magazzino di filosofia quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia n° 27, anno IX, 2015/16 (C9): s t r u m e n t i (peer review)
P.E.M.
M a g a z z i n o
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F i l o s o f i a
Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia *Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia) *Redazione: Gianvito Brindisi (Napoli), Riccardo Lazzari (Milano), Simone L. Maestrone (Bonn, D), Alfredo Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Alessandra Rauti (Milano), Giacomo Rinaldi (Urbino), Erasmo S. Storace (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Fiorenza Bevilacqua (Milano), Roberto Valentini (Milano), Fabio A. Volontè (Varese), Alessandra Zambelli (Parigi, F). *Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano), Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Lorenzo Giacomini (Milano), Santino Maletta (Cosenza), Carlo Montaleone (Milano), Renato Pettoello (Milano). *Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Luisa Bonesio (Pavia), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina (Lexington, Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello (Milano), Klaus Held (Wuppertal, D), Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Giovanni Piana (Roma), Stefano Poggi (Firenze), Frithjof Rodi (Bochum), Gianni Scalia (Bologna), Franz-Anton Schwarz (Freiburg i. Br., D), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven (De Haan, B), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti (Pavia), Stefano Zecchi (Milano). *Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Jan Bednarich (Gorizia), Cristina Boracchi (Gallarate), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia), Andrea Cudin (Trieste), Carmine Di Martino (Milano), Miriam Franchella (Milano), Andrea Gilardoni (Milano), Sergio Levi (Milano), Pier Giuseppe Milanesi (Pavia), Walter Minella (Pavia), Luca & Mirela Oliva (Chestnut Hill, Ma.), Fabrizio Palombi (Roma), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano), Paolo Volontè (Milano) *Recapiti: email: info@filosofiacontemporanea.it; Associazione P.E.M, via Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098 / cell. 328.3208089; e-mail: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com; “Riccardo Lazzari” rlazzari@tin.it; “Massimo Mezzanzanica” massimo.mezzanzanica@gmail.com; “Gianvito Brindisi” gvbrindisi@libero.it *Rubrica “Aggiornamenti”, inviare a: Alfredo Marini eawqmbis@gmail.com> . *SCHEDE, RECENSIONI, RASSEGNE inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@tin.it>/ o: “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Leggi nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic su “Expand”). *Acquista copie cartacee dei nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic sulla copertina, poi su “Copie Cartacee”) *Acquista le copie cartacee dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18) con email a: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com *Leggi una selezione dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18) sul Sito www.francoangeli.it (clic su “Riviste”, o telefona all’Ufficio Riviste, tel. 02 2837141) *Autorizz. del Tribunale di Pavia n. 508 del 14.04.2000, Quadrimestrale elettr., Dir. resp.: Alfredo Marini. III quadrimestre 2015 – Finito di stampare nel gennaio 2016.
verum ipsum factum
S o m m a r i o
IDENTITÀ E TERRITORIO Paola-L. Coriando, Silenzio, ascolto, parola. Mauro Corona e Hugo von Hofmannsthal
SCHEDE ESSENZIALI (201-207) RECENSIONI – RASSEGNE
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LETTURE: Virgilio Cesarone, Tensione escatologica e spazio politico
IDEALISMO ANGLOSASSONE Giacomo Rinaldi, L’idealismo etico di Thomas H. Green
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Storia della Scienza Antica & Epistemologia delle Scienze Umane Fiorenza Bevilacqua, Plato and Xenophon. Comparative Studies. Bar Ilan University
137 201
Chiuso in redazione il 31.01.2016 da Alfredo Marini
Rivista finanziata dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia ISBN: 978-15-30036-98-1 ISSN: 1592-5919
Questa rivista, espressione della ASSOCIAZIONE P.E.M. - STORIA DELLA MEDICINA ANTICA & EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE UMANE (PV) è prodotta in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, esce per l’“Istituto Lombardo di Studi Filosofici e Giuridici” – ora “Istituto Filosofico Lombardo presso la Società Umanitaria” di Milano (Alfredo Marini, via Emilia 24, I-27100 Pavia <PV>, cell. 328.3208089)
IDENTITÀ E TERRITORIO Questa rubrica ospita contributi liberamente ispirati alle problematiche della natura fisica di questo pianeta, come termine, luogo, orizzonte dell’identificazione umana: dall’ecologia dei sistemi viventi all’abitare umano, all’architettura del paesaggio, alle forme dell’etnicità e della storicità
Paola L. Coriando, Silenzio, ascolto, parola. Mauro Corona e Hugo von Hofmannsthal I. Introduzione Nel romanzo di Mauro Corona Il canto delle manére1 assistiamo a un incontro singolare. È l’incontro tra il boscaiolo ertano Santo della Val Martìn, tormentato protagonista dell’opera di Corona, e il grande scrittore austriaco Hugo von Hofmannsthal, che nella finzione letteraria ne diviene mentore e amico. Quest’amicizia, che nel corso della narrazione diventerà “alleanza” tra due mondi solo apparentemente distanti, nasce nel contesto del linguaggio: Hofmannsthal insegnerà a Santo a leggere il tedesco. Più sotterraneamente, questo incontro verrà a segnare per Santo un possibile discrimine tra “autenticità” e “dispersione”, riportandolo almeno in parte a quelle “voci originarie” che questi, nel suo vagabondare inquieto, tenterà inutilmente di assopire. È in particolare la scelta di Corona di citare esplicitamente la commedia L’uomo difficile2, testo nel quale lo scrittore viennese riprende la critica al 1
Mauro Corona, Il canto delle manére, Mondadori, Milano 2009. Hugo v. Hofmannsthal, Der Schwierige. In: Sämtliche Werke, Kritische Ausgabe Bd XII /Dramen X; Einzelausgabe hrsg. v. Ursula Renner, Reclam, Stuttgart 2000. Traduzioni it.: L’uomo difficile. Commedia, c/ di G. Bemporad, Adelphi 1976; L’uomo difficile, c/ di S. Borri, Rusconi Libri 2009; L’uomo difficile, c/ di E. Raponi (testo ted. a fronte), Quodlibet 2007. 2
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linguaggio formulata due decenni prima nel saggio programmatico Lettera di Lord Chandos3, a offrire un primo spunto per alcune riflessioni sul dialogo implicito tra la poetica di Corona e quella di Hofmannsthal e, più specificatamente, sul rapporto tra parola e silenzio nella concezione poetica dei due autori. A questo tema saranno dunque dedicate le considerazioni che seguono, le quali intendono anche venire a formare un primo nucleo di un percorso più ampio dedicato alla poetica di Corona nel suo complesso.4 Consapevole del fatto che “analizzare” un testo, un’opera d’arte o anche un’azione umana, sottende il tentativo implicito di ricondurre il mistero che li pervade a categorie inadeguate o comunque statiche e predefinite, chi scrive tenterà di mantenere un approccio ai testi il più possibile svincolato dalle categorie proprie della critica letteraria o filosofica. Riprendendo in parte il metodo della fenomenologia ermeneutica, si proverà far parlare le 3
Hugo v. Hofmannsthal, Ein Brief. In: Sämtliche Werke XXXI. Erfundene Gespräche und Briefe, hrsg. v. Ellen Ritter, Fischer Vrlg., Frankfurt a. M. 1991. Traduzioni it.: Lettera di Lord Chandos tr. di Marga Vidusso Feriani (testo tedesco a fronte), introd. di Claudio Magris (“L’indecenza dei segni”). Rizzoli, Milano 1974; Lettera di Lord Chandos, tr. di Roberta Ascarelli, Studio Tesi, Pordenone 1992; Lettera di Lord Chandos, tr. di Giancarlo Lacchin, Mimesis, Milano 2007. 