetti, capace di tener conto del fatto che il nostro riferimento esiste. Riferimento e essere (nel senso di esistenza) non vengono più in tal modo opposti, in maniera che solo all’oggetto del riferimento sia attribuibile esistenza. Quest’ontologia è trascendentale perché si riferisce alle condizioni di possibilità del riferimento, sottintendendo però un’analisi del concetto di esistenza. II. Fondamento e Esistenza Come abbiamo visto, Schelling legittima dunque un’innovativa (postkantiana) ontologia trascendentale della libertà che non s’abbandona inerte al verdetto delle restrizioni gnoseologiche kantiane. Essa è in grado di appoggiarsi, come vedremo più estesamente, a una teoria della predicazione che non ha fino a oggi perso la sua attualità, come hanno mostrato in particolare i lavori di Wolfram Hogrebe27. L’essere si percepisce o si ritrova solo nel divenire. Schelling pensa il divenire come un confronto fra fondamento e esistenza. Qualsiasi cosa noi troviamo nel mondo, si tratti di oggetti, esseri viventi o i nostri propri stati mentali, che del resto appartengono al mondo, tutto dev’essere parte del 24
SW, VII, 351; p. 127. Ibidem. 26 SW, VII, 352; p. 129. 27 Cf. W. Hogrebe, Predicazione e genesi…, cit.; Echo des Nichtwissens, Akademie, Berlin 2006, p. 277-341; Die Wirklichkeit des Denkens. Vorträge der Gadamer-Professur, c/ di M. Gabriel e J. Halfwassen, Winter, Heidelberg 2007. 25
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mondo, vale a dire deve poter essere parte di un intero complessivo. Altrimenti sarebbe sempre possibile imbattersi in qualche cosa che non appartiene al mondo, aprendo con la sua comparsa una voragine ontologica nel suo continuum. La convinzione secondo la quale tutto ciò che esiste è parte di un unico mondo, non può essere ricavata tramite l’esperienza e non è nemmeno facile intravedere come possa venir scossa attraverso l’esperienza, senza con ciò lacerare il tessuto dell’esperienza. La convinzione di una continuità e unità del mondo si basa sulla nostra dimestichezza con gli stati del mondo. Presa in senso kantiano essa è la condizione di possibilità perché ci possano essere per noi stati del mondo in generale o determinati stati di cose. L’unità del mondo è perciò il primo e inamovibile a priori, una convinzione che non possiamo abbandonare, senza al contempo abbandonare tutte le altre convinzioni. Ora, l’unità del mondo non può essere garantita dai suoi stati strutturalmente determinati, giacché tutti gli stati del mondo sono, come minimo, epistemicamente contingenti. Nel senso che per la loro esistenza non si può dare alcun fondamento assoluto. D’altro canto è necessario che ci sia l’unità del mondo, se deve poter esistere in generale qualcosa di determinato. Con un’espressione classica possiamo chiamare l’unità del mondo la sua “sostanza”, distinguendola dalla “struttura” del mondo. Ciò che Schelling definisce fondamento è l’energia continuativa che tiene insieme ogni cosa, mentre l’esistente, in quanto determinato, esiste solo perché si distingue da altro, come minimo dalla sostanza. In questa maniera l’esistente libera energie strutturali, cioè dissipative, che sono potenzialmente incompatibili con la sostanza. Il fondamento di Schelling è perciò il prosecutore dinamico della sostanza spinoziana. Il mondo è un intreccio di relazioni. Tutti i contenuti del mondo si distinguono da tutti gli altri contenuti del mondo nella forma di una differenza espressa tramite una relazione d’inclusione/esclusione nei confronti di tutti gli altri contenuti del mondo. I contenuti determinabili del mondo esistono solo presupponendo un sistema differenziale le cui posizioni immanenti si costituiscono come una serie di distinzioni mai completamente rappresentabili epistemicamente. In altre parole, nel mondo tutto ciò che è, è ciò che è, perché non è qualcosa d’altro. Certo il testo del mondo non è un testo coerente, stabilito una volta per tutte, e che grazie a condizioni epistemiche favorevoli può venir letto correttamente da entità conoscenti come noi esseri umani. Il concetto di una mappa del mondo nella sua interezza è addirittura inconsistente, giacché l’accadere della mappa, in quanto evento nel mondo, modifica il mondo stesso. L’accadimento ontologico di una mappa del mondo, modifica il mondo in modo da render 133
necessaria una più ampia mappa del mondo che rappresenti il mondo e la prima mappa del mondo, necessariamente incompleta, e così via all’infinito. Il mondo è sì certamente un sistema, ma è un sistema vivente28. Il mondo è vivente, perché esiste. Tutto ciò che esiste ha una determinata struttura che si distingue da tutte le altre strutture. Distinguendosi da tutte le altre strutture, essa dev’essere parte di un unico mondo. Tutte le strutture sono strutture della sostanza, senza che quest’ultima possa mai venir realizzata strutturalmente, poiché altrimenti non potrebbe esistere alcuna struttura e dunque alcunché. Tutte le strutture si trovano pertanto in un insolubile conflitto fra loro e con la sostanza stessa, dalla quale allo stesso tempo dipendono. Il mondo è un sistema vivente che deve costruire strutture per poter in generale esistere. Queste strutture si trovano in contraddizione fra loro escludendosi attivamente, ma grazie a ciò esse rinnovano incessantemente l’unità del mondo. Il mondo è una gigantesca contraddizione, poiché lo stesso, la sostanza, presenta determinazioni contradditorie. Il mondo si manifesta addirittura solo in un insieme di descrizioni incompatibili fra loro. Gli incompatibili stati di cose del mondo sono gli stati di un unico e stesso, cioè il mondo, per questo esso è contraddittorio. Il mondo è dunque un’unità differenziale contradittoria di sostanza (fondamento) e struttura (esistenza). Quest’unità differenziale è di fragile costituzione, dato che la struttura esclude la sostanza e viceversa. Il contrasto fra struttura e sostanza non può risolversi con la sparizione delle strutture, poiché la struttura può esistere solo se si costruiscono strutture che si distinguono dalla sostanza. Schelling annoda ontologia e storia attorno al pensiero di una contraddizione ontologica del mondo in quanto tale. L’essere stesso è storico perché i suoi due aspetti, sostanza e struttura, sono incompatibili e tuttavia non possono sussistere uno indipendentemente dall’altro. La storia è il tentativo di revocare questa contraddizione dando forma a sempre nuove strutture. Lo stesso scritto di Schelling s’immette nella storia, poiché si avvicina narrativamente, o come Schelling puntualizza, “dialogicamente”29 a una dimensione che non può ancora essere 28 SW, VII, 399; p. 239. Schelling non parla ovviamente del mondo, bensì di “Dio”. “Dio” è però solo il nome affibbiato al mondo nella sua interezza, nella misura in cui esso si riferisce a se stesso. Che il mondo si riferisca a se stesso lo dimostra l’esistenza dell’uomo, attraverso il quale il mondo si rende trasparente a se stesso. Ciò nonostante l’uomo non è Dio, poiché, a differenza dell’uomo, Dio non designa di volta in volta un individuo che si trova nel mondo, o piuttosto che ek-siste nel mondo, ma il mondo intero nella misura in cui esso è creatore di struttura. Per questo Schelling può teorizzare che in Dio vi sia qualcosa che non è Dio stesso, appunto il fondamento della sua esistenza, giacché Dio è Dio solo in quanto autoreferenzialità del sistema nella sua totalità e non in quanto punto di partenza di quest’ultimo. 29 SW, VII, 410 (Anm.); p. 265 (nota).
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esplicabile predicativamente. La storia che conduce alla costruzione di strutture predicativamente esplicabili, e con ciò a una razionalità discorsiva logicamente connessa, verrà da lui più tardi tematizzata come una “coscienza mitologica”30. Il fondamento del mondo è la sua sostanza. Certo il fondamento si trova in conflitto con il mondo, fuoriuscendo da esso, perché il mondo esistente nel quale viviamo è una ripartizione di cose, fatti e ambiti oggettuali, che appartengono certamente al mondo, ma che seguono leggi proprie, le quali possono venir via via descritte tramite differenti metodi e criteri. A differenza della sostanza, l’esistente è la struttura del mondo. All’esistente ci si può riferire in modo intenzionale, mentre ciò non è possibile per quanto concerne la sostanza. Per questo motivo, in ogni epoca, la nozione di sostanza ha sollevato l’enigma di cui si sono occupati gli antichi attraverso concetti concernenti la materia come la chora (Platone) e la hyle (Aristotele), enigma ancora inseguito da Kant, in epoca moderna, con il concetto generale di un fondamento di tutte le sensazioni, la cosa in sé. Il concetto schellinghiano di fondamento si presenta, dunque, in generale come lo stato minimale di uno spazio logico-ontologico, nel quale noi possiamo muoverci conoscitivamente, per quanto il suo fondamento è proprio ciò che non possiamo mai incontrare come qualcosa di determinato. Le molteplici cose esistenti appartengono a un unico mondo. Il fondamento garantisce l’unità del mondo, ma tende allo stesso tempo al superamento dei molteplici stati del mondo. Se mai gli riuscisse di superare tutti gli stati del mondo, esso tuttavia non sarebbe più il fondamento del mondo. Se il fondamento si dissolvesse in molteplici stati del mondo, inoltre, non esisterebbe più alcun mondo, bensì solo un disparato insieme di cose e proprietà, che a guardar bene nemmeno esisterebbero, poiché per esistere dovrebbero essere determinate e dunque in una relazione di esclusione/inclusione reciproca. Ciò presuppone però, detto con una terminologia classica, sia un fondamento di relazione sia uno di distinzione, vale a dire la possibilità di un’unita comprensiva, di un continuativo, che non è nulla di ciò che è determinato31.
30 Cf. sull’argomento i miei già citati Der Mensch im Mythos e Mythology, Madness and Laughter. 31 Cf. sul tema l’analisi fichtiana del principio di ragione nella Wissenschaftslehre del 1794, in: J.G. Fichte, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Bd. 2, c/ di R. Lauth e H. Jacob, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1965, p. 272 e ss. Sul concetto di “continuativo” si veda W. Hogrebe, Echo des Nichtwissens…, cit., p. 338 e ss. Che il concetto di fondamento schellinghiano si presenti come un’ontologizzazione della filosofia del principio di ragione è stato messo in evidenza da Cem Kömürcü, Sehnsucht und Finsternis, Passagen, Wien 2012.
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Le cose devono dunque coappartenersi, devono formare un sistema. Il mondo ha perciò una struttura, solo perché è un mondo. Sebbene escludendosi continuamente, la sostanza del mondo e la sua struttura si coappartengono in maniera inscindibile. Questa connessione di sostanza e struttura che Heidegger ha ribattezzato nella sua interpretazione di Schelling la “commessura dell’Essere”32, è perciò per sua natura fragile. Ora, anche noi siamo un caso dell’essere. Anche noi abbiamo una struttura, trovandoci da sempre in svariate relazioni che rinegoziamo incessantemente. In ogni istante della nostra vita cosciente ci troviamo, infatti, in sempre nuove circostanze alle quali dobbiamo applicare modelli consolidati senza poter mai essere certi che questi modelli rimangano utilizzabili senza variazioni. La nostra rispettiva biografia cognitiva ripete di conseguenza la struttura dell’ente come tale, anch’essa è un continuo confronto tra sostanza e struttura. In questo Schelling vede chiaramente che la struttura di sostanza e struttura non accade esclusivamente come un modello invariante dell’intenzionalità, come voleva la filosofia trascendentale. L’intenzionalità stessa è piuttosto anch’essa un caso dell’essere. L’assunto fondamentale del “più elevato realismo” schellinghiano, cioè che l’intenzionalità stessa è qualcosa di esistente, lo protegge a limine sia dalla riduzione soggettivistica del non-pensante al pensante sia dall’inversa riduzione oggettivistica. Sia il soggetto che l’oggetto sono pur sempre qualcosa, vale dire qualcosa di esistente, a partire da ciò si rende possibile una rinascita critica dell’ontologia. III. Il non-fondamento come inattingibile Altro Solo grazie al fatto che fondamento ed esistenza si distinguono, può darsi qualcosa di esistente. Questo significa nella fattispecie che la differenza fra fondamento ed esistenza, grazie alla quale questi si tengono insieme in un’unità differenziale, non può essere qualcosa di esistente. L’evento della differenza non sottostà ad alcuna condizione apofantica e non può perciò venir completamente esplicato in alcun ambiente predicativo. Come scrive il tardo Schelling, “nell’eternità non c’è nessun ‘come’[als]; ‘come’ qualcosa, per esempio ‘come’ A, non può essere posto nulla senza esclusione di un non A. Qui, però, il Soggetto è ancora solo essere puro, cioè irriflesso, procedente gradualmente, non
32 M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, c/ di E. Mazzarella e C. Tatasciore, Guida, Napoli, 1994, p. 187.
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posto come tale. Ogni venir-posto come tale, infatti, presuppone una riflessione – un venir-riflesso –, dunque già un contrario”33.
Precisamente questa figura del pensiero, su cui si basa il concetto dell’essere imprepensabile, viene adoperata da Schelling già nella Freiheitsschrift. Il non-fondamento viene introdotto come quella dimensione nella quale possono in generale accadere distinzioni. Esso caratterizza l’ipotetico stato indefinito dello spazio logico-ontologico che Milton Munitz ha chiamato “unbound existence” e che si potrebbe in maniera ancor più calzante definire l’Irrelato, non potendo qui certamente ancora parlare di esistenza34. Siccome al non-fondamento non è attribuibile alcuna distinzione, esso non possiede alcun predicato, ad eccezione dell’“assenza di predicati”35. Ne consegue che il non-fondamento va essenzialmente distinto dall’essere originario, poiché a quest’ultimo convengono un insieme di predicati. Pertanto non si può nemmeno attribuire a Schelling una ristretta metafisica della volontà, giacché il non-fondamento si colloca al di là del volere. Non appena qualche cosa viene voluto e dunque qualcosa esiste, venendo tenuti separati fondamento e esistenza, il non-fondamento non si lascia più contrapporre alla differenza. Esso passa nella differenza, vale a dire è indifferenza36. Se il non-fondamento s’irrigidisse nell’al di là dal processo di differenziazione fra fondamento e esistenza, finirebbe per opporsi a questo, divenendo con ciò determinato e di conseguenza non più opponibile. Il non-fondamento viene dunque integrato nel processo solo a posteriori, non appena avviene l’esistenza, costituendo allo stesso tempo la possibilità del superamento del processo, l’amore. La supposizione di un non-fondamento diviene plausibile ricorrendo al concetto fregeano della predicazione intesa come saturazione di una funzione. Si ponga infatti la questione: date le condizioni di un’ontologia dualistica fregeana di concetto e oggetto, che cosa sarebbe un oggetto non ancora vincolato concettualmente? Chiamiamo quest’oggetto “x”, 33 F.W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, c./ di A. Bausola, Bompiani, Milano 2002, p. 1057 [SW, XIV, 106]. 34 M.K. Munitz, Cosmic Understanding. Philosophy and Science of the Universe, Princeton University Press, Princeton 1986. Per questa indicazione sono debitore a W. Hogrebe. 35 SW, VII, 406; p. 257. 36 Schelling pensa questo processo anche come sdoppiamento. Si veda in particolare sull’argomento il seguente passaggio tratto dalle Lezioni private di Stoccarda (al quale mi ha rimandato Cem Komürcü): “Ma ogni cosa può rivelarsi solo nel suo opposto: quindi l’identità nella non-identità, nella differenza, nella distinguibilità dei principi. […] Questo passaggio dall’identità alla differenza lo si è inteso assai spesso come un’abolizione dell’identità; ma questo non è il caso, come dimostrerò immediatamente. Si tratta piuttosto di una duplicazione dell’essenza, e quindi di un accrescimento dell’unità” (F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, c./ di L. Pareyson, Mursia, Milano 1990, p. 145-46 [SW, VII, 424].
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indicando in tal modo che esso non è ancora stato posto sotto alcuna condizione predicativa. Con ciò lo leghiamo già, attribuendogli il predicato dell’assenza di predicati, come scrive Schelling a proposito dell’indifferenza assoluta. X è già una determinazione di “– come dobbiamo designarlo?”37. Lo spazio vuoto espresso attraverso un trattino nel testo, che Schelling battezza come “non-fondamento”, viene da lui definito “il punto più alto della ricerca”38. Egli risolve l’apparente antinomia di monismo e dualismo solo attraverso la paradossale mediazione del non-fondamento. Il nonfondamento è infatti da una parte il nome per un’unità ante-predicativa che si scompone in tutte le predicazioni, aprendo in tal modo una spazio per la contingenza e la fallibilità, d’altra parte resta conservato come il continuativo nel fondamento e nell’esistenza, non permettendo ad essi di separarsi completamente. In tal contesto è decisivo che il processo della differenza possa divenire amore. “Ma l’amore è la realtà suprema. Esso è ciò che era prima che fossero il fondamento e l’esistente (come separato), ma non era ancora come amore, bensì – come dobbiamo designarlo?”39.
Il non-fondamento attraversa un processo: esso passa dall’indifferenza all’amore. Il processo dal basso verso l’alto della costituzione di una fragile matrice ontologica di fondamento e esistenza si lascia quindi interpretare come l’infondata trasformazione dell’indifferente non-fondamento in amore. Questa trasformazione si può esprimere con la seguente formula: l’indifferenza perviene tramite la differenza all’amore. L’indifferenza è nella differenza, essa è il nome per l’infondato evento della differenza, che non può tuttavia mai condurre a un dualismo. Schelling cattura questa dinamica nella distinzione fra “al contempo” e “allo stesso modo”40. Il nonfondamento è per questo “allo stesso modo” nel fondamento e nell’esistenza come presenza di una condizione assente, senza essere entrambi “al contempo”. “Ma il non-fondamento si divide nei due inizi ugualmente eterni, solo perché questi, che non potevano essere insieme o uno in esso, come non-fondamento, diventino uno attraverso l’amore, cioè esso si divide solo perché ci siano vita e amore e l’esistenza personale”41.
37
SW, VII, 406; p. 255. Ibidem. 39 Ibidem. 40 SW, VII, 408; p. 259. 41 SW, VII, 408; p. 259-61. 38
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In questa maniera, tra l’altro, Schelling scardina la gerarchia metafisica tradizionale di principio e principiato. Il non-fondamento non è appunto un fondamento trascendente che condiziona tutto il finito, irrigidendosi nella propria trascendenza (come la moné dei neoplatonici), sebbene venga definito da Schelling “l’assoluto per antonomasia”42. Esso è piuttosto il nonfondamento e perciò anche l’Impotente. Esso impedisce semplicemente l’esiziale effetto di una sovrastante simmetria fra fondamento e esistenza, essendo presente in entrambi “allo stesso modo”, cioè essendo entrato nella differenza. Detto altrimenti, l’assoluto rende possibile un processo di differenza dal quale può scaturire l’amore. Tuttavia quest’ultimo non è l’asimmetrico rapporto di un principio con un principiato e proprio per questo non si trova nella cornice di una classica metafisica dei principi. “Poiché l’amore non è né nell’indifferenza né dove gli opposti sono legati, i quali hanno bisogno di tale legame per essere, ma (per ripetere un’espressione già usata) questo è il segreto dell’amore, che esso congiunge ciò che avrebbe potuto essere per sé e tuttavia non lo è, e non può essere senza l’altro”43.
Mostrandosi in una differenza infondata, il non-fondamento può solamente diventare amore. Non appena la differenza appare, esso la tiene insieme, poiché essa appare solo sullo sfondo di un’inafferrabile unità che costituisce se stessa. A guardar bene essa diventa unità solo a posteriori. L’amore è perciò il nome per una differenza infondata che riconosce la disponibilità della propria unione. Il riconoscimento di tale unità è dunque il riconoscimento di qualcosa che non si lascia controllare in modo logico o concettuale, per questo esso è un inattingibile Altro della riflessione. È certamente degno di nota che Schelling definisca il non-fondamento l’“essenza” del fondamento e dell’esistenza, definizione che certamente si lascia intendere con Heidegger nel senso attivo di essenza. Il nonfondamento si essenzia (west) nel fondamento e nell’esistenza. Pertanto esso necessita della differenza fra fondamento ed esistenza, per poter precedere, solo in quanto assoluto, fondamento e esistenza. Qui Schelling utilizza di nuovo la logica dell’a-posteriorità: ciò che precede tutte le predicazioni, in quanto loro presupposto, le anticipa come tale solo a posteriori, vale a dire solo quando è stato stabilito un ambiente predicativo44. Schelling definisce questa logica dell’a posteriori “chiarimento determinato”45: 42
SW, VII, 408; p. 259. SW, VII, 408, p. 261. 44 Cf. M. Gabriel, Nachträgliche Notwendigkeit – Gott, Mensch und Urteil beim späten Schelling, in: “Philosophisches Jahrbuch”, I/ 2009, p. 21-41. 45 Cf. SW, VII, 408; p. 259. 43
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“L’essenza del fondamento, come quella dell’esistente, può essere solo ciò che precede ogni fondamento, dunque l’Assoluto in quanto tale, il non-fondamento. Ma quest’ultimo (come mostrato) non può essere tale se non scindendosi in due inizi ugualmente eterni, non nel senso di essere l’uno e l’altro insieme, ma in ognuno allo stesso modo, e dunque in ognuno come la totalità, o un’essenza propria”46.
La logica retroattiva dell’a-posteriorità cozza di continuo contro i limiti dell’espressione, poiché s’imbatte in qualcosa che non è mai stato qualcosa, ma che va tuttavia accettato se si vuole che qualcosa possa venir determinato come qualcosa. In tutte le esplicazioni concettuali di ciò che significa che qualcosa esiste, c’è un confine espressivo insuperabile che è proprio della riflessione in quanto tale. Essa si costituisce infatti tramite qualcosa che le si sottrae. Ma la riflessione può fare esperienza di tale costitutiva ritrazione solo nello sforzo più estremo dell’esplicazione. Detto questo, passiamo a alcune considerazioni conclusive. IV. Conclusione Con la sua innovativa ontologia critica Schelling si oppone in due modi all’idealismo trascendentale di Kant e Fichte47. In primo luogo egli critica il residuo di cartesianismo che esclude il soggetto dal mondo o include il mondo nel soggetto. Il baratro cartesiano fra spirito e mondo viene colmato grazie al fatto che anche la soggettività è da intendersi come qualcosa di esistente, da cui consegue un’ontologia del vivente e della personalità. Questo permette inoltre a Schelling l’elaborazione di un’ontologia vivente, poiché anche le sue formulazioni, in quanto testo, esistono. In secondo luogo Schelling sviluppa una logica dell’a-posteriorità che vale anche, se non prima di tutto, per la riflessione stessa. Nel tentativo di assicurare le proprie condizioni e di renderle trasparenti in quanto presupposti di se stessa, la riflessione s’imbatte in una ritrazione costitutiva. Ciò che essa presuppone non può ancora stare sotto le condizioni apofantiche che sono per lei costitutive, in tal modo essa, nella mediazione di una logica identitaria già stabilita, appare solo come assente, come indifferenza. Il confronto con l’indifferenza rende perciò prima di tutto possibile l’amore inteso come un fragile compromesso fra energie continuative e dissipative. Il soggetto non può controllare le proprie condizioni, poiché il tentativo di renderle palesi e di elevarle a oggetto di riflessione genera nuovamente uno sfondo, un resto oscuro, che dovrebbe a 46
SW, VII, 407-408; p. 259. Wolfgang Cramer procede in maniera analoga col suo radicare la teoria della soggettività in un’“ontologia trascendentale” (si veda su ciò la sua Grundlegung einer Theorie des Geistes, Klostermann, Frankfurt a.M. 1957). 47
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sua volta farsi contenuto di una riflessione di ordine superiore, destinata a sua volta a fallimento. Di conseguenza Schelling radicalizza il progetto kantiano di un’automeditazione critica della ragione considerata dal punto di vista della propria finitezza, inglobando la finitezza della riflessione trascendentale e ontologica. La finitezza è espressione di una costitutiva instabilità ontologica e di certo non semplicemente un lato di un limite stabile che passa fra mondo esterno e mondo interno. L’intenzionalità è un caso dell’essere e non un eterno tipo di struttura al quale non ci si può sottrarre. Essa è il risultato di un processo contingente e qualcosa che per principio si può travalicare. Il superamento della soggettività e della sua struttura circolare, che vorrebbe tradurre tutto in struttura e disfarsi delle proprie condizioni, è possibile solo attraverso l’amore. Per non escludere la possibilità dell’amore si ha bisogno di una nuova ontologia critica che rovesci l’asimmetrico modello di trascendenza della tradizione da un modello “dall’alto verso il basso” a un modello “dal basso verso l’alto”48. Solo così potremo comprendere in profondità la fragilità di tutto ciò che esiste ed essere possibilmente capaci di rovesciare nuovamente la perversione dei principi, il male radicale, originatosi con la libertà. (trad. it. di Simone Luca Maestrone)
48
Cf. W. Hogrebe, Echo des Nichtwissens…, cit., p. 317-30.
