Magazzino di filosofia - n.28 A10/SAGGI

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magazzino di filosofia quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia n° 28, anno X, 2016/ A10: s a g g i (peer review)

P.E.M.


M a g a z z i n o

d i

F i l o s o f i a

Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia *Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia) *Redazione: Gianvito Brindisi (Napoli), Riccardo Lazzari (Milano), Simone L. Maestrone (Bonn), Alfredo Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Alessandra Rauti (Milano), Giacomo Rinaldi (Urbino), Erasmo S. Storace (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Roberto Valentini (Milano), Fabio A. Volontè (Varese), Alessandra Zambelli (Parigi) *Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano), Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Santino Maletta (Bergamo), Carlo Montaleone (Milano), Renato Pettoello (Milano). *Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina (Lexington, Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello (Milano), Klaus Held (Wuppertal), Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Giovanni Piana (Cosenza), Stefano Poggi (Firenze), Frithjof Rodi (Bochum), Gianni Scalia (Bologna), Franz-Anton Schwarz (Freiburg i. Br.), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven (Bruxelles/ Bochum), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti (Pavia), Stefano Zecchi (Milano). *Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Jan Bednarich (Gorizia), Fiorenza Bevilacqua (Milano), Cristina Boracchi (Gallarate), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia), Andrea Cudin (Trieste), Carmine Di Martino (Milano), Miriam Franchella (Milano), Andrea Gilardoni (Milano), Sergio Levi (Milano), Pier Giuseppe Milanesi (Pavia), Walter Minella (Pavia), Luca & Mirela Oliva (Chestnut Hill, Ma.), Fabrizio Palombi (Roma), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano), Paolo Volontè (Milano). *Recapiti: email: info@filosofiacontemporanea.it; Associazione P.E.M, via Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com; “Riccardo Lazzari” rlazzari@tin.it; “Massimo Mezzanzanica” massimo.mezzanzanica@gmail.com; “Gianvito Brindisi” gvbrindisi@libero.it *Rubrica “Aggiornamenti”, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@>tin.it> / o: “Erasmo S. Storace” <erasmo.storace@alice.it> *SCHEDE e RECENSIONI, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@tin.it>/ o: “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Leggi nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic su “Expand”). *Acquista copie cartacee dei nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic sulla copertina, poi su “Copie Cartacee”) *Leggi una selezione dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18) sul Sito www.francoangeli.it (clic su “Riviste”, o telefona all’Ufficio Riviste, tel. 02 2837141). *Acquista le copie cartacee dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18 salvati dal macero) con email a: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com *Autorizz. del Tribunale di Pavia n. 508 del 14.04.2000, Quadrimestrale elettr., Dir. resp.: Alfredo Marini. I° quadrimestre 2016 – Finito di stampare nel novembre 2016.


verum ipsum factum

Sommario

FILOSOFIA & LETTERATURA Roberto Valentini, Sulla soglia d’un dio: l’eterna ripetizione di Sisifo Giacomo Rinaldi, Il concetto dell’“Idealismo”

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EVOLUZIONISMO & Francesco M. Scudo, Umberto D’Ancona e Vito Volterra. Le ragioni di un’amicizia Scambio epistolare Volterra/ D’Ancona Paolo Maccagno, Solitudine esposta

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Giulia Cervo, Per una filosofia meontica dell’origine: Eugen Fink dalla dialettica trascendentale alla dialettica cosmologica

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Michele Pacifico, Le tre “mani” dell’economia

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Storia della Scienza Antica & Epistemologia delle Scienze Umane Fiorenza Bevilacqua, Alcesti ed Euridice: due figure del mito in parallelo Nili Alon Amit, Anime e fiumi di Eraclito: un nuovo esame dei riferimenti psicologici nel Fedone di Platone

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c/ di Alfredo Marini e Massimo Mezzanzanica

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Chiuso in redazione il 31.10.2016 da Massimo Mezzanzanica

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Rivista finanziata dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia ISBN: 978–1539959694 ISSN: 1592–5919

Questa rivista prodotta in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, esce per l’“Istituto Lombardo di Studi Filosofici e Giuridici”, ora “Istituto Filosofico Lombardo presso la Società Umanitaria” di Milano ed è espressione della ASSOCIAZIONE P.E.M. ‐ MEDICINA ANTICA & SCIENZE UMANE (Pavia)


FILOSOFIA & LETTERATURA c/ di Roberto Valentini [BORGES] “Stimare le idee religiose o filosofiche per il loro valore estetico e anche per quel che racchiudono di singolare e meraviglioso. Questo è, forse, indizio di uno scetticismo essenziale”. Traendo spunto dalle celebri parole di Jorge Luis Borges contenute nell’epilogo ad Altre inquisizioni, il filo che in questa rubrica si cercherà di sdipanare è in definitiva quello annodato al “forse” della frase del grande scrittore argentino. [DERRIDA] Ebbene, i testi raccolti sotto il nome della rubrica non mireranno a circoscrivere i luoghi dell’incontro fra letteratura e filosofia con la volontà di una mise en abîme del pensiero filosofico o di una sua illuminazione residuale e occidua, quanto invece a compiere una sua genuina praxis: quella di delineare – prendendo a prestito un’espressione di Jacques Derrida – proprio un “pensiero del forse” in grado di esibire l’aporia e contiguità del discorso sospeso fra letteratura e filosofia. Come scrisse il filosofo francese un simile pensiero determina l’apertura di un possibile, giacché “senza la sospensione radicale che segna un forse, non ci sarebbe mai evento né decisione”. Se v’è dunque un rischio di scetticismo è parimenti vero che da tali indizi, incastonati nella materia duttile di una scrittura espressiva, possa rilucere tuttavia una vera e propria pratica decostruttiva di una delle opposizioni istitutive della tradizione filosofica, quella logos/ mythos; una decostruzione non solo denunciata, ma agíta compiutamente versando nel calco della parola letteraria alcuni fondamentali concettualità. [NOVECENTO] Guardando a una costellazione di pensatori-letterati dello scorso secolo quali Maurice Blanchot, Georges Bataille, Pierre Klossowski, alla “ragione poetica” di Maria Zambrano e al suo peculiare linguaggio evocativo, alla più ampia testimonianza filosofica offerta dalla letteratura del Novecento, la rubrica “Filosofia & Letteratura” ospiterà contributi che potranno spaziare dal saggio alla sua ibridazione espressiva, dal teatro filosofico alla silloge poetica, sino al dialogo con alcune attuali figure del mondo letterario. [HEIDEGGER] Se infatti, ascoltando il detto heideggeriano, il disvelarsi dell’essere accade come l’istituzione di orizzonti storico-destinali i cui eventi inaugurali hanno luogo nel linguaggio poetico, in questo confronto si troverà forse un modo per recuperare gli indizi di scetticismo sgranati nelle pagine borgesiane; ricordando cioè il rammemorante “fraintendimento” che in fondo la Poesia, quale cifra dell’esperienza umana e letteraria, continua enigmaticamente a ri-petere (nella poesia si fra-intende il mondo, il mondo che heideggerianamente è il suo inter-esse): [MONTALE] “Quest’araba fenice – scrisse Eugenio Montale – questo mostro, quest’oggetto determinatissimo, concreto, eppure impalpabile perché fatto di parole, questa strana convivenza della musica e della metafisica, del ragionamento, del sogno e della veglia”.

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Giacomo Rinaldi, Il concetto dell’“Idealismo” § 1. Sensazione e pensiero L’osservazione più elementare che possiamo fare intorno al concetto dell’“idealismo” è che esso è per l’appunto un concetto, e la determinazione più elementare del concetto del concetto è che esso è un contenuto della nostra coscienza. Qualsiasi ulteriore, più concreta e profonda determinazione, che potremo a esso attribuire nel corso della nostra ricerca, non può eliminare il fatto che siamo noi che la effettuiamo, e che il suo oggetto è un concetto che è in noi. Ciò significa che il fondamento ultimo di ogni nostra possibile attività teoretica (e, di conseguenza, come vedremo tra breve, anche pratica), è l’autoctisi, cioè l’incondizionata posizione di sé del nostro Io autocosciente. “L’Io pone se stesso assolutamente”: questo celebre principio fichtiano enuncia con chiarezza e precisione ammirevole l’essenza di tale fondamento. Ciò che è, è solo in quanto è “posto” nell’Io e dall’Io; e ciò vale, di conseguenza, anche per ogni nostro possibile concetto e per la sua possibile verità. Nell’atto mediante cui l’Io pone se stesso, possiamo immediatamente distinguere l’Io che è “posto” e l’Io che “pone”. La più elementare differenza tra essi consiste nel fatto che l’Io che è posto è mediato dall’Io che pone, mentre l’Io che pone è, rispetto a esso, immediato. Ma l’Io immediato, in quanto immediato, può esser determinato solo mediante la categoria logica più immediata, l’Essere: esso può dunque essere definito anche come “l’Io che è”. Ma, in quanto categoria, l’Essere è una determinazione del pensiero, e come tale è il risultato di una mediazione (astrazione, riflessione). L’ori-

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ginaria immediatezza dell’Io precede perciò tale sua determinazione categoriale mediante il concetto dell’Essere, e coincide piuttosto con l’essenza alogica, radicalmente irriflessa dell’intuizione sensibile. La sensazione, l’Io che sente e si sente, è dunque l’Io originariamente immediato. La sensazione, dunque, è la forma più immediata di coscienza: in essa possiamo perciò distinguere il soggetto che sente e l’oggetto che è sentito. Quest’ultimo si contrappone all’essenziale universalità della categoria dell’Essere perché è un oggetto radicalmente singolare: un “questo”, o un “qualcosa”, che è “qui” e “ora”. Il questo, infatti, è tale perché esclude da sé altri oggetti singolari. Il qui indica appunto la forma assolutamente immediata di tale esclusione: l’esteriorità puramente esteriore, cioè lo spazio. Ma lo stesso spazio è un contenuto di coscienza: come tale, dunque, è a essa interno, è qualcosa che io ora sento. Dall’esteriorità esterna dello spazio dobbiamo perciò distinguere una non meno originaria esteriorità interna: il tempo. L’esteriorità esterna dello spazio è quindi un (contraddittorio) contenuto dell’esteriorità interna del tempo. Dal che possiamo senz’altro concludere che neppure la nostra coscienza dell’esteriorità esterna dello spazio “prova” l’esistenza delle “cose fuori di noi”: esse, infatti, sono soltanto determinazioni di una forma del nostro conoscere che è solo relativamente, ma non già assolutamente, e perciò realmente, esterna alla nostra autocoscienza. Questa osservazione è di per sé sufficiente a confutate la celebre, ma infelice, “confutazione dell’idealismo”, aggiunta da Kant nella seconda edizione della Critica della ragion pura1: ciò che io determino come “fuori di me” mediante la mia rappresentazione dello spazio, e che distinguo come tale dalla serie temporale dei miei stati di coscienza manifestati dal “senso interno”, è pur sempre “in me” in quanto possibile contenuto di coscienza o “fenomeno”. Alla medesima conclusione, del resto, ci conduce inevitabilmente la sua stessa teoria dell’“idealità trascendentale dello spazio e del tempo”2, che non afferma infatti altro che spazio e tempo non sono proprietà oggettive delle cose-in-sé, bensì solo forme a priori dell’intuizione, o “intuizioni pure”, e perciò sussistenti entrambi entro la nostra coscienza, e non già “fuori” di essa3. 1 Cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in: Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischer Akademie der Wissenschaften, Bd. III, hrsg. von B. Erdmann, Berlin 1911, p. 190-193 (B 274-279). 2 Cf. ibid., p. 56 (B 44) e 61 (B 52; corsivo nostro). 3 A Kant si potrebbe altresì objettare, in primo luogo, che la “permanenza” degli oggetti nello spazio, ch’egli considera come la condizione della percezione del tempo, presuppone in realtà la loro identità con sé, che, secondo la sua stessa teoria delle condizioni di possibilità dell’esperienza, non è un dato del senso esterno, bensì un prodotto dell’attività sintetica a priori dell’Io penso, e dunque cade all’interno, e non già all’esterno, della nostra autocoscienza. In secondo luogo, l’esempio, da lui addotto, della percezione del movimento del sole quale condizione della nostra coscienza del tempo mostra nella maniera più chiara

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La sensazione, abbiamo detto, è la forma immediata dell’autoctisi dell’Io. In quanto immediata, essa è la coscienza di un questo singolare, che come tale esclude da sé (nello spazio) una pluralità di altri oggetti singolari, e si contrappone, inoltre, alla stessa soggettività (singolare) della coscienza in cui è contenuto. La posizione immediata del questo nella sensazione implica dunque la negazione della realtà della coscienza. Nella misura in cui io sono cosciente del questo sensibile, io nego me stesso: io sono cioè passivo nei confronti della sua esistenza esteriore, ed esso perciò mi è “dato”, è da me “trovato”, e non già da me “posto”. Ma è anche vero che la sensazione è pur sempre la forma essenziale dell’autoctisi dell’Io: l’Io pone se stesso anche nell’atto in cui nega se stesso, e perciò è attivo, non già passivo anche nei confronti di tutti i possibili contenuti dell’intuizione sensibile. L’attività peculiare esplicata dall’Io in questa sfera immediata della sua autocoscienza è l’attenzione. Nello sfondo del mio orizzonte percettivo, dunque, il contenuto sensibile mi è passivamente dato; ma solo in virtù dell’attenzione che io gli presto esso si trasforma in un “oggetto”, entra attualmente nel mio processo cognitivo. Nella coscienza sensibile (sensazione, intuizione, percezione), dunque, l’Io nel contempo pone e nega sé stesso; dal che appare chiaro che essa è una forma radicalmente contraddittoria del nostro conoscere. Ma la radicale contraddittorietà dell’intuizione sensibile pervade, in realtà, anche tutte le altre determinazioni, che noi abbiamo ora in essa distinto. Abbiamo osservato, anzitutto, che essa è la coscienza di un questo che è qui e ora, di qualcosa che è un oggetto singolare. Ma il significato delle espressioni linguistiche “questo”, “qui” e “ora” (e, a fortiori, “qualcosa” e “oggetto”, che non sono infatti, a differenza delle prime, delle rappresentazioni generali, bensì dei concetti puri) non è un dato immediato dell’intuizione sensibile, qualcosa che viene attualmente sentito, ma è la forma a priori, la relazione universale, l’idealità indeterminata dell’esserci, dello spazio e del tempo, che può essere ch’egli acriticamente confonde il tempo cosmico oggettivo col tempo in quanto forma del senso interno, che sono in realtà essenzialmente differenti. In terzo luogo, se si interpreta la teoria dell’idealità trascendentale dello spazio nel senso che gli oggetti nello spazio sono “in me” solo per la loro forma, ma non per loro materia, sorge l’ovvio problema di spiegare come noi possiamo accertarci della validità di questa distinzione, visto che un oggetto “fuori di noi”, proprio per tale ragione, è solo una inconoscibile “cosa-in-sé”. E se a questo argomento si volesse replicare che la materia della sensazione non coincide con la cosa-in-sé, bensì ne è solo l’effetto causale, si incorrerebbe palesemente nell’ulteriore errore, biasimato dallo stesso Kant, di usare la categoria della causalità in maniera “trascendente”, laddove essa è soltanto una forma di connessione dei dati sensibili della nostra esperienza immanente. Infine, sorprende come Kant possa far ricorso, per la sua “confutazione” dell’idealismo, allo schema logico del “teorema” e della sua “dimostrazione”, che proprio e solo la metafisica “dogmatica” da lui criticata poteva considerare come il metodo adeguato dell’esposizione di una teoria filosofica.

