Magazzino di filosofia - n.24 C8/STRUMENTI

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magazzino di filosofia quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia n° 24, anno VIII, 2014/ C8: s t r u me n t i (peer review)

P.E.M.


M a g a z z i n o

d i

F i l o s o f i a

Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia *Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia) *Redazione: Gianvito Brindisi (Napoli), Riccardo Lazzari (Milano), Simone L. Maestrone (Bonn), Alfredo Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Alessandra Rauti (Milano), Giacomo Rinaldi (Urbino), Erasmo S. Storace (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Roberto Valentini (Milano), Fabio A. Volontè (Varese), Alessandra Zambelli (Parigi) *Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano), Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Lorenzo Giacomini (Milano), Santino Maletta (Cosenza), Carlo Montaleone (Milano), Renato Pettoello (Milano). *Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina (Lexington, Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello (Milano), Klaus Held (Wuppertal), Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Giovanni Piana (Cosenza), Stefano Poggi (Firenze), Frithjof Rodi (Bochum), Gianni Scalia (Bologna), Franz-Anton Schwarz (Freiburg i. Br.), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven (Bruxelles/ Bochum), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti (Pavia), Stefano Zecchi (Milano). *Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Jan Bednarich (Gorizia), Fiorenza Bevilacqua (Milano), Cristina Boracchi (Gallarate), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia), Andrea Cudin (Trieste), Carmine Di Martino (Milano), Miriam Franchella (Milano), Andrea Gilardoni (Milano), Sergio Levi (Milano), Pier Giuseppe Milanesi (Pavia), Walter Minella (Pavia), Luca & Mirela Oliva (Chestnut Hill, Ma.), Fabrizio Palombi (Roma), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano), Paolo Volontè (Milano), Luca Biolcati (Milano) *Recapiti: email: info@filosofiacontemporanea.it; Associazione P.E.M, via Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com; “Riccardo Lazzari” rlazzari@tin.it; “Massimo Mezzanzanica” massimo.mezzanzanica@gmail.com; “Gianvito Brindisi” gvbrindisi@libero.it *Rubrica “Aggiornamenti”, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@>tin.it> / o: “Erasmo S. Storace” <erasmo.storace@alice.it> *SCHEDE e RECENSIONI, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@tin.it>/ o: “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Leggi nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic su “Expand”). *Acquista copie cartacee dei nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic sulla copertina, poi su “Copie Cartacee”) *Leggi una selezione dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18) sul Sito www.francoangeli.it (clic su “Riviste”, o telefona all’Ufficio Riviste, tel. 02 2837141). *Acquista le copie cartacee dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18) con email a: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com *Autorizz. del Tribunale di Pavia n. 508 del 14.04.2000, Quadrimestrale elettr., Dir. resp.: Alfredo Marini. III° quadrimestre 2014 – Finito di stampare nell’ottobre 2014.


verum ipsum factum

Sommario SCHEDE ESSENZIALI (199-200)

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LETTURE – RECENSIONI

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EVOLUZIONISMO & SCIENZE NATURALI

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Francesco M. Scudo, Breve storia della Biosfera (inedito) Eleonora de Conciliis, L’evoluzione delle differenze. Per una lettura comparativa del darwinismo

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Sara Mazzotti, Leopardi & Nietzsche (II°. L’uomo)

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Giacomo Rinaldi, La filosofia dei valori di Heinrich Rickert e l’autoconfutazione dell’epistemologia neokantiana

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Chiuso in redazione il 15.09.2014 da Alfredo Marini


Rivista finanziata dalla

Fondazione Banca del Monte di Lombardia

ISBN: 978-1502950154 ISSN: 1592–5919

Questa rivista prodotta in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, è espressione della ASSOCIAZIONE P.E.M. ‐ MEDICINA ANTICA & SCIENZE UMANE (Pavia) Alfredo Marini, v. Emilia 24, 27100 PV, tel. 0382.475098, cell. 328.3208089


SCHEDE ESSENZIALI (199-200)

199. Josef König, Der Begriff der Intuition, Halle a. d. Saale 1926, p. 420. (a) Insieme a Georg Misch, Helmuth Plessner, Hans Lipps e Otto Friedrich Bollnow, Josef König (1893-1974) fu uno dei maggiori esponenti della “scuola diltheyana” di Gottinga. Dopo avere studiato filosofia, filologia classica e psicologia sperimentale nelle università di Heidelberg, Marburgo, Zurigo e Monaco di Baviera, si trasferì nel 1919 a Gottinga, dove fu allievo di Misch, con cui discusse la tesi Der Begriff der Intuition (1924). Dal 1924 al 1928 trascorse alcuni periodi di studio a Roma, Atene e Tubinga. Nel semestre invernale 1925-26 frequentò a Marburgo il corso di Heidegger su Logica. Il problema della verità partecipando anche al suo seminario. Tornato a Gottinga nel 1928, conseguì nel 1935 l’abilitazione all’insegnamento della filosofia con la dissertazione Sein und Denken. Studien im Grenzgebiet von Logik, Ontologie und Sprachphilosophie (Halle a. d. Saale 1937). Nonostante la sua adesione al Nationalsozialistisches Lehrerbund (l’associazione nazionalsocialista degli insegnanti) e il suo arruolamento nel Nationalsozialistisches Fliegekorps (1934), organizzazione paramilitare del partito nazionalsocialista, per motivi politici venne posto il veto a una sua chiamata all’Università di Amburgo come sucessore di Ernst Cassirer. Nel 1936 sostituì temporaneamente Misch a Gottinga, e nel 1937 venne incaricoto nella stessa università dell’insegnamento di logica e filosofia del linguaggio. Dal 1938 al 1943 partecipò alla seconda guerra mondiale come ufficiale di artiglieria. Dal 1946 al 1953 fu ordinario di filosofia ad Amburgo sulla cattedra che fu di Cassirer. Dal 1953 al 1961 insegnò filosofia a Gottinga come successore di Nicolai Hartmann. Oltre a Der Begriff der Intuition e Sein und Denken, König ha pubblicato lo studio Georg Misch als Philosoph, in: “Nachrichten der Akademie der Wissenschaften in Göttingen, philologischhistorische Klasse”, n. 7, Gottinga 1967, e i saggi Das spezifische Können der Philosophie als eu legein (1937), Das System von Leibniz (1946), Über einen neuen ontologischen Beweis des Satzes von der Notwendigkeit alles Geschehens (1948),

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Bemerkungen über den Begriff der Ursache (1949), Die Natur der ästhetischen Wirkung (1957), Einige Bemerkungen über den formalen Charakter des Unterschieds von Ding und Eigenschaft (1967), poi raccolti c/ di G. Patzig in: Vorträge und Aufsätze, Friburgo i. Br.-Monaco d. B. 1978. Tra gli scritti postumi ricordiamo il saggio Die offene Unbestimmtheit des Heideggerschen Existenzberiffs (1935), c/ di G. Van Kerckhoven-H.-U. Lessing, in: “Dilthey-Jahrbuch für Philosophie und Geschichte der Geisteswissenschaften”, 7, 1990-91, la raccolta Kleine Schriften, c/ di G. Dahms, Friburgo i. Br.-Monaco d. B. 1994 e il trattato Der logische Unterschied theoretischer und praktischer Sätze und seine philosophische Bedeutung, c/ di F. Kümmel, Friburgo i. Br.- Monaco d. B. 1994. (b) Nella prefazione alla seconda edizione di I gradi dell’organico e l’uomo, l’opera che, con La posizione dell’uomo nel cosmo di Max Scheler e L’uomo di Arnold Gehlen, si trova alle origini dell’antropologia filosofica tedesca del Novecento, Helmuth Plessner dichiara esplicitamente il proprio debito teorico con Josef König. Secondo Plessner, è stato König a elaborare, anche se non a formulare in modo esplicito, nella dissertazione di dottorato sul concetto di intuizione, la nozione di “posizionalità eccentrica” che si trova al centro della propria antropologia. Merito di König, secondo Plessner, è di avere “definito per la prima volta […] come terreno e medium della filosofia” la “condizione di eccentricità” che contraddistingue l’essere umano e per la quale egli “non è né il prossimo né il più lontano da se stesso, eppure attraverso questa eccentricità della sua forma di vita incontra se stesso come elemento in un mare di essere e così, malgrado il carattere affine al non essere della sua esistenza, appartiene allo stesso insieme di tutte le cose di questo mondo” (I gradi dell’organico e l’uomo, tr. it. Torino 2006, p. 6). Objettivo teoretico di questo studio di König è di pervenire a una “comprensione del concetto di intuizione”, ovvero a una determinazione filosofica dell’intuizione in quanto tale” (p. 1). Si dà – e in cosa consiste – una differenza tra “intuizione” (Intuition) e “vedere empirico” (empirisches Anschauen)? Come è possibile tradurre in concetti il fenomeno dell’“afferrare spirituale” (geistiges Erfassen), in cui ciò che viene afferrato è tale solo nell’atto dell’afferrare, ma in cui, al tempo stesso, è la “cosa stessa” che viene afferrata? Porre problemi di questo genere significa anche stabilire che cosa significa determinazione filosofica, e dunque qual è lo specificità del modo filosofico di porre problemi, che cos’è una “impostazione filosofica del problema”. Alla base dell’indagine di König si trova una concezione dell’essenza della filosofia, del suo modo di procedere, dei suoi objettivi e interessi da cui deriva, attraverso un “evento vivente di carattere spirituale”, una “disponibilità spirituale e psichica all’accettazione di certe ben determinate domande” (p. 1). Il punto di partenza di questa disponibilità interiore non è quacosa di “oggettuale” (gegenständlich) ma di “situazionale” (zuständlich), antecedente ogni possibile objettivazione e cristallizzazione in concetti. Questo non significa, precisa König, che tale prospettiva non sia objettivabile, ma che la sua oggettualizzazione è un compito ulteriore e diverso. Infatti: “Le forme del pensiero che ci aiutano a incarnare (verkörpern) un senso, non sono esse stesse questo senso, ma nel migliore dei casi un adeguato elemento esterno che offre un appoggio attraverso cui afferrare il senso stesso. Colui che vede non viene a sua volta visto” (p. 1). Il motivo per cui si arriva

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a una certa risposta alla domanda circa l’intuizione – che è a sua volta il risultato di un’intuizione – può essere compreso solo dopo una totale objettivazione delle condizioni complessive e sotterranee che muovono l’indagine. Ma resta dubbio se sia possibile fondare contemporaneamente l’oggetto e il metodo della filosofia Il filosofo può infatti risolvere i propri problemi solo con categorie specifiche, che solo in parte possono essere objettivate. Esempio ne è proprio il fenomeno dell’“afferrare spirituale”, che richiede di essere concepito come “perdita assoluta” (absoluter Verlust), poiché “il vedere qualcosa di determinato è in se stesso il non vedere un altro determinato”, e dunque la “pura attività dell’afferrare” è l’“esistenza della perdita assoluta”, e la “semplicità della relazione” implica la “perdita assoluta dell’altra relazione” (p. 8). Intesa in senso non empirico e corporeo, ma “spirituale” e “speculativo”, l’intuizione coincide con l’“enigmatico” intreccio tra soggetto e oggetto in cui, a partire dal “nulla” della coscienza, si costituisce la “sfera totale” dei fenomeni del mondo. Nell’intuizione, infatti, il soggetto e l’oggetto della visione, colui che vede e ciò che viene visto rappresentano due ipseità, due poli che hanno senso solo nella loro relazione o nel loro “insieme”. L’unità tra soggetto e oggetto, in cui consiste il fenomeno dell’intuizione, è caratterizzata da un’essenziale duplicità, in quanto il sapere si rivolge sia a oggetti finiti sia a oggetti infiniti, sia a oggetti che hanno un’esistenza spazio-temporale sia alle idee o essenze di questi oggetti. Per render conto della specificità di questi due aspetti del mondo König utilizza, trasformandole criticamente, categorie kantiane e hegeliane (ma importante è anche il riferimento a Dilthey, Husserl, Goethe e Bergson). Se Kant è stato infatti il “filosofo più profondo dell’oggetto finito”, Hegel si colloca in quella tradizione “speculativa” che, da Plotino a Cusano a Spinoza, da Fichte a Schelling a Husserl, ha cercato di mettere a punto strumenti concettuali atti a pensare l’oggetto infinito. A questa tradizione appartiene anche Goethe, nel cui concetto di “fenomeno originario”, basato sulla categoria del rapporto tra parte e tutto, e nella relativa differenza tra legge formativa insita in una totalità vivente e legalità intesa in senso deterministico, König individua gli strumenti di un pensiero non sistematico e non objettivante in grado di cogliere la totalità vivente del fenomeno dell’intuizione. In questo contesto acquistano un nuovo senso i concetti di “sintesi” (Kant) e di “mediazione” (Hegel): da una parte, la sintesi, in quanto “movimento originario” e “unità originaria”, non è predeterminata da una tabella dei giudizi e da forme fisse dell’intuizione; dall’altra, tra la sfera dell’oggetto finito e quella dell’oggetto infinito non c’è passaggio, ma salto, in quanto un abisso ontologico le separa. Se in Hegel la mediazione objettivante tra finito e infinito conduce a una superiore sintesi concettuale, König ritiene che, accanto all’unità “assoluta” delle due sfere, vada salvaguardata anche la loro assoluta differenza, con le relative opposizioni di proprio ed estraneo, interno ed esterno, predeterminazione e libertà, realizzazione e desiderio, essere e dovere. Alla categoria logica di “mediazione” (Vermittlung) subentra così la categoria paradossale di “intreccio” (Verschränkung), che, in modo analogo al “chiasma” di Merleau-Ponty, conserva l’opposizione e la differenza e rende necessario un “salto” in quanto esprime la mancanza di un punto di vista unitario e onnicomprensivo in grado di produrre una mediazione concettuale. König può così affermare che se finora i filosofi, sia quelli dell’oggetto finito sia quelli

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dell’oggetto infinito, hanno espresso solo aspetti o lati della totalità del mondo, si tratta ora di concepire la relazione semplice con un oggetto finito o con un oggetto infinito in base alla sua “essenziale duplicità”, pensando la “totalità del mondo” tanto come un “esistente finito” quanto come un “ente infinito”. (Massimo Mezzanzanica) 200. Josef König, Sein und Denken. Studien im Grenzgebiet von Logik, Ontologie und Sprachphilosophie, Halle a. d. Saale 1937, p. 222. (a) Vedi scheda n. 299. (b) Il fatto che questi studi su “essere e pensiero” si situino esplicitamente al confine tra gli ambiti tradizionali della logica, dell’ontologia e della filosofia del linguaggio è indicativo del ruolo che König attribuisce alla filosofia in un’epoca in cui diventa problematica la sua posizione nell’insieme delle scienze e dei saperi. Un’impostazione che voglia preservare e valorizzare nel suo significato positivo l’indeterminatezza dell’ambito esperienziale cui si riferisce il discorso filosofico dovrà evitare di rifugiarsi nei tradizionali confini disciplinari per interrogarsi invece sull’origine del pensiero oggettuale e sulla costituzione del rapporto oggettuale con il mondo. Un approccio di questo genere – in cui è leggibile l’influsso della logica “ermeneutica” di Georg Misch (cf. scheda n. 172: Der Aufbau der Logik auf dem Boden der Philosophie des Lebens) – lungi dal voler fissare in modo rigido i rapporti tra essere e pensiero, realtà effettuale e linguaggio, riducendoli a un dato meramente objettivo o a un elemento esclusivamente soggettivo, individua come caratteristica essenziale della dimensione costitutiva di cui si occupa la filosofia l’intreccio indissolubile tra soggettività e oggettività e attribuisce alla filosofia il compito di determinare differenze formali nell’uso del linguaggio. Una differenza di questo genere è quella – che König pone alla base della sua trattazione – tra predicati “determinanti” (per es. le proprietà sensibili degli oggetti) e predicati “modificanti” (per es. quelli espressi in parole come “ragionevole”, “giusto”, “bello”, “buono”, “nobile”, “vivace”). Mentre i primi esauriscono completamente il loro oggetto determinandone le proprietà in base a precise convenzioni linguistiche, i secondi, che rendono percepibile “il grande enigma del carattere non sensibile di ciò che è”, giudicano qualcosa in quanto tale esprimendone (e al tempo stesso rendendone possibile) l’effetto su qualcuno: non si tratta di determinazioni di carattere teoretico, ma di “espressioni di vissuto” nel senso di Dilthey o di “espressioni evocative” in quello di Misch. (c) Per comprendere i predicati modificanti non basta conoscere e applicare le convenzioni linguistiche, ma bisogna accedere direttamente alla cosa stessa data nell’impressione – un’impressione che non sussiste senza la parola, ma nemmeno è creata dalla parola e dalla rappresentazione che essa suscita. In quanto esprimono proprietà che spettano alle cose “puramente in virtù di se stesse”, ma che al tempo stesso sono legate a una soggettività che le percepisce e le nomina, i predicati modificanti si collocano in una dimensione relazionale e modale e rinviano al

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“come” di un certo “effetto” (Wirken), che viene analizzato da König da un punto di vista “logico” e “ontologico”. Esprimendo l’effetto dell’ente in quanto “impressione determinata”, l’“impressione di qualcosa di determinato” è caratterizzata dal fatto che “il suo di-che la abita in modo genuino” e rinvia dunque a un modo d’essere diverso dall’“esser-sottomano” (Vorhandensein) delle relazioni puramente teoretiche. D’altra parte, in quanto nei predicati modificanti il contenuto è dato in una presentificazione diretta e non in forma oggettuale e rappresentabile, si annuncia in essi un tipo specifico di conoscenza, diverso dalla conoscenza segnica tramite immagini o parole. La distinzione tra predicati determinanti e predicati modificanti diventa così la chiave di volta di una logica del non-apofantico e di una dottrina non referenziale del significato: se il linguaggio non è mera riproduzione segnica degli oggetti e dei significati, il significato non è una proprietà esteriore dei segni linguistici e degli oggetti, né un invenzione arbitraria dei soggetti, ma un originario venire al linguaggio che ha luogo in una dimensione intermedia tra soggettività e oggettività. Con i suoi studi – che trovano un parallelo nelle ricerche logiche e gnoseologiche di Hans Lipps (cf. Untersuchungen zu einer hermeneutischen Logik) – König mette così in luce la duplicità che appartiene originariamente al linguaggio e che consente di render conto del reale non solo in quanto teoreticamente conoscibile o come fonte e/ o oggetto di validità normativa, ma anche nelle sue costitutive determinazioni qualitative ed estetiche. (Massimo Mezzanzanica)

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LETTURE – RECENSIONI

Marcello Zanatta

Il ‘Platone’ di John Findlay e Aristotele

1. – È Findlay stesso a tracciare le linee maestre della sua esegesi del pensiero platonico e a indicarne i capisaldi nella “Prefazione dell’autore” all’edizione italiana del suo Platone. Le dottrine scritte e non scritte. Con una raccolta delle testimonianze antiche sulle dottrine non scritte (p. LVILVIII), a cura di Giovanni Reale (Vita e Pensiero, Milano 1994), che ha altresì presentato criticamente l’opera, tradotta dall’inglese da Richard Davies, in un’utile Introduzione (p. VII-XL)1 e ha aggiunto in Appendice, nella sua versione italiana, le testimonianze antiche sulle dottrine non scritte2. Le indicazioni che Findlay dà circa le pietre miliari della sua esegesi platonica e i relativi capisaldi teorici sono precise e puntuali. Ed effettivamente la lettura dello scritto permette di constatare con assoluta nitidezza che il percorso si sviluppa lungo una via maestra segnata di esse. Cosicché è opportuno servirsene da guida nell’analisi dell’interpretazione dell’autore. Occorre tuttavia precisare, in via preliminare, l’ambito entro il quale questa complessivamente si muove. Si tratta dello spazio aperto dal cosiddetto

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L’importanza di quest’Introduzione non dev’essere sfuggita allo stesso Reale, che l’ha fatta stampare in un corpo maggiore rispetto a tutte le altre parti del volume, compreso il testo stesso di Findlay. 2 A corredo del volume l’elenco completo degli scritti di Findlay per opera di Michele Marchetto (p. XLI-LII), che di alcuni – i più recenti – offre pure una presentazione ragionata.

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“nuovo paradigma” proposto dagli studiosi della scuola di Tubinga e Milano. Findlay stesso non manca di dichiarare che fu la pubblicazione “delle opere di Krämer, di Gaiser e di altri” a convincerlo a esporre quelle convinzioni sulla filosofia di Platone che aveva maturato subito dopo la laurea a Oxford in litterae humaniores nel 1926, ma non aveva mai ritenuto di presentare. I fautori del “nuovo paradigma” gli hanno, dunque, offerto la prospettiva idonea a farlo. In effetti, da costoro egli deriva l’impostazione esegetica di fondo, costituita dall’idea che Platone non sia comprensibile sul piano filosofico se non entro un quadro teorico unitario che abbraccia tutte le sue espressioni e vi dà significato. Esse sono rappresentate dai Dialoghi, dalle Lettere (soprattutto la settima) e dalle testimonianze della tradizione orale. Subito si indicheranno le differenze strutturali sussistenti a questo proposito tra l’esegesi dei fautori del “nuovo paradigma” e l’esegesi di Findlay, ma ciò che in questo momento preme mettere in chiaro è la comune impostazione di fondo: il pensiero di Platone non soltanto si sviluppa secondo una linea unitaria e continua, ma è retto da un’unica concezione di base e manifesta dall’inizio alla fine, ossia dalle sue espressioni cronologicamente primarie alle ultime, la medesima dottrina. 1. 2 – Qui entra in causa l’idea di “sistema”. Non vi è dubbio che i fautori del “nuovo paradigma” presentino la filosofia di Platone come un sistema compatto. Di “sistema” si deve parlare anche a proposito del Platone di Findlay, ove per “sistema” s’intende una composizione univoca e unitaria delle parti, e tale che in essa l’idea che si trova alla fine si trova identicamente anche all’inizio. E poco importano, a questo livello, le differenze di struttura tra il sistema tubinghese e il sistema findlayano, che peraltro sono rilevanti e saranno subito messe in chiaro, giacché entro un inquadramento complessivo e in linea generale è interessante rilevare l’identità d’impianto che fatalmente sono destinati ad avere quei modi d’accostarsi a un pensatore che nella sua produzione si sforzano di rintracciare nessi di continuità legati allo sviluppo di una medesima idea di fondo. Più o meno aperto (o chiuso) che sia il sistema delineato, esso rivela in ogni caso, essenzialmente, l’impiego di un medesimo cliché nell’indagine storiografica, e il carattere della maggiore o minore apertura (o chiusura) rappresenta soltanto una variazione lungo il medesimo motivo. Le differenze tra i due modi di rappresentare il “sistema” della filosofia di Platone chiamano direttamente in causa alcuni di quei capisaldi dell’esegesi findlayana, richiamati dallo stesso studioso, che, come si diceva in apertura, è utile e importante utilizzare come filo conduttore per comprendere criticamente la sua opera.

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Va innanzitutto messo in chiaro che, mentre per i fautori del “nuovo paradigma” ciò che rende la filosofia di Platone un sistema, e un sistema compatto e per così dire monolitico, è costituito dalla metafisica delle dottrine non scritte, la cui presenza allusiva essi pretendono di rintracciare fin dai primi Dialoghi, per Findlay il carattere sistematico della filosofia di Platone è espresso dall’unità non di una dottrina, ossia di “un disegno conclusivamente elaborato”, bensì di un “progetto” dottrinale. 1. 3 – Un progetto che – ecco una seconda basilare differenza – il filosofo né tradusse mai in uno scritto, né espresse mai in una formulazione compiuta e organica perché si trattava di un “programma profondo e costante”, ma “poco chiaro per quanto riguarda il suo scopo e il suo metodo” (p. LV), insomma “una visione incipiente […] che”, in quanto tale, “non poteva mai ricevere una chiara espressione scritta” (p. 319), stante che Platone “non poteva comunicare ad altri le cose che non sapeva dire chiaramente a se stesso” (p. LVI). Essa è sì “interamente intelligibile” (p. LVI), ma come visione d’insieme, giacché per ciò che riguarda il dettagliato e preciso comporsi degli elementi mancano i termini stessi su cui giudicare. Il carattere orale della dottrina costituente il nucleo del pensiero platonico è dunque dovuto al suo essere soltanto un progetto, una delineazione di massima che non ricevette mai una formulazione dettagliata, e non già – come ritengono i fautori del “nuovo paradigma” – perché essa toccava livelli di profondità tali da non poter essere compresa di chiunque, come invece accade a uno scritto, ma da essere presentata unicamente ad adepti. Nella linea esegetica del “nuovo paradigma” la superiorità della comunicazione orale del pensiero filosofico è, insomma, una scelta dettata dalla profondità dello stesso e dalla sconvenienza di offrirlo anche a chi non si sia adeguatamente coltivato nella filosofia. Per Findlay, invece, è la conseguenza della consapevolezza di Platone dell’incompiutezza del suo disegno filosofico. 1. 4 – Ma anche per ciò che attiene al contenuto della dottrina lo jato tra le due esegesi è notevole. Tanto più notevole quanto più si colgono le prospettive nelle quali vengono proposte e le si commisuri a esse. Si tratta di sfondi teorici di valore ultimativo, che segnano il senso profondo delle due esegesi medesime. Per i fautori del “nuovo paradigma” il nucleo del pensiero di Platone, quel nucleo che si ritroverebbe in tutte le sue espressioni, a partire dai primi Dialoghi, è la metafisica del principi, dell’Uno e della Diade indefinita di Grande e Piccolo, che costituiscono il portato della tradizione indiretta. Dottrina “metafisica”, si è detto, perché tale è il significato di fondo che gli studiosi di questa linea esegetica – Reale in testa – conferiscono alla filosofia di Platone e in essa individuano il suo spessore filosofico. Detta filosofia è essenzialmente una metafisica. Certo, anche l’aspetto ma-

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tematico entra necessariamente in causa, giacché intorno a esso si sviluppano le testimonianze della tradizione indiretta e a esso s’improntano i Dialoghi come il Filebo con la teoria del limite e dell’illimitato. Ma si tratta di un aspetto che si risolve in una visione metafisica: la dimensione matematica è rilevante in quanto chiama in gioco i “principi” – l’Uno, per l’appunto, e la Diade indefinita –, i quali, essendo principi dei numeri, ai quali si riconducono le Idee, sono in ultima istanza i principi della totalità dell’esistente. Dunque, una valenza metafisica, nella quale si risolve la valenza matematica. Ovvero – altrimenti detto – la struttura matematizzante è in essenza l’espressione dottrinalmente concreta in cui prende forma una grandiosa concezione metafisica della realtà. Non così, invece, per Findlay, che sfuma sulle implicanze metafisiche del progetto di matematizzazione, fissando per contro l’attenzione teorica proprio sul carattere matematico del progetto medesimo. Ciò che, a suo avviso, in ultima analisi interessa a Platone è delineare una prospettiva di massima nella quale i significati ideali siano raccolti e delineati nei loro rapporti quantitativi. Ai fautori del “nuovo paradigma” preme prospettare, invece, il pensiero di Platone nei termini di un sistema compatto nel quale si scandisce un preciso disegno della totalità dell’esistente a partire da due principi. La metafisica, insomma, da un lato, la matematizzazione, dall’altro. In questo Findlay mostra la propria formazione analitica, giacché è ben vero che è studioso anche di Hegel, da cui ha derivato – con ogni probabilità – l’idea di sistema come progetto in sviluppo (anche se, a ben vedere, da Hegel egli si stacca nel ritenere che il progetto, almeno in Platone, non è mai concluso, non giunge cioè alla piena realizzazione così da configurare l’assoluto in sé e per sé), ma per ampia parte le sue radici culturali affondano nella fenomenologia e la sua educazione filosofica si svolge in ambiente anglosassone. 1.5 – Altro aspetto basilare che divide l’esegesi di Findlay da quella dei fautori del “nuovo paradigma” è il differente peso data ai sistemi neoplatonici di Ammonio Sacca e di Plotino o, almeno, a una parte di essi, quella cioè che concerne la dottrina delle tre ipostasi. Nel senso che per Findlay il Neoplatonismo dà la cifra del pensiero di Platone e funge pertanto da criterio in base a cui coglierne il significato. In effetti, esso, “con poche eccezioni, è completamente fedele al suo modello ed esprime semplicemente ciò cui si perviene, se si medita sui passaggi maggiormente speculativi delle opere scritte di Platone” (p. 343). Per cui “è solo alla luce di un’interpretazione plotiniana che Platone assume la sua piena statura” (ivi). I fautori del “nuovo paradigma” non mancano certo di misconoscere l’importanza del Neoplatonismo per la comprensione di Platone, ma non ne fanno davvero il criterio per accedere alla peculiarità della dimensione storica del suo pensiero. Si 13


tratta invece di uno sviluppo e pertanto va letto come prospettiva, non come cifra documentale. È comunque interessante mettere in rapporto quest’avvaloramento del Neoplatonismo quale criterio ermeneutico di Platone e il carattere soltanto progettuale del suo disegno matematizzante. Tale rapporto, infatti, contribuisce non poco a far intendere l’esegesi posta in atto da Findlay. Così, se si considera la dimensione afatica che in Plotino la speculazione raggiunge al suo culmine, quando cioè perviene all’Uno, e che il carattere di strutturale incompiutezza e di mera progettualità dell’impianto matematizzante del pensiero platonico è dovuto, ad avviso di Findlay, all’impossibilità, riconosciuta da Platone stesso, di un linguaggio e di un impianto concettuale in grado di esprimerlo adeguatamente (cf. p. 319: “Platone con il suo profondo senso critico della inadeguatezza di ogni espediente linguistico e concettuale …”), si trova una singolare e significativa convergenza. All’idea che i principi ultimi sono attingibili, per Platone, soltanto a livello di pura progettualità e mai di dettagliata definizione e di piena ed esaustiva esibizione della loro interna dinamica per l’insufficienza di ogni possibile linguaggio e i limiti della conoscenza, ha contribuito non poco la scelta esegetica di fare del Neoplatonismo e in particolare di Plotino, con la teoria delle tre ipostasi, la chiave di lettura del pensiero di Platone. In questa chiave, infatti, l’Uno plotiniano con la sua ineffabilità funge inevitabilmente da lente d’ingrandimento per scrutare la natura dell’Uno platonico entro il progetto di globale matematizzazione. 2. – È probabile che questa singolare e – francamente – discutibile scelta esegetica sia alla radice di certi giudizi che Findlay ha pronunziato circa l’interpretazione aristotelica del pensiero di Platone e, specificamente, la fonte aristotelica delle dottrine non scritte. Una fonte alla quale Findlay, in linea in questo con i fautori del “nuovo paradigma”, riconosce piena attendibilità, impegnandosi anche a confutare, e in modo assai convincente, l’interpretazione di Cherniss detrattore, notoriamente, di qualsivoglia valore storico alla testimonianza dello Stagirita (p. 375-398). Anche Findlay, infatti, al pari dei fautori del “nuovo paradigma”, è convinto che il pensiero di Platone appare nella sua giusta luce, ossia in una prospettiva storiografica che possa vantare di esprimere “ciò che egli ha autenticamente e veramente detto”, solo integrando i Dialoghi, le Lettere e la tradizione indiretta. I Dialoghi – egli puntualizza, polemizzando con l’esegesi “classica” di Platone, sviluppatasi a partire da Schleiermacher – “presi per se stessi non consentono a nessuno di esprimere il proprio parere su nessuno degli argomenti in essi discussi: rimandano al di là di se stessi […] Certamente contengono le intuizioni platoniche più profonde” (p. LV),

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e tali sono quelle che richiamano le istanze di quel progetto di matematizzazione che costituisce l’asse portante della filosofia platonica, ma per coglierle nel loro valore speculativo, ossia nella loro profondità, occorre non isolarle, ma comporle con le dottrine non scritte. Così, “un’analisi di Platone […] che si limiti alla lettura dei dialoghi3 finirebbe per spogliare Platone della sua dignità filosofica e del suo interesse” (p. LV).

Per altro verso, se ogni espressione del pensiero di Platone, e in particolare i Dialoghi, si comprende soltanto all’interno del progetto di matematizzazione e del suo riferirsi “in modo palese a uno o due principi fondamentali”, nei quali risiede “l’essenza chiarificatrice del tutto” (p. LVI), è evidente che Findlay non può ammettere un progresso nello sviluppo della filosofia platonica. Certo, egli riconosce che l’elaborazione di tale “grandioso progetto” attraversa “molte tappe successive” (p. 17), ha cioè uno “svolgimento”; ma si tratta di uno svolgimento che non comporta alcun autentico progresso nel passaggio da una “fase” all’altra, bensì soltanto differenti modi di attestarsi del progetto in rapporto a differenti ambiti problematici. E che questo “sviluppo” non rappresenti affatto per Findlay un “progresso”, si ricava agevolmente dalla sua stessa valutazione della successione delle fasi: “nessuna” di esse egli ritiene infatti che sia stata “conclusiva”, e “alla fine <il progetto stesso fu> assegnato alla classe dell’inaccessibile piuttosto che a quella del perfettamente realizzabile” (p. 17). Cosicché, anche ammettendo che in tale progetto e nei principi dell’Uno e della Diade in cui si compendia si debba riscontrare la cifra, per Platone, della spiegazione ultima del reale, questa cifra non sarebbe il risultato “ultimo” di una riflessione che vi perviene solo nella fase finale del suo svolgimento. Giacché anche i primi Dialoghi – come abbiamo visto – testimonierebbero, ad avviso di Findlay, con le loro “intuizioni più profonde” l’esistenza di quel progetto, che perciò deve pensarsi essere stato nella mente di Platone fin dal primo momento del suo affacciarsi alla filosofia4. Peraltro, “neppure la successione storica dei dialoghi […] riesce a dare un quadro chiaro dello sviluppo del pensiero di Platone” (p. LV). Chi ha pensato a uno sviluppo storico della filosofia platonica secondo una linea di successivi approfondimenti e tale che lungo di essa le dottrine non scritte, accertate nella loro effettiva autenticità platonica, corrispondono alla fase finale, si è ingannato ed è caduto in un grossolano abbaglio esegetico. 3 Findlay usa “dialoghi”, con l’iniziale minuscola, a proposito degli scritti di Platone, e così ho lasciato nelle citazioni. 4 Significativa a questo proposito la seguente affermazione di Findlay: “Platone anche in questo periodo iniziale capì che solo nel senso di una globale struttura matematizzata, oppure aritmetizzata, il regno intero dei significati ideali poteva svilupparsi dall’Uno, che era alla base sia dei significati numerici, sia delle virtù socratiche” (p. 17).

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E allora si delinea una situazione, per la verità non poco paradossale e inverosimile, secondo cui Platone fin dal primo momento del suo filosofare avrebbe avuto in mente una concezione complessiva della realtà alla luce della quale si esplicherebbe il significato profondo di tutte le sue meditazioni, anche di quelle prime, ma che al contempo egli stesso non poté mai formulare compiutamente perché conscio dell’impossibilità di definirla in dettaglio. I Dialoghi, in particolare, sarebbero comprensibili soltanto alla luce di un progetto che è sì intelligibile, ma soltanto limitatamente, stante che lo è solamente per linee generale e nel suo insieme. Dunque, in modo approssimativo. 2.1 – La prima domanda che verrebbe da porre è perché mai Platone avrebbe riposto il senso ultimo del tutto, e sin dall’inizio della sua speculazione, in un progetto che non è definibile se non a grandi linee. È verisimile supporre che, per lui, la conoscenza di ciò che è il fondamento di ogni cosa e che in quanto tale ne racchiude la verità profonda ed essenziale è una conoscenza che non si raggiunge in modo determinato? E inoltre: è plausibile che Dialoghi come l’Apologia di Socrate e l’Eutifrone – per citare i casi più eclatanti –, dove la riflessine verte sul processo intentato al Maestro ateniese e sul santo, s’inquadrino in una concezione della totalità dell’esistente e non siano comprensibili se non in essa? Che cosa ha a che fare la dimensione dell’intero con la rammemorazione della difesa di Socrate e con la ricerca di che cos’è la santità? E infine: come può essere “pienamente intelligibile” (sic!) un disegno in cui non è né definito né definibile il nesso tra le parti? 3. – Poiché dunque il progetto globale entro cui va inquadrata la filosofia di Platone è quel progetto di matematizzazione confluente nella dottrina dei principi attestata dalla tradizione indiretta e, soprattutto, dalla testimonianza di Aristotele, occorre vedere in dettaglio come Findlay si rapporta a questa testimonianza e, in generale, come legge l’interpretazione aristotelica di Platone. 3.1 – Per un verso, com’è ovvio, la sua valutazione di essa è altamente positiva. Essa è la fonte primaria da cui si trae informazione delle dottrine non scritte, e poiché queste a suo avviso sono certamente ascrivibili a Platone e costituiscono il fondamento del suo pensiero, è ovvio e imprescindibile che consideri la notizia aristotelica in proposito degna di molto valore. Dobbiamo […] essere profondamente grati ai resoconti aristotelici – scrive inequivocabilmente Findlay (p. 319) –, che sono saldi e coerenti nelle loro linee principali […] e che inoltre sono degni di fede per il fatto che ciò che essi riferiscono non poteva essere il prodotto della capacità di fraintendimento di Aristotele.

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Si tratta, com’è noto, dei “resoconti” costituiti da Metaph., I, 6; 9; XIII; XIV, nonché dai frammenti del Sul bene, quel “resoconto” della lezione (o del corso di lezioni) di Platone sul bene i cui contenuti sono altresì riproposti nella Metafisica. Ma per altro verso Findlay imputa ad Aristotele – come già appare nel giudizio sopra riportato e poi a più riprese viene ribadito (cf., per esempio, p. LVI: “Aristotele non capì mai il programma platonico”) – un vero e proprio “fraintendimento” del pensiero di Platone, praticato nel presentare non soltanto la teoria delle Idee, ma altresì quelle dottrine non scritte. Gli stessi resoconti di queste, se sono globalmente degni di fede, sono però, a suo vedere, “oscuramente contraddittori nei loro particolari” (ivi). Si tratta pertanto di vedere in modo analitico in che cosa consiste un tale fraintendimento, di valutare in quale ottica Findlay lo giudica tale e, in ultima analisi, se si tratta davvero di un fraintendimento del pensiero di Platone. Va in ogni caso fatto presente che nel formulare un siffatto duplice giudizio su Aristotele: di attendibilità, quanto alla credibilità e al valore storico delle notizie fornite intorno alle dottrine non scritte, ma al contempo di fraintendimento sia di queste stesse che della dottrina delle Idee, Findlay si allinea in tutto ai fautori del “nuovo paradigma”, anche questo annoverandosi tra i motivi di solidarietà delle due esegesi, per cui la valutazione che a questo riguardo si trarrà circa il giudizio di Findlay potrà considerarsi estendibile anche ai fautori del “nuovo paradigma”. 3.2 – Ora, l’aspetto forse più vistoso del “fraintendimento” aristotelico, quel fraintendimento che a partire da Aristotele si è perpetrato per secoli e secoli nell’esegesi di Platone e che sta alla base dell’incomprensione della genuina valenza del progetto platonico, consiste nell’aver egli concepito le Idee in modo dualistico rispetto agli enti empirici, come se si trattasse di un secondo mondo di significati separati, in contrasto con il mondo solido delle cose particolari” (p. LVII).

A partire da questo fraintendimento il progetto stesso di matematizzazione e, di conseguenza, la natura dei principi (l’Uno e la Diade indefinita) che ne stano alla base risultano falsificati. La falsificazione, derivante per l’appunto dall’incomprensione da parte dello Stagirita del progetto platonico e del ruolo che in esso hanno le Idee, consiste nell’aver egli presentato queste ultime come ipostatizzazioni degli universali, vale a dire come universali esistenti in modo separato, ossia aventi un’esistenza in se stessi, in tale esistenza separata avendo lo Stagirita surrettiziamente risolto il carattere del “per sé” che Platone annette ai significati ideali, ma in tutt’altra valenza. In effetti, ad avviso di Findlay, per Platone “le cose particolari […] non hanno 17


in sé niente di sostanziale, niente di onticamente ontico” (p. LVII), ma sono soltanto esemplificazioni di significati ideali giacché “figurano soltanto nella descrizione di quello che gli eidē sono e di quello che gli eidē producono”, ivi). 3.2.1 – Occorre subito osservare l’impostazione neoplatonica di questo modo d’intendere la natura degli enti empirici e l’applicazione di una concezione plotiniana a Platone. La materia, notoriamente, per Plotino corrisponde al massimo depotenziamento dell’essere e quasi al non-essere. In perfetta analogia Findlay attribuisce a Platone la teoria che “le cose”, più esattamente gli enti empirici, che sono per l’appunto materiali, non hanno nessuna consistenza “onticamente ontica”. 3.2.2 – Già questa convinzione, che sta alla base della costruzione esegetica findaleyana del progetto matematizzante di Platone e del corrispondente fraintendimento aristotelico, è rivelativa del suo carattere fortemente congetturale e, vien da dire, del modo assolutamente “personale” di leggere i piani di realtà (assoluto essere, divenire = essere e non-essere, assoluto nonessere ovvero nulla) proposti da Platone, per esempio, nel noto passo della Repubblica dove è a tema, in corrispondenza a essi e per i corrispondenti risvolti gnoseologici, la teoria della “linea divisa”. Qui l’assoluto non-essere – in termini findlayani l’assoluta assenza di onticità ontica – non è attribuito certo al divenire e alle “cose” che ne sono soggette, giacché esse, ad avviso di Platone, sono essere e non essere, tale per l’appunto essendo il divenire. Dunque, per quanto labile sia la loro realtà, le cose hanno consistenza reale, ossia essere, sia pur congiunto a non-essere. In effetti, non sono mere “esemplificazioni” di significati ideali, ma “copie” dei modelli ideali, e la copia è alcunché di reale, ancorché la sua realtà sia mutevole e imperfetta. E ancora: le cose mutevoli e sensibili – scrive Findlay – non sono niente in se stesse; possiedono l’essere solo nel senso in cui incarnano, rispecchiano, dimostrano in modo molteplice, partecipano in modo imperfetto e disperso o, come si dice in termini moderni, esemplificano un eidos o una classe di eidē. L’essere degli esempi è esaurito dalla loro esemplificazione, della quale i soli soggetti logici sono gli eidē; gli esempi stessi sono, in realtà, esemplificazioni, subite dagli eidē, di cui sono mere modalità” (p. 31).

Va subito rilevato che nessuno dei termini posti in campo da Findlay per specificare la natura degli enti empirici rispetto alle Idee traduce “partecipazione (metexis)” e “imitazione” (mimesis) con i quali Platone esprime questo rapporto, né sul piano concettuale il denotato dei primi corrisponde al denotato dei secondi. In realtà, non si “rispecchia” e non si “imita” un “aspetto unitario”. 18


Che dunque per Platone le cose siano “esemplificazioni” delle Idee e non abbiano altra realtà che quella di meri “esempi” di esse, corrisponde a una lettura del tutto impropria dei concetti e dei termini reperibili negli scritti platonici. 3.3 – Il secondo momento del progetto platonico, frainteso da Aristotele, è il passaggio dalle cose ai significati ideali, ovvero alle Idee. Non si tratta del passaggio da un “essere” mutevole a un “essere” stabile, ovvero – secondo la terminologia e la concettualità del Fedone – dal “visibile” all’”invisibile”, ossia da due ordini di “realtà”, tali essendo le “realtà” che cadono sotto il senso della vista e quelle che non si colgono sensibilmente, ma del passaggio dagli esempi ai significati da essi esemplificati. La prima fase [“prima” nel quadro del progetto platonico, corrispondente a quello che abbiamo indicato come “secondo momento”] consiste nel mettere al centro della realtà un certo numero di modelli in cui l’intelligibilità e l’eccellenza siano preminenti, e intorno ai quali si raggruppino tutte le altre possibilità e verità come frammenti del pensiero (p. 20).

Tali “modelli” sono esattamente le Idee o – come sovente le denomina Findlay – i significati ideali, che fin dal loro essere raggiunti da Platone si presentano, secondo l’interprete, come “frammenti del pensiero” e, come tali, necessitanti di essere ricondotti a unità. Ma prima di essere fatti oggetto di una tale riconduzione egli “cerca di classificarli secondo principi ad essi intrinseci” (ivi). È questa la “seconda fase”, e i principi loro intrinseci sembrano essere i cinque generi del Sofista. Ma non è l’identificazione di ciò a cui con questa espressione l’interprete allude che in questo momento interessa fare oggetto di riflessione. 3.3.1 – Interessa invece porre l’accento sul fatto che il passaggio a questi modelli non si configura affatto come passaggio a un “secondo mondo” solo nell’ottica in cui gli enti empirici non costituiscono affatto un “primo mondo” giacché sono mere esemplificazioni. La de-realizzazione di essi sul piano “onticamente ontico” è il presupposto teorico e al tempo stesso esegetico che permette di dire che nella seconda fase Platone non raggiunge un piano ulteriore di “realtà” rispetto a quello delle cose e che, dunque, l’interpretazione dualistica delle Idee è un fraintendimento. Tale fraintendimento è l’esito e la conseguenza della convinzione che gli enti empirici per Platone non hanno consistenza reale, sia pur labile, ma sono solamente esempi. Una convinzione – abbiamo testé avuto modo di osservare – del tutto “personale” di Findlay e per niente affatto rispondente non soltanto a riscontri sui testi platonici né a considerazioni su di essi, ma addirittura in contrasto con questi. 19


In quest’ottica il “fraintendimento” aristotelico delle Idee di Platone, quel fraintendimento che è stato seguito per secoli e secoli nella presentazione storiografica del pensiero di questo filosofo, si configura come esso stesso il risultato di un “fraintendimento”. 3.3.2 Nel presentare la natura delle Idee Findlay fa riferimento pressoché interamente al loro carattere d’intelligibilità, ossia di significati stabili. Nel passo precedentemente riportato è esattamente questa dell’intelligibilità la connotazione con cui le qualifica. Vi aggiunge anche l’eccellenza, determinazione che a ben vedere si risolve nell’intelligibilità. Infatti da quel contesto così come da altri passi si comprende che tale determinazione è contrapposta dall’interprete alla mutevolezza delle “esemplificazioni”, non a caso chiamata direttamente in causa e contrapposta a sua volta alla stabilità degli eide là dove egli afferma che “la tendenza fondamentale del Platonismo” fu generata dalle sue origini nella teoria di Eraclito e di Cratilo intorno al flusso e dal desiderio di riproporre in una versione ripristinata la stabilità eleatica (p. 30);

ond’è che l’eccellenza degli eide risiede nella stabilità del significato, ossia nella stabilità della dimensione intelligibile. Peraltro va richiamato che assai spesso Findlay indica gli eidē come “significati ideali”, marcando in tal modo anche a livello della denominazione che loro caratteristica basilare è l’intelligibilità, di cui il significato è il riverbero e, per così dire, la faccia speculare. Dunque, ciò che negli eidē è stabile è il significato ed essi sono significati stabili, ossia permanenti. Per contro Findlay sembra non considerare o comunque dare assai scarsa rilevanza nella sua esegesi al loro carattere di universalità. Va infine considerato un terzo carattere delle Idee, ampiamente attestato nei Dialoghi, ossia il loro essere per sé. Findlay, che rifiuta l’interpretazione dualistica degli eidē, non presenta questa determinazione come denotante il loro essere separate, vale a dire sostanze, ma come espressione della stabilità o permanenza dei significati in cui consistono. Ora, su queste determinazioni: significati, permanenti, universali, per sé, occorre riflettere. E innanzitutto occorre osservare che la permanenza, ossia la stabilità, per il fatto stesso di indicare continuità nell’“esistere”, ovvero il perdurare nell’“essere”, non può che rappresentare un carattere della sostanza, stante che essa financo dal termine che la esprime (ousia) chiama in causa l’essere (to on), e – più esattamente – un carattere costitutivo di essa. Dunque, l’essere gli eidē significati stabili, ovvero per sé, null’altro può voler dire se non che sono significati sostanziali. Ma proprio questo fa problema. Giacché carattere peculiare della sostanza (non solo della sostanza 20


aristotelicamente concepita e teorizzata, ma di ogni concezione della sostanza, vale a dire della nozione di sostanza in quanto tale; si pensi per esempio a Spinoza, che definisce la sostanza res quae ita existit ut nulla alia re indigeat ad existendum) è l’essere separata, l’avere cioè un’esistenza per se stessa. Ma l’essere “significati separati” è una contraddizione in termini. Gli eidē, infatti, sono universali. Il significato stesso, a ben vedere, è un predicato, ossia un universale. Pertanto, l’essere gli eidē significati separati vuol dire che sono sostanze universali separate, e questo è impossibile, giacché l’universale per sua stessa natura (quella sua natura che è stata puntualizzata da Aristotele, ma che non corrisponde al “suo” modo di concepire l’universale, bensì ne manifesta il proprium) è ciò che si predica dei molti, ossia l’unita di un molteplice, e come tale non può sussistere che nei molti stessi, non separatamente da essi. Sotto questo profilo l’avere Aristotele presentato le Idee platoniche come sostanze universali separate e, dunque, come un assurdo, forse potrà anche non essere “ciò che Platone ha veramente detto”, ma è senz’altro “la verità” di ciò che ha detto, in quanto la denunzia fa riferimento a strutture formali della sostanza in quanto tale e su di esse si áncora, e dunque prescinde dal modo in cui Platone l’ha pensata (se mai l’abbia pensata così come Findlay ritiene), attestandosi invece in assoluto. 3.3.3 – Ma anche in riferimento a una differente concettualizzazione – in realtà a una differente formulazione delle istanze sopra richiamate – questa stessa conclusione s’impone. In Cat., 5, com’è noto (uno scritto che per la sua datazione pristina è cronologicamente assai vicino alla presenza dello Stagirita nell’Accademia se non addirittura databile al tempo di essa, cosicché il confronto con le Idee platoniche risulta particolarmente vivo), Aristotele, dopo aver distinto la predicazione essenziale o “dirsi di un soggetto” dalla predicazione accidentale o “essere in un soggetto” e aver tracciato sulla base della combinazione di queste due strutture predicative una prima mappa ontologica, definisce la sostanza prima, ovvero quella che si dice “in senso primario e principale (protos kai kyrios)” come ciò che né è “in un soggetto”, né “si dice di un soggetto”. Si tratta dunque della sostanza individuale, ovvero dell’individuo sostanziale. L’individuo, pertanto, rappresenta la sostanza a più forte titolo, mentre le sostanze universali, vale a dire le specie e i generi sostanziali, sono “sostanze seconde”, le quali indicano “quale è” piuttosto che “che cos’è”5. Ora, se le 5 Dottrina questa, che la sostanza prima è l’individuo, che non è affatto contraddetta da Metaph., VII, 3 dove Aristotele sostiene che sostanza prima è la forma o essenza. Ciò è piuttosto uno sviluppo e un approfondimento della dottrina di Cat., 5. Ché, nel tempo in cui compose questa pramgateia o questo logos Aristotele non aveva ancora elaborato la dottrina

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Idee sono sostanze, e sostanze in senso forte, non possono che essere individui. Per cui il loro essere anche universali definisce un vero e proprio assurdo, giacché delinea un individuo universale. Insomma, se sono sostanze non possono essere universali e se sono universali non possono essere sostanze. Ancora una volta occorre far presente che i rilievi sopra formulati, concernendo le strutture formali della sostanza e dell’universale, costituiscono i parametri concettuali per definire l’adeguatezza o l’assurdità di una teoria che metta assieme la sostanzialità e l’universalità. Per cui, da capo, se anche l’essere le Idee platoniche degli “individui universali” non corrisponde a ciò che Platone ha veramente detto di esse, corrisponde tuttavia alla verità del suo dirne. 3.4 – Il terzo e il quarto momento del progetto platonico frainteso da Aristotele consistono nella matematizzazione delle Idee (quella che Findlay indica come “terza fase”) e nella riconduzione del sistema così delineato ai principi dell’Uno e della Diade (la “quarta fase”). Una riconduzione che per i motivi sopra indicati non ebbe successo, per cui il disegno rimase solamente una prospettiva abbozzata. Le parole di Findlay a riguardo sono inequivocabili e su di esse occorre riflettere: la terza fase è il tentativo di ridurre tutta questa ricchezza [scil. gli eidē e la relativa classificazione secondo principi loro intrinseci] alla formalità e purezza che, secondo Platone, può trovarsi solo in una matematica subordinata alla filosofia. E, infine, c’è la fase in cui si cerca di derivare tutta questa purezza ordinata da principi, o da un principio, da una purezza meta-matematica adeguata, secondo Platone, all’ineffabilità necessaria dell’Assolto mistico (p. 20).

Tre rilievi a questo proposito s’impongono. 3.4.1 – Innanzitutto salta immediatamente agli occhi la valenza neoplatonica dell’Uno così inteso, in esso dovendosi individuare “l’Assoluto mistico”; per cui, se il fraintendimento di Aristotele nell’attestare la derivazione da esso dei numeri ideali consiste nel non averla presentata secondo questa concezione dell’Uno e, in particolare, se prende forma nel non aver messo in luce che si tratta di una derivazione da un principio mistico e ineffabile, non v’è dubbio che il fraintendimento si presenta come atto decettivo della materia e della forma. Cosicché, avendola elaborata e avendo così definito l’individuo come sinolo di materia e forma, è logico che si chiedesse quale di queste due componenti determina in senso, per l’appunto, “primario” il suo essere sostanza, e conclude che è la forma. A questa conferisce pertanto la qualifica di sostanza prima. Una qualifica che, come si vede, non soltanto non confligge con quella per la quale la sostanza prima è l’individuo, ma, all’opposto, la approfondisce.

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dal carattere ben strano e, comunque, marcato da un modo del tutto singolare e personale di pensare l’autenticità dell’Uno platonico. Certo, Findlay, pensando all’azione dell’altro principio, la Diade indefinita di Grande e Piccolo che ha potenza duplicatrice ed è “come una sostanza plastica” (ekmageion; cf. Metaph., 988 a 1), non manca di indicare, seguendo la ricostruzione del Robin (p. 442-450), la derivazione dei numeri ideali secondo una scansione matematica nella quale, oltre alla duplicazione “che produrrà solo le potenze del due”, interviene il principio di unità o uniformità che, esercitando le sue operazioni caratteristiche, cercherà di trovare la media aritmetica tra due numeri, ossia un numero che superi il precedente tanto quanto è superato dal seguente.

Ottenuto così, secondo questo processo, “la triplicità o il numero tre eidetico, egualmente distante dalla duplicità quanto dalla doppia duplicità”, in virtù dell’azione che la triplicità esercita su se stessa e sulla duplicità, e viceversa, si avranno ovviamente tutte le potenze del tre [ossia il 9] e tutti i multipli del tre [ossia il 6 e il 9] e del due [ossia il 4, il 6, l’8 e il 10]. Solo quando si arriva al primo numero primo dopo il tre, ossia al cinque, si ricorre nuovamente all’azione egualizzatrice e mediatrice dell’Unità, per cui la cinquinità verrà collocata nello spazio tra la doppia-duplicità e la tripla duplicità (p. 61).

Ma allora la funzione “egualizzatrice e mediatrice” dell’Uno è ben altro che mistica, l’Uno stesso non ha questa natura e, a ben vedere, l’intero processo non è caratterizzato da una “purezza meta-matematica”, non potendosi propriamente considerare meta-matematiche la duplicazione, la potenza e la stabilizzazione tra un termine precedente e uno conseguente se non in quanto eseguite su essenze e non su quantità. Ma allora il carattere meta-matematico non sta in queste operazioni, ossia nel processo, bensì in ciò su cui le operazioni sono eseguite. 3.4.2 – Ma in ogni caso (e siamo al secondo rilievo) occorrerebbe comprendere se per Findlay le tre fasi specificano una successione soltanto logica o anche cronologica. Ché, se vige la seconda alternativa, dal momento che la successione temporale chiama direttamente in questione la storicità del suo realizzarsi, sarebbe più consono che anche il criterio esegetico fosse di natura storica e, in specie, che la successione delle fasi fosse ricostruita secondo una linea storico-progressiva e non alla luce della fase finale. Inoltre, perché mai l’ultimo sviluppo, manifestando l’ultima esigenza, dev’essere il criterio col quale fare luce sulle esigenze che portarono alle fasi precedenti, quando esse furono avvertite?

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Se invece vige la prima ipotesi occorrerebbe chiedere che concatenazione logica è mai quella nella quale non è costitutivamente possibile definire la struttura dell’atto di derivazione dei numeri ideali dall’Uno, stante che questo è l’atto supremo di un disegno che per intrinseche difficoltà concettuali e linguistiche non poté essere specificato, come in precedenza abbiamo sentito affermare da Findlay, restando perciò a livello di mero un progetto? – e come può essere logica una concatenazione nella quale la derivazione suddetta non è precisabile se non mediante il ricorso alla mistica? 3.4.3 – Infine occorre fissare l’attenzione sul fatto che Findlay a più riprese dichiara che questo progetto, nel suo articolarsi nella riduzione degli enti empirici a esemplificazioni degli eidē, nella risoluzione degli eidē a numeri e rapporti matematici, cioè a numeri ideali, e nella derivazione dei numeri ideali dall’Uno e dalla Diade, prospetta una concezione analogica della realtà, pari (fatta salva una differenza, che peraltro non sembra rivestire una rilevanza significativa in ordine alla definizione del tipo di rapporto indicato da Findlay) all’analogia dell’essere teorizzata da Aristotele. Le parole dello studioso in proposito sono nette e inequivocabili. Socrate-Platone fa bene a esplorare le gradazioni della gerarchia ontologica e a respingere come assurda quell’ontologia-a-un-livello che, essa stessa radicata in una confusione filosofica, è sempre stata infinitamente produttiva degli altri (sic! Credo si tratti di un refuso e che si debba leggere “delle altre”). Egli assume, come Aristotele asserirà più tardi esplicitamente, che ci sono diversi sensi, primario, secondario, terziario, ecc., in cui qualcosa può essere detto essere o essere qualcosa e non niente (ad esempio Categorie, 2 a 11-8; Metafisica, 1003 a 33 – b 19) (p. 182).

Qui, come si vede, l’“ontologia-a-un-livello” null’altro è se non una concezione monistica dell’esistente. Concezione che Socrate e Platone avrebbero rifiutato per far valere invece una gerarchia ontologica, ossia differenti gradazioni di realtà, corrispondente alla tesi aristotelica che l’essere si dice e ha molti significati. Si tratta, in tutta chiarezza, della notissima tesi secondo cui to on legetai pollachōs, ossia dell’analogia dell’ente, come conferma la citazione del passo della Metafisica. Qui la confusione in cui incorre Findlay salta immediatamente agli occhi. Anche a prescindere dall’assimilazione sotto il profilo dottrinale di Socrate e Platone e dal conseguente aver fatto del primo il teorico di un’ontologia, cosa che, dopo il mancato accoglimento sul piano della critica storica delle tesi di Burnet e Taylor, nessuno studioso del maestro ateniese sarebbe disposto ad avallare, va rilevato il fraintendimento che sorregge la presentazione della multivocità dell’essere professata da Aristotele come una grada-

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zione e una gerarchia dell’essere. Questo processo, di cui è facile e immediato scorgere la matrice neoplatonica, non ha nulla a che vedere col fatto che l’essere aristotelicamente inteso si dice in molti sensi. Ché, l’ontologia aristotelica prevede che i molteplici significati dell’essere siano tutti essere a pari titolo, stante che tutti corrispondono all’originario scandirsi dell’essere stesso, che proprio per questo è un omonimo, e il primato della sostanza rispetto alle altre categorie o significati supremi dell’essere non significa affatto che essa è maggiormente essere di quelli, ossia che possiede un grado di realtà superiore agli altri, vale a dire alla altre categorie, ma solamente che è quel significato, di pari pienezza ontologica degli altri, in riferimento a cui questi si pongono. Laddove la gerarchia proposta da Findlay prevede un differente grado ontologico dei differenti livelli di essere, e precisamente una pienezza di essere maggiore dell’Uno rispetto agli eidē e di questi rispetto alle loro esemplificazioni. Queste ultime, infatti, per Findlay non hanno una consistenza “onticamente ontica”, mentre pienezza di essere appartiene agli eidē, e a maggior titolo ai principi da cui derivano. In linea con il passo testé letto si consideri questo secondo. Chiaramente la teoria platonica delle idee – scrive Findlay – fu il primo saggio dell’analogia dell’essere che Aristotele, pur invertendone completamente l’applicazione, ha per primo formulato a livello semantico, e di cui quasi tutta la filosofia medioevale è un’elaborazione. Solo le idee sono realmente; gli esempi e le anime sono solo un accidente marginale e variabile dell’essere delle idee, un modo in cui le idee defluiscono e si mostrano anche se, senza dubbio, le anime sono un defluire infinitamente più onorevole e più simile alle idee che non le manifestazioni corporee, mentre lo spazio non è più che un settore o campo confusamente ipostatizzato, nel quale dobbiamo immaginarci che abbia luogo il defluire delle idee. Platone come Aristotele crede che l’essere si dica in molti sensi, e che alcuni di questi abbiano una prerogativa linguistica e ontologica rispetto ad altri, solo che, mentre per esempio, per Aristotele gli individui e le loro essenze hanno questa sorta di prerogativa (cf. e.g. Categorie, 5), per Platone sono le idee (e successivamente i loro principi) ad avere questa sorta di prerogativa, poiché tutto ciò che esiste oltre le idee è variamente dipendente da esse (p. 383 s.).

Che la differenza dei diversi livelli dell’essere corrisponda a un maggiore o minore grado di realtà, qui è testualmente asserito: – “solo le idee sono realmente”, – “gli esempi e le anime sono solo un accidente marginale e variabile dell’essere delle idee, un modo in cui le idee defluiscono e si mostrano”, – “le anime sono un defluire infinitamente più onorevole e più simile alle idee che non le manifestazioni corporee”, – “lo spazio non è che più che un settore o campo confusamente ipostatizzato, nel quale dobbiamo immaginarci che abbia luogo il defluire delle idee”.

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Esempi, idee, anima, spazio, e poi l’Uno e la Diade non sono, propriamente, molteplici significati dell’essere, ma gradi dell’essere, connotati da valenza ontologica in misura maggiore o minore. La qualificazione di “infinitamente onorevole” attribuita all’anima rispetto agli esempi (ossia alle cose sensibili) ne è un’attestazione lampante. E poiché questo modo d’intendere la realtà, attribuito a Platone, è ritenuto da Findlay corrispondere all’analogia dell’essere teorizzata da Aristotele, la quale per le ragioni precedentemente chiarite è dottrina del tutto diversa, occorre di nuovo osservare l’equivoco della confusione. E va da sé che la differenza indicata da Findlay tra il vigere l’analogia, per Aristotele, anche per gli individui, mentre per Platone – per il quale gli individui empirici, ossia le cose, non sono essere, ma esempi di essere e dunque non passibili di attribuzione dell’analogia dell’essere –, essa vige soltanto per le Idee, non scalfisce in nulla l’assimilazione della concezione platonica dei piani di realtà all’analogia dell’essere di Aristotele, e l’equivoco che l’assimilazione incarna. Ma v’è di più. Com’è noto, l’analogia aristotelica è analogia di proporzione, vale a dire uguaglianza di rapporti tra la sostanza e gli altri significati dell’essere (la qualità si rapporta alla sostanza come la quantità si rapporta alla sostanza come l’avere si rapporta alla sostanza ecc.). Per contro, la maggiore o minore pienezza ontologica dei livelli di realtà, attribuiti da Findlay a Platone, ovvero, come egli dice, l’onore che essi hanno sul piano dell’essere, delineando una gerarchia e una gradazione di livelli di realtà di matrice neoplatonica, propriamente non può intendersi come analogia. Ma poiché Findlay chiama in causa l’analogia “di quasi tutta la filosofia medievale”, assimilando a essa la gerarchia ontologica di Platone e considerandola alla stregua di quella dello Stagirita, oltre all’equivoco di detta assimilazione è agevole riscontrare anche l’equivoco della equiparazione. Ché, se si considera l’analogia entis tomista, che non a caso gli interpreti di Aristotele chiamano in causa per indicarne la differenza da quell’analogia teorizzata dallo Stagirita, la distanza da questa seconda è strutturale, trattandosi, com’è noto, di analogia di partecipazione (l’ente che “è” l’essere, ossia l’ipsum esse subsistens, lo partecipa agli enti che “hanno” l’essere; questi infatti, che di per sé sunt possibilia esse et non esse, possono sia essere che non essere, come si esplica nella terza via, se esistono non hanno tratto da sé l’essere, ma lo hanno partecipato dall’ente che è per essenza). Fatto si è che, a ben vedere, il disegno platonico delineato da Findlay non prospetta una concezione analogica della realtà, bensì una concezione rigorosamente monistica, e il seguente passo lo attesta eloquentemente: il progetto essenziale di Platone […] fu di ridurre tutti i ‘sensi [scil. le Idee] fondamentali’ a un solo senso fondamentale (o, al limite, a un paio di sensi fondamentali [scil. l’Uno e la Diade indefinita di Grande e Piccolo] che contenesse in

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sé una fecondità infinita di differenziazione e di specificazioni da trovarsi solo nell’ambito della quantità e del numero, poiché solo in ambito matematico il semplice e l’uniforme possono differenziarsi in un’inimmaginabile complessa infinità di generi (p. 8).

Dove, in tutta evidenza, l’invocata riduzione di tutte le Idee ai principi fondamentali dell’Uno e della Diade così da conseguire un’omogeneità “qualitativamente” semplice e uniforme dell’esistente, stante che è dal punto di vista qualitativo che tutto si riconduce all’Uno e alla Diade indefinita, è l’attestazione più lineare e lampante di una visione monistica dell’esistente stesso. E la differenziazione, essendo affidata a un processo matematico, ossia quantitativo, non è in essenza che la ripartizione della medesima qualità in quantità maggiori o minori nei differenti livelli dell’esistente. Bibliografia utilizzata e di riferimento Aristotele, Le categorie, monografia introduttiva, traduzione e commento di Marcello Zanatta. Testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 1989. Metafisica, monografia introduttiva, testo greco, traduzione, commento e indici analitici di Marcello Zanatta, 2 voll., Rizzoli, Milano 2009. Aristotele, Frammenti. Opere logiche e filosofiche, Introduzione, testo greco, traduzione, commento e indici analitici c/ di Marcello Zanatta, Rizzoli, Milano 2010. Berti E., Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, Padova 1977. Findlay J. N., Il mito della caverna, tr. it., Bompiani, Milano 2003. Gaiser K., La metafisica della storia in Platone. Interpretazione e commentario storico-filosofico di “Repubblica” VII, 534 b 3 – d 2, Vita e Pensiero, Milano 1992. Krämer H. J., Dialettica e definizione del bene in Platone, tr. it., Vita e Pensiero, Milano 1996. Marchetto M., L’etica impersonale. La teoria dei valori di J. N. Findlay, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1989. Marchetto M., La filosofia di John Niemeyer Findlay tra fenomenologia e platonismo, in: Findlay J. N., Il mito della caverna, cit., p. 1-248. Marchetto M., Il realismo metafisico di John Niemeyer Findlay, l’influsso della fenomenologia su un neo-neo-platonici, “Aquinas” 3, 2004, p. 571-601. Platone, Tutti gli scritti, c/ di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000. Reale G., Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica e dei grandi Dialoghi alla luce delle “Dottrine non scritte”, 5° ed., Vita e Pensiero, Milano 1987. Robin L., La théorie aristotélicienne des idées et des nombres d’après Aristote, Paris 1908; reprographischer Nachdruck, Hildesheim, Georg Olms Verlagsbuchhandlung 1963. San Tommaso, In duodecim = S. Thomae Aquinatis, In duodecim libros Metaphysicarum Aristotelis expositio, c/ di Cathala M. R. Spiazzi R. M, Torino 1950. Spinoza B., Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2006.

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Taylor A. J., Platone. L’uomo e l’opera, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1968. L.-A. Dorion, L’autre Socrate. Études sur les écrites socratiques de Xénophon, Les Belles Lettres, Paris 2013, pp. XXXII+518 Uno dei meriti di “Socratica III”, il convegno tenutosi a Trento due anni fa (23-25 febbraio 2012), è stato quello di aver stimolato e sollecitato un’ampia serie di contributi, tra i quali questo volume di L.-A. Dorion è senza dubbio uno dei più interessanti. Lo studioso vanta una lunga familiarità con gli scritti socratici di Senofonte e in particolare con il più corposo e il più importante di essi, i Memorabili, a cui lo studioso ha dedicato un impegno più che decennale, che si è concretizzato in numerosi contributi su singole questioni, ma soprattutto, come è noto, nella pubblicazione di una nuova edizione dei Memorabili per i tipi de Les Belles Lettres, edizione che si è avvalsa di un nuovo testo critico, accuratissimo e rigoroso, predisposto da M. Bandini, mentre Dorion ha curato un’attenta traduzione francese e soprattutto un commento ricchissimo e stimolante1. Anche questo volume rappresenta, per così dire, una sorta di ricaduta dell’impegno profuso per tanti anni intorno ai Memorabili e alle altre opere socratiche di Senofonte ed è destinato a costituire per gli studiosi un prezioso strumento di lavoro: infatti, se è vero che dei diciannove contributi qui raccolti, soltanto uno è inedito, è anche vero che, come precisa lo studioso nell’Avant-propos (p. XXX-XXXI), tutti gli altri sono stati rivisti e modificati, al fine sia di formare un insieme coerente sia di consentire il riferimento a studi apparsi successivamente. Pertanto da un lato questo volume ha il merito, peraltro non trascurabile, di raccogliere una serie di saggi in precedenza sparsi in diverse riviste e in varie miscellanee, dall’altro, al di là di questa utilità pratica, si rivela prezioso e pressoché insostituibile nel presentare una sorta di organica summa, per così dire, del lavoro critico e delle convinzioni maturate da Dorion negli ultimi quindici anni. Nell’Avant propos2 (p. XIII-XXXI) lo studioso chiarisce quello che, a suo avviso, deve essere l’approccio di chi intenda affrontare gli scritti socratici di Senofonte, un duplice approccio seguito da lui stesso non solo nei saggi raccolti in questo volume, ma anche e soprattutto nel suo commento ai Memorabili: da un lato si tratta di analizzare le specifiche posizioni filosofiche del Socrate di Senofonte, dall’altro di impegnarsi in una puntuale esegesi comparativa dei temi trattati sia dal Socrate di Senofonte sia dal Socrate di Platone, non nel vano tentativo di risalire al pensiero del Socrate storico, che Dorion ritiene assolutamente inattingibile, bensì al fine di cogliere le differenze che emergono e di interpretarle, in entrambi i casi, nel quadro di una rappresentazione filosoficamente coerente, benché profondamente diversa, del personaggio di Socrate. Subito dopo infatti lo studioso elenca, pur 1

Xénophon, Mémorables, texte établi par M. Bandini et traduit par L.-A. Dorion, Les belles Lettres, t. I, Paris 2000; t. II, Paris 2011. 2 Anche l’Avant propos riutilizza due precedenti contributi ampiamente rimaneggiati: Socrate, P. U. F., Paris 2011, p. 93-111, e Xenophon’s Socrates, in: S. Ahbel-Rappe-R. Kamtekar (c/ di), A Companion to Socrates, Blackwell, Oxford 2006, p. 93-109.

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avvisando che si tratta di una lista parziale, quelle che ritiene le principali differenze tra il Socrate di Senofonte e quello di Platone, una lista di ventun punti, in gran parte condivisibile3; quindi Dorion passa a sottolineare la centralità della enkrateia nel pensiero del Socrate di Senofonte, quella enkrateia che non solo è il fondamento della virtù (la enkrateia, appunto, e non la conoscenza, come per il Socrate platonico), ma costituisce anche la condizione della libertà, della giustizia, dell’amicizia, perfino della pratica della dialettica, oltre a rappresentare l’indispensabile prerequisito per coloro che intendono esercitare qualsiasi funzione di comando. Si tratta di una sottolineatura di grande importanza, così come è importante evidenziare il nesso che lega la enkrateia alla autarkeia, a cui la stessa enkrateia, al pari della karteria, è subordinata come mezzo a fine, dato che l’autarkeia, intesa in senso assoluto, è la condizione propria della divinità, a cui il Socrate di Senofonte dichiara apertamente di volersi avvicinare il più possibile (Mem., I, 6, 10). All’Avant propos seguono altri diciotto contributi, tutti improntati a grande rigore e a coerenza argomentativa: ovviamente non mi è possibile soffermarmi, neppure en passant, su ciascuno di essi, pertanto mi limiterò a segnalarne alcuni, privilegiando quelli che mi sono sembrati più significativi nella prospettiva di un ulteriore dibattito. Merita senz’altro di essere menzionato quello che, non a caso, è il primo contributo del volume (p. 1-26)4, dedicato a un’analisi minuziosa del celebre articolo di Schleiermacher5 che tanto e per tanto tempo ha influito con chiunque si sia cimentato con la questione socratica: tuttavia ben pochi studiosi hanno dedicato una puntuale attenzione a questo articolo nel suo complesso, come invece si impegna a fare Dorion. Lo studioso in effetti evidenzia, innanzi tutto, la visione della filosofia che Schleirmacher mostra e propone in questo articolo, intesa come un’attività puramente speculativa, che non mira affatto a rendere gli uomini migliori ed è del tutto estranea all’esercizio della virtù: una concezione della filosofia, nota a ragione Dorion sulla scia di P. Hadot, del tutto estranea a quella dei Greci, per i quali la filosofia era inscindibile da uno stile di vita. Una simile concezione della 3 Nonostante qualche perplessità riguardo a singoli punti: in particolare, a proposito del punto 6, se è vero che il Socrate platonico si mostra assai critico nei confronti di Pericle e di Temistocle (Gorg., 503 c-d; 517 b-c), non mi sembra che il Socrate di Senofonte nutra per loro il più grande rispetto: se una valutazione positiva emerge per Temistocle (Mem., II, 6, 13), non altrettanto, a mio avviso, si può dire riguardo a Pericle, sia in base a Mem., II, 6, 13, sia in base a Mem., I, 2, 40-46. 4 Versione rivista di L.-A. Dorion, “À l’origine de la question socratique et de la critique du témoignage de Xénophon: l’étude de Schleiermacher sur Socrate (1815)”, in: “Dioniso”, XIX (2001), p. 51-74. 5 F. Schleiermacher, “Über den Werth des Sokrates als Philosopen”, in: “Abhandlung der philosophischen Klasse der Königlich-preussischen Akademie der Wisssenschaften aus den Jahren 1814-1815”, 1818, p. 50-68; quindi in: Sämmtliche Werke, III, 2, Berlin 1938, p. 287-308; ora in: A. Patzer (c/ di), Der historische Sokrates, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Wege der Forschung 585, Darmstad 1987, p. 41-58. Da rilevare che Dorion, in funzione dell’asserita maggior familiarità dei lettori con l’inglese rispetto al tedesco, ha preferito citare dalla traduzione inglese: “The Worth of Socrates”, in: W. Smith (c/ di), Platon, London 1879, p. 1-27.

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filosofia ha portato inevitabilmente Schleiermacher a svalutare gli scritti socratici di Senofonte, in cui la dimensione speculativa è pressoché assente, e ad affermare che Socrate, data la sua enorme influenza su Platone, sulle varie scuole socratiche, sugli stoici, deve essere stato ben più di quanto ci hanno raccontato le opere socratiche di Senofonte, che risentono inoltre di mai sopite preoccupazioni apologetiche. Molto interessante, a questo proposito, una notazione che investe l’esegesi straussiana, di cui Dorion individua un punto di contatto con la posizione di Schleiermacher. Dorion, infatti, pur riconoscendo che la rivalutazione di Senofonte in questi ultimi decenni, deve molto agli studi di Strauss, sostiene che anche per Strauss Socrate deve essere stato qualcosa di più di ciò che ci mostrano gli scritti socratici di Senofonte, con la differenza che, mentre per Schleiermacher questo qualcosa di più va cercato in Platone, per Strauss invece va colto leggendo tra le righe di Senofonte: ma il punto di partenza è il medesimo. Dorion inoltre rileva che, a partire da Schleiermacher, si sono sviluppate tutta una serie di critiche che miravano a screditare completamente il valore degli scritti socratici di Senofonte, critiche che qui vengono semplicemente elencate, ma che Dorion si è impegnato a confutare ampiamente nella sua corposa introduzione ai Memorabili6. Tali critiche, inoltre, venivano mosse, per lo più, in rapporto al valore di tali scritti ai fini della ricostruzione del pensiero del Socrate storico, inserendosi quindi a pieno titolo nell’ambito della questione socratica: ma, una volta riconosciuta la questione socratica come un falso problema, impossibile da risolvere, e quindi da accantonare risolutamente una volta per tutte, vengono a cadere, a detta di Dorion, anche la maggior parte delle critiche alle opere socratiche di Senofonte. Il definitivo accantonamento della questione socratica è in effetti uno dei temi che più stanno a cuore allo studioso, come emerge da molti dei suoi contributi: a questo tema Dorion aveva già consacrato buona parte della sua introduzione ai Memorabili7, nonché, più recentemente, un saggio incluso nel volume miscellaneo curato da D. Morrison8, ora ripreso e rimaneggiato9 nel secondo contributo di questo volume (p. 27-49), dedicato appunto alle difficoltà incontrate dalla questione socratica e al suo conseguente declino. Lo studioso premette che la questione socratica è da accantonare non per il banale motivo che le soluzioni proposte sono molteplici, diverse o addirittura inconciliabili, in quanto un problema non può essere dichiarato insolubile solo perché, per il momento, non è stata trovata una soluzione univoca e soddisfacente; quindi passa a sostenere la tesi che si rinviene in tutti i suoi lavori su questo argomento, cioè che il pensiero del Socrate storico è 6

L.-A. Dorion, Introduction, in : Xénophon, Mémorables, cit., p. XIV-XCIX. L.-A. Dorion, “Introduction”, in: Xénophon, Mémorables, cit., p. XIV-CXVIII, cf. in particolare p. XCIX-CXVIII: anche in queste pagine la messa in mora della questione socratica è strettamente legata e preliminare alla rivalutazione degli scritti socratici di Senofonte. 8 L.-A. Dorion, The Rise and Fall of Socratic Problem, in: D. R. Morrison (c/ di), The Companion to Socrates, C. U. P., Cambridge 2011, p. 1-23. 9 Come precisa in nota lo stesso Dorion (p. 27, n. 1), il rimaneggiamento è dovuto soprattutto al fatto che il saggio originale includeva una parte relativa alla genesi della questione socratica in Schleiermacher, argomento affrontato nel precedente contributo di questo volume, e quindi eliminato da questo saggio, a cui l’autore ha provveduto a dare anche un titolo più pertinente al mutato contenuto: “Impasse et déclin de la question socratique”. 7

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assolutamente inattingibile in quanto tutte le pretese testimonianze di cui disponiamo sono costituite da logoi Sokratikoi10, un nuovo genere letterario che conobbe una straordinaria fioritura per tutta la prima metà del IV secolo11, e in cui la componente di fiction, di libera invenzione gioca un ruolo fondamentale, come già aveva notato Aristotele12. Ed è proprio la natura di scritti improntati alla fiction che rende i logoi Sokratikoi superstiti inutilizzabili per ricostruire il pensiero del Socrate storico, perchè si tratta appunto non già di testimonianze su Socrate, bensì di interpretazioni di Socrate, di testi in cui i vari Socratici, per noi essenzialmente Platone e Senofonte13, creavano e proponevano un loro Socrate, rielaborando, talora in tacita competizione, una serie di temi spesso comuni, in qualche modo (ma non sempre) riconducibili a Socrate, al’ambiente socratico: in sostanza, conclude lo studioso, Socrate diviene, sia pur entro gli incerti limiti di una qualche verosimiglianza, una sorta di personaggio letterario al centro delle polemiche che opponevano i Socratici gli uni contro gli altri. Infine Dorion, nella seconda parte di questo saggio, polemizza contro due importanti studiosi che, pur riconoscendo il fondamentale carattere di fiction dei logoi Sokratikoi, non hanno rinunciato al tentativo di prospettare una soluzione alla questione socratica, G. Vlastos e C. Kahn. Come è noto, Vlastos, in un suo celebre studio14, individua nei dialoghi di Platone due Socrate diversi, anzi pressoché inconciliabili, il Socrate dei dialoghi giovanili e il Socrate dei dialoghi della maturità: e mentre ritiene che quest’ultimo non sia che il portavoce di Platone, è persuaso che il Socrate dei dialoghi giovanili dia voce al Socrate storico. Vlastos ammette che, in teoria, anche il Socrate dei dialoghi giovanili potrebbe essere un portavoce di Platone, del primo Platone per così dire, ma sostiene che ciò che depone a favore dell’ipotesi che questo Socrate rappresenti per molti importanti aspetti il Socrate storico è la conferma che viene da Aristotele e da Senofonte: ed è proprio su questo punto che si concentra la critica di Dorion. Lo studioso infatti asserisce che Vlastos ha decisamente sopravvalutato le pretese concordanze tra il Socrate di Senofonte e il Socrate dei dialoghi giovanili di Platone, concordanze che, a giudizio di Dorion, si riducono a due soli punti: Socrate non ha mai sviluppato la dottrina metafisica delle Forme intelleggibili e non ha mai esposto una concezione tripartita dell’anima, che avrebbe demolito la sua dottrina dell’impossibilità dell’akrasia. Inoltre, prosegue Dorion, non è vero quanto sostiene Vlastos, cioè che gli scritti socratici di Senofonte, al pari dei dialoghi giovanili di Platone, ci presentano la filosofia di Socrate come una filosofia esclusivamente 10 Dorion, infatti, non ritiene significative, sia pure per motivi differenti, né la testimonianza di Aristofane (p. 29-30), né quella di Aristotele (p. 34-35 e 43). 11 Cf. in proposito l’ampia serie di contributi di L. Rossetti e, in particolare, il recentissimo Le dialogue socratique, Les Belles Lettres, Paris 2011. 12 Cf. Poet., 1447 a 28-b 13; Rhet., III, 16, 1417 a18-21; fr. 72 Rose. 13 Purtroppo, come è noto, degli altri autori di logoi Sokratikoi ci sono pervenuti soltanto dei frammenti, più o meno numerosi, più o meno estesi: grave in particolare la perdita di quelli di Antistene e di Eschine di Sfetto, a cui per altro validissimi studiosi non hanno mancato di dedicare la loro attenzione, con risultati talora di tutto rispetto. 14 G. Vlastos, Socrates. Ironist and Moral Philosopher, C. U. P., Cambridge-Ithaca N. Y. 1991; tr. it. A. Blasina, Socrate il filosofo dell’ironia complessa, La Nuova Italia, Firenze 1998.

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morale, come non è vero che ci mostrino un Socrate che professa sistematicamente la propria ignoranza e che ricerca la conoscenza tramite l’elenchos. Infatti, secondo Dorion, il Socrate di Senofonte non si occupa esclusivamente di questioni etiche, ma anche di religione, di educazione e di arte, argomenti che invece, a detta di Vlastos, sono estranei al Socrate dei dialoghi giovanili di Platone e trovano spazio solo nei dialoghi della maturità. Inoltre il Socrate di Senofonte non si proclama ignorante né muove alla ricerca della conoscenza tramite l’elenchos ed è arbitrario, secondo Dorion, attribuire al Socrate di Senofonte una professione di ignoranza nonché la pratica dell’elenchos esclusivamente in base a Mem., IV, 4, 9, come fa Vlastos. Pertanto, conclude Dorion, la pretesa concordanza tra Senofonte e il Platone dei dialoghi giovanili si riduce a ben poca cosa, a due punti puramente negativi e non ci fornisce quindi alcuna indicazione sul contenuto del pensiero del Socrate storico. In realtà bisogna rilevare che, probabilmente per esigenze di sintesi, Dorion riferisce in modo piuttosto approssimativo quanto sostiene Vlastos riguardo all’inscienza di Socrate e all’elenchos. Vlastos non nega affatto che, a differenza del Socrate platonico, il Socrate di Senofonte non proclami mai la propria ignoranza e rifugga dall’uso dell’elenchos come strumento di ricerca della verità: il Socrate di Senofonte, anzi, tiene sistematicamente delle lezioni su un’ampia serie di argomenti, mostrandosi tutt’altro che insciente: ciò che asserisce Vlastos è che il Socrate che traspare dalle parole di Ippia in Mem., IV, 4, 9, è appunto un Socrate che, lungi dall’esporre le proprie convinzioni, è tenacemente dedito alla pratica dell’elenchos15, un Socrate che mostra una significativa somiglianza con quello dei dialoghi giovanili di Platone. Vlastos sostiene che questa immagine di Socrate è tanto più significativa in quanto siamo di fronte a una sorta di svista da parte di Senofonte, che ha voluto presentarci un suo Socrate, ben diverso da quello dei dialoghi giovanili di Platone, e che quindi ha deliberatamente sopresso due tratti caratteristici di quest’ultimo, la proclamata inscienza e la pratica sistematica dell’elenchos come strumento di una ricerca della verità condotta insieme al suo interlocutore: ma l’inedito Socrate che questa preziosa svista ci restituisce non può aver avuto origine che dal Socrate storico, quel Socrate che abbiamo imparato a conoscere, con la sua asserita inscienza e la costante pratica dell’elenchos proprio dai primi dialoghi di Platone16. Naturalmente si può non essere affatto d’accordo con le conclusioni che Vlastos trae da questo passo, in ogni caso di grande interesse, ma proprio per questo è necessario conoscere con precisione le sue argomentazioni. Quanto ad Aristotele, che Vlastos ritiene una fonte di importanza fondamentale per ricostruire alcuni aspetti del pensiero del Socrate storico, Dorion, al pari di altri studiosi, ritiene invece che la sua testimonianza sia di scarso valore, in quanto non si tratta di una fonte indipendente, dato che quasi tutte le posizioni che attribuisce a Socrate si possono rintracciare nei dialoghi di Platone.

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“No, per Zeus, non mi sentirai parlare, almeno non prima che tu stesso abbia spiegato che cosa ritieni che sia il giusto. Basta con il tuo prendersi gioco degli altri, interrogando e confutando tutti, senza essere disposto tu stesso a rendere conto a nessuno né a esprimere la tua opinione su nessun argomento” (Mem., IV, 4, 9). 16 Cf. G. Vlastos, Socrates, cit., p. 105-106; Socrate, cit., 139-140.

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Diverse le objezioni che Dorion muove a Kahn, uno studioso assolutamente convinto del carattere di fiction della letteratura socratica che quindi, a suo avviso, non si propone affatto di fornire una immagine fedele di Socrate17: a lui Dorion rimprovera di considerare una importante eccezione in tal senso l’Apologia di Socrate scritta da Platone, che Kahn non esita a definire un “quasi-historical document”18 e un “historical account”19 della filosofia di Socrate stesso20. Dorion sostiene invece che anche l’Apologia rientra a pieno titolo nel novero dei logoi Sokratikoi, come dimostrerebbe anche l’esistenza di diverse Apologie di diversi autori, impegnati a costruire ciascuno una propria difesa di Socrate21, proprio come i diversi Socratici si adoperavano a costruire ciascuno una propria immagine di Socrate nei logoi Sokratikoi. Inoltre Dorion asserisce, non a torto, che l’Apologia platonica non presenta solo argomentazioni inerenti al processo, ma espone anche i fondamenti stessi della filosofia di Socrate: pertanto, se l’Apologia rappresenta una sorta di documento storico, tale pretesa storicità dovrebbe estendersi anche alle posizioni filosofiche che nell’Apologia vengono esposte, posizioni che trovano riscontro in altri dialoghi di Platone, con la conseguenza di considerare come fedeli al pensiero del Socrate storico quelle tesi filosofiche, presenti in alcuni dialoghi, che sono conformi a quelle dell’Apologia. Ma, objetta Dorion, in tal modo si dimentica la natura di fiction dei logoi Sokratikoi e l’asserita (anche da Kahn) impossibiltà di utilizzarli per ricostruire la filosofia del Socrate storico. E aggiunge che in tal modo, poiché la filosofia di Socrate quale si può ricostruire a partire dall’Apologia e dai dialoghi giovanili di Platone differisce in molti punti da quella che si ricava dagli scritti socratici di Senofonte, ecco che si ripiomba ancora una volta nel nodo inestricabile della questione socratica, per poi finire ancora una volta, con Kahn, per svalutare l’attendibilità di Senofonte rispetto a Platone. Le argomentazioni di Dorion, per altro del tutto coerenti con quello che è il suo orientamento complessivo, suscitano tuttavia qualche perplessità: non intendo entrare nel merito della questione, controversa ma al tempo stesso non eludibile, dell’affidabilità dell’Apologia platonica sul versante storico, mi limito soltanto a rilevare che se è vero, come afferma Dorion, che i logoi Sokratikoi, in virtù della loro stessa natura, autorizzano “une grande liberté d’invention” (p. 45), è anche vero che non possiamo in alcun modo essere certi che in essi tutto appartenga al dominio della fiction, 17 Cf., ad es., C.H. Kahn, Plato and the Socratic Dialogue. The Philosophical Use of a Literary Form, C. U. P., Cambridge 1996, p. 88. 18 C.H. Kahn, ibid., p. 88. 19 C.H. Kahn, Vlastos’ Socrates, in: “Phronesis”, XXXVII (1992), p. 257; e p. 240, n. 9. 20 Una posizione assai simile, per quanto riguarda l’Apologia, è sostenuta, tra gli altri, da G. Reale (cf. Socrate, B. U. R., Milano 2000, p. 35 e soprattutto p. 127-133), uno studioso che Dorion sembra ignorare completamente: non è citato neppure nella bibliografia di questo volume (p. 449-469), né in quella del t. I dei Mémorables (p. CCCIII-CCCXXVII), né nella Bibliographie complémentaire che correda il t. II/ 1 (p. XV-XXIX) e il t. II/ 2 (p. VII-XXI). 21 Bisogna tuttavia tenere ben presente che possiamo parlare con cognizione di causa soltanto delle due uniche Apologie che ci sono pervenute, quella di Platone e quella di Senofonte: quest’ultima, tuttavia, non ha né intende avere (cf. Ap., 22) alcuna pretesa di storicità, dato che Senofonte all’epoca del processo non si trovava ad Atene, bensì in Asia.

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dell’immaginazione, della libera invenzione. E se ciò vale per i logoi Sokratikoi, senza dubbio vale a maggior ragione per l’Apologia platonica, per il semplice e banale motivo che la libertà d’invenzione di cui godeva l’autore di un logos Sokratikos era certo superiore a quella di cui poteva disporre Platone nel momento in cui si accingeva a elaborare non già una qualsiasi conversazione tenuta da Socrate, bensì il suo discorso di difesa tenuto davanti a ben cinquecento giurati, alla presenza, verosimilmente, di centinaia di cittadini ateniesi. E anche ammettendo che nei logoi Sokratikoi tutto sia riconducibile alla dimensione della fiction, al gioco della libera invenzione, siamo proprio sicuri che ciò possa valere anche per l’Apologia platonica, che tra l’altro sembra costituire una sorta di istant-book, scritto quasi certamente a ridosso del processo?22 Il dubbio è quanto meno lecito e impone di non liquidare frettolosamente il problema dell’attendibilità dell’Apologia per ciò che concerne sia il processo sia il pensiero del Socrate storico: un problema che rimane e merita di rimanere aperto, anche perché l’Apologia presenta, a mio avviso, caratteristiche, anche sul piano formale, che non consentono di includerla automaticamente nel novero dei logoi Sokratikoi. Più interessante e in larga parte condivisibile la parte conclusiva di questo contributo in cui Dorion, riprendendo alcuni spunti già presenti nell’Avant propos, delinea i tre filoni di ricerca che si aprono agli studiosi della letteratura socratica: l’analisi dei diversi logoi Sokratikoi, con una particolare attenzione per quelli meno esplorati, cioè gli scritti socratici di Senofonte e i frammenti degli altri Socratici; studi comparativi che mettano a confronto, muovendo dall’analisi dei temi comuni, le diverse immagini di Socrate; studi tesi a comprendere in che modo tutta una serie di scuole filosofiche successive si appropriarono della figura di Socrate. Un altro saggio di indubbia rilevanza è L’exégèse straussienne de Xénophon: le cas paradigmatique de Mémorables IV 4 (p. 51-92)23, che verte su una importante questione di metodo. Dorion, infatti, muove da un’attenta analisi dell’esegesi di diversi scritti di Senofonte, socratici e non, proposta da L. Strauss, al fine di individuarne la genesi e il presupposto fondamentale: tale presupposto, da cui dovrebbe discendere una interpretazione ironica, attenta a leggere tra le righe e al non-detto più che al detto, è costituito dal preteso conflitto tra il filosofo e la polis, un conflitto che costringerebbe il filosofo a esprimere il proprio pensiero in forma criptica, in vista di tre fondamentali objettivi: proteggere se stesso da possibili 22

Si può ragionevolmente ritenere che un affidabile terminus ante quem per la composizione dell’Apologia sia rappresentato dalla data di pubblicazione dell’accusa contro Socrate (Kategoria Sokratous) scritta da Policrate, un’orazione che l’Apologia di Platone ignora completamente (mentre Senofonte si impegna puntigliosamente a confutarla in Mem., I, 2, 9-61): per l’orazione di Policrate non disponiamo di una datazione certa, ma di un terminus post quem costituito dal 393/ 392, il che rende probabile che l’orazione sia stata pubblicata intorno al 390. Pertanto si può affermare con tranquillità che l’Apologia platonica è stata composta e pubblicata nel primo decennio successivo alla morte di Socrate, verosimilmente a breve distanza da quell’evento così inquietante e drammatico. 23 Una precedente versione era comparsa in: “Philosophie antique”, I (2001), p. 87-118; una successiva versione, rivista e ampliata, era apparsa in tr. inglese (The Straussian Exegesis of Xenophon: the Paradigmatic Case of Memorabilia IV 4) in: V. J. Gray (c/ di), Xenophon, O. U. P., Oxford 2010, p. 283-323.

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persecuzioni, rendere intelligibile il proprio messaggio solo agli happy few, evitare di diffondere idee suscettibili di creare tensioni all’interno della stessa polis. Muovendo da quanto asserito da Strauss nel suo saggio del 1939 sulla Costituzione degli Spartani24, cioè che né Senofonte né Socrate potevano seriamente sostenere che la giustizia coincide con l’obbedienza alle leggi (come si potrebbe essere indotti a pensare da una interpretazione letterale, “ingenua” del dialogo tra Socrate e Ippia in Mem., IV, 4), Dorion analizza e confuta le argomentazioni alla base della lettura ironica di Strauss; quindi procede a confutare le ulteriori argomentazioni addotte da Strauss a sostegno della medesima tesi in due saggi successivi, quello del 1948 sullo Ierone25 e quello del 1972 sul Socrate di Senofonte26, in cui viene ancora ribadita l’interpretazione ironica del dialogo tra Socrate e Ippia. In sostanza Dorion afferma che, sebbene la rinnovata attenzione per Senofonte degli ultimi decenni debba non poco ai contributi di Strauss, è pur vero che Strauss stesso sembra porsi sulla stessa linea dei detrattori di Senofonte nella misura in cui sostiene che i suoi scritti risultano degni di interesse solo se in essi si va a ricercare il non-detto, mentre ciò che viene detto risulterebbe banale, noioso, scontato: a ragione Dorion objetta che il compito di chi interpreta un testo non è quello di andare a caccia di uno sfuggente, indefinibile, illusorio non-detto, bensì di cercare, con umiltà, pazienza e rigore, di comprendere ciò che il testo dice, tentando di coglierne le molteplici sfumature, le implicazioni, la complessità. Ed è proprio questa indicazione di metodo che mi sembra il contributo più importante che Dorion fornisce in questo saggio27. Vorrei infine soffermarmi su tre studi che riguardano alcune tematiche che mi stanno particolarmente a cuore, quello relativo alla basiliké techne in Platone e in Senofonte28, quello che concerne le diverse motivazioni fornite da Platone e da Senofonte riguardo al rifiuto di Socrate di fare politica in prima persona29 e quello 24

L. Strauss, “The Spirit of Sparta or the Taste of Xenophon”, in: “Social Research”, VI (1939), p. 502-536. 25 L. Strauss, On Tyranny: an Interpretation of Xenophon’s Hiero, Political Science Classics, New York 1948; II ed., rivista e ampliata, London 1964. 26 L. Strauss, Xenophon’s Socrates, Cornell University Press, Ithaca N. Y.-London 1972. 27 Questa indicazione di metodo rimane valida anche se bisogna tenere presente che, quando entra in gioco la sua persona, Senofonte è un autentico maestro della reticenza e della manipolazione del lettore: si pensi non soltanto all’ovvio silenzio nelle Elleniche sulla propria milizia nella cavalleria dei Trenta, non soltanto all’attribuzione dell’Anabasi, al fine di accrescerne la credibilità, all’inesistente Temistogene di Siracusa (Hell., III, 1, 2 ), ma anche al fatto che proprio nell’Anabasi è riuscito a far credere a generazioni di lettori, e perfino di studiosi, di essere stato il comandante supremo dei Diecimila durante la loro lunghissima e avventurosa ritirata, mentre in realtà lo è stato solo nell’ultimo breve periodo, quello della campagna di Tracia. 28 Socrate et la basilikē technē: essai d’exégèse comparative, p. 147-169; una precedente versione in: V. Karasmanis (c/ di), Socrates. 2400 years since his death (399 B. C.-2001 A. D.), International Symposium Proceedings (Athens-Delphi, 13-21 July), European Cultural Centre of Delphi, Hellenic Ministry of Culture 2004, p. 51-62. 29 Socrate et la politique: les raisons de son abstention selon Platon et Xénophon, p. 171193: contributo inedito.

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sul Socrate dell’Economico30. Riguardo alla basilikē technē, all’“arte regale”, Dorion, premesso che questa espressione si rinviene solo in due passi dei Memorabili (II, 1, 17; IV, 2, 11), precisa che essa si riferisce non a chi si trova a essere re, bensì a chi sa esercitare il comando (cf. Mem., III, 9, 10): ciò premesso, in base ai due passi in questione nonché, più in generale, all’insieme delle conversazioni tra Socrate ed Eutidemo, afferma che la basilikē technē è “une competence politique qui se fonde sur le contrôle que l’individue exerce sur luimême” (p. 149), vale a dire su quella enkrateia che per il Socrate di Senofonte è il fondamento della virtù (Mem., I, 5, 4). Pertanto, a giudizio dello studioso, tale competenza politica è certo costituita da una serie di competenze tecniche, quelle che emergono nel modo più esplicito nel dialogo tra Socrate e Glaucone (Mem., III, 6), ma esse trovano il loro imprescindibile fondamento nella enkrateia, il che fa sì che il legame con il piano dell’etica sia garantito. Dorion ne trae pertanto motivo di polemica con Vlastos, che aveva opposto la basilikē technē di Senofonte, a suo avviso una dottrina esclusivamente politica, alla dottrina morale in cui consisterebbe la basilikē technē del Socrate platonico31. Questa objezione di Dorion a Vlastos potrebbe, a rigore, ritenersi fondata, anche se, a mio avviso, la componente politica della basilikē technē, che consiste appunto in una serie di specifiche tecniche, nonché nella capacità di ottenere obbedienza spontanea32, appare, per così dire, prevalente rispetto alla enkrateia, che, al pari della giustizia33, costituisce una sorta di pre-requisito, senza dubbio indispensabile, della basilikē technē, la quale tuttavia – è bene ribadirlo – risiede comunque in competenze specifiche in campo economico e politico-militare, nonché nella capacità, altrettanto indispensabile, di sapersi guadagnare consenso, fiducia e obbedienza volontaria, in altri termini nella capacità di esercitare un’autentica leadership34. Passando poi a parlare della basilikē technē nell’Eutidemo di Platone, Dorion rileva correttamente che essa è essenzialmente un sapere o una conoscenza di ordine morale, che non ha affatto come condizione preliminare la enkrateia. Quindi lo studioso, dato che sia in Platone sia in Senofonte la basilikē technē risulta strettamente connessa alla eudamonia, analizza il significato che assumono in Senofonte i termini eudaimonia 30 Socrate oikonomikos, p. 317-345; una precedente versione in: M. Narcy-A. Tordesillas (c/ di), Xénophon et Socrate, Actes du colloque d’Aix-en-Provence (6-9 novembre 2003), Vrin, Paris 2008, p. 253-281. 31 Cf. G. Vlastos, “The Historical Socrates and the Athenian Democracy”, in: “Political theory”, XI (1983), p. 495-516 (cf. in particolare p. 509); ora anche in: “Socratic Studies”, C. U. P., Cambridge 1994, p. 87-108 (cf. in particolare p. 104); tr. it. F. Filippi, Studi socratici, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 101-124 (cf. in particolare p. 113). 32 A questa capacità fa riferimento anche quel dialogo tra Socrate e Glaucone (cf. Mem., III, 6, 15) che lo stesso Dorion ritiene di fondamentale importanza per comprendere la concezione della basilikē technē propria del Socrate di Senofonte. 33 Cf. ancora Mem., IV, 2, 11, dove la giustizia viene presentata in modo esplicito come un requisito preliminare sia di chi aspira a esercitare la basilikē technē sia del buon cittadino. 34 La centralità, il peso, l’importanza di questa capacità vengono continuamente ribaditi in tutta la variegata produzione di Senofonte; il tema della leadership è poi al centro di un’intera opera, la Ciropedia, e proprio a questa tematica V. J. Gray ha dedicato di recente un documentatissimo volume (Xenophon’s Mirror of Princes, O. U. P., Oxford 2011).

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ed eudaimon in rapporto all’arte del comando: partendo da Mem., III, 2, ma facendo riferimento anche a vari passi di opere non socratiche, lo studioso sostiene che in questi contesti tali termini si riferiscono non già alla felicità, bensì alla prosperità materiale: compito del buon comandante/governante è quello di assicurare il benessere materiale di coloro su cui comanda ovvero della città che governa, utilizzando tutti i mezzi disponibili, ivi compresa la guerra, qualora vi siano buone probabilità di uscirne vincitori e quindi di impadronirsi dei beni dei nemici35. Interessante e puntuale il raffronto istituito tra Mem., IV, 6, 14, e Gorg., 517c: mentre il Socrate di Senofonte afferma che assolve al compito di un buon cittadino chi rende la città più ricca36, il Socrate platonico afferma che l’unico compito del buon cittadino è quello di rendere i cittadini migliori. Questa contrapposizione riassume, a giudizio dello studioso, la divergenza fondamentale tra il Socrate di Senofonte e quello di Platone riguardo alla natura della felicità di cui chi governa deve farsi carico: una prosperità materiale per il primo, mentre per il Socrate di Platone la felicità è concepita “comme une forme d’excellence qui découle de la pratique des virtus, notamment la justice et la modération, de sorte que la principale responsabilité du dirigeant politique n’est pas de créer les conditions de la richesse collective, mais de rendre ses concitoyens meilleurs par la pratique de la vertu” (p. 161). Dorion rileva poi che, mentre nell’Eutidemo la basilikē technē ha una dimensione architettonica, nel senso che ad essa spetta presiedere alle altre arti e tecniche in quanto è in grado di utilizzare i prodotti delle diverse tecniche in vista del bene della città, la basilikē technē nei Memorabili è del tutto priva di una simile dimensione e a ragione lo studioso, in riferimento al dialogo tra Socrate e Glaucone (III, 6), sostiene che in esso la politica è presentata come una competenza tecnica come un’altra, per poi concludere che la divergenza fondamentale è appunto quella tra la politica che egli definisce “architettonica” del Socrate di Platone e quella “tecnocratica” del Socrate di Senofonte. Questa divergenza si manifesta anche quando si confrontano due passaggi apparentemente simili, Mem., IV, 2, 24-29, e Charm., 171 d-172a, in cui si parla del successo e dell’infallibilità di coloro che conoscono se stessi. In realtà, afferma Dorion, a molti è sfuggito che la posizione esposta dal Socrate platonico nel passo in questione verrà poi da lui abbandonata nel prosieguo del dialogo, in quanto egli non crede affatto che una città che obbedisce soltanto ai dettami di una competenza tecnica potrà essere felice e ben governata: cf. Charm., 172 d-e. Più in generale Dorion, non a torto, sottolinea come, a differenza che in Platone, in Senofonte le espressioni eu prattein ed eupraxia non hanno mai, al di là dell’accezione tecnica, un significato, una dimensione morale: mentre per il Socrate platonico la condizione della eupraxia è 35 Cf. Mem., III, 6, 7-8; cf. anche III, 4, 11; Oec., 1, 15; Ages., 2, 8; 4, 6; An., III, 2, 28; III, 2, 39; Cyr., II, 3, 2; III, 3, 45; IV, 1, 14-15; IV, 2, 25-26; VI, 1, 55; VII, 1, 10-11; VIII, 5, 23. 36 In realtà in Mem., IV, 6, 14, Socrate non si limita ad affermare che il compito del buon cittadino è quello di rendere la città più ricca: ciò vale soltanto per ciò che riguarda l’amministrazione delle finanze (en men chrēmatōn dioikēsei), a cui bisogna aggiungere la capacità di rendere la città più forte degli avversari in guerra, di trasformare i nemici in alleati nel corso delle ambascerie, di porre fine alle sedizioni interne e promuovere la concordia tra i cittadini.

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la sophia, la conoscenza del bene e del male, il Socrate di Senofonte non stabilisce alcun legame tra la eupraxia, che nasce dalla competenza tecnica in un ambito specifico, e la conoscenza del bene e del male. Anzi, dichiara risolutamente lo studioso, il Socrate di Senofonte non concepisce neppure la sophia come la conoscenza del bene e del male, ma come la scienza o la conoscenza di un ambito particolare, cosicché si hanno tante sophiai particolari quanti sono i distinti ambiti della conoscenza (cf. Mem., IV, 6, 7). Dorion conclude questo suo contributo polemizzando ancora con Vlastos, che ha cercato di dimostrare che la concezione platonica della basilikē technē sarebbe etica, democratica e più conforme al Socrate storico, mentre quella di Senofonte sarebbe decisamente politica, oligarchica e non fedele all’insegnamento del Socrate storico. Dorion afferma infatti che la pretesa fedeltà della concezione platonica al pensiero del Socrate storico rimane indimostrabile; inoltre ribadisce che la basilikē technē in Senofonte non è affatto destituita di una dimensione etica, dato che è fondata sulla enkrateia; infine sostiene che la basilikē technē in Platone non è affatto più democratica che in Senofonte, dato che la conoscenza morale e la cura dell’anima, in cui consiste la basilikē technē in Platone, non è certo più alla portata di tutti della enkrateia su cui si fonda la basilikē technē in Senofonte. Non è questa la sede per entrare nel merito di questa polemica e, del resto, ad alcuni aspetti di questa controversia ho già fatto cenno: vorrei soltanto far notare che, se è opinabile che la concezione della basilikē technē che si rinviene in Platone sia più conforme al pensiero del Socrate storico, mi pare invece molto probabile che la concezione della basilikē technē che si ricava dai Memorabili sia in piena sintonia con ciò che emerge a più riprese da scritti non socratici di Senofonte e che pertanto dia voce, con notevole coerenza, a quello che era il suo pensiero. Degna di attenta considerazione, infine, la conclusione di questo contributo: Dorion rileva, a ragione, che è molto probabile che questa espressione, basilikē technē, così sintetica e pregnante, fosse al centro di un vasto dibattito nell’ambiente dei Socratici e avanza l’ipotesi che la posta in gioco fosse se spettasse alla enkrateia ovvero alla sophia essere posta a fondamento ultimo della politica. L’unico contributo inedito del volume, che verte sulle motivazioni fornite da Platone e da Senofonte riguardo al rifiuto di Socrate di fare politica, è molto denso e di grande interesse. La prima parte è dedicata alle ragioni esposte da Platone in quello che a buon diritto può considerarsi il testo-chiave, cioè l’Apologia, e il passaggio-chiave, cioè Ap., 31 c-33 a. Dorion pone a confronto questo passo con Resp., VI, 496 c-e, per cogliere alcuni punti di contatto e un punto di rottura, riconducibile, secondo lo studioso, alla diversa valutazione dell’elenchos da parte di Platone: nel tempo trascorso tra la stesura dell’Apologia e quella della Repubblica Platone avrebbe finalmente compreso (cf. Resp., VII, 537 d-539 d) che la pratica dell’elenchos poteva avere un effetto negativo sui giovani e indurli al disprezzo dele leggi. Ma, mettendo da parte questo mutato orientamento di Platone (questione interessante, ma di rilevanza marginale rispetto al tema centrale), l’aspetto più significativo di questa parte del saggio risiede nella nuova interpretazione proposta da Dorion di Ap., 31d-32 a, dove Socrate asserisce che il segno divino lo ha sempre distolto dal fare politica: ora Socrate interpreta questa interdizione come dovuta al fatto che, se si fosse impegnato nell’attività politica, sarebbe andato incontro alla morte, senza riuscire a essere utile né agli Ateniesi né a se stesso, dato che è

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impossibile evitare di perire per chiunque si opponga al volere dell’assemblea popolare al fine di impedire ingiustizie e illegalità. Dorion asserisce invece che si può “songer à une tout autre raison que celle invoquée par Socrate pour justifier l’intervention du signe” (p. 177) e questa ragione altro non sarebbe che l’asserita inscienza di Socrate, che si estende anche all’ambito della politica, imponendogli quindi di tenersene lontano. Una ragione che non è in alcun modo applicabile al Socrate di Senofonte, che insciente non è, né mai si proclama tale. Riguardo a quest’ultimo Dorion si sofferma sull’unico passo che fa riferimento alla sua decisione di non impegnarsi in politica e alle motivazioni di tale scelta, cioè Mem., I, 6, 15, per individuare cinque punti suscettibili di raffronto con le motivazioni del Socrate platonico e che costituiscono altrettanti punti non già di contatto, bensì di divergenza. Innanzi tutto in Mem., I, 6, 15, a Socrate viene esplicitamente attribuita una competenza in campo politico, del tutto estranea al Socrate platonico. In secondo luogo il Socrate di Senofonte, qui e altrove37, si configura come un precettore politico e addirittura lo vediamo esortare un giovane, Carmide, a dedicarsi alla politica, in base a motivazioni che nulla hanno a che fare con la giustizia (Mem., III, 7), così come nulla hanno a che fare con la giustizia le motivazioni38 con cui cerca invece di dissuadere dal far politica Glaucone (Mem., III, 6): a ragione Dorion ricorda che il Socrate platonico non esorta mai nessuno a fare politica e l’unica volta che interviene a dissuadere qualcuno dall’attività politica (si tratta di Alcibiade nell’Alcibiade primo), si preoccupa di dimostrargli che non sa nulla della giustizia. Ma il punto che merita maggiore attenzione è il terzo: in effetti, a prima vista, Gorg., 521 d, sembra in singolare sintonia con Mem., I, 6, 15, ma si tratta di una sintonia solo apparente: infatti se il Socrate del Gorgia afferma di essere il solo tra gli Ateniesi a fare politica, non si riferisce però al “fare politica” nel senso in cui questa espressione è comunemente intesa39, bensì nel senso che Socrate si preoccupa di rendere migliori i propri concittadini e proprio questo è il dovere dell’uomo politico (515a-c; 517b-c); di conseguenza la politikē technē che Socrate in Gorg., 521d, asserisce di essere il solo a praticare non può che identificarsi, sostiene Dorion, con la pratica dell’elenchos, una identificazione che permette di superare la contraddizione tra la proclamata inscienza e l’affermazione di possedere e di praticare la politikē technē. Non è certo in questo senso che il Socrate di Senofonte afferma di essere il solo a fare politica: non perché è il solo a preoccuparsi di rendere migliori e più virtuosi i propri concittadini, bensì perché è il solo a possedere quella basilikē technē che consiste in una serie di specifiche competenze tecniche e che gli permette di elargire i suoi consigli a quanti intendano

37 Cf. in particolare i primi sette capitoli del III libro, ma anche l’intero percorso educativo del giovane Eutidemo (IV, 2-3 e 5-6), nonché la prima conversazione con Aristippo (II, 1) e infine un passo cruciale del dialogo con Critobulo sul tema dell’amicizia (II, 6, 22-27). 38 Tali motivazioni sono infatti costituite dalla totale incompetenza mostrata da Glaucone in campo economico-finanziario e in campo militare. 39 Anzi proprio nel Gorgia Socrate riafferma, parlando con Polo, la sua estraneità al novero dei politici (Gorg., 473 e-174 a).

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impegnarsi in politica40. Il quarto punto di divergenza è poi costituito dal fatto che, mentre il Socrate dell’Apologia platonica asserisce di essersi tenuto lontano dalla politica perchè ad Atene battersi a favore della giustizia espone a rischi mortali, il Socrate di Senofonte non adduce mai una simile motivazione, probabilmente perché, come è noto, fa coincidere la giustizia con il rispetto delle leggi41. Infine il quinto punto di divergenza è dato dal fatto che in Mem., I, 6, 15, Socrate, in quanto precettore e formatore di politici competenti, esercita un ruolo di intermediario42 tra questi ultimi e la città, un ruolo che il Socrate di Platone mai esercita né rivendica. Pienamente condivisibile, a mio avviso, la conclusione di questo saggio, in cui Dorion sostiene che, benché Platone e Senofonte forniscano motivazioni assai diverse per giustificare la scelta di Socrate di tenersi lontano dall’attività politica, tali motivazioni, in entrambi i casi, sono fortemente connotate in senso antidemocratico. Le argomentazioni addotte dal Socrate platonico suonano infatti come una palese condanna della democrazia, dato che chi nell’Atene democratica si batte per la giustizia si espone al rischio di essere messo a morte. Quanto al Socrate di Senofonte, il suo rifiuto di fare politica può intendersi come un rifiuto dovuto al fatto che la democrazia non è in grado di selezionare uomini politici competenti, dato che né il sorteggio43 né l’elezione44 possono ritenersi procedure valide a tale scopo. In entrambi i casi ci troviamo dunque di fronte a una dura, palese, impietosa critica della democrazia in quanto tale. Socrate oikonomikos muove dalla constatazione che non pochi studiosi hanno considerato l’Economico, al di là del suo aspetto formale di logos Sokratikos, una sorta di trattato tecnico, mentre Dorion si propone di rivendicarne la natura di opera 40 Dorion, alla luce di Mem., III, 7, rileva tuttavia una incongruenza nella scelta del Socrate di Senofonte di non fare politica in prima persona e dedicarsi invece alla formazione di politici competenti: nella conversazione con Carmide, infatti, proprio Socrate viene ad affermare che chi, come Carmide, è in grado di dare saggi consigli ai capi della città, ma si tiene lontano dalla politica è un vile (III, 7, 2-3): ma una simile osservazione, nota Dorion, potrebbe applicarsi allo stesso Socrate, che si limita appunto (III, 1-6) a fornire buoni consigli ai politici con cui si intrattiene (p. 189-190). 41 Curiosamente anche Senofonte non manca di citare gli stessi due episodi ricordati nell’Apologia platonica per dimostrare che Socrate aveva rischiato la vita per opporsi all’illegalità (nel caso del processo agli strateghi delle Arginuse) e all’ingiustizia (riguardo all’ordine dei Trenta di andare a prendere Leone di Salamina): tuttavia, proprio perché per il Socrate di Senofonte la giustizia coincide con il rispetto delle leggi, Senofonte si premura di precisare che l’ordine dei Trenta era contrario alle leggi (Mem., IV, 4, 3), mentre Platone presenta l’ordine dei Trenta disatteso da Socrate semplicemente in quanto contrario alla giustizia (Ap., 32 c-d). 42 Cf. Symp., 3, 10; 4, 56-64. 43 Cf. Mem., I, 2, 9; III, 9, 10. 44 Dorion (p. 193 n. 64) sostiene che per altro che la posizione del Socrate di Senofonte nei confronti dell’elezione non è priva di ambivalenza: non è questa la sede per polemizzare al riguardo, mi limito soltanto a osservare che sia nel dialogo con Carmide, dove viene delegittimata quella stessa assemblea popolare a cui spetta l’elezione di alcuni magistrati (Mem., III, 7, 5-6), sia soprattutto in Mem., III, 9, 10, dove l’elezione viene esplicitamente accomunata al sorteggio in un’unica condanna, emerge nettamente la totale sfiducia del Socrate di Senofonte anche in questo tipo di procedura, incapace di selezionare politici competenti.

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socratica, confutando le due fondamentali argomentazioni che hanno indotto a negarne tale natura, cioè che, in primo luogo, Socrate non si è mai interessato di economia né della maggior parte degli altri argomenti esaminati nell’Economico e, in secondo luogo, che il personaggio di Socrate tende a sbiadire nel corso dell’opera a vantaggio di Iscomaco, che finirebbe per assurgere al ruolo del vero protagonista. Dorion si impegna invece a dimostrare che il Socrate di Senofonte attribuisce grande importanza all’economia e che nell’Economico sta a rappresentare un modello economico diverso da quello incarnato da Iscomaco, ma altrettanto legittimo. Premesso che la convinzione che Socrate fosse povero45 e non si occupasse dei propri affari e dell’amministrazione del suo oikos46 si fonda sull’Apologia platonica, Dorion ha buon gioco a dimostrare che il Socrate dei Memorabili annette invece grande importanza all’economia, in quanto indispensabile parte costitutiva della basilikē technē, dato che non vi è soluzione di continuità tra la capacità di amministrare bene l’oikos e la capacità di governare bene la polis; quindi lo studioso si sofferma ad analizzare alcuni passi dei Memorabili: I, 2, 48; I, 2, 64; IV, 2, 3639; II, 7; III, 4; III, 6; III, 7, 2; IV, 6, 14; I, 6, 15. Di particolare interesse quanto afferma Socrate in I, 6, 15, nella sua replica ad Antifonte, nonché in IV, 2, 36-39: questi due passi infatti, insieme a Oec., 11, 3, definiscono povertà e ricchezza in maniera diversa e dissonante rispetto alle opinioni correnti: povero è chi, pur dotato di un patrimonio ingente, possiede meno di quanto richiedono i suoi bisogni, come appunto Critobulo47, ricco è chi, pur disponendo di risorse assai limitate, possiede tutto ciò di cui ha bisogno o addirittura un surplus, una eccedenza rispetto a quanto spende per soddisfare i propri bisogni. La ricchezza dunque non ha nulla a che vedere con il valore dei beni posseduti, ma nasce dalla limitazione dei bisogni, vale a dire dalla enkrateia e dalla frugalità (euteleia): questa concezione relativistica viene attribuita da Senofonte non solo a Socrate48, ma anche ad Antistene49 e addirittura a Ierone50, e Dorion non ha torto a ritenere che possa costituire l’origine più remota del paradosso stoico secondo il quale solo il saggio è ricco (p. 319). Nella prima parte dell’Economico Socrate espone dunque questa sua concezione della ricchezza a Critobulo, quello stesso Critobulo che nei Memorabili viene rimproverato da Socrate per la sua mancanza di enkrateia che lo ha spinto a baciare il figlio di Alcibiade (Mem., I, 3, 8-13): ora Socrate gli fa presente che il fatto che pensi soltanto ad avere delle storie con dei ragazzi lo induce a trascurare i suoi affari (Oec., 2, 7): anche qui, dunque, gli viene rimproverata la sua mancanza di enkrateia, questa volta in rapporto al rischio di precipitare nell’indigenza. Ma se Socrate ha prospettato a Critobulo come modello economico vincente il proprio stile di vita, fondato appunto su enkrateia ed euteleia, perché introdurre Iscomaco, perché Socrate decide di abbandonare il centro della scena cedendolo a Iscomaco? Dorion ritiene che, poiché Critobulo non è verosimilmente disposto ad adottare lo stile di 45

Cf. Ap., 23 b-c; 31 c; 36 d. Cf. Ap., 31 b; 36 b. 47 Cf. Oec., 2, 2-7. 48 Cf. Oec., 2, 2-9; Mem., I, 6, 5-7; I, 6, 9-10; IV, 2, 37-39. 49 Cf. Symp., 4, 34-36. 50 Cf. Hier., 4, 8-11. 46

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vita di Socrate, questi decide di proporgli un modello a lui più simile, un ricco proprietario terriero che tuttavia assicura la prosperità del proprio oikos grazie al medesimo fondamento etico da cui nasce la “ricchezza” di Socrate, cioè la enkrateia. Proprio questa mi sembra la tesi centrale del contributo di Dorion, l’affinità sul piano etico dei due modelli economici proposti, quello di Socrate e quello di Iscomaco, certamente diversi, ma entrambi fondati sulla enkrateia ed entrambi ugualmente legittimi agli occhi di Senofonte. Lo stesso Dorion ne è pienamente consapevole e non esita a polemizzare con chi, come Natali51, non solo considera considera nettamente opposti i due modelli di vita, ma ritiene che la vita del kalos kagathos, del gentleman quale è Iscomaco, possa collocarsi non solo su un piano di pari dignità rispetto a quella del filosofo, ma addirittura configurarsi come superiore ad essa. Dorion inoltre non si limita a rivendicare la competenza economica del Socrate di Senofonte, ma non esita a sostenere che non soltanto Iscomaco, ma anche Socrate stesso è un kalos kagathos (p. 334 e n. 53). Quest’ultima affermazione non può non suscitare notevoli perplessità, anche perché viene formulata in termini alquanto sbrigativi, che non sembrano tener conto della complessità della questione, anche e soprattutto in relazione all’ampio spettro di significati del termine52 e alla necessità di chiarire in quale accezione o in quali Più condivisibile, senza dubbio, accezioni venga usato da Senofonte53. l’affermazione che la città ha bisogno sia di cittadini che seguano il modello di vita di Socrate, sia di cittadini che adottino il modello di vita di Iscomaco, senza dubbio più generalizzabile e proponibile a fasce ben più ampie: Dorion al riguardo sostiene che, poiché sia il desiderio sessuale sia il desiderio di ricchezze sono ambiti su cui si esercita la enkrateia, Socrate, come propone una “diète sexuelle” (p. 344) a quanti non sono in grado di dare prova, al pari di lui, di una perfetta enkrateia in campo sessuale (Mem., I, 3, 14), così propone il modello economico incarnato da Iscomaco a quanti non sono capaci di seguire il suo stesso modello, quello basato sulla limitazione dei bisogni. In sostanza, il modello economico e lo stile di vita di Iscomaco verrebbero quindi a costituire (proprio come la “dieta sessuale” suggerita a chi non è in grado di controllare pienamente i propri desideri) una proposta ispirata al principio, per dirla con il linguaggio dei nostri tempi, di riduzione del danno: il che, in ultima analisi, rappresenta un implicito ma palese riconoscimento della superiorità dello stile di vita del filosofo, anche dal punto di vista economico. Il contributo di Dorion si conclude poi con un interrogativo di grande interesse (p. 345): se Iscomaco, che non appartiene al novero di quanti frequentano Socrate, condivide con Socrate un gran numero di valori, se la città, senza l’intervento di 51

Cf. C. Natali, Socrate dans l’Économique de Xénophon, in: G. Romeyer-Dherbey (c/ di), Socrate et les Socratiques, Vrin, Paris 2001, p. 263-288: cf. in particolare p. 270 e 284. 52 Fondamentale al riguardo l’ampio e documentatissimo studio di F. Bourriot, Kalos Kagathos – Kalokagathia. D’une terme de propagande des sophistes à une notion sociale et philosophique. Étude d’histoire athénienne, 2 voll., Georg Olms Verlag, Spoudasmata Band 85, Hildesheim 1995. 53 Per quanto concerne Senofonte un importante punto di partenza è costituito dal saggio di F. Roscalla, Kalokagathia e kaloi kagathoi in Senofonte, in: C. Tuplin (c/ di), Xenophon and his World. Papers from a conference held in Liverpool in July 1999, Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2004, p. 115-124.

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Socrate, è comunque in grado di produrre degli uomini oikonomikoi che nulla hanno da invidiare a quelli che Socrate pretende di formare, quale mai può essere l’utilità di una formazione da conseguire frequentando Socrate? Non ho alcuna pretesa di dare una risposta a una questione così complessa, vorrei però tentare, a conclusione di questo mio intervento, di prospettare come sia possibile guardare all’Economico da un altro punto di vista. Ammettiamo, diversamente da Dorion, che Iscomaco sia, come hanno ripetuto generazioni di studiosi, un alter ego di Senofonte, ma un Senofonte che intende difendere la sua scelta di vita, così diversa da quella del maestro nonché da quella dei suoi discepoli più eminenti54, un Senofonte che tuttavia ha appreso dal suo maestro la lezione che da un lato vede nella enkrateia l’ineludibile fondamento della virtù e dall’altro afferma la necessità di specifiche competenze per amministrare bene il proprio oikos (nonché la stessa polis), un Senofonte che su quest’ultimo terreno sente poter far valere la propria personale esperienza e le proprie competenze, perfino quelle competenze così innovative da suscitare la perplessità del maestro55, un Senofonte che però nel contempo sente di averlo in qualche modo “tradito”56 e non può non riconoscere la superiorità del modello di vita del maestro: in tal modo, come genialmente ha intuito Danzig, l’Economico da un lato viene a configurarsi come un’apologia di Socrate da parte di Senofonte57, ma dall’altro, attraverso l’apprezzamento di Iscomaco da parte di Socrate, come un’apologia di Senofonte da parte di Socrate58. Se dunque dietro la maschera di Iscomaco noi scorgiamo, almeno in parte59, le sembianze di Senofonte, ecco che l’interrogativo posto da Dorion tende a sbiadire e a perdere di senso: infatti se Iscomaco è estraneo all’entourage socratico, non lo è certo Senofonte, quel discepolo anomalo che ha finito per scegliere una vita da gentleman di campagna, dimostrandosi un abile oikonomikos proprio come Iscomaco, ma con qualcosa di più rispetto a Iscomaco, gli insegnamenti appresi da quel maestro a cui consacrò per tutta la vita una immutata ammirazione e una tenace devozione, continuando a mettere in luce, in tutti i suoi scritti (non solo socratici), quella che, a suo avviso, era

54 Senofonte non dedicherà la vita a fare filosofia, non fonderà una scuola filosofica: sarà un avventuriero (la cavalleria dei Trenta, la spedizione di Ciro) e un gentleman (i lunghi anni trascorsi nella sua tenuta di campagna a Scillunte). 55 Cf. Oec., 20, 22-29, dove il comportamento del padre di Iscomaco, che acquista terreni improduttivi per trarne guadagno rivendendoli dopo averli messi a coltura, appare a Socrate proprio non già di un agricoltore, ma simile a quello di un mercante. 56 “If he (scil.: Senofonte) is an Ischomachus, he is a regreful one” (G. Danzig, Apologizing for Socrates. How Plato and Xenophon Created Our Socrates, Lexington Books, Lanham 2010, p. 261). 57 Anche l’Economico, sia pure in modo meno accentuato ed evidente rispetto ai Memorabili e all’Apologia, si propone una finalità apologetica: cf. G. Danzig, ibid., p. 239. 58 “In a sense, then, the Oeconomicus contains both a Xenophontic apology for Socrates, and a Socratic apology for Xenophon” (G. Danzig, ibid., p. 263). 59 In parte, dato che l’Iscomaco dell’Economico è un personaggio storicamente esistito che, a differenza di Senofonte, finì per dare cattiva prova di sé sia come amministratore del suo patrimonio sia per quanto riguarda la gestione della sua famiglia e il rapporto con la moglie in particolare: cf. ancora G. Danzig, ibid., p. 258-259.

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stata comunque, perfino per un discepolo infedele come lui, l’insostituibile, preziosa utilità della paideia socratica e dell’esempio60 del suo maestro. (Fiorenza Bevilacqua)

Thamar Rossi Leidi, Hegels Begriff der Erinnerung. Subjektivität, Logik, Geschichte, Peter Lang, Frankfurt a M., 2009, pp. 295, ISBN 9783631581803. Il volume di Thamar Rossi Leidi sul concetto di ricordo nel pensiero hegeliano mostra come sia possibile, ancora oggi, offrire su uno degli autori più frequentati della filosofia un contributo originale e di un certo interesse. Come l’Autore premette in apertura del volume, l’Erinnerung è oggetto di trattazione in molti punti dell’opera hegeliana. Hegel ascrive infatti ad essa un ruolo essenziale, addirittura centrale nella sua ricerca; eppure, nella pur smisurata bibliografia hegeliana, al tema del ricordo sono stati sempre dedicati articoli e saggi ma mai uno studio sistematico che ne seguisse l’evoluzione all’interno di tutto il corpus hegeliano. A riempire questo vuoto è proprio il lavoro di Rossi Leidi che, con perizia filologica e acume teoretico, non solo analizza il significato che l’Erinnerung assume nelle varie fasi dell’elaborazione del pensiero hegeliano, ma utilizza questo concetto come chiave di accesso e di decodifica della concezione sistematica. Inserendosi in un significativo filone della Hegel-Forschung, infatti, l’autore interpreta l’Erinnerung non solo in chiave psicologica, come espressione della facoltà soggettiva dello spirito teoretico, ma ne legge anche il risvolto in chiave speculativa, come precorrimento del movimento dialettico1. La prima parte del volume è dedicata ad una “preistoria” del concetto, analizzando il ruolo che, pur in maniera meno esplicita, esso svolge negli abbozzi delle lezioni di Jena, i cosiddetti Jenaer Systementwürfe I e III. In questa direzione l’analisi del concetto di ricordo diventa l’occasione anche per una ricostruzione delle origini del sistema hegeliano e per uno sguardo ravvicinato alla costituzione della filosofia dello spirito soggettivo negli anni precedenti la stesura definitiva del sistema. Con tutte le cautele del caso, Rossi Leidi antedata l’articolazione delle funzioni dello spirito teoretico ai primi corsi jenesi (cf. Beilage I, JSE I, p. 329), mostrando la presenza in essi, per la prima volta, di uno schema dove l’intelligenza 60 In effetti il valore didattico dell’esempio e dell’esempio di Socrate in primo luogo è un Leitmotiv che ricorre con insistenza nei Memorabili, ma che trova riscontro anche negli altri scritti socratici (cf. Oec., 12, 17-19; Symp., 8, 27), nonché in opere non socratiche (cf., ad es., An., I, 9, 3-4; Cyr., I, 2, 8; VII, 5, 86; Ages., 7, 2; 10, 2). 1 A sostegno di questa interpretazione si veda tra gli altri il noto saggio di V. Verra, Storia e memoria, in: AA.VV., Incidenza di Hegel. Studi raccolti in occasione del secondo centenario della nascita del filosofo, a cura di F. Tessitore, Morano, Napoli 1970, p. 339-365; H. Schmitz, Hegels Begriff der Erinnerung, in: “Archiv für Begriffsgeschichte”, IX (1964), p. 37-44; A. Nuzzo, Dialectical Memory, Thinking and Recollecting. Logic and Psychology in Hegel, in : Mémoire et souvenir. Six Etudes sur Platon, Aristote, Hegel et Husserl, a cura di A. Brancacci e G. Gigliotti, Bibliopolis, Napoli 2006.

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appare già scandita nei tre momenti dell’intuizione, della fantasia e ricordo e della memoria, in cui il ricordo rinvia già alla facoltà del ricordare. Qui Hegel esporrebbe quindi per la prima volta, secondo l’interpretazione di Rossi Leidi, una “organizzazione dei livelli o delle funzioni dell’attività teoretica dello spirito” (p. 36), anticipando la funzione che avrebbe successivamente svolto nel sistema maturo. Questa indagine genealogico-ricostruttiva viene portata avanti e projettata poi nell’Enciclopedia degli anni di Norimberga e di Heidelberg. Anche questa decisione di ricostruire le differenze nella concezione del ricordo durante gli anni in cui Hegel insegnò e svolse poi il ruolo di Rettore presso il ginnasio Melanchton, mostra l’intelligenza con cui l’Autore si è confrontato con l’opera hegeliana. Soltanto negli ultimi anni, infatti, e ancora in modo sporadico, gli studi hegeliani hanno riconosciuto agli scritti norimberghesi una autonomia e un ruolo importante nell’evoluzione teoretica del sistema hegeliano2. Considerati per lo più come abbozzi finalizzati all’ottemperanza dei programmi ministeriali stilati dall’amico Niethammer, consigliere del Ministero dell’educazione del regno di Baviera3, gli scritti norimberghesi non hanno infatti suscitato in passato grande interesse negli studiosi di Hegel. In questo testo, invece, attraverso un costante confronto tra gli abbozzi di Norimberga, l’Enciclopedia di Heidelberg del 1817 e la versione matura dell’Enciclopedia del 1830, l’Autore restituisce un quadro preciso dell’evoluzione del concetto di ricordo, mostrando la funzione strutturale che esso assume nella configurazione non solo dello spirito soggettivo, ma dello spirito in generale. Egli lascia infatti emergere come la Er-innerung debba essere intesa non solo come l’operazione del ricordo, ma piuttosto come quel processo di interiorizzazione dello spirito in se stesso, da cui poi la nascita dell’autocoscienza dello spirito (in senso lato). Er-innerung/ Entäusserung vengono quindi richiamate come coppia interpretativa dell’andamento dialettico dello spirito. Su questo aspetto si chiude in particolare la prima parte, dedicata a quella che potremmo definire un’analitica del concetto, che spiega proprio il passaggio in cui l’Erinnerung da funzione dello spirito teoretico si incrocia con la Er-innerung intesa come il processo di interiorizzazione dello spirito, e quindi di autoconoscenza, legandosi ad altri temi hegeliani, quali la negatività, il tempo, il nesso temporalitàintemporalità, che non solo “arricchiscono” la scena, ma rinviano oltre la stessa dimensione psicologica. Accanto al ricordo come facoltà psichica subentra cioè un concetto filosofico di più grande portata, la höchste Erinnerung, il sommo ricordarsi4, che Rossi Leidi indica come “der übergreifende Sinn der Erinnerung” (68), il senso esteso del ricordo.

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In Italia si deve in particolare a Paolo Giuspoli il merito di aver richiamato l’attenzione sulle lezioni hegeliane di questi anni, cf. P. Giuspoli, Verso la “scienza della logica”. Le lezioni di Hegel a Norimberga, Verifiche, Trento 2000. 3 Nel 1808 Niethammer contribuisce alla redazione dello Allgemeines Normativ der Einrichtung der öffentlichen Unterrichts-Anstalten in dem Königreiche Baiern, rispetto al quale Hegel esprime alcune considerazioni critiche che invierà a Niethammer come Parere riservato, il 23 ottobre del 1812. 4 Enciclopedia, § 463, p. 458.

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Il punto di più forte tensione teoretica si raggiunge perciò nella seconda parte del volume, dedicata alla Scienza della logica che, dopo un primo capitolo introduttivo, si sofferma proprio sulla funzione logica del ricordare. Il punto di partenza è dunque la Wesenslogik, la logica dell’essenza. Per comprendere fino in fondo il ruolo logico del ricordo occorre infatti muovere dal rapporto tra presente e passato o, per usare il gioco di parole hegeliano, tra pensiero e memoria (Denken e Gedächtnis) e tra essere ed essenza (Sein e Gewesen). Il ricordo segue il presente, non lo precede. L’essenza “è l’essere tolto”, il movimento in virtù del quale l’essere “si ricorda attraverso la sua natura e attraverso questo andare in sé diventa essenza”, ma questo ricordarsi non è riferito a un passato temporale, bensì logico; infatti, come nota Hegel, sebbene la parola essenza (Wesen) conservi ancora, nella lingua tedesca, il tempo passato del verbo essere, si tratta di “un passato senza tempo”. L’Autore – che su questo aspetto riprende la lettura marcusiana5 – sottolinea come in Hegel l’idea dell’essere contenga implicitamente in sé la negazione della immediatezza, contraddistinguendosi, proprio in virtù di questo carattere di divenire, dalla logica tradizionale. L’essere, ripiegandosi in sé, toglie la propria immediatezza e si pone come passato. Ecco perché il ricordo in questo contesto viene usato in un assoluto senso riflessivo: non c’è infatti alcun prima, alcun oggetto, fatto, evento che preceda l’attività del ricordo, ma suo oggetto è esplicitamente l’essere. In questo senso il ruolo del ricordo non è psicologico, ma diventa una “categoria ontologica universale”, un processo di sprofondamentoapprofondimento dell’essere stesso: “L’essere viene fondato in questo andare dentro se stesso, ma questo andare in se stesso conduce l’essere oltre la sfera dell’essere e rivela la nuova dimensione dell’essenza e del passato intemporale al quale viene condotto l’essente” (118). Il passaggio più delicato su cui si conclude l’analisi di questa seconda parte del volume, dedicata al ricordo nella scienza della logica, si ritrova nel capitolo “Die Methode der Wissenschaft”. Qui l’Autore sottolinea come, proprio a partire dal movimento esplicativo del progresso della soggettività nello spirito soggettivo, l’Erinnerung possa essere intesa nella sua funzione metodologica, come una delle forme che la dialettica come metodo assume nella filosofia dello spirito. Un aspetto controverso dell’interpretazione hegeliana6, ma che Rossi Leidi argomenta con acutezza e fedeltà ai testi. 5

Cf. H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità (1932), La Nuova Italia, Firenze 1969. 6 Si rinvia a tal proposito al già citato articolo di Angelica Nuzzo (Dialectical Memory, Thinking and Recollecting), che si muove in questa direzione e alla Nota di Claudio Cesa, che sottolinea invece le difficoltà a tracciare una corrispondenza tra psicologia e logica che “n’est peut-être pas aussi simple qu’il pourrait paraître à première vue; aussi bien en raison du widriges Element considéré comme le ‘côté naturel’ de l’esprit, que pour l’utilisation massive que Hegel a fait des teste qui s’inspirent de la tradition ‘scolastique’ de la philosophie allemande du XVIII siècle”. C. Cesa, Notes sur Dialectical Memory, Thinking and Recollecting. Logic and Psychology in Hegel de Angelica Nuzzo, in: Mémoire et Souvenir, cit., p. 123-136, qui p. 124.

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La terza parte del volume approda infine alla manifestazione storica dell’analisi teoretica effettuata nelle due parti precedenti, con un capitolo dedicato all’interpretazione della storia in particolare nelle Lezioni sulla filosofia della storia mondiale e nelle pagine conclusive della Fenomenologia dello spirito. Rispetto alla Fenomenologia, come l’Autore ben chiarisce, è indubbio che in essa “lo spirito proprio sulla base della sua natura, che consiste in ‘figure reali’ o meglio in ‘figure di un mondo’, si apre essenzialmente alla storia” (p. 197). E questo rapporto tra spirito e storia che, com’è noto, si delinea con forza nelle ultime pagine dell’opera del 1807, ascrive un ruolo pregnante alla Erinnerung. Hegel traccia un legame tra le “figure di un mondo” e le figure del mondo sociale e politico, che appartengono allo spirito oggettivo, intendendo il ricordo come Mnemosyne, applicata alla dimensione della collettività, dello spirito oggettivo. È indubbio che proprio questo rapporto tra ricordo e narrazione trova nella Fenomenologia la sua fondazione, laddove Hegel affida alla memoria il compito di custodire il “dileguato esserci” che si dissolve per fare spazio a un nuovo mondo e ad una nuova figura spirituale. “Se dunque questo spirito ricomincia da principio la sua cultura sembrando prender le mosse soltanto da sé, tuttavia esso comincia in pari tempo da un grado più alto” (Fenomenologia, II, p. 305). Al ricordo, all’attività della memoria viene quindi consegnata la capacità di costruire un “ponte tra passato e futuro” (252). E proprio a proposito di questo doppio legame, Rossi Leidi risolve in modo elegante l’ambiguità interpretativa (Hegel conservatore o rivoluzionario?), che tiene dietro alla sua interpretazione dialettica della storia, mostrando come questi due caratteri convivano nella interpretazione hegeliana della storia. Se infatti la visione conservatrice non consiste nella persistenza e preservazione dei caratteri del passato, ma nell’impossibilità di “saltare oltre Rodi”, oltre il proprio tempo, d’altro canto c’è in essa uno sviluppo costante, in un processo di evoluzione che non consente l’assolutizzazione del presente. “Attraverso il ricordo lo spirito interiorizza il suo passato e con ciò lo rende qualcosa di proprio, che trasforma l’esistenza presente in un ponte tra passato e futuro. Detto diversamente, il futuro (che si tratti anche di un futuro rivoluzionario) si può reggere solo sul regno di un passato conservato, cioè della tradizione. La semplice negazione che distrugge tutto, non può costituire alcun fondamento” (257). Il capitolo conclusivo si chiude con una suggestiva e articolata ricostruzione del concetto di anamnesi nella Romantik, che offre al lettore belle pagine sul ricco dibattito di quegli anni sull’orizzonte della storia, segnalando la continuità delle riflessioni hegeliane rispetto a quella tradizione, ma anche la capacità di superarla sistematizzando il concetto di Erinnerung, legandolo al concetto di formazione (Bildung). Le ultime pagine dedicate alla riflessione sul senso della storia e sul rapporto tra passato e libertà, mostrano bene come un libro che in apparenza può sembrare relegato a offrire una ricostruzione del passato, abbia invece la capacità di parlare al presente, mostrando l’indissolubile legame con il passato, nel quale però piuttosto che necessità e ripetizione alberga la possibilità della libertà. (Stefania Achella)

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Vladimir Jankélévitch, La morte, a cura di Enrica Lisciani Petrini, Einaudi, Torino 2009, p. XXXVI-474. “Dovunque siate, a casa o in ufficio, qualsiasi cosa stiate facendo... uscite subito e precipitatevi dal libraio. Il dono è lì, e vi attende”. Le parole usate da Pietro Citati per spronare il lettore verso il capolavoro di Nabokov, m’impongono di scrivere: “Correte in libreria, la morte vi aspetta!” La morte, di Vladimir Jankélévitch, è un libro favoloso, oserei dire incredibilmente vitale, perché restituisce con straordinario vigore il binomio inscindibile ‘vita e morte’ o, meglio, ‘vitamorte’, che in tanti si sono affannati a separare, a esorcizzare o, peggio, a scacciare. La morte, scrive Simmel in Rembrandt (1916), “sin dall’inizio è dentro la vita”, è character indelebilis della vita. Lo stesso Heidegger, in una nota di Essere e tempo, riconosce a Simmel e a Dilthey di aver intuito la stretta connessione tra vita e morte. De Simone, dialogando con Antinolfi e Dal Lago, precisa: “Affrontando il rapporto tra morte e immortalità, Simmel ritiene che se noi vivessimo in eterno, la vita resterebbe presumibilmente fusa in modo indifferenziato con i suoi valori e i suoi contenuti, non vi sarebbe alcuno stimolo reale per pensarli al di fuori dell’unica forma in cui possiamo conoscerli e spesso viverli senza limitazioni. Ma noi, afferma Simmel, moriamo e quindi sperimentiamo la vita come qualcosa di casuale, di caduco, come qualcosa che può, per così dire, essere anche diversamente. Simmelianamente, nell’immanenza della morte, il soggetto non sperimenta solo la transitorietà della vita, ma sperimenta, anzi conquista, il perché del suo Esserci. Se infatti la morte forma la vita, essa non può comprenderla, darle un senso. Solo l’individuo, sperimentando l’unicità della propria morte come senso e limite può trascendere i meri contenuti della propria vita”. Segni incontrovertibili di una lettura approfondita del pensiero di Simmel e di una adesione piena al significato della vita e della morte vengono proprio da Jankélévitch: “Come la morte e l’immortalità sono entrambe al contempo impossibili e necessarie, così la morte è insieme il mezzo per vivere e l’impedimento a vivere. Abbiamo chiamato organo-ostacolo questa forma inestricabilmente dialettica dell’impossibile-necessario: la morte è la condizione della vita, in quanto è paradossalmente la negazione di questa vita. Questa negazione positiva – ricordiamo – è la funzione del limite, limite che conferisce una forma a ciò che limita… O, ancor più in generale: il non-essere presiede all’instaurazione o alla fondazione dell’essere! È questa l’alternativa fondamentale entro la quale sono contenute tutte le altre: il vivente è tale solo a condizione di essere mortale; ed è vero che ciò che non vive non muore, ma questo perché ciò che non muore non vive. Una roccia non muore. Un fiore di stoffa non appassisce mai. Ma in questo modo l’eterna vita di un fiore di stoffa o di una roccia è in fondo un’eterna morte… Infatti è vivo solo ciò che muore; o, come dice Jean Wahl: ciò che vive, è ciò che può morire. Senza la morte la vita non meriterebbe di essere

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vissuta. Sia maledetta la vita senza morte! È Epitteto che parla in questi termini […]: una durata eterna, un’esistenza indefinitamente estesa sarebbero sotto certi aspetti la forma più caratteristica della dannazione. È all’inferno, infatti, che le creature sono condannate all’insonnia perpetua e al supplizio della noia senza fine: l’inferno è l’impossibilità di morire. Pertanto dobbiamo scegliere tra la pienezza nella finitudine o l’eternità nell’inesistenza. La morte vitale è ciò che rende appassionante la vita mortale”. Si chiede Roberto Esposito: “Come muore, chi muore? E quanto tempo dura la morte, quando si comincia, e quando si finisce, di morire? Da dove, infine, essa arriva? Dall’ esterno, oppure nasce e cresce dentro di noi, inestricabilmente avvinta alla vita che ci strappa?”. Le risposte, estreme, arrivano da Jankélévitch con il volume che vi raccomando, uscito in Francia nel 1966 e ora approdato da noi, edito da Einaudi, con la pregevole cura di Enrica Lisciani Petrini che, nella esauriente introduzione, nota: “Un lavoro corrosivo che ci lascia completamente sguarniti di ogni protezione o strategia di recupero rispetto alla morte”. Il libro, definito “sconvolgente” da Lévinas, tocca i punti nevralgici del finire senza mai disgiungerli dall’iniziare, smonta i dispositivi immunitari ingenuamente costruiti dal pensiero occidentale, da Platone a Leibniz, s’inerpica sull’assurdità della sopravvivenza e della annichilazione. Leggiamo a pagina 90: “La morte infatti è lo spettro dell’amorfo, la cui minaccia pesa sulla nostra esistenza. Ma l’aspetto più paradossale è che questa minaccia del ritorno all’informe mantiene la tensione della vita! La minaccia dell’informe non è la forma della vita, ma preserva la forma vitale”. Ma che cos’è la morte? Ricorda Esposito: “La morte è quell’Inevitabile, Intrattabile, Irriducibile che dobbiamo, eppure non possiamo, pensare. Che ci sfida e ossessiona con la sua incombenza costante, ma che si ritrae nel momento stesso in cui cerchiamo di afferrarlo come ‘un astro che non si riesce più a vedere quando lo si fissa direttamente’. Nonostante i molteplici tentativi di addomesticarne la potenza distruttiva, o dichiarandola naturale o situandola fuori dal nostro campo di interesse, la morte è lì, davanti a noi, dentro di noi, come un cancro silenzioso che ci rode, fino a risucchiarci nel suo abisso senza fondo”. Pavese avverte che “verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, nel senso che se li prenderà, che li possiederà. Ma la morte non verrà, perché non se n’è mai andata. È qui, accanto a me e a te, dentro me e dentro te. Uccidendo la morte, uccidiamo la vita. Abbiamo capito che cosa vuol dire morire? Che cos’è che chiamiamo vita e che cos’è che chiamiamo morte? Spiega Krishnamurti:

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“Se riusciamo a scoprirlo, se riusciamo a comprendere che cos’è la vita, allora forse capiremo che cos’è la morte. Quando perdiamo qualcuno che amiamo, ci sentiamo in lutto, soli; perciò diciamo che la morte non ha nulla a che vedere con la vita. Separiamo la morte dalla vita. Ma la morte è davvero separata dalla vita? O invece il vivere è un processo del morire?… In autunno, quando arriva il freddo, le foglie cadono dagli alberi, per poi ricomparire in primavera. Allo stesso modo, non dovremmo forse morire a tutto ciò che appartiene a ieri, a tutte le nostre accumulazioni e speranze, a tutti i successi che abbiamo raccolto? Non dovremmo morire a tutto ciò e rivivere domani, così da essere, come una foglia nuova, freschi, teneri, sensibili? Per un uomo che muore in continuazione, la morte non esiste. Ma per colui che dice: ‘Sono qualcuno e devo continuare’, ci saranno sempre la morte e il ghat dove si bruciano i cadaveri; e un tale individuo non conosce amore”. Non conosce amore. (Davide D’Alessandro) Luigi Alfieri, La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra, Morlacchi, Perugia 2012, pp. 276. In guerra, ha scritto Canetti, si tratta di uccidere. La verità non suoni banale poiché, quando poniamo le domande: “Che cos’è la guerra? Perché si fa la guerra?”, la maggioranza degli studenti risponde in vario modo: A) Serve a esportare la democrazia. B) Per riportare la pace. C) Per mettere fine alle dittature. D) Per mostrare forza al Paese nemico. No, niente di tutto questo. In guerra si tratta di uccidere. Quanti più nemici si uccidono, tanto più si è vincitori e si vede la propria gloria accresciuta. La guerra, evidentemente, non è ciò che proviene dalle narrazioni, grandi o piccole che siano. La guerra è inestricabilmente legata alla sopravvivenza, al potere, dunque alla morte. Il sopravvissuto guarda fiero e potente la montagna di morti. Egli si erge su di loro, ha affrontato la morte e, a differenza di loro, è riuscito a evitarla. Può godersi estasiato tutto il suo trionfo. Chi sopravvive al fuoco delle trincee nemiche ha il chiaro sentore di appartenere agli eletti. Più si sopravvive, più si diventa eroi. L’eroe è il migliore, colui che ha più vita. Lo scopo, dunque, è di far prevalere la massa dei vivi su quella dei morti, lasciando dietro le proprie spalle una fila sterminata di cadaveri. Luigi Bonanate afferma che nulla ha coinvolto nelle sue vicende in modo altrettanto intenso e totalizzante gli esseri umani quanto la guerra, con l’impegno assoluto che impone, la morte. Il dolore, le ferite e le sofferenze, la mobilitazione di ogni risorsa (economica come spirituale, industriale come scientifica, ideologica come religiosa), la distruzione di ogni tipo di bene, dai grandi monumenti alle biblioteche, dalle fabbriche alle case, senza consentire particolari distinzioni, tra civili e combattenti, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne, tra bambini e malati.

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Lo dice meglio di tutti Michel de Montaigne: “Quanto alla guerra, che è la più grande e pomposa delle azioni umane, mi piacerebbe sapere se vogliamo servircene come prova di qualche nostra prerogativa o, al contrario, come testimonianza della nostra debolezza e imperfezione; poiché invero sembra che la scienza di distruggerci e ucciderci a vicenda, di rovinare e perdere la nostra stessa specie, non abbia molto di che farsi desiderare dalle bestie che non la posseggono”1. Chi ha indagato a fondo sulla guerra sa che il tema ha percorso la mente di grandi filosofi (da Machiavelli a Hobbes, da Kant a Hegel, da Marx a Jünger, per giungere fino a Schmitt e Kelsen, citandone solo alcuni), conosce le tante domande, le celebri definizioni (di Clausewitz, di Wright, di Sorokin, di Bouthoul, di Sun Tzu), le diverse teorie (il realismo politico, la geopolitica, l’olismo sistemico), le dinamiche plurime e il rapporto cruciale con la politica, l’infinita letteratura su guerra giusta e ingiusta, l’interrogativo di Norberto Bobbio, se vi siano ancora guerre giuste e la distinzione tra legittimità e legalità, la pagina simmeliana che, per Roberto Racinaro, “scopre un rapporto drammatico tra “modernità” e “conflitto”; nella dialettica della cultura, la guerra non è solo patologia, ma può essere pensata come possibilità di guarigione”2. La guerra, dunque, anche come evento metafisico, l’affermazione della civiltà contro la civilizzazione tecnica, i mercanti (inglesi) da una parte e gli eroi (tedeschi) dall’altra. La guerra che, a un certo punto, come nota Umberto Curi, in tanti avevano creduto che potesse ormai essere considerata un evento superato, una sorta di anacronistico residuato di una fase ancora primitiva nell’evoluzione della cultura e della civiltà e hanno, invece, dovuto amaramente ricredersi, di fronte alla virulenza e alla pervasività con le quali armi e violenza hanno ripreso il sopravvento come metodo privilegiato di risoluzione delle controversie3. Pensare la guerra è centrare l’attenzione sull’uomo, avvalendosi come base teorica dell’ultimo libro di Luigi Alfieri e ricavarne spunti che problematizzino la nostra contemporaneità. Posto che La stanchezza di Marte4 (ospitato in quel prezioso scrigno che è la Collana “Biblioteca di Cultura”, diretta da De Simone) è titolo bello e immaginifico, l’Autore avrebbe potuto optare anche per Saggio sull’uomo, con qualche anno di ritardo rispetto a Cassirer. Perché, ancor prima di un testo sulla guerra, proprio di un saggio sull’uomo si tratta. Non solo perché, ovviamente, a fare la guerra sono gli uomini, ma soprattutto per le profonde riflessioni sulla sua natura, sul suo essere e non essere, sulla sua ormai conclamata banalità. L. Bonanate, La guerra, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 3-4. R. Racinaro, “Sulla guerra” di Simmel, in: “Il Mattino”, 24.03.2005. 3 U. Curi, Pensare la guerra; l’Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari 1999, p. 6. 4 L. Alfieri, La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra, Morlacchi, Perugia 2008. 1 2

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Confesso di essermi accostato con sospetto a un testo che, come avverte l’autore nell’Introduzione, si è costruito da sé, composto da saggi sorti altrove, ma debbo dire che il libro, nella sua unicità e compattezza, c’è. Forse perché c’è l’uomo e l’uomo non ha bisogno di alcun filo che tenga insieme i capitoli; l’uomo, con tutto il proprio carico di pesantezza, invade, chiede attenzione, meditazione su di sé. Così, La stanchezza di Marte è un libro lucido, rigoroso, che inchioda, che “ci” inchioda. Già, perché spesso scriviamo e diciamo “uomo” o, peggio, “gli uomini”, per allontanare lo sguardo da noi. Per uomini, quasi sempre, intendiamo, indichiamo, additiamo gli altri. Invece, gli uomini siamo noi, io-tu-egli-voi-loro, tutti noi, nessuno escluso. La grande responsabilità alla quale il libro ci chiama, una sorta di esame di coscienza individuale e collettivo, è la cifra saliente di un’operazione di svelamento, di smascheramento. Alfieri incide con precisione chirurgica, affonda il bisturi nelle carni, apre l’uomo, s’inoltra nei suoi abissi più oscuri e ce lo restituisce vittima e carnefice, perseguitato e persecutore, nudo. Dunque, autentico. Con la speranza di un nuovo progetto. Non da costruire. Un nuovo progetto da vivere. Il libro trova consapevolezza, acquisisce consistenza, forza, fin dalle prime pagine, perché l’autore coglie con nettezza il tragico errore umano; l’identità. Sì, va detto con chiarezza; l’identità è un tragico errore umano. Identità è parola avvelenata. Argomenta Remotti: Il veleno contenuto in questa parola così nitida e bella, così fiduciosamente condivisa, di impiego pressoché universale, può essere poco oppure tanto, impercettibile e quasi innocuo in un caso oppure pieno di conseguenze nefaste in un altro. Ma anche quando esso è impercettibile, la tossicità è presente in numerose idee che la parola contiene e, accumulandosi, può manifestarsi alla lunga, in maniera inattesa e imprevista. Perché e in che senso identità è una parola avvelenata? Semplicemente perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo5. Si chiede Alfieri: “Cos’è un simbolo d’identità?” e si risponde: “È necessariamente una differenza”6. Noi siamo diversi da Loro. E continua; “Noi siamo i Parrocchetti. Noi siamo i Figli del Sole. Noi siamo i Figli di Dio. Noi siamo la Grande Nazione. Noi siamo i Difensori della Libertà. Noi siamo i Veri Democratici” (ivi, p. 34). Ha ragione l’Autore quando sostiene che La stanchezza di Marte non è un libro pessimista. Del resto, da lettori e da studiosi, chiediamo un’analisi implacabile della malattia chiamata uomo; vogliamo che emergano, senza sconti, le nostre malvagità, le nostre putrefazioni, persino la nostra matrice hitleriana; chiediamo di assistere alla morte della nostra morte, di guardarla in faccia. Perché noi, soltanto della morte abbiamo bisogno. Non di quella che un giorno arriverà, non di quella sempre al nostro fianco, che cerchiamo di esorcizzare, di scacciare, di ingannare. Abbiamo 5 6

F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010, p. XI-XII. L. Alfieri, La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra, cit., p. 23.

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bisogno della morte qui e ora; di scendere, con Pavese, nel gorgo muti. Di morire a tutto ciò che siamo stati e abbiamo creato, distrutto e ricostruito per distruggerlo ancora. Vogliamo creare spazio, non ordine, alla perla sepolta dentro ciascuno di noi. Consentirle di venire fuori. Non di avere diritto di cittadinanza (anche i diritti possono essere pericolosi e violenti), ma di vivere. In una parola: di essere. Non contro le altre perle, ma insieme. Individualmente insieme, direbbe Bauman. Faust, insomma, può salvarsi. Spiega Alfieri: Senza per questo doversi pentire e tornare indietro. Può salvarsi progettando in grande l’umanità – e l’oltreumanità. È possibilissimo, naturalmente, che Goethe si sia sbagliato, ma dobbiamo scommettere su questo. Perché la sola via di pentimento e di ritorno è quella dell’uomo ammalato di Svevo: un’esplosione enorme che nessuno udrà (ivi, p. 164). La stanchezza di Marte ci aiuta a morire, non a uccidere la morte. Chi fa la guerra pensa di uccidere la morte. Di sopravvivere al cumulo di cadaveri. Ma la morte non muore. La morte ci sarà quando noi non ci saremo più. Il libro ci aiuta a vedere la morte, a non separarla dalla vita, poiché la malattia dell’uomo è proprio questa; separare, dividere, distinguere, differenziare, escludere. Non capire che non bisogna dividere ciò che Dio (se c’è un Dio) ha unito e non ricordare Stevenson: “È male lasciar cadere i legami che Dio decretò di stringere. Torneremo a esser figli della brughiera e del vento”. L’altra parte è parte. L’ombra non è altro dalla luce. L’ombra è come il cane di Dürrenmatt. Vive con noi, respira con noi, non è altro da noi. Anzi, ha la forza di sopravvivere a noi. Guerra e pace. Come morte e vita. Sembrano inscindibili. Richiamando il libro di Jankélévitch, che cita Epitteto e ricorda: “Senza la morte la vita non meriterebbe di essere vissuta”7, direi che senza la guerra, senza il pensiero della guerra, la pace non meriterebbe di essere ricercata e affermata. Non parlo solo della pace ricercata dai filosofi della politica, ma anche della pace invocata da un prete, da un “certo” prete, David Maria Turoldo, che ha scritto: Alla base ci deve essere la morale per la pace. Vedete, nel nostro mondo tutto è competitivo, tutto è fondato sulla violenza e sulla sopraffazione. È competitiva la scuola, è competitivo il mercato, è competitivo il partito, è competitiva perfino la religione, se non stiamo attenti. […]. Tutti pregano e intanto si fanno la guerra. Spesso si discute se la guerra è giusta o è ingiusta. La guerra è impossibile! Questa è la nuova categoria che dobbiamo tutti acquisire. Oggi in caso di guerra non ci saranno più né vinti, né vincitori. E io ho imparato anche dall’ultima guerra mondiale che non ci sono liberatori, ma soltanto uomini che si liberano. Infatti, Hitler non è stato vinto, il nazismo non è stato vinto, il razzismo non è stato vinto. È stato solo emarginato, in attesa di esplodere ancora. Non ci sono liberatori. Provate a chiedere a tutta l’America Latina se esistono liberatori. Magari cominciasse con voi giovani questa nuova cultura della pace, come fosse 7 V. Jankélévitch, La morte, a cura di E. Lisciani Petrini, tr. it. di V. Zini, Einaudi, Torino 2009, p. 446.

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una nuova aurora. Perché oggi la terra è una cosa sola, una nave sulla quale siamo tutti imbarcati e non possiamo permetterci che affondi, perché non ci sarà più un’altra Arca di Noè a salvarci. Il mondo è uno, la terra è una; e tutti insieme ci salveremo o tutti insieme ci perderemo. Deve scomparire il concetto di nemico, perché una civiltà fondata sul concetto di nemico, non è una civiltà, ma una barbarie. La civiltà è solo quella della pace8. Però, scrive Curi: Nella convinzione che non vi sia altro modo di perseguire una ‘cultura della pace’ di quello consistente nell’impegno rigoroso a pensare la guerra […]. Pensarne la strutturalità, rispetto alla vicenda storica dell’umanità, l’intrinseca coappartenenza alle dinamiche di crescita e trasformazione della società, l’intima consanguineità con il processo evolutivo della scienza e della tecnologia9. Domanda: e la religione o, meglio, le religioni? Che ruolo possono avere, le religioni? Vattimo, recensendo Il Dio personale di Urlich Beck, ha precisato: Le religioni possono e devono avere un ruolo politico fondamentale nella costruzione di un mondo più giusto. Ma solo, pensa Beck e noi siamo d’accordo con lui, se, con una non facile trasformazione, sapranno sostituire alla dedizione alla verità (solo il nostro Dio è vero e salva, gli altri sono “dèi falsi e bugiardi”) il valore prevalente della pace.10 Altra domanda: è possibile, con l’uomo, far scomparire il nemico? Fa bene Carlo Galli, attraverso Petrarca, a ricordarci che “dum erunt homines non deerunt hostes” ma, se finché vi saranno gli uomini non mancheranno i nemici, resta comunque un obbligo, almeno da parte degli uomini più avveduti, che hanno la forza quotidiana di interrogare se stessi e le proprie azioni, di pensare la pace, di operare per la pace, consapevoli che la guerra è l’altra parte, inquietante e non eliminabile, nemmeno dalla legge, dal diritto, è l’altra parte che quando non c’è, sta solo dormendo. Come la morte. Spiega Foucault: La legge non è pacificazione, poiché dietro la legge la guerra continua a infuriare all’interno di tutti i meccanismi di potere, anche dei più regolari. È la guerra a costituire il motore delle istituzioni e dell’ordine; la pace, fin nei suoi meccanismi più infimi, fa sordamente la guerra. In altri termini, dietro la pace occorre saper vedere la guerra; la guerra è la cifra stessa della pace. Siamo dunque in guerra gli uni contro gli altri; un fronte di battaglia attraversa tutta la società, continuamente e permanentemente, ponendo ciascuno di noi in un campo o

D.M. Turoldo, La guerra, sconfitta di Dio, Colibrì, Milano 1993, p. 24. U. Curi, Pensare la guerra; l’Europa e il destino della politica, cit., p. 8. 10 G. Vattimo, “Se Dio è persona, la fede non appartiene alle Chiese”, TuttoLibri, in: “La Stampa”, 26.09.2009. 8 9

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nell’altro. Non esiste un soggetto neutrale. Siamo necessariamente l’avversario di qualcuno11. Dunque, è ancora l’uomo, è sempre l’uomo a essere chiamato in causa. Non può che essere l’uomo. Chi dice io, chi dice noi, avverte Foucault, non può occupare la posizione del giurista o del filosofo, vale a dire la posizione del soggetto universale, totalizzante o neutrale. Chi parla, chi dice la verità, fa valere la propria verità. Chi parla di diritti, fa valere i propri diritti. Nel lontano 1945, in quel di Ojai, Krishnamurti ammoniva: Ciascuno di noi ha creato questa civiltà, ha contribuito alla sua infelicità, è responsabile delle sue azioni. Noi siamo il risultato delle azioni e reazioni reciproche, questa civiltà è un prodotto collettivo. Nessun paese e nessun popolo è separato da un altro, siamo tutti interrelati, siamo tutti uno. Che lo riconosciamo o no, partecipiamo alla sfortuna di un popolo come partecipiamo alla sua fortuna. Non potete prendere le distanze per condannare o elogiare. Il potere che opprime è male, e qualunque gruppo abbastanza grande e organizzato diventa una fonte potenziale del male. Strillando sulle crudeltà di un altro paese, pensate di poter trascurare quelle del vostro. Non solo la nazione vinta, ma tutte le nazioni sono responsabili della guerra. La guerra è una delle massime catastrofi; il male più grande è uccidere un’altra persona. Se lasciate entrare questo male nel vostro cuore, spianerete la strada a un numero infinito di atrocità più piccole. Non condannerete la guerra in se stessa, ma colui che in guerra commette atrocità. Voi siete i responsabili della guerra, voi l’avete provocata con le vostre azioni quotidiane segnate dall’avidità, dalla cattiveria, dalla passione. Ognuno di noi ha costruito questa civiltà spietata e competitiva in cui l’uomo è contro l’uomo. Volete sradicare le cause della guerra e della barbarie negli altri, mentre dentro di voi continuate ad alimentarle. Ciò conduce all’ipocrisia e ad altre guerre.12 Oggi ti può capitare (cronaca docet) di avere diciotto anni ed essere sgozzata da un padre che non accetta la tua relazione con un italiano. Puoi morire dissanguata in un boschetto di Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone, perché sei marocchina, cioè mussulmana, e tuo padre, che pure in Italia vive e lavora come aiuto cuoco, ha un tabù mai risolto verso l’unione con un cattolico. Unione impossibile ai suoi occhi, alla sua mente, al suo cuore. Sanaa Dafani è l’ultimo esempio di respingimento della diversità culturale. Questa volta non da parte italiana. Questa volta il barcone è stato respinto da chi è stato accolto e dentro quel barcone c’era un amore, un amore reciso per sempre. Massimo, il ragazzo di Saana, si è salvato dalla furia omicida di quell’uomo che, con un gesto sconvolgente e feroce, ha voluto simbolicamente rinnovare la divisione del mondo. Eh già, perché lo abbiamo diviso questo mondo! Bianchi e neri, cattolici e mussulmani, Nord e

11 M. Foucault, Bisogna difendere la società, c/ di M. Bertani e A. Ferrara, Feltrinelli, Milano 2009, p. 54. 12 J. Krishnamurti, Sul conflitto, tr. it. di G. Fiorentini, Astrolabio, Roma 2000, p. 9-10.

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Sud. O di qua o di là! Dice bene Maalouf13, l’autore libanese molto critico verso le identità definite su una sola appartenenza, etnica o religiosa: “Dobbiamo reimmaginare il mondo”. Di qua e di là. Una nuova immagine del mondo passa attraverso la cultura ma, di più, la consapevolezza che l’UNO è nemico dell’uomo, è chiusura impenetrabile, è morte. La pluralità è amica dell’uomo, è apertura senza confini, è vita. “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite”, recita il titolo del libro di Barbara Spinelli, che scrive: “Tutto tende all’Uno; una è la radice culturale e politica dell’Europa, una la via per governare e sanare l’economia, una per costruire l’Unione europea. Da tempo si è smesso di contare oltre l’Uno. Eppure di pensare anche il due se non il tre ce ne sarebbe un bisogno grande. Se nel formulare un’opinione non vengo confrontato con forti objezioni, sarò contento. Se sono un politico, avrò addirittura l’impressione che si sarà creata una sorta di pace. La pace dell’Uno non è tuttavia pace. È stasi. La verità, lasciata sola con se stessa, non splende più forte. Al contrario: si spegne”14. Come si è spenta Saana, vittima di UNA sola verità. Quella del padre. Ma, ho appena ricordato con Foucault, che chi dice UNA verità fa valere soltanto la propria verità. Mai quella universale. Ancora Krishnamurti: Se riflettiamo bene, siamo ben consapevoli delle cause della guerra; la passione, l’ostilità e l’ignoranza; la sensualità, la mondanità, la sete di fama personale e di continuità; l’avidità, l’invidia e l’ambizione; il nazionalismo con i suoi diversi stati sovrani, le frontiere economiche, le divisioni sociali, i pregiudizi razziali e le religioni istituzionalizzate. Non è possibile che ciascuno diventi consapevole della propria avidità, ostilità e ignoranza, e così se ne liberi? Ci aggrappiamo al nazionalismo perché è uno sfogo dei nostri istinti crudeli, criminali; in nome del nostro paese o di un’ideologia possiamo uccidere e ammazzare impunemente, diventare degli eroi, e più uccidiamo i nostri simili più onori riceviamo dal nostro paese15. Vedete come ritorna il discorso sul Noi, stella polare dell’indagine di Alfieri? Il Noi che ci separa sempre da Loro, il cancro che ci divora dall’interno. Noi siamo, in definitiva, quelli che possono e debbono eliminare Loro. In realtà, eliminando Loro eliminiamo anche Noi. Noi siamo Loro e Loro sono Noi. L’ossessione identitaria, del Nord e del Sud, d’Oriente e d’Occidente, bianca, nera e gialla, etero e omo, genera mostri. Mostri e morti. Milioni di morti. Lo straccetto di bandiera che sventoliamo è un semplice pezzo di stoffa, ma lo abbiamo rivestito d’autorità (e di morte), lo abbiamo issato a simbolo di identità, di differenziazione (e di morte); io sono tedesco, io sono americano, io sono ebreo, io sono palestinese, io sono italiano, io sono mussulmano, io sono cattolico. Non riusciamo a dire; io sono niente. Un niente che potrebbe essere persino tutto, se solo sapesse di essere niente. (Davide D’Alessandro)

A. Maalouf, L’identità, tr. it. di F. Ascari, Bompiani, Milano 2005. B. Spinelli, Una parola ha detto Dio, due ne ho udite, Laterza, Roma-Bari 2009, p 7. 15 J. Krishnamurti, Sul conflitto, cit., p. 12. 13 14

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Alfredo Marini, Alle origini della filosofia contemporanea. Wilhelm Dilthey. Antinomie dell’esperienza, fondazione temporale del mondo umano, epistemologia della connessione, 2ª ediz. aumentata, FrancoAngeli, Milano 20082. More than 20 years after the first edition came out, Alfredo Marini has published a revised and extended edition of his work on Dilthey from 1984. The volume has been updated and offers a new appendix about problems of translating the philosophical German of the XIX century. It shows a mastery in translation, which is not only linguistic competence but also reveals a deep hermeneutical sensitivity. In the new Foreword Marini traces his aim of “rereading Dilthey” because the constellation of problems that Dilthey faces and tries to solve still characterizes the situation of contemporary philosophy in Europe. Dilthey’s striving for nonreductive psychology and an enlarged concept of scientificity has not lost its current interest, particularly if it is considered – as Marini argues – the background of the debate on the foundations of the physical sciences and mathematics, which was first conducted by scientists such as Heisenberg and Planck and then by philosophers of science such as Popper, Feyerabend and Kuhn. In Marini’s opinion Dilthey is a crucial point in the post-idealistic philosophical culture. “We need to read Dilthey – writes Marini – not to understand Croce (the opposite should be done!), but because he was, in the age of positivism and neo Kantianism the great “marshalling yard”, the great point of intersection of the main post-Kantian lines of the XIX century versed in the issues of the human sciences: the Hegelian, the Schopenhauerian, the neo-Aristotelic and scholastic, and the hermeneutical line.“ (p. 13). Marini states that Diltheyan thought is in contact with all these cultural and philosophical traditions and represents at the same time something original, capable of stimulating new and productive discussions. Compared to Hegel, Dilthey appears to have a “Hegelian nature” that transforms “macrocosm metaphysics” into a “methodological microcosm of a descriptive and analytical hermeneutics.” Through this original operation of philosophical-cultural conversion “Dilthey prepared the frameworks for gestaltic, dynamic, dialectic, holistic tendencies in psychology, sociology and historiography of the XX century, for the theory of systems and for the philosophical synthesis of Jaspers, of Husserl and Heidegger.” (p. 143). Marini admits that the philosophies of Heidegger and of Husserl appear more stringent than Dilthey’s, but also “more limited and decent” (p. 94). Marini sees Dilthey definitively as a theoretical crossroads and still effective source of inspiration for the contemporary situation of philosophy. The form of Marini’s work is different from the classic monographic and “academically correct” research. He has chosen to investigate his thematic area through several critical studies, which do not claim to exhaust their topic. The argumentation may appear not to be systematic (but this would be for Dilthey a strong point!), but it is very lively. His remarks will undoubtedly provoke the reader, for example the comparison between Dilthey and Marx, on one hand, and to contemporary vitalistic philosophy and psychology from Schopenhauer to Freud on the other. Marini’s style of writing is thick and rich, his comments on European

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philosophical culture of the XIX and XX century form one articulated background complex; from this scene the theoretical proposal of Dilthey stands out in all its living relevance, in relation to the most debated issues in today’s philosophy, such as the sense of temporality, the function of philosophy in a society heavily influenced by the primacy of science and technology, or the foundation of a hermeneutical philosophy. The first study is very broad in range. In almost 100 pages Marini concentrates on the concepts of criticism, foundation and analogy in their backgrounds and implications. Marini points out the relation between Dilthey and critical philosophy: “Dilthey is constantly committed to identifying the function of science and thought in general in the whole of life”; Dilthey does not doubt the significant role played by cognitive attitude in the context of life; however, Marini notes, “We have to wonder what it is like, what its function is and what its significance and experience are in history” (p. 26). According to Marini, Dilthey has radically broadened and renewed the concept of science and the tradition of critical philosophy. Marini argues that “the problem of the foundation is not only to justify the fact of contemporary scientific knowledge, but to question it, since the universal validity of the natural sciences and the idea of scientificity that they involve cannot tolerate, on the one hand, the continuing exclusion of human and historical facts, on the other the natural sciences are not able to do them justice.” (p. 59) Dilthey’s criticism of historical reason thus appears contrary to the “materialistic criticism of formal reason”. Dilthey criticizes the abstract formalism of Kant and neo-Kantianism and instead calls transcendental experience the analogue relationship between the internal and external experience. This concept of analogy is the centre of Marini’s attention as he believes that it allows Dilthey to keep history and psychology together. In particular, the second of the studies deals with the question of psychology. The chapter contains stimulating observations on the concept of “acquired psychic connection “ as a regulative factor of waking life and deepens the model of consciousness shared by social and individual psychic life (analogy between Strukturzusammenhang and Wirkungszusammenhang). This hermeneutic model contains some dynamic aspects which involve both individual and historical development; it has also some economic aspects because it refers to the complex organisation in the institutional apparatus of public life, and finally it is topical as it focuses the relationship between the unconscious psychic life and the structure of consciousness. As such it is related from one standpoint to Herbart, from another standpoint anticipates many aspects of Freudian metapsychology. In particular, it “implies a hermeneutic conception of temporality and tends to incorporate and to resolve the relationship between the individual and the world, and the one between subject and object.” (p. 110) To the theme of temporality and of the “flow of Life” Marini dedicates a specific study. Here Marini considers Dilthey in comparison with Nietzsche, Husserl and Heidegger, and he speaks of “a Heideggerian connection” in order to suggest the decisive role that these authors play for Heidegger in the Twenties. Marini emphasises the similarities between the conception of the history in Nietzsche’s Zweite unzeitgemäße Betrachtung and the concept of psychic structure in Dilthey’s Ideen. He sees an affinity between the

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tripartition of the ways of relating to history in Nietzsche and the Diltheyan distinction between an acquired psychic connection, a structural connection and finally the longitudinal connection in development. “Also here – notes Marini – the significance of these distinctions is clear with regard to time: external organisations and the acquired connection retain consolidated past; the vitality of the peoples and the development of individuals are oriented towards the future; the systems of the culture and the detailed rules for the structural connection of psychic life correspond to the “eternizing forces” because they are symbolic manifestations of “power”. (p. 159). In this study Diltheyan psychology is read especially in the perspective of a theory of temporality, but in the fifth chapter of the book Marini offers a more systematic commentary on Dilthey’s Ideen. While in the first chapters emphasis has shifted to the reconstruction of Dilthey’s psychology, following its origin and development, here Marini treats its fundamental concepts from a theoretical point of view. Here we find the thematic exploration of the idea that Marini has followed operationally in his historiographical reconstruction and which gives unity to his interpretation: “The two themes, the psychological and the historical and socialcultural one, refer continuously to each other, and are connected in the sense that they are part in the perspective of a philosophical anthropology, a philosophy man.” (p. 191). According to Marini, Dilthey’s “psychology in movement” takes a central role in his foundation of Geisteswissenschaften and it can provide an adequate understanding of internal experience since even “internal experience is already intellectual, not purely ‘emotional’.” (p. 232). In fact the anthropological peculiarity of this internal experience is that “the connection is a lived reality: we practise it, we have it inside and, at the same time, we are in this connection.” This is the specific “movement” of Diltheyan psychology, which moves from the actually lived connection to the awareness in which the connection itself is given. Marini’s anthropological approach to Dilthey shows the unitary character of his work. This interpretation is in line with the results of the most recent DiltheyForschung. It rejects the assumption of Misch and also of early Bollnow, who supposed that the hermeneutical theory developed by Dilthey in his last years would completely replace the psychological approach centred on the principle of phenomenality. Marini’s argument has the convincing point of demonstrating that the Diltheyan psychological model of consciousness already has a hermeneutic structure and that the distinction coming from Misch appears in reality too rigid. Furthermore, the focus on the anthropological unity in Diltheyan thought allows us to understand the continuity with philosophical anthropology, which is merited in contemporary philosophy with having argued against a limited concept of scientificity, unable to understand the specific condition of the human being, which is a symbolic, and at the same time, a biological condition. (Salvatore Giammusso, University of Naples “Federico II”)

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Sossio Giametta, Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, Milano, Mursia, p. 302. Un libro-intervista può essere banale, quindi inutile, se l’intervistato ha poco da dire. Un libro-intervista può essere banale, quindi inutile, se l’intervistatore ha poco da chiedere. Il libro-intervista di Sossio Giametta non è banale, quindi utile, utilissimo, perché l’intervistato ha tanto da dire e l’intervistatore (Giuseppe Girgenti) sa cosa chiedere. Ne viene fuori un racconto filosofico e di vita, un racconto inesauribile di idee, suggerimenti, informazioni, pensieri. Un racconto non di pelosa saggezza, ma di brillanti intuizioni, di critiche e di analisi, un racconto completo di passioni e di ardori. “Il bue squartato e altri macelli” è davvero un libro sulla dolce filosofia, ma anche la dimostrazione che Giametta non è l’interprete di un solo autore (Nietzsche), seppure immenso. È pensatore egli stesso, come tutti i grandi interpreti. Le pagine su Schopenhauer, su ciò che funziona e perché del suo impianto filosofico, sono persino superiori a quelle su Nietzsche. Le pagine sull’amicizia con Colli e Montinari vanno oltre l’umano interesse per gli studi. Ma non vanno affatto trascurati, anzi costituiscono la parte nobile del volume, i capitoli sul Cristianesimo e la Chiesa, sull’arte dello scrivere libri di filosofia e altro, sulla politica di jeri e di oggi, sulle contrapposizioni, sulle differenze, sulla pena di morte, sui consigli ai giovani pensatori. Squartato il bue, verrebbe da dire, non c’è alcunché da buttare. Precisa Giametta: “Un criterio fermo deve essere che la filosofia è fatta per risolvere i problemi e non per crearli. I problemi si creano da soli e l’uno tira l’altro, ciò è normale e non si può evitare. Ma i non-filosofi, gli pseudo-filosofi, si inebriano dei problemi e tendono a crearli, a crearne sempre di più, invece che a risolverli. È un ‘naufragar m’è dolce in questo mare’, lo sfogo di un’eccedenza di energia intellettuale che chiede sfogo appunto. I problemi, deve essere la vita a crearli, non il filosofo. Risolverli, poi, è difficile, quando non impossibile; ci vuole disciplina e dominio dei propri mezzi, oltre che attitudine naturale”. Quell’“attitudine naturale” tipica ed esemplare in Sossio Giametta. Se la classe è semplicità, se togliere e non aggiungere è il verbo della filosofia, Giametta è semplice perché toglie senza eliminare, sottrae senza ridurre. È un gioco di fino, il suo, il gioco di un filosofo scambiato per interprete, di uno studioso libero, oggi oltre gli ottant’anni, ma sempre estremamente lucido nel suo argomentare, spiegare, pensare, scrivere. Dopo aver tanto letto, dopo non aver mai smesso di leggere. Analizzare un testo è viverlo senza averlo potuto concepire, è assumerlo su di sé, farlo proprio per restituirlo al lettore. E non sai se “Così parlò Zarathustra” l’ha scritto Nietzsche o Giametta. Noi siamo felici che l’abbia scritto Nietzsche ma, senza Giametta, Zarathustra non parlerebbe con la voce di Nietzsche, col genio di Nietzsche, col dolore di Nietzsche. Un bue squartato che nessuno, come Giametta, è riuscito a ricomporre, a tener vivo. Vivo più che mai. (Davide D’Alessandro)

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William Rehg, Cogent Science in Context. The Science Wars, Argumentation Theory, and Habermas, MIT Press, London 2009, pp. 345. ABSTRACT What makes cogent, or authoritative, a scientific statement? In this book, the author provides an analysis of the concept of scientific cogency, developing a multidisciplinary theoretical proposal, whit contributors from the ideality of Habermas’s Theory of Communicative Action and from the parallel Critical Theory (Habermas, McCarthy), from the contextualism of Ethnomethodology (Garkinkel), from the relativism of certain currents of Sociology of Scientific Knowledge (the Strong Program of Barnes and Bloor), and from the Theory of Argumentation of rethorical matrix (Perelman, Toulmin). With a theoretical move ever tried before, the Author tries to insert the habermasian theory of argumentation in the debate of the post-kuhnian science, highlighting both the merits of the Theory of Communicative Action, in tryng to bridge the gap opened by the philosophy of Kuhn (between the logical and the pragmatical aspect of cogency), and its shortcomings, that emerge from a comparison with positions of contextualistic matrix. After an analysis of the content of the book, I will try to sketch the possible points of discussion and the problems that seem to emanate from a position, that of Rehg, excessively biased towards the rethorical and argumentative side of science, and towards a too contextualistic interpretation of scientific practice. KEYWORDS: science, cogency, argomentation, Habermas, contextualism. La cogenza non ha un senso tecnico stabilito che si riferisca a specifiche proprietà di argomenti deduttivi: si tratta, piuttosto, di un termine ampio, che copre diverse idee, che vale come una misura comparativa della “forza dialettica” e che si usa in relazione all’effetto retorico di un argomento su un uditorio. Si mette così in luce che la cogenza è un concetto di confine, ma che al contempo fa da collante tra la scienza in senso stretto e l’“accettabilità pubblica” dei suoi risultati, quest’ultima legata non solo all’evidenza degli stessi, ma anche alla forza retorica della loro “presentazione”. La cogenza è quindi un concetto che fa da ponte tra la scienza e l’opinione pubblica. L’analisi di Rehg è concentrata sulla determinazione delle proprietà che rendono cogente un argomento, partendo dal presupposto che l’argomentazione scientifica è una pratica sociale. Su questo punto insiste l’Autore nella prima sezione della sua opera, il cui primo capitolo riferisce proprio il suo tentativo di leggere la scienza come pratica argomentativa, sulla scia della Nuova Retorica (Perelman e Olbrechts-Tyteca, 1969; Toulmin, 1958) con la sua disaffezione verso il logic-centered approach tipico del positivismo (Rehg, 2009, p. 20). In quest’ottica neo-retorica non esistono buoni argomenti in senso astratto, ma sempre in relazione ai contesti in cui gli argomenti

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si sviluppano. Emerge, quindi, una polarità tra il lato argomentativo-retorico della scienza e il lato prettamente “logico”, tra le analisi dell’argomento cogente in termini di processo socio-istituzionale e le proprietà formali o sostantive, gap che a detta di Rehg è stato aperto dalla filosofia di Kuhn (1996). Nella ricostruzione che l’autore offre nel secondo capitolo, ampio spazio viene dato all’empirismo logico nel suo tentativo di ricostruire la razionalità della conferma e della spiegazione scientifica come una relazione astratta e formale tra ipotesi ed evidenza, legando la cogenza degli argomenti ai loro meriti formali intrinseci, astratti dal contenuto sostantivo e dal contesto. 1. – Esempio ne è il modello puramente sintattico della conferma proposto da Hempel (1943). Diversamente, Kuhn mette l’accento sulla dipendenza delle pratiche argomentative da presupposti pragmatici che metterebbero in dubbio l’universalità e l’oggettività che verrebbe invece garantita dalla logica. Le regole di accettazione o di rifiuto di un’argomentazione non sono dunque interamente identificabili con la logica (che si limiterebbe a fornire regole di validità): inserendo sia una dipendenza dal contesto che elementi sociologici nella pratica scientifica, si introduce una divisione tra l’aspetto logico e l’aspetto pragmatico della cogenza che viene così potenziato, screditando il predominio del primo. Estremizzando questo gap, Kuhn avrebbe aperto la strada all’idea dell’argomentazione scientifica come processo sociale. Il terzo capitolo si propone di analizzare alcuni modelli che hanno tentato di rispondere alla questione aperta da Kuhn, mettendo l’accento sull’aspetto retorico della scienza (Pera, 1994 e Prelli, 1989). La prima parte del libro è quindi mossa dall’intento di mostrare come la retorica della scienza post-kuhniana sia situata a metà strada tra la prospettiva logica e quella sociologica (i due lati del gap). Se Hempel distacca la cogenza dell’argomento scientifico dal contesto e dal processo argomentativo, Kuhn e i retorici della scienza sostengono, invece, che il processo di argomentazione scientifica costituisce parzialmente la cogenza degli argomenti: la cogenza di un argomento scientifico non può esser pienamente intesa senza il processo che la produce. Nel poscritto a questa prima sezione, Rehg ricorda un recente tentativo di Peter Achinstein (2005) volto a rispolverare la prospettiva logica proponendo una teoria oggettiva dell’evidenza che riduce la giustificazione alla verità: una premessa non è una buona ragione se non è vera. In quest’ottica, la cogenza è impersonale perché dipende da come stanno le cose nel mondo, cioè dalla verità. In questa prima parte, l’autore presenta la sua concezione secondo cui la scienza è primariamente una pratica argomentativa, ma quest’idea va incontro a qualche problema: egli afferma che la “lotta quotidiana col mondo fisico” (Rehg, 2009, p. 19) è orientata alla costruzione di un argomento, ma tale “lotta” non è forse orientata in primo luogo al successo empirico e solo secondariamente alla produzione di argomenti convincenti? La seconda sezione dell’opera mira a integrare queste due prospettive: gli argomenti sono cogenti solo in virtù dei meriti logici o piuttosto gli argomenti sono cogenti solo se emergono da un processo di argomentazione sufficientemente ragionevole? È giunto, allora, il momento di presentare la teoria habermasiana dell’argomentazione per estenderla poi, in modo sperimentale, al campo del

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dibattito epistemologico sulla cogenza dove, secondo Rehg, riesce a risolvere il gap aperto da Kuhn integrando queste due prospettive. Per Habermas, nella comunità scientifica le affermazioni implicano più di una verità empirica (che è comunque l’aspetto prioritario nelle pretese di verità), veicolando anche, in secondo piano, pretese di giustezza e di veridicità. In questo modo si mantiene saldo il legame tra i due poli del gap kuhniano: con le tre pretese di validità si amplia, infatti, la complessità del discorso scientifico andando oltre il senso stretto di cogenza come adeguatezza empirica (Rehg, 2009, p. 112). Rehg presenta poi sia la vecchia teoria consensuale della verità, sostenuta da Habermas negli anni ‘70 (1973), che il nuovo realismo epistemologico di tipo pragmatico che Habermas sostiene a partire da Truth and Justification (1999). Qui, il modello di cogenza che sembra venir implicato è quello di una relazione interna tra discorso (argomentazione), esperienza e azione (che nella scienza include osservazione e interventi di laboratorio). Pur sapendo che la cogenza non può essere con certezza identificata con la verità, gli argomenti cogenti sono l’unico modo per determinare cosa è probabilmente vero. Il quinto capitolo si propone di adattare la teoria habermasiana dell’argomentazione al campo della cogenza scientifica. Possiamo dire che il consenso è il barometro della cogenza: quest’ultima è un raggiungimento collettivo irriducibile al giudizio individuale. Gli individui non possono assurgere alla cogenza in modo monologico perché è necessario un discorso in cui i parlanti fanno valere la propria forza persuasiva: per esser giudicata cogente, è necessario che un’ipotesi convinca. 2. – Contro chi sostiene una separazione, sulla scia di Achinstein, tra il processo di costruzione e di valutazione degli argomenti da un lato, e i risultati empirici che lo qualificherebbero come cogente dall’altro, è possibile porre alcune objezioni, la più imponente delle quali è che le pratiche sociali argomentative sono volte non solo a fini rappresentazionali ma anche comunicativi: gli scienziati costruiscono argomenti non solo in vista dell’adeguatezza empirica o della verità ma anche con intenti comunicativi. Di conseguenza, se un argomento non riesce a convincere, allora il suo contenuto potrà anche essere adeguato dal punto di vista rappresentativo ma non perverrà ad essere un sapere pubblicamente accettabile e quindi a contare come scienza. La cogenza è, allora, una misura più ampia della mera adeguatezza empirica, essendo un criterio di valutazione del più generico “successo” di un argomento, i cui meriti persuasivi non sono solo aggiuntivi ma costitutivi della cogenza. Rehg presenta poi una panoramica sul concetto habermasiano di “situazione linguistica ideale”. La forza logica del prodotto argomentativo dipende largamente dalle qualità del test critico che ha affrontato: quanto più questo test tende ad essere vicino alle condizioni ideali di libertà argomentativa, tanto più forte sarà la cogenza. La questione habermasiana degli ideali della comunicazione emerge, secondo Rehg, considerando la relazione tra il livello dialogico degli ideali guida dell’argomentazione e il livello socio-istituzionale della cogenza. Qui, l’analisi della cogenza pone l’accento sulle istituzioni in cui si sviluppano le argomentazioni scientifiche che sono legate al contesto e come tali ne riportano i limiti normativi e fattuali: i discorsi reali, nella scienza, non sono puri dialoghi ma pratiche sociali che dipendono da condizioni istituzionali e, tuttavia, devono

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tendere, come objettivo, ad approssimarsi ai discorsi ideali. Il momento dialogico e quello socio-istituzionale si presuppongono allora a vicenda, riportandosi uno verso l’ideale e l’altro verso la realizzazione concreta e quindi impura di esso. Definendo un argomento “cogente” se emerge come prodotto consensuale di una pratica argomentativa adeguatamente dialogica, la concezione habermasiana della cogenza sembra riuscire, secondo l’autore, a legare il peso dei contesti sociali con una visione normativa della cogenza, connettendo, appunto, il livello logico, dialogico (retorico e dialettico) e socio-istituzionale. Nel capitolo 6, l’autore si volge ora a un caso concreto di argomentazione scientifica: quello della scoperta dei top quark nel Fermilab, un laboratorio di ricerca dedicato allo studio della fisica delle particelle elementari. La finalità è quella di mostrare che i metodi di questi scienziati presuppongono ideali dialettici simili a quelli di Habermas. Attraverso il richiamo al caso del Fermilab, Rehg mette in mostra come, allo stesso tempo, il caso del compromesso, che talvolta segue al fallimento della persuasione, possa creare dei problemi alla posizione habermasiana. Se la posizione di Habermas non riuscisse a spiegare il compromesso si troverebbe in una posizione non dissimile da quella degli empiristi logici: offrirebbe un’idea della buona scienza ma avrebbe difficoltà nello spiegare la scienza concreta. Inoltre, il compromesso per pressioni politiche, anche se socialmente necessario per mantenere l’ordine sociale, fa venir meno il requisito ideale di libertà dalla coercizione. È opinione dell’autore, tuttavia, che il modello habermasiano possa accettare la presenza del compromesso nelle scienze come condizione del mantenimento dell’ordine sociale. Anche se il consenso attuale non è mai del tutto immune dal compromesso, bisogna mantenere come objettivo critico l’idea di un consenso libero come finalità da raggiungere. Per valutare gli argomenti scientifici, allora, bisogna esaminare non solo il loro contenuto ma anche il processo socioistituzionale da cui originano e la distanza di esso dalla situazione discorsiva ideale (in cui le argomentazioni si confrontano libere da coazioni esterne e distorsioni psicologiche). Emerge sempre più preponderante il peso del contesto nella valutazione della cogenza, cosa che riporta alle idee dei sostenitori del programma forte in sociologia della scienza come Barnes e Bloor (1982). Analizzando le somiglianze e le differenze tra i sostenitori della teoria critica e i sociologi della scienza di matrice relativista, si noterebbe, secondo Rehg, la possibilità di una certa collaborazione tra i due orientamenti, anche se Habermas ha delle mire universaliste, nella sua difesa della razionalità, che i sociologi della scienza di orientamento strong program non possono accettare perché orientati al relativismo. 3. – Anche la concezione dell’argomentazione tra questi due orientamenti è piuttosto diversa: il modello habermasiano ci impegna a un’idea regolativa di dialogo intrinsecamente razionale, mentre i sociologi della scienza relativisti negano agli argomenti un’intrinseca forza che possa esser distaccata dal contesto sociale. Tuttavia, entrambi esaminano i condizionamenti della scienza da parte di interessi e valori sociali e da questo punto in comune si può procedere, secondo l’autore, a una loro collaborazione in vista di una piena interdisciplinarietà, ovvero per una sociologia della scienza critica che nasca dalla cooperazione dei due orientamenti e in cui il relativismo riesce a integrarsi con la pretesa di universalità insita nella

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posizione habermasiana. Per esprimere il potenziale interdisciplinare racchiuso nell’approccio habermasiano, i sostenitori della teoria critica dovrebbero rilassare le pretese filosofiche circa la fondazione ideale della cogenza e concentrarsi sui giudizi dei partecipanti (ciò che gli scienziati percepiscono come cogente nello specifico contesto). Il problema habermasiano di un eccesso di idealizzazione è dovuto al fatto che l’universalismo di quest’idea inibisce la sua funzionalità come concetto “effettivamente” interdisciplinare. Alla domanda iniziale di questa seconda sezione (gli argomenti sono cogenti solo in virtù dei meriti logici o piuttosto gli argomenti sono cogenti solo se emergono da un processo di argomentazione sufficientemente ragionevole), Rehg risponde dando gran peso al successo persuasivo degli argomenti scientifici, ma questa opzione non è esente da problemi: si può ragionevolmente sostenere che la persuasione è il risultato “secondario” o “accessorio” della scienza, non il suo momento costitutivo, come Rehg sembra sostenere. In varie parti l’autore dice che la scienza mira a produrre conoscenza pubblica (Rehg, 2009, p. 97), ma la pubblicità della conoscenza non è forse un segno della sua probabile verità? Stando al senso comune, che non è oro colato ma costituisce certamente un buon punto di partenza, sembra più ragionevole pensare che il diventar pubblico di una teoria è una conseguenza della sua verità (o del suo successo), piuttosto che affermare l’inverso. Inoltre, parlare di scienza in termini “argomentativi” è dare un’immagine fuorviante e parziale dell’attività scientifica, dato che essa si basa anche su aspetti empirici e matematici slegati dal contesto discorsivo. La sezione finale dell’opera è dedicata tutta alla messa a punto del modello collaborativo che è l’objettivo principale dell’argomentazione di Rehg. Per far ciò è necessaria una cornice integrativa abbastanza differente da quella habermasiana: una cornice che sia a posteriori, contestualista e interdisciplinare, piuttosto che a priori, universalista e filosofica. Il riferimento è ora all’etnometodologia del lavoro scientifico (cap. 7), che fornisce questo tipo di intelaiatura e che solo apparentemente, secondo Rehg, non si accorda con un approccio critico. L’autore, piuttosto che rifiutare l’etnometodologia come incompatibile con la teoria critica, sostiene che i seguaci della posizione habermasiana possono adottare un contestualismo che incorpori standard critici trascendenti il contesto. Prendendo atto dei risultati dell’etnometodologia (Garfinkel 1967), l’argomentazione e la cogenza si mostrano dipendenti dal contesto. Nel modello collaborativointerdisciplinare proposto da Rehg, le idealizzazioni habermasiane prendono senso solo in razionalità situate: nonostante il senso universale e ideale delle nozioni di oggettività, verità e idealizzazioni dialogiche, queste mantengono un potenziale di trascendenza che è inevitabilmente “contestuale”. L’idea di inclusività, ad esempio, resta indeterminata fintanto che non viene identificato un gruppo che in una specifica disciplina è stato escluso pur essendo capace di contributi rilevanti. L’objettivo è, quindi, quello di rendere le idealizzazioni più sensibili al contesto, dal momento che nascono e si sviluppano sempre a partire da un ambiente determinato. Anche la critica rimane legata al suo contesto di origine, sebbene possa “tendere a superarlo” volgendosi normativamente a trascenderlo. Secondo Rehg, un contestualismo serio deve riconoscere le differenze di livello tra i contesti: si possono infatti distinguere, come tre interconnesse dimensioni dell’argomentazione,

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l’argomento stesso, la transazione locale e la rete pubblica. La forza della cogenza viene, allora, valutata in base a tre parametri: il contenuto dell’argomento (logica), la qualità della transazione che produce l’argomento (dialettica) e l’abilità dell’argomento di convincere (retorica). 4. – In definitiva, si è messa in luce la necessità di partire dal contesto per definire e utilizzare gli ideali di cui Habermas si fa difensore. Come modello di cogenza, il contestualismo afferma che essa è generata nel contesto piuttosto che calata in esso da norme a priori che hanno una forza prescrittiva in sé (cap. 9). Anziché inseguire una fondazione trascendentale, i sostenitori della teoria critica sensibili al contesto dovrebbero cercare le basi dell’autorità critica nella rete di contesti e credenze condivise che sono non problematiche per il caso in questione. È giunto il momento di chiedersi fino a che punto la proposta teorica innovativa dell’autore, possa essere giudicata accettabile. L’uso che Rehg fa della teoria critica habermasiana non sembra dare i frutti sperati, portando solo a una proposta teorica ancora da sviluppare e non facilmente sostenibile: nel progetto di un “contestualismo critico”, tanto suggestivo quanto vago, emerge chiaramente la difficoltà di far dialogare idee così diverse come la sociologia della scienza relativista e l’etnometodologia (orientate verso il lato contestualista della questione) con la teoria critica che, per quanto possa aprirsi al contesto, non riesce a far a meno di un certo grado di idealità per mantenere il punto di vista critico che la caratterizza. Il libro apre comunque spunti di riflessione non ancora toccati dalla vasta letteratura scientifica sulla filosofia di Habermas come, ad esempio, il peso che la Teoria dell’agire comunicativo può assumere nei dibattiti epistemologici concreti (come il caso del Fermilab), e riesce, in modo accurato e appassionante, a portare a confronto posizioni filosofiche molto distanti tra loro facendone emergere il comune objettivo teorico pur non riuscendo, alla fine, a sviluppare un modello teorico che permetta effettivamente di armonizzarle coerentemente, come auspicato dall’Autore. (Salvatore Italia, Cagliari, salvatore.italian29k@libero.it )

Riferimenti bibliografici 1. Achinstein, P., ed., Scientific Evidence, Johns Hopkins University Press, 2005 Baltimore. 2. Barnes, B. and Bloor D., “Relativism, Rationalism, and the Sociology of Knowledge”, in: Rationality and Relativism, Hollis, M. and Lukes, S., MIT Press, Cambridge 1982, 21-47. 3. – Garfinkel, H., Studies in Ethnomethodology, Englewood Cliffs, N. J., 1967 Prentice-Hall. 4. – Habermas, J., “Wahrheitstheorien”, in: Vorstudien und Ergänzugen zur Theorie des kommunikativen Handelns (1973), Habermas, J., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986, 127-183. 5. – Habermas, J., Truth and Justification, MIT Press, Cambridge 2003.

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6. – Hempel, C.G., “A purely syntactical definition of confirmation”, in: “Journal of Symbolic Logic” (1943), 8, 122-143. 7 – Kuhn, T.S., The Structure of Scientific Revolutions (1962), University of Chicago, Chicago 1996. 8. – Pera, M., The Discourses of Science, trad. C. Botsford., University of Chicago, Chicago 1994. 9. – Perelman, C. & Olbrechts-Tyteca L., The New Rhetoric, trad. J. Wilkinson and P. Weaver, Notre Dame, University of Notre Dame Press, Paris 1969. 10. – Prelli, L.J., A Rhetoric o f Science, University of South Carolina Press, 1989 Columbia. 11. – Toulmin, S.E., The Uses of Argument, Cambridge University Press, 1958 Cambridge.

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EVOLUZIONISMO & SCIENZE NATURALI

In attesa di una completa e rigorosa edizione critica dell’opera di Francesco M. Scudo e della sua copiosa corrispondenza scientifica, iniziamo a pubblicarne i contributi scientifici (redatti per lo più in lingua inglese) con il frammento inedito intitolato Breve storia della biosfera (1997). Al quale premettiamo una succinta scheda sullo scienziato e un breve curriculum del 1998. Questa rubrica, aperta a ogni contributo competente sulle più moderne configurazioni metodologiche dell’evoluzionismo, si fonda sulla collaborazione essenziale di Katherina Ziman ved. Scudo (Torrazza Coste, PV), architetto del paesaggio formatasi alla scuola di Julius Fabos (University of Massachusetts, USA) e autrice del progetto pavese della “Greenway della Battaglia” <1999> e della “Greenway Milano-Pavia-Varzi” <2001-2004>. Oltre all’assistenza della dr.ssa Katherina Ziman, la nostra rubrica si vale della collaborazione di Petra Scudo, figlia di Katherina e di Francesco, laureata in fisica a Pavia e ricercatrice di vasta esperienza internazionale.

Francesco Maria Scudo (1935–1998) è stato ricercatore e studioso nell’ambito delle istituzioni scientifiche pavesi per un periodo di 35 anni.

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Francesco M. Scudo si è laureato a Padova in fisica con una tesi in zoologia, sotto la supervisione di Umberto D’Ancona. Questa particolare esperienza ha segnato il suo percorso scientifico, dedicato alla ricerca nell’ambito delle teorie dell’evoluzione e caratterizzato da una profonda indagine integrativa in molteplici campi di ricerca. I temi da lui trattati comprendono la genetica delle popolazioni, la biologia matematica, l’ecologia teorica, l’etologia, la storia e filosofia delle teorie evolutive, la biologia molecolare e sistematica, e altri ancora. Francesco ha sempre attribuito molta importanza agli aspetti sociologici e ideologici della biologia evolutiva, discutendone ampiamente nei suoi lavori. La sua sede principale di lavoro (1964 – 1998) è stato l’Istituto di Genetica, Biochimica ed Evoluzionistica I.G.B.E. (oggi I.G.M.) del C.N.R. di Pavia; dal 1966 al 1974 ha occupato diverse posizioni accademiche negli atenei statunitensi di Stanford, di Chicago e dell’Università del Massachussetts. Francesco M. Scudo si può definire uno “studioso di altri tempi”: eclettico, libero e indipendente. Ha collaborato con pochi colleghi provenienti da diversi Paesi del mondo. Le sue posizioni non sono in generale state condivise, ma oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, molte delle sue idee fondamentali trovano conferma nel mondo dell’establishment scientifico. (questa è la presentazione introduttiva del Seminario commemorativo “INCONTRO IN RICORDO DI FRANCESCO MARIA SCUDO” organizzato in suo ricordo presso il Collegio Cairoli di Pavia il 28 Novembre 2008 – dieci anni dalla sua improvvisa scomparsa). Francesco M. Scudo – A short curriculum (1998)

Born on May 27th 1935, I received my doctorate degree in theoretical physics in Padua, with a thesis on the population dynamics and genetics of primary sexuality in collaboration with the Zoology Department. Since 1963 I have been at the National Research Council in Pavia, while also holding temporary positions at the Universities of Stanford, Chicago, Chile and Massachussets (from 1969 to 1974 as associate professor of zoology at Amherst). Modelling has been all throughout my main approach to theoretical problems in ecology and evolution, paying attention also to ethology, molecular biology, primary sexuality and assortative mating. From the outset, symbioses was for me an essential aspect of biocoenotics while microbial symbioses justified the origin of eukaryotic organelles as already evident since the 1950s. Working at historical aspects of the classic tradition, made me better aware of the potential explanatory

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powers of close microbial symbioses (viral ones included) mainly through Kostitzin, Giglio-Tos, Leonardi and Pierantoni. Only since a few years I got directly involved with close microbial symbioses in innovative ways, also at the empirical level – i. e. after they became a major tool of many features in evolution through the advances in molecular biology. At present I am much interested in endocellular and other close symbioses as powerful mechanisms of convergence in the evolution of protostomians. I am equally interested in the roles of viral symbioses, as repeats or transposons, especially in connection with the first origins of cells and the fast evolutionary patterns of higher vertebrates.

Francesco M. Scudo, Breve storia della Biosfera (inedito) Il tortuoso viaggio che proponiamo si concentra su una biologia che aspira alla solidità della fisica come ideale irraggiungibile – ben conscia, quindi, che la “verità” d’oggi sarà, alla meglio, solo l’approssimazione del domani – e a volte sconfina sulla fisica vera e propria o sull’economia. Partiremo quindi col dare un’idea molto approssimata della biologia che s’intende spiegare, sulla quale si ritornerà in un’appendice, e della fisica che ne sta alla base. Circa quattro miliardi di anni fa, asteroidi rocciosi e comete gassose, in movimenti piuttosto caotici, finivano per condensarsi in una Terra di massa e orbita già vicine a quelle di oggi. Per un’altro mezzo miliardo di anni la Terra continuerà ad esser intensamente bombardata da notevoli corpi celesti forse più che altro comete asteroidi, – il che spiegherebbe la sua crosta più leggera e così diversa dal nucleo. Circa 3,5 miliardi d’anni fa si placa questo bombardamento e la terra viene “improvvisamente” popolata da cellule di tipo batterico, spesso organizzate in grossi “blocchi” detti stromatoliti. Sembrano scomparire del tutto quei microgranuli assai più piccoli che vi si trovavano in precedenza (circa 3,8 miliardi di anni fa) e che sembrano esser stati “cellule” più semplici. Presto o tardi nuovi reperti fossili ci permetteranno di precisare meglio nei dettagli le relative date, ma certamente non ci faranno toccar con mano come siano andate le cose. Di sicuro si può solo contare su un’atmosfera completamente diversa da quella attuale, molto più acida, quasi senza ossigeno libero e invece ricca di gas come il metano – ben penetrabile dall’ultravioletto – e su oceani che la “riflettono” press’a poco come avviene per quella attuale. Come siano andate le cose si può solo tentare d’immaginarlo sulla base di proprietà della vita d’oggi, quasi certamente diverse da quelle delle origini. Come farlo però non è ovvio, dato che si projettano logicamente su tali origini le più diverse generalizzazioni della vita d’oggi, che di 71


solito portano a ricostruire storie sempre diverse. Punto chiave, quindi, è mettersi d’accordo su come valutare se e quanto “funzionino” tali generalizzazioni e noi lo faremo sulla base di due soli esempi tra loro diametralmente opposti. Il nostro preferito ci permetterà d’introdurre le teorie che svilupperemo nel loro aspetto più semplice. È ovvia proprietà universale degli organismi oggi viventi di essere rappresentati da individui che si riproducono nei modi più diversi, ma tutti tali da risultare quasi sempre in progenie quasi identica al genitore. Da questo si inferisce che quella di replicarsi in tale modo – cioè di essere costituita da replicatori (individuali) – potrebbe essere una proprietà universale anche della vita precedente a quella attuale. Se così fosse, la vita non sarebbe cominciata dalle proteine, chiaramente incapaci di replicarsi, ma dagli acidi nucleici, altrettanto chiaramente capaci di farlo anche da soli, seppur molto lentamente e solo in condizioni chimico-fisiche molto particolari. Si tratta quindi di un’inferenza essenzialmente “logica”, sia pure sulla base di dati inoppugnabili, ma non è difficile rendersi conto che potrebbe funzionare solo attraverso “miracoli” come quelli che citerò. Infatti, gli acidi nucleici sono catene di diversi nucleotidi nessuno dei quali è mai apparso negli innumerevoli esperimenti di vita artificiale che conosciamo (neppure dalle brodaglie meno plausibili!). In genere, questi esperimenti producono più che altro aminoacidi già ben combinati in catene molto simili alle proteine, magari organizzati a piccolissime membrane sferiche. Ammettere che i nucleotidi si siano originati abioticamente implicherebbe che gli sforzi decennali d’innumerevoli scienziati fra i più validi siano solo riusciti a evitare di affrontare il problema delle particolari condizioni che li avrebbero prodotti. Ammettendo che proprio questo sia il caso, bisognerebbe spiegare come questi nucleotidi si siano polimerizzati a catene di acidi nucleici. A meno che, di nuovo, non si siano tutti sbagliati, essi non si polimerizzano mai per proprio conto in mezzi liquidi ma, se sufficientemente concentrati, in superfici umide. Dunque: implausibili nucleotidi abiotici avrebbero dovuto affollare da soli, o quasi, sponde rocciose di mari primitivi per risultare in acidi nucleici, che “appena nati” avrebbero dovuto tuffarsi in mare per non esser fatti a pezzi dall’ultravioletto, e così via. Per le teorie che qui proponiamo, il fatto che gli individui di tutte le forme di vita attuali si riproducano quasi sempre in altri individui quasi uguali non serve, come si vedrà, che a giustificare parzialmente la relativa stabilità delle forme attuali di vita. Ben più rilevante è il fatto che la riproduzione di ogni forma oggi vivente è impedita dalla presenza di innumerevoli altre forme, e che nessuna di queste è in grado di sopravvivere e riprodursi se non in presenza di determinate altre. In altri termini – anche se qualche individuo può 72


occasionalmente replicarsi in condizioni individuali, solo definite comunità di forme sono in grado di continuare a replicarsi in condizioni non del tutto artificiali. Mentre nessuna forma proteica sembra capace di replicazione autonoma, molte proteine facilmente ne catalizzano altre in genere più semplici. Dato che semplici forme proteiche si associano naturalmente a forme più complesse, comunità proteiche sufficientemente ricche possono ben essere in grado di replicarsi per proprio conto, cioè senza esser codificate da acidi nucleici. Oggi si sa pure che substrati in grado di combinarsi solo lentamente possono facilmente dirigere la formazione di efficienti catalizzatori. In termini più generali: insiemi di reazioni chimiche semplici hanno una naturale tendenza a divenire più complessi. Ammettendo quanto sopra, non meraviglia affatto che la vita sia iniziata con proteine spontaneamente formatesi in una “pozzanghera tiepida”, come Darwin e molti altri hanno proposto. Per il lettore incredulo, vogliamo precisarlo in termini chimico-fisici un po’ dettagliati. In complesse catene di reazioni chimiche si sarebbero facilmente originate comunità prevalentemente peptidiche, capaci di replicarsi collettivamente in forme relativamente precise. Si tenga anche presente che piccole differenze in una sequenza peptidica spesso hanno scarsi effetti sulla sua funzione e, in tali condizioni, quindi, una replicazione molto precisa non darebbe alcun vantaggio. Impedirebbe invece alla comunità di trasformarsi abbastanza rapidamente da poter tener testa ai cambiamenti nei substrati che essa stessa contribuisce a produrre. Si tenga pure presente che un campo magnetico di solito più forte dell’attuale avrebbe più o meno rapidamente uniformizzato la simmetria delle componenti molecolari in tali catene di reazioni. Ne risulterebbero così comunità di alfapolipeptidi, cioè vere e proprie proteine piuttosto che misture di alfa e beta. Se consideriamo come “viva” una proteina globulare le cui riserve energetiche sono in qualche forma separate dalle sua attività enzimatiche, presto o tardi queste unità vitali basilari che, con Faustino Cordón, chiameremo basibionti si sarebbero necessariamente originate per spontanea associazione di polipeptidi. Per capire i lentissimi processi che da questi hanno portato a vere e proprie cellule batteriche dobbiamo temporaneamente lasciar da parte l’usuale logica di considerare come ben distinti dei processi ancora poco separabili a questo livello come il metabolismo, la riproduzione, l’ontogenesi e la filogenesi. I primi basibionti si riproducevano semplicemente canalizzando gli aminoacidi comuni nella biosfera terrestre primitiva, ma presenti anche altrove come in comete. Quanto più questi venivano così a scarseggiare, tanto più furono costretti ad evolvere attività enzimatiche sempre più complesse fino 73


a divenire autotrofi, cioè a nutrirsi di gas atmosferici in soluzione, come il metano. Come mostra Cordón, si può ricostruire questa storia a partire da quante volte ogni catalizzazione enzimatica sia presente in vari cicli biochimici basilari, e così ricostruirne la filogenesi ben certi che c’era stato l’enzima proteico con la funzione dovuta. Come precisamente fosse stato ognuno di tali enzimi all’origine, non lo si può dire, dato che i loro discendenti attuali, soppravvissuti per miliardi d’anni come componenti cellulari, sembrano troppo cambiati per farcelo sapere. Questa storia è così ricostruita da una biochimica comparata press’a poco come l’anatomia comparata ci permette di ricostruire quella degli organismi multicellulari. Il metodo è lo stesso anche se applicato a problemi press’a poco “opposti”, cioè: da funzioni in apparenza ben preservate inferire strutture delle quali non v’è traccia diretta, invece che inferire funzioni spesso tutt’altro che evidenti da strutture più o meno ben preservate. La nostra biosfera parte così circa quattro miliardi d’anni fa, o poco meno, con comunità prevalentemente proteiche, in un mezzo riducente ricco d’idrogeno libero e quasi senza ossigeno, ancora soggetto a pesanti bombardamenti cosmici. Per arrivare alle cellule di tipo batterico che popolano i nostri oceani da circa 3,5 miliardi d’anni, il cammino più probabile sembra ancora quello suggerito da Cordón. Basibionti ormai autotrofici, alcuni dei quali avrebbero naturalmente formato semplici colonie piatte, sarebbero divenuti così numerosi che i loro resti potevano fornire ad altri un nutrimento adeguato. Questi basibionti che si nutrono di resti altrui si sarebbero organizzati in colonie fisse a forma di vaso, con uno straterello grasso all’interno, dapprima appena in grado d’ingerire solo pezzi molto piccoli di altri. Quando pezzi molto piccoli cominciarono a scarseggiare alcune colonie specializzarono le loro componenti a funzioni un po’ diverse, coordinando le loro funzioni così da potersi nutrire di pezzi più grossi. I microgranuli atipici più piccoli di batteri (meno di un micron) in formazioni di circa 3,8 miliardi d’anni potrebbero essere resti fossili di tali colonie, ormai con veri e propri comportamenti cellulari. Le cellule attuali di tipo batterico misurano in genere pochi micron e sono codificate da un cromosoma circolare di ADN a doppia elica (lunghezze 1803300 micron e circa 140-13000 kbasi), spesso anche da uno o più plasmidi molto più piccoli, simili a genomi virali (8-250 kbasi). Virus parassiti di batteri sono così commensuali o utili simbionti di altri, fino a integrare il loro cromosoma a quello batterico, con funzioni quali permettere scambi genetici fra forme diverse o elementari forme di sessualità entro la stessa forma. Batteri e virus possono così formare vere e proprie comunità varie e ben organizzate, analoghe a quelle degli organismi nucleati, come quelle intestinali di molti animali o quelle che risultano nelle stromatoliti (cf. sotto). 74


Se, come molto plausibile, la vita è partita da cellule proteiche non codificate non è difficile spiegare l’origine dei loro genomi, facciamo un esempio. Alcuni nucleosidi sono abbondantemente prodotti in mezzi riducenti, ricchi d’idrogeno, e possono essere facilmente fosforilati a nucleotidi. Essendo a volte essenziali coenzimi, le primitive cellule proteiche ne avrebbero fatto scorta permettendo loro di polimerizzare ad ARN. Dapprima ospiti di cellule, certuni di questi organismi di ARN avrebbero poi dato origine a virus parassiti che proteggevano i loro cromosomi con capsidi proteici, elaborati da aminoacidi cellulari tramite codici. Certuni di questi avrebbero poi specializzato il loro cromosoma esclusivamente per la riproduzione, cioè ad ADN, probabilmente dapprima solo riducendo l’uracile per idrosililazione (HMU). Lo testimonierebbero i virus caratteristici di Bacillus i cui DNA hanno ancora solo HMU al posto della timina, che diventerà poi di regola. Come per qualsiasi comunità tali interazioni, dapprima molto avverse, sarebbero divenute più blande, poi mutualistiche e infine simbiotiche con funzioni di codifica per le cellule. Una sempre più completa codifica sarebbe andata di pari passo col riunire in un unico cromosoma questi ADN simbiotici, e i pochi plasmidi che a questi si aggiungono sarebbero più recenti acquisizioni simbiotiche di virus, non ancor ben integrati. Le stromatoliti sono caratteristiche strutture rocciose sottilmente laminate, di misure e forme press’a poco come panettoni; si ritrovano a partire da 3,5 miliardi d’anni fa quando compaiono pure i primi fossili, stringhe cellulari di parecchie cellule, ciascuna di pochi micron. Allora forme dominanti, le stromatoliti divennero rare con la comparsa degli animali, per diversi dei quali lo strato produttivo che le copre sarebbe un eccellente pascolo. Questo strato, spesso un millimetro, testimonia le principali tappe evolutive dei batteri consistendo per lo più in un’accozzaglia dei più antichi anaerobici: solo in superficie esso ha cianobatteri fotosintetici e altri aerobici e, poco sotto, aerobici facoltativi, che possono vivere anche di fermentazione. I cianobatteri formano colonie di diverse forme quali stringhe entro a tubicini, filamenti a spirale o ammassi globulari; e i loro fossili, evidenti a partire da un paio di miliardi d’anni fa, ci mostrano che hanno cambiato ben poco. Li si ritrova negli habitat più estremi e una specie è perfino entrata nel Guiness Book of World Records per esser tornata in vita rimettendola in acqua dopo esser stata a secco per 107 anni in un museo.

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Eleonora de Conciliis, L’evoluzione delle differenze. Per una lettura comparativa del darwinismo La specie umana è senza dubbio la sola ad aver inventato un modo specifico di sparizione. L’uomo scompare proprio per essersi voluto realizzare come uomo. Jean Baudrillard

1. Com’è noto, il darwinismo concepisce l’evoluzione delle specie viventi come un processo aperto e imprevedibile di differenziazione che, grazie al concetto di variabilità, esclude qualsiasi presunta finalità o progetto teleologico della natura: secondo Darwin, la variabilità o differenziazione morfologica (sincronica e diacronica) intra-specifica dei viventi, è sufficiente a spiegare anche la loro variabilità inter-specifica (la vera e propria speciazione)1. L’idea che le specie subissero una variazione continua e graduale nello spazio e nel tempo, in corrispondenza del continuo variare dell’ambiente, fu suggerita a Darwin, oltre che da Lamarck (che può essere considerato il precursore dell’evoluzionismo), dalla sua competenza geologica (era stato allievo del geologo inglese Charles Lyell): i mutamenti delle specie sono analoghi ai movimenti, lentissimi, della crosta terrestre, e anche se in certe condizioni alcuni caratteri di alcune specie mutano molto velocemente da una generazione all’altra (ad esempio il becco dei celebri fringuelli delle Galàpagos), la maggior parte delle mutazioni necessita di tempi lunghissimi e risulta perciò impercettibile a uno sguardo panoramicamente istantaneo, orizzontalmente aperto sul presente, ma visibile solo a uno sguardo verticale che “taglia” le stratificazioni temporali del presente stesso. È dunque il tempo profondo e sotterraneo della geologia a dischiudere la prospettiva dell’evoluzionismo, che, come moderna teoria delle trasformazioni, sembra aggirare il divieto di metamorfosi, cioè di predicazione reciproca, imposto da Aristotele alle sostanze prime: in quanto grado massimo di specificazione rispetto al genere, ovvero in quanto individui, queste non si suddividono ulteriormente né si trasformano l’una nell’altra, ma sul lungo periodo la mutazione differenziale investe il loro genere relativo – che è a sua volta specie rispetto ad altre differenze generiche. Da tale verticale punto di vista il presente, come estratto istantaneo di variazioni o metamorfosi stratificate, è la chiave comparativa per capire il passato (così come la mutazione “veloce” del becco dei fringuelli delle Galàpagos fu per Darwin un illuminante termine di paragone per intuire la lentezza dell’evoluzione in 1

Cf. Ch. Darwin, L’origine delle specie, Newton Compton, Roma 2010.

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altre zone del pianeta): i meccanismi in atto oggi sono gli stessi che hanno funzionato in precedenza, poiché, se tutto muta e così si differenzia da altro, l’unica uniformità evolutiva – l’unica costante – è proprio la trasformazione differenziale. La teoria dell’evoluzione non ha bisogno di interventi esterni proprio perché si fonda (esaltandola) sulla pluralità differenziata delle specie viventi o estinte (anche quella delle specie ominidi prima della colonizzazione del pianeta da parte di Homo sapiens): se specificare, in senso aristotelico, vuol dire differenziare l’essere generico (che come tale è però un ens rationis, un nihil tassonomico), allora l’ordine differenziato, la vita, può sorgere dal caos senza che sia necessario un divino ordinatore. Inoltre una volta superata, attraverso il ralenti geologico, la paura ancestrale della metamorfosi, nell’evoluzionismo essa assurge addirittura a concetto esplicativo che permette la comprensione del passaggio, graduale o violento, da una forma all’altra, cioè “spalma” la variazione su altri tre concetti squisitamente comparativi: forma, passaggio e identità2. A essi il darwinismo, che riflette sull’intero processo delle trasformazioni, aggiunge quello di selezione, introducendo così nel caos delle variazioni una sorta di piano regolatore, la “natura” come meta-produttore della variabilità: le mutazioni, che avvengono casualmente da una generazione all’altra ma vengono trasmesse alla prole separatamente (cioè non per un altrettanto casuale rimescolamento genetico, ma secondo la legge mendeliana dell’ereditarietà), fornirebbero il materiale su cui agisce la selezione naturale, conservando alcune mutazioni vantaggiose ed eliminandone altre senza trasmetterle3. Il paradosso sta nel fatto che quest’interazione adattiva, presunta spontanea, tra geni e ambiente, non soltanto postula sullo sfondo temporale delle variazioni un vantaggio percepibile solo al di sopra degli individui o sostanze prime che l’hanno inconsapevolmente innescato, ma è stata concepita grazie al paragone con una differenziazione tutt’altro che cieca o automatica. La portata comparativa del concetto di selezione naturale, ovvero il passaggio graduale da una specie all’altra grazie a variazioni prima intra- e poi, per accumulo, inter-specifiche, venne infatti elaborata dal Darwin inglese attra2

Se una forma, in senso non solo geometrico, è definibile nella sua specificità solo grazie al confronto con forme differenti, il passaggio di stato è comprensibile solo a partire dall’osservazione-registrazione di almeno due stati diversi dello stesso oggetto, e l’identità è concepibile solo a partire da mutazioni percettibili, che però non sembrano trasformare l’oggetto in altro (metamorfosi). 3 Non a caso, Sebeok ha sostenuto che tutti i sistemi di comunicazione, compresi il linguaggio e la cultura degli uomini, non sono che riproduzioni del codice genetico dell’ereditarietà, concepita come la struttura fondamentale dell’universo; cf. T. A. Sebeok, Semiotica e zoosemiotica, in: “VS: Quaderni di studi semiotici”, 1/1971, p. 7-17; Id., Come comunicano gli animali che non parlano, Edizioni Dal Sud, Bari 1998.

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verso l’osservazione della selezione artificiale realizzata nel XIX secolo dagli allevatori e dagli agricoltori inglesi su piante e animali domestici: se l’allevatore e il coltivatore determinano intenzionalmente le variazioni, incrociando diverse specie fino a ottenere la specie desiderata, più forte, più resistente, ecc., la natura sembra farlo, un po’ meno astutamente, attraverso la produzione – la genesi – di infinite differenze tra i singoli individui4. La genetica è dunque la chiave temporale della differenziazione dei viventi. Nella teoria classica dell’evoluzione, variabilità ed ereditarietà sono concetti strettamente correlati e complementari, anche se sussiste tra essi una distinzione di principio: la prima è legata al caso (mutazione), la seconda alla necessità (riproduzione), poiché avviene in base a leggi o meccanismi di trasmissione dei fattori ereditari (quelli individuati da Mendel all’inizio del XIX secolo). Se infatti la variabilità morfogenetica intra-specifica appare connessa all’insorgere di mutazioni endogene del tutto casuali, non direzionali e non adattive, la pressione selettiva esogena operata dall’ambiente “deciderebbe” quali mutazioni o caratteri risultano più favorevoli, tali cioè da assicurare la sopravvivenza e il successo riproduttivo della specie o del gruppo di individui. In un certo senso la natura darwiniana, come un’allevatrice inconsapevole (o come una vecchia tartaruga delle Galàpagos), si muove a tentoni nelle sconfinate distese del tempo: leibnizianamente graduale, essa non salta da una struttura all’altra, ma avanza a passi brevissimi e lentissimi, conservando a stento le variazioni favorevoli al nutrimento e alla riproduzione. In 4

Nei mammiferi superiori, quindi anche nella specie umana, non esistono due individui con un patrimonio genetico identico: con l’unica eccezione dei gemelli monozigoti, ognuno di noi possiede un genotipo unico e irripetibile. L’origine di tale variabilità o differenziazione genetica individuale (nonché fenotipica) starebbe nella segregazione mendeliana in popolazioni a riproduzione sessuata esogame. Sul piano diacronico tuttavia, malgrado le limitazioni agli incroci più immediati imposte dal tabù dell’incesto, tutti i nostri progenitori sono parenti più o meno alla lontana, poiché dal punto di vista paleo-genetico la specie umana è una popolazione mendeliana complessa o inclusiva (non segregante). Non è però una popolazione panmittica, in cui cioè ogni singolo membro ha l’identica probabilità di accoppiarsi con qualunque altro del sesso opposto e dell’età adatta: soltanto le popolazioni più piccole (abitanti di un villaggio, membri di una classe sociale all’interno di una città, ecc.) si possono considerare approssimativamente panmittiche; al suo interno troviamo perciò una varietà di differenziazioni intra-specifiche costanti – le cosiddette razze o popolazioni mendeliane secondarie, parzialmente isolate tra loro per motivi geografici e/o culturali. Se l’umanità è un aggregato di popolazioni secondarie differenziate, un certo grado di segregazione riproduttiva (ormai soltanto socio-culturale) rappresenta un elemento fondamentale per la creazione e il mantenimento temporale di tali popolazioni intra-specifiche distinte e distinguibili da altre (che presentano cioè una complessa ma classificabile differenziazione genetica: cf. T. Dobzhansky, Diversità genetica e uguaglianza umana: razzismo e ricerca scientifica, Einaudi, Torino 1981), ma anche per la diversificazione dei codici genetici individuali. Senza tale differenziazione potenzialmente infinita, che rappresenta l’effetto delle mutazioni ereditariamente trasmissibili, il nostro processo evolutivo imploderebbe.

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termini foucaultiani, la natura governa le specie – che non a caso Darwin definisce “popolazioni animali”5 o insiemi di individui che interagiscono similmente nella riproduzione e nella lotta per il cibo (che hanno cioè comportamenti omogenei vòlti alla sopravvivenza meta-individuale) –, con una logica bio-thanato-politica, poiché la selezione naturale agisce soprattutto per mezzo della morte, ma sembra farlo in nome della vita: conserva i geni degli individui (non certo gli individui) con una qualsiasi variazione “favorevole” e distrugge o abbandona quelli con variazioni strutturali “sfavorevoli”6. Il principio delle variazioni lascia emergere lentamente – cioè filogeneticamente – la specie grazie al contributo di numerosi portatori di caratteri differenziali vantaggiosi e trasmissibili, ereditati dai discendenti e quindi temporalmente stabilizzati: il mutamento casuale produce nuove identità, cristallizzatesi nelle variazioni che emergono di generazione in generazione. La specie, nella sua genericità, si origina grazie al fatto che gli individui portatori di queste differenze o variazioni casuali non vedono, in virtù delle stesse, accresciute le loro possibilità di sopravvivenza e di riproduzione, ma permettono del tutto inconsapevolmente quelle di altri – i posteri. In altri termini, il loro unico orizzonte biologico è limitato dalla stessa verticalità dell’evoluzione. La speciazione dei mammiferi superiori passa dunque per la mortalità, senza nessuna “naturale” coerenza o coincidenza tra differenze fortuite ed esigenze di nutrimento e riproduzione; il processo comparativo della selezione “funge”, ma non “dirige” l’ereditarietà dei caratteri prodotti da variazioni socialmente assunte come favorevoli, tendendo a includere nella sua logica fattori apparentemente secondari, che hanno però un qualche influsso sull’organizzazione sociale: l’alimentazione, il clima, la correlazione di sviluppo7 e, nell’uomo, la stessa socialità, contribuiscono a modificare nel tempo gli organismi; anche minime variazioni per un lungo periodo rimaste

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Quello di selezione è per Darwin un concetto essenzialmente statistico (popolazionale) applicabile solo su larga scala temporale, e non è corretto affermare che un organismo è stato “selezionato” dall’ambiente solo perché in quanto singolo individuo non è sopravvissuto o non è riuscito a riprodursi. 6 Da tale punto di vista, il nostro comune concetto di “natura” è sia mitico che inevitabilmente antropomorfico: è ad esempio un vizio antropomorfico (e non una forma di anti-antropocentrismo) spiegare l’invecchiamento come il processo grazie al quale, dopo la riproduzione, la natura si dimentica di noi e ci lascia andare verso la morte: in termini rigorosamente evolutivi, essa non ci ha mai ricordato. 7 Fenomeno per cui al variare di una parte durante lo sviluppo di un organismo vivente, anche le altre parti vanno incontro a modificazioni, anche di tipo opposto; ad esempio la profusione di energie in un organo, può portare all’economia energetica o addirittura all’atrofia in un altro.

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inutilizzate a livello evolutivo, e persino i caratteri regressivi8, possono essere in un secondo momento “sfruttati” dai discendenti della stessa specie, in nuove e mutate condizioni ambientali per le quali tali variazioni risultino favorevoli, cioè socialmente (non individualmente) vantaggiose: popolari. 2. Uno dei concetti più interessanti dell’evoluzionismo è quello di adattamento sub-ottimale. Darwin sostiene che i viventi tendono naturalmente ad adattarsi all’ambiente in cui vivono e non viceversa, postula cioè un’inferiorità strutturale dei viventi rispetto all’ambiente, che alla lunga li seleziona, respingendo nel nulla i meno adatti. Ciò accade in quanto l’adattamento dei viventi risulta sempre imperfetto, sia per la scarsità di risorse che per la casualità della differenziazione. Se infatti l’adattamento fosse perfetto, se le risorse fossero infinite e ogni funzione fosse svolta nel modo più semplice e razionale, se non vi fosse alcuna parte od organo inutile, superfluo o nocivo, allora, a giudizio del naturalista inglese, un’interpretazione teologica del mondo sarebbe inevitabile (e la vita sarebbe davvero un “miracolo”), ma perché, potremmo aggiungere, non vi sarebbe alcuna selezione, cioè alcuna variazione: non si produrrebbero affatto differenze, né pluralità viventi, ma solo un’unica specie, incomparabile ed eterna, il vivente come prodotto diretto – meta-sociale e meta-economico – di Dio. Si potrebbe infine abolire lo stesso Dio, che, come volgare allevatore, risulterebbe a sua volta superfluo di fronte alla perfezione dell’Indifferenziato, il quale non sarebbe “specie” composta da differenti individui mortali, bensì “genere” sommo e immortale: l’Essere maiuscolo, il somigliante universale. Si tratta di un ragionamento al limite, elaborato dall’essere comparativo per eccellenza (e perciò minuscolo: un esser-ci gettato nella vita): l’uomo come massimo somigliante intra-specifico eppure massimamente differenziato9. Il concetto di adattamento perfetto, togliendo se stesso, appare tanto fantastico e irreale, quanto quello di adattamento sub-ottimale appare sensato, poiché entrambi non sono che projezioni elaborate dalla mente umana a partire da differenze o imperfezioni reali, frutto della selezione. Infatti la differenziazione (fenotipica) tra gli individui, da cui dipende la nostra unicità 8 Alcuni caratteri che ricompaiono grazie alla reversione: si tratta di caratteristiche somatiche assenti negli ascendenti prossimi di un individuo (genitori), che rappresentano un ritorno a condizioni che esistevano negli antenati (a causa di ciò che in genetica è denominato gene regressivo). 9 Infatti ogni individuo umano intuisce immediatamente, sia a livello fisico (naturale) che sociale (culturale), la propria differenza da ogni altro essere umano, ma è altresì capace di intuire immediatamente la diversità dell’intera specie da tutti gli individui di tutte le altre specie. Sull’attività comparativa (il pensiero come capacità di astrattivo-emozionale di confronto) come cifra del processo di ominazione ma anche del processo di individuazione psichica o soggettivazione, mi permetto di rinviare al mio Il potere della comparazione. Un gioco sociologico, Mimesis, Milano-Udine 2012.

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(di cui siamo coscienti sia a livello percettivo che introspettivo), dipende a sua volta dalla mutazione genetica, che (insieme alla ricombinazione genetica e al crossing over)10 costituisce il principale vettore della selezione naturale. In quanto prodotto di una differenziazione imperfetta della vita – non solo perché, come detto, passa attraverso la morte, ma perché l’imperfezione è il motore della speciazione –, l’individuo diventa cosciente di sé attraverso la comparazione sociale: è qui, nella capacità di percepire e confrontare le nostre differenze intra-specifiche, che va cercata l’emergenza dell’umano. Se, in termini foucaultiani, non conosciamo e non siamo altro che differenze11, Homo sapiens compare, alla lettera, nel confronto plurale, quando alcuni individui vedono una differenza (cioè un’imperfezione) e la sanno, cioè la valutano come forza o debolezza, superiorità o inferiorità – la pensano, fino a sentirsi e concepirsi come variazioni singolari (non solo genetiche, ma socio-culturali), differenze riflessive (senzienti e pensanti) di quella variazione generica (e al tempo stesso genetica) che li determina come simili ma li destina a una morte individuale. È perché esistono le differenze reali, imperfette (prodotte casualmente dalla “natura”), che s’innesca la comparazione sociale, ovvero l’elaborazione di differenze artificiali, umane; ed è per questo che noi non siamo natura, ma ne siamo processualmente, empiricamente usciti e l’abbiamo (s)oggettivata come tale; infine, le abbiamo attribuito un criterio operativo – la selezione – riflettendo su ciò che essa sembra fare senz’alcun senso: produrre differenze. Se infatti una specie non è che una pluralità sincronica (una popolazione) e diacronica (una stirpe) di viventi relativamente simili (imparentati ma geneticamente unici) e in continua interazione, e se soltanto nei primati questa appare attivamente comparativa (si pensi alla scelta del partner nelle scimmie), è solo nelle popolazioni umane differenziate che il processo temporale (filo- e ontogenetico) della stessa differenziazione, sia inter-specifica che intra-specifica, diviene oggetto di riflessione – e nell’individuo Charles Darwin quest’attività meta-comparativa si è addirittura trasformata in una teoria omni-esplicativa della vita (e perciò stesso anche della morte). In altri termini, fino a quel momento, gli uomini sono stati coscienti delle differenze, non di ciò che le produce – del processo della selezione innestato sull’ereditarietà; in lui invece la selezione, come processo verticale, diviene per la prima volta cosciente, entra nell’orizzonte temporale di un individuo.

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La ricombinazione genetica consiste nello scambio di materiale tra due molecole di Dna, e contribuisce al processo di differenziazione genetica tra gli individui, su cui opera la selezione; il crossing over è la ricombinazione del materiale genetico proveniente dai due genitori di un individuo prodotto dalla riproduzione sessuata. 11 Cf. M. Foucault, Archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1998, p. 175.

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Ci si può chiedere se una tale consapevolezza, estesa non soltanto alla comunità scientifica in quanto “popolazione” non segregata (vedi nota 3), ma, dal punto di vista sociale e comportamentale, all’intera specie, sia in grado modificare la selezione stessa e quindi l’evoluzione umana – se cioè la coscienza dell’evoluzione costituisca essa stessa una mutazione, che può avere come effetto, sul lungo periodo, una differenziazione. La risposta sta forse proprio nell’attività comparativa della nostra mente. 3. Come abbiamo visto, Darwin ritiene che a un livello profondo (geologico) la selezione, come imprenditore sprovveduto o allevatore maldestro insediato nel grembo della natura, funzioni da imperfetto criterio di vantaggio; potremmo a nostra volta ritenere che, confrontandosi tra di loro, gli uomini si selezionino con una sorta di bricolage socio-culturale, proprio come fa la natura con le specie, nonché con gli individui di una singola specie. Se infatti il pensiero non è qualitativamente altro dalla selezione intrae inter-specifica, non è che selezione riflessa su di sé (secondo Darwin, il potere mentale di un pesce differisce da quello dell’uomo solo per grado, non per essenza), allora le qualità intellettuali e morali che sembrano definire, a livello intra-specifico, la dignità “umana”, non sarebbero altro che il lento e graduale – ma sempre sub-ottimale – affinamento di caratteri inferiori già presenti negli animali (dalla capacità predatoria dei felini alla cooperazione delle formiche)12: nessun salto superiore (o spirituale) dalla natura alla cultura, ma solo impercettibili trasformazioni, lentissima evoluzione delle differenze. In questa prospettiva, la morte dell’individuo differenziato (livello ontogenetico) è il sintomo di un’imperfezione o inferiorità strutturale della materia vivente, mentre il carattere per così dire “terapeutico” della selezione naturale consiste nell’usarla come farmaco omeopatico – come rimedio evolutivo – a favore della perpetuazione della specie (livello filogenetico). In ogni pluralità differenziata di viventi, dall’unione sociale e dalla collaborazione tra gli individui dipende la sopravvivenza del gruppo, che però non sempre, anzi quasi mai coincide con quella individuale. Vi è dunque un’ineliminabile ambiguità oscillatoria tra due forme di selezione: quella che ha come criterio ontogenetico la forza dell’individuo – la sua irripetibile superiorità –, e quella in cui “funge” il criterio filogenetico della superiorità transindividuale del gruppo. Negli sviluppi teorici più recenti dell’evoluzionismo, che hanno cercato di correggere il darwinismo sociale come vulgata 12

Non a caso, alla fine del XIX secolo il sociologo francese Gabriel Tarde, prendendo come paradigma il comportamento delle formiche, indicò nell’attività essenzialmente comparativa dell’imitazione, comune agli animali e all’uomo, il principale fattore della sociazione: cf. G. Tarde, Le leggi dell’imitazione, Rosenberg & Sellier, Torino 2012, e Id., Che cos’è una società?, Cronopio, Napoli 2010.

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della legge del più forte, la genesi dei sentimenti sociali, e in particolare dell’altruismo13, viene spiegata attraverso il concetto di exaptation14, col quale si indica il riadattamento o riciclaggio di qualcosa – un tratto fisico o comportamentale – che si era già evoluto in una direzione, ma che grazie alla pressione selettiva o culturale (esercitata cioè dagli altri membri della specie) cambia funzione, si trasforma. Comparso in modo neutrale o casuale, ad esempio come effetto di struttura, il tratto (la mutazione) viene poi ex-attato, cioè adattato a un uso non originario: invece di plasmare gli organismi viventi per così dire ex nihilo, la selezione naturale lavora alla meno peggio sul materiale che trova a disposizione, con stratificazioni funzionali già esistenti, riadattandole con degli espedienti ad altri usi15. Questo bricolage evolutivo conferma, da un lato, la teoria multi-fattoriale neodarwiniana (genetica ed ecologica) per la quale la selezione non è solo un meccanismo “competitivo” individuale ma anche un processo di organizzazione sociale, dall’altro il vecchio principio della gradualità delle trasformazioni: la natura lavora continuamente (non facit saltus) attraverso tentativi ed errori, compromessi, riaggiustamenti multipli delle differenze da lei stessa prodotte. Ad esempio l’evoluzione del linguaggio, e quindi la costruzione della nostra nicchia simbolico-cognitiva, potrebbe essere stata una colossale exaptation dei suoni emessi a scopo sessuale per invitare il partner all’accoppiamento, e di quelli con cui la madre comincia a comunicare col proprio figlio. Per Darwin, la formazione e il consolidamento delle differenze tra razze animali (concepite come specie delle specie) dipenderebbero 13

Bisogna distinguere le condotte altruistiche analizzate dalla teoria dell’evoluzione classica (che tendeva a condannarle come “nemiche” della selezione naturale) da quelle studiate, anche in un’ottica neodarwiniana, dalla psicologia sociale; quest’ultima si occupa infatti del carattere inconscio dell’altruismo e dei condizionamenti sociali verso di esso (ad esempio l’altruismo manifestato esclusivamente nei confronti di parenti, amici o membri del proprio gruppo), distinguendolo così da comportamenti pro-sociali come la cura o la beneficenza, che sono in larga parte consapevoli (perché frutto di un calcolo dei pro e dei contro). 14 Cf. S. J. Gould, E. S. Vrba, Exaptation: il bricolage dell’evoluzione, c/ di T. Pievani, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 15 L’altruismo sembra così il frutto di un’exaptation a lungo termine, che Hans Jonas avrebbe definito eticamente responsabile: un’integrazione evolutiva che dal vantaggio cieco della trasmissione genetica di un carattere per riproduzione, passa al vantaggio della trasmissione della tendenza a comportamenti svantaggiosi per l’individuo, ma che favoriscono i suoi parenti stretti, il suo ambiente sociale. In termini weberiani il senso della condotta (Verhalten) altruistica starebbe allora, alla lettera e al di là della vita del singolo individuo, nel suo essere riferita ad altri non ancora esistenti; in termini comparativi, un comportamento individualmente inferiore (destinato a soccombere) produce la stabilità, la coesione e la forza – la superiorità – del gruppo nel futuro, poiché sul lungo periodo questo verrà “selezionato” rispetto a un altro gruppo; in termini economici, se i benefici per il gruppo sul lungo periodo (fitness inclusiva) superano i benefici “presenti” dell’individuo egoista che si riproduce (fitness esclusiva), i parenti dell’altruista porteranno i geni del suo comportamento, gli alleli della generosità, realizzando il principio della kin selection o selezione parentale.

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dalla selezione sessuale, in grado di trasformare in senso ereditario i caratteri esterni di quegli individui, i cui comportamenti adescanti sono oggetto di scelta – quindi sottoposti alla variabilità casuale ma anche all’esclusività della pressione sociale, soprattutto se corredati di ornamenti (si pensi alla coda del pavone o alla peluria nei maschi umani). Per milioni di anni, la selezione sessuale ha operato in un regime di penuria: se gli organismi si moltiplicano a un ritmo troppo elevato, producono una progenie quantitativamente superiore a quella che le limitate risorse naturali possono sostenere, e di conseguenza sono costretti a una dura competizione per raggiungere lo stato adulto e riprodursi. Ma nell’evoluzione umana i caratteri esteriori della specie, cioè i fenotipi relativamente stabili per ogni gruppo e indipendenti da fattori climatici16, non avrebbero solo, o non avrebbero più (in un regime di abbondanza di cibo) un’utilità in termini di pressione selettiva esercitata dall’ambiente, ma svolgerebbero anche una funzione selettiva (comparativa) squisitamente sociale, venendo utilizzati nella parata sessuale. Come fattore di continuità, ma anche di discontinuità fra animale e uomo, la selezione sessuale spiegherebbe in questo modo la variazione dei tratti all’interno delle varie razze, ma anche la bellezza della promiscuità – che rinvia ad esempio alla famosa “superiorità”, anche intellettuale, del meticciato. Pur restando vincolata alla riproduzione, essa potrebbe aver “culturalizzato” i nostri caratteri esteriori agganciandoli alla scelta estetica del partner (la quale rappresenta il comportamento in cui selezione e comparazione tendono a fondersi) e dunque all’incidenza ontogenetica – alla variazione individuale – delle mutazioni. Dalla perdita del pelo nelle femmine, si sarebbe passati allo sviluppo degli organi della fonazione (dacché la voce è uno straordinario strumento di seduzione e, per i neonati, di rassicurazione), fino a quello dell’intelligenza. E da questa alla coscienza, cioè alla consapevolezza della selezione di cui siamo il frutto. In tale prospettiva, la neotenia umana17 non sarebbe l’unico fattore di consolidamento delle relazioni intra-specifiche che permettono di inscrivere

16 Si tende oggi a ritenere che la pelle di Homo sapiens si sia schiarita prima e indipendentemente dalla latitudine a cui migrava, per fattori legati alla selezione sessuale – che in noi è socio-culturale e intra-specifica. 17 Per neotenia s’intende il generale rallentamento dello sviluppo che permette alla specie umana di conservare fino all’età adulta numerosi tratti morfologico-comportamentali (scarsa peluria, ortognatismo, foramen magnum centrale, alluce non ruotabile, suture craniali persistenti, forma pelvica nella donna, denti piccoli, infanzia prolungata, ecc.) tipici degli stadi giovanili, fetali e infantili, dello scimpanzé; questa lunga fase di sviluppo rallentato è tuttavia preceduta da una fase intrauterina accelerata che determina, dapprima, un aumento dei tassi di sviluppo del cervello e una necessaria anticipazione (di quasi un anno) del parto e, in seguito, con una sorta di circolarità socio-evolutiva, la prolungata e necessaria sovraesposizione del cervello prematuro (quasi fetale) agli stimoli del suo ambiente specifico (umano). Sulla

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nella materia cerebrale le strutture simboliche, linguistiche e istituzionali accumulate dalla specie. La plasticità della nostra intelligenza non è soltanto il risultato della “iperconnettività diffusa” di un cervello neotenico preparato da un intenso sviluppo embrionale18; oltre a essere il risultato della selezione parentale (ad esempio dell’imprinting paterno o materno subìto durante tale sviluppo) e della cooperazione tra animali immaturi e indifesi, essa è il prodotto della loro differenziazione sociale, di cui la sessuazione costituisce la forma selettiva più rilevante – visto che il linguaggio potrebbe essersi casualmente sviluppato (e differenziato) grazie alla necessità di comunicare tra partner, oltre che tra madre e figlio. Nonostante il carattere quasi mitologico assunto nel pensiero novecentesco, soprattutto grazie alla psicoanalisi, dalla vita intrauterina e dalla primissima infanzia (anche i genetisti, con scarso senso della novità, riconducono l’attaccamento amoroso all’imprinting affettivo genitoriale)19, proprio perché immaturo il nostro cervello cresce sia materialmente che culturalmente fuori del grembo materno e molto al di là delle cure parentali: il meglio dell’ontogenesi viene dopo la nascita, anche se senza la plasticità della fetalizzazione non potremmo godercelo, cioè imparare a distinguere le differenze e così continuare a nascere per tutta la vita accumulando conoscenze (variazioni) trasmissibili alla prole – la quale si plasma a ogni generazione a partire da un bagaglio genetico leggermente diverso nonché modificabile dall’ambiente socio-culturale (dacché gli oggetti culturali si affinano incessantemente per essere sempre più facili da apprendere e facilmente trasmissibili, come dimostra oggi l’evoluzione delle interfacce nella sfera digitale). In una virtuosa oscillazione, la nostra malleabilità culturale sembra richiedere la neotenia come “inferiorità” preliminare, solo perché quest’inferiorità biologica della fetalizzazione possa innescare la “superiorità” dell’evoluzione culturale umana, cosciente di se stessa, a confronto con quella di altre specie. 4. Utilizzando i termini dell’evoluzionismo contemporaneo, diremmo che la cultura è una sorta di colossale exaptation della natura capace di sfruttare, insieme alla nascita prematura, anche la morte. Nelle neuroscienze il concetto viene usato dagli emergentisti (ossia da coloro che considerano la mente una complessa funzione “emergente” dal cervello) per confermare la possibilità e i rischi evolutivi di un’accentuazione del tratto neotenico dell’uomo cf. l’ormai classico L. Bolk, Il problema dell’ominazione, DeriveApprodi, Roma 2006. 18 S. J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione, c/ di T. Pievani, Codice Edizioni, Torino 2003; S. F. Gilbert, Biologia dello sviluppo, Zanichelli, Bologna 2005. 19 Persino Peter Sloterdijk ha celebrato la vita untrauterina e la relazione madre-figlio attraverso la nozione di “noggetto” o pre-soggetto fetale, mutuata da Thomas Macho: cf. P. Sloterdijk, Sphären I, Suhrkamp, Franfkfurt a. M. 1998, p. 298 e sg.

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teoria del riciclaggio neuronale20: grazie alla plasticità della corteccia, l’evoluzione culturale umana sarebbe stata in grado di usare il vecchio, con le sue imperfezioni, per produrre il nuovo, senza bisogno di un cambiamento genetico – modificando soltanto la funzione dei neuroni, il loro utilizzo. Nell’arco di una decina di generazioni, ciò avrebbe condotto alla rivoluzione paleolitica e alla diffusione della scrittura21, aprendo la strada a quello che potremmo definire un incremento comparativo del mentale22. Posto che vi sia un’analogia tra la nostra capacità di decodificare le differenze come segni e quella – potenzialmente infinita – di distinguere i volti (ciò che equivale, nel suo complesso, a una semantica comparativa del nonidentico), entrambi i processi permettono un accrescimento delle nostre capacità emotivo-cognitive, cioè costituiscono un potenziale di superiorità sia rispetto agli animali, sia rispetto ad altri individui umani privi di tali capacità – ad esempio perché cerebrolesi o perché isolati e quindi non esposti alla comparazione sociale. Secondo gli esternalisti, tanto i processi cognitivi (le cosiddette azioni epistemiche) quanto le esperienze emozionali umane sono, anche inconsciamente, esterni al cervello e quindi mai del tutto individuali – semplicemente, essi si svolgono insieme con altri cervelli: pervengono alla loro realtà sociale, dunque si verificano (anche nel senso propriamente logico-matematico del termine) a contatto e a confronto con essi. Ciò non significa affatto che, in virtù di una magia olistico-cerebrale, al di sopra delle menti individuali (ad esempio nelle reti telematiche) si crei una sorta di general intellect, di intelligenza collettiva pseudo-averroistica. L’espansione 20

Cf. S. Dehaene, I neuroni della lettura, Cortina, Milano 2009. Nella prospettiva di Dehaene, che intende così confermare il carattere cieco dell’evoluzione, i processi culturali sfruttano il materiale biologico che hanno a disposizione. Egli ha analizzato ad esempio l’evoluzione culturale della lettura a partire dalla scrittura, sostenendo che, all’inizio della vita, si ha una visione speculare del percetto: come in un palindromo, i bambini scrivono il loro nome indifferentemente da sinistra verso destra o da destra verso sinistra. In seguito essi perdono questa capacità (la simmetria speculare che Leonardo avrebbe invece conservato, se pensiamo al Codice Atlantico), e allora la lettura alfabeticosequenziale diviene dominante, imponendo la scrittura da sinistra a destra. Poiché nelle lingue camito-semitiche l’ordine è il contrario (arabo, ebraico, ecc., impongono la scrittura-lettura da destra verso sinistra) mentre in alcune scritture ideografiche è diverso (dall’alto verso il basso), è probabile che sia la particolare semantica della lingua appresa – la lingua madre – a interrompere la specularità: l’importante è che s’imponga una qualsiasi tecnica sequenziale (orizzontale o verticale) in grado di decodificare velocemente il significato del segno. La velocità di lettura (e di scrittura) sarebbe allora parte integrante di ogni soggettivazione culturale – non soltanto di quella alfabetica, benché l’effetto positivo dell’apprendimento della lettura alfabetica sul cervello, con il correlato accrescimento delle competenze fonologiche, sembri confermare l’ipotesi di McLuhan, secondo la quale l’uomo tipografico ha un cervello diverso da quello medievale, e i media sono in grado di modificare la mente. 22 Che andrebbe associato a ciò che alcuni studiosi chiamano esternalismo attivo: cf. A. Clark e D. J. Chalmers, The extended mind, MIT Press, Cambridge (MA), 1998, tr. it. La mente oltre la testa, in: “Micromega”, 7/2010, Almanacco della scienza, p. 161-175. 21

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della mente oltre la testa, nel mondo, implica piuttosto la creazione di sistemi associati (che sono anche sistemi o esternalità comparative) grazie ai quali i singoli individui possono accrescere le loro esclusive, singolari capacità. Nella sua neotenica inferiorità, il singolo cervello umano si potenzia andando “fuori”, verso altri cervelli, ma anche restando “dentro”, riflettendo su ciò che lo differenzia da essi. La mente muove dall’apriori biologico del singolo sistema neuronale, ma si estende socialmente (quindi culturalmente) ai soggetti esterni, proprio come si estende – alla lettera, si tende verso – gli oggetti che usa per pensare (una calcolatrice, un taccuino, un computer, ecc.). Questa prospettiva brucia il monismo ontologico della metafisica, anche nelle sue forme più dissimulate: se il pensiero non è Senso-Evento, flusso del divenire puro dello spirito, ma effetto immateriale dell’intreccio di cause materiali e corporee, e se il campo indefinito delle potenzialità – che è un campo comparativo – emerge come prodotto sociale della loro interazione, il linguaggio sfonda la chiusura e la separatezza (per non dire la follia) del soggetto cartesiano: “Il linguaggio… non è uno specchio dei nostri stati interiori ma un loro complemento”23. Dal punto di vista praticocognitivo, la mente implica un sé esteso agli oggetti, mentre dal punto di vista simbolico ed emozionale (ad esempio in virtù delle credenze disposizionali irriflesse che Bourdieu chiamava “habitus”, o grazie a ciò che Simondon chiamava individuazione psichica e collettiva), la comparazione implica un “noi” differenziato – a livello specifico ma anche individuale – emerso dall’evoluzione socio-culturale della pluralità animale24. 5. Nell’uomo la trasmissione trasformativa delle differenze non riguarda soltanto i caratteri fisici, ma anche quelli psichici, rendendo possibili forme relativamente stabili e omogenee di soggettivazioni – cioè speciazioni di “culture” che fungono da orizzonti nei processi d’individuazione –, sullo sfondo di una pluralità corporea sessualmente e geneticamente differenziata – cioè all’interno di popolazioni mendeliane secondarie. L’idea che lo sviluppo psichico di un individuo possa essere istruito, in senso comparativo, dal particolare contesto socio-ambientale in cui si svolge, e produrre a sua volta novità evolutive e nuove strategie ontogenetiche, andrebbe accostata all’ipotesi formulata da Clifford Geertz in sede antropologica, secondo cui la cultura, proprio per effetto della pressione dell’ambiente sociale, nell’ultimo tratto della nostra evoluzione avrebbe velocemente modificato la natura

23

A. Clark e D. J. Chalmers, La mente oltre la testa, cit., p. 174. In questa prospettiva, ciò che Chomsky chiama grammatica generativa, ovvero la capacità ontogenetica di apprendere un linguaggio, non sarebbe affatto una struttura innata, ma socialmente appresa e filogeneticamente trasmessa: frutto di un’evoluzione biologico-culturale. 24

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verso una forma di differenziazione ulteriore, rispetto a quella prodotta negli ominidi dalla lenta speciazione filogenetica. Questa sorta di innesco socio-ontogenetico della comparazione conduce a una visione pluralistica, oltre che processuale, della nostra filogenesi, mostrando che l’emersione graduale di Homo sapiens è avvenuta attraverso un periodo di sovrapposizione tra l’inizio della cultura e la fase finale dell’evoluzione che ha portato dagli ominidi all’uomo: “La maggior parte dell’espansione corticale umana ha seguito, e non preceduto, l’’inizio’ della cultura […] la generica costituzione innata dell’uomo moderno (quella che in tempi più semplici si chiamava ‘natura umana’) appare ora essere un prodotto sia culturale sia biologico”, caratterizzato da “un rapporto reciprocamente creativo tra i fenomeni somatici e quelli extra-somatici”25, cioè tra il contatto dei corpi e lo scambio simbolico di segni, tra la mutazione organica e quella psichica. Sappiamo che circa centomila anni fa Homo sapiens uscì dall’Africa popolando gli altri continenti; la differenziazione genetica intra-specifica che ne seguì (e che secondo ricerche recenti può giungere fino al 12% del genoma individuale)26 è stata favorita dall’iniziale distanza fisica tra i gruppi di individui e dalla conseguente mancanza di incroci, oltre che da fattori ambientali – cioè dal fatto che le varianti genetiche casuali che migliorano la 25

C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 2001, p. 83; p. 86-87. Secondo i risultati di una ricerca pubblicata dalla rivista Nature nel 2006, la variabilità del genoma umano tra individuo e individuo è più alta di quanto si ritenesse. Il nostro Dna è composto da una sequenza di 3 miliardi di quattro diverse unità che i biochimici chiamano basi nucleotidiche, e le varianti individuali nel Dna riguardano non più di 10 milioni di basi, pari allo 0,3%. Considerato che la differenza genetica minima tra noi e gli scimpanzé è pari soltanto all’1,4%, Stephen J. Gould aveva già ipotizzato l’esistenza di geni di tipo speciale – i cosiddetti “geni chiave”, “master” o “architetto” – responsabili di una serie di effetti a cascata, anatomici, cerebrali, cognitivi e comportamentali, capaci di giustificare la significativa differenza specifica tra l’uomo e lo scimpanzé. Un’analoga ipotesi deve aver guidato i ricercatori nel cercare di comprendere la fonte genetica della straordinaria differenziazione interindividuale umana. Sappiamo che esistono vari livelli ai quali si esplica la diversità genetica o il polimorfismo tra gli individui di una specie: quello dei cromosomi, dei geni e quindi degli alleli, delle basi nucleotidiche, e infine il livello del singolo nucleotide, ovvero della singola base di Dna. A causa di mutazioni, le singole unità nel Dna di individui diversi possono variare, ma a questi livelli il polimorfismo di due membri della specie umana non differisce per più dello 0,3%. Il Dna possiede tuttavia lunghe sequenze, composte da decine o centinaia di migliaia di unità nucleotidiche, che possono o meno includere dei geni. È a livello di queste sequenze, chiamate varianti nel numero di copie (CNV) che è stata riscontrata una possibile variabilità genetica del 12%, poiché i CNV possono presentarsi in maniera sensibilmente diversa nel Dna di individui diversi, con conseguenze più o meno rilevanti da individuo a individuo. Ad esempio, le copie di CNV possono essere ridondanti, errate (i cosiddetti errori di trascrizione), o mancare del tutto, talvolta provocando malattie. Ciò conferma, se ce ne fosse stato bisogno, quanto la diversità genetica individuale sia un vantaggio per la specie umana e non per il singolo individuo. 26

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possibilità di sopravvivere in un determinato ambiente (o areale) vengono più frequentemente trasmesse nelle popolazioni che lo abitano. Sappiamo inoltre che negli ultimi quarantamila anni, con una relativa accelerazione, la mente di Homo sapiens si è espansa, evolvendo sia biologicamente che culturalmente grazie all’interazione con artefatti materiali e simbolici posti fuori di essa: “Il cervello biologico si è di fatto evoluto ed è maturato nella misura in cui c’era la presenza affidabile di un ambiente esterno manipolabile”27, un ambiente socialmente costruito, estremamente plastico e metamorfico, di cui fa parte anche il linguaggio che – sorto probabilmente nei sessantamila anni intercorsi tra la migrazione di sapiens e la sua colonizzazione del pianeta –, è il più complesso dei sistemi associati. Secondo Geertz, le fasi finali (finali sino ad ora, comunque), della storia filogenetica dell’uomo ebbero luogo nella stessa grande era geologica – la cosiddetta era glaciale – della sua storia culturale. […] Questo significa che la cultura, invece di essere aggiunta per così dire, a un animale ormai completo, fu un ingrediente, e il più importante, nella produzione di questo stesso animale. La lenta, quasi impercettibile, crescita della cultura nell’era glaciale modificò l’equilibrio delle pressioni selettive a favore dell’Homo che si evolveva, in modo tale da svolgere un importante ruolo direttivo nella sua evoluzione. Il perfezionamento degli attrezzi, l’adozione delle pratiche organizzate della caccia e della raccolta, gli inizi della vera organizzazione familiare, la scoperta del fuoco e, cosa assai importante, benché ancora molto difficile da ricostruire in ogni particolare, il crescente affidamento a sistemi di simboli significanti (il linguaggio, l’arte, il mito, il rituale) per l’orientamento, la comunicazione e l’autocontrollo, crearono tutti per l’uomo un nuovo ambiente a cui egli fu quindi obbligato ad adattarsi. […] Sottomettendosi alla guida di programmi simbolicamente mediati per produrre manufatti, organizzare la vita sociale o esprimere emozioni, l’uomo determinò, anche se inconsciamente, le fasi culminanti del suo destino biologico. Letteralmente, anche se senza saperlo, creò se stesso […] Per dirla in breve…, non esiste una cosa come una natura umana indipendente dalla cultura. Gli uomini senza cultura […] sarebbero assurde mostruosità con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili, e nessun intelletto: casi mentali disperati. […] Quel che ci accadde nell’era glaciale è che fummo costretti ad abbandonare la regolarità e la precisione di un controllo genetico dettagliato sulla nostra condotta a favore della flessibilità e dell’adattabilità di un controllo genetico più generalizzato benché naturalmente non meno reale28.

Si può ipotizzare che il ruolo evolutivo avuto dai processi socio-culturali nella produzione di variabilità, dunque di differenziazione intra-specifica, abbia permesso l’accelerazione finale, culturale e non più solo biologica del nostro processo di speciazione. Non a caso, secondo Geertz, la cultura non 27 28

A. Clark e D. J. Chalmers, La mente oltre la testa, cit., p. 166. C. Geertz, Interpretazione di culture, cit., p. 62-63.

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è spiegabile attraverso modelli teorici generalizzanti: essa è, in buona sostanza, articolazione delle differenze, che, fattesi ambiente sociale, hanno orientato l’evoluzione biologica dell’umanità potenziandone la differenziazione genetica. La cultura riesce infatti a svolgere, al posto dell’istinto, una funzione di controllo del comportamento, grazie alla produzione simbolica ma anche alla differenziazione degli stessi simboli, arbitrariamente creati dagli esseri umani. La cosiddetta “natura” è stata quindi “lavorata” dalla cultura, che però nel suo differenziarsi ha reso massimamente dipendenti gli uomini gli uni dagli altri: “Alcuni degli sviluppi più importanti nell’attività neuronale avvenuti durante il periodo di sovrapposizione tra il cambiamento biologico e quello socio-culturale migliorano le capacità di prestazione del sistema nervoso centrale, ma ne riducono l’autonomia funzionale” (ivi, p. 97), per cui senza il contatto e lo scambio con gli altri membri della specie non c’è, per l’individuo, alcuna salute o equilibrio psicofisico – non c’è umanità. “Senza uomini certamente non c’è cultura; ma allo stesso modo, e cosa più importante, senza cultura non ci sarebbero uomini […] noi siamo animali incompleti o non finiti che si completano e si perfezionano attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari” (ivi, p. 64), cioè a loro volta differenziate. “Tra quello che ci dice il nostro corpo e quello che dobbiamo sapere per funzionare c’è un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni (o disinformazioni) fornite dalla nostra forma di cultura” (ivi, p. 65), la quale, declinando in un codice particolare (un codice storico) la stessa variabilità genetica della specie, permette l’individuazione e allontana l’animale uomo da ogni residuo fissismo o preformismo metafisico. Consapevole del carattere plastico (neotenico) ma non fondativo della differenziazione come individuazione, l’antropologia di Geertz non fa che mettere a confronto le forme di cultura, le inter-preta alla lettera: le fa interagire ponendole in relazione e dissolvendo così anche metodologicamente il classico dualismo natura/ cultura, che ha comportato (ad esempio in LéviStrauss) la necessità di trovare una cerniera logico-empirica tra le due: la cultura è concepita meglio non come insiemi di modelli concreti di comportamento – costumi, usi, tradizioni, insiemi di abitudini – com’è stato grossomodo finora, ma come una serie di meccanismi di controllo – progetti, prescrizioni, regole, istituzioni (quello che gli ingegneri informatici chiamano ‘programmi’) – per orientare il comportamento […] l’uomo è proprio l’animale più disperatamente dipendente da simili meccanismi di controllo extragenetici ed extracorporei, i programmi culturali appunto, per dare ordine al suo comportamento […]. La cultura fornisce il legame tra quello che gli uomini sono intrinsecamente capaci di diventare e ciò che in effetti sono divenuti, nella loro specificità. Diventare umani è diventare individui, e noi lo diventiamo sotto la guida di modelli culturali, sistemi di significato creati storicamente, nei cui termini noi diamo

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forma scopo e direzione alla nostra vita. E i modelli culturali coinvolti non sono generali ma specifici (ivi, 59; p. 67),

cioè a loro volta differenziati ed evolventisi. 6. La mente dell’uomo è in grado di isolare prospetticamente il principio delle variazioni come principio prospettico, in quanto risulta essa stessa prodotta dall’evoluzione socio-culturale – che potremmo anche definire “comparazione sociale” – verificatasi nell’ultimo tratto della nostra speciazione. L’evoluzionismo possiede dunque una preziosa curvatura sociologica: mostra che è stata la comparazione intra-specifica a lavorare le differenze fisiche tra individui, producendo altre differenze, quelle culturali, senza per questo poter annullare l’esperienza delle prima, le differenze biologiche. Dalla differenza dell’individuazione si parte (si nasce) e alla differenza dell’individuazione si ritorna sempre (si muore), ma in mezzo si dispiega l’infinita stratificazione socio-culturale dei confronti – delle differenze tra gli uomini. Ed è grazie alla cultura di una particolare società iper-differenziata – la cultura occidentale moderna – che gli uomini riflettono per la prima volta su questo processo. La teoria dell’evoluzione, così tradotta, genera due tipi di domande. Da un lato, trovandoci a valle del processo, ne conosciamo bene soltanto il risultato: siamo diventati umani attraverso l’attività linguistico-comparativa. Ma non sappiamo esattamente quando e come. Nonostante fioriscano le ipotesi (comprese quelle di Geertz), dietro di noi si squaderna il problema dell’origine delle lingue e si apre un “buco” di quarantamila anni tra l’apparizione preistorica e pre-scritturale delle prime forme di socialità (in cui non vi era alcuna differenza o confronto trasmissibile tra l’uomo e la natura) e le grandi civiltà teocratiche, come quella egizia e mesopotamica, che dissolvono il neolitico nella scrittura (il più potente supporto esterno della mente umana). Non ci è dato ricostruire con esattezza la genealogia plurale delle lingue, e abbiamo appena cominciato a ricostruire quella, altrettanto plurale, delle specie ominidi che hanno abitato la terra prima di Homo sapiens o in epoche vicine alla sua affermazione evolutiva. Né sappiamo cosa abbia favorito la lunga gestazione del linguaggio e poi della scrittura come misurazione sociale e astratta delle differenze. In questa situazione di totale ignoranza circa il senso complessivo della differenziazione intra-specifica, che non riusciamo a trovare nel passato ma che ognuno di noi spera oscuramente di

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esperire nel futuro29, sappiamo soltanto che, esattamente come “la” natura, “la” cultura umana, in sé, non esiste – esiste piuttosto la pluralità storica delle culture, che permette, ad esempio, la comparazione tra la cultura occidentale e le altre culture. Come abbiamo visto, secondo Geertz nell’ultima era del pleistocene (conclusasi con la fine dell’ultima glaciazione, circa diecimila anni fa) la nostra evoluzione è stata anche culturale: il cervello neotenico di Homo sapiens si è sviluppato e perfezionato (con le funzioni della corteccia) grazie all’adattamento all’ambiente sociale oltre che all’ambiente naturale. È così che diventare umani ha assunto il significato di diventare individui appartenenti a una cultura specifica, un gruppo, un genere, ecc., giù giù fino alla singolarità: il processo di soggettivazione non è una struttura universale, ma un percorso contingente infinitamente differenziato, e persino le nostre intelligenze, pur essendo collocabili all’interno di un range di specie, sono storicamente, dunque individualmente plasmabili30. D’altra parte – e giungiamo così al secondo genere di domande suscitate da una lettura comparativa della teoria dell’evoluzione – sappiamo che questo processo è andato incontro a un’enorme accelerazione, paradossalmente preparata da un rallentamento selettivo delle mutazioni organiche (= stabilizzazione genetica di sapiens): Benché indubbiamente siano accaduti alcuni cambiamenti evolutivi di scarsa importanza dopo la nascita dell’uomo moderno, tutti i popoli viventi fanno parte di una specie differenziata e, come tali, subiscono variazioni anatomiche e fisiologiche molto limitate. La combinazione di meccanismi indeboliti di isolamento riproduttivo, un periodo prolungato di immaturità sessuale dell’individuo e l’accumulo di cultura sino al punto in cui la sua importanza come fattore di adattamento prevalse quasi interamente sul suo ruolo come fattore selettivo, produssero una decelerazione così accentuata nel ritmo evolutivo degli ominidi che pare sia stato precluso lo sviluppo di qualunque variazione significativa nella capacità mentale innata tra i sottogruppi umani. Con il netto trionfo dell’Homo sapiens e la fine delle glaciazioni, il legame tra mutamento organico e culturale venne, se non spezzato, almeno notevolmente indebolito. Da allora l’evoluzione organica della linea umana è molto rallentata, mentre la crescita della cultura ha continuato a procedere con sempre crescente rapidità (ivi, p. 88-89).

Ora, per complicare un po’ il quadro, immaginiamo che anche questo processo si sia fermato – che la cultura sia ferma. In termini di antropologia culturale, se la cultura non sta più plasmando la specie a livello evolutivo, è 29

In quanto tentiamo di comprendere il senso della nostra individuazione e desideriamo conservarla anche in un meta-futuro individuale, di cui facciamo esperienza indiretta, e traumatica, solo a confronto con la morte altrui, in tanto la morte è l’ultima, estrema forma di conoscenza comparativa, che però distrugge il termine di paragone. 30 Cf. C. Geertz, Interpretazione di culture, cit., p. 68.

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perché alcune culture si stanno fermando. L’indebolimento di una cultura, causato dalla sua stessa espansione – è il caso dell’Occidente capitalistico contemporaneo, ormai completamente globalizzato –, potrebbe comportare una nuova, storica incapacità, da parte della stessa cultura, di plasmare gli individui e le loro intelligenze entro un range di specie. In termini socioevolutivi, la cultura dominante sul pianeta è quella occidentale, che ha occupato e saturato la nicchia cognitiva: se questa cultura, grazie alla sua straordinaria accelerazione, sta modificando la specie, il suo indebolimento (che non sembra affatto disgiunto, ma anzi causato proprio dall’accelerazione) potrebbe comportare una nuova, storica incapacità, da parte della cultura, di plasmare (anche cognitivamente) gli individui. In altri termini, è proprio il nostro essere storicamente plasmabili dalle diverse culture che ci espone al rischio di non esserlo più. E non c’è bisogno di scomodare la morte del sole, il destino entropico dell’universo o le leggi della fisica per sapere che nulla, tantomeno l’evoluzione umana, può essere infinitamente concrescente. Si potrebbe dunque contestare l’assunto di Geertz e ipotizzare, proprio sulla scorta della loro rapida evoluzione biologico-culturale verificatasi nell’ultima parte della filogenesi umana (nei suddetti cruciali quarantamila anni), un’altrettanto rapida involuzione delle capacità intellettive della nostra specie. A questo punto gli evoluzionisti smettono di leggere, indignati: l’involuzione è impossibile, sarebbe come immaginare che le leggi della fisica, più o meno velocemente, smettano di funzionare. Ma, come tutti sanno, un processo (sia esso fisico o chimico) si inverte quando supera una soglia critica, che varia a seconda delle condizioni esterne al processo stesso e a quelle degli agenti in esso coinvolti. Immaginiamo che tale soglia critica, per il processo dell’evoluzione umana, coincida con il divenire coscienti del processo stesso, e che dunque la consapevolezza della selezione, intesa come “trasparenza” riflessiva, non costituisca soltanto un elemento in grado di modificare il ritmo del processo, ma anche un salto di qualità e un punto di non ritorno, dacché ci rende capaci di comprenderne, oltre che di subirne il complessivo non-senso – la fredda, spietata stupidità31. Da quando, grazie a Charles Darwin, siamo diventati coscienti dell’evoluzione, la cultura occidentale è cresciuta tanto velocemente da sembrare ferma, ma a essersi fermata non sarebbe tanto la sua accumulabilità, cioè la sua possibilità di saturazione, quanto la nostra possibilità individuale e col-

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Tant’è che una parte del pensiero filosofico occidentale, in ciò ancora dipendente da quella religione di cui l’evoluzionismo ha implicitamente decretato l’insensatezza, e dunque la superfluità, ha cercato di porre proprio la coscienza umana come “senso”, fine, objettivo o almeno bersaglio della selezione. Ma allora, daccapo, qual è il senso del processo evolutivo dopo la coscienza, al di là della coscienza? Mistero.

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lettiva di acquisirla in modo completo e significativo – di diventarne totalmente coscienti; in assenza, ormai, di selezione naturale, ovvero in presenza di una selezione sociale molto meno spietata (dunque inferiore) rispetto a quella naturale, è possibile che il rallentamento dell’evoluzione stia cedendo il posto a un rovesciamento involutivo, che, riattivando negativamente il legame tra mutamento organico (geneticamente trasmissibile) e culturale, tocchi lo spettro delle variazioni nelle capacità mentali innate degli individui, facendolo tendere verso il basso – verso la stupidità32. Il fatto che sia stata la cultura a incidere sull’ultima fase della nostra evoluzione biologica, e che dunque l’intelligenza sia un prodotto comparativo, ci rende degli animali storico-sociali, il cui comportamento e le cui facoltà superiori non sono affatto garantite come “istinto”. Se la cosiddetta natura umana è storica, lo è anche l’intelligenza, nel cui range potrebbero verificarsi delle modifiche; e se è stata la (accelerazione della nostra) cultura a far rallentare o addirittura bloccare la nostra evoluzione biologica, la cultura potrebbe essere la chiave per capire l’inizio della nostra involuzione – della possibile, futura inferiorità intellettiva di Homo sapiens33. 7. Esiste una sfera d’esperienza, che è quella del pensiero comparativo più o meno cosciente, in cui il principio economico del vantaggio, che Darwin immaginava oscuramente e goffamente all’opera anche nella selezione naturale, viene sfondato da altri criteri selettivi: la selezione continua a funzionare, ma non si esercita più sul nutrimento e la riproduzione, e non è più rigorosamente “selettiva”. Nell’uomo civilizzato dell’Occidente, in assenza di penuria (Lebensnot) e con un controllo totale della procreazione (notevolmente ridottasi negli ultimi decenni), la selezione sessuale sembra quasi completamente scomparsa (paradossalmente, direbbe Foucault, a favore della sessualità), mentre il principio del “vantaggio” appare totalmente schiacciato sul presente (in termini darwiniani, sulla fitness esclusiva). Continua a verificarsi la variazione graduale e continua dei viventi che Darwin ha correlato all’evoluzione come lotta per le risorse, ma senza la scarsità 32 Allo stesso modo, il comportamento collettivo degli individui può avere effetti tendenzialmente “insensati” – cioè stupidi – in termini di evoluzione e nei confronti del pianeta: si pensi all’impatto ambientale della specie umana negli ultimi centocinquant’anni e si avrà un magnifico esempio comparativo di “insensatezza”. Sul tema sia consentito il rimando al mio Pensami, stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia, Mimesis, Milano 2008. 33 Per un’illustrazione di questa possibilità fanta-sociologica rimando al film demenziale Idiocracy, di M. Judge (Usa, 2006). Cf. inoltre l’ipotesi (discutibile ma interessante) di P. de Lalla Millul, Evoluzione 2. Darwin e la selezione sessuale, Salerno Editore, Roma 2001, secondo cui il prevalere, nella nostra civiltà, dei fattori competitivi, aggressivi, tecnologici e progressivi propri della selezione naturale inter-specifica (Evoluzione 1) minaccerebbe di bloccare i fattori inclusivi, affettivi, superiori e intra-specifici propri della selezione sessuale (Evoluzione 2).

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delle medesime: la cosiddetta lotta per la vita, cioè la competizione per la conquista del cibo e del partner, ha già premiato quegli esseri che erano più adatti all’ambiente e i cui caratteri o comportamenti hanno avuto perciò maggiori probabilità di essere trasmessi alla prole. Nelle società complesse la variazione si svolge ormai su altri piani: valgono altre differenze, quindi altri premi, e l’imperativo riproduttivo tende a declinare. Il principio economico del vantaggio continua a dominare, ma la crisi che stiamo vivendo, innescata proprio dalla miopia temporale, per non dire dalla stupidità del capitalismo finanziario (il massimo del profitto individuale nel minor tempo possibile)34, fa emergere una configurazione sistemica che, sul lungo periodo, potrebbe paradossalmente negare sia alla specie che agli individui la possibilità di esperire un qualche senso – nonché di godere “immediatamente” – del presente: potrebbe rapidamente condurre alla nostra estinzione. L’uomo completamente “evoluto”, l’uomo occidentale, sembra aver smentito il postulato evoluzionistico dell’adattamento sub-ottimale o imperfetto come segno di assoluta inferiorità rispetto alla natura: è stato lui, in quanto super-differenziato, ad adattare a sé l’ambiente e le altre specie; è stato lui a prendersi gioco della (stupidissima) natura, fermando l’evoluzione nell’oscillazione caotica delle differenze intra-specifiche. Ma ciò non ha affatto eliminato il gioco selettivo delle inferiorità relative, portando anzi il principio delle variazioni intra-specifiche, ovvero il “narcisismo delle piccole differenze” (Freud), a un livello d’intensità (e di complessiva insensatezza) che agli animali, come ai cosiddetti primitivi, resta precluso. A questo punto, però, è opportuno ricordare che, nel secondo capitolo dell’Origine, Darwin affronta il problema della variazione allo stato di natura, dove esistono infinite interazioni tra gli organismi viventi: persino all’interno delle specie più comuni è presente un gran numero di varietà, che possono essere considerate specie in formazione. Prescindendo dalla distratta abbondanza dell’attore metafisico “natura” che moltiplica le differenze, e appuntando piuttosto lo sguardo sul tempo geologico delle mutazioni, la domanda che gli evoluzionisti dovrebbero porsi è forse la seguente: esistono nuove specie in formazione all’interno di Homo sapiens (escludendo transgender, avatar e cloni)35? Si sta verificando, per così dire allo stato di cultura, un’ulteriore, e relativamente rapida speciazione? 34 Su ciò mi permetto di rinviare al mio saggio La creazione del soggetto al tempo della crisi, in Critica della ragion creativa, n. 0 de La deleuziana (www.ladeleuziana.org), p. 103128. 35 A mio giudizio queste forme identitarie andrebbero escluse non perché virtuali e irreali (è caso il degli avatar e dei cloni) o perché ibride (è il caso dei transgender), ma perché biologicamente e tecnologicamente dipendenti e nietzscheanamente “reattive” rispetto alla specie sapiens e al processo di soggettivazione moderno.

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Se la risposta dovesse essere negativa, ciò significherebbe che nell’uomo l’evoluzione è ferma non solo rispetto alla selezione naturale (nell’ambito del nutrimento e della riproduzione è chiaramente bloccata), ma anche nel campo delle variazioni casuali trasmissibili e capaci di dar luogo a nuove specie. Il che non impedisce, anzi favorisce il fenomeno esclusivamente umano di una estrema differenziazione intra-specifica, cioè di una comparazione sociale ipertrofica, del tutto impossibile tra le specie animali (con il suo corredo di transgender, avatar e cloni). Si potrebbe anzi ipotizzare che, proprio perché non dà luogo a nuove specie in formazione, empiricamente o indirettamente osservabili su un’ampia scala temporale, ebbene, proprio per questo la specie umana abbia intensificato al massimo, nel presente, le variazioni intra-specifiche coscienti, ormai del tutto slegate dal nutrimento e dalla riproduzione (cioè dalla vecchia selezione natural-sessuale). Come già immaginava Arnold Gehlen36, la specie umana sembra trovarsi di fronte a un’alternativa che in realtà è una deriva complementare: abbandonarsi alla propria struttura neotenica, che nella società occidentale assume le caratteristiche infantili di una popolazione di individui narcisisti (completamente insensati dal punto di vista evolutivo e perciò disperatamente schiacciati sul vantaggio presente), ma anche sottomettersi completamente alle proprie protesi macchiniche e alla struttura tecnoscientifica prodotta dalla (ormai vecchia, eppure ancora molto potente) “razionalità” moderna, grazie alla quale dominiamo ottusamente il pianeta. Tuttavia, la risposta alla super-domanda evoluzionistica potrebbe anche essere positiva: Homo sapiens si sta trasformando in una nuova specie. In termini evolutivi, il presente è fatto d’ignoranza: non sappiamo come siamo arrivati a essere individui parlanti, e non sappiamo cosa succederà al nostro corpo e dunque al nostro processo di soggettivazione nei prossimi quarantamila anni – che ci sembrano un tempo enorme, ma sono un’unità di misura adeguata alla nostra evoluzione socio-culturale. Sappiamo che all’interno della numerosa famiglia degli ominidi alcune specie si sono estinte (ad esempio Neanderthal e Cro-Magnon) senza dare luogo a nuove specie, ma riteniamo presuntuosamente che la nostra sia sempre la stessa da diverse migliaia di anni. In tal modo poniamo limiti al caso, alla pluralità e al principio delle variazioni: potremmo essere stupidamente prossimi all’estinzione, ma potrebbero anche esservi insorgenze epigenetiche di nuovi caratteri che ora ci sfuggono, e che invece saranno manifesti soltanto sul lungo periodo; nel giro di qualche secolo, potrebbero comparire (emergere per confronto temporale) differenze psichiche e somatiche che magari non avranno più come sfondo la selezione e la comparazione sociale intraspecifica, bensì altri criteri selettivi del tutto sconosciuti. 36

A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, il Saggiatore, Milano 1994.

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In quanto fenomeno storico, piuttosto che naturale, l’intelligenza comparativa, che ci ha condotto alla coscienza individuale (sulla cui corrispondenza con l’attività neuronale sappiamo ancora ben poco), è infatti soltanto una possibilità, un percorso frutto dell’accumulo di eventi imponderabili nell’evoluzione della nostra specie, che riflette ma allo stesso tempo opacizza la nostra pluralità; essa cioè è diventata “umana” perché in noi, del tutto casualmente, si è prodotta e intensificata l’emozione della differenza tra “me” e “altro”, che ha accelerato il processo della differenziazione sociale facendo emergere la cultura – la quale, con un effetto a spirale, ha potenziato la coscienza individuale, separata, delle differenze psichiche. Sappiamo inoltre che esiste una sorta di comunicazione e dunque di comparazione intra-specifica tra alcuni mammiferi superiori – lupi, scimpanzé, elefanti, delfini –, che cioè in essi vi è la percezione dell’alterità intra-specifica, con uno spessore emotivo e sociogeno che implica l’esistenza del vincolo affettivo, la riconoscibilità del volto e del rango, benché quest’attività sociale non dia luogo ad alcuna oggettivazione simbolica tramandabile o misurazione astratta della differenza, né tantomeno a un ripiegamento psichico – benché insomma il linguaggio comunicativo animale non si trasformi in attività comparativa complessa e autocosciente. Potremmo dunque immaginare che l’evoluzione delle differenze possa avviarsi in altre specie in forme diverse da quelle che ha assunto nella nostra – dove il confronto intraspecifico è diventato cosciente e riflessivo, portandoci a un’individuazione insopportabilmente singolare, per così dire “insensata” in modo direttamente proporzionale rispetto al non-senso dell’evoluzione. Per tale motivo, è infine possibile projettare Homo sapiens verso un remoto futuro evolutivo, in cui ognuno potrà leggere i pensieri dell’altro – in tal modo l’intera specie diverrebbe cosciente: un unico essere psichicamente trasparente, collettivamente e letteralmente psichedelico, che porterebbe l’individuazione ad assumere forme del tutto nuove. Naturalmente – direbbe il geologo Charles Darwin – ci vuole tempo. Un tempo talmente lungo che Kant, il quale non conosceva ancora la teoria dell’evoluzione ma aveva già il concetto di specie, alla fine dell’Antropologia pragmatica riflette sull’opacità del pensiero umano, paragonandolo agli effetti della trasparenza linguistica in una specie aliena: Potrebbe ben darsi che su qualche altro pianeta ci siano esseri ragionevoli incapaci di pensare altrimenti che a voce alta, i quali cioè nella veglia come nel sogno, che siano in società o da soli, non possano avere alcun pensiero senza nel contempo esprimerlo nel linguaggio. In tal caso, quale differenza risulterebbe fra la loro condotta reciproca e quella degli appartenenti alla nostra specie umana? Qualora essi non fossero tutti puri come angeli, non si vede come questi possano cavarsela tra loro, avendo l’uno per l’altro anche solo una qualche stima, e sopportandosi a vicenda. – Appartiene dunque già all’originaria costituzione

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di una creatura umana e al concetto della sua specie di cercare di conoscere i pensieri altrui, tenendosi però i propri per sé37.

In fondo, è questa la più potente, la più significativa e insieme insensata, stupida differenza comparativa tra noi e tutti gli altri mammiferi superiori: noi possiamo mentire – e non certo per altruismo.

37 I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, con introduzione e note di M. Foucault, Einaudi, Torino 2010, p. 351.

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Sara Mazzotti LEOPARDI E NIETZSCHE: UN’AFFINITA’ ELETTIVA?

II. L’UOMO

2.1 L’uomo e la natura Dopo aver considerato il punto di partenza di questo ipotetico viaggio che ci condurrà nei meandri del pensiero di Leopardi e Nietzsche, ovvero il comune interesse per la filologia, è giunto il momento di iniziare a percorrerne effettivamente la strada. Il mezzo che utilizzeremo sarà quello di una sorta di conversazione ideale tra questi due pensatori – poeti su diversi argomenti che occupano ruoli di primo piano nella loro meditazione. Durante questa avventura ci renderemo conto del fatto che molti luoghi saranno visitati da entrambi, benché gli itinerari scelti per raggiungerli mostreranno evidenti diversità. Nietzsche prediligerà, infatti, strade diritte e lineari, laddove Leopardi opterà per percorsi impervi e montuosi. D’altra parte siamo perfettamente consapevoli che un dialogo, per risultare davvero fecondo e produttivo, non deve essere caratterizzato dalla piena rifrazione di un pensiero sull’altro. L’interlocutore non deve mai diventare uno specchio che pedissequamente riflette le idee dell’altro, senza aggiungervi nulla di personale e originale. Più che le affinità, saranno quindi le differenze che via via emergeranno, ad arricchirci, facendoci provare l’urgente esigenza di porci domande su noi stessi, la nostra vita e il mondo che ci circonda. 101


C’è però, alla base di questo cammino, un terreno comune che viene percorso da Leopardi e Nietzsche, ossia la necessità di uno stretto e intenso rapporto tra riflessione e vita. Ogni argomento d’analisi trattato sarà sentito, infatti, come qualcosa di vivo che modificherà l’esistenza dello stesso pensatore. Vita e pensiero saranno posti sullo stesso piano, i pensieri diverranno eventi dell’esistenza. Prima di partire per questo viaggio denso di fascino, un’ultima considerazione appare fondamentale. Leopardi, fin da bambino, divenne campo di battaglia per lo scontro fra la dimensione emotiva e istintuale da un lato e quella razionale dall’altro. Tale lotta accompagnerà l’intero scorrere della sua vita, e non vedrà mai il predominare definitivo di un contendente sull’altro o una loro possibile integrazione. Quando, ad esempio, la riflessione conquistò un momentaneo sopravvento, anche “le operazioni più materiali, e giornaliere, e naturali” apparvero per lui impossibili. Così, infatti, ricorda il padre Monaldo: “[…] dandosi a pensare sul modo di respirare, avvertiva che non poteva farlo liberamente […]. Maggiore e più lunga fu alli suoi 16 overo 17 anni, in cui pensando e sottilizando sull’atto dell’orinare, non lo faceva più naturalmente e indeliberatamente come facciamo tutti gli atti animali […]. Passeggiava delle ore per distrarsi, e rubbare a se stesso qualche momento di inavvertenza, ed io medesimo procuravo di accompagnarlo e divagarlo […]”1.

Se dunque Leopardi non riuscì ad armonizzare questi aspetti della personalità, Nietzsche invece, ebbe la possibilità di far indossare all’emotività i panni della razionalità, eliminando ogni presunta contraddizione. Per comprendere con maggiore chiarezza le concezioni che fin qui sono state volutamente delineate a livello generale, è necessario affrontare il primo argomento di discussione che ha per oggetto l’analisi dell’uomo e il suo rapporto con la natura. La riflessione sull’uomo, per entrambi i nostri filosofi quindi, non può essere assolutamente disgiunta da quella relativa alla ricerca del senso della vita. Per Leopardi è utile comunque esplicitare, come base della trattazione, quei pilastri fondamentali della “teoria del piacere”, protagonista incontrastata di numerose pagine dello Zibaldone, sui quali poggia il nucleo centrale della sua meditazione. L’“amor proprio” è, infatti, quel “sentimento universale”, quel particolare istinto, sostiene Leopardi, che muove l’essere vivente e dal quale tutti

1

M. Leopardi, Memoriale, cit., p. 338.

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gli altri derivano come “produzioni” o “modificazioni”2. L’uomo ama, dunque, se stesso senza limiti e questa tendenza fa scaturire in lui il desiderio di raggiungere la somma felicità, l’incontrastato piacere. Il piacere che il desiderio ricerca, data la natura illimitata dell’amore che l’uomo nutre verso sé, non può essere circoscritto in “durata” ed “estensione”, ma deve necessariamente essere eterno e infinito3. Proprio qui emerge lo scarto permanente tra desiderio e piacere determinato, che non sarà mai in grado di colmare il vuoto che tale desiderio rappresenta. Questo accade perché l’uomo, come gli altri viventi, è materia. La materia ha precisi confini. I piaceri che, nella realtà dell’esistenza, l’individuo potrà ottenere saranno, quindi, sempre e soltanto delimitati e per questo insoddisfacenti. La consapevolezza di questa situazione produrrà, come tra breve avremo modo di osservare, quella lacerante infelicità, che sarà scandagliata in profondità da Leopardi. Anche Nietzsche è concorde nell’affermare che alla base di ogni creatura vivente agisca un fondamentale istinto, che chiama “volontà di potenza”, dalla “plasmazione” e “ramificazione”4 del quale si sviluppano come conseguenza tutti gli altri. A tal proposito spiega: “[…] ciò che non è, non può volere; ma ciò che è nell’esistenza, come potrebbe ancora volere l’esistenza! Solo dove è vita, è anche volontà: ma non volontà di vita, bensì […] volontà di potenza”5.

Non solo nell’uomo, dunque, ma in ogni fenomeno Nietzsche vede all’opera questa energia istintuale. Tutto quanto aspira ad affermarsi, scontrandosi con le entità vicine mosse dal medesimo impulso. Quella più potente prende momentaneamente il sopravvento, mentre le altre rimangono in equilibrio instabile. Da questo ininterrotto misurarsi di forze nasce l’uomo e il mondo di cui è parte. Per quanto concerne poi il rapporto che l’uomo intrattiene con la natura, l’idea espressa da Nietzsche appare da subito chiara e definita. Nel corso della sua riflessione, infatti, non subirà alcun cambiamento. Nietzsche, fin da ragazzo, sentì in sé la piena consapevolezza di essere parte della natura. Analizzare l’uomo, per lui, ha dunque sempre significato la possibilità di creare unità, facendo emergere l’individuo dal flusso continuo del divenire proprio della natura stessa.

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Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 2411, 2 maggio 1822. Ibid., 165, 12-23 luglio 1820. 4 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 44. 5 Id., Così parlò Zarathustra, Adelphi 1968, p. 132. 3

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Da bambino ebbe con lei un rapporto astratto, privo di spontaneità e di fisicità. Amava, infatti, soprattutto guardarla per vedervi riflesso lo scorrere del tempo, l’alternanza di vita e morte, simboleggiata dal mutare delle stagioni e se stesso. La sua più grande paura era il non sapersi cogliere in questa esistenza sempre mutante. Un frammento di poesia giovanile ci permette di capire questo suo timore: “Uno specchio è la vita: riconoscer se stessi in questo specchio riflessi è la cosa più ambita”6. Per Nietzsche l’esistenza dell’uomo, come quella della natura, è un trascorrere fuggevole, privo della benché minima stabilità. È come se, rendendo esplicita una sua immagine, l’uomo fosse un ipotetico passeggero sul treno della vita e, seduto accanto al finestrino, la vedesse passare, avendo l’accortezza di trattenerne dei frammenti. L’uomo è a tal punto momento della natura, parte integrante di essa, da renderne difficoltosa anche la momentanea differenziazione. Questa completa appartenenza dell’essere umano alla natura porta con sé una prima importante conseguenza, ovvero le caratteristiche attribuite alla natura saranno le medesime condivise dall’uomo. La natura, secondo Nietzsche, è contraddistinta da un agire necessario, senza libertà, e quindi, proprio per questo motivo, assolutamente innocente. E così l’uomo. È un errore madornale attribuire soltanto all’operato della natura, necessità, e investire l’uomo del potere di un libero arbitrio e di una conseguente responsabilità che, date le circostanze, non può avere. Nietzsche si pone, infatti, questa domanda: “Noi non accusiamo la natura di immoralità, quando essa ci manda un temporale e ci bagna: perché diciamo immorale l’uomo che fa il male? Perché noi supponiamo qui una volontà libera […], e lì necessità. Ma questa distinzione è un errore”7.

Se, dunque, dove c’è necessità, traspare un’impossibilità di giudizio connaturata a una palmare assenza di responsabilità, l’uomo non potrà mai ergersi a giudice né della natura, né di sé. Non si può, infatti, porre sotto accusa ciò che per principio è innocente. Sarà proprio questa consapevolezza che per-

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Id., La mia vita, cit., p. 39. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, cit., p. 79.

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metterà a Nietzsche di accettare davvero una vita così enigmatica e contraddittoria e di ribadire con fermezza la necessità della presenza del dolore, sola in grado di far rilucere la gioia. Queste le sue parole: “Proprio accanto al dolore del mondo e spesso sul suo suolo vulcanico, l’uomo ha sistemato i suoi giardini di felicità. Che si osservi la vita con lo sguardo di colui che dall’esistenza vuole solo conoscenza, o di colui che si arrende e si rassegna, o di colui che si allieta per la difficoltà superata – dappertutto si troverà un po’ di felicità, spuntata accanto alla sventura, quanto più il suolo era vulcanico […]” (ivi).

La difficoltà che incombe su Leopardi è , invece, l’esatto opposto di quella appena descritta di Nietzsche. Leopardi, infatti, non riesce ad acconsentire a una visione dell’uomo soltanto come parte della natura e non fine principale degli sforzi da essa costantemente profusi. Per questo negli scritti leopardiani la natura interpreta sempre il ruolo dell’alterità. Leopardi non fornì mai una definizione precisa del concetto di “natura”, dal momento che questa parola assunse significati diversi a seconda dei vari contesti in cui venne utilizzata. L’immagine che però, con immediatezza delinea la sua idea di rapporto uomo-natura, è quella di una mamma che segue nella crescita il suo bambino. Bambino che a sua volta registrerà i molteplici cambiamenti di una madre, dapprima dolce e premurosa, divenuta poi “nemica” e “matrigna”8. Analizzando i diversi passaggi che costituiscono la riflessione leopardiana inerente a questo argomento, ad un certo punto apparirà evidente l’approdo di Leopardi allo stesso porto di Nietzsche. Ma affrontiamone con precisione le tappe. In un primo momento, Leopardi valuta positivamente l’operato della natura, ritenendo che essa abbia per fine il raggiungimento della felicità per tutte le sue creature e per l’uomo in particolare. Imputerà all’inizio, dunque, proprio all’uomo la degenerazione di questa felicità primigenia. La natura, infatti, non avendo la possibilità di eliminare il desiderio, perché “ingenito” e “congenito” con l’esistenza, fece in modo di far provare all’uomo quel piacere infinito, unica meta dell’amor proprio, non nella realtà, bensì nell’immaginazione. L’uomo poté godere di quella felicità relativa attraverso le illusioni e le speranze. La natura, inoltre, cercò di tenere l’uomo costantemente occupato esteriormente, inviandogli pericoli, malattie e bisogni primari da soddisfare con estrema difficoltà. Tutti espedienti che Leopardi attribuisce a una madre attenta e solerte che si batte per garantire al proprio figlio la felicità. 8

G. Leopardi, La ginestra, 1836, v. 125.

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Egli, poi, in numerosi punti dello Zibaldone, asserisce che tutti quei mali, che ogni individuo si troverà ad affrontare nella propria esperienza, non derivano direttamente dall’ordine delle cose e, dunque, non sono inerenti al sistema universale della natura. Con questa metafora chiarisce il suo pensiero: “In una macchina vastissima e composta d’infinite parti, per quanto sia ben fabbricata e congegnata, non possono non accadere dei disordini, massime in lungo spazio di tempo […]. Dimostrando dunque i diversissimi e gagliardissimi ostacoli opposti dalla natura al nostro stato presente, io vengo a dimostrare che questo (e l’infelicità dell’uomo che ne deriva) è accidentale […]”. (Zib., 1081, 23 maggio 1821)

Successivamente, partendo proprio dal presupposto che “tutto nella natura è armonia, ma soprattutto niente in essa è contraddizione”9, Leopardi giunge alla conclusione che forse quegli inconvenienti la natura non solo li aveva previsti, ma addirittura voluti nel suo sistema. Qui Leopardi, sebbene per breve tempo e senza troppa convinzione, condivide il pensiero di Nietzsche riguardante la necessaria esistenza del male. Anche per Leopardi, infatti, chi si trova ad affrontare situazioni di difficile risoluzione che si concludono positivamente, avrà la capacità di stimare come beni aspetti della vita ritenuti fino a quel momento privi di importanza e significato. Soltanto dopo un temporale si apprezza il tiepido raggio di sole che ci accarezza, come dopo una malattia la gioia prepotente della salute. Tematica, questa, centrale anche di una sua composizione poetica del 1829, La quiete dopo la tempesta: “Piacer figlio d’affanno;

gioia vana, ch’è frutto del passato timore”. (vv. 32-34) “Uscir di pena è diletto fra noi”. (vv. 45-46) Dalla meditazione leopardiana considerata, traspare una strenua difesa della natura da parte dell’uomo. È come se Leopardi avesse in mente l’immagine di una mamma che, per evitare al proprio bimbo di venire a contatto con le brutture del mondo, costruisse per lui un giardino incantato in cui essere felice. Per Leopardi, come tra breve avremo modo di osservare, sarà colpa del bambino disubbidiente se un giorno, scavalcando il cancello di

9

G. Leopardi, Zibaldone, 2601, 7 agosto 1822.

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casa, si imbatterà nella verità dell’esistenza, da cui la mamma con fatica voleva preservarlo. Leopardi spingerà in seguito la sua riflessione al punto estremo di sostenere che lo stesso ordine universale si fonda su un unico principio maligno, che invocherà, lodandolo, in un abbozzo di poesia del 1833, intitolato Ad Arimane. Al termine del suo percorso, quindi, il bimbo-Leopardi vedrà riflessa sul volto della madre-natura solo cattiveria e malvagità, stimandola nemica crudele. Questo il suo sfogo risentito: “Noi concepiamo più facilmente de’ mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinari, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, […] non diremmo: è cattiva. […] Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male?”. (Zib., 4511, 17 maggio)

A differenza di Nietzsche, dunque, Leopardi manterrà sempre quella radicale distinzione tra uomo e natura simboleggiata dal rapporto madre-bambino. Il bambino, infatti, pur sviluppando un forte legame con i propri genitori, è un’entità da essi autonoma. Leopardi non sarà, quindi, in grado di eliminare quella “contraddizione spaventevole”10 che lo porta a separare il fine perseguito dalla natura da quello agognato dall’uomo. La natura ha come objettivo dunque la vita dell’universo, l’uomo la felicità. Pur tuttavia Leopardi attribuirà alla natura le stesse caratteristiche di cui Nietzsche l’aveva rivestita. A questo proposito è interessante seguire alcune fasi del particolare dialogo avuto, in un’operetta morale del 1824, da un Islandese, emblema dell’intero genere umano, proprio con la natura divenuta persona, “non finta, ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile”11, alla quale chiese alcune delucidazioni. Quella, per esempio, inerente alla vita dell’universo. La natura così rispose: “[…] la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, e alla conservazione del mondo […]. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento” (ivi, 536).

10 11

G. Leopardi, Zibaldone, 4128, 5-6 aprile 1825. Id., Operette morali, Newton 1997, p. 533.

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Da queste parole risulta manifesto anche a Leopardi l’errore di giudicare l’operato della natura, partendo dal presupposto che essa sia padrona delle proprie scelte. La natura agisce seguendo il percorso tracciato dalla necessità, quindi è completamente innocente e priva di qualsiasi possibilità decisionale. Infatti a questo proposito, fa dire alla natura: “Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo […]: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico […]” (ivi, 535).

Quella componente emotiva però, che Nietzsche argina con il pensiero, in Leopardi non rinuncia all’indipendenza. L’emozione punge Leopardi sul vivo e non gli permette di allontanare in modo definitivo quell’accusa di insensibilità perpetrata ai danni di un’inconsapevole natura. Come può la natura, si chiede attonito Leopardi, che vive a così stretto contatto con l’uomo, non partecipare in qualche modo al suo dolore? Anche nel Bruto minore, poesia scritta nel 1821, Leopardi dà libero sfogo a questa sua perplessità, dicendo sconsolato: “Oh casi! oh gener vano! Abbietta parte siam delle cose; e non le tinte glebe, non gli ululati spechi turbò nostra sciagura, né scolorò le stelle umana cura”. (vv. 101-105)

2.2. L’allontanamento dell’uomo dalla natura L’analisi della relazione che vede come protagonisti l’uomo e la natura non si esaurisce con le considerazioni fin qui trattate. L’essere umano, infatti, nella riflessione di entrambi i nostri pensatori, non è assolutamente percepito come un’entità statica e determinata. Dal momento che, quindi, l’uomo può modificare se stesso, deriva l’immediata conseguenza di un mutamento anche dei rapporti da lui stesso intrattenuti. Per Leopardi, ad esempio, il bimbo che nasce non è stato provvisto dalla natura di alcunché di fisso e di immutabile, ciò significa che l’adulto che diventerà sarà “quasi tutto opera delle circostanze e degli accidenti”12. In un pensiero dello Zibaldone, Leopardi così chiarisce:

12

G. Leopardi, Zibaldone, 3301-02, 29-30 agosto 1823.

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“Ciascun uomo è come una pasta molle, suscettiva d’ogni possibile figura […]. S’indurisce col tempo […]. Tale è ciascun uomo, e tale diviene col progresso dell’età”. (Zib., 1452, 4 agosto 1821)

Tutto ciò può avere effettivamente luogo, sostiene ancora Leopardi, proprio perché la natura dota l’individuo solo di “disposizioni”, ossia di possibilità, che sarà poi l’assuefazione a trasformare in concrete e definite “facoltà”13. In generale, il concetto di “assuefazione”, uno dei nuclei tematici fondamentali della meditazione leopardiana, rappresenta quanto, nei viventi e specialmente nell’uomo, è acquisizione rispetto al dato originario. L’assuefazione è una sorta di abitudine, che, poggiandosi sull’attenzione e sulla memoria, se protratta nel tempo, si radica nell’individuo, avviando il passaggio dalla disposizione alla facoltà. Ciascuna disposizione però, è in grado di dar vita a un ventaglio di facoltà diverse. Saranno, dunque, le particolari esperienze che l’essere umano incontrerà sul suo cammino a determinare questa scelta e le sue stesse caratteristiche definitive. L’uomo, a causa della sua “eccessiva conformabilità” diviene, agli occhi di Leopardi, il “più corruttibile” e il “più imperfetto”14 tra tutte le creature dal momento che è con maggiore facilità portato ad allontanarsi dalla sua natura, quindi dalla sua perfezione e relativa felicità. Emerge qui un’ulteriore basilare constatazione. Se nell’uomo tutto è assuefazione, ovvero acquisizione successiva, come abbiamo appena avuto modo di notare, allora tutto ciò che lo riguarda diviene relativo e privo di assolutezza. Già nelle prime note zibaldoniche questa convinzione è fermamente stabilita da Leopardi e sfocerà poi nel paradosso che “non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo” (Zib., 452, 22 dicembre 1820). Leopardi, infatti, oppone un netto rifiuto all’esistenza di idee innate nell’uomo, che farebbero di lui un’entità predeterminata. Accetta, invece, il principio sensista della conoscenza come frutto dell’esperienza, e l’idea di un essere umano in divenire. Nello Zibaldone saranno molti i luoghi attraverso i quali Leopardi tenterà di rendere ancora più esplicito questo suo pensiero. Per lui, dunque, dal punto di vista etico, il bene e il male sono stabiliti da convenzioni che differiscono da un’epoca all’altra e da un popolo all’altro, dal punto di vista estetico, il bello e il brutto sono quanto di meno fisso e di immutabile si possa immaginare, così come dal punto di vista giuridico, non esiste nessun tipo di diritto naturale e anche dal punto di vista pratico, il 13 14

Ibid., 1803, 28 settembre 1821. G. Leopardi, Zibaldone, 2901-02, 6 luglio 1823.

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tempo e lo spazio dipendono dalle circostanze e condizioni con cui vengono percepiti. Lo stesso Nietzsche è pienamente d’accordo con Leopardi nel sostenere che l’uomo non sia un monolito granitico, determinato una volta per tutte, a cui è negata ogni possibilità di cambiamento. Con queste parole rende manifesto il suo pensiero: “La maggior parte delle specie animali si sono adattate alle condizioni della terra, e non si modificano in maniera essenziale. L’uomo si modifica ancora – è in divenire”15.

A tal proposito, nel corso della sua meditazione, Nietzsche redarguisce sovente quei pensatori che mostrano la pretesa di studiare l’essere umano, considerandone soltanto l’attuale configurazione. Se, dunque, l’uomo è in costante mutamento, un’esauriente trattazione che l’abbia per oggetto, deve necessariamente procedere in modo storico, soffermandosi ad evidenziare le diverse tappe di questo suo divenire. Anche per Nietzsche, quindi, “tutto è divenuto; non esistono dati di fatto eterni: così come non esistono verità assolute”16. L’uomo è sì conseguenza necessaria, come tra breve avremo modo di puntualizzare, ma il suo percorso di sviluppo non è tracciato in relazione a qualcosa di fisso e immutabile che precede l’esistenza, esso concresce infatti dagli elementi e dagli influssi delle cose passate e presenti di cui l’individuo stesso farà esperienza. La stessa verità, che per Nietzsche non è già stabilita e quindi solo da trovare, bensì è da “creare”, subendo le molteplici influenze di epoche storiche, civiltà e uomini diversi, non potrà essere che relativa. Nietzsche formula, inoltre, un’interessante ipotesi in base alla quale si avrebbe la possibilità, attraverso l’analisi della dimensione conscia e inconscia dell’essere umano, di coglierne le differenti fasi del divenire organico. Nietzsche si muove, dunque, su due fronti. Da una parte, infatti, esorta a viaggiare in altre nazioni per scoprirne la storia, dal momento che non sono altro che “stadi di cultura precedenti cristallizzati”17. Oppure invita a porre attenzione a quelle persone a noi vicine, che vivono però in zone appartate o comunità chiuse, che più facilmente conservano stadi di sviluppo antichi. Dall’altra, invece, sprona, anticipando le future teorie di Freud, a veicolare l’interesse proprio su quegli aspetti inconsci che, privi della censura

15

F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1881, 11 [44]. Id., Umano, troppo umano, I, cit., p. 16. 17 Id., Umano, troppo umano, II, 1880, 1-223. 16

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della coscienza, lasciano trasparire quelle precedenti tappe del percorso rimosse. Così spiega: “Negli scoppi della passione e nei vaneggiamenti del sogno e della follia l’uomo riscopre la preistoria sua e dell’umanità: l’animalità con le sue smorfie selvagge; la sua memoria riesce a risalire abbastanza indietro nel passato, mentre la sua condizione di civilizzato si evolve a partire dall’oblio di tali esperienze primordiali […]”18.

I cambiamenti che si verificano, dunque, nell’uomo, come per Leopardi, grazie a un’abitudine costante e prolungata, e alla loro entrata a pieno titolo nel programma educativo messo in atto dalla società, ne mutano radicalmente la fisionomia. L’individuo dismetterà gli abiti ormai logori della sua prima natura, per indossare quelli di una “seconda natura”, infatti: “Così come veniamo educati oggi, ci vien data innanzitutto una seconda natura […]. Solo pochi sono abbastanza serpenti da sbarazzarsi un giorno di questa pelle: quando sotto il loro involucro sarà maturata la loro prima natura. Nei più il germoglio di tale natura avvizzisce” (ivi, 455).

Dopo aver raggiunto, seguendo la meditazione di Leopardi e Nietzsche, la piena consapevolezza dell’uomo come essere dinamico e mutante, non resta che considerare quale direzione prenderà il suo rapporto con la natura. Il risultato della riflessione di entrambi i nostri filosofi verte su un progressivo allontanamento dell’essere umano dalla natura, che sarà apportatore di conseguenze negative, benché di diversa origine. Per capire appieno il pensiero che Leopardi enuclea a questo proposito, è necessario introdurre quella basilare distinzione tra la civiltà antica e quella moderna, che rivestirà un ruolo principale nella sua spiegazione. Ecco le sue parole: “La civiltà moderna non deve esser considerata come una semplice continuazione dell’antica, come un progresso della medesima. […] debbono essere considerate come due civiltà diverse, ambedue realmente complete in se stesse”. (Zib., 4171, 21 marzo 1826)

Questa constatazione, in Leopardi, è frutto della netta differenza che intercorre tra l’uomo antico e quello attuale. Per Leopardi, infatti, soltanto l’uomo primitivo, vivendo a stretto contatto con la natura, poté assaporare quell’unica felicità che essa aveva destinato al genere umano. Tutto ciò si 18

F. Nietzsche, Aurora, Adelphi 1964, p. 312.

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verificava perché lo sviluppo dell’uomo poggiava sull’equilibrio stabile tra la dimensione interna e quella esterna. La cura costante del corpo e il vigore ottenuto garantiva così il mantenimento in vita delle illusioni e dell’immaginazione, ritenuta vera ed unica “facoltà conoscitrice”19, mentre la ragione si limitava all’esecuzione di mansioni legate alla sussistenza. L’antico credeva incondizionatamente nelle illusioni ed era quindi fermamente convinto di poter ottenere la tanto sospirata felicità. L’uomo moderno è invece, sostiene Leopardi, protagonista di una scena radicalmente mutata. Egli, infatti, allontanandosi dalla natura, ha rotto quell’equilibrio che permetteva all’individuo uno sviluppo unitario, ottenendo come risultato un profondo deterioramento del corpo e un’incontrastata egemonia della ragione. Ragione che l’uomo ha perfezionato a tal punto da eliminare ogni traccia di quella precedente ignoranza che gli assicurava protezione, e da disvelare la cruda verità. L’essere umano è ora lucidamente consapevole dell’impossibilità permanente di raggiungere la felicità. Anche Nietzsche sottolinea con veemenza l’aspetto negativo riguardante la progressiva separazione dell’uomo dalla sua natura. Sbotta, quindi, infastidito: “Mi risultano sgradevoli quegli uomini presso i quali ogni tendenza naturale si trasforma subito in malattia, in qualcosa di deturpante o perfino di ignominioso – costoro ci hanno indotti a credere che tendenze e istinti degli uomini siano malvagi; essi sono la causa della nostra grande ingiustizia contro la nostra natura, contro ogni natura!”20.

Nietzsche asserisce, infatti, che agli albori dell’esistenza l’uomo, senza consapevolezza della propria autonomia, viveva completamente immerso nella natura. Ad un certo punto, però, uno degli istinti presenti nell’essere umano, ovvero quello della conservazione della specie, dimenticò di essere mero impulso e assenza di fondamento e volle diventare “ragione”, prendendo il sopravvento sugli altri. Da quel preciso istante, l’uomo cercò a tutti i costi di trovare un fine, uno scopo da conseguire che fosse in grado di giustificare la vita stessa, e credette di ottenerlo introducendo la visione morale delle azioni. Così Nietzsche spiega:

19 20

G. Leopardi, Zibaldone, 168, 12-23 luglio 1820. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 212.

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“Senza gli errori […] della morale l’uomo sarebbe rimasto animale. Così però egli ha concepito se stesso come qualcosa di superiore e si è imposto leggi troppo severe”21.

A differenza della tesi sostenuta da Leopardi però, secondo Nietzsche, il dominio assoluto esercitato dalla ragione sugli istinti rimanenti, non conduce al palesamento della verità, bensì all’introduzione di una serie di errori che ne ostacolano l’effettiva manifestazione. L’errore fondamentale sul quale poggia l’intero edificio della morale, costruito dalla ragione, è quello di poter valutare un’azione dell’uomo positivamente o negativamente in base a regole e gerarchie di classificazione da lei stessa codificate. Affinché questa operazione sia possibile, l’individuo dovrebbe possedere quel libero arbitrio che lo renderebbe pienamente responsabile delle proprie scelte di comportamento. Ma, come già sappiamo, Nietzsche sostiene con fermezza l’agire necessario e privo di libertà dell’essere umano, quindi la totale innocenza spartita con la natura di cui è parte. Anzi, in questo modo esorta l’uomo: “[…] come egli si atteggia di fronte alla pianta, così deve anche atteggiarsi di fronte alle azioni degli uomini e alle sue stesse. Egli può ammirarne forza, bellezza, pienezza, ma non può trovarvi meriti […]”22.

Per Nietzsche l’individuo è a tal punto considerato conseguenza necessaria delle circostanze di cui è protagonista che, se esistesse un intelletto onnisciente, esso sarebbe in grado di calcolare in modo matematico il suo stesso avvenire. L’uomo moderno, però, si fa guidare esclusivamente dalla ragione, ossia dalla coscienza, ritenendo essa il nocciolo dell’essere umano, ciò che di esso è durevole e assolutamente originario. Ma, contesta Nietzsche, non si rende conto che “la coscienza è l’ultimo e più tardo sviluppo dell’organico e di conseguenza anche il più incompiuto e il più depotenziato?”23. La situazione prodotta dal successivo discostarsi dell’uomo dalla natura porta alla segnalazione di un ulteriore aspetto negativo ad essa connesso, ovvero un devastante danneggiamento del corpo, denunciato caparbiamente sia da Leopardi che da Nietzsche. Leopardi, infatti, esordisce con queste parole:

21

Id., Umano, troppo umano, I, cit., p. 51. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, cit., p. 83. 23 Id., La gaia scienza, cit, p. 63. 22

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“Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non forza d’illusioni ec. Nel corpo servo anche l’anima è serva”. (Zib., 255, 30 settembre 1820)

Quando poi Leopardi, in molteplici luoghi dello Zibaldone, si trova a descrivere la società moderna, nell’assoluta maggioranza dei casi la sua esposizione indugia proprio sugli esiti nefasti prodotti da un corpo debole e malridotto. L’uomo attuale, si lamenta, è talmente privo di energia e vigore, da essere costretto ad evitare accuratamente il contatto con l’aria e il sole, gli odori forti o i colori decisi. I bimbi nascono, inoltre, con un tasso elevato di imperfezioni e difetti fisici, e le mamme rinunciano ad allattarli, forzate da un corpo che non ne sosterrebbe la fatica. Questo progressivo indebolimento del fisico messo in luce da Leopardi nel prosieguo della sua riflessione porta con sé diverse problematiche fra loro intimamente concatenate. Se l’uomo, infatti, avesse continuato a garantire robustezza e gagliardia al proprio corpo, avrebbe avuto un’arma efficace per contrastare il predominio della ragione. Un corpo così malaticcio ed esile, invece, non può far altro che nuocere alla facoltà immaginativa, favorendo ancor di più la riflessione, quindi la conseguente scoperta della verità e dell’infelicità. Un corpo sano, inoltre, avrebbe perlomeno consentito all’individuo, ormai perfettamente conscio dell’aspra verità, il sollievo della distrazione offerta da una vita quanto più possibile occupata esteriormente. Leopardi, in differenti occasioni, sprona, infatti, alla ricerca di una vita attiva. La sua stessa esperienza di pensatore lo indirizza a questa conclusione: “[…] certo un uom d’affari (senz’ombra di filosofia) ha l’animo più tranquillo nella continua folla e nell’affanno delle cure e delle faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di quello che l’abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e nell’ozio estrinseco”. (Zib., 4260, 24 marzo 1827)

Intorno al tema della “vita viva”, gravita anche il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, operetta del 1824. In essa l’esaltazione dell’azione e del rischio costituisce un ottimo antidoto contro la noia. Noia che, per Leopardi, “non è altro che una mancanza del piacere che è l’elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo”24.

24

G. Leopardi, Zibaldone, 174, 12-23 luglio 1820.

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Leopardi loda, poi, con assiduità anche quelle sostanze, come il vino o l’oppio, le quali ci permettono, sebbene per breve tempo, di dimenticare il vero. Un ultimo cenno è da riservare alla positività del sonno. Il sonno è “un sommo rimedio contro la monotonia dell’esistenza”25, una breve anticipazione del sonno eterno della morte, unica capace di eliminare con l’esistenza la connaturata infelicità dell’essere umano. Ritroviamo questa tematica nel Cantico del gallo silvestre, in cui la fatale infelicità dell’uomo si vede prospettare come medicina proprio il sonno. Leopardi, a un certo punto della meditazione, presenta nello Zibaldone l’essenziale distinzione tra l’“esistenza”, congenita alla materialità e all’esteriorità, e la “vita”, intesa come sentimento dell’esistenza stessa e quindi legata alla spiritualità. A tal proposito afferma, infatti: “[…] tra’ viventi le specie meno organizzate, avendo un’esistenza più materiale, e meno di vita propriamente detta, sono meno infelici”. (Zib., 3924, 27 novembre 1823)

Quest’ultima considerazione spinge Leopardi a criticare nuovamente l’odierna società civile che ha reso l’uomo quasi unicamente “spirito”, accrescendone così a dismisura l’infelicità. Leopardi ribadisce con vigoria ancora una volta la necessità di restituire nerbo ed energia al corpo emaciato dell’uomo anche per un altro fondamentale motivo. È proprio la materia, ossia il corpo, che pensa e sente. Seguendo il filo conduttore del suo pensiero, infatti, l’essere umano non può né conoscere, né immaginare altro che materia. Tutti i fenomeni, quindi, che l’individuo percepisce, come l’elasticità, l’elettricità, la propagazione del suono e anche il pensiero stesso, debbono essere attribuiti esclusivamente alla materia. È sciocco, erompe Leopardi, assegnare soltanto al pensiero un legame con lo spirito, che è solo una parola cui non corrisponde nessuna idea, oppure al limite un’idea negativa o privativa26. Anzi, che la materia pensi è un fatto. Questa la sua precisa spiegazione:

25 26

G. Leopardi, Zibaldone, 193, 31 luglio 1820. Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 4253, 9 marzo 1827.

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“Un fatto perché noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alla varietà e alle variazioni del nostro corpo”. (Zib., 4288, 18 settembre 1827)

Anche Nietzsche dà inizio al suo discorso, avente per oggetto l’esorbitante danneggiamento del corpo prodotto dall’azione logoratrice della ragione, con un’efficace frase: “In passato l’anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era la cosa più alta: – essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. […] Ma quest’anima era anch’essa macilenta, orrida e affamata […]”27.

Per Nietzsche, come già per Leopardi, l’anima è una pura invenzione della ragione, una parola priva dell’oggetto che le corrisponde realmente esistente, tuttavia provveduta della capacità di mandare completamente in rovina il corpo. Nietzsche sostiene, infatti, che l’egemonia conquistata dalla ragione, basando il suo enorme potere su finzioni abilmente introdotte, ha per scopo lo sterminio di tutti quegli istinti ritenuti superflui, non necessari e il conseguente disfacimento del corpo. Un corpo devastato, però, non permette all’essere umano neanche il pensiero. Convenendo con il giudizio precedentemente espresso da Leopardi, Nietzsche afferma: “I pensieri sono l’ombra delle nostre sensazioni – sempre più cupi, più vuoti, più semplici di esse”28.

È il corpo, dunque, che pensa, dal momento che il pensiero viene inteso come un continuo rapportarsi d’istinti e sensazioni che hanno sede proprio nel corpo stesso. Tutto l’organismo riveste quindi un ruolo di spicco nel pensare, mentre il cervello è soltanto l’apparato di centralizzazione di questo complesso processo. L’uomo moderno, ossia il “decadente”, nella terminologia di Nietzsche, è la personalità i cui istinti sono debilitati a tal punto da costringerlo ad appoggiarsi alla ragione. Aggiunge, infatti, a questo proposito: “Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale – vedono cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice” (ivi, p. 190). 27 28

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 6. Id., La gaia scienza, cit., p. 183.

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Nietzsche, quindi, incita con impeto l’uomo ad arrestare la spregiudicata azione della ragione che mira a deturpare il corpo. Se l’individuo, infatti, non si risolverà al più presto in questa direzione, non potrà mai guardare negli occhi la verità. Solo ripristinando la vigoria del corpo e prestando estrema attenzione alla testimonianza fornita dai sensi, ogni evidenza della verità avrà modo di rivelarsi. Prima di passare alla considerazione del reale rapporto vissuto da Leopardi e Nietzsche con il proprio corpo, un’ultima osservazione è d’obbligo ed è riferibile alla pungente necessità, manifestata da ambedue i pensatori, di rimuovere gli errori causati dalla ragione. Leopardi, infatti, non sopporta tutti quegli inganni prodotti dalla ragione che l’uomo moderno crede indispensabili per dar vita a una sorta di felicità edenica in terra. Che pazzia, sbotta, ritenere che l’uomo non abbia ancora raggiunto la perfezione! Come tutte le opere della natura, quindi, anche l’uomo nasce già perfetto e modificarlo corrisponderebbe necessariamente a corromperlo. L’essere umano avrebbe poi, a parere di Leopardi, la pretesa di perfezionare ulteriormente non il proprio corpo, bensì lo spirito. Ma come può accadere che “la natura tanto perfetta maestra, tanto accurata e puntuale e finita […] in tutto il resto […], è stata così stupida e manchevole e difettosa nella parte più rilevante di te […]”29, si chiede sgomento Leopardi. Gli studiosi attuali esibiscono come prova di questa loro teoria, ovvero della convinzione di ottenere felicità mediante la ragione, il fatto che tutte le recenti scoperte, come quella del fuoco, del vetro o della polvere da sparo, siano il risultato di un progresso nello sviluppo della ragione stessa. Leopardi dissente, stizzito, da questa posizione, asserendo in primo luogo che queste comodità risulterebbero superflue se l’uomo avesse proseguito a vivere in modo naturale, e in secondo luogo che esse sono esclusivamente frutto del caso30. È assurdo, dunque, anche solo ipotizzare di connettere la totale e completa realizzazione dell’uomo a un fatto aleatorio e incerto. La perfezione, infatti, deve riguardare, senza eccezioni, l’intero genere umano. Con squisita ironia, Leopardi, nell’operetta del 1824, la Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, critica ogni ottimistica fiducia nel progresso e nella scienza, stimati capaci di dare la felicità.

29 30

G. Leopardi, Zibaldone, 372, 2 dicembre 1820. Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 1738, 19 settembre 1821.

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Rafforza, anche nella Palinodia, questa sua tenace convinzione, rivolgendosi a Gino Capponi, storico e pedagogista liberal-moderato, appartenente al gruppo degli “amici di Toscana”. Per Leopardi, infatti, esiste una stretta relazione tra un notevole aumento di infelicità nell’uomo e la comparsa di molteplici agi dovuti agli ultimi ritrovati della scienza. Così facendo la scienza, dunque, sradica quell’apprensione che occupava l’individuo in relazione al soddisfacimento dei suoi bisogni, lasciandolo in balia della riflessione e della verità. Leopardi conclude affermando che solo nel caso in cui la perfezione corrispondesse a un grado maggiore di infelicità, l’uomo moderno sarebbe, a ragione, il più perfetto. Anche Nietzsche lotta infaticabilmente per estirpare quegli errori posti in essere dalla ragione. L’uomo, infatti, offuscato da questi sbagli, ha introjettato nel suo io peculiari qualità che in realtà non possiede, e tende a interpretare erroneamente il mondo circostante sulla base delle medesime caratteristiche. Sarebbe dunque opportuno, esorta Nietzsche, evitare di perseverare in quella serie di errori che non ci permette di ottenere una visione consapevole del mondo e quindi di noi stessi. Guardiamoci, ad esempio, dal pensare che il mondo sia un essere vivente. Come possiamo, infatti, considerare l’universo un organismo, ossia attribuire a ciò che è sostanziale le caratteristiche di quello che è derivato, tardivo e percepito unicamente sulla superficie terrestre? Il mondo, afferma ancora Nietzsche, non è neppure una macchina, in quanto non è progettato per conseguire un fine, uno scopo preciso. Rifuggiamo anche dal supporre che qualunque cosa esista universalmente, sia perciò formalmente in sé compiuta. Nell’universo, infatti, osserviamo stelle dalle orbite cicliche e regolari, ma non dimentichiamoci dell’esistenza di orbite imperfette e contrastanti come quelle proprie della via lattea. Il mondo è, dunque, a parere di Nietzsche: “[…] caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane”31.

La natura è, come ormai più volte abbiamo avuto modo di sottolineare durante la meditazione di Nietzsche, pura necessità e innocenza. L’uomo, quindi, quanto prima, deve apprendere ad assumere su di sé le stesse proprietà che ricoprono la natura, essendone parte integrante.

31

F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 149.

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Per concludere la trattazione non ci resta che soffermarci a esaminare il rapporto intercorso tra i nostri filosofi e il corpo. La relazione che Leopardi visse con il proprio corpo fu estremamente conflittuale. Da una parte, infatti, egli percepì quella deformità fisica, sopraggiunta nell’adolescenza, come l’indicatore di una determinata scelta. Ecco le sue parole in proposito: “Oggidì è cosa molto ordinaria che un uomo veramente singolare e grande si distingua […] per un corpo esilissimo e sparutissimo e anche difettoso. […] Tant’è: la grandezza appartenente all’ingegno non si può ottenere oggidì senza una continua azione logoratrice dell’anima sopra il corpo, della lama sopra il fodero”. (Zib., 207, 11 agosto 1820)

Benché il padre Monaldo, fin dall’infanzia, per salvaguardare la salute dei figli, si fosse trasformato in un vero e proprio innovatore, injettando loro il vaccino contro il vaiolo e dotando il giardino del palazzo di attrezzi ginnici, tuttavia Giacomo, a causa dello studio eccessivo praticato nella fase della crescita, ebbe per compagno un corpo curvo ed esile. Proprio questa sua conformazione eccitava la ragazzaglia recanatese che, spesso al suo passaggio, intonava offensive filastrocche, prendendolo in giro. La rabbia dell’umiliazione subìta ribolliva in lui, erompendo talvolta nella rissosità dei giochi e delle gare con i fratelli. Anche in un pensiero dello Zibaldone Leopardi esterna questa sua sofferenza, asserendo che chi ha un difetto fisico si vede mutare il proprio nome, per volere degli altri, in quello dello stesso difetto. Le persone che lo circondano provano così un senso di superiorità e trionfo nei suoi confronti32. Dall’altra, invece, Leopardi non riuscì mai a divellere da sé quella sensazione di un’assoluta mancanza di corrispondenza tra la delicatezza e la sensibilità del suo animo e un corpo brutto e deforme. È come se una persona provasse dentro di sé un’emozione, paura, ira o gioia, e la sua mimica facciale non sapesse ritrarla all’esterno. Leopardi descrisse questa sua inquietudine sottile ma costante, nel linguaggio della poesia, nell’Ultimo canto di Saffo: “Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta infinita beltà parte nessuna alla misera Saffo i numi e l’empia sorte non fenno”. (vv. 19-23)

32

Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 2441-42, 13 maggio 1822.

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Come la poetessa greca Saffo, anche Leopardi è straziato da un amore sincero per la bellezza della natura e dalla lucida consapevolezza di non essere da lei minimamente corrisposto. In una lettera all’intimo amico Giordani, dolorose appaiono le sue parole: “[…] io non trovo cosa desiderabile in questa vita, se non i diletti del cuore, e la contemplazione della bellezza, la quale m’è negata affatto in questa misera condizione. […] Il che mi fa spasimare e disperare”33.

A Nietzsche, invece, il corpo fu indispensabile per dar vita ai propri pensieri. Ecco la sua testimonianza: “Noi non siamo di quelli che riescono a pensare solo in mezzo a libri, sotto la scossa dei libri – è nostra consuetudine pensare all’aria aperta, camminando, saltando, salendo, danzando, preferibilmente su monti solitari o sulla riva del mare, laddove sono le vie stesse a farsi meditabonde”34.

La madre di Nietzsche, Franziska, ereditò dai genitori una forte avversione per tutta la medicina accademica e un amore radicato per le levate mattiniere e gli esercizi fisici. Decise, quindi, per garantire un’ottima salute ai propri figli, di curarne molto l’alimentazione e di stimolarli fin da piccoli a praticare sport. Il piccolo “Fritz” si esercitò nel pattinaggio e nella slitta, ma l’attività che, per tutta la vita, lo riempì di entusiasmo, fu il nuoto. Molte pagine del suo diario autobiografico sono dedicate infatti alla descrizione minuziosa delle competizioni natatorie del periodo di Pforta. Anche negli anni ottanta, quando Nietzsche sarà un malato cronico che deambula da un luogo all’altro in cerca di salute e di un clima ideale, non rinuncerà mai ai bagni di mare sulla costa ligure o francese in pieno inverno e a quelli nelle glaciali piscine degli alberghi. Il fisico di Nietzsche era robusto, i suoi occhi però erano fragilissimi. Cominciò, infatti, a portare gli occhiali appena iniziò a frequentare, a sei anni, la scuola, e i valori della sua miopia salirono rapidamente a 13 e 20 diottrie. Nel 1877, poco più che trentenne, anche la retina risultò gravemente danneggiata. Per Nietzsche, dunque, il pensare consisteva nel mettere in relazione le molteplici sensazioni provenienti dal corpo. Affinché i pensieri venissero alla luce, quindi, era solito fare lunghe passeggiate immerso nella natura, armato di bastone e del suo inseparabile parasole. Ciò che, durante queste interminabili spedizioni in se stesso, lo colpiva, non erano particolari del paesaggio che la debolezza dei suoi occhi non avrebbe potuto cogliere, ma 33 34

G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1181. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 296.

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l’esultanza di profumi, odori e suoni che la natura sapeva regalare. L’uniformità della distesa marina, del cielo o di un bosco, rappresentano per lui un enorme foglio intonso in attesa di essere vergato dalle sue riflessioni. Nell’attimo esatto in cui ne compariva una, Nietzsche la fissava in sé, parlando ad alta voce, per rielaborarla con calma una volta giunto nuovamente a casa. Secondo Nietzsche, se il corpo pensa, esso deve necessariamente essere mantenuto in salute per poterlo fare correttamente, e alimentato in modo adeguato. In Ecce homo, infatti, compie un’attenta disamina di alcuni cibi, ponendone in evidenza quelli da evitare perché mettono gli intestini in disordine oppure “appesantiscono i piedi allo spirito”, e termina con questa avvertenza: “Star seduti il meno possibile; non fidarsi dei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per i muscoli”.

2.3 L’uomo vive in societa’ Riflettere sull’uomo esige necessariamente una doverosa analisi anche dei rapporti di interazione che, nello spazio della società, si producono con i suoi simili. Rapporti che, a loro volta, subiranno rilevanti trasformazioni dovute al graduale distacco dell’essere umano dalla sua natura. Prima però di inoltrarci nei meandri della meditazione di Leopardi e Nietzsche su questo argomento, è indispensabile una precisazione. Entrambi i nostri pensatori, infatti, non saranno mai colti da un effettivo interesse per la politica che in loro diverrà unicamente tema filosofico avente per oggetto l’aggregazione degli uomini in società, nell’ambito di una riflessione antropologica di carattere generale. Benché la politica ripugnasse con le persuasioni intellettuali di Leopardi dunque, egli, durante il periodo di permanenza a Firenze, si avvicinò a una delle élites più avanzate del pensiero liberale, quelli che confidenzialmente definì gli “amici di Toscana”. Gioì per l’affetto sincero che questo gruppo di intellettuali, capeggiati da Vieusseux e legati alle vicende dell’“Antologia”, gli dimostrarono, ma non riuscì mai a condividerne la lotta. Ciò che Leopardi, infatti, non accettava era la necessità di sottomettere la letteratura all’utile, attribuendole una funzione sociale che doveva avere come risultato immediato un’azione efficace sulla realtà, mentre tutta la sua esperienza era improntata sulla gratuità dell’arte letteraria. Un altro punto nevralgico di scontro era caratterizzato dall’assurda convinzione, sostenuta con risolutezza da questi pensatori, di essere in grado di rendere felice una comunità, sfruttando i contributi resi dagli studi di politica e statistica. Leopardi si chiede, con scherno come possa attuarsi un simile 121


proponimento dal momento che l’uomo ineluttabilmente è, per decreto della natura, infelice. Leopardi, poi, chiarisce senza sottintesi, in alcune lettere, questo suo pensiero. Riportiamo qui le convincenti parole indirizzate a Fanny Targioni Tozzetti, il 5 dicembre 1831: “Sapete ch’io abbòmino la politica, perché credo, anzi vedo che gl’individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatto gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici”35.

Tematica questa che Leopardi rimarcherà, con pungente ironia, in un componimento scritto a Napoli tra la fine del 1834 e l’inizio del 1835, intitolato Palinodia al marchese Gino Capponi. In questa finta ritrattazione delle sue teorie, da cui deriva la scelta della parola greca presente nel titolo, Leopardi, divertito, prende in giro questo storico e pedagogista liberale, fondatore col Vieusseux dell’“Antologia” e dell’ “Archivio storico italiano”, le sue strenue opinioni e la sua genuina fiducia nel progresso. Anche nei Paralipomeni, Leopardi mette in caricatura sia il mondo tirannico della Restaurazione, sia i movimenti liberal-moderati. Questo poemetto satirico e zooepico, che l’autore presenta come continuazione del poema pseudoomerico Batracomiomachia, fu iniziato nel 1831. Interrotto negli anni successivi, Leopardi lo riprese e continuò a Napoli fino agli ultimi giorni della sua vita, senza riuscire a completarlo. La trama narrativa si congiunge all’episodio conclusivo della Batracomiomachia, ovvero la sconfitta dei topi in seguito all’intervento dei granchi, alleati delle rane. Sotto le vesti animalesche si nascondono i contendenti dei moti risorgimentali dal ‘21 al ‘31, con particolare riferimento alle vicende napoletane: i topi sono i liberali, le rane i conservatori e i granchi gli austriaci. Anche Nietzsche non capì mai realmente la politica, benché fosse vissuto in un periodo agitato da moti rivoluzionari, come quelli del ‘31 e del ‘48, cui parteciparono alcuni dei suoi amici più stretti, quali Richard Wagner e Malwida von Meysenbug, e dall’esperienza della Comune di Parigi nel 1871. Periodo contraddistinto, inoltre, dalla comparsa del socialismo, grande novità politica del secolo. Marx, in quegli anni, era già abbastanza noto, aveva scritto insieme a Engels il Manifesto del Partito comunista e partecipato, per breve tempo, al congresso della Prima Internazionale insieme a Bakunin.

35

G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1406.

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Nietzsche, tuttavia, ignorò la lotta di classe e non ebbe la neppur minima idea della genesi o dei rapporti di forza economici o sociali sottesi ai movimenti politici. Quando, infatti, nella sua opera fa dei cenni al socialismo, lo interpreta sempre in chiave filosofica, specialmente come variante del cristianesimo, ma, in nessun caso, politica o sociologica. Con tutta probabilità Nietzsche non lesse mai alcuno scritto di Marx e non ebbe coscienza neppure della sua esistenza. Così, quando nel 1870, sul lago dei Quattro Cantoni, incontrò Mazzini, vecchio rivoluzionario in esilio, non sentì l’esigenza di approfondire con lui tematiche politiche riguardanti l’Europa o le vicende italiane. O ancora, appaiono significative anche le discussioni che Nietzsche, quando si trovava a Lipsia per la formazione universitaria, ebbe con Gottfried Kinkel, figlio del poeta rivoluzionario che aveva preso parte ai moti del ‘48. Ricorda così quelle chiacchierate al caffé: “Lui, che aveva sempre davanti agli occhi i principi politici di suo padre, lui che a volte teneva conferenze ad associazioni operaie, voleva a ogni costo che nello sfondo ci fossero sempre fini politici, mentre io propugnavo secondo la mia natura la disinteressata dignità della scienza”36.

Dopo aver brevemente esaminato l’esperienza vissuta da Leopardi e Nietzsche con la politica attiva, è giunto il tempo di avviare l’analisi della loro variegata riflessione sociale – che, come vedremo, si propagherà in diverse direzioni –, partendo da un nucleo centrale costituito dal concetto di “lotta”. Per Leopardi, dunque, la trattazione si può far opportunamente cominciare da queste parole: “Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perché avendo più vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio verso gli altri individui […]”. (Zib., 3773, 25-30 ottobre 1823)

L’“amor proprio” è, infatti, quell’istinto inestirpabile e onnipresente nell’essere umano, da cui deriva quell’odio naturale che si riversa sugli altri come immediata conseguenza. Questo impulso porta, inoltre, con sé una sete inesauribile di libertà e di uguaglianza e la tendenza, radicata in ogni individuo, a far coincidere la propria felicità con l’affermazione incondizionata e quindi prevaricante del proprio io su quello degli altri.

36

F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 166.

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Partendo da tali premesse è evidente l’irrealizzabilità di una “società perfetta”. Anzi, sostiene Leopardi che: “[…] non c’è governo possibile che non sia imperfettissimo, che non racchiuda essenzialmente i germi del male e della infelicità”. (Zib., 543, 22-29 gennaio 1821)

L’imperfezione che Leopardi associa a qual si sia forma di governo, infatti, scaturisce dall’urto continuo tra il bisogno di libertà e uguaglianza insito nell’uomo e i vincoli e le gerarchie imposte dalla società in relazione all’esigenza di contenere gli effetti disgreganti dell’amore di sé. Pur tuttavia, benché per Leopardi ogni società reale sia connotata da un’ineliminabile imperfezione, questo non significa assolutamente che società diverse abbiano il medesimo valore. Al contrario, risulteranno meno meritevoli di disapprovazione proprio quelle società che si mostreranno capaci di attenuare tale contrasto, garantendo ai loro membri un massimo di soddisfacimento di entrambe le richieste. L’ideale sarebbe che quel contrasto non fosse nemmeno avvertito, che i consociati cioè, sperimentassero nella leadership del più eminente tra loro un’incarnazione così perfetta della volontà comune, tale da non soffrire alcun senso di disparità e di sopraffazione. A tal proposito, Leopardi presenta nello Zibaldone un’accurata disamina riguardante le forme di governo che, secondo la sua meditazione, rappresentano con maggiore efficacia quella perfezione solo “relativa” cui la società può aspirare. La più perfetta tra esse risulta, a giudizio di Leopardi, proprio quella di un “governo monarchico assoluto e dispotico”37, all’interno del quale gli individui sono disposti a sacrificare parte della loro libertà e uguaglianza al fine di perseguire “interessi comuni”, accettando di concentrare il potere nelle mani di un’unica persona abilitata a decidere per l’intera comunità. Un posto di rilievo è occupato anche dallo “stato democratico”38, caratterizzato dalla divisione del potere e da privilegi connessi esclusivamente a meriti particolari o atti di eroismo, che non suscitano invidia, bensì incitano all’emulazione. Tali società appaiono però, secondo Leopardi, ormai relegate in un passato visto come irripetibile. La natura, infatti, tenendo conto delle peculiarità proprie dell’essere umano, gli aveva destinato una società che fosse quanto più possibile “larga”39, in modo tale che potesse godere in essa di quella piena libertà e completa uguaglianza tanto anelate. 37

G. Leopardi, Zibaldone, 545, 29-30 gennaio 1821. Ibid., 565, 29-30 gennaio 1821. 39 Ibid., 3773, 25-30 ottobre 1823. 38

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L’uomo però, come ben sappiamo, si è progressivamente allontanato dalla natura, ponendo in essere “società strette”40, sulla base dell’operato della ragione. La conseguenza nefasta che subitaneamente si palesa da questo cambiamento è che, quell’odio naturale, congenito all’amor proprio, che in precedenza non trovava occasione e circostanza per divenire realmente operativo, ora ha la possibilità di realizzare le molteplici nuances presenti in lui, dando vita a una lotta interminabile e senza esclusione di colpi. A malincuore Leopardi ricorda, inoltre, quella straordinaria abilità, posseduta dagli antichi ancora vicini alla natura, dell’essere in grado di sublimare quell’energia traboccante, contenuta nell’istinto, dell’amore di sé e dell’odio per gli altri, in qualcosa di positivo e fecondo per la società di appartenenza. Era come se il confine del singolo uomo coincidesse con quello della propria “patria”, e l’altro assumesse i connotati dello “straniero”, oggetto verso cui l’odio veniva indirizzato in modo esclusivo. Gli antichi, dunque, supportati dall’entusiasmo e dal fervore delle illusioni, combattevano con estremo coraggio, giungendo anche al sacrificio della vita, per proteggere la patria e quindi se stessi. La società odierna invece, asserisce sconsolato Leopardi, è divenuta teatro del conflitto di ogni uomo contro tutti gli altri indistintamente e ha assunto le fattezze di un bieco “egoismo”. Puntualizza, infatti, lo stesso Leopardi: “[…] per egoismo s’intende […] un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall’eroismo, dai sacrifizi, dall’onore […]”. (Zib., 671, 17 febbraio 1821)

Anche Nietzsche è intensamente d’accordo con Leopardi nel sostenere che la società ideale dovrebbe essere in grado di portare allo scoperto, rendendoli visibili, tutti quegli istinti intimamente radicati nella natura dell’uomo, anche quelli più potenti e terribili, per volgerli poi a proprio vantaggio, traendone produttività di azione e di opera. Se Nietzsche vede agire, come elemento costitutivo e componente essenziale alla base dell’essere umano, l’istinto della “volontà di potenza”, ciò significa che il fine da raggiungere è un accrescimento della forza del singolo a scapito degli altri individui, che diventano a loro volta suoi contendenti, in quanto mossi dal medesimo impulso e bramosi di ottenere lo stesso risultato. L’indiscusso protagonista dell’aspra lotta che ne consegue, l’uomo quindi, si arma di quegli istinti gregari quali lo sfruttamento, la crudeltà, il piacere dell’aggressione e della distruzione, per sbaragliare gli avversari. 40

Ibid., 3778, 25-30 ottobre 1823.

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Una società, pensa Nietzsche, che realmente abbia a cuore il benessere e la soddisfazione prodotta dal giusto equilibrio psico-fisico dei suoi membri, dovrebbe riuscire a convogliare l’energia straripante, collegata a questi processi, verso un approdo creativo e fecondo. Questo particolareggiato proposito, afferma Nietzsche, ottenne una concreta realizzazione proprio nelle società antiche, quando ancora l’essere umano non era stato immiserito dagli errori della morale e dallo strapotere della ragione. Anche Nietzsche, in armoniosa concordia con il pensiero di Leopardi, encomia gli antichi come gli unici capaci di rispettare pienamente la natura dell’uomo, sapendo però eliminare con avvedutezza, sublimandoli, quegli elementi distruttivi e nocivi in essa presenti. Commenta Nietzsche a proposito dei Greci: “Io vidi il loro istinto più forte, la volontà di potenza, li vidi tremare dinanzi alla sfrenata violenza di questo istinto – vidi tutte le loro istituzioni prendere sviluppo da misure protettive, che consentivano di cautelarsi reciprocamente dalla loro interiore materia esplosiva. L’enorme tensione interna si scaricava così in un’ostilità tremenda e brutale verso l’esterno […]”41.

La situazione della società attuale appare invece, agli occhi di Nietzsche, assolutamente inaccettabile. Tale società, infatti, è presieduta da una specifica gerarchia di istinti e azioni umane che la morale, ovvero la ragione, ha sancito in relazione a un calcolo di supposti bisogni, stimati necessari al fine di vivere in comunità. Questo calcolo tende, però, a svalutare e divellere alcuni istinti indispensabili dell’individuo, impedendo loro di sfogarsi verso l’esterno. Si genera così una circostanza colma di tensione, dal momento che questi istinti fondamentali non cessano, malgrado queste imposizioni, di manifestare le proprie esigenze e di ricercare appagamento. Essendo impossibilitati a scaricarsi su oggetti a loro esterni, si ritorcono direttamente contro l’uomo, possessore di essi. Questo processo viene deinito da Nietzsche “interiorizzazione” dell’uomo, in tal modo soltanto si svilupperà nell’essere umano quella che più tardi verrà chiamata la sua “anima”. La violenta separazione dal so passato animale e questa dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti determina nell’uomo l’insorgenza di una sinistra malattia, ossia di una lacerante sofferenza nei confronti di se stesso, che Nietzsche rappresenta con vivide parole nella Genealogia della morale:

41

F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 133.

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“L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resistenze, rinserrato in un’opprimente angustia […], faceva impazientemente a brani se stesso, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si svillaneggiava, quest’animale […] dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi di piaghe […]”42.

Il prosieguo della meditazione dei nostri due filosofi ne permette, ancora una volta, l’incontro nella totale aderenza di entrambi all’idea di una società fondata su un esasperato egoismo, dal quale soltanto saranno causate tutte le passioni e i molteplici sentimenti dell’essere umano che in essa vive. Quel supremo “egoismo”, che Leopardi utilizza, dunque, per contrassegnare la società moderna, è collegato in modo diretto e totalmente inestricabile all’istinto basilare dell’“amor proprio”. Essendo, quindi, una componente integrante e necessaria della natura dell’uomo, non deve perciò essere assunto come prerogativa esclusiva della situazione presente. Leopardi, infatti, per rendere ancor più intelligibile questo concetto descrive, in alcune pagine del suo Zibaldone, i differenti aspetti che l’egoismo ha assunto con lo scorrere del tempo. Il cosiddetto “egoismo umano”43 era, per Leopardi, quella forma iniziale di palesamento di tale sentimento che, tuttavia, ancora riusciva a mantenersi aliena dal riversarsi immediatamente sul genere umano. Agli albori della civiltà, infatti, gli uomini univano le proprie forze per affrontare e debellare le belve e gli elementi naturali che li minacciavano dall’esterno. Si passò, poi, all’“egoismo nazionale” (ivi), tipico delle società antiche, che già abbiamo avuto occasione di esplicitare ragionando su di esse, per concludere con l’“egoismo universale”44 che cagiona inderogabilmente quello “individuale” (ivi). La situazione suscitata dal predominio di quest’ultima fattezza di egoismo, crea una società basata unicamente su un’acerrima lotta di tutti contro tutti senza distinzione. È Leopardi in prima persona che, resosi limpidamente consapevole del cambiamento intervenuto, esorta ogni individuo a imbracciare le armi dell’egoismo e a battersi con audacia per guadagnarsi il proprio spazio all’interno della società. È un’utopia sconveniente, prosegue ancora con veemenza Leopardi, confidare nell’idea che saranno gli altri ad accordarci plauso e approvazione, anche quando giustamente meritati.

42

Id., Genealogia della morale, Adelphi 1968, p. 74. G. Leopardi, Zibaldone, 2680, 4 marzo 1823. 44 Ibid., 464, 2 gennaio 1821. 43

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L’essere umano è ormai soltanto “una colonna d’aria”45 che se, per qualsivoglia ragione, lascia libero il posto precedentemente occupato, lo perde in modo definitivo. La vita in comunità è dipinta da Leopardi con l’ausilio di una metafora chiarificatrice, che ne riassume i segni caratteristici e conoscitivi: “Come in una truppa di fiere affollate intorno a una preda, dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non quanto sarà costretta; quella fiera che o restasse inattiva o cedesse alle altre, o aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse tutte le sue forze; resterebbe a digiuno”. (Zib., 464, 2 gennaio 1821)

L’approdo naturale di una simile riflessione è, per Leopardi, la constatazione della certa e inevitabile origine nell’egoismo di qualunque operazione dell’animo umano. Secondo Leopardi, infatti, anche quelle passioni che, a un esame sbrigativo, si mostrano assolutamente contrarie e distanti dall’egoismo, in realtà dopo un’attenta disamina, paiono anch’esse come atti di egoismo abilmente camuffati. Dopo aver definito il timore come la “passione immediatamente figlia dell’amor proprio” e quindi “la più pura quintessenza e la perfezione dell’egoismo”46, dal momento che, quando l’uomo teme per la propria vita è disposto a sacrificare, nell’ordine, i propri averi, i congiunti e parti di sé, l’attenzione di Leopardi si volge a un’interessante analisi della compassione. In principio lo stesso Leopardi aveva ipotizzato di considerare la compassione47 come l’unica qualità dell’uomo priva della benché minima mescolanza con l’egoismo. L’emozione che si prova nel vedere la fragilità di un bimbo che muove i primi passi mal sicuri, o la gracilità di un essere consunto da malattia, gli sembrava lontana dal pensare a un personale tornaconto. Successivamente questa certezza si dileguò, lasciando spazio a un crudo pensiero. Forse condividiamo il dolore delle persone a noi prossime, perché in fondo abbiamo paura che un giorno, magari, quella stessa sofferenza possa abbattersi su di noi. Oppure ci sforziamo di portare aiuto e conforto ai bisognosi, per lusingare il nostro esclusivo e soverchio amor proprio, convincendoci di veicolare questo sentimento soltanto verso gli altri. Il risultato che, in ogni caso, si ottiene è il sacrificio del nostro egoismo per egoismo, ossia la possibilità di

45

Ibid., 930, 11 aprile 1821. G. Leopardi, Zibaldone, 2206, 1 dicembre 1821. 47 Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 108-09, 30 aprile 1820. 46

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provare compiacimento di fronte alla grandezza e nobiltà che il nostro animo acquisisce in seguito a tali azioni. Non esistono, dunque, per Leopardi, atti realmente altruistici. Ogni singola azione, infatti, anche quelle più elevate, prende vita dal sostrato egoistico, presenza stabile e durevole del modo di essere proprio dell’uomo. Questa è la sua sconfortante deduzione. Anche per Nietzsche l’“egoismo” è un ingrediente essenziale del fondamentale istinto della “volontà di potenza”. Questo impulso spontaneo, infatti, spinge l’uomo ad agire al solo scopo di esercitare la propria potenza sugli altri individui. L’egoismo che, quindi, ne deriva è la più diretta conseguenza di un simile accadere naturale. Proprio per questo motivo, l’egoismo non viene valutato da Nietzsche in modo negativo, anzi la sua riflessione si trasforma in un preciso atto d’accusa contro la ragione, che cerca a tutti i costi di annientare questa indispensabile passione dell’essere umano. La ragione, infatti, dopo aver indossato i panni della morale, assurge a unica legislatrice che, attribuendo con spocchia positività esclusiva a presunte azioni “altruistiche”, crede di eliminare con facilità la matrice egoistica dalla quale, però, tutti gli atti dell’uomo traggono indistintamente la loro origine. Ma, si lamenta Nietzsche: “Una morale “altruistica”, una morale nella quale l’egoismo intristisce – resta in ogni caso un brutto segno. […] Manca il meglio quando comincia a mancare l’egoismo”48.

La morale procede in questa direzione, fermamente convinta di salvaguardare e garantire così la vita in comunità. Nietzsche dal canto suo, persuaso assertore della concezione propugnata con vigore anche da Leopardi, ovvero quella relativa all’inesistenza di azioni “altruistiche”, invita a non arrestarsi alla superficie di questa problematica. È spontaneo, infatti, pensare a una totale estraneità di egoismo, nel vedere un soldato che cade sul campo di battaglia per la sua patria vittoriosa, o una mamma che sopporta privazioni di ogni genere per amore del proprio bimbo. A questo punto Nietzsche, quindi, ci prende per mano e ci accompagna nella profondità del suo pensiero con l’aiuto di questa affascinante considerazione: “Non è evidente che in tutti questi casi l’uomo ama qualcosa di sé […], che, egli, cioè scinde il suo essere e ne sacrifica una parte all’altra? […] Nella morale l’uomo tratta se stesso non come individuum, ma come dividuum”49. 48 49

F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 106. Id., Umano, troppo umano, I, cit., p. 61.

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Anzi, puntualizza ancora Nietzsche, ogniqualvolta entriamo in relazione con gli altri individui, sia nel caso in cui facciamo loro del bene, sia nel caso contrario in cui arrechiamo danni o provochiamo sofferenza, il risultato che comunque desideriamo ottenere è estendere su di essi la nostra influenza. Influenza che sarà assicurata con maggiore efficacia se useremo, come mezzo, proprio il dolore, che dirigerà l’attenzione della persona che lo prova a ricercarne la causa. Sempre all’interno di questa meditazione prende corpo l’analisi di Nietzsche riguardante il sentimento della “compassione”. Particolare passione che aveva già destato il vivo interesse di Leopardi. Nietzsche però, dopo aver condiviso con lui quell’atteggiamento di altezzosa superiorità che investe colui che la prova, amplia la trattazione, includendo anche il punto di vista di chi suscita compassione. Quel mettere in mostra, senza inibizioni e pudore, la propria infelicità persegue lo scopo di ferire i presenti, afferma Nietzsche, e persuade il debole di possedere ancora questa forza sugli altri50. Anche il sentimento dell’“amore”, asserisce nuovamente Nietzsche, benché venga esaltato e divinizzato come contrapposto all’egoismo, rappresenta invece “proprio l’espressione più spregiudicata dell’egoismo stesso”. Questa è la sua schietta spiegazione: “Cupidigia e amore: come sentiamo diversamente ognuna di queste parole! – e tuttavia potrebbe essere lo stesso istinto che riceve due volte un nome […]. Il nostro amore per il prossimo – non è un anelito verso una nuova proprietà?”51.

Per concludere questa dissertazione, imperniata sull’analisi delle caratteristiche che simboleggiano la relazione intrattenuta dall’uomo con i suoi simili nell’ambito della società, è utile soffermarci su un ultimo argomento che stimola la nostra curiosità, ovvero l’atteggiamento assunto da Leopardi e Nietzsche rispetto alla “guerra”. A differenza di Nietzsche, come vedremo tra breve, Leopardi visse in un periodo apparentemente tranquillo dal punto di vista sociale e politico, o perlomeno non direttamente funestato dall’esperienza della guerra. L’“età della Restaurazione”, periodo che convenzionalmente ha inizio con il Congresso di Vienna, tenutosi nel 1815, e termine nel 1830, con la monarchia di luglio, fu caratterizzato dal ritorno sui loro troni delle varie dinastie europee abbattute dalla rivoluzione francese e da Napoleone. Significò, dunque, la rivincita temporanea dell’assolutismo regio nei confronti delle aspirazioni liberali, garantita dalle armi della Santa Alleanza. 50 51

Cf. F. Nietzsche,Umano,troppo umano,I, cit., p. 56. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 68.

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Questo soluzione, però, non riuscì a impedire che l’Italia e l’intera Europa sprofondassero in un’affannosa crisi che non tarderà a esplodere in episodi di ribellione. I moti del ‘20 e ‘21 e quelli successivi del ‘31 esprimono con estrema chiarezza questo profondo disagio che attanaglia l’Europa, incerta se perseverare nell’illusione di un progresso costruito sulla ragione o imboccare nuove strade sui fallimenti dell’età precedente. La reintegrazione di troni e confini non può assolutamente cancellare un ventennio di cambiamenti e rivoluzioni. Leopardi non sentì, quindi, sulla propria pelle i patimenti e le gravi sofferenze che un conflitto inevitabilmente procura, tuttavia seppe scandagliarli con profonda delicatezza e lungimiranza. L’aspetto dell’analisi leopardiana che più ci colpisce per la sua straordinaria attualità, è quello relativo a una progressiva connessione tra “astrazione” e “violenza”, che Leopardi evidenzia in alcuni pensieri dello Zibaldone. Questo inesorabile processo di astrazione, che tende a cancellare la singolarità del vivente per risucchiarla completamente nella massa, è determinato dal progredire dell’incivilimento. L’incivilimento, infatti, da un lato migliora le condizioni di vita degli uomini, introducendo strumenti in grado di smussarne le naturali differenze, dall’altro però, così facendo, rende generica e uniforme l’umanità. La guerra sarà dunque, per Leopardi, sempre più violenta e aggressiva, tanto più le armi e le tecnologie militari si perfezioneranno, annullando lo scontro diretto con il nemico e astraendone l’immagine. Lottare contro un avversario smaterializzato e astratto, pensa infatti Leopardi, distoglie chi combatte dalla lucida consapevolezza di cagionare dolore e morte a un altro uomo, pervaso di sogni e speranze, a lui del tutto rassomigliante. Le annotazioni leopardiane sulla guerra, inoltre, danno vita a una più ampia indagine sul rapporto “natura-società”. La comparsa della guerra, infatti, decreta un’irrecuperabile distanza dal modello di vita che la natura aveva stabilito per l’essere umano. Leopardi, dunque, per permetterci di capire la sua posizione concettuale a questo proposito, prende come esempio la vita e l’operato degli animali. Negli animali, infatti, non si reperirà specie alcuna che costantemente e con regolarità perisca a causa di se stessa come, invece, avviene nel caso dell’uomo. Con queste dure parole, Leopardi esprime il suo giudizio: “Che una specie di cose distrugga e consumi l’altra, questo è l’ordine della natura, ma che una specie qualunque (e massime la principale, com’è l’umana) distrugga e consumi regolarmente se stessa, tanto può esser secondo natura, quanto che un individuo qualunque sia esso stesso regolarmente la causa e l’istrumento della propria distruzione”. (Zib., 3792, 25-30 ottobre 1823)

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Leopardi spinto, poi, dal desiderio di conoscere i costumi e le particolari usanze di civiltà lontane, si inoltrò nella lettura di alcuni libri che, in forma di diario, recavano la testimonianza diretta dei soldati che, viaggiando per scoprire e conquistare nuovi paesi, ne descrivevano le consuetudini. La sua viva sensibilità rimase attonita di fronte all’efferatezza e brutalità di alcuni racconti. Leopardi non riusciva, infatti, a capacitarsi di quell’inumana crudeltà cui l’uomo può arrivare, non mosso da un’ira momentanea, bensì da una lunga meditata vendetta. Nessun animale, si rese conto sbigottito, è capace di raggiungere livelli di ferocia tali. La sua emozione raggiunse il culmine quando venne a conoscenza della diffusa pratica dell’antropofagia, propria della quasi totalità dei popoli barbari e selvaggi americani, o dell’orribile usanza indiana che costringe le mogli a bruciarsi vive al fuoco delle pire dei defunti mariti52. La guerra e queste pratiche violente, quindi, sanciscono per Leopardi una volta di più, quell’irrimediabile distacco che separa l’uomo dalla sua natura. Il periodo storico vissuto da Nietzsche, invece, fu particolarmente irrequieto e calamitato dalle vicende legate alle mosse politiche e militari di Bismarck. Nietzsche fu spettatore, infatti, dapprima entusiasta e poi deluso detrattore della politica della forza di questo statista tedesco, soprannominato non a caso “Cancelliere di ferro”. Nel 1862, dopo essere stato deputato alla Costituente, egli divenne presidente del Consiglio della Prussia. Volendo prendere alcune decisioni, come quella relativa alla riforma dell’esercito, e trovandosi ostacolato dalla netta opposizione del Parlamento, invece di dimettersi come i suoi predecessori, risolse la questione accentrando su di sé il potere. Le sue scelte successive confluiranno nell’affrontare i problemi con la forza persuasiva delle armi. In quel periodo, inoltre, fu abile politico, riuscendo ad accattivarsi le simpatie della Russia e della Francia, e a ottenere l’alleanza con l’Austria nella guerra contro la Danimarca del 1864. Due anni più tardi però, com’era nei suoi piani, dichiarò guerra alla stessa Austria, a causa di contrasti sorti nell’amministrazione dei territori conquistati. L’Austria fu battuta a Sodowa nel 1866 e il susseguente trattato di pace la costrinse ad uscire dalla Confederazione germanica, si costituiva così la Confederazione Tedesca del Nord, controllata dallo Stato Prussiano, secondo i disegni del grande piano politico ideato da Bismarck. Nel 1870, a conclusione della guerra che portò alla caduta del II impero francese, venivano annesse alla Confederazione tedesca anche l’Alsazia e la

52

Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 3789-3801, 25-30 ottobre 1823.

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Lorena. Fu così proclamato l’Impero Federale Tedesco con a capo Guglielmo I e Bismarck come Cancelliere. L’unità tedesca prese vita sotto l’egemonia inappellabile della Prussia, annientando le correnti liberali che premevano per la formazione di uno Stato federato germanico. Nietzsche visse, quindi, due guerre. La prima fu quella austro-prussiana del 1866, di cui seguì gli avvenimenti da Lipsia durante il periodo universitario. La Prussia, all’inizio delle ostilità con l’Austria, invase la Sassonia, dichiarandole guerra, per utilizzarla come regione di transito. Nietzsche, provenendo dalla Sassonia, ma non dal regno, era a tutti gli effetti cittadino prussiano e, al tempo, convinto sostenitore di Bismarck. Benché Lipsia fosse una città sassone, la guerra tuttavia, non ne turbò il normale corso della vita. Il conflitto che scoppiò il 19 luglio 1870 colse Nietzsche impreparato, anche se, dopo la vittoria della Prussia e la conseguente rottura dell’equilibrio precedente, Nietzsche aveva già prospettato, come probabile controstrategia, la richiesta d’aiuto dell’Austria alla Francia. La Francia di Napoleone III reagì, infatti, entrando in guerra contro la Prussia di Bismarck. Il pretesto dello scontro fu una questione di successione sul trono spagnolo, ma gli interessi in gioco erano ben altri. La Francia voleva eliminare uno scomodo avversario politico e una potenza militare in ascesa, mentre la Prussia coglieva l’occasione per la formazione di uno stato nazionale tedesco. La vittoria di Bismarck portò, così, all’unità tedesca del 1871. La posizione assunta da Nietzsche nei confronti della guerra è duplice. Nel contesto della sua riflessione e in punti diversi della sua opera, Nietzsche attribuisce alla “guerra” un sommo valore positivo, ossia la capacità di squarciare e quindi far riemergere la forza di quegli istinti vitali rimossi dall’intervento della ragione. A tal proposito, infatti, spiega: “Per ora non conosciamo altri mezzi, mediante i quali si possa comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia […]”53.

Fu proprio in relazione a tale convincimento che la fiducia di Nietzsche nell’attività di Bismarck scemò completamente. Egli si accorse, infatti, che le energie rimesse in circolo dall’attività militare, invece di confluire nella cultura, unica meta auspicabile, venivano sperperate per la conquista del potere e per interessi politici. Nietzsche, inoltre, prese parte in prima persona alla guerra franco-prussiana scoppiata nel 1870.

53

F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, cit., p. 265.

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Il 7 aprile del 1870, un anno esatto dalla sua entrata in servizio come professore straordinario a Basilea, seguì la nomina a docente ordinario. Quando il conflitto ebbe inizio, quindi, egli risiedeva in Svizzera e aveva rinunciato alla sua cittadinanza prussiana. Un accesso di patriottismo lo spinse, però, a voler dare comunque il suo personale contributo. Diventò, quindi, per rispetto alla neutralità svizzera di Basilea, città nella quale insegnava, infermiere volontario. Ottenuto il congedo, venne mandato a Erlangen per acquisire i basilari rudimenti necessari per svolgere il lavoro di “diacono da campo”. In seguito, nel giro di pochi giorni, fu spedito all’ospedale militare e da lì inviato sul fronte Alsazia-Lorena. L’effettiva missione consistette nell’accompagnare un treno ospedale dal teatro del combattimento fino a Karlsruhe. La partecipazione di Nietzsche a questa guerra, dalla durata complessiva di tre settimane, fu assai breve. Curando, infatti, alcuni feriti contrasse la dissenteria e la difterite, quindi fu rispedito a casa per curarsi. Questa esperienza lasciò, a ogni modo, una traccia indelebile nell’animo delicato del nostro filosofo. È come se l’essere venuto direttamente a contatto con la nuda sofferenza, avesse soffocato in lui ogni entusiasmo. Fremette di paura al pensiero di aver perso amici cari in una lotta che, ai suoi occhi disincantati, appariva ormai scevra di significato. Per diradare l’oscura nebbia dalla quale si sentiva avviluppato e zittire quel martellante lamento che lo perseguitava, Nietzsche preferì “contemplar da lontano, soffrendo con quelli che soffrono …”54.

2.4 L’uomo, l’amore, la morte Per terminare questa indagine, che ha avuto per oggetto le diverse sfaccettature dell’uomo, rimangono ancora da considerare due aspetti che da sempre catturano con prepotenza il nostro interesse, ovvero l’amore e la morte. In questa particolare e garbata atmosfera di conversazione ideale, venutasi a creare con due pensatori di eccezionale levatura e di irresistibile fascino come Leopardi e Nietzsche, diventa praticamente impossibile imbrigliare la nostra impertinente curiosità, impedendole qui di sconfinare sul terreno dell’esperienza personale. Cercheremo così di realizzare un’analisi a tutto tondo che ci permetterà, forse, di assaporare quell’effimera sensazione di essere stati davvero seduti al tavolino di un bar a scambiarci idee, pensieri, confidenze.

54

F. Nietzsche, Epistolario (1865-1900), c/ di Barbra Allason, cit., p. 50.

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Discorrere dell’amore porterà Leopardi e Nietzsche a condividere quell’inesperienza, dovuta a una totale mancanza di fisicità, che emergerà come caratteristica basilare nelle loro relazioni. L’amore per Leopardi, infatti, si svolse unicamente nell’interiorità e le donne da lui amate, di norma, non lo sapevano neppure. Nella sua vita spiccano alcune figure femminili che ne calamitarono l’attenzione. Esse, però, hanno rappresentato soltanto la materia reale dalla quale Leopardi ha attinto per dare un corpo all’idea. L’eros viene quindi totalmente desomatizzato e sublimato, e la donna diventa così puro dato mentale. Nel dicembre del 1817 Giacomo si innamorò per la prima volta. Giunse ospite in casa Leopardi la cugina Gertrude Cassi, insieme al marito, conte Giovanni Lazzari, e alla figlia. Leopardi rimase letteralmente affascinato da questa giovane di ventisei anni, “alta e membruta”, dal viso “tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni”55, modi gentili e spontanei. Scambiò con lei qualche parola e le insegnò a giocare a scacchi. Ma il vero gioco d’amore proseguì e visse unicamente nell’immaginazione dei sogni. Amare si riduceva per lui a fantasticare su un’immagine femminile. La scintilla dell’innamoramento risiedeva dunque, per Leopardi, nella vista di una donna di bell’aspetto che lo attraeva. Era come se egli, di volta in volta, facesse indossare alla sua idea d’amore, abiti diversi. Questo identico copione ebbe modo di ripetersi più volte, solo la fisionomia della protagonista subiva cambiamenti. Ebbe infatti le fattezze della Brini, una domestica che Giacomo, con la complicità del fratello Carlo, inseguì per le stradine di Recanati per catturarne i movimenti civettuoli o quelle della bionda e seducente Teresa Carniani Malvezzi, conosciuta nel 1826, durante la sua permanenza a Bologna. Leopardi capitolò dinnanzi a quest’abile adulatrice che, mostrandogli un’apparente accondiscendenza, voleva soltanto fare in modo che lui prestasse attenzione ai suoi versi improbabili e alle sue traduzioni. O ancora quelle di Fanny Targioni Tozzetti, che invaghita dell’amico di Leopardi, Ranieri, lo utilizzò impudentemente da tramite per ricevere notizie dell’innamorato lontano. Leopardi non amò mai realmente una persona, condividendone i sogni o accettandone i difetti, amò solo l’idea dell’amore che pazientemente si costruiva uno spazio vitale nella sua mente, traendo spunto dal dato reale.

55

G. Leopardi, Diario del primo amore, Newton 1997, p. 1095.

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Tematica, questa, ricorrente in diverse sue composizioni poetiche, come nella canzone Il primo amore, scritta proprio nel 1817, anno in cui questa “sovrana passione”56, per la prima volta, fece breccia nel suo cuore. Queste le sue parole: “Vive quel foco ancor, vive l’affetto, spira nel pensier mio la bella imago da cui, se non celeste, altro diletto giammai non ebbi, e sol di lei m’appago”. (vv. 100-103)

O ancora ribadita in Aspasia, poesia dedicata alla “dotta allettatrice”, Fanny Targioni Tozzetti, che a lei così si rivolge: “Vagheggia il piagato mortal quindi la figlia della sua mente, l’amorosa idea […]”. (vv. 37-39) “Pur quell’ardor che da te nacque è spento: perch’io te non amai, ma quella Diva”. (vv. 77-78)

Dal momento che, dunque, la donna reale è assente, l’incontro con la sua presenza mentale può realizzarsi esclusivamente nel sogno. Prendiamo in prestito un pensiero di Nietzsche: “Niente è più vostro dei vostri sogni! Niente è maggiormente opera vostra! Materiale, forma, durata, attori, spettatori: in queste commedie voi siete tutto, proprio voi!”57.

È come se Leopardi avesse a disposizione, quindi, una tavolozza di infiniti colori e potesse accostarli a suo piacimento, creando un effetto unico, impossibile da rintracciare nella realtà. Proprio per questo in nessuna donna che incontrò, riuscì a intravedere quel perfetto cromatismo dell’idea. In un’operetta morale del 1824, nuovamente chiarisce il suo pensiero: “Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il sogno gliene ha lasciata impressa […]”58.

L’amore, inoltre, è per Leopardi quel sentimento puro che, espandendosi interamente nell’animo dell’uomo, riempie ogni fenditura e impedisce il passaggio a tutto ciò che non mostri pari elevatezza e nobiltà.

56

G. Leopardi, Diario del primo amore, cit., p. 1096. F. Nietzsche, Aurora, cit., p. 128. 58 G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 530. 57

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Così ricorda nelle pagine del suo Diario del primo amore, dopo essere stato invaso dalla passione: “[…] ogni cosa mi par feccia, e molte ne disprezzo che prima non disprezzava, anche lo studio, al quale ho l’intelletto chiusissimo, e quasi anche, benché forse non del tutto, la gloria”59.

O nei versi de Il pensiero dominante, del 1831: “Sempre i codardi, e l’alme ingenerose, abbiette ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno subito i sensi miei; move l’alma ogni esempio dell’umana viltà subito a sdegno”. (vv. 53-58)

Nella sua personale esperienza, anche Nietzsche visse un rapporto particolare con l’amore. Egli era, infatti, prevalentemente cervello. Le emozioni che provava venivano, dunque, minutamente sezionate e catalogate dalla fredda razionalità, che attraverso questo processo gli impediva un contatto diretto con la dimensione istintuale e fisica. Nietzsche, però, fu tutt’altro che insensibile al fascino femminile. Prediligeva donne giovani, belle, alte, bionde, sovente di origine russa o scandinava, ma queste caratteristiche, da sole, non erano assolutamente sufficienti. A differenza di Leopardi, infatti, un bell’involucro doveva necessariamente anche contenere al suo interno pensiero, spessore, contenuto. Per Nietzsche il segreto di un amore duraturo consisteva proprio in una sorta di “illimitatezza” dell’anima della persona amata, che costantemente attira in inesplorate profondità e oscuri recessi il compagno, impaziente di cercare nuovi territori da rischiarare e conquistare. Un amore basato, invece, sulla sola fisicità e sensualità, sostiene Nietzsche con convinzione, è come una pianta che germoglia e cresce rapidamente, ma altrettanto repentinamente avvizzisce a causa dell’eccessiva debolezza delle sue radici. Un buon matrimonio, infatti, deve essere fondato sui pilastri di una solida amicizia. Anzi, suggerisce lo stesso Nietzsche: “In procinto di contrarre un matrimonio bisogna porsi la domanda: credi tu di poter ben conversare fino alla vecchiaia con questa donna? Ogni altra cosa nel

59

Id., Diario del primo amore, cit., p. 1096.

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matrimonio è transitoria, mentre la maggior parte del tempo comune è presa dalla conversazione”60.

Forse Nietzsche non pensò mai seriamente di sposarsi perché uno spirito libero come lui, “odia tutte le abitudini e le regole, tutto ciò che è durevole e definitivo, perciò lacera sempre di nuovo, con dolore, la rete intorno a sé […]” (ivi, p.236). La situazione di Nietzsche divenne, però, imbarazzante dal punto di vista sociale quando la quasi totalità dei suoi amici ormai si stava sistemando. Fu allora che decise, più per gioco che per reale convinzione, di cercare, con l’aiuto fidato della materna amica Malwida von Meysenbug, una moglie ricca e carina. Fece proposte di matrimonio talmente goffe e inopportune che puntualmente, non senza un certo sollievo da parte sua, ottennero netti rifiuti, come quella alla russa Mathilde Trempedach, a Ginevra, nel 1876. Due volte soltanto sentì il cuore sobbalzare nel petto. La prima fu quando incontrò Louise Ott. Questa donna bionda, colta e sensibile, giunta a Bayreuth per ascoltare la musica di Wagner, lo rapì dal primo istante. L’idillio terminò con la scoperta che Louise era già sposata e aveva un bimbo. Nietzsche le propose allora di trasformare il loro rapporto in un’amicizia pura, senza implicazioni sentimentali di alcun genere. Ma Louise non desistette, e gli scrisse, cercando di fargli capire che sarebbe potuto nascere qualcosa di diverso se solo avesse smesso di trincerarsi dietro a nobili ideali. Ma Nietzsche rimase fermo sulle sue posizioni, sebbene, a distanza di tempo, il dolcissimo ricordo del viso di Louise gli provocasse doloroso rimpianto. Lo descrisse con queste parole e a lei lo donò: “Di recente ho visto a un tratto nel buio i Suoi occhi. Perché nessuno mi guarda con occhi simili? ho esclamato pieno di amarezza”61.

Protagonista del vero amore, come lo intendeva Nietzsche, fu Louise Salomé. Questa ragazza, originaria di Pietroburgo, lasciò in seguito la Russia per trasferirsi a Zurigo in compagnia della madre. A Zurigo sorgeva, infatti, l’unica università in Europa che accettava le donne. Durante gli studi si ammalò di tisi e per curarsi, nel 1882, andò a Roma, ospite di Malwida von Meysenbug. Qui Nietzsche la conobbe e folgorato pronunciò queste parole:

60 61

F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, cit., p. 228. F. Nietzsche, Epistolario (1850-1879), cit., p. 253.

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“Cadendo da quali stelle siamo stati spinti qui, l’uno incontro all’altra?”62.

Il progetto di Lou sarebbe stato quello di dar vita a un ménage à trois spirituale e intellettuale con Nietzsche e l’amico Rée. Progetto che non si concretizzò. Nel frattempo, comunque, Nietzsche e Lou trascorsero insieme un periodo particolarmente intenso a Tautenburg, facendo feconde passeggiate all’ombra dei boschi e scambiandosi l’anima. Nietzsche si innamorò di Lou perché riconobbe in lei finalmente qualcuno che davvero comprendeva il suo modo di pensare, la sua filosofia. Non soltanto voleva che diventasse sua discepola, ma addirittura percepiva in lei potenzialità tali da farla assurgere, in futuro, a continuatrice del suo pensiero. Per delicatezza, lasciamo ora che siano i protagonisti a parlare di sé. L’amore, infatti, è come se fosse formato da elementi chimici diversi che solo i diretti interessati riescono a combinare senza rischi di maldestre interpretazioni. Così, in una lettera, Nietzsche si aprì a lei senza reticenze: “[…] per dire tutta la verità: in questo momento vado cercando persone che possano raccogliere la mia eredità; io porto dentro di me diverse cose che non si possono leggere nei miei libri – e per questo sto cercando il terreno migliore e più fertile”63.

Anche Lou all’inizio condivise il medesimo entusiasmo: “Conversare con Nietzsche è straordinario […]. C’è un fascino particolare nell’incontro degli stessi pensieri, delle stesse idee e sensazioni; ci si capisce quasi a mezze parole” (ivi, 159).

Ma quando la conoscenza si fece più intima, Lou scrisse: “[…] in qualche profondo recesso del nostro essere ci dividono distanze siderali. Nietzsche nasconde in se stesso […] alcune oscure segrete, sotterranei nascosti che non risultano a una conoscenza superficiale, ma che pure possono contenere la sua più vera essenza” (ivi, 160).

Nietzsche soffrì questa separazione come un tradimento. Per la prima e unica volta nella sua vita aveva donato interamente se stesso, ovvero la sua filosofia, a un altro essere che con noncuranza l’aveva rifiutato. Sfogò, dunque, il rancore per la delusione fra le righe di una lettera: 62 Triangolo di lettere (carteggio Friedrich Nietzsche, Lou von Salomé e Paul Rée), Adelphi 1999, p. 89. 63 Triangolo di lettere (carteggio Friedrich Nietzsche, Lou von Salomé e Paul Rée), cit., p. 130.

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“Ma ora sono di nuovo solo – e a dire il vero, non sono mai stato così solo. Tutte le esperienze degli ultimi anni mi hanno sempre insegnato quest’unica cosa: non c’è nessuno disposto ad accompagnarmi sulla mia strada – nessuno ancora vede questa strada” (ivi, 337).

Ci capita sovente, parlando d’amore, di accostare a questo sentimento l’idea della morte. Da un lato questo accade perché, quando si ama intensamente, si vorrebbe donare anche la vita alla persona che ci sta accanto, dall’altro, invece, siamo intrisi dalla speranza che questo nostro legame possieda quelle stesse peculiarità che la morte vanta, ossia quell’assolutezza e totale mancanza di cambiamento che la contraddistinguono. Un pensiero di Nietzsche esprime ruvidamente questa considerazione: “Ogni grande amore ha in sé il crudele pensiero di uccidere l’oggetto d’amore, affinché venga sottratto una volta per tutte al sacrilego giuoco del cambiamento: perché l’amore ha più orrore del cambiamento che della distruzione”64.

La morte si palesò, nell’esistenza di Leopardi e Nietzsche, in modo talmente plateale, da non poter passare inosservata. I genitori solitamente cercano di creare per i loro bimbi, ancora ignari della vita, un mondo privo di spigoli taglienti sui quali ci si può ferire. Non sempre, però, ci riescono. Il piccolo Giacomo, di appena cinque anni, fu sconvolto dall’impressione suscitata in lui dalla morte improvvisa del suo fratellino, Luigi Gradolone, vissuto solo nove giorni. La barbara insensibilità del padre, poi, non seppe rispettare la fragilità del suo primogenito che costrinse, insieme a Carlo e Paolina, ad avvicinarsi a quell’esserino privo di vita per baciarlo. Giacomo proruppe in un pianto disperato. La dolcezza dell’infanzia l’aveva abbandonato. Anche Nietzsche conobbe la morte bambino. A quasi cinque anni, infatti, visse la straziante dipartita del suo amato padre e un anno dopo quella di suo fratello Joseph. Le laceranti grida del padre agonizzante e quel cupo suono dell’organo che accompagnò la cerimonia funebre, furono fedeli compagni della sua vita. Leopardi tentò di accettare l’esistenza della morte mediante un rigoroso percorso razionale che la intendeva come momento della vita e non contrapposizione ad essa, ma non riuscì mai a zittire la voce dell’emozione. Come quando l’oscurità della notte faceva prendere vita agli oggetti e ogni impercettibile rumore era la prova evidente di oscure presenze, Giacomo, pur sapendo che tutto ciò era frutto della sua fervida fantasia, tuttavia non era in grado di arrestare quel freddo brivido di paura che lo percorreva. 64

F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, 1880, 1-280.

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La morte possiede, quindi, per lui due volti distinti. Quando Leopardi, infatti, affronta la tematica della morte sulla base di un’analisi razionale, la percepisce addirittura come un piacere. Questa considerazione viene esplicitata in diversi punti dello Zibaldone e nell’operetta Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. La morte non può assolutamente arrecare dolore perché rappresenta quel particolare momento in cui i sensi perdono vigore e avvolgono l’individuo in una sorta di morbida “languidezza”. Il piacere consiste, per Leopardi, proprio nella “privazione o depressione di sentimento”65, ossia nel non sentire più la vita con la sua ingenita infelicità. Leopardi fu anche affascinato dal suicidio. Fu, infatti, attratto dalla prospettiva di porre fine autonomamente alle sue sofferenze e alla sua incessante inquietudine, come chiarisce nelle Ricordanze del 1829, con l’ausilio di questi versi: “E già nel primo giovanil tumulto di contenti, d’angosce e di desio, morte chiamai più volte e lungamente mi sedetti colà su la fontana pensoso di cessar dentro quell’acque la speme e il dolor mio”. (vv. 104-109)

Seguendo la riflessione di Leopardi, inoltre, l’uomo dovrebbe prestare ascolto ai caldi inviti della ragione di porre fine, quanto prima, alla fatale infelicità della vita, con l’unica possibile soluzione, ovvero una rapida morte. È inutile, pensa Leopardi, seguire ancora i dettami di una natura che, ormai da tempo, ha perso il suo potere egemonico sull’essere umano66. Il suicidio, nell’opera leopardiana, assume i lineamenti di diverse figure, come quella dell’eroe Bruto, della poetessa greca Saffo o ancora del filosofo Plotino e del suo allievo Porfirio. Suicidio che è vittoria, in quanto ribellione al destino e rifiuto della rassegnazione, ma anche sconfitta per l’assenza di una possibile giustificazione della vita e conseguente accettazione di essa. Ma la morte, per Leopardi, è anche pungente emozione. Quella stessa che si impossessa di lui quando d’inverno vede, adagiati sulla neve, i corpi esamini di uccellini morti per la difficoltà di reperire cibo, o quando racconta lo strazio degli animali condotti al mattatoio. Emozione che diventa di proporzioni immani nel caso in cui sia una persona a lasciare questa vita, specialmente se da lui conosciuta. Leopardi ha sempre lottato con ogni mezzo per annullare i limiti, i confini. È come se la morte per lui interpretasse il ruolo di un irreversibile punto di non ritorno. È perseguitato 65 66

G. Leopardi, Zibaldone, 4074, 20 aprile 1824. Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 1978-79, 23 ottobre 1821.

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dal “mai più”, dal pensiero che l’essere umano lasci, del suo passaggio, una traccia che rapidamente scompare come acqua inghiottita dalla sabbia. Per contenere questa rabbrividente angoscia, Leopardi decide di edificare, mediante l’immaginazione, uno spazio dentro di sé nel quale la persona amata, dopo la sua morte, possa continuare a vivere come se nulla fosse cambiato. Saranno i sensi della persona che la contiene e trasmetterle ancora il calore del sole o il profumo dei fiori di campo. A tal proposito, aggiunge: “È pure una bella illusione quella degli anniversari […]. Ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente […]”. (Zib.,60)

La morte cercò Leopardi nel pomeriggio primaverile e tiepido di quel fatale mercoledì 14 giugno 1837 e lo trovò a Napoli. Proprio Leopardi che così tanto l’aveva invocata, non si accorse neppure della sua presenza accanto a lui. Con in bocca il sapore dei suoi adorati confetti e il fresco brivido del sorbetto al limone, trangugiato con la stessa avidità di sempre, e nella testa gli ultimi pensieri scambiati con l’amico Ranieri, si spense alla vita. La morte incuteva timore anche a Nietzsche che però, contrariamente a Leopardi, seppe costruire degli argini intorno a questa fremente emozione con il materiale proveniente dalla sua filosofia. Il suo interesse fin da ragazzo, infatti, venne irrimediabilmente attirato dalla filosofia greca dei presocratici e in special modo dalla concezione, da essi sostenuta, della circolarità del tempo. Lo colpì, tanto da renderla sua con la dottrina dell’“eterno ritorno”, quell’idea tranquillizzante del circolo, ossia dell’assenza di un preciso inizio e soprattutto di una fine determinata e senza appello. Appassionatosi, poi, alla lettura di alcuni miti indiani, dei pitagorici e del filosofo greco Empedocle fu avviluppato anche dal fascino della teoria della metempsicosi, secondo la quale le anime vanno soggette a successive reincarnazioni. Tutte le cose, quindi, subiscono continue trasformazioni, senza mai annullarsi completamente. Quella latente paura del limite che lo perseguitava, svanì. Anche Nietzsche, come Leopardi, era innamorato dell’infinito, dell’eternità. Egli riuscì a dar vita, infatti, a una sorta di “eternità mondana”. Abolì la contrapposizione tra “mondo vero” e “mondo apparente”, facendo, dunque, dell’eternità e del tempo qualcosa di unico e indistinguibile, non più i tratti peculiari di due mondi separati. Questa la dichiarazione d’amore che Nietzsche dedica alla sua Eternità: 142


“Ancora non trovai donna da farmi desiderare figli, se non questa donna, che io amo: perché io ti amo Eternità!”67.

Per Nietzsche, dunque, quel costante flusso di mutazioni e instabilità che coinvolge anche l’uomo non deve spaventare, perché permette all’essere umano di suggere avidamente la vita che non ha realmente termine, facendogli provare anche il piacere dell’ “annientamento”. Anzi: “Grazie alla certezza della morte, a ogni vita potrebbe mischiarsi una preziosa, profumata goccia di incoscienza […]”. Percepita in questa particolare prospettiva, la morte non si manifesta più come decisiva conclusione di un percorso, bensì come ulteriore cominciamento. Nietzsche attraversò la vita in compagnia di questo fedele viatico. Quando parla della morte, Nietzsche, inoltre, la intende spesso come una scelta. Il suicidio, infatti, anche nella riflessione nietzschiana, assume connotati positivi. Nel momento in cui le forze cominciano a declinare, invece di attendere con passività quel progressivo disfacimento e quella lenta consunzione che inesorabilmente ci allontanerà da noi stessi e ci leverà la gioia di salutare chi ha percorso l’esistenza con noi, dobbiamo deciderci a partire. Questa l’esortazione che Nietzsche fa per bocca di Zarathustra: “Muori al momento giusto: così insegna Zarathustra […]. Vi faccio l’elogio della mia morte, che viene a me perché io voglio. […] Proprio quando si è più saporosi, bisogna smettere di farsi mangiare: ciò sanno coloro che vogliono essere amati a lungo” (ivi, 80-81).

Fu beffardo il destino che Nietzsche incontrò. Questo filosofo che visse di pensiero, cominciò lentamente a morire quel 3 gennaio 1889, quando un’inclemente follia lo assediò. Nietzsche, che coccolava i suoi pensieri come figli e come eventi della vita, fu costretto a rinunciarvi. Così la sua vita ebbe bruscamente termine. Per ben undici anni convisse con quella morte apparente e nei sempre più rari momenti di lucidità spesso ripeteva, alla mamma che amorevolmente si prendeva cura di lui, questa ossessiva frase: “Sono morto perché sono stupido”68.

Il progredire della malattia lo ridusse alla stregua di una pianta, o di un animale ferito che si ritira in un angolo ad aspettare la morte. Non si rese conto della scomparsa della madre, da tempo ammalata di cancro, né di essere diventato, grazie all’insensibile intervento della sorella, 67 68

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 269. Testimonianza di Heinrich Lec, in: C. Pozzoli, Nietzsche, cit., p. 415.

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un vero e proprio oggetto di culto, né dell’enorme fama ottenuta dalle sue opere in tutto il mondo e delle schiere di adoratori che lo osannavano. La morte definitiva lo passò a prendere a mezzogiorno del 25 agosto del 1900 ma, anche di questo, lui non se ne accorse.

2.5 Immagini dell’universo: Leopardi, la materia universale e la formazione di sempre nuovi ordini di cose La riflessione profonda e matura spinse Leopardi a dare della realtà una spiegazione radicalmente materialistica e meccanicistica. Prima, però, di descriverne i tratti fondamentali e di seguirne le linee di sviluppo rintracciabili nelle diverse opere, è utile soffermarci a considerare alcune letture che un particolare ascendente esercitarono sul formarsi e l’acuirsi di tale concezione nel pensiero leopardiano. Fu soprattutto l’assidua e costante frequentazione dei filosofi illuministi settecenteschi a insinuare, nell’animo del giovane studioso, questa idea. Come ben sappiamo, Leopardi ricevette un’“istruzione domestica”, nella quale comparivano effettivamente anche lezioni di filosofia, logica e metafisica, di cui però lo stesso Leopardi, in un pensiero dello Zibaldone, si lamenterà, ricordandole con scarsa stima69. Quegli insegnamenti, sostenne da fiero autodidatta, altro non furono che teologia mascherata da filosofia, e gli furono impartiti dal precettore Don Sanchini al solo fine di prepararlo a successivi studi teologici, necessari per la preannunciata carriera ecclesiastica. I testi scelti per questo scopo avevano titoli significativi, come quello del padre François Jaquier, Institutiones philosophicae ad studia theologica potissimum accomodatae, o gli Elementi di metafisica, ovvero Preservativo contro il Materialismo, contro l’Ateismo e contro il Deismo dell’abate Sauri, Il buon uso della Logica in materia di Religione del conte Alfonso Muzzarelli, e il Dictionaire de Phisique di Aime-Henri Paulian. Queste erano, infatti, tutte opere di filosofia cattolica, dalle cui pagine emergeva con prepotenza un’aspra polemica antimaterialistica e antisensistica. Sebbene gli autori di tali scritti furono senza dubbio i più accaniti detrattori di una visione materialistica del mondo, pur tuttavia si trovarono costretti a infarcire di citazioni degli assertori di questa posizione i loro lavori e fu proprio grazie a questa via indiretta che Leopardi ebbe una prima conoscenza dei filosofi greci e degli illuministi francesi. Conoscenza che venne ulteriormente approfondita dalla lettura di libri francesi già presenti nella biblioteca paterna, che escludeva gli ideologi, ma

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Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 1347-48, 20 luglio 1821.

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comprendeva Voltaire, Montesquieu, tutto Rousseau, tranne l’Emilio, l’Encyclopedie, insieme a opere di Buffon e ai testi di storia antica di Rollin. Prima di proseguire, una notazione è d’obbligo. Sebbene Leopardi avesse, fin da subito, sentito l’intenso fascino che il materialismo e il meccanicismo ebbero sul suo pensiero, tuttavia non provò mai l’esigenza di intraprendere un cammino a ritroso e di indagare la genesi di questa spiegazione del reale, ossia la filosofia greca. Esigui, irrilevanti e privi di attinenza filosofica furono, infatti, i riferimenti che Leopardi, nello Zibaldone, dedicò a Democrito70, padre, insieme a Leucippo, dell’atomismo, che fu certamente il più importante sistema materialistico dell’antichità e ad Epicuro71, che, nella parte fisica della sua speculazione, ricalcò la dottrina atomistica, benché il suo intento fosse più morale che scientifico. Più cospicui furono, invece, i cenni a Lucrezio72, autore del poema De rerum natura, che fu la fonte principale di notizie sull’epicureismo e il suo più efficace veicolo di diffusione, sebbene anch’essi trattino esclusivamente questioni linguistiche e grammaticali, e non si spingano mai a considerare le parti filosoficamente più efficaci del poema, riguardanti l’amara sfiducia nei confronti della società umana, travagliata da passioni irrazionali e da idee superstiziose, nonché l’inestirpabile infelicità dell’uomo, abbandonato alle sue illusioni e ai suoi desideri come una fragile barchetta ai flutti tempestosi del mare in burrasca. Leopardi ritenne, probabilmente, che i nuclei tematici più rilevanti di tale posizione concettuale fossero già stati ottimamente inglobati dal pensiero illuminista, giudicando superfluo un ulteriore approfondimento. Leopardi, inoltre, fu spinto ad appoggiare una simile visione della realtà anche dall’intima amicizia con il Giordani, iniziata nel 1817. Da questo letterato Leopardi, infatti, assorbì non soltanto le esigenze di riforma culturale, ma specialmente il sensismo e il laicismo, di cui il Giordani, formatosi a Parma dov’era stato così forte l’influsso di Condillac, rimase sempre vigoroso sostenitore. L’iniziale meditazione leopardiana, poi, incorporò numerosi spunti provenienti dalla lettura accurata dell’opera di Rousseau. Leopardi, come il Rousseau del Discorso sull’ineguaglianza, imputava infatti a circostanze esterne del tutto fortuite quel progressivo deterioramento che aveva investito l’uomo buono, sano, moralmente retto e relativamente felice dello “stato di natura”, sostituendolo con un’ombra infelice d’individuo, la cui ricchezza di passione, emozione e sentimento era stata totalmente affossata dall’incedere 70

Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 38, 961, 3964,4436-37, 4466. Ibid., 317, 331-33, 4299, 4379. 72 Ibid., 54, 641, 747-48, 756-57, 1038, 1056, 1057, 1138, 1146, 1808, 2010, 2306, 2310, 2347, 2514, 2655, 2841, 3192, 4037, 4387, 4452. 71

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inarrestabile dell’impianto storico-sociale, determinato da un eccessivo perfezionamento della ragione. Per Rousseau dunque, come in principio per Leopardi, il male e l’infelicità che opprimeva il genere umano, non era causata dall’irresponsabile o malvagio agire della natura, bensì da una scelta di cui l’uomo stesso si era reso protagonista e che l’aveva immiserito, intrappolandolo in una serie di rapporti alienanti. La soluzione prospettata da Rousseau implicava, quindi, un ritorno immediato alla natura, inteso come la possibilità di scrostare, alla stregua di un affresco in fase di restauro, quell’orribile patina superficiale che impedisce ai colori originari ed essenziali dell’individuo di brillare. Questo tema, vero e proprio Leitmotiv negli scritti del filosofo ginevrino, fu ampiamente influenzato dal cosiddetto “mito del buon selvaggio” che, a partire dal cinquecento, anno di importanti scoperte geografiche, imperversava nella letteratura francese e che portò a idealizzare quella “vita primitiva”, esente dall’effetto disgregatore dell’incivilimento. La liaison con il pensiero rousseauiano durò il tempo in cui Leopardi credette fermamente in quella felicità primigenia goduta dagli antichi e assicurata loro da una ragione embrionale e da una filosofia bambina, mistura di raziocinio e immaginazione, che precludeva il disvelamento della verità, mantenendo vive le illusioni. Quando, però, nel novembre del 1820, Leopardi, leggendo Diogene Laerzio, si scontrò con la figura del filosofo greco Teofrasto73, il corso della sua riflessione subì un repentino mutamento. Teofrasto, filosofo peripatetico, divenuto scolarca alla morte di Aristotele, apparve dapprima a Leopardi come un fiore raro e profumato cresciuto in mezzo al deserto, perché lottò al fine di assicurarsi una visione realmente scientifica del mondo, avanzando anche critiche rilevanti alla dottrina del maestro. Respinse, infatti, nel frammento intitolato Metafisica, la teoria del primo motore quale origine del moto, riaffermando per contro, insieme ai naturalisti ionici, l’attività e il movimento come qualità originarie e intrinseche a ogni oggetto naturale, e negò valore universale al principio teleologico. Così Leopardi commenta, quindi, la filosofia di Teofrasto: “[…] questa scienza universale non fu subordinata da lui, come da Platone, all’immaginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza […]; e indirizzata, non allo studio né alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero”74.

73 74

Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 316-318, 11 novembre 1820. G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 620.

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Avendo intrapreso poi, nel febbraio del 1823, durante il soggiorno a Roma, la lettura del Voyage du jeune Ánacharsis en Gréce di Barthélemy75 e degli Opuscoli morali di Plutarco76, nella traduzione di Marcello Adriani, Leopardi, ancor più profondamente, si convinse che non solo Teofrasto, ma anche i maggiori poeti e saggi della Grecia classica ed ellenistica avevano sentito e teorizzato l’infelicità perpetua e necessaria dell’uomo, saggiando l’asprezza della verità. Tra le testimonianze, scoperte da Leopardi, c’era anche la celeberrima risposta di Sileno a re Mida nell’Eudemo di Aristotele e il verso di Menandro, che divenne in seguito l’epigrafe di Amore e Morte. L’infelicità non era più, dunque, la conseguenza di un distacco dalla natura perpetrato dall’uomo, bensì era insita nella natura stessa. Leopardi, infatti, irrise quell’idea di Rousseau cui era stato incline, ossia che il male appartenesse a un disordine innaturale provocato dall’essere umano, spiegando in un pensiero dello Zibaldone: “La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente […]. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi”. (Zib., 4428, 2 gennaio 1829)

Abbandonato Rousseau, Leopardi si dedicò alla lettura di altri filosofi illuministi francesi, come risulta da numerose annotazioni disseminate nello Zibaldone. Nel maggio 1825, infatti, lesse la Lettre de Thrasybule à Leucippe di Nicolas Fréret, che conteneva un’energica polemica antiteistica e antiprovvidenzialistica e le Ruines dell’ideologo Volney77. Non è testimoniata invece alcuna lettura diretta di La Mettrie, Condillac e Diderot. Nel 1826 fu il Poéme du dèsastre de Lisbonne di Voltaire78 a calamitare prepotentemente l’attenzione leopardiana. In quest’opera Voltaire anticipa un tema che riprenderà qualche anno più tardi nel Candide, ou l’optimisme e che concerne l’esigenza di conciliare la massiccia presenza del male e dell’infelicità con l’esistenza di Dio. La risposta di Voltaire fu che Dio ha creato l’ordine dell’universo fisico, ma che la storia è affare degli uomini. Leopardi fu particolarmente affascinato dal problema posto in questione, ma per nulla soddisfatto dalla soluzione. A quel tempo, infatti Leopardi si era già arroccato su una concezione della natura imperniata non solo sul materialismo, ma anche su un ateismo 75

Id., Zibaldone, 2669-73, 7 febbraio 1823. Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 2673, 19 febbraio 1823. 77 Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 4127-29, 5-6 aprile 1825. 78 Ibid., 4175, 22 aprile 1826. 76

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che gli faceva mal sopportare quella tiepida posizione deistica che la quasi totalità dei filosofi francesi illuministi aveva adottato e che negava validità alla Rivelazione e alla Provvidenza, ammettendo, però, Dio come garante dell’ordine naturale. Con tutta probabilità, la musa ispiratrice di tale spiegazione leopardiana della realtà fu la lettura del Systeme de la nature, opera fondamentale di d’Holbach79. Benché, nello Zibaldone, l’unico cenno esplicito di Leopardi a d’Holbach faccia riferimento a un altro suo scritto, la Morale universelle, tuttavia espressioni rinvenute in alcuni pensieri leopardiani rendono credibile e fortemente verosimile questa ipotesi80. D’Holbach, filosofo francese di origine tedesca, visse a Parigi, dove entrò in contatto con i maggiori illuministi francesi, diventando anche valido collaboratore dell’Encyclopedie come redattore di voci relative alla chimica, alla metallurgia e alla mineralogia. Fu anche traduttore e divulgatore di opere scientifiche. Tutti i suoi scritti sono ispirati da un appassionato materialismo, a sostegno del quale utilizzò sovente le conoscenze scientifiche acquisite per mezzo delle traduzioni. Il suo lavoro principale è volto a fornire le basi ideologiche per una visione rigorosamente materialistica e atea del mondo, al fine di emancipare l’uomo soprattutto da una dannosa visione religiosa che gli impedisce di essere padrone di sé e quindi felice. D’Holbach, insieme a La Mettrie ed Helvétius, può essere considerato inoltre una sorta di “illuminista estremista”, in quanto sostenne il materialismo non solo come mero programma di ricerca, bensì come una teoria che pretende di essere vera, in quanto fortemente corroborata dai risultati della scienza e della medicina. Leopardi condivise pienamente questo pensiero e lo rese esplicito nello Zibaldone e specialmente nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, operetta morale del 1825. L’aver deciso di far incarnare proprio a Stratone questa sua spiegazione del reale, fu una chiara professione di materialismo e ateismo. Dalle informazioni tramandate da Diogene Laerzio e da Cicerone infatti, Stratone, filosofo peripatetico prima allievo di Teofrasto e poi subentrato al suo posto alla guida del Liceo, accentuò oltremodo la componente scientifica presente nell’aristotelismo, facendo ampio e sistematico uso di esperimenti nell’investigazione sulla natura, negando ogni intervento divino all’origine del mondo e trovando addirittura troppo fantasiosa e priva del necessario rigore scientifico anche la fisica democritea.

79 80

Ibid., 183, 23 luglio 1820. Ibid., 4134, 9 aprile 1825.

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Per comprendere in profondità il Frammento è necessario integrarne l’analisi con le molteplici riflessioni che Leopardi sparge qua e là nello Zibaldone. Secondo Leopardi, dunque, la realtà è costituita da null’altro che da materia universale, finita ed eterna. La materia, spiega infatti in un brano dello Zibaldone, benché divisa in parti piccolissime non può assolutamente dissolversi nel nulla, anche perché dall’esistenza al nulla non si giunge per gradi, ma per “salto infinito”81. Leopardi tributa, quindi, a questa materia universale la peculiarità di essere imperitura, di non aver mai avuto “niuno incominciamento”82 ed essere perciò eterna, e di mantenere inalterata la sua quantità, infatti “tanta materia esiste oggi” – scrive – “né più né meno, quanta è mai esistita”83. Quei segni di caducità e transitorietà, dunque, che caratterizzano la realtà che ci circonda, non sono da riferire direttamente alla “materia universale”, bensì alle cosiddette “creature materiali”84, che la forza propria della materia estrapola da questa stessa ininterrottamente. Dal momento che, però, questa forza insita nella materia deve agire, trasformandola, in modo perpetuo e incessante e visto che la materia universale è provvista di una limitata quantità, da tutto ciò deriva la necessità, per avere sempre a disposizione materiale sufficiente per nuove plasmazioni, di distruggere progressivamente quello che si è formato, dando vita così a “quel perpetuo circuito di produzione e distruzione” (ivi, 536) che per Leopardi è l’esistenza. Per Leopardi non è, quindi, la materia a essere “infinita”, bensì è il tempo, all’interno del quale la forza materiale opera, a trasformarsi in eternità e ad assumere perciò un incedere circolare. Il tempo, asserisce Leopardi, non è una cosa, un ente, una realtà, ma è un “accidente delle cose”85, una nostra idea, una parola, che indipendentemente dall’esistenza delle cose, sarebbe nulla. Proprio per questo motivo il tempo può divenire infinito, perché anche l’infinito altro non è che un’idea e “un parto della nostra immaginazione”86, privo di realtà. Sarebbe, infatti, un’assurda contraddizione attribuire “infinità” alla materia, ente reale munito di confini e precisi limiti, tanto che, se questa situazione si verificasse, sbotta Leopardi, la materia tale

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Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 630-32, 9 febbraio 1821. G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 578. 83 Id., Zibaldone, 632, 9 febbraio 1821. 84 G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 578. 85 G. Leopardi, Zibaldone, 4233, 14 dicembre 1826. 86 Ibid., 4177, 2 maggio 1826. 82

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non sarebbe più. Le numerose problematiche legate a questi aspetti dell’analisi, abbondanti in metafisica, a parere di Leopardi, sono solo “logomachie”87, ossia battaglie di parole, avulse da realtà. Dal costante e intenso lavorio della forza sulla materia universale è scaturito il nostro mondo che, insieme agli altri mondi che costituiscono l’universo, è solo un particolare “modo di essere”88 di detta materia e come tale, avendo avuto una nascita, dovrà avere anche una morte. Infatti, chiarisce Leopardi, nel momento in cui la forza materiale non si limiterà più a distruggere creature individuali, ma annienterà i generi e le specie, il nostro mondo perirà, restituendo la sua parte di materia, dalla quale, poi, “si formeranno […] nuove creature, […] nuovi ordini delle cose e un nuovo mondo” (ivi, 580). Dalle considerazioni sin qui svolte, quindi, l’universo di Leopardi è finito, in quanto realizzato con l’ausilio di una materia finita e limitata a sua volta. Quando infatti, Leopardi, in alcuni frammenti dello Zibaldone, utilizza espressioni quali “l’infinità delle creature”89 o similari, esse vanno intese non come la possibilità che creature infinite sussistano contemporaneamente, bensì come l’opportunità che le differenti creature hanno di succedersi nel tempo. Leopardi, inoltre, nel Frammento apocrifo, fa allusioni esplicite a Eraclito e agli stoici, quando parla di “quei filosofi, […] i quali affermarono dovere alla fine questo presente mondo perire di fuoco”90, percependo il fuoco sia come conflagrazione, sia come inesauribile impulso vivificatore. Della filosofia eraclitea, poi, Leopardi accetta l’idea che sia proprio la lotta dei contrari a generare il divenire ma, come in un novello Anassimandro, scorge in essa ingiustizia e disarmonia, laddove per Eraclito c’è l’essenza stessa della vita e la sua piena e armoniosa realizzazione. La spiegazione materialistica e meccanicistica che, come abbiamo visto, Leopardi applica al reale, razionalmente lo conduce a interpretare l’agire necessario della natura, ossia della materia, alla stessa stregua dell’innocente gioco di un bimbo, ma emotivamente non gli consente proprio di astenersi dall’investire quello stesso operare con il più crudo giudizio morale. In un pensiero dello Zibaldone, animato dalle migliori intenzioni, Leopardi così esordisce: “Astenghiamoci dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo […]: ma se buono o cattivo, non lo diciamo”.

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Ibid., 4233, 14 dicembre 1826. G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 578. 89 G. Leopardi, Zibaldone, 84. 90 Id., Operette morali, cit., p. 580. 88

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Per proseguire, poi, rancoroso: “Ammiriamo dunque quest’ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme”. (Zib., 4258, 21 marzo 1827)

Per Leopardi, permane indelebile nell’esistenza un’ingiustizia che non trova spiegazione e ben viene rappresentata dalla sconsolata domanda del Dialogo della Natura e di un Islandese: “Ma poiché quel che è distrutto, patisce e quel che distrugge, non gode, […] a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che la compongono?” (ivi, 536).

2.6 Nietzsche, l’energia e l’eterno ritorno dell’identico La tarda meditazione nietzschiana fornì del reale un’immagine fluida, corredata da una spiegazione dinamica del mondo, che Nietzsche non avrebbe potuto condurre a maturazione senza avvalersi dei risultati che la scienza del suo tempo aveva raggranellato. Lo stesso Nietzsche, all’inizio della sua speculazione, guardò la realtà dalla prospettiva materialistica e meccanicistica propria di Leopardi, per poi accantonarla definitivamente, diventandone uno dei più polemici oppositori. Quando, infatti, nel 1867, Nietzsche intraprese la lettura dell’opera principale di Lange, la Storia del materialismo, fu energicamente spronato dall’autore ad approfondire lo studio dei filosofi naturalisti greci, i cosiddetti “presocratici”, tradizionalmente trascurati o solo superficialmente considerati dalla cultura ufficiale. Il filosofo tedesco Lange, uno degli esponenti più in vista del neokantismo, con questo suo lavoro si propose di arginare quella dilagante pretesa speculativa, propria del movimento positivistico allora emergente, di determinare, attraverso la conoscenza scientifica, la struttura effettiva dell’essere, ossia la cosa in sé. L’objettivo di Lange non fu assolutamente quello di detronizzare il sapere scientifico, bensì quello di legittimarne il valore, senza erigerlo, però, come nel positivismo comtiano, a paradigma indiscusso e a principio metafisico. Lange, infatti, difese l’interpretazione fenomenistica della scienza di Kant, rilevando che i fenomeni studiati dalla scienza sono relativi alla nostra percezione, che a sua volta è condizionata dalla nostra organizzazione mentale innata e che quindi non può trascendere i confini del fenomeno. Agli occhi di Lange, dunque, proprio questo materialismo “fenomenico” doveva essere necessariamente riabilitato come unica concezione fondata e coerente in grado di dar vita a una visione autenticamente scientifica del reale. 151


Lange spinse Nietzsche soprattutto nelle braccia di Democrito, artefice dell’atomismo, il più antico sistema materialistico dell’antichità. Nietzsche conosceva già Democrito dalla stesura del suo lavoro filologico su Diogene Laerzio, che lo caratterizza nel catalogo dei filosofi da lui redatto, divenuto celeberrimo. Nietzsche tuttavia, non soddisfatto da quella conoscenza giudicata approssimativa, decise di avviare, nel 1867, durante i tempi morti del servizio militare, una ricerca su Democrito che sapesse partire dalla filologia e spaziare nella filosofia. Quest’opera non fu mai ultimata, ma certamente ampliò la cultura nietzschiana su questo filosofo e sulla sua particolare spiegazione della realtà, tanto da divenire interessante argomento dei corsi che Nietzsche tenne all’università di Basilea. Tra i filosofi presocratici, l’interesse di Nietzsche venne catturato, poi, dall’eccezionale personalità del filosofo agrigentino Empedocle. Egli ebbe fama di mago, taumaturgo, poeta, medico e sapiente, e quell’aura di mistero che lo avvolse attirò torme di proseliti che lo veneravano come una divinità. Anche la sua morte fu leggendaria: dopo un banchetto con i suoi fedeli, scomparve repentinamente, solo i suoi calzari vennero ritrovati sulla bocca dell’Etna e si favoleggiò allora che il vulcano ne avesse rapito il corpo, consacrando Empedocle alla compiuta trasfigurazione in un dio. Quella prepotente malia che la figura di Empedocle seppe esercitare su Nietzsche e che lo sollecitò a scrivere, nel 1870, un abbozzo di un dramma che l’aveva per protagonista, fu, con tutta probabilità, innescata dalla lettura dell’Empedocle, avvenuta nel 1859, tragedia incompiuta del suo poeta tedesco prediletto, Hölderlin. Dell’interessante convergenza tematica di Nietzsche con un altro filosofo antico a lui particolarmente caro, l’“oscuro” Eraclito, parleremo al termine di questo paragrafo. Nel 1873, Nietzsche si gettò a capofitto nella lettura di alcune opere scientifiche, coll’intento preciso di colmare quella lacuna che i suoi studi classici avevano più volte evidenziato. Lesse così la Philosophia naturalis di Boscovich, Pensiero e realtà di Afrikan Spir, Storia della chimica di Knopp, Teoria generale del moto e dell’energia di Mohr, Conferenze sull’evoluzione della chimica di Landenburg, La struttura mirabile dell’universo di Madler, Elementi di fisica di Pouillet, e la Natura delle comete di Zölner. Si appassionò in particolare alla fisica e alla chimica, ma l’opera che davvero gli spalancò nuovi orizzonti di pensiero fu la Theoria philosophiae naturalis redacta ad unicam legem virium in natura existentium di Boscovich, presa in prestito dalla biblioteca di Basilea. Questo filosofo e scienziato dalmata, prendendo spunto da un suggerimento di Newton, sviluppò l’idea di una legge generale delle forze esistenti 152


tra gli elementi materiali: tali forze sono alternativamente attrattive o repulsive, a seconda della distanza; col diminuire della distanza, infatti, aumenta la forza di repulsione, così da rendere impossibile un contatto diretto tra le particelle. Per Boscovich, perciò, la realtà materiale viene ridotta a mera apparenza: tutte le qualità percepibili delle cose sono soltanto effetti fenomenici risultanti dal moto e dall’interazione delle particelle. Nietzsche subì fortemente il fascino di quest’idea ed assunse, quindi, una ferma presa di posizione critica nei confronti dell’ormai superato materialismo e atomismo, tanto da affermare con convinzione: “Per quanto riguarda l’atomistica materialistica, essa appartiene alle teorie meglio confutate che siano mai esistite, e forse non c’è oggi in Europa, tra i dotti, nessuno così indotto, da attribuirle ancora una seria importanza, salvo per comodità di uso giornaliero e domestico”91.

Dal momento che “Boscovich ci insegnò – prosegue Nietzsche – a rinnegare la fede nell’ultima cosa della terra che “stava immobile”, la fede nella “sostanza”, nella “materia” (ivi), allora possiamo coerentemente percepire il reale come un flusso incessante di forza in perenne trasformazione, privo della stabilità propria della materia. A questo punto anche Nietzsche, come già in precedenza Leopardi, si trova alle prese con il problema della “conservazione” di questo universo di sola forza e riesce brillantemente a superare l’impasse, trovando la chiave di volta del sistema attraverso l’approfondimento, nel 1881, di alcuni testi filosofico-scientifici come L’ipotesi di Thomson di Otto Caspari, Saggio su causa ed effetto di Adolf Fick, La forza di una concezione realmonistica del mondo di Vogt, e la Meccanica del calore di Mayer. Nonostante i giudizi poco benevoli che Nietzsche riservò a Mayer, infatti, fu proprio la sua intuizione del “principio di conservazione dell’energia” a essere indispensabile per la compiuta realizzazione della spiegazione nietzschiana della realtà. Fu il chimico Mayer, nel 1841, dunque, a sostenere per primo, precorrendo di due anni Joule, che c’è una grandezza fisica, l’energia, che si conserva, pur prendendo sempre forma nuova, quali che siano le trasformazioni che si riscontrano nei sistemi fisici, chimici e biologici, benché questa prima e parziale formulazione del principio troverà un’adeguata sistemazione teorica solo nel 1847 con il lavoro di Helmholtz, Sulla conservazione della forza. Nietzsche contestò a Mayer specialmente quella sua incapacità di liberarsi dalle spire di un materialismo meccanicistico che gli impediva di eliminare quella sagoma divina dallo sfondo, rendendo impossibile una visione veramente atea del mondo. 91

F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 17.

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L’universo di Nietzsche è costituito, infatti, da null’altro che da una forza immanente che senza posa si trasforma, e che così spiega in un frammento postumo: “Questo mondo: un mostro di forza, senza inizio, senza fine, una salda, bronzea massa di forza, che non diventa più grande né più piccola, che non si consuma ma si trasforma soltanto […]. Un divenire che non conosce sazietà, fastidio, stanchezza […]”92.

Ed aggiunge poi: “Una volta si pensava che all’attività infinita nel tempo appartenesse una forza infinita […]. Oggi, si pensa alla forza costantemente uguale, e non occorre più che essa diventi infinitamente grande. Essa è infinitamente attiva, ma non può creare casi infiniti, deve ripetersi: questa è la mia conclusione”93.

Anche per Nietzsche, come per Leopardi e la sua materia universale, l’energia che sta alla base del mondo è eterna, inesauribile, costantemente attiva, ma assolutamente non infinita. L’idea, quindi, di un universo esente da uno stato finale, determinato da un esaurimento di energia, è garantita dall’acquisto del principio di conservazione dell’energia stessa che, pur nelle trasformazioni senza requie, ne mantiene inalterata la quantità. Nietzsche asserisce, inoltre, che “il principio della conservazione dell’energia esige l’eterno ritorno”94, ossia accetta una temporalità circolare che implica, però, a differenza di Leopardi, in cui prevalse l’idea di una ripetizione sempre innovativa, una ripetizione senza novità. Per bocca di Zarathustra, Nietzsche così descrive l’eterno ritorno dell’identico: “Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l’anno dell’essere […]”95.

L’aspetto fisico dell’eterno ritorno, come abbiamo appena considerato, poggia, per Nietzsche, su reali basi scientifiche. L’eterno ritorno, infatti, non deve essere inteso come un banale ripetersi di eventi o cose, bensì come il necessario ripresentarsi delle configurazioni della forza reggitrice del cosmo, le quali agendo su una forza finita, non possono dar luogo a combinazioni illimitate. Nietzsche difende, quindi, una considerazione dinamica del mondo, in cui il movimento viene salvaguardato come energia intrinseca dell’universo, concezione che non avrebbe potuto raggiungere un tale grado di coerenza 92

F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1885, 38 [12]. Ibid., 1881, 11 [269]. 94 Ibid., 1886-87, 5 [54]. 95 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 255. 93

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senza essere supportata dai nuovi traguardi conquistati da una scienza nettamente orientata in senso anti-materialistico e anti-meccanicistico. Un ultimo cenno è da riservare all’intimo legame che si strinse tra il pensiero dell’efesino Eraclito e Nietzsche. Eraclito, infatti, non soltanto vide nella lotta dei contrari l’essenza stessa della vita e del divenire, ma seppe individuare di essi anche la natura complementare. Il principio che regola quel loro combattimento non è un’unità estranea alla molteplicità del divenire, bensì una legge che governa il divenire dall’interno. Uno e molteplice, essere e divenire non si oppongono, si compenetrano. Di qui la necessità che gli uomini non si fermino a considerare questo o quell’aspetto della realtà e che lo approvino o lo respingano secondo il loro personale tornaconto; essi devono invece sollevarsi a una visione complessiva, così da riconoscere l’armonia che nasce dall’apparente discordia e la giustizia sovrumana che ne deriva. Nietzsche fu letteralmente rapito da quest’idea, che ritrovò anche scorrendo le pagine del romanzo epistolare Iperione, o l’eremita in Grecia e della tragedia Empedocle di Hölderlin. La concezione della natura, infatti, cui Hölderlin diede vita nelle sue opere, fu venata da un vero e proprio “panteismo mistico”. La sacra natura è per lui, l’Uno-tutto in cui i molteplici contrasti e le distinzioni del singolo si conciliano, fondendosi in un’assoluta armonia. La morte diventa, quindi, momento di gioia intensa e immediata guarigione della lacerazione prodotta dall’individuazione, dal momento che, come dice Diotima, compagna di Iperione, congedandosi dalla vita, morire significa ritornare alla pace della natura. Per Hölderlin, anche Empedocle che, senza indugi si getta nei magmatici bollori dell’Etna, lo fa spinto dall’imperioso bisogno di voler abitare il cuore stesso della natura. Anche per Nietzsche, dunque, l’esistenza è scontro di contrari, che si risolve nella loro piena fusione e nella conseguente creazione di un tutto unico. È come se la vita fosse una medaglia e, come tale, avesse un diritto, ossia un attraente lato, impreziosito magari da un’iscrizione o da una raffigurazione a bassorilievo di un’immagine, e un indispensabile rovescio, ovvero quell’altro lato assai meno gradevole e certamente più spoglio. Se, infatti, vogliamo godere della gioia e del piacere che l’esistere ci dona, dobbiamo necessariamente saper accettare anche la sofferenza e il dolore, in quanto aspetti diversi di un’unica realtà. Nietzsche, così, ci invita a “vivere”: “Avete mai detto di sì a un solo piacere? Amici miei, allora dite di sì anche a tutta la sofferenza. Tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate […]. Ogni piacere vuole l’eternità di tutte le cose, vuole miele, vuole feccia, vuole

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mezzanotte ebbra, […] vuole il rosso orifiammante della sera. […] Perché ogni piacere vuole sé, perciò vuole anche sofferenza!”96.

Nietzsche, comunque, ci sprona ad amare la vita anche se essa ci mostra, a volte, solo quel suo lato doloroso e spiacevole. È come se, guardando un cielo plumbeo, non riuscissimo a scorgere la brillantezza delle stelle, ma fossimo consapevoli che, nascoste dalle nuvole, esse ci sorridono. È l’esistenza stessa che ci sollecita a non aver timore delle sue zone d’ombra, per gioire delle sue luci: “È vero io sono una foresta e una notte di alberi scuri: ma chi non ha paura delle mie tenebre, troverà declivi di rose sotto i miei cipressi”97.

96 97

F. Nietzsche, Così parlo Zarathustra, cit., pp. 336-337. Ibid., p. 122.

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Giacomo Rinaldi, La filosofia dei valori di Heinrich Rickert e l’autoconfutazione dell’epistemologia neokantiana* § 1. “Logica del predicato” e “dottrina delle visioni del mondo” nel pensiero dell’ultimo Rickert La posizione del pensiero di Heinrich Rickert (1863-1936) nella storia della filosofia contemporanea viene da lui definita con inequivocabile chiarezza in un saggio del 1924, interamente dedicato all’interpretazione e all’ulteriore sviluppo teoretico del Criticismo: Kant als Philosoph der modernen Kultur. Ivi egli ascrive al filosofo regiomontano un’importanza eccezionale ed irripetibile nell’intera storia della cultura europea, per ragioni di ordine così teoretico-sistematico che storico-culturale. Dal primo punto di vista, il merito fondamentale di Kant sarebbe quello di aver affermato (a differenza della Lebensphilosophie contemporanea, contro i cui maggiori rappresentanti – Kierkegaard, Nietzsche, Dilthey, Simmel e Spengler – Rickert polemizza aspramente)1 l’atemporale assolutezza della verità e dei cosiddetti * Questo saggio è il testo, riveduto ed ampliato, della relazione “Idealismo critico e Weltanschauung nella filosofia di Rickert”, da noi tenuta il 29 marzo 2007 presso l’Università di Urbino nell’ambito del Simposio “Heinrich Rickert e l’epistemologia neokantiana”. 1 Cf. H. Rickert, Die Philosophie des Lebens. Darstellung und Kritik der philosophischen Modeströmungen unserer Zeit, Tübingen, Mohr 19222 ; Id., Kant als Philosoph der modernen Kultur. Ein geschichtsphilosophischer Versuch, Tübingen, Mohr 1924, p. VIII, 6, 97; Id., Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, Heidelberg, Winter 1930, p. 19, n. 2.

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“valori ateoretici” (cioè estetici, etici, edonistici, mistici e religiosi), evitando, nel contempo, di incorrere nell’errore filosofico che, a suo giudizio, inficia l’intera storia della metafisica occidentale, cioè l’indebita identificazione del principio del valore con quello della realtà e la non meno illecita riduzione dei valori ateoretici al valore teoretico della verità. Dal secondo punto di vista, la filosofia kantiana sarebbe la sola in grado di fornirci l’adeguato principio esplicativo della genesi e della struttura della cultura dell’Età moderna (che secondo Rickert non si distingue essenzialmente da quella del XX secolo). Egli ritiene, infatti, che i valori, ad onta della loro intrinseca irrealtà ed eternità, si realizzino ciò nondimeno nella storia della civiltà umana, che per lui si risolve senz’altro (con la significativa eccezione del Cristianesimo) nello sviluppo culturale dell’umanità europea e dello spirito “razionalistico” che la caratterizza. La pluralità irriducibile dei valori e delle loro possibili relazioni vicendevoli genererebbe e renderebbe intelligibile la corrispettiva molteplicità delle successive epoche fondamentali, in cui si articola la storia della cultura europea. Nella civiltà greca si realizzerebbe segnatamente il valore teoretico della verità; nel mondo romano quello etico-politico dello Stato di diritto; nel Cristianesimo originario (evangelico) quello dell’amore personale “irrazionale”. La civiltà medievale sarebbe caratterizzata dal tentativo di attuare una sintesi degli accennati valori, il cui fondamento verrebbe riposto in un’autorità ad essi “esterna”, quella della Chiesa cattolica. L’Età moderna, infine, che inizia coi movimenti culturali del Rinascimento e della Riforma, sarebbe contraddistinta dalla “ribellione” contro il principio medievale dell’autorità esterna, e rivendicherebbe, in opposizione ad esso, l’originaria autonomia, indipendenza e separazione delle tre sfere assiologiche accennate, che in essa si configurerebbero, più precisamente, come la scienza fisico-matematica della natura, il principio etico-politico dello Stato nazionale e sociale, e la religiosità radicalmente individualistica ed “irrazionale” del protestantesimo (almeno secondo la discutibile interpretazione di Schleiermacher, da lui accolta senza riserve). Ad esso sarebbe affidato anche l’ulteriore compito, certamente di non facile soluzione, di realizzare una “unità ultima” della cultura, che garantisca tuttavia il “rispetto” della reciproca autonomia degli stessi valori teoretici ed etici. Ciascuna di queste epoche storiche, ora, non si limiterebbe ad elaborare il valore fondamentale da essa privilegiato in rapporto ai mutevoli contenuti della vita individuale e sociale, ma produrrebbe anche una determinata autocoscienza della propria essenza, che non necessariamente avrebbe carattere filosofico, ma che solo nella filosofia conseguirebbe la sua forma più adeguata. Tale autocoscienza viene designata da Rickert col termine di Weltanschauung (intuizione o visione del mondo). Lo sviluppo storico della cultura europea verrebbe così ad articolarsi e a riflettersi in se stesso in una serie di differenti Weltanschauungen, e la filosofia della cultura (che per lui 158


coincide senz’altro con la stessa filosofia della storia) a configurarsi come una sorta di Weltanschauungslehre, cioè di “dottrina delle visioni del mondo”. La Weltanschauung adeguata all’Età moderna, conclude Rickert, potrebbe esser solo quella che è in grado di render giustizia all’autonomia ed eterogeneità essenziale dei valori teoretici, etici e religiosi, ma, nel contempo, di delineare anche un ordine ed una connessione sistematica tra essi. E tale sarebbe certamente il caso della filosofia kantiana, nella misura in cui essa, da un lato, pone a fondamento dell’analisi “trascendentale” dei valori teoretici, etici ed estetici tre “facoltà” dell’“animo” umano – la conoscenza, la volontà e il sentimento – che sono ritenute indeducibili da una più originaria unità; e, dall’altro, rivendica ciò nondimeno il “primato della ragion pratica”. Nel pensiero di Kant, e solo in esso, perverrebbe dunque a chiara e distinta espressione non solo l’essenza “eterna” della verità e dei valori ateoretici, bensì pure l’autocoscienza del mondo e della cultura moderna. L’interpretazione rickertiana del pensiero di Kant svolta nel saggio citato, tuttavia, non ha solo carattere apologetico: egli si sforza, infatti, di distinguere l’intima ispirazione teoretica del Criticismo, che approva incondizionatamente, dalla sua concreta realizzazione esteriore negli scritti di Kant, ch’egli giudica invece inadeguata e respinge nella misura in cui permarrebbero in essi evidenti residui della Weltanschauung “intellettualistica” dell’Illuminismo, che sarebbe definitivamente superata, e non verrebbe enfatizzata a sufficienza l’autonomia dei valori religiosi rispetto a quelli etici e, nell’ambito dei primi, la priorità assiologica dei loro elementi più radicalmente “irrazionali”, che sarebbero stati invece messi nel debito rilievo dalla romantica “teologia del sentimento” di Schleiermacher, in cui egli sembra senz’altro scorgere la più adeguata interpretazione mai storicamente elaborata dell’essenza della religione e, in particolare, del Cristianesimo. Sei anni dopo Rickert pubblicava il saggio Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, che non è meno illuminante del precedente per la comprensione della sua intera prospettiva filosofica. La prima delle due parti, in cui esso si articola, “Erster logischer Teil”, offre infatti un sommario ma esauriente profilo della sua concezione della logica (formale e trascendentale), nella quale si risolve, a suo giudizio, l’intera teoria della conoscenza. Nella seconda parte, “Zweiter ontologischer Teil”, egli sviluppa invece la sua concezione ”problematica” dell’ontologia e della metafisica, che è particolarmente interessante, perché oltre alla tradizionale metafisica platonica o “precritica” egli prende in considerazione anche la moderna ontologia fenomenologica di Husserl, Heidegger e Nicolai Hartmann, contro la quale egli svolge una tanto aspra quanto sommaria polemica. Crediamo si possa senza tema d’errore asserire che questi due scritti dell’ultimo Rickert, insieme alla quinta edizione del saggio Der Gegenstand der Erkenntnis 159


(1921), ci offrono una compiuta e affidabile esposizione delle principali tematiche teoretiche da lui trattate nell’intero corso della sua carriera accademica – l’epistemologia, la teoria dei valori, la filosofia della storia e l’ontologia –, consentendoci di identificare con chiarezza il carattere del suo pensiero filosofico e la sua collocazione nella storia del neokantismo e, più in generale, della filosofia contemporanea. Rickert contrappone esplicitamente la propria “dottrina dei valori” (Wertlehre) in primo luogo alle interpretazioni psicologistiche e fisicalistiche del Criticismo, che avrebbero il torto di confondere l’irrealtà atemporale dei concetti e dei valori con la fatticità psicologica della coscienza empirica, di privilegiare l’“Estetica” e l’“Analitica trascendentale” a spese della “Dialettica trascendentale”, della Critica della ragion pratica e della Critica del giudizio, e di cercare di risolvere, in un modo o nell’altro, il “pluralismo radicale” del genuino Criticismo in una inaccettabile forma di monismo materialistico o di evoluzionismo positivistico; in secondo luogo, all’irrazionalismo radicale della Lebensphilosophie, che negherebbe indebitamente l’assolutezza ed eternità dei valori; in terzo luogo, all’ontologia fenomenologica, che farebbe illecitamente ricorso all’intuizione pura quale sufficiente criterio di verità, dimenticando che quest’ultima è un “valore” che può realizzarsi solo nella sintesi predicativa del “giudizio logico”; e, infine, alla stessa dialettica speculativa di Hegel, cui Rickert rimprovera di servirsi indebitamente delle fondamentali acquisizioni gnoseologiche di Kant onde restaurare – contro l’intimo spirito della sua filosofia non meno che della “Weltanschauung moderna” – il “panlogismo” e l’“intellettualismo” tipici della metafisica greca. L’innegabile interesse storico-culturale, e per più d’un verso anche teoretico-sistematico, della prospettiva filosofica rickertiana ci sembra emerga già da questo sommario accenno delle sue tematiche fondamentali. Nel presente saggio cercheremo di offrire una risposta ai seguenti fondamentali interrogativi: l’interpretazione dichiaratamente “pluralistica” e “irrazionalistica” dell’Idealismo critico delineata da Rickert ne coglie effettivamente l’intimo spirito e verità, ed è, inoltre, in grado di costituire, com’egli dice, il saldo fondamento di una teoria della conoscenza e dei valori filosoficamente accettabile? La sua aspra critica della dialettica hegeliana ne mette in luce l’effettiva inconsistenza logica, o si fonda piuttosto su un radicale fraintendimento del suo contenuto teoretico, se non addirittura su una insufficiente conoscenza dei testi hegeliani? In che misura, infine, il risultato della nostra valutazione critica dell’epistemologia di Rickert può essere esteso all’intera prospettiva filosofica del neocriticismo?

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§ 2. Il “principio eterotetico” e i “limiti” della conoscenza L’assunto fondamentale dell’epistemologia di Rickert, che determina non solo lo specifico contenuto teoretico di tutte le tesi da lui formulate, bensì pure l’orientamento rigidamente analitico e classificatorio del suo metodo e “stile” filosofico, è il cosiddetto “principio eterotetico” o “eterologico”2, che viene così formulato nell’ultima pagina del suo saggio su Kant: Il principio critico o eterotetico, grazie al quale si può stabilire l’Uno e l’Altro, è intrinsecamente superiore al principio dialettico, o antitetico, che trasforma intellettualisticamente l’Altro in qualcosa di logicamente negativo, e così lo falsifica3.

Diciamo subito che questo supremo principio epistemologico rickertiano non appare per nulla convincente. Anzitutto, esso implica palesemente una concezione della forma logica dell’atto del conoscere, per cui esso si esaurisce nell’analisi o “scomposizione” (Zerlegung) di un sostrato X nei predicati a, b, c, ecc. Ora, tale elementare operazione analitica sta certamente alla base di ogni possibile descrizione o classificazione dei contenuti della coscienza empirica (siano essi intuizioni o concetti), ma è del tutto inadeguata – come fu giustamente osservato da Benedetto Croce –4 a render ragione dell’essenza dell’atto del conoscere, nella misura in cui questo esige categoricamente l’istituzione di una connessione delle differenze enucleate dall’analisi nella forma della “spiegazione” dei fenomeni o della “fondazione” della validità dei concetti. In entrambi i casi, la forma logica dell’atto del conoscere che le rende possibili non è già, come nel caso dell’“eterotesi”: “X è a, b, c, ecc.” (ad es.: “la rosa è rossa, liscia, profumata, ecc.”), bensì: “X è a perché Y è b” (ad es., “la pietra scotta perché il sole la riscalda”, o “il concetto della ‘finalità interna’ è valido perché è la soluzione delle contraddizioni inerenti in quelli della causalità meccanica e della finalità esterna”). Causa ed effetto, fondamento e fondato, mezzo e fine, ora, sono forme logiche non solo estrinsecamente differenti, ma anche e soprattutto essenzialmente opposte: la causa, il fine, il fondamento si distinguono infatti dall’effetto, dal mezzo, dal fondato, perché i primi sono determinazioni di 2

Cf. ivi, p. 120, 124, 231 n. “Das kritische oder heterotetische Prinzip, mit Hilfe dessen man das Eine und das A n d e r e feststellen kann, bleibt dem dialektischen oder antithetischen Prinzip, welches das positive Andere in ein logisch N e g a t i v e s intellektualistisch umdeutet und damit verfälscht, grundsätzlich überlegen” (Kant als Philosoph der modernen Kultur, cit., p. 214). 4 Cf. B. Croce, Il “sistema” del Rickert (1923), in: Id., Ultimi saggi, Bari, Laterza 1935, p. 325-31, qui 329; Id., La teoria dell’Utile, la casistica e la coscienza morale (1932), in: Id., Conversazioni critiche, Bari, Laterza 19512, p. 88-94: “Di un nuovo valore pratico segnalato dal Rickert”, qui 93-94. 3

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pensiero immediate, o meglio riflesse-in-sé-stesse; i secondi, invece, determinazioni di pensiero mediate, o riflesse-in-altro; e la relazioni logica tra immediatezza e mediazione, riflessione-in-sé-stesso e riflessione-in-altro, non è semplicemente quella della diversità estrinseca o appunto “eterotesi”, bensì quella dell’opposizione o unità dialettica degli opposti. D’altra parte, il puro concetto logico della “diversità” (Verschiedenheit), anche qualora sia considerato in sé stesso, indipendentemente cioè dalla cruciale funzione epistemologica che Rickert gli attribuisce, è privo di quella identità con sé, cioè consistenza e validità, che il senso comune e la riflessione dell’intelletto finito invece gli attribuiscono. A e B sono diversi, si afferma, in quanto ciascuno è identico a sé stesso (è quello che è) e differente dall’altro. Ma la diversità di A da B è essa stessa un concetto logico: essa è perciò identica a sé stessa, è la stessa sia in A che B, e inoltre è la stessa nella mente di tutti coloro che la teorizzano (altrimenti le tesi da essi formulate sarebbero meramente equivoche), e dunque è in sé stessa identica e differente da sé, e perciò A, in quanto diverso da B, è anche identico a B, e B, in quanto diverso da A, è anche identico ad A. Inoltre, A e B non solo sono diversi da altro, ma sono pure diversi da sé stessi. L’autoidentità di A e di B, infatti, non coincide col loro essere immediato, bensì implica la riflessione di tale essere immediato in sé stesso, e dunque la sua interna differenziazione, che viene logicamente espressa dalla proposizione: “A è identico a sé stesso” (la proposizione: “A è identico” è chiaramente incompleta, perché fa sorgere spontaneamente la domanda: “A che cosa?”). In quanto determinazione della riflessione, l’identità con sé di A e di B contiene dunque in sé stessa anche il momento della differenza, e si costituisce così come l’identità di identità e differenza. Ma questo non è altro che il concetto logico dell’opposizione, la quale, quando venga riferita, com’è inevitabile, al medesimo soggetto, eliminando l’immediata esteriorità dei suoi termini, trapassa nella contraddizione. Contrariamente, dunque, a quanto Rickert sostiene, già da questo astrattamente logico punto di vista l’essenza dell’atto del conoscere viene adeguatamente espressa non già dal principio eterotetico, bensì da quello dialettico, nella misura in cui questo riconosce, a differenza di quello, la necessaria immanenza della differenza, in quanto contraddizione, nell’identità5. 5 Osserva, a questo proposito, Richard Kroner, cui dobbiamo un’eccellente critica del principio eterotetico dal punto di vista della genuina dialettica speculativa: “Nicht Andersheit also, sondern Gegensätzlichkeit, nicht Heterothesis, sondern Antithesis, sind die Charaktere der Momente des Gegenstandes und des Denkens” (R. Kroner, Anschauen und Denken. Kritische Bemerkungen zu Rickerts heterothetischem Denkprinzip, in: “Logos”, vol. 13, 1924-25, p. 90-127, qui 110 [corsivo dell’A.]). Non meno eccellente è la sua interpretazione del pensiero di Rickert come una sorta di “empirismo trascendentale” (cf. ivi, p. 97), ch’egli pone a fondamento della sua critica del medesimo, che è certamente quanto di meglio la letteratura rickertiana abbia sinora prodotto.

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In secondo luogo, le categorie logiche che costituiscono il contenuto del principio eterotetico sono to on e to heteron, per usare la celebre terminologia del Sofista platonico, o, se vogliamo esprimerci con maggior precisione, il Qualcosa e l’Altro6. Ciò che tale principio afferma, come si è visto, è semplicemente che il Qualcosa non è l’Altro e, viceversa, che l’Altro non è il Qualcosa. Ciò è possibile, tuttavia, solo se sia il Qualcosa che l’Altro, oltre che essere differenti l’uno dall’altro, sono entrambi quello che sono, sono cioè identici a sé stessi. I momenti categoriali, che costituiscono i concetti sia del Qualcosa che dell’Altro, sono dunque l’identità con sé e la differenza da altro. Secondo il principio eterotetico, tuttavia, essi sono radicalmente differenti, ad onta dell’identità dei momenti categoriali che li costituiscono: in che cosa, dunque, consisterà il loro fundamentum distinctionis? Esso non può con ogni evidenza essere un ulteriore momento categoriale in essi immanente: sarà perciò soltanto il risultato di una riflessione ad essi esterna. X, ad es., è il Qualcosa perché, nel corso della mia percezione o riflessione, esso è il dato immediato da cui essa prende le mosse; Y, al contrario, è l’Altro perché esso diviene oggetto della mia coscienza solo dopo aver percepito X. Se io inizio il mio processo percettivo o riflessivo da Y invece che da X, esso diviene il Qualcosa, mentre X è l’Altro. Tutto ciò non significa, in verità, altro che la loro differenza è meramente relativa alla coscienza soggettiva, e che il principio eterotetico dev’esser perciò respinto nella misura in cui esso invece attribuisce indebitamente validità assoluta a tale differenza. In terzo luogo, secondo una celebre dottrina kantiana esposta nell’“Introduzione” alla Critica della ragion pura7, gli unici giudizi forniti di effettivo valore conoscitivo sono i giudizi sintetici a priori. Essi si distinguono dai giudizi sintetici a posteriori perché, mentre questi istituiscono una relazione meramente contingente tra soggetto e predicato, essi conferiscono invece alla loro connessione la forma della necessità a priori. In altre parole, la relazione espressa dai giudizi sintetici a posteriori è meramente “esterna”, quella espressa dai giudizi sintetici a priori è invece “interna”8. Ma qual è

6 Cf. Platone, Sophistes, 254d ss. Il termine to on, infatti, è un participio del verbo einai che può esprimere indifferentemente tanto l’Essere indeterminato quanto l’Essere determinato o, appunto, il Qualcosa. Questa differenza logica, sfuggita all’acume di Platone ma non a quello di Hegel, è di cruciale importanza per inficiare la critica rickertiana delle prime categorie della Logica hegeliana. Cf. infra, § 6. 7 Cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in: Kant’s gesammelte Schriften, Bd. III, hrsg. von B. Erdmann, Berlin 1911, “Einleitung”, p. 33-36 (B 10-14). 8 Nella storia del pensiero contemporaneo F.H. Bradley è certamente il pensatore cui si deve la più brillante e profonda teorizzazione dell’essenza delle relazioni esterne e della loro dialettica. Essa, tuttavia, trova un preciso riscontro e antecedente storico-filosofico nell’analisi hegeliana dei due opposti momenti categoriali che costituiscono il Qualcosa, cioè l’“Es-

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la differenza tra relazioni interne e relazioni esterne? Essa consiste palesemente nel fatto che le prime connettono in maniera inscindibile i termini tra cui vengono istituite: nel giudizio sintetico a priori “ogni cangiamento ha una causa”, ad es., io non posso rappresentarmi in concreto il concetto del cangiamento senza quello della causa, e viceversa. Nel caso delle relazioni esterne – ad es., la contiguità spazio-temporale dei dati sensibili o la somma meccanica degli elementi di un aggregato9 –, al contrario, i termini tra cui esse sussistono possono essere ed essere pensati prima e indipendentemente dalla loro relazione. Ora, il principio eterotetico, affermando l’assoluta autonomia e indipendenza sia del predicato rispetto al soggetto nel giudizio logico, sia dei quattro “predicati conoscitivi” (Erkenntnisprädikate) distinti dalla sua teoria del giudizio, sia delle diverse sfere assiologiche (logica, etica, estetica, edonistica, mistica, religiosa) descritte dalla sua filosofia dei valori (cf. infra, § 4), istituisce con ogni evidenza tra essi una mera relazione esterna, e dunque una sintesi a posteriori, che – proprio come ci ha insegnato Kant! – è come tale priva di validità oggettiva, e perciò di valore scientifico, sì che la sua elevazione a principio ultimo del nostro conoscere proposta da Rickert non può aver altro risultato, se attuata in maniera conseguente, che quello di degradar tutti i giudizi da lui affermati a meri giudizi sintetici a posteriori, cioè empirici, e così di minarne alla radice l’intrinseca verità10. sere-in-sé” (Ansichsein) e l’“Essere-per-altro” (Sein-für-Anderes). Cf. F.H. Bradley, Appearance and Reality: A Metaphysical Essay, Oxford, Clarendon Press 197817, p. 21-29; e G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in: Id., Werke in 20 Bänden, Frankfurt a. M. 1969-71, Bd. 1, p. 125-39. Per una sommaria valutazione critica della logica e della metafisica di Bradley nella storia dell’Hegelismo contemporaneo cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, Lewiston, NY, The Edwin Mellen Press 1992, § 54. 9 L’inveterata propensione di Rickert a risolvere il giudizio logico, e con esso la totalità dell’essere e del conoscere, in un mero aggregato di parti indipendenti emerge con la massima chiarezza nella sua introduzione alla teoria del giudizio delineata nella Logik des Prädikats. In essa egli distingue la sua forma logica dalla sua esteriore espressione linguistica, ed entrambe, che sono oggetti trascendenti della coscienza, dall’atto psichico in virtù del quale essi vengono consaputi da un soggetto individuale. Nonostante la radicale differenza tra questi tre elementi della conoscenza, esisterebbe tuttavia una peculiare simmetria tra essi, perché proprio come il giudizio logico sarebbe “composto” di soggetto, copula e predicato, così l’espressione linguistica sarebbe “composta” di altrettante “parole” (Worte) e l’atto psichico di altrettante “rappresentazioni” (Vorstellungen). Cf. Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 32-47. 10 Alla medesima conclusione giunge Richard Kroner nella sua ammirevole critica della teoria rickertiana del giudizio logico: “Wenn sich die empirische Synthesis von logischer Form und alogisch-sinnlichem Inhalte nur empirisch erkennen, nicht aber logisch denken ließe, so hätten die Worte Synthesis von logischer Form und alogisch-sinnlichem Inhalte keinen logischen, d. h. aber überhaupt keinen Sinn! Das ganze Unternehmen der transzendentalen Logik wäre […] durch eine solche Problem-”Lösung” zum Tode verurteilt, die Logik spräche sich damit selbst ihr Daseinsrecht ab und vernichtete durch denselben Akt, in dem sie zu ihrer Erkenntnis käme, sich selbst” (R. Kroner, Anschauen und Denken, cit., p. 120).

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Questa difficoltà è così cruciale ed evidente che Rickert stesso infine mostra di esserne divenuto consapevole11. Dopo aver identificato, con Kant, il soggetto del giudizio logico col molteplice dell’intuizione sensibile e il predicato col concetto più “semplice”, cioè assolutamente universale, e dopo aver avallato la concezione kantiana, secondo cui essi derivano da fonti conoscitive radicalmente differenti e indipendenti, egli si chiede come essi possano ciò nondimeno essere identificati dalla copula. Come e perché sotto l’assoluta universalità del predicato, che come tale è indifferente rispetto a qualsiasi determinazione particolare, viene sussunto un determinato dato intuitivo piuttosto che un altro? Rickert risponde che la ragione di ciò sta nel fatto che il molteplice dato nell’intuizione può essere suddiviso in differenti “gruppi” (Gruppen, ivi), uno solo dei quali può essere identificato dalla copula con un determinato predicato. Dunque, se soltanto il gruppo A può essere sussunto sotto il predicato B, e se il dato intuitivo z, a differenza di a, non rientra nel gruppo A, allora il corrispondente giudizio logico sarà negativo: “z non è B”. Opposto è ovviamente il caso di a, la cui appartenenza al gruppo A consente la formulazione del giudizio affermativo: “a è B”. Ma in base a quale criterio il molteplice dell’intuizione sensibile può essere unificato in tali gruppi? Evidentemente non potrà trattarsi che di un criterio empirico, perché per Rickert (a differenza di Kant!)12 i predicati logici esauriscono la sfera della conoscenza a priori e il soggetto del giudizio è ritenuto radicalmente diverso da essi. Ma un criterio empirico può come tale rendere possibile solo una sintesi a posteriori del molteplice nel soggetto del giudizio, e così degradare l’intera conoscenza – nella misura in cui essa consta di 11

Cf. Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 143. Kant, infatti, assai più ragionevolmente di Rickert, articola il fondamento della relazione tra i concetti universali e le intuizioni empiriche in forme gnoseologicamente assai più concrete quali le intuizioni pure dello spazio e del tempo, l’immaginazione produttiva e gli schemi trascendentali (cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 29-42 [B 19-41] e 98105 [B 137-43]) e, nella prima edizione della Critica della ragion pura, anche le sintesi dell’apprensione, della riproduzione e della ricognizione (cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft. Erste Auflage, in Kant’s gesammelte Schriften, Bd. III, hrsg. von B. Erdmann, Berlin 1912, p. 77-83 [98-110]), che, pur essendo funzioni a priori del conoscere, hanno tuttavia un contenuto determinato, nel quale in qualche modo si unificano l’immediata particolarità dell’intuizione e l’assoluta universalità del concetto puro. In altri termini, laddove è possibile discernere nel pensiero kantiano per lo meno la tendenza verso una concezione del concetto puro come “universale concreto”, Rickert procede invece ad eliminare programmaticamente qualsiasi elemento anche solo potenzialmente “speculativo” dell’Idealismo critico, tornando assurdamente a ribadire l’esclusiva validità degli universali astratti o dei concetti di genere della più deteriore Scolastica. Anche questo limite del pensiero di Rickert viene colto ottimamente da Kroner, che fa tuttavia riferimento ad una diversa versione della teoria del principio eterotetico, già svolta da Rickert nel saggio System der Philosophie. Erster Teil: Allgemeine Grundlegung der Philosophie, Tübingen, Mohr 1921. Cf. R. Kroner, Anschauen und Denken, cit., p. 104-05. 12

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giudizi logici, e la sussunzione del soggetto sotto il predicato è in essi sempre e solo particolare e contingente – a mera conoscenza empirica, vanificando in tal modo la pretesa, per contro enfaticamente avanzata da Rickert in polemica contro il relativismo e lo storicismo, alla validità assoluta, universale, necessaria a priori dei giudizi di cui essa consta. Infine, il principio eterotetico, nell’atto stesso che afferma l’autoidentità e l’eterogeneità di X e di Y, pone inevitabilmente anche un limite tra essi: l’essere e la validità di X iniziano dove finiscono l’essere e la validità di Y, e viceversa. Com’è noto, l’incondizionata sussunzione dell’intera sfera della ragione umana sotto la categoria del Limite è stata esplicitamente formulata, prima ancora che da Rickert, dallo stesso Kant, e costituisce indubbiamente una delle caratteristiche più peculiari dell’Idealismo critico. Ciò non esclude, tuttavia, che una più profonda analisi logica di tale categoria ne possa agevolmente mostrare l’intima contraddittorietà. Il risultato ineluttabile del suo puro sviluppo immanente è quello di contrapporre alla sfera del conoscibile un “altro radicale”, un “al di là” (Jenseits) che, nella misura in cui trascende il limite costitutivo della ragione finita, è per principio inconoscibile. Tale sarebbe segnatamente il caso, secondo Rickert, non solo dell’“essere soprasensibile” o del “vero essere” della metafisica platonica e precritica, ma anche dell’Essere-Nulla teorizzato dall’ontologia heideggeriana (cf. infra, § 6). Ma non è evidente che, se esso fosse veramente inconoscibile, io non potrei neppure sapere che al di là del limite qualcosa esiste realmente (in qualsiasi possibile accezione, logica od ontologica, dell’espressione “esistere realmente”); e, viceversa, che, onde potermi accertare dell’effettiva esistenza di tale “al di là”, io debbo trascendere il limite, ossia negare la sua pretesa alla validità assoluta? D’altra parte, la funzione gnoseologica peculiare del principio eterotetico è quella di distinguere, anzi di separare, la sfera d’essere di X da quella di Y: la stessa filosofia, secondo Rickert, non sarebbe altro che una Scheidekunst13, cioè l’“arte di distinguere”, e perciò contro il monismo materialistico egli non esita a sottolineare il carattere “dualistico” di ogni vera filosofia14. X, dunque, è e si distingue da Y in virtù del limite in esso immanente. Ma – dobbiamo a questo punto chiederci – il limite, mediante il quale X viene separato da Y, inerisce esclusivamente ad X o a Y? Ciò è palesemente impossibile, perché il 13

Cf. Kant als Philosoph der modernen Kultur, cit., p. 182. In realtà, il preteso “dualismo” epistemologico di Rickert (cf. Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 94, 105-06 e 124) è più un “pluralismo radicale”, com’egli anche denomina la sua filosofia (cf. ivi, p. 169), che un vero e proprio dualismo, perché il principio eterotetico, come si è visto, implica la subordinazione della stessa categoria dell’opposizione, tipica di ogni vero dualismo, a quella della diversità estrinseca, che è invece il principio fondamentale di ogni concezione pluralistica, e non già dualistica, del mondo. 14

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limite che separa (o meglio: dovrebbe separare) X da Y è unico, e perciò è comune ad entrambi. In virtù del loro limite, dunque, X e Y, lungi dal distinguersi, si identificano in realtà l’uno con l’altro. Contrariamente a quanto pretende il principio eterotetico, dunque, essi non sono solo diversi, ma anche, e nel contempo, identici. Di conseguenza, l’intima essenza della loro relazione può essere adeguatamente espressa proprio e solo da quel principio dialettico, a torto rifiutato da Rickert, che considera invece i differenti come in ultima istanza opposti, e l’opposizione come, in verità, una contraddizione. Esaminando attentamente la sua teoria del giudizio, tuttavia, si può osservare che lo stesso Rickert, ad onta della sua elevazione del principio eterotetico a fondamento ultimo della conoscenza, finisce in realtà per violarlo lui stesso, e nella maniera più flagrante, senza peraltro mostrare di esserne minimamente consapevole. Dopo aver infatti distinto nel giudizio logico i suoi tre elementi essenziali, il soggetto, la copula e il predicato, egli afferma, a proposito della copula, che essa “tanto separa quanto connette soggetto e predicato”15. Ma non è chiaro che l’atto del separare, cioè del distinguere A da B, affermando che “A non è B”, è l’esatto opposto contraddittorio dell’atto del connettere, cioè dell’identificare A e B, asserendo invece che “A è B”? E che, di conseguenza, ogni giudizio affermativo è già “in sé” un giudizio negativo, e che lo stesso giudizio logico, in cui secondo Rickert si risolve l’essenza di ogni possibile conoscere, è per l’appunto quella contraddizione posta (e nel suo ambito non risolta!) che il principio eterotetico voleva invece espungere radicalmente dall’ambito della conoscenza vera? Com’è possibile continuare a rivendicare, a questo punto, il primato logico del principio eterotetico rispetto al principio dialettico, visto che esso non è neppure in grado di dar ragione dell’elementarissima funzione logica della copula?

§ 3. Il “soggetto epistemologico” e il “paradosso” dell’autocoscienza Anche l’analisi rickertiana del “soggetto epistemologico” (erkenntnistheoretisches Subjekt) o della “coscienza-in-generale” (Bewusstsein überhaupt), ch’egli, come già Kant, a ragione ritiene elemento costitutivo fondamentale e imprescindibile di ogni possibile conoscenza, si attiene strettamente al principio eterotetico, e non v’è perciò da sorprendersi che la teoria da lui a tale proposito elaborata non solo riesca gnoseologicamente del tutto

15

“Subjekt und Prädikat sowohl trennt als auch verbindet” (ivi, p.149).

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sterile e inconsistente, ma contraddica altresì, per più di un verso, alle acquisizioni più sottili e profonde della corrispettiva teoria kantiana dell’“unità sintetica originaria dell’appercezione”, in cui è verosimilmente da scorgersi il culmine speculativo dell’intero Idealismo critico. X è diverso da Y. Dunque, anche nella sfera immanente della coscienza individuale dobbiamo distinguere due elementi originariamente eterogenei: la molteplicità dei dati psichici o rappresentazioni sensibili (X), da un lato, e l’unità della “coscienza-in-generale”(Y), dall’altro. I primi sono fatti immediatamente certi (o meglio: gli unici fatti immediatamente certi a noi noti), si susseguono nella temporalità della coscienza individuale e la loro modalità ontologica è quella della realtà effettiva. La coscienza-in-generale, al contrario, è l’oggetto di un concetto meramente ”formale”, e la sua modalità ontologica, nella misura in cui essa è “altra” dai dati psichici, è quella della mera possibilità o validità “irreale”. D’altra parte, noi diveniamo consapevoli delle nostre rappresentazioni e della loro differenza dalla coscienza-in-generale mediante un atto di autocoscienza, in cui la soggettività del nostro conoscere diviene oggetto a sé stessa. Ma soggetto ed oggetto (proprio come X e Y) sono concetti diversi, e perciò l’asserzione della loro identità, che è implicitamente contenuta nel concetto dell’autocoscienza, contiene palesemente in sé una contraddizione – o, come Rickert si esprime, un “paradosso”16 –, ch’egli quindi procede a risolvere, come di consueto, “scomponendo” (ivi, p. 34-36) tale concetto in due diverse “parti”, che vengono rispettivamente identificate col soggetto e con l’oggetto dell’atto dell’autocoscienza. Il suo oggetto immediato è l’io empirico in quanto ente psicofisico. Mediante un’ulteriore “scomposizione” di quest’ultimo concetto, tuttavia, può divenire oggetto dell’autocoscienza un diverso concetto di coscienza, quello per cui essa coincide con la serie dei suoi dati psichici o contenuti immanenti passati. Il soggetto che li rende oggetto, d’altra parte, è immediatamente anch’esso un fatto psichico, ma è, a differenza di essi, presente. Scomponendo anche quest’ultimo concetto, tuttavia, è possibile distinguere in esso un momento oggettivo residuo, cioè il contenuto del dato psichico presente, e una pura forma soggettiva, che non può esser resa a sua volta oggetto di ulteriori atti di autocoscienza, scomposizione o generalizzazione. Essa coincide appunto col “soggetto epistemologico” o “coscienza-in-generale”, che, dunque, non solo è una mera astrazione irreale, ma anche nulla più che una forma assolutamente vuota: la pura soggettività di un Io che non può esser per principio “oggettivato”, e che perciò è, a rigore, ineffabile. Il paradosso dell’autocoscienza si risolve dunque, per Rickert, negando che il suo oggetto

16 H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntis. Einführung in die Transzendentalphilosophie, Tübingen, Mohr 19215, p. 38-39.

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coincida col suo soggetto: il primo è un fatto psichico temporale e singolare, il secondo una vuota forma universale. L’intima inconsistenza della concezione rickertiana della coscienza-ingenerale – cui, tuttavia, non è difficile trovare precisi e illustri riscontri nella filosofia del XX secolo, basti pensare alla concezione husserliana della “coscienza pura” esposta in Idee I –17 può esser agevolmente resa manifesta da un’analisi della relazione soggetto-oggetto, che, prendendo le mosse dal rilievo dell’insuperabile contraddittorietà dei concetti così del puro, astratto oggetto che del puro, astratto soggetto, la cui affermativa autoidentità viene 17 Cf. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch, den Haag, M. Nijhoff 1950, § 49; e, per una critica immanente della teoria husserliana della “coscienza pura” o “assoluta”, G. Rinaldi, Critica della gnoseologia fenomenologica, Napoli, Giannini 1979, cap. 5, p. 171-185. La differenza essenziale tra il soggetto epistemologico di Rickert e la coscienza pura di Husserl è che, mentre quest’ultima sarebbe una “sfera d’essere” cui inerisce, analogamente al cogito cartesiano, il predicato della realtà effettiva, il primo, non diversamente dai valori e dai significati ideali, sarebbe solo una astrazione “irreale”, che si giustappone alla fatticità psicologica dell’io empirico, in cui si risolverebbe senza residuo la realtà dell’autocoscienza. Non sorprende, perciò, che il neokantiano ortodosso Paul Natorp abbia potuto rimproverare a Husserl l’errore di concepire la coscienza pura come una realtà effettiva, laddove essa sarebbe in verità soltanto un “irreale” ideale regolativo della conoscenza. Cf. P. Natorp, Husserls “Ideen zu einer reinen Phänomenologie”, in: “Logos”, VII, 1918; e G. Rinaldi, Critica della gnoseologia fenomenologica, cit., p. 254-56, n. 160. Il limite gnoseologico insuperabile che i due concetti condividono è che entrambi sono concepiti come mere forme vuote, la cui astratta universalità dev’essere “riempita” da un contenuto iletico o trascendente che esse non pongono, bensì presuppongono, sì che la loro pretesa universalità scade in realtà a mera particolarità, e la loro specifica funzione nel processo del conoscere rimane indeterminata. Dalla teoria rickertiana dell’inoggettivabilità della coscienza-in-generale dev’essere invece accuratamente distinta la teoria gentiliana dello spirito come atto puro “inoggettivabile” ed “immoltiplicabile” (cf. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano, Garzanti 1991, p. 462-65 e 481-86). Lungi, infatti, dall’essere una mera astrazione irreale, l’Io trascendentale teorizzato da Gentile non solo è “reale”, bensì è l’unica realtà, la realtà assoluta, in cui la molteplicità dei “fatti” fisici e psichici viene “assorbita”. E perciò non è neppure una forma vuota, bensì è l’assoluto principio creatore di ogni possibile fatticità, molteplicità, oggettività. Esso è perciò sia soggetto che oggetto, è l’unità assoluta di entrambi, e nell’atto dell’autocoscienza la soggettività dell’Io trascendentale diviene oggetto a sé stessa. Nel processo di oggettivazione dello spirito a sé stesso, tuttavia, esso può divenire oggetto a sé stesso solo come fatto, cioè come molteplicità, e quindi come immediata negazione di sé, non già come atto, cioè come soggetto, e quindi come affermazione infinita: in tal senso, dunque, l’atto puro del pensare è “inoggettivabile” ed “immoltiplicabile”. In altre parole, Gentile concepisce l’oggettivazione dello spirito sempre e solo come atto di alienazione da sé; e rimane perciò da chiedersi se tale (legittimo) concetto dell’oggettivazione non debba essere tuttavia integrato – proprio al fine di rendere logicamente possibile una teoria generale dello spirito come atto puro! – da un diverso concetto dell’oggettivazione quale positiva esplicazione o realizzazione di sé. Cf., a questo proposito, G. Rinaldi, L’idealismo attuale tra filosofia speculativa e concezione del mondo, Urbino, QuattroVenti 1998, p. 93-97.

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per contro dogmaticamente presupposta da Rickert, mostri per contro come l’opposta concezione del conoscere come unità o identità originaria di soggetto ed oggetto sia non solo in sé possibile e pensabile, bensì sia l’unica realmente concepibile. Il concetto del puro oggetto, anzitutto, è in sé e per sé contraddittorio, perché, onde poter essere anche solo ipoteticamente “pensato”, esso dev’essere in ogni caso trasformato in un contenuto immanente della coscienza, e dunque posto in relazione con essa; il che è per principio impossibile se l’oggetto è puramente identico a sé stesso, e quindi come tale esclude ogni possibile relazione-ad-altro, ivi compresa, dunque, quella stessa al soggetto conoscente. D’altra parte, il concetto della soggettività pura, assolutamente identica a sé stessa, è inevitabilmente – come, del resto, lo stesso Rickert apertamente ammette – quello di una forma di coscienza inoggettivabile ed ineffabile. Una siffatta forma, tuttavia, è in realtà impossibile ed impensabile, perché nel momento stesso in cui io formulo il giudizio: “la coscienza assoluta è inoggettivabile ed ineffabile”, in realtà la rendo oggetto di quell’atto logico-predicativo della mia coscienza che è il giudizio in cui viene contraddittoriamente affermata (e linguisticamente espressa!) la sua presunta inoggettivabilità ed ineffabililità. A questa palese antinomia implicita nella teoria dell’autocoscienza Rickert cerca di replicare18 distinguendo, ancora una volta, tra il concetto della coscienza-in-generale, che sarebbe senz’altro oggettivabile e che solo diverrebbe oggetto del detto giudizio, e l’identità con sé, ossia la pura essenza, di tale coscienza, che rimarrebbe ciò nondimeno inoggettivabile ed ineffabile. Tale soluzione, in realtà, è puramente illusoria, perché il concetto della coscienza-in-generale formulato in tale giudizio ha effettiva validità gnoseologica solo se è un concetto vero, e il concetto vero si distingue da quello falso (o inadeguato), perché il suo contenuto logico coincide col suo oggetto reale: oggettivando il vero concetto della coscienza assoluta, dunque, io in realtà oggettivo anche la sua presunta inoggettivabile identità con sé19. Ma v’è di più. La soluzione ric-

18

Cf. Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., pp. 48–49. A questo nostro argomento Rickert potrebbe replicare che esso presuppone il concetto “tradizionale” della verità come adaequatio rei et intellectus, che sarebbe stato tuttavia confutato e superato dalla “rivoluzione copernicana” di Kant, che concepirebbe invece la verità come un mero predicato “irreale” del giudizio. L’esiziale errore di Rickert a questo proposito, che, tra l’altro, gli rende impossibile comprendere la deduzione hegeliana del Divenire dall’Essere e dal Nulla (cf. infra, § 6), è quello di confondere il tradizionale (più precisamente: tomistico) concetto della verità come adeguazione della rappresentazione soggettiva dell’uomo ad un oggetto (naturale o divino) trascendente, che è senz’altro trivialmente contraddittorio e perciò falso (cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità. Filosofia della religione e metafisica dell’essere, Roma, Aracne Editrice 2010, Parte III, cap. 1, pp. 571–85), con l’opposta concezione hegeliana della verità come identità del concetto e della realtà in esso immanente e da esso generata (cf. infra, § 4, n. 35), la cui plausibilità e necessità è una diretta 19

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kertiana del presunto paradosso dell’autocoscienza mediante la sua “scomposizione” in due diverse “parti”, quella oggettivabile e quella inoggettivabile, contraddice, anzitutto, all’essenziale “semplicità”, o meglio organica totalità, della coscienza in quanto tale, che proprio e solo in virtù di tali predicati si distingue – com’è, del resto, il caso di ogni essere vivente – dall’infinita molteplicità e frammentarietà delle cose materiali e delle loro relazioni meccaniche. Inoltre, la parte organica di un tutto è impossibile e impensabile ove si prescinda dalla sua posizione e funzione all’interno della Totalità, la cui conoscenza, perciò, precede e rende originariamente possibile quella della parte. Secondo Rickert, al contrario, solo una parte dell’autocoscienza sarebbe di volta in volta conoscibile, e inoltre sempre e solo come oggetto, mai come soggetto – il che, in verità, lungi dal rendere intelligibile la possibilità dell’autocoscienza, significa piuttosto minarla alla radice, contraddicendo, inoltre, e nella maniera più flagrante, al suo riconoscimento della plausibilità della fondamentale tesi hegeliana che “la verità è il Tutto”20 e al suo tentativo di riabilitare la problematica dell’ontologia come “dottrina dell’’essere’ del mondo nella sua totalità”21. Infine, la sua riduzione della coscienza-in-generale a un’astratta forma vuota (cui fa perfetto riscontro, nella sua filosofia della cultura, la riduzione della stessa filosofia a una mera Weltanschauungslehre, cioè a uno schema formale indeterminato), la quale dovrebbe tuttavia costituire, nel contempo, il “fondamento logico” dell’intera conoscenza umana, avvolge la sua teoria epistemologica in tutta una serie di ulteriori difficoltà, che qui possiamo solo accennar sommariamente. In primo luogo, se la coscienza-in-generale non fosse altro che una forma vuota, sarebbe impossibile indicare qualsivoglia fundamentum distinctionis tra il suo concetto e le non meno vuote nozioni analitiche (logico-formali) dell’Essere (indeterminato), del “Qualcosa-in-generale” o addirittura del “Nulla”, dalle quali Rickert intende invece, a torto, distinguerla nettamente, nella misura in cui attribuisce ad essa una rilevanza epistemologica effettiva22. In secondo luogo, l’unificazione del molteplice immediatamente dato è possibile solo se esistono principi o regole determinate della sua unificazione (proprio come le categorie, i principi dell’intelletto puro e gli schemi trascendentali dedotti da Kant nell’“Analitica trascendentale”). Di conseguenza, la vuota formalità della coscienza-in-generale, escludendo da sé

implicazione del fondamentale principio logico-metafisico dell’identità assoluta del pensiero e dell’essere, anch’esso a torto respinto da Rickert come già da Kant. 20 Cf. Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 19. 21 “Lehre vom „Sein“ der Welt in ihrer Totalität” (ivi, p.164). 22 Un’analoga objezione alla teoria rickertiana del soggetto epistemologico fu avanzata da B. Christiansen, e la replica di Rickert si limita a ribadire dogmaticamente la validità della sua teoria. Cf. Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., p. 49-52.

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ogni possibile determinazione, non può neppure fornirci le regole indispensabili per effettuare la detta unificazione, ed è perciò, nel migliore dei casi, gnoseologicamente affatto sterile. A questo proposito ci sembra significativo ricordare che, in un illuminante passo del § 16 della “Deduzione trascendentale delle categorie”, Kant distingue acutamente tra l’“unità analitica” e l’“unità sintetica” dell’“appercezione”, cioè dell’autocoscienza, e nega perentoriamente il valore gnoseologico della prima, identificando, in maniera diametralmente opposta a quanto farà poi Rickert, solo nella seconda il “principio supremo di tutta la conoscenza umana”! Infine, anche la sua contrapposizione della “realtà” dei fatti psichici all’“irrealtà” della coscienza-in-generale, sebbene ad essa non manchi certamente qualche riscontro nell’esperienza immediata dell’autocoscienza empirica e nella stessa epistemologia kantiana, può esser facilmente messa in questione osservando, da un lato, che il fatto psichico, ad onta della sua immediata certezza, non è in verità altro che un’inconsistente apparenza, nella misura in cui è un contenuto dell’intuizione a priori del tempo, che – Kant docet! – è solo uno schema ideale, soggettivo, privo di vera realtà. Dall’altro, come già Cartesio comprese assai meglio di Rickert, il concetto della coscienza-in-generale è affatto inscindibile dalla posizione della sua esistenza effettiva. Per quanti sforzi io faccia, infatti, onde scindere l’idea dell’ego cogito da quella della sua realtà, e di concepir la prima alla stessa stregua di ogni altra rappresentazione di un oggetto che non implica la posizione della sua esistenza (ad es., un triangolo o un cavallo), e la seconda come una mera molteplicità empirica priva dell’unità logica dell’autocoscienza, debbo infine riconoscere la loro inanità: io posso infatti scindere l’idea dell’Io penso dalla sua realtà solo in virtù di un atto di astrazione, che in quanto spontaneo e riflessivo è certamente una funzione logica del pensare, ma in quanto atto è una determinazione reale, effettivamente esistente e presente (in senso extratemporale) dell’autocoscienza, che non può perciò esser sensatamente ridotta a una mera irreale astrazione. Si deve perciò riconoscere a Benedetto Croce il merito di aver pienamente compreso la cruciale, e filosoficamente disastrosa, implicazione della riduzione rickertiana dell’autocoscienza a vuota forma logica, e cioè la negazione dell’assoluta realtà e verità dello “spirito”, che non è infatti altro che il compiuto sviluppo e realizzazione storica del concetto del “soggetto epistemologico”: E perché […] il Rickert rimane prigioniero di cotesta logica classificatoria? Perché egli non ha approfondito il concetto dello Spirito, contro il quale battaglia in tanta parte del suo libro. […] lo Spirito è la negazione della realtà di quelle due cose che il pensiero naturalistico finge realtà: i fatti fisici e i fatti psichici;

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ed è, esso, tutta la realtà, l’unica realtà, ed è insieme valore, giacché sarebbe un bel caso che proprio quel che vale non avesse realtà23.

§ 4. La teoria del giudizio e il concetto del valore A differenza dell’unità sintetica originaria dell’appercezione di Kant, la coscienza-in-generale di Rickert non è dunque in grado di svolgere la sola funzione gnoseologica che potrebbe legittimarne l’esistenza, cioè la produzione dell’unità sintetica del molteplice, e quindi la fondazione della validità della conoscenza oggettiva. Tale funzione, tuttavia, non può neppure esser plausibilmente svolta dalla percezione sensibile, da un lato perché, Rickert giustamente osserva, è per principio impossibile accertare la corrispondenza tra le sue rappresentazioni e la presunta realtà trascendente dell’oggetto fisico da esse rappresentato; dall’altro, perché il suo contenuto immanente si risolve in una serie di dati psichici singolari, mutevoli ed eterogenei, privi dunque dei predicati essenziali della verità o validità oggettiva, cioè l’universalità, la necessità a priori e l’atemporale identità. L’unificazione del molteplice dato nell’intuizione sensibile può esser perciò effettuata solo da una diversa funzione della coscienza, che Rickert identifica con quella del giudizio. Conformemente, ancora una volta, al principio eterotetico, la sua teoria del giudizio procede anzitutto a “scomporne” l’essenza in tre elementi costitutivi fondamentali: 1. l’espressione linguistica, mediante cui esso si oggettiva nel mondo “empirico” e viene comunicato ad altri individui “psicofisici”; 2. la sua pura forma logica, che è invece un’irreale “formazione di senso” (Sinngebilde); e infine 3. la sua verità, che è un “valore”, anch’esso “irreale”, concernente la relazione del giudizio col suo oggetto24. 23 B. Croce, Il “sistema” del Rickert, cit., p. 329. Il “libro” di Rickert, cui egli si riferisce, è il System der Philosophie. Erster Teil: Allgemeine Grundlegung der Philosophie, cit. 24 Cf. Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 47-56. Nel precedente saggio Der Gegenstand der Erkenntnis Rickert aveva invece articolato la tripartizione della sua teoria del giudizio nella maniera seguente: 1. l’“atto reale del giudizio” (realer Urteilsakt), concepito come un fatto psichico temporale e individuale; 2. il suo “senso immanente” (immanenter Urteilssinn), ossia la sua forma logica peculiare, che è invece una “formazione di senso” irreale; e infine 3. il suo “contenuto oggettivo” (objektiver Gehalt), cioè lo stato-di-cose giudicato nel giudizio, che è anch’esso una formazione irreale di senso, più precisamente un “oggetto trascendente” (cf. Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., p. 14246). La modificazione è chiaramente motivata dal desiderio dell’ultimo Rickert di approfondire ulteriormente il “dualismo” tra l’essenza objettiva del giudizio e l’atto soggettivo dell’Io autocosciente: laddove nel caso dell’atto psichico reale esso potrebbe esser facilmente “confuso” con la forma logica del giudizio a causa del comune carattere “spirituale” (geistig), ciò non sarebbe invece possibile nel caso dell’esistenza “corporea” dell’espressione linguistica. Il proton pseudos che Rickert intende in tal modo mediante la sua teoria della conoscenza estirpare, non è dunque altro – come Croce già aveva acutamente osservato (cf. supra, p. 15

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La forma logica del giudizio coincide senz’altro, secondo Rickert, con l’aristotelico logos apophantikos; i suoi elementi costitutivi saranno perciò il soggetto (singolare), la copula e il predicato (universale), tra i quali esso istituisce una relazione che può essere affermativa o negativa, e che inoltre può esser vera o falsa, nella misura in cui ad essa viene riconosciuto o negato il valore della verità. Per Rickert, infatti, il giudizio è una funzione attiva della coscienza, analoga, per questo verso, alla volontà, e la verità del giudizio può esser perciò considerata anche come lo scopo o il “valore” che tale atto mira a realizzare. Egli, tuttavia, distingue anche il valore “teoretico” della verità, che è lo specifico oggetto della scienza e della filosofia, dal concetto generale del valore, nel cui ambito rientrerebbe infatti, oltre ad esso, anche una pluralità immediata e irriducibile di altri valori “ateoretici”, ch’egli “scompone” ulteriormente nelle “classi” dei valori etici, edonistici, estetici, mistici e religiosi25. Alla stessa stregua del soggetto gnoseologico, della forma logica del giudizio e del valore della verità, anche i valori ateoretici sarebbero forniti di validità assoluta, cioè atemporale, universale e logicamente necessaria, sebbene la loro specifica modalità ontologica, ancora una volta, sia quella della mera irrealtà. La teoria rickertiana della conoscenza come giudizio sfocia così in una teoria generale dei valori, che è la parte più nota della sua filosofia, e, quale suo imprescindibile complemento, in una dottrina delle visioni del mondo, che, come si è visto, non è in effetti altro che la scienza della realizzazione dei valori nella storia della civiltà umana. La netta separazione tra valori teoretici e valori ateoretici sta palesemente alla base anche del suo rifiuto della tesi, implicita nella teoria della valutazione di Windelband26, e che trova un preciso riscontro anche nella

e n. 25) che il concetto stesso dello Spirito, che è infatti l’originaria unità dell’atto reale dell’individuo e della sua forma universale! 25 Croce, pur criticando, a ragione, il metodo “empirico e classificatorio” delle “tabelle” dei valori elaborate da Rickert (cf. B. Croce, Il “sistema” del Rickert, cit., p. 327-28), loda la sua teoria della differenza e indipendenza dei valori edonistici dai valori etici, scorgendo in essa una conferma della sua celebre dottrina dell’Utile quale forma autonoma dello spirito pratico (cf. Id., La teoria dell’Utile, la casistica e la coscienza morale, cit., p. 93). Pur non negando la verosimiglianza psicologica delle analisi rickertiane e crociane di stati d’animo “edonistici” (hedonisch) quali l’amore, la felicità, la soddisfazione personale, l’interesse per le cose “comuni” della vita quotidiana, ecc., dobbiamo respingere la pretesa, avanzata da entrambi, della rilevanza filosofica della distinzione da essi tracciata. L’ammissione della realtà o validità immediata della categoria dell’Utile (o dei valori edonistici), posta accanto, nella sfera pratica, alla categoria etica (o, comunque, concepita come “autonoma”, per quanto in “implicazione dialettica” con essa), introduce nell’unità dell’autocoscienza un dualismo assiologico che ne mina alla radice l’intima consistenza, come abbiamo cercato di mostrare in dettaglio nella nostra Teoria etica. Cf. G. Rinaldi, Teoria etica, Edizioni Goliardiche, Trieste 2004, § 68, p. 260-64. 26 Cf. Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., p. 169-71.

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Logica di Croce27, che l’essenza del giudizio sia adeguatamente espressa solo dai “giudizi di valore” stricto sensu (ad es.: “questo quadro è bello”), laddove secondo Rickert qualsiasi giudizio di percezione (ad es.: “questo pezzo di carta è reale”), nella misura in cui è vero, implica un riferimento al valore, che in questo caso sarebbe appunto quello teoretico della verità. Se, da un lato, si deve senz’altro riconoscere a Rickert, e prima di lui a Kant, l’indubbio merito di aver ricercato – a differenza di Fries28 e poi di Husserl – il fondamento dell’unità oggettiva del molteplice al di là sia della sfera antepredicativa della percezione sensibile che di quella dei suoi correlati oggettivi trascendenti, e di averlo piuttosto identificato con la specifica funzione predicativa del pensiero logico; è altresì innegabile, dall’altro, che tanto la sua risoluzione della forma logica del conoscere in quella dell’astratto giudizio quanto la sua concezione strettamente “eterotetica” del medesimo minano alla radice, una volta di più, la plausibilità della sua intera epistemologia. Il senso immanente del giudizio, anzitutto, sarebbe “altro” rispetto al suo contenuto, e siccome quest’ultimo sarebbe un dato psichico reale, esso, come pure il valore che mira a realizzare, sarebbero invece meri oggetti “irreali”, la cui modalità peculiare sarebbe quella del Sollen, cioè del “dover-essere”, e non già del Sein, cioè dell’essere. Il dover-essere, dunque, e non già l’adaequatio alla realtà, sarebbe “il criterio ultimo, anzi l’unico criterio, della correttezza del giudizio”29. In questa tesi, tuttavia, è contenuta una palese ed insuperabile antinomia. In quanto la modalità del Sollen è quella della possibilità irreale, la sua identità con sé esclude di necessità da sé l’elemento della realtà, e perciò ogni tentativo di realizzarlo (nello storia della civiltà, della cultura, ecc.) non potrà avere altro esito che quello di annientare la sua stessa essenza. D’altra parte, in quanto esso esprime un “imperativo”, che esige di essere adempiuto dalla volontà, il tener astrattamente fermo alla sua mera possibilità o idealità contraddice immediatamente al suo concetto, ed esso, perciò, dev’essere incondizionatamente realizzato, sebbene, come si è visto, la sua realizzazione sia per principio impossibile. Tale antinomia non può esser plausibilmente risolta – come già Kant e, dopo di lui, Husserl tentarono di fare – concependo la realizzazione dei valori come un progressus in infinitum, in cui l’identità della realtà e del valore rimarrebbe un mero “concetto-limite” (Grenzbegriff), perché le differenze successive che vengono poste nel corso di tale progresso, in cui si risolverebbe l’intera realtà del conoscere, hanno carattere meramente quantitativo (sono 27

Cf. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza 19712 (ed. econ.), Parte I, cap. 6: “Gli pseudogiudizi individuali. La classificazione e l’enumerazione”, p. 10818. 28 Cf. Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., p. 159-60. 29 “…den letzten, ja den einzigen Maßstab für die Richtigkeit des Urteils” (ivi, p. 183).

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cioè un “più” e un “meno”), e dunque estrinseco, reiterativo e perciò gnoseologicamente irrilevante. Ma neppure è accettabile la soluzione proposta da Rickert a partire dalla seconda edizione del saggio Der Gegenstand der Erkenntnis (1910), consistente nello scindere il concetto del valore da quello del dover-essere e nell’identificare col primo l’“oggetto trascendente” della conoscenza, che le fornirebbe la richiesta validità oggettiva. Anche così facendo, infatti, i valori rimarrebbero comunque degli universali astratti, o concetti di genere, che annientano la loro pretesa universalità nell’atto stesso in cui, contrapponendosi a un “altro” (specifico o individuale) che essi stessi non pongono, scadono eo ipso a mere determinazioni particolari del conoscere30. In secondo luogo, in quanto sintesi immanente di forme categoriali opposte quali la singolarità del soggetto e l’universalità del predicato, nell’essenza del giudizio è sempre e di necessità contenuta una contraddizione, che può e deve esser risolta solo attraverso la loro mediazione in virtù di un terminus medius, che costituisce il fondamento della loro unità, o meglio la totalità della loro relazione, e che, qualora sia espresso in forma esplicita, trasforma eo ipso il giudizio in un sillogismo. Facendo ricorso alla certamente inadeguata terminologia della logica formale tradizionale, si potrebbe osservare che il limite insuperabile della logica trascendentale di Rickert, da questo punto di vista, consiste nell’aver identificato nel giudizio, invece che nel sillogismo (disgiuntivo)31, la forma logica originaria dell’atto del conoscere. In terzo luogo, la forma logica del giudizio è gnoseologicamente rilevante solo in quanto forma determinata, e come tale non è esterna al contenuto del giudizio, bensì, in ragione del fondamentale principio logico della determinazione reciproca della forma e del contenuto del conoscere32, 30 Guido de Ruggiero a tale proposito ottimamente osserva che Rickert, “ponendo da una parte il pensiero e dalla parte opposta la verità, è costretto a creare ponti di passaggio, che naturalmente crollano tutti, perché la verità fuori del pensiero è un’ombra che svanisce, e i ponti finiscono col poggiar sempre sul vuoto” (G. de Ruggiero, La filosofia contemporanea, cit., p. 85). 31 Cf. G. Rinaldi, L’atto logico-etico come principio della filosofia, in: “Studi filosofici”, V-VI, 1982-83, p. 291-323, qui 322; Id., A History and Interpretation of the Logic of Hegel, cit., § 32, p. 245-46; Id., Absoluter Idealismus und zeitgenössische Philosophie. Bedeutung und Aktualität von Hegels Denken, Frankfurt a. M. e a., Peter Lang 2012, p. 107 e n. 10. 32 Questo principio, che già svolge una rilevante funzione gnoseologica nella fichtiana Dottrina della Scienza del 1794, viene esplicitamente formulato, e dedotto, anche nella Scienza della Logica di Hegel (cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., Bd. 2, p. 9495; e Id., Enzyklopädie, cit., Bd. 1, §§ 133 e Zusatz e 134), ed è certamente di cruciale rilevanza per comprendere il processo e la dialettica delle forme assolute dello spirito e, in specie, il rapporto tra religione e filosofia. Cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità, cit., p. 19, 28, 426-27, 446-47, 450-51 e n. 53. Rickert si mostra invece incapace di comprendere l’unità dialettica di forma e contenuto della conoscenza, minando così alla radice la differenza essenziale – da lui stesso, peraltro, enfatizzata! – tra logica formale e logica trascendentale. Egli, infatti, non si accorge che, concependo l’essenza del conoscere in base al principio eterotetico (cf. supra,

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è il principio del suo stesso sviluppo o autodifferenziazione immanente. Di conseguenza, per la medesima ragione per cui, come si è or ora visto, la forma logica del giudizio è inadeguata ad esprimere l’essenza dell’atto del conoscere, così, nella sfera dello stesso giudizio, la forma elementare del giudizio di percezione, o “giudizio dell’esserci”, nella misura in cui esprime un mero contenuto empirico assiologicamente irrilevante (come nell’es. citato di Rickert), è in realtà inadeguata al concetto del giudizio, e a fortiori a quello della vera conoscenza, e perciò non esprime, contrariamente a quanto egli ritiene, neppure il valore teoretico della verità33. Infine, l’accennata articolazione della sfera irreale degli oggetti trascendenti in una pluralità irrelata di valori assoluti, comprendente in sé, oltre al valore teoretico della verità, valori ateoretici ad esso eterogenei quali quelli “relativamente razionali” della moralità e dell’arte e quelli “assolutamente irrazionali” della religione (cf. infra, § 7), dà con ogni evidenza luogo a un’ulteriore antinomia. Delineando, nell’ambito della sua analisi della cultura moderna, l’originale contributo ad essa arrecato dal Criticismo, Rickert scorge a ragione la sua acquisizione gnoseologica più fondamentale e decisiva nella celebre “rivoluzione copernicana”, consistente, com’è noto, nel fatto che, a differenza della “vecchia metafisica”, Kant non identifica più il criterio della verità dei nostri concetti con la loro – in realtà impossibile e impensabile – corrispondenza ad un oggetto reale (o a una norma ideale) ad essi esterno e trascen-

§ 2 e n. 2), secondo cui la forma categoriale è originariamente “altra” dal suo contenuto iletico, non lo determina perciò dall’interno, non lo modifica in maniera immanente, bensì si giustappone ad esso dall’esterno, stabilisce tra forma e contenuto un “dualismo”, che è esattamente quello che sta alla base della logica formale tradizionale, ch’egli per contro contrappone, in quanto scienza del vuoto “pensare”, alla logica trascendentale, in quanto unica vera scienza del reale “conoscere”. Cf. Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 6, 94, 105-06, 124. 33 Ma allora – si potrebbe obiettare a questa nostra conclusione – in che cosa si distinguono i giudizi “questa foglia è verde” e “questa foglia è gialla”, che io posso pronunciare indicando le foglie verdi dell’albero che sta di fronte a me? Una plausibile, e illuminante, risposta a questo ovvio interrogativo ci viene offerta dalla distinzione hegeliana tra la “verità” (Wahrheit) e la “correttezza” (Richtigkeit) di un giudizio o di una teoria. La prima consiste nell’adeguazione della realtà al concetto puro che ne è il principio generatore; la seconda è invece l’adeguazione della mia (soggettiva) rappresentazione ad un oggetto empirico passivamente dato nell’intuizione sensibile (cf. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie, in: Werke, cit., Bd. 1, § 213 e Zusatz, e Bd. 3, § 437 Zusatz). Il giudizio “questa foglia è verde” si distingue dunque dal giudizio “questa foglia è gialla” perché il primo è corretto, mentre il secondo è scorretto – non già perché il primo è vero e il secondo, invece, falso. Eliminando, dunque, indebitamente la cruciale distinzione gnoseologica tra correttezza e verità, Rickert riesce a trivializzare lo stesso concetto della verità; e, per di più, interpola la sua arbitraria e riduttiva interpretazione del tradizionale criterio dell’adaequatio nella stessa deduzione hegeliana del Divenire come unità dialettica di Essere e Nulla, col prevedibile risultato di distorcerne radicalmente l’effettivo significato logico ed implicazioni teoretiche. Cf. infra, § 6.

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dente, ma lo ripone piuttosto nel fatto che l’unità oggettiva della nostra esperienza, e dunque la validità dei giudizi in cui essa viene esplicata, altro non sono che un prodotto immanente dell’attività sintetica dello stesso conoscere, e perciò si identificano senz’altro con la sua forma logica a priori. In altre parole, conoscere qualcosa non significa in verità altro, per dirla con Gentile, che “identificare, superare l’alterità”34 immediata del suo contenuto rispetto al soggetto conoscente, risolvendolo senza residuo nel puro atto riflessivo della sua autocoscienza pensante. Ma, allora, com’è possibile formulare una teoria filosofica, quale è quella che costituisce il nucleo dell’intero pensiero di Rickert, di presunti valori in sé “ateoretici” o addirittura “assolutamente irrazionali”? Una teoria dell’ateoretico o dell’irrazionale presuppone palesemente la conoscenza del medesimo, la quale, tuttavia, se è vera la similitudine kantiana della “rivoluzione copernicana”, non può in realtà consistere in altro che nella progressiva assimilazione dell’apparente immediatezza, eterogeneità e irrazionalità dei presunti valori ateoretici alla critica automediazione dell’Io autocosciente o del Concetto puro, la cui funzione e finalità peculiare è quella – per dirla con Rickert – del puro valore teoretico. La sua teoria dei valori, di conseguenza, soccombe ineluttabilmente al seguente dilemma: o i presunti valori ateoretici sono veramente tali, ma allora la loro conoscenza (sia essa ritenuta adeguata o inadeguata) è per principio impossibile, e con essa la stessa teoria dei valori da lui formulata; o tali presunti valori sono effettivamente conoscibili, ma allora il loro contenuto non può che identificarsi (immediatamente o mediatamente) con la pura forma – “teoretica” katexochēn – dell’Io autocosciente, cessando eo ipso di essere ateoretici e, a fortiori, assolutamente irrazionali. In altre parole, Rickert non sembra rendersi conto del fatto che il valore della verità è un valore in sé e per sé unico, totale e infinito; che, di conseguenza, ogni possibile limitazione o restrizione ad esso imposta, lungi dal garantirne (come credeva lo stesso Kant) la possibilità reale, ne compromette irreparabilmente l’intima essenza; e che ogni possibile valore ateoretico – sia esso relativamente o assolutamente irrazionale – può conseguire la peculiare validità oggettiva che ad esso legittimamente spetta solo risolvendosi, immediatamente o mediatamente, nel valore della verità, o meglio “togliendosi” nella sua Totalità concreta quale suo inattuale e astratto momento costitutivo.

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G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 470.

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§ 5. La metafisica come visione del mondo e come problema La teoria della conoscenza di Rickert, da noi ora sommariamente esaminata, dovrebbe, nelle intenzioni del suo autore, descrivere la struttura atemporale di una sfera di valori assoluti che, per quanto in sé irreali, potrebbero e dovrebbero tuttavia realizzarsi nella storia della cultura umana, che non avrebbe infatti altra sostanza, finalità e significato che quelli ad essa conferiti dalla loro realizzazione. Quale configurazione concreta assume dunque il valore teoretico della verità nella sfera della sua realizzazione storica, cioè la scienza e la filosofia elaborate dal “razionalismo europeo”? La conoscenza della verità, afferma giustamente Rickert sulla scia di Kant, è un valore assoluto, autonomo: saranno perciò destinate a rimanere filosoficamente e scientificamente sterili quelle epoche della storia europea in cui altre “istanze” culturali negano o limitano indebitamente l’autonomia della ragione scientifica e la libertà del pensiero. Tale è segnatamente il caso dell’Età medievale, che tentò senza successo di realizzare un’“armonia” tra le diverse sfere assiologiche “subalternandole” tutte a un’“autorità esterna”, che, in realtà, rese impossibile il loro autonomo sviluppo. La conoscenza della verità, tuttavia, sarebbe soltanto, come si è visto (cf. supra, § 4), un valore particolare accanto ad altri valori particolari; inoltre, come tutti i valori, anzi come tutti gli oggetti ideali, sarebbe il contenuto di un mero Sollen, privo di realtà attuale o individuazione concreta. Non meno inaccettabile della Weltanschauung medievale, perciò, è, secondo Rickert, l’opposta Weltanschauung dell’“intellettualismo” o della “metafisica”, che caratterizzerebbe originariamente la cultura greca, verrebbe ripresa all’inizio dell’Età moderna da pensatori come Cartesio, Spinoza e Leibniz e culminerebbe nei sistemi filosofici dell’Idealismo tedesco. Essa avrebbe il torto, da un lato, di negare la radicale differenza ontologica tra l’idealità dei valori e la realtà effettiva; di svalutare indebitamente l’evidenza dell’intuizione sensibile, che sola sarebbe per contro in grado di accertarci della fatticità immediata dei dati psichici e della loro differenza rispetto alla sfera dei valori; e di identificare piuttosto l’essere col valore, l’universale con l’individuale, la noēsis noēseōs, cioè il pensiero autocosciente, con la causa ultima del divenire reale. Dall’altro, essa non renderebbe giustizia alla pluralità irriducibile dei valori, tentando indebitamente di risolvere nel valore teoretico della conoscenza della verità ogni altra possibile sfera assiologica, e segnatamente quella dei valori religiosi, sì che nella prospettiva di tale metafisica la conoscenza intellettuale della verità – la scientia intuitiva, in termini spinoziani – verrebbe infine a identificarsi addirittura con la conoscenza adeguata di Dio, che non sarebbe infatti altro che la stessa “ragione universale” (Weltvernunft), e con la vera religione (l’amor dei intellectualis). Contro l’“intellettualismo” e il “monismo” della metafisica antica e moderna Rickert esalta 179


il significato teoretico della fisica matematica elaborata dalla cultura moderna, che avrebbe infatti il merito di tener fermo all’evidenza intuitiva del “dato” immediatamente “trovato”, ma specialmente quello della sua fondazione filosofica da parte del Criticismo kantiano, nel quale, come sappiamo, egli scorge nulla meno che la più perfetta espressione della “Weltanschauung moderna”, nella misura in cui esso rivendica sì, contro ogni arbitraria autorità trascendente, l’autonomia e assolutezza della conoscenza teoretica della verità, ma, nel contempo, segna con inesorabile rigore i “limiti” della stessa ragion teoretica, al di là dei quali si apre la sfera dei valori etici, estetici e religiosi, la cui assoluta autonomia esso, a differenza della metafisica, sarebbe così in grado di “rispettare”, anzi di fondare con evidenza incontrovertibile. Alla teoria kantiana della conoscenza si ispira strettamente anche la teoria “problematica” dell’ontologia e della metafisica delineata da Rickert nella Logik des Prädikats. Dando per scontata la plausibilità della concezione tradizionale, prekantiana di queste discipline filosofiche, Rickert definisce l’ontologia come la scienza dell’Essere in quanto Essere, cioè dei molteplici significati dell’Essere, laddove la metafisica sarebbe invece la scienza del “vero essere”, ch’egli, come Platone, concepisce come un “al di là” (Jenseits) atemporale contrapposto all’“al di qua” (Diesseits), cioè al mondo reale dell’esperienza sensibile. Siccome ontologia e metafisica sono anch’esse – o, per lo meno, pretendono di essere – forme di conoscenza, che si realizza solo nel giudizio logico, anche il concetto dell’Essere dovrà costituirne un elemento. Ma Rickert, come si è detto, nega la possibilità di una “comprensione” intuitiva dell’Essere, sostenuta invece dall’ontologia fenomenologica, e ritiene che solo il dato dell’intuizione sensibile può costituire il soggetto del giudizio logico: il concetto dell’Essere, di conseguenza, potrà svolgere in esso solo il ruolo della copula o del predicato. L’essere della copula, tuttavia, proprio come i concetti “analitici” dell’Essere indeterminato o dell’esistenza, rientrerebbe nell’ambito della vuota logica formale, e sarebbe perciò privo di qualsiasi valore conoscitivo. Una reale rilevanza epistemologica potrebbero perciò averla solo i significati del termine “essere” che possono intervenire nel giudizio logico come suoi predicati. Rickert distingue nella Logik des Prädikats quattro originari “predicati conoscitivi” (Erkenntnisprädikate): (1) l’“essere reale” (wirklich), che può essere attribuito ai fatti fisici e psichici, rendendo così possibile la costituzione delle scienze naturali e della psicologia empirica; (2) l’“essere valido” (geltend), che è come tale opposto all’essere reale, e costituisce l’oggetto della sua accennata classificazione dei valori (cf. supra, § 4); (3) il “vero essere”, o “essere sovrasensibile”, che è l’unità dell’essere reale e del valore, e che coincide con l’Idea platonica e col concetto teologico di Dio; e infine 180


(4) l’“esistere ideale”, che inerisce invece agli oggetti tematizzati dalla matematica35. La differenza epistemologica fondamentale tra le scienze (naturali e storiche) e l’ontologia consisterebbe nel fatto che, mentre quelle rendono oggetto delle loro indagini un settore particolare e limitato dello scibile, il compito dell’ontologia sarebbe invece quello di fornirci un’immagine razionale della Totalità del reale. Tale compito, tuttavia, non potrebbe essere adempiuto mediante una mera sinossi, cioè sintesi estrinseca, dei risultati conseguiti dalle scienze particolari, perché anch’essa rimarrebbe inevitabilmente contingente e finita. Sorge così l’idea di una Totalità che sia più della somma estrinseca delle sue parti; che si costituisca, piuttosto, come una “unità infinita” radicalmente “altra” dall’intera sfera dell’essere finito, che rispetto a quella viene ad essere degradato a mera “parvenza” o “apparenza”, laddove essa sarebbe invece il “vero essere”, in cui la stessa opposizione tra fatti fisici e fatti psichici, e dunque tra natura e storia, sarebbe infine superata e riconciliata. Tale Totalità costituisce, secondo Rickert, l’oggetto peculiare della metafisica. Se egli, dunque, da un lato, in polemica con l’empirismo, il materialismo e il positivismo evoluzionistico riconosce il significato della problematica della metafisica; dall’altro, tuttavia – memore, anche a questo proposito, della lezione kantiana – nega recisamente la possibilità di offrire ad essa una soluzione positiva, razionale: “Qui, tuttavia, la metafisica si arresta all’impostazione del problema e al suo chiarimento, senza pensare a qualsivoglia soluzione del problema”36. La ragione da lui addotta dell’inevitabile fallimento della metafisica è del tutto prevedibile e scontata, giacché non è nulla più che una mera conseguenza analitica della sua teoria del giudizio logico. La conoscenza consiste nella relazione esterna tra due elementi eterogenei, l’intuizione sensibile e il concetto logico. Mentre nel caso delle scienze naturali e storiche noi abbiamo una determinata intuizione del loro oggetto specifico – la percezione sensibile nel caso dei fatti psicofisici e la “comprensione” (Verstehen) del senso nel caso dei fatti storici –, noi non abbiamo invece una intuizione dell’“essere soprasensibile”, che è l’oggetto della metafisica, e la visione del mondo che ne afferma non solo la reale possibilità, bensì la centralità, identificandola addirittura con la “regina delle scienze”, 35 Nel successivo saggio Grundprobleme der Philosophie. Methodologie, Ontologie, Anthropologie, Tübingen, Mohr 1934, il predicato conoscitivo dell’esistere ideale viene sostituito dal “prophysisches Subjekt”, che non è in verità altro che il “soggetto epistemologico” teorizzato nel precedente volume Der Gegenstand der Erkenntnis (cf. supra, § 3), concepito tuttavia non solo come una vuota forma irreale, bensì pure come l’originaria unità di realtà e valore. 36 “Doch bleibt sie hier selbstverständlich bei Problemstellungen und ihrer Klärung stehen, ohne irgendwie an eine Problemlösung zu denken” (Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 29).

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cioè quella “intellettualistica” della civiltà greca, dev’essere perciò senz’altro ritenuta definitivamente obsoleta. La negazione della possibilità della metafisica come scienza non esclude, tuttavia, secondo Rickert, che una elaborazione puramente “problematica” del suo oggetto, cioè l’idea del “vero essere” o dell’“al di là”, possa comunque risultare fruttuosa per lo sviluppo della civiltà umana. Oltre alla via “diretta” della conoscenza razionale, che in questo caso è impraticabile, esisterebbe infatti anche una “via indiretta” (Umweg) d’accesso all’oggetto della metafisica, quella dell’elaborazione di simboli, il cui contenuto sensibile-intuitivo consente alla coscienza finita di esprimere, seppur per mezzo di analogie inevitabilmente inadeguate, l’essenza in sé inconoscibile del “vero essere”, cioè la realtà di Dio e la sua relazione con l’uomo e col mondo. Questa è la specifica finalità della religione, che come tale trascenderebbe radicalmente l’intera sfera della conoscenza sensibile e della stessa filosofia. Quest’ultima, tuttavia, potrebbe sviluppare un’utile funzione propedeutica anche in rapporto ad essa, che consisterebbe, da un lato, nel confutare tutte quelle concezioni empiristiche, materialistiche e atee che negano categoricamente il valore della religione e la realtà del suo oggetto; e, dall’altro, nell’elaborare un’interpretazione (ovviamente sempre e solo problematica) del simbolismo religioso, la quale consenta di stabilire “caso per caso” a quali simboli debba essere riconosciuto un genuino significato religioso e a quali, invece, esso debba essere negato. La polemica di Rickert contro la possibilità della metafisica come scienza costituisce senz’altro la parte più debole della sua filosofia. Anzitutto, se è vero quanto abbiamo poc’anzi accennato circa le interne antinomie della sua epistemologia, e segnatamente della sua teoria del giudizio logico e del soggetto epistemologico (cf. supra, §§ 3 e 4), le accennate objezioni ch’egli rivolge contro la possibilità della metafisica si rovesciano in realtà, in larga misura, in altrettanti titoli di merito della medesima, in prove difficilmente confutabili della sua intrinseca legittimità teoretica, giacché esse presuppongono tutte la validità assoluta di quella relazione “eterologica” tra soggetto e predicato, o tra soggetto e oggetto, che in realtà, come si è visto, è in sé e per sé impossibile e impensabile. In secondo luogo, la conoscenza ch’egli mostra della storia della metafisica appare assai scarsa e lacunosa, e dispiace di dover rilevare nella sua ricostruzione dell’“intellettualismo greco” veri e propri spropositi, quali, ad es., l’asserzione che “l’immortalità individuale di questo o di quell’uomo” non sarebbe per Platone “un problema”37, sarebbe cioè irrilevante (basterebbe leggere il Fedone o il Fedro per convincersi del

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Kant als Philosoph der modernen Kultur, cit., p. 83.

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contrario!); o che il principio metafisico dell’identità del pensiero e dell’essere verrebbe espresso nella maniera più “conseguente” (konsequent, ivi, p. 56)… dalla filosofia aristotelica! Come dimenticare che proprio Aristotele, pur rivendicando, da un lato, la verità di tale principio, tesse altresì, dall’altro, in polemica con Platone, l’apologia dell’intuizione sensibile38; scorge nella materia nulla meno che il principium individuationis39; spiega l’impressione sensibile (species impressa) come il prodotto dell’influsso causale della cosa materiale esterna sull’anima sensitiva40; identifica la ousia, cioè l’essenza sostanziale della realtà, col tode ti, cioè con la fatticità empirica dell’individuo sensibile, degradando invece le “specie” (eidē), cioè i predicati universali del reale, a mere “sostanze seconde” (deuterai ousiai)41; e, inoltre, che, laddove Rickert insiste sul carattere essenzialmente “monistico”42 della metafisica, egli per contro rivendica la pluralità irriducibile dei sensi dell’essere, delle sostanze reali, delle categorie logiche, dei beni, delle virtù, etiche e dianoetiche43, ecc. ecc.? In terzo luogo, Rickert presenta come intrinsecamente costitutivi di ogni possibile metafisica due fondamentali principi gnoseologici – quello secondo cui la legge suprema del pensiero sarebbe il principio logico-formale di identità (“A è A”), e quello secondo cui la verità del concetto puro consisterebbe nella sua “adeguazione” (adaequatio) a un oggetto intelligibile trascendente l’atto del conoscere –, che, in verità, caratterizzano soltanto il punto di vista della “vecchia metafisica”, ch’egli a torto identifica con quello della metafisica in sé e per sé. È innegabile, in effetti, che la legge dell’identità formale o astratta, negando il valore logico della differenza tra soggetto e predicato, che rende al contrario originariamente possibile la sintesi predicativa, e dunque ogni sapere, implica l’ineluttabile conseguenza, esplicitamente tratta da Plotino (e più recentemente da F.H. Bradley), che la stessa conoscenza razionale, non avendo altro principio supremo che la detta legge, sia soltanto una contraddittoria apparenza, e che la realtà assoluta coincida piuttosto con l’identità “inintelligibile” e “ineffabile” dell’Uno (o dell’Assoluto)44. Ma è del pari vero che l’esplicita ammissione del carattere meramente “formale” o “analitico” del detto principio, e la conseguente fondazione dell’intero sapere teoretico su di un principio ad esso alternativo, quello dell’“unità sintetica 38

Cf. Aristotele, Analytica post., I, 18, 81a-b; II, 2, 90a 4-30; Id., De anima, III, 427b;

ecc. 39

Cf. Id., Metaph., VI, 1027a 13-15. Cf. Id., De anima, II, 424a. 41 Cf. Id., Categoriae, 5, 2a-4b. 42 Cf. Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 162-70. 43 Cf. Aristotele, Metaph., IV, 1003a–b; Id., Ethica nic., I, 2-5, 1095a 13-1097b 21; I, 13, 1102a 5-1103a 10; ecc. 44 Cf. Plotino, Enneades, V, 3, 13; VI, 7, 20, 28, 35, 39; VI, 9, 8-9; e F.H. Bradley, Appearance and Reality, cit., p. 143-62, e “Appendix”, p. 494. 40

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originaria dell’appercezione” in quanto unità dialettica di soggetto e oggetto (“A è non-A”), è uno degli assunti fondamentali non solo della Logica trascendentale kantiana, bensì pure della stessa Logica speculativa, dialettica o appunto “metafisica” di Hegel, che Rickert pregiudizialmente rifiuta, senza in realtà conoscerla se non in maniera assai superficiale e approssimativa (cf. infra, § 6). Quanto, poi, alla tradizionale concezione metafisica della verità come riproduzione di un originale ad essa esterno e trascendente, si deve senz’altro ammettere che essa è insostenibile, e che è indubbiamente merito inestimabile della “rivoluzione copernicana” di Kant l’averne messo a nudo l’insuperabile incongruenza. Ma come negare che nella dottrina kantiana che “l’unità oggettiva dell’esperienza” altro non è che il prodotto dell’attività sintetica dell’“Io penso” – o, detto più semplicemente, che “l’intelletto è l’autore dell’esperienza” – sia per lo meno latente il germe e il fondamento di una nuova metafisica, che si rifiuta di identificare assurdamente l’Assoluto con qualsivoglia misteriosa “cosa-in-sé”, Ente trascendente o Aldilà, dualisticamente contrapposto all’Aldiquà, ma tien cionondimeno fermo all’idea della sua realtà e della possibilità della sua conoscenza, che si risolve, in definitiva, nella deduzione dialettica delle determinazioni a priori dell’Io penso in quanto autocoscienza infinita, e nell’esplicazione della loro manifestazione nell’esperienza presente e immanente della natura e della storia, in cui il “vero essere” e la “parvenza”, lungi dall’escludersi vicendevolmente, in definitiva si identificano? Questa nuova metafisica, che con un’efficace espressione hegeliana si potrebbe chiamare la “metafisica della soggettività”45 o, con una non meno pregnante locuzione di Bertrando Spaventa, la “metafisica della mente”46, non viene certo formulata espressamente da Kant, ma è innegabilmente implicita in alcune delle dottrine più profonde e illuminanti da lui formulate: la “Deduzione trascendentale delle categorie” dall’unità sintetica originaria dell’appercezione, esposta nella Critica della ragion pura; la teoria della libertà trascendentale e dell’autonomia del volere, delineata nell’“Analitica della ragion pratica”; e infine la teoria della finalità interna, che svolge un ruolo cruciale non solo, com’è ovvio, nella “Critica del giudizio teleologico”, ma nella sua stessa concezione dell’essenza della bellezza e dell’arte. Purtroppo, proprio le dottrine kantiane accennate vengono sbrigativamente annoverate da Rickert tra quei “residui di un unilaterale intellettualismo”47, che la sua interpretazione dichiaratamente “irrazionalistica” del Criticismo si propone di espungere in

45

Cf. G.W.F. Hegel, Jenaer Systementwürfe II: Logik, Metaphysik, Naturphilosophie, Hamburg, Meiner 1982, p. 163 ss. 46Cf. B. Spaventa, Logica e metafisica, in: Id., Opere, Firenze, Sansoni 1972, vol. 3, p. 29. 47 Kant als Philosoph der modernen Kultur, cit., p. 144.

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toto dal suo “nucleo atemporale” o, nel migliore dei casi, non meno inopportunamente interpretate quale prova della straordinaria capacità kantiana di elaborare in forma logica anche contenuti in sé “ultralogici” (überlogisch, ivi, p. 180-86) e meramente problematici, ossia più o meno radicalmente irrazionali. Per quanto concerne, poi, la concezione problematica della metafisica elaborata da Rickert, essa non è certamente meno infelice della sua critica della metafisica tradizionale. Nessuno dei presupposti su cui essa si fonda appare storicamente o teoreticamente accettabile, e le sue implicazioni gnoseologiche non sono meno disastrose del suo esplicito contenuto teoretico. Rickert si propone di “chiarire” il concetto della metafisica e di difenderne l’intrinseca possibilità, senza, tuttavia, con ciò ammettere che le sue riflessioni abbiano di per sé un genuino significato conoscitivo. Egli presuppone così chiaramente la plausibilità della celebre distinzione kantiana tra un vuoto “pensare” (Denken) e un concreto “conoscere” (Erkennen), la quale, tuttavia, è essa stessa una mera conseguenza della sua generale concezione della conoscenza come relazione esterna di intuizione sensibile e concetto puro. La falsità di quest’ultima (cf. supra, § 4) ne vanifica così ab imis la plausibilità, e con essa anche la possibilità di principio di una metafisica meramente problematica. Se il concetto della metafisica viene effettivamente chiarito in maniera consistente e adeguata da una teoria filosofica, allora la realtà del suo oggetto viene eo ipso provata, ed esso perciò non viene semplicemente “pensato”, bensì anche “conosciuto”, e la sua teorizzazione ha carattere non già problematico, bensì apodittico. Inoltre, il ricorso a concetti metafisici, la cui possibilità viene identificata con la mera pensabilità secondo il principio logico-analitico di non-contraddizione, legittima, più o meno consapevolmente, la degradazione del pensiero metafisico alla formulazione arbitraria e casuale48 di tesi che possono essere indiscriminatamente significative, profonde, illuminanti, ma anche insignificanti, triviali, superficiali. Qualsiasi concetto, proposizione, teoria, infatti, considerato astrattamente, cioè isolatamente, è non-contraddittorio, e perciò (formalmente) pensabile: non è contraddittorio, e perciò è possibile pensare, ad es., che Dio, prima di creare l’uomo, abbia creato i Cherubini, e prima di creare i Cherubini abbia creato i Serafini; che la terra, prima di assumere l’attuale forma sferica, sia stata un triangolo; ecc. ecc. E tale, purtroppo, è il caso di molte, troppe analisi “metafisiche” rickertiane, che per banalità e vuotaggine non riescono certamente inferiori a quelle dei filosofi “intuizionisti” da lui così aspramente criticati. Infine, la conoscenza indiretta di un oggetto, resa pos-

48 La lingua tedesca esprime efficacemente il concetto che qui intendiamo col termine “unverbindlich”, che purtroppo non è esattamente traducibile in italiano.

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sibile dal simbolo (o, più in generale, dal segno o dall’indicazione), presuppone incondizionatamente – come già abbiamo avuto modo di mostrare altrove –49 la possibilità di una previa conoscenza diretta dell’oggetto da esso significato, simboleggiato o indicato. Se, dunque, la conoscenza diretta, immanente dell’oggetto della metafisica è per principio impossibile, come vuole Rickert, allora anche la conoscenza simbolica del medesimo oggetto sarà soltanto un’illusione. E, in tal caso, viene a fortiori meno anche la possibilità di distinguere “caso per caso” i simboli religiosi ritenuti validi da quelli considerati invece invalidi, perché a tal uopo sarebbe richiesta non solo la conoscenza diretta dell’oggetto della metafisica, bensì pure quella della sua struttura ontologica determinata e del rapporto di maggiore o minore analogia tra i simboli religiosi determinati presi in considerazione e le corrispettive determinazioni di tale struttura. Inutile aggiungere che tale conoscenza, che Rickert ritiene per principio impossibile, coincide invece col contenuto essenziale della filosofia speculativa della religione50, che sola può adeguatamente impostare e risolvere quei problemi che la sua filosofia giustamente solleva, senza tuttavia offrir loro nulla più che soluzioni meramente verbali o, peggio, illusorie.

§ 6. La polemica di Rickert contro l’ontologia fenomenologica e la dialettica hegeliana L’integrazione dell’epistemologia neokantiana con l’accennata concezione problematica della metafisica si intreccia nella Logik des Prädikats con la critica di due concezioni moderne della metafisica che sono certamente con essa incompatibili: l’ontologia fenomenologica di Husserl, Heidegger e Nicolai Hartmann, che proprio negli anni immediatamente precedenti quello della sua pubblicazione aveva conseguito compiuta articolazione, e l’idealismo assoluto di Hegel, che grazie ai saggi storiografici di Richard Kroner, Hermann Glockner e dello stesso Hartmann51 era allora tornato al centro dell’interesse degli studiosi tedeschi dopo un prolungato periodo di oblio. I limiti del pensiero di Rickert, che la nostra critica della pars

49 Cf. G. Rinaldi, Carattere e limiti della “filosofia sistematica” di Nicolai Hartmann, in: “Magazzino di filosofia”, in corso di pubblicazione, § 3.1. 50 Per un’ampia trattazione recente di questa problematica cf. Id., Ragione e Verità, cit., passim, ma spec. Parte I, capp. 1-3, p. 19-101. 51 Cf. R. Kroner, Von Kant bis Hegel, 2 Bd., Tübingen 1921-24; H. Glockner, Hegel, vol. I, Stuttgart 1929; vol. II, Stuttgart 1940; e N. Hartmann, Die Philosophie des deutschen Idealismus. Bd. 2: Hegel, Berlin und Leipzig, W. De Gruyter 1929. Per una valutazione delle interpretazioni della Logica speculativa hegeliana di Kroner e Hartmann, cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, cit., §§ 46-47.

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construens della sua filosofia ha già avuto modo di mettere in luce, divengono ancor più marcati, e a volte addirittura sconcertanti, se procediamo ad esaminar brevemente la sua pars destruens. La sua intera polemica contro le loro dottrine si basa infatti su una lettura dei loro testi non solo assai lacunosa52 ma, il più delle volte, anche radicalmente fraintendente; e le objezioni che trovano qualche effettivo riscontro nelle opere degli autori da lui criticati si dissolvono “come nebbia al sole” agli occhi di chi ne consideri con attenzione il peculiare contenuto e finalità. Il principale argomento da lui rivolto contro l’ontologia di Heidegger è che la sua concezione della verità come “disvelamento” dell’Essere attuantesi in una intuizione che precede l’attività logica del giudizio è inaccettabile, perché “essere” (Sein) è anzitutto il significato di una parola, che acquista un valore teoretico solo quando diviene la copula o il predicato di un giudizio logico. Qualora, infatti, fosse un dato dell’intuizione, esso sarebbe un fatto empirico particolare e contingente, cui farebbero difetto quell’assoluta universalità e necessità a priori che per Rickert è invece, come si è visto, un carattere essenziale della verità. Quanto, poi, all’identificazione heideggeriana del “senso dell’Essere” col “Nulla”, egli la ritiene sostanzialmente analoga a quella che ha luogo nella dialettica hegeliana delle prime categorie logiche, ed epistemologicamente non meno irrilevante di essa, perché in entrambe le teorie l’Essere e il Nulla non sarebbero altro che vuoti concetti analitici. Laddove, tuttavia, nella tesi hegeliana dell’identità dell’Essere e del Nulla egli scorge nulla meno che “il tentativo di distruggere ogni logica che meriti questo nome, cioè ogni dottrina del pensare e del conoscere teoreticamente vero”53, egli ritiene invece di poter enucleare nella concezione heideggeriana dell’Essere anche un significato filosofico positivo. L’Essere (Sein), che nell’esperienza vissuta dell’angoscia si rivela identico al Nulla, infatti, non sarebbe una mera astrazione logica che solo per la sua indeterminatezza si rovescia nel Nulla, bensì l’Altro dall’“ente” (Seiendes), cioè dal mondo empirico dei fatti naturali e storici, dai quali si distinguerebbe così come l’“infinito” si distingue dal “finito”, l’“atemporale” dal transeunte e caduco. La “trascendenza” dell’Essere rispetto all’ente teorizzata da Heidegger si distinguerebbe tuttavia anche da quella del “vero essere” rispetto 52 Nel caso della fenomenologia di Husserl Rickert evita qualsiasi confronto diretto coi testi dell’autore, rimandando piuttosto alla serrata critica dell’“empirismo” e dell’“intuizionismo della fenomenologia” svolta da F. Kreis nel saggio Phänomenologie und Kritizismus, in: “Heidelberger Abhandlungen zur Philosophie und ihrer Geschichte”, vol. 2, Tübingen 1930. A proposito della critica di Kreis cf. G. Rinaldi, Critica della gnoseologia fenomenologica, cit., p. 254-57. 53 “… einen Versuch zur Vernichtung jeder Logik, die diesen Namen verdient, d. h. jeder Lehre vom theoretisch wahren Denken und Erkennen” (Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 225).

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all’“apparenza” elaborata dalla metafisica platonica, ed in ciò consiste appunto per Rickert l’originalità e l’interesse dell’ontologia heideggeriana. Per essa, infatti, la trascendenza dell’Essere non avrebbe più il significato di una Realtà divina, perfetta, eterna, che può trovare inadeguata espressione nel simbolismo della religione, ma sarebbe piuttosto la radicale negazione di ogni possibile determinazione, e dunque anche dell’intera sfera dello spirito religioso. Il risultato fondamentale dell’ontologia heideggeriana sarebbe così un “nichilismo metafisico” (ivi, p. 233) che nega in maniera ancor più radicale della sua stessa metafisica problematica la plausibilità della metafisica tradizionale. La ricaduta in tale metafisica costituirebbe invece l’errore fondamentale dell’ontologia di Hartmann. Alla serrata polemica contro l’idealismo da questi svolta Rickert riconosce il merito di tener fermo alla fondamentale distinzione kantiana tra pensare e conoscere e, di conseguenza, di considerare quale imprescindibile condizione di possibilità della conoscenza la relazione “eterotetica” o “eterologica” tra un determinato concetto del pensiero e un oggetto reale-materiale manifestato dall’intuizione sensibile. Ma Hartmann non si limiterebbe a rivendicare l’indipendenza dell’oggetto reale dalla forma logica del concetto, ma gli attribuirebbe altresì un “essere-in-sé” (Ansichsein, ivi, p. 176-77) che “trascende” l’intera sfera dell’esperienza, contrappondosi ad essa allo stesso modo del “vero essere” della metafisica platonica, con cui la sua concezione dell’essere, in definitiva, finirebbe per coincidere. Abbiamo di proposito lasciato per ultimo l’accenno alla polemica di Rickert contro la dialettica hegeliana perché essa, a differenza delle precedenti, è nella sostanza completamente negativa. All’intensificazione della sua vis polemica, tuttavia, fa in essa riscontro solo quella della più stucchevole ridondanza fraseologica e vacuità concettuale. Ridotta all’essenziale, la sua critica delle prime categorie della Logica hegeliana (in cui egli, a torto, scorge l’epitome dell’intera Logica speculativa), si risolve nella formulazione di due objezioni, che non sono neppure originali, bensì luoghi comuni della secolare polemica antihegeliana: (1) la deduzione della categoria del Divenire da quelle dell’Essere e del Nulla richiede l’esplicazione non solo della loro identità, che ha luogo mediante il rilievo della comune indeterminatezza, bensì pure della loro differenza, perché in caso contrario avremmo solo l’identità immediata dell’Essere e del Nulla, non già la loro transizione l’uno nell’altro. Ora, tale differenza, nella misura in cui si distingue dalla vuota identità analitica dell’Essere e del Nulla, in quanto ha un contenuto determinato, è un “predicato co-

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noscitivo” (Erkenntnisprädikat), laddove Essere e Nulla sono meri “predicati logici” (Denkprädikate), che non implicano, come tali, alcun predicato conoscitivo, sì che la deduzione del Divenire può aver luogo solo grazie all’indebita confusione di queste due eterogenee classi di predicati (ivi, p. 218). In sostanza, Rickert non fa altro che riformulare in maniera più oscura la celebre objezione di A. Trendelenburg, secondo cui Hegel può dedurre il Divenire dall’Essere e dal Nulla solo surrettiziamente interpolando una differenza che nella loro pura essenza logica non è contenuta54. (2) Secondo Rickert i predicati conoscitivi sono forme immobili, fisse, statiche; la concezione hegeliana di un divenire logico, di un “movimento del pensiero”, perciò, non potrebbe avere altra origine che nell’intuizione extralogica del “flusso” temporale del mondo sensibile e della coscienza dell’io empirico55: siccome la realtà è un flusso, anche il pensiero deve muoversi in sé stesso. La ragione decisiva per cui Hegel trasforma il divenire in una categoria logica sarebbe dunque la convinzione, tipica della metafisica tradizionale, che il pensiero possa conseguire la verità solo “adeguandosi” all’essenza del mondo reale. Se procediamo, ora, ad esaminar criticamente questa pars destruens dell’ontologia di Rickert, possiamo subito osservare che la sua critica, in sé legittima, dell’intuizionismo dell’ontologia fenomenologica è viziata alla radice dal fraintendimento delle teorie di Heidegger e di Hartmann da lui frammentariamente prese in considerazione. È certamente innegabile che il processo del conoscere è un atto del pensiero logico, in cui l’immediatezza del dato intuitivo viene tolta dall’automediazione critica del Concetto puro, e che la teoria heideggeriana che la verità si manifesta originariamente in un’esperienza “antepredicativa”, cioè alogica, si fonda perciò su una mera illusione. Ma è altresì vero che l’intuizione, in cui secondo Heidegger ha luogo il disvelamento dell’Essere, non è l’intuizione empirica, come erroneamente crede Rickert, bensì la “comprensione dell’Essere”, che proprio come la Wesensschau husserliana è una forma di conoscenza a priori, non già meramente empirica. Non è, dunque, sufficiente objettare all’ontologia fenomenologica che, riducendo il conoscere all’intuizione del “caotico” molteplice empirico, essa non può dar ragione della conoscenza “scientifica” 54 Cf. A. Trendelenburg, Logische Untersuchungen (1840), Leipzig, Hirzel 1870, vol. 1, p. 38 ss. La nostra replica a quest’objezione, come pure un’ampia discussione degli analoghi tentativi attuati da pensatori hegeliani quali Spaventa, K.L. Michelet e Kuno Fischer per difendere la dottrina hegeliana in questione, sono reperibili nel nostro saggio A History and Interpretation of the Logic of Hegel, cit., §§ 18, 38.6 e 39.6. 55 L’objezione che solo il pensiero soggettivo dell’individuo si muove, mentre i concetti e i principi logici sarebbero invece immobili, è uno degli argomenti fondamentali a suo tempo rivolti da A. Rosmini contro la Logica hegeliana. Ma già Bertrando Spaventa aveva mostrato in maniera convincente l’inconsistenza di tale objezione. Cf. ivi, §§ 39.6 e 50.

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di un “cosmo” ordinato56: sarebbe stato piuttosto necessario mostrare come e perché specifiche forme di coscienza quali la Wesensschau husserliana e la comprensione dell’Essere heideggeriana siano in realtà impossibili e impensabili. Rickert, tuttavia, non solo omette di fornirci tale prova, ma – quel che è più grave – non sembra neppur consapevole della sua imprescindibile necessità! Per quanto concerne, poi, la sua asserzione che la differenza ontologica heideggeriana tra l’Essere (o il “senso dell’Essere”) e l’ente è analoga alla relazione eterologica tra il Qualcosa e l’Altro, ch’egli, come si è visto, pone a fondamento della sua epistemologia, essa appare certamente plausibile; ma Rickert, non avendo compreso l’intima contraddittorietà di tale relazione, non si accorge che proprio la differenza ontologica tra Essere ed ente teorizzata da Heidegger è uno degli errori fondamentali (anche se certamente non l’unico, e forse neppure il più grave) che minano alla radice la plausibilità della sua ontologia. L’analogia, infine, stabilita da Rickert tra l’identificazione hegeliana dell’Essere e del Nulla e la tesi heideggeriana che il Nulla è il senso dell’Essere è del tutto infondata, e prova piuttosto ad oculos quanto poco gli sia riuscito di comprendere non diciamo lo spirito, bensì anche solo la lettera del pensiero hegeliano. L’Essere trapassa, secondo Hegel, nel Nulla perché, in quanto assolutamente indeterminato, è solo una vuota astrazione; la vera realtà, il “vero essere”, al contrario, è la totalità concreta dell’Assoluto, che si determina logicamente come Idea e realmente come Spirito, ed è una “negatività assoluta” che in verità è una affermazione infinita, radicalmente differente, perciò, da ogni e qualsivoglia possibile concetto del Nulla, del Non-essere o della negazione immediata. L’Essere per Heidegger è invece il “fondamento” ultimo, l’“apertura”, l’“orizzonte” entro il quale ogni ente determinato diviene originariamente possibile e si manifesta: affermare che il suo senso è identico al Nulla significa perciò sostenere che l’esistenza umana, l’eticità, la storia, la totalità del mondo altro non sono che meri eventi contingenti e caduchi, in sé privi di senso, valore e realtà positiva. Sfugge, dunque, a Rickert l’infinita differenza teoretica tra l’idealismo assoluto di Hegel e la “metafisica nichilistica” di Heidegger – com’egli, una volta tanto a ragione, la definisce. La sua polemica contro la “metafisica della conoscenza” di Hartmann, d’altra parte, si basa soltanto sul fraintendimento della teoria, che in essa svolge senz’altro un ruolo cruciale, della “trascendenza” o “essere-in-sé” dell’oggetto. Con questi concetti Hartmann intende indicare l’esistenza dell’oggetto reale-materiale nel mondo esterno, nella misura in cui esso sussiste per l’appunto “in sé” prima e indipendentemente dalla sua relazione

56 Cf. Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 110 e n.; e anche ivi, p. 124.

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con ogni possibile coscienza che lo “oggettivi”, ne elabori cioè una rappresentazione sussistente nell’esperienza immanente del soggetto pensante. Formulando tale teoria, perciò, egli non si propone in realtà altro fine che quello di avallar fenomenologicamente l’assunto epistemologico fondamentale di ogni realismo empirico. Rickert intende invece la trascendenza dell’essere-in-sé dell’oggetto affermata da Hartmann nel senso platonico dell’essere “soprasensibile” dell’Idea divina, che come tale “trascende” il mondo sensibile come pure l’umana cognizione di esso. Sarebbe bastato addentrarsi un po’ più nel pensiero di Hartmann onde avvertire che il suo dichiarato “ateismo metodologico”, da un lato, e la sua teoria dell’irrealtà degli “oggetti ideali”, dall’altro, escludono nella maniera più decisa qualsiasi possibile interpretazione teistica o platonizzante della sua teoria della trascendenza dell’oggetto della conoscenza. La confusione concettuale, i fraintendimenti ermeneutici, le debolezze argomentative di Rickert toccano il culmine nella sua critica della Logica hegeliana. Egli legge così male il testo della Scienza della Logica da non accorgersi che ivi Hegel ammette esplicitamente che la deduzione del Divenire dall’Essere e dal Nulla richiede la prova non solo della loro identità, ma anche della loro differenza; ma, contrariamente a quanto Rickert assurdamente afferma, egli non confonde tale differenza con le determinazioni logiche del Qualcosa o dell’Altro, bensì afferma che tale differenza “c’è” ma non può essere espressa, è “nur gemeinten“57: è un’esigenza del pensiero che il pensiero stesso, tuttavia, non può soddisfare. In altre parole, si tratta di una differenza puramente indeterminata – per l’appunto quella che è richiesta dalla peculiare indeterminatezza dell’Essere e del Nulla! –, che perciò si distingue essenzialmente dalla differenza determinata, che è invece una “qualità” inerente nelle categorie del Qualcosa e dell’Altro. Hegel, dunque, non solo non confonde la differenza indeterminata tra Essere e Nulla (nella terminologia di Rickert: il “predicato logico”) con la differenza determinata tra il Qualcosa e l’Altro (il “predicato conoscitivo”), ma elabora anche una complessa trattazione differenziata delle due coppie di concetti: il Qualcosa e l’Altro vengono teorizzati solo nella successiva sfera categoriale dell’Essere determinato (Dasein), laddove l’Essere, il Nulla e il Divenire e la loro differenza costituiscono invece il contenuto della precedente sfera dell’Essere indeterminato (Sein). Ciò significa che Hegel, oltre all’analisi e alla critica di tali categorie, ci offre anche – a differenza di

57

Cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., Bd. 1, p. 95.

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quanto il metodo empirico-classificatorio di Rickert può consentire! – la determinazione del loro oggettivo ordine, connessione e collocazione sistematica. Ma anche il significato della categoria hegeliana del Divenire Rickert riesce a fraintendere radicalmente: esso non è né può essere una mera “immagine” del “flusso” temporale del mondo sensibile, perché è un concetto puro, non già un’intuizione; e non essendo un’intuizione, non è neppure caratterizzato da quell’elemento dell’“essere-fuori-di-sé”, cioè dell’esteriorità, che è invece un predicato essenziale della temporalità, e che la configura come un movimento lineare irreversibile, laddove il processo o movimento del pensiero è la negazione o il superamento di tale esteriorità, è il “ritorno di sé in se stesso”, e perciò il suo simbolo appropriato è il circolo, non già la linea retta. Quanto poco, dunque, il circolo può esser ragionevolmente ritenuto una plausibile raffigurazione della linea retta, tanto poco la categoria del Divenire – contrariamente a quanto afferma Rickert – può essere ridotta a una mera immagine concettuale del flusso temporale del mondo sensibile. Quanto, poi, alla sua ulteriore asserzione, che Hegel sarebbe stato a tale proposito vittima della tradizionale concezione della verità come adaequatio rei et intellectus, nella misura in cui per lui la verità del pensiero coincide con la realtà oggettiva, abbiamo già avuto più sopra modo di osservare che essa si basa esclusivamente sulla sua deplorevole confusione tra i diversi concetti dell’adeguazione del pensiero alla realtà, e della realtà al pensiero, che vengono formulati dalla metafisica tradizionale (tomistica) e da quella hegeliana (cf. supra, § 3, n. 21). D’altra parte, ammesso e non concesso che la “rivoluzione copernicana” di Kant non abbia altro significato che la negazione della tesi che la verità è l’adeguazione o identità del pensiero e della realtà, quale altro concetto della sua essenza egli pone in sua vece? Rickert afferma che la verità è la relazione che si istituisce nel giudizio logico nella misura in cui “qualcosa” viene in esso predicato di qualcos’altro. Ma non è evidente che anche in un giudizio falso qualcosa viene predicato di qualcos’altro; e che l’esteriorità della relazione tra soggetto e predicato, che secondo Rickert sarebbe sufficiente a garantirne la verità, non solo caratterizza qualsiasi giudizio empirico, sia esso vero o falso, ma è ancor più radicale nei giudizi falsi che nei giudizi veri? Nel caso, ad es., del giudizio vero: “il Sole è il centro del sistema solare”, il predicato esprime una proprietà che di fatto inerisce al suo soggetto, e che è perciò, per tal verso, identica, non differente da esso. Nel giudizio falso: “la terra è il centro del sistema solare”, al contrario, il predicato non inerisce al soggetto, ed è dunque, nel senso più proprio del termine, “altro” da esso. La critica rickertiana della dialettica hegeliana culmina dunque nella paradossale objezione, che essa implica un concetto della verità per cui è possibile distinguerla oggettivamente dall’errore, laddove in 192


base al principio eterotetico, che è il fondamento ultimo della sua filosofia, un giudizio sarebbe tanto più vero quanto più il suo soggetto differisce dal suo predicato, cioè… quanto più esso è falso58!

§ 7. Etica e religione La perentoria negazione rickertiana della centralità teoretica della metafisica trova un preciso riscontro nella sua non meno perentoria rivendicazione dell’assolutezza dei valori ateoretici e della loro autonomia rispetto ai valori teoretici. Essa, tuttavia, non solo non garantisce la consistenza e la rilevanza filosofica del suo pensiero etico-religioso, ma neppure la mera correttezza della sua interpretazione delle corrispettive dottrine del pensatore da lui prediletto. Rickert contrappone, anzitutto, il presunto carattere individualistico, se non addirittura “asociale”, delle concezioni “intellettualistiche” o “metafisiche” della moralità all’afflato universalistico e “sociale” dell’etica kantiana: dimenticando, sorprendentemente, da un lato, che Platone e Aristotele non riconoscono altra vera “virtù” che quella che si realizza nella totalità organica dello Stato, o per lo meno nella comunità dei filosofi59; e, dall’altro, che Kant, pur non negando ovviamente la rilevanza pratica delle relazioni sociali per la formazione della personalità dell’individuo, sussume tuttavia senza eccezione il loro intero ambito (ivi comprese le istituzioni della famiglia e dello Stato!) sotto il concetto delle cosiddette “azioni esterne”60, il fondamento della cui validità è la mera esteriorità della categoria giuridica, laddove la legge morale, che è il principio pratico in ultima istanza decisivo, si realizza solo nella Gesinnung, cioè nell’interiorità della coscienza individuale. Dalla postulazione, inoltre, accanto alla sfera ateoretica degli assoluti valori etici, di un’altra sfera ateoretica, quella dei non meno assoluti valori religiosi, Rickert deduce la conseguenza – palesemente assurda, per lo meno dal punto di vista dell’etica kantiana – che i secondi, in quanto tali, imporrebbero all’individuo degli specifici doveri, diversi da quelli strettamente etici ma non meno incondizionati. Non si vede, infatti,

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A ragione, perciò, Guido de Ruggiero conclude che la teoria rickertiana della verità, lungi dal fornirci qualsiasi definizione plausibile della sua essenza, si avvolge in realtà in una mera petitio principii: “che cosa è la verità? Ciò che debbo pensare. E che cosa debbo pensare? la verità!” (G. de Ruggiero, La filosofia contemporanea, cit., p. 84). 59 Cf. Platone, Res publica, 368d-369a; Aristotele, Ethica nic., VIII, 4-7, 1156b 7-1158a 36; ecc. 60 Cf. I. Kant, Metaphysik der Sitten, in: Kant’s gesanmmelte Schriften, Bd. VI, hrsg. von P. Menzer, Berlin 1914, “Einleitung. III”, p. 218-21. Per un’ampia analisi e critica della concezione giuridica della famiglia formulata da Kant in questa stessa opera (cf. ivi, §§ 2427, p. 277-80), cf. G. Rinaldi, Teoria etica, cit., § 115, p. 441-42.

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come la volontà etica possa ottemperare all’esigenza, per Kant assolutamente imprescindibile, della pura autonomia della propria autodeterminazione ottemperando a dei doveri, quali quelli imposti dai valori religiosi, il cui contenuto, in quanto palesemente eteronomo rispetto all’atto del volere, ne mina in realtà alla radice l’asserita autonomia. In terzo luogo, egli sostiene che i valori etici, a differenza dei valori religiosi, che sarebbero “totalmente irrazionali”, sono inconcepibili e impraticabili ove si neghi la possibilità di elaborare il loro contenuto mediante le categorie e le procedure logiche della ratio. Ciò, tuttavia, non ne comprometterebbe l’intima natura ateoretica, perché la razionalità in questione, proprio come l’“agire conforme a scopo” (zweckmäßiges Handeln) teorizzato da Max Weber, avrebbe carattere meramente strumentale61. Col che egli mostra in realtà soltanto di aver gravemente frainteso il vero significato della distinzione kantiana tra la “ragion pura” (o “teoretica” o ”speculativa”) e la “ragion pratica”. La loro differenza, infatti, secondo Kant non sta nel fatto che, mentre nella prima è assente ogni contenuto ateoretico, nella seconda esso verrebbe invece elaborato mediante le categorie della ratio strumentale, bensì piuttosto nel fatto che la ragion pratica, pur essendo, in ragione della sua vuota formalità, in sé ateoretica, si fonda tuttavia anch’essa su di un principio razionale incondizionato, che come tale si distingue radicalmente da ogni possibile prodotto o funzione della ratio strumentale. Se la tesi di Rickert fosse vera, allora la cruciale distinzione kantiana tra “legge morale” o “imperativo categorico”, da un lato, e “imperativi ipotetici” e “consigli della prudenza”, dall’altro, smarrirebbe qualsiasi significato. Infine, il valore etico che si realizza nella sfera sociale dello Stato viene da lui identificato, con l’inconseguenza che è tipica del suo pensiero, a volte col principio dello Stato-forza teorizzato da Machiavelli, altre volte con lo Stato di diritto romano o con l’idea della giustizia. Col che egli mostra chiaramente di non comprendere che il principio della forza (economica, politica, militare) non è eo ipso identico a quello del diritto (astratto) o della giustizia, e, inoltre, che l’essenza della volontà etica, in ragione della sua incondizionata necessità e interiorità, non viene adeguatamente espressa né dalla naturalistica contingenza della forza né dall’astratta esteriorità della categoria giuridica.

61 Cf. Kant als Philosoph der modernen Kultur, cit., p. 147-76. La tendenziale riduzione rickertiana della “ragion pura pratica” kantiana alla mera ratio strumentale si ripropone, in forma aggravata, nella metodologia weberiana delle scienze storico-sociali, dove sfocia in un dichiarato relativismo assiologico. Laddove, infatti, Rickert tien fermo all’assolutezza dei valori etici, ad onta della loro (relativa) “irrazionalità”, Weber sostiene invece che la loro validità è esclusivamente determinata dalla “scelta” (soggettiva, arbitraria) del ricercatore di considerarli tali. Cf. G. Rinaldi, Teoria etica, cit., § 128, p. 494-95, n. 126.

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Del pari discutibile appare infine la teoria rickertiana dei valori religiosi. A differenza dei valori etici, il loro contenuto sarebbe radicalmente irrazionale, pur non essendo meno assoluto ed eternamente valido di essi; la facoltà dell’animo in cui si rivelerebbero – come insegnava il romantico Schleiermacher, la cui influenza sulla sua concezione della religione appare in definitiva prevalere su quella genuinamente kantiana – sarebbe l’immediato sentimento d’amore; e il peculiare rapporto ontologico, che verrebbe in virtù di essi espresso, sarebbe quello della Gotteskindschaft62, cioè della “dipendenza infantile” dell’uomo, in quanto persona singola, dalla volontà arbitraria e misteriosa di un Dio personale trascendente. È difficile comprendere come e perché tale configurazione del rapporto religioso tra Dio e uomo come relazione di dipendenza del secondo dal primo non costituisca, in verità, una flagrante violazione di quella che proprio secondo Kant è la ratio essendi di ogni possibile moralità, cioè la libertà “assoluta” o “trascendentale” dell’umano volere, per cui molti di quei comportamenti che, per quanto eticamente ingiustificabili, egli ritiene tuttavia forniti di assoluto valore religioso, dovrebbero, in realtà, esser piuttosto considerati inequivocabile espressione dell’immoralità della volontà che li pone in essere. Ancor meno è agevole comprendere come e perché una sfera assiologica in sé radicalmente individuale e irrazionale quale quella dei valori religiosi, la cui teorizzazione, come lo stesso Rickert apertamente riconosce, è di necessità “incoerente” e “frammentaria”, possa ciò nondimeno costituire la chiave di volta dell’auspicata “unità ultima” della cultura moderna, che, a differenza di quella realizzata nell’Età medievale, sarebbe in grado di salvaguardare l’autonomia delle stesse sfere culturali in cui si realizzano i valori teoretici ed etici. Del tutto perspicua, invece, appare la debolezza della ragione addotta da Rickert (questa volta sulla traccia dello stesso Kant) onde distinguere la sua concezione “irrazionalistica” della religione da quella “paradossale” sostenuta invece da un Tertulliano o da un Kierkegaard: i valori religiosi, egli sostiene, per quanto radicalmente “altri” da quelli teoretici, non implicano tuttavia, né direttamente né indirettamente, la distruzione della ragione, o quanto meno la negazione del valore assoluto del pensiero teoretico, perché l’asserzione della loro validità, pur non potendo essere razionalmente provata, non è tuttavia in sé contraddittoria, e non viola perciò quella ch’egli ritiene sia la legge fondamentale del pensare, cioè il principio logicoformale dell’identità astratta o non-contraddizione. Noi, tuttavia, sappiamo che tale principio è in verità inconsistente, o per lo meno vuoto e gnoseologicamente sterile; e, inoltre, non possiamo dimenticare che esso è stato originariamente formulato e difeso proprio dal pensatore che, secondo lo stesso

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Cf. Kant als Philosoph der modernen Kultur, cit., p. 84.

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Rickert, è il più tipico esponente di quella Weltanschauung “intellettualistica” o “metafisica”, la cui plausibilità egli si era proposto – senza, peraltro, come si è visto, riuscirvi – di scalzare alla radice.

§ 8. L’autoconfutazione dell’epistemologia neokantiana La critica, da noi poc’anzi svolta, della filosofia dell’ultimo Rickert potrebbe essere senz’altro sufficiente onde negare ad essa qualsiasi positivo significato e validità teoretica, ed avallar così, estendendolo alla letteratura rickertiana odierna63, il severo giudizio di Croce, secondo cui il risorto interesse per la sua filosofia, dopo la rinascita dell’Idealismo italiano all’inizio

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I saggi di L. Oliva, La validità come funzione dell’oggetto. Uno studio del neokantismo di Heinrich Rickert, FrancoAngeli, Milano 2006, e di M. Catarzi, A ridosso dei limiti. Per un profilo filosofico di Heinrich Rickert lungo l’elaborazione delle Grenzen, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, come pure l’articolo di A. Staiti, Heinrich Rickert, in: AA.VV., The Stanford Enciclopedia of Philosophy, ed. by E.N. Zalta, Stanford University 2013, non offrono nulla più che riassunti o parafrasi delle opere di Rickert, e non danno perciò alcun contributo né all’interpretazione né alla critica del suo pensiero. Un tentativo di interpretazione della filosofia di Rickert è reperibile nel libro di A. Donise, Il soggetto e l’evidenza. Saggio su Heinrich Rickert, Loffredo Editore, Napoli 2002. Donise sostiene che l’interesse da lui mostrato nei suoi ultimi scritti per la problematica dell’ontologia configura una vera e propria “svolta ontologica” (cf. ivi, p. 35 e n. 45 e p. 59 e n. 90) nel suo pensiero; ma l’“essere”, cui verrebbe così attribuita una priorità rispetto al conoscere, non sarebbe l’“aldilà” della metafisica e della teologia tradizionale, bensì lo stesso soggetto “immediato” ed “estetico” della vita quotidiana (cf. ivi, p. 29 e 73). Proprio in quanto immediato, tuttavia, esso non potrebbe essere, a rigore, conosciuto, bensì solo “vissuto” come l’unità “protofisica”, cioè originaria-immanente, dei dualismi tra soggetto e oggetto e tra realtà e valori, che costituiscono invece l’oggetto peculiare della conoscenza razionale. Non si può negare che la costituzionale inconsistenza del pensiero di Rickert possa, parzialmente, giustificare anche tale prospettiva ermeneutica; ma gli argomenti a suo sfavore appaiono di maggior peso. Anzitutto, abbiamo già avuto modo di osservare che l’“essere” reso oggetto dall’ontologia di Rickert è esplicitamente da lui concepito come il significato di una parola, che acquista validità oggettiva solo nell’ambito del giudizio logico: la teoria della conoscenza costituisce perciò l’imprescindibile presupposto e condizione di possibilità della stessa ontologia. In secondo luogo, se l’ontologia fosse veramente la scienza di un soggetto immediato “vissuto” ma non pensato, non si vede come e perché il genere di esperienza, su cui essa si basa, possa essere qualcosa di molto diverso da quell’“intuizione” o “comprensione” dell’essere, la cui possibilità egli, in aspra polemica con Husserl e Heidegger, invece nega. In terzo luogo, lungi dallo scindere la problematica ontologica da quella della tradizionale metafisica dell’Aldilà, egli concepisce il “vero essere” da essa teorizzato, e il conseguente dualismo tra Aldilà e Aldiquà, come un genuino “predicato conoscitivo”, che, pur non potendo legittimare una conoscenza scientifica o razionale del suo oggetto, può tuttavia dar luogo a una concezione problematica del medesimo. Concezione che svolge senz’altro un ruolo cruciale nella sua filosofia, nella misura in cui la religione sarebbe la conoscenza “indiretta” e “simbolica” del “vero essere”, il quale perciò, unificando i valori teoretici con quelli ateoretici, verrebbe a

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costituire nulla meno che l’auspicata chiave di volta dell’unità della cultura moderna (cf. supra, § 1). Non si vede, per contro, come l’ineffabile immediatezza del soggetto estetico possa adempiere tale cruciale compito nel sistema di Rickert. Ma il limite più serio di questo saggio consiste nella radicale inconsistenza di molte, troppe formulazioni, con cui Donise vanamente tenta di spiegare un pensiero di per sé, come si è visto, fondamentalmente inconsistente, contribuendo in realtà soltanto ad aggravare la difficoltà della sua comprensione. Facciamo qualche esempio. (1) Dopo aver contrapposto il valore “irreale” e “trascendente” della verità alla fatticità psicologica dell’atto del giudizio, Rickert si chiede come quest’ultimo possa realizzare l’idea della verità nell’immanenza della coscienza dell’individuo. A tal uopo questi deve possedere un criterio che gli consenta di distinguere objettivamente il giudizio vero da quello falso. Rickert lo identifica col “sentimento” soggettivo dell’“evidenza”: il che dà immediatamente luogo a una difficoltà, giacché anche tale sentimento è un fatto immediato della coscienza soggettiva, che è come tale particolare e contingente, e perciò può essere diverso in diversi individui, o in diversi momenti della vita del medesimo individuo. Ma allora – dobbiamo, a questo punto, chiederci – che cosa ci garantisce che un determinato sentimento di evidenza, a differenza di un altro, sia il “segno” adeguato della verità oggettiva? “L’evidenza!”, risponde Donise (cf. ivi, p. 51-52), senza rendersi conto di incorrere in tal modo in una palese petitio principii. (2) Donise mostra di condividere senza riserve la critica rickertiana della dialettica hegeliana, ma anche a tale proposito riesce in verità soltanto ad aggiungere ulteriori contraddizioni a quelle in cui finisce con l’avvolgersi, come si è visto, la polemica antihegeliana di Rickert. Egli afferma, tra l’altro, che il concetto hegeliano di negazione è falso perché le attribuisce un contenuto positivo, laddove quest’ultimo non potrebbe per principio assumere la forma della negazione (anche le grandezze matematiche “negative”, infatti, sarebbero in realtà positive), ed essa perciò sarebbe una mera forma logica vuota. Si potrebbe facilmente replicare a Rickert, a questo proposito, che egli confonde semplicemente due diversi concetti di negazione, che Hegel invece aveva accuratamente distinto, cioè la “negazione immediata” e la “negazione determinata”, e che basta considerare, ad es., l’equazione: (–3) + (+3) = 0 per accorgersi quanto poco “positiva” sia la funzione svolta in essa dalla grandezza negativa. Donise, invece, non solo ripete pappagallescamente l’infelice critica di Rickert, ma nel prosieguo viene ad asserire, a proposito dell’inoggettivabilità del soggetto protofisico e dell’Erlebnis, che “la caratterizzazione “non-oggetto” non è una vuota negazione, ma si riferisce a qualcosa di positivo” (ivi, p. 121). Dunque: esistono anche negazioni che non sono “vuote”, laddove l’accennato argomento antihegeliano di Rickert consisteva per contro nella perentoria negazione della possibilità di una negazione che non sia vuota! (3) Esponendo la teoria rickertiana del “soggetto profisico” come unità originaria di realtà e valore, Donise sostiene che tale unità “si trova in realtà, da un punto di vista concettuale, prima della divisione. Eppure risulta possibile formarsi un concetto di esso solo con l’aiuto della divisione” (ivi, p. 106, corsivi nostri). Qui appare evidente che il contenuto della seconda proposizione contraddice trivialmente quello della prima. Se il concetto del soggetto profisico può essere formato solo con l’“aiuto della divisione”, allora la sua formazione è contemporanea o successiva alla divisione tra realtà e valore, non già ad essa precedente, e perciò il soggetto profisico potrà sì precedere tale divisione, ma da un punto di vista, che, comunque ulteriormente determinabile (come temporale? o come ontologico?), non potrà tuttavia sicuramente essere un “punto di vista concettuale”. La serie delle inconsistenze logiche e teoretiche identificabili nel saggio di Donise, purtroppo, non si esaurisce negli esempi qui addotti. Sembra veramente che il processo di autoconfutazione dell’epistemologia di Rickert, da noi messo in luce nella sua Logik des Prädikats, prosegua, quasi per forza d’inerzia, nei testi elaborati dai suoi mediocri interpreti e commentatori; nel che ci sembra legittimo scorgere un plausibile indizio del fatto che la via verso la conoscenza della verità ci porta in una direzione che è non solo diversa, bensì alternativa

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del secolo XX, sarebbe solo un “anacronismo”64. Ma tale giudizio negativo potrebbe essere plausibilmente esteso all’intera tendenza della filosofia contemporanea che si suole designare col termine “neokantismo”, se è vero quanto Guido de Ruggiero afferma circa la peculiare posizione del pensiero di Rickert all’interno del movimento neokantiano. Esso si distinguerebbe dalle tendenze naturalistiche, empiristiche o relativistiche dominanti in tale movimento, perché il suo “motivo” fondamentale sarebbe “idealistico”, e dunque genuinamente filosofico, “perché vuole risolvere la posizione dell’essere in quella del valore spirituale”65; e questo giudizio del de Ruggiero appare pienamente confermato dal breve profilo che ne abbiamo ora tracciato, dal quale risulta infatti chiaramente che la problematica ontologica, metafisica ed etico-religiosa, che è di centrale rilevanza per ogni idealismo filosofico, non è stato affatto trascurata da Rickert. In attesa che questa nostra illazione storico-critica venga confermata da un adeguato esame delle opere dei fautori del neokantismo66, possiamo qui limitarci ad osservare che il giorno, in cui Otto Liebmann decise di concludere tutti i capitoli del suo saggio Kant und die Epigonen (1865) col ritornello: “E dunque si deve tornare a Kant!”, fu certamente uno dei più disastrosi per il pensiero tedesco contemporaneo. Ma la valutazione critica del pensiero di Rickert, che abbiamo ora delineato, non sarebbe completa se l’intima povertà, trivialità, inconsistenza delle teorie epistemologiche da lui articolate non raggiungesse addirittura, in certi contesti della Logik des Prädikats, vertici di così radicale e idiosincratica insensatezza che non possono esser qui passati sotto silenzio. Il fatto è che Rickert spesso, troppo spesso, enuncia i principi fondamentali della sua epistemologia in proposizioni che vengono subito smentite da altre proposizioni formulate nello stesso ambito teorico, a volte nella stessa pagina; per non dire di alcuni casi-limite, in cui il contenuto della proposizione in questione viene immediatamente confutato dalla sua forma

rispetto a quella dell’“empirismo trascendentale” di Rickert e, più in generale, dell’epistemologia neokantiana. 64 Cf. B. Croce, Ultimi saggi, cit., p. 331. 65 G. de Ruggiero, La filosofia contemporanea, cit., p. 81. 66 Ai limiti della tendenza evolutiva del neokantismo opposta a quella di Rickert e della Scuola del Baden, cioè lo gnoseologismo fisicalistico della Scuola di Marburgo, abbiamo già avuto modo di accennare mettendo in luce l’inconsistenza della critiche alla Logica e alla Filosofia della natura di Hegel svolte, rispettivamente, da E. Cassirer e R. Wahsner (cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, cit., § 45; e Id., Absoluter Idealismus und zeitgenössische Philosophie, cit., “Über das Verhältnis der dialektischen Methode zu den Naturwissenschaften in Hegels absolutem Idealismus”, p. 112-14 e 120-22). Né più convincente ci è apparsa la concezione cassireriana dell’essenza del linguaggio, ad onta del suo sedicente carattere “idealistico”. Cf. Id., Fondamenti di filosofia del linguaggio, in: “Studi urbinati”, anno LXVIII, 1997/ 98, p. 485-536, qui 495, n. 18.

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logica. Qui sembra veramente che l’epistemologia neokantiana si sia assunta l’onere… di confutare sé stessa! Il principio fondamentale dell’epistemologia di Rickert, come si è visto, è la tesi che la conoscenza vera consiste nel giudizio logico, il cui soggetto può essere solo il “qualcosa” (etwas), cioè il dato singolare dell’intuizione sensibile, laddove il suo predicato può essere solo un concetto assolutamente universale, ad es. quello logico-formale dell’Essere (Sein) o quelli “conoscitivi” dell’“essere reale” (wirklich), della verità, della bellezza, dell’“essere sovrasensibile”, dell’“esistere ideale”, ecc. Dunque, è per principio impossibile che il concetto dell’Essere possa divenire il soggetto di qualsiasi giudizio logico. Eppure… con grande sorpresa ci è stato dato di leggere, a p. 179 della Logik des Prädikats, che “l’Essere rimane sempre un predicato (Sein bleibt immer Prädikat)“; a p. 185, che “l’’Essere’, prescindendo dalla copula in quanto mero ‘tra’, è logicamente sempre e solo predicato, cioè non è mai soggetto („Sein“, abgesehen von der Copula als einem bloßen „Dazwischen“, logisch stets Prädikat und nur Prädikat, d. h. nie bloß Subjekt (hypokeimenon)”; e a p. 232, che “non solo ‘l’Essere’ è logicamente sempre e solo predicato, bensì analogamente anche il Non-essere o il “Nulla” può esser pensato solo come predicato in una formazione di senso vera (nicht nur „das Sein“ logisch stets Prädikat und nur Prädikat ist, sondern […] dementsprechend auch das Nicht-Sein oder „das Nichts“ sich in einem wahren Sinngebilde logisch ausschließlich als Prädikat denken lässt)”.

Ma non è evidente che in queste proposizioni i concetti dell’Essere e del Non-essere, che – esse affermano – dovrebbero esser solo predicati, sono in realtà soggetti? E che perciò la semplice forma di tali proposizioni confuta eo ipso il loro contenuto? Non è possibile cercare di aiutare Rickert a risolvere la difficoltà chiamando in causa la distinzione, da lui tracciata a p. 37, tra la forma grammaticale della proposizione (Satz) e il giudizio (Urteil) logico da essa espresso, e considerare perciò tali enunciati come proposizioni e non come giudizi, perché per Rickert solo il giudizio logico è epistemologicamente rilevante, sì che, se esse fossero solo proposizioni in senso grammaticale, non potrebbero esprimere quelle verità fondamentali dell’ontologia rickertiana che esse, invece, di fatto intendono enunciare. Non meno self-refuting delle accennate proposizioni è la teoria rickertiana del soggetto del giudizio logico, sebbene qui i lati della contraddizione non siano la forma e il contenuto della medesima proposizione, bensì vengano ripartiti in due diverse proposizioni, che sono tuttavia enunciate nella medesima pagina. Secondo Rickert, come si è visto, il soggetto del giudizio logico è radicalmente altro dal suo predicato: mentre questo è un concetto 199


logico universalissimo, esso è un dato singolare dell’intuizione sensibile, ch’egli ritiene possa esser senz’altro identificato col concetto del “qualcosa” (etwas) in generale. Di conseguenza, a p. 82 egli asserisce che “il ‘qualcosa’ ancor privo di predicato può presentarsi solo come soggetto logico e mai come predicato logico in proposizioni che ci danno conoscenza oggettiva (das noch prädikatslose “etwas” in Sätzen, die gegenständliche Erkenntnis geben, nur als logisches Subjekt und nie als logisches Prädikat aufzutreten vermag)”.

Ebbene, poche righe più sopra egli aveva invece affermato che tali proposizioni “conoscono qualcosa, cioè enunciano qualcosa di qualcos’altro (etwas erkennen, d. h. etwas von etwas anderem aussagen)”, e tale formulazione svolge un ruolo così rilevante nella sua epistemologia da essere letteralmente ripetuta anche a p. 77, 78, 81, 87, 104, 120, 139 e 148. Ebbene, ci chiediamo come sia potuto sfuggire all’acume di Rickert che in tale proposizione il primo “etwas” svolge proprio quella funzione di predicato, che poche righe prima egli gli aveva negato! Ma anche a proposito del concetto del Qualcosa, proprio come di quello complementare dell’Altro, la logica del predicato di Rickert si avvolge in non meno sorprendenti inconsistenze. L’oggetto dell’intuizione empirica viene tout court identificato da Rickert col concetto del Qualcosa e, a volte, anche con quello dell’Altro, visto che secondo il principio eterotetico il soggetto del giudizio logico è “altro” rispetto al suo predicato. Ma non è evidente che il concetto del Qualcosa (o dell’Altro), in quanto concetto, è una determinazione del pensiero, cioè un “universale” (generico, astratto), e come tale è radicalmente diverso dal contenuto dell’intuizione sensibile, che è invece un oggetto empirico, singolare, e non un concetto generico, universale? Nella Logik des Prädikats sembra che Rickert stesso – a differenza delle sue precedenti trattazioni del medesimo problema – sia infine divenuto oscuramente consapevole della difficoltà, giacché in essa troviamo anche un differente contesto teorico, in cui il soggetto del giudizio logico viene invece identificato col “questo” (dies), cioè con l’oggetto sensibile che può essere indicato mediante un gesto, o con concetti empirici quali quelli del “rosso” o del “verde”, la cui forma, ad onta del loro contenuto sensibile, è quella dell’identità “atemporale”67. Egli perciò (correttamente) conclude che nel processo del conoscere il dato sensibile non interviene mai – contrariamente a quanto il materialismo e il “sensualismo iletico” affermano – come un fatto materiale “grezzo”, bensì è sempre e di necessità mediato da una forma logica universale, ch’egli ritiene essere meramente “analitica”, proprio come lo sarebbero i vuoti concetti dell’Es-

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Cf. Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 113-19.

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sere copulativo, dell’Esistenza e del Nulla. Anche a questo proposito, tuttavia, sorprende come sia potuto sfuggire a Rickert (1) che l’universalità sensibile del “questo” è essenzialmente differente dalla categoria logica del Qualcosa, e che è perciò trivialmente contraddittorio affermare indiscriminatamente che il soggetto del giudizio logico è il ”questo” e che esso è il Qualcosa; (2) che l’universalità sensibile di concetti empirici quali il questo, il rosso o il verde contiene in sé una essenziale contraddizione, quella per cui la coscienza esperiente intende indicare con essi un oggetto singolare, laddove in realtà enuncia solo una forma universale dell’esperienza o della percezione sensibile; e che perciò, (3) nella misura in cui il soggetto del giudizio logico viene identificato con essi, esso in realtà annienta se stesso (dovrebbe essere un oggetto singolare, laddove in realtà è anch’esso un universale), e insieme a sé anche la verità del giudizio logico, e dunque dell’intera teoria neokantiana della conoscenza. Ma proprio nella teoria rickertiana della verità si annida un’ulteriore, e non meno perniciosa, contraddizione, che pure non sfugge all’attenzione di Rickert, sebbene la soluzione ch’egli ne propone brilli ancor più per la sua puerilità che per la sua inconsistenza. In polemica contro l’intuizionismo dell’ontologia fenomenologica egli ribadisce la tesi kantiana che solo il giudizio, e dunque l’atto del pensare, della riflessione, può essere vero o falso, non già l’intuizione immediata; e aggiunge che la verità non coincide con l’“adeguazione” del giudizio a un oggetto reale, bensì è un valore – analogo, per questo verso, alla bellezza o alla moralità –, che, come tutti i valori, “vale ma non è”, cioè è (o implica) un “dover-essere” (Sollen) che solleva l’esigenza della sua realizzazione, senza che essa, tuttavia, possa mai esser pienamente soddisfatta. Ora, il concetto del valore è uno dei quattro “predicati conoscitivi” fondamentali che la teoria rickertiana del giudizio, come si è visto, distingue, e che, in quanto tali, possono essere sempre e solo predicati, mai soggetti del giudizio logico. Dunque, qualsiasi teoria della verità, nella misura in cui essa costituisce il soggetto dei giudizi, in cui viene esplicata la sua essenza, diviene, a rigore, impossibile: quando infatti, ad es., affermo con Rickert che “la verità è una norma irreale, cui l’atto psichico dell’individuo deve sottostare”, è chiaro che io formulo un giudizio, in cui la verità è soggetto, non già predicato! Di fronte a questa lampante difficoltà, che mina alla radice la sua intera epistemologia, Rickert non sa trovare altra soluzione… che affermare che “una proposizione, nel cui senso il significato della parola ‘valere’ non è predicato, ma soggetto, costituisce un’eccezione

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non ripetibile in altri ambiti del conoscere”68; e, poche righe dopo, soggiungere che “l’eccezione ‘valido è predicato’ conferma qui, dunque, in verità la regola, cioè la correttezza della proposizione che valere, di regola, con un’unica, facilmente comprensibile eccezione, è solo predicato”69. Rickert s’illude senz’altro quando crede che i giudizi logici, in cui viene enunciata la sua teoria della verità e della conoscenza, siano un’“eccezione facilmente comprensibile” a una regola che impone invece al pensiero un procedimento logico radicalmente opposto. Egli sorprendentemente dimentica che la sentenza: “l’eccezione conferma la regola” non è un filosofema razionalmente fondato, bensì solo un’opinione, in cui si esprime la saggezza della “coscienza comune”, che nulla ha a che vedere con la teoria filosofica della verità, perché, nel migliore dei casi, essa formula in maniera corretta il rapporto epistemologico che sussiste tra le regole empiriche enunciate dalle scienze positive e i casi individuali che vengono sussunti sotto di esse. Ma l’idea della verità non è un concetto empirico, bensì un concetto puro, o, meglio, un’idea della Ragione; e l’esplicazione adeguata del suo contenuto può perciò aver luogo solo nell’ambito di un sistema di relazioni interne, cioè di leggi necessarie a priori, che si distinguono essenzialmente dalle regole empiriche proprio perché, laddove queste ultime tollerano eccezioni (qualora esse siano quantitativamente irrilevanti; giacché se la loro frequenza supera un certo limite, allora la validità della stessa regola empirica viene annullata), le prime invece le escludono categoricamente. Degradando, dunque, la teoria filosofica della verità, e quindi l’autocoscienza pura del pensiero logico, il “pensiero del pensiero” al rango di una “facilmente comprensibile” eccezione ad una regola empirica, Rickert opera in realtà, senza accorgersene, una trivializzazione della logica filosofica che non è certamente meno radicale di quelle ch’egli rimprovera al più volgare empirismo psicologico. Ma l’intima inconsistenza di questa infelice teoria rickertiana è così grave da inficiare, in definitiva, anche l’unico titolo di merito che potrebbe esserle legittimamente riconosciuto, e cioè la negazione della possibilità di un “disvelamento” antepredicativo della verità, e dunque il rifiuto dell’intuizionismo gnoseologico. Originariamente vero, per Rickert come già per Kant, è solo il giudizio logico, e in esso solo il soggetto può essere manifestato da una intuizione. Come, dunque, può Rickert giustificare la tesi fondamentale 68 “... ein Satz, in dessen Sinn die Bedeutung des Wortes „gelten“ nicht Prädikat, sondern Subjekt ist, eine auf anderen Gebieten des Erkennens nie wiederholbare Ausnahme bildet” (Die Logik des Prädikats und das Problem der Ontologie, cit., p. 92, corsivo nostro). 69 “Die Ausnahme „geltend ist Prädikat“ bestätigt hier also in Wahrheit die Regel, d. h. die Richtigkeit des Satzes, dass gelten in der Regel, mit einer einzigen, leicht verständlichen Ausnahme, nur Prädikat ist” (ibid., corsivo nostro, ad eccezione di “nur”).

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della sua logica del predicato, e cioè che esistono quattro, e solo quattro, predicati “originari” del giudizio? Se essi sono concetti puri, e non intuizioni, allora la giustificazione della loro validità oggettiva ed esclusiva potrebbe aver luogo solo mediante la loro deduzione da un principio più universale ed incondizionato, che, in quanto tale, è, in definitiva, unico e non presupporre ulteriori fondamenti della sua validità. Solo, dunque, un sapere “privo di presupposti” (voraussetzungslos) – qual è, e pretende di essere, la Logica speculativa di Hegel – può pienamente soddisfare tale inderogabile esigenza. Rickert, tuttavia, non diversamente da Kant, pur riconoscendone la legittimità logica, la riduce a un mero ideale regolativo (ivi, p. 94 e 169) che la conoscenza umana, di fatto, non può mai realizzare. A p. 55, perciò, egli esplicitamente ammette che la sua logica del predicato si fonda su presupposti che non possono esser logicamente giustificati – in primis, ovviamente, la teoria dei quattro predicati originari del giudizio logico. Ma così torna a riproporsi l’interrogativo: perché tali predicati sono proprio quattro, e non, ad es., tre o cinque? E come noi possiamo sapere che essi sono proprio quelli teorizzati da Rickert e non altri (ad es., i quattro concetti puri distinti dalla logica di Croce), e ch’egli ci ha descritto in maniera adeguata il loro contenuto e le loro vicendevoli differenze? Esaminando attentamente questa teoria di Rickert, appare chiaro che il contenuto di tali predicati non è altro che il distillato di teorie, convinzioni, fatti culturali generalmente ritenuti veri nell’epoca storica in cui egli elaborò la sua teoria del giudizio. Ma egli è altresì consapevole del carattere contingente e, in definitiva, soggettivo-relativo di ogni mera fatticità storica; e perciò, onde evitare le insidie dello storicismo e del relativismo, si sforza di trovare un fondamento non meramente fattuale della sua teoria del giudizio. Esiste, egli afferma (ivi, p. 170-71), un’“esperienza” (Erfahrung) essenzialmente diversa dall’intuizione sensibile, il cui oggetto non è un fatto singolare contingente, bensì un “significato” ideale: la “comprensione” (Verstehen) del significato di tali predicati sarebbe così il fondamento ultimo della loro validità oggettiva. C’è da chiedersi, a questo punto, che cosa ancora rimanga della critica rickertiana dell’intuizionismo fenomenologico. Essa potrebbe avere un senso, come si è detto, solo se per “intuizione” o “comprensione” Husserl, Scheler, Heidegger e Hartmann intendessero la percezione sensibile di un oggetto reale singolare; ma essi non solo concordemente distinguono l’intuizione empirica dall’“intuizione eidetica” o “visione dell’essenza” o “comprensione dell’essere”, nella quale soltanto si rivelerebbe la verità nel senso filosofico, e non già meramente empirico, del termine, ma per lo meno Husserl

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dedica anche ampie e sottili trattazioni al chiarimento del suo peculiare carattere gnoseologico e della sua differenza dall’intuizione empirica70. L’ennesimo paralogismo, dunque, in cui la logica del predicato di Rickert si avvolge, è che se la sua critica della gnoseologia fenomenologica è valida (perché solo il giudizio logico, e non già l’intuizione sensibile, rende possibile la manifestazione della verità), allora la sua teoria dei predicati conoscitivi è falsa, o per lo meno non dimostrata (perché vien meno la possibilità di garantirne la verità facendo appello all’“esperienza”); se, viceversa, la sua teoria dell’esperienza come comprensione di un significato non-sensibile è valida, allora l’unica ragione plausibile della sua polemica contro l’intuizionismo fenomenologica può esser solo la sua insufficiente conoscenza delle teorie gnoseologiche elaborate da Husserl e Heidegger, Hartmann e Scheler.

70 Cf. E. Husserl, Logische Untersuchungen, Halle Niemeyer 1922, vol. 2: “Zweite Untersuchung”, p. 106 ss.; Id., Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch, cit., §§ 3-4; Id., Erfahrung und Urteil, hrsg.von L. Landgrebe, Hamburg, Glaasen & Goverts 1954, §§ 81-93. Per un’analisi e critica di questa cruciale teoria husserliana cf. G. Rinaldi, Critica della gnoseologia fenomenologica, cit., cap. 3, §§ 7-8, p. 118-27.

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Congressi – Sabato 27 a Pescasseroli e domenica 28 a Pescina si è tenuto il convegno “Oltre ‘Salerno’ Bendetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica” con gli interventi tra gli altri di Luciano D’Alfonso (presidente regione Abruzzo), Stefania Giannini (ministro della Pubblica Istruzione), Gianni Letta (politico), Marco Pannella (leader radicale), Fulco Lanchester (professore). – Ha moderato Alessio Falconio (direttore di Radio Radicale). Video-messaggi di Fausto Bertinotti (politico), Giuseppe Galasso (storico), S.E. Pietro Santoro (Vescovo dei Marsi). – Contestualmente al Convegno si è tenuta la
 ASSEMBLEA di (RI)COSTITUZIONE della (nuova) “ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE PER LA LIBERTÀ DELLA CULTURA”. – Con l’intento di manifestare l’interesse della Redazione e l’adesione del Direttore del Magazzinodifilosofia per l’iniziativa di Marco Pannella, riportiamo dal blog della (nuova) AGENZIA RADICALE la relazione al convegno tenuta da Angiolo Bandinelli:

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Oltre ‘Salerno’ Bendetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica

Ringrazio innanzitutto per essere stato invitato a presentare una relazione al convegno su Ignazio Silone e Benedetto Croce che si sta qui svolgendo. La ragione del convegno non può essere certo il fatto, occasionale, che sia Croce che Silone fossero abruzzesi. Né d’altra parte penso che si voglia fare delle due figure – per giustificare questo nostro incontro – i testimoni paralleli di una identica paradigmatica situazione o condizione umana o culturale... Silone e Croce non hanno molti punti in comune, appartengono a sfere diverse, anche se non lontane. Il Convegno ha tre punti di riferimento, già nel titolo: Primo: “Oltre Salerno”; Secondo: “Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica”; Terzo: “Assemblea di (ri)costituzione della (nuova) Associazione Internazionale per la Libertà della Cultura”. Nelle intenzioni dei convocatori i tre temi sono strettamente collegati, per ragioni di tempo, mi dilungherò sul secondo punto, affido al Convegno un ampliamento sul poco che dirò circa il primo e il terzo. Il primo, da cui conviene partire: “Oltre Salerno”. Viene evocata la famosa “svolta di Salerno”, appunto. Nel 1944 il governo italiano si era trasferito in quella città. Al suo interno (e fuori) si stava svolgendo un drammatico scontro tra i partiti antifascisti e della Resistenza; c’era chi, come i socialisti, il partito d’azione e lo stesso PCI, voleva l’immediata abdicazione del re Vittorio Eanuele III e chi proponeva invece una linea più morbida, che rinviasse la questione istituzionale alla fine della guerra: nel marzo 1944, Togliatti sbarcò a Napoli, provenendo dall’URSS, e subito sostenne la linea morbida, smentendo i compagni del suo partito, per non parlare di socialisti e azionisti. Con questa “svolta”, suggerita a Togliatti, o imposta, dallo stesso Stalin, il PCI diventava l’ago della bilancia della politica italiana. Togliatti entrò nel governo, ecc. Il resto, lo sappiamo. Il tema del Convegno è dunque di esaminare “perché” e “come” andare, oggi, oltre Salerno.

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Non ho alcuna specifica competenza, non c’è dunque una ragione diretta perché io fossi chiamato a svolgere questa relazione se non perché, per ragioni anagrafiche, un po’ dell’atmosfera dei tempi in cui queste personalità vissero mi è rimasta nella memoria e – direi – nelle narici. Cercherò quindi di trasmettere un po’ di quelle antiche sensazioni e riflessioni, per utilità di quanti non le provarono. Perché qui forse si cela la ragion sufficiente del convegno. Di una cosa sono infatti certo: è difficile, per quelli che non hanno, appunto, la mia età – immaginare cosa sia stata l’Europa nella quale vissero e operarono Silone e Croce. Era l’Europa degli anni trenta, l’Europa forse più brutta, più negativa che si possa immaginare. Era l’Europa dominata dalle grandi dittature del XX secolo: da quella fascista, che ha dato il suo nome a tutte le altre, anche quelle più lontane e diverse – penso alla dittatura franchista o a quella polacca o ungherese, mere reazioni di stampo miltaresco – fino a quella nazista o alla comunista. Oggi ci liberiamo dei fantasmi di quel passato etichettando quei fenomeni come “dittature”, “fascismi”, ecc. Pensiamo sia sufficiente la nostra cumulativa e scontata condanna. Ma quelle dittature (il fascismo e il comunismo, sicuramente) incarnarono tentativi serissimi per la creazione di un homo novus, un uomo nuovo proiettato nell’avvenire con tutta la sua complessità etica, storica e politica. E qui scopriamo il qualcosa che unisce Silone e Croce. Al tremendo progetto politico inscenato da quelle dittature diede mano una buona fetta dell’intellettualità del tempo. Oggi il termine intellettuale viene unanimemente esecrato. Non so se sia bene o male la sua scomparsa però io, per dire, sento la mancanza – oggi – di una figura come Sciascia – che però mai rivedicò per sé, credo, tale qualifica. Ma, a quell’epoca, la figura dell’intellettuale era centrale, sul palcoscenico (almeno sul palcoscenico...) della vita pubblica. Basti tornare al Congresso internazionale “Per la difesa della cultura” contro la barbarie totalitaria nazista e fascista, svoltosi nel giugno del 1935 a Parigi – promosso da Ilyia Ehrenburg, ma avendo come riferimento il Comintern e come regista Stalin – che vide la partecipazione attiva di grandi intellettuali europei delle più varie tendenze politiche. L’adunata parigina aveva un objettivo politico contingente e urgente: rendere appetibile alla società civile europea occidentale la svolta che aveva spinto Stalin a liquidare la teoria del “socialfascismo” a favore della strategia del “fronte popolare”, cioè di quell’alleanza tra proletariato e borghesia “progressista” che aveva favorito, appena un mese prima, il patto di mutua assistenza tra Mosca e Parigi. Al convegno parigino potevano (e dovevano) essere denunciati gli orrori di ogni regime politico, salvo quelli perpetrati dalla Russia comunista: l’Unione Sovietica era il “baluardo della vera cultura”, e di conseguenza ogni intellettuale onesto aveva il dovere di “difenderla” da ogni critica. La tesi fu portata avanti non solo dai funzionari del Pcus inviati a Parigi ma anche da noti intellettuali: Brecht, Nizan, Aragon, Barbusse, persino Gide. Reagirono Benda, Musil, Huxley, ma soprattutto Gaetano Salvemini. Lo storico italiano articolò la sua relazione sulla differenza radicale tra società borghesi – aperte al “soffio della libertà” – e Stati totalitari, tutti liberticidi: poca differenza esisteva tra bolscevismo, fascismo e nazismo e nessuno poteva sentirsi in diritto di “protestare contro la Gestapo e l’Ovra di Mussolini” dimenticando che “nella Russia sovietica vi è la

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Siberia” o ignorando che esistevano, sì, “proscritti tedeschi, italiani” ma anche più numerosi “proscritti russi”. Ambrogio Donini, replicandogli, accusò Salvemini di aver voluto dividere l’unità del fronte antifascista. Sempre Donini sostenne poi, sull’organo ufficiale del partito comunista, che “il Prof. Salvemini ha aperto una breccia, attraverso la quale potranno passare il gruppetto di provocatori trotzkisti, che trovano la loro unica ragion d’essere nella lotta contro i comunisti, i costruttori del socialismo e l’avanguardia rivoluzionaria del proletariato”. Ho ricordato questo episodio della politica e della cultura negli anni trenta per mettere un po’ a fuoco anche i nostri due personaggi. Silone e Croce vissero dunque in un contesto storico-politico nel quale la cultura svolgeva un ruolo forte, quanto negativo, nella lotta contro la libertà, il liberalismo e la democrazia. Se non nasceva qui, qui sviluppava la sua devastante potenza l’intellettuale europeo del XX secolo. Al congresso partecipò polemicamente anche quel Julien Bendà cui dobbiamo un testo capitale, La trahison des clercs, che ebbe l’onore di venir citato da Croce in nota a uno dei suoi testi (Croce detestava le note, l’eccezione nei confronti di Benda era quindi una sorta di dichiarazione politica). Certo, ci furono intellettuali che lottarono contro il nazismo e il fascismo, ma non tutti riuscirono a mantenere le debite distanze dal comunismo: e, ancora nell’immediato dopoguerra, furono moltissimi quelli che si allontanarono dalle loro posizioni – per esempio il crocianesimo – per passare armi e bagagli sotto le bandiere del PCI, nella sua fresca edizione togliattian/gramsciana. I nostri due personaggi, attraverso percorsi del tutto differenti, seguirono invece la lezione salveminiana e furono insieme antifascisti, antinazisti e anticomunisti: cioè, in una parola, antitotalitari. Nella loro diversità, i due percorsi sono affascinanti. Il figlio del piccolo proprietario contadino ed ex-emigrante in Brasile, Ignazio Silone, fin da giovanissimo sentì suoi vicini, sodali e fratelli i cafoni della sua terra, e su questa vicinanza e fratellanza costruì il suo percorso, insieme umano, civile e politico; l’intellettuale di status benestante, Benedetto Croce, si nutrì invece fin dalla sua gioventù – con grande familiarità – del migliore, più alto pensiero del tempo, italiano ed europeo. Tutti e due però elaborarono tesi (se non una vera e propria dottrina) della libertà che si contrappose con uguale cristallina chiarezza al fascismo ma anche al comunismo. Il risultato fu, per l’uno come per l’altro, un forte ed acre isolamento, presso i loro contemporanei, e dopo. Silone era nato a Pescina negli Abruzzi, il paese – per inciso – dove era nato anche il cardinal Mazzarino. Ma Silone veniva da povera famiglia e cominciò presto a occuparsi di politica perché nella politica, e nel partito comunista del tempo, pensava di poter trovare una via per la liberazione dei suoi amati cafoni. Del PCI Silone salì ai vertici internazionali, conobbe quasi tutti i grandi dirigenti del Comintern di allora, ebbe anche modo di incontrare, assieme a Togliatti, Stalin. Ma presto, tra il 1927 e il 1930, matura una profonda delusione per i metodi di gestione del movimento comunista mondiale, dominato dal terrorismo della macchina

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staliniana che in quegli anni veniva distruggendo i suoi oppositori interni, dal Buckharin (cui allora Togliatti faceva riferimento), a Trotzsky. Fu un massacro anche fisico, di cui Silone fu sgomento spettatore. Così, Silone decide di abbandonare il partito e la politica attiva. Comincia a scrivere: nasce Fontamara, il suo capolavoro tradotto in ventisei lingue, che gli dà fama mondiale Il mondo di Fonteamara – come poi sarà il mondo dei successivi romanzi – è il mondo dei suoi amati cafoni. La figura del cafone, del contadino abruzzese, è centrale nell’opera di Silone, diventa paradigmatica di una visione del mondo. Silone in questo è, come Primo Levi, uno scrittore monomaniaco o monocorde, per lui come per Levi c’è una sola chiave per interpretare tutto l’insieme dei fatti del mondo. Il cafone di Fontamara è lo stesso soggetto delle lotte agrarie contro il latifondo condotte sotto le bandiere rosse del PCI, che erano, allora, le bandiere della libertà dall’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Ma Silone non assoggetta il suo cafone alla macchina e alle ideologie del partito. Il protagonista di Pane e vino (1938) – va bene, questa volta è un “intellettuale”, esiliato politico comunista – elabora una interiore conversione di fronte ad un mondo che sente ostile. E l’opera costituisce una anticipazione di quella riscoperta dell’eredità cristiana cui Silone si dedicò nel dopoguerra. Si capisce l’ostilità della cultura “ufficiale” del dopoguerra, appunto, nei confronti di questo scrittore: la “questione religiosa” veniva affidata al PCI dell’approvazione dell’Articolo 7 della Costituzione e del successivo “compromesso storico”. A Silone, quegli intellettuali preferirono sempre – paradossalmente – il Camus (che pure aveva recensito favorevolmente Pane e Vino) ideatore di quell’inoffensivo ma affascinante mito del Prometeo, personificazione di un individualismo abbastanza narcisistico, lontano le mille miglia dalla riflessione dolorosa sul mistero della storia cristiana in Italia e nel mondo. La polemica contro i partiti sarà d’ora in poi centrale centrale nella sua fervida attività da fuoriuscito ed esule, di appassionato difensore e promotore di iniziative di cui manca ancora una storia. E nel 1958 parla, con anticipatrice precisione, proprio di “regime partitocratico” (forse, idealmente, accanto a lui c’era un altro abruzzese, Panfilo Gentile): “il vero centro del potere reale è fuori del parlamento, negli esecutivi dei partiti” e pertanto “sarebbe più esatto dire che noi viviamo in un regime di partitocrazia”. Sarebbe interessante, in apposita sede, mettere a confronto la polemica siloniana e gentiliana con la concezione del rapporto tra Istituzioni e partiti, ancora attualissima, di un Costantino Mortati o di Giuseppe Maranini, il grande studioso che già nel 1949 aveva coniato il termine di partitocrazia (è già nel titolo del suo discorso all’inaugurazione dell’Anno accademico 1949/50 dell’ateneo fiorentino: “Governo parlamentare e partitocrazia”). Dalla polemica contro gli apparati dei partiti prende le mosse – fino alla requisitoria nel Convegno degli Amici del Mondo svoltosi nel 1959, in occasione del trentennale del Concordato – la forte polemica contro le intromissioni nella vita politica italiana della chiesa che, per Silone, esercita un decisivo controllo sul principale partito italiano, la DC. Il tema della chiesa e della religiosità è, per Silone, assillante: sarà uno degli snodi essenziali della sua riflessione storico-politica. E ancora una volta il punto di

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partenza è il suo Abruzzo, la sua gente, il cafone. Per Silone, il cafone non deve dimenticare le sue origini, le sue radici, che per Silone non possono non essere radici cristiane. Attento alla storia della chiesa, al cammino del Vaticano II, Silone aspira a vedere una chiesa corrispondente alle attese di questo cafone, una chiesa del povero e per il povero. L’eroe della sua chiesa è Celestino V, il papa che si dimise giudicandosi inidoneo all’immane compito, ma anche sgomento e impotente dinanzi alla corruzione che vedeva circolare nella potente chiesa ufficiale. “Vi è una storia del cristianesimo popolare italiano [osservò] che non coincide con quella della gerarchia. Poiché non si esprime sempre nei libri, anche i laici colti la ignorano. Per questo tanti si chiedono da dove sia uscito papa Giovanni, con quel suo estro e il suo stile”. E poi, definitivamente, in Uscita di sicurezza: “Presso i più sofferenti, sotto la cenere dello scetticismo, non s’è mai spenta l’antica speranza del Regno, l’antica attesa della carità che sostituisca la legge, l’antico sogno di Gioacchino da Fiore, degli Spirituali, dei Celestini”. Per mera coincidenza, noi abbiamo di recente assistito ad un evento analogo, il passo indietro di Benedetto XVI. Che per Silone si possa e debba applicare la categoria del precursore? Tra il 1950 e il 1967 operò, anche in Italia, il “Congress for cultural Freedom” (“Congresso per la libertà della cultura”). Il Congresso ebbe uffici in trentacinque paesi (alcuni extraeuropei), pubblicò una ventina di prestigiose riviste (“Tempo Presente”, “Encounter”, etc.), organizzava esposizioni artistiche, conferenze internazionali di alto livello ed elargiva premi e riconoscimenti ad artisti e musicisti. Silone, insieme ad Altiero Spinelli e Guido Piovene, rappresentò l’Italia alla conferenza fondativa, tenutasi a Berlino nel 1950 e sconfessata pubblicamente da Jean-Paul Sartre ed Albert Camus che, invitati, si rifiutarono di parteciparvi. Inizialmente, fra i presidenti onorari del Congresso, accanto a Bertrand Russell troviamo l’ottantenne Benedetto Croce. La sezione italiana del Congresso, l’“Associazione italiana per la libertà della cultura”, fu costituita da Ignazio Silone alla fine del 1951 e divenne il centro propulsivo, anche e soprattutto sotto il profilo logistico ed economico, di una federazione di circa cento gruppi culturali quali l’Unione Goliardica nelle università, il Movimento Federalista Europeo di Altiero Spinelli, i Centri di Azione democratica, il movimento Comunità di Adriano Olivetti e vari altri. Pubblicava la prestigiosa rivista “Tempo Presente” diretta dallo stesso Silone e da Nicola Chiaromonte. Nel suo gruppo dirigente, accanto a laici come Adriano Olivetti e Mario Pannunzio, figurava anche Ferruccio Parri, il padre della sinistra indipendente, uomini politici di estrazione azionista e liberaldemocratica come Ugo La Malfa, ecc. Si è fatta molta ignobile polemica, da sinistra, sul fatto che queste iniziative fossero finanziate, più o meno copertamente, dal governo americano e addirittura dai servizi segreti della CIA. A parte il fatto che quello stesso Governo

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americano stava consentendo all’Europa di sopravvivere e riprendersi dal collasso bellico grazie agli aiuti del Piano Marshall, occorre anche tener ben presente che – come ho accennato – l’intera o quasi intellettualità europea, a partire da Sartre, guardava all’URSS come al faro della democrazia contro l’imperialismo statunitense. L’aver radunato e finanziato, sotto solide istituzioni, gli intellettuali che invece l’URSS la combattevano, fu un incalcolabile merito dell’America. Basti pensare che ancora oggi si analizza un fenomeno di vastissima portata nella storia del dopoguerra, che vide la cultura e i suoi intellettuali disegnare e imporre un profilo culturale dell’Italia del tutto plasmato sulla linea politica togliattiana. È la linea che ancora oggi ostracizza, per dire, uno Sciascia... È comprensibile che, nel gran dibattito postbellico tra gli intellettuali europei più o meno engagés, Silone non faccia una figura spendibile. Il dibattito è tra i Camus e i Sartre, o magari gli Horkheimer e gli Adorno, una fioritura di altissimi ingegni, però tutti – come oggi verifichiamo – sconfitti e dimenticati. In lontananza, per uno strano gioco del destino, riappare la figura di Celestino, con il suo atto di rinuncia che ci ritorna nel ritiro di Benedetto XVI. Con tutte le differenze possibili, nei due gesti c’è il richiamo, o la nostalgia, per un cristianesimo “diverso”, lontano dalle pompe, dagli interrogativi per i teologi, comunque sconfitti dall’assodante silenzio della società civile o dalla corruzione che si cela sotto i loro paramenti. L’“antiquato”, il “superato” Silone si pone oggi come centrale interprete del clima di papa Francesco. Nel momento culminante dell’espansione delle dittature europee, Croce elaborò una sua risposta antagonista, di stampo liberale. Diciamolo subito: Croce non era, come fu Silone, un militante. La sua fu la risposta – nell’immediato – di un perdente, di uno che, nella morsa delle dittature, non riusciva a vedere alcuna ipotesi, alcuna via di liberazione: assisteva al dramma del sconfitta politica delle democrazia e della libertà. Così approdò alla sua splendida intuizione della “religione della libertà”. La religione della libertà si pone in un tempo metastorico, dacché il tempo storico non offre più speranza. Croce qui ritorna quasi ad essere hegeliano: affida al processo della storia dello spirito quella vittoria che la storia evenementielle gli negava. Vale a dire: per quanto possa essere sconfitto nel qui e nell’oggi, lo spirito è destinato alla vittoria, nella metastoria come religione laica, se non come politica. La sua “religione della libertà” fu il prestigioso valore ideale che Croce contrappose alla dittatura. Qualcuno ha parlato di formula “mistica”, “astratta” e dunque impotente nei confronti del fascismo e della sua “concretezza” reazionaria e fattuale. Si è anche detto che la formula “riusciva a indebolire le opposizioni, non serviva ad individuare le forze vive di aggregazione democratica”, e in definitiva era rivolta al “passato della vecchia Italia liberale e monarchica”. Dai miei ricordi emerge una ben diversa percezione dell’importanza che ebbe, in quegli anni bui, la luce proveniente da quei testi, da quella “formula”: che a mio (modesto) avviso resta la più essenziale espressione di quella che deve essere un’etica laica e liberale. Perché in definitiva lo spirito – come si dice – spira dove vuole, e lo spirito è la norma dell’etica della responsabilità (da Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932, cap. I):

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“... La concezione della storia come storia della libertà aveva a suo necessario completamento pratico la libertà stessa come ideale morale – ideale che, infatti, era concresciuto con tutto il pensiero e il moto della civiltà, ed era passato nei tempi moderni dalla libertà come complesso di privilegi alla libertà come diritto di natura, e da questo astratto diritto naturale alla libertà spirituale della personalità storicamente concreta; e si era fatto via via più coerente e saldo, avvalorato dalla corrispondente filosofia, per la quale quella stessa che è legge dell’essere è legge del dover essere ...”. In questa prospettiva, già in Teoria e storia della storiografia (1927), Croce definisce il concetto di “storia etico-politica”, la quale “s’indirizza agli uomini di coscienza, intenti al loro perfezionamento morale, che è inseparabile dal perfezionamento dell’umanità”. *** Finisce qui la mia breve ricostruzione della vita e delle opere dei due personaggi. Non so se sarà utile ai fini di questo convegno. Non vorrei comunque che alla fine ci trovassimo a registrare solo una sequenza di interventi celebratori di Silone e Croce, per eleggerli a testimoni del tempo, per invocarne le esimie qualità culturali o morali, ecc. Credo di aver per parte mia tentato di avviare un discorso relativo alle vicende dell’intellettuale del novecento. Anche per me quella figura è bene, come tale, che sia scomparsa. Ma l’interrogativo che mi viene assillante davanti è quel contesto, in cui i due vissero, di una Europa senza più democrazia. Mi inquieta la domanda se per caso noi non stiamo vivendo un’epoca analoga. Le lamentele sul “deficit di democrazia” delle istituzioni europee sono infinite, così come sono infiniti gli allarmi sulla generale crisi “della e delle democrazie” nel mondo. E mi angoscia vedere come in Italia si cerca di affrontare la crisi del paese senza fare il minimo riferimento al funzionamento (o per meglio dire alle drammatiche disfunzioni) delle istituzioni. Ci si accanisce contro la “casta”, ma nemmeno si scalfisce la “partitocrazia”: anche se invece di partiti abbiamo oggi cosche, mafie, correnti, clan o come vorrete chiamarli. Di fronte alla crisi della democrazia che li circondava, Croce e Silone cercarono una “uscita di sicurezza” che affondasse nel cuore del dramma del loro tempo. Silone attraverso una militanza di isolato che cerca sempre di cogliere gli strumenti e le occasioni che via via gli si offrono; Benedetto Croce volando altissimo sul contingente per arrivare a darci la piìù vigorosa espressione dell’eticità della vita civile. Penso che tutto sommato sarebbe bello se il nostro convegno si ponesse analoghe questioni, domande, suggestioni; e cercasse di dare loro una risposta valida, magari dando vita alla “Assemblea di (Ri)costituzione della Associazione Internazionale per la Libertà della Cultura”, come ci sollecita il terzo punto della convocazione del nostro convegno e ci ha sollecitato, poco fa, Rita Bernardini. Angiolo Bandinelli

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Dedicato ad: Anna-Teresa Tymieniecka † Univ. Cattolica del S.Cuore Milano1-3 ottobre 2014

THE 64TH CONGRESS OF PHENOMENOLOGY: ECO-PHENOMENOLOGY. LIFE, HUMAN LIFE, POST-HUMAN LIFE IN THE HARMONY OF THE COSMOS Program Coordinator Anna-Teresa TYMIENIECKA † Conference Coordinator Daniela VERDUCCI CONGRESS ORGANIZERS *Dipartimento di Filosofia - Università Cattolica del Sacro Cuore *The World Institute for Advanced Phenomenological Research and Learning *The International Society for Phenomenology and the Sciences of Life SCIENTIFIC COMMITTEE Azerbaijan: Salahaddin KHALILOV; Georgia: Mamuka DOLIDZE; India: Debika SAHA; Italy: Angela ALES BELLO, Francesco ALFIERI OFM, Dario SACCHI, Francesco TOTARO, Daniela VERDUCCI; Latvia: Maija KULE; Norway: Konrad ROKSTAD; Romania: Carmen COZMA; Spain: Maria Avelina CECILIA; Turkey: Erkut SEZGIN; United States: Olga LOUCHAKOVA SCHWARTZ.

Organizing Secretary: Francesco ALFIERI OFM (frafrancescoalfieriofm@yahoo.it), Roberto DIODATO (roberto.diodato@unicatt.it), Dario SACCHI (dario.sacchi@unicatt.it) *The World Institute for Advanced Phenomenological Research and Learning (daniela.verducci@unimc.it | Wphenomenology@aol.com | Website: www.phenomenology.org) *The International Society for Phenomenology and the Sciences of Life (totarofr@unimc.it; totarofran@email.it)

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“Actually, my account of ontopoiesis is an eco-phenomenology. Ontopoiesis reaches to the very germs of ecology: development and genesis. I have published several essays related to this. In The Passions of the Earth [“Analecta Husserliana”, Vol. LXXI], I show how the human being is an ecological fruit and how the human being is formed by the earth and sucks the juices of the earth. I have also written things about the cosmos and the cosmic dependencies of the human mind and human development. You see, the self-individualization of life, which is the basic instrument of ontopoiesis draws upon the laws of the cosmos and the earth. This is the most fundamental ecology that can be done. So, we have just touched the essence of my philosophy, the base – our relationship to the earth and to the cosmos”. [A.-T. Tymieniecka, An Interview by L. Petter Torjussen, J. Servan, S. Andersen Oyen, Bergen 2008]. WEDNESDAY, October 1, 2014 - h. 9,00 - Cripta Aula Magna Chaired by: D. Sacchi – Welcome address by the Authorities A.-T. Tymieniecka Memorial O. Louchakova-Schwartz: The Symphony of Sentience in Cosmos and Life: In Memoriam A.-T.Tymieniecka F. Alfieri OFM: Eco-phenomenology: The Testament Left by the Philosopher A.-T.Tymieniecka S. Khalilov: Anna-Teresa Tymieniecka and Philosophy of Islam Introductions to the Congress D. Verducci, Co-president of The World Phenomenology Institute for European/ Asian Division F. Totaro, President of the International Society for Phenomenology and the Sciences of Life, affiliated to WPI C. Cozma: Ontopoiesis of Life as Eco-Phenomenology 1. Plenary Session: Seeds of Eco-Phenomenology D. Sacchi: Idealism and Realism in the Evolution of Husserlian Phenomenology I. Soteropoulos: The Origin Paradox of Life M. Dolidze: Cosmic Harmony, Emergence of Life and Human Consciousness A. Grandpierre (Konkoly Observatory, Hungarian): The Fundamental Biological Activity of the Universe and Astrobiology 1. Parallel Section: Reality, Cosmos, Nature R. Miron: The Vocabulary of Reality: Conrad-Martius Phenomenologybetween Harmony and Abyss M. Serafini: A.-T. Tymieniecka’s Insight on E. Stein’s Letters to R. Ingarden: At the Living Origins of the Phenomenological Movement

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S. Akinci: Theodicy: A World without Problems 2. Parallel Section: Nature and Culture F. Bosio: Logos della vita e logos della scienza. Indicazioni metafisiche A. Hernas: First Beginning as Anarchic Freedom of Existence K. Tarnowski: Instrumental or Sacramental Attitude towards Nature K. Mech: Nature and Ecology (what Kind of Nature Ecology “Needs”) 2. Plenary Session: Eco-Cosmology O. Shkubulyani: Cosmic Nihilism, its Essence and Manifestations N.N. Kozhevnikov and V. Danilova: Life and Human Life in the System of World Coordinates on the Basis of Extreme Dynamic Equilibrium D. Saha: Ecophenomenological vision: Balancing the Harmony of the Hearth P. Mróz: The Lost Unity of the Lebenswelt and the Consciousness in the Light of Ecosystem of Life and Thought M.A. Cecilia: The Role of Human Being in the Global Context of Cosmos, Chaos and Evil: From A.-T. Tymieniecka’s Eco-Phenomenology to P. Ricoeur’s Hermeneutics K. Bunyadzade: Ego – at the Cross Point of the Divine Illumination and the Social Reality 3. Parallel Section: Eco-Ethics and Environmental Theories

M. Ghosh: Ecology and the Life-World L. Avitabile: Legal Institutions and Nature Z. Ikere: Human Beingness in the Relation to the Bios and the Cosmos A. Kuzmin: Specifics of Humanitarian Concreteness in Post-Modernist Philosophy and Trasversal Structures of Reflexion E. Buceniece: Phenomenology as Ecology. Consciousness, Humanity and the Surrounding Reality C. Pesaresi: From the Cosmological to the Physical Openness: Nature and Life in Patočka’s Thought A. Lucaioli: Cultural Sustainability: Reflections Lines for a Human Life in the Harmony of the Cosmos L. Valera: From “spontaneous experience” to the Cosmos: Arne Naess Phenomenology Structures of Reflexion R. Boccali: The Geology of the Mouvement. The earth and the Dynamic of Phenomenalisation in Merleau-Ponty and Patočka C. Canullo: Environmental Philosophy and Eastern Thought. Solving Relationship between Man and Nature through a Different Conception of Reality 4. Parallel Section: Eco-phenomenological Readings R. Gray: Sowing “a quilt of harmony”: An Eco-Phenomenological Reading of Ben Okri’s “Lines in potentis” K. Murata-Soraci: “Song of the Earth”: An Eco-Phenomenology

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R. Painter: In Search of the Dark Energy of Consciousness in Creative Harmony with the Earth L. Petrescu: Nature and Cosmicity in the Romanian Interwar Literature: Phenomenology of “Participation” B. Bombala: Eco-Phenomenology of Scientific Activity as Non-Routinized Routine: Stefan Banach’s Café Method of Research R. Langley: Sartre’s Dialectical Reason interpreted as a Philosophical Anthropology that resolves the Contradictions of Marx and Freud A. Chesher: Showing the Concealed as Concealed: Phenomenology and Walking as Art J. Koushik: Transcendental Philosophy of Krishnachandra: An Indian Approach towards Human Life O. Holmes: The “New Science” and the Reevaluation of Nature 5. Parallel Section: Eco-Phenomenology: Language and Sentience E. De Nardis: Some Directions on Eco-Phenomenology Research: The Role of Language A. Domínguez Rey: The Language that inhabits (in) us L. Hopsch: Small Talk with a Vine. Presence and the Sensuous Depth of Being E. Sezgin: Sentience Experimented as Auto-Hetero Affective Movement in Touch with the Event P. Morgan: Foundations of the “Felt Sense” of a Ubiquitous Net of Relations I. Poleshchuk: From the Face of the Other towards New Modalities of Subjectivity: Phenomenology of Enjoyment and Sensibility 6. Parallel Section: Islamic Eco-Philosophy Ahmadali Heydari: The Earth from the Point of View of “Gestell”: The Earth from the Point of View of “Liberating Art” in Heidegger with Appeal to the Point of View of Islamic Mysticism Ghasem Pourhasan: The Primacy of Existence and the Meaning of Life. Mulla Sadra’s Phenomenology and the Question of Life H. Kalbasi Ashtari: The Correspondence between the Afterlife and the Human Life from the Point of View of Islamic Mysticism A.T. Abdulhasan: Eco-Phenomenology and Quran 3. Plenary Session: Human Openness and Post-Human Cosmicity R. Marchesini: Animal Epiphany. The Posthuman Meaning of the Encounter with Non-Human Alterities U. Fadini: Eco-ethics. Beyond the Cyborg. Prolegomena for a D-Humanism M. Kūle (Latvian University, Riga, Latvia): Eco-phenomenology: Relationships between Nature and Culture. E. Husserl’s follower Th. Celms’ Interpretation M. Mezzanzanica: Human Condition, Nature, Power and Creativity. Philosophical Anthropology and Eco-Phenomenology in the Context of Bio-Politics A. Małecka and K. Stark: Henryk Skolimowski’s Eco-Philosophy as a Project of Living Philosophy

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7. Parallel Section: Ecology of Human Mind and Human Relations I. Kock: Cosmos and Society of Equals – the Unfolding of Nature and Human Society through Creative Cooperation and Perfection of Love V. Vevere: Experience of the City: An Ecophenomenological Perspective R. Kūlis: Immanuel Kant and Ecology of Cognition S. Khalilov: Holographic Memory of Life Situation P. Grezzi: The Phenomenon of Human Intellect and its Place in the Cosmos through the Vision of Arabic Philosopher Avempace A. Ales Bello: Ecophenomenology of the Human Enviroment: The Case of Intercultural Dialogue J. Szmid: Digital Reason and Human Mind M.P. Migon: A Brief Caracteristics of the Stratification Relating to the “Lower” and the “Higher”. Man “Within” the Personal Human Being 8. Parallel Section: Flesh, Body, Embodiment/Space and Time P. Ryan, (Prague): “Oculus”: Human Life and Transit of Space and Time A. Pawliszyn: From the Archeology of Happenings…the Matter of Corporeality K. Łacina: Multi-Layered Time in Life and the Harmony of the Cosmos C. Danani: Space, Place and Community V. Carella: Eco-Phenomenology: the Japan Original Perspective in the Thought of Nishida Kitaro G. Costanzo: Flesh and Human Life. Aspects of an Eco-Phenomenology in the Thought of Merleau-Ponty G. Gruca: Existential Thought and Corporate Thinking: A Comparison R. Guccinelli: Living near the Body-Periphery of our Being. Self-Deception, Self-Image and World-Image F. Riva: Body, Life: Ambivalences and chances 9. Parallel Section: Eco-Aesthetics, Education and Psychology A. Piazza: The Concept of Life in Ludwig Binswanger’s Phenomenological Psychopathology G. Lo Bello: Meaningless Life: The Role of Clinical Phenomenology in Understanding the “Being in the World” of Psychiatric Patients I. Kivle: Auditory Phenomena and Human Life: Phenomenological Experiences R. Diodato: Phenomenology of the Virtual Body: Some Questions A. De Luca: Helping Relationships and Ecology L. Molodkina: Aesthetics of Nature in A.-T. Tymieniecka’s Ontopoiesis of Life M. Sehdev: Eco-Phenomenology of Expressive Activities S. Polenta: Aesthetic Education, Human Life and Perception of the Harmony of the Cosmos O. Polisadova: Individual Style as the Phenomenon of Life. Art and Culture of the XX Century

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