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Pavao Žitko
L’Existenzphilosophie e l’impossibilità di pensare la Trascendenza di fronte all’esposizione jaspersiana di una dottrina dell’Umgreifendes
1. Introduzione L’insufficienza di un autonomo porsi dell’esistenza e la necessità di un’apertura esistenziale all’Essere sono i tratti distintivi del pensiero di Karl Jaspers. Il radicamento ontologico dell’esistenza è stato riconosciuto dallo Jaspers nell’equivalenza che vige tra la portata speculativa dell’espressione subsistere e la nozione stessa di existere. «Ciò che significa ‘io sono’ [...] – afferma l’Autore – è detto da Dante della beatitudine dell’angelo […]: ‘perché suo splendore / potesse, risplendendo, dir Subsisto’ – e aggiunge: Subsistere è sinonimo di existere. La frase non vuol dire “io ci sono”, assolutamente, in modo autosufficiente, ma “io sono” (subsisto) in rapporto alla Trascendenza, ciò che noi, seguendo Kierkegaard, diciamo esistenza».1 L’autentico porsi dell’esistenza nei confronti di se stessa e nei confronti dell’altro da sé presuppone, perciò, in Jaspers, una consapevolezza della necessità di un’apertura esistenziale verso ciò che si pone come condizione indispensabile dell’esistere in quanto subsistere. Ciò sotto cui giace l’esistenza nella sfera immanente del suo manifestarsi è ciò che nel lessico dell’Existenzphilosophie è stato reso da diversi termini, semanticamente sinonimi tra i quali, per la loro pertinenza alla presente esposizione, sottolineo: Trascendenza, Verità, Dio2 e Umgreifendes. 1 K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi & C., Milano 1970, p. 142. 2 La progressiva introduzione dell’espressione “Dio” nella filosofia del maturo Jaspers è stata ampiamente affrontata dalla letteratura di cui testimonianza è stata documentata anche in: D. Tolvajčić, Transcendencija, filozofijska vjera i šifra «Bog». Neki aspekti metafizike Karla Jaspersa, in: B. Pešić - D. Tolvajčić (curatori), “Filozofija egzistencije Karla Jaspersa”, Hrvatsko društvo ‘Karl Jaspers’, Zagabria 2013, p. 120: «Tra i primi che se ne sono
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Il presupposto fondamentale del filosofare jaspersiano è dunque l’indubitabile fatto che Dio “è”;3 il compito dell’esistenza, invece, è pervenire, nell’autochiarificazione di se stessa, alla sempre più evidente consapevolezza del suo radicarsi ontologico in ciò che la sovrasta. Tuttavia, nel presente scritto problematizzo precisamente questo punto di partenza, che non risulta affatto così ovvio nella cornice speculativa della filosofia dell’esistenza. Purché esso non venga compreso come un mero presupposto basato esclusivamente su una convinzione dello Jaspers, bensì come un’indubitabile certezza all’interno del filosofare jaspersiano, occorre chiarire in che modo l’esistenza diventa consapevole della propria insufficienza. Questo non è un problema nuovo, dal momento che anche lo stesso Jaspers si è posto la domanda «Come fa il pensiero ad accertarsi della divinità?»,4 aggiungendo immediatamente dopo: «Mediante il superamento di ogni pensabilità, di ogni distinzione, di ogni determinatezza» (ivi). Si tratta, dunque, dell’impossibilità di pensare ciò di cui si è certi. «La certezza dell’essere si esprime nel pensiero» (ivi, 560) – afferma Jaspers, ma «questa certezza non è una ragione logica; essa ha piuttosto in sé un carattere prelogico, vitalistico o esistenziale» (ivi). Il compito iniziale di questo scritto è, dunque, quello di chiarire in che modo il pensiero si rapporta a ciò che esso non può pensare, ma che si presenta come l’indiscutibile certezza sia dell’attività di pensare che del contenuto effettivamente pensato. «La questione è [dunque] se entro le forme del pensiero si possa colmare l’abisso tra l’uomo e la trascendenza?» (ivi, 522). L’analisi dell’argomento di questa portata teoretica induce alla questione della teologia negativa in Jaspers. Il riferimento che la presente ricerca mantiene con la letteratura5 che si è occupata nello specifico di questa occupati è stato Helmuth Pfeiffer nel suo lavoro L’esperienza di Dio e la fede (Gotteserfahrung und Glaube) dove esplicita che “nel dopoguerra, Jaspers tende a utilizzare il nome ‘Dio’ per la trascendenza”; anche l’allieva di Jaspers, Jeanne Hirsch afferma che “Jaspers di volta in volta (e più spesso nei lavori maturi) chiama la trascendenza ‘Dio’.” Tra gli studiosi più giovani, vanno indicate le monografie di Kurt Salamun e Werner Schüßler. Secondo la nostra opinione, comunque, questa “svolta” è stata esplicitata al meglio da Frederic Copleston il quale afferma che “nella più tarda filosofia di Jaspers possiamo vedere la svolta versa una posizione teistica più chiara”». 3 W. Schüßler, “Šifra kao jezik transcendencije. Je li Karl Jaspers ‘negativni teolog’” in: B.T.Pešić - D. Tolvajčić (eds.), Filozofija egzistencije Karla Jaspersa, op. cit., p. 98: «[…] per lui il fatto che Dio “è” è fuori di ogni dubbio». 4 K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, op. cit., p. 548. 5 Riporto, in parte, la nota presente nel testo di W. Schüßler, “Šifra kao jezik transcendencije. Je li Karl Jaspers ‘Negativni teolog’” in: B. Pešić - D. Tolvajčić (curatori), Filozofija egzistencije Karla Jaspersa, op. cit., p. 81-101, dove l’autore mette in evidenza una serie di testi in cui l’argomento è stato affrontato: M. Werner, Der religiöse Gehalt der Existenzphilosophie, Bern, 1943; Idem, “Existenzphilosophie und Christentum bei Karl Jaspers”, in:
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problematica trova la corrispondenza con quanto esposto da Schüßler nel suo scritto Chiffer als Sprache der Transzendenz. Ist Karl Jaspers ein Negativer Theologe?6 Andando oltre le parole dello Jaspers, che più volte ha esplicitato il proprio disaccordo con le posizioni che sottolineavano nel suo pensiero la presenza dei postulati teologici,7 nel lavoro qui proposto delineo i tratti tipici della speculazione filosofica della teologia negativa riscontrabili 8 in Jaspers assieme a ciò che della stessa non può essere attribuito all’Existenzphilosophie. Una volta chiariti questi presupposti speculativi, affronterò la questione dell’effettiva esposizione di una dottrina dell’Essere in Jaspers assieme alle cause di una mancata percezione della portata teoretica dello scritto Von der Wahrheit9 in cui essa è stata ampiamente elaborata. L’estrema complessità teoretica di quest’opera si ripercuote anche sulla terminologia in essa adoperata; il compito di questa ricerca, perciò, è anche quello di vedere qual’è l’unico significato del termine Umgreifendes, che in Jaspers può risultare paragonato all’Essere. Tuttavia Jaspers è chiaro su questo punto: «Nella domanda [ontologica], benché verbalmente essa sia posta in termini concettuali, vi è un attimo – l’attimo improvviso del comprendere – nel quale
“Schweizerische Theologische Umschau” 23 (1953); M. Dufrenne - P. Ricoeur, Karl Jaspers et la philosophie de l’existence, Parigi 1947; H. Droz, Der religiöse Gehalt der Transzendenzphilosophie von Karl Jaspers, Hamburg 1955; F. Kaufmann, “Karl Jaspers und die Philosophie der Kommunikation”, in: Karl Jaspers, c/ di P.A. Schlipp, Stuttgart 1957; H. van Oyen, “Der philosophische Glaube” in: “Theologische Zietschrift “14, 1958; X. Tilliette, Karl Jaspers: Théorie de la vérité. Métaphysique des chiffres. Foi philosophique, Paris 1960. 6 Il testo è stato consultato sia nella sua versione originale (W. Schüßler, “Chiffer als Sprache der Traszendenz. Ist Karl Jaspers ein Negativer Theologe”, in: Wie lässt sich über Gott sprechen? Von der negative Theologie Plotins bis zum religiösen Sprachspiel Wittgensteins, WBG, Darmstadt 2007) sia nella sua traduzione croata (W. Schüßler, “Šifra…, etc.” in: B. Pešić - D. Tolvajčić…, op. cit., p. 81-101). 7 Ad es. nel suo testo Cifre della trascendenza, Casa Editrice Marietti, Torino 1974, p. 19, Jaspers afferma: «[…] chi crede di essere un ateo, chi non crede a nulla se non a ciò che è percepibile nella realtà [...], questi non troverà gioia nelle mie lezioni, ma penserà: tutto ciò è illusione; oppure, come quarant’anni fa mi disse uno studente: «Ciò che Lei insegna non è altro che una teologia mascherata». 8 Come visibile dalla precedente nota, Jaspers ha dichiaratamente rifiutato la definizione teologica della filosofia dell’esistenza. Tuttavia, per quanto riguarda la teologia negativa, il rifiuto non è così netto. La legittimità di una ricerca sulla presenza della teologia negativa in Jaspers è attestata da quanto esposto, in diversi luoghi, nell’opera dello stesso Jaspers. Nel suo testo La fede filosofica di fronte alla rivelazione, op. cit., p. 540. Jaspers scrive: «La teologia negativa agisce come un’ombra debole, che in occidente non fa veramente altro che accrescere la luce del magnifico mondo delle cifre». 9 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper & Co. Verlag München/ Zürich 1946.
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non si opera per concetti, ma nel modo del come se ciò accadesse, ed è qui che si tocca l’estremo limite del conoscere». 10
L’utilizzo jaspersiano del termine “conoscenza” (Wissen) e le conseguenze teoretiche derivanti da questo utilizzo nella cornice speculativa della filosofia d’esistenza, costituisce l’argomento centrale del presente scritto. «Io non posso essere vera esistenza mediante il mio sapere d’esistere»11 – afferma l’Autore e aggiunge: «Se voglio saperlo, io svanisco come esistenza».12 L’autentico rapportarsi dell’esistenza con se stessa e di conseguenza con la Verità insita in essa, non è compatibile con la gnosis, all’interno della quale il lessico all’Autore contemporaneo spesso esauriva il significato di Wissen. La questione si fa ancor più complessa di fronte alla seguente affermazione: «L’esistenza, sapendosi (weiß) donata, è fondamentalmente nascosta».13 Ma dal momento in cui «ogni conoscere [...] è una conoscenza d’apparenza, pur esso parte dell’apparenza, incluso nel cerchio dell’apparenza»,14 occorre esaminare di che tipo di conoscenza si tratta quando essa si pone come conoscenza autentica. A questo punto, la domanda sorge spontanea e rientra nel dominio del quesito centrale del presente scritto: «Se i nostri enunciati su Dio non mantengono benché minima validità conoscitiva, con quale diritto io posso accettare [in Jaspers] l’esistenza di Dio?».15 In altre parole, come fa la filosofia dell’esistenza a conciliare l’assenza di qualsiasi annunciato sull’Essere, in quanto assolutamente inconoscibile, con l’esposizione di una dottrina su di Esso? È legittimo, dunque, affermare che la risposta alla quale il presente scritto vuole pervenire, partendo dai presupposti e dalle condizioni suesposte, riguarda la validità di una possibile objezione sulla contraddizione16 interna 10 K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, op. cit., p. 555. Orig. ted.: Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, R. Piper & Co., München 1962, p. 409: «In der Frage, obgleich sie sprachlich in Begriffen gestellt ist, wird doch einen Augenblick – dem Augenblick des plötzlichen Versthens – nicht mit Begriffen operiert, sondern durch die Weise, als ob das geschehe, die äußerste Grenze des Erkennens betreten». <trad. it. corretta dal Red., corsivo del Red.> 11 K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, op. cit., p. 143. Orig. ted. Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, op. cit., p. 120-21: «Ich kann nicht durch Wissen, daß ich existiere, wirkliche Existenz sein». 12 ivi, “Will ich es wissen, so verschwinde ich als Existenz”. 13 ivi, “Existenz, weil sie sich geschenkt weiß, ist im Grunde verborgen”. 14 K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 564. 15 W. Schüßler, “Šifra kao jezik transcendencije. Je li Karl Jaspers ‘Negativni teolog’”, in: B. Pešić - D. Tolvajčić (cur.), Filozofija egzistencije Karla Jaspersa, op. cit., p. 98. 16 ivi, «L’accettazione dell’esistere divino presuppone il possesso di una qualche nozione su di esso. La stessa accettazione induce però al rifiuto di qualsiasi conoscenza su Dio. La posizione di Jaspers sembra contraddittoria […]».
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del filosofare jaspersiano tra l’impossibilità di pensare la Trascendenza e l’effettiva esistenza di una dottrina dell’Umgreifendes.
2. Il significato speculativo del termine Umgreifendes Il significato dell’Umgreifendes rappresenta una notevole complessità speculativa e si riferisce a «tutto ciò che circoscrive e delimita nella sua comprensione una certa zona o l’orizzonte dell’essere».17 Esso sta in Jaspers per tutto ciò che presuppone la capacità di circoscrivere un ambito; infatti, come afferma l’Autore stesso, «noi operiamo il trascendimento verso l’Umgreifendes, quando oltrepassiamo l’oggettività determinata per accorgerci di ciò che la circoscrive; sotto questo profilo possiamo chiamare ogni modo dell’Umgreifendes una Trascendenza, tale è infatti ogni modo dell’Umgreifendes, rispetto a tutto ciò che di oggettivo è compreso nell’Umgreifendes stesso. Chiamiamo però Trascendenza in senso proprio solo l’Umgreifendes simpliciter, cioè l’Umgreifendes di tutti gli Umgreifende, il cui significato è originario e unico. Esso è, nei confronti di tutti i modi dell’Umgreifendes che tendono alla Trascendenza, la Trascendenza di tutte le Trascendenze» (ivi 58-59). Ciò che, dunque, determina un Umgreifendes in quanto Umgreifendes è la capacità di trascendere la particolarità di ciascuna determinazione dell’essere e, circoscrivendola, conferirle il senso. L’Umgreifendes si riferisce, dunque, I) alla nozione di coscienza, nella sua triplice accezione18 di a) “coscienza empirica” o Dasein19 che circoscrive gli enti «sotto il profilo della loro utilizzabilità» (ivi, 59.);
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K. Jaspers, Sulla Verità, La Scuola, Brescia 1970, p. XXIX. ivi, p. 36: «Chiamiamo ‘coscienza’ in primo luogo, la nostra esperienza vissuta (l’Interiorità); in secondo luogo, il pensiero oggettivo di qualcosa (il Sapere); in terzo luogo, la riflessione della coscienza su se stessa (l’Autocoscienza)». 19 ivi, p. 39: «Dasein significa etimologicamente: “Esserci” (Sein = essere, da = ci); il Dasein, allora, indica l’empiricità come tale, il complesso dell’io e delle cose considerate in quanto “ci sono” e costituiscono il mondo, ovvero quell’esteriore atmosfera delle cose, in cui l’io si muove come una delle tante. Ma se da un lato l’io può essere ridotto a strumento nell’economia mondana dell’utilizzabilità (das Zugreifen), questa sua riduzione non sarà mai irriflessa al pari della altre cose che pure «ci sono» (sind da). Questa emergenza che l’io, in quanto “c’è” (Dasein), rivendica nei confronti delle altre cose che pure «ci sono» (da-sind), è la coscienza che l’io ha di se stesso. […] la coscienza come Dasein, essenziale nei rapporti pragmatici che si instaurano nell’orizzonte del mondano, non si rivela altrettanto essenziale nell’orizzonte del veritativo che si realizza anche senza il realizzarsi della coscienza empirica, [….], della cui conferma, la verità non ha assolutamente bisogno». 18
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b) “coscienza-in-generale”20 che delimita gli enti secondo i criteri della loro classificazione e categorizzazione; c) “coscienza dell’essere”21 riferita a ciò che, non essendo delimitabile, delimita tutte le sue determinazioni, vale a dire l’essere stesso in quanto Trascendenza; II) al mondo, concepito non come una totalità di oggetti, ma come la realtà che circoscrive gli oggetti. 22 Se, da una parte, Jaspers afferma che «il mondo, considerato in se stesso, è una realtà circoscrivente o Umgreinfendes» (ivi, 51), dall’altra parte, invece, egli evidenzia il pericolo di una sua assolutizzazione in grado di impedire il suo autentico rimando all’Umgreifendes di tutti gli altri Umgreifende, ovvero alla Trascendenza in quanto tale. Infatti, «l’aver presente tutti i modi dell’Umgreifendes impedisce, in primo luogo, che si isoli quell’Umgreifendes che è l’essere-del-mondo, e, in secondo luogo, che lo si assolutizzi [...]; in questo modo si evita di restare incatenati nel mondo» (ivi, 53); III) alla «Trascendenza, o Umgreifendes di tutti gli Umgreifende, [che] è ciò che, considerato semplicemente nella sua dimensione circoscrivente, “è”, in una accezione assolutamente incontrovertibile» (ivi, 60). La sua incontrovertibilità consiste nel fatto che è la Trascendenza stessa a 20 ivi, p. 40-41. «Questa coscienza-in-generale è l’espressione dell’intersoggettività intellettuale, organo tipico del discorso scientifico, che […] si arresta a ciò che è valido per ogni intelletto […]. In questo modo, la scienza non mette in questione il questionante, ma lo pone al sicuro, al di fuori della questione, sulla rocca intaccabile dell’intersoggettività intellettuale. Questo perché ciò che interessa alla scienza sono i contenuti, non il pensiero che li pensa; i contenuti, poi, le interessano alla sola condizione che rispondano ad un’organismo logico che si presume identico in ogni intelletto (coscienza-in-generale, o intersoggettività intellettuale) e che offrano sufficienti garanzie nell’ordine di una verifica empirica». 21 ivi, pp. 45-47.: «Chiamiamo ‘coscienza assoluta’ la coscienza dell’essere in quanto presenza attuale. […] Il filosofare, oltre ad essere la nostra essenza, è anche la via che risveglia il ricordo, attraverso il quale, noi ritorniamo al fondamento. Ma se nulla mi viene incontro, se io non amo, se attraverso il mio amore, ‘ciò che è’ non mi si dischiude, ed io in lui non divento me stesso, allora per me la possibilità dell’essere rimane senza voce, ed io mi riduco ad un mero ‘Esserci’ suscettibile di essere utilizzato come un qualsiasi ente materiale». 22 ivi, p. 51. «Il termine ‘mondo’ non è assunto da Jaspers nell’accezione di ‘totalità degli enti’ il cui complesso costituisce la ‘natura’, ma nell’accezione di ‘realtà circoscrivente’ (Umgreifendes), e quindi avvolgente la totalità degli enti; sotto questo profilo, allora il mondo non è una totalità di oggetti, ma il luogo in cui gli oggetti appaiono. La precisazione […] rimanda ancora una volta alla distinzione tra scienza e filosofia: la scienza si occupa del mondo come di quell’insieme di enti suscettibili di essere organizzati in un sapere, la filosofia, invece, si occupa del mondo per scoprire il fondamento che sostiene e com-prende (umgreift) la totalità degli enti. Nel primo significato il mondo è Welt, nel secondo è Weltsein (letteralmente: essere-mondo); l’essere, infatti, è ciò per cui tutti gli enti sono».
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rendere possibile ciò che essa determina e non viceversa. La realtà della Trascendenza non dipende dunque dalla capacità del pensiero di trascendere ciò che, in quanto finito, gli si presenta e dunque appare, ma è essa stessa il presupposto essenziale di ogni possibile trascendere. L’Autore afferma che «se noi pensiamo la Trascendenza come Umgreifendes, o realtà onnicircoscrivente, la chiamiamo Essere» (ivi, 63), ovvero «ciò che nei confronti dell’ente passa per primo e, sollevandolo dall’insignificanza, conferisce ad ogni ente il significato» (ivi, 20). Dopo aver distinto, dunque, «la trascendenza costituita da ogni tipo di Umgreifendes rispetto agli enti da lui circoscritti, dalla Trascendenza vera e propria (ivi, 58) concepita come «fondamento e anima di tutti i modi dell’Umgreifendes» (ivi, 60) risulta chiaro che nella presente ricerca sarà presa in analisi soltanto l’ultima accezione del termine.
3. Note sulla genesi dell’esposizione della dottrina dell’Umgreifendes e sulla sua portata speculativa Concepita come il primo nella serie dei volumi dedicati a una Logica filosofica che «avrebbe dovuto rappresentare, per la speculazione contemporanea, ciò che per l’idealismo era stata la Logica di Hegel e per il positivismo quella di Stuart Mill» (ivi, p. V), Von der Wahrheit è, senza alcun dubbio, l’opera che contiene la jaspersiana dottrina dell’essere. L’opera di notevole portata, in sé stessa strutturalmente e contenutisticamente compiuta23, presenta una complessa articolazione della periechontologia24 jaspersiana e, dunque, una chiara posizione sull’argomento d’Umgreifendes. In altre parole, è precisamente con quest’opera che Jaspers si esprime, in modo sistematico, sulla questione del 23
U. Galimberti, “Introduzione” in: K. Jaspers, Sulla Verità, cit. Nell’introduzione alla traduzione italiana di Jaspers, K., La fede filosofica, Marietti Editori Ltd., Torino 1973, p. 23, Umberto Galimberti, il curatore del testo, afferma: «Il termine «periechontologia» può essere reso letteralmente con: «discorso (logos) intorno a ciò che abbraccia (periechei) gli enti (ta onta). […] La periechontologia non è lo studio degli enti (ontologia), ma ciò che stando intorno (peri) agli enti, li abbraccia e li fa essere. Questo quid è l’essere stesso che […] abbraccia (umgreift = periechei) le sue determinazioni o enti». Tuttavia, ritengo che la distinzione jaspersiana tra l’ontologia e la periecontologia rappresenta un argomento di estrema complessità teoretico-filologica e in questa sede aggiungo soltanto che l’ontologia autentica, riferita all’essere stesso in quanto fondamento, non si discosta, a mio avviso, dall’originaria intenzione jaspersiana di enfatizzare l’accezione ontologica dell’esistenza in un discorso periechontologico. Ho già avuto modo di esporre questa tesi al Convegno tenutosi a Kligenthal (Francia) dal 27 al 31 ottobre di quest’anno (Das Wek von Karl Jaspers im Kontext der europäischen Philosophie); per la sua importanza, questa tesi sarà, di certo, anche l’argomento di uno dei miei prossimi lavori sull’Autore. 24
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Fondamento, ovvero sulla Verità stessa dell’esistere che funge da presupposto di ogni ulteriore filosofare; infatti, lo stesso Autore afferma che «la Verità è il destino della filosofia, perché se la Verità non esistesse la filosofia non avrebbe nessun significato».25 Un chiaro riferimento all’Umgreifendes e ad una sua sistematica elaborazione, seppur di portata non paragonabile a quella di Von den Wahrheit, troviamo già nelle lezioni di Groningen del 1935, pubblicate da Wolters lo stesso anno e seguite poi da una seconda edizione di Storm del 1947, mentre la terza edizione fu pubblicata due anni dopo e seguita da una ristampa nel 1960. In effetti, sono state proprio le lezioni di Groningen a costituire una prima elaborazione (ma non l’effettivo primo volume) del progetto sulla Logica filosofica e non sorprende, dunque, la presenza dei riferimenti all’Umgreifendes, molto prima, dunque, del 1947. Ma siccome anche il testo del 1938, dal titolo La filosofia d’esistenza26, altro non è che l’ulteriore approfondimento di Ragione ed esistenza27, anche qui troviamo un continuo riferimento a ciò che Jaspers chiama l’Umgreifendes, ma c’è da ricordare anche la terza parte della monumentale Filosofia, pubblicata nel 32 dall’editore Springer, in cui l’Autore esplicitamente afferma28: «Di ogni esserci particolare chiedo il fondamento; della totalità dell’esserci chiedo di nuovo il fondamento. Con questa domanda trascendo dall’esserci all’essere».29 Tuttavia, la percezione della portata teoretica dell’opera Von der Wahrheit, dedicata interamente alla valenza speculativa della nozione di Verità nei confronti di ciò che Essa rende possibile, è stata significativamente compromessa dall’effettiva inesistenza di una traduzione integrale in lingua italiana.30 Le traduzioni parziali del testo31 sono, perciò, di essenziale importanza per l’interpretazione speculativa del pensiero d’Autore. 25
K. Jaspers, op. cit., p. XL. K. Jaspers, Existenzphilosophie. Drei Vorlesungen, W. de Gruyter, Berlin 1938. 27 K. Jaspers, Vernunft und Existenz, Wolters, Groningen 1935. 28 Anche se la presente citazione è stata tratta dall’ultima edizione dell’opera, il fatto che Jaspers non aveva visto alcunché di contraddittorio nell’inserirla all’interno del testo già esistente, legittima il suo utilizzo anche in quest’occasione. 29 K. Jaspers, Metafisica, U. Mursia & Co., Milano, p. 149. 30 In occasione al già menzionato Convegno tenutosi a Kligenthal, questa tesi mi è stata confermata anche da alcuni colleghi italiani, in particolar modo, da Stefania Achella, una delle maggiori conoscitrici del pensiero dell’Autore, autrice di molti e significativi lavori sul suo pensiero, tra i quali: Achella, S., Rimanere in cammino. Karl Jaspers e la «crisi» della filosofia, Guida ed., Napoli 2012; Achella, S. - Donise, A., (c/ di), Scritti psicopatologici, Guida ed., Napoli 2004. 31 I.A. Chiusano (c/ di), Del Tragico, Saggiatore, Milano 1959; D. Di Cesare (c/ di), Il linguaggio. Sul Tragico, Guida Ed., Napoli 1993; U. Galimberti (c/ di), Sulla Verità, cit. 26
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È significativo, dunque, che più di un decennio prima della stesura di Von der Wahrheit, Jaspers abbia sentito l’esigenza di andare oltre l’esistenza, parlando sempre dell’esistenza e in funzione dell’esistenza, ma trattando anche l’argomento ontologico senza il quale l’esistenza stessa non si darebbe. Il fatto, dunque, che il primo volume di una logica filosofica sia interamente dedicato alla questione ontologica per eccellenza non è di secondaria importanza dal momento in cui c’è, in Jaspers, una chiara consapevolezza del fatto che «l’essere è ciò che, nei confronti dell’ente, passa per primo e, sollevandolo dall’insignificanza, conferisce ad ogni ente il significato. La non-definibilità che compete all’essere in quanto è il primum, viene superata attraverso il pensiero che realizza l’unità dell’essere con la totalità dei suoi modi»32; l’unità dell’essere alla quale, contenutisticamente e col pensiero, non si giunge, ma alla quale costantemente si tende, nella profondità di ciò che nel suo manifestarsi l’esistenza riesce a cogliere. Questo è il motivo per il quale l’esposizione sistematica della dottrina dell’Umgreifendes non corrisponde ad un sapere sistematico su ciò che esso è in se stesso. La già esplicitata e l’indiscutibile compiutezza dell’opera non introducono – in Jaspers – la possibilità di un sistema filosofico, dichiaratamente rifiutata33 dall’Autore stesso, ma esprimono la consapevolezza di una necessità d’esposizione e di una minuziosa elaborazione della portata speculativa dell’argomento senza il quale la stessa attività del filosofare, nel suo esplicarsi, non si darebbe.
4. L’ulteriorità della Trascendenza e l’impossibilità di pensare l’Essere per la filosofia d’esistenza Jaspers si è sempre astenuto dal postulare una Trascendenza sulla quale sia possibile pronunciarsi in modo esaustivo e sistematico; ha insistito, perciò, sull’ulteriorità trascendente dell’esistenza per non contaminare la dimensione ontologica del dato né con una particolare visione, storicamente determinata,34 in grado di racchiudere la plurivocità dei significati possibili in un’unica e pur sempre particolare visione del mondo né tantomeno ha 32
K. Jaspers, Sulla Verità, cit., p. 20. K. Jaspers, Filosofia I. Orientazione filosofica nel mondo, Mursia, Milano 1997, p. 216: «Il filosofare non può costituirsi in alcun sistema […]. Trasformarsi in sistema significherebbe, per il filosofare, morire; per questo esso si riconquista al di là di ogni sistema, e rimane in lotta col sistema che esso stesso, pensando, produce». 34 L’esistenza è in Jaspers sempre storicamente determinata; l’interpretazione alla quale l’esistenza arriva nella lettura cifrata del mondo, risulta sempre marcata dalla storicità del suo Standpunkt. 33
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voluto pronunciarsi sull’ovvia necessità della Trascendenza in termini di un sapere che l’esistenza avrebbe potuto, interrogandosi e chiarendosi, avere su di Esso. È molto più evidente, in Jaspers, l’insistenza sull’impossibilità di pensare l’essere che l’esposizione sistematica35 di una dottrina dell’essere. Le ragioni di questo esito speculativo sono di natura puramente teoretica. Jaspers è esplicito su questo punto: «Non c’è alcuna concezione dell’essere in grado di concepire tutto l’essere in cui noi ci troviamo. Questa è la mia situazione che io, filosofando, non dimentico».36 L’avvertimento di questo tipo non induce, però, a un arresto del filosofare in Jaspers, ma si presenta come un’autentico filosofare. Infatti, continua l’Autore: «Occorre distinguere tra ciò che è direttamente presente nella sua immediatezza [...] sicché se ne può parlare direttamente in categorie37, e ciò che così non esiste, sicché se ne parla solo indirettamente, fraintendendolo, e quindi, in ogni caso, necessariamente in categorie. La contrapposizione può essere formulata schematicamente in questi termini. Lo svelamento dell’essere è conoscenza scientifica [...] e coglie di volta in volta un essere determinato, in maniera più o meno adeguata. L’accertamento dell’essere invece è il filosofare come trascendere oltre l’oggettività: per il tramite delle categorie, esso coglie
35 Il termine sistematico in quest’occasione è stato utilizzato soltanto in modo figurativo; come già menzionato nella nota n° 47, Jaspers ha più volte rifiutato la possibilità di un sistema filosofico. 36 K. Jaspers, Metafisica, cit., p. 39. 37 Nella sua Metafisica Jaspers dedica un’intero capitolo, secondo in ordine d’esposizione, alla questione del trascendere formale. «Per pensare l’essere trascendente devo ricorrere inevitabilmente a forme determinate, perché il trascendere verso l’impensabile è di volta in volta legato, nelle sue espressioni, a singole categorie.» (citato da: Paolo, C., Il trascendere formale in Karl Jaspers. Strumenti ed esiti di una metafisica non oggettiva, Vita e Pensiero, Milano 1986, p. 70. Sempre nel secondo capitolo della Metafisica, Jaspers scandisce le categorie in tre tipi: dell’oggettivo in generale, della libertà e della realtà. L’influenza della filosofia kantiana è evidente e non è mai stata negata dallo Jaspers. Anzi, nella Fede filosofica, op. cit., p. 61., l’Autore si esprime in seguente maniera: «È questo il momento di ricordare la famosa dottrina di Kant [...]. Questo pensiero doveva nascere, perché nelle sue linee di fondo era già stato abbozzato ovunque c’era stata una seria applicazione filosofica; a Kant, quindi, spetta il merito di essere stato il primo a prenderne pienamente coscienza e a conferirne un’esposizione metodica. […] Il pensiero di Kant si fonda sulla concezione fenomenica della nostra realtà che ci appare nella scissione soggetto-oggetto, legata allo spazio e al tempo che sono le forme dell’intuizione e alle categorie che sono le forme del pensiero. Solo attraverso queste forme l’essere diviene oggetto per noi, diviene quindi fenomeno, ossia ciò che di esso noi possiamo conoscere, e non ciò che in sé è. L’essere in sé non è né l’oggetto che ci sta dinanzi e che possiamo percepire e pensare, né il soggetto».