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egualmente bene attribuita a infiniti altri dati della sensazione diversi da quello che l’io senziente originariamente intendeva. La coscienza sensibile identifica la realtà con l’oggetto singolare; ma tutte le determinazioni che essa gli attribuisce sono, in realtà, degli “universali”, che come tali contraddicono la (presunta) realtà del questo sentito. Abbiamo inoltre osservato che il rapporto originario del qualcosa con gli altri qualcosa e con la stessa coscienza sensibile è quello dell’esclusione reciproca. In tale rapporto viene cioè posto un “altro” che il questo stesso non è: nella misura in cui l’altro è, il questo originario cessa di essere, e perciò la coscienza sensibile, siccome non ha altro oggetto che il questo, confuta di nuovo sé stessa. Al che non si può replicare che l’altro è sì la negazione del questo, ma è ciò nondimeno un oggetto reale, che può essere attualmente intuito nella sensazione: perché l’altro, in quanto è esso stesso un qualcosa, presuppone un secondo altro, che è la sua negazione, e così via in infinitum. La pretesa realtà dell’oggetto dell’intuizione sensibile è, appunto, solo una pretesa, un’aspirazione alla realtà che non può essere soddisfatta, e che perciò, di nuovo, si contraddice e nega sé stessa. Infine, l’antinomia del progressus in infinitum inficia le stesse forme dell’esteriorità esterna e dell’esteriorità interna dell’intuizione sensibile. I qui, cioè i luoghi, in cui lo spazio può essere suddiviso, in quanto elementi costitutivi dello spazio, sono essi stessi forme di esteriorità esterna, e quindi molteplici e ulteriormente divisibili. L’unità del molteplice spaziale, che è la sua condizione di possibilità (perché esso non è altro che la somma o l’aggregato di più unità), è essa stessa un molteplice, è cioè la negazione della sua identità e dunque della sua realtà. Analogamente la serie degli ora nelle dimensioni temporali del passato e del futuro è infinita: prima dell’ora che io attualmente intuisco (o meglio, credo di intuire) in me ci sono dunque stati infiniti altri ora; ma il presente non è altro che il punto di intersezione del passato e del futuro, in cui l’uno finisce e l’altro comincia, ed esso perciò pone, come tale, un limite alla serie “infinita” degli ora passati, che, in quanto limitata, non è in realtà infinita, e perciò, di nuovo, si contraddice e nega se stessa. La coscienza sensibile, dunque, identifica la realtà con l’oggetto singolare che essa distingue da sé: ma tale oggetto, in realtà, è un universale, e come tale è l’opposto contraddittorio, la negazione dell’individuo singolare. Nella misura in cui l’Io pone se stesso nella forma immediata della sensazione, esso in realtà nega se stesso; dal che segue che esso può porre se stesso come identico a sé solo andando al di là, “trascendendo” l’intera sfera della realtà e della coscienza sensibile. Ma qual è il carattere, e quali sono le condizioni di possibilità, di questa ulteriore, e più vera, dimensione del reale? Per il momento siamo in grado di formulare, a tale proposito, solo due tesi: (1) se è senz’altro vero che essa non è un possibile oggetto dell’in-

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tuizione sensibile, è tuttavia altresì vero che essa rimane un contenuto immanente dell’autocoscienza dell’Io. Dal rilievo delle insuperabili contraddizioni dell’Io che sente, cioè dell’esperienza sensibile in generale, non è perciò lecito inferire, alla maniera della metafisica platonica4 e della teologia scolastica5, che la “vera” realtà trascende assolutamente l’intera sfera e processo dell’autocoscienza, cioè dell’autoctisi dell’Io. (2) La forma essenziale, in cui l’Io autocosciente può realizzarsi in maniera adeguata, è solo quella dell’universalità, che è infatti, come si è visto, la “verità” dell’intuizione sensibile, cioè il risultato affermativo, identico a se stesso, dell’esplicazione dialettica delle sue contraddizioni immanenti. Questa conclusione ci conduce già in prossimità di una plausibile definizione del concetto dell’idealismo. Prima di procedere a formularla, tuttavia, è necessario rispondere a due possibili objezioni. Anzitutto, noi abbiamo asserito che il carattere peculiare della sensazione è quello di essere un’esperienza radicalmente immediata, e che in questa esperienza immediata noi distinguiamo l’Io che sente dall’oggetto sentito. Ma questa distinzione non è essa stessa una relazione, e perciò una mediazione, sì che la vera esperienza immediata dovrebbe essere concepita come un “tutto indistinto”, come una “totalità senziente” che precede anche la differenza e la relazione tra soggetto e oggetto? E questa originaria esperienza senziente, questo “sentimento dell’Infinito”, proprio in quanto precede e contiene in se stesso ogni possibile determinazione successiva, non potrebbe essere addirittura identificato con la stessa essenza affermativa dell’Assoluto, e dunque con una Realtà più vera e fondamentale della stessa autoctisi dell’Io autocosciente? Questa tesi, sostenuta con innegabile vigore speculativo da Francis H. Bradley6, non appare tuttavia pienamente convincente, perché, se è vero che la distinzione soggetto-oggetto nell’unità dell’esperienza sensibile è una relazione, e come tale una mediazione, e che perciò quella che noi abbiamo definito l’“esperienza originariamente immediata” dell’Io non è, in realtà, assolutamente, bensì solo relativamente tale; è anche vero che i predicati “immediata”, “originaria”, “fondamentale”, che egli attribuisce alla sua pretesa Realtà assoluta, sono essi stessi dei concetti, che, come tali, implicano delle relazioni, e che perciò essa stessa, lungi dall’essere, com’egli crede, una totalità che precede e contiene in sé stessa ogni possibile “costruzione ideale”, è in realtà una siffatta costruzione, e come tale si contraddice e nega se stessa. Si può certamente concedere a Bradley che la totalità del sentire – 4

Cf. G. Rinaldi, L’etica dell’Idealismo moderno, Aracne Editrice, Roma 2015, § 8. Cf. ibid., § 10. 6 Per un’articolata analisi e critica della filosofia di Bradley cf. Id., A History and Interpretation of the Logic of Hegel, The Edwin Mellen Press, Lewiston, NY 1992, § 54; Id., Etica e metafisica nell’“idealismo scettico” di Francis H. Bradley, in: “Magazzino di filosofia”, 26/ 2015, p. 48-77, e Id., L’etica dell’Idealismo moderno, cit., §§ 38-40. 5

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come, del resto, Hegel stesso esplicitamente afferma –7 sia la radice dell’esperienza immediata, e che quest’ultima, di conseguenza, sia solo relativamente tale; ma, proprio in quanto essa è solo un’unità “indistinta”, cioè indeterminata e astratta, essa può esistere realmente solo nella forma riflessa del pensiero e dell’autocoscienza che esso genera in e mediante se stesso (cf. infra, § 3). La seconda objezione è che, se è vero che l’universale è la negazione del questo sensibile, ciò non legittima tuttavia la conclusione, che noi abbiamo invece tratto, che esso “trascenda” l’intera sfera dell’intuizione sensibile, perché noi possiamo percepire in questa delle qualità che, pur essendo universali, hanno tuttavia un contenuto che è di natura chiaramente sensibile, e non puramente logica o intelligibile. Come negare, infatti, che “concetti” quali “bianco”, “nero”, “pesante”, “leggero”, “grave”, “acuto”, ecc. designano delle proprietà delle cose materiali, che, in quanto ineriscono in esse, sono esse stesse un possibile dato sensibile, ma che, in quanto “proprietà”, non si restringono a un solo individuo, bensì si estendono a infiniti altri possibili contenuti della sensazione? Il fatto, tuttavia, è – come Hegel ha mostrato con mirabile acume nella sua analisi della percezione sensibile –8 che nella stessa relazione tra la “cosa” singolare e le sue “proprietà” universali è contenuta una manifesta contraddizione, che ne mina alla radice ogni possibile realtà positiva. La cosa è una, le sue proprietà sono molte: essa è dunque l’unità di un molteplice. Tale unità è possibile solo se le molteplici proprietà stanno in una relazione interna sia tra loro che con la cosa, se sono cioè le partes integrantes, i “momenti ideali” di un’unica, onni-inclusiva totalità organica. Ma l’oggetto della sensazione, come si è detto, è tale solo in quanto esclude da sé il contenuto di altre possibili intuizioni sensibili. La sensazione del rosso non è quella del leggero, ed entrambe queste proprietà sono diverse dall’unità singolare della cosa, che così non è in verità una, e si disgrega piuttosto in una molteplicità incoerente di determinazioni, il cui particolare contenuto reale contraddice nella maniera più flagrante alla forma della loro pretesa universalità. Il vero Universale, dunque, non va ricercato nella sfera immediata della coscienza sensibile, bensì in un’attività riflessiva dell’Io autocosciente che la trascende essenzialmente: il pensiero logico. Possiamo, a questo punto, finalmente adempiere il compito che ci eravamo proposti nel presente §, formulando la seguente definizione del concetto dell’idealismo: L’idealismo è quella posizione del pensiero filosofico, che, avendo indagato le fondamentali condizioni di possibilità della nostra esperienza della 7 Cf. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in: Id., Werke in 20 Bänden, hrsg. von E. Moldenhauer und K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969-1971, Bd. 3, § 447 e Zusatz. 8 Cf. Id., Phänomenologie des Geistes, in: Id., Werke, cit., p. 93-107 (= GW, p. 71-81).

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realtà, e avendo scorto le insuperabili contraddizioni della sua forma immediata, afferma: (1) che ogni possibile realtà è un contenuto, risultato o “costruzione” dell’attività creatrice dell’Io autocosciente; (2) che la forma adeguata della coscienza del reale non è già quella immediata dell’intuizione (sensibile) ma quella mediata, riflessiva, del pensiero (logico); e (3) e che la vera realtà, che viene posta in e mediante l’Io, e che viene conosciuta mediante il pensiero, non è la molteplicità dei dati dell’esperienza sensibile, o degli oggetti singolari, individuati nello spazio e nel tempo, bensì l’unità ideale e atemporale dell’Universale – o, per dirla con Hegel, dell’“Idea razionale”.

§ 2. Pensiero e realtà L’Io, dunque, pone assolutamente se stesso solo nella forma mediata, riflessiva del pensiero, e l’oggetto del pensiero è l’Universale. Il chiarimento dell’essenza del pensiero, cui ora ci accingiamo, deve perciò prendere le mosse dall’analisi del concetto dell’Universale. Esso, come si è detto (cf. supra, § 1), si presenta alla nostra coscienza come la negazione della singolarità esclusiva del questo sensibile: il vero questo è un contenuto della nostra esperienza che si mantiene identico a sé in una serie potenzialmente infinita di individui singolari: esso è dunque l’identità di molteplici differenze, ed è tale identità perché ciascuna di esse, che inizialmente viene consaputa come positivamente esistente, in realtà si contraddice e nega sé stessa. L’Universale, dunque, lungi dall’essere la “proprietà” di una cosa sensibile positivamente esistente, è l’“unità negativa” di ogni possibile molteplicità. È dunque per principio escluso che possa esserci ed essere pensata una molteplicità esclusiva, irrelata di Universali: un Universale che abbia accanto a sé altri Universali è, in realtà, solo un particolare, ed esso è perciò, di necessità, unico. L’unicità dell’Universale, tuttavia, non esclude che esso implichi una relazione interna – cioè essenziale, inscindibile – col molteplice. L’Universale, infatti, si è presentato alla nostra riflessione come ciò che non è l’immediata singolarità del questo, e la negazione è come tale una relazione. Ciò significa che l’Universale, in quanto si riferisce essenzialmente al singolare, presuppone la posizione dello stesso singolare; ma, in quanto esso è l’identità di sé con sé ed è perciò in sé indipendente, “assoluto”, la sua relazione al questo potrà essere solo negativa, coincidere cioè con la negazione della realtà positiva del molteplice sensibile. Ma come può l’intuizione sensibile

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essere e, nel contempo, non essere un presupposto imprescindibile dell’Universale? Più in generale, come può una relazione negativa essere possibile e pensabile? La risposta a questo cruciale interrogativo filosofico è possibile solo distinguendo – come già Platone fece nel Sofista a proposito dell’idea del Non-essere (μη ον) –9 una concezione del negativo che implica il suo assoluto non-essere (nihil negativum), da una per cui esso è invece solo un nulla relativo (nihil privativum): è privo, cioè, dell’assoluta indipendenza e assolutezza dell’Universale, ma ciò nondimeno ha un (relativo) essere nell’Universale e mediante l’Universale – è, per usare una pregnante espressione hegeliana, un “momento ideale” dell’Universale. Ma così l’Universale non è solo un’unità astrattamente identica a sé stessa, bensì un’identità che comprende, ingloba, assorbe in sé la stessa molteplicità del molteplice: è ciò che la logica formale tradizionale vagamente intende col concetto di “totalità”10. Possiamo, dunque, concludere che l’Universale, che è l’oggetto essenziale del pensiero, non è una vuota, indeterminata unità (non è il “tutto indistinto, non-relazionale” del sentimento puro: cf. supra, § 1), né un “uno” tra molti uno (non è una delle molteplici proprietà o universali sensibili), bensì una Unità che nel suo “altro” si continua, si riferisce, si riflette solo in sé stessa. L’altro dell’Universale, perciò, non è da esso escluso, bensì è contenuto in esso, è lo stesso Universale che si particolarizza e si individua, e perciò non costituisce per esso un limite assoluto, una “barriera” che può ostacolare, ridurre o annientare la sua espansione o sviluppo immanente. L’identità dell’Universale, dunque, nega, trascende, supera ogni possibile limitazione, e in tal senso coincide senz’altro col concetto del Vero Infinito11. Ma il Vero Infinito si distingue dalla “cattiva infinità” (ad es., l’infinito in quanto predicato teologico del Dio personale trascendente, o il progressus in infinitum della serie numerica) proprio e solo perché, mentre quest’ultimo contrappone dualisticamente la sua identità con sé a quella del finito, esso è invece una Totalità che comprende in sé stessa sia sé stessa (cioè la sua astratta identità con sé) che la negazione dell’altro da sé, cioè del finito.

9 Cf. Platone, Sophistēs, rec. M. Wohlrab et C. F. Hermann, Lipsiae 1929, 236d-239c e 255e-259d. 10 Cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 93-96 (B 106-111). 11 Sulla centrale rilevanza del concetto del Vero Infinito nella filosofia hegeliana hanno opportunamente attratto l’attenzione, in tempi recenti, Robert Williams e Robert Wallace, che hanno messo altresì in rilievo come in esso sia contenuto il fondamento razionale di una consistente “metafisica panenteistica”. Per un’ampia discussione delle loro profonde e fruttuose trattazioni di questa problematica cf. G. Rinaldi, Tragedia, riconoscimento e morte di Dio nel pensiero di Robert Williams, in: “Magazzino di filosofia”, 23/ 2014, p. 119-145, e Id., Idealismo e trascendenza. A proposito di un recente saggio di Robert Wallace, ibid., 26/2015, p. 17-47.

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EVOLUZIONISMO &

Francesco M. Scudo, Umberto D’Ancona e Vito Volterra. Le ragioni di un’amicizia A Silvia d’Ancona

Apologia Non si sa perché storici, filosofi od “ermeneuti” oggi si sentano in dovere di scrivere in modo così “dotto” da annoiare mortalmente la quasi totalità di chi provi a leggerli. Anch’io, beninteso, spesso seguo questo andazzo ma, per questa volta, chiedo al benevolo lettore di esentarmene. Se bisognoso di più precisione, potrà facilmente trovarla in altri scritti a carattere generale come quello della Kingsland1, altri miei2 od innumerevoli studi più specifici3. Qui invece preferisco lasciarmi andare a “ruota libera” su quello che ho appreso dal mio Maestro, Umberto d’Ancona, o su di lui, introducendo anche meditazioni personali che potrebbero differire un po’ dalle sue. Innanzitutto, però, vorrei cominciare con uno scorcio biografico in parte inedito che, come molte altre cose che riporto qui, mi viene da lunghe conversazioni con la vedova del Maestro, Luisa Volterra-D’Ancona. Si tratta di dettagli parte dei quali introduco con riluttanza, non essendomi ben chiaro se mi fossero stati descritti solo come confidenze personali. 1

Modelling Nature, The University of Chicago Press, 1985. Ad esempio: The Golden Age of Theoretical Ecology; a Conceptual Appraisal, “Rev. Europ. Etud. Soc.”, 22, 11-64, 1984. 3 E.M. Polinshchuk, Vito Volterra, Izdatel’stvo Nauka, Leningrado, 1977, è forse ancora la più a-cuta ed esauriente biografia intellettuale di Volterra. Su D’Ancona si possono vedere molti “ricordi” quali quello di Battaglia nell“Annuario dell’Università di Padova” per il 1966-67 o quello di Vannini in “Boll. Zool.”, 53, 203-204, 1986. Su Kostitzin, invece, pare esista solo il lavoro di Ziegler e mio in: “Theor. Pop. Biol.”, 10, 395-412, 1976. 2

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Il riportare tali dettagli ha lo scopo filosofico, o forse meglio “anti-filosofico”, di suggerire come la scienza che uno fa dipende (molto di più di quanto in genere non si pensi) dal come viva in generale. A volte si possono anche spiegare diversi modi di far la scienza a partire da diverse filosofie formali esplicitamente accettate, ma penso potrebbe trattarsi almeno in parte di una petizione di principio (e cioè le scelte filosofiche dovrebbero piuttosto essere spiegate dallo stile di vita generale). Sia come sia, le filosofie dei nostri personaggi principali andavano da un convenzionalismo forse più alla Poincaré che alla Duhem di Volterra al materialismo storico profondo e poco ortodosso di Kostitzin. Sono quindi ben diverse dagli ingenui empirismi e “falsificazionismi” che hanno dominanto così pesantemente i decenni più recenti. Non deve quindi meravigliare se oggi abbiamo una scienza piuttosto differente da quella che ci è venuta da uno “stampo” d’uomini che, purtroppo, pare si sia oggi perduto. Avrei forse dovuto rinunciare a partecipare con questo scritto, che sapevo dover essere stilato affrettatamente, in un periodo per me poco propizio, e per di più in una lingua nella quale ho perso quasi del tutto l’abitudine a scrivere. Se vi sono dei meriti nel risultato finale questi vanno più che altro agli amici che si sono sobbarcati la lettura di brogliacci iniziali, spurgandoli di diversi errori fattuali e di innumerevoli pecche di stile od anche solo di ortografia, e cioè ad Emilio Luzi e Mario Galzigna ma soprattutto Enrico Vannini, al quale devo anche suggerimenti essenziali avuti nel condividere molti ricordi sul comune Maestro. Ad Emilio Luzi ed Angelo Guerraggio devo anche varie informazioni molto utili.

1. Uno sguardo agli inizi, ingredienti, precedenti e primi risultati L’ancora futuro suocero di D’Ancona, Vito Volterra, era già forse il più famoso fisico-matematico del suo tempo. Si interessava però di tutto: dall’economia politica, alla quale aveva portato un singolo contributo tecnico di poche righe ma di enorme interesse4, ad ogni sorta di questioni biologiche e sociali. Influente senatore del Regno era stato prima interventista accanito e poi volontario in aeronautica. Al fronte, però, l’avevano lasciato andare poco, anche se a volte rischiando parecchio, come in pericolose missioni con dirigibili. Come per altri matematici e fisici del suo tempo, ad esempio il suo allievo e poi grande amico Kostitzin del quale poi molto si dirà, il suo servizio di già anziano ufficiale subalterno consisteva quasi solo

4 Si veda ad es. P.A. Samuelson, The problem of integrability in utility theory, “Economica”, 17, 355-385, 1950.

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in ricerca tecnologica. Volterra vi si era buttato a corpo morto e vi era rimasto molto legato anche per anni dopo la guerra. Il suo corpo speciale di aviatori a terra era infatti diventato il “Consiglio Nazionale delle Ricerche” che, assieme all’insegnamento e ad altri onerosi impegni (ad es. la presidenza dei Lincei, la “politica” al Senato), continuava a distrarre la sua attenzione dal far teoria. D’Ancona pure aveva un passato militare degno di nota – ufficiale d’artiglieria prima nell’esercito regolare e poi nelle legioni Fiumane – ma se l’era lasciato del tutto alle spalle. La nota storia comincia in un giorno imprecisato del 1925: D’Ancona sta facendo visita ai futuri suoceri e siede su di un divano con uno dei futuri cognati, Enrico, pure lui fisico-matematico (ingegnere). Gli sta descrivendo il curioso fenomeno che andava scoprendo da statistiche dei mercati del pesce, come quelle che gli imperiali regi governi delle sue native coste dalmate avevano continuato a tenere scrupolosamente fin dall’inizio del secolo. Con l’imperversare della guerra la pesca era andata progressivamente riducendosi per un ordine di grandezza o più e cioè a molto poco per quanto riguarda gli animali pescati ma, in genere, più che abbastanza per dare un’idea precisa delle loro proporzioni in natura. Era curioso che la proporzione di predatori in questo pescato fosse subito andata aumentando, fin quasi a raddoppiare alla fine della guerra (Fig. 1). Un tale aumento era ben previsto dalla teoria della lotta per l’esistenza di Darwin ma non era mai stato prima empiricamente constatato. Diveniva ora lampante come risultato di esperimenti non intenzionali, frutto della combinazione fra la mania asburgica (e poi “piemontese”) di far bene i “bilanci delle cose” e di una guerra che si era dimostrata molto più lunga e sanguinosa del previsto. D’Ancona stava spiegando al suo futuro cognato la sua profonda convinzione che alle spalle di tale fenomeno vi fossero delle “leggi” statistico-matematiche che però non era in grado di formulare, tentando invano di convincerlo a provare egli stesso a farlo. Il futuro suocero stava nella stanza accanto facendo qualcos’altro, e gli capitò involontariamente di orecchiare la conversazione. Subito vi prese parte iniziando così una improbabile collaborazione “alla pari” con D’Ancona, che continuò fin sul letto di morte. L’espressione “sopravvivenza del più adatto” è forse una delle più ambigue dell’intera scena filosofica e scientifica. Spetta a Spencer il dubbio merito di averla coniata come, poco più o poco meno, una sorta di diretta “traduzione”, applicata all’intera natura, di una visione “gladiatoria”, hobbesiana dei primi singulti delle economie capitalistiche. Darwin stava seguendo le elucubrazioni di Spencer con sincera ammirazione, a volte timore reverenziale, mentre lavora al suo “grosso libro” che dovrà lasciare incompiuto. Per diletto studiava od aveva già studiato aspetti della natura quali le isole coral-

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line, i fiori doppi, le smorfie, gesti e vocalizzazioni degli animali, uomo incluso. In Darwin era già da tempo maturata la profonda convinzione che l’equilibrio della natura – e le sue occasionali rotture che sono la causa prima dell’evoluzione – siano essenzialmente dovuti alle complesse catene d’interazione fra i viventi. Proprio tali interazioni, necessariamente simbiotiche o mutualistiche ed anche antagonistiche, ne sarebbero infatti le “vere” cause dirette e specifiche; i fattori fisici ed i loro cambiamenti sarebbero invece delle cause prime quasi solo indirette, a-specifiche ed occasionali. Vedremo poi al § 3) le confusioni che sorgeranno dall’associare il termine coniato da Spencer alle idee di Darwin. Nel frattempo andava imponendosi anche la statistica, più che altro nel suo significato pratico, amministrativo nel quale era stata prima introdotta nelle città-stato rinascimentali, e poi ampiamente usata come “bilancio delle cose” dai governi Napoleonici. Darwin si rendeva ben conto dell’importanza di formalizzare il ragionamento in termini quantitativi, anche se non andava oltre al fare dell’ “aritmetica delle specie” alla von Humboldt, o al chiedere l’ausilio della statistica per i suoi esperimenti al cugino Galton. Decenni sarebbero ancora passati prima che questa stessa statistica “pratica” cominciasse a produrre quei dati a lungo termine sui quali proprio D’Ancona avrebbe per primo corroborato le “speculazioni” di Darwin. Che il ragionamento matematico potesse essere di grande aiuto a capire fenomeni biologici, specialmente i più oscuri, era già stato ampiamente provato. La scoperta di Mendel era, dopotutto, una verifica empirica – così perfetta da far nascere il sospetto di essere stata in un certo senso “truccata” – di ragionamenti matematici a priori (penso che il “trucco” non consistette in altro che in un campionamento sequenziale, fatto “a naso”). Che analoghi sviluppi matematici in termini di ricorrenze fossero un tramite essenziale fra la teoria di Darwin e l’osservazione diretta lo aveva già provato l’ambiziosa modellistica di Naegeli, nel suo misconosciuto classico del 1874. Ma le ricorrenze – specialmente se fortemente non lineari come quelle di Naegeli – erano matematica allora estremamente difficile anche solo come matematica “sperimentale”, e neppur oggi sono facili eccetto che come matematica sperimentale. Il calcolo e poi la teoria della probabilità avevano permesso di andare ben oltre, e già negli anni ’20 se ne avevano splendidi esempi: le trattazioni deterministiche di epidemie di Ross e poi di Lotka, quelle stocastiche di Mc Kendrick e Kermack, il ravvivarsi dell’interesse nelle crescite “logistiche” delle popolazioni e l’equazione integrale “di rinnovamento” in demografia, pure di Lotka5. Al momento dello storico incontro fra D’Ancona e Volterra 5 Vi sono due ampie antologie commentate dai lavori ai quali si allude qui come pure al § 3: F.M. Scudo e J.R. Ziegler, The Golden Age of Theoretical Ecology: 1923-1940, Springer,

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di tutto questo, però, forse nessuno s’era ancora ben reso conto. Gli Elementi di Fisica Biologica del Lotka stesso erano già in stampa, o forse appena usciti, ma neppure questi riusciranno ad attrarre l’attenzione di un vasto pubblico (lo lamenta lo stesso Lotka in una lettera del ’26 a Volterra). Invece, nel giro di mesi dall’incontro di cui sopra, Volterra entra in scena con i suoi primi lavori che hanno subito un successo folgorante, in un pubblico che va dai matematici più astratti a teorici darwiniani dell’ecologia come Prenant, agli “applicati” del consiglio internazionale per l’esplorazione del mare (che farà di Volterra il suo presidente onorario). Perché? Di perché ve ne sono molti oltre a quello ovvio che Volterra era il fisicomatematico più famoso del suo tempo, e mi limiterò ad accennarne qualcuno. A differenza di Lotka, filosoficamente epigono di Spencer, Volterra presenta i suoi lavori come una “tecnica ausiliaria” nel corroborare la teoria di Darwin. Malgrado già i suoi primi lavori contenessero risultati anche matematicamente tutt’altro che banali, Volterra li presenta con tono apologetico e solo perché ritiene che i suoi risultati siano di interesse pratico-economico. Tali risultati suggeriscono infatti “ovvie” ricette per sfruttare molto di più i sistemi naturali, pur tenendosi a prudente distanza da quei livelli critici oltre i quali verrebbero rapidamente distrutti (è ancora caldo, ad esempio, il ricordo del crollo dell’industria baleniera inglese). Queste ricette si basano su di una profonda estensione della nozione paretiana di valore all’intera natura, che permette di trattare le interazioni fra un numero qualsiasi di specie: il “metodo degli incontri”. Dal punto di vista analitico, nei casi più semplici, questo è solo una diretta traduzione nel mondo vivente della meccanica statistica classica. Gli elevati tassi di sfruttamento che i modelli di Volterra suggeriscono come praticamente possibili per i sistemi naturali lo sono, però, solo tramite operazioni parte delle quali sono antieconomiche: arricchire o potenziare artificialmente, od al contrario mantenere a livelli più bassi, specie componenti di associazioni che sono di valore economico scarso, o nullo. Il messaggio principale dei primi lavori di Volterra è quindi una ricetta formalmente difficile, impopolare, ed a breve scadenza forse anche un po’ antieconomica. In effetti, tale ricetta trasformerebbe l’uomo – il predatore di gran lunga più “irresponsabile” di tutti gli altri – in quello di gran lunga più “saggio” ed “efficiente”. È quindi una ricetta estremamente attraente ma altrettanto poco pratica per qualsiasi economia umana che non fosse allo stesso tempo efficiente, “scientificizzata” e rigidamente pianificata. Al “paretiano” Volterra non potevano sfuggire le difficoltà insite in tali proposte, per le Berlin 1978 e F. Oliviera-Pinto e B.W. Conolly, Applicable Mathematics of Non-Physical Phenomena, Ellis Horwood, Chichester 1980.

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quali D’Ancona dovrà idealisticamente battersi fino alla morte (esce postumo il suo ultimo tentativo). Sempre restando sul piano tecnico, parte del successo della coppia Volterra-D’Ancona è dovuto al fatto che il primo era già “idealmente preadattato” dai suoi interessi di fìsico ad affrontare i problemi biologici. La sua fama, infatti, gli veniva per buona parte dall’aver introdotto quella “meccanica ereditaria” nella quale lo stato attuale di sistemi con isteresi dipende esplicitamente da tutta la loro storia precedente. La stessa meccanica la si ritrova fin dalle sue prime trattazioni ecologiche, nel far dipendere esplicitamente le capacità riproduttive degli individui di una popolazione da tutta la loro precedente storia alimentare. Proprio in questa direzione, fin dall’inizio Volterra va ben oltre una traduzione “automatica” della meccanica statistica classica, magari in termini di valore paretiano di una specie per l’altra, che di per sé era già un passo concettualmente molto più avanzato dell’energetismo di Lotka. Su altri aspetti tecnici altrettanto interessanti tornerò poi. Nel frattempo altre osservazioni più o meno indipendenti vengono a rafforzare gli spunti iniziali di D’Ancona e ne nasce una vera e propria teoria con aspetti nuovi, apparentemente inoppugnabili. Questo mi porta ad esaminare più da vicino una ragione di successo dell’impresa del Maestro e dell’illustre suocero, alla quale avevo appena accennato. È ben noto come, a parziale eccezione della Russia, il nuovo secolo avesse marcato un’eclisse quasi totale delle teorie darwiniane. Questo è particolarmente vero per l’Inghilterra, che aveva assistito a decenni di dispute teoriche su differenze a volte gravi e profonde, altre volte poco più che verbali e personali, fra i vari “eredi” di Charles Robert: i figli Sir Francis e Sir George, il suo “pupillo” Romanes, Huxley, Meldola, il Duca di Argyll e, non ultimo, Wallace, il “co-scopritore”6 della selezione naturale. L’anatomia e la fisiologia avevano quindi acquistato dei ruoli dominanti nell’interpretazione dei fenomeni naturali su basi teorico-filosofiche come quelle di Spencer o di Haeckel, poiché quelle di Darwin erano spesso più implicite e sempre meno facilmente leggibili. Proprio per questo si ingenera un’orribile confusione, nella quale i più diversi costrutti teorici possono spacciarsi per Darwinismo anche se situati al polo opposto di Darwin. Negli anni ’20 tali ambigui costrutti alternativi stavano scricchiolando, o miseramente crollando, spesso solo per loro dinamica interna. Così, ad esempio, doveva apertamente dichiararsi un completo fallimento – tale da non far neppure pubblicare una massa di dati preziosi – il massiccio, ambizioso tentativo di Legendre e della sua scuola di spiegare le distribuzioni di animali marini in termini di fattori fisici. Le tolleranze 6 La selezione postulata da Wallace era infatti parecchio differente da quella di Darwin e cioè prevalentemente inter-popolazionale, e quasi per nulla sessuale o familiare.

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fisiologiche di questi animali, come accertate in laboratorio, erano quasi sempre estremamente più ampie di quelle rilevate in natura. Queste ultime non avevano con le prime alcuna relazione, oltre a quella banale di essere ad esse interne in un qualsiasi punto, magari pericolosamente vicino a seri danni fisiologici7. I massicci interventi in parallelo di Volterra e D’Ancona a partire dal ’26 ebbero tanto successo anche perché ben si prestavano a spiegare ogni genere di dati altrimenti inspiegabili, riproponendo in forme ben più concrete gli abbozzi talora un po’ vaghi di Darwin. Ma molte altre cose erano cambiate nel frattempo. Volterra, fra i pochi a non prestare giuramento al regime fascista, era stato estromesso da tutto; così, liberata da molti orpelli, la sua potente fantasia era tornata ad esplodere come da giovanotto, anche se il corpo cominciava a “pesare”. Era quindi tornato a tenere ambiziosi corsi a Madrid e a Parigi, ributtandosi a corpo morto anche sulla matematica più astratta assieme a vecchi amici più giovani di lui, come Joseph Pérès. D’Ancona, invece, ha tutto il peso della cattedra proprio quando stava per concretarsi la grossa presentazione “conclusiva” dei suoi sforzi col suocero. Prima del ’33 i due lavoravano assieme quasi solo in rapidi, intensi incontri qua e là tra una tappa e l’altra dei loro viaggi, corrispondendo solo occasionalmente. Dal 1933, invece, la corrispondenza diviene per Volterra e D’Ancona un massiccio strumento di lavoro che, per nostra fortuna, ben ne registra i passi più salienti. Arriviamo così al ’35 e finalmente appare la grande sintesi teorica di dieci anni di collaborazione, concettuale più che tecnica come imponeva la collana delle “Actualitèes” di Hermann: Les Associations Biologiques au point de vue Mathématique. Qui per la prima volta si troverà in tutta chiarezza un’ampia documentazione empirica, interpretata in modo ormai ineccepibile, su quella instabilità globale a tempi lunghi delle associazioni che è alla base delle teorie darwiniane dell’evoluzione: ogni associazione nasce relativamente “povera” e poi si arricchisce di specie nuove dal di fuori, mentre i lenti e progressivi raffinamenti degli addattamenti di una specie all’altra rendono possibile una sempre maggior quantità di vita. Di pari passo, però, lo stato stazionario di una tale associazione diviene sempre più “stringente” e precario, più pronto ad esser distrutto da una qualsiasi nuova perturbazione fisica o biotica. Presto o tardi, quindi, l’associazione come tale sparirà bruscamente e ve ne sorgerà al suo posto un’altra, che viene a formarsi “di punto in bianco” dai sopravvissuti della precedente e da altre forme che vengono dal di fuori.

7 Si veda particolarmente M. Prenant, Adaptation, écologie et biocoenotique, Hermann Parigi, 1934.

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Paolo Maccagno, Solitudine esposta Conta solo andare/ stare nella corrente della propria solitudine esposta/ inservibile alle mete. Erri De Luca

Intenti È possibile una solitudine che non sia isolamento? È possibile pensare un senso senza una direzione? È possibile immaginare un rapporto con l’altro che vada oltre la dialettica? Tema del presente saggio è la solitudine attraverso il riferimento ad alcuni autori che hanno osato pensare altrimenti: Heidegger, Derrida, Levinas. A partire dall’analisi del seminario La Bestia e il Sovrano in cui Jacques Derrida legge e interpreta lo Heidegger dei Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-Finitezza-Solitudine, avvicinandolo al Robinson Crusoè di Daniel Defoe, il tema della solitudine viene osservato dal punto di vista della teoria dell’evoluzione. La vita nel suo incessante movimento trasformativo sembra non avere una direzione e l’idea di variazione individuale alla ricerca della sopravvivenza, nodo centrale del pensiero di Darwin, può offrire una prospettiva interessante per passare dalla solitudine come isolamento alla solitudine come esplorazione, apertura individuale al possibile, postura etica di responsabilità verso il futuro inteso come spazio di possibilità e non come spazio da conquistare. La finalità del testo è quella di mettere a fuoco cosa si intende per solitudine esposta esaminando alcuni snodi concettuali della più recente teoria dell’evoluzione e la loro potenzialità nel delineare uno sfondo di pensiero in cui immaginarla. Il percorso cercherà di mettere a fuoco cosa si intende per solitudine come isolamento da una parte e si proporrà dall’altra la visione della solitudine come variazione individuale. Verranno poi individuati alcuni parallelismi tra idee filosofiche e concetti evolutivi quali: nostalgia e impulso alla sopravvivenza, circolo ermeneutico e coerenza evolutiva, morte e limiti del caos. Infine si delineerà una sintesi per definire la solitudine esposta. Le narrazioni proposte dalla storia evolutiva del vivente a contatto con il mistero della vita sono piene di fascino e allo stesso tempo di spaesamento, adatte a destare uno stato d’animo dalle potenziali implicazioni filosofiche.

Solitudine come isolamento Sono solo. La solitudine è una condizione umana nella quale l’individuo si isola o 91


viene isolato dagli altri esseri umani. Rousseau amava la solitudine e afferma: “Voi mi domandate perchè fuggo gli uomini? Domandatelo a loro, lo sanno meglio di me” (Derrida 2010, 107). Loro cercano di isolarlo e lui cerca di separarsi, di allontanarsi. Solitudine è una parola relazionale. Chi allontana chi? Chi si allontana da chi? La differenza tra allontanare gli altri o allontanarsene è una differenza assai precaria, instabile. Non è l’azione libera di un soggetto ma quella di una forza sovraindividuale che produce allontanamento, disgregazione, confini. La solitudine è un movimento di separazione del mondo, di fuga, di rifugio su un’isola. Io, povero misero Robinson Crusoe, naufragato in alto mare nel corso di una terribile tempesta, ho raggiunto la riva di quest’isola malaugurata e derelitta che ho chiamato Isola della Disperazione. […] Ricordo di aver passato tutto il resto di quella giornata nella più profonda disperazione a causa della tragica situazione in cui mi trovavo. (Defoe 1719: 74)

Una terribile tempesta ha prodotto un confinamento su un’isola malaugurata. Questa è la prima consapevolezza della solitudine che emerge in Robinson Crusoe. Un forte sgomento per una condizione inizialmente disperata. Robinson ha seguito una vocazione ed è partito, si è allontanato da una vita sicura presso la sua famiglia dove avrebbe avuto tutto quello di cui aveva bisogno. È stata una sua scelta. È stata però una tempesta terribile a confinarlo su un’isola, a separarlo dal resto del mondo. L’isolamento è un movimento che si realizza nell’azione reciproca di individuo e mondo. Sono solo al mondo. Heidegger intende il Dasein come esserci, cioè essere-nel-mondo. Il ci di esserci (la preposizione da) sta proprio ad indicare l’essere situati all’interno di un contesto storico e culturale che pone in relazione con il mondo e con gli altri, da cui non si può prescindere in quanto strutturalmente legato all’essenza dell’uomo. Tale essenza consiste nell’esistenza, nel poter essere, nella possibilità. L’uomo, il Dasein, è esistenza che si dà come essere-con. L’essere-con è un tratto che sta prima, un’essenza e un fondamento. L’uomo non sta nel mondo come la chiave sta nella toppa o come il pesce sta nell’acqua. Non è altro rispetto all’essere un essere-con, un essere-nel-mondo che fa mondo. È un’apertura individuale all’esistenza dove è strutturalmente legato all’altro. Ogni Dasein è singolare quindi solo. Una solitudine che si dà però come un essere-solo-al-mondo in quanto il soggetto come esserecon è strutturalmente legato all’altro. L’essere soli è possibile in una relazione con il mondo e con la società. 92


Scrive Marx: Ma l’epoca che genera questo modo di vedere, il modo di vedere dell’individuo isolato, è proprio l’epoca dei rapporti sociali finora più sviluppati. L’uomo è nel senso più letterale uno zoon politikon, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solo nella società riesce ad isolarsi (Derrida 2010, 53).

L’isolazionismo individualista è quello che Marx definisce robinsonata, il sintomo dello sviluppo della società capitalista. Dopo un inizio disperato però piano piano le cose cambiano per Robinson: Compii il quarto anno di permanenza sull’isola. […] Avevo una diversa concezione della realtà. Adesso il mondo mi appariva come un’eventualità remota, con la quale non avevo più nulla in comune, nella quale non riponevo ormai la minima speranza e di cui non avevo più desiderio alcuno. […] e in verità potevo ben dire, ripetendo le parole del padre Abramo al ricco Epulone: “Tra me e te è posta una grande voragine”. Innanzitutto qui mi trovavo al riparo da tutte le malvagità del mondo. Non avevo né la concupiscenza della carne, né la concupiscenza degli occhi, né le lusinghe della vita (Defoe 1719, 137).

La vita di Robinson è ora riparata. Ora la sensazione che prova rispetto all’isola è diversa. Si sente protetto e al riparo. Lontano dal mondo, di cui non sente più il bisogno, il desiderio. Il mondo è rimosso, con la speranza ad esso connessa. C’è una voragine che li separa. Alla domanda qual’è il senso della finzione Robinson? Deleuze risponde nella Logica del Senso: un mondo senza altri. Quello che viene rimosso è il mondo dell’altro, l’alterità. Viene conservato un mondo, ne viene creato uno nuovo, ma è un mondo senza altri. Robinson vive sull’isola da solo, non ci sono donne, solo schiavi e animali. Un mondo privato, chiuso, introverso. Che guarda al suo interno con un atteggiamento centripeto e unilaterale. Un mondo che si guarda dentro e che si protegge da un fuori che non riconosce e non vuole vedere. Un mondo senza altri è un mondo senza possibile. Quando una mattina “vidi nitidissima, impressa nella sabbia della spiaggia, l’orma di un piede umano scalzo. Rimasi immobile, fulminato come se avessi visto uno spettro” (Defoe 1719, 164). Le tracce di alterità vengono vissute con spavento e orrore, sono motivo di inquietudine, “come non stenterà a immaginare chiunque sappia cosa significhi vivere nel diuturno terrore degli uomini” (Defoe 1719, 174). La possibilità dell’altro è causa di paura e desiderio di desertificare, di sterminare, di annientare. Robinson passa alcuni anni meditando come “massacrare quelle turpi creature, o quantomeno per spaventarle e farle desistere da qualsiasi tentativo di rimettere piede sul 93


suolo dell’isola” (Defoe 1719, 179). È mosso da un impeto accecante che gli fa perdere il senso della giustizia e gli fa pensare di dover uccidere individui che non gli hanno fatto nulla, colpevoli unicamente di praticare riti che lui non comprende. “E poi riflettei che il loro comportamento reciproco, sebbene bestiale e disumano, non mi riguardava nel modo più assoluto. Questi selvaggi non mi avevano fatto alcun male” (Defoe 1719, 183) La condizione di isolamento iniziata con un senso di disperazione, subita come condizione di abbandono, inflitta dall’esterno da una sciagura, si trasforma gradualmente. Si fa strada un certo attaccamento, un’affezione a quella condizione. Nasce un’inerzia e una resistenza al cambiamento. Si predilige la stabilità e si sacrifica tutto ciò che è diverso che viene allontanato, espulso, rimosso. Da condizione subita diventa agita e difesa con qualsiasi mezzo. Se inizialmente determinato da fattori esterni, l’isolamento va progressivamente interiorizzandosi, costituendosi all’interno della soggettività. Da ventitré anni ormai vivevo in quell’isola, e mi ero a tal punto assuefatto al luogo e alle abitudini maturate in tanto tempo, che se avessi avuto la certezza assoluta che nessun selvaggio sarebbe mai venuto a turbare la mia quiete, sarei stato felice di firmare il contratto per trascorrervi tutto il tempo che ancora mi restava da vivere (Defoe 1719, 192).

Questo movimento progressivo si incarna nel soggetto e lo stritola in un delirio di onnipotenza e di potere fino a portarlo ad affermare: Sono il solo. Questa è l’affermazione implicita che ricorre in modi differenti con il procedere del romanzo e della permanenza di Robinson sull’isola. Non più sono solo ma sono il solo. La solitudine diventa privilegio gerarchizzante. Se sono il solo, l’unico, l’eccezione, allora sono il sovrano. Un delirio narcisistico e desertificante che eleva il soggetto ad unico indiscusso dominatore. Io ero sua maestà il principe e signore di tutta quanta l’isola. La vita di ciascuno dei miei sudditi era subordinata al mio potere assoluto (Defoe 1719, 158). La mia isola era adesso riccamente popolata e io mi compiacevo di avere un numero così elevato di sudditi: spesso mi veniva fatto di paragonarmi a un re e indugiavo divertito su questo pensiero. Innanzitutto tutto il territorio era mia proprietà indiscussa, ed io pertanto avevo il diritto incontestabile di esercitarvi il mio dominio. In secondo luogo il mio popolo era totalmente ligio alla mia volontà: io dettavo legge ed ero signore assoluto, loro mi dovevano la vita ed erano pronti a sacrificarla per salvare la mia (Defoe 1719, 257).

Sembra esistere un movimento necessario, graduale e progressivo di atomizzazione dell’essere che produce separazione, confini e isolamento. L’esito di tale processo sembra necessariamente produrre un mondo che si manifesta 94


nella forma della gerarchia e del potere. L’isolamento risulta funzionale a questo mondo e si incarna in soggetti che elevano la propria condizione di separatezza ad eccezionalità e privilegio, condizione per l’esercizio di un potere agito da parte del soggetto nei confronti del mondo. Derrida riferisce che Rousseau “esagera” (Derrida 2010, 107) il processo di allontanamento che sente di subire da parte degli altri, della società che ha intorno. Questa spinta inflitta viene esagerata da lui medesimo, che volontariamente decide di isolarsi. Loro sono sadici e lui è masochista. Rousseau fa propria questa spinta e se ne assicura il dominio sovrano. Se qualcosa mi allontana, mi isola, se io stesso mi allontano e mi isolo perchè questa spinta la riconosco come parte di me, allora almeno che questa spinta mi elevi ad essere il solo. Un delirio di chiusura progressiva, di arroccamento difensivo e di annullamento di qualsiasi alterità. Sono il solo, non esiste altro. Quindi tutto ciò che esiste è regolato da relazioni gerarchiche di potere, di forza e infine di violenza in modo che l’altro non esista, o quanto meno sia addomesticato, contenuto all’interno dei confini, introiettato, divorato. Il grande gesto del libro di Defoe […] è quello del mangiare e del divorare, del mangiare l’altro, della paura di essere divorati dalle bestie feroci o dai selvaggi cannibali, e della necessità di mangiare le bestie, le bestie cacciate, allevate o addomesticate” (Derrida 2010, 90).

Tutto deve essere fagocitato e ridotto a sé medesimo. Esiste un solo mondo, il mio. Non esiste altro mondo al di fuori del mio. Io-tutto-mio. Se tutto è contenuto all’interno, allora deve assestarsi su precari rapporti gerarchici, tensioni tra superiorità e inferiorità, relazioni tra alto e basso. Un mondo gravitazionale che non consente a nulla di uscirne. Il percorso sembra essere: sono solo, sono solo al mondo, sono il solo. È l’unica possibilità, l’unica direzione possibile a cui la condizione di solitudine può portare? Non siamo soli! Non siamo gli unici, non siamo mai stati gli unici! La teoria dell’evoluzione e in particolare i suoi sviluppi più recenti da parte di Stephen Jay Gould e ripresi da Telmo Pievani, sembrano sconfessare l’idea stessa di solitudine come prerogativa di superiorità nei confronti del resto del vivente. Le acquisizioni degli ultimi trent’anni di ricerche scientifiche nel campo della paleoantropologia e della ricerca biologica pongono evidenze con forti implicazioni cognitive. “Non siamo mai stati soli nel gioco della storia naturale” (Pievani 2011, 19). È ormai patrimonio comune che Homo Sapiens fino a non più di qualche decina di migliaia di anni fa non era l’unica specie di homo esistente. Conviveva con altri cugini del 95


Giulia Cervo

Per una filosofia meontica dell’origine: Eugen Fink dalla dialettica trascendentale alla dialettica cosmologica

I. Chi fenomenologizza? – Lo spettatore trascendentale e la novità della Sesta Meditazione Cartesiana La domanda sull’essere è un problema della coscienza o, viceversa, la coscienza nel suo proprio sussistere, in quanto media ragione e libertà e intrattiene un rapporto con gli oggetti essenti, è un problema ontologico? A ciò si connette la questione se possa essere conservata la distinzione husserliana tra un soggetto anteriore al mondo per il mondo, appunto il “soggetto trascendentale”, e un io umano intramondano (Fink 1976, p. 2891).

Così Fink formula, nella conferenza dell’ottobre 1968 intitolata Bewusstseinsanalytik und Weltproblem, la domanda decisiva della fenomenologia, il bivio a partire dal quale la filosofia di Husserl e quella di Heidegger si dipartono come risposte tra loro alternative. Tale questione capitale – riassumibile nel problema urgente di una autointerpretazione della soggettività fenomenologica che si interroghi sullo “statuto ontologico” della coscienza trascendentale – costituisce, com’è noto, il filo conduttore dell’itinerario filosofico di Eugen Fink, che prende le mosse dalla Sesta Meditazione Cartesiana, ancora sostanzialmente fedele a un’impostazione trascendentale e volta a risolvere le aporie della riduzione, e perviene infine, a partire dalla fine degli anni Quaranta, a una “antropologia cosmologica”, attestata da opere come Grundphänomene des menschlichen Daseins e Spiel als Welt-

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Si segnala che, per tutte le citazioni tratte da Nähe und Distanz e da Grundphänomene des menschlichen Daseins, così come per quelle tratte dai testi finkiani inediti o non ancora tradotti in italiano, la traduzione proposta è quella di chi scrive.