4 Nell’ambito di questo tentativo ci limiteremo a considerare due romanzi chiave di Corona: Il canto delle manére e La voce degli uomini freddi. Anche se non sarà possibile soffermarsi su altri testi che contribuirebbero a delineare ulteriormente la “filosofia dell’ascolto” di Corona, vogliamo ricordare due episodi tratti da Storia di Neve: quello del silenzioso boscaiolo Lidio, che senza saper leggere immagina storie dietro le parole scritte, e quello di Silvio il Francese, uomo solitario e silenzioso tormentato dalla “padrona dell’eco” Monda Palin, voce che “ritorna” (palin!) a vendicare il suo destino. Sull’eco, cf. anche I misteri della montagna, p. 21 s., sulla scrittura op. cit., p. 39 (“Il cuore degli alberi”). Essenziali risultano in questo contesto anche I fantasmi di pietra – opera nella quale ascolto e silenzio si raccolgono nella memoria che sola potrà, forse, “sostituire l’amore” – e soprattutto Come sasso nella corrente, confessione struggente di un “camminare nel tramonto” che, nel finale, appare ormai projettato al di là di ogni speranza in un “dire” che sia condivisione autentica della sofferenza, ma anche dell’amore. Forse l’opera più intima di Corona, Come sasso nella corrente si sviluppa dapprima come autobiografia in terza persona per diventare poi cronaca impietosa di un progressivo allontanamento dal mondo che condurrà il protagonista fino all’“oblio volontario della mente”. Solo il distacco, l’oblio, la lontananza, l’assenza regalano, a tratti, quella presenza (di se stessi a se stessi e della donna amata) semplice e autentica, vanamente cercata all’interno del mondo, che risulta possibile solo nella trasfigurazione, nel sogno, nella follia che rende presenti le assenze (il riccio e la cerbiatta) e vive di una comunicazione che più nulla ha di verbale, di espresso e esplicitato. È questa la dimensione dove “i sogni diventavano fatti” (178), perché “senza il male del senno tutto è possibile” (180). In quest’opera Corona tratteggia un finale di vita nel quale solo la perdita di quello che comunemente è considerato il fulcro portante dell’essere umano, la razionalità, può offrire ancora brevi, per quanto illusori bagliori di speranza. Ma sono, anche questi, bagliori destinati a spegnersi di fronte all’ineluttabilità del dolore. Per l’uomo che scalava montagne cercando di “uscire dall’inferno” non può esistere metafora più sconsolata della foiba dove il protagonista sceglierà di porre fine ai suoi giorni, calandosi in basso, fino al fondo più fondo dell’abisso, aspettando la morte.
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cose stesse, in questo caso i testi da interpretare, rinunciando a “impossessarsene” per mezzo degli artifici propri dell’approccio teoretico. Anche se sarà inevitabile servirsi dell’esplicazione, del riferimento, del confronto, si cercherà dunque di dare a questi strumenti non già un valore intrinseco, ma quello di appigli lungo il cammino, i quali, se questo percorso dovesse almeno in parte riuscire, dovranno in ultima istanza scomparire per lasciare spazio alla verità semplice e misteriosa della poesia, avvicinandosi forse a quel “non detto” che di volta in volta la pervade e la rende unica. II. Quale “parola”? Alcune considerazioni di Corona in: Confessioni ultime Per accostarci al tema del nostro percorso è bene partire da alcune considerazioni contenute in Confessioni ultime.5 In questo testo Corona riporta e discute una frase di Juan Carlos Onetti, la quale, al di là del contesto specifico, sembra suggerire la necessità di porre un limite alla sovrabbondanza di parole tipica della nostra epoca: “Le uniche parole che meritano di esistere sono quelle migliori del silenzio” (9). Esaminando il senso di questa affermazione, Corona la mette in discussione in quanto massima radicale e di principio, sottolineando come il “parlare”, il “dirsi”, il diventare “delatori di se stessi” (13) – accada questo per mezzo della parola scritta o all’interno dei rapporti umani –, non sia un fatto superfluo o addirittura negativo, ma al contrario una necessità primaria dell’uomo. Se per chi scrive libri l’atto del “confessarsi” viene avvalorato soprattutto dalla volontà di “non morire frainteso”, Corona sottolinea più in generale il pericolo insito nel “tenere le cose per sé”, laddove parlare, molte volte, eviterebbe agli uomini drammi e incomprensioni. “Non mi piace il silenzio degli uomini”, scrive, “di quelli che non raccontano le loro vicissitudini, che non confessano il loro bisogno di aiuto” (10), e più oltre: “Dovremmo essere più delatori di noi stessi. