magazzino di filosofia quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia n° 23, anno VIII, 2013/14 (B8): s e g m e n t i (peer review)
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M a g a z z i n o
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F i l o s o f i a
Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia *Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia) *Redazione: Gianvito Brindisi (Napoli), Riccardo Lazzari (Milano), Simone L. Maestrone (Bonn), Alfredo Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Alessandra Rauti (Milano), Giacomo Rinaldi (Urbino), Erasmo S. Storace (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Roberto Valentini (Milano), Fabio A. Volontè (Varese), Alessandra Zambelli (Parigi) *Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano), Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Lorenzo Giacomini (Milano), Santino Maletta (Cosenza), Carlo Montaleone (Milano), Renato Pettoello (Milano), Valeria Pinto (Napoli) *Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina (Lexington, Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello (Milano), Klaus Held (Wuppertal), Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Giovanni Piana (Cosenza), Stefano Poggi (Firenze), Frithjof Rodi (Bochum), Gianni Scalia (Bologna), Franz-Anton Schwarz (Freiburg i.Br.), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven (Bruxelles/ Bochum), Augusta Uccelli (Milano). *Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Jan Bednarich (Gorizia), Simona Bertolini (Parma), Fiorenza Bevilacqua (Milano), Cristina Boracchi (Gallarate), Laura Candiotto (Venezia), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia), Ambrogio Cazzaniga (Milano), Alfredo Civita (Milano), Andrea Cudin (Trieste), Carmine Di Martino (Milano), Miriam Franchella (Milano), Andrea Gilardoni (Milano), Sergio Levi (Milano), Rolando Longobardi (Milano), Pier Giuseppe Milanesi (Pavia), Walter Minella (Pavia), Luca & Mirela Oliva (Chestnut Hill, Ma.), Fabrizio Palombi (Roma), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano), Paolo Volontè (Milano). *Recapiti: email: info@filosofiacontemporanea.it; “Associazione P.E.M”, via Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com; “Riccardo Lazzari” rlazzari@tin.it; “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Rubrica inviare a: Alfredo Marini email: eawqm-
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verum ipsum factum
Sommario Roberto Valentini, Dove tornare: l’inconscio, il Dire e la fonte Sara Mazzotti, Leopardi & Nietzsche (I°. La filologia)
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: Luigi Ceccarini, Il peccato
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CONTAMINAZIONI: Laura Candiotto, La contemporaneità del dialogo socratico antico
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IDEALISMO ITALIANO & IDEALISMO ANGLOSASSONE
Giacomo Rinaldi, Tragedia, riconoscimento e morte di Dio nel pensiero di Robert Williams Giacomo Rinaldi, Carattere e limiti della “filosofia sistematica” di Nicolai Hartmann
119 146
Cinema & Filosofia: Rolando Longobardi, Lo schermo “Neutre”. M. Blanchot nell’interpretazione di M.C. Ropars
179 193
Chiuso in redazione il 31. 07. 2014 da Alfredo Marini
Rivista finanziata dalla
Fondazione Banca del Monte di Lombardia
ISBN: 978-1500806941 ISSN: 1592–5919
Questa rivista prodotta in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, è espressione della ASSOCIAZIONE P.E.M. ñ MEDICINA ANTICA & SCIENZE UMANE (Pavia) Alfredo Marini, v. Emilia 24, 27100 PV, tel. 0382.475098, cell. 328.3208089
Roberto Valentini
Dove tornare: l’Inconscio, il Dire e la fonte
Dove tornare? Si torna sempre dove non si è mai stati; questo ci ha insegnato Lacan mostrando come la ripetizione simbolica sia una designazione del manque essenziale su cui si fonda l’essere dell’uomo, la mancanza ad essere de l’Être, la “colpevole” cancellazione dell’origine da parte del linguaggio – ciò in cui si articola l’economia simbolica – che al contempo la istituisce. Il soggetto, palesatosi solo grazie ad esso (fissandosi come significante), si ricostruisce sempre a posteriori, attraverso una reminiscenza immaginaria, come preesistente a quel che lo ha invece fatto sorgere: eccolo tornare dove non è mai stato. Se dunque ciò significa l’assenza di un soggetto anteriore alla nascita del simbolo e di un oggetto ulteriore alla sua sostituzione linguistica, il simbolico, in cui l’uomo si determina, invece di esserne prodotto è propriamente quella forma di ripetizione originaria e costitutiva grazie a cui l’inconscio cessa di essere un mistero: “l’inconscio diviene anzi ciò che prima di tutto si presenta, nella parola, con un’evidenza quasi palmare, con una chiarezza che sarebbe vano volere pretendere dal reale e dalla coscienza. Il reale permane infatti in uno statuto di sostanziale irraggiungibilità, l’inafferrabilità gnoseologica del mondo esterno che indusse Platone a ricorrere alla reminiscenza per giustificare in qualche modo, contro la scepsi dei Sofisti, la possibilità di una conoscenza”1. Se la reminiscenza della coscienza, fondandosi ancora e solo su se stessa, non può perciò che frammentarsi nei suoi regressi infiniti, solo il linguaggio, che determina soggetto e oggetto trascendendo entrambi, si offre come l’evidenza estrema, quella “della lettera rubata2 che 1
M. Ferraris, Differenze. La filosofia francese dopo lo Strutturalismo, Multhipla Edizioni, Milano 1981, p. 20-21. 2 Cf. Lacan, Seminario su “La lettera rubata” negli Ecrits.
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è sotto gli occhi di tutti, e che pure tutti in assoluta buona fede fingono di ignorare”3. È al linguaggio da cui siamo parlati e all’ordine simbolico, anziché a un’immaginaria e illusoria esistenza presimbolica del soggetto, che si deve dunque tornare; se tale ordine corrisponde alla dimensione della Cultura, al discorso normativo in cui l’economia del linguaggio è, come noto, quella dell’Altro, esiste inoltre un luogo in cui la sua parola – come osservato dal critico letterario Stefano Agosti nei suoi scritti – prende figura, diventa un discorso dentro il discorso, quello dell’“Altro dell’Altro”. Questo linguaggio, che agirebbe come un supplemento di parola dentro quello normativo, è il linguaggio poetico, la parola che parla a se stessa; quanto si evince dalla autoriflessività che sospende il rapporto significato/ significante nelle figure retoriche (allitterazione, metonimia, metafora) è d’altra parte anche ciò che brilla – nota ancora Agosti – nella rima e conseguentemente, sciogliendo il nodo della sua funzione semantica-ritmica-metrica, accosta il luogo del verso. Traendo quindi spunto da una enunciazione – il verso come luogo Es-atto o in-Es-atto / momento Es-presso o in-Es-presso – proposta durante il convegno “Il verso e l’inconscio” (organizzato ad Acitrezza, nell’ottobre del 2011, dallo scrittore-saggista Mario Grasso), appare possibile avvicinare, nella cornice delle suddette premesse, alcune considerazioni, parerga e disseminazioni che possono rischiarare il senso della domanda implicita nel titolo di questo articolo; ripiegandole così, oltre che sull’orlo delle tematiche lacaniane, su alcuni motivi heideggeriani e sulla peculiare analisi del pensiero di Paul Valéry condotta da Jacques Derrida in “Qual quelle”. Anzitutto si tratta di ascoltare e lasciar risuonare quanto contenuto nell’affermazione “il verso come luogo esatto”: non coinvolge essa forse sin da principio l’indicazione di una dimensione che intrattenga una relazione con l’origine? L’indicazione/ osservazione dis-chiusa dal concetto heideggeriano di Erörterung chiama infatti in causa un luogo – Ort – che in tedesco significa originariamente la cuspide della lancia, ciò che, come “punto più alto ed estremo”, riunisce attirando verso di sé e custodendo quel che ha tratto alla maniera di una luce rischiaratrice: l’Ort è il luogo occulto del poema che al pari dell’essere si ri-vela sottraendosi nel non detto. In relazione all’altro termine della questione “il verso come momento espresso/ inespresso”, si può invece significativamente recitare quanto Heidegger stesso afferma circa tale luogo analizzando il linguaggio poetico nell’opera di Georg Trakl: il poema di un poeta rimane inespresso […] dal luogo del poema scaturisce l’onda che di volta in volta sommuove il dire in quanto dire poetico. Ma tanto 3
M. Ferraris, ibid., p. 21.
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poco l’onda abbandona il luogo del poema che il suo erompere fa piuttosto rifluire ogni moto del Dire originario entro l’origine sempre più occulta. Il luogo della poesia cela, in quanto sorgente dell’onda che sommuove, l’occulta essenza di ciò che sulle prime può, al pensiero estetico-metafisico, apparire come ritmo.4
Se il ritmo chiama in causa il verso e l’esito dell’Erörterung è una domanda che chiede dove si collochi lo spazio “inespresso” del poema, ecco allora come la domanda sul verso quale luogo germinale sia immediatamente coinvolta in questa es-posizione, nella segnalazione cioè di una direzione, di un verso del verso che è al contempo il ritorno del “Dire” nella sua origine occulta: un’emergenza che similmente alla punta della lancia attira, trapassandolo e permeandolo, il testo poetico. Così, nella lirica trakliana Canto del dipartito, il verso “O dimorare nell’azzurro vivente della notte”, lasciando riverberare il senso della dipartenza non quale condizione di chi è prematuramente morto, ma come lo “spirito puro” che è lo stesso fiammeggiare dell’azzurro effuso sulla quiete della fanciullezza, mostrerebbe per Heidegger come “la frescura lunare dell’azzurro sacro della notte spirituale penetra del suo suono e della sua luce ogni visione e ogni dire. La parola di questo dire diventa un ridire: diventa poesia. In e per quel che giunge a espressione il poema resta custodito come il per essenza inespresso”5. Questo luogo esatto, richiesto, reclamato, desiderato dalla parola, è quindi allo stesso tempo cifrato dalla natura abscondita del Dire originario, dalla sua sottrazione in una in-udibilità sempre altra, inattingibile, in-esatta rispetto alla sonorità che se ne propala. Il rapporto, lo scarto fra la voce interiore come trascrizione di quel Dire e la vox lautente, la voce proferita resta infatti talmente inafferrabile, sia in termini poetici, linguistici che fenomenologici, da supporre – come ricorda Derrida nella conferenza per il centesimo anniversario della nascita di Valéry – quasi un incontro, un punto di tangenza nullo e infinito. È questo punto che, fra le considerazioni esposte dal poeta francese nei suoi Cahiers, si nasconderebbe nel punto di fonte “[…] punto ‘io’ senza ‘te’. Ciascuno il suo altro, che è il suo Stesso. Ovvero l’Io è due – per definizione. Se c’è voce c’è orecchio. Interiormente c’è voce, non c’è vista di chi parla. E chi descriverà, definirà la differenza che c’è fra questa frase stessa che si dice e non si pronuncia, e questa stessa frase che suona nell’aria?”6. 4 M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache; tr. it. A. Caracciolo e M. C. Perotti, In cammino verso il Linguaggio, Mursia, Milano, 1973, p. 45-46; corsivi miei. 5 Ibidem, p. 71; corsivi miei. 6 P. Valéry, Cahiers, XXII (1939), p. 304; cit. in: J. Derrida, Marges – de la philosophie, Les Éditions de Minuit, Paris, 1972; tr. it. M. Iofrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino, 1997, p. 370.
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È propriamente il Verso, con il suo tratto evenemenziale, la sua scansione temporale a segnalare, forse più di altri luoghi, quella differenza sempre esatta/ inesatta di cui ancora Valéry afferma: “credo che il rapporto di queste possibilità di duplice effetto sia nella potenza della motilità, sulla quale non mediteremo mai abbastanza. In essa riposa il mistero del tempo, cioè l’esistenza di ciò che non è. Potenziale e inattuale”7. È qui in altri termini in gioco la questione della fonte come metafora prima dell’origine, dell’apertura, della beanza stessa del mondo; come nota Derrida, “designata spesso come fonte, l’origine assoluta ha per Valéry innanzitutto la forma dell’io, dell’‘io più nudo’, dell’ ‘io puro, elemento unico e monotono dell’essere stesso nel mondo, ritrovato, ripreso da se stesso’ e che ‘abita eternamente i nostri sensi’ come ‘la permanenza fondamentale di una coscienza che non è sostenuta da nulla’”8.
Se Valéry le riconosce tuttavia un certo essere lo farebbe per rifiutarle ogni presenza tanto da considerarla come ciò che, fondando in qualche modo tutte le categorie, “esiste e non esiste”; scrive ancora Derrida: quest’io non è un individuo, è quasi impersonale, vicinissimo ad essere un nonio. Questa coscienza che non può essa stessa porsi, mettersi di fronte a se stessa, divenire per se stessa una tesi o un tema, non possiamo nemmeno dire che sia presente per-sé. Questa fonte di cui non si può fare un tema non è dunque una coscienza di sé, è a malapena una coscienza. Non è in un certo modo inconscia o […] differente dall’inconscio tanto poco quanto si vorrà? Quasi un inconscio?9
Proprio il ritmo scandito dal verso – ciò che per Heidegger rimanda alla “sorgente dell’onda che sommuove il Dire” – ci porterebbe dunque dal circuito dell’intenzionalità autoriale alla sottostante comunicazione silenziosa fra il nascente ed il nato, all’enigmaticità della voce interiore, alla fonte da cui, nella sua duplice direzionalità, esso è versato: l’inconscio. Il verso come le soudre de la source (“lo sgorgare-e-assordarsi della fonte”) opera innestando nel testo l’interruzione, il differimento, il salto della voce che, simile al murmure nella forra della fonte ascosa, rivela lo scarto, il ritardo dell’origine su se stessa, altrimenti detto la sua provenienza inconscia: come il sogno non è altro che una ricostruzione a posteriori, una traccia senza presenza originaria, “la fonte non si appare tale che in quel momento, che non è più un momento, in quel secondo dell’i(n)stante emissione in cui
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Ibid., corsivi miei. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 360-361. 9 Ibidem, p. 363. 8
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l’origine dà a ricevere a se stessa ciò che essa produce”10. Non è forse dall’ombra di questa stessa fonte (l’heideggeriana “origine occulta”) che stilla, nella grotta dell’anima, “orgueil du labyrinthe”, la lacrima del “pensiero riposto”? Tu procèdes de l’âme, orgueil du labyrinthe. Tu me portes du coeur cette goutte contrainte, Cette distraction de mon suc précieux Qui vient sacrifier mes ombres sur mes yeux, Tendre libation de l’arrière-pensée! D’une grotte de crainte au fond de moi creusée Le sel mystérieux suinte muette l’eau. D’où nais-tu? Quel travail toujours triste et nouveau Te tire avec retard, larme, de l’ombre amère?11
Il verso diviene il perno su cui il ritmo, il lavoro, il testo stesso si ripiega per affacciarsi sul “bianco mallarmeano”, sull’abîme della spaziatura che ne orla il margine e la piega, così come, per il tramite della pagina bianca, su tutte le implicazioni delle serie polisemiche che esso, a mo’ di fiocina (la lancia dell’Ort), arpiona, sulla superficie del significante/ inconscio, nel barthesiano mare ribollente del senso – mare “fluido, percorso dai fremiti d’una leggera ebollizione” – sparpagliando infine la catena polisemica della lingua (lo scenario inconscio ne sprigiona la disintegrazione, stralciando nella sua guerra l’armoniosa pace tra vocabolo e senso. È allora che il verso dona, offre, nascondendolo nel suo gesto son-oro, l’oro di Mallarmé come un filone nella miniera del significante: “le silence, seul luxe après les rimes, un orchestre ne faisont avec son or, des frôlements de pensée et de soir, qu’en détailler la signification à l’egard d’une ode tue”12). E poiché in fondo lo specchio della fonte è il linguaggio – “cette tremblante, frêle, et pieuse distance/ Entre moi-même et l’onde, et mon âme, et les dieux!...”13 – proprio Narciso, come scrive Maurice Blanchot, “chinato alla fonte, non si riconosce
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Ibidem, p. 370. Dal componimento La Jeune Parque; Cf. P. Valery, Opere poetiche, tr. it. M. T. Giaveri, Guanda, Parma 1989, p. 115: “Tu procedi dall’anima, gloria del labirinto./ Tu mi porti dal cuore questa goccia costretta,/ Distrazione del mio succo prezioso/ Che viene ad immolare le ombre mie sui miei occhi,/ Tenera libagione del pensiero riposto!/ Da una grotta d’angoscia scavata in fondo a me/ Il sale misterioso trasuda l’acqua muta./ Da dove nasci? Quale lavoro sempre triste e sempre nuovo,/ Lacrima, con ritardo ti trae dall’ombra amara?” 12 Da Mimique (1886) in: S. Malarmé, Divagations, Bibliothèque-Charpentier; Fasquelle, 1897, p. 186-87. 13 Dal componimento Fragments du Narcisse; cf. P. Valéry, Opere poetiche, tr. it. M. T. Giaveri, Guanda, Parma 1989, p. 163: “Questa tremante, fragile, e pia distanza fra/ Me e l’onda, e la mia anima, e gli dei!...” 11
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nell’immagine fluida che le acque gli rinviano. Non è quindi se stesso, il proprio ‘io’ forse inesistente, che egli ama e desidera, sia pur ignorandolo”14. Lo sgorgare-assordarsi della fonte/ verso, del verso della fonte non è altro che il mormorio del linguaggio (un’immagine di linguaggio); trattandosi di Inconscio esso è tuttavia di ben altra natura rispetto al topos freudiano; quello di Valéry non è una coscienza virtuale, non è (no)minato dalla rimozione bensì da un’alterità che marca il limite di una implicazione-complicazione del Medesimo e dell’Altro – definita con il termine Implesso – che non si lascia mai sciogliere, ovvero l’intreccio di un es-presso e di un in-Es-presso (l’Altro lacaniano che parla sotto la maschera del soggetto e delle sue identificazioni immaginarie). Questa embricazione moltiplica o divide all’infinito la semplicità di ogni fonte, di ogni origine e presenza; se rispetto alla voce il verso si presentava come il luogo, l’Ort, in-Es-atto della sua origine (inconscia), rispetto all’Implesso esso rappresenterà propriamente un momento, un complesso del presente (espresso) che racchiude sempre il non-presente (in-espresso) nell’impossibilità, per la presenza di un presente, di offrirsi come semplice, attuale, istantanea: pungete la punta del Presente – scrive Valéry – sull’istante attuale… Generate il Presente del Presente che esprimete così: Sono nell’atto di… Generate il Futuro del Presente: sono sul punto di… E così di seguito… Il presente del Presente del Presente, il Presente del Futuro del Passato del Passato… Et caetera… Si potrebbe affinare… Un matematico potrebbe… Voi, già da soli, mettevate l’esponente… Riassumendo, intendo per Implesso ciò in cui noi siamo eventuali…15
Tornando quindi all’Erörterung iniziale, ecco dunque il Verso annodare questo silenzioso in-Es-presso, una non-coscienza e una non-presenza, nella stessa coscienza presente, parlante, espressa, come “lo stesso di ciò che attualmente essa non è”16; nello sgorgare-e-assordarsi della fonte rimarrebbe così racchiuso tutto il possibile incastonato in questo ritardo dell’origine su se stessa (l’origine inespressa è conseguenza retroattiva di una non-origine). Il verso, come l’acqua che sgorga dalla fonte, lascia scorrere la temporalità e il suo mistero fra le nostre mani; se la fonte è tale solo come effetto – vi risaliamo da ciò che dona – il verso è questo ritorno impossibile dove non si 14
M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Parigi 1980; tr. it. F. Sossi, La scrittura del disastro, SE, Milano 1990, p. 145; corsivi miei. 15 P. Valéry, Euvres, t. II, p. 235-36; cit. in: J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 388. 16J. Derrida, Margini della filosofia, cit., ivi. Analogamente il riconoscimento lacaniano di una dimensione costitutiva della soggettività che, pur priva di coscienza, parla e pensa, si compendia nel rovesciamento dell’adagio cartesiano, per cui si dovrà piuttosto affermare: “io penso dove non sono, dunque io sono dove non penso”.
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è mai stati e a cui pure, a patto che si ascolti la voce della poesia e il suo ordine simbolico anziché l’illusione del soggetto, siamo chiamati a volgerci. Il verso, questo de-siderio tratto dal cielo quale nostro destino ed evento, è ciò che, come la luce delle stelle proveniente da astri non più esistenti, ci riporta al passato immemoriale da cui quel D(’)Es-io è in fondo sempre Esaudito: “Il marmo della fonte/ ha il bacio dello zampillo,/ sogno di stelle umili” (G. Lorca)
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Sara Mazzotti1
LEOPARDI E NIETZSCHE: UN’AFFINITA’ ELETTIVA? Preambolo Il proposito che i successivi saggi sostanzialmente intendono realizzare è quello di dar vita a un’amabile e ideale conversazione tra Leopardi e Nietzsche su alcuni nuclei problematici e concettuali (di enorme rilievo!) che nelle meditazioni di entrambi i nostri sagaci e fascinosi pensatori, sono rintracciabili. L’irreprimibile impulso di affievolirne le dissimiglianze è stato prontamente imbrigliato dall’assiduo e regolare ricorso a puntuali citazioni testuali, nell’orizzonte di una seria indagine filologica, critica e storiografica. L’objettivo prefissato è stato, quindi, quello di scandagliare, di volta in volta in modo organico un particolare tema, al fine di evidenziare le indiscutibili somiglianze e affinità tra il pensiero leopardiano e quello nietzschiano, ma anche le molteplici discordanze, nel pieno rispetto dell’unicità di Leopardi e Nietzsche prima di tutto come uomini, della loro originalità come filosofi e del diverso retaggio culturale che li contraddistingue. Fatte queste doverose precisazioni, gli scritti dedicano ampio risalto allo smisurato potere che sia Leopardi che Nietzsche assegnano alla parola e alla sua preziosa forza creativa, nel tentativo di rimuovere completamente quell’assurdo pregiudizio che sostiene l’impossibilità, da parte del pensiero filosofico, di ammantarsi legittimamente di poesia. Leopardi e Nietzsche, 1 Fin dalle prime pagine, l’esterma delicatezza di una scrittura apparentemente leggera mi conquistò quando dovevo accompagnare l’Autrice di questo splendido acquerello a una discussione di laurea dove temevo la volgarità delle metodologie “scientifiche e rigorose” di cui molti miei colleghi sentivano la mancanza. (n.d.c.)
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infatti, lottano instancabilmente allo scopo di dare alla propria riflessione filosofica una nuova veste, capace di far notare la sua sinuosa figura, e per far ciò, utilizzano sovente il linguaggio poetico, senza intaccare la validità di quella, pur sacrificando il classico, ma talvolta astruso e oscuro modo di esprimersi accademico. Un ultimo cenno è da riservare alla volontà, laddove possibile, di seguire un pensiero dal momento della nascita, quando timidamente fa capolino nella rarefatta atmosfera emotiva dell’infanzia, fino al suo completo sviluppo, sancito da una ragione ormai matura, ponendo in evidenza quel legame indissolubile che viene a crearsi (in Leopardi e in Nietzsche specialmente) tra quello stesso pensiero e la vita. In conclusione, si è cercato, sotto la scorta degli stupendi esempi di stile fornitici proprio dai nostri due filosofi, senza presunzione alcuna, di sottolineare i passaggi salienti delle loro variegate meditazioni con l’ausilio di immagini concrete dalla prepotente intensità espressiva, in modo tale da rendere durevolmente chiaro e trasparente quel pensiero dalla dinamica e cangiante natura proteiforme.
I° LA FILOLOGIA 1.1 Leopardi e la magia di raccontare favole Venerdì 29 giugno 1798, alle tre di un afoso pomeriggio estivo, nasce nel palazzo avito di Recanati il primogenito del conte Monaldo Leopardi e della marchesa Adelaide Antici, Giacomo. La città di Recanati, in origine composta da tre borghi che in seguito verranno uniti tra di loro, è collocata sulla sommità di un colle, a poca distanza dal mare Adriatico. Sperduto borgo dello Stato Pontificio, Recanati, sul finire del Settecento, godeva di una tranquilla pace, garantita dall’autorità del Papa. Questa sonnolenta provincia cadde, poi, sotto il controllo delle truppe francesi che, per breve tempo, instaurarono un governo repubblicano. Tra le famiglie più antiche dell’aristocrazia marchigiana, la Gens Leoparda vantava il prestigio di un blasone onorato da sette secoli di storia, benché minacciata, agli inizi dell’Ottocento, dalle maldestre e avventate speculazioni del suo ultimo capofamiglia, Monaldo. Dopo aver dimostrato, in molteplici circostanze, di opporsi alla distruzione delle finanze domestiche con azioni inadeguate e dannose, fu lo stesso Monaldo a presentare istanza a Pio VII, nel maggio 1803, affinché i suoi
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beni fossero affidati a un amministratore giudiziario. Da quel momento gli equilibri interni della famiglia mutarono radicalmente. Adelaide, donna volitiva, fredda, pragmatica, decise di ripristinare il patrimonio perduto introducendo un fanatico regime di spietata parsimonia che ricadde inevitabilmente su tutti i componenti della famiglia. Sacrificò i suoi gioielli e si vestì dimessamente, calzando robusti scarponi da contadina. Monaldo, soprattutto dopo l’allontanamento dalla gestione economica della famiglia, ferito nell’orgoglio, decise di ritagliarsi un piccolo angolo della casa che adibì a biblioteca, e di diventarne l’unico legislatore. Egli, infatti, amò la cultura e l’erudizione, senza mai addentrarsi in un ambito di studi preciso. Attribuiva, inoltre, al sapere un carattere di nobile elevazione e lo riteneva un mezzo efficace di visibilità sociale. La biblioteca comincerà ad acquisire una dimensione rilevante tra il 1808 e il 1810, quando Monaldo riuscirà ad accaparrarsi, per pochi soldi, numerose librerie appartenute a ordini religiosi soppressi dalle leggi napoleoniche. I libri erano stati accumulati alla rinfusa, talvolta acquistati a peso. Egli, poi, ordinò i ben 12.000 volumi raccolti, ponendo eleganti cartigli che indicavano le diverse materie. La biblioteca verrà, inoltre, aperta al pubblico a partire dal 1812. Monaldo e Adelaide condividevano, benché con rilevanti differenze di carattere, lo stesso progetto, ossia la volontà che la loro famiglia potesse diventare “modello” di nobiltà e integrità cattolica. Decisero, infatti, di educare tutti i loro figli alla luce del raggiungimento di questa meta, dividendosi i compiti. Al padre spettò, dunque, l’educazione scolastica dei figli, mentre la madre si occupò del controllo della loro salute e della buona condotta. Ebbero molti figli. Dopo la nascita di Giacomo, il 12 luglio 1799 Adelaide partorì Carlo, il 6 ottobre 1800 nacque Paolina. Nei quindici anni seguenti Adelaide resterà nove volte incinta, patendo, però, aborti e premature morti dei figli. Dopo i primi tre, infatti, riuscirà ad allevare soltanto Luigi e Pierfrancesco. Monaldo decise di impartire ai figli un’adeguata “istruzione domestica”, che egli stesso organizzerà con l’aiuto di precettori. Egli si avvicinò alla cultura seguendo un’idea particolare che volle, attraverso l’educazione, inculcare ai suoi figli, quella un legame indissolubile tra ragione e religione. L’educazione impostata da Monaldo tese, infatti, ad attribuire un dominio incontrastato alla ragione contro ogni insorgenza emotiva o istintuale. Razionalità che sarebbe servita, poi, come arma principale per annientare i futuri nemici della religione eliminando superstizione e falsità. Fu proprio all’interno di questa particolare atmosfera che il piccolo Giacomo, bimbo dagli occhi cerulei e dal sorriso dolcissimo, benché egli stesso, 15
in Nei ricordi d’infanzia e di adolescenza si descrivesse come “serio” e “sospiroso”, accompagnato fedelmente da Carlo e Paolina, mosse i primi passi alla scoperta del mondo. Un mondo che, per volere dei genitori, aveva il limite della sua stessa casa. Palazzo Leopardi sorgeva proprio sulla piazza principale di Recanati, accanto alla chiesa di Santa Maria di Montemorello. Un palazzo che, al suo interno, offriva molti spunti per accendere la vivace fantasia di Giacomo. Proprio questo fu uno dei tratti principali che il padre evidenziò in un memoriale del 1837 indirizzato ad Antonio Ranieri, esprimendosi così: “Da bambino fu docilissimo, amabilissimo, ma sempre di una fantasia troppo calda apprensiva e vivace, che molte volte ebbi gravi timori di vederlo trascendere fuori di mente”2. Immaginiamo questo bimbo che corre, salendo a grandi balzi lo scalone di stile neoclassico dell’ingresso, e che, giungendo nelle varie stanze, tutte riccamente affrescate, comincia a sognare o a parlare con le figure dei quadri affisse alle pareti che ritraevano volti incartapecoriti di antenati, immagini religiose e scene bucoliche. Il piccolo Giacomo amò precocemente il suono delle parole e imparò a impadronirsi della realtà attraverso esse. Egli, infatti, così ricorda: “Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro anni, stava sempre dietro a questa o quella persona perché mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggiore età, era innamorato dei racconti e del meraviglioso che si percepisce con l’udito o colla lettura (giacché seppi leggere ed amai di leggere assai presto)”. (Zib., 1401, 28 luglio 1821) Nei mattini festivi o nei momenti di svago, gli piaceva raccontare favole al fratello Carlo, col quale condivideva la stanza. La più famosa fu quella, protratta più giorni, che descriveva le eroiche gesta di Filsero intento a combattere, con le armi dell’astuzia, il tiranno Amostante, allusivo a Monaldo. Giacomo crebbe, imparò a leggere con disinvoltura e ad appassionarsi alla parola scritta. Trasferì, dunque, il suo mondo nella biblioteca paterna e dialogò idealmente con gli autori in essa presenti. Gli studi scolastici di Giacomo, Carlo e Paolina, ebbero inizio nel 1807 sotto la guida di Don Sebastiano Sanchini, affiancato dall’ex precettore di Monaldo, il gesuita messicano Don Giuseppe Torres e dal pedante Don Vincenzo Diotallevi. Lo studio era svolto nel corso di due semestri, terminati i quali i ragazzi dovevano sostenere una pubblica prova di esame, presentando un saggio delle cognizioni acquisite nelle diverse materie che spaziavano dalla logica, 2 M. Leopardi, Memoriale, contenuto in A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Garzanti 1979, p. 337.
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alla retorica, la filosofia, la storia, la scienza, la geografia, l’aritmetica, la geometria e la religione. Ufficialmente gli studi terminarono nel 1812, ma Giacomo rivendicò la propria autonomia dai precettori già all’età di dieci anni. Lo stesso Leopardi, sia in Nei ricordi d’infanzia e di adolescenza, sia in diversi luoghi dello Zibaldone rammenterà la “pieghevolezza dell’ingegno” e la sua “facilità di imitare”. Grazie, infatti, a questa sua predisposizione imparò da autodidatta – tranne la lingua latina, della quale ricevette i primi rudimenti – la lingua greca, ebraica, francese, inglese e spagnola. A tal proposito, Monaldo così ricorda: “Datosi a studiare del tutto solo, imparò la lingua greca senza nessun soccorso di voce umana, e coi soli libri che io gli provedevo a sua richiesta, oltre a quelli che già avevo nella mia biblioteca […]”3 . Monaldo cercò, inoltre, di far nascere nella prole un profondo desiderio di gloria, per stimolarne la sete di sapere. Giacomo ne fu completamente travolto. Ricercò la gloria in ogni cosa, come afferma egli stesso in uno dei suoi falliti tentativi autobiografici, dapprima nei giochi, come le battaglie tra fratelli tenute nel giardino di casa o gli scacchi e il volano, poi gettandosi in “sette anni di studio matto e disperatissimo”4. Tormentava incessantemente Carlo, rivolgendogli questa domanda: “Quando faremo qualcosa di grande?”. Gridava questo bisogno al fidato amico Giordani, in una lettera del marzo 1817: “Io ho gradissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria […]”5. Giacomo racconta poi, nel Supplemento alla vita del Poggio di aver osservato da bambino un’immagine di San Luigi a cavallo, acclamato da una folla esultante, e di aver immediatamente pensato di voler diventare “santo” da grande, non per vocazione religiosa, ma per bruciante desiderio di gloria. Proprio sulla scia di questo desiderio, Leopardi sente il bisogno di analizzare i libri che lo circondano come unici compagni insieme ai rumori e alla luce che penetra dalla finestra, isolandone le singole frasi, le singole parole. Incontra la filologia e vede in essa la chiave per accedere al mondo.
3 M. Leopardi, Memoriale, contenuto in: A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, cit., p. 338. 4 G. Leopardi, Epistolario, Newton 1997, p. 1161. 5 Ibid. , p. 1137.
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1.2 Gli scritti filologici di Leopardi La biblioteca paterna era costituita prevalentemente da opere della tarda classicità e della letteratura ecclesiastica. Questa situazione, da una parte rifletteva i principi ideologici di Monaldo contrari, per esempio, agli ideologi francesi, mentre dall’altra rappresentava il gusto dell’epoca, legato a una preferenza della grecità ellenistica che perdurò in Italia fin dopo il 1860. Giacomo esordì nella filologia greca nel 1814, dando inizio a un primo periodo che, semplificando, possiamo definire “erudito”, durante il quale sceglierà testi legati alla storia ecclesiastica che avrebbero dovuto fortificare il suo compito apologetico e avviarlo alla carriera ecclesiastica. Caldeggiata, quest’ultima, soprattutto dallo zio, Carlo Antici. L’esordio avvenne, dunque, con uno studio sul De viris doctrina claris di Esichio Milesio, storico della letteratura di epoca giustinianea. Sempre nello stesso anno Giacomo offrì in dono al padre un folto manoscritto, intitolato Porphyrii de vita Plotini et ordine librorum eius Commentarius. Redasse, poi, i Commentarii de vita et scriptis rhetorum quorundam qui secundo post Christum saeculo vel primo declinante vixerunt e intraprese la stesura, rimasta incompiuta, dei Fragmenta Patrum Graecorum, opera che avrebbe dovuto contenere biografie degli autori, frammenti delle loro opere e osservazioni critiche. Fin da questi primi lavori emerse chiaramente la singolare predisposizione filologica di Leopardi che non si accontentò mai, nei passi dubbi, di cogliere il senso generale del testo, ma cercò di eliminarne le difficoltà introducendo varianti e congetture. Fu subito chiaro anche un altro elemento, ossia la scarsità dei mezzi a disposizione, opere datate che trasmettevano testi scorretti. Nel 1815 Giacomo proseguì la sua attività filologica dedicandosi all’opera di Giulio Africano, oscuro cronografo dell’età dei Severi, progettando un’edizione critica dei Cesti. Dopo aver tradotto quasi interamente i primi 27 capi, “i più corrotti” e “i più difficili”6, scrisse il 6 aprile 1816 una lettera all’abate Cancellieri affinché gli procurasse due codici della Vaticana, necessari per proseguire il lavoro. Purtroppo Cancellieri non fu in grado di aiutare Leopardi che lasciò l’opera incompiuta. Da quel momento in poi, Giacomo si allontanerà dal progetto delineato precedentemente, mutando proprio il suo criterio di scelta. Farà emergere, infatti, il suo gusto individuale e così scoprirà il piacere della letteratura. Questa svolta cominciò nel 1815 con la traduzione degli Idilli di Mosco e della Batracomiomachia.
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G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1128.
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Nella traduzione dei poeti antichi Leopardi ritrova qualcosa che gli appartiene e che fa vibrare profondamente tutto il suo essere. Prova gioia. In Mosco ammirò una lirica delicata e semplice, mentre il poema eroicomico, attribuito erroneamente a Omero, si accordava a quell’indole satirica che un ruolo importante rivestirà nella sua tarda produzione poetica e nella prosa. Proprio agli inizi del 1816 Giacomo ha datato la sua “conversione poetica”, benché essa si sia già manifestata l’anno precedente. Questa nuova strada sarà ulteriormente illuminata dal volgarizzamento del primo libro dell’Odissea di Omero, dal secondo dell’Eneide di Virgilio, dalle Iscrizioni greche triopee e dalla versione del poemetto pseudovirgiliano Moretum. Tra il gennaio e l’aprile del 1816 scrisse anche il Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone e ne tradusse le opere edite dal Mai. Leopardi aveva già manifestato particolare interesse per Frontone durante la stesura dei commentari latini. Appena venne a conoscenza della recente pubblicazione del Mai, bibliotecario dell’Ambrosiana di Milano, convinse il padre ad acquistare il volume dal suo libraio milanese di fiducia, Antonio Fortunato Stella. Questa fu l’occasione che permise a Leopardi di uscire dall’isolamento e di entrare in relazione diretta col Mai, dal momento che decise di inviargli il suo lavoro accompagnato da una lettera, nel maggio 1816, nella quale così esordì: “Altri donano dedicando; io vi dedico un dono, che voi mi avete fatto. Frontone è vostro, e ovunque si ragionerà di lui, si parlerà anche di voi”7. Iniziò così uno scambio epistolare improntato, da parte di Leopardi, su un forte sentimento di ammirazione. Dall’esilio di Recanati, forse, la figura del Mai venne idealizzata. Angelo Mai fu, infatti, un infaticabile scopritore. Con grande energia esplorò l’Ambrosiana e la Vaticana, ridando la luce a testi classici di importanza capitale. Lo stesso Giacomo gli dedicherà, nel 1820, una canzone in occasione del ritrovamento del trattato ciceroniano De re pubblica, che così comincia: “Italo ardito, a che giammai non posi di svegliar dalle tombe i nostri padri? Ed a parlar gli meni a questo secol morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio?”(vv.1-5)
Il Mai, dunque, sapeva presentare un testo nei suoi riferimenti storici, geografici, e antiquari, ma gli mancava la conoscenza approfondita delle lingue classiche, del greco specialmente. I rapporti tra Leopardi e Mai ebbero una netta cesura nel 1823. Durante il soggiorno romano, ospite in casa dello zio Carlo, Giacomo ebbe la possibilità di redigere il catalogo dei codici greci 7
G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1128.
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conservati alla Barberiniana. Dopo alcune settimane si imbatté in un codice trascurato. Si trattava di un’orazione di Libanio, che il Mai con astuzia e rapidità pubblicò per primo a discapito dell’amico. Nel gennaio del 1817 Leopardi tradusse le Antichità romane di Dionigi d’Alicarnasso. Successivamente volgarizzò la Titanomachia di Esiodo, corredandola di una prefazione nella quale elogiò la freschezza di questa poesia. In questo stesso periodo Giacomo progettò di scrivere altre osservazioni su testi rinvenuti dal Mai, come le osservazioni ad Eusebio, Simmaco, Iseo, Temistio, all’Epistola a Marcella di Porfirio e ai frammenti alla Vidularia di Plauto, ma questi progetti rimasero allo stato di abbozzo. La “conversione” cominciata sul piano letterario si era sempre più approfondita portando con sé disagi che sfociarono in un peggioramento delle sue precarie condizioni di salute e in un bisogno impellente di evadere dalla “prigione” di Recanati, culminato nel fallito tentativo di fuga del 1819. Non appena la salute migliorò e Giacomo riebbe la possibilità di leggere, tornò ai suoi progetti filologici. Nel 1820 cominciò il volgarizzamento dell’Anabasi di Senofonte che interruppe quasi subito per la risposta negativa dell’editore Sonzogno che aveva già incaricato in tal senso un altro studioso, il Boucheron. Nei primi mesi del 1821, iniziò un periodo di letture varie di classici, documentate nello Zibaldone: Svetonio, Velleio Patercolo, Floro, Cicerone e Senofonte. A cominciare dalla primavera del 1821 fino al viaggio a Roma nel 1822, Leopardi si interessò, più che di singoli passi di autori, a questioni lessicali. Raccolse nello Zibaldone questo materiale, con il proposito di dar vita a un’opera, mai realizzata, che avrebbe dovuto intitolarsi Parallelo delle cinque lingue (greca, latina, italiana, francese, spagnola). Finalmente, nel novembre del 1822, Leopardi salì su una carrozza e, per la prima volta, lasciò Recanati in direzione di Roma. Aveva sempre guardato con reverenza l’ambiente dei letterati e degli eruditi romani, portava in sé sogni e speranze. Rimase profondamente deluso e riversò l’amarezza nelle lettere inviate ai suoi familiari, come quella indirizzata al padre del 9 dicembre: “[…] quanto ai letterati, de’quali Ella mi domanda, io n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. […] secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. […] Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e pare un giuoco da fanciulli […]”8. L’aspetto però, che più inorridì Leopardi fu che: “[…] non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco; senza la perfetta 8
G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1226.
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cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell’antichità”9. La situazione divenne immediatamente chiara a Giacomo, il quale, “in questo letamaio di letteratura di opinioni e di costumi”10, vide come unica possibile isola felice, quella di un gruppo di “dotti forestieri”11. Cominciò, infatti, a frequentare la casa dell’ambasciatore d’Olanda, Reinhold. Qui trovò un ambiente a lui congeniale e conobbe veri studiosi, tra cui il Thiersch, docente di greco a Monaco e l’ambasciatore prussiano Niebuhr, teorico della scienza dell’antichità. Mentre i romani “tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano ne’ giornali”12, gli stranieri hanno “una conversazione di buon tono, spiritosa ed elegante”13. Emerse, però, un problema che Leopardi confidò al fratello: “[…] dovete però sapere che la filosofia, e tutto quello che tiene al genio, insomma la vera letteratura, di qualunque genere sia, non vale un cazzo con gli stranieri: i quali non sapendo quasi niente d’italiano, non gusterebbero un cazzo le più belle produzioni che si mostrassero loro in questa lingua […] . Io, dunque ho mutato abito, o piuttosto ho riassunto quello ch’io portai da fanciullo. Qui in Roma io non sono letterato […], ma sono un erudito e un grecista”14. Riprese, dunque, la sua attività filologica, tanto stimata soprattutto dal Niebuhr. Giacomo stesso così ricorda: “[…] M’ha detto che questo è il vero modo di trattar la filologia, ch’io sono nella vera strada, che mi pregava caldamente a non abbandonarla, che non mi spaventassi se l’Italia non mi avrebbe applaudito, perché tutti gl’italiani sono fuor di strada; che non mi sarebbe mancato l’applauso degli stranieri ec”15. Videro così la luce la recensione al Filone di Aucher, una serie di note latine al De re pubblica di Cicerone, e il lavoro sulle Annotazioni sopra la cronica di Eusebio, terminato sul finire del 1823. Leopardi, inoltre, riuscì a collazionare anche due codici del cronografo bizantino Sincello. Quest’anno gli aveva portato anche la proposta del De Romanis di tradurre l’opera omnia di Platone. In questa impresa, che lo avrebbe impegnato almeno tre anni, fu spinto dallo zio Carlo Antici che vedeva nel progetto un’arma per combattere il materialismo e difendere la religione. Monaldo, invece, osteggiò questa decisione, adducendo, come pretesto, un inadeguato compenso. Giacomo rimase a lungo incerto, con in mano i
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Ibid., p. 1226. Ibid., p. 1233. 11 Ibid., p. 1226. 12 Ibid. 13 Ibid., p. 1230. 14 Ibid., p. 1234. 15 G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1241. 10
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primi tre volumi dell’opera di Platone, editi dall’Ast e forniti da De Romanis. Come frutto di questa lettura rimangono molte note di critica al testo e di interpretazione a sette dialoghi: Protagora, Fedone, Gorgia, Teeteto, Sofista, Convito e Fedro. Leopardi intraprese, sempre nel 1823, il Volgarizzamento della satira di Simonide sopra le donne. Nell’inverno del 1824 Giacomo si esercitava nella traduzione degli Avvertimenti a Demonico di Isocrate e di altre due orazioni, il Discorso del Principato e il Nicocle. A questa orazione, compresa l’Aeropagitica, avrebbero dovuto seguire il Gerone di Senofonte, il Gorgia platonico, forse qualche dialogo di Eschine e i Caratteri di Teofrasto. Avrebbe voluto raccogliere anche un’antologia di pensieri di Platone, sull’esempio dei Pensieri di Cicerone, selezionati dall’Olivet. Questi progetti non furono mai realizzati. Sono gli anni delle Operette morali e della cosiddetta “conversione alla prosa”. La direzione della sua vita interiore mutò e Leopardi si sentì, sebbene mai del tutto, vicino allo stato d’animo dei moralisti greci e della filosofia stoica. Cercava, infatti, di conquistare una sorta di atarassia, ossia di freddezza e indifferenza di fronte alla vita, che mai raggiunse. Nel 1824 portò a termine il volgarizzamento delle Operette morali di Isocrate, nel 1825 decise di tradurre il Manuale di Epitteto e nel 1826 l’Orazione di G. Gemisto Pletone in morte della imperatrice Elena Paleologina e ad essa premise un discorso. A Leopardi fu anche proposto di curare, nell’inverno del 1825, un’edizione completa delle opere di Cicerone. Egli rifiutò, convincendo l’editore Stella ad affidarla all’abate Bentivoglio, bibliotecario dell’Ambrosiana. L’attività filologica di Leopardi può dirsi conclusa con alcuni appunti, ritrovati tra le carte fiorentine, che dovevano servire per la recensione sull’Antologia di Vieusseux dei “Papiri torinesi” scoperti da Amedeo Peyron. Un ultimo cenno riguarda le vicende dei manoscritti filologici leopardiani. Dopo essersi definitivamente allontanato, nel 1828, dalla filologia sia per la scarsezza dei mezzi di studio, sia per la debolezza degli occhi, Leopardi si animò nuovamente per essa. Nel 1830 conobbe, a Firenze, un trentenne filologo svizzero, Louis de Sinner, che s’interessò con entusiasmo proprio a quei suoi lavori. Gli promise, infatti, che avrebbe utilizzato ogni mezzo per permetterne la pubblicazione all’estero. Ma nel 1859 desistette definitivamente dall’impresa, cedendo le carte leopardiane alla Palatina di Firenze. 22
Come filologo, forse, Leopardi fu compreso realmente dall’amico Pietro Giordani. Morto Giacomo, pubblicati da Le Monnier i due volumi delle opere, a cura di Antonio Ranieri, fu proprio Giordani a insistere per la pubblicazione di un terzo volume contenente gli scritti filologici.
1.3 Considerazioni sulla filologia leopardiana Per comprendere realmente l’enorme importanza che lo studio della filologia e della lingua riveste nell’analisi di Leopardi, dobbiamo partire da un appunto dello Zibaldone, citandolo per intero: “Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà. L’intelletto non potrebbe niente senza la favella, perché la parola è quasi il corpo dell’idea la più astratta. Ella è infatti cosa materiale, e l’idea legata e immedesimata nella parola, è quasi materializzata. La nostra memoria, tutte le nostre facoltà mentali, non possono, non ritengono, non concepiscono esattamente nulla, se non riducendo ogni cosa a materia, in qualunque modo, e attaccandosi sempre alla materia quanto è possibile; e legando l’ideale col sensibile; e notandone i rapporti più o meno lontani, e servendosi di questi alla meglio”. (Zib., 1657 - 1658, 9 settembre 1821)
Questa concezione viene nuovamente ribadita in un altro passo dello Zibaldone, in cui Leopardi afferma: “Nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme, anzi s’incarnano come l’anima nel corpo facendo seco loro come una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle parole, e divise non sono più quelle […]”. (Zib., 2584, 27 luglio 1822)
Emerge dunque chiaramente che, per Giacomo, la parola non possiede solo una funzione formalisticamente decorativa, bensì incarna l’idea stessa e le dà vita. Contenuto e forma, pensiero e parola vengono a trovarsi sullo stesso piano. Proprio per questo, Leopardi ritiene necessario prima addentrarsi nello studio della lingua e dello stile in profondità, per poi essere in grado di esporre con chiarezza i propri pensieri. Infatti, in una lettera all’amico Giordani del 1820, sostiene : “[…] né mi pento di aver prima studiato di proposito a parlare e dopo a pensare, contro quello che gli altri fanno; tanto che se adesso ho qualche cosa da dire, sappia come va detta, e non l’abbia da mettere in serbo, aspettando ch’io abbia imparato a poterla significare […]”16.
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G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1209.
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Questo pensiero occupa vari appunti disseminati nello Zibaldone, tra i quali ricordiamo: “Dei nostri poeti d’oggidì altri non sentono e non pensano, e così scrivono, altri sentono e pensano ma non sanno dire quello che vorrebbero, e mettendosi a scrivere, per mancanza di arte, si trovano subito vuoti […] e questi sono ridicoli per lo stento l’affettazione la durezza l’oscurità, e la fanciullaggine della maniera, quando anche i sentimenti non fossero dispregevoli”. (Zib., 129 – 130, 21 giugno 1820) E anche: “[…] mancano pure dell’abito di saper convenientemente esprimere idee nuove, o in una nuova maniera, cioè di applicare per la prima volta la parola e l’espressione conveniente ad un’idea, di fabbricarle una veste adattata alla scrittura; e perciò, quando anche le concepiscono chiaramente, la lasciano da banda, non sapendo darle giorno […] e si rivolgono alle idee altrui che hanno già le loro vesti belle e fatte”. (Zib., 1543 – 1544, 22 agosto 1821) Seguendo sempre questo ragionamento Leopardi sostiene che, per esempio, la civiltà greca risultò nettamente superiore alle altre anche grazie alla natura della lingua. Lingua caratterizzata dalla presenza di una feconda facoltà produttrice e quindi in grado di introdurre immediatamente una nuova parola per esprimere una nuova idea. Giacomo, comincia anche a delineare con ironia alcune caratteristiche che la scrittura deve possedere, in un pensiero del 1821: “La scrittura dev’ essere scrittura e non algebra […]. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna di moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare […]. Che altro è questo se non ritornare l’arte dello scrivere all’infanzia? Imparate imparate l’arte dello stile, quell’arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell’arte che oggi è nella massima parte perduta, quell’arte che è necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua perfezione […]. Or dunque non è meglio che lo scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore?”. (Zib., 976 – 977, 22 aprile 1821) “La scienza del bello scrivere è”, per Leopardi, “una filosofia, e profondissima e sottilissima, e tiene a tutti i rami della sapienza”. (Zib., 2728, 30 maggio 1823) È come un’arte particolare, che, per essere tale, deve utilizzare strumenti propri. Le parole. Un ulteriore esempio chiarificatore compare sempre nello Zibaldone: “[…] come se nella scultura che imita col marmo si introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche, invece delle chiome scolpite”. (Zib., 977, 23 aprile 1821) Leopardi, dunque, per poter esporre il suo pensiero, che è sempre pensiero interrogativo, fluttuante, mai rigidamente delimitato, utilizza in modo 24
innovativo i generi letterari, attraverso uno sperimentalismo che lo porterà a scrivere con registri espressivi diversi: il canto, la forma dialogica, il frammento, l’appunto. La via della conoscenza è percorsa attraverso la scrittura, l’interrogazione di se stesso e del mondo è linguaggio. L’analisi linguistica, introduce, a un certo punto, la basilare distinzione tra “termine” e “parola”: “le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura ed alla bellezza […]”. (Zib., 110, 30 aprile 1820) In relazione a ciò, Giacomo redigerà una sorta di elenco di parole particolari, motivandone la scelta. Odierà, per esempio, quelle parole antiche che, nel testo, risultano eccessivamente ricercate, affettate, stentate. Loderà invece: “Parole e modi, dove l’antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire. […] Questi rassomigliano a quei frutti che intonacati di cera si conservano per mangiarli fuori di stagione […]”. (Zib., 1098 – 1099, 28 maggio 1821) Si appassionerà a: “[…] tutte le parole di qualunque origine e genere sieno, alle quali noi siamo abituati da fanciulli, ci destano sempre una folla d’idee concomitanti, derivate dalla vivacità delle impressioni che accompagnano quelle parole in quella età, ed alla fecondità dell’immaginazione fanciullesca […]”. (Zib., 1705, 15 settembre 1821) Amerà: “le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse”. (Zib., 1789, 25 settembre 1821) E infine: “All’amore che noi abbiamo della vita, e quindi delle sensazioni vive, dee riferirsi il piacere che ci recano negli scritti o nel discorso le parole chiamate espressive, cioè quelle che producono in quanto a loro una idea vivace […]”. (Zib., 3191, 18 agosto 1823) Nella variegata analisi linguistica leopardiana compaiono anche indicazioni su quelle caratteristiche principali che un testo deve possedere. Ad esempio: “[…] la semplicità e la chiarezza sono parti così fondamentali ed essenziali della bellezza e bontà degli scritti, ch’elle debbono esser continue […]”. (Zib., 3049, 26 luglio 1823) Oppure l’importanza dell’eleganza e della grazia che consiste in ciò che è “pellegrino” ossia non usuale, non comune.
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Leopardi, a partire dal 1821, progetta di scrivere un’opera dal titolo Parallelo delle cinque lingue17 e dal quel momento raccoglie un’abbondante messe di materiale che confluisce nelle pagine del suo Zibaldone. Passiamo ora a considerare alcune interessanti ipotesi. Quella, ad esempio, che sostiene l’uniformità di una lingua primigenia per tutti gli uomini. Unità di caratteristiche che si mantenne inalterata per breve tempo, in quanto gli uomini si separarono, abitando zone diverse del globo e svilupparono costumi, opinioni, qualità diverse e lingue diverse. Leopardi si sofferma, poi, a confrontare tra loro varie lingue. Innanzitutto, la lingua è strettamente dipendente dalle modificazioni che riguardano i tempi, gli uomini, le cose e non è legata a una sorta di ente immaginario che si suppone immutabile. La lingua è, dunque, qualcosa di vivo, in costante movimento, che rispecchia il carattere della società che l’adopera. Leopardi esorta spesso, infatti, a non incorrere nell’errore di trattare una lingua come se fosse già morta, non osando introdurre parole nuove con la convinzione che così facendo la lingua stessa risulterebbe rovinata nella sua perfezione e non arricchita18. Quando, però, si aggiungono nuove parole dobbiamo fare in modo che queste siano ricavate direttamente dalle radici di quella lingua o dalla lingua madre (ivi). L’introduzione, infatti, di parole straniere si oppone all’indole primitiva di una lingua e la imbarbarisce. La lingua italiana, secondo l’ipotesi leopardiana, insieme alla lingua francese e alla spagnola, deriva dal latino volgare19. Inoltre è la più simile al carattere antico perché è ricca di immaginazione, feconda, duttile, “morbida” e “carnosa”20, proprio come la lingua greca, definita mamma dell’italiana per quanto concerne i modi. La lingua spagnola è, per indole, molto simile all’italiana. La lingua francese risulta, invece, completamente diversa. È una lingua che parla unicamente all’intelletto, “geometrica arida sparuta dura, asciutta ossuta” e “somigliante a una persona magra”21.
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Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 1324, 14 luglio 1821. Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 755, 763, 8-14 marzo 1821. 19 Ibid., 1031, 12 maggio 1821. 20 Ibid., 1003, 1 maggio 1821. 21 Ibid., 323, 13 novembre 1820. 18
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Proprio per queste sue caratteristiche risulta “universale, matematica e scientifica” in quanto composta prevalentemente di termini e non parole. Quando una lingua, sostiene Leopardi comincia a diventare colta, sente l’esigenza di esprimersi con maggiore chiarezza e quindi usa i composti. La lingua ebraica rimane così una lingua povera perché non li utilizza, ingenerando disordini, ma la sua prosa sarà “poeticissima” perché ogni sua parola avrà significazioni diverse e vaghe22. Giacomo fa un cenno anche alla particolare lingua cinese che non possiede né alfabeto, né lettere, ma caratteri esprimenti le principali idee, chiamati “chiavi”. Questa lingua rappresenta, in modo perfetto, l’immutabilità propria di quel popolo23. La lingua tedesca è riuscita a mantenere sia l’immaginazione dell’antico, come l’italiana, sia a introdurre la scienza del moderno, come la francese. È anch’essa pieghevole e ricca. Sarà fondamentale partire dall’analisi appena svolta per capire nella sua interezza ciò che per Leopardi significherà tradurre24. Prima è, però, conveniente delineare le principali tendenze filologiche presenti all’epoca in cui Leopardi cominciò ad elaborare le sue prime prove erudite. In Germania troviamo due opposti punti di vista: quello di Gottfried Hermann, legato al razionalismo illuminista e preoccupato di cogliere il momento filologico nella sua peculiarità, e quello di August Böckn, più orientato a un interesse romantico, e desideroso di portare avanti una ricerca storica unitaria, all’interno della quale vive il momento filologico. In Italia vi sono due indirizzi tradizionali: l’umanistico-gesuitico, ridotto a puro studio di imitazione formale dei classici e l’antiquario, che attribuiva grande interesse a nuovi aspetti della vita antica, trascurando, però, le indagini sulla lingua e lo stile. Per Giacomo la familiarità con la propria lingua è la condizione di base per tradurre. Soltanto partendo da questo presupposto, infatti, abbiamo gli strumenti per rappresentare uno stile al di fuori delle sue condizioni linguistiche originali. Traduzione non è mai semplice trasposizione di senso, bensì resa di uno stile. 22
Ibid., 3565, 1 ottobre 1823. Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 942, 14 aprile 1821. 24 Ibid., 1800, 28 settembre 1821. 23
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Altra condizione fondamentale per potersi avvicinare alla perfezione ideale propria dell’arte di tradurre, è quella di avere a disposizione una lingua ricca, duttile, feconda in modo tale che possa assumere qualsiasi stile e abito, mantenendo, però, la propria indole specifica. Caratteristica, questa, posseduta pienamente dalla lingua italiana. Un discorso a parte deve essere fatto, invece, per la lingua tedesca. La lingua tedesca assume anche l’indole, ossia il carattere della lingua dell’autore da tradurre e questo, secondo Leopardi, avviene perché non ne possiede una propria e definitiva25. Le traduzioni tedesche, così facendo, imitano esclusivamente le parole e l’ordine dei vocaboli, non certamente lo spirito degli autori. Afferma, infatti, Leopardi: “[…] Le traduzioni di quel genere che i tedeschi vantano, meritano poca lode. Esse dimostrano che la lingua tedesca, come una cera o una pasta informe e tenera, è disposta a ricevere tutte le figure e tutte le impronte che se le vogliono dare. Applicatele le forme di una lingua straniera qualunque, e di un autore qualunque. La lingua tedesca le riceve, e la traduzione è fatta”. (Zib., 2856 – 2857, 29-30 giugno 1823) Giacomo asserisce più volte che la traduzione è arte, ossia l’arte di imitare, il cui pregio non consiste nell’”uguaglianza”, ma nella “somiglianza”. Somiglianza che deve essere creata attivamente dal traduttore, non determinata passivamente dalla materia. L’unico modo che ci consente di capire un autore è quello di porci nella sua situazione e di riuscire a guardare con i suoi stessi occhi. Una particolare difficoltà è quella, poi, di essere in grado di riprodurre un testo che, come pregio, possiede la naturalezza. Il traduttore, proprio in quanto tale, infatti, non può essere spontaneo perché riporta il pensiero di un altro26. Sono queste le situazioni che fungono da cartina tornasole per verificare l’abilità e il valore di un filologo. Leopardi, inoltre, rifiuta il processo di modernizzazione linguistica, ossia la riduzione dell’originale nel recinto del gusto e delle convenzioni linguistiche dell’epoca a cui il traduttore appartiene. Dallo studio fatto da Giacomo sulle diverse lingue, emerge la difficile situazione vissuta dalla lingua italiana in quel periodo. L’Italia non possiede una letteratura moderna, perché non possiede una lingua moderna. Infatti, anche se ci fossero letterati con nuove idee da proporre, preparati nell’arte
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Ibid., 2083-84, 13 novembre 1821. Cf. G. Leopardi, Zibaldone., 319-320, 13 novembre 1820.
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dello stile, non potrebbero tuttavia dar vita ai pensieri, perché manca una lingua moderna in grado di accoglierli27. La situazione è pessima anche per altri motivi. Leopardi si lamenta del fatto che: “[…] basta l’apparenza a un letterato per essere stimato, benché manchi della sostanza”. (Zib., 4096, 1 giugno 1824) In un lungo appunto dello Zibaldone si sfoga, poi, dicendo che lo stile dei libri moderni continua a peggiorare, mentre aumenta l’eleganza e il valore delle edizioni. Oggi non si può più sperare di raggiungere l’immortalità con la letteratura28. Troppa è la quantità di libri che vengono stampati ogni giorno. La sorte di questi è la stessa degli “insetti effimeri”, che vivono per pochi giorni o poche ore. Da un lato questi libri non possono divenire immortali, data la negligenza del loro stile, ma dall’altro a cosa servirebbe un’accuratezza di stile, se comunque vivono così poco? Molti libri durano, infatti, meno del tempo che è stato necessario per la raccolta del materiale, se dovessero curare anche lo stile, la durata della vita non avrebbe neppure proporzione con quella della loro produzione. Anche nello Scherzo, canzone composta a Pisa nel 1828, Leopardi fa un garbato rimprovero agli scrittori moderni, colpevoli di una eccessiva trascuratezza nella forma: “Musa, la lima ov’è? Disse la Dea: la lima è consumata; or facciam senza. Ed io, ma di rifarla Non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca? Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca”. (vv.14-18)
In una delle Operette morali, ovvero Il Parini, del 1824 Giacomo insiste nuovamente sull’importanza dello stile: “E spessissimo occorre che se tu spogli del suo stile una scrittura famosa, di cui ti pensavi che quasi tutto il pregio stesse nelle sentenze, tu la riduci in istato che ella ti par di nessuna stima”. Per ultimare questa trattazione facciamo un cenno rapido all’interesse di Leopardi per la “questione omerica”29. Leopardi subì il fascino emanato dal famoso personaggio di Omero, che ritenne l’autore, da giovane, dell’Iliade, e da vecchio, dell’Odissea.
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Ibid., 3319, 22, 28, 29, 32, 1-2 settembre 1823. Ibid., 4268-72, 2 aprile 1827. 29 Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 4322-24, 26-31 luglio 1828. 28
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Ipotizzò, accettando di considerare queste opere come canti non scritti, che Omero componesse i suoi versi e li cantasse più volte con le stesse parole, o che li insegnasse ad altri rapsodi che non erano in grado di inventarne da soli, per conservarli nel tempo. Facendo queste considerazioni, sostenne anche l’ipotesi della comparsa di una letteratura poetica30, prima della scrittura e di una scrittura applicata all’inizio solo alla prosa, perché la memoria non era in grado di trattenerla31.
1.4 Nietzsche e la gioia di descrivere il mondo con la scrittura Karl Ludwig Nietzsche aveva studiato teologia a Halle. In seguito divenne precettore presso un capitano di Altenburg, poi istitutore alla corte ducale della stessa città ed ebbe come sue allieve le tre principesse Therese, Elisabeth e Alexandra. Questa particolare esperienza pare che gli abbia lasciato modi raffinati ed eleganti e un certo gusto nello scegliere i vestiti. I suoi sentimenti monarchici vennero comunque ulteriormente rafforzati quando, nel 1842, ottenne dal re di Prussia Friedrich Wilhelm IV, il posto di pastore del villaggio di Röcken. Karl Ludwig si trasferì, dunque, nella canonica insieme con la madre Erdmuthe, le due sorelle Auguste e Rosalie e la fedele domestica Mine. Accadde proprio durante il doveroso giro di presentazioni ai pastori dei villaggi limitrofi, che Karl rimase affascinato dalla sesta figlia del suo collega Oehler, Franziska. Franziska possedeva un’indole allegra e vivace, un’ingenuità infantile e un’istruzione lacunosa, come di regola per le figlie nelle case dei pastori. Si sposarono il 10 ottobre del 1843 ed esattamente un anno dopo, il 15 ottobre 1844, la giovane Franziska partorì il suo primogenito, Friedrich Wilhelm. Fu il padre a scegliere per il bimbo questo nome in onore del sovrano di Prussia, figura da lui molto ammirata. Due anni dopo, il 10 luglio 1846 nacque Elisabeth e nel febbraio 1848, Joseph. Il piccolo “Fritz”, così veniva chiamato affettuosamente in famiglia, cresceva coccolato e circondato dalle assidue attenzioni dei genitori. Ricorda a tal proposito la sorella Elisabeth che il fratello imparò tardi a parlare proprio perché i suoi desideri venivano immediatamente interpretati e quindi esauditi, senza bisogno di parole32.
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Ibid., 4343, 21-22 agosto 1828. Ibid., 4390, 22 settembre 1828. 32 Cf. la testimonianza di Elisabeth Förster – Nietzsche, in: C. Pozzoli, Nietzsche (nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei), Rizzoli 1990, p. 137. 31
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Il padre amava la compagnia del suo primo nato, gli piaceva, infatti, vederlo muto e pensoso mentre lavorava o completamente rapito quando improvvisava al pianoforte. Nietzsche era anche un bimbo caparbio, quando gli si negava qualcosa che desiderava, lo si vedeva rifugiarsi in qualche angolo della casa il tempo necessario per sbollire la rabbia. I primi anni dell’infanzia trascorsero nel tentativo di scoprire ogni particolare della canonica di Röcken, villaggio agricolo della Sassonia prussiana. Un mondo immenso si apriva dinnanzi agli occhi indagatori del piccolo Fritz. La canonica, infatti, era circondata da frutteti, prati e da quattro stagni avvolti da salici a cespuglio. Come egli stesso ricorda: “Passeggiare tra quei laghetti, contemplare i pesciolini guizzanti e i raggi del sole che giocavano sugli specchi d’acqua era il mio piacere più grande”33. Ma, sempre in uno scritto autobiografico del 1858, l’immagine che lo colpì più profondamente fu un’altra: “Con quanta vivezza rivedo il camposanto! Quante domande non facevo, alla vista della vetusta camera mortuaria, circa le bare e il crespo funebre, le antiche iscrizioni e i sepolcri!”. Un altro luogo il bimbo non frequentava volentieri, ed era la buia sacrestia della chiesa. Lì, infatti, si trovava “l’immagine di San Giorgio, scolpita in pietra da mano sapiente in grandezza superiore al naturale. La figura maestosa, le armi terribili e la misteriosa penombra mi incutevano terrore – racconta Nietzsche – ogni volta che la guardavo”34. Poi, nell’agosto del 1848, il padre si ammalò gravemente e, dopo un anno di sofferenza, il 10 luglio 1849, morì. L’avvenimento segnò profondamente questo bimbo di appena cinque anni, che sentì attorno a sé dolore e sofferenza e che così ricorda: “Sebbene fossi ancora molto piccolo e ignaro, avevo però un’idea della morte; il pensiero di vedermi per sempre separato dall’amato padre mi toccò e piansi amaramente”35.
Da quel momento, Nietzsche rivide spesso la figura del padre nei suoi sogni, come quello che precedette la morte del fratellino Joseph, di due anni, nel gennaio del 1850. Nella primavera di quello stesso anno l’intera famiglia si trasferì nella vicina cittadina di Naumburg.
33
F. Nietzsche, La mia vita, Adelphi 1977, p. 9. Ibid, p. 10. 35 Ibid., p. 12. 34
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Lasciare la campagna e andare a vivere in città destò, soprattutto nei bambini qualche difficoltà: “Per noi che eravamo vissuti tanto tempo in campagna la vita in città era insostenibile. Per questo evitavamo le strade opprimenti e cercavamo l’aria aperta, come un uccello che fugge dalla gabbia”36. Nietzsche iniziò, poi, a frequentare la scuola. Era timido, serio, sensibile ed educato. La sua natura lo portava a ricercare la solitudine, ovvero la compagnia di se stesso, aveva, quindi, una certa difficoltà a fare amicizia. Egli stesso se ne rendeva perfettamente conto: “Alla mia giovane età – affermava – avevo già sperimentato molto dolore e tanti affanni, e non ero vivace e sfrenato come sono di solito i ragazzi. I miei compagni solevano canzonarmi per questa mia gravità”37. L’amicizia era, per Nietzsche, legata alla condivisione di ideali comuni e di uno stesso modo di affrontare la vita. I suoi primi amici furono il dolce Pinder e il perseverante Krug, bravi ragazzi come lui, appassionati di libri e musica. Il giovane Nietzsche sviluppò, inoltre, un rigorosissimo senso del dovere, testimoniato dall’ormai famoso episodio raccontato dalla sorella Elisabeth: “La scuola comunale maschile era allora al Topfmarkt, cioè non molto lontano da casa nostra. Un giorno, proprio al termine della scuola, venne un bell’acquazzone; noi guardavamo lungo la Priestergasse cercando il nostro Fritz. Tutti i ragazzi si precipitarono a casa come del selvaggi – finalmente appare il piccolo Fritz, che cammina placidamente, il berretto nascosto sotto la lavagnetta, a sua volta coperta da un fazzoletto. Mamma gli fece cenni e gli gridò già da lontano : “Ma corri!”. La pioggia scrosciante impedì di sentire la sua risposta. Poiché quando arrivò, completamente fradicio, nostra madre gli fece dei rimproveri, egli disse serio: “Ma mamma, nel regolamento della scuola sta scritto: all’uscita della scuola i ragazzi non devono saltare né correre, ma devono recarsi a casa in modo calmo ed educato”38. In Nietzsche, dunque, la riflessione prevalse sempre sull’emozione immediata. Egli fu, infatti, rapidamente affascinato dalla parola scritta e visse attraverso essa. Le esperienze costituivano per lui il materiale privilegiato per una futura elaborazione. Questo atteggiamento emerse già nel gioco. Amava giocare, infatti, alla guerra. Mentre per gli altri bambini un simile gioco rappresentava una gustosa occasione per venire alle mani, per il piccolo Nietzsche,
36
F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 14. Ibid., p. 15. 38 Testimonianza di E. Förster - Nietzsche, in: C. Pozzoli, Nietzsche, cit., p. 138. 37
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costituiva invece lo sprone per conoscere l’arte militare e possibilmente descriverla con nuovi e arricchiti lessici. Atteggiamento che si sviluppò ulteriormente nelle molteplici narrazioni della propria vita cominciate, a dodici anni, nel 1856 e protratte fino al 1888 con l’ultima autobiografia, Ecce homo. Nel 1854 Friedrich cominciò a frequentare il ginnasio del Duomo di Naumburg. Con impegno si dedicò allo studio, con entusiasmo compose poesie e musica. Nel 1858 iniziò, invece, l’esperienza di Pforta. Grazie all’offerta di un posto gratuito, ebbe la possibilità di continuare i suoi studi ginnasiali in uno degli istituti più prestigiosi della Prussia. Questo collegio si era sviluppato nel 1543 da un’abbazia cistercense. La disciplina che qui veniva impartita era ferrea, anche il tempo libero era rigidamente organizzato. Una meticolosa descrizione dei pesanti ritmi delle lezioni, dei momenti giornalieri di preghiera e dei ripetitivi menù è Nietzsche stesso a riferircela nei suoi numerosi scritti autobiografici e nelle lettere inviate alla famiglia. L’indirizzo di Pforta era prettamente umanistico, si studiava il greco, il latino, il mondo antico e accanto a questo il mondo dei classici tedeschi, Goethe e Schiller su tutti. L’atmosfera era quella di altri tempi, lontanissima dalla realtà. Per la prima volta Nietzsche incontrò la filologia. Oltre alle letture d’obbligo scolastiche, lesse anche Byron, Shakespeare, Novalis, Hölderlin. Questo dimostra che Nietzsche fu ligio ai doveri di Pforta, pur riuscendo a crearsi altri spazi. Durante questo periodo il giovane Friedrich praticò anche dello sport. Già durante l’infanzia aveva imparato, spinto dalla mamma, a nuotare e a pattinare. Ebbe per tutta la vita, infatti, un ottimo rapporto con l’acqua: “Lasciarsi andare con la corrente, scivolare senza fatica sull’onda carezzevole, si può immaginare qualcosa di più bello?”39, diceva con gioia. Fu, inoltre, un valido ballerino dalla lunga capigliatura bionda e un esperto degustatore di cioccolata, come ricorda il suo compagno Granier40. Terminati, nel 1864, questi sei anni di studio, dopo un breve soggiorno a Naumburg, si trasferì a Bonn per frequentare all’Università la facoltà di teologia. Ma, già un anno dopo, alla fine di gennaio del 1865, prese la decisione definitiva di passare a filologia. Filologia che condizionerà le sue scelte, facendolo diventare, non ancora laureato, professore straordinario dei filologia classica a Basilea, a soli 24 anni.
39 40
F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 32. Cf. la testimonianza di Granier, in C. Pozzoli, Nietzsche, cit., p. 147.
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1.5 I lavori filologici nietzschiani L’attività filologica specifica, ovvero quella che concerne lo studio di singoli autori, interessa un periodo relativamente limitato dell’intera produzione di Nietzsche. Tuttavia, occorre ricordare, che questioni filologiche e lessicali generali troveranno spazio in quasi tutte le sue opere. Per comprendere appieno le scelte che Nietzsche operò all’interno di questo particolare ambito di ricerca, è utile seguirne l’evoluzione anche come uomo. Riprendendo le sue stesse parole: “Solo oggi comprendo quanti eventi abbiano influito sulla mia evoluzione, come lo spirito e il cuore si siano sviluppati per influsso delle circostanze. Giacché, anche se i tratti fondamentali del carattere sono per così dire innati in ogni uomo, sono le circostanze e il tempo che maturano questi primi germi”41. Nietzsche elaborò, dunque, la morte del padre come la mancanza di “quella guida severa e superiore di un intelletto virile” così necessaria ai fini educativi. A tal proposito, infatti, racconta: “Quando fattomi ragazzo, andai a scuola a Pforta, conobbi soltanto un surrogato dell’educazione paterna, la disciplina uniformatrice di una scuola ben ordinata. Ma fu proprio quella costrizione quasi militaresca, la quale, dovendo agire sulla massa, tratta l’individuo con freddezza e superficialità, che mi ricondusse a me stesso”42. Proprio durante il periodo di Pforta, il giovane Friedrich venne assalito da un’inesauribile sete di cultura universale. Ben presto, però, si rese conto dell’aspetto negativo che una simile scelta portava inevitabilmente con sé, cercando di porvi rimedio: “Col tempo questo vagabondare senza meta in tutti i campi dello scibile mi venne a noia; volevo costringermi a una limitazione, per poter conoscere le singole materie in profondità”43. Il primo rimedio che Nietzsche adottò per canalizzare i suoi impulsi produttivi fu quello di fondare insieme a Pinder e Krug, nel 1860, un’associazione dal nome Germania. Questa associazione sorse con lo scopo di favorire lo scambio culturale tra i suoi membri, incentivando la produzione personale e la capacità di critica. Nell’estate del 1863, però, la Germania si sciolse a causa delle pretese troppo elevate di Nietzsche e della sua critica divenuta ormai aspra e offensiva.
41
F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 99. Ibid., p. 183. 43 Ibid., p. 144. 42
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Nietzsche si sfogò, in una lettera, anche con la mamma: “Ora io mi trovo nella situazione particolarmente difficile di avere veramente una gamma di interessi che spaziano tra le più disparate materie: soddisfarli tutti farebbe di me un uomo dotto, ma difficilmente uno specialista”44. Decise, dunque, di cambiare tattica e si avvicinò per la prima volta all’analisi filologica. A Pforta, infatti, fin dal principio, gli allievi venivano avviati a una ricerca autonoma. Il primo lavoro filologico di Nietzsche fu un saggio, iniziato nel 1861, sulla leggenda di Ermanarico, re degli Ostrogoti. Questo eroe sanguinario, legato al mondo nordico, lo avvinse a tal punto che la sua ricerca travalicò i confini filologici e storici per approdare nel territorio della musica e della poesia. Proprio questi lavori gli permisero di fare la conoscenza del giovane barone Carl von Gersdoff. Nietzsche, poi, si congedò da Pforta, nel 1864, con uno studio su Teognide di Megara, poeta gnomico greco del VI secolo a.C. Due aspetti in particolare lo affascinarono, l’uso sapiente dell’epigramma e la sua particolare visione politica. Con scarsa convinzione, per far contenta la mamma che sognava per il figlio un avvenire da pastore, si iscrisse alla facoltà di teologia di Bonn, ma le discipline che qui lo interessarono furono altre. Questa università venne scelta, infatti, da numerosi ex allievi di Pforta per l’enorme prestigio e la fama dei suoi docenti, specialmente per quanto concerneva l’attività filologica. La filologia classica aveva in Jahn e Ritschl dei luminari riconosciuti, la filologia romanza fu fondata qui da Diez e Schlegel vi aveva introdotto l’insegnamento del sanscrito. L’inclinazione naturale di Nietzsche lo portava verso la filologia classica, benché non sapesse decidere se seguire i corsi di Jahn, studioso della Grecia, archeologo, musicista e storico della musica oppure quelli di Ritschl, esperto di Omero, conoscitore della tragedia greca e specialista di grammatica latina. Difficoltà accentuata, inoltre, dalla rivalità che scoppiò tra i due colleghi e che spinse Ritschl alle dimissioni e al trasferimento all’università di Lipsia. Nietzsche, dunque, nel 1865, prese la decisione definitiva di passare alla facoltà di filologia e di trasferirsi a Lipsia, sia per seguire il suo maestro Ritschl, al quale nel frattempo si era avvicinato, sia per godere della presenza dell’amico Gersdoff.
44F.
Nietzsche, Epistolario (1850-1869), Adelphi 1976, p. 239.
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Il 17 ottobre 1865 Nietzsche arrivò a Lipsia ed esattamente una settimana dopo, come usanza, Ritschl tenne la sua prolusione inaugurale sul valore e l’utilità della filologia. Ciò che davvero lo colpì fu, però, “l’energia giovanile della sua parola” e “il vivace fuoco della sua mimica”45. Una particolare esigenza aveva spinto Nietzsche nelle braccia della filologia. Ricordiamo le sue stesse parole: “Voglio dire che ricercavo un contrappeso alle inquiete e mutevoli inclinazioni che mi avevano dominato fino allora, una scienza che potesse venir coltivata con fredda riflessione, con logico distacco e con operosità uniforme, senza toccare subito il cuore coi suoi risultati. Tutto ciò io credevo di trovarlo allora nella filologia”46. E una particolare circostanza ve lo aveva trattenuto: “La maggior fortuna fu per me imbattermi in eccellenti insegnanti di filologia, sulla cui personalità io misurai il giudizio circa la loro disciplina. Se allora avessi avuto dei maestri quali si trovavano talvolta nei licei, gretti micrologi del sangue di ranocchi, […] avrei respinto lungi da me il pensiero di appartenere mai a una scienza che conta simili lazzaroni per sacerdoti”47. Ritschl, una sera, invitò a casa sua alcuni ex allievi di Bonn, tra i quali c’era anche Nietzsche, esortandoli con calore a dar vita a una associazione filologica. Immediatamente Nietzsche, insieme ad altri tre compagni, si entusiasmò all’idea e l’associazione venne fondata nel dicembre del 1865. Vi tenne la sua prima conferenza il 18 gennaio 1866. Dapprima timido e impacciato, seppe poi catturare l’attenzione e il plauso degli ascoltatori, parlando con trasporto dell’ultima redazione della Silloge teognidea. La reazione positiva ottenuta, gli fece aumentare a tal punto la stima di sé da portarlo a commettere un’azione avventata. Decise, infatti, di piombare senza preavviso, un pomeriggio, da Ritschl e di lasciargli questo suo lavoro, sperando in un’approvazione. Al momento, il maestro lo trattò con malcelata freddezza, ma, nei giorni seguenti, lo invitò nuovamente, e dopo avergli rivolto qualche domanda “dichiarò di non aver mai visto un tale rigore metodico, una simile sicurezza combinatoria nel lavoro di uno studente del terzo semestre”48. Da quel momento le visite di Nietzsche divennero quasi un appuntamento fisso. Verso l’ora di pranzo lo raggiungeva, infatti, nel suo studio, trovandolo sprofondato nella poltrona con accanto un bicchiere di vino rosso, ben 45
F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 161. Ibid., p. 184. 47 Ibid., p. 185. 48 F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 165. 46
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disposto alla conversazione. Nacque, così, un rapporto schietto e di confidenza. Ritschl, come prima cosa, gli consigliò di rielaborare il lavoro su Teognide, pensando a una futura pubblicazione. Nietzsche adattò, dunque, il suo scritto in forma di opuscolo e nel 1867 esso comparve sul “Rheinisches Museum”, la più prestigiosa rivista filologica tedesca. Così ricorda: “[…] furono quelli i giorni in cui nacqui come filologo e sentii lo stimolo della fama che c’era da raccogliere per quella via” (ivi), Un altro importante lavoro filologico, che servì come materiale per una conferenza dell’associazione nel 1866, fu quello relativo alle fonti di Suida, su lessico tardo-bizantino del X secolo d.C. attribuito a questo lessicografo. Ritschl fece accostare, sempre in questo periodo, Nietzsche a Eschilo, il più antico e oscuro dei tre tragediografi greci, proponendogli di compilare, dietro compenso un “lessico eschileo” per un altro studioso, Dindorf. Questo lavoro, però, non fu mai portato a termine. Durante il terzo semestre del 1866, Nietzsche scrisse anche lo studio sui Cataloghi degli scritti aristotelici e sull’argomento tenne una conferenza. Questa ricerca gli consentì di sviluppare, come tematica di fondo, la Critica delle fonti di Diogene Laerzio. Ritschl spronò Nietzsche ad approfondirne l’analisi per un motivo preciso. Il concorso bandito di lì a poco dall’Università, infatti, ebbe proprio come oggetto le fonti di Diogene Laerzio. Nietzsche vi partecipò, vincendo senza difficoltà. Anche questo lavoro venne stampato poi sul “Rheinisches Museum” insieme a Il canto di Danae di Simonide. Nel 1867, invece, l’interesse filologico di Nietzsche si era rivolto alla questione omerica. Interesse che sfociò in una conferenza sulla Contesa degli aedi nell’Eubea, nella quale Nietzsche contestò con vigore l’idea che l’agone tra Omero ed Esiodo fosse soltanto un simbolo, affermandone la contemporaneità. Durante il periodo universitario a Lipsia, Nietzsche conobbe proprio tra i colleghi filologi, l’amico più importante della sua vita, Erwin Rohde. Figlio di un medico, più giovane di lui di un anno, Rohde era un ragazzo scontroso e rude all’apparenza, ma sensibile e dolce nella sostanza. Vissero un’amicizia appassionata. Stavano insieme quasi tutta la giornata, seguivano corsi di equitazione e alla sera si esercitavano al tiro con la pistola o andavano a teatro. 37
Una profonda prova d’amicizia Nietzsche la riceverà dallo stesso Rohde nel 1872, proprio nel pieno della polemica innescata dalla pubblicazione della Nascita della tragedia. Nel maggio del 1872, infatti, il filologo Wilamowitz–Moellendorf scrisse un opuscolo intitolato Filologia dell’avvenire contestando la completa mancanza di metodo filologico e storico di quest’opera di Nietzsche. Rohde prese le sue difese pubblicando a sua volta un libello contro Wilamowitz, azione che gli costò l’allontanamento dalle cattedre universitarie per diversi anni. Nietzsche lo ringraziò, commosso, in una lettera: “[…] non potrò mai dirti a parole quale servizio m’hai reso. Sarei stato assolutamente incapace di renderlo a me stesso, e so che non esiste altr’uomo al mondo da cui avrei potuto aspettarmi tale prova di amicizia”49. Sempre nel 1867 Nietzsche fu attirato dalla figura di Democrito e così intraprese un’analisi dei suoi scritti. Anche se questo lavoro non fu mai concluso, è necessario tuttavia ricordarlo per il particolare sfondo filosofico che avvolse la ricerca filologica. Lavoro al quale Nietzsche si dedicò nei momenti liberi dal servizio militare. Il 9 ottobre 1867 era, infatti, entrato a far parte della seconda batteria del reparto a cavallo del reggimento di artiglieria a Naumburg. In una divertente lettera all’amico Rohde, così descrive l’atmosfera: “Di colpo respiri aria di stalla, al pallido chiarore di una lanterna ti appaiono delle figure e tutt’attorno odi nitrire […]. Nel bel mezzo poi, vestito da stalliere, tutto affannato a portare via innominabili sconcezze o a strigliare il ronzino – il solo vederlo mi terrorizza – ci sono io per la miseria …”50. Esperienza militare che terminò all’inizio di marzo del 1868, in seguito a un incidente a cavallo. Nietzsche riprese, dunque, con zelo la carriera universitaria raccogliendo il materiale per una conferenza sul cinico Menippo e sulle satire di Varrone. Questo fu il suo ultimo lavoro filologico. All’università Nietzsche seguì con interesse anche un corso di paleografia, tenuto da Tischendorf. Grazie all’appoggio di Ritschl, inoltre, ebbe la possibilità di accedere ai preziosi codici conservati nella biblioteca comunale di Lipsia.
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F. Nietzsche, Epistolario (1865-1900), a cura di B. Allason, Einaudi 1962, p. 76. Id., Epistolario (1850-1869), cit., p. 538.
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Nel 1868 Nietzsche pensava alla laurea e alla futura attività di professore, ne parla così a Rohde: “Noi, comunque, affrontiamo entrambi questo futuro accademico senza speranze eccessive; ciò non di meno ritengo che la posizione di professore consenta e garantisca anzitutto di dedicarsi ai propri studi, inoltre di avere una sfera di azione assai utile e, infine, una posizione abbastanza indipendente dal punto di vista sia politico che sociale”51. Prima, però, di dire addio al “tempo dorato di un’operosità libera” e far regnare il “dio severo del dovere quotidiano”52, Nietzsche progettò un viaggio di un anno a Parigi in compagnia di Rohde. Ma gli giunse un’offerta impossibile da rifiutare che mutò il corso della sua esistenza. Anche in questo caso l’intervento di Ritschl fu determinante. Quando, infatti, nel 1868, si liberò la cattedra di lingua e letteratura greca all’università di Basilea e il precedente titolare, Adolf Kiessling, chiese informazioni su Nietzsche proprio a Ritschl, egli colse la palla al balzo per tessere le lodi del suo pupillo. La nomina di Nietzsche come professore straordinario di filologia classica divenne ufficiale il 10 febbraio 1869. All’inizio l’inaspettata novità inorgoglì il giovanissimo neo-professore che pensò a divulgare la notizia, a comprare abiti nuovi e a cercare addirittura un domestico. L’entusiasmo, però, svanì presto, lasciando il posto ai dubbi. Si sfogò con il fidato amico Rohde: “[…] non più tardi della settimana scorsa volevo scriverti per proporti di studiare insieme chimica, e di gettare la filologia tra gli utensili domestici dei nostri progenitori, dove è il suo posto”53. Oppure: “Ciò mi rattrista, ma nessuno dei miei conoscenti se ne accorge. Il titolo di professore di filologia li abbaglia e mi ritengono l’uomo più felice della terra”54. Il 13 aprile 1869, di mattina presto, Nietzsche salì sulla carrozza alla volta di Basilea. Il 28 maggio 1869 tenne la sua prolusione all’università dal titolo Omero e la filologia classica. Ecco le sue parole: “Anche a un filologo è lecito condensare il fine dei suoi sforzi e la via per arrivarci nella breve formula di una confessione di fede; e dunque sia fatto, invertendo una frase di Seneca: “Philosophia facta est quae philologia fuit”. Con questo si vuole dire che ogni attività filologica deve essere compresa e inscritta in una concezione filosofica del mondo, in cui ogni elemento singolo e isolato svapora come qualcosa di riprovevole, e solo il tutto e l’unitario persiste”. 51
F. Nietzsche, Epistolario (1850-1869), cit., p. 583. Ibid., p. 691. 53 Ibid., p. 665. 54 Ibid., p. 686. 52
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1.6 Osservazioni sulla filologia nietzschiana Per capire l’importanza che Nietzsche attribuisce alla parola possiamo utilizzare una metafora chiarificatrice da lui stesso introdotta, ossia quella della “maternità”. La parola non è mai, per Nietzsche semplice accessorio che ci permette di rappresentare un pensiero, bensì è la condizione essenziale di vita del pensiero stesso. Non esiste pensiero, se non racchiuso nella parola. La scrittura diventa, a questo punto, lo strumento che ci consente di fornire a questo nostro pensiero una vita indipendente all’esterno di noi. Sostiene, infatti, Nietzsche: “[…] scrivere è per me una imperiosa necessità. […] per dirtelo in confidenza, io non ho finora trovato alcun altro mezzo per liberarmi dai miei pensieri”55. Il pensiero si forma, dunque, dentro di noi, come il bimbo nella pancia della mamma, e proprio come il bimbo, una volta terminato il suo sviluppo, viene espulso attraverso il parto, così avviene per il nostro pensiero mediante la scrittura. A tal proposito, Nietzsche, afferma: “È cosa che non finisce mai di sorprendere uno scrittore il fatto che il libro, non appena si sia staccato da lui, continui a vivere una vita per conto proprio. […] forse egli lo dimentica quasi del tutto […], forse ha perduto le ali con le quali volava allora: intanto quello si cerca i suoi lettori, infiamma esistenze, allieta, spaventa, genera nuove opere. Se poi si considera che ogni azione di un uomo diventa in qualche modo motivo di altre azioni, decisioni, pensieri, si conosce la sola vera immortalità che ci sia, quella del movimento: ciò che una volta ha mosso è incluso ed eternato nella catena totale dell’essere, come un insetto nell’ambra”56. Scrivere un’opera, è dunque, per Nietzsche espellere una parte di sé e renderla perciò eterna. Infatti: “Il pensatore, e così pure l’artista, che hanno messo al sicuro in opere il loro migliore se stesso, provano una gioia quasi maligna nel vedere come lentamente il loro corpo e il loro spirito vengano manomessi e distrutti dal tempo, quasi che da un angolo vedessero un ladro lavorare sulla loro cassaforte e sapessero che essa è vuota e che tutti i valori sono stati messi in salvo”57. 55
F. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi 1965, p. 129. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, Adelphi 1965, p. 144. 57 Ibid., p. 145. 56
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Inoltre, durante la stesura di un libro, come in gravidanza, dobbiamo badare ad alcuni accorgimenti: “Nei periodi in cui sono più sprofondato nel lavoro non si vedono libri intorno a me: mi guarderei bene dal lasciare parlare o anche pensare qualcuno nelle mie vicinanze. E leggere sarebbe proprio questo … […] Per quanto possibile, bisogna evitare il caso, lo stimolo esterno; murarsi in se stesso è una delle prime accortezze dell’istinto durante la gravidanza spirituale”58. Il genitore non ha la possibilità di decidere con quali lineamenti o colore di capelli nascerà suo figlio, lo scrittore può, invece, compiere attivamente delle scelte di stile. Lo stile è, per Nietzsche, la fisionomia, il corpo del pensiero ed è basilare descriverlo in tutte le sue molteplici sfumature. Puntualizza, infatti, in Ecce homo: “Comunicare uno stato, una tensione interna di pathos, per mezzo di segni, compreso il ritmo di questi segni – questo è il senso di ogni stile; e visto che in me la molteplicità degli stati interni è straordinaria, mi trovo ad avere molte possibilità di stile – forse la più molteplice arte dello stile di cui un uomo abbia mai disposto”59. Lo stile deve, inoltre, dimostrare: “ […] che si crede ai propri pensieri, e che non solo li si pensa, ma li si sente. Quanto più astratta è la verità che si vuole insegnare, tanto più bisogna sedurre in primo luogo i sensi”60. Durante il periodo della sua formazione, Nietzsche fu particolarmente attratto dalle civiltà antiche e dalle loro produzioni letterarie. Accolse, infatti, da esse numerosi suggerimenti per la delineazione del suo stile: “Il mio senso dello stile, dell’epigramma come stile si destò quasi immediatamente al contatto con Sallustio. Serrato, rigoroso, con la maggiore sostanza possibile nel fondo, con una fredda malvagità verso la “bella parola”, e anche verso il “bel sentimento” – in ciò divinai me stesso”61. Due sono le caratteristiche principali del suo modo di scrivere, quella della brevità, così spiegata: “Una cosa detta in breve può essere il frutto e il raccolto di molte cose pensate a lungo: ma un lettore nuovo in questo campo, che non ci ha ancora riflettuto molto, in tutto quello che è detto in breve vede qualcosa di embrionale, non senza un cenno di biasimo per l’autore”62.
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F. Nietzsche , Ecce homo, Adelphi 1965, p. 39. Ibid., p. 61. 60 F. Nietzsche , Frammenti postumi, 1882, 1 [45]. 61 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi 1970, p. 130. 62 Id., Umano, troppo umano, II, Adelphi 1967, 1-127. 59
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E quella dell’incompiutezza: “Così come non solo l’età adulta, ma anche la giovinezza e l’infanzia hanno un valore in sé e non sono affatto da giudicare come meri passaggi e ponti, anche i pensieri non giunti a compimento hanno un loro valore. Bisogna perciò non tormentare un poeta con sottili interpretazioni, ma compiacersi dell’incertezza del suo orizzonte, come se fosse ancora aperta la via ad altri pensieri”63. La scelta di uno stile particolare è, per Nietzsche, necessaria anche per ottenere un altro scopo fondamentale, che spiega con queste parole: “Quando si scrive, non si vuole soltanto essere compresi, ma senza dubbio anche non essere compresi. Non è ancora affatto un’objezione contro un libro, se una persona qualsiasi lo trova incomprensibile: forse proprio questo era nell’intenzione del suo autore – egli non voleva essere compreso da “una persona qualsiasi”. Ogni nobiltà di spirito e di gusto si sceglie anche i suoi ascoltatori, quando vuole parteciparsi: scegliendo traccia al tempo stesso i suoi confini”64. Per comprendere le peculiari caratteristiche con le quali la filologia di Nietzsche si presenta, è utile distinguere periodi diversi nel loro inquieto rapporto. Fin dal primo incontro, infatti, Nietzsche sentì immediatamente l’esigenza di criticare alcuni aspetti di questa disciplina e di introdurne altri che fossero in grado di modificarla. L’analisi di un testo, per Nietzsche, non doveva condurre all’unico risultato consistente nella riproduzione di senso, bensì doveva spalancare, di fronte al filologo, tutto il mondo del suo autore. Nietzsche si lamenta prima di tutto dell’unilateralità con la quale l’antichità viene considerata e così si sfoga in una lettera all’amico Gersdoff: “[…] alla maggior parte dei filologi manca quella esaltante visione complessiva dell’antichità, poiché essi si pongono troppo vicino al quadro e indagano su una macchiolina d’olio, invece di ammirare i tratti grandiosi e audaci dell’intero dipinto e, cosa ancor più importante, di goderne”65. La filologia è sempre stata considerata da Nietzsche un abito troppo stretto da far indossare alla sua esuberante creatività. La trovava, infatti, poco stimolante perché fondamentalmente “passiva” rispetto allo studioso che se ne occupava e per questo degna di scarsa lode. Scrive, a tal proposito: “[…] ho l’impressione che proprio le opere filologiche meritino meno di tutte le altre ammirazione […]. Molti libri hanno proprio quel merito che noi attribuiamo ai viaggiatori che giungono per la 63
Id., Umano, troppo umano, I, cit., p. 144. Id., La gaia scienza, cit., p. 317. 65 F. Nietzsche, Epistolario (1850-1869), cit., p. 515. 64
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prima volta in un paese sconosciuto e lo descrivono, e potrebbero essere benissimo delle teste vuote. Di altri ammiriamo l’abbondanza di idee ecc., che tuttavia non sono dell’autore, ma di coloro che l’hanno preceduto; della maggior parte riconosciamo soltanto la diligenza spaventosa […]”66. Proprio per porre rimedio a questi limiti evidenti, Nietzsche vorrebbe dar vita a una filologia “creativa”, capace da un lato di rispettare il testo e dall’altro di personalizzarlo con l’introduzione di congetture e supposizioni. In questo modo, anche il filologo acquisterebbe un ruolo attivo e non sarebbe unicamente destinato a un lavoro meccanico e privo di entusiasmo. Afferma, infatti : “La cosa che mi piacerebbe di più sarebbe scoprire un nuovo punto di vista”67. Per raggiungere questo risultato Nietzsche pensa, in primo luogo, di cambiare lo stile della scrittura filologica: “Non vorrei davvero più scrivere in quel modo arido e legnoso, rigorosamente aderente al filologico […]”68, confessa. Il secondo passo progettato è, invece, quello di inserire la ricerca filologica con i suoi risultati, all’interno di una più ampia visione filosofica della realtà. Felice, scrive all’amico Rohde: “Per ora sono molto ottimista circa questo lavoro [Democrito]: è andato acquistando uno sfondo filosofico, cosa che non ero mai riuscito a fare in nessuno dei miei lavori […]”69. Dal 1869, come già sappiamo, Nietzsche fu professore di filologia classica a Basilea, quasi ininterrottamente, per dieci anni. Il rapporto diretto con l’insegnamento di questa scienza e la progressiva maturazione di Nietzsche come filosofo, lo portarono a un definitivo allontanamento dalla filologia, testimoniato da numerose lettere come questa: “[…] dalla filologia vivo in separazione sdegnosa, che peggiore non è possibile immaginarsela. Lode e biasimo e anche la gloria più alta in questo campo mi danno solo nausea”70.
Mentre Nietzsche cerca se stesso, comprende che la strada da percorrere per trovarsi è quella della filosofia. Situazione, questa, della quale acquisisce
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Ibid., p. 627. Ibid., p. 511. 68 Ibid., p. 514. 69 Ibid., p. 567. 70 F. Nietzsche, Epistolario (1865-1900), cit., p. 56. 67
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piena consapevolezza durante l’anno di congedo dall’insegnamento, ottenuto per l’aggravarsi delle sue sempre precarie condizioni di salute, dall’ottobre 1876 al settembre 1877. In compagnia di amici decide di fare un viaggio in Italia, stabilendosi a Sorrento. Qui, ricompare quella stessa gioia, provata da studente, di poter organizzarsi la giornata, fare lunghe passeggiate e conversare animatamente. Dalle lettere di questo periodo emerge la lacerante difficoltà di dover tornare nuovamente sotto “il vecchio strato di muschio della quotidiana schiavitù del lavoro filologico”71. Nietzsche, infatti, così analizza la sua vita: “Ora mi appare sempre più chiaro che in realtà è stata l’eccessiva violenza che ho dovuto fare a me stesso a Basilea a farmi ammalare, la capacità di resistenza alla fine era spezzata. Io lo so, lo sento, che sono chiamato a qualcosa di più alto di quel che si esprime nella mia tanto rispettabile posizione di Basilea; e io sono più che un filologo, per quanto possa giovarmi anche della stessa filologia per il mio compito”72. La filologia rimane, comunque, un mezzo privilegiato per parlare con il mondo antico ed entrarne empaticamente in contatto. Nietzsche si sofferma più volte a sottolineare l’importanza delle traduzioni e la maggiore difficoltà che vi si può incontrare: “Ciò che di una lingua è traducibile nel modo peggiore in un’altra, è il tempo del suo stile, che come tale trova il suo fondamento nel carattere della razza […]”73. Oppure: “Per godere un’opera del passato come la sentivano i contemporanei bisogna avere sulla lingua il gusto dominante dell’epoca, contro il quale essa risaltò”74. In conclusione, Nietzsche non disdegna affatto i risultati a cui la ricerca filologica giunge, non accetta soltanto di dover essere proprio lui a cercarli, sottraendo tempo prezioso per un lavoro privo di creatività. Dice, infatti, della filologia: “[…] il suo presupposto è che non manchino quegli uomini rari che sanno realmente utilizzare questi libri tanto preziosi – saranno proprio quelli che faranno da sé libri del genere o che saprebbero farli. Volevo dire che la filologia presuppone una nobile fede – quella di
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Id., Epistolario (1875-1879), vol. 3, Adelphi 1976, p. 248. Ibid., p. 254. 73 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi 1968, p. 35. 74 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, 1880, 2-100. 72
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dover cioè sbrigare una enorme mole di lavoro meticoloso e anche poco pulito a tutto vantaggio di quei pochi che sempre “sono di là da venire”: è tutto lavoro in usum Delphinorum”75. Un ultimo cenno è riservato alla capacità della filologia di insegnare, in un’epoca che corre sempre, a leggere con lentezza e soffermarsi sulle diverse possibilità di una lingua. Nietzsche, fin da bambino, fu dominato da un particolare istinto pedagogico che esercitava sui compagni di scuola e sulla sorellina Elisabeth, che lo ascoltava estasiata senza battere ciglio. Durante gli anni della formazione universitaria, in una delle sue autobiografie, è lo stesso Nietzsche a confessarci che, nella maggior parte dei corsi ciò che lo attraeva “non era affatto la materia, bensì solo la forma in cui l’insegnante accademico impartiva il suo sapere agli uditori”76. Voleva imparare a fare l’insegnante, e ci riuscì. Nietzsche professore fu amatissimo dagli studenti. Quando, infatti, arrivava in classe, immediatamente accostava le persiane per evitare la luce diretta del sole, creando così una piacevole penombra. Immerso in questa atmosfera, benché timido, si lasciava trascinare da ciò che diceva a tal punto da dimenticare il mondo attorno a sé. Era parco di lodi, ma anche di rimproveri ed era veramente felice quando un allievo tra i meno dotati riusciva ad ottenere qualche buon risultato. La caratteristica, però, che maggiormente lo distingueva era il costante tentativo di spingere gli scolari ad esprimersi liberamente. Ricorda Luis Kelterborn, suo studente nel 1870: “Nei colloqui, il maestro in lui sembrava ritirarsi completamente sullo sfondo, e cercava invece con domande di incoraggiare il suo ospite a esprimere liberamente la sua opinione, anche se si trattava di un allievo”77. Nietzsche amava insegnare, ma l’idea di cultura che si era formato non combaciava assolutamente con quella allora in voga. Molte, infatti, delle sue opere hanno per oggetto proprio la critica della cultura e la possibilità di un cambiamento. All’inizio del 1872, Nietzsche, per incarico della Società Accademica di Basilea, tenne cinque conferenze dal titolo Sull’avvenire delle nostre scuole, poi raccolte in un libro. 75
Id., La gaia scienza, cit., p. 141. Id., La mia vita, cit., p. 161. 77 Testimonianza di L. Kelterborn, in C. Pozzoli, Nietzsche, cit., p. 171. 76
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L’idea di base che Nietzsche sostiene con fervore è che la cultura, invece di essere autonoma, è ormai completamente assoggettata al volere dello Stato, che si sente, dunque, legittimato ad organizzare l’istruzione in base alla sue specifiche necessità. La cultura, ampliata e indebolita, deve essere rapida e avere come fine l’utilità e il guadagno. Ma, sbotta Nietzsche, questa è soltanto “pseudocultura”. Noi dobbiamo, invece, combattere per ripristinare la vera cultura che può germogliare soltanto sul terreno della cultura classica. E, questo percorso deve partire da un punto preciso, ossia dall’insegnamento della lingua tedesca. Nietzsche si lamenta del fatto che: “Oggi tutti parlano e scrivono naturalmente la lingua tedesca in modo tanto cattivo e volgare, quanto è suggerito da un’epoca che impara il tedesco dai giornali. […] Mi vergogno di una lingua così storpiata e infamata”78. E aggiunge: “[…] Al liceo vengono inculcati tutti i mali del nostro ambiente letterario e artistico, ossia la tendenza a produrre in modo frettoloso e vanitoso, la smania spregevole di scriver libri, la completa mancanza di stile, un modo di esprimersi che non è stato affinato, che è privo di carattere o miseramente affettato, la perdita di ogni canone estetico, la voluttà dell’anarchia e del caos […]”79.
I libri scritti in tedesco sono una “palude d’accordi senza armonia, di ritmi senza danza”80. Nietzsche è sempre più consapevole dell’impossibilità di salvare una situazione ormai completamente degenerata. Anche nella seconda delle sue Considerazioni inattuali, quella Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Nietzsche si stupisce del fatto che lo studioso non sia altro che un’“enciclopedia ambulante” e che la cultura venga intesa come “decorazione”81 della vita e non come vita stessa. Situazione, questa, a cui Nietzsche dà una precisa spiegazione nel Crepuscolo degli idoli, quando addossa la colpa di tutto ciò alla sete di potere e alla politica: “Se ci si spende per il potere, per la grande politica, […] per gli interessi militari – se si dà via da un lato quel tanto di intelletto, di serietà, di volontà, di superamento di sé, che si è, allora ciò viene a mancare dall’altro. […] tutte le grandi
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F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi 1973, pp. 40-41. Ibid., p. 47. 80 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 35. 81 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi 1973, p. 99. 79
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epoche della cultura sono epoche di decadenza politica. […] ormai lo si sa dovunque: per l’essenziale – e l’essenziale rimane la cultura – i Tedeschi non hanno più peso”82.
Nietzsche elabora, dunque, una soluzione alternativa, ovvero quella di dar vita a un’istituzione indipendente dallo Stato. Ne parla in una lettera a Rohde: “[…] un bel giorno dunque scaraventeremo via questo giogo! […] e fonderemo una nuova Accademia ellenica!”83. Questo sogno di una cultura interamente rinnovata affascinerà Nietzsche per lungo tempo, anche se non vedrà mai una concreta realizzazione. Ma Nietzsche non smise mai di combattere e ancora nel 1887, in una lettera dice: “A me la Germania degli ultimi quindici anni fa l’effetto di essere diventata una formale scuola di istupidimento. Da lontano ha l’aria di acqua, fango e pattume. Essa rappresenta la forma più stupida, più putrida, più falsa dello “spirito tedesco” che mai ci fu”84. Per concludere, un ultimo pensiero particolarmente intenso: “Mi si chiede abbastanza spesso a quale scopo io scrivo in tedesco: in nessun altro luogo io sarei letto peggio che in patria. Ma chi sa infine se io proprio desidero di essere letto oggi? – Creare cose su cui il tempo prova invano i suoi denti; affaticarsi nella forma e nella sostanza, per una piccola immortalità – io non sono mai stato abbastanza modesto per pretendere qualcosa di meno da me stesso. L’aforisma, la sentenza, sono le forme dell’‘eternità’; la mia ambizione è quella di dire in dieci proposizioni quel che ogni altro dice in un libro – quel che ogni altro non dice in un libro”85.
1.7 Autentica passione o giogo insopportabile? Indubbiamente Leopardi e Nietzsche seppero esprimersi con estrema chiarezza, ebbero sempre un eloquio elegante e i loro discorsi, come lingua rasposa che uncina il malcapitato insetto, afferrarono spunti arguti meravigliosi dalla realtà circostante che utilizzarono poi per far pulsare di vita il proprio pensiero. L’analisi fin qui svolta mette inoltre in luce una piena convergenza dei precetti stilistici ritenuti indispensabili dai nostri due autori, che possono essere convenientemente sintetizzati nella presenza costante di semplicità e chiarezza, abbinata ad una febbrile ricerca di immagini metaforiche concrete 82
Id., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 75. Id. , Epistolario (1865-1900), cit., p. 51. 84 Ibid., p. 257. 85 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 129. 83
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che, con la loro immediata forza intuitiva, hanno il potere di cristallizzare nella memoria il pensiero più astratto e sfuggente. C’è, però, una differenza degna di nota che non deve passare inosservata. Leopardi, infatti, considerò unico e indiscusso modello di stile la letteratura antica, laddove Nietzsche seppe trarre interessanti spunti anche da quella moderna. Questa precisazione potrebbe spiegarci, almeno in parte, la costante fedeltà alla filologia di Leopardi e il progressivo allontanamento da essa di Nietzsche. L’indefessa attività filologica leopardiana è, infatti, testimonianza di quell’imperiosa necessità che spingeva Leopardi ad esigere un contatto diretto con il testo antico, dal quale suggere con avidità validi esempi e attraenti suggerimenti di stile e non solo di pensiero. Per Leopardi, dunque, l’aver assunto divergenti posizioni concettuali rispetto a quelle di un ipotetico autore da tradurre non era, certo, motivo sufficiente per farlo desistere dall’impresa, come nel caso eclatante della sua lettura di Platone. Quando, infatti, nel 1823, gli giunse la proposta dell’editore Filippo De Romanis di tradurre l’opera omnia platonica, pur avendo deciso di rifiutarla, trovandosi tra le mani l’edizione degli scritti di Platone con la traduzione latina di Friedrich Ast, fornitagli dallo stesso editore, Leopardi non seppe resisterle e si immerse in un’assidua lettura che si protrasse fino al gennaio del 183286. La cultura cattolica italiana aveva rinverdito l’interesse per la filosofia platonica e per il neoplatonismo, sollecitata dall’impellente urgenza di trovare un efficace baluardo contro la pericolosità delle idee moderne, in grado di sostituire l’ormai logoro e insufficiente aristotelismo scolastico. Leopardi, invece, fu un convinto assertore della critica alle “idee preesistenti alle cose”87, che incontrò per la prima volta nel 1820, leggendo l’Essai sur le goût di Montesquieu88, e che, da quel momento, non abbandonò più. Decisamente avverso al platonismo, quindi, Leopardi non subì il fascino del pensiero platonico, ma ne sentì vivamente la suggestione artistica.
86 Letture platoniche di Leopardi dal gennaio 1823 alla fine di aprile: Protagora, Fedone, Ipparco, Menesseno, Minosse, Clitofonte, Anterastae, Gorgia, Fedro; maggio 1823: Teeteto; luglio 1823: Sofista, Convito; marzo 1824: Fedro; gennaio 1825: dialoghi pseudo platonici; ottobre 1825: Teagete, Alcibiade secondo, Carmide, Lachete; dicembre 1827: Repubblica, Ipparco; maggio 1828: Cratilo; gennaio 1832: Apologia, Critone. 87 G. Leopardi, Zibaldone, 1713, 16 settembre 1821. 88 Ibid., 154, 6 luglio 1820.
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Disseminate, nell’ampia messe di pensieri dello Zibaldone, rinveniamo sperticate lodi alla scrittura di Platone che Leopardi encomia come “sommo e perfetto esempio di bellissima prosa, elegantissima bensì e soavissima”89. L’estrema semplicità e naturalezza, poi, con la quale, come abbiamo visto, Leopardi apprese le lingue più disparate e quella sua autentica passione da “psicologo”, che lo fece impegolare in delicate e complesse questioni grammaticali e lessicali, al solo fine di determinare l’indole propria di una lingua, lo spinse ad affermare, nelle prime pagine del suo diario intellettuale: “Il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso, perché noi pensiamo parlando. Ora nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl’infiniti particolari del pensiero. […] Cosa ch’io ho provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine, secondo che mi rispondevano più precisamente alla cosa […]”. (Zib., 95)
L’avere, dunque, una totale consapevolezza delle proprie risorse espressive e delle molteplici sfumature che le contraddistinguono è, per Leopardi, il primo indispensabile passo per far sì che una traduzione non si limiti alla sterile e sommaria riproduzione del senso di un brano, ma diventi vera e propria sfida creativa, culminante nella capacità di riportare in vita, con mezzi autonomi e originali, lo stile di cui quel testo si era nutrito. Fu questo particolare metodo di procedere filologico, unito a una sempre rigorosa fedeltà al documento in esame, che permise a Leopardi di essere conosciuto e sinceramente stimato da alcuni eruditi stranieri, tra i quali ricordiamo, in modo particolare, il Niebuhr, prestigioso professore di storia romana, originario della Germania, patria indiscussa della filologia. Trovandosi, infatti, a Roma dal 1816 in qualità di ambasciatore prussiano presso la Santa Sede, incontrò Leopardi in occasione del suo soggiorno romano del 1822, rimanendo a tal punto impressionato dalle sue potenzialità, da lottare indefessamente per tutta la vita, al fine di garantire al giovane filologo un impiego che gli consentisse di non sprecare neppure una preziosissima goccia di quel suo straordinario dono. Anche dopo aver concluso il suo mandato ed essere ritornato ad insegnare a Bonn, Niebuhr non si diede per vinto, e per bocca del suo sostituto Bunsen, invitò sovente Leopardi a trasferirsi in Germania, assicurandogli una cattedra all’università, o lo spronò a divenire collaboratore del “Rheinisches Museum”, la più importante rivista filologica tedesca, sulla quale vennero pubblicati anche tutti i lavori di Nietzsche.
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Ibid., 3421, 12 settembre 1823.
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Lo stesso Nietzsche, infatti, conobbe il volto “erudito” di Leopardi e lo apprezzò oltremodo, definendolo addirittura, in un frammento postumo, “l’ideale moderno di filologo”, aggiungendo poi, con sprezzante tono polemico “i filologi tedeschi non sanno fare nulla”90. Tuttavia, il legame di Nietzsche con la filologia non assomigliò, neppur vagamente, all’intensa storia d’amore che con lei aveva vissuto Leopardi, anzi, fu una sorta di sbiadito “matrimonio di convenienza”. La bruciante passione per la filosofia, che invase Nietzsche, attraversò quel matrimonio come un arcobaleno e durò per sempre – tanto che fu proprio quel matrimonio “filologico” ad apparirgli poi come il più grave dei tradimenti. All’inizio, infatti, cominciò a frequentare la filologia, pungolato dall’impellente bisogno di vedere una realizzazione concreta dell’impegno profuso, impietrito dal timore che una tale mole di costante lavoro svanisse nelle tortuosità dell’assenza di scopo. Successivamente, come già abbiamo avuto modo di evidenziare, si unì a lei in matrimonio, durato i dieci anni di insegnamento a Basilea, insuperbito dagli ottimi risultati ottenuti, dagli entusiastici attestati di stima e dallo stuzzicante profumo di gloria. Durante questa convivenza forzosa, Nietzsche, simile a un’ape bramosa di avventarsi su un fiore delicato, approfondì autori, quali Diogene Laerzio o Democrito, che gli consentirono di avvicinarsi alla filosofia, o tenne innumerevoli corsi sulla poesia lirica ed epica greca o sulla tragedia attica, pascendosi della soavità e morbidezza della parola poetica. Ad un certo punto, però, la relazione si esaurì, perché Nietzsche, a differenza di Leopardi, percepì la filologia come un giogo sempre più opprimente e insopportabile sulle spalle, che teneva a freno la sua briosa creatività. Nietzsche, dunque, soffocato dalla passività, la lasciò per la filosofia, pur mantenendo con lei rapporti amichevoli cordiali. Tornando, poi, al discorso d’esordio di questo paragrafo, dissimilmente da Leopardi, Nietzsche assegnò la palma dello stile ad alcuni scrittori moderni che lo colpirono in profondità. Uno, più di tutti, divenne ai sui occhi, incontrastato modello di stile, Schopenhauer. Il loro primo incontro è datato anno 1865, quando Nietzsche, trasferitosi a Lipsia per motivi di studio, decise di rovistare tra le pile di libri in vendita dall’antiquario Rohn, che risiedeva nella sua stessa casa della Blumengasse. Proprio qui, scartabellando, quasi costretto da una forza demoniaca, come lo stesso Nietzsche racconta nel suo diario autobiografico91, senza rifletterci 90 91
F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1875-76, [IV] 1. Cf. F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 163.
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troppo, circostanza ancora più strana, acquistò Il mondo come volontà e rappresentazione. Giusto il tempo di aprire la porta di casa, e sprofondato nel suo sofà, divorò il libro tutto d’un fiato, rimanendone estasiato. Schopenhauer fu, infatti, un raffinato stilista della parola che non aveva eguali nella prosa filosofica tedesca. Schopenhauer, anzi, convinto che l’utilizzo di uno stile torbido fosse indizio comprovato di mistificazione, ingaggiò una dura battaglia contro tutti quei filosofi, Hegel in prima linea, che si compiacevano dell’oscurità della loro scrittura. C’è una frase del saggio, dedicato da De Sanctis a Schopenhauer, che ben rende quest’idea: “[…] oscuri, irti di formole, vendevano parole che si battezzavano per pensieri. Invano cerchi in loro quella tranquilla e chiara esposizione che è la bellezza del filosofo”92.
L’ideale di stile che Schopenhauer si prefisse di raggiungere, simboleggiato dalla trasparenza e profondità tipica di un lago svizzero, venne incorporato da Nietzsche che, in un pensiero della Gaia scienza, così puntualizza: “Chi si sa profondo, si sforza d’essere chiaro; chi vorrebbe sembrar profondo alla moltitudine, si sforza d’essere oscuro. La moltitudine infatti prende per profondo tutto quello di cui non può vedere il fondo[…]”93.
Schopenhauer, inoltre, con l’intento di rendere ancor più luminoso e privo di zone d’ombra il proprio pensiero, spesso lo tradusse in immagine, così da ottenere un efficace supporto in grado di agevolarne la decifrazione. Nietzsche aderì pienamente anche a questo progetto, sostenendo con vigore: “Quanto più astratta è la verità che si vuole insegnare, tanto più bisogna sedurre in primo luogo i sensi”94.
Nietzsche seppe, poi, incrementare il già affollato parco delle immagini metaforiche di sua produzione, con le quali costellò i punti focali delle opere, facendo incetta di alcune tra quelle più suggestive che rinvenne negli scritti di altri due autori da lui particolarmente amati, Emerson e Hölderlin. Nei lavori nietzschiani si trovano diverse immagini che egli estrapolò dalle opere principali di Emerson, ovvero i Saggi e la Condotta della vita. Tali immagini sono contraddistinte da un senso di pragmatico ottimismo e di piena affermazione nei confronti dell’esistenza, come l’epigrafe alla Gaia scienza, scelta da Nietzsche, che così recita: 92
F. De Sanctis, Dialogo tra A. e D., Rivista Contemporanea 1858, p. 4. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 182. 94 F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1882, 1 [45]. 93
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“Per il poeta e per il saggio tutte le cose sono amiche e benedette, ogni esperienza è utile, ogni giorno sacro, ogni uomo divino”95.
Questa frase rappresenta, infatti, perfettamente il pensiero di Emerson, poeta, saggista e filosofo statunitense, ossia il pensiero di un individuo che, a detta di Nietzsche, “si nutre solo di ambrosia e lascia andare quel che nelle cose è indigeribile”96. Dal prediletto poeta tedesco Hölderlin, invece, Nietzsche trasse l’emblematica immagine poetica dell’autunno, leggendo l’Iperione e l’Empedocle. Autunno che, nelle vigne annuncia la raggiunta maturazione dell’uva e l’imminente vendemmia, come l’autunno “spirituale”, che lascia nel pensatore dolcezza per la conclusione della sua opera, amarezza per l’inevitabile distacco e attesa di una nuova abbondante raccolta.
95 96
Id., La gaia scienza, cit., p. 19. Id., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 91.
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FILOSOFIA E TEOLOGIA
Luigi Ceccarini, Il peccato Il concetto di “peccato” è stato una creazione ebraica. Almeno per noi, occidentali, è un concetto che viene a noi dall’Antico Testamento. La cristianità, o la chiesa, ha approfondito questo concetto e lo ha esteso in modo logico ma non più credibile ai nostri giorni. Il nostro Dio è il Dio delle origini. Non è possibile che abbia dato ordini così estremamente contradditori e irrazionali. Non si deve uccidere, ma i nemici debbono essere sterminati. La Bibbia non può essere in nessun modo la “parola di Dio”. È parola dell’autore umano che esprime la mentalità del popolo ebraico sui rapporti con Dio. È una testimonianza importantissima, che ci serve a comprendere la cultura dov’è nato e cresciuto Gesù. Anche tutta la chiesa primitiva era in maggioranza d’origine ebraica e quindi era formata con tutti i concetti e i pregiudizi ebraici. Per questo anche il Nuovo Testamento contiene storie di peccato, di perdono, concetto parallelo a quello di peccato e, in Paolo specialmente, c’è una vera teologia del peccato. Egli era infatti un rabbino, alunno di Rav Hillel. Però la predicazione di Gesù non poteva contemplare il peccato. Egli rivela che Dio è Amore, che è infinita giustificazione. È Dio che crea la giustizia. È la sua grazia che ci costituisce giusti. Dio non è coinvolto nella nostra giustizia umana. Egli è Dio e non è un giudice o un rabbino e neppure è un prete o un moralista. Non è né un borghese, né un proletario. Egli è al di sopra di tutto e non è categorizzabile con le nostre categorie creaturali. Però ci sono duemila anni di speculazione delle chiese
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circa il peccato e i peccati. È per questo che dovremo esaminare con attenzione e grandi cautele cosa possiamo ancora accettare o respingere di questa tradizione non divina ma totalmente umana. Questo ci permetterà di cogliere meglio il senso della “Legge di santità” implicata dal cristianesimo. Ci permetterà inoltre di esplicitare un ripensamente teologico che ci sembra indifferibile. La teologia deve infatti rendere attuale e comprensibile la rivelazione. Continuare a insistere sul concetto di peccato è contro la concezione di Dio possibile per noi.
1. Peccato originale In teologia la parola “verità” deve essere intesa analogicamente. Non c’è una sola verità, ma ce ne sono molte, perché molte sono le interpretazioni possibili. La verità scientifica non è la verità di fede che a sua volta non è la verità storica, né quella dei fatti che mi sono accaduti, né la verità di una delle teorie che una volta si chiamavano “delle scienze dello spirito”. La verità scientifica è l’opinione condivisa dal gruppo degli “scienziati” circa la probabilità di come stiano le cose, e la si verifica per mezzo dell’esperimento che, nei casi emblematici, si chiama “crucis”. La verità della storia è l’opinione su come probabilmente sono andate le cose e la si verifica con i riscontri contemporanei dei vincitori nella contesa; la verità di fede invece è l’opinione di come noi abbiamo un “senso” e uno scopo nel cosmo e sul nostro rapporto con il divino e la si verifica nel nostro “cuore”. Non nella mente razionale, ma proprio nel cuore (nell’ebraico lev, che è molto più che non la mente e la sensibilità e l’affetto e la speranza e l’attesa. Il cuore, in ebraico, è la persona intesa nella sua totalità e nella sua profondità). Perciò una verità di fede può anche essere letta come una non verità scientifica, senza entrare in contraddizione con la parte razionale di se stessi. Il “mito” è diverso dal “logos” proprio perché ammette verità contrastanti ma non contraddittorie, e interpretazioni che possono variare da individuo a individuo e pur sempre restare tutte vere. Il mito ci narra le verità più profonde e più difficilmente esprimibili attraverso parole e figure che non debbono essere confuse con l’arida narrazione storica o metafisica o, peggio ancora, scientifica. La narrazione mitica è indicibilmente più ricca e più evidente di ogni “trattato” scientifico. Qui stiamo parlando ovviamente dei miti della nostra fede e non di verità né storiche né scientifiche, per cui c’è una libertà d’interpretazione che non sarebbe altrimenti possibile. Se ne vogliamo dare un’interpretazione à la William James, potremmo dire che la verità di fede si verifica nel nostro cuore, nel rispondere in modo soddisfacente alle domande esistenziali più 54
profonde che troviamo nella nostra interiorità e che non hanno risposta né nella scienza, né nella storia, né nella ragione (agostinianamente parlando le verità di fede si trovano nell’interiorità dell’uomo, là dove abita la “verità”). Sono domande come: perché l’uomo si mostra così malvagio? Se è stato creato da Dio, come è potuto giungere a tanta cattiveria? Perché ci sono in me due leggi che si contrastano: tendo alla massimizzazione del mio “io” e così sono dominato da un egoismo radicale; giudico tutto e tutti in base alla mia autoaffermazione. Ma riconosco con sufficiente chiarezza il bene che dovrei fare e che vorrei fare, ma che non sempre riesco a fare. Perché questa equivocità in noi? C’è stata una colpa all’origine che ci ha resi così crudeli fin da piccoli? Questa disavventura ha rotto o ha alterato il rapporto uomoDio? È possibile che Dio ci perdoni senza cercare una vendetta, come farebbe un qualunque re (di quei tempi)? È sufficiente la mia buona volontà di operare il bene per sfuggire alla giusta condanna? Non sarebbe utile avere un “mediatore” una via di mezzo tra l’infinito di Dio ed il nulla della creatura? Oppure Dio è così grande e così amante da renderci giusti senza alcun nostro “merito”? Nel dare una risposta soddisfacente (secondo le esigenze della cultura e delle premesse di ogni epoca, premesse in cui consiste la “fede” originaria) la verità di fede si dimostra “vera”, nel senso che placa veramente la nostra ansia di sapere cose non comprensibili altrimenti. La verità di fede ci soddisfa e ci dà una spiegazione eziologica, ci narra nel mito il dramma dell’uomo che si percepisce come spezzato e contraddittorio; ci racconta astoricamente (anche se nel mito deformante di un racconto pseudo storico) il nostro dramma e ci narra lo stato nel quale siamo immersi. Il problema della presenza del male nel mondo è forse la principale questione cui deve rispondere una religione. Una qualunque risposta è meglio che nessuna. Così per le religioni orientali potrà essere l’esistenza del karma, mentre per gli occidentali l’esistenza di un peccato originale; l’importante è cercare di non attribuire direttamente a Dio o al soprannaturale l’esistenza del male. Tralasciamo la questione irrisolta se il male (fisico, morale, metafisico) esista veramente e se sia una privazione o una realtà positiva, nella sua negatività. È anche in questa risposta il senso della parola “religione”. Essa non è né una metafisica (per quanto in seguito possa costruirne una e adottarla come linguaggio preferenziale), e non è un racconto storico (per quanto possa dichiarare di essere di carattere storico, nel senso di essersi formata in seguito ad avvenimenti storici), né è una narrazione scientifica (nel senso di riferire fatti avvenuti e i cui avvenimenti sono constatabili e ripetibili in linea di principio). È un racconto il cui linguaggio non può essere il logos, ma 55
necessariamente (e fortunatamente) il mythos. Fortunatamente perché la nostra mente e il nostro cuore hanno linguaggi differenti, ed è al nostro cuore che deve rispondere la fede, non soltanto alla nostra mente. È principalmente il cuore che deve interpretare gli avvenimenti con le sue categorie, e non la sola razionalità con la freddezza della verità scientifica. Se non si supera l’evidente scientismo della nostra cultura attuale non si potrà mai comprendere l’assoluta verità della fede; la scienza è la risposta odierna al problema occidentale, d’origine greca antica, in che cosa consista la verità. Mentre invece la verità, nella sua formulazione vetero testamentaria, è il fare (il compiere sempre e comunque) in accordo a ciò che si dice. Dio è “la verità” (emet), perché Egli promette e sempre mantiene, dunque Egli è il verace. Dopo Agostino ancor oggi nel Catechismo della Chiesa Cattolica la stessa Chiesa romana ribadisce il dogma che nasciamo tutti peccatori per colpa di Adamo, anche se, come scrive, è difficile da spiegare come questo possa accadere (art. 404). Il peccato originale è centrale nella teologia cristiana perché è strettamente connesso alla “redenzione” e alla cristologia. Gesù infatti sarebbe morto sulla croce per salvare gli uomini dal peccato e dai peccati. Il peccato è quello di Adamo in noi (peccato originale originato) mentre i peccati sono quelli che commettiamo noi durante la nostra vita. I bambini vengono battezzati prima che abbiano la capacità di peccare personalmente per togliere loro la macchia del peccato originale originato. Tutto questo è assurdo. Noi sappiamo benissimo che la nostra origine non deriva da un monogenismo arbitrario ma da un poligenismo. Sappiamo che i nostri progenitori non vivevano in un giardino di delizie, ma in questo nostro mondo, con tutti i problemi e le difficoltà che nella loro cultura primitiva dovevano essere estremamente pericolosi. Sappiamo che non ci fu nessun serpente tentatore e che essi non decisero nulla di colpevole. Sappiamo che essi trasmisero la vita avvalendosi della riproduzione sessuale. Ma non trasmisero né un’anima (che non esiste) né un peccato (che sarebbe del tutto irrazionale). Sappiamo o dovremmo sapere che Gesù non è morto per redimerci dal peccato dei proto-parenti. È morto perché è nato. Tutti noi moriremo, è la legge della vita. Noi viviamo perché mangiamo, ciò significa che viviamo perché uccidiamo. Viviamo uccidendo e alla fine paghiamo il fio del nostro aver vissuto. Tutti moriamo, anche Gesù. Questo è ciò che Paolo ha chiamato la kenosis di Dio. Egli si è abbassato fino a prendere la nostra carne, con tutte le conseguenze relative. Forse è la croce che appare eccessiva nella morte di Gesù. Ma era una morte normale per chi incappava nel potere politico di quell’epoca e di quell’impero. Gesù è morto perché è nato, perché era un uomo perfettamente uguale a noi, nato da un
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padre e da una madre, che non era vergine ma che ha avuto sette fratelli e anche delle sorelle. I cristiani hanno poi aggiunto una dottrina estremamente dannosa e che tanto male ha fatto. Le chiese hanno considerato il sesso e la sessualità in genere come la fonte originaria del peccato e della colpa. Dio avrebbe creato l’uomo, tutto l’uomo, incluso il suo pene. Ma il suo uso del pene sarebbe peccaminoso, persino se usato nel matrimonio. Lo stesso vale per la donna. Questa sciocchezza la dobbiamo specialmente a Gerolamo e Agostino. È una teoria sciocca e vana. Dio sarebbe il creatore di un istinto che sarebbe la peccaminosità stessa. Anche nel matrimonio la sessualità trasmetterebbe il peccato originale a causa della lussuria inevitabilmente legata alla sessualità. Ogni forma di uso del sesso è così divenuta la fonte di un peccato incomprensibile e assurdo. Al contrario c’è il Cantico dei Cantici che racconta poeticamente tutta la bellezza e la bontà del desiderio d’amore e della grandiosità dell’attrazione erotica. Tutto ciò che Dio ha creato è bello e buono (Gen.1, 27). Basta non usare il sesso recando danno ad altri. Il sesso tra consenzienti è in se stesso buono, perché manifesta e testimonia una forma d’amore. Un autore contemporaneo, Vito Mancuso, ha ripensato quasi tutta la dogmatica cattolica per “aggiornarla” e renderla consona alla mentalità odierna. È stata una ventata d’ossigeno il suo mettere in discussione anche e soprattutto il dogma del peccato originale e tutti i dogmi che da questo logicamente dipendono. Se il peccato originale originato fosse una realtà noi saremmo totalmente deresponsabilizzati, sia dal male che commettiamo (perché del peccato d’origine non siamo moralmente colpevoli, ma lo erediteremmo per via di generazione, come il codice genetico) sia dal bene che potremmo compiere, perché esso sarebbe dovuto esclusivamente alla realtà della “grazia”, che se fosse intesa come azione che proviene da Dio in assoluto, ci deresponsabilizzerebbe. Un peccato e una vita morale sarebbero perciò assolutamente irrazionali e vacui. Occorre ritrovare un’etica della responsabilità, che attribuisca tutto il male e tutto il bene alla sola azione dell’uomo, e contemporaneamente alla azione redentrice di Dio al di fuori dei miti di una colpa che non abbiamo personalmente voluto, né di un bene che avremmo compiuto solo sotto l’azione salvifica di Dio. L’elemento fondante di questo problema è la “fede. La fede non deve essere intesa come una tra le opere dell’uomo che ci salva. Ma la fede è il riconoscere l’assoluta supremazia divina che ci rende figli e amici di Dio. L’azione divina non deve per questo essere rinnegata, ma deve essere sottolineata l’azione dell’uomo che collabora attivamente con l’opera di Dio, riconoscendone la signoria. Parlo dell’uomo (e non del cristiano, in quanto 57
tale) perché la vita morale deve essere compresa come frutto dell’essere l’uomo stato creato a immagine e somiglianza di Dio, e perciò è suo compito come uomo (prima e al di fuori dell’essere cristiano e battezzato) imitare la santità divina. È un tentativo progressivo e ampiamente insoddisfatto; siamo sempre manchevoli in questo, ma qui subentra l’azione redentrice di Dio. Scrive il Mancuso: “Ognuno di noi a causa di questo personaggio (il primo Adamo) nascerebbe già peccatore senza aver commesso nulla di male; in compenso, però, sempre senza dover fare nulla di bene e sempre a causa di uno sconosciuto (il secondo Adamo) verrebbe redento e parteciperebbe gratuitamente della salvezza. Non è tutto un po’ strano?” 1
Pio XII autore (ut ita dicam) dell’Enciclica Humani generis, confuse una verità mitologica con una verità storica; ha tratto conclusioni storiche certe da un racconto che nulla ha di storico, ma che vuole solo essere eziologico. Il mito ci insegna che il primo uomo fu come tutti noi un “animale”, anche se speciale: aveva un corpo come tutti gli altri animali, ma aveva una mente (o la possibilità di una mente) in grado di produrre ciò che chiamiamo “spirito” (tutta la vita della mente e tutti i suoi prodotti sono immateriali e possono perciò essere chiamati spirituali). Aveva perciò tutti gli istinti animaleschi della comune natura animale (nulla di negativo, anzi è la realtà della creazione) insieme a delle aspirazioni del tutto spirituali e in apparente contraddizione con la corporeità (anche la mente, però, è corporea, non lo si dimentichi; il frutto della mente è lo spirito, ma lo spirito si fonda solo sulla materia). Dio e solo Dio è, ricordiamolo, il creatore di tutto ciò che esiste, delle cose visibili e invisibili (come recita il “credo” cristiano). È per questo che lo spirito è pari in dignità alla materia e non più nobile, perché ugualmente opera del Dio creatore. Il mito del peccato originale originante ci dice che Adamo era esattamente come noi; anche lui “ci” era, anche lui era nel mondo ed era mondano. Aveva tutti i desideri e tutti i sogni che noi abbiamo. Era come noi libero di scegliere tra il bene e il male. La libertà o è libera di scegliere tra il bene e il male o non c’è. Se siamo liberi lo siamo perché abbiamo la capacità (donataci dal Dio creante) di scegliere effettivamente tra una reale alternativa (o il bene nelle sue varie forme o il male nelle sue componenti). Noi dobbiamo considerarci liberi perché razionali (in certa misura) e responsabili, perché liberi; se il peccato e la grazia fossero delle motivazione che noi 1
Mancuso V., L’anima e il suo destino, Cortina, Milano 2007, p. 164.
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potremmo portare per attribuire il peccato al nostro progenitore (o al serpente, sull’esempio della Eva mitologica del Genesi) ogni comandamento e ogni considerazione morale sarebbero del tutto inutili e fuor di luogo. Lo stesso dicasi del Regno di Dio che deve venire; il Regno non è né la Chiesa cristiana, né è un dono che scende del tutto gratuitamente dal cielo, senza che l’uomo ne sia coinvolto in modo totale e totalmente responsabile. Noi preghiamo che il Regno di Dio “venga”, con il Padre Nostro, e così, con la nostra preghiera invochiamo e acceleriamo il fatto che la volontà divina sia fatta. Dio non poteva creare un essere libero e tuttavia determinato solo al bene. La possibilità della scelta (o del peccato) è dunque la condizione di possibilità della razionalità e della libertà. Il mito non racconta una verità storica, ma una verità non fisica, una verità più profonda e totalmente vera, a patto che non la si fraintenda come verità storica o ontologica. Leo Baeck scrive: “Si rivela l’elemento peculiare della religione romantica, il tratto femminile che gli è proprio. La sua religiosità ha qualcosa di passivo, essa si sente tanto commoventemente inerme e stanca, vuol essere afferrata e ispirata dall’alto, avvolta da una corrente di grazia che la consacri scendendovi sopra e prendendone possesso: vuol essere uno strumento privo di volontà del divino agire miracoloso. La parola di Schleiermacher, secondo cui la religione sarebbe “il sentimento di assoluta dipendenza”, vi ha poi solo fornito il concetto”.2
Ovviamente questa non è l’assoluta verità del cristianesimo (certo, eccetto in alcuni periodi storici e alcuni eccessi), però sarebbe il caso di rivedere le categorie del peccato ereditato e contro il quale siamo del tutto impotenti (dovremmo ripensare al pelagianesimo o almeno al semi pelagianesimo, erronei ma sintomatici della necessità di una revisione) e la categoria della grazia che tutto opera e decide o la dottrina della predestinazione portata al suo estremo. Dio ci ha certamente predestinati tutti ad essere simili al Figlio suo, perché fossimo santi e immacolati al suo cospetto, ma questo non ci toglie la responsabilità dell’agire ma ci impegna all’agire secondo la volontà di Dio. La grazia ci rende giusti per cui dobbiamo operare da giusti. “Agere sequitur esse”. Invece la predestinazione è stata interpretata come se Dio avesse predestinato alcuni al Paradiso ed altri all’inferno. Questa è stata l’idea perniciosa di Agostino che ha avvelenato millenni di teologia. Scrive Pietro Prini:
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Baeck L., Il cristianesimo secondo gli ebrei, Claudiana, Torino 2009, p. 71.
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“Non a torto è stato osservato che con la critica antipelagiana di Agostino e con il Concilio di Cartagine del 418 il peccato era già cominciato ad apparire nella Chiesa latina, piuttosto che in quella orientale, come “la categoria maggiore e fondatrice dell’esperienza della salvezza”3. “Quella della ‘predestinazione’, che è stata all’origine di una infinita controversia, è certamente una delle idee più spaventose che Agostino ha tratto dalla sua concezione biologico-penale dell’eredità del peccato dei nostri progenitori”.
Poco dopo: “È difficile pensare che non si trovi in Agostino una specie di manicheismo residuo che, sotto la sua influenza, è giunto persino a san Tommaso” (ivi, p. 49).
Un’attenta considerazione si deve a questo punto dogmatico, perché esso è centrale per comprendere su cosa si fonda il cristianesimo; infatti la predestinazione non è una dottrina che risale solo ad Agostino, ma ha invece il suo fondamento erroneo in una interpretazione di san Paolo (che ci parla della predestinazione secondo quanto scritto sopra) e dunque nella rivelazione stessa, e nel suo fraintendimento. La morte di Gesù è stata variamente interpretata dagli stessi evangelisti; essa fu un possibile motivo di scandalo per i Discepoli, ma fu necessariamente anche motivo di profonda riflessione. È il tipo di riflessione che costituisce un parte non marginale di ciò che si chiama cristologia. Perché Gesù è morto senza ribellarsi? Quale significato dobbiamo attribuire alla sua morte e alle sue sofferenze? “Certamente” (nell’ottica apostolica ed evangelica) dovette avere un significato “salvifico”. Deve essere morto in condizioni così drammatiche non per caso, ma per mostrarci qualcosa. Che cosa ci ha voluto dire? Ogni tipo di risposta a questa domanda richiede una “cristologia” preliminare. Occorre cioè prima decidere “chi” è Cristo secondo la nostra fede, e poi sarà possibile dare una risposta a perché è stato necessario morire così. Qui la questione è di “fede” e non di teologia. La fede cristologica nasce ben prima della scrittura dei Vangeli; la fede è proprio ciò che causa l’interpretazione cristologica della vicenda di Gesù che ci tramandano i diversi Vangeli. Ora nel Nuovo Testamento si hanno grosso modo (e semplificando molto) almeno tre diverse cristologie. Cioè, l’unico “evento” Gesù è letto e interpretato per dare significati differenti, ma
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Prini P., Lo scisma sommerso, Garzanti, Milano 1999, p. 64.
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non contrastanti nei diversi evangeli (per i tre sinottici la si denomina “concordantia discors”); è la “fede” in Gesù considerato come il Cristo (o del Messia ma non più nell’ottica vetero-testamentaria). C’è, prima di tutto, una cristologia dei giudei che seguono Gesù e che abitano ancora in Palestina, i cui capi sono Pietro e Giacomo, il fratello del Signore. C’è poi la cristologia di Paolo che nasce nella diaspora e che ha lo sguardo rivolto alle necessità (spirituali e anche razionali/ logiche) degli ebrei della diaspora (notevolmente ellenizzati) e del mondo greco-romano dei cosiddetti proseliti. La sua è un’interpretazione secondo i miti ebraici precedenti molto popolari. Infine c’è la cristologia giovannea, che è forse influenzata dallo gnosticismo orientale, e che probabilmente vive nell’oriente ellenico, pur essendo con probabilità ancora composta da ebreoellenisti, che interpreta la croce come un atto di amore estremo. La cristologia di Luca è il tentativo di giustificare la nascita e la ragione d’essere della chiesa, quando apparve la terza generazione di cristiani e la chiesa doveva darsi delle strutture certe. Luca cerca anche di dare racconti sull’infanzia di Gesù totalmente mitici e tesi a dimostrare la divinità di Gesù contro la nascente rivalità ebraica. Non dimentichiamo che il cristianesimo nasce come una delle sette ebraiche e poi si vuole differenziare dalla matrice ebraica. Ne nascono i Vangeli dichiaratamente anti-giudaici, che fondano l’antisemitismo cristiano. Si va da una cristologia (approssimativamente quella di Giacomo, che si trova prevalentemente in Matteo) che vede in Gesù il perfetto “profeta” nel modello giudaico, e che vede la morte in Gerusalemme come la prova che Gesù è stato un Profeta, e che, come tutti i profeti, ha pagato con la morte in Gerusalemme la sua attività. La cristologia paolina sottolinea invece che il Cristo (poco importa che si tratti del Gesù storico, anche se ovviamente lo è) è il Signore di natura “quasi” divina, anche se inferiore al Padre. Si tratta del “mediatore”, o dell’uomo primigenio, il modello su cui Dio ha creato l’uomo. Gesù è il secondo Adamo: il primo ha portato la morte all’Umanità, il secondo porta la vita non solo della carne, ma dello spirito (o meglio dell’uomo pneumatico). Comunque Gesù è visto come il “mediatore”, cioè come il tramite tra l’uomo e Dio; quasi un essere intermedio, una concezione sacerdotale (ma non levitica) a somiglianza o secondo l’ordine di Melchisedek (specialmente nella Lettera agli Ebrei di un autore d’ambiente paolino, ma non di Paolo). La sua interpretazione si basa su una lettura ipotetica di Isaia e sul modello del capro espiatorio (temi questi che nulla hanno a che fare con la realtà storica).
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La cristologia giovannea invece vede nella persona di Gesù il Logos incarnato, il Logos che era presso Dio e che anzi è Dio stesso. Egli è spirito, e lo spirito è la “luce del mondo”, il mondo è la “tenebra” che non accoglie la luce. Gesù è la divina scintilla che ci rivela la nostra appartenenza al mondo della luce e ci spinge a raggiungerlo a di là della materia (al di là del male). Ci ha salvato. Il Logos è una forma mitologica greca per parlare della Sapienza (la santa Sofia dei cristiani) che gli ebrei avevano quasi ipostatizzato in epoca recente e che era presente presso Dio durante la creazione. Ovviamente il Logos non ha nulla a che fare con la tradizione ebraica, ma è da qui che inizia la grecizzazione del cristianesimo. Cristo ci ha salvato non solo dalla morte che è secondo gli scritti apostolici il frutto del peccato, ma dal peccato stesso. Il peccato è il motivo per cui la morte è entrata nel mondo; la punizione inflitta da Dio all’umanità adamitica come dice il Bereshit (naturalmente solo nella interpretazione cristiana, non in quella ebraica, dove il peccato di Adamo non cambia il valore eternamente positivo della creazione); il peccato di Adamo dunque spiega, dà conto del perché noi tutti dobbiamo morire e del perché noi tutti siamo portati a peccare: tutti noi siamo schiavi della lussuria originaria. Un’interpretazione della morte la concepisce come rimedio per il peccato. Il peccato (il peccato vero che anche Adamo, come tutti noi, ha commesso) è l’idolatria. Egli sospettò che Dio non fosse il Bene assoluto, ma pensò che volesse ingannarlo. Egli volle farsi simile a Dio e non accettò di essere fatto da Dio stesso Suo interlocutore. Rifiutò la immagine e somiglianza, per sostituirsi a Dio stesso. Le conseguenze per noi sono che l’uomo tende sempre di più a considerarsi padrone del mondo, della creazione e anche di se stesso. Il vero dio di ognuno di noi è il nostro io stesso, la sete d’onnipotenza. A fatica ricorriamo a Dio solo quando ci serve, come diceva Bonnhoefer, come tappabuchi. Perché siamo ancora ignoranti. Per dimostrarci che tutto ciò che siamo e che operiamo è il nulla, Dio ci dette il dover morire. Tanti affanni, tante guerre, tanta boria e orgoglio per divenire un minuscolo pugno di terra. La morte ci insegna l’umiltà e la realtà della nostra condizione naturale di creature che dipendono da Dio e che solo in Lui possono avere vita e gloria. L’annientamento è il pedagogo all’accettazione della sovranità e della verità di Dio che da Adamo in poi noi abbiamo sempre rifiutato. Ma questo significa anche che noi tutti nasciamo con questa pesante eredità, non solo di destino, ma soprattutto di colpa. Una colpa che sfugge totalmente alla nostra coscienza e alle nostre possibilità, e che ci porta al dover peccare sempre e senza possibilità di salvazione. Perché noi nasciamo in questa struttura del mondo che è il peccato. Ognuno di noi cerca 62
di affermarsi (magari forse per divenire “santo”) e questo affanno, comunque si manifesti, ha come centro l’adorazione indiscussa e inconscia dell’io. Una lettura oggi possibile sarebbe che questo peccato d’egoismo è il “peccato del mondo”, o originale. È il mondo, con la struttura di potere che noi gli abbiamo dato che è corrotto. Il mondo dà valore al potere, al denaro, all’adorazione dei nostri insensati e irrazionali desideri e che ci fa uccidere e poi ci uccide. Se invece pensiamo al peccato originale come a una colpa remotissima di cui noi non siamo responsabili segue una logica objezione. È possibile oggi, nel tempo in cui la nostra sensibilità giuridica si è acuita e si è come addolcita, continuare a sostenere che il Dio Padre della giustizia e Padre nostro, e per di più Creatore direttamente della nostra anima, ci crei con una colpa (che risiede nell’anima) di cui noi non siamo colpevoli? La punizione per colui che morisse prima del battesimo dovrebbe essere necessariamente l’inferno (dopo la negazione del limbo e l’assurdità di un preteso purgatorio) e la riaffermazione della necessità del battesimo, della redenzione di Cristo, per la salvezza eterna. Non sappiamo bene come sia possibile sfuggire da questa terribile sorte: questo sembra profondamente ingiusto, specie se attribuito al “giusto” giudice. Ma se Gesù non fosse morto per redimerci dal peccato (anche dal peccato originale originato) che senso avrebbe la sua morte e resurrezione? L’incarnazione stessa non avrebbe senso, almeno agli occhi dei romani creatori del sistema giuridico occidentale. Infatti le novità dell’insegnamento di Gesù apparivano loro ben poche e tutto considerato di poco conto. Mentre a mio parere l’insegnamento di Gesù è stato fondamentale: Gesù è il Maestro. La più importante novità del suo insegnamento è la sottomissione della Legge al bene dell’uomo (mentre nell’ebraismo rabbinico è il contrario). Le sue parabole che ci insegnano la totale gratuità dell’amore preveniente del Padre, e ci insegnano che la salvezza non è un’opera dell’uomo, è una rivelazione che dà una vita nuova all’uomo perseguitato da una “religione” (ogni religione, anche quella cristiana) che insiste più sulla vita morale che non sulla grazia. È certamente fondamentale l’assoluta concretezza del discorso della montagna e l’imperativo di amare anche i nemici e di offrire l’altra guancia. Ma noi “possiamo” agire così perché siamo amati dal Padre che per mezzo di noi ama tutti gli uomini. Gli uomini debbono essere amati perché essi sono amati da Dio. Abbiamo detto: “Agere sequitur esse”. È perché il Padre ci ha santificato che possiamo agire santamente. La morte sulla croce potrebbe essere
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stata l’insegnamento clamoroso della impossibilità di giungere a un compromesso con il potere degli uomini (il mondo o Mammona), fosse questo il potere politico o spirituale. Uscendo dall’idea romano-germanica o anselmiana di una morte sacrificale, per noi incomprensibile, la morte di Gesù è rivelatrice dell’amore con cui Dio ci ama. È la rivelazione del Volto di Dio fino alla gloria della resurrezione. Vero è che l’Incarnazione sarebbe stata sufficiente per condurre Gesù, il Figlio di Dio, “necessariamente” alla morte. Morte naturale, morte di vecchiaia, morte di malattia forse e non morte di croce; né si può facilmente pensare che Gesù fosse privo del peccato originale e per conseguenza fosse “immortale”, che cioè non fosse come noi, non fosse anche Lui “nel” mondo, non fosse anche Lui un animale sia pur ragionevole, e che fosse dunque immortale, perché la morte è frutto del peccato. Se Gesù è “veramente” uomo come noi (se ha la pienezza della natura umana e della natura divina, come afferma il dogma) doveva condividere la nostra sorte di esseri mortali (e infatti è morto) fino alla fine. Bastava aspettare che avesse l’età giusta per morire e sarebbe morto nel suo letto. Non per il peccato ma per la condivisione kenotica dell’Incarnazione. Divenire uomo davvero significa essere totalmente come noi. Questo “se” l’Incarnazione significa veramente che è stata assunta la natura comune dell’uomo. Ognuno di noi è concepito senza la macchia del peccato, non solo Maria. A che pro drammatizzare ed enfatizzare la sua morte che è comune alla nostra? Molti uomini sono torturati e soffrono grandi tormenti, molti sono gli uomini che vengono “giustiziati” dal boia, a torto o a ragione (ma ci può essere mai una ragione, se il Vangelo ci esorta a non giudicare, e soprattutto a perdonare tutte le offese?), colpevoli o innocenti, perché i tribunali non cercano la “giustizia” (che cosa è “giusto” agli occhi di Dio? chi siamo noi per decidere ciò che è giusto?) ma solo la “vendetta”. Molti teologi hanno risposto che la nostra “colpa” (quella di Adamo come origine e nostra come eredità) era così grave e così corrotti eravamo che non bastava per redimerci una semplice morte, ma il Padre desiderava anche una adeguata sofferenza aggiuntiva alla morte. Qui le cristologie si sono sbizzarrite; vanno dalla tesi che Gesù abbia dovuto pagare un “riscatto” al Satana che era divenuto il nostro legittimo proprietario, alla tesi delle terribile “giustizia” del Padre, che esigeva una pena adeguata all’offesa considerata infinita. Il diritto romano era di una spietatezza logicamente terribile. Il mistero dell’incarnazione è, secondo Paolo, il mistero dell’“annientamento” di Dio, il mistero della “kenosis” (Fil. 2, 7); senza entrare qui nella questione dei teologi luterani del XIX secolo che la ritenevano essenziale,
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forse esagerando un poco, e travisando in parte l’intenzione paolina. Secondo l’interpretazione ordinaria, questo porta di necessaria conseguenza la realtà della morte (fino a giungere alla dottrina della “morte di Dio” con tutto il seguito dei teologi della morte di Dio, che tratta della scomparsa di Dio dal disegno della salvezza), o di morte naturale o di morte violenta, come per tutti noi uomini. Lo scandalo vero del cristianesimo non è tanto la morte in croce come malfattore e ribelle, ma è invece la stessa Incarnazione. Per Incarnazione si intende che nell’uomo Gesù erano presenti contemporaneamente e perfettamente tutta la natura umana e tutta la natura divina; Gesù è sia vero Dio che vero uomo. Naturalmente diventare semplice creatura da parte del Creatore è una kenosis, un abbassamento, uno svuotamento, un atto di profonda umiliazione. Un atto che importa la morte. Questa teoria che si sviluppò fino a circa il IV-V secolo fu formalmente definita nel Concilio di Calcedonia nel 451, fortemente sostenuta dalle grandi scuole di Alessandria e di Antiochia, sebbene con differenti intenti. Sono presenti nella storia del cristianesimo sia l’eresia (l’opinione) che Gesù è solo un uomo, sia che è solo Dio. Gli inconvenienti delle due opinioni sono evidenti. È il Concilio di Nicea che chiarisce, tra le diverse opinioni, tutte giustificate da passi evangelici, quale sia la natura di Gesù. “Questo concilio fu convocato principalmente per risolvere il grave problema dottrinale costituito dalla concezione che in materia trinitaria era venuto sostenendo il prete alessandrino Ario. Questi infatti, insistendo sul carattere assolutamente unico del Padre e radicalizzando la posizione subordinazionista che era stata dell’apologetica, e in parte anche di Origene, affermava che, essendo Dio necessariamente ingenerato, perché immutabile, il Figlio da lui generato non può essere che creato e non può quindi essere Dio. E faceva appello per questo all’Antico Testamento (in modo particolare al passo di Proverbi 8, 22 dove la Sapienza afferma: “Il Signore mi ha creato all’inizio del suo operare”). Il Logos non è eterno come il Padre (…) perché è dal Padre che ha ricevuto la vita”.4
Sia ben chiaro: una religione, sia pure storica com’è il cristianesimo, non è “vera” perché c’è stato un fatto storicamente “vero”, ma è e rimane vera per quello che un certo fatto storico ha fatto nascere nel cuore dell’uomo. La morte di Cristo, la sua vita, la sua predicazione, le sue attese escatologiche, il suo esempio e tutto il mistero della sua vita hanno dato all’uomo (almeno ai Discepoli e agli Apostoli) la fede/ certezza che la salvezza era stata portata 4
Jossa G., Il cristianesimo delle origini, Carocci, Roma 1977, p. 202.
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a compimento. Il mondo era redento e da allora si apriva una nuova era, perché il Regno di Dio se non era già definitivamente stato instaurato sulla terra, era per lo meno incoato e parzialmente realizzato nella Chiesa cristiana e donato attraverso la fede rafforzata dai segni sacramentali. Dunque che sia vero o no che egli è morto per i nostri peccati (cioè: che sia vero o no che egli stesse “coscientemente” dando la sua vita prima del tempo opportuno per questo scopo o per altri) dal punto di vista della fede nulla cambia. La fede è indifferente agli avvenimenti mondani se non “interpretati”. Ogni fede è un’interpretazione, non un fatto. La fede viene prima della Rivelazione; la fede è ciò che permette la lettura delle Scritture per trovarvi conferma e indizi di ciò che crediamo a prescindere dalla Rivelazione stessa. Nel nostro caso la fede nella “divinità” di Gesù e nella sua morte salvifica per i nostri peccati precede le testimonianze evangeliche che la stabiliscono. San Paolo nella seconda Lettera ai Corinti scrive: “Quindi noi d’ora in poi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e se anche abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più” (2 Cor. 5, 16). La conoscenza di fede o secondo lo Spirito è di gran lunga superiore a quella secondo la carne. Nessuna objezione storico-oggettiva (secondo la carne) può scalfire la fede nella salvezza del cristianesimo. Il Cristianesimo è la fede solida e perfetta dell’Occidente non perché tutte le “prove” storiche e scientifiche (che non hanno nessuna autorità nel campo) siano concordi nello stabilirlo, ma perché l’Occidente ha letto il “fatto Gesù” come la via maestra per adorare e conoscere il Dio che è Dio. Tommaso d’Aquino dichiara, nella Quaestio de fide, art. 1: “Credere è un atto dell’intelletto che sotto la spinta della volontà, mossa da Dio per mezzo della grazia, dà il proprio consenso alla verità divina”.5 Non si tratta dunque di un puro atto razionale, della ragione che aderisce naturalmente al suo oggetto formale che è la verità, ma è un atto che abbisogna di una “spinta” della volontà. È del tutto evidente che la “volontà” (ammesso che essa esista come tale, come autonoma da ciò che sono io) è completamente indifferente all’evidenza. La volontà vuole solo perché vuole. Dunque il “credere” è un atto molto più “profondo” che conoscere. La fede è un atto di quella unità dell’essere umano che gli ebrei chiamavano il cuore, il lev. Non è assolutamente possibile scalzare una fede con i soli argomenti razionali; forse solo un’altra fede può sostituirsi a una fede. Chiediamoci ancora che senso potrebbe avere la morte in croce di Gesù, perché dopo tutto siamo cristiani ed è compito della teologia render conto 5
Tommaso d’Aquino, Quaestio de fide, a. 1, Marietti, Torino, 1956.
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dei motivi razionali di ciò che crediamo. La domanda equivale a chiedersi se esista una qualche forma di peccato da cui sia difficile uscire con le sole nostre forze. Orbene noi non possiamo uscire dal “mondo”. Noi non possiamo non “esserci”. È il mondo, con la sua struttura di peccato/ potere, che ci tiene imprigionati. La morte di Gesù sulla croce è stata “necessaria” per mostrarci quasi pittoricamente l’impossibilità di un compromesso tra la “grazia”, la volontà di Dio e il mondo; questo mondo il cui “principe” è il peccato (che personificandolo noi chiamiamo Satana). Questa dottrina non ci esime però dal compiere nella grazia ogni tentativo di imitare il Dio vivente nella carità (nell’amore universale, anche verso ogni creatura altra dall’uomo) e cercare un comportamento “santo” perché Dio il Padre è santo. Lo sforzo morale dell’uomo non può sfuggire all’assunzione delle proprie responsabilità per ogni colpa non solo personale, ma anche mondana.
2. Peccato del mondo Nel Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale scrive Domenico Mongillo, sotto la voce “Peccato”: “Esiste un nesso stretto tra il peccato-situazione e i peccati-azione. Questi costituiscono segno, espressione e concretizzazione della fondamentale incapacità e proclività, la quale si manifesta in sempre nuove forme e che diventa tanto più acuta quanto meno è contraddetta. Si ha così un duplice grado di peccato. Il peccato-incapacità personale e collettiva di apertura a Dio, di conoscere, amare e attuare il bene, e il peccato-atti che l’uomo, nel corso della vita va compiendo e che rappresentano altrettante manifestazioni della situazione di peccatore” (p. 585).
Poco oltre: “La dottrina sul peccato è collegata a quella dell’influsso del maligno sulla comunità umana e sull’uomo (cf. GS 13, 22, 37, 38). Il mondo, cioè tutta la famiglia umana nel contesto delle realtà entro le quali si muove, è certamente posto sotto la schiavitù del peccato (…) tutta intera la storia umana è pervasa dalla lotta contro le potenze delle tenebre, lotta che accompagnerà l’uomo lungo tutto il suo cammino (cf. Mt 24,13; 13, 24-30)”.6
Assumiamo criticamente la tradizione sull’esistenza del peccato e cerchiamo fin dove è possibile seguirla. Cerchiamo il limite delle teorie delle chiese su 6 Mongillo D., “Peccato”, Dizionario enciclopedico di teologia morale, Paoline, Roma 1973, p. 687.
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questo tema che tanti danni ha fatto. Esiste in primo luogo il “peccato-attività”, che è in realtà plurale. Lo si chiama di solito al plurale “i nostri peccati” e sono le varie imperfezioni quotidiane che sempre e inevitabilmente compiamo per quanto ci sforziamo di evitare errori e di cui ci rammarichiamo nel momento stesso in cui le compiamo. Queste imperfezioni non sono, salvo in circostanze non eccezionali ma piuttosto rare, di particolare grandezza. Sono dette “peccato” solo in senso analogico, o forse anche equivoco. Il “peccato” è purtroppo ogni mancanza contro l’amore del prossimo; magari non avvertita consciamente come mancanza (la buona fede, la buona coscienza, è causa di innumerevoli grandi mali); a volte è la colpevole indifferenza o anche abitudine al male. Si ricordi l’esperienza dell’efficienza con cui alcuni tedeschi eseguivano gli ordini di Hitler, o alcuni russi gli ordini di Stalin, o alcuni americani quelli di Johnson, o gli italiani che obbedivano a Mussolini, o, perché no, i fraticelli che processavano le cosiddette streghe, eccetera; eppure ognuno era forse inconsapevole di peccato “mortale”: è la banalità del male. Si faccia attenzione: forse pecca più gravemente un uomo che non uccide nell’ira e non ruba se ha fame, ma che è del tutto indifferente all’altrui “bene”. Pecca chi è pronto a soddisfare tutte le “sue” esigenze (vere o presunte tali) senza tenere in minima considerazione le esigenze altrui. O che uccide o ruba o offende genitori o moglie o chiunque altro, senza altra ragione che così è “meglio” per lui stesso, perché i suoi presunti interessi sono un diritto considerato a torto “inalienabile”. Pecca chi nega Dio apertamente, perché se lo affermasse dovrebbe cambiare tipo di vita. Ma pecca allo stesso modo chi si ama fino al punto da non considerare gli altri e i loro “diritti” e agisce solo perseguendo i propri interessi. L’amore dell’io sovrasta e rinnega l’amore per il prossimo (la volontà di Dio e la Sua grazia). Per noi moderni occorre che l’azione umana sia del tutto autonoma, non dipendente da altre fonti. Fino a quando io non riuscirò a rendere “autonoma” la mia morale, ma la concepirò sempre come eteronoma, io sarò sempre nel pericolo di fingere di amare qualcuno mentre in realtà io amo solo me stesso. L’amore deve essere del tutto disinteressato. Non può essere un insieme di amore per qualcuno “e” insieme per me stesso. Il fine per il quale compio un’azione è quello che specifica l’azione stessa. Se faccio un dono a qualcuno perché ci tengo ad averlo come amico (o perché mi piace qualcosa di lui), io non compio certo un’azione caritativa, ma si tratta di egoismo mascherato da dono. Dice Tommaso d’Aquino: 68
“Ad secundum dicendum, quod finis, secundum quod est prior in intentione ut dictum est (art I huius quaest., ad 1) secundum hoc pertinet ad voluntatem; et hoc modo dat speciem actui humano, sive morali”. (S. Th. I 2, I, III ad 2).
Vediamo il rimando sul fatto che il fine dell’azione sia il primum nell’intenzione: “Ad primum ergo dicendum, quod finis, etsi sit postremus in executione, est tamen primus in intentione agentis; et hoc modo habet rationem causae” (S. Th., I 2, I, I, ad 1).
Per esemplificare: chi rubasse per pagare una prestazione sessuale, non è tanto un ladro, quanto un lussurioso. Se io faccio elemosina a un povero con l’intenzione di “far bella figura” con i miei compagni, io non ho fatto una buona azione, ma ho commesso un peccato di vanità. Ogni nostra azione è “apparentemente” qualcosa, ma in realtà è, almeno inconsciamente, occultamente, un’altra cosa. Tutti facendo il bene in realtà facciamo anche del male: non operiamo con la limpidezza dell’altruismo. Paolo esclama: “Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm. 7, 24). È la nostra servitù, la non libertà, rispetto al cibo, al sesso, al potere, in altri termini all’egoismo, che ci induce a peccare; sono quelli che chiamiamo peccati veniali. In realtà non sempre sono azioni del tutto volontarie, ma in gran parte sono subite e contemporaneamente volute. Per dire la stessa realtà in parole contemporanee, noi abbiamo una corteccia cerebrale che pensa e che vuole il bene visto come razionale, mentre abbiamo anche un sistema limbico, che è il cervello antico e comune ai nostri progenitori e agli altri primati, che vuole e sente tutto come relazionato a me; il sistema limbico desidera il bene mio: nutrimento, sesso e potere nel branco in cui sono inserito. Queste sono le due “leggi” che mi fanno entrare in contrasto tra me e me. Tutte le nostre azioni sono contemporaneamente “buone”, ma nascostamente, “cattive”. Questo accade perché, come accennammo, noi non siamo così liberi come ci piacerebbe di essere. La libertà è un fatto che appartiene allo spirito (non alla psiche, ma allo spirito); noi però siamo anche animali, corporei, materiali. Il corpo ha delle necessità per cui non è affatto libero. Dobbiamo mangiare; posso scegliere se sarò vegetariano o se ucciderò (o farò uccidere) degli animali, ma debbo pur sempre mangiare. Debbo fare sesso, potrò scegliere con chi farlo o come farlo ma dovrò farlo (sia per la propagazione della specie, sia per la sua intrinseca funzionalità biologica). Questi sono aspetti comuni tra tutti gli animali. Ma noi uomini siamo anche un animale “politico”, che vive in gruppi e che parla una lingua che gli permette di operare “con” il “dia-logo”. È per questo che siamo anche obbligati 69
ad avere atteggiamenti sociali; potrò scegliere se essere prevalentemente guidato dall’amore sociale, o se essere guidato dall’odio, dall’egoismo, ma debbo vivere in comunità e dunque agire socialmente. Se io compio “buone” azioni per timore di Dio, perché la sua legge me lo impone (o perché così io credo), io cado nell’eudemonismo più evidente e questo non è amore. Devo giungere all’amore per l’altro, anche per il nemico, anche per l’estraneo, anche per il diverso, anche per il disgustoso; altrimenti non è amore, è puro interesse. Se non sono libero nei confronti della punizione o del premio di Dio non ho compreso nulla della libertà dei “figli di Dio” che Paolo annuncia. Come dice il Signore: “Amate i vostri nemici; fate del bene a quelli che vi odiano; benedite quelli che vi maledicono; pregate per i vostri calunniatori. (…) Se voi amate solo quei che vi amano, che merito ne avete? Anche i peccatori amano quelli che li amano. Se fate del bene solo a quelli che vi fanno del bene, quale merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. (…) Voi invece amate i vostri nemici, fate del bene, date in prestito senza sperar niente; allora la vostra ricompensa sarà grande; e voi sarete figli dell’Altissimo, perché è buono con gli ingrati e con i cattivi. Siate dunque misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc., 6, 27-36).
C’è però, in secondo luogo, anche il “peccato-situazione”, che è sempre singolare. È il peccato. È la rottura definitiva (sino ad interventi salvifici da parte di Dio, sino alla metanoia radicale, sino alla grazia elevante); questa “situazione” è ciò che chiamiamo anche e soprattutto “il peccato del mondo”. Questo peccato consiste nell’idolatria, cioè nell’adorazione pratica, se non anche teorica, di un altro al di fuori di Dio. Il vero Dio della società mondana che noi adoriamo può essere il denaro, o il potere, forse per qualcuno il sesso, o il cibo, ma tutte queste sono solo manifestazioni concrete del culto del “sé”, dell’egocentrismo. Il vero Dio è l’Io, l’io esaltato e glorificato; l’io di fronte al quale non sussiste alcun diritto altrui. Una volta dato il “me stesso” non mi curo più degli altri. Non ho affatto coscienza di essere solo un fratello fra fratelli (tutti figli dello stesso Dio) ma ritengo che tutto il mondo e tutto ciò che il mondo contiene debba esistere (o esista di fatto) solo per me, per il mio utile. Il denaro è ricercato perché dà più “importanza” a chi lo possiede, il potere perché esalta la considerazione che si ha di se stessi (e che gli stolti hanno del potente), e così via. Inutile esemplificare oltre, perché tutti abbiamo l’esatta cognizione di come il mondo sia condizionato dagli egoismi. Chi non si è lamentato dell’altrui indifferenza, cadendo contempora-neamente nello stesso difetto? Persino gli eremiti o i monaci dalle più strette osservanze sono necessariamente schiavi del “sistema”. Tutti dobbiamo 70
mangiare, vestirci, dormire in un rifugio, leggere, e così via. Nel sistema del mondo contemporaneo non possiamo mangiare se non si dà del denaro in cambio: dunque anche il monaco “deve” avere denaro. Che poi lo abbia perché lavora ed “accumula”, o perché lo ottiene dalle elemosine altrui è la stessa cosa, saranno gli altri che accumulano per lui. Il terreno su cui sorge l’abazia o il convento è un terreno che si possiede (anche se nella finzione giuridica è proprietà non del monastero ma del Vaticano). Non dovremmo forse riconoscere che “La terra è di Dio” e che il Signore non ha creato certamente tutte le cose in previsione e allo scopo del mio arricchimento? Forse sono stati commessi alcuni errori anche nell’affermare eccessivamente questo, però è vero che tutta l’economia attuale è basata sul presupposto che esista un “diritto” ad avere e possedere le cose che Dio crea. Se Dio crea il mondo, non lo crea solo a vantaggio di chi poi se ne dirà “proprietario”, ma lo crea ovviamente per tutti; uomini, animali, sassi, montagne: tutti hanno il “diritto” di esistere per sé, ogni ente è creato perché sia in sé, oltre che per altri. Il mondo è creato perché l’uomo lo amministri, non perché ne usi come se ne fosse il proprietario. Chi nasce sulla Terra, uomo o animale che sia, ha lo stesso diritto di abitarla e di nutrirsene. Non esiste un maggior diritto per chi nasce oltre un certo confine o per chi nasce con una certa natura. Il verme ha gli stessi diritti dell’uomo; tutto quello che Dio ha creato ha gli stessi diritti, anche se all’essere umano Dio ha affidato il compito di “coltivare” la Terra e gli ha dato il potere sugli animali (un potere assoluto solo nel patto con Noè, non ad Adamo: è dunque un patto posteriore o conseguenza del peccato adamitico). È la “somiglianza e l’immagine” di Dio che è stata impressa nell’uomo che lo responsabilizza, perché l’essere umano dovrà cercare d’agire esattamente “come” Dio; l’uomo deve cercare la santità perché Dio è il santo. La vita morale è tutta qui, in questa “imitazione” di Dio, che fa piovere sui giusti e sui peccatori, davanti al quale non c’è nessuna delle differenze che nel mondo hanno un valore. Questo non ci deve condurre al disprezzo (contemptus) del mondo, come vorrebbe la tradizione monastica ortodossa, perché questo è il mondo di cui facciamo parte anche noi, perché siamo “tutti”, chi in un modo chi in un altro, compromessi con questa realtà umana. Questo è il mondo che il Signore ha voluto e mantiene nell’essere: è qui che Dio deve essere glorificato e amato. Dobbiamo considerare anche quanta ricerca di Dio, quanta santità, quanta abnegazione, quanta cooperazione, solidarietà, quanto di positivo si dà tra gli esseri umani. Come accennavo, la storia dovrebbe camminare attraverso mille difficoltà verso un’ipotesi per ora utopica, verso il Regno di Dio; là, dove il Profeta Isaia scriveva: 71
“Non si affaticheranno invano e non genereranno più figli destinati alla perdizione, perché semenza benedetta dal Signore sono essi e la loro discendenza con essi. E avverrà che prima che essi chiamino Io risponderò; Io li esaudirò mentre essi parlano ancora. Il lupo e l’agnello pascoleranno insieme; il leone e il bue mangeranno lo strame e il serpente avrà per suo pane la polvere; non si farà del male, né si opereranno distruzioni su tutto il Monte mio santo” dice il Signore” (Is. 65, 23-25).
È infatti qui, in questo mondo corrotto, che nascono i Profeti che sono come voce che grida: “Nel deserto preparate la via del Signore”. (Is. 40,3). La consapevolezza del peccato del mondo deve spingerci ad un maggior amore verso gli altri, e a un più grande sforzo verso l’impegno di “conversione”. Il peccato del mondo consiste nell’accettare che l’egoismo (altrui ma anche e soprattutto nostro) si organizzi in “istituzioni” e che ci governi mediante costumi, leggi, propaganda, abitudini eccetera. Se le istituzioni sono violente e si nutrono di rapina inducono tutti coloro che vivono sotto il loro impero ad essere colpevoli; il solo fatto di abitare una società dedita a guerre, a furti, a omicidi (persino in nome della giustizia), a discriminazioni, e così via, ci rende abitatori del peccato. È la violenza delle istituzioni che ci rende possibile a livello inconscio (quindi senza che noi ci accorgiamo di sbagliare concretamente nel particolare) il compiere il male; ci permette di prevaricare ogni volta che lo possiamo fare senza rischio, com’è sempre ogni volta che ci schieriamo contro il più debole. Per fare un solo esempio banale e perciò significativo: vedo spesso alcuni genitori in Piazza del Duomo, a Milano, con i loro bambini. I bambini si divertono a spaventare i numerosi piccioni della piazza in vari modi. Lo fanno perché i piccioni sono più deboli, perché sono più piccoli, perché sono meno intelligenti. Certo non lo farebbero con animali più grandi di loro, non lo farebbero con dei leoni o delle tigri, perché tutti siamo abbastanza vigliacchi: temiamo il potente e approfittiamo del debole. I genitori non solo non riprendono i fanciulli, spiegando loro che non è giusto approfittare della debolezza altrui per divertirsi alle loro spalle, ma ridono felici, ammirando la naturale “malvagità” dei loro pargoli. La differenza tra l’uomo e l’animale (anche un cane corre dietro ai piccioni; ma gli animali sono stati fatti con l’istinto del predatore) è che l’animale non essendo libero di scegliere non è responsabile di nulla, ma noi dovremmo educarci a rispettare tutte le forme di vita che il Signore ha creato e che hanno lo stesso nostro diritto di abitare la terra. Questo accade perché: “Mentre all’animale il mondo è dato secondo quel senso che le cose assumono in relazione al suo istinto, l’uomo, privo com’è di istinti, è costretto a conferire
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senso al mondo, quindi a interpretarlo, e la religione è la prima interpretazione del mondo. Rispetto ad essa la ragione è un’altra interpretazione del mondo, più universale della religione, perché costruita su regole convenute e perciò condivisibili, e non circoscritta al sentimento di una tribù, di un popolo o di una più ampia comunità”.7
Esaminiamo la realtà del “peccato del mondo” nei termini evangelici. Prendiamo il Vangelo di Giovanni, il più elaborato teologicamente. Scrive J. Mateos in collaborazione con J. Barreto nel saggio scritturistico “Dizionario teologico del Vangelo di Giovanni”: “Il peccato come situazione viene attribuito ‘al mondo’, all’umanità (1,29) (…) Esiste ‘il peccato del mondo’, precedente la venuta di Gesù, la cui missione è di toglierlo/ eliminarlo (1,29). (…). ‘Il peccato’, o l’opzione che frustra il progetto creatore, viene compiuto dall’uomo quando egli approva i principi/ ideologia/ tenebra che reggono l’ordinamento sociale ingiusto, e quando lo appoggia integrandovisi. (…) Vi è un gruppo umano che ha come principio ispiratore (8,44: il padre) il profitto personale (radice del peccato), concretizzato nell’ambizione di ricchezza (8,44: il nemico = il dio denaro, il cui santuario è il Tesoro 8,20) e di gloria umana (4,44; 7,18; 12,43). Questo principio si traduce in una ideologia che giustifica il dominio e lo sfruttamento degli altri (1,5; 3,19; 8,12; 12,35; la tenebra 8,44; la menzogna), e si oggettiva in una struttura sociale (8, 23; 9, 39; 12, 25-31: questo mondo/ ordinamento). (…). Con l’insegnamento questo gruppo persuade il popolo a prestare la sua adesione all’ideologia e ai valori del sistema ingiusto che lo priva di libertà (7, 26; 12, 34). Un uomo sarà peccatore ‘finché non incontrerà il gruppo alternativo, in cui potrà rendersi indipendente dal mondo ingiusto e vivere nell’atmosfera dell’amore’”.8
Il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes dichiara: “Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre” (GS n. 2). Pur senza cadere nella concezione mitica dualista dei “due vessilli” di ignaziana memoria, il bene contro il male (il vessillo della croce contro il vessillo di Satana, il Caudillo del male), dobbiamo considerare il mondo “corrotto” in tutte le sue strutture di potere civile ed ecclesiastico, al cui interno nascono però alcuni profeti, al cui interno nascono molti giusti, uomini che vivono per gli altri e che amano con tutto il cuore e con tutto se stesso; uomini che mettono in guardia sulla necessità di una profonda conversione e di un mutamento radicale del modo di vivere.
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Galimberti U., Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000, p 115 Mateos J., Barreto J., Dizionario teologico del Vangelo di Giovanni, Cittadella, Assisi 1982, p. 687. 8
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Molti uomini li seguiranno, e lentamente il mondo cambierà e si avvicinerà al Regno di Dio. Il Regno messianico verrà “come un ladro” e forse non ce ne accorgeremo neppure subito, però verrà: questa è la nostra fede, la nostra certezza. Naturalmente non possiamo solo stare a guardare e ad aspettare che il Regno venga stabilito dall’alto, come un dono grazioso. Occorre mobilitarsi e agire perché il Regno verrà anche (certo non unilateralmente e solo in piccola parte) per l’azione di ciascun uomo, per il nostro agire morale, per la nostra personale metanoia. Scrive Macquarrie, teologo anglicano: “In traditional theological language, this aversio a Deo is understood as at the same time a conversio ad creaturam. This means that in his quest for meaning and strengthening of his existence (…) man turns away from Being to the beings (from God to the creatures). Ontologically expressed, this is the “forgetting of Being”, of which Heidegger speaks; theologically expressed, it is idolatry. The basic sin is indeed idolatry, the effort to found life upon the beings, perhaps on man himself, to understand life and give it meaning in terms of finite entities alone, to the exclusion of Being. We call this forgetting of Being “idolatry”, because the beings have supplanted Being, the creatures have taken over God’s place. The only possible result must be a terrible distortion of existence. St. Paul, speaking of the pervertion of man’s life through sin, climaxes his argument by pointing to idolatry as the source of the trouble: “They exchanged the truth about God for a lie and worshipped and served the creature rather than the Creator” (Rom. 1,25). It was surely no accident but a very profound truth about the human condition that caused to be placed first among the Ten Commandements the injunction : “You shall have no other gods before me”.9
Questa è la situazione terribile in cui nasciamo: non è possibile fuggire dal mondo idolatrico e peccaminoso. Il salmo 51 dice che “Nel peccato mi ha concepito mia madre” (Ps 51) e deve esser letto nel senso che “mia madre”, in quanto è “nel” mondo, fa parte del sistema oppressivo e schiavizzante di questa umanità corrotta, egoista, insensibile, arrogante, che cerca solo il furto e la rapina, anche se ammantata di nomi migliori, di parole bellissime in cui crediamo davvero; le guerre, i furti, le vendette, gli omicidi, sono il pane quotidiano di questo sistema che fa dell’uomo uno schiavo, che rende tutti ugualmente schiavi. Questo è perciò il “peccato d’origine”, il peccato che ci “pre-esiste”, in cui nasciamo e da cui dobbiamo salvarci ed essere salvati. Non Adamo ne è responsabile, ma l’ingordigia e la cecità collettive
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Macquarrie J., Principles of Christian Theology, SCM press, London 1966, p. 238-
239.
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di tutta l’Umanità (o se preferiamo di Adamo in quanto padre simbolo e figura di tutta l’Umanità, descrizione mitologica esatta di come siamo veramente). Da questa situazione si deve uscire lentamente e “socialmente”; a questo dovrebbe servire anche l’azione politica; è qui che risiede la nobiltà della cooperazione umana verso l’ideale (magari utopico, se solo “umanamente” cercato, e così fonte di ogni male) del Regno di Dio. Riconoscere sempre maggiori diritti, dare sempre minore importanza al denaro, al potere, a tutto ciò che non è Dio (questo è il senso dell’espressione “santo”; santo è il non mondano, il non compromesso, l’assolutamente libero da ogni schiavitù). Si pensi al sistema per cui noi tutti (più o meno) mangiamo della carne. Gli animali vengono “allevati” per essere uccisi e venduti; per allevarli bene e per renderli grassi essi debbono mangiare cibi molto nutrienti; bovini e suini mangiano ogni sorta di granaglie, le stesse granaglie che mangiamo anche noi. Per avere un chilo di carne non so quanti quintali di granaglie nonché di acqua devo togliere al consumo umano, certo molti. I poveri del mondo non mangiano spesso carne, ma solo granaglie; ma il prezzo di queste aumenta perché se ne consuma sempre di più a vantaggio dei ricchi “carnivori”, e così i poveri spesso muoiono di fame, o di sete; mentre invece le nostre vacche e i nostri maiali ingrassano a vantaggio di chi ne mangerà i corpi. Noi abbiamo il “diritto” di mangiare e non ci interessa affatto il bene del mondo povero. Il terribile mostro della fame coesiste con l’altrettanto male dell’obesità nel mondo ricco; questo è un peccato collettivo, e uscirne da soli è difficile se non impossibile. Ripeto un concetto fondamentale. Dio non poteva, di potentia ordinata, creare una creatura razionale, senza crearla libera. Perché la razionalità è la conditio sine qua non della libertà. La possibilità del bene e del male sono dunque ambedue parte della struttura che il Signore ci ha donato. Non c’è né un tentatore per natura, né un primo peccatore per natura (non c’è una ontologia del male o del bene morale umano). È in nostro potere fare il bene e fare il male. Dio ci ha donato la Legge per rendere più pervia la via del bene, ma il male non è un fallimento di Dio: rientra nel suo disegno d’amore. Dio è sempre più forte della nostra debole volontà, Egli vuole che tutti gli uomini si salvino, ed Egli opererà (in un senso per noi misterioso e incomprensibile) e riuscirà a salvare tutti. Non esiste alcuna massa damnationis, ma a tutti (al di fuori e al di là dalla chiesa cristiana) è data la possibilità di collaborare alla salvazione di se stessi e del mondo, contemporaneamente. L’invito prima del Battista, poi di Gesù è: “convertitevi”. Il verbo usato nel testo originale è: ”metanoéō”; metànoia ora ha due aspetti, come si deduce dall’analisi semantica. Prima di tutto un cambiamento di mentalità 75
(cambiare principi, valori) e in secondo luogo un cambiamento di condotta, una nuova prassi; in altre parole un aspetto puntuale (la rinuncia al passato e il voler riprendere il cammino) e un aspetto durativo (la manifestazione concreta di questo mutamento nella vita). Il Mateos ci fa osservare come metanoia sia un concetto antropologico, cioè consista nel cambiare atteggiamento verso l’uomo terreno, il vicino, il prossimo, non Dio. Questo è più propriamente la “conversione” che si esprime col verbo epistrépho (epi-, con-verti, sub) che indica una direzione, un termine esterno: questo è un concetto teologico, cioè verso Dio. La metanoia è invece nella linea dei Profeti, in quanto consiste nel cessare di fare il male e cominciare a fare il bene10. La conversione necessaria è quella di uscire dall’egoismo, dal funesto senso del “sé” per fare le opere degne del Regno, per preparare “le vie del Signore”.
3. Gesù e la sua morte redentrice Esistono religioni di “salvezza” e religioni di “redenzione”. Il cristianesimo appartiene a questa seconda categoria. La salvezza è (la resurrezione è avvenuta veramente e testimonia il nostro futuro) la salvezza dalla morte, ma la morte, per i cristiani, è frutto della disobbedienza, e perciò la salvezza dovrebbe essere la salvezza dal peccato e dal relativo giudizio divino. Questo è detto in modo totalmente mitico e con categorie elaborate dalla mentalità ebraica, come dicemmo. Se Dio è con noi, perché ci accadono cose cattive? Ovviamente perché Dio è adirato con noi a causa di qualcosa che abbiamo fatto, a causa di un peccato. Perché Israele, che è il popolo eletto è continuamente sconfitto e deportato? Perché c’è un peccato del popolo stesso. È chiaro che la morte è un fatto del tutto naturale (ma questa sentenza è stata condannata come eretica con l’anatema dal concilio di Cartagine, come dal DS 222-101). La salvezza è perciò la salvezza dalla “disubbidienza” alla Legge che il Dio Creatore e Legislatore ci ha donato e che siamo tenuti a osservare; sono i sette (nel Patto noaitico) o i dieci (nel Patto sinaitico) comandamenti (tutti riassumibili nel duplice amore verso Dio e verso l’uomo, come è dichiarato nel Nuovo Testamento) dalla cui inosservanza dobbiamo essere salvati. Soprattutto, per molte chiese cristiane, è il Peccato adamitico che conduce alla morte se senza battesimo. Qui si vuol proporre invece una possibile lettura alternativa dei fatti: ipotizziamo che il significato della morte di Gesù consista nel liberarci dal dominio del “mondo” (termine inteso nel senso neotestamentario). Il male (personificato col nome di Satana) è 10
Mateos J., El aspecto verbal en el Nuevo Testamento, Madrid, 1977, p. 98-99.
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infatti il “Principe di questo mondo”; il male, il peccato domina il mondo irredento così come lo conosciamo. Con la croce Gesù ci libera e ci insegna che non è possibile nessun compromesso tra il “potere”, civile o religioso, e la “libertà dei figli di Dio”. “L’Ebraismo non conosce la redenzione ma lega la salvezza alla libera osservanza della Torah, e quindi non ha bisogno di qualcosa come il dogma del peccato originale che incrini il libero arbitrio, ma proprio del suo contrario, cioè della perfetta integralità del libero arbitrio. Il dogma del peccato originale è una creazione del tutto cristiana, iniziata da san Paolo col contrapporre la redenzione di Cristo al peccato di Adamo, il cosiddetto peccato originale originante (vedi Rom. 5, 12-21), e poi condotta a compimento dalla teologia patristica, soprattutto da Agostino durante la controversia pelagiana, col parlare di un peccato originale con cui nasce ogni bambino che viene al mondo per il fatto stesso di essere uomo, il cosiddetto peccato originale originato. Tale peccato, che grava sugli uomini nel loro stato naturale, li pone in una condizione di inimicizia con Dio, in preda alla corruzione e alla concupiscenza, e quindi bisognosi, ma al tempo stesso incapaci, di salvezza. Per conseguire questa salvezza è necessario che qualcun altro, al posto loro, la consegua: è necessaria la redenzione. Ecco spiegata, secondo la visione tradizionale, la centralità assoluta di Cristo”11.
Lo stesso Concilio di Cartagine nel 418 per la prima volta dichiara che: “Nullus enim, nisi qui peccati servus est, liber efficitur, nec redemptus dici potest, nisi qui vere per peccatum fuerit ante captivus, sicut scriptum est: “Si vos Filius liberaverit, vere liberi estis” [Jo. 8, 36]. Per ipsum enim renascimur spiritualiter, per ipsum crucifigimur mundo. Ipsius morte mortis ab Adam omnibus nobis introductae atque transmissae universae animae, illud propagazione contractum chirographum rumpitur, in quo nullus omnino natorum, antequam per baptismum liberetur, non tenetur obnoxius” (DS 109a-231).
Il Cristianesimo è perciò una religione di “redenzione” perché parte dal presupposto della nostra situazione di “irrimediabile” peccato, dalla quale situazione non potremmo liberarci da soli, ma dalla quale soltanto “la morte” di Cristo ci ha potuto riscattare. Ma davvero Gesù è morto per i nostri peccati? Davvero il Padre misericordioso ha deciso questa giustizia “ingiusta”: che un giusto muoia al posto dei peccatori? E davvero nasciamo tutti contaminati da un peccato – gravissimo e irrimediabile – che richiede solo il “versamento” del sangue per poter essere perdonato? C’entra veramente la giustizia nella morte di Gesù? L’autore della Lettera agli Ebrei (forse un Levita di scuola paolina) ci narra che come nel Vecchio Testamento ci dovette essere una effusione di 11
Mancuso V., L’anima, cit., p. 233.
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“sangue” animale, così per il Nuovo Testamento c’è stato bisogno del “sangue”, molto più nobile, di Cristo; la salvezza dal peccato è infatti superiore alla Legge e richiedeva una vittima più “nobile” che un animale. Questo accade perché: “Secondo la Legge, quasi tutte le cose si devono purificare col sangue, e senza spargimento di sangue non c’è remissione” (Eb. 9, 22). La dottrina cristologica di Giovanni, a differenza di quella di Paolo, però non considera tanto la morte di Gesù come il prezzo o il fio da pagare per la colpa dei progenitori, ma la sua morte è invece un atto di sublime amore sia da parte di Dio Padre che da parte del Figlio Gesù verso di noi uomini. “Dio ha tanto amato il mondo, che ha sacrificato il suo figlio unigenito, affinché chi crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (Jo. 3, 16). Concezioni come questa, che sia stato cioè un atto d’amore verso di noi il “sacrificare” il proprio figlio unigenito, oppure che sia stato un atto di giustizia retributiva, sembrano a noi il retaggio di un’epoca barbarica e feroce; sembrano un richiamo alla mentalità del mondo greco ed ebraico delle origini; lasciano stupefatti per la disumanità e sono del tutto opposte alla sensibilità contemporanea. Non vorremmo versare del sangue, tanto più del sangue innocente, per nessun motivo. Non vorremmo certo “sacrificare” un innocente, tanto più se a noi carissimo e degno del nostro rispetto e amore. Rinuncerei socraticamente ad essere perdonato dal Signore se Egli volesse (absit iniuria verbi) il sangue di qualunque innocente al fine di perdonarmi. Non voglio spargimento di nessun sangue. Neppure dovremmo volere la morte del testatore perché abbia valore il suo testamento. Come scrive infatti Paolo o il suo discepolo: “Infatti, dove c’è un testamento è necessario che intervenga la morte del testatore; perché un testamento acquista valore soltanto in caso di morte, e rimane senza effetto finché vive il testatore”(Eb. 9,16-17). Cerchiamo di trovare un’altra alternativa che ci spieghi che Gesù non può essere morto per i nostri peccati. Questa è stata la tradizionale visione occidentale influenzata dal diritto romano. Mentre l’Oriente guardava di più alla divinizzazione dell’uomo avvenuta con l’Incarnazione, noi occidentali pensavamo alla restaurazione dell’ordine leso. A un’offesa infinita occorreva porre rimedio con una “vendetta” infinita. Questa vendetta sarebbe una cosa concepibile solo sotto Nerone o il nazismo: nei nostri tempi è avvenuto che un Salvo d’Acquisto sia stato ucciso per attentati compiuti da altri, con la soddisfazione dei governanti criminali e spietati che erano consapevoli della di lui innocenza. L’immagine del criminale nazista non mi sembra la più adatta per parlare del Dio Onnipotente, il cui Nome è al di sopra di ogni nome.
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Se Gesù era la Seconda Persona divina divenuta uomo, e dunque se era il Dio onnisciente, e se conosceva tutte le profezie, come appare dai Sinottici, sapeva benissimo che dopo tre giorni sarebbe risorto, sia che la resurrezione fosse attuata dal Padre, sia che avesse in sé stesso il potere di risorgere. Ma allora la sua morte sarebbe stata una recita tutta a nostro beneficio. Non muore davvero, psicologicamente, chi “sa” di risorgere, e per di più anche glorificato. La vittima sacrificale ignora che cosa avverrà dopo il suo sacrificio. Se invece non sapeva di essere Dio, allora la sua morte è stata vera; ma con ciò la sua “divinità” sarebbe opera esclusiva della chiesa costantiniana e gli indizi evangelici sull’argomento sarebbero interpretazioni ecclesiastiche post factum; sarebbe solo una “probabilità” molto opinabile e al di fuori della Rivelazione. I Vangeli alcune volte ci dicono che Gesù non sapeva alcune cose, perché solo il Padre conosce tutto. Gesù può dunque essere considerato non a conoscenza di qualcosa senza che questo fatto costituisca un’offesa. Come è scritto nel Vangelo di Marco: “Quanto poi a quel giorno e a quell’ora nessuno ne sa nulla, neppure gli angeli in cielo, né il Figlio, ma solo il Padre” (Mc., 13, 32). Ma da che cosa ci doveva redimere Gesù? Se non c’è una colpa d’origine che segna una frattura definitiva con Dio creatore e infinitamente buono noi non avremmo bisogno di redenzione, ma solo di salvezza dalla morte. Per considerare il cristianesimo come religione di salvezza dobbiamo ammettere anche la sua condizione di possibilità. Se Gesù è morto “per noi”, noi dovevamo essere in una situazione di estrema necessità; forse era il peccato che ci teneva schiavi o forse era il mondo e il “principe” di questo mondo che reclamava salvezza dal cielo. E le principali condizioni di possibilità, secondo la teologia occidentale in particolare, ma già secondo la tradizione evangelica, sono che esista non solo il male come azione umana, ma il male ontologico, cioè il Diavolo come persona, e che esista il peccato come causa fisica e “unica” della morte. Allora la morte di Gesù, che è stata una morte “vicaria”, cioè è morto al posto nostro, acquista un senso. Se neghiamo l’esistenza del diavolo, neghiamo anche necessariamente l’importanza della morte di Gesù. Sembrerebbe forse più consono credere nella salvezza dalla morte come effetto del peccato, perché la resurrezione è stata l’annuncio della futura resurrezione che avverrà per tutti noi. La salvezza dalla morte e non dal peccato riporterebbe il cristianesimo nell’alveo del giudeo-cristianesimo originale. Ma non si vede la necessità di una morte sanguinosa per mostrare la resurrezione; occorre dunque un’altra ipotesi. Se fosse stata necessaria la morte del Giusto per la remissione del peccato (il peccato di Adamo e anche i nostri personali) 79
noi saremmo deresponsabilizzati da tutto il male che pure commettiamo: la colpa non sarebbe nostra, ma dello sciagurato Adamo. Gesù può essere nato non per morire per noi, ma per rendere la natura umana più vicina a Dio (gli orientali mettono l’accento sulla divinizzazione dell’uomo e sulla Incarnazione più che sulla morte e resurrezione). Potremo avere una visione ebraico-greco-cristiana “ontologica” e non una visione ebraico-romana del tutto “giuridica”. L’Incarnazione rende infatti la natura umana collaboratrice di Dio. La concezione teologica della “relativa” assolutezza dell’Incarnazione sarebbe così resa più comprensibile e accettabile dalla mentalità moderna, che non una morte voluta dal Padre per il nostro riscatto. In questa visione la morte di Gesù sarebbe stata redentiva perché ci avrebbe “liberato” dal peccato del mondo. Dobbiamo intenderci bene però sul significato del verbo “liberare”. Se lo si intende come causa efficiente non è esattamente vero che Gesù ci ha liberato; se invece lo si intende come esemplare allora è vero. Gesù ci ha dato l’esempio, ci ha mostrato come non si possa volere il Regno di Dio e contemporaneamente “accettare” il potere del mondo; la sentenza pelagiana forse esagerava, ma allora potrebbe esser vera la sentenza semi pelagiana; almeno molto più comprensibile per la nostra sensibilità di occidentali del nostro tempo. Con la sua morte (che è stata accidentale, come le condizioni “storiche” del momento potevano determinare, ma non dimentichiamo gli assolutismi novecenteschi) ha dimostrato che non è possibile arrivare a un compromesso tra l’amore e il potere o il mondo. Il mondo è rappresentato sia dall’Impero romano, sia dal Tempio ebraico (dai Sacerdoti e dai Farisei), perché le religioni si sono trasformate in strutture e istituzioni che sono alleate del trono. Lo stesso capitò in seguito, per avere un ulteriore esempio, in quella che si è chiamata “la Chiesa costantiniana”, dal IV secolo ai tempi nostri, dove addirittura c’è stato il Papa Re, e si è ucciso abbondantemente per difendere questa situazione. Spesso potere e religione si trasformano in strumenti di potere, di oppressione e di morte. Nel discorso del mito, come è ogni discorso religioso, c’è un’ampia possibilità di “conciliazione degli opposti”, per cui una cosa può essere e non essere vera contemporaneamente. Un cristianesimo che non fosse ossessionato, al modo greco, della verità ontologica, o che non considerasse la verità religiosa alla pari con la verità scientifica, di essere nella esatta “verità” di ogni e di tutte le proposizioni di fede, ma che accettasse il più e il meno, l’analogia del senso delle parole usate, la libertà dell’interpretazione (dal momento che sappiamo che ogni testo deve essere comunque interpretato) sarebbe più corretto, più umano, meno intollerante e autoritario. Nella fede 80
dopo tutto l’importante non è in primo luogo la verità delle interpretazioni, quanto la totalità dell’abbandono del credente a Dio e il compimento della Sua volontà.
4. Il peccato nostro I peccati vengono nella tradizione cristiana distinti in peccati veniali e peccati mortali. La gravità del peccato è fatta dipendere soprattutto dalla “gravità” della materia. È la chiesa che stabilisce la gravità della materia, mentre nell’ebraismo ogni trasgressione volontaria di un comando di Dio è sempre ugualmente grave (perché non è lecito trasgredire un comandamento divino e non è possibile stabilire quale comandamento è più importante dell’altro). Perché un peccato sia mortale, per i cristiani cattolico-romani occorrono le seguenti circostanze: materia grave, perfetta avvertenza, deliberato consenso. Mancando o difettando una qualsiasi di queste condizioni il peccato perde progressivamente la sua gravità fino a divenire peccato veniale. Citerò un manuale in uso nelle Università di anni or sono (per vedere come stavano le cose nel recente passato, e nella illusione che sia cambiato qualcosa di sostanziale nel post-Concilio). “L’ordination vers la fin dernière s’opère par la grace sanctifiante. (…) Le péché mortel a donc comme effet premier de nous priver de cette vie de l’ame – de là son nom de péché mortel – c’est-à-dire, de la grace, de la charité, de nos merites surnaturels, de nos titres à la béatitude surnaturelle. (…) Il s’ensuit que le péché mortel est de soi irréparable, puisqu’il enlève le principe meme de notre vie surnaturelle, à savoir l’adhesion, par la charité, à la fin dernière.”12
Credo che la cosiddetta “materia grave” non esista. La Rivelazione nulla ci dice a proposito di una materia; piuttosto sia il Vecchio Testamento, anche se ancora embrionalmente, sia soprattutto il Nuovo Testamento ci dice espressamente che c’è una sola azione che discrimina tra peccato e virtù: l’amore. E non l’amore solo di Dio, ma soprattutto l’amore per il prossimo. Tutto quello che non contraddice all’amore per il proprio fratello non è e non può essere peccato (soprattutto non può essere peccato mortale). Il peccato o c’è o non c’è. Se il peccato fosse veniale semplicemente non ci sarebbe; il peccato è dunque solo il peccato grave; se c’è peccato esso è mortale. Questo non richiede una determinata materia, perché io posso ribellarmi al mio Signore anche bevendo un bicchiere d’acqua o mangiando un frutto (che sarebbero materia lieve), come successe ad Adamo nel Paradiso. Tutto dipende da quanto sono cosciente di trasgredire il comando divino e da 12
Lottin O., Morale fondamentale, Desclé, Tournai 1954, p. 486.
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quanto oggettivamente faccio del bene o del male al mio prossimo. L’amore del prossimo dovrebbe essere l’unica norma oggettiva dell’agire morale. È il comandamento dell’amore (correttamente inteso, nel senso più universale e gratuito possibile, forse meglio chiamarlo la “carità/ agape”) che deve decidere sull’esistenza o no del peccato, non una qualche materia (intendi “comando”) che sia più importante di un altro (è questo il senso paolino della libertà cristiana da ogni legge; la legge divina, la legge ecclesiastica, la legge umana sono riassunte tutte nel comandamento dell’amore del prossimo). Non spetta all’uomo lo stabilire la scala d’importanza dei comandi di Dio; non possiamo sovrapporci alla volontà divina, neppure per restringere o per rendere più cogente un comando. Se non faccio del male e neppure del bene, allora sono “tiepido”, e come dice l’Apocalisse, merito d’essere vomitato. È scritto infatti: “Conosco le tue opere; so che tu non sei né freddo né caldo. Oh tu fossi almeno freddo oppure caldo! Ma poiché sei tiepido, e non sei né freddo né caldo, Io ti vomiterò dalla mia bocca” (Ap. 3, 15-16). La legge dell’amore è terribilmente esigente: non è possibile vivere e non amare. “Propriamente parlando, non ci sono i peccati, i molti peccati della teologia morale, del catechismo, dei confessionali. C’è un solo peccato, un solo vero e terribile peccato, quello contro lo Spirito Santo”.13 La civiltà umana cammina impercettibilmente e in tempi incredibilmente lunghi verso il Regno di Dio. Verso una struttura politico-sociale che riconosca sempre maggiori diritti a tutti i deboli e i bisognosi. Deboli nel senso di “più piccoli e indifesi”, come per esempio sono gli animali rispetto all’uomo, o gli ammalati, o i vecchi, o i bambini. Se nelle età antiche non faceva difficoltà avere degli schiavi, oppure destinare al rogo o alla croce o al carnaio del circo tutti quelli che il bene dell’Impero voleva, oggi una simile procedura è diventata ripugnante. Il progresso della civiltà consiste in un’espansione dei cosiddetti diritti ad altri soggetti, ai più deboli, ai diseredati. Oggi, almeno qui in Occidente, almeno dal punto di vista teorico e soprattutto presso alcuni spiriti profetici, incomincia a farsi sentire un ampliamento dei diritti ai più deboli, persino agli animali. I diritti non sono qualcosa di oggettivo, dovuto o alla natura umana o alla positiva volontà di Dio. I diritti sono ciò che gli uomini stabiliscono di volta in volta che è conveniente fare o è doveroso fare o non fare. Essendo i diritti stabiliti dall’uomo stesso nelle varie epoche, è possibile ampliare ad aree che una volta non erano considerate di diritto il carattere di obbligatorietà. Così estendiamo il carattere di prossimità che necessita di una risposta d’amore. 13
Mancuso V., L’anima, cit., p. 233.
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Certo, ci sono delle cadute spaventose nel cammino dell’Umanità; questo cammino non è un moto uniforme verso un mondo migliore; si pensi al nazismo, al comunismo, ai fascismi, ai regimi clericali, alle inquisizioni o alle crociate, alle differenti dittature. Pensiamo al crimine della Shoah, agli stermini d’interi popoli, alle guerre, alla fame dei poveri, alla tratta dei nuovi schiavi, eccetera. Tutto questo è simbolo del fatto che il peccato del mondo ancora impera e che è ben difficile uscirne. Però c’è la speranza di fede che la tendenza (il trend) cammini verso una sempre maggiore umanizzazione della ferocia dell’Umanità. Scrive il Prini nel saggio precedentemente citato: “È avvenuta, nella storia della cristianità, una sorta di evangelizzazione di una zona dell’anima che era rimasta per lungo tempo estranea, in sostanza, alla radicalità innovatrice della parola di Cristo”.14
La nostra “anima” è oggi sensibile a cose che nell’antichità o nel medioevo erano considerate come normali punizioni; i roghi, le torture, le lapidazioni, le croci, gli squartamenti, e non continuiamo per rispetto verso i nostri antenati. La storia è uno specchio di ognuno di noi come individui. Noi tutti nasciamo moralmente come belve selvagge, pronti a ogni sopruso, il male e la volontà di compiere ogni scelleratezza è qualcosa di innato, anzi di tipico dei bambini che sono cattivi “gratuitamente”, come aveva ben compreso Agostino che nelle Confessioni racconta i misfatti di se stesso bambino, che faceva il male non perché ne avesse bisogno, ma tanto per divertirsi, come sempre accade anche oggi. Il bene e il male sono “innati” nell’uomo (come capacità e condizione di possibilità) e questa è la condizione che noi riassumiamo sotto la parola “libertà”; nessuno sarebbe libero se non fosse capace di bene e di male contemporaneamente. Il Creatore non poteva (di potentia ordinata) creare una creatura spirituale (e dunque libera) senza porre le precondizioni del bene e del male. Libertà e razionalità sono ontologicamente sinonimi; la razionalità non è stata creata per farne un bel dono all’uomo, ma come specchio e immagine della natura divina, e dunque della libertà dell’uomo. Le stesse nozioni di “bene” e di “male” sono tipiche della mente umana; non esiste un bene in sé o un male in sé (il fatto che una pecora sia sbranata da un lupo non è né un bene né un male: è la semplice legge della “natura”). Il bene dell’uomo è ciò che chiamiamo “bene”; la nostra è una visione esclusivamente “antropologica”. Nulla è più crudele della legge naturale. La vita di tutti noi deriva dalla morte di altri: sempre e comunque.
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Prini P., op. cit., p. 49.
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L’uomo assume anche la natura di “creatore”; crea il suo dire, crea la poesia, il bello, l’arte, le conquiste della tecnologia, varca gli spazi siderali, fa, e nel fare crea nuove realtà. La vita degli uomini d’oggi è fatta quasi più di oggetti creati dall’uomo, che non di oggetti creati immediatamente da Dio. È chiaro che tutto ciò che l’uomo crea, lo crea perché il Sommo Creatore lo ha creato capace di tanto. Ma questa capacità obbliga l’uomo a rispondere con amore, con amore universale, non limitato né al proprio clan né alla propria specie. Il bambino deve poi essere educato, civilizzato, condizionato (proprio “condizionato” come un animale qualunque) dai genitori e dalla società, con minacce e premi, con autorevolezza. Quando il bambino apprende a comportarsi in modo “civile” – cioè a non dare più fastidio di quanto necessario, a comportarsi in modo civilmente e politicamente corretto, a dare unicuique suum, ed alterum non laedere, ad amare anche chi ci perseguita (se si è religiosi), eccetera – è segno che è diventato “uomo”, adulto (purtroppo pochi lo diventano, ma restiamo quasi tutti più o meno degli adolescenti irresponsabili, come appare evidente dalle cronache). Così le comunità umane iniziano con l’egocentrismo al massimo livello per poi, molto lentamente, umanizzarsi e uscire dallo stato selvaggio dell’istinto animale che ci guidava, come ogni animale feroce (siamo sempre feroci: nessuno è alla lettera in-nocente, perché ognuno almeno sporca, inquina con i propri escrementi, o disturba in un modo o nell’altro). Purtroppo la predicazione e la prassi ecclesiastica non insiste affatto su queste tematiche fondamentali, ma si occupa di tutto ciò che è biologico, non rivelato, non cristiano, ma “naturale”. Forse perché ci si rende conto che tutti questi dogmi (specialmente il dogma del peccato originale e la dottrina della grazia) hanno ormai perso di credibilità e sono assurdi per la cultura contemporanea, non in sé e per ciò che sottintendono, ma se vengono riproposti con la stessa terminologia di un tempo. “Alla gestione del sacro l’umanità in tutti i tempi e in tutte le latitudini ha preposto i sacerdoti che veicolavano quel discorso “misterioso” fatto di gesti e parole che solo la religione sapeva amministrare. Dico “sapeva”, perché oggi la religione si è arresa alla ragione, abbassando il divino all’atmosfera della convivenza sociale (la pace), quando non a quella della condotta sessuale (la castità), dimenticando che l’etica, come ci ricorda Kierkegaard, non è all’altezza della religione e, con il suo comandamento “Non
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ammazzare”, non capisce cosa chiede Dio quando vuole da Abramo il sacrificio del figlio”.15 Su questa tematica scrive il Padre G-D. Mucci: “[La “de-teologizzazione dell’atteggiamento religioso”] constata o contesta alla Chiesa il cambiamento che si pretende sia avvenuto nel suo discorso pubblico: non più l’insistenza sui riferimenti dogmatici, ma la rivendicazione del monopolio dell’etica. I dogmi del peccato originale, della redenzione, della salvezza sarebbero oggi taciuti o proposti senza la forza di un tempo e, comunque, non costituirebbero più l’ossatura della dottrina morale della Chiesa. La dottrina millenaria della natura decaduta con il peccato sarebbe ormai divenuta obsoleta e sostituita da una sorta di “bio-teologismo” impegnato a risacralizzare la natura avversando le scienze biologiche e le teorie dell’evoluzione. Che in taluni settori della Chiesa si ecceda forse con le tematiche sociali ed etico-pragmatiche è un fatto noto anche agli analisti cattolici. Già parecchi anni or sono, un fine letterato, Italo Alighiero Chiusano, metteva in luce la sproporzione tra l’impegno sociale e la predicazione delle verità della fede”.16
È chiaro da queste parole che l’illustre teologo non può negare in toto l’insistenza su queste tematiche più “biologiche” che non teologiche, anche se insiste sulle tematiche “sociali”, certamente meno bio-teologiche e più socio-teologiche. Questo accade perché la sensibilità odierna è del tutto favorevole a uno sguardo più sociale sul peccato e si rimprovera alla chiesa di insistere troppo, per esempio, sull’aspetto sessuale e troppo poco sulle ingiustizie sociali. Ma la assoluta carenza della predicazione di “fede” (e non su ciò che è semplicemente e improbabilmente “naturale”) è un vero offuscamento della religione a tutto vantaggio di una funzione “politica” che invece non appartiene alla Chiesa, ma che la Chiesa intende esercitare. Il Bonhoeffer invece, nella sua concezione classicamente luterana, così scrive: “La domanda del cristianesimo non riguarda il bene e il male dell’uomo, ma se Dio sarà o non sarà misericordioso. Il messaggio cristiano è al di là del bene e del male, e deve essere così; se infatti la grazia di Dio dovesse essere resa dipendente dall’uomo secondo che egli sia buono o cattivo, si avrebbe nuovamente la base di una pretesa dell’uomo a Dio, ma con ciò si sarebbe menomato il potere e l’onore esclusivo di Dio. È oltremodo significativo che nell’antica storia del peccato originale il motivo della caduta sia il mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. La comunità originaria – diciamo infantile – dell’uomo con Dio sta al di là di questo sapere del bene e del male, sa soltanto di una cosa: dell’infinito amore di Dio all’uomo (…). Cristianesimo ed etica 15 16
Galimberti U., op. cit., p. 189. Mucci G.-D., L’inferno vuoto, in: “Civiltà Cattolica”, 3788, p. 132.
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non hanno niente a che fare l’uno con l’altra, non c’è un’etica cristiana, partendo dall’idea del cristianesimo non c’è alcuna possibilità di trapasso all’idea dell’etica”.17
Per un Protestante il tema della grazia è fondamentale. La “sola” grazia conduce alla “sola” fede, e la negazione delle “opere” procede dall’affermazione della natura umana corrotta e incapace di bene, cioè quasi che l’uomo nascesse capace solo di male e non anche di bene, come abbiamo notato. Il Cattolicesimo invece ha subìto nei secoli la benefica influenza del pelagianesimo. Si badi bene, questa influenza verrà sempre negata se enunciata in modo esplicito, ma la dottrina comprende anche presupposti non direttamente esplicitati, tra cui oggi si afferma la libertà dell’uomo. La scuola gesuitica è sempre stata del tutto “pelagiana” (a detta di Pascal e di tutti i giansenisti); questo dico nel senso che è data per scontata la possibilità dell’uomo di compiere “anche” il bene. È probabile che i gesuiti, nati per contrastare il cammino del luteranesimo, affermino questa dottrina contro i protestanti come un argomento ad personam. Nella Scrittura ci sono sufficienti argomenti sia per la tesi della salvezza attraverso le opere sia per la salvezza attraverso la fede. La Rivelazione non va interpretata come se valesse l’aut aut latino, ma invece come se valesse l’et et dei semiti e del semplice buon senso. Si noti che nel frattempo è stata firmata ad Augusta la “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione” fra le chiese luterane e la chiesa cattolica romana. Il documento fu firmato il 31 Ottobre 1999. Vi si stabilisce che le differenze in questa materia che esistono ancora tra le chiese non hanno più un significato tale da poter giudicare eretico l’altro. Se io inizio un’opera determinata devo mettervi tutta la mia abilità e comportarmi del tutto e in tutto come se l’opera iniziata dipendesse tutta e totalmente da me; ma quando l’opera giunge a buon fine deve ringraziare Dio, perché “so” che tutto è dipeso solo da Lui. Naturalmente il contrario vale per i seguaci protestanti di Agostino che è stato il principale protagonista contro Pelagio. Pelagio, un monaco britannico, arrivato a Roma durante il pontificato di Papa Anastasio (399-401), attaccò la dottrina agostiniana sul peccato e la grazia, perché avrebbe reso inutile ogni sforzo morale. Se l’uomo non fosse responsabile per il suo commettere il male o fare il bene, non ci sarebbe alcuna colpa nel peccato, né alcun merito nella virtù: questa la tesi fondamentale di Pelagio. Divenne molto seguito e accettato soprattutto presso i 17 Bonhoeffer D., “Questioni fondamentali di un’etica cristiana”, in: Gli scritti, Queriniana, Brescia 1979, p. 51.
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monaci che mettevano tutto il loro impegno per vivere secondo le loro rigide regole. Agostino lo attaccò vigorosamente in “De peccatorum meritis” e in “De Spiritu et Littera” (ambedue del 412). Pelagio si recò in Palestina, ma Agostino scrisse ancora contro di lui il “De natura et Gratia”. Pelagio rispose con il suo trattato “De libero arbitrio”, che gli procurò la condanna dei Concili di Cartagine e di Mileva nel 416. Il Papa Innocenzo I lo scomunicò, nello stesso anno in cui Agostino scrisse il “De gestis Pelagii”. Probabilmente egli tornò in Palestina dove morì. I principali motivi della condanna di Pelagio, come risulta dalle “Tesi contro Celestino”, scritte da Paolino di Milano nel 411, furono: 1. Che Adamo sarebbe morto naturalmente anche se non avesse peccato, cioè che la morte era solo un aspetto naturale della vita stessa. 2. Che il peccato di Adamo riguardava solo lui e non si trasmetteva a tutta la razza umana. 3. Che tutti i bambini nascono innocenti come Adamo prima del peccato, e sono quindi in grado di fare il bene come il male. 4. Che tutti gli uomini non sono diventati “mortali” per colpa del peccato di Adamo, e che neppure “risorgeranno” per merito della resurrezione di Cristo (anche gli ebrei credono nella Resurrezione senza alcun bisogno di Cristo, come testimonia la stessa esperienza). 5. Che la Legge e anche il Vangelo sono sufficienti per entrare nel Regno dei cieli. 6. Che anche prima dell’incarnazione di Cristo ci sono stati degli uomini giusti. Le sue tesi erano state riprese – a detta di Jansens (1585-1638), detto latinamente Giansenio –, dalla scuola gesuitica. In effetti i gesuiti mettevano l’accento sull’importanza della volontà umana sia nel fare il bene che nel male. Il teologo F. Suarez, come il Molina, credeva che Dio fornisse il suo atto creativo secondo questa similitudine: Dio è come il vento che fa forza sulle vele e causa il moto della barca, ma l’uomo con la sua volontà è come il timoniere che orienta la barca verso dove vuole. Perciò Dio e l’uomo sono corresponsabili (a livello fisico di causa efficiente, non moralmente) del bene e del male. Con le Lettere provinciali Pascal entrò in polemica contro i gesuiti, nel 1656.
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Scomunicato Giansenio e i suoi seguaci, essi finalmente si staccarono dalla Chiesa romana, con grande coerenza, dopo il Concilio Vaticano I. Suarez durante la controversia che aveva opposto i Domenicani ai Gesuiti sulla grazia in relazione alla libertà dell’uomo, propose la cosiddetta “scientia media”, una via di mezzo tra la predestinazione e la libertà assoluta dell’uomo. In effetti sembra che Pelagio avesse almeno in parte ragione. Se nel primo millennio si poteva avanzare l’ipotesi che Adamo fosse stato creato immortale e divenuto mortale dopo il peccato, con le nozioni biologiche e antropologiche che allora si possedevano, non sembra possibile fare questa ipotesi oggi, nel terzo millennio, quando conosciamo molto di più sull’origine della specie umana. Noi abbiamo la testimonianza del codice genetico animale e quindi anche umano, abbiamo i reperti geologici, i resti dei primi uomini, anche pre-homo sapiens sapiens. Sappiamo perciò che il codice genetico è quasi una costante in tutto l’arco dell’evoluzione; sappiamo anche che nulla sulla terra può essere immortale, perché sono le cellule stesse che recano in sé la radice della loro morte, e che senza la morte non ci sarebbe neppure la vita. Non è corretto interpretare il mito della fede con le categorie della scienza biologica contemporanea; sia la scienza sia il mito biblico sono verissimi e ci danno un messaggio a differenti livelli, ma entrambi complementari. Creando Adamo, Dio “maschio e femmina li creò”: ora la natura sessuata degli animali serve ovviamente alla riproduzione, ma non si vede l’utilità di una riproduzione illimitata in un mondo dove non esisterebbe la morte. Si potrebbe pensare a una vita ulteriore al di là della vita terrena; ma in questo modo non si rischia forse di dare sfogo solo alla fantasia? Interpretando in modo pseudo scientifico la verità del mito, non si rischia forse di rendere l’assenso della fede più difficile e quasi assurdo? Che fine farebbero, nell’ipotesi della immortalità, tutte le generazioni precedenti le altre? Dove si troverebbe la prova fisica di un codice genetico privo della dimensione autodistruttiva? La morte perciò non può essere il frutto del peccato; e neppure il partorire con dolore, o la fatica connessa al lavoro: si tratta di realtà ovviamente naturali e non di punizioni dovute “storicamente” a un’azione umana (altra cosa sarebbe se il racconto fosse interpretato come un “mito”: la sua verità mitologica apparirebbe subito evidente; si tratta evidentemente di una ricerca etiologica che cerca di stabilire il perché della realtà umana). L’uomo appare fin dal principio della sua evoluzione come un animale mortale; anzi tutti gli animali e tutte le cose (di qualsiasi natura) sono mortali, o deteriorabili secondo le note leggi dell’entropia. Dire il contrario era possibile in un mondo che ignorava l’esistenza 88
di leggi scientifiche, ma appare come un’offesa al buon senso e alla scienza contemporanea il continuare a ripeterlo. Lo stesso si dica della cosiddetta “natura lapsa”. Cosa vuol dire “natura”? È lo stesso che dire “codice genetico” (che è ciò che fa sì che un ente sia ciò che è, com’era concepita aristotelicamente la causa formale, o l’anima dell’uomo), e se non è così cosa può significare? La natura è un concetto che ha origine nella filosofia platonica e aristotelica, non è un concetto “biologico”; usarla in contesto biologico non significa nulla. Aristotele quando parla della “forma” del corpo o dell’anima o della natura umana non significa altro che, detto in termini attuali, il codice genetico. Infatti la definizione della forma è “ciò che fa sì che una cosa sia proprio quella cosa”; ora per noi contemporanei questa realtà è fisica e non metafisica, e si chiama codice genetico.18 È infatti il codice genetico che struttura diversamente un uomo e fa sì che sia un uomo, non è un’anima spiritualmente intesa o aristotelicamente intesa come forma del corpo. Dunque la natura potrebbe essere identificata grosso modo con il codice genetico. Non avrebbe evidentemente molto senso parlare oggi di un codice genetico peccatore, o lapso. Quale sarebbe infatti il gene responsabile del male? Inoltre il peccato, o meglio, i peccati non sono un frutto del corpo (contro ciò che dicono i manuali per confessori con le loro ossessioni sessuofobe) ma i peccati sono un’azione della mente: sono fatti spirituali e non materiali. Attribuibili più alla mente o all’anima (religiosamente intesa, qualunque cosa significhi) che non al corpo (ammesso che sia possibile distinguerli, seppur di ragione). Ma secondo la dottrina cristiana l’anima “non” deriverebbe dal padre Adamo, ma verrebbe direttamente infusa da Dio (le Chiese sostengono più o meno apertamente il “creazionismo” avendo condannato ogni forma di “traducianesimo”). Non si capisce così perché Dio crei direttamente un’anima colpevole per eredità di uno che non è (dal punto di vista dell’anima) nostro parente. Se ogni anima viene da Dio direttamente, sembra ingiusto che Dio la crei già punibile, già colpevole, già debole, già necessitante di un Redentore per poter vivere e per raggiungere ciò per cui è stata creata. Il peccato, nella sua realtà plurale e singolare, originale o personale, non è un naufragio dell’Umanità, a cui Dio assiste andando in cerca di rimedi; rientra nell’abisso della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio. Il suo Regno verrà; il Signore della storia e di tutto ciò che esiste è Lui e non noi; non possiamo opporci efficacemente a Lui in nessun modo. Non è 18
Berti E., In principio era la meraviglia, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 158.
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possibile frustrare la volontà di Dio; il solo pensare questo sarebbe ammettere un radicale dualismo, una possibilità del male, dell’uomo, di stare di fronte a Dio a parità di possibilità. Il mondo così com’è non è segno del fallimento della divina volontà, ma è al contrario una ammirevole testimonianza della ricchezza e della pienezza dell’Amore infinito. È certo che s’incontra una forte resistenza contro l’idea che i peccati siano solo degli inconvenienti perché siamo in balia degli appetiti, e questi appetiti siano una realtà “negativa” dovuta alla “carne” “malvagia” (intesa nello stesso senso degli gnostici e dei manichei) che opera contro un’anima spirituale. Scrive Vattimo: “La resistenza contro questo pensiero è tutta legata all’idea che ci siano peccati definibili come tali in base a una legge naturale, appunto in base a una visione metafisica di essenze. Ma questa visione metafisica non è altro che l’assolutizzazione di qualche visione del mondo storicamente determinata, rispettabile come ogni prodotto culturale umano (per amore del prossimo), ma non più di questo”.19
L’idea della biologizzazione del peccato è vecchia (è la stessa eresia manichea della materia peccaminosa di per sé), ed è anche stata dichiarata eretica; è illogica (perché noi non siamo fatti di “spirito” più una materia aggiuntiva, ma siamo un tutt’uno, né materia, né spirito); anzi, l’esistenza in noi di quelli che chiamiamo “istinti” (o di impulsi vitali che ci spingono ad agire in un certo modo, con il senso proprio che si addice all’uomo, che non è un animale esattamente come gli altri) è un motivo di attenuazione dei peccati che ne derivano, non è un’aggravante. Quindi i suoi effetti saranno dei cosiddetti peccati veniali, perché mancherà sempre qualcosa al deliberato consenso o alla perfetta avvertenza. Tutto sta nel definire esattamente cosa si intende con questi due aggettivi. Il consenso, che deve essere “deliberato” e l’avvertenza che deve essere “perfetta”: qual è il senso esatto di queste due parole riferite a uno “stato mentale”? L’uomo normale si troverà forse una o due volte nella vita di fronte al “progetto” complessivo della sua vita ed è qui che deve scegliere se e come rispondere alla chiamata divina. Per questo il peccato mortale, come del resto la grazia (o la libertà dei figli di Dio), sarà l’esperienza “fondamentale” ma raramente esperibile nel corso di una normale vita umana. Nella teologia morale contemporanea questa esperienza si chiama “opzione fondamentale”; è una scelta a favore o contro Dio, ma non necessariamente “esplicita”, può trattarsi anche di una scelta implicita in scelte di fondo d’amore. Agostino nella Ad Galatos, diceva che chi ama il prossimo, ama Dio, che lo 19
Vattimo G., Credere di credere, Garzanti, Milano 1998, p. 91.
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sappia e che lo voglia o no. Perché non si può amare il prossimo e non amare Dio come non si può dire di amare Dio ma non amare il prossimo: i due amori sono realtà e simboli l’uno dell’altro. Tutte le azioni che riguardano qualunque materia, ma che non implicano una scelta a favore dell’amore o contro l’amore (naturalmente si intenda la parola “amore” nel senso teologico, non nel senso comune) non sono se non peccati veniali, e cioè imperfezioni, non peccati. Questo non ci trasforma in uomini “virtuosi”, giusti; restiamo sempre peccatori, e soprattutto ci dobbiamo incolpare dei peccati occulti (occulti soprattutto a noi stessi), perché questo significa che siamo così peccatori in quel settore che neppure ce ne accorgiamo. Il Salmista dice infatti: “Tu hai posto le nostre iniquità davanti a Te, i nostri peccati occulti, alla luce del Tuo volto” (Ps. 90, 8). Ogni nostra azione è sempre composta da un aspetto virtuoso e contemporaneamente da una componente peccaminosa: c’è sempre la ricerca del “sé” che compromette ogni nostra azione.
5. L’apocatastasis. Per “apocatastasi” si intende che il Diavolo o la personificazione del male (chiunque egli sia, angelo o simbolo) non è eternamente dannato e l’inferno (qualunque sia la sua realtà e la sua natura) non può neppure essere eterno (quindi non ci sarà nessuno dannato per sempre, ma forse solo per un tempo, per quanto lungo: se ha un senso parlare di “tempo” fuori dalla materia e da questa materia vista nella prospettiva dell’uomo). Alla fine del mondo, quando Dio giudicherà i cieli e la terra, ci sarà una “restaurazione” finale e tutto tornerà sotto l’assoluta sovranità di Dio e del suo amore verso tutte le creature sue, Diavolo o Satana compreso. Questo perché Dio ci ha creati per un suo disegno d’amore, e la fedeltà amorosa di Dio o la sua Hesed non può non essere eterna. Il motivo non è la misericordia divina, ma è la “fedeltà” di Dio, è la sovranità di Dio, è l’assolutezza del monoteismo che entra in azione. Se ci fosse un’eternità del male, si potrebbe cadere nel dualismo gnostico di origine iraniana; ma questo sarebbe contrario al principio della fede ebraico cristiana dell’assoluta unicità di Dio e della non eternità di tutto ciò che non è Dio. Origene sostiene l’apocatastasi nel suo capolavoro speculativo, Peri archon, più noto col titolo latino di de principiis, che pubblicò nel 220 all’età di 35 anni. Anche per lui, come già per gli Stoici, il pensiero dell’apocatastasi sgorga da una necessità primariamente teologica. Egli si colloca col pensiero “alla fine del mondo, allorché Dio sarà tutto in tutti”, come dice citando san Paolo in 1ª Corinzi 15, 28, con l’objettivo di comprendere come 91
possa essere possibile la deificazione di ogni creatura di cui parla l’Apostolo. È decisivo notare che il punto sostenuto da Origene non è la misericordia di Dio. Ma è puramente teologico, cioè come sarà possibile che Dio possa essere veramente Dio, cioè sovrano e signore su ogni minimo aspetto dell’essere, visto che, scrive Origene, “egli ha fatto tutte le cose perché esistessero, e ciò che è stato fatto per esistere non può non esistere” (De Principiis III, 6,5; ed it. p. 472-473). Tutte le cose significa anche il Diavolo, che per Origene si convertirà e sarà reintegrato, e con lui ovviamente tutti i dannati. Molte volte la tesi la si esprime dicendo che probabilmente l’inferno è del tutto “vuoto” (se c’è; ma se è vuoto, sarebbe come se non ci fosse, anche se non si capirebbe il perché e a quale scopo sarebbe stato creato). Come scrive il P. Mucci: “La tesi di von Balthasar afferma che sperare la salvezza eterna di tutti gli uomini non è contrario alla fede. Essa si avvale dell’autorità di alcuni padri della Chiesa, tra i quali Origene e Gregorio Nisseno, ed è condivisa da non pochi teologi contemporanei, tra i quali Guardini e Daniélou, de Lubac, Ratzinger e Kasper, e da scrittori cattolici come Claudel, Marcel e Bloy”.20
Non si tratta d’altro che di prendere sul serio le conseguenze del monoteismo. Se si ammettessero due principi eterni (sebbene l’uno increato e creante, e l’altro creato e privante) il monoteismo che implica anche la regalità, la sovranità assoluta e ubiqua sull’universo del reale e del possibile, ne sarebbe come attenuato e sminuito. Dio nel creare ha concepito un “disegno”: quello di volere che tutti gli uomini fossero “salvi”, cioè che fossero felici e nel suo Regno, non dannati e nel regno del male. L’apocatastasi non è che la forma del “mito” con cui riaffermiamo questa sua salvifica volontà. Non è una verità tesa a negare l’esistenza del male nel mondo (perché è troppo ovvio che c’è), né tesa a mitigare l’importanza della libertà, angelica e umana. Ambedue queste cose sono reali, ma sono parte del mito, e come ogni mito deve avere degli aspetti creativamente divergenti per afferrare la realtà abbastanza incomprensibile (per noi) dell’opera di Dio. La creazione del mondo non è un’ovvietà che noi possiamo “spiegare” con categorie scientifiche o filosofiche o teologiche (qui sta lo “scientismo”, deprecato a parole dalle gerarchie, ma poi ammesso di fatto con l’attribuire verità letterale ai miti come se fossero proposizioni “scientifiche”) e totalmente razionali, come se si trattasse di spiegare come si fa a costruire un’automobile.
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Mucci, G.-D., op cit., p. 194.
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La creazione dell’uomo, il fatto che l’uomo sia libero, il fatto che Dio intervenga nella storia per salvarci, il fatto del diniego umano, della grazia divina, del giudizio finale di Dio, non possono essere “spiegati” con razionale logicità, e cercando di salvare ambedue i corni della questione. Solo il linguaggio mitico o misterico è capace di dire “aliquomodo” l’indicibile. Non si tratta né di un teorema matematico, né di una constatazione storica, né di una tesi metafisica. Si tratta di una verità così difficile da esprimere che l’unico modo per raccontarla consiste nel mito, che contiene molte più verità che non il logos. Eppure da parte di alcuni pur degni ecclesiastici si reagisce alla posizione della questione della sovranità assoluta di Dio (nell’apocatastasi) con aperto e non dissimulato fastidio. Scrive un teologo gesuita: “Venendo poi a parlare dell’inferno, Mancuso dedica praticamente tutto il capitolo (…) alla confutazione del dogma dell’eternità dello stesso. Anche qui, saltando da Agostino a Tommaso fino a von Balthasar, egli approda alla lapidaria affermazione per cui “parlare di eternità dell’inferno è una contraddizione assoluta” (p. 263), oltre che poco evangelico. Si tratta dunque di scegliere tra apocatastasi e annichilazione dei reprobi (…). Precisiamo qui, se fosse necessario, che la dottrina dell’apocatastasi, oltre che sempre condannata dal Magistero, è anche insostenibile fintantoché si vuol mantenere la reale libertà di ogni essere spirituale anche di fronte all’appello di Dio.”21
La rivelazione, la Bibbia, offre moltissimi passi a favore di un ritorno verso Dio, come anche a favore di una punizione eterna. Ma come sempre e come abbiamo già sostenuto, non è la rivelazione che decide in ultima analisi la verità di fede, ma la fede preesistente, che poi mette insieme i vari passaggi biblici a favore della scelta, puramente di fede e non giustificata dalla rivelazione. Nella stessa Scrittura si può leggere che di Dio “sarà tutto in tutti”, e che anche Cristo sarà sottomesso al Padre, e contemporaneamente che ci saranno i dannati nella Gehenna. Non si può sfuggire alla apparente contraddittorietà del mito se lo si legge con occhi velati e annebbiati di logica (del logos). È per questo motivo che si trovano dei Padri della Chiesa a favore di ambedue le sentenze; perché prima si decide cosa conviene credere e poi si va alla ricerca delle “prove” scritturistiche di ciò che già si crede. Il voler chiudere “per sempre” la questione per mezzo di dichiarazioni dogmatiche è una delle forme del prevalere della mentalità “greca” che noi abbiamo nella nostra cultura, e che inquina anche la nostra religione (ma non la nostra fede). Potremmo dichiarare chiusa per sempre una questione solo 21
Marucci C., L’anima secondo Mancuso, in: “Civiltà Cattolica”, 3783, p. 282.
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quando ne conoscessimo esattamente la verità e fosse inutile proseguire nella ricerca. Ma questo non è possibile. L’intelligenza umana non è paragonabile a quella divina, la comprensione del Creatore non può essere confrontata con la nostra comprensione creaturale. Il “mistero” divino non è esauribile neppure con duemila anni di indagine. Paolo dice infatti: “Oh abisso di ricchezza, di sapienza e di scienza di Dio! Quanto sono inperscrutabili i suoi giudizi e impenetrabili le sue vie! Infatti: “Chi mai conobbe la mente del Signore? O chi è stato il suo consigliere?” O chi prima ha dato a Lui per avere il contraccambio?” (Rm. 11, 33-35).
A favore di una vita eterna di gloria e di gioia potremmo citare un altro passo sempre di Paolo: “Ma in tutto questo noi siamo supervittoriosi, per mezzo di Colui che ci ha amati. Sono sicuro, del resto, che né la morte, né la vita, né gli Angeli, né i Principati, né il presente, né l’avvenire, né altezza, né profondità, né qualsiasi altra creatura ci potrà separare dall’amore d’Iddio che è in Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm. 8, 37-38).
Non scandalizziamoci allora se qualcuno afferma che il disegno della divina salvezza riuscirà a prevalere su tutto, anche sul potere delle tenebre. Questo non significa che ci sarà veramente l’apocatastasi e che l’inferno sparirà; questa è soltanto un’opinione molto probabile, come è un’opinione molto probabile l’eternità dell’inferno. Noi ci abbandoniamo con estrema fede fiduciale in Dio e nella Sua misericordia, la sua hesed, e non presumiamo di possedere la verità in ciò che è nascosto nel suo cuore. Ma neppure presumiamo di conoscere esattamente cosa rientra nel progetto amorevole del Padre e Creatore del cosmo.
6. Il semipelagianesimo. Il semipelagianesimo nasce nel XVI secolo; l’atmosfera del tempo era già determinata dal movimento dei Beghini dei Paesi Bassi, dalla Devotio moderna e dal libro dal successo pari a quello della Bibbia stessa: L’imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis. Ignazio, il fondatore della Compagnia di Gesù ne rese obbligatoria la lettura e la meditazione per i giovani gesuiti. Ignazio stesso con la sua opera fondamentale degli Esercizi, specialmente con la meditazione dei “Due vessilli” spingeva a cercare la via razionale ed “emotiva” per appartenere all’esercito di Gesù, il più buono, il più grande, il più nobile, il più magnanimo dei principi cristiani. 94
Luis de Molina, teologo gesuita che insegnò a Coimbra ed Evora, introdusse nel discorso teologico la nota “scientia media” che cercava di fondare una via media tra grazia e libero arbitrio. Si era infatti nel clima arroventato della Riforma e nella preparazione della Controriforma. I Protestanti sostenevano la “sola fede” e i cattolici invece sostenevano più o meno l’importanza delle opere oltre alla fede. Se si sostiene che Dio ci salva mediante la fede “fiduciale” (la fede “con” cui si crede e non la fede “che” si crede) in Lui, come credeva Lutero, le opere (la circoncisione e tutta la Legge mosaica, ma, specialmente per noi, anche la legge ecclesiastica) sono evidentemente vane. Ma sono vane soprattutto perché – sostenevano i protestanti – la nostra natura era corrotta dal peccato di Adamo e dunque tutte le opere, per quanto buone esse potessero essere e addirittura istituite da Gesù stesso, come i sacramenti, erano sempre frutto di peccato (della natura in quanto corrotta) e dunque immeritevoli di misericordia divina. Occorre affidarsi alla sola Misericordia di Dio, che guardando alla Croce di Gesù che ha già espiato per noi ogni peccato, può concederci gratuitamente la grazia e la vita eterna. Ogni vita morale sembrava divenire così vana (questa era l’objezione da parte sia cattolica che del buon senso); tutti gli uomini erano contemporaneamente “simul justi et peccatores”. Anzi poteva sembrare che fosse possibile vivere seguendo la legge “pecca fortiter sed crede fortius”. Se è soltanto la Grazia che ci salva a prescindere dalle nostre opere, perché non vivere nel peccato (compiendo opere cattive), come necessariamente viviamo, ma con ferma e vera fede nella gratuità della divina grazia? Nella Scrittura abbondano le frasi che invitano alla fiducia nella salvezza di Dio a prescindere dalle opere (Dio non può essere solo il “Contabile” del nostro stile di vita) ma abbondano anche le frasi sulla obbligatorietà dell’osservanza dei comandamenti (che nell’ebraismo rabbinico sono essenziali come tutte le Mitzvot) che debbono essere osservati pena la morte (non si specifica se si tratta di morte fisica o di morte spirituale ed eterna). Aggiunge la Scrittura che i Comandamenti sono possibili all’uomo: “Questi comandamenti che io ti do, non sono infatti così alti che tu non possa comprenderli, né così lontani che tu debba indagarli (…). Guarda, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; che se oggi io ti comando di amare il Signore, Iddio tuo, camminando nelle sue vie, osservando i suoi statuti, le sue leggi, i suoi precetti, allora tu vivrai e ti moltiplicherai, e il Signore Iddio tuo, ti benedirà nella terra dove tu stai per entrare a prendere possesso. Ma se il tuo cuore si volge indietro, e non vuoi obbedire e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dei e a servir loro, io oggi vi annunzio che certo perirete” (Dt 30,15-18).
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In tutto questo discorso, che è il discorso di commiato di Mosè prima di morire, è implicito ma evidente che Dio sta parlando a un uomo che “può” obbedire, non c’è traccia di un peccato che renderebbe il discorso un inganno da parte del Signore o del Suo Profeta. Alcuni protestanti di scuola calvinista assunsero che l’osservanza dei comandamenti non era la “causa” della salvezza, ma ne era il “segno”. Il fatto che un uomo si senta spinto a una vita buona e onesta, osservando tutte le Leggi dateci da Dio è un segno che Egli ci ha predestinato, come scriveva Paolo. Anche una vita “globalmente” buona, buona salute, buone condizioni economiche (anzi più si dispone di denaro e di ogni altro bene, più è evidente la benedizione divina), buone amicizie, insomma ciò che anche Aristotele giudicava utile alla vita, è un segno evidente della predestinazione alla salvezza. Al contrario la povertà, la malattia, la debolezza, le cattive amicizie, il non avere genitori viventi o che si occupano del figlio, eccetera, sono tutti segni della non elezione. È questa la causa della legislazione contro i “poveri” che nei paesi calvinisti imperò circa due secoli or sono. Mentre nel cattolicesimo (un po’ sulla tendenza ebraica) non esiste una predestinazione deterministica né positiva né negativa, ma ognuno con le opere (con l’osservanza della Legge, di tutta la legge, o almeno dei dieci comandamenti) liberamente “merita” il premio o il castigo. Così non è vero, per il cattolico, che la povertà sia un segno di predestinazione, come non lo è la ricchezza; ma la povertà è un’occasione per il ricco di praticare l’opera buona che chiamiamo “elemosina” (per l’esercizio concreto del comandamento dell’amore del prossimo) e che modernamente e politicamente noi moderni chiamiamo “giustizia sociale”. Anche la parola di Gesù sembra andare più in direzione di un obbligo di adempiere la Legge (“Io non sono venuto per abolire, ma per completare la Legge. Poiché in verità vi dico che finché non siano passati il cielo e la terra neppure uno iota o un apice della Legge passerà. E chi avrà violato anche uno dei minimi comandamenti sarà chiamato minimo nel regno dei cieli” Mt. 5,17-19), o almeno ci sono molti passi del NT che si possono interpretare a favore della Legge, anche quando se ne contesta la modalità dell’osservanza (sia d’esempio il sabato che è per l’uomo e non l’uomo per il sabato; ma questo non significa che il sabato “debba” essere disatteso). Eppure è vero che, secondo Paolo, la Legge è stata data affinché ci rendessimo conto che non ci è possibile obbedire. La Legge sarebbe solo fonte di “morte”, perché comanda ma non dà la forza di adempiere. Scrive infatti: “Che cosa diremo dunque? È peccato la Legge? No, certo. Ma io non ho conosciuto il peccato se non per mezzo della Legge. Difatti, non avrei conosciuto
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la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: “Non desiderare”. Ma il peccato, presa occasione da questo precetto, ha prodotto in me ogni cupidigia; senza la Legge infatti il peccato è morto” (Rm. 7, 7-8).
Il che vorrebbe dire, salvata la proporzione e con la dovuta reverenza, che è la legge che stabilisce la legittimità della proprietà privata che genera il furto e che se non ci fosse la proprietà privata il furto non esisterebbe; il ché è verissimo e anticipa di molte generazioni ciò che disse K. Marx. Nella 1ª Lettera di Giovanni sta scritto: “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. E da questo noi sappiamo che Egli dimora in noi, dallo Spirito che Egli ci ha dato” (1 Gv. 3, 24). Ancora più chiaramente così scrive Giacomo: “Fratelli, a che serve a uno dire d’avere la fede, se non ha le opere? Lo potrà forse salvare la fede? Se un fratello o una sorella sono nudi e hanno bisogno del pane quotidiano, e uno di voi dice loro: “Andate in pace, riscaldatevi, nutritevi” senza dar loro il necessario per il corpo, a che giova? Così è della fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. Ma qualcuno potrà dire: “Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere e io ti mostrerò con le opere, la mia fede. Tu credi che Dio è uno solo: fai bene; anche i demoni lo credono e tremano” (Gc. 2,14-19).
Non ci dimentichiamo che Giacomo, fratello del Signore era, con Pietro, uno dei principali capi della corrente giudaizzante del cristianesimo primitivo, osservante della Legge e contrario alle tesi paoline della totale libertà dalla legge. Questa corrente con la caduta di Gerusalemme fu sconfitta e perdette in gran parte l’influenza in quello che chiamiamo cristianesimo di cultura greca, dalla corrente assolutamente contraria, capeggiata più tardi da Paolo. Il fatto è che mentre Giacomo e Pietro vivevano in Palestina e rispondevano alle esigenze ebraiche, Paolo rispondeva alle esigenze della diaspora, comprese anche quelle dei “proseliti” greco-romani, che avevano in disprezzo le norme legali d’Israele (Israele era solo una delle provincie dell’Impero, e una provincia povera), e aborrivano la circoncisione considerata umiliante. Si spiega così la differente cristologia presente nelle opere di Paolo e di Giacomo. Poi, dopo la distruzione del Tempio, il numero dei convertiti dalla gentilità crebbe così rapidamente che l’elemento giudaico della chiesa primitiva divenne del tutto trascurabile. Fu allora che si accentuò il distacco religioso tra giudaismo e nascente cristianesimo dalla mentalità ebraico-greco-romana. Nei Vangeli è Gesù stesso che narra la parabola dei due figli. Leggiamo Matteo:
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“Un uomo aveva due figli, e, presentatosi, disse al primo: Figlio, va’ a lavorare oggi nella vigna. Ed egli rispose. Non ne ho voglia; ma poi pentitosi, ci andò. E rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. E questi rispose: Vado, Signore. Ma non ci andò. Quale dei due ha fatto la volontà del Padre? “Il primo” rispondono” (Mt 21,28-31).
Fare la volontà del Padre, dunque, dalle parole di Gesù, sembrerebbe possibile, altrimenti la parabola non avrebbe senso. Se la natura umana fosse corrotta a causa del peccato originale non sarebbe possibile fare la volontà del Padre e così salvarsi con le opere. Nell’Ebraismo la cosa è semplice, perché – come dicemmo – il peccato originale non esiste e l’uomo è tenuto a osservare tutti i comandamenti e così a vivere da giusto. La “santità” ebraica è piuttosto la “giustizia”, perché consiste nell’osservanza della legge divina. Nell’Ebraismo noi nasciamo con la stessa natura di Adamo prima del peccato e siamo perciò perfettamente in grado di divenire giusti, osservando tutti i precetti. Ma nel Cristianesimo c’è l’ostacolo del peccato d’origine; se il peccato esiste nella forma di peccato personale (e non per esempio nella forma di status o di situazione mondana, di peccato del mondo), come posso salvarmi con l’osservanza di una legge, osservanza della quale sono totalmente incapace? Il tentativo della teologia gesuitica, nella temperie della Controriforma, fu quello di salvare ambedue i dogmi, del peccato e della libertà. La Chiesa – dopo dispute dottissime e devastanti tra Domenicani sostenitori del peccato e Gesuiti sostenitori della libertà dell’uomo (la questione che allora si chiamò “De Auxiliis”) – lasciò la questione irrisolta. Si noti che essa è rimasta irrisolta sin’ora; oggi l’argomento non interessa più nessuno. Persino tra Luterani e Cattolici si è convenuto che ci si è combattuti per secoli (e sono morti per questo motivo moltissimi uomini pii, uccisi da ambedue le parti in nome della “vera fede”) solo su un piccolo malinteso. Dicendo “fede” si intendeva da parte cattolica la fides quod in primo piano e la fides qua in secondo; mentre era il contrario per i luterani che intendevano la fides qua in primo piano ma non escludevano la fides quod che restava in secondo piano. Così oggi si sa che la disputa fu una quaestio de verbis, un semplice malinteso linguistico o poco più. Da allora però è cresciuta nella Chiesa l’importanza – nei fatti, non nelle dottrine – della libertà; si potrebbe dire (la Chiesa romana non gradisce però dirlo apertamente) che la Chiesa intera è divenuta semipelagiana, cioè “eretica”, secondo la Chiesa stessa. Naturalmente questo deve essere inteso cum grano salis. La Chiesa non ha mutato il suo insegnamento tradizionale: quindi è formalmente nella piena ortodossia. Però nei fatti e nella predicazione si comporta in tutto come se il peccato originale non avesse corrotto 98
la natura e se l’osservanza delle norme che anche la Chiesa dà con abbondanza sia sulla bioetica, sia sulla giustizia sociale, sia sulla sessualità, eccetera, fossero dipendenti dalla volontà umana. Tutta la Legge “naturale”, cioè conoscibile dall’uomo senza la forza della grazia, sarebbe vana se l’uomo fosse pensato come incapace assolutamente di compierla, e dunque tutta la predicazione della Chiesa, persistendo la dottrina del peccato originale, sarebbe del tutto vana. Anche per la Chiesa l’uomo è pienamente responsabile delle sue azioni. Naturalmente tutto ciò era già stato detto da Paolo, che parlando della inutilità della Legge, intendeva contrapporsi alle teorie farisaiche e non sostenere una generica contrapposizione a ogni forma di legge. Ma Paolo riassume, come aveva fatto Gesù nel Discorso della montagna, ogni legge nell’unico comandamento dell’Amore. Per questo Paolo poteva dire che a noi è stata data la “libertà dei figli di Dio” e poteva raccomandarsi di non voler ricadere sotto la schiavitù di ogni formalismo. “Ma un tempo, voi non conoscendo Iddio, eravate schiavi di dèi che per natura non lo sono: ora invece che avete conosciuto Iddio, anzi, che siete stati conosciuti e amati da Lui, come mai vi rivolgete di nuovo a quei deboli e miseri elementi, dei quali volete ancora essere schiavi? Voi celebrate i giorni, i mesi, le stagioni e gli anni” (Gal. 4, 8-10). Scrive Umberto Galimberti: “Quando Dio tenta Abramo sapeva o non sapeva la risposta di Abramo? Perché se la sapeva, allora la tentazione è una sceneggiata; se invece non la sapeva (come sembra supporre il Genesi, 22, 12: “Ora so che tu mi temi”), allora, oltre a compromettere la sua onnipotenza, Dio con Abramo rischia”.22 La scienza media è appunto questa: Dio “sa in anticipo” come risponderà un uomo, perché è scritto nel salmo 139: “Ancora non mi è giunta la parola alla lingua e già, Signore, la conosci appieno” (Ps. 139, 4). Perciò l’onniscienza divina deve essere compresa come una sorta di via di mezzo tra la predestinazione e la grazia; Dio infatti dà, di fatto, secondo la Scolastica, due specie di “grazia”, la gratia efficax e la gratia sufficiens. La gratia efficax, come dice il nome, è sempre e totalmente efficace, cioè l’uomo compie sempre necessariamente quanto Dio gli chiede o gli comanda, come vorrebbero i predestinazionisti. Mentre con la gratia sufficiens si ha che la grazia sarebbe di per sé sufficiente per evitare il peccato, la disubbidienza, ma di fatto l’uomo peccherà. La necessità teologica della gratia sufficiens sta nel fatto che Dio vuole che “tutti” gli uomini siano salvi e non potrebbe perciò negare la sua grazia a qualcuno. Non è importante, ai nostri fini, la distinzione tra le due grazie, ma è interessante il fatto che Dio 22
Galimberti U., op cit., p. 76.
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“conosca” in anticipo ciò che farà l’uomo. Dio infatti è al di sopra della sua creazione, e perciò anche al di sopra del tempo. Egli è senza tempo, nell’eternità, nel non divenire, nel non-tempo (meglio sarebbe dire che Dio è nell’eone, perché anche in Lui, come ci mostra la Bibbia, c’è un divenire e un mutare che implica un tempo altro dal nostro, ma sempre un dinamismo). Questa capacità di Dio di conoscere in anticipo ciò che l’uomo farà, o dirà, o agirà, permette a Dio di intervenire con la via di mezzo: di concedere la gratia efficax a chi Egli sa che risponderà positivamente alle sue richieste, mentre darà una gratia sufficiens solo a chi già sa che non obbedirà. Questa è la via media: Dio è il Signore, perché è Lui che concede la grazia efficace e quindi è e resta l’autore di ogni bene; ma anche l’uomo resta libero, perché è solo prevedendo la sua risposta che Dio dà la sua grazia. La libertà dell’uomo viene così preservata, e anzi rafforzata (perché anche Dio la rispetta, anzi la vuole) e contemporaneamente Dio è il datore di ogni bene, resta il Signore che tutto ordina. Secondo l’opinione di L. Molina, poi ripresa anche dal grande teologo Francesco Suarez, Dio, propriamente parlando, non “predestina”, ma soltanto “prevede” l’uso che un uomo farà della grazia e secondo questa previsione “prestabilisce” il paradiso o l’inferno. All’interno del mito del peccato si salvano così la libertà sovrana di Dio, che agisce, ma con la potentia ordinata, e la libertà dell’uomo, che agisce mosso dalla grazia concessagli prevedendo che egli ne faccia buon uso, e la realtà del peccato, che sarà inevitabile se Dio concederà solo la gratia sufficiens, in previsione del cattivo uso che l’uomo ne farà. Il peccato è dunque la risposta negativa o ribelle dell’uomo a una “chiamata” di Dio a un gesto d’amore. Ma il gesto d’amore deve essere inserito in un mondo dove noi “ci” siamo e che ha una struttura malvagia. Il mondo infatti è strutturato sulla violenza, sull’interesse personale e l’assoluta indifferenza circa il prossimo, sulla rapina e sull’omicidio. È difficile per un uomo che è nato ed è stato educato in questo sistema compiere il bene. Ma Dio concede sempre la sua grazia a chi potrebbe rispondere positivamente, evitando così il peccato. Gesù ci ha indicato la via per non arrivare a compromessi con le potestà mondane, e con la sua croce ci ha mostrato che il Regno di Dio viene ed è già tra noi incoativamente, se solo abbiamo il coraggio di amare veramente (e non a parole) e se vogliamo compiere con i fatti la volontà di Dio (cioè l’amore incondizionato). L’inno all’Amore che ci ha donato san Paolo deve essere posto a conclusione: 100
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma l’amore non ho, sono un bronzo echeggiante, un cembalo sonoro. Avessi pur la profezia, conoscessi i misteri tutti e tutta la scienza, possedessi una fede da trasportar le montagne, ma l’amore non ho, io sono un niente. Distribuissi a bocconi i miei beni e il mio corpo dessi a bruciare, ma se l’amore non ho, niente mi giova. L’amore è paziente, benigno è l’amore, non invidia, non si vanta l’amore, non si gonfia, non è indecoroso, non va in cerca del suo non si adira, non mal pensa, non vuole il sopruso, ma gode della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto soffre. L’amore mai tramonterà!” (1° Cor. 13, 1-8)
tutto il resto è peccato.
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CONTAMINAZIONI
Laura Candiotto, La contemporaneità del dialogo socratico antico. Il ruolo delle emozioni 1. Introduzione Uno dei tratti essenziali del pensiero del Novecento, specialmente di matrice continentale, è stato quello di aver evidenziato il valore di quegli aspetti dell’umano che erano stati estromessi o, almeno, guardati con sospetto, dalla conoscenza filosofica: innanzitutto il corpo e con esso le emozioni e i desideri. Il pensiero nietzschiano, la fenomenologia, l’esistenzialismo, la psicoanalisi e il pensiero delle donne hanno questo in comune, al di là delle ben note differenze: il ricomprendere all’interno dell’esperienza umana tutti quegli aspetti cosiddetti “irrazionali”. Il riconoscimento di tali aspetti ha comportato un rovesciamento di prospettiva per tutti i settori filosofici, dalla filosofia della conoscenza alla filosofia politica, dall’etica alla filosofia del linguaggio, dall’estetica all’ontologia applicata. L’articolo intende dimostrare come sia possibile rintracciare nel dialogo socratico antico questo tratto fondamentale del pensiero contemporaneo, ovvero l’integrazione tra la dimensione emotiva e la dimensione razionale. La tesi che qui si vuole portare alla luce è quella secondo la quale il dialogo socratico antico non era un pratica meramente razionale1 ma un dispositivo
1
“Socratic dialogue: a comparison between ancient and contemporary method”, in: c/ di M. Peters, P. Ghiraldelli, B. Žarnić, A. Gibbons, The Encyclopaedia of Educational Philosophy and Theory. http://marul.ffst.hr/ENCYCLOPAEDIA
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complesso che utilizzava le emozioni nella loro accezione conoscitiva. Il focus di questo articolo è quindi sottolineare gli aspetti performativi e protrettici del dialogo socratico nella convinzione che essi evidenzino maggiormente il ruolo giocato dalle emozioni. Per fare questo verrà analizzata la particolare relazione comunicativa che Socrate intratteneva con gli interlocutori e con il pubblico; pur essendo il metodo socratico un metodo contestuale, sarà possibile evidenziare, per quanto riguarda il nostro tema, gli aspetti “strategici” del suo operare. Inoltre l’analisi si concentrerà sull’utilizzo delle emozioni all’interno della forma dialogica rintracciando i tratti di vicinanza e di distanza rispetto alla retorica, all’oratoria e alla sofistica, in merito all’utilizzo delle emozioni come strategia persuasiva. Attraverso l’analisi del legame che sussiste tra vergogna e riconoscimento della contraddizione, sarà possibile evidenziare il ruolo rivestito dalle emozioni all’interno di un’argomentazione di tipo logico-razionale. Grazie a questo sguardo retrospettivo sarà possibile in primo luogo evidenziare la “contemporaneità” del dialogo socratico antico e, secondariamente, fornire delle indicazioni per la pratica filosofica a orientamento socratico che, ai miei occhi, deve riacquisire quei caratteri propri del metodo antico che sono, nella maggioranza delle sue applicazioni contemporanee, assenti o perlomeno subordinati. In conclusione infatti viene proposto il “dialogo socratico integrale”, uno spazio all’interno del quale la dimensione affettiva riveste un ruolo centrale, come orizzonte di riferimento per un incontro tra il dialogo socratico antico e le istanze filosofiche contemporanee.
2. L’interpretazione maieutica Nel Gorgia2 emerge la concezione per la quale il dialogo si svolge di volta in volta tra Socrate e un unico interlocutore. Il dialogo descritto da Platone non è però per questo motivo un dialogo privato: esso avviene quasi sempre in un contesto pubblico e ha come sua caratterizzazione propria una dimensione epistemologica di ricerca comune. A parte rare eccezioni, appaiono infatti nel dialogo, oltre agli interlocutori, gruppi di uditori che assistono al dialogo. Essi alcune volte intervengono attivamente alla discussione, sostituendosi all’interlocutore principale, altre volte fungono da testimoni, e altre ancora rivestono il ruolo di destinatari delle domande socratiche quando l’interlocutore rifiuta di rispondere. In ogni modo, sempre subiscono, anche se in modo indiretto e meno potente, gli effetti del metodo socratico. Non solo, gli uditori svolgono un ruolo di “potenziatore” del dialogo socratico, essendo essi lo specchio dell’interlocutore confutato. 2
Platone, Gorgia 473 d-e, 474, 475e-476a.
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Tale interpretazione dei dialoghi socratici, la quale appartiene al genere delle interpretazioni maieutiche,3 sottolinea la finalità performativa del dialogo socratico nella sua intersezione con il piano politico e sociale. Mediante l’“elenchos retroattivo” la confutazione assume la sua massima portata critica e trasformativa: nei casi in cui gli interlocutori sono i rappresentanti dei valori della società che Platone voleva criticare, la confutazione socratica manifesta un’intenzione maieutica nei confronti non del singolo interlocutore ma degli uditori interni al dialogo e del pubblico che assiste alla lettura pubblica dei dialoghi4. L’elenchos è cioè diffuso, nel suo essere un dispositivo pubblico di confutazione di un singolo interlocutore. L’analisi del caso della vergogna che ci accingiamo a fare spiegherà meglio lo svolgersi di questa dinamica.
3. Emozioni e retorica Le strategie retoriche venivano utilizzate da Platone proprio allo scopo di incidere sull’opinione pubblica. Esse all’apparenza sono del tutto simili a quelle utilizzate dai retori e dei sofisti ma, a mio parere, si differenziano da esse in ragione della finalità del loro utilizzo, ovvero nella purificazione elenctica e nella conseguente azione maieutica.5 Una delle caratteristiche fondanti la costruzione platonica del personaggio Socrate è proprio quella di porre le distanze tra Socrate e la sofistica. Questo era necessario per difenderlo dalle accuse di essere stato il maestro di quei politici (Alcibiade, Crizia, Carmide) che avevano condotto Atene alla tirannide6. Il riconoscere l’intento platonico di mascherare gli elementi sofistici presenti nel metodo socratico ci permette di individuare, in controluce, gli indubbi contatti che Socrate intratteneva con la sofistica e il suo conseguente
3
Cf. C. Gill, «Le dialogue platonicien», in: c/ di L. Brisson, F. Fronterotta, Lire Platon, Paris 2006, p. 53-75. Personalmente propongo una lettura ristretta di tale interpretazione, considerando cioè unicamente l'incidenza del dialogo socratico sull'uditorio interno ed esterno contemporaneo a Platone. 4 Per una trattazione completa di tale argomento rinvio a L. Candiotto, Le vie della confutazione. I dialoghi socratici di Platone, Mimesis, Milano-Udine 2012 e agli altri miei articoli citati in bibliografia. 5 Su questo e altri aspetti affini, cf. il dialogo tra me e Livio Rossetti che sarà pubblicato nei Quaderni Urbinati di Cultura Classica e che apparirà nella traduzione portoghese del volume di Livio Rossetti, Le dialogue socratique, Encre Marine, Editiones les Belles Lettres, Paris 2011. 6 “Socrate e l’educazione dei giovani aristocratici. Il caso di Crizia come esempio di mascheramento operato dai difensori socratici”, in: c/ di F. de Luise, A. Stavru, Socratica III. Studies on Socrates, the Socratics, and the Ancient Socratic Literature, Academia Verlag, Sankt Augustin 2013, p. 190-198.
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massiccio uso di strumenti retorici7. Non solo, lo stesso Platone, come ho già evidenziato precedentemente, utilizzava la retorica per attivare l’“elenchos retroattivo”. Si badi: l’uso di elementi retorici non è solo strumentale ma è segno di un paradigma antropologico, psicologico ed epistemologico per il quale le emozioni giocano un ruolo fondamentale nell’esperienza umana. Potremmo quindi riassumere in questo modo: Socrate ha di mira il miglioramento del proprio interlocutore e per fare questo ritiene che sia necessario che egli si liberi dagli errori; Platone ha di mira il miglioramento della società e per fare questo utilizza i dialoghi socratici come dispositivo per incidere sul pubblico. In entrambi i casi le emozioni rivestono un ruolo centrale nella loro connessione con l’argomentazione. Aristotele è sicuramente il punto di riferimento filosofico per tale concezione; tuttavia, ai miei occhi, già in Platone la retorica svolgeva un compito essenziale nell’accesso, nella fruizione e nella diffusione della conoscenza. Meyer, ad esempio, rintraccia in Platone la fondazione della prima definizione di retorica centrata sull’uditorio ed avente come elemento caratterizzante il pathos. Per lui, la retorica gioca con le parole, attraverso le quali può far dire qualsiasi cosa a chiunque, una cosa ed il suo contrario, a discapito della verità che è una ed indivisibile, in tutti i casi univoca. La retorica è una manipolazione della verità e ad essa va sostituita la filosofia che ne è l’espressione. Ovviamente la filosofia fa appello alla retorica per dimostrare le proprie tesi, ma in questi casi Platone preferisce chiamarla dialettica.8
Meyer però sostiene che la retorica platonica si chiami “dialettica”, intendendo così, ai miei occhi, che per Platone si possa parlare di uno slittamento semantico portatore di una presa di distanza dalla retorica. Sicuramente Platone voleva far credere che la sua unica retorica fosse la dialettica9, ma io non mi fermerei solamente a questo aspetto. Socrate e Platone utilizzavano 7
Cf. L. Rossetti, “La rhétorique de Socrate”, in; c/ di G. Romeyer Dherbey, J.-B. Gourinat, Socrate et les Socratiques, Paris 2001, p. 161-185. 8 “Pour lui, la rhétorique joue sur les mots, grâce à quoi on peut faire dire n’importe quoi à n’importe qui, une chose et son contraire, au mépris de la vérité qui est une et indivisible, en tout cas univoque. La rhétorique est une manipulation de la vérité, et il faut lui substituer la philosophie, qui en est l’expression. Certes, la philosophie fait appel à la rhétorique également pour justifier ses thèses, mais Platon préfère alors l'appeler dialectique", M. Meyer, Principia Rhetorica. Une théorie générale de l'argumentation, Paris 2010, p. 14. 9 Per ragioni storiche di difesa del proprio maestro e per l’efficacia del metodo: se l’interlocutore avesse scoperto di essere “manipolato”, il metodo non sarebbe stato efficace. Per Platone, invece, era necessario che lo fosse perché attraverso la purificazione elenctica del proprio interlocutore e del pubblico poteva contrastare la corruzione dell’Atene a lui contemporanea.
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quella che potrebbe essere definita, ispirati dal Gorgia, “vera retorica”, intendendo con essa quella tecnica che conduce al riconoscimento della verità e che esorta alla cura di sé e della città10. Sarà, dunque, tenendo l’occhio fisso a tutto questo che quel tipo di retore, il bravo e buon retore, rivolgerà alle anime ogni suo discorso, e a tale fine volgerà ogni sua azione, e tutto ciò che concederà al popolo, quando lo concederà, tutto ciò che proibirà, quando proibirà, tutto farà avendo sempre il pensiero a quest’unico scopo, che nelle anime dei suoi concittadini s’ingeneri la giustizia e l’ingiustizia scompaia, s’ingeneri la temperanza e la dissolutezza scompaia, s’ingeneri ogni altra virtù e il vizio venga estirpato. 11
4. Le emozioni: una via di contatto con il pubblico Specialmente nei primi dialoghi, Platone e Socrate non si rivolgono solo alla parte intellettuale dell’anima degli interlocutori, uditori e pubblico, ma utilizzano anche il canale emotivo per orientare il dialogo in un modo o in un altro e per trasmettere al pubblico un determinato contenuto. Per comprendere i primi dialoghi, la definizione aristotelica della retorica è assai utile. Per Aristotele infatti la retorica è quella tecnica persuasiva che, per condurre alla verità, privilegia sì un lavoro sul logos ma facendo questo non nega la possibilità di utilizzare il piano emotivo12. Se pensiamo alla tripartizione dell’anima platonica, di cui parleremo fra poco, effettivamente il thymoeides13 (che rappresenta in maniera generale ciò che noi oggi potremmo identificare con gli aspetti emotivi) collabora costantemente con il logistikon, specialmente in quei casi in cui bisogna arginare la volontà irrazionale della parte desiderativa. Le emozioni non sono quindi aspetti “irrazionali” ma sono il medio tra l’“irrazionale” e “il razionale”, sono quel ponte che persegue il benessere armonico dell’individuo (e della città). Platone si serve della collaborazione tra piano razionale e piano emotivo per esortare i cittadini a perseguire uno stile di vita filosofico, cambiando così il proprio stile di vita e i propri valori e modelli di riferimento: l’educazione tradizionale pederastica, il teatro tragico e la commedia, la nuova educazione della sofistica. Per perseguire tale finalità, Platone utilizza gli stessi strumenti dei suoi avversari: essi infatti rispecchiano il linguaggio che è comprensibile da un popolo che è stato educato al discorso persuasivo; se Platone non lo avesse fatto, i dialoghi sarebbero stati più deboli e avrebbero 10
Cf. M. Erler, Platone. Un’introduzione, Torino 2008, p. 72. Platone, Gorgia 504 d-e. 12 Aristotele, Retorica libro II. 13 O. Renaut, Platon, la médiation des émotions, Vrin, Paris 2014. 11
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rischiato di essere incomprensibili. Non solo, la costruzione retorica dei dialoghi testimonia, a mio parere, la stima che Platone rivolge alla tradizione a lui contemporanea, pur nella sua volontà di distanziarsene e, al contempo, la sua volontà di dare alle emozioni un carattere fondativo, e non meramente strumentale, per la conoscenza.
5. Il caso della vergogna: la purificazione elenctica L’emozione della vergogna è quella che maggiormente ci mostra come la sua messa in atto agisca sia da un punto di vista strategico-strumentale, sia da un punto di vista conoscitivo. Essa infatti svolge il ruolo di svincolo tra la parte confutatoria del dialogo socratico (specialmente nella sua valenza di “elenchos retroattivo”), la purificazione e la ricerca della verità. Il movimento logico che porta alla negazione della contraddittorietà è accompagnato sempre, nel metodo socratico, dal movimento psicologico di presa di coscienza da parte dell’interlocutore della contraddittorietà della propria tesi. In questo fase, la vergogna mostra tutta la sua potenza. Il vergognarsi in pubblico è infatti condizione necessaria per la purificazione elenctica e per il transito alla fase positiva della maieutica di generazione di verità. I dialoghi socratici scritti da Platone testimoniano l’incapacità degli interlocutori di vergognarsi in pubblico. Proprio questo era ciò che Platone ricercava per far innescare il meccanismo dell’“elenchos retroattivo”: la “vergogna della vergogna”, il celare la necessità di ammettere in pubblico i proprio errori, è proprio ciò che permetteva a Platone di veicolare al pubblico il messaggio secondo il quale l’interlocutore di Socrate era inadeguato. Il pubblico assistendo alla disfatta dell’interlocutore di fronte a Socrate veniva purificato dalla persuasione che l’interlocutore socratico fosse il giusto rappresentante politico, educativo, religioso, ecc. Il riconoscimento sociale è un elemento caratterizzante della cultura greca: l’identità del cittadino si costituisce a partire da un’attribuzione, da parte della società, di un ruolo; se il pubblico non riconosce più quel ruogo all’interlocutore, la sua idenità viene scalfita e messa in discussione. Ribadisco il fatto che questo meccanismo si instaura specialmente quando gli interlocutori di Socrate sono i rappresentanti pubblici del tempo, e cioè politici, sofisti, retori, ecc. Esso è quindi un meccanismo con una forte valenza politica, sia in una valenza critica, sia in una valenza riformista. Nel passo dedicato alla “nobile sofistica” del Sofista14 sono riassunte le tappe principali del metodo socratico e le sue finalità. La vergogna viene ad 14
Platone, Soph. 230 b2-e5.
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essere il punto di snodo perché possa avvenire la katharsis, ovvero la purificazione dello stile di vita dell’interlocutore. Attraverso la purificazione dell’anima dagli errori che non le permettono la limpida visione, il cittadino potrà vagliare, assumendo il lessico del Lachete, il proprio stile di vita e decidere di cambiarlo. La purificazione della conoscenza è quindi diretta a una sua incarnazione, a una purificazione dello stile di vita. La purificazione è paragonata a una pratica medica, in particolare all’azione purgante volta ad espellere ciò che non permette al corpo di nutrirsi del buon cibo. Il passaggio tra l’espulsione del negativo e il nutrimento del positivo segna le tappe dell’elenchos socratico come via di conoscenza; la vergogna, lo ripeto, è il punto di svolta tra le due fasi. La vergogna è definita spesso come un’emozione “primitiva”: essa ha a che fare con la costituzione stessa dell’identità nella relazione con l’altro. Nel nostro caso mi sembra opportuno considerare come contesto di riferimento non solo l’Atene democratica del riconoscimento sociale tramite la partecipazione pubblica all’esercizio del potere, ma anche la società omerica, nutrita dai valori guerrieri. Il dialogo socratico è infatti descritto spesso attraverso immagini di battaglia: l’accettare pubblicamente la confutazione era come ammettere di essere stati sconfitti da Socrate. Adottando il lessico di Dodds15 è possibile sostenere che alcuni degli interlocutori socratici manifestino dei residui dei valori tipici della “società della vergogna”, dove il riconoscimento sociale aveva un ruolo prioritario. Le emozioni non veicolano solo dei messaggi al pubblico, non svolgono solo un ruolo di medio tra le componenti “irrazionali” e “razionali” dell’anima, ma sono anche ciò che permette la costituzione dell’identità in una dimensione socializzata, o, come nel caso della vergogna, la sua distruzione.
6. Le emozioni e la concezione dell’anima platonica Le emozione non svolgono un ruolo centrale solo nei primi dialoghi socratici; Platone, infatti, nei dialoghi successivi, elabora quella che potremmo definire una “teoria delle emozioni” funzionale alla filosofia della conoscenza. Nel Fedro16, ad esempio, Platone descrive le emozioni che prova un amante di fronte all’amato; esse sono le stesse provate dall’innamorato della verità. Non è un caso, a mio parere, che questo aspetto fondamentale di connessione tra pulsione erotica e ricerca conoscitiva sia espresso proprio nel Fedro, il dialogo dedicato alla retorica. 15 E. Dodds, I Greci e l'irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (n.e. BUR, Milano 2009). 16 Platone, Phaedr. 249d4-256e2.
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Questo accostamento può far pensare che per Platone il riconoscimento delle emozioni e il loro utilizzo sia sempre collegato a questioni metodologiche di ricerca di un metodo in grado di influenzare gli interlocutori e il pubblico. Tuttavia io non credo che sia solo questo: le emozioni, se ben indirizzate (grazie alla collaborazione con la componente razionale), sono il motore che conduce l’anima alla scopera del vero. Se, invece, sono corrotte e non sono disciplinate dalla parte razionale dell’anima, esse conducono l’anima a compiere le più grandi nefandezze (l’analisi dell’anima del tiranno effettuata nella Repubblica è su questo tema esemplare). La “teoria delle emozioni” che in questo contesto posso solo abbozzare17 è quindi collegata alla più ampia finalità politico-pedagogica della filosofia platonica, alla persuasione che solo la vera conoscenza possa indirizzare le persone a un buon vivere. Il Bene, oggetto della conoscenza massima, è infatti fondamento di un universo che è anche etico e politico.18 Ad un primo livello, l’esito agatologico della “teoria delle emozioni” platonica può apparire estremamente distante dallo sguardo contemporaneo che ho delineato in apertura. Ritengo però che questa differenza macroscopica debba però essere analizzata a fondo nella sua portata generativa. Quanto è inattuale parlare oggi di Bene? Non è il Bene stesso vittima di un dualismo dogmatico che ha voluto ridurre non solo il corpo, le emozioni e i desideri, ma anche l’etica, contrariamente a quanto sostiene Nietzsche, a subalterni della razionalità tecnica e scientifica? Personalmente ritengo che grazie al riconoscimento del ruolo svolto dalle emozioni sia possibile proporre una diversa immagine del Bene platonico, che sia capace di cogliere la sua materialità e generatività, al di là di un astrattezza che lo pone come termine ultimo di un percorso di disincarnazione. Il Bene, nella filosofia di Platone, viene ad essere il punto di riferimento per il lavoro delle emozioni nella loro continua ricerca di collaborazione con l’elemento razionale. Nei dialoghi socratici è Socrate che conduce il proprio interlocutore verso la verità, anche se essa ad un primo livello è il riconoscimento dell’errore. Socrate volendo educare i propri interlocutori, insegnava loro anche a educare le proprie emozioni e a orientarle verso la ricerca del vero. Nei dialoghi successivi, invece, sarà il Bene a svolgere questo compito, in una tensione platonica di passaggio dal particolare all’universale. Tale universale però, se colto nella sua origine socratica, non risulta essere, ai miei occhi, immediatamente confutato dalla filosofia contemporanea ma, 17 Essa è l’oggetto del progetto di ricerca che sto attualmente svolgendo, in qualità di assegnista di ricerca in filosofia teoretica, presso l'Università Ca’ Foscari di Venezia. 18 S. Lavecchia, Oltre l'uno e i molti. Bene ed essere nella filosofia di Platone, Mimesis, Milano-Udine 2010.
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al contrario, può offrire ad essa un’interessante proposta per tenere assieme il particolare e l’universale nella loro fruibilità come stile di vita. Le emozioni non sono infatti unicamente un fenomeno psichico. Esse nella filosofia platonica sono espresse dal thymos, parola che richiama contemporaneamente al respiro e al cuore ma, nella cultura greca in generale, anche dal pathos. Il pathein non si riferisce solo al dominio psichico, ma specialmente al dominio fisico. “Pathos” è quindi collegato semanticamente non solo a parole quali “impressione”, “sensazione”, “passione”, ma anche a parole quali “movimento”, “disposizione”, “relazione”, “potenza”. Questo aspetto è fondamentale per comprendere come per Platone l’utilizzo del piano emotivo potesse significare un andare ad agire sull’interezza del proprio interlocutore e cioè sul suo stile di vita o, usando un termine contemporaneo, sulla sua “esperienza”.
7. Il dialogo socratico integrale Spesso il dialogo socratico è stato inteso nella sua forma razionalistica, sia dagli interpreti di Platone sia dalla maggior parte delle sue applicazioni contemporanee. L’analisi del caso della vergogna ci ha invece mostrato un dialogo socratico ben diverso, fortemente radicato sul piano emotivo degli interlocutori e del pubblico. Naturalmente l’emozione della vergogna non è l’unica utilizzata; possiamo infatti trovare nei dialoghi socratici il coraggio, la timidezza, la perplessità, la commozione, lo stupore, la rabbia, l’eros, ecc. La predominanza di una lettura razionalistica in merito al metodo socratico è stata causata, a mio parere, da ragioni interne (l’abilità platonica di mascherare gli aspetti retorici dei dialoghi) e da ragioni esterne quali, specialmente, l’interpretazione dominante della filosofia come una disciplina puramente razionale, la ricezione del dualismo platonico, la negazione della corporeità a opera del cristianesimo. Di conseguenza, il riconoscimento del ruolo delle emozioni all’interno del metodo socratico, a fianco e a supporto dello strumento razionale, è stato misconosciuto e poco studiato. Il dialogo socratico contemporaneo dovrebbe assumere quei tratti del metodo antico che sono stati celati per assumere una visione “integrale” della pratica filosofia, per la quale le emozioni non sono solo il contraltare della razionalità ma sono un elemento costitutivo dell’essere umano che collabora costantemente con la ragione nei vari processi di ricerca19. Questo non significa negare gli aspetti teorici o razionali, bensì significa illuminare
19 L. Candiotto, “La pratica filosofica come relazione integrale”, in: c/ di L. Candiotto, Luigi Vero Tarca, Primum philosophari. Verità di tutti i tempi per la vita di tutti i giorni, Mimesis, Milano 2013, p. 17-22.
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l’azione congiunta di razionalità ed emozioni in una ricerca filosofica che coinvolge l’intera persona. Quali suggerimenti, quindi, possiamo offrire alle pratiche filosofiche contemporanee che utilizzano il dialogo socratico? In primo luogo, integrare gli aspetti emozionali con gli aspetti razionali. Questo non solo per essere conformi al metodo utilizzato da Socrate e Platone ma perché così la pratica può essere più efficace e più forte. Più efficace perché in grado di coinvolgere l’ “integrità” della persona, più forte perché capace di contrastare i condizionamenti sociali e culturali. Mai come oggi, infatti, gli aspetti emotivi sono utilizzati per veicolare messaggi socio-economici, spesso con forti risvolti politici. Ricerche in merito sono condotte da psicologi, sociologi della comunicazione, esperti di marketing e pubblicitari, etc. ma raramente da filosofi. Specialmente i praticanti filosofi dovrebbero essere portatori della dignità delle emozioni, evidenziata dal pensiero antico e da un certo pensiero contemporaneo. Inoltre, se lo stesso metodo filosofico non è in grado di integrare il piano emotivo, rischia di essere poco incisivo. Oggi, infatti, le persone sono state educate dai media ad un tipo di comunicazione fortemente emozionale. Se la filosofia non è in grado di utilizzarlo (ovviamente, non a fini commerciali e politici come per i media, ma con finalità etiche di miglioramento della società) rischia di non essere comprensibile e di non riuscire a indurre nelle persone il desiderio della ricerca di uno stile di vita migliore. Il dialogo socratico, quindi, assumendo il canale emotivo, può proporre ai partecipanti piste di ricerca per decodificare i condizionamenti, per individuare altri stili di vita etici e per invitare i partecipanti a mettere in atto le soluzioni individuate. C’è il rischio, infatti, che se i partecipanti non vivono anche emozionalmente le soluzioni trovate attraverso il dialogo socratico, essi non abbiano la forza e la determinazione per metterle in pratica. Assumendo il significato greco di “pathos”, possiamo sostenere che anche il corpo dei dialoganti è preso in considerazione, sia dal punto di vista delle emozioni che sono espresse con linguaggi non verbali, sia specialmente dal punto di vista del corpo che vive l’esperienza, patisce, ricerca e acquisisce un sapere. In secondo luogo, considerando la posizione platonica di orientamento delle emozioni, è auspicabile che i promotori di dialoghi socratici posseggano una visione “etica” del metodo20. Questa affermazione che per molti aspetti può apparire retrò, mi sembra essere sempre più necessaria oggi. Socrate conduceva il dialogo asimmetricamente per condurre gli interlocutori al riconoscimento dei propri errori e 20 P. Dordoni, Il dialogo socratico. Una sfida per un pluralismo sostenibile, Apogeo, Milano 2009.
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per mettere in discussione il proprio stile di vita. Nel dialogo socratico contemporaneo, il conduttore del dialogo socratico svolge il ruolo del facilitatore che invita tutti i partecipanti ad essere per se stessi e per gli altri Socrate. Non quindi dialoghi socratici diretti da un conduttore che vuole condurre i partecipanti verso la propria verità, ma contesti dove ognuno si fa carico di sé e degli altri, nella costruzione di una verità condivisa. Il metodo socratico contemporaneo non ha la pretesa di dispiegare una verità unica per tutti ma possiede la tensione alla ricerca di una verità collettiva, capace di valere in modo diverso per ognuno21. L’elemento emotivo è quindi anche attivo nella costruzione di un contesto dove sperimentare il valore della collettività e della condivisione, in contrasto con il possesso di verità personali e di una visione individualistica della società. Non solo Socrate, come nel metodo antico, può invitare l’altro a mettersi in discussione, ma tutti i partecipanti, essendo responsabili dell’intero gruppo, oltre che di sé stessi, possono essere promotori del cambiamento. Un metodo, quindi, dove il potere e l’autorità siano condivisi. Questo aspetto, se accolto dal dialogo socratico, può far sperimentare ai partecipanti la possibilità di una forma di gestione del potere differente rispetto a quello dominante ed essere così propulsore per un cambiamento di stile di vita. Può, indurre, attraverso un cambiamento di atteggiamento dei singoli partecipanti, un cambiamento della gestione del potere all’interno dei gruppi nei quali i partecipanti agiscono. Il cambiamento delle dinamiche di potere tramite il cambiamento di atteggiamento di un partecipante del gruppo avviene grazie al meccanismo dell’“intreccio continuo”. Con questa espressione Tarca22 indica il fatto che partecipando a più gruppi ed organismi differenti, il partecipante, nel nostro caso del dialogo socratico, può “esportare” il proprio metodo negli altri gruppi tramite il proprio esempio. È cioè una diffusione “orizzontale” del metodo, tramite l’esperienza concreta delle persone che vivono in diversi contesti sociali. La presenza di un atteggiamento differente all’interno di una dinamica di gruppo, in ragione della logica sistemica, fa sì che avvenga un cambiamento, seppur minimo o impercettibile, della dinamica stessa. Non sostengo che questa via di diffusione sia la soluzione per risolvere le dinamiche di potere (perché, tra l’altro, dovrebbero essere “risolte”?) ma sottolineo quanto un’esperienza di filosofia condivisa, vissuta all’interno del dialogo socratico, possa produrre, attraverso la vita concreta delle persone
21
L.V. Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva, La città del Sole, Napoli 2001. 22 L.V. Tarca “Pratiche filosofiche e cura di noi”, in: Pratiche filosofiche e cura di sé, in: c/ di C. Brentari, R. Madera, S. Natoli, L.V. Tarca, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 114143, p. 117.
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che hanno deciso di condurre uno stile di vita filosofico, possibili vie di cambiamento. In questo modo il dialogo socratico torna alla sua finalità antica, ovvero l’innescare, lo sperimentare e il produrre cambiamenti per migliorare la società.
8. Conclusione: Verso un’affettività condivisa Sperimentare il dialogo socratico da un punto di vista di vissuto emotivo, significa anche viverlo in modo affettivo. La ricerca mossa da amore (cf. specialmente il Fedro e il Simposio) spinge i partecipanti non solo a ricercare con più determinazione ma a vivere affettivamente anche i rapporti con gli altri partecipanti. Se pensiamo alla vita nell’Accademia platonica23,possiamo immaginare dialoghi condotti quotidianamente tra amici; nell’Epistola 7 Platone racconta della sua reale esperienza filosofica in una comunità che pratica la filosofia. Non solo l’azione politica retta dalla filosofia, ma la stessa conoscenza filosofica necessita la dimensione comunitaria: la theoria ha a che fare con il piano del comune e non dell’individuale. Platone sostiene infatti che la conoscenza filosofica si accende in ognuno grazie al dialogo tra persone amiche che condividono una forma di vita e che si frequentano quotidianamente. Questo è l’aspetto che meno ho indagato in questo articolo, volendo io sottolineare qui, attraverso il caso della vergogna, la valenza critica del metodo socratico. Essa però rappresenta solo un aspetto del metodo. L’amicizia, come condizione che permette al dialogo di avere un valore conoscitivo, è il prerequisito per passare dalla vergogna celata (che produce l’“elenchos retroattivo”) alla vergogna accettata perché si è tra amici. A quel punto si può accedere alla seconda fase del metodo socratico che conduce alla conoscenza che “si accende come fiamma”. Questo tipo di dialogo può sembrare differente rispetto ai primi dialoghi socratici dove predominava l’aspetto di critica e di denuncia. Questa difformità è data invece dal riferirsi a fasi diverse del metodo e a contesti di riferimento portatori di finalità differenti. Un dialogo tra amici non significa un dialogo “pacifico”, anzi è lo spazio, forse l’unico, dove la vergogna può essere accettata come farmaco. Le critiche, le problematizzazioni, le analisi dello stile di vita dell’altro, sono cioè offerte sulla base di una benevolenza reciproca e sul riconoscimento di far par parte di una medesima “comunità”. L’espressione “dialogo affettivo” 23
E. Berti, Symphilosophein. La vita nell'Accademia di Platone, Laterza, Roma-Bari
2010.
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non vuole quindi indicare un contesto dialogico dove le emozioni ritenute “negative” vengono estirpate; esse, invece, possono essere vissute ed espresse nella fiducia della loro comprensione da parte degli amici. L’amicizia, nel dialogo socratico, permette che il dialogo ottenga più facilmente il suo scopo: mettere in atto un miglioramento dello stile di vita dei dialoganti e avere la possibilità di cogliere insieme una verità, differente per ognuno, ma identica nella sua finalità etopoietica. Un richiamo all’amicizia e all’affettività non toglie nulla, a mio parere, alla correttezza della ricerca scientifica. Paulo Freire, ad esempio, nel suo metodo dialogico, propone una “rivoluzione amorosa”, mossa dall’amore condiviso tra i partecipanti al dialogo. La mia apertura al voler bene significa che sono disponibile alla gioia di vivere. La giusta gioia di vivere che, se assunta pienamente, non permette che mi trasformi in una persona “sdolcinata” ma neppure in una spigolosa e piena di amarezza. (...). L’allegria non emerge soltanto nell’incontro con la scoperta, ma fa parte del processo di ricerca stesso. (...) non si pensi che la pratica educativa vissuta con affettività e allegria prescinda dalla formazione scientifica seria (...). 24
La cura delle relazioni e la cura degli altri partecipanti al dialogo permette al dialogo socratico di essere una reale esperienza di ricerca condivisa, prova per l’umanità che le più belle scoperte si possono realizzare assieme. Il metodo condiviso, inoltre, induce a ricercare delle soluzioni che siano il più possibile buone per tutti. Da un punto di vista tecnico, il richiamo all’affettività permette che nell’enunciazione dell’“esempio” stimolo per la discussione vengano sottolineati anche gli aspetti emotivi vissuti dal proponente e che grazie a essi si possa istituire il riconoscimento. Il valorizzare gli aspetti affettivi non significa negare gli aspetti razionali. Essi assumono, come abbiamo già visto attraverso l’analisi del metodo antico, un ruolo fondamentale nell’orientamento della ricerca e nel riconoscimento della verità. Ritengo che, se scissi dall’aspetto emotivo, rischino di produrre una ricerca sterile, incapace di toccare nel profondo i partecipanti e quindi improduttiva da un punto di vista di trasformazione dello stile di vita. Il valore teoretico di un dialogo socratico nasce proprio nel momento in cui la teoria abbandona il podio ed è disposta a collaborare con tutte le altre componenti dell’esperienza umana in vista di una contemplazione della verità che sia al contempo generativa e trasformativa.
24 P. Freire, La pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, EGA, Torino 2004, p. 111-115.
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IDEALISMO ANGLOSASSONE
Giacomo Rinaldi, Tragedia, riconoscimento e morte di Dio nel pensiero di Robert Williams La persistente vitalità della tradizione filosofica dell’Idealismo nel mondo anglosassone, su cui abbiamo già a più riprese cercato di attrarre l’attenzione del pubblico italiano1, viene brillantemente confermata, ai giorni nostri, dagli studi sul pensiero di Hegel e di Nietzsche raccolti da Robert R. Williams, professore emerito di Studi germanici, Filosofia e Studi religiosi presso l’Università dell’Illinois a Chicago, nel volume Tragedy, Recognition, and the Death of God: Studies in Hegel and Nietzsche2. Ivi egli lumeggia, da differenti ma convergenti punti di vista, i temi fondamentali sviluppati dai due pensatori, l’analogia e le differenze tra le loro concezioni, e ne offre un’accurata valutazione critica.
1 Cf. G. Rinaldi, Saggio sulla metafisica di Harris, Li Causi, Bologna 1984; Id., Recenti prospettive e tendenze della letteratura hegeliana anglosassone, in «Cultura e scuola», n. 104, 1987, p. 127-36; Id., L’esperienza di «Idealistic Studies», in «Criterio», vol. 6, n. 2, 1988, p. 132-45 e n. 3, p. 216-24; Id., Attualità di Hegel: Concretezza, autocoscienza e processo in Gentile e in Christensen, in «Studi filosofici», voll. XII-XIII, 1989-90, p. 63-104; Id., “Ragione” e “giustizia” secondo Richard D. Winfield, in: «Magazzino di filosofia», n. 7/ 2002, p. 107-24; ecc. 2 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God: Studies in Hegel and Nietzsche, Oxford University Press, Oxford 2012, p. XI-410. Egli è anche autore di Recognition: Fichte and Hegel on the Other, Albany, SUNY Press 1992 e Hegel’s Ethics of Recognition, University of California Press, Berkeley 1997.
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Prendendo decisamente le distanze dai virtuosismi filologici e dal culto del dettaglio insignificante che aduggiano la maggior parte della letteratura prodotta dalla odierna “Hegelforschung”, Williams concentra piuttosto la sua attenzione su quello che noi abbiamo altrove definito il “nucleo speculativo”3 della filosofia hegeliana, e con indubbio acume teoretico lo articola in quattro tematiche fondamentali, tra loro organicamente connesse: la dottrina del Vero Infinito, svolta nel primo Libro della Scienza della Logica4; le prove dell’esistenza di Dio, che costituiscono la struttura portante dell’intera filosofia hegeliana della religione (sebbene Hegel dedichi alla loro discussione anche una trattazione indipendente da essa)5; la teoria del riconoscimento delineata nell’ambito della filosofia dello spirito soggettivo6; ed infine la “teodicea di Hegel”, cioè la soluzione da lui proposta del problema della presenza della tragedia e del male in un mondo concepito tuttavia come la progressiva manifestazione dell’Assoluto7. La selezione delle accennate tematiche nel corpus onnicomprensivo della filosofia hegeliana può essere chiaramente legittimata solo sulla base di un’esplicita e conseguente adesione a un’interpretazione dichiaratamente “metafisica” della filosofia dell’Idealismo assoluto; e tale è certamente il caso di Williams, che svolge infatti un’accurata analisi degli assunti fondamentali della metafisica hegeliana, mettendone in rilievo la consistenza, ma anche la divergenza rispetto a quelli della tradizionale metafisica “pre-critica”, e suffragando, nell’ampia e illuminante Introduzione8, la propria interpretazione mediante una critica serrata delle opposte interpretazioni “antimetafisiche”: da quelle più radicali delineate da G. Lukács, R. Pippin and K. Hartmann a quelle più moderate di Ch. Taylor, F. Beiser e G. di Giovanni,
3 Cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, , The Edwin Mellen Press, Lewiston NY 1992, § 2. 4 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., cap. 6: “Hegel’s Concept of the True Infinite”, p. 161-89; e G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in: Werke in zwanzig Bänden (=W5–6), Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969–70, p. 149-66. 5 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., cap.7: “Hegel’s Recasting of Theological Proofs”, p. 190-228, e G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Beweise vom Dasein Gottes, in: Id., Vorlesungen über die Philosophie der Religion (=W16–17), vol. 2, p. 347-535. 6 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., Parte I, cap. 1-2, p. 33-66; e G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830) (=W8–10), vol. 3, §§ 424-39; e Id., Phänomenologie des Geistes (=W3), p. 13755. 7 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., cap. 4: “Hegel’s Conception of Tragedy”, p. 120-42; cap. 10: “Hegel on the Death of God: The inseparability of Love and Anguish”, p. 290-321; cap. 12: “Hegel’s Death of God Theodicy”, p. 349-89, e G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik (=W13–15), vol. 3, p. 519 ss. 8 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 1-30.
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le quali, pur riconoscendo, a differenza delle prime, il palese contenuto metafisico dell’idealismo hegeliano, ne sanciscono tuttavia, per una ragione o per l’altra, l’insuperabile inattualità. Potrebbe, perciò, prima facie sorprendere che i saggi in cui Williams sviluppa la sua interpretazione metafisica del pensiero di Hegel si alternino ad altri, il cui tema è il pensiero di Nietzsche9, giacché le formulazioni frammentarie, aforistiche e l’orientamento dichiaratamente antimetafisico e antisistematico del secondo avrebbero piuttosto dovuto indurlo non solo a ritenerlo antitetico al primo, ma addirittura ad annoverare il suo autore, piuttosto che tra i filosofi stricto sensu, tra i poeti, i letterati e gli psicologi prodotti dalla decadente cultura tedesca della seconda metà del XIX secolo. Il fatto, tuttavia, è che, da un lato, Williams scorge un persistente contenuto metafisico anche nella produzione di Nietzsche successiva alla giovanile “metafisica dell’arte” svolta nella Nascita della tragedia e in seguito da lui ripudiata; e, dall’altro, l’attenta disamina dei testi nietzscheani e delle loro prevalenti interpretazioni mette capo a un’analisi comparata delle tesi fondamentali sostenute dai due pensatori, che si risolve senza eccezione nel rilievo dell’inferiorità filosofica del pensiero di Nietzsche rispetto a quello di Hegel. Anche la lettura dei saggi nietzscheani di Williams risulta perciò non meno interessante e fruttuosa di quella dei suoi saggi hegeliani, e può essere senz’altro raccomandata ai troppi ammiratori odierni di Nietzsche, che, sedotti dalla facilità giornalistica del suo stile e dalla violenza barbarica delle sue invettive, sembrano non avvertire l’intima vacuità ed inconsistenza del suo pensiero. I. Il punto di partenza, e insieme la conclusione, dell’intero sviluppo del pensiero hegeliano, osserva Williams, è la tesi che, a differenza di quanto sostenuto dall’Illuminismo e in specie da Kant, l’oggetto della filosofia non è “la conoscenza dell’uomo”, bensì “la conoscenza di Dio”10. Filosofia, religione e teologia hanno dunque in comune l’oggetto. La differenza tra la prima e la seconda è che, mentre l’elevazione dello spirito umano finito all’Infinito resa possibile dalla religione ha luogo nell’elemento soggettivo della rappresentazione, cioè dell’immaginazione, del sentimento e della fede, la filosofia esplica invece l’Assoluto immanente nell’Io autocosciente nella forma del concetto puro, cioè del pensiero razionale che, in virtù della mediazione discorsiva ad esso peculiare, non si limita ad asserire, sulla base della propria 9
Cf. ibid., cap. 1-3, p. 33-111; cap. 5, p. 113-58; cap. 9, p. 263-89; cap. 12, p. 349-89. Cf. ibid., p. 11; e G.W.F. Hegel, Glauben und Wissen oder Reflexionsphilosophie der Subjektivität in der Vollständigkeit ihrer Formen als Kantische, Jacobische und Fichtesche Philosophie, in: Id., Jenaer Schriften (1801-1807) (=W2), p. 299. 10
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soggettiva convinzione, che determinati predicati ineriscono nell’essenza dell’Assoluto, ma prova con logica cogenza che tale inerenza effettivamente sussiste. Il rapporto tra filosofia e teologia è diverso a seconda che si tratti della “teologia dogmatica” oppure di quella “naturale”. La teologia dogmatica elabora in forma discorsiva e sistematica il contenuto delle rappresentazioni religiose, che viene da essa assunto come un “dato” immediato, e per tal verso ricade nella sfera gnoseologica della rappresentazione. La teologia naturale, invece, secondo la denominazione tradizionale sancita dal sistema wolffiano, è la scienza razionale di Dio, che prescinde, perciò, da qualsivoglia rivelazione trascendente, fa appello alla sola evidenza dell’intelletto (lumen naturale), e si costituisce così come la terza disciplina della metaphysica specialis11. L’identità, enfaticamente asserita da Hegel, tra l’oggetto della filosofia, della religione e della teologia implica dunque, con innegabile evidenza, anche l’identità di filosofia e metafisica. E tuttavia tale identità, se si tien fermo al concetto tradizionale della metafisica, non è totale, incondizionata; ed è indubbio merito dell’interpretazione di Williams l’aver messo nel debito rilievo – come, del resto, lo stesso Hegel aveva fatto –12 anche la loro non meno essenziale differenza e opposizione, e l’aver tratto da essa, con ammirevole consequenzialità, tutte le cruciali implicazioni. La metafisica è la scienza razionale di Dio. Il suo primo problema è dunque quello di provare la realtà del suo oggetto. Ciò avviene, com’è noto, mediante le celebri prove dell’esistenza di Dio: l’argomento cosmologico, l’argomento fisico-teologico e l’argomento ontologico. Sebbene Williams respinga la critica kantiana dell’argomento ontologico, perché si fonda sull’illecita identificazione dell’esistenza reale col fenomeno sensibile, egli riconosce tuttavia a Kant il merito di aver ordinato sistematicamente tali prove, che la metafisica tradizionale enumerava invece solo estrinsecamente, mostrando come l’argomento cosmologico e quello fisico-teologico presuppongano l’argomento ontologico, perché solo esso, qualora sia valido, può provare la realtà necessaria di una Causa prima o di un Intelletto ordinatore del mondo fenomenico. E neppure è sfuggita a Kant la necessità di integrare gli argomenti metafisici tradizionali con la prova etico-teologica, l’unica, a suo giudizio, in definitiva stringente. L’errore fondamentale della metafisica tradizionale è dunque quello di cercare di provare la realtà del suo oggetto infinito partendo dalla realtà finita del mondo esterno (natura, cosmo). Il vero punto di partenza, invece, messo debitamente in rilievo dalla 11
La prima è la Psicologia razionale, la seconda è la Cosmologia razionale. La metaphysica specialis, poi, si distingue dalla metaphysica generalis perché, mentre questa analizza solo i predicati più generali dell’Essere in quanto Essere, la prima esplica invece il contenuto concreto delle Idee della Ragione (Anima, Universo, Dio). 12 Cf. W8, §§ 26–36 e Aggiunte.
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filosofia kantiana, è l’interiorità dello spirito umano finito, inteso come essenziale unità di pensiero e volontà, sapere teoretico ed eticità. In quanto finito, il concetto dello spirito umano non contiene in sé la sua stessa esistenza, è perciò solo un’astrazione soggettiva, un’esistenza meramente possibile, che ha in altro il fondamento del suo essere. Ma il finito, in quanto tale, non è, finisce, trapassa in altro, e l’altro del finito è l’Infinito; ma l’idea dell’Infinito si distingue da quella del finito proprio e solo perché in essa essenza ed esistenza, concetto e realtà si identificano, coincidono assolutamente. Questa è l’acquisizione teoretica positiva del tradizionale argomento ontologico, che Kant ha avuto il torto di non comprendere, e che per contro costituisce il principio fondamentale del pensiero metafisico, e in specie dell’idealismo assoluto di Hegel: «L’argomento ontologico infrange (bursts) il limite dell’idealismo soggettivo; è l’idealismo assoluto od oggettivo»13. Ciò non toglie, tuttavia, che le formulazioni tradizionali dell’argomento ontologico siano affette da un triplice difetto. Anzitutto, esse prendono le mosse dalla presenza nella nostra mente dell’idea di un Ente, la cui essenza implica l’esistenza, e da essa deducono la realtà effettiva dell’oggetto di tale idea. In tal modo, tuttavia, esse dogmaticamente presuppongono l’immediata presenza ed evidenza di tale idea in noi, laddove essa dovrebbe invece essere provata. La prova fornita dalla filosofia speculativa è appunto quella poc’anzi accennata: se nella nostra mente ci fossero solo idee di enti la cui essenza non implica la loro esistenza, avremmo in noi solo idee di enti finiti, la cui esistenza, invece, è in sé contraddittoria, e si risolve nell’Infinito. Il secondo difetto consiste nel fatto che l’essenza di Dio, che sarebbe provata mediante l’argomento ontologico, viene concepita come una realtà trascendente, che sussisterebbe “fuori” della nostra mente, laddove nella nostra mente ci sarebbe solo la sua idea. Ma un Ente assolutamente trascendente è anche assolutamente inconoscibile; e perciò il contenuto, o meglio il risultato, dell’argomento ontologico tradizionale annienta la sua forma essenziale, che è quella di essere un’inferenza razionale, cioè un processo cognitivo, in cui si viene a sapere qualcosa che prima non si sapeva intorno alla realtà del suo oggetto. Inoltre, un Ente puramente trascendente, nella misura in cui si contrappone alla sfera immanente dell’autocoscienza umana, è da essa limitato, e perciò finito; laddove il Vero, l’Assoluto, il Divino è e può essere concepito solo come (attualmente) infinito. Il terzo difetto fondamentale è che l’identità del concetto e della realtà, nella misura in cui costituisce il risultato dell’argomento ontologico, non è però il suo stesso cominciamento, nel quale viene infatti posta piuttosto, come si è visto, la differenza del pensiero e dell’essere. Dio stesso perciò può esser concepito solo come 13
Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 224.
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l’eterno processo di attuazione del proprio concetto. Il vero Dio non è un Dio che semplicemente è, bensì un Dio che diviene, fa, crea, genera eternamente sé stesso. Ma così appare chiaro che la filosofia speculativa elabora non solo una differente concezione delle prove dell’esistenza di Dio, ma modifica profondamente il concetto stesso di Dio concordemente formulato sia dalla metafisica “precritica” che dalla teologia cristiana tradizionale. Anzitutto, Williams profondamente osserva, dobbiamo perentoriamente respingere (dando, da questo punto di vista, parzialmente ragione all’ateismo) la “metafora monarchica di Dio”14, cioè la sua rappresentazione teistica tradizionale: Dio non è un Signore onnisciente e onnipotente, radicalmente “altro” dall’Universo e dall’uomo, che egli creerebbe in virtù di un fiat arbitrario, bensì è l’Infinito, l’Eterno presente e immanente nel finito, che si concentra e invera nell’autocoscienza dello spirito umano. In secondo luogo, l’argomento ontologico, mediante cui la mente umana si eleva all’idea dell’Infinito e ne prova la realtà non già perché il finito sia (come volevano invece gli argomenti cosmologico e fisico-teologico), ma proprio per la ragione opposta, e cioè che il finito non è, finisce e trapassa nell’Infinito, non esplica soltanto il processo soggettivo dell’elevazione della mente umana a Dio, bensì lo stesso sviluppo o autoproduzione immanente del Divino stesso: nella Scienza della Logica, infatti, Hegel mostra come l’essenza del “Vero Infinito” – a differenza della “cattiva infinità”, che si limita a contrapporre la propria astratta inattualità alla persistente esistenza del finito – non è altro che il processo di autonegazione o autotrascendenza del finito (cf. supra n. 4). Il processo di elevazione della conoscenza umana a Dio si identifica dunque col suo stesso sviluppo immanente. Ciò significa che la gnoseologia, in quanto teoria della (umana) conoscenza, e la metafisica, in quanto teoria dell’essere assoluto – a differenza di quanto concordemente sostenuto dalla metafisica tradizionale – in definitiva coincidono: «Per Hegel l’epistemologia implica l’ontologia e ogni ontologia è un’implicita epistemologia»15.
Qui Williams mostra di comprendere veramente Hegel, e di seguirlo, per così dire, fino in fondo, come solo pochi altri pensatori contemporanei (tra cui certamente Spaventa e Gentile)16 hanno osato fare. L’idea che l’intima
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Ibid., p. 13. Cf. anche p. 2, 58, n. 17, 123-24, 165, 201-02, 224, 293-96, 298-99. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 199. 16 Sull’interpretazione spaventiana della Logica hegeliana cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, cit., § 50. Sull’attualismo di Giovanni Gentile cf. Id., L’idealismo attuale tra filosofia speculativa e visione del mondo, QuattroVenti, Urbino 1998; 15
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essenza della Realtà sfugga inevitabilmente alla presa della mente umana finita è infatti una convinzione tenace del pensiero filosofico, che è sopravvissuta alla stessa “morte della metafisica” proclamata dal pensiero antimetafisico contemporaneo; perché la “vecchia metafisica”, ammettendo soltanto una conoscenza meramente “analogica” dell’essenza divina, non diversamente da esso negava recisamente la possibilità di una conoscenza immanente e adeguata dell’Assoluto da parte dello spirito umano. Ciò tuttavia significa, objetta Hegel, concepire impropriamente Dio come un sovrano “geloso”17, che si rifiuta di partecipare allo stesso uomo la sua conoscenza di sé; e negare così, senza accorgersene, una delle più profonde verità insegnate dal Cristianesimo, e cioè che esso è la “religione rivelata” perché mediante esso Dio ha rivelato sé stesso agli uomini. In terzo luogo, la metafisica tradizionale si è spesso definita anche come la “metafisica dell’Essere”18, perché il predicato più originario e fondamentale mediante il quale essa determina “analogicamente” l’essenza divina è l’idea dell’Essere (possibile, indeterminato, ineffabile, ecc.) o l’idea della realitas (o perfectio): Dio è l’Essere realissimo, perfettissimo, ed egli è tale perché esclude da sé ogni possibile divenire, processo, negazione, imperfezione. Williams respinge con non minor decisione di Hegel tale concezione “dualistica” dell’essenza divina, e ad essa contrappone una teoria “olistica”, dinamica e teleologica dell’Assoluto, la quale ammette esplicitamente, senza riserve o attenuazioni di sorta, la necessaria immanenza del negativo in Dio. Com’è, infatti, possibile concepire in maniera coerente l’idea di un Assoluto che, in quanto ens realissimum, comprende in sé la totalità delle perfezioni del reale, ma esclude da sé la totalità delle negazioni? Se Dio è veramente il Tutto, e non già solo il vuoto Uno o l’Essere indeterminato, egli dovrà comprendere in sé l’intera molteplicità delle realtà o perfezioni. Ma esse sono molte solo in quanto noi possiamo distinguerle l’una dall’altra; e, ciò, a sua volta, è possibile solo in quanto l’una non è l’altra. La differenza tra le molteplici proprietà è il loro non-essere l’una ciò che è l’altra, cioè la loro reciproca negazione: com’è, dunque, possibile concepire Dio come il Tutto senza ammettere che nel suo essere sia contenuta non solo la omnitudo realitatum, bensì pure la omnitudo negationum; e che la contraddizione, in tal modo necessariamente inerente alla sua stessa essenza (e non solo a quella del finito!), possa essere risolta solo in virtù di una negazione della sua immediata negatività, che sarebbe così l’unica vera Realtà positiva, affermativa? e Id., Attualità dell’Idealismo attuale. Hegel e Gentile, in: «Magazzino di filosofia», vol. 21, anno VII, 2012/13, p. 153-67. 17 R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 222-23. 18 Tale, infatti, è la denominazione preferita dalla metafisica neotomistica o spiritualistica dei nostri giorni. Sul suo carattere e limiti cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità. Filosofia della religione e metafisica dell’essere, Aracne Editrice, Roma 2010, Parte III, p. 537-710.
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Questa concezione “speculativa” della necessaria immanenza del negativo nell’Assoluto viene svolta da Williams con ammirevole coerenza fino alle estreme conseguenze, senza indietreggiare neppure di fronte al dogma fondamentale del Cristianesimo, la Trinità divina. Il limite della concezione teologica tradizionale di questo dogma (che noi stessi non abbiamo mancato di mettere in luce nella nostra Filosofia della religione in termini analoghi a quelli di Williams)19 è che essa, escludendo dall’essenza divina il momento della negazione, è costretta ad attribuir indiscriminatamente realtà positiva alle tre Persone della Trinità, incorrendo così nell’errore logico di affermare l’identità immediata dell’Uno (l’unità e unicità di Dio, principio del monoteismo) e del molteplice (le tre Persone della Trinità, infatti, vengono concepite come egualmente reali e indipendenti), laddove le prime due possono essere razionalmente pensate solo come “momenti” inattuali o negativi della terza, lo Spirito santo, che è così, in definitiva, l’unica reale Persona divina e, nel contempo, la totalità del Divino: «Lo Spirito è il Dio trinitario (triune), concepito come un tutto che differenzia e conserva sé stesso. Lo Spirito non designa solo una persona nella trinità cristiana tradizionale (il suo membro più giovane), ma è piuttosto il Dio trinitario sia nella sua unità che nella sua differenziazione»20.
L’opposizione dell’olismo metafisico di Williams al teismo trascendente tradizionale non potrebbe essere più esplicita e perentoria. Ciò non significa, tuttavia, che egli propenda per un’interpretazione “atea”, o anche solo “panteistica”, della filosofia di Hegel. Dando prova di indubbio acume storico, oltre che metafisico, egli infatti sostiene che il genuino spirito dell’Hegelismo non fu compreso né dalla cosiddetta “Destra hegeliana” né dalla “Sinistra hegeliana”, nella misura in cui la prima tentò di risolvere l’Idealismo assoluto in una mera variante “idiosincratica” della tradizionale metafisica teistica, e la seconda propugnò invece una forma di umanesimo dichiaratamente ateo e libertario: «La posizione di Hegel non coincide così né con la Sinistra né con la Destra hegeliana»21. L’errore che inficia l’interpretazione proposta da Lukács della critica del “positivismo” religioso svolta da Hegel negli scritti teologici giovanili è piuttosto quella di credere «che Hegel fu segretamente un ateo, convinto che religione e teologia siano morte. Hegel, infatti, rifiuta un’alternativa secolare non-teologica. Hegel si convinse che, sebbene le forme tradizionali del Cristianesimo fossero divenute fossili positivi e fuori moda, è possibile distinguere lo stesso Cristianesimo dalle sue forme positive, fossilizzate» (ivi, p. 121). 19
Cf. ibid., Parte I, cap. 6, § 4, p. 166-72. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 228. 21 Ibid., p. 180. Cf. anche p. 321. 20
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L’essenziale divergenza dell’Idealismo assoluto rispetto alla “metafisica panteistica” o “panlogistica” (Spinoza), o alle “teogonie” panteistiche (Böhme, Schelling), inopportunamente chiamate in causa, a proposito della filosofia hegeliana, da interpreti come P. Ricoeur o C. O’Regan22, consiste secondo Williams nel fatto che la prima, degradando il finito a una mera apparenza illusoria e identificando la realtà con l’identità immediata di un Assoluto che è ab initio tutto ciò che è e può essere, mette inevitabilmente capo a una concezione “trionfalistica” della vita e del destino umano, che non dà ragione della necessità e realtà del negativo, del male, dei conflitti ad esso necessariamente inerenti, né della possibilità di superarli o “riconciliarli” nel processo immanente dello Spirito assoluto. Processo che non viene adeguatamente compreso neppure dalle teogonie panteistiche, nella misura in cui esse concepiscono la realizzazione di Dio nel mondo come condizionata dalla presenza in lui della realtà originaria del “caos”, o di un “fondo oscuro”, demonico, contro il quale egli deve impegnarsi in un conflitto, in cui il suo successo è soltanto possibile, mai necessario. Degradando, in tal modo, l’esistenza di Dio a una realtà meramente contingente e finita, esse contraddicono, da un lato, al concetto stesso dell’Assoluto, nella misura in cui esso può essere pensato solo come una Totalità infinita che pone necessariamente il proprio essere (argomento ontologico!); e, dall’altro, tenendo fermo alla realtà positiva del caos quale presupposto dell’attività creatrice divina, esse mostrano di aver dimenticato la cruciale «tesi hegeliana della priorità logica dello spirito sulla natura» (ivi, p. 226), la quale, infatti, non è che un “momento ideale” o inattuale immanente nella totalità etica dello spirito. Williams sostiene perciò che la metafisica idealistica hegeliana dovrebbe essere più correttamente definita come una sorta di “panenteismo”: «Ad onta delle connotazioni (overtones) panteistiche delle formulazioni hegeliane del finito come ciò che non è il suo essere, bensì l’essere del suo altro, la teologia speculativa di Hegel può essere meglio intesa come “panenteismo” (panentheism) che come panteismo. Hegel stesso non usa questo termine. Ciò nondimeno “panenteismo” significa una unità-nella-differenza che preserva la differenza e adempie il requisito che la differenza sia determinata in modo da preservare la comunità dello spirito con lo spirito»23.
22 Cf. ibid., cap. 8: “Theogenesis, Divine Suffering, Demythologizing the Demonic”, p. 231-62. 23 Ibid., p. 15. Williams omette di menzionare che il termine “panenteismo” fu originariamente coniato da K.Ch.F. Krause, un allievo di Fichte che sviluppò in senso metafisico il suo idealismo, per designare in tal modo la sua filosofia e distinguerla così dagli altri sistemi dell’Idealismo tedesco. Cf. Claus Dierksmeier, Der absolute Grund des Rechts. Karl Christian Friedrich Krause in Auseinandersetzung mit Fichte und Schelling, Fromman–
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Il genuino significato della metafisica panenteistica di Hegel non sarebbe sfuggito a I.A. Dorner, un allievo del teologo hegeliano F.C. Baur, di cui Williams ha tradotto in inglese il saggio Divine Immutability (1856-58)24, perché egli, da un lato, comprende che l’“attualità eterna”, la “immutabile identità con sé” di Dio non esclude, anzi richiede il riconoscimento della sua essenziale dimensione dinamica o processuale; e, dall’altro, che la necessità divina è nel contempo una volontà che vuole sé stessa, e per tale ragione si identifica con l’idea stessa dell’Eticità, che, di conseguenza – contrariamente a quanto sostiene il volontarismo teologico – non può essere intesa come il risultato contingente di un’arbitraria decisione divina. La libertà di Dio, infatti, si distingue essenzialmente dall’irrazionale arbitrio, e coincide piuttosto con la necessità della sua stessa essenza. Una concezione panenteistica del Divino per molti versi affine a quella sostenuta da Hegel e da Dorner viene altresì individuata da Williams nelle più recenti prospettive metafisiche elaborate dalla “process philosophy” di Alfred N. Whitehead e dalla “process theology” di Charles Hartshorne25. II. La metafisica panenteistica che Williams giustamente scorge al fondo del pensiero hegeliano non rimane confinata, nella sua interpretazione, alla problematica logico-speculativa del Vero Infinito e alle prove dell’esistenza di Dio, ma diviene la chiave di volta della sua impostazione e soluzione degli stessi più concreti problemi dell’esistenza storica e della vita morale dell’uomo – in primis et ante omnia quello della realtà del male nel mondo. Con indubbio acume filosofico egli denuncia l’errore fondamentale delle odierne trattazioni di questa problematica, ad es. quella di P. Ricoeur, consistente nel fatto che la realtà del male viene da lui considerata come un fatto meramente antropologico, che può essere esaustivamente spiegato dal punto di vista psicologico o esistenziale del soggetto umano finito26. Se l’oggetto della filosofia è l’Assoluto, Dio; e se Dio è il Tutto, il Vero Infinito che comprende in sé stesso anche il finito; e se tale Infinito può essere conosciuto dalla ragione umana, allora anche il problema del male potrà essere avviato a soluzione solo se si è in grado di rintracciarne l’origine nella stessa essenza del Divino. E ciò è appunto quello che Williams fa con ammirevole consistenza. La concezione panenteistica dell’Assoluto lo concepisce come Holzboog, Stuttgart–Bad Cannstatt 2003, p. 33-34, 199, n. 8, 275, 289; e AA. VV., Dizionario filosofico, a cura di V. Miano, S.E.I, Torino 1963, voce “Panenteismo”, p. 459. 24 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 225-28. 25 Cf. ibid., p. 22-23, 235-37. 26 Cf. ibid., p. 360-61, n. 45; p. 247, n. 69: «Unlike Hegel, Ricoeur’s project begins and ends at the level of a theological anthropology».
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una Totalità che contiene in sé anche l’Altro da sé, e che si configura come un processo che si realizza compiutamente solo nel suo risultato. Ma l’Altro del Tutto è ciò che il Tutto non è; e il risultato del processo dell’Assoluto è la negazione del suo cominciamento. Nell’identità con sé dell’Assoluto, nella sua autoaffermazione, dunque, è necessariamente contenuto anche il suo Altro, la sua negazione. Ora, tale negazione, per quanto non immediatamente identica all’essenza del male, ne è tuttavia l’originaria condizione di possibilità: l’immanente negatività dell’Assoluto assume la forma del male quando diviene l’oggetto della volontà umana finita. La decisione di realizzare il male (cioè i propri interessi particolari) invece del Bene (cioè la legge morale universale) è una libera scelta dell’individuo, di cui egli è responsabile: ma la negatività inerente nella sua finitezza, e il negativo fondamento di tale finitezza, è necessariamente immanente nella stessa essenza dell’Assoluto. Dal che seguono due cruciali conseguenze, che contraddicono ad altrettanti assunti della teologia cristiana tradizionale, ma che Williams non esita a trarre con ammirevole lucidità: (1) l’origine ultima del male non sta nella volontà di un soggetto estraneo alla volontà divina (Satana), ma è immanente nella stessa essenza del Divino; (2) la realtà del male nel mondo non è, come vuole il mito “infantile” della Caduta, la conseguenza contingente di una scelta arbitraria dell’uomo, bensì è un momento necessario nel processo di attuazione dell’eticità, nella misura in cui questa si realizza solo mediante la volontà finita, e in tal senso cattiva, dell’uomo. Williams può così replicare brillantemente – citando l’analogo argomento formulato da Paul Tillich –27 al dilemma con cui l’ateismo tradizionale aveva ritenuto di poter confutare l’esistenza di Dio: se egli, come vuole il teismo trascendente, è sia buono che onnipotente, non può permettere l’esistenza del male nel mondo. Se, invece, il male nel mondo c’è – come l’universale esperienza del dolore, della morte, della colpa attesta –, allora o Dio non è buono, perché, pur potendo eliminare il male dal mondo, ne consente l’esistenza; oppure non è onnipotente, perché, pur volendolo eliminare, non ha la forza di farlo. In entrambi i casi, tuttavia, è chiaro che Dio non sarebbe più Dio, e che Dio perciò non esiste. Questa objezione non tien conto del fatto che, siccome il mondo è in Dio, e siccome il male è un momento necessario del divenire del mondo, Dio, annientando il male nel mondo, annienterebbe eo ipso sé stesso. La bontà di Dio si manifesta piuttosto come superamento della sua iniziale imperfezione, come riconciliazione del suo concetto con la sua esistenza, come negazione dell’immediata negatività del male. In altre parole: dal punto di vista di una consistente concezione processuale dell’Assoluto, la realtà del Bene non può essere intesa come uno stato di innocenza, come una condizione primordiale dell’essenza divina, 27
Cf. ibid., p. 385-86.
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bensì come il risultato di un complesso e laborioso processo, il cui cominciamento, in quanto è l’Altro del suo risultato, non può essere che l’esistenza immediata e necessaria del male. Ma come dev’esser concretamente inteso tale superamento del male, o “riconciliazione col negativo” (ivi, p. 366), in cui la stessa essenza del Bene, in definitiva, si risolve? L’Assoluto è una Totalità infinita, che comprende in sé stessa il finito; nel suo processo, perciò, è possibile distinguere l’idealità del finito dalla realtà dell’Infinito, o, più concretamente, una serie graduale (Stufenfolge) di fasi evolutive. È possibile, ora, concepire tale superamento come la transizione continua, nel processo immanente dell’Assoluto, dalle sue fasi inferiori a quelle superiori, sì che il male, necessariamente immanente in quelle inferiori, decresca progressivamente in quelle superiori, e si estingua completamente in quella culminante e conclusiva (l’Idea assoluta)? Questa soluzione del problema del male è stata esplicitamente formulata da Errol Harris28, ma viene respinta da Williams29. Concependo il male come un mero “incidente della finitezza”, che inerirebbe sì nell’essenza divina, ma sarebbe completamente cancellato nella sua completa attuazione, perché “gli occhi di Dio son troppo puri per vedere il male”30, Harris secondo Williams ricade nel punto di vista “trionfalistico” della metafisica panteistica tradizionale, in particolare di quella di Spinoza, e perciò, senza rendersene conto, abbandona la genuina concezione hegeliana, che per contro afferma la persistente presenza della contraddizione, e dunque del negativo in generale, nella stessa più compiuta realizzazione dell’Idea. A suffragio della propria interpretazione, Williams cita31 opportunamente il seguente luogo della Scienza della Logica: «L’Idea per la libertà, che il Concetto in essa consegue, ha in sé anche la più dura opposizione, la sua quiete consiste nella sicurezza e nella certezza con cui essa
28 Cf. E.E. Harris, An Interpretation of the Logic of Hegel, University Press of America, Lanham-London 1983, p. 272-74, 297-302, Id., Salvezza dalla disperazione. Rivalutazione della filosofia di Spinoza, a cura di G. Rinaldi, Guerini Editore, Milano 1991, Parte IV, cap. 7: “Il bene e il male”, p. 203-22; Id., The Problem of Evil, Marquette University Publications, Milwaukee 1977. Williams non cita quest’ultimo testo, sebbene esso confermi, da un ulteriore punto di vista, la divergenza della reale concezione hegeliana del male da quella proposta da Harris, nella misura in cui egli asserisce l’immediata continuità – se non addirittura coincidenza – tra essa e la concezione tomistica del male quale defectus boni (cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, a cura di P. Caramello, Torino 1962-63, I, Quaest. 48-49). Intorno al problema filosofico del male, cf. G. Rinaldi, Teoria etica, Edizioni Goliardiche, Trieste 2004, Parte I, cap. 6, p. 189-212. 29 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 352-58. 30 Abacuc, I, 13, cit. in E.E. Harris, Salvezza dalla disperazione, cit., p. 222. 31 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 359, n. 38.
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eternamente la genera ed eternamente la supera, e in essa si congiunge con sé stessa»32.
L’affermazione dell’immanenza del negativo nello stesso risultato del processo dell’Assoluto non significa, tuttavia, che a entrambi gli opposti – positivo e negativo, finito e Infinito, Bene e male – debba esser riconosciuto un eguale grado di realtà metafisica. Ciò, infatti, significherebbe tener fermo alla contraddizione irrisolta, o alla concezione schellinghiana dell’Assoluto come Identità indifferente, che sono tuttavia entrambe in sé impossibili e impensabili. Nella Totalità concreta dell’Idea il negativo è perciò contenuto solo in quanto “tolto”, cioè in quanto degradato a momento “subordinato”, a qualcosa di “passato”, non più in essa presente, non più attuale. E non potrebbe essere diversamente, perché il male, in quanto negazione determinata, presuppone la più originaria realtà dell’essere determinato cui inerisce, è perciò sempre «parassitico (parasitic) su elementi ontologici che sono buoni, ad es. libertà e intelligenza, indipendenza, contraddizione e negazione»33. Williams riconosce perciò a Errol Harris il merito di aver compreso l’essenziale inattualità del male, e rimprovera (ivi, p. 247) invece a Ricoeur e O’Regan di aver scorto nella concezione hegeliana del male solo l’indebita “trivializzazione” della sua effettiva realtà, da essi per contro ritenuta assoluta e insuperabile. Questi pensatori sedicenti “cristiani” sembrano aver dimenticato proprio la più profonda verità rivelata all’uomo dal Cristianesimo, e cioè che Dio ama l’uomo e opera per la sua salvezza, che non è appunto altro che la liberazione dal male, la cui realtà positiva – proprio come vuole la concezione hegeliana – viene così tolta, cessa di essere qualcosa di presente e attuale in essa. La differenza tra Bene e male nell’onnicomprensiva realtà dell’Assoluto è stata sovente concepita dalla teologia tradizionale come la relazione esterna tra il fine assoluto che Dio si propone, cioè la realizzazione del Bene nel mondo, e il mezzo o strumento di cui si serve per attuarlo, che invece è in sé cattivo, e viene mitologicamente personificato in Satana, l’angelo ribelle al volere divino. Questa rappresentazione teologica sta alla base della dottrina luterana dell’“opera aliena dell’amore” (alien work of love), cioè del male che Dio consente a Satana di compiere, al fine di manifestare in grado più elevato il suo amore per l’uomo, ed è stata ripresa da Paul Tillich in un brillante saggio del 1954, Love, Power and Justice34. Non diversamente da 32 «Die Idee hat um der Freiheit willen, die der Begriff in ihr erreicht, auch den härtesten Gegensatz in sich; ihre Ruhe besteht in der Sicherheit und Gewissheit, womit sie ihn ewig erzeugt und ewig überwindet und in ihm mit sich selbst zusammengeht» (W6, p. 468). 33 R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 370. 34 Cf. ibid., p. 378-89. Analoga alla dottrina di Lutero è la celebre personificazione goethiana del male in Mefistofele, che sarebbe infatti «Ein Teil von jener Kraft,/ Die stets das Böse
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Tillich Williams non manca di mettere in rilievo il limite di questo suggestivo, ma ancora mitologico, tentativo di spiegare la compresenza degli opposti – Bene e male, amore e dolore, forza e giustizia – nell’unità dell’essenza divina. Rappresentando l’essenza del male come un soggetto diverso e indipendente dalla volontà divina, Lutero può concepire il rapporto teleologico che egli giustamente istituisce tra essi solo nell’inadeguata forma della finalità esterna, in cui l’oggetto sussunto, in quanto mezzo, sotto l’idealità del fine, rimane tuttavia una esistenza finita ad esso esterna, rendendo in definitiva impossibile la realizzazione del fine, che esso pur avrebbe dovuto consentire. All’inadeguato punto di vista della finalità esterna tien fermo anche la celebre concezione hegeliana dell’“astuzia della ragione” (List der Vernunft), che perciò Williams a ragione ritiene – a differenza di molti superficiali interpreti odierni di Hegel – inadeguata ad esprimere la vera attività teleologica della Ragione35. Quest’ultima viene piuttosto espressa solo dal rapporto organico, e non già meramente strumentale, della teleologia interna, in cui il mezzo non è una realtà diversa dal fine, bensì la stessa infinita idealità del fine espressa in una forma parziale e determinata. In rapporto al problema del male ciò significa che esso non dev’esser concepito come uno strumento di cui la volontà divina si serva onde perseguire fini da esso diversi, bensì come un elemento o “momento” immanente della totalità dell’Idea assoluta, il quale si distingue da essa solo perché esprime in forma inadeguata, frammentaria, imperfetta quello stesso contenuto assoluto che costituisce l’essenza attuale del Bene. Il rifiuto della concezione strumentale della relazione tra Bene e male consente a Williams di respingere anche una frequente objezione rivolta contro la teodicea tradizionale, e cioè che esistono forme “disteleologiche”, ossia prive di senso e scopo, del male, che così c’è pur non contribuendo alla realizzazione di alcun bene determinato. La corretta concezione idealistica dell’essenza del male, secondo la quale esso è un momento inattuale, ma necessario, del processo di attuazione dell’essenza divina, può infatti ammettere senza contraddizione l’esistenza di forme particolari del male, che appaiono in sé prive di senso e finalità. Williams non trascura neppure di svolgere in dettaglio le implicazioni di questa concezione metafisica dell’essenza del male nelle sfere concrete della vita dello spirito, dall’eticità alla storia universale, all’arte e alla religione, che qui possiamo solo sommariamente accennare. La concezione rigorosamente immanentistica del Divino sostenuta da Williams, per cui esso non ha altra realtà che quella presente e immanente che esso consegue nella comunità umana dello spirito, esclude per principio che esso possa esser concepito will und stets das Gute schafft» (W. von Goethe, Il Faust, a cura di G. Manacorda, Sansoni, Firenze 1949, vv. 1335-36). 35 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 380-81.
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come un Ente astrattamente trascendente, la cui funzione peculiare sarebbe quella di distribuire, nell’“altro” mondo, a suo insindacabile giudizio, premi o punizioni ai singoli individui a seconda del loro comportamento buono o cattivo nella vita terrena. Questa concezione “legale-penale” dell’essenza divina, che costituisce un elemento fondamentale della teologia cristiana tradizionale, trova la sua più celebre rappresentazione artistica nella Divina commedia di Dante36 e viene portata alle estreme conseguenze dalla “concezione morale del mondo” di Kant, viene perciò respinta con intransigente fermezza da Williams, che scorge in essa l’aspetto più esteriore, inconsistente e caduco del Cristianesimo, che contraddice in maniera stridente al suo intimo spirito: «Hegel osserva che l’interesse per la religione e per la vita ultraterrena (afterlife) è spesso l’espressione di un narcisismo che si aggrappa alla finitezza e rifiuta di lasciarla andare»37.
La filosofia hegeliana della storia universale offre un ulteriore, e non meno rilevante esempio delle concrete implicazioni della teologia immanentistica di Hegel. Williams cita opportunamente la sentenza di Schiller, ripresa poi da Hegel nel § 340 della Filosofia del diritto, che la “storia universale” (Weltgeschichte) è l’unico vero “Giudizio universale” (Weltgericht). Una volta, infatti, respinta la concezione morale-legale-penale del mondo, all’idea della Giustizia divina non potrà esser riconosciuto altro significato e altra sfera di realizzazione che quella che essa consegue nel processo organico e teleologico della necessaria realizzazione dell’Idea o Ragione assoluta nelle vicende della storia umana. Ma non è proprio tale storia – e, in specie, gli eventi catastrofici (due guerre mondiali, “olocausto” e bomba atomica) accaduti in quel periodo della modernità che Hegel non poteva ancora conoscere, il secolo XX – a fornire la prova definitiva e inoppugnabile della realtà positiva e insuperabile del male nel mondo? Non è addirittura “oltraggiosa”, come afferma R. Bernasconi, la tesi hegeliana che, siccome la storia universale non è altro che la progressiva realizzazione della Giustizia divina, «nessun popolo ha mai subito un torto» (no people ever suffered wrong, ivi, p. 304)? Con ammirevole coerenza e coraggio intellettuale Williams non esita a “dissacrare” anche i più tenaci miti apocalittici generati dal pensiero antimetafisico contemporaneo. Le vittime sono sempre corresponsabili, in un modo o nell’altro, per le persecuzioni subite; nessun popolo è innocente. D’altra parte, solo l’inadeguata etica eudemonistica o utilitaristica può identificare la realizzazione dell’Idea nella storia col progressivo incremento della felicità umana. Il fine ultimo dell’esistenza umana – il 36 37
Cf. ibid., p. 27, 260, 293-94, 304-05, 308, 310. Ibid., p. 371, n. 86.
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conseguimento della “beatitudine” (Seligkeit) – non è in realtà altro, come Hegel afferma a proposito della catarsi tragica, che «un’inquieta beatitudine nella sventura» (eine unglückselige Seligkeit im Unglück)38. Le epoche della storia universale in cui sembra che l’umanità abbia conseguito il massimo grado di felicità, e dolore, conflitti e tragedie siano stati definitivamente eliminati, sono in realtà solo «le pagine bianche della storia»39. D’altra parte, la persistente presenza del male nella stessa attualità assoluta dell’Idea implica che il processo della storia universale non può esser semplicisticamente concepito come la realizzazione “lineare” dell’ideale dell’assoluta libertà dello spirito, ma che gli sviluppi progressivi in essa attuantisi possano essere sempre interrotti da fasi regressive, com’è testimoniato dalla decadenza della superiore cultura ed eticità prodotte dai Greci in seguito alla conquista da parte dell’inferiore civiltà romana40. La concezione hegeliana della necessaria immanenza del male nella totalità dell’Assoluto e della sua necessaria riconciliazione trova una non meno profonda e originale espressione nella sfera spirituale dell’arte. La tragedia greca classica (quella di Eschilo e Sofocle, ma non quella di Euripide) costituisce la forma d’arte suprema perché rappresenta in concreto, nella maniera più organica e compiuta, la cruciale concezione logico-speculativa della contraddizione. Questa assume in essa la forma del conflitto tra gli eroi, cioè tra individualità che incarnano nel proprio agire “potenze etiche” (sittliche Mächte) universali opposte (ad es., la pietà familiare e il senso dello Stato). La sofferenza da esso derivante non è dunque la mera conseguenza di eventi naturali ineluttabili (ad es., malattia, povertà, ecc.), bensì la soddisfazione dell’esigenza etica di adempiere un dovere incondizionato; e per tale ragione il conflitto – e con esso l’esistenza del male nel mondo – è necessario: l’eroe non può agire diversamente, è perciò orgoglioso della sua azione, che si configura come una colpa solo perché l’adempimento di tale esigenza etica, in ragione della sua astratta unilateralità, implica eo ipso la violazione dell’istanza etica opposta. Il processo dialettico dell’Assoluto, che può realizzarsi solo mediante la scissione dell’unità originaria della Vita in potenze etiche antagonistiche, che affermano sé stesse solo escludendosi a vicenda, non si arresta tuttavia alla contraddizione irrisolta, in sé impossibile e impensabile. L’esito della tragedia non può perciò essere il mero annientamento reciproco degli eroi, bensì consiste piuttosto nella riconcilia-
38
W15, p. 567. Williams traduce: «a disquieted peace in disaster» (R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p.142). 39 Ibid., p. 365; cf. anche G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte (=W12), p. 42. 40 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 365.
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zione delle potenze etiche opposte nell’unità armonica, integrata della Totalità. Ciò avviene mediante il riconoscimento dell’eguale legittimità delle istanze in conflitto; e tale riconoscimento assume la forma astrattamente negativa della morte dell’eroe solo quando egli tiene ostinatamente fermo – com’è il caso di Antigone e di Creonte – all’esclusiva validità della suo punto di vista unilaterale. Ma la tragedia può avere anche un “lieto fine”, quando – com’è il caso di Edipo a Colono – l’eroe, divenuto consapevole dell’astrattezza del suo agire, riconosce la sua colpa, si purifica e riconcilia con la Totalità etica. Williams ottimamente osserva41 che la teoria hegeliana della riconciliazione si contrappone tanto alla concezione legale-penale della giustizia divina, tipica della teologia dogmatica cristiana e dell’etico-teologia kantiana, quanto alle prevalenti interpretazioni moderne dell’essenza della tragedia. La realizzazione della giustizia divina nella prima, infatti, presuppone la contrapposizione tra la legge morale trascendente, rivelata da Dio, e l’azione libera dell’uomo che la viola, ma potrebbe anche non violarla: l’opposizione, qui, è tra diritto e torto, è, come tale, meramente contingente, e la soluzione della contraddizione avviene mediante la punizione, cioè l’annientamento della volontà del colpevole. Nel caso del conflitto tragico, invece, un diritto (unilaterale) si contrappone a un altro diritto (egualmente unilaterale), l’azione dell’eroe è perciò nel contempo colpevole e noncolpevole, e la contraddizione che così si genera è necessaria; e la riconciliazione del conflitto non si limita ad annientare “astrattamente” uno dei lati della contraddizione, ma conserva e invera, nella totalità concreta dell’Assoluto, il contenuto positivo di entrambi i diritti opposti. All’objezione, avanzata da O. Pöggeler, M. Nussbaum e R. Galle, che Hegel in realtà fraintende il vero significato della tragedia, perché questa, giusta la prevalente concezione moderna da essi condivisa, sarebbe tale solo in quanto rappresenta un conflitto che esclude per principio riconciliazione e lieto fine, Williams replica che il superamento del conflitto nell’unità negativa dell’Idea non equivale semplicemente al suo astratto annientamento, giacché anch’esso viene conservato in essa, e la beatitudine o catarsi, che la tragedia genera nello spettatore, non è priva di dolore. Solo che, a differenza delle opposizioni non riconciliate, qui il dolore ha un senso: noi soffriamo certamente per la morte dell’eroe, ma nel contempo ci rallegriamo, e non lo commiseriamo, bensì lo ammiriamo, perché “è morto da eroe”, e perché, alla fine, “giustizia è fatta”. Non meno convincente è l’analisi svolta da Williams delle forme determinate che la concezione hegeliana della necessaria immanenza del male nell’Assoluto assume nelle superiori sfere spirituali della religione e della 41
Cf. ibid., p. 126, 136-42, 290-91.
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filosofia. Essa trova certamente la sua più profonda espressione nella rappresentazione religiosa cristiana della “morte di Dio” sulla Croce, che implica sì una negazione dell’essenza divina, ma non perciò legittima il punto di vista dell’ateismo, perché sulla Croce muoiono soltanto l’individualità sensibile, esclusiva di Cristo e l’astratta trascendenza di Dio Padre, che sono entrambe solo inadeguate determinazioni del concetto di Dio. La sua unica vera realtà, infatti, è lo Spirito santo, che risorge dalla morte di Cristo, è l’“uomo divino universale”, il “Cristo eterno”, che eternamente «dimora nella sua comunità, muore ogni giorno in essa e ogni giorno in essa risorge» (ivi, p. 379). Ma la vera liberazione dal male, la vera “consolazione” (Trost), la prova stringente della sua inattualità ha luogo solo nella “cognizione riconciliante” (reconciling cognition) della filosofia, ossia nella stessa teoria del male elaborata dal pensiero speculativo. Laddove, infatti, la riflessione dell’intelletto finito si limita a rappresentare un oggetto esterno, presupponendone e lasciandone intatta l’alterità, il pensiero speculativo pone assolutamente il proprio oggetto, e può porlo solo togliendone l’immediata alterità e identificandolo con sé stesso. Ma l’essenza del male altro non è che la scissione, la differenza tra il concetto e la realtà, l’essere altro dal pensiero e perciò, a rigore, impensabile. Nell’assoluta attualità e “attuosità” della Ragione che sa sé stessa, o nello Spirito assoluto, dunque, l’immediata esistenza del male viene “superata”, viene cioè degradata a un non-essere, contenuto sì necessariamente nella totalità etica dello spirito, ma solo come un momento “subordinato” e “superato”: «Dopo aver notato che nulla più della massa dei mali concreti esibiti nella storia universale esige una cognizione riconciliante, Hegel aggiunge che la riconciliazione può essere conseguita solo mediante il discernimento (Erkenntnis) dell’elemento affermativo, in cui la precedente negazione (del male) si risolve (verschwindet) in qualcosa di subordinato o superato» (ivi, p. 368).
III. L’interpretazione e l’appropriazione del pensiero di Hegel si coniugano, nella prospettiva filosofica di Williams, allo sviluppo di un’accurata disamina e critica del pensiero di Nietzsche. Egli scorge, infatti, in esso alcune tematiche e convinzioni profonde che sembrano trovare qualche riscontro nella metafisica idealistica di Hegel: anzitutto, il rifiuto del teismo trascendente e della visione morale del mondo sostenuti sia dalla teologia cristiana tradizionale che dall’idealismo soggettivo kantiano; in secondo luogo, il rilievo del “nichilismo” latente nel positivismo e nel relativismo dominanti nella cultura europea a partire dall’età dell’Illuminismo, e la rivendicazione della superiore ricchezza spirituale dell’arte greca e del “mito tragico”; in 136
terzo luogo, l’affermazione del primato ontologico del Divenire rispetto all’immobile Essere, privilegiato invece dalla metafisica tradizionale; e infine una concezione immanentistica del Divino come una Totalità in divenire, in cui gli opposti – finito e Infinito, creazione e distruzione, gioia e dolore – sono inscindibilmente congiunti. A differenza, tuttavia, di molti mediocri interpreti dei due pensatori, non sfugge a Williams la differenza qualitativa della realizzazione che le due prospettive filosofiche conseguono nelle rispettive opere: «in Nietzsche non v’è nulla di comparabile alla Logica o alla Filosofia della religione di Hegel», egli osserva nell’Introduzione, e perciò nell’esame delle loro dottrine «dovremo concentrare la nostra attenzione su Hegel, perché il suo pensiero, inclusa la critica della prospettiva kantiana, è più ricco» (ivi, p. 25).
E neppure sfuggono al suo acume le troppe contraddizioni, incoerenze, repentini e immotivati capovolgimenti di prospettiva, che proliferano nel corpus nietzscheano, minandone alla radice ogni possibile pretesa alla verità e al genuino significato e rilevanza teoretica ed etica. Nietzsche inizia la sua carriera letteraria con un’opera, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in cui contrappone al volgare e decadente “ottimismo razionalistico”, dominante nel pensiero occidentale a partire da Socrate e da Platone, il nobile “pessimismo della forza”, che avrebbe trovato la sua tipica espressione nella tragedia greca. In palese contraddizione col contenuto effettivo, filologicamente accertabile delle opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide42, egli la concepisce come la rappresentazione scenica di un unico “mito tragico”, quello del dio Dioniso, simbolo della vita infinita dell’Uno-Tutto, che viene ucciso e smembrato, dando così origine al mondo dell’apparenza, dominato dal principium individuationis, e perciò dalla sofferenza dell’individuo finito e isolato. Dioniso, tuttavia, risorge dalla morte, abolisce il principium individuationis, tornando così all’unità originaria dell’Uno-Tutto, che è fonte di salvezza e di beatitudine anche per lo spettatore, nella misura in cui egli stesso, annientando la propria personalità individuale nell’“estasi mistica” prodotta in lui dalla rappresentazione della morte dell’eroe, si identifica con la vita infinita del cosmo. Ma come negare che tale vita infinita non sia in realtà altro che una nuova versione della “notte in cui tutte le vacche erano nere” (ivi, p. 155), cioè di quell’universale astratto, che non solo è in sé falso in quanto, contrapponendosi all’individuo, scade anch’esso a un mero particolare, ma contraddice altresì, e nella maniera più stridente, all’enfatica rivendicazione nietzscheana 42 Così plausibilmente afferma Stephen Houlgate nel saggio Hegel’s Theory of Tragedy, p. 173 n., cit. da Williams in Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 142, n. 104.
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dell’esclusiva realtà ontologica dell’individuo isolato, atomistico, “solitario”? Laddove la negazione hegeliana dell’individuo immediato nella totalità organica dell’Idea si coniuga alla conservazione della sua identità sostanziale e al riconoscimento del suo “valore infinito”, il mito tragico di Nietzsche, osserva ironicamente Williams, «supera il male dell’individuazione mediante l’obliterazione dell’eroe, come se il solo modo di salvare qualcosa fosse quello di distruggerlo» (ivi, p. 157). Tale annientamento dell’individuo nell’Uno-Tutto, d’altra parte, viene presentato da Nietzsche come un lieto evento, come l’esperienza della salvezza e della beatitudine conseguita dall’individuo già in questa vita terrena. Ma questo è ancora vero pessimismo? si chiede Williams. Certamente no, e allora dobbiamo concludere che, a differenza di quanto sostengono i critici dell’“ottimistica” concezione hegeliana della tragedia, «Nietzsche, che prenderebbe la tragedia più sul serio di Hegel, non è, dopo tutto, così tragico!» (ivi, p. 289). Williams perciò mette giustamente in questione la rigida e schematica contrapposizione nietzschiana tra ottimismo razionalistico e pensiero tragico: proprio come quest’ultimo non è privo di un elemento ottimistico, cioè la beatitudine prodotta dalla mistica ebbrezza dionisiaca, così l’ottimismo della Ragione speculativa, per lo meno nella sua più matura versione hegeliana, non nega, come si è visto, la necessaria immanenza del negativo nell’identità affermativa dell’Idea. Sempre nella Nascita della tragedia Nietzsche dichiara di condividere la critica kantiana della metafisica, che restringe la conoscenza razionale al mero fenomeno, e sulla traccia dell’estetica romantica da Schelling a Wagner riconosce alla sola arte, in quanto unità di rappresentazione e sentimento, poesia e musica, armonia apollinea ed ebbrezza dionisiaca, la capacità di rivelare all’uomo la verità ultima circa la sua esistenza. In tal modo, tuttavia, Williams ottimamente replica (ivi, p. 347), egli indebitamente rovescia il vero rapporto gnoseologico tra la forma intuitiva e rappresentativa dell’arte e la forma logica del pensiero razionale. L’elemento dell’intuizione e della rappresentazione, infatti, è inevitabilmente relativo all’astratta soggettività del sé finito, ed è perciò privo di quella oggettività e concreta universalità, che sola lo potrebbe significativamente distinguere dalla fuorviante illusione, e che può essere garantita solo dalla mediazione discorsiva del pensiero razionale. Quest’ultimo, infatti, non si esaurisce, come a torto credeva Kant, nella funzione gnoseologica dell’intelletto finito, che è certamente limitata al mondo dell’apparenza, ma si compie e invera nell’attività della Ragione speculativa, che trascende i limiti dell’esperienza finita e comprende l’intrinseca essenza della stessa Realtà assoluta.
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A partire da Umano troppo umano, tuttavia, Nietzsche stesso sembra avvertire l’intima inconsistenza della sua “metafisica dell’arte”, e a ogni possibile metafisica contrappone una concezione radicalmente relativistica della conoscenza, che dissolve l’unità e oggettività della verità in una pluralità mutevole e contingente di effimere “interpretazioni”, la cui validità, in definitiva, consisterebbe esclusivamente nella credenza che il singolo individuo di volta in volta decide di attribuir loro. Il vantaggio di questa concezione “sperimentale” (come la definisce W. Dudley) della conoscenza rispetto sia al dogmatico assolutismo della metafisica che al realismo empirico delle scienze positive sarebbe quello di garantire l’assoluta “libertà dello spirito” abolendo ogni verità fissa, oggettiva, immutabile, che in qualsiasi modo pretenda di imporre un limite alla sua infinita creatività. Williams acutamente objetta43 che questa concezione, come del resto ogni altra versione del relativismo scettico, si avvolge, anzitutto, nell’insolubile contraddizione di affermare la vanità di ogni prodotto della conoscenza umana, facendo tuttavia una sola, e ingiustificata, “eccezione” – e cioè la pretesa verità della propria concezione relativistica della conoscenza; e, inoltre, che l’unico elemento stabile e permanente che, secondo questa concezione nietzscheana, si sottrarrebbe al perpetuo cangiare di ogni teoria determinata, e cioè l’infinita creatività dello spirito, non è in realtà altro che una vuota, indeterminata e perciò falsa astrazione, che non si distingue in nulla dallo screditato concetto dell’anima-sostanza della metafisica tradizionale. Ancor più perniciose, poi, sono le conseguenze sul piano etico del soggettivismo relativistico di Nietzsche. Nella misura in cui esso dissolve ogni realtà e limite oggettivo alle mutevoli e contingenti opinioni soggettive e interessi individuali, anche l’esigenza del rispetto della libertà e della dignità dell’Altro diverrà un’opinione puramente arbitraria e mai necessaria. Ma così si apre la porta alla legittimazione di ogni sorta di crudeltà, violenza e barbarie: anzi, l’idea stessa dell’Eticità, cioè di una comunità sostanziale normativa, la cui esistenza precede quella dell’individuo ed è sottratta al suo arbitrio, viene ad essere annullata. In opposizione all’idea dell’Eticità, che presuppone il riconoscimento “simmetrico” delle autocoscienze individuali e la loro unificazione nella “mentalità allargata” (enlarged mentality, ivi, p. 71) di un “Io che è un Noi”, ossia di un’autocoscienza universale, Nietzsche tien fermo al punto di vista dell’individuo singolo, isolato e al suo rapporto conflittuale con l’Altro, in cui egli non riconosce sé stesso, ma scorge soltanto un oggetto su cui esercitare il proprio arbitrario dominio. Ma così la sua legittima polemica contro la “morale del gregge” predicata dal Cristianesimo e l’egualitarismo livella43
Cf. ibid., p. 104–05 e 269-72.
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tore propugnato dall’Illuminismo scade nella “barbarica” esaltazione del diritto del più forte (inteso in senso rozzamente biologico) a opprimere il più debole, perdendo così di vista il fatto che le uniche differenze legittime tra gli individui sono quelle della maggiore o minore pienezza della loro vita spirituale. Ma anche l’esaltazione nietzscheana dei valori vitali e della volontà di potenza dell’individuo “solitario” finisce per essere self-refuting, perché, osserva bene Williams44, tra le virtù del Superuomo egli annovera anche l’“autodominio” (Selbstüberwindung), che esige una negazione della volontà naturale ed egoistica analoga a quella richiesta dall’“ideale ascetico” da lui stigmatizzato, e il “sentimento di solidarietà” (Gemeingefühl) tra gli individui nobili, che istituisce tra essi un vincolo sociale, che contraddice nella maniera più stridente al radicale individualismo nietzscheano, secondo cui “la comunità rende volgari” (die Gemeinschaft macht gemein), e l’individuo nobile, perciò, può preservare intatta la sua immacolata purezza solo troncando ogni possibile relazione sociale. Non meno acuta e convincente è la critica che Williams rivolge nei confronti delle concezioni nietzscheane dell’Eterno ritorno e del culto di Dioniso quali antidoti al nichilismo contemporaneo. Esso sorge nell’Età moderna quale inevitabile conseguenza della critica illuministica del Cristianesimo, perché essa, minando nell’animo dell’uomo moderno la fede in Dio, sopprime altresì in lui quel sentimento di beatitudine, salvezza, certezza di sé e del proprio destino, che può derivare solo dall’identificazione col Divino e dal conseguente superamento della propria finitezza e caducità. Al culto ormai estinto del Dio cristiano Nietzsche perciò contrappone l’auspicio di una rinascita del culto greco del dio Dioniso. La differenza fondamentale tra i due culti è che, mentre il carattere ascetico del culto cristiano esige la negazione della vita e la rinuncia ai beni terreni, rimandando il conseguimento della beatitudine a un “altro” mondo non accertabile mediante i sensi, l’estasi mistica, in virtù della quale l’individuo si identifica con Dioniso, è un evento che si realizza già in questa vita; e l’eternità che sottrae l’individuo alla caducità e alla morte non è altro che l’“eterno ritorno” della serie degli eventi che costituisce la sua vita reale. La visione tragica del mondo propugnata da Nietzsche, tuttavia, insegna che l’esistenza umana è pervasa di dolore, sì che l’accettazione dell’idea dell’Eterno ritorno implica inevitabilmente che la beatitudine derivante dall’identificazione mistica dell’individuo con Dioniso si accompagni all’eternamente rinnovantesi esperienza del dolore. Questa concezione può apparire terrificante o ripugnante alle anime deboli, ma l’individuo forte e nobile – il Superuomo – può e deve accettarla, perché essa è la sola dottrina teologica che consenta un vero, reale, non illusorio superamento del nichilismo contemporaneo. Ma così 44
Cf. ibid., p. 69-73 e 87-99.
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appare chiaro che la teologia nietzscheana dell’Eterno ritorno può conseguire l’effetto auspicato solo se ci sono delle buone ragioni per ritenerla vera. A ciò, tuttavia, osta nulla meno che la concezione nietzscheana della verità, che la dissolve in una indeterminata pluralità di mutevoli interpretazioni soggettive, e spiega l’illusoria fede nella sua realtà e valore come l’estremo frutto dell’ideale ascetico, e perciò della nichilistica negazione della vita propugnata dal Cristianesimo. Sorge così il seguente dilemma, che mina alla radice anche questa dottrina di Nietzsche, che pur è la più profonda e suggestiva da lui formulata, e che Williams articola45 con ammirevole lucidità nella maniera seguente: o la concezione dell’Eterno ritorno è falsa, o solo un’ipotesi od opinione soggettiva prodotta dalla mente umana finita, e allora essa non è in grado di adempiere il compito per il quale essa viene da Nietzsche elaborata, e cioè l’effettivo superamento del nichilismo contemporaneo (in tal caso, infatti, il culto di Dioniso si risolverebbe piuttosto in un “gioco” o, peggio, in una “farsa”, e in nessun modo perciò potrebbe salvarci dal nichilismo). Oppure essa è vera, ma allora proprio per tale ragione dovremmo respingerla, perché essa, lungi dal fornire l’antidoto al nichilismo contemporaneo, ne sarebbe piuttosto l’estremo frutto. Ma le difficoltà della teologia dionisiaca nietzscheana non finiscono qui. La realtà del suo oggetto non può essere provata dalla conoscenza razionale, bensì è il contenuto di un’esperienza estetica “sublime”, o visione “mistica”, che può essere certificata solo dal privato sentimento dell’individuo. La religione di Dioniso, perciò, è una religione «senza culto e senza dogma – o una fede, ma senza un credo»46. Il sentimento, infatti, si esprime inevitabilmente in un linguaggio “ambiguo” (ivi, p. 287), che afferma sì la verità del suo oggetto, ma la sua affermazione, in quanto indeterminata, è anche solo immediata, e in quanto immediata è priva di quella cogenza e validità oggettiva che solo la forma logica della mediazione razionale o del concetto puro le potrebbe conferire. Ma così la religione di Dioniso non si distingue essenzialmente in nulla dalla fede astrattamente soggettiva di Kant e Jacobi, la cui peculiare forma gnoseologica confuta di per sé la pretesa realtà oggettiva e trascendente del suo contenuto, ed è così essa stessa una tipica espressione del nichilismo contemporaneo. D’altra parte, Dioniso, a differenza del Dio cristiano, è presente e immanente nella vita terrena e nell’esistenza umana, e si configura perciò come una Totalità che unifica in sé stessa le opposizioni più estreme: essere-divenire, creazione-distruzione, gioia-dolore. L’analogia con la concezione hegeliana dell’Assoluto è innegabile: sia Hegel che Nietzsche, infatti, sostengono una concezione olistica del Divino 45
Ibid., p. 280 e 285, n. 83 e 85. M. Haar, Nietzsche and Metaphysics, p. 149, cit. da Williams in: Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 288. 46
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come Totalità immanente e unità di opposti. Ma proprio in questo punto di massima convergenza tra le due prospettive emerge altresì la loro insuperabile differenza e l’inferiorità intellettuale della dottrina nietzscheana. Com’è possibile che gli opposti coesistano nell’unità dell’Assoluto? Com’è possibile che l’estasi dionisiaca sia nel contempo gioia e dolore? La risposta razionale a questi interrogativi, che ci viene offerta dalla dialettica hegeliana, è che entrambi sono necessariamente contenuti nell’Assoluto, e che anche nella piena attuazione del suo concetto, cioè nell’Idea, la scissione dell’unità in opposti contraddittori non è semplicemente annullata, ma si riproduce eternamente. Ma gli opposti non possiedono in essa eguale realtà, verità e significato: l’affermazione “prevarica” (übergreift) sulla negazione, l’Infinito sul finito, il Bene sul male. La scissione dell’Assoluto è perciò il mezzo organico (da non confondere col mezzo nel senso strumentale della teleologia esterna!) mediante il quale viene conseguito il fine ultimo immanente nel suo intero processo. L’unità degli opposti nella totalità dell’Assoluto è dunque possibile e pensabile solo se il suo divenire ha carattere teleologico, è l’esplicazione di un rapporto di finalità interna. Nietzsche, al contrario, nega perentoriamente che il divenire del cosmo abbia un senso o una finalità immanente, e concepisce la sua totalità come il mero aggregato di una pluralità caotica di parti indipendenti, e il suo divenire come determinato dalla potenza cieca del “fato”, che, in quanto tale, è indifferente anche alla differenza tra Bene e male, gioia e dolore, può casualmente produrre sia l’una che l’altro, e non può perciò garantire quella finale prevalenza del Bene sul male, che sola consente di pensare sensatamente la “riconciliazione” degli opposti nell’unità dell’Assoluto e di scorgere nella concezione immanentistica e olistica del Divino il plausibile antidoto al nichilismo contemporaneo. Ma la stessa critica nietzscheana del Cristianesimo risulta, in definitiva, insoddisfacente, e deve essere corretta dalla superiore, più coerente e articolata prospettiva hegeliana. L’atteggiamento di Nietzsche nei confronti del Cristianesimo è puramente negativo. Il Cristianesimo è una volgarizzazione del dualismo platonico, afferma una visione morale del mondo che indebitamente svaluta il valore della vita e l’energia creativa degli individui superiori. Hegel critica questo aspetto del Cristianesimo non meno di Nietzsche, ma, più profondamente di Nietzsche, ritiene che non sia altro che l’inevitabile conseguenza dell’inadeguata forma immaginativa, in cui esso, come del resto ogni religione, esplica un contenuto sostanziale che da tale forma essenzialmente differisce. E tale contenuto, nel caso del Cristianesimo, è che il vero Dio è lo “spirito”, che si incarna eternamente nell’uomo, ne condivide la finitezza e caducità, “soffre” con lui e muore per lui, ma risorge anche eternamente dalla morte, e consegue la sua realtà presente e immanente nella
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comunità etica e nel riconoscimento reciproco dei credenti. Questo contenuto del Cristianesimo non solo è in sé vero, ma costituisce la stessa verità che la filosofia speculativa esplica nella forma più adeguata del concetto puro, e può sfuggire a Nietzsche solo perché egli è radicalmente incapace di comprendere il concetto dello spirito e di riconoscerne l’assoluta verità: «non c’è in Nietzsche alcun equivalente per il “Noi” hegeliano o per lo spirito» (there is in Nietzsche no equivalent for the Hegelian “We” or spirit, ivi p. 52).
IV. Il profilo del pensiero di Williams da noi ora tracciato non rende certamente giustizia alla ricchezza delle interpretazioni e delle critiche delle dottrine filosofiche di Hegel e di Nietzsche da lui svolte in questi saggi; e ancor meno alla serrata discussione delle interpretazioni alternative, con la quale egli costantemente corrobora la plausibilità del proprio punto di vista. Ma è senz’altro sufficiente a convincerci del fatto che l’interpretazione del pensiero di Hegel nel senso di una metafisica olistica e tragica dell’Assoluto, che trascende e invera i limiti della teologia cristiana tradizionale, o di un “idealismo assoluto”, che infrange i vincoli indebitamente imposti all’“uso speculativo” della ragion pura dal criticismo kantiano, viene da lui concepita con una energia, serietà e forza di persuasione che non trovano riscontro nel mediocre panorama della letteratura hegeliana più recente. E il rilievo sistematico delle antinomie e carenze del pensiero di Nietzsche mostra come il culto odierno della sua confusa, disorganica e autocontraddittoria visione del mondo sia in verità solo l’inequivocabile indizio della decadenza del genuino pensiero filosofico nella cultura di massa che sempre più capillarmente pervade le società occidentali e le loro stesse istituzioni accademiche. Considerando analiticamente le complesse e articolate dottrine formulate o difese da Williams, si potrebbero avanzare almeno tre principali objezioni – che, in realtà, più che vere e proprie objezioni, sono solo richieste di ulteriori chiarimenti, approfondimenti e sviluppi teoretici. Anzitutto, il rapporto del riconoscimento simmetrico, che dà origine all’autocoscienza universale, cui Williams tien fermo come al sufficiente fondamento categoriale dell’Eticità, contiene in realtà – come Hegel osserva nei §§ 436-37 e Aggiunte dell’Enciclopedia, peraltro citati dallo stesso Williams –, sia per quanto concerne la sua forma (la categoria logico-metafisica dell’Altro) che per quanto riguarda il suo contenuto (amore, amicizia, fama e onori quali forme tipiche di tale riconoscimento), una residua inconsistenza: oltre la gloria esiste anche la vanagloria, oltre gli onori meritati ci sono anche gli onori “privi di sostanza”. D’altra parte, la differenza tra il sé e l’Altro non è una vera differenza (qualitativa, essenziale), perché, essendo entrambi riconosciuti come 143
soggetti liberi, indipendenti, forniti di valore intrinseco, l’uno è ciò che è l’altro, ed essa è perciò la mera reiterazione (quantitativa, tautologica) dell’identico. Tali contraddizioni vengono superate nella successiva figura fenomenologica della Ragione, nella misura in cui l’unità dell’Idea si costituisce in essa come un sistema di differenze ideali, categoriali; ed essa si realizza compiutamente come Spirito libero, che diviene così l’unico vero fondamento concettuale dell’intera sfera dell’Eticità47. La critica rivolta da Williams nei confronti della “metafisica panteistica” di Errol Harris, che questi esplicitamente presenta come uno sviluppo non solo del pensiero di Hegel, ma anche di quello di Spinoza, ribadisce tutte le objezioni che il primo rivolge contro la “metafisica della sostanza” e il “panteismo acosmico” del secondo48; ma trascura, a nostro giudizio, di rilevare che nell’eccellente saggio spinoziano di Harris egli aveva anche cercato di replicare, sulla base di una minuziosa analisi dei testi rilevanti, a buona parte delle objezioni che Hegel e altri commentatori hegeliani rivolgono contro di essa49. Naturalmente non v’è ragione per non ritenere che, da un punto di vista strettamente hegeliano, anche gli argomenti a tale proposito sviluppati da Harris possano essere messi in questione: ma un serio confronto analitico con essi sarebbe stato in ogni caso indispensabile. Infine, una importante acquisizione dell’interpretazione harrisiana di Hegel è certamente il rilievo di una cruciale dottrina, di palese ascendenza aristotelica, che, ove fosse adeguatamente sviluppata, potrebbe verosimilmente contribuire a superare i limiti categoriali di quel rapporto del riconoscimento simmetrico, cui Williams invece tien esclusivamente fermo quale adeguato fondamento dell’Eticità: la teoria della “serie graduale” o “gerarchica” (Stufenfolge) delle determinazioni del concetto puro, o dei gradi di verità e realtà50. Secondo questa teoria l’identità universale dell’Idea si scinde necessariamente in una molteplicità di differenze, ma esse non si giustappongono estrinsecamente l’una accanto all’altra, bensì si ordinano secondo una scala naturae, in cui le fasi più immediate e meno perfette, pur esplicando il medesimo contenuto ideale di quelle più articolate e perfette, lo realizzano tuttavia con un differente grado di adeguatezza. Ciò ci offre, sul piano etico, la possibilità di istituire una mediazione tra le opposte, ma egualmente legittime, istanze dell’eguaglianza e della disuguaglianza delle autocoscienze, e 47 Cf. G. Rinaldi, Absoluter Idealismus und zeitgenössische Philosophie. Bedeutung und Aktualität von Hegels Denken, Peter Lang, Frankfurt a. M. 2012, “Einleitung”, p. 11-12 e n. 41. 48 Cf. R.R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God, cit., p. 355-56. 49 Cf. E.E. Harris, Salvezza dalla disperazione, cit., p. 94-95, 108-14, 118-28. 50 Cf. Id., The Foundations of Metaphysics in Science, Allen & Unwin, London 1965, Parte I, cap. 7: “Wholeness and Hierarchy”, p. 142-59, 279-81.
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di evitar così sia l’egualitarismo livellatore e tautologico del riconoscimento simmetrico che il dualismo esclusivo del riconoscimento asimmetrico: una e medesima è in tutte la comune umanità e spiritualità, ma differente, e necessariamente differente, è il grado della sua effettiva realizzazione in ciascuna.
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Giacomo Rinaldi, Carattere e limiti della “filosofia sistematica” di Nicolai Hartmann• § 1. Ragione autonoma e Ragione eteronoma nella filosofia sistematica contemporanea La filosofia sistematica è quella forma del sapere, che si propone di legittimare in maniera compiuta ed esaustiva la molteplicità dei concetti e dei principi a priori dello spirito umano deducendoli da una superiore e più comprensiva Unità. Essa si presenta nella storia della filosofia, per lo meno come esigenza, in tutte quelle posizioni del pensiero in cui viene riconosciuta alla “ragion pura” una rilevanza gnoseologica imprescindibile – sia essa ritenuta “costitutiva” oppure solo “regolativa”. La ragion pura, infatti, secondo la celebre definizione kantiana1, è quella facoltà dello spirito, che si sforza di risalire dalle condizioni finite e molteplici della conoscenza all’unità assoluta dell’Incondizionato. Ciò appare puntualmente confermato dalla situazione filosofica odierna, dal momento che le tendenze più esplicitamente irrazionalistiche – esistenzialismo, decostruzionismo, postmodernismo – rifiutano perentoriamente la stessa possibilità di principio della filosofia sistematica, insistendo sul carattere insuperabilmente frammentario della conoscenza, laddove quelle orientate in senso più o meno decisamente razionalistico – ad es. l’idealismo italiano, l’idealismo anglosassone e la fenomenologia – riconoscono la legittimità dell’esigenza della sistematicità del pensare e si sforzano, in diverso modo, di soddisfarla. La differenza gnoseologica più decisiva, che distingue e contrappone le tendenze fondamentali del pensiero sistematico contemporaneo, è da ricondurre al diverso concetto di “ragione” che viene da esso posto a fondamento dell’organizzazione teoretica del sapere. Il pensiero “razionale”, infatti, può esser concepito in due maniere radicalmente differenti, che Kant e Hegel designano, rispettivamente, coi termini di “intelletto” (Verstand) e di “ragione” stricto sensu (Vernunft)2. In considerazione della peculiare proble-
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Questo saggio è la versione riveduta, corretta ed ampliata della relazione “Autonomous and Heteronomous Reason in Contemporary Systematic Philosophy”, da noi presentata il 29 aprile 2011 nel Dipartimento di Filosofia dell’Università della Georgia (Athens, GA, USA). 1 Cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in: Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischer Akademie der Wissenschaften, Bd. III, hrsg. von B. Erdmann, Berlin 1911, B 379 ss. (trad. it. di G. Gentile, Laterza, Bari 19659, p. 311 ss.). 2 Cf. G. Rinaldi, Teoria etica, Edizioni Goliardiche, Trieste 2004, § 61, p. 231-32.
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matica che tratteremo in questo saggio, preferiamo denominarle, rispettivamente, “ragione eteronoma” e “ragione autonoma”, pur essendo consapevoli del fatto che questa definizione, sebbene colga un elemento essenziale del loro oggetto, non esaurisce tuttavia la ricchezza delle implicazioni gnoseologiche e metafisiche in esso contenute. Il punto di vista della Ragione eteronoma si fonda sul presupposto che il pensiero, il concetto puro o l’“ideale”, per quanto certamente necessari alla conoscenza, non ne siano tuttavia anche la condizione sufficiente. Il pensiero viene infatti concepito come un “atto intenzionale” della coscienza umana che analizza dei concetti o “significati” ideali, la cui validità tuttavia è meramente “irreale”, cioè formale ed astratta. Il contenuto concreto del conoscere, e il suo conseguente riferimento ad un’oggettività reale, può essere fornito solo da una fonte di conoscenza radicalmente eterogenea rispetto al pensiero puro, l’intuizione o percezione sensibile, che infatti manifesta in maniera originariamente passiva alla coscienza un “dato” o “fenomeno” particolare, corrispondente in qualche modo all’esserci di una cosa materiale nel mondo esterno. Esso costituisce così l’originario criterio di verità, la “legge trascendente”, per così dire, della coscienza umana, la quale è perciò essenzialmente condizionata, finita o, per l’appunto, “eteronoma”3. Il punto di vista della Ragione
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La trascendenza originaria dell’oggetto rispetto alla coscienza è quella della cosa materiale nel mondo esterno, ma il peculiare carattere gnoseologico della loro relazione non cambia se tale oggetto viene invece identificato – com’è il caso della “vecchia metafisica” e della teologia cristiana tradizionale – con un Dio personale extramondano o col “dato” della rivelazione religiosa. L’eteronomia che caratterizza la percezione sensibile di una cosa materiale non è infatti essenzialmente diversa, da un punto di vista strettamente gnoseologico, da quella che sta alla base delle concezioni filosofiche o teologiche della trascendenza di Dio. La conferma storica della plausibilità di questa nostra tesi ci viene offerta, nella maniera più chiara, dalla filosofia tomistica e neotomistica, in cui l’eteronomia della coscienza umana rispetto al mondo esterno e quella nei confronti della trascendenza divina si coniugano in una unità inscindibile. Cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità. Filosofia della religione e metafisica dell’essere, Aracne Editrice, Roma 2010, Parte III, cap. 1, p. 555-60. L’affermazione della realtà trascendente dell’oggetto dell’atto conoscitivo, per cui esso si configura come una “relazione d’essere”, e la conseguente rivendicazione del primato dell’ontologia rispetto alla gnoseologia, sono dunque indipendenti dal fatto che tale realtà venga identificata con la natura materiale o col Dio personale trascendente. Da questo punto di vista, l’ontologia atea di Hartmann e il tradizionale teismo trascendente non si distinguono sostanzialmente l’una dall’altro. Dobbiamo perciò decisamente respingere la tesi ermeneutica, sostenuta da alcuni odierni fautori della “metafisica dell’essere”, secondo cui il “presupposto gnoseologistico” sarebbe nel contempo il principio e l’errore fondamentale dell’ontologia di Hartmann (cf. A. Marini, “Un libro su Nicolai Hartmann”, in: “Rivista critica di storia della filosofia”, 2/ 1972, p. 171-77). In realtà, in quest’ultima esso è tanto poco presente quanto poco lo è nella filosofia scolastica. D’altra parte, proprio l’unilaterale subordinazione ontologistica del problema gnoseologico a quello metafisico, condivisa da entrambe, ne vizia alla radice l’intima plausibilità e verità. Cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità, cit., Parte III, cap. 1, p. 571-88.
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autonoma, al contrario, nega perentoriamente il dualismo kantiano tra pensiero e conoscenza. Il pensiero puro, infatti, è possibile e pensabile solo come l’attività creatrice infinita di una Mente che pone assolutamente il proprio oggetto, dà a sé stessa il proprio contenuto, il quale è perciò interno, e non già esterno, all’atto del pensare: la conoscenza dell’oggetto non è così in verità altro che conoscenza di sé, autocoscienza, riflessione assoluta. Quest’ultima, di conseguenza, ha in sé stessa, e non già al di fuori di sé, il principio ultimo della sua verità, la legge assoluta del suo conoscere, e in tal senso è appunto “autonoma”. Da questo punto di vista, il sapere filosofico non si esaurisce nella mera riproduzione di un dato o fenomeno particolare isolato, perché il fenomeno è essenzialmente relativo alla coscienza finita che lo presuppone, bensì si costituisce come sviluppo, esplicazione, “costruzione” della totalità del sapere nella pura immanenza dell’autocoscienza. L’articolazione sistematica del punto di vista della Ragione autonoma costituisce l’obiettivo teoretico fondamentale dell’Idealismo tedesco e consegue la sua formulazione più compiuta e consistente nella filosofia di Hegel, ma svolge un ruolo cruciale anche nelle molteplici tendenze idealistiche del pensiero contemporaneo che ad essa più o meno strettamente si richiamano. Gli sviluppi più originali e convincenti rimangono ancor oggi, a nostro giudizio, quelli elaborati dalla “metafisica del pensare” di Bertrando Spaventa e dall’“idealismo attuale” di Giovanni Gentile, ma un contributo non meno originale ed illuminante viene altresì offerto da numerosi esponenti dell’Idealismo anglosassone quali, ad es., Josiah Royce, R.G. Collingwood, G.R.G. Mure, Errol Harris e Robert Williams4. Il tentativo di elaborare una filosofia sistematica dal punto di vista della Ragione eteronoma è stato invece attuato specialmente dalla “fenomenologia trascendentale” di Edmund Husserl e dall’“ontologia critica” di Nicolai Hartmann. Nei tre volumi delle Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1913, 1952, 1952)5 e nel saggio Formale und transzendentale Logik (1929)6 Husserl analizza in dettaglio i fondamentali concetti a priori concernenti, rispettivamente, le sfere ontologiche “materiali” della natura inorganica, della psiche e dello spirito e quelle “formali” analizzate dalla logica e 4
Cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, Lewiston, NY 1992, §§ 53–61; Id., Saggio sulla metafisica di Harris, Li Causi, Bologna 1984; Id., Tragedia, riconoscimento e morte di Dio nel pensiero di Robert Williams, in questo numero del “Magazzino di filosofia”. 5 Cf. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: “Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie”, M. Nijhoff, Den Haag 1950; Id., Ideen..., Zweites Buch: “Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution”, Den Haag 1952; Id., Ideen..., Drittes Buch: “Die Phänomenologie und die Fundamente der Wissenschaften”, Den Haag 1952. 6 Cf. E. Husserl, Formale und Transzendentale Logik, Halle 1929.
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dall’ontologia formale. Hartmann designa invece col termine “filosofia sistematica” la propria concezione realistica ed “aporetica” della metafisica, ne formula le tesi fondamentali nel saggio Systematische Selbstdarstellung (1933)7 e procede ad attuare il programma teoretico in esso delineato in numerosi e ponderosi volumi8. Nei limiti del presente contesto discuteremo solo la concezione hartmanniana della filosofia sistematica. La ragione di questa nostra opzione non sta già nella superiore qualità filosofica degli scritti di Hartmann, che non reggono certamente il confronto con quelli, assai più raffinati ed originali, di Husserl, bensì nel fatto che nell’orientamento “trascendentale” assunto dalla fenomenologia husserliana dopo il 19139 il primato della Ragione eteronoma non emerge con la radicalità e la “durezza” che caratterizzano invece il realismo ontologico di Hartmann. Nel pensiero di Husserl, infatti, l’istanza realistica, essenzialmente inerente nel punto di vista della Ragione eteronoma, viene in larga misura controbilanciata, e a volte neutralizzata, dall’opposta insistenza idealistica sul carattere meramente “irreale” dell’oggetto intenzionale e sulla sua essenziale “immanenza” negli atti della “coscienza pura” che lo “costituisce”. In un nostro
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Cf. Nic. Hartmann, “Systematische Selbstdarstellung” (1933), in: Id., Kleinere Schriften, Berlin 1957, vol. 1, p. 1-51. La prima versione di questo saggio fu pubblicata da Hartmann col titolo Systematische Philosophie in eigener Darstellung nella rivista “Deutsche systematische Philosophie nach ihren Gestaltern”, ed. da H. Schwarz, Berlin 1931, vol. 1, p. 283-340, e poi come opuscolo separato dalla casa editrice Junker & Dünnhaupt, Berlin 1935, p. 60. Ne esiste una traduzione italiana col titolo “Filosofia sistematica” nel volume Introduzione all’ontologia critica, c/ di R. Cantoni, Guida, Napoli 1972, III, p. 97-168. 8 Alla trattazione sistematica della problematica gnoseologica è dedicato il volume Grundzüge einer Metaphysik der Erkenntnis, Ver. wiss. Verlag, Berlin-Leipzig 1927. I principi dell’ontologia realistica di Hartmann vengono delineati nei volumi Zur Grundlegung der Ontologie, W. De Gruyter, Berlin 1935, Möglichkeit und Wirklichkeit, W. De Gruyter, Berlin 1938, e Der Aufbau der realen Welt. Grundriss der allgemeinen Kategorienlehre, W. De Gruyter, Berlin 1940. La sua filosofia della natura è esposta nel volume Philosophie der Natur. Abriss der speziellen Kategorienlehre, W. De Gruyter, Berlin 1950, e la sua filosofia dello spirito oggettivo nel volume Das Problem des geistigen Seins. Untersuchungen zur Grundlegung der Geschichtsphilosophie und Geschichtswissenschaften, W. De Gruyter, Berlin 1933. Hartmann è autore anche di una voluminosa Etica (Ethik, W. De Gruyter, Berlin 1926) e di una filosofia dell’arte (Ästhetik, W. De Gruyter, Berlin 1953). L’assenza di una trattazione sistematica della religione nella filosofia di Hartmann non deve sorprendere, avendo egli esplicitamente fatto professione di ateismo. Cf. infra, § 2, sub finem. 9 Questo, infatti, è l’anno in cui venne pubblicato il primo volume di Ideen, nel quale vengono esplicitamente formulati i concetti fondamentali (riduzione fenomenologica, immanenza assoluta, coscienza pura) dell’“idealismo fenomenologico” di Husserl.
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saggio apparso in Italia nel 1979, Critica della gnoseologia fenomenologica10, e in un articolo in inglese del 1986, Intentionality and Dialectical Reason11, abbiamo già cercato di mettere in luce le insolubili antinomie, in cui si avvolge il tentativo husserliano di articolare una visione idealistica del mondo sulla base del principio della Ragione eteronoma. In questo saggio prenderemo in considerazione il tentativo di Hartmann di elaborare una complessa filosofia sistematica tenendo fermo nella maniera più radicale ed intransigente al punto di vista della Ragione eteronoma, e cercheremo di mostrare come e perché anche il programma teoretico delineato dalla sua filosofia sistematica, non diversamente da quello husserliano, sia ineluttabilmente destinato al fallimento.
§ 2. Lineamenti della “filosofia sistematica” di Nicolai Hartmann Secondo Hartmann la conoscenza si distingue essenzialmente da altri atti intenzionali della coscienza quali l’immaginazione, il pensiero e il sentimento, per il fatto che, mentre l’oggetto di quest’ultimi sarebbe inseparabile dalla coscienza del soggetto che se lo rappresenta, l’oggetto della conoscenza possiederebbe invece una esistenza “in sé” nel mondo esterno, che sarebbe precedente e indipendente dall’atto di coscienza in cui esso viene consaputo. La conoscenza, dunque, per Hartmann implica sì una relazione tra soggetto ed oggetto, ma tale relazione sarebbe meramente esterna o “trascendente”, perché, mentre il primo non potrebbe sussistere né essere pensato senza il secondo, e sarebbe perciò meramente finito e passivo rispetto ad esso, il secondo sussisterebbe invece anche se nessun soggetto conoscente se lo rappresentasse. In se stesso, dunque, l’“oggetto” del conoscere sarebbe indifferente al suo divenir oggetto di un atto conoscitivo, e perciò la sua corrente denominazione, in tedesco, coi termini “Objekt” e “Gegenstand” viene ritenuta da Hartmann, a rigore, fuorviante. Esisterebbe infatti nell’oggetto un elemento “transoggettivo” (transobjektiv), coincidente appunto con la sua originaria identità indifferente rispetto all’atto della conoscenza, che verrebbe indebitamente celato dalle implicazioni semantiche di tali termini, che accennano piuttosto ad una relazione essenziale, costitutiva col soggetto. Al fine di mettere in evidenza la cruciale rilevanza gnoseologica di tale residuo, egli contrappone la concezione della conoscenza come “oggettivazione” (Objektivation o Objektivierung)12 di un concetto a quella per cui essa non è altro che l’“ob-jezione” (Objektion) di una cosa reale. Il punto di vista 10
Cf. G. Rinaldi, Critica della gnoseologia fenomenologica, Giannini, Napoli 1979. Cf. Id., “Intentionality and Dialectical Reason”, in: “The Monist”, 1986, vol. 69, n. 4, p. 268-85. 12 Cf. “Systematische Selbstdarstellung“, cit., p. 19. 11
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assunto dalla prima, che è quella generalmente sostenuta dall’idealismo gnoseologico, viene da lui designato col termine scolastico di “intentio obliqua”, e viene perentoriamente rifiutato, giacché per esso l’oggetto non è altro che il prodotto dell’attività “oggettivante” del soggetto, e perciò il suo essere-insé si risolve senza residuo nel suo essere-per il soggetto che lo tematizza. Il punto di vista della seconda è invece quello tipico del realismo gnoseologico o dell’“intentio recta”, ch’egli invece incondizionatamente approva, per il quale l’attività del conoscere non produce, in realtà, altro che un’“immagine” (Bild) dell’oggetto conosciuto, la cui identità reale non coincide perciò con la sua relazione al soggetto, e costituisce appunto l’elemento “transoggettivo” dell’atto del conoscere. Da questo punto di vista, il progresso della conoscenza umana non consisterebbe in altro che nella produzione di una serie di immagini sempre più fedeli e complete dei suoi possibili oggetti, la cui identità reale, tuttavia, non verrebbe minimamente modificata da tutte le successive “ob-jezioni” ch’essa può subire nel processo del conoscere. La “trascendenza” dell’oggetto rispetto alla sua rappresentazione nella coscienza non esclude dunque, secondo Hartmann, la possibilità di conoscerlo. Egli perciò critica anche lo scetticismo, ed afferma che la conoscenza umana della realtà e il suo progresso nella storia delle scienze e della filosofia sono realmente possibili. Ciò non significa, tuttavia, che essa possa progredire in infinitum, ovverosia che il limite, che separa lo sconosciuto dal conosciuto, il transoggettivo nell’oggetto dalla sua ob-jezione, possa essere spostato sempre più in là, ed ancor meno che una coscienza “adeguata” del mondo sia, almeno in linea di principio, possibile. Polemizzando, a questo proposito, aspramente con Hegel13, egli rifiuta perentoriamente la possibilità 13
All’analisi e alla critica della filosofia hegeliana Hartmann ha dedicato il secondo volume del suo unico saggio storiografico di ampio respiro, Die Philosophie des deutschen Idealismus (W. De Gruyter, Berlin 1929) e due scritti minori, Aristoteles und Hegel (in: Nic. Hartmann, Kleinere Schriften, cit., vol. 2, p. 214-52) e Hegel und das Problem der Realdialektik (ivi, p. 323-46). La concezione hegeliana della storia e, più in generale, dello spirito oggettivo viene sottoposta a serrata critica nell’opera sistematica Das Problem des geistigen Seins (cf. Id., Il problema dell’essere spirituale, a cura di A. Marini, La Nuova Italia, Firenze 1971, p. 13-16, 259-67, 447-48). La polemica antihegeliana di Hartmann è viziata alla radice dal fatto ch’egli proietta sulla metafisica dell’idealismo assoluto i presupposti e i criteri di verità, ad esso radicalmente estranei, della propria gnoseologia realistica, violando così – a prescindere dal fatto che essi risultano essere, come vedremo tra breve, in sé e per sé inconsistenti – il fondamentale requisito di ogni genuina critica filosofica, e cioè che essa dev’essere immanente al proprio oggetto. In secondo luogo, il suo rifiuto dell’“apriorismo dell’essere” (Seinsapriorismus), cioè del principio dell’identità del pensiero e dell’essere, che sarebbe condiviso dall’intera metafisica occidentale, ma che conseguirebbe la sua formulazione più estrema proprio e solo nell’idealismo hegeliano, non si basa
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su altro argomento che il rilievo delle sue presunte inevitabili implicazioni “teistiche” (cf. Aristoteles und Hegel, cit., p. 252). In realtà, non solo l’ateismo di Hartmann non è filosoficamente preferibile al teismo tradizionale (cf. infra, §§ 3-4), ma è anche sicuramente erroneo confondere l’originale metafisica “panenteistica “ di Hegel (cf. G. Rinaldi, Tragedia, riconoscimento e morte di Dio nel pensiero di Robert Williams, cit., n. 26) con qualsivoglia versione del teismo trascendente. Un’altra fondamentale obiezione rivolta da Hartmann contro la Logica speculativa hegeliana è che il metodo dialettico presuppone a priori che tutte le contraddizioni da esso esplicate possano e debbano trovare una soluzione o “riconciliazione”, laddove il principio fondamentale dell’“aporetica” hartmanniana afferma per contro che la soluzione delle antinomie non solo non è mai necessaria, ma, nella maggior parte dei casi, addirittura impossibile. Ma se le cose stanno veramente così, quale senso mai può avere continuare ad elaborare problemi, la cui soluzione è in partenza ritenuta impossibile? Nell’ontologia realistica di Hartmann la metafisica viene degradata ad uno sterile esercizio del pensiero, la cui “assenza di scopo” (Zwecklosigkeit) Hartmann stesso, del resto, è infine costretto a riconoscere (cf. Aristoteles und Hegel, cit., p. 220; e infra, § 3.4, sub finem). Per quanto concerne, infine, il criterio da lui addotto per distinguere la “dialettica reale” della natura e della storia dalle “artificiose” costruzioni ideali elaborate dalla Logica hegeliana, e cioè che le contraddizioni esplicate dalla prima avrebbero, a differenza delle seconde, un fondamento nella costituzione oggettiva dei “fenomeni” reali (cf. Hegel und das Problem der Realdialektik, cit., p. 338), esso presuppone palesemente l’adesione al principio gnoseologico fondamentale della fenomenologia husserliana, “soviel Schein soviel Sein”, il quale, tuttavia, non solo è del tutto estraneo all’orizzonte concettuale della filosofia hegeliana, ma viene da essa esplicitamente tematizzato, criticato e respinto. La tesi, infatti, che l’immediata evidenza intuitiva dei dati della “certezza sensibile”, o, più in generale, del “sapere immediato”, sarebbe come tale una garanzia sufficiente della loro oggettiva verità, soccombe alla critica hegeliana della verità della “certezza sensibile” e della “percezione”, svolta nei primi due capitoli della Fenomenologia dello spirito (cf. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in: Id., Werke in zwanzig Bänden, Frankfurt/ M. 1970, p. 82-107), e a quella, più generale, dell’intuizionismo gnoseologico, delineata nell’“Introduzione” all’Enciclopedia delle scienze filosofiche (cf. Id., Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), in: Id., Werke, cit., Bd. 1, §§ 61-78). La critica hartmanniana del concetto hegeliano dello spirito e del suo sviluppo storico, infine, non consiste in altro che nel rilievo della sua discrepanza – certamente innegabile! – rispetto alla concezione ontologico-realistica della sua essenza da lui elaborata, secondo cui esso non sarebbe che un fatto temporale e finito, che inesplicabilmente “emerge” nel cieco divenire della natura materiale e organica, e che si distingue dalle cose inorganiche e dai fatti psichici solo perché alla sua essenza ineriscono proprietà specifiche quali la libertà, la percezione emozionale dei valori e la storicità, che non sono reperibili negli strati ontologici inferiori (cf. Nic. Hartmann, Il problema dell’essere spirituale, cit., p. 87-96, e anche le interessanti osservazioni di A. Marini in proposito nella “Prefazione”, ivi, p. XIX-XXIV). In realtà, la genuina concezione filosofica dello spirito prova con incontrovertibile evidenza che esso, lungi dal consistere in un “essere” o fatto immediato, empiricamente osservabile dall’esterno, è piuttosto
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di un “sapere assoluto”. Oltre i limiti mutevoli e superabili che la conoscenza incontra nel suo sviluppo storico, esisterebbe infatti anche un limite assoluto, invalicabile – una peculiare “angustia” (Enge)14 della coscienza umana –, ch’egli cerca di rendere plausibile mettendo sistematicamente in luce le contraddizioni o “aporie”, che in larga misura certamente ineriscono ai dati intuitivi, o fenomeni, dell’esperienza umana del mondo, e ch’egli ritiene siano «per la maggior parte insolubili». Per lui, infatti, come in genere per i teorici della Ragione eteronoma, la concordante evidenza dei dati dell’intuizione sensibile è la sola garanzia della loro effettiva corrispondenza all’oggetto esterno o trascendente mediante essi rappresentato, e dunque della loro verità. Nel processo dell’ob-jezione dell’oggetto, dunque, solo una “parte” di esso potrebbe essere percepita, e divenir così oggetto di conoscenza. In esso perciò rimarrebbe sempre, di fatto, un “residuo” (Rest) irrazionale, la cui entità diverrebbe tanto maggiore quanto più l’atto del conoscere si sforza di risolvere i problemi “ultimi” e “fondamentali” concernenti l’essenza profonda della realtà. Quest’ultima, di conseguenza, sarebbe destinata a rimanere, in definitiva, “enigmatica” (rätselhaft), se non addirittura inconoscibile. Laddove, dunque, il punto di vista della Ragione autonoma afferma, per dirla con Hegel, l’identità assoluta (seppure non statica, bensì dinamica) di Ragione e realtà, il punto di vista della Ragione eteronoma assunto da Hartmann ammette per contro soltanto un’identità meramente finita, parziale, relativa tra esse; e il fondamento ultimo di tale identità, per di più, viene da lui riposto non già nell’attività produttiva dell’Io autocosciente o del pensiero puro, bensì nella passiva adeguazione delle rappresentazioni sensibili della coscienza finita all’identità indifferente dell’oggetto trascendente. L’ontologia di Hartmann condivide dunque esplicitamente e incondizionatamente la convinzione, tipica del senso comune15, che esista una pluralità reale di oggetti materiali sussistenti al di fuori della coscienza che li tematizza, e che le proprietà che il dato fenomenico ad essi ascrive ineriscano nella loro essenza oggettiva prima e indipendentemente dalla sua relazione un puro atto che pone o media assolutamente sé stesso; che perciò trascende essenzialmente l’intera sfera della natura, della temporalità e della finitezza; e che si costituisce come una totalità attualmente infinita, in cui l’esistenza finita dell’io personale o dello spirito di una comunità non è altro che un fenomeno o momento non-indipendente e, in definitiva, inattuale. 14 Cf. A. Marini, “Bewusstsein als Verengung. Freiheit, Möglichkeit und Zeit bei Nicolai Hartmann”, in: “ACME” (Università di Milano), vol. XXXIX, fasc. III, sett.-dic. 1986, p. 723, qui p. 20.