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symbol. Certamente Fink si distanzia progressivamente dal metodo fenomenologico, ossia dalla riduzione, come del resto l’intento di una “fenomenologia della fenomenologia” già lascia presagire2: l’indagine intorno ai limiti della fenomenologia si colloca inevitabilmente al di fuori di quest’ultima, additando e problematizzando quei residui operativi, quei concetti ontologici che costituivano in Husserl la sotterranea intrusione del mondano nella soggettività trascendentale. La fenomenologia “costruttiva” abbozzata negli anni Trenta si propone appunto di sopperire ai limiti dell’intuizione, integrando la fenomenologia statica e quella genetica mediante il ricorso alla dialettica trascendentale kantiana e al metodo speculativo hegeliano; entrambi apporti esterni al metodo fenomenologico codificato da Husserl. Tuttavia ci sembra di poter affermare che Fink seguita ad attingere dalla fenomenologia i temi della propria indagine, mantenendo innanzitutto il riferimento costante all’esperienza e ai fenomeni3, senza contare che la specificità del gesto teorico finkiano consiste nel mostrare come sia la fenomenologia stessa – quando il metodo fenomenologico venga svolto coerentemente – ad avere esito speculativo, producendo dal suo interno la dialettica piuttosto che richiedendola dall’esterno. In effetti, la domanda che abbiamo posto qui in apertura attesta la continuità del percorso filosofico finkiano, non essendo altro che la riformulazione del problema, o per meglio dire dei problemi, da cui Fink muove già nel 1932, ovvero le problematiche costitutive della nascita, della morte, dell’infanzia e dell’intersoggettività: tutti fenomeni che non sono originariamente dati nella modalità della Selbstgegebenheit, e per la comprensione dei quali il modello husserliano dell’essere come posizione, come esser-posto da un soggetto trascendentale, si rivela sostanzialmente inadeguato4. Fink ravvisa nella fenomenologia husserliana una 2

Cf. Luft: “Senza voler vedere nella Sesta Meditazione Cartesiana un’anticipazione della tarda filosofia di Fink […], bisogna pur tuttavia constatare che con questo scritto emerge una differenza che va ben oltre qualche singolo punto di dissenso tra Husserl e il suo assistente” (Luft 2002, p. 25, traduzione mia. Cf. anche p. 146 sg.) 3 Come osserva Sepp nell’introduzione all’edizione italiana di Prossimità e distanza, se, da un lato, a partire dagli anni Quaranta l’opera di Fink “non riconosce più […] alcuna fenomenologia, nemmeno come mattone necessario nell’impianto di un altro pensiero”, dall’altro “ciò che rimane è il fenomeno”, come suggerisce lo stesso titolo finkiano Grundphänomene des menschlichen Daseins; l’itinerario di Fink dalla fenomenologia all’antropologia cosmologica può efficacemente essere descritto come un “movimento che sposta dall’interno all’esterno la posizione finkiana nei confronti della fenomenologia” (Sepp, Introd., in: Fink 2006, p. 14). 4 La questione trova una sintetica ed efficace formulazione nella conferenza del 1971 Reflexionen zu Husserls phänomenologischer Reduktion: “L’irritante problematica del concetto di essere non è accantonata se il pensiero risale dalle cose nel mondo al soggetto per il mondo. Se l’oscuro nome ‘essere’ non significa nient’altro che validità, posizione da parte di un soggetto che pone, nient’altro che un ‘carattere tetico’ proprio di un oggetto per la coscienza, allora e solo allora può essere dischiusa tramite l’epoche la dimensione

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tensione spesso inconsapevole tra concettualità operativa e concettualità tematica, in quanto, se già in Husserl la riduzione fenomenologica consiste appunto nella tematizzazione dell’atteggiamento naturale, tuttavia la costituzione trascendentale del soggetto mondano continua per così dire a “coprire”, a occultare – con la sua attività teleologicamente orientata al mondo – l’originarietà anteriore al mondo del soggetto stesso, che resta il fondo atematico di tale processo di costituzione (Cf. Fink 1976, p. 1955 e p. 200). Se, come Fink afferma altrove, la domanda circa l’origine del mondo (Ursprung der Welt) è la questione fondamentale della fenomenologia (Fink 1966, p. 101), il tema del mondo è già implicito nella Sesta Meditazione Cartesiana, nel momento in cui l’autore si chiede: Come il tempo dell’uomo nel mondo trova un inizio nella nascita e finisce nella morte, ha anche il tempo trascendentale della costituzione del mondo un “inizio” corrispondente alla nascita nel mondo, una “fine” trascendentale corrispondente alla morte nel mondo? O sono la “nascita” e la “morte” consistenze di senso che si costituiscono solo nella vita trascendentale data riduttivamente? (Fink 2009, p. 70; ed. or. p. 68).

Siamo di fronte a due soggetti diversi e, di conseguenza, a due temporalità diverse? Come si inscrive la temporalità dell’io costituente, ciò che Husserl chiama la “temporizzazione originaria”, nell’orizzonte della temporalità mondana cui pure il soggetto trascendentale sottostà nella sua versione mondanizzata, ovvero in quanto io umano? In che rapporto stanno fra loro “Historizität” e “Geschichtlichkeit”, tempo del mondo e temporalità trascendentale? Se la domanda sull’essenza ultima della vita trascendentale, il riferimento a essa come a un “progetto ontologico” e la critica alla concezione husserliana dell’essere come posizione sembrano riproporre un’istanza già heideggeriana, in realtà, come avremo occasione di mostrare, la prospettiva meontica secondo la quale Fink declina la domanda intorno all’essere della coscienza si spinge non soltanto oltre l’analitica esistenziale di Essere e tempo, ma anche oltre l’ontologia fondamentale successivamente sviluppata da Heidegger nel pensiero della differenza ontologica e dell’Ereignis. Siamo sostanzialmente d’accordo con Simona Bertolini (2012, p. 330) nel sostenere che Hegel svolge per Fink un ruolo di mediazione tra le problematiche husserliane e i concetti heideggeriani. Come rileva Bruzina a proposito dell’origine. Ma non c’è al fondo di questa impostazione husserliana un modello che merita almeno una domanda?” (Fink 1976, p. 320). 5 “La costituzione dei caratteri mondani del soggetto, nei quali si cela la sua originarietà anteriore al mondo, è svolta da Husserl in maniera non sufficientemente esplicita e convincente”.

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dell’adozione finkiana del metodo speculativo, “seguire questa spinta ‘critico-speculativa’ può comportare […] l’esigenza di spingersi persino oltre l’‘ontologia’ così come questa era stata riformulata da Heidegger, verso una tematizzazione della questione dell’‘assoluto’, che occupava un posto centrale in Husserl” (Bruzina 2004, p. 130). Esamineremo più avanti il significato di tale affermazione, che avanza l’ipotesi di una maggiore vicinanza di Fink a Husserl che non a Heidegger. L’influenza hegeliana è evidente sia per quanto riguarda la chiarificazione del rapporto tra mondanizzazione e riduzione nella Sesta Meditazione Cartesiana, sia e soprattutto, nel “secondo” Fink, a proposito della dialettica tra “Ding” e “Welt”, che già in Sein und Mensch viene illustrata sulla scorta del capitolo hegeliano della Percezione, con l’intento di rimettere in moto (“fluidificare”, direbbe Hegel) i concetti ontologici sedimentati dalla tradizione. Benché nella Sesta Meditazione non si parli esplicitamente di “meontica”, nell’“Abbozzo per una Prefazione” l’autore dichiara di muovere dalla prospettiva di una “filosofia meontica dello spirito assoluto” (Fink 2009, p. 161; ed. or. p. 183). Nel cruciale paragrafo 7 dell’Idea di una dottrina trascendentale del metodo, Fink esplicita i temi oggetto della sua fenomenologia “costruttiva”, che prende le mosse dall’irriducibile non-datità cui conducono le analisi regressive della fenomenologia genetica; l’analisi perviene infatti a “problemi che, per principio, non sono più risolubili nell’orizzonte della fenomenologia regressiva”, e ciò per via della distinzione tra “spettatore fenomenologico” e “coscienza trascendentale costituente”, in quanto, se quest’ultima costituisce immanentemente la storicità come flusso trascendentale dei vissuti, il primo, non prendendo parte a tale processo di costituzione ma producendosi per così dire come “esponente” nell’effettuazione della riduzione fenomenologica, “si interroga sull’interezza temporale, sulla totalità dell’essere trascendentale che non gli è dato in totalità” (Fink 2009, p. 69; ed. or. p. 67). Facendo ricorso a una terminologia hegeliana, Fink descrive il rapporto tra “io fenomenologizzante” e “io costituente” nei termini di una “identità oppositiva” e di una “particolare simultaneità”, parallela – ma qualitativamente diversa – a quella tra l’io trascendentale e l’io mondano, costituito. Il problema della totalità della vita trascendentale, o meglio della vita trascendentale in quanto totalità, può in effetti essere riformulato come il problema della relazione tra l’io trascendentale e l’io mondano, già posto da Heidegger. Com’è noto, questi rifiutava tale distinzione, contrapponendole l’essere-nel-mondo, che egli fondava tuttavia ancora in un ente, il Dasein, con il risultato di considerare il mondo alla stregua di un esistenziale.

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Anche Fink prende sul serio la domanda sul “chi” del fenomenologizzare, riconoscendo in tale problema “una certa difficoltà”6 (Fink 2009, p. 113; ed. or. p. 121). Tuttavia, mentre Heidegger sostituisce all’io trascendentale il Dasein, egli cerca di mantenere viva la tensione tra i due tipi di soggettività, comprendendola in maniera dialettica, conservando così la profondità e il contenuto di manifestatività della riduzione. Quest’ultima, infatti, dischiude da un lato la costituzione in quanto esser poieticamente proteso della coscienza trascendentale verso il mondo nei processi trascendentali della noematizzazione e della monadizzazione – intendendo per quest’ultima l’individuazione, la costituzione dell’io mondano – dall’altro l’autocoscienza che di tali processi costituenti viene a prodursi nell’io fenomenologizzante, che tematizza l’io costituente nella riflessione. Se Fink riconosce, con Husserl, la riduzione trascendentale come autoriflessione e tematizzazione dell’ingenuità propria dell’atteggiamento naturale, egli indica una ulteriore ingenuità: quella della coscienza trascendentale in quanto progettualmente orientata all’essere e tutt’uno con la propria attività costituente, in grado di tematizzare unicamente i prodotti della costituzione e non se stessa. In definitiva, se l’io trascendentale può essere visto come l’essere-per-sé dell’io naturale, l’io fenomenologizzante rappresenta un ulteriore grado7 della riflessione, realizzando il “trascendentale divenire-per-sé di un trascendentale divenireper-sé” (Fink 2009, p. 27; ed. or. p. 16). Questo “terzo” soggetto costituisce per così dire una “novità” sia rispetto all’io mondano, sia rispetto all’io trascendentale, rivelando come entrambi, lungi dall’essere meramente opposti, siano parte di una medesima tendenza mondana della coscienza trascendentale (internamente articolata nel rapporto tra io trascendentale-costituente e io mondano-costituito), e come, una volta effettuata la riduzione, l’opposizione vada individuata non più – come ancora avviene in Heidegger – tra trascendentale ed empirico, bensì tra la 6 Il termine finkiano originale “Verlegenheit” (ed. or. p. 121), traducibile anche con “imbarazzo”, rende ancor meglio l’idea di quanto sia cruciale tale domanda. Non a caso, nella conferenza del 1935 intitolata L’idea di una filosofia trascendentale in Kant e nella fenomenologia, Fink definisce la riduzione fenomenologica come il “problema più frainteso della fenomenologia” (Fink 1976, p. 41). 7 Ciò pone il problema del possibile regressus ad infinitum della riflessione. Tuttavia, come notano sia van Kerckhoven sia Sepp, parafrasando Fink, l’iterazione della riflessione “non tocca affatto il contenuto reale di ciò che essa mette in gioco” (van Kerckhoven 1998, p. 322), in quanto l’autoriflessione viene in questo caso effettuata dopo la riduzione e nell’ambito di questa, e dunque si distingue dalla riflessione psicologica in quanto i due soggetti – quello riflettente e quello riflesso – non appartengono alla medesima connessione vitale, dal momento che, con l’epoche, è stato neutralizzato anche il soggetto. Nella riflessione psicologica, invece, la riflessione è della stessa sostanza dell’atto psichico riflesso, in quello che Fink descrive eloquentemente come un “monismo” d’essere. Inoltre non si tratta più di coscienza tematica; la riflessione non deve essere intesa come un’autoobiettivazione ma, piuttosto, in termini performativi (Cf. Bruzina 2004, p. 502).

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tendenza trascendentale-mondana e la tendenza trascendentale in senso proprio (o riflessiva), ossia tra il soggetto della costituzione del mondo e il soggetto fenomenologizzante, che di tale attività costituente rappresenta la tematizzazione e il pervenire ad autocoscienza: Orbene, la riduzione fenomenologica significa il risveglio di una tendenza trascendentale che in qualche misura va contro il treno di vita diretto sul termine teleologico e l’incanto dell’universo-mondo; cioè una tendenza all’autochiarificazione, alla domanda riflessa teoretica che, dai prodotti terminali della costituzione, risale alle fonti della donazione di senso costitutiva (Fink 2009, p. 111; ed. or. p. 119).

Da un lato, dunque, abbiamo la spinta trascendentale alla costituzione del mondo e all’“autocostituzione del soggetto trascendentale” nell’io umano (Fink 2009, p. 110; ed. or. p. 117) tramite quella che Fink chiama mondanizzazione “primaria o autentica” (“eigentliche oder primäre Verweltlichung”), contrapposta a quella “secondaria o inautentica” (“uneigentliche oder sekundäre Verweltlichung”), della quale diremo più avanti8. Dall’altro a tale spinta fa da contraltare, nella riduzione, una simultanea tendenza alla riflessione e alla de-umanizzazione (“Ent-menschung”). L’esperienza conoscitiva dell’io fenomenologizzante ha così per tema il “non-essere” trascendentale, che in tale conoscenza viene obiettivato, “ontificato”: “L’esperienza teorica dello spettatore fenomenologico ontifica i processi vitali ‘preessenti’ della soggettività trascendentale”9 (Fink 2009, p. 83-84; ed. or. p. 85-86). In un certo senso, l’io fenomenologizzante come esponente della riduzione sta all’io trascendentale costituente come quest’ultimo sta all’io empirico dell’atteggiamento naturale; la differenza è che, nell’ultimo caso, si 8 Fink denomina “mondanizzazione primaria” il processo costitutivo che termina nel mondo come insieme dei prodotti della costituzione trascendentale (cf. Fink 2009, p. 103; ed. or. p. 108). Come si vedrà, è proprio la “figura” dello spettatore trascendentale oggetto di queste pagine a chiamare in causa la “mondanizzazione secondaria”, che Fink introduce come segue, mostrando il nesso che la connette strettamente a quella primaria: “La mondanizzazione dell’io costituente a uomo nel mondo, la costituzione delle sue ‘autoappercezioni’ l’abbiamo già chiamato la mondanizzazione autentica o primaria. Si tratta di un’attività trascendental-costitutiva; l’io costituente si mondanizza attraverso proprie operazioni di costituzione attiva. Queste trascinano con sé l’io spettatore fenomenologicamente teorizzante in una mondanizzazione che, in esso non poggiando su un’attività propria, diventa una mondanizzazione inautentica e apparente. Il fenomenologizzare diventa ‘apparizione’ […] il fenomenologizzare diventa una scienza nel mondo” (Fink 2009, p. 111-112; ed. or. p. 119-120). 9 In tale ontificazione risiede la produttività specifica del conoscere fenomenologizzante, che Fink paragona all’intuizione intellettuale dell’idealismo tedesco (Fink 2009, p. 84; ed. or. p. 86).

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tratta non di due soggetti diversi, ma di due diverse “tendenze” all’interno della vita trascendentale, nelle quali si esprime e si articola un medesimo Assoluto fenomenologico: se l’Assoluto prima della riduzione è concepito come unità di “essere” (i prodotti “ontici” della costituzione trascendentale) e “pre-essere” (la vita costituente pre-ontica), mondo e costituzione cosmogonica, l’Assoluto dopo la riduzione consta della tendenza costituente e della tendenza trascendental-riflessiva. A questo proposito, Fink parla di una coincidenza degli opposti in senso non-ontico, poiché non-ontica è innanzitutto l’opposizione. Per questo motivo, i concetti hegeliani di dialettica e Assoluto valgono qui in senso esclusivamente analogico-strumentale: ciò che si ha di mira è “l’unità inglobante della vita trascendentale” (van Kerckhoven 1998, p. 471). Come afferma Fink, “al di là di ogni ‘opposizione d’essere’, l’io fenomenologizzante sta pur sempre in una unità vitale trascendentale con l’io costituente; e lo ‘spettatore’ è alla fin fine pur sempre […] un io di riflessione espulso dalla vita costitutiva” (Fink 2009, p. 111; ed. or. p. 119). Allo stesso modo, la contraddizione apparente tra le due tesi “l’uomo fenomenologizza” e “l’ego trascendentale fenomenologizza” è tolta e conservata nell’assoluta verità dialettica per cui il fenomenologizzare è un movimento conoscitivo dell’assoluto: Come l’assoluto “essente-in-sé” è l’unità di “essere” e “pre-essere” (costituente), così anche il divenire-per-sé dell’assoluto è mondanamente essente in quanto filosofare umano, così come “trascendentalmente essente”, come azione conoscitiva dello spettatore fenomenologico (Fink 2009, p. 149; ed. or. p. 167).

Non si tratta insomma di scegliere tra io empirico e io trascendentale, ipostatizzando i termini dell’opposizione e risolvendo idealisticamente il primo io nel secondo, o, altrettanto unilateralmente, affermando con Heidegger la priorità dell’esistenza sulla coscienza, con il risultato di subordinare la costituzione all’essere-nel-mondo10. Come già abbiamo accennato e come cercheremo di mostrare nel prossimo paragrafo, a partire dagli anni Quaranta tale dialettica subisce per così dire uno “slittamento” dal piano trascendentale a quello cosmologico: l’opposizione trascendentale tra tendenza costituente e tendenza riflessiva viene “sostituita” dalla – ma sarebbe meglio dire “riformulata” come – differenza cosmologica tra “Welt” e “binnenweltliches Seiende”, laddove dal lato di quest’ultimo, dell’ente intramondano appunto, troviamo i risultati costitutivi 10 Come afferma Sebastian Luft, “nella misura in cui Fink identifica il mondo costituito con l’essere e la trascendentalità costituente con il pre-essere, egli rigetta come inappropriato il concetto di “essere assoluto”; ciò che egli designa come l’“Assoluto” è, piuttosto, l’unità dialettica e provvisoria dei momenti” (Luft 2002, p. 296).

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della coscienza trascendentale e questa stessa in quanto è a sua volta un ente, mentre dal lato del mondo si dà da pensare l’origine abissale, pre-soggettiva e pre-oggettiva, di ogni costituzione. Se, negli scritti degli anni Trenta, questa veniva concepita, sulla scorta di Husserl, ancora come attività soggettiva egologica – malgrado il ricorso alla meontica e l’accento posto sulla Entmenschung, nonché i vari tentativi della fenomenologia costruttiva di pervenire a una problematizzazione del rapporto tra Assoluto e intersoggettività monadica trascendentale (rimasti incompiuti e culminanti nell’ipotesi di un Assoluto originariamente plurale e intersoggettivo11) – ora essa viene a configurarsi come un processo dichiaratamente asoggettivo, appunto cosmologico. In questo passaggio si compie non soltanto una presa di distanza da Husserl, ma anche da Heidegger, nel momento in cui la filosofia cosmologica del “secondo Fink” si configura come la realizzazione coerente di quella “filosofia meontica dello spirito assoluto” cui egli accennava in senso esclusivamente metodologico nella Sesta Meditazione: il riferimento allo Spirito – ancora soggettivistico e intriso di motivi idealistico-trascendentali – cade lasciando il posto al Mondo come dialettica di soggetto e oggetto, spirito e natura, libertà e necessità, con quella che può essere descritta come una desoggettivazione e una de-ontologizzazione dell’Assoluto hegeliano.

II. L’esito cosmologico della riduzione fenomenologica: oltre Husserl e Heidegger Se, a partire dal dopoguerra, Fink abbandonerà le tematiche costitutive, affermando prima di Merleau-Ponty l’irriducibilità della tesi di esistenza del mondo e l’impossibilità di un’epoche totale, svincolando inoltre il mondo dal fenomeno d’orizzonte, noi riteniamo che tale passaggio dal trascendentale al cosmologico sia reso possibile da una sostanziale analogia tra costituzione trascendentale e divenire cosmogonico, nel senso che quest’ultimo è pensato sul modello della prima, e comunque sempre a partire da una problematizzazione meontica dell’origine e da una concezione dialettica dell’Assoluto, sempre visto più come divenire e processo, che non come soggetto metafisico. La produzione dell’esponente di riflessione opera per così dire uno “sfondamento” della vita trascendentale, rivelando un’ulteriore dimensione fondativa alle spalle dell’essere trascendentale e della totalità dell’ente (il mondo) come correlato della costituzione. La distanza dalla prospettiva ontico-soggettiva di Husserl contiene dunque già implicitamente quella da Heidegger, che diventerà poi esplicita nel Colloquio di Muggenbrunn (1952) e nel Seminario su Eraclito (1966/1967). 11

Cf. Fink 2009, p. 144 ed. or. p. 160.

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Michele Pacifico

Le tre “mani” dell’economia

Celui qui n’a pas vécu au dix-huitième siècle avant la Révolution ne connaît pas la douceur de vivre et ne peut imaginer ce qu’il peut y avoir de bonheur dans la vie. C'est le siècle qui a forgé toutes les armes victorieuses contre cet insaisissable adversaire qu’on appelle l’ennui. L’Amour, la Poésie, la Musique, le Théâtre, la Peinture, l’Architecture, la Cour, les Salons, les Parcs et les Jardins, la Gastronomie, les Lettres, les Arts, les Sciences, tout concourait à la satisfaction des appétits physiques, intellectuels et même moraux, au raffinement de toutes les voluptés, de toutes les élégances et de tous les plaisirs. L’existence était si bien remplie qui si le dix-septième siècle a été le Grand Siècle des gloires, le dix-huitième a été celui des indigestions.1

Questa riflessione, attribuita al principe Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, sintetizza molto bene il punto di vista della classe dominante non soltanto in Francia, ma in tutta l’Europa alla fine del XVIII secolo, poco prima che l’intero quadro sociale fosse sconvolto fin nelle sue più profonde radici dalla Rivoluzione francese. Dalla “douceur de vivre” erano escluse non soltanto le masse popolari, i lavoratori della terra e delle miniere, gli operai delle prime industrie manifatturiere che stavano nascendo, ma anche quanti appartenevano agli strati sociali che si collocavano appena al di sotto di quello, eccelso, al quale apparteneva Talleyrand. Il sistema sociale era congelato in strutture rigide e soffocanti, completamente inadeguate a favorire lo sviluppo dell’economia: tipico del periodo che precedette la Rivoluzione fu un susseguirsi di crisi economiche violente e apparentemente ingestibili, caratterizzate da improvvise carenze di generi alimentari di base, in particolare il frumento e il granoturco.

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La Confession de Talleyrand, V, 1-5; Mémoires du Prince de Talleyrand; Parigi, L. Sauvaitre, p. 25.

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Nel sistema sociale europeo del XVIII secolo tutte le attività economiche erano soggette a vincoli pesantissimi, basati su leggi e regolamenti arcaici, di origine medievale e resi sempre più vincolanti e vessatori col passare dei secoli. Qualsiasi genere di commercio era soggetto a vincoli durissimi imposti dalle autorità locali o da quella centrale dello stato: i mercati erano consentiti soltanto in periodi e luoghi determinati, con pene severissime per chi non rispettava quelle disposizioni. Oltre allo stato centrale e alle amministrazioni locali gravava sull’esercizio delle attività economiche un forte sistema di vincoli imposto da quelle che si potrebbero considerare “associazioni di categoria”, chiamate “guilde” in Inghilterra e “jurande” in Francia, che avevano il monopolio assoluto sul settore nel quale operavano. Un esempio illuminante è quello del commercio della lana: in Inghilterra gli imprenditori della lana avevano ottenuto non solo la proibizione assoluta dell’importazione di tessuti di lana, ma anche il divieto dell’esportazione di pecore, agnelli e arieti vivi, per prevenire lo sviluppo di attività laniere concorrenti all’estero. Le pene per infrazioni in materia erano di una severità draconiana: chi fosse giudicato colpevole di esportazione di ovini per la prima volta veniva espropriato di tutti i suoi beni, imprigionato per un anno e alla fine di quell’anno gli si tagliava la mano sinistra sulla pubblica piazza in un giorno di mercato; una eventuale seconda condanna comportava la pena di morte. Qualunque attività esercitata pubblicamente era soggetta ad autorizzazioni, a volte arbitrarie e basate più sull’umore di chi autorizzava che su leggi o norme prestabilite e uguali per tutti. Per pubblicare un libro o un giornale si doveva ottenere un permesso particolare, che in molti casi dipendeva dall’autorità ecclesiastica, che esercitava un suo potere di censura religiosa. I ricavi dalle vendite di libri erano assoggettati a una tassa speciale, che andava pagata al Re, da cui il termine royalties che si usa ancora oggi per riferirsi al corrispettivo economico dei diritti d’autore Il problema era reso ancora più grave dal fatto che non era disponibile un modello interpretativo del sistema economico che consentisse di capirlo e di governarlo con qualche speranza di successo. Non mancavano le forze intellettuali adeguate per affrontare il problema e cercarne una soluzione: i pensatori di quel periodo, non a caso detto “il secolo dei Lumi”, erano numerosi e ben qualificati, come sappiamo, e non erano pochi quelli che si dedicavano allo studio dell’economia, per cercare di capirne le caratteristiche più salienti e individuare possibili soluzioni ai gravi problemi che andavano progressivamente manifestandosi. 146


La mano invisibile di Adam Smith Tra gli illuministi che hanno dedicato un maggior impegno intellettuale al tema dell’economia e della società vista in quel contesto spicca Adam Smith, che nasce nel 1723 a Kirkcaldy, in Scozia e muore nel 1790 a Edinburgh, dopo aver dedicato la sua non lunga vita esclusivamente agli studi, praticati dapprima come accademico e negli ultimi anni come uomo di cultura, mentre ricopriva l’incarico di direttore delle dogane scozzesi. Non fu autore di molte opere, ma una in particolare, pubblicata nel fatidico 1776, proprio l’anno della Dichiarazione di indipendenza dei coloni inglesi in America, lo ha reso giustamente famoso: stiamo parlando di An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, che nella sua prima edizione si sviluppava in due volumi da poco più di 500 pagine l’uno. Quest’opera, chiamata in seguito più concisamente The Wealth of Nations, è al tempo stesso il punto di arrivo e quello di partenza del pensiero economico moderno e rappresenta per questa disciplina ciò che ha rappresentato Il Principe di Machiavelli per la politica. Nella sua ricerca Smith raccoglie una quantità importante di dati e osservazioni critiche sul funzionamento dell’economia del suo tempo, un periodo nel quale stava muovendo faticosamente i suoi primi passi la rivoluzione industriale, proponendosi di individuare e spiegare la natura della ricchezza delle nazioni e le cause che la determinano. Secondo Smith, gli eventi hanno cause al tempo stesso esterne e interne, vale a dire cause che hanno a che fare con le circostanze e cause che hanno a che fare con i sentimenti. Gli storici moderni, egli sosteneva, trascurando le cause interne, producono scritti per lo più noiosi e privi di vita. Gli storici antichi, come Tacito, per esempio, si dedicavano, per contrasto, ai sentimenti e alle tempeste spirituali degli individui ovvero dei moti dell’animo umano. Tacito, così ipotizzava Smith, intendeva raccontare la storia degli eventi pubblici guidando i lettori nei sentimenti e nelle menti degli attori. “Una storia del genere, forse non aspira molto a renderci edotti sulle cause degli eventi eppure è più interessante e ci porta a una scienza non meno utile, la conoscenza dei motivi in base ai quali gli uomini agiscono”.2 Ciò che spinge gli uomini ad agire è il proprio tornaconto personale, perseguito nel contesto della società in cui vivono: L’uomo ha un bisogno quasi costante dell’aiuto dei suoi simili, ed invano se l’aspetterebbe soltanto dalla loro benevolenza. Potrà più probabilmente riuscirci se può indirizzare il loro egoismo a suo favore, e mostrare che per loro è vantaggioso fare ciò che egli richiede. Chiunque propone a un altro una transazione di 2 Dalle note degli studenti raccolte durante le lezioni di A. S. nel 1762-63 alla University of Glasgow.

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qualsiasi specie, procede così. Un’offerta del genere significa: dammi ciò di cui ho bisogno e avrai questo che ti occorre. In questo modo otteniamo dagli altri la massima parte dei servizi di cui abbiamo bisogno. Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità.3

La caratteristica determinante dell’economia, quindi, è il principio della divisione del lavoro, che si manifesta a tutti i livelli sociali, consentendo a ciascuno di dare quello che può in cambio di ciò che gli serve. Tutto ciò che impedisce la divisione del lavoro rappresenta un ostacolo più o meno grave per lo sviluppo degli scambi economici ed è considerato da Smith come vessatorio e iniquo, causa di povertà e di carestie. I concetti profondamente innovativi introdotti da Adam Smith nel pensiero economico del suo tempo sono: il lavoro come generatore di ricchezza, la differenza fra valore d’uso e valore di scambio, l’equilibrio fra domanda e offerta (mano invisibile). Partendo dall’esempio della fabbricazione degli spilli, che diventa molto produttiva quando il procedimento è articolato in passi separati e specializzati, Smith argomenta che – grazie alla divisione del lavoro – la specializzazione di ogni singolo lavoratore aumenta la sua abilità manuale, riduce i tempi morti per passare da un’operazione alla successiva, crea una domanda di macchinari ausiliari per produrre maggiori volumi nell’unità di tempo. L’importanza attribuita al lavoro fonda un concetto importante: il valore non esiste in natura, ma viene creato col lavoro. La divisione del lavoro sviluppata a livello di imprese – ciascuna specializzata nel fabbricare qualcosa nella quale eccelle – induce allo scambio fra le imprese, creando così il mercato. Con la divisione del lavoro nasce un problema di coordinamento tra i vari imprenditori. Ciascuno produce una merce o un gruppo di merci, e per farlo deve cedere almeno una parte di quanto ha prodotto in cambio dei mezzi di produzione che servono per continuare l’attività. Il mercato è il contesto che fa in modo che le forze spontanee della concorrenza assicurino questo coordinamento, per cui le quantità prodotte dall’insieme delle imprese che operano in ciascun settore corrispondono all’incirca alle quantità richieste dagli acquirenti. All’interno del mercato agiscono le variazioni dei “prezzi di mercato”, cioè dei prezzi effettivi ai quali si verificano gli scambi. 3

La ricchezza delle nazioni, Libro I, Capitolo II, “Il principio che determina la divisione del lavoro”.

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In situazioni di squilibrio, i prezzi si muovono in modo da indurre acquirenti e produttori a modificare i loro comportamenti spingendo il sistema economico verso l’equilibrio. Quando per una merce la domanda supera l’offerta, la concorrenza tra gli acquirenti che rischiano di restare insoddisfatti spinge il prezzo di mercato verso l’alto. Viceversa, quando l’offerta supera la domanda, la concorrenza tra i produttori che rischiano di non riuscire a vendere la propria merce spinge il prezzo verso il basso. I meccanismi di mercato operano come una “mano invisibile” che guida l’economia in modo da assicurare quel benessere materiale che è precondizione indispensabile per una vita civile. Il concetto di “mano invisibile” è stato estrapolato e ingigantito dai successori di Smith per basare su di esso il liberalismo classico. Per James Tobin, premio Nobel per l’economia nel 1981, “è una delle grandi idee della storia e una delle più influenti”.4 L’espressione “invisible hand” compare soltanto tre volte in tutta la produzione intellettuale di Adam Smith, e specificamente in tre distinte opere: A History of Astronomy (scritta verso il 1750 ma pubblicata dopo la sua morte, The Theory of Moral Sentiments e The Wealth of Nations. In ciascuna di queste opere il concetto è formulato con poche parole, senza ulteriori approfondimenti. La prima volta che l’espressione “mano invisibile” compare nei suoi scritti è nella History of Astronomy (1750), dove parla sardonicamente della credulità dei popoli delle società politeiste, che attribuiscono gli eventi irregolari della natura, quali fulmini e tempeste, a “esseri intelligenti ma invisibili, quali dei, demoni, streghe, geni, fate.” Quanto a ciò che accade normalmente, non è previsto un intervento divino: “Il fuoco brucia e l’acqua rinfresca; i corpi pesanti vanno verso il basso e le sostanze leggere si librano verso l’alto, a causa della loro stessa natura e la mano invisibile di Giove non è mai stata considerata come causa di questi eventi”. La seconda volta Smith parla di “mano invisibile” nella Theory of Moral Sentiments, che è del 1759. Anche in questo caso il riferimento è sardonico: Certi ricchi proprietari, del tutto indifferenti all’umanità e alla giustizia, spinti da un egoismo e da una rapacità che sono per loro naturali perseguono soltanto i loro vani e insaziabili desideri. A questo scopo, però, impiegano migliaia di lavoratori poveri per produrre beni di lusso.

4

J- Tobin, The Invisible Hand in Modern Macroeconomics, in: Adam Smith's Legacy: His Place in the Development of Modern Economics, c/ di Michael Fry, London, Routledge 1992.

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Così facendo: Sono guidati da una mano invisibile a far progredire l’interesse della società senza volerlo fare e senza saperlo.

La terza e ultima volta che il concetto di “mano invisibile” viene formulato è in The Wealth of Nations: Ma il reddito annuale di ogni società è sempre esattamente uguale al valore di scambio di tutto il prodotto annuale della sua industria, o meglio si identifica esattamente con quel valore di scambio. Perciò, cercando per quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell’industria interna e di indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore, ogni individuo contribuisce necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della società. Invero, generalmente egli né intende promuovere l’interesse pubblico né sa quanto lo promuova, preferendo sostenere l’industria interna anziché l'industria straniera, egli mira soltanto alla sua sicurezza; e dirigendo quell’industria in modo tale che il suo prodotto possa avere il massimo valore egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in molti altri casi, egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. Né per la società è sempre un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intenda realmente promuoverlo.

L’idea della mano invisibile si può articolare in tre concetti principali: 1) le azioni di ogni individuo hanno conseguenze non intenzionali; 2) esiste un ordine ovvero una coerenza negli eventi; 3) le conseguenze non intenzionali delle azioni individuali talvolta promuovono gli interessi delle società. Se la mano invisibile fosse una metafora della divina provvidenza, che tutto sistema e risolve ispirata da un suo imperscrutabile disegno, saremmo agli antipodi del pensiero illuminista di Smith. Quello che Smith in realtà intende è che può esistere un ordine senza che vi sia un disegno o un progetto: una società può prosperare senza essere condotta da un sovrano che vede tutto, nello stesso modo in cui l’universo può avere un ordine senza essere guidato da un onnipotente e saggissimo architetto. L’ipotesi della mano invisibile dà un fondamento all’idea che le iniziative economiche individuali possono avere successo e promuovere gli interessi della società senza che si debba assoggettarle alle direttive di sovrani e legislatori. È questa lettura della “mano invisibile” che è stata esaltata nel pensiero economico del ventesimo secolo, andando ben oltre le intenzioni dello stesso 150


Smith, finendo per far coincidere la mano invisibile con l’insieme delle forze che operano nel mercato.

La “mano visibile” di A.D. Chandler jr. Alfred D. Chandler Jr. (1918-2007) è uno studioso americano di storia economica che ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza e alla comprensione della realtà industriale dei secoli XIX e XX. Prima di lui la storia delle imprese industriali si riduceva a trionfalistici resoconti promossi dagli uffici stampa delle imprese stesse o a libelli di denuncia ispirati dalle lotte politiche e sindacali. Professore di Business History prima al Massachusetts Institute of Technology e successivamente alla Harvard Business School, Chandler ha sviluppato ricerche di eccezionale importanza e originalità sullo sviluppo delle grandi imprese negli Stati Uniti e in Europa. Le sue opere di maggior rilievo sono: 1) Strategy and Structure. Chapters in the History of Industrial Enterprise (1962); 2) The Visible Hand. The Managerial Revolution in American Business (1977); 3) Scale and Scope. The Dynamics of Industrial Capitalism (1990), tradotte e pubblicate in Italia rispettivamente con i titoli seguenti: 1) Strategia e struttura. Storia della grande impresa americana; Milano, Franco Angeli, 1987; 2) La mano visibile. La rivoluzione manageriale nell'economia americana; Milano, Franco Angeli, 1981; 3) Dimensione e diversificazione. Le dinamiche del capitalismo industriale; Bologna, Il Mulino, 1994. Attivo come studioso e docente fino al termine di una vita lunga e confortata da buona salute, nei suoi ultimi anni ha prodotto due ricerche di grande valore: Inventing the Electronic Century: The Epic Story of the Consumer Electronics and Computer Industries (2001); Shaping the Industrial Century: The Remarkable Story of the Evolution of the Modern Chemical and Pharmaceutical Industries (2004). Chi scrive ha avuto il privilegio di tradurre in italiano il primo di questi due ultimi lavori, che è stato pubblicato nel 2003 col titolo: La rivoluzione elettronica. I protagonisti della storia dell'elettronica e dell'informatica. L’opera che ha reso famoso Chandler anche fuori dal mondo accademico è stato The Visible Hand. The Managerial Revolution in American Business pubblicato nel 1977 e che vinse anche il Premio Pulitzer. Il titolo si riferiva deliberatamente alla “mano invisibile” di Adam Smith alla quale contrapponeva una “mano visibile”, concreta e tangibile, composta dall’insieme delle grandi imprese industriali che si erano sviluppate negli USA a partire dalla seconda metà del XIX secolo. 151


Storia della Scienza Antica & Epistemologia delle Scienze Umane Questa “rubrica tematica” è stata finora dedicata alla ripubblicazione delle opere di Paola E. Manuli in accordo con la Associazione Paola Eliana Manuli – per lo studio della Storia della Medicina Antica e dell’Epistemologia delle Scienze Umane (PEM). Ma essa è già, e resterà, aperta a qualsiasi collaborazione competente su queste materie, la storia delle quali tocca l’attualità e reca indelebile il segno dell’antica paideia.

Fiorenza Bevilacqua, Alcesti ed Euridice: due figure del mito in parallelo. I. A partire da Platone... In verità solo gli amanti sono disposti a morire per gli amati, e non solo gli uomini ma anche le donne. Ne offre eloquente testimonianza agli Elleni, in difesa del mio ragionamento, Alcesti figlia di Pelia, la quale accettò lei sola di morire al posto del suo sposo, che pure aveva padre e madre: Alcesti, ispirata dall’amore, a tal punto li superò nell’affetto, da farli apparire come estranei al proprio figlio e a lui congiunti soltanto nel nome; e per questo suo atto non solo gli uomini ma anche gli dèi compresero che si era comportata così nobilmente che, per quanto varie e belle azioni altri avesse compiuto, a ben pochi gli dèi accordarono il privilegio di ricondurre la propria anima su dall’Ade, ma l’anima di Alcesti la lasciarono tornare, ammirati dal suo gesto: a tal segno anche gli dèi onorano lo slancio e la virtù d’amore! Orfeo invece, il figlio di Eagro, lo rimandarono a mani vuote dall’Ade, dopo avergli mostrato un fantasma della donna per la quale era venuto, ma senza restituirgli lei in persona, dal momento che si era mostrato imbelle, citaredo qual era, e non aveva osato morire per amore al pari di Alcesti, quanto piuttosto aveva cercato di escogitare il modo per scendere vivo all’Ade. Per questa ragione lo punirono, facendolo morire per mano di donne (Platone, Symp., 179b-e, tr. it. F. Ferrari)1.

1 Platone, Simposio, introduzione di V. Di Benedetto, premessa al testo, traduzione e note di F. Ferrari, BUR, Milano 1985.

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Qui, per la prima volta2, nel discorso di Fedro, vengono esplicitamente messe a raffronto due vicende mitiche, due figure del mito, Alcesti ed Euridice. In realtà, il confronto istituito da Platone non è tra Alcesti ed Euridice, bensì tra Alcesti e Orfeo, a tutto vantaggio di Alcesti che, a differenza di Orfeo, aveva accettato di morire per amore e, quindi, a differenza di Orfeo, viene ricompensata dagli dèi che le concedono di ritornare alla vita. Tuttavia è indubbio che, se guardiamo alle due vicende, un raffronto ancora più interessante si può istituire tra le due figure femminili, Alcesti ed Euridice: entrambe infatti muoiono, in entrambi i casi l’eros gioca un ruolo fondamentale nella loro storia, mentre diverso è l’esito a cui andranno incontro: un happy end per Alcesti, un tragico ripiombare nell’Ade per Euridice. Possiamo notare, inoltre, che qui Platone non fa riferimento a quelle che, almeno per noi, sono le due versioni più note del mito, ovvero per Alcesti quella della tragedia euripidea e per Euridice l’indimenticabile versione virgiliana3, oggetto di innumerevoli rifacimenti e rielaborazioni, da Ovidio4 a Rilke5 passando per Monteverdi6. Queste due versioni sono quelle divenute canoniche nella cultura occidentale: come per il mito di Edipo la versione che tutti conosciamo, a cui tutti facciamo riferimento, è quella consacrata dall’Edipo re di Sofocle, così per Alcesti la versione che tutti abbiamo in mente è quella dell’Alcesti euripidea e per Euridice quella delle Georgiche virgiliane7. Pertanto sono questi due testi e le versioni del mito che essi presentano a costituire il punto di partenza del mio lavoro; quindi prenderò brevemente in esame quello che, a mio avviso, è uno straordinario, spiazzante rifacimento della vicenda di Orfeo ed 2

In realtà un primo raffronto, sia pure parziale e incompleto dato che la vicenda è ancora in fase di svolgimento, si legge proprio nell’Alcesti di Euripide, quando Admeto, nell’ultimo colloquio con Alcesti, afferma che se avesse la voce e il canto di Orfeo per poter scendere nell’Ade, incantare la figlia di Demetra e il suo sposo, e strappare all’Ade Alcesti, lo farebbe (Alc., 357-360). Sembra evidente che qui Admeto alluda a una versione in cui la catabasi di Orfeo era coronata dal successo: cf. infra, n. 24. 3 La vicenda di Alcesti nella versione offerta dalla tragedia euripidea era comunque, quasi certamente, nota a Platone (l’Alcesti, come è noto, fu rappresentata per la prima volta nel 438 a. C.). Quanto alla vicenda di Orfeo ed Euridice, la versione che ci presenta Platone, pur sensibilmente diversa da quella che sarà la narrazione virgiliana, è incentrata anch’essa sull’esito negativo e distruttivo della catabasi di Orfeo. 4 Ovidio, Metamorfosi, X, 1-85 e XI, 1-66. 5 R. M. Rilke, Orpheus. Eurydike. Hermes e Die Sonette an Orpheus: vedi in proposito C. Segal, Orpheus. The Myth of the Poet, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1989, p. 118-154 (Orfeo. Il mito del poeta, tr. it. D. Morante, Einaudi, Torino 1995, p. 163205). Una sintetica panoramica delle rivisitazioni del mito di Orfeo dall’antichità a oggi si può leggere nel capitolo successivo di questo saggio ormai classico (p. 155-198 nell’originale, p. 207-266 nella tr. it.). 6 L’Orfeo, rappresentato per la prima volta a Mantova il 24 febbraio 1607. 7 Virgilio, Georgiche, IV, 453-527.

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Euridice, il breve dialogo L’inconsolabile, che, come è noto, è uno dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese; infine mi propongo di esporre come L’inconsolabile, in virtù del parallelismo tra Euridice e Alcesti, possa fornirci, sia pure in modo mediato e indiretto, delle interessanti indicazioni per una rilettura del finale dell’Alcesti di Euripide e quindi, in ultima analisi, dell’intera tragedia. Ma innanzi tutto mi sento tenuta a chiarire un punto che potrebbe ingenerare indebiti equivoci: la rilettura dell’Alcesti che tenterò di delineare, partendo dalle suggestioni de L’inconsolabile, è una rilettura che possiamo elaborare noi, oggi, alla luce di un testo a noi così vicino (non solo cronologicamente) quale è appunto L’inconsolabile. Si tratta per altro di una interpretazione a cui la tragedia di Euripide, così complessa e dibattuta, deve comunque offrire qualche spunto, qualche elemento, qualche indizio che rendano plausibile una simile rilettura almeno per noi, oggi. Non esito però ad aggiungere di essere convinta che, almeno in parte, il dialogo di Pavese possa aiutarci a delineare una diversa chiave di lettura dell’Alcesti non solo valida ai nostri occhi, ma anche rispettosa di ciò che Euripide intendeva dire e di ciò che il suo pubblico verosimilmente poteva comprendere: in altri termini ritengo che una riflessione su L’inconsolabile possa dare vita anche a una nuova interpretazione dell’Alcesti filologicamente fondata. Una interpretazione che, tuttavia, mi riservo di affrontare più compiutamente e dettagliatamente in un altro momento e in un’altra sede: qui mi limiterò a evidenziare alcuni passi e alcuni aspetti dell’Alcesti che, quanto meno, suscitano seri dubbi e ineludibili interrogativi sul suo preteso happy end, e quindi a cercare di prospettare una diversa chiave di lettura dell’intera tragedia8. Ma prima di procedere in questo senso, mi preme fare una precisazione di metodo, che forse potrebbe apparire superflua, ma che ritengo tuttavia opportuna per evitare qualsiasi equivoco. Di fronte a un’opera letteraria (ma, in ultima analisi, di fronte a qualsiasi opera d’arte) possiamo spenderci in due diversi tipi di lettura, entrambi necessari, entrambi ugualmente preziosi. In primo luogo una lettura di tipo rigorosamente filologico, basata su un’analisi puntuale di quel testo, che tenga conto anche delle altre opere dell’autore, della sua poetica (esplicita o implicita), delle sue convinzioni (filosofiche, religiose, ecc.), del suo pubblico, delle convenzioni di quello specifico genere letterario, del contesto contesto storico e culturale 8 Cf. F. Blaise, L’Alcesti di Euripide: non si scherza con la morte (tr. di D. Francobandiera), in: “Annali Online dell’Università degli Studi di Ferrara – Lettere”, III/ 2 (2008), p. 32-53. La studiosa, pur muovendo da presupposti in parte diversi da quelli che intendo sviluppare, argomenta in modo persuasivo che il lieto fine dell’Alcesti è meramente apparente. L’articolo risulta pregevole anche perché offre preliminarmente (p. 32-35) una rapida panoramica, con relative indicazioni bibliografiche, dello status quaestionis relativo al finale dell’Alcesti e alla pretesa natura non-tragica di questo dramma.

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dell’epoca e via dicendo. Questo genere di lettura mira in sostanza a ricostruire ciò che l’autore si proponeva di esprimere, nonché ciò che il pubblico dell’epoca era in grado di intendere: un messaggio, quindi, in buona parte datato, per così dire, imprigionato in un tempo e in uno spazio ben definito. Naturalmente anche questo tipo di lettura non è né neutrale né oggettivo: risente inevitabilmente della soggettività dell’interprete – sia per le domande stesse che pone al testo, sia per i metodi di approccio – nonché, più in generale, della Weltanschauung dell’epoca in cui l’interprete si trova a vivere. Ma, andando oltre questo genere di lettura, è possibile e lecito anche leggere un testo o una qualsiasi opera d’arte cogliendovi significati, suggestioni, prospettive che sappiamo essere state estranee alle intenzioni dell’autore come agli orizzonti di attesa del suo pubblico: a questo proposito è utile ricordare quanto scriveva Calvino riguardo alla lettura di quei testi che definiva “classici”9. Come è noto, Calvino forniva ben quattordici definizioni che si attagliano a un classico: la definizione 5 recita: “D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura”10, una definizione che Calvino stesso riteneva rinviasse alla formulazione più esplicativa della definizione 7: “I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)”11. Se questo è vero per i classici, per tutti i classici, è ancor più vero per quei classici che nascono da un mito, che narrano o mettono in scena un mito: si pensi, per limitarci a un paio di esempi eclatanti, all’Edipo re o all’Antigone, che noi rileggiamo alla luce non solo delle letture che hanno preceduto la nostra, ma anche di quelle letture che si sono tradotte nelle innumerevoli riscritture, negli innumerevoli rifacimenti dell’Edipo re12 o dell’Antigone13. Il mito, infatti, come è noto, 9 Cf. I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1995 (II ed.). Come è noto si tratta di una raccolta postuma (pubblicata per la prima volta nel 1991 a cura di Esther Calvino, sempre per i tipi della Mondadori) di trentacinque scritti, dedicati ad altrettanti classici, preceduti dal saggio che dà il titolo al volume (p. 5-13). Il saggio in questione era stato pubblicato per la prima volta con il titolo Italiani, vi esorto ai classici, in: “L’Espresso”, 28 giugno 1981, p. 58-68. 10 I. Calvino, Perché leggere i classici, cit., p. 7. 11 Ivi, p. 7-8. 12 Per le innumerevoli riscritture dell’Edipo re mi limito a segnalare due contributi ormai classici: G. Paduano, Lunga storia di Edipo Re, Einaudi, Torino 1994; L. Edmunds, Oedipus, Routledge, New York 2006. 13 Per le altrettanto innumerevoli riscritture dell’Antigone mi limito a indicare un unico, fondamentale contributo: G. Steiner, Antigones. The Antigone Myth in Western Literature, Art and Thought, Oxford University Press, Oxford 1984 (Le Antigoni, tr. it. N. Marini, Garzanti, Milano 1990). Superfluo aggiungere che per un testo teatrale ogni nuova rappresentazione costituisce sempre e comunque una rilettura, una reinterpretazione e, in una qualche misura, anche una rielaborazione, un rifacimento.

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è dotato di questa capacità di rigenerarsi, di dare vita a infinite variazioni, rielaborazioni, nuove versioni. Inoltre, se vogliamo andare oltre un approccio esclusivamente filologico, ogni nuova versione di un mito ci offre una chiave per vedere con occhi diversi anche altre versioni di quello stesso mito, anche versioni più antiche di secoli. Si tratta, dunque, di un processo a spirale: il mito che torna su se stesso per arricchirsi di nuovi significati, per appropriarsi di nuove dimensioni, per aprirci nuovi orizzonti. Ed è proprio nell’ambito di questo processo a spirale che mi propongo, sulla base dei tre testi indicati, di rileggere queste due figure del mito: Alcesti ed Euridice.

II. Alcesti: il folktale e la tragedia. Come si accennava, in Platone l’esito della vicenda di Alcesti è leggermente diverso da quello della tragedia. In Platone, infatti, sono gli dèi dell’Ade che, pieni di ammirazione per il nobile gesto di Alcesti, le concedono di tornare tra i vivi; nella tragedia, invece, è Eracle, ospite e amico di Admeto, che raggiunge Thanatos presso la tomba di Alcesti, lotta con lui, riesce a strappargli Alcesti e la riconduce ad Admeto. Non è da escludersi che Euripide abbia ripreso questo finale da Frinico, che aveva scritto una Alcesti14, anche se non è possibile stabilirlo con certezza. Entrambi i diversi esiti della vicenda di Alcesti li ritroviamo attestati in un tardo mitografo, Apollodoro15. In effetti Apollodoro prima fornisce una versione quasi identica a quella di Platone, con l’unica differenza che, mentre in Platone sono genericamente gli dèi a restituire Alcesti alla vita, qui è Kore a rimandare Alcesti sulla terra16; quindi Apollodoro aggiunge che secondo alcuni fu invece Eracle, dopo aver lottato con Ade, una versione che palesemente allude all’Alcesti di Euripide, anche in questo caso con una 14

Dell’Alcesti di Frinico rimangono soltanto pochi frammenti; a questa tragedia si riferisce verosimilmente Eschilo, Eum., 723-728 (dove si allude al soggiorno di Apollo presso Admeto e all’inganno da lui perpetrato ai danni delle Moire facendole ubriacare) e forse anche Suppl., 214-215, dove si allude a un periodo di esilio di Apollo dall’Olimpo, ma senza alcun cenno ad Admeto. 15 Apollodoro, Bibl., I, 9, 15. Sarebbe più corretto, per altro, parlare di uno Pseudo-Apollodoro, dato che l’opera in questione, la Biblioteca, è molto improbabile che possa essere opera di Apollodoro di Atene: con ogni probabilità si tratta invece di una compilazione redatta da un erudito nel I o nel II secolo d. C. 16 Questa versione del mito sembra per altro affiorare anche nell’Alcesti euripidea: infatti Eracle, non appena apprende la morte di Alcesti, annuncia la sua intenzione di recarsi presso la tomba di Alcesti, di spiare il momento in cui sopraggiungerà Thanatos e di costringerlo a lasciargli Alcesti (Alc., 843-849); quindi aggiunge: “Se poi fallirò questa caccia, perché non verrà alla libagione di sangue, scenderò nelle case senza sole di Ade e di Persefone, e la richiederò: ho piena fiducia di riportarla alla luce” (Alc., 850-854; tr. it. G. Paduano).

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Nili Alon Amit, Anime e fiumi di Eraclito: un nuovo esame dei riferimenti psicologici nel Fedone di Platone Immortali mortali, mortali immortali, la vita di questi è la morte di quelli, la morte di questi è la vita di quelli (Eraclito, fr. 62, Ippolito, Confutazione di tutte le eresie, IX, 10, 6)1. “Cos’è ciò che si genera dal vivo?” “Il morto” egli rispose. “E che cos’è” incalzò Socrate “ciò che si genera dal morto?” “Bisogna ammettere” riconobbe Cebete “che è il vivo”. “Quindi, Cebete, è dai morti che si generano le cose vive e gli esseri viventi?” “Sembra evidente” egli annuì (Platone, Fedone, 71d-e)2.

Il fr. 62 di Eraclito di solito viene letto nel contesto dell’incessante generazione degli opposti o dell’identità degli opposti3. Un’analisi parallela di questo frammento e di Phaed., 71d-e, che esprime la medesima idea della generazione degli opposti all’interno di una serie di argomentazioni sull’immortalità dell’anima4, può gettare nuova luce sulla motivazione di Eraclito in questo frammento, che non discute soltanto lo scambio tra gli opposti, ma si occupa anche dell’anima. L’anima era considerata da Omero in poi come un principio vitale che determina la vita e la morte; il concetto di anima andò incontro a sviluppi con il progresso della filosofia presocratica

 Contributo presentato, nella versione originale inglese, al convegno dell’International Association for Presocratic Studies, Thessaloniki, 30 giugno-4 luglio 2014. 1 Le traduzioni dei frammenti di Eraclito sono, con lievissime modifiche, di G. Reale, dal volume G. Reale (c/ di), I Presocratici, III ed., Bompiani, Milano 2008. 2 Le traduzioni del Fedone sono, con lievissime modifiche, di A. Tagliapietra, dal volume Platone, Fedone, traduzione e cura di A. Tagliapietra, saggio critico di E. Tetamo, Feltrinelli, Milano 1994. 3 Ad es. è messo a confronto con il fr. 6 sul rinnovarsi della vita e con il fr. 88 sull’identità degli opposti da S. Scolnicov, Heracliti et Parmenidis (Hebrew), Mossad Bialik, Jerusalem 1988, p. 98 e 114. 4 Il passaggio del Fedone sopra citato, considerato dagli studiosi come parte dell’argomentazione di Socrate sulla generazione degli opposti (cf. R. Burger, The Phaedo: a Platonic Labyrinth, Yale University Press, New Haven 1984, p. 58-68), è un passaggio chiave nell'ambito della generale costruzione delle argomentazioni di Socrate a sostegno dell'eternità dell'anima e della necessità della cura (epimeleia) dell'anima, in quanto l'anima immortale è nata da ciò che è morto (Phaed., 71d: “dal morto [...] il vivo”) e quanto maggiore è la cura dell'anima durante la vita, tanto più essa diverrà immortale o divina dopo la morte. Vedi ad es.: “Se veramente l'anima è immortale si deve averne cura non solo durante quel lasso di tempo che noi chiamiamo vita, ma per sempre” (Phaed., 107c). Confronta con Eraclito, fr. 68: “Eraclito chiamò i misteri, a giusta ragione, ‘medicine’, in quanto portano rimedi ai mali e liberano le anime dalle sventure connesse con la nascita”. Per una discussione sull’invito di Socrate alla cura dell'anima nel Fedone vedi I. Robins, Phaedo 82d9-84b8: Philosophers' Understanding of the Souls, in: “Apeiron”, XXXVI/1 (2003), p. 1-23.

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(ad es., le furono assegnate le qualità del movimento, della sapienza e altro)5, ma rimase fondamentalmente un principio vitale, pertanto un fattore importante nel fr. 62 su mortali e immortali. Questo mio articolo mette a confronto diversi frammenti di Eraclito relativi all’anima e alla sapienza con passi paralleli presenti nel Fedone di Platone. Basandomi sull’interpretazione generale dei frammenti di Eraclito di C.H. Kahn, incentrata soprattutto sulla psicologia umana e sul suo rapporto con l’unità cosmica6, cercherò di delineare lo sviluppo di queste tematiche nel Fedone, considerato la pietra miliare dei testi classici relativi alla psicologia7. Sebbene il Fedone non faccia esplicito riferimento a Eraclito, daremo per certo (come suggerito in una recente ricerca riguardo alla teoria della generazione degli opposti)8 che Platone utilizzi nel Fedone diverse concezioni psicologiche di Eraclito che erano ancora prevalenti nella sua epoca. Le connessioni tra il Fedone ed Eraclito saranno colte soprattutto per quanto concerne la composizione dell’anima e il raggiungimento della vera sapienza come reazione a un mondo di incessante mutamento. Il Fedone presenta un esplicito tributo ai Presocratici Pitagora (tramite Filolao) e Anassagora e un implicito tributo ad Anassimene, Eraclito, Empedocle e Alcmeone nella menzione degli elementi primi o principi primi (cf. ad es. Phaed., 96b). Il Fedone è noto come il primo esempio, e quello formulato con maggior chiarezza, della teoria platonica delle forme9. Aristotele ha già descritto la teoria delle forme di Platone come una ricerca

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La storia dell’anima in Grecia mostra uno sviluppo – tramite le concezioni presocratiche in cui l’anima viene gradualmente dotata di identità personale e di capacità cognitive – dall’anima omerica come mero principio vitale fino a Socrate e a Platone che attribuiscono all’anima razionalità, emozioni e virtù. Vedi H. Lorenz, Ancient Theories of Soul, in: E. N. Zalta c/ di, Stanford Encyclopedia of Philosophy (estate 2009): vedi in particolare p. 1-10. 6 C. H. Kahn, The Art and Thought of Heraclitus, Cambridge University Press, Cambridge 2001 (I ed. 1979); le argomentazioni sulla centralità della psicologia nell’opera di Eraclito compaiono, ad es., nelle p. 6-9; queste convinzioni erano state esposte per la prima volta in A New Look at Heraclitus, in: “American Philosophical Quarterly”, I/3 (1964), p. 189-203. 7 F. Solmsen vede nel Fedone il miglior esempio dell’impegno di Platone a dimostrare l’eternità dell’anima e l’identificazione dell’anima con una forma platonica: cf. Plato and the Concept of Soul (Psyche): Some Historical Perspectives, in: “Journal of the History of Ideas”, XLIV/3 (1983), p. 359-360. 8 Cf., ad es., T. de Laguna, The Importance of Heraclitus, in: “Philosophical Review”, XXX/3 (1921), p. 249; C.H. Kahn, The Art and Thought, cit., p. 222. Platone si riferisce esplicitamente a Eraclito nel contesto della teoria dell'incessante mutamento in Theaet., 179d; Crat., 402a. Per un’ampia analisi di questi riferimenti vedi M. Colvin, Heraclitean Flux and Unity of the Opposites in Plato's Theaetetus and Cratylus, in: “Classical Quarterly”, LVII/2 (2007), p. 759-769. 9 Cf. A. Silverman, Plato’s Middle Period Metaphysics and Epistemology, in: E. N. Zalta c/ di, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (estate 2012), p. 8-10.

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di essenze stabili in risposta alla teoria di Eraclito dell’incessante mutamento delle cose sensibili: La dottrina delle Idee, nella mente dei suoi primi sostenitori10 sorse come conseguenza della loro accettazione delle dottrine eraclitee della realtà, secondo le quali tutte le cose sensibili sono soggette a un perenne fluire. Pertanto se ci deve essere scienza e conoscenza di qualche cosa, dovranno esistere, oltre quelle sensibili, altre realtà che permangono immutabili (Met., 1078b12-16; tr. it. G. Reale).

Secondo Aristotele, Platone costruì la sua teoria delle forme in opposizione ai presupposti della teoria eraclitea dell’incessante mutamento. Ciò sembra del tutto plausibile se si considerano le argomentazioni e i miti del Fedone come una replica a (e uno sviluppo di) questo incessante mutamento eracliteo, soprattutto nell’argomentazione relativa al mutamento degli opposti e nel mito dei fiumi che scorrono nell’oltretomba (Phaed., 112a114c). Esaminiamo brevemente la teoria dell’anima di Eraclito, focalizzando l’attenzione su tre aspetti fondamentali dell’anima di Eraclito: materia, logos, rapporto anima-corpo, e utilizziamoli come base per un confronto con il Fedone. I frammenti psicologici di Eraclito sembrano trattare materia e metodo come uguali aspetti di un sistema unificato. Ci sono stati studiosi (ad es. R. B. English in un lontano articolo sulla psicologia di Eraclito) che hanno sostenuto che questo filosofo differisce dagli altri Presocratici nella ricerca di un metodo fondamentale invece di una materia fondamentale11, ma generalmente si ammette che materia e metodo sono trattati nella stessa misura nei frammenti12. L’universo di Eraclito si fonda su un eterno ciclo di mutamenti: dal punto di vista fisico si tratta del mutamento del fuoco in acqua e in tempesta (prester: un turbine ardente che contiene tutti i quattro elementi)13, dell’acqua in terra e in aria, e della terra e dell’aria in fuoco14.

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Cf. Met., 987a32-b1: “Platone, infatti, essendo stato fin da giovane amico di Cratilo e seguace delle dottrine eraclitee, secondo le quali tutte quante le cose sensibili sono in continuo flusso e di esse non è possibile scienza, mantenne queste convinzioni anche in seguito” (tr. it. G. Reale). 11 R. B. English, Heraclitus on the Soul, in: “Transactions and Proceedings of the American Philological Association”, XLIV (1913), p. 163. 12 In effetti, dopo aver formulato la tesi citata, English si dedica a descrivere la psicologia di Eraclito come fondata sulla sua concezione cosmologica del mondo (largamente materiale): cf. ibid., p. 163-174. 13 Cf. fr. 30, 31, 76. Nel fr. 31 si legge: “Mutazioni del fuoco: in primo luogo mare, la metà di esso terra, la metà turbine ardente” (tr. it. G. Reale, lievemente modificata). 14 Cf. fr. 76. Riguardo al rapporto degli Stoici con la ekpyrosis vedi J. Barnes, The Presocratic Philosophers, Routledge, New York 1982, p. 61-62.

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