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inadeguatamente in oggettività che lo rappresentano ciò che in sé non può mai diventare oggetto».38
Il pensiero volto all’essere «non può entrare nell’angustia soffocante di un essere saputo, inteso come essere autentico. Che cosa sia l’essere autentico lo si esperisce di volta in volta muovendo dalla libertà, e non esiste come oggetto conosciuto» (ivi, 40-41). Jaspers ha presupposto, dunque, una distinzione alquanto netta tra ciò che il pensiero conosce39 e ciò al quale esso si rivolge malgrado40 l’impossibilità di una sua applicazione categoriale. Tutto ciò che si pensa, si pensa in categorie d’intelletto; 41 ciò che trascende, invece, l’oggettività data, si pensa sempre con le categorie, ma cercando di trascendere le stesse categorie. Risulta, dunque, impossibile pensare, in Jaspers, l’essere in maniera adeguata; tuttavia, l’esito teoretico di questa posizione non diventa quello dell’assoluta non pensabilità del trascendente. Infatti, scrive l’Autore: «Se ho pensato una volta ciò che l’essere non è, non posso fare a meno di pensare all’essere stesso; nel pensare il non-assoluto tocco indirettamente l’essere dell’assoluto. […] Io dunque non posso né pensare l’essere assoluto, né cessar di volerlo pensare. Questo essere è la Trascendenza, perché io non posso comprenderlo, ma devo trascendere verso di esso in un pensiero che si conclude in un non-poter-pensare. Ora, il pensiero che non può fissare la Trascendenza 38
K. Jaspers, Metafisica, cit., p. 40. Come già accennato, il conoscere è in Jaspers, proprio come in Kant, strettamente legato a ciò che dell’essere si rende esperibile. Ciò che supera la scissione soggetto-oggetto, non si presta al pensiero e, in quanto tale, risulta inconoscibile. 40 Jaspers è stato alquanto esplicito sul fatto che «Kant non può essere assolutamente evitato [...] senza di lui si resta acritici in filosofia» in: K. Jaspers, I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 704, ma non ha esitato ad affermare anche che «Kant non è affatto l’intera filosofia.» (K. Jaspers, ivi) «Kant dev’essere completato ma in modo tale che si faccia innanzitutto valere in tutta la sua pienezza la verità e la forza del suo filosofare» (ivi). 41 La distinzione kantiana tra l’intelletto e la ragione nel senso stretto del termine è condivisa anche dallo Jaspers. Le categorie operano nella sfera empirica del esserci; infatti, «se per ragione si intende il pensiero oggettivamente chiaro» – afferma Jaspers – «il mutarsi dell’indistinto nel distinto, [...] noi la chiamiamo, secondo la tradizione dell’idealismo tedesco, anche intelletto (Verstand)» (K. Jaspers, Ragione ed esistenza, Bocca, Milano 1942, p. 68). Mentre invece, «la ragione è sempre troppo poco se viene chiusa in forme determinate, prese come definitive […]. Ciò che io cerco nell’atteggiamento razionale è una infinita chiarezza: comprendo […] la realtà empirica [...ma]; sono tuttavia cosciente dei limiti […] della possibilità di raggiungere in generale un’assoluta chiarezza» (K. Jaspers, Ragione ed esistenza, cit., p. 69-70.) La ragione è «la forza che tutto lega, richiama e stimola, il cui limite è sempre dato dalla forma in cui si esprime, ma supera sempre ogni limite, perché vive in una perenne insoddisfazione.» (ivi, p. 69-70). Il terreno solido dell’esperienza non appaga la necessità della ragione di trascendere oltre l’oggettività data. L’insoddisfazione è, dunque, generata dalla mancanza di un riferimento empirico in grado di esaurire le pretese dell’intelletto. 39
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come pensata deve annullare il pensato nel pensiero. Ciò accade nel trascendere dal pensabile all’impensabile».42
Il pensato è, dunque, sempre una rappresentazione che il pensiero si fa partendo da ciò che appare; tuttavia, ciò che, manifestandosi, si coglie nell’oggetto, non esaurisce la portata teoretica della sua sorgente, «perché tutto ciò che si può pensare appartiene immediatamente e di nuovo al mondo oltre il quale bisogna trascendere. […] Il pensiero si pone un limite che non può oltrepassare, e che, per il fatto stesso ch’esso lo pensa, lo spinge a oltrepassarlo» (ivi, 133). Il pensiero, dunque, annulla se stesso nel pensare ciò al quale manca un corrispettivo esperienziale e si apre dunque lo “spazio” a un’ulteriorità del pensato. «Si tratta di un continuo e incessante passaggio dal pensare al non-poter-pensare, che comporta non solo il trascendere da un pensato all’impensabile, ma anche l’annullamento di sé del pensiero stesso: un non pensare, che giunge a un chiarimento col solo fatto che né pensa qualcosa né pensa niente. Questa dialettica che si annulla da sola è un pensare specifico, che non mi dice nulla finché l’oggettività e l’evidenza rimangono per me le sole condizioni che mi consentono di avvertire qualcosa, ma che è essenziale per la chiarificazione della mia coscienza filosofica dell’essere» (ivi, 134-35).
Il trascendere è, dunque, indispensabile purché il dato non diventi l’assoluto, mentre il “pensare specifico” si riferisce alla cognizione di questa ulteriorità del pensato. È precisamente il pensiero ad ammettere l’impossibilità di dispiegarsi su ciò che trascende, per definizione, l’immediatezza degli oggetti d’esperienza possibile.43 L’impensabilità della Trascendenza ha reso in Jaspers questa stessa Trascendenza del tutto ulteriore a qualsiasi contenuto dato dell’esperienza. Tutto ciò di cui il soggetto si fa una rappresentazione in Jaspers, lo fa in quanto un essere determinato che si rapporta a un’altro essere determinato.44 42
K. Jaspers, Metafisica, cit., p. 132-33. Jaspers esplicitamente riconosce il valore dei limiti che il criticismo kantiano pone come condizione di un discorso filosofico giustificato e fondato. Infatti, scrive l’Autore: «La concezione di Kant, che noi conosciamo le cose perché le produciamo secondo la forma mediante la coscienza in generale, giustifica il valore del conoscere: noi conosciamo ciò che noi stessi, come «soggetto in generale» abbiamo creato. […] Non hanno ragione né i metafisici dogmatici né gli scettici. Il processo non si chiude a favore di nessuna delle due parti. Esso finisce quando si presenta la concezione della filosofia critica» (K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 519). 44 K. Jaspers, Metafisica, cit., p. 136: «L’essere che io colgo è un essere determinato. Se ne cerco il fondamento trovo un altro essere. Se ne cerco l’essenza, si presenta accanto ad esso, per confronto, un altro essere. Si tratta quindi sempre di un essere tra gli altri nel mondo». 43
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Di conseguenza, la differenza ontologica tra l’essere e l’ente viene violata ogniqualvolta si cerca di appiattire la portata teoretica dell’ulteriorità sulla superficie dell’onticamente altro da noi. La forma linguistica che permette l’espressione “tutto l’essere” non garantisce la validità dell’enunciato, dal momento in cui «si tratta solo di parlare dell’essere come somma degli esserci e degli enti pensati, somma che senza potersi concludere si dissolve nell’infinito, e ch’io quindi, per quanto cammini, non posso mai raggiungere, né tanto meno aver davanti agli occhi nella sua compiutezza» (ivi). «Anche se poi questo fosse possibile, rimarrebbe sempre l’essere che io non posso pensare come essere-in-sé, perché l’essere si presenta sempre come un esser-oggetto per un soggetto. Nella misura in cui è in sé rimane impenetrabile» (ivi, 137).
Il pensiero è, dunque, in Jaspers, inevitabilmente legato ai contenuti dell’esperienza possibile. Andare oltre i limiti dell’esperienza induce al naufragio del pensiero e all’ulteriorità del pensato. Infatti, come afferma lo stesso Autore, «se voglio pensare qualcosa devo pensare qualcosa di determinato. L’essere come essere determinato è essere-pensato. L’essere come trascendente, in quanto impensabile e indeterminabile, è nulla» (ivi, 139). Occorre, però, chiarire che non si tratta di un nulla assoluto, ma del nulla del pensare, ovvero dell’impossibilità stessa di pensare ciò che al pensiero risulta trascendente. «È un nulla determinato, nel senso di essere il nulla di un determinato qualcosa, il cui essere-nulla deve significarlo» (ivi, 140). La Trascendenza non è determinata, non si fa determinare e, in quanto tale, trascende in Jaspers la determinazione che caratterizza il particolare. Nel vuoto che si apre di fronte al pensiero, annullando la possibilità di un suo ulteriore dispiegarsi, Jaspers vede la Trascendenza, ma non la vede vuota. Il vuoto che fa naufragare il pensiero «è quel nulla il cui correlato sarebbe l’essere in assoluto. Ma questo essere nel pensiero della determinazione è un non-pensato e quindi un nulla» (ivi). Il nulla indica l’assenza della determinazione e, di conseguenza, l’indeterminato; «il nulla è l’essere autentico come non-essere di ogni determinazione. [….] L’essere puro e semplice è sempre a sua volta un non-essere di qualcosa di determinato» (ivi). Il non-poter-pensare non è, dunque, la conseguenza dell’assenza del contenuto da pensare. Jaspers stesso afferma che il vuoto e il nulla sono da concepire come l’impossibilità di pensare il contenuto “in eccesso” e per di più inadeguato alla capacità comprendente del pensiero. «Il nulla, come non-essere di tutte le determinazioni, è la sovrabbondanza dell’essere autentico. Essere e nulla si identificano. Il nulla è la pienezza
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indeterminata. […] È l’essere ancora del tutto indeterminato, che certo è nulla, ma nel senso dell’infinita pienezza della possibilità. Nel silenzio mi accerto, in maniera unica, dell’impossibilità del non-essere assoluto» (ivi, 140-41).
Di fronte al nulla, il pensiero, naufragando, trascende. La chiarificazione stessa dell’esistenza e il rapporto autentico con l’essere necessitano che il pensiero inevitabilmente si sacrifichi per lasciare intatta la trascendenza nella sua dimensione ontologica; il sopravvivere del pensiero, laddove il suo operare non è legittimo e laddove la sua comprensione si trasforma in una spiegazione,45 induce all’onticizzazione dell’ontologico. Il naufragio, dunque, non è un fallimento del pensiero dal momento in cui è il pensiero stesso ad accorgersi del proprio limite e dunque è una chiarificazione del pensiero entro i limiti di ciò che è legittimo pensare. Jaspers vede nell’ulteriorità, che in quanto tale è impensabile e irraggiungibile, la pienezza del pensato e della presenza. E non soltanto, vede piena questa stessa Trascendenza nonostante l’impossibilità di pensarla. È significativa l’affermazione jaspersiana secondo la quale «dopo aver pensato la trascendenza e l’immanenza nella loro assoluta distinzione, occorre pensarle dialetticamente nella cifra [ … ] se non si vuole che la trascendenza vada irrimediabilmente perduta».46 La cifra è, dunque, una nozione alquanto significativa dal punto di vista teoretico della quale Jaspers si serve per rendere connessi, nella loro assoluta e necessaria separazione, l’immanenza e la Trascendenza. «Chiamiamo cifra l’oggettività metafisica perché in sé non è la Trascendenza, ma il suo linguaggio» – scrive Jaspers nella Metafisica. «La cifra è l’essere che porta la Trascendenza alla presenza, senza che la Trascendenza debba diventare essere oggettivo e l’esistenza essere soggettivo».47 Senza la cifra, «ci sarebbe un al di là come Trascendenza e un al di qua come esperienza vissuta. Dal punto di vista oggettivo, Dio e il mondo starebbero l’uno di fronte all’altro come estranei. La scissione sarebbe l’instaurazione di una spaccatura senza relazione tra i due termini sperati. Rimarrebbe un mortale abisso tra il mondo e l’assolutamente altro […]. Se l’immanenza e la Trascendenza sono divenute del tutto eterogenee, per noi vien meno la Trascendenza» (ivi, 252)
– afferma l’Autore. Se, da una parte, la Trascendenza risulta impensabile e dunque ulteriore a qualsiasi capacità comprensiva dell’esistenza pensante, 45 Nel suo testo Allgemeine Psychopathologie. Ein Leitfaden für Studierende, Ärzte und Psychologen, Springer, Heidelberg-Berlin 1913, Jaspers introduce la distinzione tra verstehen, begreifen e erklären. La stessa distinzione si può trovare anche in K. Jaspers, “Eifersuchtswahn. Ein Beitrag zur Frage: ‘Entwicklung einer Persönlichkeit’ oder ‘Prozess’?” in: Gesammelte Schriften zur Psychopathologie, Springer Vrlg, 1963, p. 85-141. 46 K. Jaspers, Filosofia, Ugo Mursia Editore, Milano 1978, p. 1077-1078. 47 K. Jaspers, Metafisica, op. cit., p. 251-52.
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dall’altra parte, invece, Essa si rende presente tramite la cifra che la fa trasparire dall’oggettualità data. La cifra permette l’avvio del pensiero verso l’ulteriorità di fronte alla quale il pensiero stesso perisce, ma il suo perire è avvertito e in fin dei conti pensato dal pensiero stesso. E dunque, non è un fallimento del pensare, ma è un pensare autentico di cui autenticità è preservata dalla consapevolezza dell’inevitabile naufragio. In altre parole, il fallimento si riferisce al pensiero che, inconsapevole dei propri limiti, sottopone alle categorie ciò che le trascendente, riducendo, in questo modo, la portata teoretica dell’essere ad una semplice presenza oggettivata. Prima di rispondere, però, alla domanda sul modo in cui, nonostante la costante insistenza sull’ulteriorità, sia possibile parlare in Jaspers di una vera e propria dottrina dell’essere, occorre vedere se l’impossibilità di pensare la Trascendenza racchiude la filosofia d’esistenza nella cornice speculativa della teologia negativa.
5. La teologia negativa in Jaspers La questione della teologia negativa in Jaspers dev’essere affrontata da due punti di vista. Il primo è quello di vedere se la filosofia d’esistenza rientra nella definizione rigorosa della teologia negativa la quale «sostiene che la natura di Dio, per la sua assoluta trascendenza e infinitezza, in nessun modo è definibile: perciò ogni nome, attributo o predicato, in quanto mira a circoscrivere logicamente l’Essere per sua essenza illimitato, è contraddittorio».48 Ma dal momento in cui la stessa teologia negativa non può «giungere ad affermare l’impossibilità di qualunque teologia positiva [perché altrimenti non indurrebbe ad altro che] all’agnosticismo e allo scetticismo» (ivi), occorre vedere se la consapevolezza che Jaspers ha avuto della portata teoretica dell’Essere nei confronti dell’ente corrisponde a quel minimo positivo comunque ascrivibile alla teologia negativa? Per quanto riguarda la prima domanda, riporto fin da subito le parole di Schüßler secondo il quale «Dio [in Jaspers] non è assolutamente trascendente, bensì semplicemente nascosto».49 Infatti, nella sua Metafisica, lo stesso Jaspers afferma che «nel trascendere formale la divinità rimane nascosta».50 La non pensabilità dell’essere non è il risultato di una posizione che tenta di preservare la dimensione ontologica della Trascendenza con l’intenzione di non ridurla a nessuno degli attributi già compresi nell’essere 48
G. Faggin, a.v. “Teologia negativa” in: Enciclopedia filosofica, vol. VI, Sansoni, Firenze 1967, p. 411. 49 W. Schüßler, “Šifra kao jezik transcendencije. Je li Karl Jaspers ‘Negativni teolog’” in: B. Pešić - D. Tolvajčić (cur.), op. cit., p. 96. 50 K. Jaspers, Metafisica, op. cit., p. 167.
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stesso, ma è una vera e propria esperienza dell’impossiblità di pensare l’essere – nel tentativo di pensarlo. Trovo la conferma di questa tesi sempre nella Metafisica di Jaspers: «Che la divinità sia impensabile non è già pensato nel pensiero che come tale naufraga nel non-pensare» (ivi, 165). Se l’Essere fosse assolutamente trascendente non ci sarebbe, in Jaspers, l’iniziale avvio del pensiero che, tramite la lettura delle cifre, trascende verso l’Essere, naufraga e si rende consapevole della sua infinita irraggiungibilità. L’intenzione dello Jaspers, dunque, non è quella di postulare un Essere trascendente sul quale non ci si può pronunciare per non intaccare la dimensione ontologica ad esso propria; l’ulteriorità della Trascendenza è il risultato, invece, di un’autentica esperienza del pensiero che naufraga nell’intenzione di pensare l’essere e porta alla consapevolezza della sua irraggiungibilità. «La teologia» – afferma Jaspers – «insegna che Dio è la luce della nostra conoscenza, il fondamento della realtà, il sommo bene. […] Questa conoscenza di Dio propria della teologia, anche se non è un sapere vero e proprio, ha però il privilegio di realizzare in essa la forza del trascendere formale, che non è già realizzata con la semplice affermazione dell’impensabilità […]. Io la penso lungo il cammino dell’incompiutezza dell’esserci attraverso il non-pensare, che cerco di volta in volta, mediante determinate categorie in cui eseguo il salto che mi conduce là dove il pensiero cessa» (ivi, 165-66).
La consapevolezza di una costante ulteriorità è, dunque, il risultato di uno sforzo impegnato a pensare ciò che non si rende mai pensato. Questo ci porta alla seconda ragione per la quale Jaspers non può essere racchiuso nella definizione rigorosa della teologia negativa. Come espone Hommel51 e riporta Schüßler,52 «in Jaspers ‘le cosiddette categorie specifiche del sovrapensabile’ traggono la loro fonte, senza eccezione, nell’immanenza e la loro applicazione produce ‘una falsa conoscenza’. Questa concezione si distingue notevolmente dalla posizione della classica teologia negativa» (ivi). Non si tratta, dunque, di un rapporto dialettico tra la fonte della determinazione e la determinazione stessa, bensì di un vero e proprio “errore” nell’applicare all’essere ciò che l’esistenza, partendo da se stessa, nella autochiarificazione filosofica del proprio esserci, può sapere su ciò che funge da suo fondamento. Qui sorge, di nuovo, l’accezione del termine Umgreifendes che mette in risalto la forza che la Trascendenza esercita sull’esistenza, rendendole impossibile una chiara concezione dell’Essere e 51 C.U. Hommel, Ciffer und Dogma. Vom Verhältnis der Philosophie zur Religion bei Karl Jaspers, Zürich 1968. 52 W. Schüßler, “Šifra kao jezik transcendencije. Je li Karl Jaspers ‘Negativni teolog’” in: B. Pešić - D. Tolvajčić (cur.), op. cit., p. 96.
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permettendole di autochiarificarsi e di considerare l’Essere partendo soltanto dalle categorie esistenziali. Di conseguenza, applicare all’Essere ciò che si addice soltanto all’esistenza è un errore secondo Jaspers che induce ad una falsa conoscenza, o meglio, alla presunta conoscenza di ciò che non si può sapere. Il non-pensare rende l’esserci «incompiuto» e, di conseguenza, aperto all’ulteriorità sulla quale esso non si può pronunciare, ma di cui avverte l’assoluta indispensabilità per l’esistenza. In questo passaggio teoretico risulta legittimo notare che, nell’astenersi dal pronunciare ciò che potrebbe contaminare l’ontologico con l’ontico, ci sia effettivamente un non-dire e, dunque, un silenzio su ciò che non si può sapere. La comprensione del senso dell’essere può attuarsi, in Jaspers, soltanto partendo dalla dimensione tangibile della cifra (Realität), fino al limite estremo dell’avvertimento della Wirklichkeit che però è annunciata nel silenzio. Se il silenzio è la parola autentica53 – come afferma Jaspers – esso rappresenta il limite ultimo verso il quale si può spingere l’uomo nel suo pensare più autentico. Il silenzio autentico è il confine del comunicabile, il limite oltre il quale cessa ogni comprensione umana, incapace di avventurarsi nella sfera della pura trascendenza. Nel silenzio su ciò che Dio è, possono essere, notati degli elementi della teologia negativa in Jaspers. Ma «con questo, Jaspers condivide con la teologia negativa soltanto il primo passo, il passo della negazione. Il secondo passo, che si ‘appoggia’ al primo per poter arrivare, per il tramite della negazione, a un’evidente affermazione condizionata, egli categoricamente rifiuta».54
Scrive Schüßler: «La teologia negativa classica, nonostante la sua negazione, parte precisamente dal fatto che a Dio appartengono per es. la saggezza, bontà, unità, personalità, ecc. […] In questo non-sapere della teologia negativa è contenuto sempre un determinato ‘sapere’» (ivi, 95-96)
il quale, però, non può essere rintracciato nella filosofia di Jaspers. Il motivo è sempre lo stesso e risponde anche alla seconda domanda: soltanto l’autochiarificazione dell’esistenza porta alla consapevolezza dell’indispensabilità della Trascendenza e soltanto tramite le categorie con le quali si procede nell’autointrospezione esistenziale, si approda all’Essere. Ma dal momento in cui tali categorie risultano adeguate soltanto all’esistenza, non risulta legittimo affermare alcunché sulla Trascendenza in 53
K. Jaspers, Filosofia, p. 546. W. Schüßler, “Šifra kao jezik transcendencije. Je li Karl Jaspers «Negativni teolog’” in: B. Pešić - D. Tolvajčić (cur.), op. cit., p. 100. 54
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senso positivo. Infatti, si può davvero parlare, per certi aspetti, di una «minore sensibilità ontologica» in Jaspers, per dirla con Moschini, ma non in quanto difetto, bensì in funzione di «un approfondimento della radicale ontologicità dell’esistenza».55 Lo stesso Jaspers afferma che la divinità «solo indirettamente, pur restando nascosta nella sua lontananza, sembra rivelarsi attraverso la storicità in cui l’esistenza scopre di volta in volta la sua56 Trascendenza nella lettura delle cifre dell’esserci, senza però comprendere, in termini universalmente validi e una volta per tutte, che cosa essa è. La divinità non si rende mai visibile in se stessa, ma solo nella sue tracce sempre equivoche. Non diventa mai una cosa nel mondo, ma può significare per l’esistenza la completa pace dell’essere, che per la sua immensità non si identifica con alcun essere determinato».57
Da quanto fino ad ora esposto emerge che la filosofia d’esistenza non rientra a pieno nella definizione rigorosa della teologia negativa, pur essendone alquanto ancorata. Non risultano, dunque, affatto infondate le ricerche58 che vedono in Jaspers una forte presenza dei postulati della teologia negativa; ma per i motivi sopraesposti non risulta affatto corretto definirla tale.
6. La possibilità di un autentico rapporto con la Trascendenza nei termini di libertà e senso L’impensabilità dell’Essere e l’esposizione di una dottrina su di Esso potrebbe davvero indurre a postulare una contraddizione interna all’Existenzphilosophie se non ci fosse in Jaspers un’altra via che induce alla consapevolezza che l’esistenza ha della Trascendenza. La certezza dell’essere59 deriva dalla domanda sul senso nella piena libertà del pensiero. Lo stesso Jaspers si pronuncia sull’argomento in modo seguente: «L’impulso di sapere ciò che veramente è, è volere se stessi: la coscienza di non essere autenticamente, spinge all’essere. […] La riflessione su di sé ci presenta alla coscienza […] due momenti inscindibili: io sono pensante, io sono libero. […] Nel sapermi pensante io sono in pari tempo certo di ciò: io sono libero. 55 Moschini, M., Cusano nel tempo. Letture ed interpretazioni, Armando Editore, Roma 2000, p. 66. 56 Il corsivo è mio. 57 K. Jaspers, Metafisica, op. cit., p. 167. 58 K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, op. cit., p. 522. 59 Nel suo – più volte citato – testo (W. Schüßler, “Šifra kao jezik transcendencije. Je li Karl Jaspers : ‘Negativni teolog’”), a p. 101, l’Autore scrive: “Le perplessità che Jaspers ha avuto intorno al pensiero volto a Dio sono interamente riconosciute e apprezzate. Il suo sforzo di salvare la divinità – nel suo esistere del quale egli è del tutto certo – dalla mondanizzazione e dall’oggettivazione, non può essere valutato a pieno dal momento in cui è necessaria una correzione di qualsiasi pensiero che si rivolge a Dio”.
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[…] Ma la stessa libertà io non l’ho da me. Io non mi sono fatto da me. Io non sono mediante me stesso. Io sono me stesso nella mia libertà, in quanto ciò per cui io sono libero è avvertito mediante la mia libertà ed è assieme pensato unitamente alla mia libertà.60 «[…] La conseguenza essenziale di questo auto-accertamento del modo in cui ci troviamo al mondo è questa: il mondo non è per noi tutto, ma non esiste nemmeno un altro mondo, un secondo mondo. Nelle forme di questo mondo, come cifre, ci viene alla coscienza ciò che ci parla dalla nostra provenienza autentica, mira ad essa e ad essa ci lega». 61
La via che induce all’accertamento dell’Essere non è, dunque, quella di un sapere già contenuto nella negazione di un possibile esaurirsi dell’essere nella sua mera determinazione, o quella del pensiero che nell’impossibilità di un’applicazione categoriale deduce la necessità dell’essere per l’esistenza, ma è quella di un inevitabile accorgersi dell’essere, partendo dal carattere mai finale dell’apparenza fenomenica e dal continuo rimando a quell’assenza alla quale allude la presenza della Realität. «I modi della totalità comprensiva62 non si includono per noi in un organismo chiuso di un tutto unico. Noi non vediamo in essi l’armonia d’una perfezione. La loro rappresentazione non è che uno strumento per il quale ci accertiamo nell’essere in cui ci troviamo attraverso i modi della presenzialità di questo. Per questi modi noi comprendiamo l’impossibilità di chiusura del Tutto unico e l’insolubilità per la nostra conoscenza del problema circa quest’unicità».63
Da una parte, dunque, l’apparire esprime la propria incompiutezza, mentre il non apparire trova la conferma nell’insensatezza della sola apparenza. Soltanto in quest’ottica interpretativa risulta comprensibile la posizione jaspersiana secondo la quale «con l’idea della fenomenicità del mondo ogni conoscenza oggettiva come tale acquista un altro senso» (ivi, 26). «Lo strumento estende la nostra coscienza in ogni possibile dimensione di senso, ma siccome strumento esso stesso non è concluso. Nel dire tutto questo noi sentiamo un’insopprimibile volontà d’Uno, volontà di ciò ove tutto appartiene a tutto, sta in interna connessione, ove nulla è invano, trascurabile, superfluo, ove nulla manca e nulla vien dimenticato» (ivi, 151).
La consapevolezza del carattere mai finale di tutto il fenomenico induce, dunque, in Jaspers al discorso sulla valenza ontologica della Trascendenza 60
Il corsivo è mio. K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 23-25. 62 Filippo Costa, il curatore del volume, ha optato per la traduzione del termine tedesco Umgreifendes, proponendo l’espressione “la totalità comprensiva”. 63 K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 150. 61
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nei confronti dello stesso apparire. Il rapportarsi esistenziale all’altro da sé, racchiuso nella sfera immanente della manifestazione dell’essere, mantiene invece il carattere autentico della riflessione su di esso soltanto se viene presupposto il radicarsi fenomenico in ciò dal quale la stessa esistenza trae la propria radice metafisica. Infatti, come afferma lo stesso Autore, «un intendere oggettivo rivolto alle cose deve, nell’esser se stesso, trasbordare in ciò su cui esso è fondato. Noi parliamo di qualcosa che, come oggetto, non mostra ciò che deve divenire presente per mezzo di esso» (ivi, 151).
La presenza oggettivata e in se stesso dunque manifestata costantemente rimanda alla necessità di un radicarsi nel non-oggettivo, mentre l’insistenza di trovare il fondamento oggettivato e nel proprio porsi costitutivamente finito, ha come conseguenza l’assenza di una risposta sul senso. La certezza che Jaspers ha avuto del carattere non-concluso del fenomenico apparire non è una convinzione presa come punto di partenza per un autentico filosofare esistenziale, bensì una necessaria risposta alla domanda sul senso nella piena libertà del pensiero all’interno della dimensione immanente del fenomenico porsi. «Nell’oggettivo e nel soggettivo riecheggia qualcosa di sovraoggettivo e di sovrasoggettivo» (ivi)– afferma l’Autore e aggiunge: «Se ci atteniamo all’oggettivo come tale, allora il nostro pensiero s’incammina tosto, per vie insensate, verso ciò che non ha né fine né contenuto» (ivi). La libertà stessa perciò è una nozione che inevitabilmente induce al discorso sull’autentico filosofare e questo perché «nella mia libertà mi viene incontro ciò per cui io sono libero» (ivi, 24). L’assenza della libertà significa, in Jaspers, l’abbandono alla causalità necessaria del fenomeno, senza alcuna possibilità di trascenderlo. Tuttavia, la libertà «in cui» e «grazie alla quale» si esplica la possibilità di trascendimento, non libera dal vincolo del fenomeno in Jaspers. Infatti, lo stesso Autore afferma che «se diveniamo consci dei fenomeni […], noi ci sappiamo, allora, nella scissione stessa di soggetto e oggetto, nella quale solo ci si può mostrare ciò che è, e pur sempre come in una prigione. Sebbene la chiarezza per il non possibile non sorga che mediante la scissione, noi vorremmo pure liberarci da quella prigionia. Vorremmo oltrepassare la scissione soggetto-oggetto, pervenireal suo fondamento, alla fonte di tutte le cose e di noi stessi» (ivi, 163).
La libertà dalla quale è caratterizzata l’esistenza nel suo rapportarsi a ciò dal quale essa stessa sorge, non induce alla liberazione dal vincolo esperienziale che, pur imprigionandola nella sfera immanente del proprio «ci», le permette di cogliere «il perché» dello stesso esistere. È una libertà di coscienza e
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soltanto in quest’ottica possono essere interpretate le parole di Jaspers secondo le quali «innanzitutto noi diveniamo liberi per il mondo. Poiché solo se il mondo [...] non si chiude, noi riusciamo a spezzare ogni immagine del mondo, ogni recinzione mondana che ci vuol tenere prigionieri […]» (ivi, 167-68).
Ma la natura di questa libertà non è contingente, non è settoriale e non è analizzabile da alcun altro punto di vista tranne quello autenticamente filosofico. Infatti, lo stesso Autore afferma che «essa è oggetto in quanto viene oggettivata psicologicamente come arbitrio, sociologicamente come libertà politica, psicopatologicamente come il sottrarsi alla libera determinazione del volere; ma essa non è un oggetto nel mondo, nemmeno per la psicologia, quando viene intesa nella sua indeterminabilità come libertà esistenziale autentica. Ma ambedue le cose, tanto la libertà e tanto quella irruzione del fenomeno colta dalla libertà, si presentano mediante realtà di fatto che non sono soltanto tali e mediante la comunicabilità nel fenomeno» (ivi, 200).
La libertà, dunque, intesa nel senso autenticamente filosofico è concepita dallo Jaspers come presupposto essenziale del rapporto con l’Essere e con ciò anche del coglimento del senso. Jaspers giungerà perciò ad affermare che «noi diveniamo alla fine liberi per noi stessi in rapporto alla trascendenza» (ivi, p. 168)
ma che «[…] solo la libertà si riferisce alla trascendenza» (ivi, 199). «Nel divenir consapevole della mia libertà, mi accerto della potenza dalla quale io sono donato a me nella mia libertà, cioè della trascendenza» (ivi, 145).
Per un autentico rapportarsi con il fondamento ontologico dell’esistenza nella direzione, dunque, del coglimento del senso, Jaspers ha più volte esplicitato la natura stessa della libertà dell’esistenza. In linea con l’accezione teoretica della libertà espressa nel senso autenticamente filosofico, l’Autore afferma che «[…] ciò che io sono, lo divengo mediante le mie decisioni. Se però io vedo la libertà dell’esistenza già nell’arbitrio o nell’assenso alla verità pensata, ho così mancato la libertà esistenziale. Infatti, la scelta, che è nella capacità d’essere dell’esistenza, significato l’autentica capacità d’essere di fronte alla
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trascendenza. L’idea di una creazione di se stesso, a partire dal nulla dell’arbitrio o della verità generale, è una chimera» (ivi, 141).
Proprio per la sua natura e per l’importanza che essa svolge nel rapportarsi autentico dell’esistenza con ciò nei cui confronti l’esistenza stessa si pone in quanto autentica, questa libertà permette il noto «capovolgimento»64 jaspersiano. Dal momento in cui «noi dormiamo nell’apparente chiarore della mera oggettività e della mera soggettività, concessoci dalla totalità comprensiva» (ivi, 161), il capovolgimento è il trascendimento in atto, non potendo essere mai del tutto concluso. Si capovolge, dunque, il punto di vista e – nell’impossibilità di agire sull’evidenza dell’effettivo Standpunkt – esso si pone come «un momento dell’inversione mediante il quale noi come uomini diveniamo uomini autentici» (ivi, 160). Soltanto con l’operazione filosofica che nel capovolgimento mette in atto la possibilità di uno sguardo dall’esterno, «allora tutto ciò che è per noi può apparire o come uno svelamento di ciò che è autentico o come il dischiudersi del vero reale autentico (ivi, 161). «La libertà infatti, riempita di un contenuto chiarificante» – continua l’Autore – «non è qui altro che il cammino verso l’oscurità che si chiarifica. L’arbitrio, come forma di scelta indifferente, è il cammino verso l’oscuro che diviene sempre più buio» (ivi, 24).
La necessaria oscurità del fondamento, purché esso non diventi oggetto, induce alla chiarificazione di ciò che fenomenicamente si pone come evidente apparenza della semplice presenza. L’esigenza di un’apertura nei confronti dell’oscurità chiarificante dell’esistenza è stata esplicitata dallo Jaspers nell’indeterminazione stessa dell’esistenza e nel suo autentico poteressere. Per poter autenticamente esistere occorre, in Jaspers, che la presunta autosufficienza dell’Existenz venga infranta dalla decisione di trascendere il contenuto dato dell’esperienza verso ciò che a questo stesso contenuto dona la possibilità di un sensato porsi. «L’esistenza [dunque, afferma l’Autore,] non è un essere determinato (Sosein), ma un poter-essere (Seinkönnen), cioè: io non sono esistenza, ma esistenza possibile. Non ho me, ma vengo a me. L’esistenza sta sempre nella scelta di essere o di non essere» (ivi, p. 139). «Io sono soltanto nella serietà della decisione. […] L’esistenza sta sempre nella scelta di essere o di non essere. […] L’esistenza è il ‘sé’ che si rapporta a se stesso e in ciò si sa riferito alla forza dalla quale esso è posto. […] L’esistenza è libertà (non la libertà dell’arbitrio dell’esserci […]) in un modo 64 Al problema della portata teoretica del termine “capovolgimento” Jaspers ha dedicato ampio spazio in: K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 157 e ss.
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incomprensibile: essa è libertà che non è da se stessa, ma che può mancare a se stessa. Non è libertà senza la trascendenza dalla quale essa si sa donata» (ivi).
È precisamente in questo passaggio teoretico che si trova anche la risposta sulla possibilità e soprattutto sulla legittimità di una dottrina dell’essere in Jaspers nonostante l’impossibilità di un pensiero che si dispiegherebbe sulla Trascendenza in quanto tale. Questo «sapere di essere, a se stessi, donati» è una consapevolezza esistenziale radicata nell’essere stesso dell’esistenza. Non è, dunque, un sapere a-posteriori, scaturito dal rapportarsi necessario con il corrispettivo esperienziale dal quale edificare, poi, una conoscenza su di esso, ma è piuttosto un costitutivo essere consci dell’impossibilità di donarsi e di rendersi a se stessi ontologicamente sufficienti. In altre parole, «l’esistenza non è la cosa singola che, come cosa oggettiva, ha una realtà di fatto infinita, ma vera realtà che è infinita, come compito di se stessa. L’esistenza non è solo venire al modo, ma origine da un luogo diverso, provenienza che viene ad apparizione nel mondo» (ivi, 140-41).
Dal momento, dunque, in cui il mondo è caratterizzato da una trans-parenza che rinvia sempre a quell’ulteriorità che offre il senso alla stessa apparenza, si coglie la jaspersiana insistenza sul carattere inautentico della vita autosussistente dell’esserci. «Sono i fenomeni corporei [dunque]» – afferma l’Autore – «che, divenuti cifre mediante la libertà, hanno perduto così il loro peso tedioso».65 Il punto di partenza, dunque, per tutte le ulteriori considerazioni e teoretizzazioni dell’essere in Jaspers è precisamente questo avvertire l’insufficienza dell’immanenza e l’inarrestabile desiderio di una desituazione del «pensiero» – come afferma Galimberti – «affinché questo proceda oltre ciò che è immediatamente presente per trovare il senso di ciò che immediatamente presente è, ma che la presenza immediata non rivela. Questo, perché il senso delle cose, dei dati, non è tanto in ciò che si dà, quanto in ciò a cui il dato, nel darsi, rinvia».66
7. Conclusione Nel presente articolo è stata analizzata la portata teoretica del postulato jaspersiano sull’impensabilità di Dio in quanto uno dei presupposti essenziali del suo filosofare. Lo stesso Autore afferma che “se dico che Dio è infinito, io penso Dio in un concetto che esclude già ogni idea e la stessa 65
K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 199. U. Galimberti, Linguaggio e civiltà. Analisi del linguaggio occidentale in Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1997, p. 190. 66
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pensabilità di Dio. Poiché ogni idea è finita, non si può dare alcuna idea di ciò che è al di là di ogni finito”.67 Tuttavia, nel presente articolo è stata messa in evidenza anche la certezza che Jaspers ha avuto del manifestarsi dell’Essere nella sfera immanente dell’empirico “Da”. È stato dimostrato, perciò, che l’esposizione jaspersiana di una dottrina dell’Umgreifendes è stata possibile partendo da questo preciso presupposto. La domanda principale, dunque, alla quale in questo scritto mi sono proposto di rispondere riguardava la compatibilità dell’effettiva esistenza di una dottrina dell’Essere (Umgreifendes) con l’impossibilità di pensare l’Essere nella cornice speculativa della filosofia d’esistenza. Anche se per Jaspers la trascendenza risulta impensabile dal momento in cui “non possono esserci categorie della trascendenza [visto che] le categorie sono determinazioni di pensiero valide per il mondo” (ivi, 533), tuttavia la certezza della trascendenza scaturisce dall’impossibilità di un porsi autonomo di questo mondo. Il pensiero naufraga di fronte all’ulteriorità dell’esperibile, ma tuttavia – afferma l’Autore – “il mistero ci diviene più chiaro quando rechiamo alla coscienza l’apparire come tale, il modo cioè in cui esso ha luogo nelle sue molte figure e nei tratti fondamentali che gli convengono come apparire” (ivi, 155). In altre parole, “[…] abbiamo bisogno dell’oggettività per accertare, con essa, il non oggettivo” (ivi, 158). L’autochiarificazione esistenziale nel mondo, che trascende il mondo in direzione di ciò che in sé non si rende oggettivabile, induce alla consapevolezza del fatto che “qualunque cosa io apprenda nel mondo, si tratti di una comprensione meccanicistica o di una presenza intuitiva, di un apparato o di una vita, di pensieri razionalmente finalizzati o di motivazioni inconscienti, di qualcosa di calcolabile o di indeterminato o di possibile, sempre ho a che fare con qualcosa di particolare che non ha in se stesso il proprio fondamento”.68
Ciò che legittima, dunque, la certezza che Jaspers ha avuto del divino darsi, è la consapevolezza dell’insufficiente fenomenicità del dato. L’assenza di una coscienza del limite induce a “una certa tranquillità […], ma questa pace, raggiunta dal sapere, non può durare, perché in essa si dimenticano i limiti” (ivi, 76). “È quindi necessario disturbarla, senza con ciò paralizzare gli interessi rivolti al sapere […]” (ivi) .
67 68
K. Jaspers, La fede filosofica ecc., cit. p. 522-23. K. Jaspers, Filosofia I. Orientazione filosofica del mondo, cit., p. 120.
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“Questi limiti […] sono importanti per l’esistenza possibile. Essi mostrano che non si può concepire il mondo concluso in se stesso come se fosse l’essere in sé e che l’orientazione nel mondo ha il suo senso […] solo se si parte da un’origine diversa rispetto a ciò che in essa è possibile conoscere” (ivi).
Nel presente articolo è stata, perciò, messa in evidenza la portata teoretica del concetto del limite dell’esperienza in Jaspers, dalla quale è scaturita la domanda sul senso nella piena libertà del pensiero. L’impossibilità di pensare ciò di cui si è certi una volta avvertiti i limiti della determinazione categoriale del fenomeno non entra dunque in contraddizione con l’esposizione di una dottrina dell’Umgreifendes. Anzi, come l’Autore stesso afferma, “il naufragio di ogni idea determinata dell’infinito, rivolta a cogliere l’infinità della trascendenza, è una via per divenire sempre più chiaramente coscienti della trascendenza stessa”.69
L’impensabilità della trascendenza non si inserisce, perciò, nella staticità di un circolo vizioso in quanto fine a se stessa. Anzi, “nella rottura della categoria ad opera del pensiero delle categorie che si attua nelle forme della impensabilità [...] può essere eseguito un trascendimento il cui senso non sta nel pensato, che anzi naufraga, ma in ciò che con ciò stesso si suscita” (ivi, 533-34). “Il pensiero stesso, quando vuole accertarsi della trascendenza, evita di andarsi a cacciare in un vicolo cieco. Quei pensieri, giusti da un punto di vista particolare, falsi da un punto di vista totale, non sono nulli perché solo nel loro superamento si fa chiaro ciò che altrimenti rimarrebbe inconscio e caduco” (ivi, 525).
Da ciò emerge che la dissoluzione della conoscenza oggettivante sulla Trascendenza non soltanto non risulta incompatibile con l’esposizione di una dottrina dell’Umgreifendes, ma si pone come condizione indispensabile per la formulazione della domanda sul senso che induce alla certezza dell’Essere. L’impensabilità dell’Umgreifendes è perciò possibile in Jaspers soltanto in vista di un’autentica concezione dell’Essere in grado di preservarlo dall’appiattimento alle categorie immanenti dell’empirico “Da”. La formulazione di una dottrina dell’essere è dunque possibile in Jaspers soltanto in direzione del coglimento del senso e dell’autochiarificazione dell’esistenza, consapevole dell’impossibilità di pensare ciò che rende possibile il suo stesso pensiero.
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K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, cit., p. 525.
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Roberto Redaelli
Emil Lask. Il destino del soggetto da Kant ai Greci
In apertura al corso universitario del 1911/ 12 dedicato a Platone, Lask compendia il senso di ogni ethos filosofico, e così del suo stesso Denkweg, nei termini di un’interrogazione originaria, di una letzte Angelegenheit, per cui “la domanda ultima è sempre questa: c’è qualcosa d’altro rispetto al mondo spazio-temporale, ma qual è la costituzione di questo altro? Questo è il tema di tutta la filosofia, il compito mai superato ed eterno!”1. A tale compito insoluto, e forse insolubile, che fa questione di una differenza, e ancor più di una dualità originaria entro cui si inscrive la domanda sull’altro dal sensibile, Lask tenta di cor-rispondere in un decisivo passaggio della Logica della filosofia. Nell’introduzione al suo opus maius il filosofo offre, infatti, una risposta, seppur provvisoria, alla domanda sulla totalità del pensabile, riconducendo tutte le dicotomie che si sono alternate nella storia della filosofia all’ultima e decisiva scissione – inaugurata da Lotze – tra essente e valente, tra “ciò che è e accade, e ciò che vale senza dover essere”2. In seno a quest’ultima dualità, declinata in termini windelbandiani, Lask disloca anche l’opposizione, squisitamente erkenntnistheoretisch, di Materie und Form, di elemento materiale ed elemento formale: il primo è contrassegnato dallo stigma incancellabile dell’irrazionalità, mentre il secondo è identificato con il piano oltre-empirico di validità. A questa dicotomia, e alla sua riduzione nei termini di Seiendes e Geltendes, Lask si appella non solo nelle opere mature, bensì ancor prima negli scritti giovanili, al fine di enucleare quel rapporto conoscitivo tra soggetto e oggetto, che, sebbene non venga a rappresentare, almeno fino alla Dottrina del giudizio, il tema centrale delle sue riflessioni, si ripresenta costantemente nel 1
E. Lask, Platon (1911/12), in: Id., Gesammelte Schriften, 3 B.de, hrsg. von E. Herrigel, Mohr, Tübingen 1923, Bd. III, p. 1-51, qui p. 4. 2 E. Lask, Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre. Eine Studie über den Herrschaftsbereich der logischen Form (1911), in: Id., Sämtliche Werke, 2 B.de, Scheglmann, Jena 2003, Bd. II, p. 1-246, qui p. 5.
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Denkweg del filosofo, dando vita a differenti figure e modelli di soggettività. Ricostruire l’emergenza di tali figure e la peculiare kinesis che esse incarnano è il compito che ci prefiggiamo, convinti che l’opera di risemantizzazione cui Lask sottopose il concetto di soggettività coinvolga buona parte del destino cui andò incontro tale concetto nella cultura filosofica di fine Ottocento e inizio Novecento, per approdare, infine, ad un esito originale.
1. Il Fichte-Buch. Dalla filosofia della storia al piano logicognoseologico Un primo confronto, seppur indiretto, con il problema gnoseologico è avviato da Lask in un contesto apparentemente avulso da problematiche relative alla teoria della conoscenza: si tratta della questione della struttura logica della storia, cui è dedicato la Doktorarbeit laskiana – Fichtes Idealismus und die Geschichte. Tale lavoro – discusso nel 1901 sotto la supervisione di Rickert e pubblicato nella sua versione definitiva l’anno successivo3 – si colloca nella scia del più ampio dibattito sulla distinzione tra scienze dello spirito e scienze naturali, in cui era impegnato oltre a Rickert anche e ancor prima Windelband, di cui Lask fu allievo fin dai primissimi anni della propria formazione universitaria. Tuttavia, differentemente dai due filosofi, Lask non mira, nella propria dissertazione dottorale, a esibire le distinzioni metodologiche-formali tra i due campi dello scibile umano, bensì intende mettere in luce la genesi del problema della struttura formale dell’oggetto storico o, secondo le parole introduttive al Fichte-Buch, di rimontare al “significativo inizio del fenomeno della consapevole ricerca filosofica che si volge al contenuto logico della storia stessa”4. In altri termini, il giovane filosofo pone la questione di individuare l’originaria posizione, la prima formulazione di quella domanda sulla struttura logica dell’oggetto storico – sulla geschichtsphilosophische Begriffsbildung – fatta propria dalle ricerche dei propri maestri. Di fronte a tale interrogazione la risposta laskiana appare inequivocabile: “Spetta a Fichte il merito di una prima conoscenza metodologica significativa della peculiarità logica dell’oggetto storico” (ivi, p. 19). 3
I dati bibliografici e biografici su Lask sono tratti oltre che dai Personalakten Emil Lask, Universitätsarchiv Heidelberg, PA 1905, anche dal Nachlaß, conservato presso l’Heidelberg Universitätsbibliothek (Heid. 3820). Per tali dati si confronti anche U.B. Glatz, Emil Lask. Philosophie im Verhältnis zu Weltanschauung, Leben und Erkenntnis, Königshausen und Neumann, Würzburg 2001, p. 12s.; F. Masi, Emil Lask. Il pathos della forma, Quodlibet, Macerata 2010, p. 47s. 4 E. Lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte (1902), in: Id., Sämtliche Werke, Bd. I, cit., p. 1-228, qui p. 17.
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Rispondendo all’appello di Rickert del 1899, che invitava ad ascoltare l’opinione di Fichte in connessione ai problemi del presente5, la prospettiva laskiana identifica nell’autore della Wissenschaftslehre – secondo la felice definizione di Petrella – l’“illustre antecedente filosofico”6 della logica della storia proposta dalla Badische Schule. Tale posizione arcontica è assegnata a Fichte in virtù della decisiva elaborazione del pensiero della Wertindividualität, dell’individualità valoriale. A questo pensiero Lask riconosce il merito di offrire una piena valorizzazione di ciò che è unico e particolare, dell’individuale, il quale deve il suo valore all’insostituibile posizione che assume entro la Werttotalität. Con la messa in luce di tale dinamica, Fichte svela, agli occhi dell’allievo di Windelband e Rickert, un segreto ultimo: “Das letzte Geheimnis gerade der historischen Beurteilung”7. Ora, se il concetto di oggetto storico identificato con l’individualità valoriale e il problema dell’elaborazione concettuale delle scienze culturali si ergono al centro del Fichte-Buch in una prospettiva potremmo dire storiografica-genetica, occorre domandarsi: come si innesta in questo orizzonte tematico il problema gnoseologico e, al suo interno, la questione del soggetto teoretico? Per rispondere a tale quesito è necessario osservare l’impalcatura generale che sorregge l’intera dissertazione dottorale. Al fine di esibire la portata rivoluzionaria del concetto fichtiano d’individualità valoriale, Lask ricostruisce dapprima le coordinate teoretiche entro cui se ne colloca la genesi: si tratta delle logiche del valore sottese alle filosofie della storia di Kant e Hegel, delle quali il Fichte-Buch mette in luce tanto i meriti quanto i limiti, questi ultimi superati dall’impostazione fichtiana. In questa operazione è possibile cogliere la saldatura tra il problema dell’oggetto storico e quello gnoseologico. Vediamo come tale saldatura avvenga. Nella ricostruzione della geschichtsphilosophische Begriffsbildung dell’idealismo tedesco, Lask si confronta, in primo luogo, con la Logik des Wertens kantiana, di cui restituisce un’immagine fortemente debitrice dell’esegesi che Windelband offre del filosofo di Königsberg nel trittico di saggi costituito da Che cos’è la filosofia?, Immanuel Kant e Metodo critico o metodo genetico? In particolare, Lask, muovendo dalle considerazioni windelbandiane raccolte nell’ultimo dei tre saggi, assegna al padre del criticismo – liberandolo così dal ruolo di ultimo rappresentante dell’illuminismo, sebbene condivida con i suoi maggiori esponenti una 5
Cf. H. Rickert, Fichtes Atheismusstreit und die kantische Philosophie. Eine Säkularbetrachtung, Reuter & Reichard, Berlin 1899, p. 1. 6 D. Petrella, La “silenziosa esplosione del neokantismo”. Emil Lask e la mediazione della fenomenologia di Husserl, Aracne, Roma 2012, p. 32. 7 E. Lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte, cit., p. 155.
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concezione teleologica della storia – il titolo di Neubegründer der Geschichtsphilosophie per aver consapevolmente introdotto anche nella riflessione sull’oggetto storico, accanto al metodo esplicativo (erklärender) delle scienze naturali, il metodo valutativo (wertbeurteilender), che ha come proprio oggetto il valore. Questo Dualismus der Methode costituisce il “principio fondamentale del criticismo” (ivi, p. 5). Ma, se l’apporto del filosofo di Königsberg è riconosciuto da Lask nella consapevole introduzione della “determinazione formale del punto di vista valoriale per il concetto di cultura e di storia” (ivi, p. 6), è nella definizione del rapporto tra momento valoriale e mera effettualità che emergono i limiti dell’impostazione critica. Tali limiti sono espressi da Lask nei termini di una Beschränkung auf formale Werte, di una “restrizione al valore formale, all’abitudine di valutare il singolo soltanto come portatore di generalità di valore” (ivi, p. 9). Con l’individuazione di tale restrizione, Lask riconosce in seno alla filosofia kantiana della storia una peculiare dinamica, per la quale il rilievo dato al momento valoriale, identificato esclusivamente con l’universale, conduce a una radicale svalutazione del singolo, dell’individuo, ridotto a mero latore di valore, al meramente empirico, che si rivela così esso stesso wertlos, ossia “privo di valore” (ivi, p. 10). A partire da tale prospettiva, l’intera strumentazione filosofica approntata da Kant per la comprensione della storia è ricondotta da Lask allo schema concettuale generale/ particolare, caratterizzato da un netto sbilanciamento a favore del primo termine, rispetto al quale l’individuale è ridotto a una mera “esemplificazione di un valore generale” (ivi, p. 11). È in seno a quest’operazione ermeneutica di riduzione della logica critica del valore a un “Wertungsuniversalismus” (ivi, p. 109) che Lask chiama in causa, secondo un peculiare gesto teoretico, la gnoseologia kantiana, contraddistinta dalla medesima dinamica presentata dal filosofo di Königsberg nella Geschichtsphilosophie. Per Lask, infatti, l’indagine promossa nella Critica della ragion pura “si rivolge esclusivamente alla parte apriorica e in questa ravvisa il valore oltre-empirico della conoscenza […] mentre il concreto o individuale negli oggetti conoscitivi vale come ciò che è di per sé privo di valore, divenendo al massimo latore di un valore generale” (ivi, p. 9). L’esplicito richiamo di Lask al piano erkenntnistheoretisch, ove l’individuale è ancora una volta mero estensore del piano di validità, assume un peculiare significato nella struttura generale della dissertazione dottorale. Lungi da costituire un elemento accessorio dell’argomentazione del FichteBuch, tale richiamo sottende, infatti, una precisa convinzione: la filosofia della storia di Kant, così come quella di Hegel, intrattiene un’originale relazione con la sfera logica-gnoseologica. Dapprima questa relazione è definita dal giovane filosofo nei termini di una innige Wechselwirkung, di 172
un’intima interazione tra i due ambiti, e poi, al centro del Fichte-Buch, assume la veste di una automatische Übertragung (ivi, p. 147), di un trasferimento automatico dei risultati ottenuti sul piano logico-gnoseologico a quello proprio della filosofia della storia. In altri termini, la dualità di valore e individuo, decisiva nella concettualizzazione critica dell’oggetto storico, rappresenta, per Lask, la mera applicatio, la pura trascrizione nell’ambito propriamente storico-culturale della dinamica caratterizzante il plesso apriori/ aposteriori, posto alla base della gnoseologia della prima Critica; lo stesso vale per il rapporto logico intero/ parte a cui è ricondotta da Lask la filosofia hegeliana della storia, che affonda le proprie radici nel movimento dialettico del concetto. Nella definizione di tale relazione, seppur non presente in eguale misura anche nel pensiero fichtiano, Lask attribuisce al piano logico-gnoseologico un carattere primario e fondativo rispetto a quello propriamente storicoculturale. Da tale primato di originarietà assegnato al piano gnoseo-logico deriva il compito precipuo della dissertazione dottorale, la quale cercherà principalmente di fornire un contributo alla conoscenza della logica trascendentale dell’idealismo tedesco, ma avrà inoltre da mostrare anche l’interazione che ha luogo tra la speculazione della filosofia della cultura e la pura versione logica del problema dell’individualità, specialmente della dottrina dell’irrazionalità logica dell’individuale. (ivi, p. 19)
Sebbene il compito del Fichte-Buch sia quello di ripensare la genesi del concetto di oggetto storico, tale compito, per Lask, coinvolge necessariamente non solo il piano geschichtsphilosophisch, ma anche e ancor prima l’originaria torsione cui il problema dell’individuale è sottoposto nella teoria della conoscenza e del concetto. L’impresa laskiana assume così i tratti di un’indagine volta a chiarire in che modo la presa concettuale possa com-prendere (be-greifen), ed, in questo senso, cogliere, afferrare (greifen) l’individuale, il quale, rispetto ai nostri limitati mezzi cognitivi, si presenta irrimediabilmente affetto da un’insanabile irrazionalità.
2. Lask lettore di Rickert. Dalla genesi fichtiana della coscienza giudicante al soggetto depotenziato Distinti i due piani d’indagine del Fichte-Buch, ci rivolgiamo ora alle riflessioni erkenntnistheoretisch in esso avanzate, a partire da una precisa ipotesi ermeneutica: Lask rilegge Fichte alla luce della gnoseologia presentata da Rickert nel suo Oggetto della conoscenza, mettendo sistematicamente in mostra tutte quelle istanze, quelle suggestioni che il 173
proprio maestro ha mutuato dalla Wissenschaftslehre. Tale ipotesi di lavoro trova una prima conferma nelle parole che lo stesso Lask scrive a Rickert in una missiva datata 30 dicembre 1897: “Recentemente ho letto di nuovo il Suo Oggetto della conoscenza, e parecchie cose mi sono diventate chiare. Nessun’altro così come Lei ha il diritto di indicarci ciò che Fichte ha voluto”8. La reiterata lettura dell’opera di Rickert conduce il giovanissimo Lask a ravvisare una stretta connessione tra il pensiero del maestro e quello di Fichte. Di tale connessione l’allievo sembra dare ragione nella dissertazione dottorale, esibendo alcune decisive istanze fichtiane che hanno agito nella genesi dell’Habilitationsschrift rickertiana del 1892: si tratta del principio di immanenza, dell’indeducibilità della materia empirica e della natura sovraindividuale e astratta del soggetto. Prima però di guardare all’emergenza di tali elementi nell’impalcatura della Doktorarbeit laskiana è opportuno offrire un breve profilo dell’esegesi di Fichte delineata in esso; esegesi che risulta ancora una volta intimamente ancorata alla filosofia rickertiana. Al centro del complesso lavoro ermeneutico che Lask svolge sul pensiero fichtiano si erge una questione capitale: “La dottrina della scienza è razionalismo assoluto oppure pone un limite all’elemento razionale?”9. Di fronte a tale domanda che fa questione della potenza della conoscenza – die Macht des Erkennens – e dei suoi limiti, la risposta laskiana articola in tre fasi il Denkweg fichtiano10: dopo un’iniziale adesione al razionalismo assoluto della logica emanatistica, Fichte presenta, con la decisiva svolta antirazionalistica del 1797 e il suo successivo consolidamento nell’ultimo periodo metafisico, un ritorno – seppur contraddistinto da una sintesi originale di elementi eterogenei, – nell’alveo del criticismo. Con tale ipotesi ermeneutica, Lask intende rispondere a una seconda questione, ossia al problema della filiazione della filosofia fichtiana dal pensiero kantiano; filiazione che già i contemporanei di Fichte, a detta di Lask, escludevano in nome dell’evidente soppressione della dualità di forma e materia, consumata, ai loro occhi, nella prima stesura della Wissenschaftslehre. Contro tale opinione, che sarebbe condivisibile, nell’esegesi laskiana, esclusivamente per la prima fase del pensiero di Fichte (significativamente chiamata, nella dissertazione dottorale, “l’emanatismo logico-trascendentale 8
Lettera di Lask a Rickert del 30 dicembre 1897 (Heid. 3820, 275). E. Lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte, cit., p. 53. 10 Per una ricognizione critica dell’interpretazione laskiana di Fichte cf. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Bd. 3, Bruno Cassirer Verlag, Berlin 1920; tr. it. c/ di A. Pasquinelli, Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nei sistemi postkantiani, vol. 3, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 213-4. 9
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del 1794”), Lask oppone l’antirazionalismo critico del 1797 unitamente alla fase metafisica, nella quale permangono gli elementi della svolta criticaantirazionalistica. Già da queste brevi indicazioni traspare l’intenzione di fondo che muove l’interpretazione presentata da Lask, la quale, sebbene tripartisca il Denkweg fichtiano, esibendo la sua iniziale adesione alla logica emanatistica, mira primariamente a mettere in luce la presenza di elementi criticisti nelle varie rivisitazioni della Dottrina della scienza e negli altri scritti del filosofo, avallando così la sentenza rickertiana che riconosce in Fichte “il più grande di tutti i kantiani”11. Significativamente Lask rintraccia le tre istanze sopraindicate nella fase antirazionalistica di Fichte, in quella vera e propria svolta (Umschwung) che segna la cifra della sua riflessione. La prima di queste istanze – il principio di immanenza – è introdotta dal filosofo nell’ambito della critica fichtiana alla cosa in sé. Agli occhi di Lask, tale principio avrebbe il merito di perfezionare la logica analitica kantiana (contraddistinta dalla coppia generale/ particolare), escludendo dal proprio discorso filosofico ogni residuo metafisico, senza tuttavia sopprimere l’irrazionalità dell’individuale e la sua indipendenza: Il generale è forma della coscienza, il particolare materiale della coscienza; certamente questo materiale idealistico non si lascia dedurre dalla forma idealistica. Ma da ciò è certo che la componente materiale e quella formale non stanno nella relazione tra cosa in sé e “coscienza”, bensì sono l’una accanto all’altra nella pura immanenza dei due “fattori della coscienza”12.
Con tale dinamica, che si traduce nella relazione tra genere trascendentale e particolare trascendentale, il dualismo kantiano di forma e materia, contraddistinto da un abisso incolmabile tra i due elementi – da una trascendenza – è pienamente ricompreso entro la coscienza, al di fuori della quale non rimane alcuna cosa in sé, destinata a spezzare irrimediabilmente l’oggetto gnoseologico in una componente idealistica e in una dogmatica. In questa prospettiva, l’immanenza del materiale affranca, secondo l’esegesi di Lask, il criticismo kantiano dal “concetto di verità trascendente” (ivi, p. 93) e dalla conseguente riattivazione all’interno del suo impianto di una Zweiweltentheorie, da cui il filosofo di Königsberg non si sarebbe mai completamente emancipato. Lask riconosce dunque a Fichte il merito di aver affrancato il criticismo dalle pastoie di un certo dogmatismo entro cui esso appariva irrimediabilmente irretito a causa del concetto di cosa in sé; concetto riletto evidentemente dallo stesso Lask non nei termini di una
11 12
H. Rickert, Fichtes Atheismusstreit, cit., p. 30. E. Lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte, cit., p. 95.
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possibilità logica, di un concetto limite, bensì di una vera e propria realtà ontologica. Al principio di immanenza si lega inscindibilmente la seconda istanza: l’indeducibilità della materia empirica. Per Fichte – dice Lask – “il materiale idealistico non si lascia dedurre dalla forma idealistica”. Ciò significa che il materiale individuale è sì ricondotto nell’alveo del soggetto – è immanente alla coscienza, ma non è soppresso entro le strette maglie dell’io, a cui si presenta quale limite della conoscibilità: il materiale è irrazionale. Potremmo anche dire che la distanza tra forma e materia, tra generale e particolare non è annullata dall’essere del materiale per la coscienza, bensì è semplicemente traslata nell’ambito dell’io, all’interno del quale permane quello hiatus irrationalis che contrassegna la relazione tra elemento formale e materiale. A quest’altezza della riflessione si impone una radicale questione: come bisogna intendere la coscienza, l’io puro, di cui materia e forma sono elementi? A quale coscienza il Fichte laskiano fa qui riferimento? A tali quesiti Lask risponde, seppur indirettamente, osservando che, se Kant aveva già inteso le categorie in senso trascendentale e non psicologico, la sua empirische Ausdrucksweise minacciava sempre di oscurare la grandezza e la chiarezza del pensiero critico e di abbassare la ragione sovraindividuale al significato di una mera soggettività o addirittura allo psichico, a una forma che si situa già nel “sentimento”. Contro una simile interpretazione Fichte era già fin dal principio dotato di un modo di pensare avverso a quello empiristico. (ivi, p. 77; il corsivo è nostro)
Lask riconosce, dunque, a Fichte un ulteriore merito, quello di aver escluso, grazie alla sua costruzione apriorico-sistematica, ogni interpretazione psicologistica dell’io a cui il linguaggio di Kant prestava inevitabilmente il fianco. Contro tale interpretazione della ragione, il giovane filosofo rintraccia i vari luoghi testuali in cui Fichte esibisce il carattere antipsicologistico della sua impresa, entro la quale lo psichico, esattamente come il fisico, appartiene alla sfera della sensibilità, da cui il puro io è concettualmente astratto: l’io non deve, dunque, mai essere considerato come coscienza e autocoscienza in senso psicologico; l’io puro è astratto e sovraindividuale. Il principio di immanenza, l’indeducibilità del materiale e il carattere sovraindividuale del soggetto che Lask lumeggia nella sua dissertazione dottorale si ritrovano, seppur mutatis mutandis, quali cardini de L’oggetto della conoscenza di Rickert. Per l’autore del Gegenstand, infatti, “tutto l’essere dato direttamente è un essere nella coscienza” e ancora
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“l’individuale è l’oggetto immanente nel soggetto”13. In tale prospettiva l’essere immanente, l’essere per la coscienza si rivela come ciò che è comune a tutto l’essere, e, tuttavia, proprio come avviene in Fichte, anche per Rickert, l’individuale empirico non è deducibile dall’elemento logicoformale, non si lascia afferrare dalla presa concettuale, bensì permane come suo limite: “Questo blu e questo rosso restano sotto ogni aspetto indeducibili o, come possiamo dire, assolutamente irrazionali, poiché in questi contenuti determinati il pensiero in genere trova i suoi limiti”14. Accanto alle prime due istanze appena indicate segue la terza, ossia il carattere sovraindividuale e formale del soggetto. In linea con Fichte, infatti, la rickertiana coscienza giudicante si presenta quale io sovraindividuale, prodotto dall’azione astraente del pensiero che isola l’io tanto dallo psichico quanto dal fisico. In tal modo entrambi – il fisico e lo psichico – sono ridotti a contenuti di coscienza15, o sarebbe meglio dire, contenuti della coscienza giudicante, che rappresenta il più alto concetto teoretico nella complessa disamina della polarità soggetto-oggetto, svolta da Rickert nel suo Gegenstand. A partire da tale comunanza di elementi si può avvallare l’ipotesi ermeneutica che la lettura di Fichte offerta nella dissertazione dottorale abbia di mira una ricostruzione della genesi di quei luoghi, di quei momenti filosofici, che informano il progetto rickertiano – realizzato in una sua prima versione nello scritto di abilitazione del 1892 – di fondare teoreticamente il primato della ragion pratica. Lask rilegge, dunque, Fichte alla luce delle istanze promosse dal suo Doktorvater, delle quali ravvisa l’origine nella Wissenschaftslehre fichtiana. La natura genetico-storiografica dell’operazione laskiana, che abbiamo precedentemente messo in luce, è così estesa dal piano geschichtsphilosophisch a quello erkenntnistheoretisch, dal problema dell’oggetto storico a quello gnoseologico. A partire da tale indicazione è ormai chiaro anche il profondo significato delle parole che il giovane Lask aveva vergato sulla carta da lettere nella missiva del 30 13
H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis. Ein Beitrag zum Problem der philosophischen Transcendenz, C.A. Wagner, Freiburg i. B. 1892, p. 16. 14 H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis. Einleitung in die Transzendentalphilosophie, zweite, verbesserte und erweiterte Auflage, Mohr (Paul Siebeck), Leipzig und Tübingen 1904, p. 168. Tale citazione è tratta da D. Petrella, La “silenziosa esplosione del neokantismo”, cit., p. 107. 15 Nelle Grenzen, Rickert afferma che “con ‘contenuto di coscienza’ si deve intendere tutta la realtà empirica, comprensiva tanto dei processi fisici che di quelli psichici, e secondo cui la coscienza, di per sé, come soggetto gnoseologico, non può essere né fisica né psichica” (H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einleitung in die historischen Wissenschaften, Mohr - Paul Siebeck, Tübingen 1896-1902; tr. it. di M. Catarzi, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Un’introduzione logica alle scienze storiche, Liguori, Napoli 2002, p. 97).
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Dicembre 1897 indirizzata a Rickert: “Nessun’altro così come Lei ha il diritto di indicarci ciò che Fichte ha voluto”. In anticipo di un ventennio rispetto alla definizione heideggeriana della Wertphilosophie nei termini di un neofichtianesimo16, Lask, già nel 1897, aveva colto nell’opera di Rickert un’originale realizzazione del pensiero fichtiano. Di tale realizzazione il giovane filosofo condivide tanto la soluzione data al problema dell’oggetto storico quanto il modello eticizzante della conoscenza in essa proposto. Infatti, a tale modello, i cui tratti fichtiani sono lumeggiati nella Doktorarbeit, Lask si appella esplicitamente nella sua Habilitationsschrift dedicata alla Filosofia giuridica. Senza entrare nel merito della proposta teoretica avanzata nel secondo lavoro laskiano17, è interessante osservare per i nostri scopi l’esplicita acquisizione da parte del filosofo tanto della funzione sintetica del soggetto giudicante quanto della capitale distinzione tra forme metodologiche e costitutive avanzata da Rickert nelle sue riflessioni. Così scrive Lask nella Filosofia giuridica: Dal punto di vista della teoria della conoscenza, la realtà effettiva vale come un prodotto di sintesi categoriali. La metodologia estende questo punto di vista copernicano alle creazioni dell’attività selezionatrice delle singole scienze e vede per esempio negli atomi e nelle leggi naturali prodotti della concettualizzazione delle scienze della natura.18.
L’idea rickertiana di una concettualizzazione pre-scientifica contraddistinta dall’azione sintetica delle categorie costitutive, il cui risultato fornisce il materiale al quale si applicano le categorie metodologiche proprie delle scienze, è qui dispiegata da Lask. Con tale riferimento il filosofo, anche nello scritto di abilitazione all’insegnamento, si richiama ai risultati ottenuti dalla gnoseologia di Rickert, in questo caso non per ravvisarne la genesi filosofica, come avveniva nella Doktorarbeit, bensì per affrontare i problemi del presente, tra i quali si staglia a cavallo tra Ottocento e Novecento quello di assegnare un preciso ruolo alla filosofia del diritto distinta dalla allgemeine Rechtstheorie. 16 M. Heidegger, Gesamtausgabe. II. Abteilung: Vorlesungen. Bd. 56/ 57: Zur Bestimmung der Philosophie (Kriegnotsemester 1919), hrsg. v. Bernd Heimbüchel, 2., durchgesehene und ergänzte Auflage, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1999; tr. it. di G. Auletta, Per la determinazione della filosofia, Guida, Napoli 2002, p. 133. 17 Per un’attenta disamina della riflessione laskiana sulla filosofia del diritto rimandiamo ad A. Carrino, L’irrazionale nel concetto. Comunità e diritto in Emil Lask, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1983. 18 E. Lask, Rechtsphilosophie, in: Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, cit., p. 275-331; tr. it. di A. Carrino, Filosofia giuridica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1984, p. 51.
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A partire da tali indicazioni si può concludere che, nella fase giovanile, Lask mostra di aderire al modello rickertiano della conoscenza e di mutuare da esso la figura di una soggettività di stampo attivo-sintetico, qual è la coscienza giudicante. Ma, nonostante tale adesione di fondo, che abbiamo cercato di argomentare fin d’ora, non è legittimo appiattire le posizioni gnoseologiche dell’allievo su quelle del maestro. Infatti, tanto nella dissertazione dottorale quanto nello scritto di abilitazione all’insegnamento, Lask, differentemente da Rickert, pone l’accento più sull’elemento materiale che su quello formale dell’oggetto della conoscenza, più sul resto alogico che sulle funzioni del pensiero. In altri termini, se la dualità originaria si rivela il tema gnoseologico centrale delle opere di Lask, l’elemento logicoformale, già nella dissertazione dottorale, in linea con ciò che il filosofo scriverà nella Logica della filosofia, non è considerato come qualcosa di ultimo, incomparabile, non è l’originario, bensì esso, si rivela fin d’ora come un che di secondario e posticcio rispetto alla materia: si tratta d'una forma incapace di afferrare, di com-prendere la materia stessa. Si potrebbe osservare che, sebbene per entrambi i filosofi il materiale sia irrazionale, solo per Lask esso conduce a un eterno fallimento del conoscere19, mentre per Rickert la materia stessa diventa “lo sprone a superare la sua irrazionalità attraverso la formazione dei concetti”20. Da questa prospettiva, tracciata da Lask ai margini della sua prima opera e confermata nella seconda, il soggetto trascendentale esce fortemente depotenziato, non riuscendo mai a pervenire a una piena conoscenza del reale; conoscenza che assume la forma di “una fredda ‘immagine’”21 della proteiforme ricchezza della vita intesa nei termini di “quintessenza di tutti i valori concreti” (ivi, p. 117). Accentuando l’eccedenza della materia rispetto alla forma, e relegando il soggetto conoscitivo in un ambito secondario rispetto all’Erlebnis, Lask giunge a tematizzare quell’opposizione squisitamente fichtiana di vita e speculazione, di vita e conoscenza, che riduce il secondo termine della relazione a un hegeliano regno di ombre, di contro alla “oscura esuberanza” di ciò che il filosofo designa come “assoluta ‘fatticità’ (Faktizität)” quale più alta e unica legge del reale nel senso di una “assenza stessa di leggi”22, di una brutalità. Il 19 Nel Fichte-Buch Lask scrive: “Questa incommensurabilità dell’individuale significa non una inadeguatezza della realtà di fronte al nostro ideale logico, bensì al contrario un’eterna incompletezza della nostra comprensione di fronte alla realtà” (E. Lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte, cit., p. 32). 20 H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, 4 e 5 Aufl., Tübingen 1924, p. 374. 21 E. Lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte, cit., p. 119. 22 Ivi, p. 125. Un implicito rinvio a questo concetto di fatticità è riscontrabile nel pensiero del giovane Heidegger. Cf. R. Lazzari, Ontologia della fatticità. Prospettive sul giovane Heidegger (Husserl, Dilthey, Natorp, Lask), FrancoAngeli, Milano 2002, p. 130.
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residuo irrazionale che accompagna ogni conoscere, quale ombra ineliminabile del proprio procedere, si oppone così ad ogni sforzo umano di comprensione, ad ogni attività del soggetto, la cui figura è ancorata nella fase giovanile del cammino laskiano al modello trascendentale della coscienza giudicante.
3. Lask critico dell’eticizzante teoria della conoscenza Dalla figura del soggetto elaborata nelle sue prime opere Lask prende progressivamente le distanze a partire dal terzo congresso internazionale di filosofia tenutosi a Heidelberg nel 1908 – Gibt es einen „Primat der praktischen Vernunft“ in der Logik? Tra i motivi di tale presa di distanza occorre sottolineare la peculiare acquisizione da parte del filosofo di alcune decisive istanze presentate nelle Ricerche logiche husserliane. Sebbene le ripercussioni prodotte dalla rilettura laskiana di tale testo sul proprio sistema maturo siano già state ampiamente indagate nell’ambito della seppur ridotta letteratura critica sull’Autore, è necessario riprendere alcuni snodi decisivi della cosiddetta “svolta fenomenologica”23 al fine di mettere in luce l’influenza che le riflessioni di Husserl hanno esercitato sulla gnoseologia degli scritti della maturità e sulla stessa conferenza del 1908, definita da Heidegger, già nel 1919, come “una ripetizione della ‘critica di ogni logica normativa’ che Husserl ha fornito nel primo volume delle Ricerche logiche”24. Lask apre la conferenza presentando, innanzitutto, il proprio bersaglio polemico, ossia l’eticizzante gnoseologia rickertiana elaborata nell’Oggetto della conoscenza: Per teoria del primato della ragion pratica intendiamo quella concezione che accorda al concetto del volere cosciente del dovere una posizione centrale anche nella filosofia teoretica, che assegna al momento di valore pratico un ruolo dominante nella teoria del giudizio. […] Se la verità è un valore, allora quella che è la caratteristica attività teoretica soggettiva, il conoscere, non può essere un comportamento neutrale, e deve essere invece una presa di posizione rispetto
23 Di svolta fenomenologica parla Petrella nel secondo capitolo del suo lavoro La “sileziosa esplosione del neokantismo”, cit., p. 99-183. Per l’influenza che esercitarono le Ricerche logiche husserliane sull’opera di Lask si confronti K. Shuhmann, B. Smith, Neo-Kantianism and Phenomenology. The case of Emil Lask and Johannes Daubert, in: “Kant-Studien”, 82/ 1991, p. 303-18; Id., Two Idealisms: Lask and Husserl, in: “Kant-Studien”, 83/ 1993, p. 448-66; R. Lazzari, Emil Lask e le Ricerche logiche di Husserl, in: AA. VV., Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza, a cura di S. Besoli/ M. Ferrari/ L. Guidetti, Quodlibet, Macerata 2002, p. 187-204. 24 M. Heidegger, Per la determinazione della filosofia, cit., p. 165.
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al valore, un’attività pratica, nella quale è presente una forma di rispetto etico per il valore.25
Con queste parole, Lask, sebbene non citi esplicitamente Rickert né all’inizio né nel corso dell’intervento, restituisce, in modo preciso e succinto, la teoria gnoseologica del maestro, la quale riconosce nel giudizio – identificato con il conoscere tout court – un comportamento pratico, una presa di posizione, un affermare o un negare, un assentire o un dissentire nei confronti di un valore trascendente, che pretende di essere riconosciuto. Il valore si impone, dunque, alla sfera giudicativa come ciò che merita riconoscimento, declinando così il rapporto soggetto-oggetto in senso eminentemente pratico. Ora, se, come abbiamo visto, Rickert fonda la sua teoria assiologica della conoscenza sul principio di immanenza – per cui tutto l’essere dato è un essere per la coscienza – il piano trascendente si configura non come essere, bensì come dover-essere, come Sollen, cui è assegnato un decisivo primato rispetto al Sein. Secondo tale priorità del dover-essere, l’essere è ridotto ai meri contenuti di coscienza, i quali altro non sono per Rickert che rappresentazioni ascritte a un soggetto distinto dalla coscienza giudicante. È solo a quest’ultima e non al soggetto rappresentante che si rivolge l’indagine gnoseologica, poiché nelle rappresentazioni, a differenza che nella sfera giudicativa, non vi è mai necessità. L’oggetto della conoscenza, ciò che rende la conoscenza objettiva non è, dunque, costituito da ciò che è immanente, ossia dalle rappresentazioni, bensì dal piano trascendente, identificato con le regole di connessione delle rappresentazioni stesse, con il piano di validità riconosciuto nel giudizio, per mezzo del quale e solo del quale i nessi di rappresentazioni sono riportati al conoscere oggettivo. Ora, se queste sono le coordinate teoretiche cui fa riferimento polemicamente l’intervento laskiano del 1908, è necessario domandarsi: che cosa rimprovera Lask a quell’Oggetto della conoscenza di Rickert, che aveva ispirato gran parte dei suoi lavori giovanili? Quale aspetto della teoria del maestro l’allievo rigetta definitivamente? Della posizione rickertiana, sebbene dichiari di accoglierne il quadro complessivo, il filosofo rifiuta semplicemente lo “störende ethisierende Beiwerk”26, l’inopportuno accessorio eticizzante, che lungi dall’essere, 25 E. Lask, Gibt es einen „Primat der praktischen Vernunft“ in der Logik?, in: Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, cit., p. 349-356; tr. it. parziale di G. Gigliotti, Il primato della ragion pratica e le sfere di senso, in: AA. VV., Il neocriticismo tedesco, Loescher, Torino 1983, p. 219-25, qui p. 219. 26 Qui il riferimento è al testo tedesco E. Lask, Gibt es einen „Primat der praktischen Vernunft“ in der Logik?, in: Id., Fichtes Idealismus und die Geschichte. Kleine Schriften, Scheglmann, Jena 2002, p. 295-302, qui p. 296.
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come Lask ha affermato, un solo elemento accessorio della gnoseologia di Rickert, ne costituisce, al contrario, il cuore pulsante: Noi accettiamo interamente il quadro complessivo di un regno dei valori che sta a fondamento di questa teoria, la scissione della significatività in una sfera di senso oggettiva, di fronte alla soggettività, e in una sfera insita nella soggettività stessa; accettiamo quest’idea della corrispondenza tra validità oggettiva e senso soggettivo. Il suo errore ci sembra però consistere nel fatto che, con la sua contrapposizione tra valore e comportamento pratico, essa non accoglie la correlazione originaria con l’ambito del valore, e nasconde e scavalca così il genuino correlato soggettivo del valore trans-soggettivo27.
Lask accetta, dunque, la corrispondenza tra validità e soggetto, ma rifiuta l’intera declinazione rickertiana di questa correlazione in senso praticoetico, che oscura l’originaria Korrelation soggettiva a ciò che egli chiama valore trans-soggettivo, non più identificabile con il valore pratico, con il dover-essere, bensì con quello logico-teoretico28. Liberando il valore dalla sua connotazione etica, Lask può giungere a riconoscere, già nell’intervento del 1908, come correlato soggettivo del valore non più il rickertiano “volere cosciente del dovere”, bensì quella “dedizione” al valore in sé, che verrà ripresa più diffusamente nella Logica della filosofia, ove, nonostante il richiamo alla dedizione soggettiva all’oggetto, la questione della correlatività assumerà comunque un ruolo marginale nell’impianto laskiano, sempre più votato a esibire la distanza tra i due poli della conoscenza. È ora opportuno osservare che, con l’estromissione dal proprio discorso dell’accessorio eticizzante cui era legata la gnoseologia rickertiana (la quale riduceva la conoscenza a riconoscimento di un dover-essere), si consuma una prima decisiva frattura nel connubio filosofico tra Lask e Rickert. Infatti, benché Lask dichiari l’accorata adesione al quadro complessivo di quella che, senza dichiararlo, è la teoria rickertiana della conoscenza, la critica maturata nella conferenza del 1908 non lascia alcun dubbio sulla distanza che inizia a separare l’allievo dal maestro. Tale distanza raggiungerà il suo culmine nel sistema maturo, ove Lask dichiarerà espressamente la necessità di combattere ogni teoria della priorità del dover essere sull’essere, quale quella difesa da Rickert nel suo Oggetto della 27
E. Lask, Il primato della ragion pratica e le sfere di senso, cit., p. 220. Della natura logica-teoretica della sfera valoriale Lask tratta già nella prolusione del 1905 dedicata a Hegel e la concezione del mondo dell’Illuminismo. In questo intervento il valore è affrancato dalla natura di Sollen, dal carattere assiologico ad esso assegnato da Fichte e Kant. A questo proposito cf. E. Lask, Hegel in seinem Verhältnis zur Weltanschauung der Aufklärung (1905), in: Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, cit., p. 333-345; tr. it. di A. Carrino, Hegel e la concezione del mondo dell’Illuminismo, in: Id., Filosofia giuridica, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1984, p. 77-90, in particolare p. 80. 28
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conoscenza. Ora, se questa svolta nella parabola laskiana può essere in un certo senso preparata dalla peculiare esegesi di Hegel offerta nella prolusione del 1905, ove Lask libera il valore dalla sua connotazione etica, di certo si avverte già nell’intervento del 1908 il peso della lettura dei Prolegomeni husserliani, che, come notò correttamente Heidegger, avevano giocato un ruolo decisivo nella conferenza laskiana. In particolare, Lask riprende dal primo volume delle Ricerche logiche la critica all’illegittima riconduzione della logica a disciplina normativa, e dunque alla curvatura pratica che i nessi logico-teoretici assumono in quelle che Husserl chiama scienze normative, al cui fondamento vi sono sempre essenziali discipline teoretiche29. Ora, tenendo ferme le considerazioni husserliane sviluppate nei primi due capitoli dei Prolegomeni e volgendole criticamente contro Rickert, Lask giunge a parlare, nel suo intervento pubblico, di correlazione originaria tra “validità oggettiva in sé”30, tra versante objettivo, concepito secondo il modello dell’idealità del significato, e correlato soggettivo, quest’ultimo ripensato a partire dal nuovo statuto logico-teoretico e non più etico assegnato al momento di validità inteso come “vertice di tutto il mondo concettuale del non-esistente”. Per il filosofo, la definizione di tale vertice costituisce il compito della logica, che, però, in quanto “noetica”, non si risolve nel chiarimento del solo concetto di validità in sé, bensì si occupa della “sfera del senso soggettivo, del senso non già della verità ma del ‘conoscere’, del giudicare e così via” (ibid.). Impiegando il termine noetica, Lask si rifà qui chiaramente ai paragrafi 32 e 65 del primo volume delle Ricerche logiche, ove Husserl fa questione delle condizioni ideali della possibilità di una teoria in generale, distinguendo tra condizioni a priori soggettive, ossia noetiche, e quelle logiche-oggettive, identificando quest’ultime con le leggi, i principi, e per l’appunto le verità che sono a fondamento di ogni possibile teoria e conoscenza in generale. Facendo propria tale distinzione tra le condizioni ideali del conoscere, Lask, come ben osservato da Lazzari, si smarca, già nella conferenza del 1908, dalla concezione unitaria del problema della conoscenza31, tipica di Rickert almeno fino al 1909, per poi giungere, nel sistema maturo, attraverso una radicale e originale declinazione della distinzione husserliana, alla separazione e contrapposizione tra aletheiologia, tra la questione della verità, del senso teoretico inteso come compagine di forma e materia identificata con l’oggetto, e gnoseologia, volta a indagare l’acquisizione soggettiva del senso. 29 Per il confronto di Lask con i primi capitoli dei Prolegomeni rimandiamo alla dettagliata analisi di D. Petrella, La “silenziosa esplosione del neokantismo”, cit., p. 110s. 30 E. Lask, Il primato della ragion pratica e le sfere di senso, cit., p. 220. 31 Cf. R. Lazzari, Emil Lask e le Ricerche logiche di Husserl, cit., p. 194-5.
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Alla base della matura impostazione laskiana vi è, dunque, come l’Autore stesso confessò a Husserl nella lettera del 24 dicembre 1911, proprio quella rivendicazione della piena separabilità della sfera di validità objettiva dalla soggettività, del regno dei significati ideali dagli atti coscienziali, e così delle condizioni oggettive della conoscenza da quelle soggettive: La questione introdotta dalle Sue Ricerche logiche sulla discussione dell’attuale statuto della logica, ossia la separabilità del “senso” dagli atti, l’eliminazione di tutti i fuorvianti atti-simbolo dalla pura sfera della validità fondamentalmente non viene trattata nel mio scritto [La dottrina del giudizio], ma è presupposta. L’influsso di alcuni suoi concetti fondamentali è pur sempre – almeno lo spero – percepibile. Da cinque anni tento di compiere nelle mie lezioni una rielaborazione delle sue tendenze32.
E ancora nel suo opus maius Lask scrive: Sulla mia intenzione di porre alla base della logica il regno oggettivo dell’objettività, il “senso” separabile dagli atti di conoscenza e dai segni simbolici portatori di senso, ha esercitato un decisivo influsso l’impulso proveniente da Husserl a una revisione dei concetti logici fondamentali33.
Sebbene Lask riconosca qui il debito contratto nei confronti del padre della fenomenologia, al quale deve una decisiva svolta nel proprio itinerario filosofico, la ripresa laskiana di alcuni temi fenomenologici non sarà mai riconducibile a una piatta replica delle posizioni husserliane, bensì assumerà sempre la forma di un’originale traduzione di tali posizioni in un impianto teoretico, in un’impresa del pensiero, ossia quella di tracciare i lineamenti di una logica filosofica, che, seppur votata al fallimento, segnerà per sempre la cifra e l’importanza della riflessione laskiana. Senza approfondire ulteriormente la relazione che intercorre tra la fenomenologia husserliana e il pensiero di Lask, è necessario fin d’ora anticipare, per i nostri fini, che il nuovo orizzonte gnoseologico al quale il filosofo perverrà negli scritti della maturità, anche grazie alla mediazione fenomenologica, trova la sua indispensabile premessa nell’intervento del 1908, con il quale Lask rigetta definitivamente il modello rickertiano del soggetto trascendentale, a cui aveva aderito fin dallo scritto di abilitazione, seppur, come abbiamo visto, non in modo fedele, bensì declinando tale soggettività in senso, per così dire, negativo, ossia mettendone in luce più i limiti, più la sua radicale impotenza che la grandezza della sua attività 32
Lettera di Lask a Husserl del 25.XII.1910 in: E. Husserl, Briefwechsel, vol. V, Die Neukantianer, c/ di K. e E. Schuhmann, in Husserliana-Dokumente, Kluwer Academic Publisher, Dordrecht/ Boston/ London 1994, p. 31-5; tr. it. di D. Petrella, Tre lettere di Lask a Husserl, in: Id., La “silenziosa esplosione del neokantismo”, cit., p. 279-83, qui p. 279. 33 E. Lask, Die Logik der Philosophie, cit., p. 223 nota 11.
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sintetica e produttiva. Se la prima figura del soggetto laskiano è, dunque, identificabile con un soggetto trascendentale, le cui forme sono votate a scontrarsi con l’inesauribile ricchezza del reale, la seconda figura – preparata dalla conferenza del 1908 e pienamente dispiegata nel sistema maturo – accentua tale limitatezza, collocando al cuore del soggetto non una funzione attiva di costituzione del reale, bensì una passività connaturata al concetto di dedizione, cui è ricondotto l’atteggiamento conoscitivo.
4. Dal soggetto patogeno alla soggettività contemplativa. La kinesis delle figure da Kant ai Greci Lask elabora un secondo modello di soggetto negli scritti della maturità: La logica della filosofia e La dottrina del giudizio. Decisiva nella delimitazione di tale figura è la dislocazione delle forme categoriali dal versante soggettivo a quello oggettivo, per cui le categorie, lungi dal rappresentare delle forme dell’intelletto, come avveniva nel primo modello laskiano, divengono funzioni logiche ascritte all’oggetto stesso, costituito dalla compagine di forma e materia. A questa decisiva dislocazione delle forme a parte objecti Lask perviene attraverso un’originale esegesi della rivoluzione copernicana di Kant, alla quale è assegnato il merito di aver eliminato il carattere metalogico dell’oggetto, e con ciò quella dualità di essere e verità, di essere e conoscenza, che contrassegnava l’intera filosofia dogmatica: Il superamento di ogni dogmatismo (nel senso gnoseologico più stretto) effettivamente realizzato da Kant si manifesta nella rimozione di questa metalogicità, di questa “trascendenza” nei confronti del logico, nella soppressione di questa indipendenza dell’essere nei confronti della sfera logica, nella distruzione dell’antichissima scissione di oggetto e valore della verità, nella conoscenza della logicità trascendentale o del carattere intellettivo dell’essere. Ma con ciò non si tratta niente affatto di un rapporto tra soggetto conoscente e oggetto, non della dualità soggetto-oggetto. (ivi, p. 26)
Il decentramento dal copernicanesimo kantiano della relazione gnoseologica segna la cifra dell’interpretazione objettivistica laskiana, che se da un lato riconosce al pensiero critico il superamento della metalogicità dell’oggetto, dall’altro non attribuisce tale superamento all’intervento del soggetto trascendentale, bensì, escludendo, come vedremo, sintomaticamente dal regno oggettuale ogni ingerenza soggettiva, relega il logico originariamente a parte objecti: l’essere sensibile, l’essente (das Seiende) non è metalogico, confinato al di là della forma, bensì è immanente ad essa, alla forma “essere” (Sein), ancor prima di qualsivoglia attività coscienziale. 185
Con tale lettura del criticismo, Lask spezza inevitabilmente la connessione kantiana tra logicità e intelletto, relegando la prima sul piano oggettuale e assegnando al secondo una funzione logico-giudicativa assolutamente derivata e secondaria rispetto a ciò che Nachtsheim ha definito “il logico-oggettuale autoctono”34. In base a tale operazione ermeneutica, è attivata negli scritti laskiani della maturità l’ineluttabile dicotomia tra fenomeni logici oggettuali e non oggettuali, tra logico oggettivo e logico raffigurativo, tra ciò che il filosofo chiama das Nachbildliche e l’Urbild: il primo è il correlato dell’attività giudicativa, definita nei termini di mero “mezzo di padroneggiamento raffigurativo dell’oggetto”35, il secondo, invece, è il senso trascendente, strutturato dai due elementi di forma logica e materia. A questa dicotomia interna al piano logico-teoretico Lask fa poi corrispondere in ambito gnoseologico la distinzione tra attività proposizionale e ciò che egli nomina Hingabe – dedizione. Nelle opere mature, il conoscere, dunque, non si riduce esclusivamente al giudizio, bensì accanto ad esso è postulata, seppur non indagata36, una visione intuitiva e antipredicativa dell’oggetto, intesa nei termini di “dedizione al nonsensibile”, di “intenzionalità teoretica”37. Nell’uso laskiano quest’ultima espressione di chiara matrice fenomenologica designa una mera ricettività, una passività, per cui il soggetto è già sempre rivolto all’oggetto, che gli si offre secondo alcune strutture categoriali, alcune forme, cui spetta l’esclusiva funzione di illuminare38 un rispetto del materiale già formato. Secondo tale dinamica, l’oggetto trascendente si dà originariamente entro l’Hingabe, entro la dedizione, mentre il giudizio esercita su di esso un’azione lesiva (antastende Eingriff), deformante39. Differentemente da Kant e i neo34 S. Nachtsheim, Alcune osservazioni sulla ricezione kantiana di Emil Lask, in: AA. VV., Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., p. 167-204, qui p. 170. 35 E. Lask, Die Lehre vom Urteil (1912), in: Id., Sämtliche Werke, Bd. II, cit., p. 248403, qui p. 253. 36 Sul concetto di intenzionalità in Lask e sulla sua mancata tematizzazione nella relazione soggetto-oggetto si confronti S. Besoli, La verità sottratta alla conoscenza: l’esito tragico-mistico della dottrina del giudizio di Lask, in: Id., Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza, Quodlibet, Macerata 2002, p. 239-340, in particolare p. 251. 37 E. Lask, Die Logik der Philosophie, cit., p. 69. 38 A proposito della funzione svolta dalla forma categoriale sul materiale Lask scrive nella Logica: “Si può allora designare il momento logico formale come un momento di chiarezza, questa missione di suggellare, adempiuta dal valore logico rispetto al materiale, come missione di chiarezza” (E. Lask, Die Logik der Philosophie, cit., p. 64). 39 Schuhmann e Smith, prendendo in esame la concezione laskiana del giudizio, giungono a dichiarare che “questa conoscenza è un tipo di violenza esercitato sopra il dato” (K. Schuhmann/ B. Smith, Two Idealisms: Lask and Husserl, cit., p. 462).
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kantiani, per Lask, l’attività proposizionale opera una vera e propria frantumazione dell’oggetto, del senso trascendente – ac-colto originariamente nella dedizione – per poi ricostruirlo, riprodurlo40 nella forma posticcia e provvisoria che le è propria. Tale dinamica si rispecchia nella distinzione tra oggetto sovraopposizionale o trascendente e oggetto opposizionale: Nella misura in cui il conoscere è il correlato soggettivo del senso, deve corrispondere a un senso separato opposizionalmente un conoscere giudicativo separato opposizionalmente, mentre al senso sovrapposizionale deve corrispondere una conoscenza oltregiudicativa sovraopposizionale. Una simile conoscenza sarebbe da pensare come il correlato soggettivo della mera struttura originaria, dunque come una mera dedizione al materiale investito categorialmente (…). Essa afferra l’originale non frantumato o restaurato, nel quale vi è solo un mero stare dei contenuti nelle categorie.41
La dedizione, definita nei termini di un conoscere intuitivo rivolto all’oggetto sovraopposizionale, appare, dunque, al filosofo come l’unico accesso gnoseologicamente diretto al senso trascendente, non ancora violato dall’antastende Eingriff, dall’intervento intaccante dell’attività proposizionale. Per sottolineare questa natura invasiva e “parassitaria” dell’intervento soggettivo nei confronti del regno oggettuale Lask si avvale sistematicamente, così come per distinguere la regione immanente da quella trascendente, delle coppie Gekünsteltheit/ Ungekünsteltheit e Strukturangetastetheit/ Un-angetastetheit, che presentano il soggetto nella veste dell’“intaccante il non-affetto e l’istitutore dell’affezione” (ivi, p. 352), o, secondo la nostra terminologia, di soggetto patogeno, dell’agente che affetta l’oggetto, il quale inevitabilmente porta su di sé “i sintomi del riferimento alla soggettività”42, divenendo così corpo signato, violato, veränderter Sinn, senso mutato, modificato. Con l’attività proposizionale, infatti, il soggetto stesso – dice Lask – non è più ridotto al paziente destinatario del senso, al bloßer Schauplatz, allo sfondo indifferente
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Per Cassirer, la distinzione tra una regione logico-archetipica (senso trascendente) e logico-riproduttiva (senso immanente) conduce Lask a riattivare nel proprio impianto una teoria del rispecchiamento, con tutte le difficoltà che tradizionalmente essa comporta. Su alcune delle aporie in cui cade la dottrina laskiana del giudizio si confronti E. Cassirer, Erkenntnistheorie nebst den Grenzfragen der Logik (1913), in: Id., Erkenntnis, Begriff, Kultur, hrsg. v. R.A. Bast, Meiner, Hamburg 1993, p. 1-76; tr. it. c/ di G. Raio, La teoria della conoscenza e le questioni di confine della logica (1913), in: Id., Conoscenza, concetto, cultura, La Nuova Italia, Firenze 1998, p.1-65, in particolare p. 11. 41 E. Lask, Die Lehre vom Urteil, cit., p. 336-337. 42 E. Lask, Die Logik der Philosophie, cit., p. 11.
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dell’accadere dell’oggetto, qual è nella dedizione, bensì si mostra nel suo reale significato: Si impara così a conoscere la soggettività solo nel suo vero significato, nella sua piena autonomia e propria iniziativa. Non appare più nella posizione di mera dedizione (Hingabe), bensì nella sua modificazione che affetta, che intacca il fondo trascendente, che crea qualcosa di nuovo nella misura della sua opera attiva.43
Nel suo vero significato, il soggetto è, dunque, soggetto pato-geno, creatore di pathos, di affezione e così ogni sua azione è un’“attività intaccante” l’oggetto, un’attività il cui esito ultimo assume la veste di sintomo: di Immanenzsymptome – dei sintomi dell’immanenza al soggetto – dovuti al giudizio oppure di Symptome der Reflexivität44, prodotti sul piano oggettuale dalle categorie riflessive, o ancora di Antastungssymptome, di sintomi di lesioni. Senza entrare nel merito di quella che potremmo chiamare, secondo la nostra esegesi, la complessa sintomatologia laskiana – mirante a mettere in luce la natura del soggetto – è opportuno osservare che al centro della seconda figura proposta da Lask vi è, come abbiamo visto, quella dualità di giudizio/ dedizione, di Urteil/ Hingabe, che, sebbene assegni un carattere originario al conoscere intuitivo, identifica la conoscenza tout court con l’attività proposizionale. In altri termini, la dedizione, intesa come puntozero della conoscenza, come origine di ogni conoscere, non risolve in sé ogni apprensione, bensì esige un’attività di padroneggiamento, a cui spetta l’immanentizzazione dell’oggetto. A quest’attività si accompagna, tuttavia, ciò che Lask presenta nella veste di peccato originale (Sündenfall), ossia l’ineluttabile perdita del senso trascendente ridotto a paradiso perduto (verlorenes Paradies): “Dopo il peccato originale della conoscenza – scrive il filosofo nella Dottrina del giudizio – non è più possibile impadronirsi del senso trascendente, bensì di quello immanente oppositivo”45. Nel transito dalla dedizione al giudizio, dalla passività all’attività si manifesta, dunque, la caduta dell’uomo nel mondo artificiale delle ombre (costituito dal senso opposizionale e dalle categorie riflessive) e la sua conseguente trasformazione dall’essere-soggetto alla verità – dall’incarnare l’apertura entro la quale la verità (identificata con il piano oggettuale) accade – all’essere il soggetto pato-geno, che tenta di appropriarsi, di impadronirsi della verità entro il proprio procedere discorsivo, violandola e frammentandola. 43
E. Lask, Die Lehre vom Urteil, cit., p. 353. E. Lask, Die Logik der Philosophie, cit., p. 122. 45 E. Lask, Die Lehre vom Urteil, cit., p. 361. 44
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Il soggetto gnoseologico diviene così, nella sua attività, colui che lede lo strato logico costitutivo del senso trascendente per rifigurarlo in strutture artificiali sussistenti solo sul terreno soggettivo, a partire dal quale e solo dal quale la verità, afferrata nella mera dedizione, è tras-figurata, ri-figurata e – come a ragione ha sottolineato polemicamente Rickert nel suo Über logische und ethische Geltung – è offuscata dal soggetto, “il quale sembra trovare impersonalmente e passivamente la verità, mentre alla sua attività è addebitato l’offuscamento della verità nella sua limpidezza”46. In questa dinamica di accoglimento e padroneggiamento, di luce e ombre, si inscrive la nuova figura del soggetto che Lask presenta nelle ultime due opere pubblicate in vita, alle quali segue un lungo silenzio che avvolge gli ultimi anni del suo magistero – quelli dal 1912 al 1914. A questo periodo corrisponde un’intensa attività filosofica, i cui risultati, seppur provvisori, sono affidati a una mole di appunti, di note, di postille, di frammenti sparsi, raccolti e ordinati dall’amico e discepolo Eugen Herrigel nel terzo volume delle Gesammelte Schriften. È tra le dense pagine di questo volume che ci si imbatte di nuovo, seppur in modo frammentario, nella questione del soggetto teoretico. In seno a tematiche tra loro disparate è, infatti, possibile cogliere un chiaro filo conduttore riguardo al problema gnoseologico e alla definizione del soggetto: conoscere significa dedicarsi (hingeben) alla verità, cogliere il senso vero, prestare ascolto a una forma logica valida che investe un materiale, offrire al senso trascendente un luogo di manifestazione immanente, essere una soggettività ricettiva.47
Lask guadagna nelle ultime propaggini del suo pensiero, ormai libere dal problema di definire l’attività proposizionale, una nuova figura della soggettività, quella ricettiva. Il soggetto gnoseologico è, infatti, negli appunti postumi di Lask, l’Erlebensschauplatz, è “un esser-dedito all’oggetto, è esperienza che sta di fronte al valore estetico e teoretico” (ivi, p. 86). Ancora nella parte della raccolta intitolata Zum System der Philosophie il filosofo dichiara che la regione teoretica-contemplativa è “dedizione (Hingabe) al non-creato, all’immutevole, al sottratto dall’intervento attivo, dunque all’inviolabile (Unantastbare)”48. Per questa via, che esclude dalla sfera soggettiva un carattere invasivo, Lask giunge a definire la soggettività teoretica nei termini di pura soggettività 46 H. Rickert, Über logische und ethische Geltung, in: “Kant-Studien”, 19/1914, p. 182221, qui p. 210. 47 E. Lask, Zum System der Logik, in: Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, cit., p. 57-169, qui p. 156. 48 E. Lask, Zum System der Philosophie, in: Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, cit., p. 171-235, qui p. 174.
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contemplativa, contrassegnata da una mera postura passiva-ricettiva e definita nei termini di Erlebnis49. Si può così riscontrare nelle riflessioni laskiane immediatamente precedenti alla sua partenza per il fronte una netta preminenza, entro l’insanabile dualità che contrassegnava il soggetto patogeno, della natura ricettiva della conoscenza, della passività propria della soggettività, divenuta ormai mera kontemplative Subjektivität. Le ultime riflessioni del filosofo mettono così capo a un modello del soggetto che Glatz ha giustamente definito nei termini di “soggettività empirica-concreta”50, verso il cui concetto Lask, si potrebbe osservare, era già in cammino fin dalla conferenza del 1908, ove si ritrova la prima occorrenza del termine Hingabe e la sua intima connessione con l’esperienza vissuta e vivente: Chiamiamo senso “soggettivo” ciò che è insito nel “dedicarsi” e specialmente nel “conoscere”, e così via, semplicemente perché, pur rappresentando chiaramente un senso e non un dato di fatto psichico privo di significato, tuttavia, paragonato alla validità oggettiva, rivela una proprietà che diverge in modo caratteristico, che rimanda all’esperienza personale che serve da sottofondo. È un tipo di senso che, nella sua essenziale significatività, conserva per così dire il ricordo del momento del vissuto e lo accoglie in sé. La sua comprensione presuppone che si sappia il dato di fatto dell’esperienza personale, che sia messo in serbo il passaggio attraverso l’esperienza personale, è per così dire un senso immerso entro l’esperienza personale.51
La dislocazione, l’immersione della validità nel vissuto, nell’esperienza alla quale il senso attecchisce, costituisce, dunque, la cifra di quel concetto di dedizione, a cui Lask si rivolge per chiarire la dinamica gnoseologica. La conoscenza è già nel 1908 esperienza vissuta del senso, è Erleben, che funge da sostrato, da portatore di validità, è esperienza che accoglie la verità. Ciò è ribadito con particolare energia, seppur in alcuni luoghi marginali, nella Dottrina del giudizio, ove Lask parla di sinnliches Erlebnissubjekt52, di una soggettività sensibile, di nuovo connessa alla dedizione al non-sensibile, alla 49 Nel corso della ricezione del pensiero laskiano si sono avvicendate diverse e contrastanti interpretazioni riguardo alla questione gnoseologica nell’ultima fase del pensiero del filosofo. Se da una parte Rickert e Herrigel leggono nel terzo volume delle Gesammelte Schriften un indiscusso ritorno di Lask a un soggettivismo kantiano, dall’altra autori come Glatz e Nachtsheim rifiutano tale interpretazione, ravvisando una certa continuità tra le ultime propaggini del pensiero laskiano e il sistema maturo. Per una ricognizione in area tedesca delle diverse posizioni assunte rispetto al problema della soggettività nell’ultimo Lask rimandiamo a Glatz, Emil Lask, cit., p. 201 nota 567. Per quanto riguarda la posizione di Nachtsheim cf. la sua opera Emil Lasks Grundlehre, Mohr, Tübingen 1992. 50 Cf. U.B. Glatz, Emil Lask, cit, p. 213. 51 E. Lask, Il primato della ragion pratica e le sfere di senso, cit., p. 221s. 52 E. Lask, Die Lehre vom Urteil, cit., p. 402 nota 174.
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postura ricettiva del soggetto, inteso come destinatario e luogo di realizzazione del senso. Ma se nei suoi Hauptwerken, e in particolare nella Lehre vom Urteil, Lask rende ancora ragione dell’attività proposizionale, seppur derubricata del valore che le era assegnato nella prima figura del soggetto di stampo kantiano, nelle sue ultime riflessioni il soggetto teoretico diviene un soggetto concreto-ricettivo, che non ha più nulla a che vedere con un io formale, astratto e sovraindividuale, ossia con la coscienza giudicante. A partire da ciò che abbiamo messo in luce si può così riscontrare, entro la peculiare opera di risemantizzazione del soggetto operata da Lask, un’originale dinamica, che ha il suo momento iniziale in un soggetto trascendentale, astratto e sovra individuale di stampo attivo-sintetico e il suo approdo finale in un soggetto sensibile-ricettivo, dei quali il medio è rappresentato da ciò che abbiamo rubricato sotto il nome di soggettività patogena. Dall’astratto al concreto, dall’attività alla ricettività, dal giudizio all’intuizione è questo il capitale passaggio che Lask realizza attraverso la sua opera di ripensamento del soggetto, un’opera, il cui significato ultimo non investe il solo pensiero laskiano, bensì il destino a cui andò incontro il concetto di soggettività nella filosofia di fine Ottocento e inizio Novecento. Infatti, nella kinesis dal modello trascendentale del soggetto di impronta kantiana e neokantiana, passando per una figura della soggettività che è definita a partire da un’originale rilettura di alcune istanze fenomenologiche, fino a un soggetto che è esclusivamente Erleben è possibile leggere in ultima istanza l’influenza che su Lask esercitarono tanto il neocriticismo quanto la fenomenologia e, infine, la Lebensphilosophie. La spontaneità dell’intelletto kantiano, la soggettività intenzionale e l’esperienza vissuta e vivente costituiscono, dunque, quelle categorie entro le quali Lask promosse delle nuove figure del soggetto, che, sebbene da un lato accolgono istanze presentate dalle maggiori correnti dell’epoca, dall’altro le declinano in modo del tutto originale, smarcando il suo pensiero da qualsivoglia carattere epigonale. A riprova di ciò basti pensare al radicale rovesciamento cui il filosofo sottopone il ruolo del giudizio nel processo cognitivo: contro Kant e il neokantismo dei propri maestri, Lask affranca l’attività proposizionale da qualsivoglia funzione sintetica e costitutiva, per farne, nelle opere mature, un’attività lesiva del piano oggettuale. Questa originalità che le riflessioni laskiane esibiscono riguardo al problema gnoseologico culmina, come abbiamo visto, in una concezione passiva e ricettiva della soggettività, tradotta in un sostrato sensibile, in un sub-jectum. Ora, tale soggetto concreto e ricettivo si colloca inevitabilmente oltre ciò che Heidegger definì “l’antica mitologia di un intelletto che
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compone e incolla la materia del mondo con le sue forme”53, oltre l’impostazione trascendentale kantiana e neokantiana. Ma questo oltre come si con-figura nel pensiero laskiano? Che cosa c’è in gioco in questo oltre? L’originale opera di ripensamento del soggetto avviata da Lask a partire dalle istanze dell’epoca a lui contemporanea conduce, paradossalmente, a ciò che Richard Kroner individuava con nitida chiarezza già nella Dottrina del giudizio: “Il pathos e l’ethos della filosofia laskiana è del tutto quello greco e non quello moderno kantiano: per lui ciò che è più alto non è il fare del soggetto, l’attività e la spontaneità del processo conoscitivo, bensì l’accettare passivo e l’accogliere”54. La kinesis delle figure che abbiamo individuato e il capitale passaggio che in essa si inscrive – dall’astratto al concreto, dall’attività alla passività – assume quindi il significato ultimo di un transito che va da Kant ai greci, dallo spirito moderno a quello antico. Ma tale transito più che assumere la figura di un mero ritorno reazionario all’antichità55 – come voleva Rickert, si presenta nella veste di un tentativo di sintesi feconda, di un’attualizzazione di alcune istanze che stavano già svolgendo un ruolo capitale nella delineazione di nuovi paradigmi entro lo scenario filosofico di inizio Novecento. Così, ad esempio, Lask riconosce in Husserl l’influenza di Bolzano, presentato come colui che ha fatto propria l’“intuizione platonica”, secondo cui “la cosa ultima, il fondamento in ambito teoretico non deve essere la spontaneità e il puro fare, bensì un trascendente impersonale che si oppone alla soggettività, un regno della verità sottratto all’attività intaccante della soggettività”56. E ancora nelle lezioni del 1911/ 12 Lask dichiara che se si guardasse alla dottrina platonica delle idee con l’“entusiasmo logico per i puri significati, egli [Platone] non sarebbe più il divino Platone, bensì l’autore delle Ricerche logiche husserliane”57. A partire da tali suggestioni si può concludere che, per Lask, il transito dal moderno kantismo al pensiero aurorale dei greci non ha il senso di un semplice ritorno a un passato stantio, bensì assume la figura, la veste potremmo dire, di una Aufhebung del pensiero passato in direzione del presente e del futuro, di un’elevazione e conservazione della tradizione, che conduce a un’interrogazione radicale entro la quale ne va del destino del 53
M. Heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs (1925), Klostermann, Frankfurt a. M. 1975; tr. it. di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, il Melangolo, Genova 1999, p. 96. 54 R. Kroner (rec. di), E. Lask, Lehre vom Urteil in: “Deutsche Literaturzeitung”, 34/1913, p. 2005-7, qui p. 2006. 55 Cf. la lettera di Lask a Husserl del 24.XII.1911. 56 E. Lask, Rezensionen zu: Gotthardt, Bolzanos Lehre vom “Satz an sich” und H. Bergmann, Das philosophische Werk Bernhard Bolzanos, in: “Logos”, 1/ 1910-11, p. 160161, in: Id., Sämtliche Werke, Bd. I, cit., p. 329s., qui p. 329-30. 57 E. Lask, Platon, cit., p. 52.
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soggetto, di un soggetto che, se non è più l’artefice di un mondo, resta ancora – nell’itinerario filosofico laskiano drammaticamente interrotto dalla prematura morte in guerra – tutto da pensare.
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EVOLUZIONISMO & SCIENZE NATURALI
Questa rubrica, dedicata a Francesco Maria Scudo ma aperta a ogni contributo competente sulle più moderne configurazioni metodologiche dell’evoluzionismo e dintorni, si fonda sulla collaborazione essenziale di Katherina Ziman ved. Scudo (Torrazza Coste, PV), architetto del paesaggio formatasi alla scuola di Julius Fabos (University of Massachusetts, USA), autrice esclusiva e detentrice dei diritti del progetto pavese della “Greenway della Battaglia” <1999> e della “Greenway Milano-Pavia-Varzi” <2001-2004>. Oltre all’assistenza della dr.ssa Katherina Ziman, la nostra rubrica si vale della collaborazione di Petra Scudo, figlia di Katherina e di Francesco, laureata in fisica a Pavia e ricercatrice di vasta esperienza internazionale.
I primi due testi che seguono [2] e [3] sono schemi o tracce per interventi tenuti a convegni internazionali (Pavia-Stresa, Siena) sul tema dell’origine delle principali forme di vita sulla Terra; il terzo [4], più articolato, risale agli stessi anni (1994-96); l’ultimo [5] è stato pubblicato, in inglese, nella “Rivista di Biologia” / “Biolog. Forum” nel 1996.
Francesco M. Scudo, La Terra e la Storia della Vita (nov.1994, PaviaStresa) [2]
La ricchezza di dati sulla vita e sulla Terra non sembra fornire un aiuto decisivo per capirne la storia, soprattutto dal momento che quest’ultima viene interpretata in modi molto diversi. Per comprenderne il motivo occorre anzitutto rendersi conto che le teorie sull’evoluzione sono tra le 195
componenti più labili della cultura umana, analogamente a quelle che nel Rinascimento “scomparvero” dopo Cartesio. Alla fine del XIX secolo l’evoluzione biologica divenne una popolare alternativa ai miti teologici e un usuale sussidio didattico nell’insegnamento delle discipline naturalistiche. Quale conseguenza furono proposte due semplicistiche opposte visioni e una o l’altra, o entrambe allo stesso tempo, sono rimaste popolari da allora – vale a dire il “Darwinismo” e i suoi derivati come la Nuova Sintesi, e il “Lamarckismo” e i suoi derivati come la odierna Gaia. Le teorie sull’evoluzione che bona fide, continuarono a essere presentate ma finirono con l’essere per lo più rifiutate per l’eccessiva complessità, o moralmente ripugnanti o a causa delle loro contraddizioni interne, o perché in relazione con quantità non correttamente misurabili. L’ultima objezione derivò dall’assunzione che le operazioni affini a quelle della fisica non siano applicabili a variabili continue, a meno che ne soddisfino le stesse proprietà di invarianza, ammettendo unità di misura assolute. Solo recentemente questa objezione è stata completamente rimossa da due teorie generali della misura (ad esempio: note 1, e 2). Le contraddizioni interne sono facilmente evitabili solo da teorie “tautologiche”, ma difficilmente da quelle di “buona fede”, poiché molti fattori di evoluzione sono intrinsecamente contraddittori; come esempio banale: il testosterone ha effetti mascolinizzanti su rane giovani a piccole dosi, femmininizzanti a grandi dosi. La Terra ha raggiunto una massa e un’orbita vicino a quelle attuali 4 miliardi di anni fa, attraverso un processo di accrescimento stocastico che continuò su scala sempre più ridotta, in corrispondenza a impatti divenuti in media sempre più piccoli e più rari. Organismi simili a batteri presenti ai giorni nostri popolarono la terra circa 3,8 miliardi di anni fa e persistettero quasi senza nessun importante cambiamento incisivo, per circa 2 miliardi di anni, dando poi vita a cellule più grandi, apparentemente nucleate. Cellule che appaiono nucleate in tutti gli aspetti infatti, pur non avendo alcuna struttura nucleare, sopravvivono ancora come simbionti. Queste cellule di maggiori dimensioni similmente perdurarono per un miliardo di anni apparentemente senza nessun cambiamento, sino a produrre bruscamente tutte le principali forme di animali e piante circa 0,6 miliardi di anni fa. Le teorie che si basano sul funzionamento di meccanismi lenti e graduali difficilmente possono dar conto di tali precoci origini di “batteri” o dell’esplosione cambriana, mentre quelle che si basano su meccanismi veloci hanno problemi a giustificare ogni “stasi” apparentemente lunga. Una teoria completa dovrebbe tenere conto anche di caratteristiche molecolari peculiari come il DNA della maggior parte dei virus del genere bacillus, che hanno uracile al posto della timina (e sono, quindi, solo un “RNA ridotto”). La mia tesi è che le teorie darwiniane elaborate sino a metà del secolo e quindi in buona parte abbandonate – ad esempio da Giglio-Tos, Pierantoni, 196
Volterra, Wright, Schmalhausen, Leonardi etc. – ora si possano facilmente applicare per spiegare le origini delle principali forme di vita. Il loro argomento cruciale è che, normalmente, solo le associazioni specializzate (biocenosi) di forme molto diverse possano rimanere salde, e lo facciano con un modello “a mosaico” – ovvero per chiazze semi-isolate. Qualsiasi associazione inizia come un assemblaggio povero e in gran parte casuale in seguito alla scomparsa di uno precedente; tende quindi a divenire più ricco di forme e più efficiente specializzando interazioni tra di esse verso il mutualismo e possibilmente la simbiosi. Un’associazione diventa così anche più “fragile” e qualsiasi disturbo sufficientemente forte e globale può improvvisamente cancellare molte, o anche tutte, le sue “forme caratteristiche”. A questo punto le associazioni più ricche persistono divenendo più invasive e la loro parziale scomparsa, solamente locale, accelera notevolmente la loro evoluzione. Specializzazioni delle teorie di cui sopra attraverso proposte recenti (vedi principalmente alle note 3, 4, e 5) portano a suggerire il seguente scenario. I proteinoidi hanno presto sostituito le strutture auto-duplicanti con altre più semplici, e alcuni di essi divennero organizzati in colonie che portarono a vere e proprie cellule, ancora “aperte” e non codificate. Antenati di RNA si formarono naturalmente all’interno di tali cellule come aggregati di coenzimi, in un primo momento con nessuna funzione o con funzioni molto elementari; quando la loro capacità di auto-replicazione migliorò, essi poterono blandamente parassitare le loro cellule madri. Successivamente, impacchettando il loro RNA in capsidi proteici, dei veri e propri virus avrebbero potuto infettare massicciamente altri tipi di cellule. Alcuni di questi virus divennero ancora più infettivi specializzando acidi nucleici come “replicatori” dei loro cromosomi – gli Ur-DNA. A questo punto alcune linee di cellule si chiusero per protezione, intrappolando così al proprio interno alcuni di questi virus potenzialmente capaci di codificare anche le cellule. Molto probabilmente la codifica di proteinoidi intrinsecamente cellulari è iniziata copiandoli nel RNA, e poi retroscrivendoli nel DNA. La “stasi” procariotica di circa due miliardi di anni sarebbe quindi consistita nella evoluzione delle biocenosi di cellule non codificanti, quindi dei loro predatori “virali” – evoluzione parallela a quella delle piante e animali terrestri – sino a una codifica perfezionata come nei batteri. Le prime cellule di aspetto eucariotico sarebbero state caratterizzate principalmente dall’evoluzione dei loro citoscheletri e stimolatori associati, consentendo loro di manipolare simbionti endocellulari come tali. Gli apparati nucleari furono probabilmente tra i primi ad essere acquisiti simbioticamente, consentendo alle cellule un percorso alterno tra le generazioni di diversa ploidia cromosomica. Ciò ha costretto l’evoluzione 197
delle specializzazioni sessuali sino ai dimorfismi uovo-sperma permettendo, allo stesso tempo, di acquisire tutti i tipi di endosimbionti con funzioni fisiologiche. Gli animali e le piante veri e propri infine originarono dal fatto di “perdere” o di “omogeneizzare” i loro meccanismi discriminatori ancestrali per dimorfismi gametici o sporali, pur mantenendoli in primo luogo attraverso fasi meramente di sviluppo, poi con altri mezzi sino a separare i sessi. Animali e piante hanno continuato a perfezionare le loro capacità fisiologiche attraverso nuove simbiosi con semplici forme cellulari, molte delle quali sono state poi eliminate ad eccezione di alcune delle loro informazioni genotipiche. Anche le incorporazioni dirette di elementi virali nei genomi continuarono, essendo le uniche simbiosi endocellulari conosciute tra i vertebrati e molti altri deuterostomi. (Francesco Scudo, I.G.B.E. (CNR), Via Abbiategrasso 207, 27100 Pavia) (tr. dall’ingl. di Katherina Ziman & Petra Scudo) (1) Luce & Narens, 1987: “Science”, vol. 236, p. 1527. (2) Mes’kov & Samochvalov, 1990: “Measurement in socia1 sciences”, 28, Czech. Acad. Sc., Praha. (3) Cordón, 1990: Tratado evolucionista de biologia, P. segunda, Aguilar, Madrid. (4) de Duve, 1991: Blueprint for a cell, Patterson, Burlington. (5) Ohnishi, 1990: “Endocytbiology” IV, 593, INRA, Paris.
Francesco M. Scudo, Cenni su origine ed evoluzione delle principali forme di vita (Siena, 1995) [3] Per diversi secoli “l’origine della vita” non è stato un problema, dato che “tutti” credevano alla generazione spontanea, e molti hanno continuato a farlo fino a Pasteur o anche dopo. Forse il primo a porsi seriamente il problema è stato Darwin in una sua famosa lettera, dove immagina che delle proteine si originino per prime in una pozzanghera tiepida, ricca di fosfati, con elettricità ecc.; se esse si formassero in presenza di vita, invece, verrebbero subito “digerite”. La prima seria teoria sull’origine della vita è quella proposta da GiglioTos nei primi decenni del secolo XX, nell’ambito di una teoria molto più generale che spiega in chiave simbiotica anche la sessualità, lo sviluppo e l’ibridazione (Les problèmes de la vie, 4 voll., pubblicati dall’Autore, Torino, 1900-1910 e più brevi lavori successivi). Per Giglio-Tos, in un ambiente adatto, anche molecole organiche semplici sono capaci di accrescersi 198
e duplicarsi a spese di sostanze esterne, e di trasformarsi: l’esser vivo o no – nel senso di esser capace di vita “autonoma” – non è quindi una proprietà assoluta ma relativa alle condizioni, pressapoco come nel ragionamento di Darwin. Sulla Terra primitiva sarebbero dapprima evolute molecole semplici, poi molecole più complesse si sarebbero associate in biomori, concettualmente equivalenti a proteine, acidi nucleici ecc. Tale evoluzione avrebbe lentamente esaurito le condizioni chimiche che permettevano ai bimori vita libera, e questi sarebbero solo sopravvissuti in associazioni cellulari, le monere. Solo dopo esser divenute abbastanza complesse alcune monere avrebbero poi specializzato i loro biomori in biomori genetici e biomori somatici, come negli attuali batteri e organelli cellulari. L’evoluzione di monere più complesse avrebbe quindi reso possibile il loro associarsi a formare le cellule nucleate. Differenziandosi sessualmente, queste sarebbero poi divenute capaci di un’evoluzione rapida, che è reversibile o “azzerabile” ma solo per fusione tra un gamete maschile e uno femminile. Da uno stesso uovo fecondato possono poi originarsi cellule molto diverse, che rendono possibili le piante e gli animali simbiosi, a loro volta, fra cellule diverse. Per Gilio-Tos, quindi, lo sviluppo delle piante e degli animali sarebbe in genere una vera e propria forma di evoluzione completamente reversibile solo per riproduzione sessuata, in aperto contrasto con la teoria di Weissmann sulla continuità del plasma germinale. È oggi evidente che la teoria di Gíglio-Tos è in parte errata nel postulare che tutte le molecole “genetiche” negli organismi nucleati “superiori” siano sessualmente differenziate in forma irreversibile (lo sono solo in parte, mentre l’ADN è marcato sessualmente in forma reversibile, se e in quanto lo è). Inoltre questa teoria non ha riconosciuto che – ad eccezione delle sue forme più primitive – negli organismi nucleati più semplici il sesso gametico è controllato da un meccanismo diallelico di segregazione, cioè da due blocchi di geni o da veri e propri cromosomi sessuali. Inoltre la “perdita” di tale meccanismo è alla base dell’evoluzione sia degli animali (metazoi) che delle piante vascolari superiori (metafiti). Malgrado questi due “errori”, la teoria di Giglio-Tos ha continuato a predire, anche con grande precisione, osservazioni poi effettuate in embriologia, sui risultati di ibridazioni interspecifiche e sulla “sessualità” nei protisti, come la marcatura dei cromatidi in forme bipolari. Dopo esser stata abbastanza popolare-fino agli anni ’20 – divenuti evidenti gli errori di cui sopra, che implicano un grossolano contrasto con la genetica mendeliana – questa teoria era stata universalmente abbandonata. Nel frattempo andavano sviluppandosi conoscenze sempre più precise sulla simbiosi – inizialmente scoperta nei licheni – fra animali e alghe, o lieviti, o batteri come quelli luminosi. Le conoscenze veramente moderne 199
al riguardo partono nel 1910 dalla scoperta di Pierantoni – e contemporaneamente da Sulk – che un enigmatico tessuto relativamente comune negli invertebrati consisteva in simbiosi endocellulari, ereditarie con batteri o lieviti. Il fatto che queste simbiosi fossero particolarmente comuni in bassi invertebrati, rarissime nei cordati e del tutto assenti nei vertebrati, faceva pensare trattarsi di caratteristica “primitva” delle cellule nucleate. Diveniva così estremamente plausibile, se non praticamente certa, l’origine da simbiosi “batteriche” di organelli cellulari come mitocondrì e plastidi; prima questa era solo una “sparata” di qualche botanico russo, derivata ragionando in astratto quasi solo sui licheni. Si noti come tali idee vadano perfettamente d’accordo con quelle di Darwin sul mutualismo e successivi sviluppi a partire dalle sue teorie, inclusa la grossa “aggiunta” di selezione fra popolazioni sullo stampo di Wallace. Per di più già dalla metà del secolo gli studi sull’eredità citoplasmatica avevano reso plausibile, o certo, che i geni di “organelli” citoplasmatici potevano venir trasferiti al nucleo da virus. Si poteva così facilmente spiegare come molti animali incorporassero da simbionti qualche funzione per poi liberarsi dei simbionti stessi, come particolarmente evidente in casi di luminosità. Per capire come queste conoscenze e teorie abbiano avuto scarsissimi seguiti fino a poco fa, bisogna tener conto sia che erano categoricamente rifiutate da uno fra í massimi studiosi della simbiosi, Buchner, sia dell’enorme influenza della “nuova sintesi” (cf. alla fine). Il problema dell’origine prima della vita è stato solo riproposto da Oparin, Haldane e altri a partire dagli anni ’20, in termini di elaborazioni sempre più “realistiche” del ragionamento di Darwin sulla “pozzanghera tiepida”. Dagli anni ’50 si è pure constatato in laboratorio che in una tale “pozzanghera” potevano facilmente originarsi proteinoidi che si organizzavano in “coacervati”, o “microsfere” capaci di osmosi selettiva, duplicazione, fusione ecc. (le scuole di Oparin e di S.D. Fox). Nell’ultimo decennio si sono accumulate prove sempre più precise sulla marcatura sessuale alla fecondazione del genoma maschile nei vertebrati e su meccanismi di modificazione dei loro genomi nello sviluppo, reversibili – anche se non sempre perfettamente – per riproduzione sessuata. È pure stata recentemente scoperta la versatilità enzimatica dell’ARN, come nell’eliminare le regioni non codificanti dell’ARN messaggero in assenza di qualsiasi proteina. Questi progressi hanno spinto molti a pensare che l’ARN abbia avuto priorità evolutiva assoluta sulle altre componenti della materia vivente attuale, un “mondo dell’ARN” che è relativamente plausibile solo “in provetta” e dando per scontati diversi “misteri”. Ad esempio: dalla “brodaglia primitiva” si originano facilmente nucleosidi, ma non nucleotidi, che possono esser facilmente prodotti da proteine fosforilando nucleosidi. Inoltre l’ARN 200
si sarebbe originato per una catalisi di superficie che imporrebbe alle neonate molecole di essere “tuffatori nati”, per sottrarsi agli effetti distruttivi della radiazione ultravioletta che ha energizzato la loro formazione. Non si riesce a capire, per di più, quale potesse essere stato il metabolismo, o ecologia, degli ARN prima che diventassero parassiti o simbionti cellulari (cioè i viroidi d’oggi). Teorie più accettabili da un punto di vista globale si basano invece sull’assumere che le attuali componenti della vita si siano originate in un ordine che è circa lo stesso della difficoltà a sintetizzarle, cioè prima le proteine, poi i glucidi, gli acidi grassi e infine quelli nucleici. Fino a poco fa Cordón era praticamente il solo a sostenere, su basi teoriche plausibili in termini moderni, una lunga evoluzione fino a cellule, per ereditarietà direttamente proteica senza codifica da acidi nucleici. Recentemente l’autorevole analisi di de Duve (Blueprint far a cell, Patterson, 1991) giunge a posizioni largamente compatibili con quelle di Cordón (Tratado de biologia… 2 voll., Aguilar, 1990) nel dare priorità a un’evoluzione delle principali rotte metaboliche, catalizzate da enzimi proteici non ancora codificati da acidi nucleici, fino a una vera e propria proto-cellula ancora priva di codifica. Queste teorie differiscono in dettagli fra i quali forse il più importante è che la protocellula di Cordón è aperta, fatta a vaso, mentre quella di de Duve è chiusa, impenetrabile a normali macromolecole organiche. Per tentar di valutare tali alternative, o di precisarle, bisogna tener conto delle attuali conoscenze sui sistemi genetici. Ad esempio la semantica degli acidi nucleici viene studiata con tecniche “criptografiche” sempre più precise, e sono anche state analizzate le strutture steriche degli acidi nucleici quali principali determinanti delle interazioni fra di loro, e con elementi proteici. Vengono anche studiate con sempre maggior precisione le “cassette di montaggio” nei genomi eucarioti, dette elementi mobili, o ripetitivi, o trasposoni. Si tratta di elementi spesso molto simili se non identici a genomi virali, la cui trasposizione o amplificazione a siti specifici è facilmente indotta da ogni sorta di “stress”. Sono perciò molto plausibili anche relazioni più o meno strette fra le funzioni direttamente fisiologiche delle “proteine di stress, le loro funzioni di “chaperons” – cioè specificare le strutture terziarie di ampie classi di enzimi – e l’induzione della trasposizione o amplificazione. D’altra parte, virologhi quali i coniugi Strauss (ad es. con A.J. Levine, Cap. 9 in: Virology, Raven, 1990), dibattono attivamente l’origine dei virus principalmente in termini di due teorie date come alternative, cioè che si siano originati “di pari passo con le molecole della vita” piuttosto che come molecole nucleiche “sfuggite al controllo di cellule”. Queste due teorie pos-
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sono facilmente concordare nello scenario di Cordón, nel quale diverse colonie proteiche “aperte” avrebbero già evoluto sostanziali comportamenti cellulari prima di una loro codifica da acidi nucleici, e della loro “chiusura”; molto più difficile, invece, è interpretare l’origine dei virus nello schema di de Duve. Proseguendo così lo scenario di Cordón, vere e proprie forme di codifica sarebbero evolute indipendentemente in viroidi, in buon accordo con l’ampia variabilità nella composizione chimica degli acidi nucleici e dei sistemi di codifica nei virus, molto minore nei batteri e nei bassi eucarioti. Il codice genetico comune ai metazoi e ai metafiti sarebbe quindi evoluto come un compromesso fra codici primitivi più o meno diversi fra loro, mediato da scambi tramite virus. Cerchiamo ora di capire come mai molte delle conoscenze o teorie di cui sopra non le si trovino in libri moderni, specialmente se di evoluzione, o le si trovino solo in parte, o solo da poco anche se già note mezzo secolo prima (come per l’origine simbiotica degli organelli cellulari, anche nel trattato di biologia di Pierantoni del ’48, di uso corrente per diversi anni). Per tentare di farlo dobbiamo ritornare a quei Darwinismi e anti-Darwinismi, nati al giro del secolo, ai quali ho accennato nella mia prima esposizione. Attraverso strani percorsi ideologico-politici, alla metà del secolo è capitato che il Darwinismo diventasse anche una bandiera delle democrazie capitalistiche e altrettanto un’anti-Darwinismo – chiamato Darwinismo Creatore ma più noto come Lysenkoismo – per i paesi del socialismo reale. Dato che nei primi gli scaffali dei negozi straboccavano dei più vari cibi per chi aveva i denari per comprarli mentre nei secondi si dovevano fare lunghe file per poche patate, o per ragioni analoghe, è presto divenuto evidente che il Darwinismo “aveva ragione”. Nell’aspra lotta prima che questo divenisse evidente, però, si è instaurato un Darwinismo che rifiutava qualsiasi idea che potesse piacere al “nemico” e quindi, in blocco, anche le precedenti teorie Darwiniane. Queste teorie, Darwin ‘stesso’ e ancor di più i Lysenkoisti avrebbero commesso terribili errori o peccati che sono stati codificati in massicci trattati, particolarmente da Ernst Mayr. Tali sarebbero il credere nella “eredità dei caratteri acquisiti” (checché questo voglia dire) o in forme sbagliate di “selezione di gruppo”, ed altri che ricadono nell’onnicomprensiva “tipologia” o “essenzialismo”. Così non si potrà più ragionare in termini di reazioni d’interi genomi alle condizioni di vita – come Rosa, Wright, Schmalhausen ecc. – ma solo di lotte fra determinanti Mendeliani di caratteri. Questi caratteri certamente ci sono e altrettanto certamente vengono selezionati i geni che in qualche modo ne influenzano lo sviluppo, ma non certo per pretesi meriti assoluti di ciascuno di questi geni e tanto meno se sparpagliati a caso dalla “panmissia”, come vorrebbero i Darwinisti. Non si sarebbe neppure potuto parlare di simbiosi “ereditarie”, che sarebbero dovute a impossibili “sele202
zioni di gruppo” e poi trasformate in “eredità dei caratteri acquisiti”. L’origine simbiotica degli organelli cellulari verrà quindi accettata solo da poco, quando l’evidenza diretta è divenuta schiacciante, e questi Darwinisti la considereranno molto sorprendente. Altrettanto sorprendente, curioso o difficile da spiegare sarebbe il fatto che così tanti animali continuino a riprodursi per incrocio, invece che diventare partenogenetici: sarebbe blasfema, per questi Darwinisti, un’origine dei “sacri geni dal soma”, ecc. Francesco M. Scudo, I. G. B. E. (CNR), Pavia.
Francesco M. Scudo, Le origini delle principali forme di vita (Siena giu. 1996) Convegno n. 10, pubbl. n.45 [4]
Molti dati recenti sulla Terra e la sua Vita sembrano privi di senso più che altro perché l’evoluzione viene di solito interpretata da punti di vista diversi e molto restrittivi. Le teorie evolutive più complete non vengono quasi mai prese in considerazione perché ritenute troppo complicate o false, perché “malthusiane” o perché mostrerebbero qualche contraddizione interna. Objezioni del genere si rivelano facilmente speciose come quella sulla pretesa “non-misurabiltà” di quantità continue prive di unità di misura assolute, da anni invece garantita da ben due teorie. A mio parere, quindi, le teorie di base darwiniana elaborate nella prima metà del secolo da GiglioTos, Pierantoni, Volterra, Wright, Schmalhausen ecc., sono tutt’ora valide e, se opportunamente specificate, si applicano altrettanto bene a dati e problemi recenti. Loro punto-base è che in condizioni “normali” solo associazioni specializzate fra le più diverse forme di vita sono in grado di disputarsi il possesso del territorio e lo fanno “a chiazze”, fra le quali di solito vi sono solo scarsi scambi riproduttivi. Quando una vecchia associazione si estingue a seguito di una catastrofe globale viene dapprima rimpiazzata da un’accozzaglia di pochi immigranti e superstiti. In assenza di ulteriori, grosse perturbazioni globali questa tende ad arricchirsi di nuove forme, sempre più adattate l’una all’altra, tramite interazioni specializzate più mutualistiche, fino a vere e proprie simbiosi fra forme compatibili. Così arricchendosi, l’associazione tende però a divenire fragile, più spesso soggetta a crolli locali e a maggior rischio che una perturbazione globale porti all’estinzione di parte o di tutte le sue forme caratteristiche. Prima che questo avvenga le associazioni più ricche di forme hanno la meglio sulle più povere essendo più invasive e anche più adattabili, proprio perché frequenti crolli locali permettono una rapida evoluzione. 203
Le teorie semplici o addirittura monofattoriali hanno una spiccata predilezione per problemi dubbi e di ardua soluzione. Così a un “darwinismo” pressoché tautologico viene naturale assumere che la codifica genetica sia evoluta fin dal bel principio come universale, senza le ramificazioni tipiche dei processi evolutivi. Eigen ne spiega l’origine con sequenze estremamente improbabili di meccanismi che avrebbero prodotto il primo gene e, di qui, ancor più complesse catene di eventi improbabili per arrivare al “progenote”. Un tale mondo dell’ARN non sarebbe assurdo se la codifica fosse veramente stata universale dal bel principio, e se non concentrasse tutte queste sequenze di eventi nei due-trecento milioni d’anni intercorsi fra la formazione della Terra e il suo esser popolata da cellule in apparenza procariotiche. Invece l’elevata variabilità dei codici perfino delle composizioni di base degli ADN fra i virus, quelle poco minori fra i procarioti e molto minori tra i protisti indicano origini molto diverse al livello dei virus, e una successiva omogeneizzazione fino a un codice di triplette comune a metazoi e metafiti. Se, ciò malgrado, i miracoli di Eigen venissero accettati porrebbero problemi ancor più difficili come il perché i virus propri di bacillus abbiano un DNA “solo ad uracile”, o perché le cellule d’appartenenza procariotica, originatesi così rapidamente, non mostrino alcun notevole cambiamento nei primi due miliardi d’anni circa della loro esistenza. Basta invece introdurre nelle vecchie teorie darwiniane delle specificazioni recenti come quelle di Miller, Cordòn, De Duve e Ohnishi per ottenere, quasi automaticamente, il seguente scenario di prime origini. Vari proteinoidi hanno presto rimpiazzato strutture autoduplicanti più semplici e alcuni di questi si sono organizzati in colonie; parte di queste hanno evoluto veri e propri comportamenti cellulari quando ancora non codificate e “aperte” – come postula Cordòn. Entro complesse cellule del genere spontaneamente si formavano aggregati di coenzimi simili all’ARN, dapprima senza alcuna funzione oltre allo stoccaggio e trasporto delle componenti; migliorando poi la loro autoriproduzione, alcuni di tali “ARN” sarebbero divenuti simbionti o blandi parassiti cellulari. Poi parte di tali viroidi sono riusciti a impacchettare i loro cromosomi in capsidi proteici, così diventando virus ben capaci di infettare cellule diverse da quelle d’origine; parte di questi sarebbero poi divenuti ancor più virulenti specializzando forme d’acidi nucleici esclusivamente per la replicazione cromosomica, cioè DNA ancestrali. Diversi tipi di cellule avrebbero reagito a questi attacchi chiudendosi e così “intrappolando” a una carriera simbiotica diversi viroidi e virus, parte dei quali già dotati di trascrittasi inverse. Come suggerisce De Duve la codifica di componenti proteiche cellulari sarebbe iniziata “copiandole” ad ARN, poi retrotrascritti ad ADN; la “stasi procariotica” di circa due miliardi 204
d’anni sarebbe quindi solo apparente in corrispondenza di questi processi al perfezionamento di svariati codici e al controllo della riproduzione da un unico cromosoma. Le recenti scoperte di un ectosimbionte simile a un microsporidio ma senza nucleo e di giganteschi endosimbionti, simili a Gram positivi anche per le loro “endospore”, rendono molto più probabile che la prima tappa evolutiva verso gli eucarioti consistesse nell’acquisire citoscheletri atti a manipolare simbionti come tali, invece che solo formarne chimere. Parte di tali cellule avrebbero potuto così simbioticamente acquisire vere e proprie strutture nucleari che permettono l’alternarsi fra generazioni di differente ploidia; avrebbero poi acquisito altri organelli con funzioni fisiologiche e, allo stesso tempo, differenziato sessualmente la fase aploide. Anche la stasi evolutiva delle cellule “eucariotiche” per un miliardo d’anni circa sarebbe quindi solo apparente, in corrispondenza a una tale sequenza di processi. Le piante e gli animali “superiori” sarebbero poi rapidamente evoluti da eucarioti le cui fasi multicellulari fossero divenute sufficientemente complesse da permettere di riunire i determinati sessuali nello stesso genoma aploide pur mantenendo il genere gametico o sporale, dapprima per meccanismi di sviluppo in ermafroditi veri e poi separando i sessi. Piante e animali continuarono a perfezionare la loro fisiologia attraverso strette simbiosi con forme cellulari semplici, ciascuna responsabile di massiccie trasformazioni “parallele” come sembra il caso – fra gli altri – degli irudinei, dei pogonofori e dei blattoidei. Piante e animali continuarono anche a incorporare direttamente cromosomi virali simbiotici come elementi mobili e ripetitivi; questi sono particolarmente abbondanti nei vertrebrati fra i quali non sono note simbiosi endocellulari con procarioti. (I.G.B.E. <CNR>, via Abbiategrasso 207, I 27100 Pavia) (pubbl. n. 45 The Origin of Mayor Lifeforms trad. it. Kath. Ziman & Petra Scudo)
Francesco M. Scudo, The Origins of Major Life Forms (1996. Ringraziamo la “Rivista di Biologia”/ “Biology Forum” 89, p. 263-68) [5] ABSTRACT. Symbiogenetic theories concur with Darwinism on how selection operates, but differ in regarding as blatant failures what Darwinism pass as intriguing theoretical challenges, thus “proving” that natural selection is nearly powerless. No such problems arise by assuming that the struggle for existence operates not just at the level of genes or individuals but also through populations and communities, 205
selecting phenotypes which non-trivially depend both upon whole genomes and conditions of life. The history of the Earth and its life might not seem to make much sense since it is interpreted by two “adversary” theories each of which relies on a single explanatory principle – i.e. for one rare alleles becoming fitter replace the established ones, for the other symbioses. More complete theories on the evolution of “higher” animals were elaborated around first half of the century by Schiaparelli, Rosa, Giglio-Tos, Kostitzin, Wright and Schmalhausen, but they are generally disregarded for reasons such as alleged internal contradictions, or reliance on the essentially “wrong” Malthusian principle of self-limitation. Here I wish to point out that, if appropriately specified, the older theories on life and its history easily account also for all sorts of recent data. A main point in these theories is that in normal conditions only specialized associations (communities or biocoenoses) of very diverse animals, and some distinctive plant, can “hold ground” for any lenght of time, and they do so in patches among which reproductive exchanges are rare. After an extintion caused by some global perturbation, any such community is at first replaced by transient mixtures of few survivors and immigrants, often previously confined to rare refuges, that interact in highly adversary ways. Eventually, one such mixture will persist becoming richer in forms and thus also more fragile, often undergoing local crashes. In most conditions such a community will nevertheless have an upper hand over poorer or anyway more stable competitors, since its higher quantity and turnover of life makes it more invasive, more easily restarted after a local crash. The more fragile associations change mostly by “wholesale” selection among their smallish and not very long living populations, each of which responded to any new challenge in haphazardly different ways. As an association becomes more firmly established, its invasivity will matter less than local stability. This will be achived by more mutualistic interactions among its characteristic forms, eventually reaching veritable symbioses. However, being less subject to local crashes the association would also be less capable of fast, long term adaptive responses, thus more prone to extintion by some global perturbation. In the birth, maturation and senescence of associations different kinds of component forms will tend to be modified in very different ways, at very different rates. Thus multicellular organisms became established only about 700 million years ago and their higher forms kept undergoing dramatic 206
transformations, in short bursts following each mass extintion. By contrast the prokaryotes had become established 3 billion years before and, in spite of their much shorter life cycles, they seem to have hardly changed for two billion years before giving rise to larger “nucleated” cells. Multicellulars, interbreeding organisms are capable of fast, adaptive changes starting from substantial “plastic”reactions to any new challenge, particularly through behaviour in animals, at first purely individual or “maternally” inherited. Any such reaction and the original morph tend to be then selectively improved and standardized, largely through genotipic polymorphisms “spreading the risk” of “fixed” reaction to umpredictable conditions of live. The prokaryotes evolved at a painfully slower speed since – being haploid with hardly any duplicated gene – they can hardly enjoy such advantages of heterozygosity. Their direct responses to new, variadble challenges thus involve just one or very few genes at the time, and subsequent selective improvements would hardly go beyond “spreading the risk” through some genotypic polymorphisms. Mathematical models on the selective effects of the struggle for existence concur with this interpretation showing that a change in selective conditions is far more likely to result, at a much faster speed, in substitutions by rare mutants in haplonts than in crossbreeding diplonts. The far smaller tendencies to direct substitution in such organisms are especially unlikely to be achieved in the early stages of growth of a novel association, since any change in its composition affects gene expression and selective regime in its forms. Monofactorial theories get trapped into dubious problems with unlikely, clumsy solutions. Thus the tautological western Darwinismus assume that in all organisms any lasting challenge will mainly result, directly, in substitution by previously rare alleles due to small individual advantages. The same Darwinisms also tipically assume that present-day life started with some RNAs which would have miraculously arisen on their own, and then evolved mostly through slow selective replacements by rare mutants. Further, according to theorists such as Eigen or Maynard-Smith, coding would have evolved from some such RNAs directly as universal, rather than through the branchings that are a rule in evolution. A first cell or progenote would have then resulted through even more complex chains of still less likely events. Such “RNA Worlds” might not look absurd if RNAs came first, coding had indeed started as universal and all the unlikely chains of events up to the progenote had occurred in very long time spans. Instead the high variability in coding among viruses, the somewhat lesser one among the prokaryotes and the far smaller one among low eukaryotes clearly point to coding having had diverse origins among viruses, as also does chemical variability in DNAs. Fossil evidence then testifies that the sequences of 207
miracles up to the progenote which Eigen or Meynard-Smith postulate must have taken place in very few hundred million years after the Earth took shape. Let us now turn to the altogether different explanations of first origins suggested by the old theories, as subsequently specified by Miller, Cordón, de Duve and Ohnishi among others. Simple, self-duplicating molecules soon resulted in complex communities of proteinoids or already chirally uniform proteins, part of which were phisycally organized into very minute bodies – i.e. Giglio-Tos’s biomores or Cordón’s basibionts. Some such bodies would have become complex enough to be “alive”, namely acquiring sort of a memory. Then some associated into autotrophic colonies, which in turn made room for other colonies to thrieve as saprophytes. In order to better exploit larger chunks of food, some such saprophytes evolved cooperative cellular behaviours while still “open”, vase-like, and not coded for. Within such “cells” nucleotides or analogous coenzymes easily polymerized into RNA-likes, at first with trivial functions such as stockage and transport of components. By improving their selfduplication, some such Ur-RNAs turned into bland parasities of their cellular hosts, then into symbiotes with somewhat less trivial functions. Some such “viroids” then started sheltering their chromosomes with proteic capsids, and these far more mobile viruses could be really infective on other hosts. Some of them could then specialize a nucleic acid to the sole purpose of replicating their chromosomes, namely to Ur-DNAs that much improved their “predation” on cellular nucleotides. As a start these would have been “uracil only” (HMU) DNAs – i.e. just reduced RNAs as in Bacillus’s viruses – from which the “thymidine only” DNAs of the higher eukariotes eventually resulted. Among DNA viruses those equipped with a reverse transcriptase should have played a key role in establishing cellular coding, since the first messenger RNAs would have been “copies” of cellular proteins then retrotrancribed. Different coding were thus becoming a “must”, to be achived by simbiotic cooperation among cells and many viral lineages. Evolution then became a largely genotypic-selective affair, very slow as it mainly consisted in “one shot” substitutions in organisms unlikely to undergo mass extintions. Then during the two billion years of “prokaryotic stasis” an “invisible” evolution took place – i.e. cellular coding and reproduction control by a single chromosome. Unless cells had acquired cytoskeletons and associated motors in advance, they could not manipulate endosymbiotes from which nuclear structures and other organelles originated. Prior to cytoskeletons, endosymbioses between cells automatically resulted in chimaeras, as quite 208
likely reflected by the double membrane of Gram negatives. This expectation is corroborated by the recent characterization of an anucleated, microsporidian-like ciliate ectosymbiote, and of gigantic fish endosymbiotes that look Gram positive also for their endospores. Nuclei proper enabled cells to alternative between generations of different ploidy and to genderdifferentiate their haplophases, first through bipolarity and, then, oogamy. These processes would have taken close to a billion years, which might seem a “stasis” in the fossil record. Metazoans rapidly arose from a number of eukaryotes whose multicellular diploid phases were sufficiently differentiated to allow the determinants of gametic gender to join in the same haploid complement; plants arose by the same process except for both phases being multicellular. In both cases gametic gender at first passed under the control of developmental processes such as those still regulating eggs versus sperm production in monoic bryophytes and hermaphroditic metazoans, or of macro- versus microgametes in many vascular plants. Partial up to complete separations of the sexes in the diplophase then became established through various mechanism up to strict chromosomal determinisms of gender, thus making room for a variety of specializations. Multicellular eukaryotes kept perfecting their physiologies through close microbial symbioses, often endocellular. Their most common outcome consists in the host internalizing the functions of close bacterial symbiotes that are then discarded, as by many luminescent fishes. A given endocellular symbiote thus often changed different hosts in very similar ways, giving rise to distinctive taxa such as the hyrudineans, the pogonophorans and the blattoideans. Introns and other mobile, repetitive elements almost certainly originated by directly genomic symbioses with viruses, and are particularly abundant in the vertebrates that lack endocellular symbioses with microorganisms. These specialised modes of acquiring genomic informations – and to utilize them very flexibly through mobility and easy amplification – much help explaining why higher animals, to a lesser degree plants, can easily evolve through initially coexisting morph differences. IGBE (CNR), Via Abbiategrasso 207, 27100 Pavia
RIASSUNTO L’evoluzione ha aspetti curiosi, quali le massicce trasformazioni degli animali e delle piante più che altro “a scossoni”, difficili da conciliare con i procarioti che non sembrano cambiare affatto nei loro primi due miliardi di vita. Tali aspetti non si prestano ad essere spiegati, né quasi solo dalla 209
selezione di mutanti rari (come pretende una “teoria”), né quasi solo con simbiosi (come pretenderebbe farlo un’altra). Oggi, press’a poco come un secolo fa, queste contrastanti teorie sono d’accordo nel vincolare la selezione fenotipica ad operare direttamente in termini di differenze individuali di adattività. Per le teorie neo-Darwiniste tali aspetti curiosi sarebbero difficilissimi da spiegare, mentre per quelle simbiogenetiche non si tratterebbe di difficoltà ma di fallimenti, e proverebbero che la selezione naturale ha ben scarsi poteri. Gli aspetti curiosi dell’evoluzione sono invece ben spiegati tenendo conto, come molti facevano fino alla metà del secolo, che la lotta per l’esistenza opera in animali e piante anche tramite entità diverse dagli individui e dai loro geni, quali popolazioni e comunità, selezionando dipendenze non banali di fenotipi sia dall’intero genoma che dalle condizioni di vita.
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c/ di Massimo Mezzanzanica
Seconda Conferenza Internazionale Universalità dei Diritti Umani per – –
la transizione verso lo Stato di Diritto e l'affermazione del Diritto alla Conoscenza Roma, Senato della Repubblica, 27 luglio 2015
Nota progettuale Il Partito Radicale Nonviolento, Non c'è Pace Senza Giustizia e Nessuno tocchi Caino convocano una Seconda Conferenza Internazionale per il lancio di una campagna volta a promuovere la piena affermazione della Universalità dei Diritti Umani per la Transizione verso lo Stato di Diritto e la codificazione di un nuovo diritto umano, quello alla Conoscenza. Gli objettivi di questa Campagna, nella loro interconnessione, sono fondamentali per la visione e il mandato delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni regionali, quali l'Unione Europea e la Lega degli Stati Arabi. Il 18 e 19 febbraio 2014 si è tenuta a Bruxelles presso il Parlamento e la Commissione europea la Prima Conferenza Internazionale dal titolo “Stato di Diritto contro Ragion di Stato” in cui politici, accademici ed esponenti della società civile hanno evidenziato come la Ragion di Stato, spinta da vecchi impulsi populisti e nazionalisti, sia tornata ad affermarsi come modus operandi anche degli Stati cosiddetti democratici, contro la loro legalità costituzionale e gli obblighi internazionali derivanti da Convenzioni e Trattati internazionali in materia di Diritti Umani.
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La necessità di assicurare la piena implementazione delle norme contenute negli Strumenti internazionali è stata recentemente riaffermata dal Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nella Risoluzione A/ HRC/ 28/ L.24 del 23 marzo 2015, che ha istituito un Forum su Diritti Umani, Democrazia e Stato di Diritto, riconoscendo espressamente gli ostacoli che le società democratiche devono fronteggiare oggi per assicurare tali diritti. Allo stesso tempo, numerosi meccanismi per i diritti umani dell’Onu, incluso il processo di Revisione Periodica Universale, hanno identificato casi emblematici di illegalità internazionale in molti Paesi, anche democratici, denunciando la mancanza di un effettivo rispetto delle norme e degli standard internazionali e segnalando la necessità che gli Stati rivedano la loro legislazione nazionale per assicurare la piena ed effettiva implementazione dei loro obblighi secondo la legge internazionale dei Diritti Umani. Questo stato di progressiva violazione della legalità ha, di fatto, trasformato le democrazie occidentali in “democrazie reali” come accadde per gli ideali socialisti oltre 40 anni, traditi di fatto da regimi di “socialismo reale”. Anche in larga parte del mondo arabo, che nel corso del 2011 sembrò pronta a iniziare un processo di democratizzazione delle Istituzioni nazionali e di affermazione degli standard dei Diritti Umani riconosciuti a livello internazionale, il sogno di una grande rinascita democratica si è trasformato in un incubo di conflitti civili interni e internazionali. La progressiva e pervasiva violazione dei diritti universali è un processo che interessa tutti i Paesi con sempre più gravi interconnessioni che limitano la cooperazione e l’integrazione tra Stati, trasformando processi di riforme strutturali in meri meccanismi di assistenza tecnica, se non di veri e propri interventi militari. Testimonianza di questa erosione sono casi storicamente eclatanti, come ad esempio: l’invasione dell’Iraq del 2003, decisa da Stati Uniti e Gran Bretagna sulla base di informazioni che ancora oggi rimangono elusive per le stesse Istituzioni competenti e per i cittadini; il massiccio programma di spionaggio da parte della NSA, rivelato dall'ex analista Edward Snowden, ai danni di cittadini statunitensi e stranieri; l’uso crescente di nuove tecnologie, quali i droni, per esecuzioni extragiudiziali e extraterritoriali. Per questi motivi, il Partito Radicale Nonviolento, Non c’è Pace Senza Giustizia e Nessuno tocchi Caino lanciano un appello a tutti i Governi, a partire da quelli dell’area Araba ed Euro-Mediterranea perché si torni ai principi fondativi delle Nazioni Unite di ricerca di pace e stabilità internazionale attraverso il pieno rispetto dei diritti fondamentali, a partire da quello che consente ai cittadini di conoscere il processo decisionale dei 212
propri Governi per potervi contribuire politicamente. A tal fine, occorre ed è urgente creare le condizioni politiche per una transizione verso lo Stato di Diritto democratico, federalista e laico nel pieno rispetto della legalità internazionale e dei Diritti Umani universalmente riconosciuti. La Conferenza di Roma vuole anche onorare l’impegno per la piena affermazione di Diritti Universali da parte dell'Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani e contribuire al supporto essenziale che questi fornisce agli altri Organi basati sui Trattati e sulla Carta dell’ONU. Il costante flusso di rapporti, revisioni e raccomandazioni da parte del Consiglio per i Diritti Umani, il vasto gruppo di Special Rapporteurs, Esperti Indipendenti e Gruppi di Lavoro su una grande varietà di tematiche e problematiche legate ai Diritti Umani e a specifici Paesi, fornisce informazioni su aree che richiedono una decisa azione, non solo governativa, per la piena attuazione dello Stato di Diritto. Il crescente numero di casi che confermano la mancanza di rispetto per le norme internazionali e lo Stato di Diritto ha finalmente provocato uno spostamento del dibattito sociale e accademico su come bilanciare la necessità dei cittadini di accedere alle informazioni con le ragioni di segretezza dello Stato. La codificazione del nuovo “diritto alla conoscenza” che intendiamo promuovere vuole essere uno strumento a disposizione dei cittadini di costante controllo di quanto deciso in loro nome e nei loro “interessi”. Nel suo Rapporto del 2013 (A/ 68/ 362), lo Special Rapporteur dell’Onu sulla promozione e protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione ha espressamente affermato che gli ostacoli per accedere alle informazioni possono minare il godimento sia dei diritti civili e politici sia di quelli economici, sociali e culturali. I requisiti essenziali per una governance democratica, come la trasparenza, la responsabilizzazione delle Autorità pubbliche o la promozione di processi decisionali partecipativi, sono in pratica inattuabili senza un adeguato accesso alle informazioni. Altri Organismi per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, come lo Special Rapporteur sulla promozione e protezione dei diritti umani e libertà fondamentali nella lotta al terrorismo nel suo Rapporto del 2013 (A/69/397) o l’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani in quello del 30 giugno 2014 su “Il diritto alla privacy nell’era digitale” (A/ HRC/ 27/ 37), hanno rilevato Un’allarmante mancanza di trasparenza da parte delle autorità associata con politiche, leggi e pratiche di sorveglianza che ostacolano qualsiasi tentativo di valutare la loro compatibilità con la legge internazionale dei 213
diritti umani e di assicurare l’attribuzione di responsabilità. Il Rapporto si conclude chiedendo nuove misure per una maggiore ed effettiva accessibilità pubblica, trasparenza e controllo riguardo a queste problematiche. Il Diritto alla Conoscenza è già parte del quadro dei Diritti Umani, come menzionato dal Rapporto del 2103 (A/68/362) dello Special Rapporteur sulla promozione e protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione che chiaramente riconosce che il diritto di accesso all'informazione è uno dei componenti centrali del diritto alla libertà di opinione e di espressione, come stabilito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (art. 19), dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (art. 19 <2>) e dai trattati regionali sui Diritti Umani. Così come accaduto relativamente al Diritto alla Verità, alle Commissioni di Verità e Riconciliazione e l’istituzione della Corte Penale Internazionale, con la Conferenza di Roma si intende esplorare la possibilità di definire nel dettaglio la normazione di un vero e proprio Diritto alla Conoscenza attraverso un'azione internazionale per una Risoluzione, Convenzione o Protocollo specifici in materia. La Conferenza affronterà il percorso politico da intraprendere e i passaggi istituzionali da avviare verso tale azione internazionale e lancerà una Campagna Mondiale per il riconoscimento e l'affermazione del nuovo Diritto alla Conoscenza. La Conferenza sarà suddivisa in tre sessioni tematiche volte a riaffermare l'interrelazione dei temi di Stato di Diritto, Diritti Umani e Democrazia, sui quali chiama a discutere e a fare proposte rappresentanti di organizzazioni internazionali e regionali, esperti dei Meccanismi Onu, politici e legislatori nonché militanti dei Diritti Umani. Le sessioni affronteranno: 1. L’Universalità dei Diritti Umani minacciata da tendenze antidemocratiche, populiste e nazionaliste. 2. La promozione di una transizione verso lo Stato di Diritto democratico, federalista e laico. 3. Una campagna globale per l’affermazione e il riconoscimento internazionale del Diritto alla Conoscenza. Gli Organizzatori Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito (PRNTT) è una organizzazione politica – con Status Consultivo Generale presso il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) – che 214
promuove l’applicazione e il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, incoraggiando i suoi membri a perseguire azioni nonviolente per indurre le istituzioni nazionali e internazionali a rispettare le proprie leggi seguendo principi democratici. Il Partito Radicale, in quanto tale, non partecipa alle elezioni nazionali, regionali o locali. Non c’è Pace Senza Giustizia (NPSG) è un’organizzazione internazionale nata nel 1993 da una campagna del Partito Radicale per la creazione della Corte Penale Internazionale. NPSG lavora per la tutela e la promozione dei diritti umani, della democrazia, dello Stato di diritto e della giustizia internazionale. Le sue attività si svolgono secondo tre linee e programmi tematici: giustizia penale internazionale, mutilazioni genitali femminili, democrazia in Medio Oriente e Nord Africa. NPSG è un membro costitutivo del PRNTT. Nessuno Tocchi Caino (NTC) è un’organizzazione con sede in Italia e in Belgio, fondata nel 1994, che conduce una campagna per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo attraverso la promozione della moratoria universale ONU delle esecuzioni capitali. NTC è un membro costitutivo del PRNTT. Matteo ANGIOLI (matt.angioli@ gmail.com) Laura HARTH Project Coordinator Vice Project Coordinator (harthlaura@gmail.com)
Questo è il testo dell’Appello lanciato dai partecipanti alla Conferenza “Universalità dei Diritti Umani per la transizione verso lo Stato di Diritto e l’affermazione del Diritto alla Conoscenza” organizzata dal Partito Radicale, Nessuno Tocchi Caino e Non c’è Pace Senza Giustizia il 27 luglio al Senato della Repubblica a Roma. Noi sottoscritti, donne e uomini, responsabili di legislazioni e di governi, donne e uomini di scienze, di lettere, di arti, diversi per religione, storia, formazione spirituale, ma tutti donne e uomini di pace. Consapevoli dei gravissimi rischi, da cui la civile convivenza è minacciata nella gran parte del pianeta a causa della crescente erosione che la democrazia e lo stesso Stato di diritto stanno subendo nei paesi cosiddetti «democratici». 215
Profondamente preoccupati perché gravissime e sempre più frequenti violazioni del comune corredo giuridico costitutivo della vita civile nelle aree del mondo occidentale e della cosiddetta «primavera araba», colpiscono l’autentica democrazia politica e producono l’aumento dei conflitti e della povertà diffusa e sconvolgono pacifici ordini sociali, avvertiamo l’impellenza di un’azione politica capace di riportare la vita degli Stati democratici all’altezza dei principî ispiratori e delle norme con essi coerenti, in un ripristinato quadro di costituzionalità interna e internazionale. Si tratta di riprogettare con iniziative concrete una legalità democratica tendenzialmente universale. A tanto ovviamente non serve rispolverare vecchi e fallimentari ricorsi alla forza, produttivi solo di nuove dolorose lacerazioni. Noi fermamente crediamo che nel diritto, e solo in esso, è la chiave della pace. Una nuova politica del diritto si articola in una serie di azioni da progettare con aperto spirito critico e da praticare con solidali volontà. Il primo punto di una tale iniziativa politica, quello che tutti gli altri regge, è la convinzione che uno Stato non è democratico, se la conoscenza è di uno, di pochi o magari di molti, ma non di tutti. Se democrazia è il potere del popolo, e si è impotenti cioè si è incapaci di decidere correttamente se non si sa, è evidente che il popolo, cioè tutti i cittadini, hanno il diritto di sapere. Il secondo punto è l’esistenza della capacità di conoscere, cioè di poter ricevere le informazioni, di poter selezionare criticamente e valutare adeguatamente l’informazione, in modo da decidere nel modo più corretto. Ciò significa che fondamentale è una forte iniziativa per aiutare tutti, nessuno escluso, nel lavoro per affinare la propria capacità conoscitiva. La lotta per un sistema serio della formazione intellettuale aperto a tutti e il rafforzamento degli strumenti di diffusione delle informazioni è azione preliminare all’affermazione del diritto. Il terzo punto è che i poteri in possesso dell’informazione essenziale per le decisioni popolari si dispongano a fornirle. Qui la nostra iniziativa ha di mira le massime autorità internazionali, gli Stati, le organizzazioni e gl’individui detentori delle informazioni. È questa una sfida molto difficile, da sostenere con la forza paziente della discussione a tutti i livelli. Si tratta di battere il vecchio dogma del potere sovrano, la cosiddetta «ragione di Stato», e di ridurne la pretesa entro i limiti più ragionevolmente ristretti, sopprimerla per le situazioni interne dello Stato, stabilirne le prescrizioni. Ma la campagna contro la «ragione di Stato» deve, ancor più dei «segreti» del passato, portare massimamente alla luce le ragioni oggettive, favorevoli e contrarie, alle decisioni da prendere. Quel che dopo tutto più conta non è condannare l’irrevocabile passato, ma «conoscere per deliberare» il futuro possibile. Soltanto uno Stato, che riconosca anche il diritto dei cittadini alla 216
conoscenza, può aspirare ad essere considerato propriamente uno Stato di diritto. Noi sottoscritti siamo fermamente convinti che gli abitatori del mondo, se conosceranno le effettive poste in gioco e soprattutto le reali condizioni della partita, molto probabilmente sapranno prendere le decisioni opportune per scongiurare le incombenti minacce. Perciò, in ragionata convergenza con il manifesto-appello di 113 Premi Nobel contro lo sterminio per fame, sete e guerre nel mondo, noi ad esso affianchiamo l’appello contro l’infame rifiuto d’informare, contro gl’inganni della conoscenza negata. Questo appello impegna innanzitutto noi stessi, ciascuno per le proprie responsabilità nella vita civile, a promuovere con tutte le iniziative possibili, innanzitutto nella sede delle Nazioni Unite, la transizione verso lo Stato democratico e federalista, fondato sull’universale diritto alla conoscenza. NOTA del MAGAZZINO Riportiamo alla lettera l’informazione e l’Appello di cui sopra, che l’intiera Redazione del Magazzinodifilosofia condivide pienamente. Mentre approva l’intelligente e provocatorio accostamento asintotico degli stati occidentali e di quelli islamici rispetto all’ideale di un vero “stato di diritto” (un luogo ideale che, come la sede di Pietro, si potrebbe tuttora laicamente chiamare un luogo “che vaca… nella presenza del Figliuol di Dio”) il Direttore intende sottolineare che il diritto non è una religione (né quella dell’amore cristiano, né quella dell’odio islamista). Il diritto è gestione e non eliminazione della forza. La “forza del diritto”, se anche il diritto è una forza, implica, richiede e pretende il diritto della forza. E quindi la nonviolenza non deve esser altro che organizzazione critica e trasparente delle civili libertà, le quali devono potersi estendere per negazione e integrazione oltre i confini di qualunque stato, nazionale o imperiale, e di ogni diritto positivo, locale o globale che esso sia. Ma siccome ogni “ragione” tratta di limiti e di confini (ratio vuol dire fare bene le parti: vivere onestamente (glasnost), non fare violenza ad altri, riconoscere le specificità di ciascuno), anche la “ragion di stato” esiste e deve esistere. Ma tutto sta ad intendersi e a non voler giocare con le parole: non fare la fine del profeta disarmato (vedi l’ovvia ironia del mite Machiavelli sul feroce e perfino bestiale Savonarola – entrambi falliti sul campo, e battuti) è una giusta esigenza, ma il pacifismo e il buonismo dei fessi non ha risparmiato altri geni non inferiori a quello di Machiavelli. La “colomba della pace” di Picasso – per esempio – resta l’emblema del disarmo intellettuale per violenza censoria altrui e condizionamento ideologico proprio: essa glorifica il pacifismo di uno stato imperialista, concentrazionario e schiavista che spendeva più del 50% del pil in armamenti; ne accumulò talmente tanti che ancora alimentano una quota rilevante del commercio mondiale di armi obsolete (per pescicani piccoli e perdenti).
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Ma quella dell’URSS è stata la peggior statualità della storia e la più feroce perché la sua arma migliore è stata proprio la “disinformatzie”, quel moderno perfezionamento “scientifico” della propaganda fides cattolico-imperiale che si chiamò anche “politica culturale” (Ždanov, Münzenberg, Togliatti) e “politische Wissenschaft” (Göbbels). Dunque non c’è diritto più diritto di quello, problematico e dialettico, all’informazione e alla conoscenza (che non sono neppure la stessa cosa!). <N.d.D.>
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