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“Systematische Selbstdarstellung”, cit., p. 11. Cf. A. Marini, “Bewusstsein als Verengung”, cit., p. 9.
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col soggetto percipiente. Così, tuttavia, sembra potersi spiegare solo la conoscenza empirica degli oggetti singolari, ma non già la “conoscenza apriorica” (apriorische Erkenntnis) delle “legalità” (Gesetzmäßigkeiten) essenziali, che determinano in maniera universale e necessaria il loro divenire e le loro relazioni reciproche, e che anche per Hartmann sono non meno evidenti e incontestabili del dato fenomenico singolare. Ma com’è possibile la conoscenza a priori? Hartmann rifiuta giustamente la tipica soluzione empiristica, che la riduce ad una mera generalizzazione induttiva dei dati singolari manifestati dalla percezione sensibile; ma, come si è detto, non vuole neppure accettare l’opposta soluzione idealistica, che deduce invece l’intero contenuto del conoscere dallo sviluppo immanente del pensiero puro. Quest’ultimo, infatti, a suo giudizio, non produce altro che vuote identità analitiche, prive di realtà oggettiva e di contenuto determinato. Egli pertanto fa appello alle teorie husserliane degli “oggetti generali” (allgemeine Objekte)16 e della “visione dell’essenza” (Wesensschau)17, che fondano le legalità a priori inerenti negli oggetti reali singolari su una pluralità di oggettività “irreali” che, per quanto prive di realtà effettiva, sarebbero tuttavia anch’esse “esistenti”, ma in un diverso senso del termine, in quanto cioè costituiscono l’oggetto (ideale, meramente possibile) di proposizioni sintetiche a priori o, meglio, “apriorico-materiali”, o, più in generale, di giudizi ritenuti logicamente “validi”. A dispetto dell’aggettivo “ideale”, usato da entrambi i filosofi per specificare la loro peculiare modalità d’essere, essi non hanno in realtà nulla in comune con le Idee di Platone. Quest’ultime, infatti, costituiscono per il grande filosofo greco la realtà vera, assoluta (pantelōs on)18, laddove le cose sensibili sarebbero soltanto apparenze illusorie, inconsistenti, imperfette imitazioni delle Idee. Le “essenze” di Husserl, al contrario, non diversamente dagli “oggetti ideali” di Hartmann, costituiscono una classe di oggetti, per così dire, di “serie B”, sono delle mere possibilità o astrazioni inattuali, laddove la vera realtà (gli oggetti di “serie A”) coinciderebbe piuttosto con la molteplicità delle cose materiali singolari individuate
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Cf. E. Husserl, Logische Untersuchungen, Niemeyer, Halle 1922, vol. 2, “Erste Untersuchung”, p. 99-101. 17 Cf. ivi, “Zweite Untersuchung”, p. 106 ss.; Id., Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch, cit., §§ 3-4; Id., Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Drittes Buch, cit., p. 29-30; Id., Erfahrung und Urteil, hrsg. von L. Landgrebe, Glassen & Goverts, Hamburg 1954, §§ 81-93. 18 Cf. Platone, Civitas, in: Platonis opera, ex rec. R.B. Hirschigii, ed. Firmin-Didot, Parisiis 1891, vol. 2, 477a, 4; e Id., Sophista, ivi, vol. 1, 248e-249a, 28-29.
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nello spazio e nel tempo19. Alla sfera d’essere degli oggetti ideali corrisponderebbe nella mente del soggetto che li intuisce un peculiare atto intenzionale, la “visione dell’essenza”, che condividerebbe con la percezione sensibile il carattere dell’immediatezza intuitiva, ma si distinguerebbe da essa appunto per il fatto che il suo oggetto non è un fenomeno singolare, bensì una possibilità a priori. La scomposizione hartmanniana dell’oggetto della conoscenza nella classe degli oggetti ideali e in quella degli oggetti reali, tuttavia, è soltanto il preludio all’ulteriore, e non meno cruciale, scomposizione della stessa classe degli oggetti ideali in due sfere del pari eterogenee: quella degli oggetti ideali della conoscenza teoretica stricto sensu e quella dei “valori”, che costituirebbero invece il correlato oggettivo della coscienza assiologica o valutativa, e che si suddividerebbero, a loro volta, nella classe dei valori morali, oggetto della conoscenza pratico-emozionale, e in quella dei valori estetici. Hartmann ammette senz’altro che quest’ultimi siano essenzialmente relativi al soggetto che crea o contempla l’opera d’arte, o l’oggetto naturale giudicato bello; ma nega perentoriamente che tale sia il caso dei valori etici. Essi, infatti, sono da lui ritenuti “oggetti” in senso enfatico, proprio come lo
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Nella sua filosofia della natura, ad es., Hartmann dichiara esplicitamente che l’essere ideale «ist nur ein allgemeines und unvollständiges Sein» (Nic. Hartmann, Philosophie der Natur, cit., p. 137). Nella misura in cui sia Platone che Hartmann distinguono due diverse sfere dell’essere, quella degli oggetti sensibili e quella degli oggetti ideali, ma il secondo rovescia il rapporto di verità e dignità ontologica stabilito tra essi dal primo, si può certamente parlare di un “rovesciamento” del platonismo attuato dall’ontologia di Hartmann. Ciò non toglie, tuttavia, che l’interpretazione del suo significato proposta da Remo Cantoni, secondo il quale essa sarebbe una sorta di «platonismo rovesciato e reso antropologico» (R. Cantoni, Che cosa ha veramente detto Hartmann, Ubaldini, Roma 1972, p. 161), debba senz’altro ritenersi erronea. Da un lato, infatti, la sfera delle essenze ideali è priva, secondo Hartmann, non solo di realtà, ma anche di qualsiasi relazione interna con la psiche e lo spirito umano; dall’altro, questi ultimi costituiscono solo uno “strato dell’essere” particolare, che non esaurisce la totalità dell’essere reale, ed è per di più condizionato dalla “più forte” natura materiale ed organica, che è così la vera realtà positiva e in ultima istanza determinante. Un possibile “platonismo antropologico”, comunque ulteriormente configurato, dovrebbe piuttosto rivendicare per lo meno la sostanziale indipendenza dello spirito umano dal divenire temporale della natura materiale e la sua priorità ontologica rispetto ad essa. Nel medesimo errore incorre F. Barone nel saggio Il pensiero di Nicolai Hartmann, da lui premesso alla sua trad. it. di Zur Gundlegung der Ontologie, quando afferma che «l’etica hartmanniana unisce al platonismo dei valori un rigoroso umanismo» (Nic. Hartmann, La fondazione dell’ontologia, a cura di F. Barone, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1963, p. 28).
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sarebbero le cose materiali che percepiamo nel mondo esterno, e costituirebbero perciò un principio di determinazione del volere radicalmente eteronomo. La volontà dell’uomo, afferma Hartmann, viene passivamente “afferrata” (gepackt)20 dalla percezione dei valori, non ne determina spontaneamente il contenuto. La relatività e la mutevolezza storica delle valutazioni morali, ch’egli riconosce, viene da lui spiegata col fatto che essi, per quanto in sé “assoluti”, costituiscono tuttavia una molteplicità indeterminata, che non può esser afferrata tutta in una volta dalla loro percezione emozionale da parte dell’uomo, nella quale egli scorge la peculiare funzione pratica della “ragione” (Vernunft)21, che sarebbe perciò non meno “angusta” (eng) della sua coscienza teoretica e lo costringerebbe a selezionare arbitrariamente il valore da realizzare, scartando in maniera altrettanto arbitraria altri valori differenti o addirittura opposti. Laddove, dunque, i valori morali, in quanto puri oggetti ideali, sarebbero in sé assoluti, la reale coscienza umana del valore, che sola determina il comportamento reale degli individui, sarebbe invece inevitabilmente relativa, mutevole e casuale. Da quanto abbiamo sinora accennato emerge con chiarezza, noi crediamo, il carattere radicalmente pluralistico dell’ontologia di Hartmann. Il soggetto dell’atto del conoscere viene da lui identificato con un “ente” reale radicalmente differente dagli oggetti da lui conosciuti. Quest’ultimi, a loro volta, si distinguerebbero in oggetti reali e oggetti ideali, e gli oggetti ideali sarebbero possibili e pensabili anche qualora i corrispettivi oggetti reali non esistessero. La sfera degli oggetti reali, d’altra parte, viene articolata da Hartmann in una pluralità di “strati d’essere” (Seinsschichten: la materia inorganica, l’organismo vivente, la psiche e lo spirito) del pari eterogenei, le cui relazioni sarebbero, ancora una volta, meramente esterne. La sfera degli oggetti ideali si dirimerebbe invece nelle classi dei significati logici, delle essenze apriorico-materiali e dei valori, e ciascuna di queste classi sarebbe ulteriormente analizzabile in una molteplicità indefinita di oggetti particolari essenzialmente eterogenei. Ma come negare che il mondo da noi esperito e conosciuto è, in definitiva, possibile solo in quanto gli enti in esso distinguibili, e lo stesso soggetto pensante che li distingue, costituiscono un’unità? E com’è possibile conoscere gli enti particolari senza conoscere tale unità? Hartmann stesso una volta si pone queste domande, e tenta di dare una risposta ammettendo sì l’unità profonda del mondo, ma negando perentoriamente che essa sia conoscibile:
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Cf. “Systematische Selbstdarstellung”, cit., p. 37. Cf. ivi, p. 39.
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«Ciò non significa che la metafisica costituisca un aggregato casuale di problemi disparati. Essa è certa dell’unità del suo oggetto, sebbene questo non sia senz’altro afferrabile. Gli ambiti parziali, cui la molteplicità dei problemi si riferisce, sono infatti, in ultima istanza, aspetti parziali di un solo e medesimo mondo»22.
Ma è chiaro che un’unità che non può esser per principio “afferrata” è anche epistemologicamente del tutto sterile, è una parola vuota che non può svolgere nessuna determinata funzione teoretica nel processo del conoscere. Quest’ultimo, dunque, per Hartmann si risolve senz’altro, di fatto, nella mera scomposizione analitica dell’oggetto della conoscenza in una molteplicità radicale di enti privi di qualsiasi determinata unità intelligibile. Questo fondamentale risultato dell’ontologia di Hartmann lascia chiaramente presagire che il concetto di “filosofia sistematica” da lui formulato si distingue significativamente da quello che è storicamente prevalso nello sviluppo storico della filosofia occidentale, e segnatamente da quello richiesto dall’ideale teoretico della Ragione autonoma. Quest’ultima, infatti, come si è detto, è una e attualmente infinita, e perciò ogni possibile molteplicità, reale o ideale, testimoniata dall’esperienza o costruita dal pensiero, non è in verità nulla più che l’oggettivazione o la manifestazione della sua originaria identità o unità con sé. Una conoscenza del mondo che non sia, nel contempo, conoscenza della sua unità determinata, dunque, è, da questo punto di vista, per principio impossibile. La stessa essenza del conoscere, del resto, non consiste in altro che nell’unificazione, nella connessione, nella sintesi a priori del molteplice in virtù dell’unità dell’autocoscienza; e l’unità dell’autocoscienza non costituisce soltanto il fondamento assoluto di ogni possibile conoscenza, ma anche il principio produttivo ultimo di ogni realtà. Hegel perciò nella Fenomenologia dello spirito giustamente afferma che la tesi fondamentale asserita dalla figura fenomenologica della Ragione (Vernunft) è che «l’Io è ogni realtà»23. La filosofia sistematica, di conseguenza, non è altro – come già Fichte aveva profondamente osservato nella Wissenschaftslehre 1804 – che «la riduzione del molteplice all’unità (die
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«Das bedeutet nicht, daß Metaphysik ein zufälliges Aggregat von auseinanderliegenden Problemen bildet. Die Einheit ihres Gegenstandes ist ihr dennoch gewiß, wennschon nicht ohne weiteres greifbar. Denn die Teilgebiete, denen die Vielheit der Fragestellungen zugehört, sind schließlich Teilaspekte einer und derselben Welt» (ivi, p. 46). 23 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 179.
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Zurückführung des Mannigfaltigen zur Einheit)»24, o, viceversa, la deduzione della molteplicità definita delle categorie, cioè dei “modi di agire dell’intelligenza”25, dall’unità originaria dell’autocoscienza. Il saggio di Hartmann sulla filosofia sistematica è perciò prevedibilmente dedicato, in buona parte, proprio alla critica e al rifiuto di quello ch’egli chiama il “Systemdenken” della filosofia tradizionale, e specialmente della filosofia “speculativa” di Hegel, contro la quale egli polemizza con particolare acrimonia26. Se l’oggetto del nostro conoscere è in sé radicalmente molteplice, e se l’unità del mondo è inconoscibile, allora ogni tentativo di dedurre la sua molteplicità dall’unità di un principio assoluto non può certamente evitare di metter capo all’“artificiale” costruzione di un sistema che indebitamente coarta, mutila, falsifica la “naturale” eterogeneità dei “fenomeni” manifestati dall’intuizione sensibile e dalla percezione emozionale dei valori. Se qualcosa come un “pensiero sistematico” è ancor oggi possibile e imprescindibile – e Hartmann è certamente convinto ch’esso lo sia, come la sua intera produzione filosofica27 indubbiamente prova –, allora esso dovrà assumere il ben diverso carattere del “pensiero problematico” (Problemdenken). Come abbiamo già osservato, il processo di ob-jezione dell’oggetto trascendente mette inevitabilmente capo all’identificazione in esso di un residuo “irrazionale”, che non può come tale costituire l’oggetto di una conoscenza adeguata. Per quanto in sé inconoscibile, il suo contenuto problematico potrebbe tuttavia essere in qualche modo “pensato”, perché, come si è già detto, per Hartmann, come già per Kant, il pensare non coincide col conoscere. Il pensiero problematico consiste dunque nella mera elaborazione concettuale di tale residuo irrazionale, che esplica in esso le determinate contraddizioni, antinomie o, come Hartmann preferisce esprimersi, “aporie”, che lo rendono per l’appunto incomprensibile. Il pensiero problematico, dunque, è un pensiero essenzialmente aporetico. Ora, le aporie ch’esso elabora, senza necessariamente risolverle, inerirebbero a tutti gli strati dell’essere e a tutte le classi di oggetti che l’analisi descrittiva dei fenomeni (ch’egli identifica col primo, e più elementare, stadio della filosofia sistematica, quello della “fenomenologia”) distingue in essi; ma diverrebbero specialmente evidenti, e meno facilmente risolubili, come si è già detto, quando il pensiero filosofico affronta i problemi “ultimi” 24
J.G. Fichte, Wissenschaftslehre 1804, in: Id., Nachgelassene Werke, Bd II, hrsg. von I.H. Fichte, Bonn 1834, p. 94. 25 Cf. Id., Über den Begriff der Wissenschaftslehre oder der sogenannten Philosophie, in J.G. Fichte’s sämmtliche Werke, hrsg. von I.H. Fichte, Bonn 1846, I Abth., Bd. 1, p. 71-72. 26 Cf. supra, n. 13. 27 Cf. supra, n. 8.
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e “fondamentali” della conoscenza, quelli che un tempo venivano considerati di esclusiva pertinenza della “metafisica” (gli esempi addotti da Hartmann sono quelli del rapporto tra meccanismo e teleologia, libertà e necessità, unità e molteplicità, ecc.). La trattazione puramente aporetica dei problemi della metafisica, di conseguenza, costituisce per Hartmann la finalità ultima della filosofia sistematica. Ma anche dopo la loro elaborazione aporetica i detti problemi rimangono, per lo più, insoluti; solo in pochi casi – egli adduce ad esempio il problema del rapporto tra determinismo e libero arbitrio, su cui avremo modo di tornare tra breve – essi possono trovare una qualche soluzione. Quando ciò si verifica, un nuovo stadio nello sviluppo del pensiero sistematico, quello della “teoria” stricto sensu, viene ad aggiungersi a quelli già da lui in precedenza distinti, e cioè lo stadio dell’analisi fenomenologica del dato intuitivo e quello dell’elaborazione del suo contenuto aporetico. Ma anche la “teoria”, ch’egli distingue dalla “fenomenologia”28 è, in realtà, più la “visione sintetica” di un nesso di essenze che la costruzione di una coerente totalità concettuale e inferenziale: «Teoria significa “visione”. Oggi lo si è quasi dimenticato. Come puro guardare essa fu concepita da Aristotele. Essa non significa perciò né la dottrina né il
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L’inconsistenza di questa cruciale distinzione hartmanniana, che perde di vista il fatto che, da un lato, la stessa fenomenologia, in quanto analisi descrittiva di essenze a priori, ha tutti i titoli per essere considerata essa stessa una “teoria”, e, dall’altro, la teoria, in quanto consistente in una “visione” dell’essere reale, ha palesemente carattere “fenomenologico”, non è sfuggita a E. Paci (cf. E. Paci, La filosofia contemporanea, Garzanti, Milano 1957/ 74, p. 190), che per il resto, tuttavia, propende piuttosto per una lettura positiva, anzi apologetica, dell’ontologia di Hartmann. Il merito principale della sua concezione problematica della “metafisica” consisterebbe nel fatto che essa, identificando l’essenza assoluta, l’“essere-in-sé” della realtà con l’“irrazionale”, cioè con la fatticità “ontica” dell’esistenza temporale, eviterebbe l’errore fondamentale della metafisica tradizionale, cioè l’identificazione del suo oggetto con quello dell’“ontologia”, che, in quanto scienza del logos dell’ente, tematizza piuttosto l’opposto contraddittorio dell’irrazionale (cf. ivi, p. 193-94). A Paci si potrebbe replicare che il concetto dell’essere-in-sé della realtà, nella misura in cui esso non consiste in altro che nella sua assoluta identità con sé e negazione del suo essere-peraltro, non solo non coincide con quello dell’esistenza temporale, che si risolve appunto in tale essere-per-altro (in quanto esteriorità e immediata negatività), ma ne costituisce piuttosto la più radicale, insuperabile confutazione. Il concetto di “metafisica” teorizzato da Hartmann e Paci appare perciò non meno assurdo di quello di una improbabile geometria che elevasse a proprio assioma fondamentale… l’identità immediata dell’essenza del quadrato e di quella del circolo!
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sistema, né la spiegazione né la fondazione. Essa non significa altro che il penetrante guardare, la pura evidenza come tale, nella misura in cui essa, sulla base di ulteriori ricerche e prudenti procedure, vede più che l’ingenuo guardare»29.
Nonostante questo esplicito richiamo di Hartmann alla theoria aristotelica, l’oggetto di quest’ultima è in realtà radicalmente diverso, anzi opposto a quello della sua ontologia. L’“essere in quanto essere” (to on he on), che il pensiero aristotelico rende tematico, è la “natura” (physis), che è sì, non diversamente dal “mondo reale” (reale Welt) di Hartmann, una molteplicità di enti esterni all’unità del pensiero autocosciente; ma essi sono unificati da un ordine gerarchico e teleologico (scala naturae), che consente di distinguere in essa una serie progressiva di gradi di realtà e valore. Il vero essere, l’Ente più “potente”, è l’atto o la forma pura del pensiero autocosciente (noēsis noēseōs), che è il fine o valore supremo, che il divenire dell’intera natura tende ad attuare, e coincide con lo stesso concetto metafisico di Dio; laddove l’elemento materiale e meccanico, in essa altresì presente, non è altro che inattuale “potenza” (dynamis), cioè relativo non-essere (prope nihil). Per Hartmann, al contrario, il grado di realtà degli strati dell’essere distinti dalla sua ontologia è inversamente proporzionale a quello della perfezione dei valori che possono in essi realizzarsi: lo strato dell’essere più reale e potente coincide perciò col cieco meccanismo della natura materiale, mentre l’ideale più elevato che la percezione emozionale dei valori può manifestare è anche quello più “debole”, impotente e irreale30. Da questa dualistica contrapposizione tra il principio della realtà e quello del valore Hartmann desume altresì un argomento per provare l’inesistenza di Dio. Il concetto di Dio elaborato dalla metafisica tradizionale, ch’egli fa proprio, è infatti quello di un Ente che comprende in sé la totalità delle “perfezioni” della realtà, ed è perciò, nel contempo, l’essere più reale e potente e l’ente fornito di maggior valore. Hartmann ammette, a differenza dell’“ateismo dogmatico”, che tale concetto non è logicamente contraddittorio; ma esso contraddice per lo meno alla fondamentale struttura ontologica del mondo reale delineata dalla sua ontologia, ed egli perciò propende per una sorta di “ateismo metodologico”, che esclude dall’ambito teoretico della metafisica ogni possibile riferimento a qualsivoglia concetto del Divino: 29
«Theorie heißt “Schau”. Man hat das heute fast vergessen. Als reines Schauen war sie von Aristoteles gemeint. Ihr Sinn ist also weder die Lehre noch das System, noch etwa Erklärung oder Begründung. Ihr Sinn ist einzig das eindringende Schauen selbst, die reine Einsicht als solche, sofern sie auf Grund weiteren Umschauens und vorsichtigen Verfahrens mehr sieht als das naive Hinschauen» (“Systematische Selbstdarstellung”, cit., p. 10). 30 Cf. Nic. Hartmann, Introduzione all’ontologia critica, a cura di R. Cantoni, Guida, Napoli 1972, III: “Ontologia nuova in Germania”, cap. 5, p. 213.
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«Cadono così di colpo i tipi di metafisica che hanno dominato per tanti secoli – ed è uguale che si tratti di idealismo o razionalismo, teismo o panteismo»31.
§ 3. Critica della “ filosofia sistematica” di Nicolai Hartmann La concezione hartmanniana della filosofia sistematica, qui sommariamente delineata, articola senz’altro nella maniera più compiuta e radicale il punto di vista gnoseologico della Ragione eteronoma. L’atto del pensare viene infatti da essa degradato ad una riflessione in sé vuota, meramente analitica ed aporetica, che potrebbe conseguire un riferimento alla verità, e acquisire così il valore della conoscenza stricto sensu, solo subordinandosi passivamente alla legge inerente nell’oggetto trascendente manifestato dal dato fenomenico. Ma una siffatta concezione della Ragione è veramente sostenibile? 1. La più elementare obiezione che si potrebbe rivolgere ad essa, e che lo stesso Hartmann prende in considerazione, è che se la conoscenza non è altro che un’“immagine” soggettiva che riproduce più o meno fedelmente un oggetto ad essa esterno e trascendente, è per principio impossibile stabilire se, e in che misura, essa sia vera, perché a tal uopo sarebbe necessario effettuare un confronto tra l’immagine e l’originale, il quale, tuttavia, in quanto radicalmente esterno e trascendente rispetto all’atto del conoscere, non può esser in alcun modo da esso consaputo. In altre parole, la coscienza d’immagine presuppone di necessità la conoscenza dell’originale, che è per contro resa impossibile dal fatto che esso è concepito come un oggetto esterno alla coscienza, e dunque in sé ignoto. Hartmann tenta di risolvere questa palese aporia affermando che la concordanza delle rappresentazioni elaborate dalla coscienza in rapporto all’esistenza dell’oggetto trascendente e alle proprietà ad esso attribuite è di per sé un “indizio” (Anzeichen)32 sufficiente – per quanto solo relativamente, non assolutamente valido – del fatto che esse realmente ineriscono ad un oggetto effettivamente esistente. Questa soluzione, tuttavia, appare senz’altro insoddisfacente e inaccettabile. Anzitutto, la conoscenza della “verità relativa” di una rappresentazione presuppone la conoscenza della “verità assoluta” quale suo imprescindibile fondamento (perché il relativo, come tale, presuppone un “altro” che non 31
Ivi, p. 218. In realtà, la polemica di Hartmann contro i sistemi “panteistici” dell’Idealismo tedesco, e segnatamente quello di Hegel, è ancor più violenta di quella da lui rivolta contro il teismo tradizionale, poiché egli scorge in essi lo sviluppo più radicale e conseguente della stessa metafisica teistica (cf. Etica, cit., vol. 3, cap. 70, p. 73-74). 32 “Systematische Selbstdarstellung”, cit., p. 23.
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può, in definitiva, pena l’antinomia del regressus in infinitum, essere se non lo stesso Assoluto); ma essa, secondo lo stesso Hartmann, non può essere garantita dal criterio di verità da lui addotto, che perciò, già per questo verso, deve ritenersi erroneo. In secondo luogo, egli sembra non comprendere che la coscienza del segno, non diversamente dalla coscienza d’immagine, presuppone la previa datità dell’oggetto significato: io posso affermare che A è segno (o indizio) di B solo se, prima di intuire A, so già, per altra via, che B esiste, e quali sono le sue caratteristiche. La percezione del fumo, ad es., può essere plausibilmente considerata come un indizio del fatto che, in un luogo da me non direttamente osservato, qualcosa brucia, solo se nella mia precedente esperienza io ho visto un oggetto che, bruciando, produce fumo. Tale originaria intuizione, tuttavia, non è per principio possibile se l’oggetto della conoscenza è un ente ad essa radicalmente esterno e trascendente, e perciò ignoto. Qualora tale oggetto non fosse una realtà stabile e permanente, bensì un ente in via di dissoluzione, l’incongruenza delle sue successive rappresentazioni sarebbe certamente un indizio del suo essere-in-sé assai più plausibile della loro concordanza, che in tal caso potrebbe esser piuttosto attribuita al prodotto soggettivo di un’illusoria abitualità percettiva. In terzo luogo, concepire la conoscenza come l’ob-jezione di un oggetto ad essa trascendente significa affermare l’esistenza di una relazione esterna (o “trascendente”, per usare il termine preferito dallo stesso Hartmann) tra soggetto e oggetto. Se, infatti, non vi fosse alcuna relazione tra essi, non vi sarebbe conoscenza del secondo da parte del primo; ma se la relazione fosse interna, il secondo non sarebbe che un contenuto immanente nella coscienza del soggetto conoscente (o, comunque, da essa inscindibile), e l’idea di una realtà “transoggettiva” nient’altro che una contradictio in adiecto. Ma le relazioni esterne – come il filosofo idealista F.H. Bradley33 vide assai meglio dell’ontologo realista Hartmann – sono per principio impossibili ed impensabili. Esse, infatti, in quanto relazioni, stabiliscono inevitabilmente un’unità tra soggetto ed oggetto, che viene per contro immediatamente negata dalla loro esteriorità. Le relazioni esterne, perciò, possono determinare solo l’essere-per-altro, non già l’essere-in-sé dei termini che esse connettono. Ma anche l’essere-in-sé e l’essere-per-altro dei medesimi termini stanno come tali in una relazione (altrimenti essi dovrebbero essere contraddittoriamente attribuiti a diversi oggetti), la quale tuttavia, in quanto anch’essa per ipotesi esterna, presuppone a sua volta una terza relazione, e
33
Cf. F.H. Bradley, Appearance and Reality. A Metaphysical Essay, Clarendon Press, Oxford 197817, p. 16-29.
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così via in infinitum. Le relazioni esterne, Bradley perciò ottimamente concluse, sono solo “apparenza”, non già “realtà”, e perciò la concezione hartmanniana della conoscenza come mera relazione esterna o “trascendente” tra soggetto ed oggetto non ne coglie la vera essenza – anzi, ne mina alla radice l’intrinseca possibilità34. 2. La manifestazione originaria della verità dell’oggetto, secondo Hartmann, è il dato fenomenico, termine di una intuizione immediata, originariamente passiva e perciò esterna all’autocoscienza dell’atto del pensare. La difficoltà che questa concezione fondamentalmente empiristica della conoscenza immediatamente solleva, oltre a quella ora accennata, è che la cognizione dell’oggetto imprescindibilmente richiede, oltre alla percezione della sua immediata singolarità, l’esplicazione della sua identità in un sistema di leggi universali e necessarie a priori, laddove il fenomeno ha, quale proprio 34
Nel saggio Zur Grundlegung der Ontologie Hartmann dedica l’intera Sezione II della Parte III (cf. Nic. Hartmann, La fondazione dell’ontologia, cit., p. 273-308) all’analisi dei cosiddetti “atti emozionali-trascendenti”, cioè stati d’animo quali la paura, la preoccupazione, l’attesa, ecc., i quali per il loro carattere “ricettivo” costituirebbero una prova fenomenologica evidente dell’esistenza del mondo esterno, e dunque del carattere “trascendente” della relazione cognitiva. Si può senza téma d’errore asserire che il successo arriso a questa infelice teoria hartmanniana è inversamente proporzionale alla sua effettiva consistenza gnoseologica. Paura, preoccupazione, attesa sono stati psichici dell’io empirico, che, in quanto finito, implica certamente una relazione ad un “altro” che, in quanto immediata negazione della sua identità con sé, è inevitabilmente ad essa esterno e “trascendente”. Hartmann tuttavia deplorevolmente dimentica che il vero soggetto dell’atto cognitivo non è già l’io empirico, bensì l’Io trascendentale, o meglio l’atto puro del pensare, che si costituisce essenzialmente come un sistema di relazioni interne, e perciò per principio esclude la possibilità di una relazione esterna o trascendente al proprio oggetto. Diversamente da quanto accade nella sfera dell’io empirico, l’oggetto dell’atto del pensare è di necessità un contenuto immanente dell’autocoscienza, che si risolve senza residuo nel processo della sua automediazione o autoctisi. Ed egli sembra altresì ignorare l’elementare verità che già Aristotele aveva invece compreso, e cioè che la conoscenza filosofica inizia solo quando i bisogni e le passioni della vita naturale immediata sono stati soddisfatti, e sono perciò divenuti un passato inattuale per la coscienza. Il fondamentale paralogismo che inficia da cima a fondo la confutazione hartmanniana dell’idealismo gnoseologico in virtù della teoria degli atti emozionali-trascendenti è dunque l’indebita confusione della coscienza empirica con la coscienza pura, l’unica, in verità, gnoseologicamente rilevante. Ma anche in rapporto alla sfera psicologica dell’io empirico l’analisi di Hartmann appare fuorviante, giacché egli trascura di tener conto del fatto che mediante la virtù del coraggio la stessa ragione finita dell’uomo può dominare il sentimento della paura – il che non significa appunto altro che negare la realtà ontologica e la rilevanza assiologia del suo oggetto esterno e trascendente. Cf., ad es., Aristotele, Etica nicomachea, 1115 a4 - 1117 b20.
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peculiare contenuto, una materia sensibile, la quale è, come tale, meramente molteplice, particolare e contingente. Husserl, come si è detto, aveva tentato di risolvere questa difficoltà postulando l’esistenza di uno specifico atto intuitivo, la “visione dell’essenza”35 (Wesensschau), che, sulla base della precedente datità dell’oggetto singolare nella percezione sensibile, coglierebbe l’identità di un nuovo e diverso oggetto, l’“unità ideale del significato” o dell’“essenza”, la cui peculiare modalità ontologica sarebbe quella della pura possibilità a priori. L’analisi descrittiva delle essenze renderebbe dunque possibile la conoscenza delle leggi universali e necessarie dei fenomeni, e costituirebbe così l’imprescindibile fondamento eidetico delle scienze positive. Nella nostra Critica della gnoseologia fenomenologica36 abbiamo cercato di mettere in luce le insuperabili antinomie in cui si avvolge la teoria husserliana della Wesensschau. Nel presente contesto potremo perciò limitarci ad accennare le non meno insolubili difficoltà che minano alla radice l’analoga teoria hartmanniana degli oggetti ideali. (a) Secondo Hartmann il senso comune è fonte di conoscenza assolutamente certa, incontrovertibile37, e proprio in nome del senso comune egli perentoriamente rifiuta la negazione idealistica della realtà del mondo esterno e, in particolare, la possibilità del “sapere assoluto” di Hegel. Ma come negare che il medesimo senso comune si rifiuta, con non minor decisione, di ammettere l’esistenza “irreale”, “incompleta”, “secondaria”, postulata invece da Hartmann (e da Husserl), di una indefinita molteplicità di entità che, pur non esistendo “realmente”, potrebbero tuttavia costituire l’oggetto di giudizi epistemologicamente ed ontologicamente validi? Per il senso comune un oggetto che in realtà non esiste non è nulla più che una finzione, artificiosamente escogitata dagli epistemologi che ne teorizzano la possibilità, e che “esiste” solo nella loro testa – al qual proposito, una volta tanto, esso non va certamente errato! D’altra parte, se l’esistenza degli oggetti ideali fosse veramente indipendente dalla mente degli epistemologi che l’affermano, non fosse cioè soltanto un prodotto della loro riflessione, dovrebbero esistere anche altre modalità della loro manifestazione alla coscienza umana in generale oltre alle teorie da essi formulate. Nessun chiarimento circa la loro natura, e nessuna prova della loro effettiva esistenza, tuttavia, è reperibile negli scritti husserliani e hartmanniani a noi noti. Infine, quando si afferma, come fa Husserl38, che l’esistenza degli oggetti ideali sarebbe provata dal fatto che è possibile formulare dei “giudizi validi” intorno ad essi, si presuppone dogmaticamente l’effettiva esistenza di tali 35
Cf. supra, n. 18. Cf. G. Rinaldi, Critica della gnoseologia fenomenologica, cit., cap. 3, §§ 7-8. 37 Cf. supra, § 2 e n. 15. 38 Cf. E. Husserl, Logische Untersuchungen, cit., vol. 2, “Erste Untersuchung”, p. 101. 36
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giudizi (le proposizioni dell’aritmetica o della logica formale?), trascurando di fornire l’imprescindibile deduzione della loro validità. Qualora tale deduzione fosse stata invece svolta, sarebbe verosimilmente apparso chiaro che, nella maggior parte dei casi, tali presunti “giudizi validi” non sono in realtà altro che meri giudizi analitici prodotti dall’attività riflessiva dell’intelletto finito, e che perciò non solo sono privi di oggettività indipendente (trascendente), bensì pure di effettiva rilevanza gnoseologica. (b) Gli oggetti ideali teorizzati da Husserl e da Hartmann, pur essendo privi, come si è detto, di esistenza reale, non sono tuttavia da essi ritenuti dei meri entia imaginaria, perché in tal caso non avrebbero alcun valore conoscitivo, bensì degli oggetti “in sé” sussistenti, indipendenti cioè dall’atto della loro conoscenza e ad esso trascendenti, proprio come lo sono i corrispettivi oggetti reali. La differenza tra oggetti reali ed oggetti ideali concernerebbe dunque solo la loro modalità ontologica, non già il carattere della loro possibile relazione ad una coscienza in generale39. Anche questa concezione ontologica, tuttavia, appare inconsistente. In che cosa, infatti, la conoscenza di un oggetto “ideale” si distingue essenzialmente da quella di un oggetto reale? Il loro fundamentum distinctionis consiste palesemente nel fatto che, mentre la seconda si fonda sulla percezione sensibile di un dato materiale (spazio-temporale), la prima è invece essenzialmente mediata dalla forma del concetto puro. Il concetto puro, tuttavia, come già Kant ben vide40, a differenza della percezione sensibile, che è una facoltà originariamente passiva o “ricettiva” dello spirito umano, è una funzione “spontanea”, cioè attiva e creativa, del medesimo. L’oggetto ideale, dunque, in quanto ideale, altro non è in verità che un ens rationis in senso kantiano, cioè un prodotto della mente che lo pensa nell’atto in cui lo pensa: non è quindi lecito affermare invece che esso sussiste prima e indipendentemente dall’Erlebnis mediante cui la coscienza ne diviene consapevole41. 39
La trascendenza dell’oggetto ideale rispetto non solo alla coscienza umana, bensì pure ad una possibile coscienza divina, viene esplicitamente affermata da Husserl: «I significati formano […] una classe di concetti nel senso di “oggetti generali”. Essi non sono perciò oggetti che, se non si trovano in qualche luogo nel “mondo”, si troveranno tuttavia in un topos ouranios o nello spirito divino; una simile ipostatizzazione metafisica è infatti assurda» (ibid.). 40 Cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., B 93 (trad. it. cit., p. 110). 41 La concezione kantiana dell’ens rationis presenta tuttavia, per altro verso, un’indubbia analogia con quella fenomenologica degli oggetti ideali. Entrambi, infatti, sono oggetti irreali, enti “negativi”, cui non corrisponde alcuna realtà oggettiva; ma entrambi si distinguono dagli entia imaginaria, perché, mentre questi sono intuizioni vuote, senza oggetto reale, essi sono invece concetti vuoti, senza oggetto, cioè universali astratti privi di realtà e individualità. Cf. ivi, B 348 (trad. it. cit., p. 288).
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(c) Sia Husserl che Hartmann indicano concordemente nella possibilità a priori la peculiare modalità ontologica degli oggetti ideali, e ritengono che essa sia per principio differente e indipendente dalla modalità della realtà attuale. Il principio metafisico della differenza radicale tra possibilità e realtà, essenza ed esistenza, essere e valore sta altresì alla base del loro comune rifiuto dell’argomento ontologico e dell’opposto argomento mediante cui Hartmann cerca di provare, al contrario, l’“improbabilità” dell’esistenza di Dio42. Ma, in realtà, l’unica possibilità veramente possibile è quella che contiene già nel suo concetto la necessità della sua realizzazione43, perché la possibilità che non ha in sé stessa la forza di attuarsi, e perciò dipende per la sua realizzazione da un ente altro da sé stessa, sta con esso in una relazione esterna, che tuttavia, come sappiamo44, è per principio impossibile. Le possibilità irreali teorizzate da Husserl e da Hartmann non sono perciò, in definitiva, altro che possibilità impossibili – una palese contraddizione in termini! Esse derivano infatti soltanto dall’arbitraria astrazione dell’identità del possibile dalla sua relazione interna alla totalità del reale e all’attività riflessiva della mente che ne forma il concetto. D’altra parte, la presunta potenza cieca della realtà materiale – dal momento che, come sappiamo, ogni possibile realtà è come tale un contenuto immanente dell’autocoscienza45 – non è in verità nulla più che la rappresentazione di tale oggetto nella coscienza empirica di chi ne afferma l’esistenza; e tale rappresentazione, per di più, è inevitabilmente autocontraddittoria e perciò falsa, nella misura in cui attribuisce realtà esterna a ciò che, in verità, è solo un contenuto immanente della propria autocoscienza. (d) La peculiare finalità della conoscenza a priori, infine, è quella di unificare la molteplicità eterogenea dei fenomeni, immediatamente data dall’intuizione sensibile, in un sistema coerente e completo di leggi universali. Gli oggetti ideali di Hartmann, tuttavia, in quanto prodotti di una riflessione meramente analitica e descrittiva, costituiscono a loro volta una molteplicità Cf. supra, § 2, sub finem. Cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in: Id., Werke in 20 Bänden, Suhrkamp, Frankfurt a. M., Bd. 2, p. 202-07; Id., Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, cit., Bd. 1, § 143 e Zusatz. Degno di nota è il fatto che nell’ambito della sua analisi della modalità della realtà effettiva Hartmann stesso ammette che l’unica vera possibilità è la “possibilità reale”, che è identica alla necessità (relativa), ma non si accorge che la differenza, da lui stabilita, tra l’essere degli oggetti ideali e l’essere reale è inficiata dalla medesima contrapposizione dualistica tra possibilità e realtà che egli stesso giustamente critica nella sfera ontologica del divenire reale. 44 Cf. supra, § 3.1 e n. 33. 45 Cf. supra, n. 35. 42 43
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indefinita, che in sé non è meno eterogenea di quella dei fenomeni sensibili, e non possono perciò in alcun modo svolgere quella funzione sintetica che sola giustificherebbe l’ammissione della loro esistenza. La teoria degli oggetti ideali di Hartmann, per questo verso, non ci offre altro che uno sterile raddoppiamento del mondo reale, e soccombe perciò, insieme a quella analoga di Husserl, al rasoio di Ockham: «entia non sunt multiplicanda sine necessitate»! 3. La situazione non migliora se prendiamo in considerazione quella particolare classe di oggetti ideali che è costituita dai valori morali. Non diversamente dai significati ideali e dalle essenze apriorico-materiali analizzati dalla conoscenza teoretica, essi sussisterebbero prima e indipendentemente dall’atto soggettivo della valutazione o percezione emozionale, in virtù del quale la conoscenza umana ne diviene consapevole. Essi, perciò, sarebbero radicalmente eterogenei anche rispetto all’essenza della volontà umana, che pure è l’unico soggetto reale che può e deve conferir loro realtà oggettiva. La voluminosa Etica, che Hartmann elabora sulla base di questa concezione del rapporto tra la volontà e i valori morali, ha perciò carattere rigorosamente eteronomo. Si potrebbe senza téma d’errore asserire che proprio nell’analisi della moralità individuale, che costituisce l’esclusivo oggetto della sua teoria etica46, il peculiare carattere eteronomo della sua concezione dell’essenza della Ragione emerge con la massima evidenza. Prendendo le distanze, a questo proposito, dallo stesso Kant, alla cui concezione “critica” ed “antispeculativa” della filosofia pur tuttavia costantemente si richiama, egli perentoriamente nega ogni possibile autonomia della ragion pratica. Il principio della determinazione del volere, infatti, nella misura in cui coincide con la percezione emozionale dei valori, sarebbe del tutto incompatibile con l’autodeterminazione della volontà umana, giacché quest’ultima viene da lui concepita come radicalmente passiva nei confronti di tale percezione. D’altra parte, l’ontologia realistica di Hartmann afferma che lo strato d’essere più originario e fondamentale del mondo reale è la natura inorganica, e che 46
La teoria hartmanniana dell’“essere spirituale”, infatti, distingue sì dallo “spirito personale” dell’individuo lo “spirito oggettivo” di una comunità e lo “spirito oggettivato”, che non è altro che l’esteriorizzazione dello spirito oggettivo nella realtà materiale dei prodotti della cultura (libri, opere d’arte, ecc.), ma nega decisamente che il secondo e il terzo siano forniti di autocoscienza e libero arbitrio. La realizzazione dei valori è perciò un compito che può essere assolto dal solo individuo. D’altra parte, Hartmann rifiuta altresì l’assunto fondamentale della concezione hegeliana dell’eticità, e cioè che in essa, a differenza della moralità individuale, l’idealità del principio etico si realizza necessariamente, per cui la totalità del suo processo, che coincide infine con quello della storia universale, si configura come l’esplicazione di un nexus finalis, cioè della categoria della teleologia interna. Cf. supra, n. 13.
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i suoi processi sono determinati dalla “cieca” necessità della causalità meccanica. Sembrerebbe, dunque, che la libertà umana, nel senso “forte” dell’autonomia o autodeterminazione del volere, che pure è imprescindibilmente richiesta per fondare in maniera plausibile la possibilità della moralità, venga vanificata alla radice da una duplice determinatio ab extra: da un lato, il determinismo reale delle leggi causali della natura materiale; dall’altro, il determinismo ideale dei valori morali. Hartmann tenta di eludere la difficoltà osservando, in polemica col finalismo della teologia e della metafisica tradizionale, che, mentre quest’ultimo, determinando in maniera immanente la stessa intima essenza del processo reale, renderebbe senz’altro impossibile la libertà umana, il determinismo causale, proprio in quanto “cieco”, concernerebbe solo l’esteriore connessione dei fenomeni, non già la “direzione” (Richtung) dei processi reali, la quale, perciò, potrebbe essere sempre arbitrariamente modificata dall’intervento dell’uomo al fine di trasformarli in strumenti idonei alla realizzazione di suoi fini47. In tale possibilità, dunque, che secondo Hartmann viene esemplificata in maniera particolarmente evidente dalla tecnica, consisterebbe il fondamento ultimo della (finita) libertà umana. È facile, tuttavia, obiettare a questo proposito che la soluzione da lui proposta delle aporie della libertà umana è puramente illusoria. Anzitutto, ammesso e non concesso che in tal modo possa esser garantita l’indipendenza della volontà dal determinismo reale delle leggi naturali, essa continuerebbe ciò nondimeno a dipendere dall’eteronoma determinazione ideale dei valori morali, e per tal verso la sua libertà verrebbe comunque resa impossibile. In secondo luogo, la modificazione della direzione dei nessi causali, nella misura in cui ha delle conseguenze reali in rapporto all’esistenza o alle proprietà degli enti naturali, diventa essa stessa un principio di determinazione reale alternativo rispetto a quello immediato, la cui efficacia causale, ad onta della sua costitutiva necessità, viene così resa, contraddittoriamente, contingente. La causalità naturale può agire se l’uomo non interviene; ma se l’uomo interviene, essa non agisce più. Se, ad es., un fiume alpino incontra un erto pendio e forma una cascata, e se l’uomo, ad un certo punto, interviene e ne devia il corso eliminando la cascata, allora questa può costituire l’effetto causale di quello, ed esso può esserne la causa meccanica, solo se l’uomo vuole così e non diversamente. Il loro nesso, perciò, non è più necessario, com’è per contro richiesto dal concetto stesso del determinismo. Il determinismo naturale cessa così di essere un vero determinismo. Infine, la libertà che Hartmann crede di poter ancora riconoscere all’uomo è chiaramente soltanto quella finita e condizionata del libero arbitrio, e il carattere meramente 47
Cf. Systematische Selbstdarstellung, cit., p. 40.
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finito del suo concetto della libertà viene chiaramente ribadito dalla sua identificazione del controllo tecnico dell’ambiente col peculiare effetto di tale libertà; ma proprio Kant ci ha insegnato a comprendere il carattere meramente illusorio della “libertà psicologica”, cioè finita, dell’uomo, e a distinguere da esso il diverso e ben più consistente concetto della sua “libertà trascendentale”, cioè dell’infinita autodeterminazione del volere48. La concezione hartmanniana della Ragione eteronoma, dunque, non è in grado di garantire la possibilità di principio della libertà umana, ma mina piuttosto alla radice la realtà del mondo morale. Le centinaia di pagine, ch’egli dedica all’esposizione sistematica della Fenomenologia, dell’Assiologia e della Metafisica dei costumi, non arrecano in realtà il minimo contributo alla soluzione di queste difficoltà di principio, anzi riescono solo, se mai possibile, ad aggravarle ulteriormente. Hartmann sostiene infatti che i valori morali, in quanto oggetti ideali, sono forniti di validità assoluta; ma essi, proprio come gli oggetti della conoscenza teoretica, sono in sé originariamente molteplici. Esisterebbe, di conseguenza, una molteplicità indefinita di valori morali assoluti, radicalmente eterogenei e, a volte, anche in conflitto tra loro49. D’altra parte, la peculiare “angustia”, cioè finitezza, ch’egli, non diversamente da Kant, attribuisce alla ragione umana (l’unica di cui egli ammetta l’esistenza, vista la sua accennata propensione per una sorta di ateismo metodologico), si estende ovviamente anche alla percezione emozionale dei valori morali (l’analogo del concetto kantiano della ragion pratica). Lo spirito umano non potrebbe dunque comprendere adeguatamente l’essenza del principio etico, ma sarebbe piuttosto costretto a selezionare arbitrariamente un determinato gruppo di valori a spese di un altro. Ciò spiegherebbe la relatività delle valutazioni umane e la mutevolezza della coscienza storica dei valori. Ma così è chiaro che il preteso assolutismo assiologico di Hartmann si rovescia in realtà nell’indebita legittimazione del più sfrenato relativismo morale. Ciò che realmente determina il comportamento umano, infatti, non è già l’astratta idealità del valore, che è in sé irreale e perciò impotente, bensì l’umana coscienza del valore, che è invece un ente reale perché individuato nel tempo50. Ma se è la reale valutazione umana a
48
Cf. a questo proposito G. Rinaldi, Teoria etica, cit., Parte I, cap. 4, §§ 33-40. Cf. Nic. Hartmann, Etica, tr. it. cit., vol. 2, cap. 55, p. 401-20. 50 Pretendere, come Hartmann pur sembra a volte fare, che sia invece lo stesso valore morale irreale, in quanto tale, a determinare il reale comportamento dell’uomo, significa, con ogni evidenza, stabilire assurdamente una relazione causale “lineare” tra due enti, il primo dei quali, pur non esistendo, dovrebbe produrre un effetto realmente esistente. Tanto varrebbe affermare che il numero tre è la causa dell’esistenza delle tre penne che vedo sulla mia scrivania! 49
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selezionare arbitrariamente il preteso valore morale assoluto e a scartare, altrettanto arbitrariamente, ad onta della loro eguale assolutezza, i valori morali che preferisce non realizzare, è chiaro che il mondo morale da essa posto in essere è essenzialmente relativo alla sua contingente individualità e alla sua finita coscienza dei valori. Quest’ultima, dunque, contrariamente a quanto Hartmann ritiene, non può costituire il legittimo fondamento ultimo e adeguato di ogni seria coscienza morale, che esige per contro la subordinazione della volontà individuale e delle sue opzioni arbitrarie ad un principio etico unico ed incondizionato, e la deduzione da esso di una molteplicità definita, “chiusa” di doveri determinati51. La sua Assiologia dei costumi edifica invece qualcosa come un supermercato filosofico, in cui sono in vendita i più eterogenei valori morali, tra i quali gli acquirenti possono scegliere a proprio gradimento quelli che preferiscono; e onde renderli più attraenti, egli conferisce loro indiscriminatamente il predicato dell’assolutezza, che in realtà, a questo punto, non è nulla più che una vuota, e fuorviante, façon de parler. In altre parole, Hartmann sembra non capire che in un universo assiologico in cui ogni possibile valore morale è assoluto, nessuno di essi è veramente tale. Sembra in effetti sfuggire al suo acume l’intima inconsistenza che inficia ogni pluralismo metafisico prima ancora che assiologico. Se fosse legittimo sostenere che esiste una pluralità di enti o di valori assoluti, allora ciascuno di essi dovrebbe costituirsi come una realtà originariamente identica a sé che esclude ogni possibile essere-per-altro o relazione ad altro. Ma ciò è impossibile, e per una duplice ragione. L’idea della molteplicità, anzitutto, implica quella di differenti entità, ciascuna delle quali non è in sé stessa una molteplicità (perché in tal caso si genererebbe un irrazionale regressus in infinitum), bensì un’unità. L’idea della molteplicità è dunque il risultato della sintesi di differenti unità, e perciò presuppone l’idea dell’unità, è ad essa relativa, e in quanto tale è priva di quella realtà assoluta che Hartmann invece a torto le attribuisce. In secondo luogo, le differenti unità, di cui la molteplicità consta, debbono stare in relazione l’una con l’altra (altrimenti esisterebbe e sarebbe pensata sempre e solo l’idea dell’unità, e non già quella della molteplicità). Ma se esiste una molteplicità di Assoluti, allora ciascuno di essi sarà una delle unità di cui il molteplice consta, la quale, tuttavia, in quanto essenzialmente relativa alle altre, è in realtà il contrario di ciò che Hartmann ritiene invece che essa sia. 4. Non meno inconsistente della fondazione hartmanniana dell’etica è la “nuova metafisica” da lui propugnata in esplicita opposizione non solo alla metafisica tradizionale, bensì pure alle tendenze antimetafisiche del pensiero 51
Cf. G. Rinaldi, Teoria etica, cit., § 61, p. 228-30.
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contemporaneo, ad es. il positivismo e il neocriticismo. Essa, come si è detto, si fonda sull’assunto che nei problemi filosofici che costituiscono l’oggetto del “pensiero problematico” non è necessariamente implicita la loro soluzione; al contrario, quanto più generali e fondamentali essi sono, tanto più rilevante diviene il “residuo irrazionale”, che si sottrae ad ogni tentativo di comprensione. Il progresso della conoscenza potrebbe perciò consistere solo nella scomposizione di tali problemi fondamentali in un molteplicità di problemi particolari, alcuni dei quali sarebbero sicuramente solubili, e nella ricerca nel dato fenomenico immediato del fondamento della loro soluzione. La conoscenza umana, dunque, tanto più progredisce quanto più aumenta il numero dei problemi “parziali” da essa risolti. Tale incremento, tuttavia, non è indefinito, perché secondo Hartmann, come si è altresì detto, esiste un limite assoluto della conoscenza umana, oltre il quale inizia il residuo irrazionale del mondo reale. In rapporto ad esso, il compito della metafisica – che proprio e solo in questa sfera conseguirebbe il suo oggetto specifico e manifesterebbe il suo peculiare carattere epistemologico – sarebbe quello di elaborare in maniera puramente “aporetica” il loro contenuto problematico, e come tale “enigmatico” (rätselhaft)52, senza pretendere di pervenire a soluzioni affrettate o impossibili. Afferma a questo proposito Hartmann: «Ogni problema può essere elaborato, e ogni passo avanti nella sua realizzazione è una intuizione positiva, sia che esso conduca a una soluzione oppure no»53.
Contro questa concezione dichiaratamente irrazionalistica del pensiero metafisico si può osservare, anzitutto, che è una pura illusione ritenere che alcuni problemi metafisici particolari siano solubili, mentre altri rimangono invece insolubili. Ciò significherebbe, infatti, dare per scontato che i problemi metafisici siano in sé molteplici ed eterogenei, e che il sistema filosofico possa e debba essere costruito – come Hartmann esplicitamente afferma – “dal basso” (von unten auf)54, cioè mediante la somma di una molteplicità di soluzioni particolari. Ciò, tuttavia, presuppone ovviamente che l’unità fondamentale del problema metafisico (che Hartmann stesso, in definitiva, riconosce nella misura in cui afferma, come si è visto, l’“unità” del mondo reale) possa essere scomposta in un aggregato di problemi particolari senza che ciò comprometta la possibilità di una loro adeguata soluzione. Ora, ciò è evidentemente possibile solo se la totalità del problema metafisico non è nulla più che la somma delle sue parti, cioè se ciascuna di esse sta in una 52
Cf. ivi, p. 8, 16, ecc. «Behandelbar ist jedes Problem, und jeder Schritt vorwärts in der Behandlung ist positive Einsicht, er mag zu einer Lösung führen oder nicht» (ivi, p. 12). 54 Ivi, p. 49. 53
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relazione esterna sia con le altre parti che con la totalità. Noi, tuttavia, ormai sappiamo che le relazioni esterne sono per principio impossibili e impensabili, e perciò dobbiamo concludere che il Tutto è presente e immanente in ciascuna delle parti, e che, di conseguenza, la soluzione di un problema particolare di necessità presuppone quella dell’unico fondamentale problema della filosofia – il problema della conoscenza dell’Assoluto o della Totalità –, proprio come, viceversa, la soluzione del problema fondamentale della filosofia contiene virtualmente in sé la soluzione di tutti i problemi particolari. La coscienza del problema in quanto problema, d’altra parte, – e, nel caso in questione, la stessa concezione del problema filosofico elaborata da Hartmann – non è essa stessa, come tale, meramente problematica, bensì apodittica, ed equivale perciò eo ipso all’eliminazione del pensiero problematico. Se, infatti, la stessa coscienza del problema fosse puramente problematica, allora sarebbe anche possibile che esso già contenesse (virtualmente) in sé stesso la sua soluzione – ciò che Hartmann, invece, apoditticamente nega – proprio come egli non meno apoditticamente nega la plausibilità dell’idealismo gnoseologico e della metafisica speculativa. Egli mostra così di non comprendere che il pensiero problematico, o la conoscenza “inadeguata”, è di per sé un pensiero meramente inattuale; che pienamente attuale e concreta è piuttosto la soluzione del problema, ossia proprio quella ch’egli chiama “coscienza adeguata”55 e ritiene impossibile; e che il pensiero filosofico, di conseguenza, si propone sempre e solo quei problemi che possono e debbono essere risolti – perché, a rigore, altri problemi, oltre quelli da esso risolti, in realtà non esistono. Ciò che Hartmann considera come gli “enigmi insolubili” dell’universo non è, in realtà, altro che un complesso di rappresentazioni soggettive del suo io empirico, che hanno esistenza reale solo relativamente alla sua coscienza inadeguata, e perciò inattuale56, e che il genuino pensiero speculativo, in quanto conoscenza sistematica dell’Assoluto, al contrario, può e deve risolvere nell’atto stesso che ne
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Ivi, p. 35. Hartmann sembra a tale proposito ignorare, o per lo meno aver dimenticato, una delle acquisizioni più originali ed illuminanti della gnoseologia spinoziana, e cioè che ogni possibile conoscenza, sia essa scientifica o filosofica, consiste solo di “idee adeguate”, laddove le “idee inadeguate” sono un prodotto dell’imaginatio, che non solo non contribuisce in nulla (neppure in maniera meramente “problematica” o provvisoria!) al progresso della conoscenza, ma è piuttosto l’unica e sola fonte dell’illusione e dell’errore. Cf. B. Spinoza, Tractatus de intellectus emendatione, in: Id., Opera, hrsg. von C. Gebhardt, Heidelberg 1924, vol. 2, p. 10 ss.; e Id., Ethica ordine geometrico demonstrata, in: Id., Opera, cit., vol. 2, Pars II, Prop. 41. 56 Nella sua Estetica Hegel osserva profondamente che, se è vero che il thaumazein, cioè la meraviglia nei confronti dell’enigma del mondo, è l’inizio della filosofia, è altresì vero che la realizzazione del suo concetto estingue di per sé tale sentimento: il
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tematizza l’oggetto. Egli sembra non rendersi conto del fatto che l’elaborazione di problemi ritenuti in partenza insolubili è un’attività della riflessione che, nel migliore dei casi, può produrre solo giudizi analitici, cioè rendere più chiaro, o formulare diversamente, un contenuto logico già in precedenza noto. Ma i giudizi analitici – come Kant, a differenza di Hartmann, ottimamente comprese – non estendono, come tali, la conoscenza umana, e non possono perciò produrre – contrariamente a quanto egli assurdamente afferma – alcuna “intuizione positiva” circa l’essenza oggettiva della realtà. Il “Problemdenken” di Hartmann non è in realtà altro che uno sterile esercizio formale, un vuoto gioco verbale, che, lungi dal costituire, com’egli crede, la vera essenza del pensiero metafisico e della filosofia sistematica, ne mina piuttosto alla radice l’intima possibilità. L’elaborazione delle aporie “metafisiche”, cioè delle contraddizioni irrisolte e insolubili inerenti nel contenuto dei “fenomeni” intuitivamente dati, non viene infatti considerata da Hartmann una prova oggettiva del fatto che l’oggetto fenomenico in questione in realtà non esiste, è soltanto un’apparenza priva di realtà assoluta, bensì semplicemente del fatto che esso, pur esistendo realmente (nella misura in cui la sua realtà effettiva sarebbe provata dall’evidenza intuitiva del fenomeno), sarebbe tuttavia in sé “enigmatico”, cioè irrazionale e incomprensibile. L’errore gnoseologico esiziale, in cui Hartmann a questo proposito palesemente incorre, è quello di non comprendere che l’“irrazionalità” di un fenomeno non è semplicisticamente la prova della inadeguatezza della “nostra” conoscenza del medesimo, bensì piuttosto della sua oggettiva inesistenza. Per Hartmann, al contrario, l’irrazionale non solo è reale, ma costituisce addirittura il carattere peculiare dell’essenza più originaria e profonda dell’essere in generale: quanto più irrazionalità tanto più essere, si potrebbe asserire parafrasando a questo proposito il celebre motto husserliano. Egli sembra non avvertire che in base a tale principio qualsiasi assurdità può essere legittimata, e che la stessa differenza tra verità ed errore viene così cancellata. Facciamo un solo esempio, che ci sembra illuminante. Il dato fenomenico intuitivo mostra con incontrovertibile evidenza che il sole gira intorno alla terra. Questa evidenza viene tuttavia contraddetta dalla teoria copernicana e galileiana, oggi generalmente accettata, la quale prova invece che si tratta soltanto di un’illusione. Ciò, tuttavia, di per sé non implica che il movimento del sole intorno alla terra sia realmente inesistente, bensì solo che la sua più profonda essenza è “enigmatica”, “irrazionale”, “inesplicabile”, giacché le leggi fisiche scoperte dal pensiero umano valgono soltanto per la “parte” dell’oggetto che può essere da esso “ob-jettata”, ma non già per il “residuo transoggettivo” del suo filosofo vero, maturo non si meraviglia più di nulla. Cf. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, in: Id., Werke, cit., Bd. 1, p. 408-09.
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assoluto essere-in-sé. Che cosa l’ontologia “critica” di Hartmann potrebbe legittimamente obiettare a questa palesemente assurda conclusione? Evidentemente nulla, giacché essa segue necessariamente dalla sua concezione “problematica” o “aporetica” della “metafisica”, che da questo punto di vista appare essere il legittimo erede dei dissoi logoi della Sofistica antica, la cui peculiare prestazione gnoseologica, com’è noto, era quella non certamente nobile di conferire una parvenza di verità a qualsiasi menzogna che i pregiudizi o gli interessi particolari dell’individuo lo inducessero a proferire.
§ 4. Conclusione Le difficoltà, le antinomie, le contraddizioni, a volte le vere e proprie assurdità, in cui la “filosofia sistematica” di Hartmann a ogni pie’ sospinto si avvolge, sono, in realtà, assai più numerose e complesse di quelle che nei limiti di questo saggio ci è stato possibile accennare57. Noi crediamo, tuttavia, che
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Oltre a quella di carattere più generale, poc’anzi accennata, potremo qui limitarci a menzionare altre due palesi assurdità, facilmente identificabili in due teorie harmanniane più specifiche, concernenti, rispettivamente, la struttura categoriale del “mondo reale” e l’essenza del “tempo reale” (Realzeit). Secondo la sua dottrina della modalità, la realtà effettiva coincide con la necessità (relativa) del nesso causale. Ciò che esiste realmente è la singolarità irripetibile dell’individuo temporale, e la sua esistenza è l’effetto necessario di una causa (finita) che lo precede nel tempo. Contro la concezione indeterministica della fisica quantistica Hartmann perciò rivendica – non diversamente dal vecchio positivismo – il carattere rigorosamente deterministico del divenire del mondo reale. Secondo la sua teoria degli strati dell’essere, tuttavia, quelli superiori sarebbero sì “condizionati” da quelli inferiori per quanto concerne la loro esistenza (Dasein) e alcune leggi categoriali che si ripetono in essi, ma sarebbero altresì dotati di un complesso di proprietà e determinazioni specifiche, che come tali costituirebbero un “novum categoriale” qualitativamente differente dalle categorie inerenti negli strati inferiori e dotato, rispetto ad essi, di “relativa autonomia” (cf. Nic. Hartmann, Introduzione all’ontologia critica, cit., III, p. 210-12). A questo punto è legittimo chiedersi: come e perché i nova categoriali possono “emergere” dal divenire reale-causale degli strati inferiori? Essi non possono essere il mero effetto meccanico di quest’ultimi, altrimenti non sarebbero (relativamente) autonomi; ma non possono neppure avere in sé stessi il fondamento del loro essere, cioè mediare sé con sé, perché allora non sarebbero dipendenti, per la loro esistenza e per certe loro determinazioni categoriali, dagli strati inferiori. Non avendo, dunque, in altro il fondamento del loro essere e neppure in sé stessi, i nova categoriali non sono in realtà altro che eventi casuali, la cui irrazionale emergenza nel divenire causale del mondo reale costituisce una sorta di “miracolo” inesplicabile, e contraddice perciò nella maniera più flagrante al principio hartamanniano dell’identità di realtà e necessità, e dunque alla sua concezione deterministica dell’essere reale; laddove la sua teoria della modalità, viceversa,
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le obiezioni da noi rivolte a questa tipica espressione del punto di vista della Ragione eteronoma abbiano reso senz’altro evidente che esso non può costituire per il pensiero filosofico odierno un’opzione praticabile, e che il progetto di una genuina filosofia sistematica può essere realizzato solo nell’opposta prospettiva della Ragione autonoma. Quest’ultima, come si è detto, si è storicamente sviluppata nell’ambito del pensiero idealistico occidentale, e ha conseguito la sua più compiuta e consistente formulazione nella filosofia speculativa di Hegel.
costituisce di per sé una perentoria confutazione del pluralismo ontologico che sta alla base della sua “costruzione del mondo reale” e della teoria degli strati dell’essere. In polemica contro la concezione idealistica del tempo elaborata da Kant e da Husserl, Hartmann sostiene che il tempo reale del divenire cosmico si distingue essenzialmente dal “tempo intuitivo” (Anschauungszeit), o coscienza interna del tempo, per il fatto che esso è una forma categoriale esterna alla coscienza umana, sussistente in sé prima e indipendentemente da essa, sebbene non sia esso stesso un evento naturale-reale, bensì solo la “condizione” (Bedingung) di un siffatto evento (cf. Nic. Hartmann, Philosophie der Natur, cit., p. 145). In esso, inoltre, la differenza tra passato, presente e futuro non sarebbe discernibile, giacché essa viene determinata solo dallo loro relazione con la coscienza soggettiva del tempo, che rientra nella sfera ontologica del tempo intuitivo, e non già del tempo reale. Ciò non esclude, tuttavia, secondo Hartmann, che lo stesso tempo reale si dirima in una serie di “ora” (Jetzt), in cui quello attualmente presente gode di un “primato d’essere” (Seinsvorrang) rispetto a quelli passati e futuri (ivi, p. 147-48). Ma com’è possibile asserire l’esistenza di tale primato senza distinguere l’ora presente da quelli passati e da quelli futuri? E com’è possibile distinguere le dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro nel tempo reale, dal momento che essi ineriscono esclusivamente al tempo intuitivo? Nel tempo reale tale differenza non sussiste, e perciò in esso tutti gli “ora” sono identici gli uni agli altri, sì che la tesi hartmanniana del primato d’essere dell’ora presente appare del tutto infondata. È certamente innegabile che, ove si sopprima la differenza tra l’attualità del presente e l’inattualità del futuro e del passato, non si può più sensatamente parlare di successione temporale, ma ciò prova soltanto la palese assurdità della distinzione hartamanniana tra tempo reale e tempo intuitivo. D’altra parte, se il tempo reale non è un evento reale, bensì solo la sua condizione, la sua peculiare modalità ontologica non potrà che esser quella dell’astratto essere ideale o possibilità a priori. Secondo Hartmann stesso, tuttavia, l’essere ideale è come tale “atemporale” (zeitlos), cioè eterno, e perciò l’essenza del tempo è la contraddizione immanente di essere l’essere che immediatamente si rovescia nel suo opposto: il tempo è la negazione dell’eterno, ma l’essenza del tempo è eterna. Dunque, l’idea di un tempo reale, e l’identificazione (condivisa anche da Husserl) della temporalità con l’essenza stessa della realtà, è radicalmente inconsistente, giacché il tempo non è nulla più che la forma a priori del mondo fenomenico, e non già delle cose in sé – proprio come voleva la dottrina kantiana della sua ’“idealità trascendentale”, a torto perciò criticata e respinta da Hartmann.
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Ma negli scritti di Hartmann sono reperibili anche numerose obiezioni da lui rivolte contro le “costruzioni speculative” di Fichte, Schelling e Hegel, ch’egli sprezzantemente respinge con la stessa decisione con cui polemizza contro ogni possibile forma di “teismo”, “panteismo” e “misticismo”, identificando in queste posizioni del pensiero filosofico e teologico nulla meno che l’origine ultima degli errori ch’egli imputa al tradizionale “pensiero sistematico”. La prima obiezione che incontriamo nel saggio Systematische Selbstdarstellung è che l’idealismo, affermando l’identità extratemporale della coscienza pura, non può plausibilmente spiegare la nascita di un bambino58. La seconda obiezione è che esso degrada il mondo esterno a mera apparenza, ma non è in grado di spiegare «su che cosa la parvenza sussista, e perché essa continui a sussistere intatta anche quando la teoria la confuta»59. La terza obiezione è che l’asserzione fichtiana e schellinghiana di una produzione inconscia dell’oggetto da parte dell’Io autocosciente contraddice senz’altro alla fondamentale tesi idealistica che identifica la realtà con la coscienza60. Si tratta, con ogni evidenza, di obiezioni assai superficiali, e persino puerili, cui non è difficile opporre una replica precisa e convincente – così per lo meno noi crediamo. Il bambino, non diversamente dell’individuo adulto, è come tale un io empirico, un’autocoscienza finita, la quale, in quanto finita, implica inevitabilmente un limite, un non-essere, coincidente in questo caso col lasso temporale che precede la sua nascita. Ma l’atto del pensare, con cui l’idealismo identifica l’essenza della realtà, non coincide già con la coscienza finita dell’io empirico (lo “spirito finito”, per dirla con Hegel), bensì con l’autocoscienza infinita dell’Io trascendentale (lo “spirito assoluto”). Quest’ultima è certamente immanente nella prima, ma, contrariamente a quanto Hartmann mostra di credere, si distingue anche essenzialmente da essa. D’altra parte, lo sviluppo ontogenetico dell’individuo organico, come del resto ogni altro processo teleologico naturale, presuppone a proprio fondamento l’identità assoluta dell’Idea logica, della quale la totalità della natura non è infatti altro che l’immanente autoalienazione o differenziazione. In secondo luogo, Hartmann stranamente dimentica che nella “Dottrina dell’Essenza” Hegel ci ha dato una minuziosa deduzione delle categorie della Parvenza (Schein) e dell’Apparenza (Erscheinung)61, mostrando come esse di necessità ineriscano, rispettivamente, alle fondamentali categorie dell’Essenza (Wesen) e dell’Esistenza (Exi-
58
Cf. “Systematische Selbstdarstellung”, cit., p. 2. «Worauf der Schein besteht, und warum er ungebrochen fortbesteht, auch wenn die Theorie ihn widerlegt» (ivi, p. 8). 60 Cf. ibid. 61 Cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., Bd. 2, p. 17-24 e 124-64. 59
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stenz). L’Essenza non è che la negatività dell’Essere immediato, e la Parvenza è appunto la manifestazione, in essa immanente, di tale negatività. L’Esistenza è una sintesi inconsistente di proprietà o relazioni in sé indifferenti nell’unità della cosa singolare, e l’Apparenza è appunto la manifestazione necessaria della contraddittorietà di tale sintesi. È certamente innegabile che la coscienza dell’apparenza continua a sussistere, per l’individuo empirico, anche dopo il conseguimento del punto di vista del Sapere assoluto. Ciò, tuttavia, è la conseguenza del fatto che le categorie logiche e le figure fenomenologiche della coscienza, in quanto fasi ideali (a priori) dello sviluppo dell’Idea o dello Spirito assoluto, non si realizzano solo in un istante o lasso di tempo particolare e irripetibile, ma sono forme permanenti, “eterne” del loro processo. D’altra parte, non sempre e non necessariamente l’individuo empirico, che è venuto a conoscenza della tesi idealistica del carattere di parvenza del mondo esterno, l’ha effettivamente compresa o ha saputo svolgere in maniera logicamente conseguente le implicazioni che da essa necessariamente conseguono. Quanto alla terza obiezione, Hartmann fraintende senz’altro il concetto idealistico dell’autocoscienza infinita nella misura in cui ritiene che esso sia incompatibile con l’ammissione della (relativa) realtà dell’inconscio. L’autocoscienza infinita, infatti, è possibile e pensabile solo come risultato, come unità mediata di soggetto e oggetto, che in quanto tale presuppone la posizione immediata della loro differenza, e dunque l’astratta soggettività di un concetto privo di realtà e l’astratta oggettività di un oggetto privo di immanente autocoscienza, ovverosia di necessità inconscio. In altre parole, l’unità dell’autocoscienza infinita, in quanto concreta, è una Totalità che comprende in sé stessa, in quanto momento negativo ed astratto, anche l’immediata realtà del suo opposto – per l’appunto l’inconscio. La polemica di Hartmann contro l’idealismo, dunque, lungi dal mettere in crisi il punto di vista della Ragione autonoma, conferma piuttosto l’insuperabile inconsistenza della sua concezione della filosofia sistematica e del suo essenziale presupposto gnoseologico – il punto di vista della Ragione eteronoma. Giunti alla conclusione di questo sommario profilo della concezione hartmanniana della filosofia sistematica, possiamo in sintesi osservare che in essa si ripresentano concentrati e potenziati tutti i peculiari caratteri e limiti della sua ontologia realistica. Essa si distingue dal superficiale positivismo, pragmatismo e nullismo, che inficia troppa parte delle tendenze dominanti del pensiero contemporaneo, per il fatto che essa tenta un approccio rigorosamente teoretico alla realtà e rivendica il perenne interesse e significato degli “eterni problemi” della metafisica. Ma i risultati concreti della sua filo-
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sofia, perpetuamente oscillanti tra la trivialità analitica delle descrizioni fenomenologiche dei dati intuitivi della coscienza immediata e la patetica celebrazione del carattere “enigmatico” e “irrazionale” dell’essenza profonda del mondo reale, appaiono senza eccezione inadeguati alle intenzioni filosofiche del loro autore, e provano in realtà soltanto, con concordante ed incontrovertibile evidenza, che il suo pregiudiziale e perentorio rifiuto dell’idealismo gnoseologico e metafisico può condurre il pensiero anche più elaborato e complesso solo in un vicolo cieco.
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Cinema & Filosofia
Rolando Longobardi, Lo schermo “Neutre”. M. Blanchot nell’interpretazione di Marie-Claire Ropars-Wuilleumier. Dallo “Spazio Letterario” allo “Spazio Filmico” Apparaître le moins possible, non pas pour exalter mes livres, mais pour éviter la présence d’un auteur qui prétendrait à une existence propre.
(M. Blanchot)
Introduzione L’utilizzo particolare della tecnica narrativa che Maurice Blanchot mostra in tutte le sue opere – come si evince ad esempio nel libro L’attente, l’oubli (1962) –, pone in evidenza una progressiva depurazione del narrare che porta il filosofo francese ad abbandonare via via la forma del saggio breve per dedicarsi totalmente alla tecnica del frammento. La sua filosofia mostra “un’inquietudine etica” capace di porsi come pratica essenziale che nello stesso tempo segna e definisce la natura stessa dell’umano, i suoi limiti e le sue contraddizioni, facendo dell’esperienza estetica, sia essa scrittura, narrazione o immagine (come vedremo, anche attraverso l’immagine filmica),
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una questione che deborda verso il problema del rapporto “neutro” con l’altro.1 L’interpretazione dell’opera diviene un’unità complessa: al gesto principale della scrittura corrisponde quello della lettura e quindi della visione, al punto che la parola scritta acquista vita nel momento in cui uno sguardo (inevitabilmente uno sguardo “altro”) la riempie di senso. Questi diversi momenti (scrivere, leggere e vedere) devono in realtà essere pensati insieme. Tale interpretazione pone l’accento sulla necessità di “co-esistenza” fra soggetto e oggetto, tra ciò che si lascia vedere e l’oggetto della visione all’interno di un terreno di condivisione (che è anche spazio di relazione). Ciò significa orientare la ricerca verso quello che Roland Barthes definisce il punctum, e che in Blanchot, sembra assumere i connotati dello spazio neutro (Neutre) in cui ri-creare quell’unità originaria indistinta nella quale il destino dell’opera stessa, l’esperienza estetica, accede verso la dimensione dell’immaginario.2 Lo spazio neutro, divenuto così immaginario, è inevitabilmente negazione del reale e quindi esperienza del vuoto, della morte, del silenzio. Quello che maggiormente affascina nello studio e nella ricerca del filosofo francese è questo spazio estetico affiorante dal rapporto con l’altro. Azione e visione appaiono essere collegate all’interno di un dire, riferibile paradossalmente solo attraverso il brusio della parola, quale esperienza ultima del comunicare. Agire etico e sguardo estetico nascono nella realizzazione dell’opera stessa anzi, rappresentano la vita dell’opera; una vita autonoma, neutra, di una parola che diviene frammento e che (si) imprime violentemente nella relazione. Si può ritenere che questo “sguardo altro“, frammentario, vivo, possa esprimersi attraverso l’esperienza delle arti visive e in particolare della “settima arte”? La lettura e lo studio dell’ultima raccolta di saggi del filosofo scomparso nel 2003, edita da Gallimard nel mese di luglio 2009, porta alla luce un particolare utilizzo della parola frammentaria capace di farsi parola politica e, come affermato dal curatore del testo Eric Hoppenot, di mostrarsi: “toujours d’actualité, en ce qu’elle manifeste chaque fois une inquiétude éthique”. Cf. Eric Hoppenot, Maurice Blanchot, Ecrits politique 1953-1993, Editeur Bibliographique Gallimard, Paris 2009. 2 Per quanto riguarda i riferimenti a Roland Barthes, cf. R. Barthes, La camera chiara. Note sulla fotografia, tr. it. R. Guidieri, Einaudi, Torino 2003. Nell’ambito della riflessione blanchotiana, la nozione di immaginario assume dei connotati specifici. All’interno dell’opera (in particolare letteraria), tra l’oggetto rappresentato e il soggetto che ne fruisce, s’instaura uno stretto spazio di relazione. L’opera, quanto più è completa in se stessa, tanto più si apre alla relazione con ciò che le è esterno e altro da sé, dal quale subisce l’attrazione. Lo spazio in cui si instaura tale rapporto è l’immaginario. Per un approfondimento su tale tematica, cf. M. Blanchot, Lautreamont e Sade, tr. it. V. Del Ninno, SE, Milano 2003; M. Blanchot, Il libro a venire, tr. it. G. Ceronetti e G. Neri, Einaudi, Torino 1969. 1
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A tale riguardo risultano particolarmente interessanti le considerazioni svolte da Marie-Claire Ropars Wuilleumier sui rapporti tra linguaggio visivo, in particolare cinematografico, e letteratura proprio attraverso la riflessione teorica di Maurice Blanchot. Ciò che il presente scritto vorrebbe analizzare, usufruendo dell’opera della ricercatrice scomparsa prematuramente nel 2007, è la sua esplorazione e codificazione nel complesso campo d’interscambio tra lingua letteraria e linguaggio visivo, alla ricerca di quello spazio-luogo che l’autrice ritrova all’interno del cinema francese degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Oltre ai virtuosismi tecnici, Ropars comprende come sia la modalità di espressione ad avviare, mutando radicalmente, il passaggio dalla tecnica cinematografica estetica a una intesa quale strumento di significazione. Si attua così un parallelismo tra azione e visione, tra etica ed estetica.3 Ciò che si costituisce è una lingua in grado di porsi su un piano che non è di finzione ma di auto-esplorazione, capace di lasciare emergere quel tempo della durata la cui caratteristica esistenziale si colloca non più tra le parole dette (o, nel caso del film, tra le immagini chiare), ma tra il non (ancora) detto, la voce-off del cinema e il non (ancora) visto. Un fuori campo in grado di lasciare trasparire l’assoluta distanza che la scrittura contiene in sé, proprio nel momento in cui si traduce in parola e quest’ultima assume i connotati specifici del frammento. Il cinema, secondo Ropars, pone in luce una storia fuori dalla storia, capace di creare uno spazio altro, neutro: lo spazio filmico. Projettando le arti visive e il cinema all’interno della blanchotiana teoria della scrittura del testo, Ropars mette in moto un “circuito dell’erranza” nel quale emerge l’immaginario quale estetica dell’alterazione, della fascinazione e della frammentazione: un luogo nel quale le immagini, dotate di nuovo senso, di una nuova lingua, acquistano, o meglio riaffermano, il loro potere. Un luogo esplorabile solo se ci si dispone ad affrontare e superare quel carattere di ambiguità che l’immagine porta in sé.
Il frammentarsi ambiguo dell’immagine Bisogna allora partire da ciò che è ambiguo, come da ciò che è difficile dire in modo ultimativo. È tale quanto racchiude l’enigma di quello che intende indicare. Se la ricerca del senso e del vero coincide con un luogo risolto, unico e definibile, è ambiguo quel che si pone nel regno del non-luogo, ciò dinanzi al quale è impossibile fermarsi. È questo il luogo del libro (a venir) per Blanchot e dello schermo (ecranique) per Ropars. Spazio nel contempo 3
Cf. Maurice Blanchot, Ecrits politique 1953-1993, cit., p. 15.
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verginale e iniziatico; spazio simbolico; spazio bianco in cui non vi è nulla, ma senza il quale nulla potrebbe esserci.4 È il linguaggio lo strumento tramite il quale tutto ciò si realizza. Da un lato esso permette alle cose di essere, dall’altro, attraverso un gioco di variazioni polisemiche, conduce ogni nozione significante al suo contrario. La parola diventa silenzio; il ricordo diviene oblio; l’inizio si traduce in ripetizione, sino alla propria inevitabile dispersione nella forma linguistica che è propria della parola: il frammento.5 La verità del linguaggio si dice in molti modi rimandando ad altro, a qualcosa che, proprio perché rivolto all’esterno, può essere solo immaginato. Resa ambigua e frammentata, essa apre all’immaginario come a qualcosa che ci ossessiona. Questo è ciò che il pensatore francese definisce l’insopprimibile ambiguità dell’immaginario.6 Scrivere, leggere o guardare significa riflettere sull’immaginario creando un pre-luogo, esterno rispetto alla realtà, nel quale essa si manifesti rendendolo ambiguamente il luogo dell’inaccessibile, dell’immediato, della solitudine. La realtà esteriorizzata, divenendo capace di esprimersi come parola plurale, dice altro, pur rappresentando se stessa. In essa, come sottolineato da Francesco Garritano, è iscritto quel rapporto originario tra il discorso e il dialogo che tuttavia gli interlocutori chiamati a realizzare la conversazione non giungono mai a concretizzare. Che cosa nasconde questa impossibilità? Osserva a tale proposito Garritano: Ebbene, la conversazione-dialogo non giunge proprio perché la parola di ciascuno si dispone secondo un ordine e un’economia segnata dalla finitezza, da quel rapporto con il negativo che sospende il fare, il lavoro orientato a comprendersi. La parola di ognuno è in relazione con l’eccesso, con quell’esteriorità che limita e che proprio nell’imporre la sospensione permette un dialogo che confina con il silenzio.7
4
Cf. M.C. Ropars-Wuilleumier, Ecraniques. Le film du texte, Presses Universitaires de Lille, 1990. Sul ruolo simbolico della visione e sulla trasposizione in forma letteraria del simbolo si rinvia inoltre a: G. Bataille, La Congiura Sacra, tr. it. F. Di Stefano e R. Garbetta, Bollati Boringhieri, Torino 1997. 5 Cf. M. Blanchot, La follia del giorno. Con due poesie di G. Bataille e R. Char, Associazione ed. Obliquo, Brescia 2005. 6 Per approfondire la tematica si veda: M. Blanchot, Lo Spazio Letterario. Con un saggio introduttivo di J. Pfeiffer e una nota di G. Neri, Einaudi, Torino 1975. 7 F. Garritano, Aporie Comunitarie: sino alla fine del mondo, Jaca Book, Milano 1999, p. 88.
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In questo senso ciò che si dice nello spazio dell’immaginario diviene “l’altro da ogni mondo”.8 È l’immagine del discorso di Blanchot che si traduce in finzione filmica nella riflessione di Ropars. Ma cosa dice l’immagine? Per Blanchot dice sempre altro da sé; significa qualcosa che non c’è. Questo essere presente di qualcosa che è assente, anzi in virtù di qualcosa che risulta assente, è l’essenza propria dell’immagine. È Blanchot stesso ad affermare che: “l’immagine ci dà l’essere, ma c’è lo dà privo di essere”.9 La prospettiva che si apre risulta prettamente ontologica. L’essere dell’immagine è nel contempo l’immagine dell’essere; questo nella misura in cui, mantenendo fede al precetto heideggeriano che vuole l’Essere ricercato oltre l’apparenza fenomenica, quindi come non disponibile, si determina nell’uomo quella ricerca esistenziale capace di donare senso originario alla realtà. In sostanza, quanto “fa essere” l’essere è la ricerca di un senso su di esso; così come quel che fa essere un’immagine è la projezione esterna di ciò che essa intende ritrovare in sé. Si prefigura un circolo di continui rimandi e ritorni che assume i tratti di un circolo vizioso. Ciò che tale eterno ritorno intende porre in atto è tuttavia l’esatto opposto della mera ripetizione continuativa. L’immagine nel suo ripetersi (potenzialmente infinito) diventa espressione di continua discontinuità. Scrive Ropars: “la discontinuità a cui tende Blanchot, non è il fine, ma quel momento in cui la parola diventa intervallo irradiante”.10 Nel suo continuo ripetersi emerge un momento discontinuo che per la Ropars assume la connotazione temporale del presente, ciò che è condizione limite perché esperienza del niente. Scrive la ricercatrice francese: “il film sospende l’articolazione narrativa di ciò che viene detto e mostrato, come se la frase enunciata nel testo scritto [nella sceneggiatura. N.d.A.] ritardasse la formazione di una narrazione figurativa; è come se la discontinuità di concatenazione sintattica accumulasse, tra le frasi, aree di silenzio”.11
8 Su tale aspetto cf. R. Ronchi, Bataille, Levinas, Blanchot. Un sapere passionale, Spirali, Milano 1985. 9 M. Blanchot, Lo Spazio Letterario, cit., p. 213. Per un approfondimento sulla questione del neutro blanchotiano in relazione alla filosofia heideggeriana cf. J. Rolland, Per un approccio al problema del neutro, in: “Aut-Aut”, 209-210/ 1985, p. 155-191. 10 “La discontinuite où tend Blanchot n’est pas le moyen, mais le moment d’un parole, ou l’interruption se fait intervalle irradiant” (trad. mia). Cf. M.C. Ropars-Wuilleumier, Ecraniques. Le film du texte, cit. p. 28. 11 “Le film suspend l’articulation narrative du dit et du montré, de meme l’avancée du texte écrit retarde de phrase en phrase la formation figurative d’un récit; tout se passe comme si la discontinuité des enchainements syntaxiques ménageait, entre les phrases, des plages de silence” (trad. mia). Cf. ivi., p. 37. Per un ulteriore approfondimento si rinvia a: M.C. RoparsWuilleumier, Ecrire l’espace, Presse Universitaires de Vincennes, Saint-Denis 2002, p. 37.
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Una sospensione che, pur non essendo ultimativa, dice di una presenza che sostituisce, nel linguaggio criptico di Blanchot, l’eterna presenza del pensiero, del senso, con la propria infinita assenza. Ciò che deve essere detto e visto (con la parola e l’immagine), avviene all’interno della frantumazione della temporalità che lo contiene. Il “senso” ha senso solo se frazionato, frammentato. In Le pas au-delà, testo nel quale si esplicita (attraverso la propria pratica di scrittura) la relazione frammentaria esistente tra pensiero, visione e discorso come esperienza del limite, scrive a tale riguardo Blanchot: Tutto ritorna: è il logos della totalità; perché “tutto” ritorni la totalità deve aver ricevuto dalla pratica e dal discorso il suo senso e la compiutezza del suo senso. E bisogna che il presente sia l’unica istanza temporale, perché si affermi la totalità della presenza e come presenza. Ma “tutto ritorna” decide che l’infinito del ritorno non può prendere la forma della circolarità del tutto, e decide che nessun ritorno può affermarsi nel presente.12
Quindi continua: Il pensiero del tutto ritorna, pensa il tempo distruggendolo, ma, per mezzo di tale distruzione che sembra ridurlo a due istanze temporali, lo pensa come infinito, infinità di rottura o interruzione che sostituisce all’eternità presente un’assenza infinita. (ivi)
L’immagine, pur essendo presente, è sempre fuori tempo e fuori spazio. Se lo spazio limite della visione è lo schermo (écranique), campo visivo disponibile e fruibile dal soggetto che realizza la visione, allora l’immagine racconta la presenza di ciò che, vedendosi, dice altro: quello che è sempre fuori campo (hors écran13). L’immagine è continua presenza e nel contempo assenza delle cose che si rivedono, proprio in virtù dell’assenza della cosa stessa che l’immagine
12
M. Blanchot, Il passo al di là, tr. it. L. Gabellone, Marietti, Genova 1989, p. 21-22. (cors.
miei). 13 Scrive a tale proposito Ropars: “La metafora dello schermo qui comprende due fasi interdipendenti [nella relazione tra l’opera da vedere e il soggetto che la vede. N.d.A.]: chiarire il senso, ma interponendolo, projettandolo all’esterno e frazionandolo: non per distruggere, certo, ma per riconquistarlo, scaglia il testo attraverso l’azione fugace della scrittura in cui la possibilità di senso diviene frammentata dalla cessione di coesione significante” (trad. mia). Cf. M.C. Ropars, Ecranique, cit. p. 25: “La métaphore écranique engage ici deux gestes solidaires: éclairer, mais en interposant; projeter au dehors, et par là fractionner: non pour détruire, certes, mais pour ressaisir en chaque texte l’activité fugace d’une écriture où la possibilité du sens passerait par le dessaisissement fragmentaire de la cohésion signifiante”.
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intende rappresentare. Essa dona ancora maggior senso all’assenza dell’oggetto reale non essendo mai quest’oggetto; cerca ciò che continuamente si ritrae e che in tal modo riesce a manifestarsi come presente. Nota ancora Garritano: Nel momento in cui si pensa al presente in una prospettiva che non è piena e totale, ossia come tempo dell’evento e della ripetizione, non si può non trascurare il fatto che l’interazione [tra i soggetti coinvolti nella visione e la realtà, n.d.a.] agisca come riserva tanto nel tempo (condotto nei paraggi della compiutezza) quanto nella coscienza (spostata verso il fuori, dunque senza perimetro, quello determinato dall’essere).14
Ancora una volta si evidenzia l’ambiguità insita nell’immaginario: “l’immagine di un oggetto non soltanto non è il senso di questo oggetto e non aiuta alla sua comprensione, ma tende a sottrarvelo mantenendolo nell’immobilità di una somiglianza che non ha niente a cui somigliare”.15 Il compito dell’immagine diviene inevitabilmente anche un compito etico; attraverso l’immagine è possibile affermare la verità del mondo, che altrimenti si nasconderebbe sempre e comunque come qualcosa d’inafferrabile.16 L’immagine creando uno spazio di interazione tra il tempo e la coscienza, tra l’assenza e la presenza, sembra legarsi in modo saldo alla memoria.
Fuori, verso Hiroshima Parlare dell’immaginario diviene così porre la questione dell’immagine come memoria. Esiste una differenza irriducibile tra l’immagine e ciò che essa immagina, ovvero la sua significazione. Come precedentemente evidenziato, della natura propria dell’immagine si rileva solo come essa sia assenza, o meglio come essa si sottragga continuamente. Scrive Blanchot: Entrare nell’immaginario è dunque entrare in uno spazio radicalmente estraneo, operare, in rapporto al mondo e alla realtà della nostra vita, una sorta di conversione fondamentale, entrare nello spazio di un’assenza che esclude ormai ogni tentativo di presenza, nella dimensione di un altrove che esclude ogni possibilità di essere qui.17 14 F. Garritano, Sul bordo della legge, in: J. Derrida, Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, Jaca Book, Milano 2000, p. 26. 15 M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit. p. 228. 16 Cf. J. Pfeiffer, La passione dell’immaginario, in: M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit. p. 10. 17 Ivi., p. 12.
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Nell’immagine, emerge in modo chiaro un duplice movimento di negazione.18 Essa si sottrae dal mondo come somiglianza dalle cose che rappresenta e, nel contempo, si manifesta come altro da esse. In primo luogo, avviene sempre dopo l’oggetto; infatti, prima vediamo e solo dopo immaginiamo.19 Affinché l’immagine esista è necessario che l’oggetto sia assente, che sia neutro, che venga neutralizzato e che si manifesti come un “dopo”.20 Scrive Blanchot: “dopo significa che bisogna anzitutto che la cosa si allontani per lasciarsi riprendere”.21 Questo allontanamento non deve essere interpretato esclusivamente come un cambio di luogo. Ci si allontana dalla cosa stando nella cosa stessa, anzi nel cuore della cosa: La cosa era là, l’afferravamo nel movimento vivo di una azione comprensiva, e, divenuta immagine, istantaneamente eccola divenuta inafferrabile, l’inattuale, l’impassibile, non la stessa cosa allontanata, ma questa cosa come allontanamento, la presenza nella sua assenza, l’afferrabile perché inafferrabile, che appare in quanto sparita, il ritorno di ciò che non ritorna, il cuore estraneo del lontano come vita e cuore unico della cosa.(ivi)
Siamo dinanzi a una genesi negativa dell’immagine che ne rappresenta, in un certo senso, la morte e che risulta essere realizzabile solo attraverso un intenso lavoro del negativo. Nell’immagine “vediamo solo ciò che prima ci è sfuggito, in virtù di una privazione iniziale, mentre quando le cose sono troppo presenti, o quando noi siamo troppo pesantemente presenti ad esse, non vediamo… Vedere è cogliere immediatamente a distanza e grazie alla distanza”22. Dinanzi all’immagine e, come poi specificherà Blanchot, anche alla parola (la quale altro non è se non “immagine che dice se stessa quindi ottenuta 18
Sin dall’inizio appare chiaro come, analizzando la genesi dell’immagine, emerga lo schema della negazione; esso rimanda, anche se con alternanti momenti di avvicinamento e allontanamento, alla dialettica hegeliana, in particolare al momento del negativo, ciò che costituirà una costante nel pensiero del filosofo francese. 19 Possibile riferimento a una certa tradizione fenomenologica, principalmente alla filosofia di Merleau-Ponty, nel momento in cui egli afferma come l’oggetto venga dato sempre alla percezione come “posto” dopo la prima visione. L’oggetto dunque è sempre un secundum rispetto al primum della rappresentazione. Radicalizzando questa posizione si potrebbe affermare che l’oggetto non esiste nel suo farsi primum, ma solo nella relazione come qualcosa che rimanda ad altro, ovvero al suo secondo. La conoscenza percettiva è dunque sempre posticipata. Quello che è, è sempre ciò che è già stato, e per questo già visto. Per un approfondimento su tale tematica: cf. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993. 20 Neutro (neutre) è termine che Blanchot userà abbondantemente e che diventerà parte costitutiva del lessico del filosofo lungo tutto il corso della sua riflessione. Si veda oltre. 21 M. Blanchot, Lo Spazio Letterario, cit. p. 223. 22 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, tr. it. Roberta Ferrara, Einaudi, Torino 1977, p. 39.
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tramite negazione, al costo della sottrazione della sua esistenza e della sua presenza per far emergere la cosa”23), si manifesta da una parte una presenza ideale, dall’altra una assenza materiale. Entrambe muovono nella direzione della restituzione dell’idea della cosa, attraverso la soppressione del suo essere cosa.24 Blanchot, sospendendo il processo dialettico attraverso il quale il senso si fa verità aprendosi al linguaggio, alla parola e all’immaginario di cui la parola è custode, introduce uno spazio altro, radicalmente esteriore. Il negativo diviene alterità radicale, separazione incolmabile che ci pone in un luogo al di là del senso; in quello spazio fuori scena, dove l’immaginario non rappresenta mai una mediazione ma qualcosa di residuale e di inaccessibile. L’immaginario diviene l’altro di ogni mondo, sempre in movimento tra l’uno e il diverso.25 Convivono qui due versioni dell’immaginario che, se pur distinte, sono ambiguamente intrecciate.26 La prima è la “legge del giorno”: essa rappresenta ancora l’espressione del potere del negativo, come
23
M. Blanchot, La Letteratura e il diritto alla morte, Elitropia, Reggio Emilia 1982, p. 64-
65. 24 Il rimando alla filosofia hegeliana è qui evidente, in particolare alle pagine della Filosofia dello Spirito nelle quali Hegel, riprendendo il racconto biblico della Genesi, afferma che: “il primo atto mediante il quale Adamo ha costituito la sua signoria sugli animali, fu di imporre loro il nome, ovvero li negò come esseri indipendenti e li rese per sé ideali” (G. W. F. Hegel, Filosofia dello Spirito 1803-1804 in: Filosofia dello spirito jenese, c/ di G. Cantillo, Laterza, Bari 1971, p. 65). Tuttavia Blanchot tiene a mantenere una distanza con il filosofo tedesco e con la sua Aufhebung del negativo, nel momento in cui, poco dopo, afferma che: “vedere è servirsi della separazione non come mediatrice, ma come mezzo di immediazione, come immediatrice” (M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit. p. 39). Il negativo, all’interno del processo dialettico hegeliano, rappresenta infatti solo una differenza transitoria; esso è un falso limite, una contraddizione presente e necessaria nel processo dialettico in quanto, permanendo all’interno della propria comprensione, diviene solo una tappa del farsi verità della certezza sensibile. La coscienza ingenua, derivante dalla certezza sensibile, reputa il sapere che essa ha raggiunto come immediato, anche se privo di concetto, mettendolo in relazione con il linguaggio all’interno del quale essa dovrebbe trovare espressione. Tuttavia, appare subito evidente come la funzione mediatrice del linguaggio abbia carattere universalizzante e per tale motivo non sia in grado di dire l’immediato, ossia la singola cosa, se non in relazione alla sua significazione quale elemento più universale. Questo aspetto per Hegel porterà la certezza sensibile a rifiutarsi come possibilità dell’immediato, per passare al livello superiore dello Spirito che si identifica nella percezione. Per Blanchot invece il negativo non conduce a una contraddizione (“A è uguale a non-A”), bensì a un paradosso (“A non è uguale ad A”). Se nella contraddizione si riconosce comunque un rapporto di reciprocità orientato verso l’identità, nel paradosso ciascun termine priva l’altro della sua propria consistenza. 25 Cf. M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit. p. 230. 26 Cf. ivi., cit., p. 223.
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atto che lavora nel mondo per potere poi restituirlo alla verità e alla chiarezza.27 La seconda versione è l’assenza d’opera: desouvrement, inteso come origine stessa dell’operare.28 Non si è più dinanzi alla perfetta intelliggibilità del giorno, della luce, ma nell’oscurità della notte. In essa il mondo, unica realtà capace di rendere possibile la via dell’immagine, rappresenta anche il limite dinanzi al quale l’immagine stessa si perde, si inabissa e cessa di esistere: in una parola, è silente. Ropars rende bene il progressivo chetarsi della parola, nel momento in cui i personaggi chiamati da Resnais a rendere conto della loro esperienza di Hiroshima compiono una “logica frammentaria della conversazione” (logique fragmentaire de la conversation29). Tra l’immaginario e il mondo della realtà esiste una incompatibilità di fondo. La somiglianza dell’immagine alla cosa immaginata non si sostiene più in rapporto al mondo; l’immagine ora invoca un altro che in quanto tale si mostra definitivamente inafferrabile, irrecuperabile. Ropars, riprendendo ancora una volta la lezione di Blanchot nell’Arret de mort,30 sottolinea come l’immagine si ponga quale radicale alterità. Scrive infatti Blanchot: “l’immagine non ha niente a che vedere con il significato, col senso, come lo implicano l’esistenza del mondo e lo sforzo della verità, la legge e la chiarezza del giorno”.31 L’immagine non è riconducibile a una realtà, non è essa stessa una realtà o un oggetto. Dinanzi all’immaginario non possiamo nulla. Questa seconda e più originale, in quanto in-autentica, versione dell’immaginario, ci pone dinanzi a una nuova prospettiva di azione, o meglio di in-azione: quella relazione fra essa e il mondo che prima pareva la dimensione più intima, e forse proprio per questo la più immaginabile, diviene ora qualcosa di esteriore, di assolutamente altro, di irrimediabilmente altro [autrui]. Dinanzi a tale radicale rovesciamento subiamo passivamente il (nostro) mondo. Non vi è alcun plausibile
27
Cf. ivi., cit., p. 231. È interessante notare come Blanchot, al termine di uno dei suoi scritti più significativi sulla relazione tra il linguaggio e la sua comunicabilità, riprenda e concluda il percorso della prima versione dell’immaginario (all’interno della filosofia occidentale), proprio citando uno dei filosofi del ventesimo secolo che maggiormente hanno riflettuto sulla relazione tra mondo “visto” e mondo “detto”: Ludwig Wittgenstein. Per un approfondimento si rinvia a: M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit. p. 434; e M. Blanchot, La Comunità Inconfessabile, SE, Milano 2002 p. 97. 28 Cf., ivi., p. 233. 29 M. C. Ropars, Ecranique, cit. p. 41. 30 L’analisi che compie Ropars riguarda alcune sequenze tratte dal primo lungometraggio, Hiroshima, mon amour (1959), di Alain Resnais su soggetto e sceneggiatura di Marguerite Duras. In particolare la Ropars prende in esame all’incirca le prime 100 sequenze del film. L’objettivo dichiarato sin dalle prime righe del suo testo è quello di “diviser pour décrire, au risque d’isoler pour lire” (M.C. Ropars, Ecranique, cit. p. 13). 31 M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit. p. 228.
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comportamento dinanzi a tale immaginario: la coscienza è destituita del potere, che prima le era stato affidato, di immaginare. L’immaginazione non è mai un potere, ma diviene sempre il “momento della passività” (ivi): non è più la coscienza a farsi immaginante, bensì l’immaginario a incontrare la coscienza, privata ora della sua presunzione di conoscenza. Quale conseguenza ne deriva che la letteratura (intesa come racconto, storia, esperienza), così come l’immaginario da cui essa dipende, non istituiscono più un luogo di produzione del senso. La loro realtà si colloca fuori, all’interno di quello spazio di non verità che precede la produzione del mondo e dei suoi aspetti. Se la razionalità, così come espressa da tutta la tradizione filosofica occidentale, si enuncia attraverso la trasparenza e l’unità del concetto, la letteratura diviene il luogo di costituzione e permanenza di quella parola plurale che non si lascia mai afferrare in quanto pura differenza (différence), e che in essa costituisce il proprio altro, irriducibile senso.32 La parola è sempre comando, terrore, seduzione, risentimento, adulazione, iniziativa; la parola è sempre violenza e chi pretende di ignorarlo ed ha la pretesa di dialogare, aggiunge l’ipocrisia liberale all’ottimismo dialettico secondo cui la guerra è una forma di dialogo.33
Sia per Ropars che per Blanchot l’uguaglianza dei parlanti, quale condizione indispensabile al dialogo e alla produzione della parola, viene dunque messa in discussione. La possibilità di parlare viene data all’altro solo quando il singolo “Io” riconosce all’altro “Io” la sua stessa identica possibilità. Questo “idealismo dignitoso”, per usare le parole del filosofo francese, è falso poiché sottintende una uguaglianza che è inesistente; tuttavia, qualora la si ipotizzasse, non sarebbe comunque sufficiente a fare della parola qualcosa di sensato.34 Mancherebbe ad essa ancora qualcosa di essenziale; anche se si riuscissero a produrre due parole differenti eppure identiche perché riconducibili a un unico pensiero, qualcosa resterebbe perduto: Si tratta appunto della differenza, una differenza che nulla deve semplificare, nulla può livellare e che da sola, misteriosamente rende parlanti le due parole tenendole separate, mantenendole insieme solo con questa separazione.35
32
Sul tema della letteratura, ed in particolare sul concetto di “differenza” (différence) come limite estremo, confine della filosofia occidentale verso la ricerca e la comprensione del significato della parola letteraria si rinvia a: J. Derrida, Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, Jaca Book, Milano 2000. 33 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit. p. 107. 34 Su tale aspetto cf. ivi. 35 Ivi., p. 107.
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Parlare al Neutro, significa attirare il linguaggio in un rapporto non più dialogico ma del terzo genere36: movimento per il quale esso si supera senza sosta, ponendosi fuori, in un luogo che è sempre fuori-legge, la cui sostanza è trasgressione permanente e la cui parola letteraria si dice come immagine. Questo carattere trasgressivo che la scrittura possiede, le consente di esistere solo nella forma del paradosso, in quanto non è possibile sfuggire alla legge del senso. Pur negando la legge del giorno, del logos univoco, non si può non affermarne la fatalità dell’impotenza a cessare di capire: “l’ossessione soffocante di una ragione senza principio, senza inizio, di cui non si può rendere ragione”.37 Solo in questo modo si effettua il passaggio: dalla regione del reale (prima versione dell’immaginario), dove il vedere si realizza in pieno giorno se pur nella distanza, all’altra (seconda versione dell’immaginario), quella dell’esteriorità radicale in cui emerge l’oscurità della scrittura: la notte.38 Nella notte l’immagine non occupa dunque il posto lasciato vacante dall’oggetto, semmai “toglie il posto”. L’immagine toglie il luogo che prima era del giorno-senso-oggetto, pur non sostituendosi ad esso ma dando origine a un nuovo luogo: il luogo estetico nel quale poter vivere l’accadimento del mondo in immagine; immagine che ha così trasformato l’oggetto nella sua stessa alterità.39 Questo nuovo luogo, questo fuori in cui l’immagine si costituisce è, per Ropars, lo spazio dello schermo (écranique). In esso è il neutro che domina e che designa la modalità non sindacabile del rapporto di reciproca estraneità, di impossibile unità con l’altro. In sostanza quanto il neutro intrattiene nella relazione con l’altro attraverso la visione, è un rapporto di interruzione d’essere nel quale lo schermo è lo spazio che realizza la scomposizione dell’io; spazio dove è possibile dire senza essere identificato come colui che dice e senza identificarsi con quello che si dice. È la dimensione del frammento che, come evidenziato dall’interpretazione della Ropars, coincide con la voce-off del cinema.40 Una dimensione capace 36
Riguardo tale descrizione, cf. ivi, p. 89. M. Blanchot, Lo spazio Letterario, cit. p. 208. 38 Al fine di comprendere meglio il senso di tale paradosso tra l’apparire e lo sparire risulta necessario specificare quello che Blanchot intende esprimere mediante la metafora della notte. Essa allude infatti a tutto ciò che non si offre più allo sguardo in quanto dissolto nell’oscurità e nel buio. In tal senso la notte diviene l’accadimento di una sparizione che porta con sé un irriducibile paradosso. Scrive infatti Blanchot: “quando tutto è sparito nella notte, il ‘tutto è sparito’ appare. È l’altra notte. La notte è apparizione del ‘tutto è sparito’. Essa è ciò che è presentito quando i sogni sostituiscono il sonno, quando i morti passano nel fondo della notte, quando il fondo della notte appare in coloro che sono scomparsi. Le apparizioni, i fantasmi e i sogni sono un’allusione a questa notte vuota” (M. Blanchot, Lo Spazio letterario, cit. p. 139). 39 Cf. G. Frank, Estetica e ontologia. Il problema dell’arte nel pensiero di E. Levinas, in: “Aut-Aut”, 209-210/ 1985, p. 35-59. 40 Su tali argomenti cf. M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit. p. 12. Alla luce di queste considerazioni si comprende come, in realtà, il rapporto con l’immaginario sia fondato su una 37
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di interrompere l’adesione incondizionata, l’affermazione dell’Io al proprio discorso. La scrittura nella visione diviene frammento; spazio di trasgressione, possibilità di linguaggio che mette in gioco il linguaggio stesso. Una rinuncia ad esso come potere, come portatore di verità e limpidezza del mondo, che si realizza attraverso quella dell’Io ad esserci, ma anche attraverso un nuovo linguaggio che fa del predominio della parola sul significato la propria ragione d’essere: è il primato del Dire (la voce) sul Vedere (il sapere). Questo dire passa attraverso la scrittura come un eco di ciò che non può cessare di parlare, un mormorio gigantesco sul quale il linguaggio, aprendosi, si fa immagine, un immaginario sul quale per tale motivo non resta che imporre il silenzio.
discontinuità. Si tratta di un rapporto impossibile che riconduce ad una duplice articolazione: una relazione che non si fonda sul potere, ma su un “non potere”, dalla cui impossibilità ha luogo la parola, diverso dalla semplice negazione del potere. L’assenza di rapporto attraverso la parola che da essa prende corpo, viene definita da Blanchot come desiderio, a sua volta inteso quale intrinseco rapporto con questa impossibilità. Nel desiderio l’immaginario si fa allora promessa e lascia risplendere il fascino dell’altrove. Si palesa così come il rapporto con la scrittura sia un rapporto di fascinazione mediante la quale l’immaginario ci parla e ci attira, non con la ragione, ma analogamente alle sirene con Ulisse, grazie alla forza di un canto. Su questo aspetto cf. M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit. p. 65; e M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit. p. 17. Per il tema del desiderio nella filosofia di Blanchot significativa importanza assume il saggio di B. Bonato, Tra il desiderio e il dono. Note su Lacan e Levinas; in esso l’autrice pone in relazione la tematica del desiderio come fascinazione alle topiche lacaniane, rifacendosi sia alla riflessione teorica di Blanchot sul “neutro”, sia a quella di Levinas sul tema dell’“il y à”. Cf. B. Bonato, Tra il desiderio e il dono. Note su Lacan e Levinas, in: “Aut-Aut”, 209-210/ 1985, p. 237-253.
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Anniversari
Centenario della nascita di Dino FORMAGGIO Rilancio del MUSEO DI ARTE CONTEMPORANEA del Comune di Teolo Teolo celebra, nel centenario dalla nascita, Dino Formaggio (1914 / 2008) insigne filosofo italiano, fra i maggiori studiosi europei novecenteschi di estetica, critico d’arte, professore emerito dell’Universita’ degli Studi di Milano, cittadino di Teolo, ideatore e fondatore del Museo di Arte Contemporanea, insediato nello storico Palazzetto dei Vicari, nello stesso comune. Lo fa con una serie di manifestazioni che prenderanno il via il prossimo 20 settembre e dureranno sino a primavera del 2015. Fulcro del programma celebrativo sarà la prima rassegna di acquarelli, oli e sculture di Dino Formaggio, esposti negli spazi espositivi del Museo di Arte contemporanea di Teolo dal 20 settembre al 2 novembre 2014, grazie 193
alla disponibilità della famiglia, della moglie Adriana Zeni e dei figli Daniele, Diana e Damiano. Conservate presso la dimora di Illasi (VR), le opere attualmente sono ancora sconosciute al pubblico. L’esposizione sarà corredata da un catalogo con saggi di Sergio Giorato, Gabriele Scaramuzza, e Adriana Zeni Formaggio e sarà edito dalle Edizioni Arti Grafiche Antiga e distribuito su tutto il territorio nazionale. Il calendario di iniziative proseguirà con la realizzazione di un ciclo di conferenze sui diversi aspetti dell’attività del filosofo organizzate in collaborazione con l’Università di Padova nel prossimo autunno, in concomitanza con l’esposizione delle opere del Filosofo. Le ‘Giornate di studio’ saranno articolate su temi attinenti al profilo umano e civile di Dino Formaggio, al suo percorso filosofico, e alla sua attività di artista e critico d’arte. A distanza di oltre un ventennio dalla istituzione del Museo, il Comune di Teolo coglie l’occasione del centenario della nascita del filosofo per mettere in atto un articolato progetto di valorizzazione e di rilancio dell’istituto museale considerandolo come una preziosa opportunità per Teolo, un ingresso ‘nobile’, una chiave d’accesso, facilmente comunicabile per la sua singolarità, alle tipicità economiche, storiche e culturali del territorio. Per farlo ha nominato un Direttore Artistico nella persona del prof. Sergio Giorato, docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico ‘Fermi’ di Padova, già Conservatore del Museo di Teolo e autore di numerose pubblicazioni di indagine storico-culturale sul territorio padovano. Il piano complessivo delle manifestazioni, elaborato in sintonia con Daniele Formaggio, figlio di Dino, Garante del Museo, prevede anche una parte edilizia la cui progettazione è stata affidata all’architetto Giulio Muratori ottenendo il sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. Le celebrazioni del centenario della nascita di Dino Formaggio sono state promosse dal Comune di Teolo. Per informazioni: Comune di Teolo “Ufficio Cultura” tel. 049 9998530 - 8545 istruzione@comune.teolo.pd.it, cultura@comune.teolo.pd.it
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Riviste Segnaliamo l’ultimo numero di “aut-aut” dedicato a Foucault
intitolato:
Dire il vero su se stessi. Cantiere foucaultiano. MATERIALI 1 Alessandro Fontana Una educazione intellettuale [1993] Pier Aldo Rovatti Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione Massimiliano Nicoli, Luca Paltrinieri Il management di sé e degli altri Mauro Bertani La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristiana Philippe Chevallier Michel Foucault e il “sé” cristiano Laura Cremonesi, Arnold I. Davidson, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Da dove viene il sé? La forza del dir-vero e l’origine dell’ermeneutica del sé Tiziano Possamai La pratica filosofica di Michel Foucault
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PALESTRA Roberto Bertolini Disobbedire alla verità. A proposito del corso Del governo dei viventi Eugenio Giacomelli Niente verità senza alterità. Una nota sull’ultimo corso di Foucault Alessandro Melosso Frammenti di un gesto filosofico MATERIALI 2 Robert Castel L’insicurezza sociale. Rischi e protezioni nella crisi della modernità organizzata [2006] POST Alessandro Dal Lago Dopo la democrazia globale niente? A proposito di legittimità
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Lettere
Novità!
dopo le storiche compilazioni e i collages argomentativi e dimostrativi di G. Schneeberger (Nachlese zu Heidegger, 1962), di V. Farias (Heidegger et le Nazisme, 1987), e di E. Faye (L'introduction du nazisme dans la philosophie, 2005) ecco, a proposito dei “quaderni neri” di Martin Heidegger, una nuova originale formulazione (“seinsgeschichtlicher Antisemitismus”!) del presunto subdolo (e quindi percorso da un profondo senso di colpa) tentativo heideggeriano di soddisfare le proprie insane disposizioni facendole passare per ovvie, con l’equivoco furbesco di “cacciare lo diavolo” (il nazismo) “ne lo ’nferno” (la filosofia). In quelle storiche saghe, una mente inautentica e capziosa (quella di Heidegger) tentava di nascondere a sé e agli altri la propria insana passione per il male assoluto; oggi la stessa mente, ma confusa e intermittente, sembra fallire di fronte a una realtà storica solo per lei inafferrabile (perché tutti “gli altri” la capiscono benissimo). Un cultore, del resto non sprovveduto, della materia (Peter Trawny, 2014), affronta il rischio di identificare fatti e documenti con idee e sentimenti sul terreno difficile (una vera trappola!) di quello che una volta fu chiamato “il caso Heidegger”. Ed era invece “il caso” di tanti inadeguati eredi di quell’idealismo e di quello storicismo nel quale dopo Hegel navighiamo sotto diverse etichette e che si può riassumere nella sentenza diltheyana secondo la quale nel più soggettivo si esprime la massima forza delle potenze objettive. Una sentenza che non celebra il soggettivismo sfrenato della pravda e del partito preso ma, all’opposto, la forza della necessità storica e della tradizione. Nella trappola di tale “caso” è spesso caduta l’indebita ambizione dell’ermeneutica “filosofica”, tanto da costituire ormai, a sua volta, una sorta di tradizione: quella che pretende di far coincidere filologia e filosofia senza rendersi conto, vichianamente, che si tratta di un’arte critica. Senza senso critico, secondo Vico, “errano per metà”, sia i filologi che ignorano la filosofia, sia i filosofi che ignorano la filologia. Ma gli ermeneuti di vocazione 197
“politicamente corretta”, che sono indotti a spiare certi nessi pruriginosi dal buco della chiave, hanno il raro merito di sommare l’errore filosofico con quello filologico. Sono forse i soli che riescano ad errare per intiero. Impotentia non errandi mirabilis!
(A proposito dei “quaderni neri” di Martin Heidegger, curati per l’editore Vittorio Klostermann dal prof. Peter Trawny, del “Martin Heidegger–Institut” Wuppertal, riceviamo dal prof. Friedrich-Wilhelm v. Herrmann (Freiburg i.Br.), direttore della Martin Heidegger Gesamtausgabe, e pubblichiamo, la seguente “presa di distanza”):
Friedrich-Wilhelm v. Herrmann, Non pietra angolare del pensiero – filosoficamente irrilevante. Nella mia qualità di principale collaboratore filosofico all’edizione integrale (e, a suo tempo, assistente privato di Martin Heidegger nei suoi ultimi anni di vita) rilascio una breve presa di posizione di rettifica circa il gruppo dei manoscritti heideggeriani denominati “quaderni neri” o anche “quaderni di lavoro”. L’attuale Curatore dei “quaderni neri” è stato da me raccomandato unicamente come editore, ma non come interprete di quei testi. Per amore del pensiero di Martin Heidegger e per amor del vero devo prendere rigorosa distanza dai saggi interpretativi da lui presentati al pubblico internazionale, che nella loro essenziale non-verità mi hanno profondamente deluso. I “quaderni neri” accompagnano bensì, in Heidegger, il pensiero ontostorico (o il pensiero storico dell’approprio) che costituisce la seconda via di elaborazione del problema dell’essere e che comincia intorno al 1930/ 31. Essi hanno quindi un contenuto puramente filosofico, ma corrono in parallelo e in subordine rispetto alle grandi opere del pensiero ontostorico. Perciò l’importo filosofico di quegli appunti, che ricominciano sempre daccapo, è comprensibile solo a partire dai saggi coevi, che ne danno le connessioni fondamentali. Quei luoghi, che si riferiscono al giudaismo (in rapporto ai 34 quaderni, poca cosa, e mai inseriti in un più ampio contesto), sono per il pensiero heideggeriano filosoficamente del tutto irrilevanti e quindi anche superflui. Più che altro, dal punto di vista del pensiero sistematico essi non costituiscono un materiale da costruzione del pensiero ontostorico. Lo provano tutte le lezioni, le conferenze e i manoscritti dei saggi coevi, che non contengono alcunché di antisemitico. 198
Il Giudaismo, con la sua antica e grande storia, non rientra per Heidegger nella storia dell’essere, che abbraccia soltanto il pensiero occidentale dagli antichi Greci fino a Hegel e Nietzsche e la scienza moderna e contemporanea con la tecnica moderna, caratterizzate queste ultime dal “pensiero calcolante” nel quale Martin Heidegger vede un grande pericolo per l’umanità. Il concetto di “antisemitismo ontostorico” ottusamente ed equivocamente coniato dal Curatore in riferimento alle poche proposizioni sui Giudei induce alla infelice confusione, che il pensiero ontostorico sia di per sé antisemitico. Heidegger, poi, non ha neppure “pensato così per un certo tempo” – come il Curatore si esprime – e cioè: così, come nelle frasi riferite al giudaismo. Quando ci si esprime in modo tanto sciatto, chi legge e ascolta pensa che Martin Heidegger, al tempo di quelle frasi, abbia pensato “così” (cioè antisemiticamente) anche nei suoi scritti filosofici, che sarebbe una pura sciocchezza. Che il pensiero ontostorico, nella sua interna compagine e struttura, non contenga assolutamente nulla di un atteggiamento antigiudaico, lo testimoniano le sette grandi trattazioni ontostoriche tra il 1936 e il 1844, che cominciano coi “Beiträge zur Philosophie” e terminano con gli “Stegen das Anfangs”. (tr. it. Alfredo Marini)
(Testo originale della lettera):
Friedrich-Wilhelm v. Herrmann, Kein systematischer Baustein des Denkens – philosophisch belanglos. Als philosophischer Hauptmitarbeiter an der Gesamtausgabe und als einstiger Privatassistent Martin Heideggers in dessen letzten Lebensjahren gebe ich eine knappe korrigierende Stellungnahme ab zu der Manuskriptengruppe der sog. „Schwarzen Hefte“ oder „Arbeitshefte“. Der jetzige Herausgeber der „Schwarzen Hefte“ wurde von mir lediglich als Text-Editor nicht aber als Text-Interpret empfohlen. Von seinen international vorgetragenen Auslegungsversuchen, die mich ihrer inneren Unwahrheit wegen tief enttäuscht haben, muß ich mich um des Denkens Martin Heideggers und der Wahrheit willen strikt distanzieren. Die „Schwarzen Hefte“ begleiten lediglich das um 1930/31 einsetzende Seins- oder Ereignisgeschichtliche Denken Heideggers, d. h. den zweiten Ausarbeitungsweg der Seinsfrage. Sie haben daher einen rein philosophischen Inhalt, sind aber den großen Arbeiten des seinsgeschichtlichen Denkens neben- und nachgeordnet. Deshalb ist der philosophische Gehalt 199
ihrer immer wieder neu einsetzenden Aufzeichnungen nur aus den grundlegenden Zusammenhängen der gleichzeitig verfaßten Abhandlungen nachzuvollziehen. Die im Verhältnis zu den 34 Heften ganz wenigen, in keinem größeren Kontext stehenden Textstellen, die sich auf das Judentum beziehen, sind philosophisch für das Denken Heideggers völlig belanglos und somit überflüssig. Vor allem bilden sie keinen gedanklich-systematischen Baustein des Seinsgeschichtlichen Denkens. Das bezeugen alle gleichzeitig verfaßten Vorlesungen, Vorträge und Abhandlungsmanuskripte, die nichts Antisemitisches enthalten. Das Judentum und dessen alte und große Geschichte gehört für Heidegger nicht in die Geschichte des Seins, die nur das abendländische Denken von den Frühen Griechen bis zu Hegel und Nietzsche und die neuzeitlich-gegenwärtige Wissenschaft und moderne Technik umfaßt, welche letztere für Heidegger charakterisiert sind durch das „rechnende Denken“, in dem Martin Heideggers Denken eine große Gefahr für die Menschheit sieht. Der vom Herausgeber unscharf und mißverständlich geprägte Begriff des „seinsgeschichtlichen Antisemitismus“ in bezug auf die wenigen Sätze über die Juden, führt zu der unheilvollen Verwirrung, daß das seinsgeschichtliche Denken als solches antisemitisch sei. Heidegger hat auch nicht „eine Zeitlang so gedacht“, wie der Herausgeber formuliert, nämlich so wie in den auf das Judentum bezogenen Sätzen. Wenn man derartig pauschal formuliert, meint der Leser und Hörer, Martin Heidegger habe in der Zeit dieser Sätze auch in seinen philosophischen Abhandlungen 'so', also antisemitisch gedacht, was völlig unsinnig ist. Daß das seinsgeschichtliche Denken in seinem inneren Gefüge und Aufbau überhaupt nichts von einer antijüdische Haltung einschließt, bezeugen die sieben großen seinsgeschichtlichen Abhandlungen von 1936 bis 1944, die mit den „Beiträgen zur Philosophie“ beginnen und mit den „Stegen des Anfangs“ enden. (Prof. Dr. Friedrich-Wilhelm von Herrmann)
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(Risvolto editoriale del libro):
Martin Heidegger, Überlegungen II–VI (“Schwarze Hefte” 19311938), Gesamtausgabe. Band 94, hrsg. von Peter Trawny, 2014. VI, 536 Seiten. Die von Heidegger sogenannten “Schwarzen Hefte” bilden ein in der deutschen Geistesgeschichte nicht nur des letzten Jahrhunderts einzigartiges Manuskript. Von 1931 bis zum Anfang der siebziger Jahre zeichnet Heidegger in vierunddreißig Wachstuchheften Gedanken und Gedankengefüge auf. Zuweilen – wie in den “Überlegungen” (GA 94-96) der dreißiger Jahre – stellen sie eine unmittelbare Auseinandersetzung mit der Zeit dar. Dann – wie in den “Vier Heften” (GA 99) vom Ende der vierziger Jahre – erweisen sie sich als philosophische Versuche, so dass die “Schwarzen Hefte” sich am ehesten als “Denktagebücher” bezeichnen lassen. Weil die Aufzeichnungen sich immer wieder der Nähe der Tagesereignisse aussetzen, zeigen sie sich in einem unverwechselbaren Stil. In den “Schwarzen Heften” scheint der Leser dem Denker so nah zu sein wie sonst nie. Er kann spüren, wie sehr sich das Denken auf sein Gedachtes einlässt. Das bringt mit sich, dass die “Schwarzen Hefte”, wie kein anderes Manuskript des ohnehin leidenschaftlich diskutierten Denkers, umstritten sein werden. Die Härte der Auseinandersetzung mit zeitgeschichtlichen Vorgängen wird mitunter dem Besprochenen nicht gerecht. Manche Hefte enthalten in vielerlei Hinsicht Problematisches. Dann wieder trifft der Angriff das Richtige. Alles gehört zum Eigentümlichen dieser Schriften, deren Veröffentlichung einen besonderen Moment in der Geschichte der Gesamtausgabe darstellt.
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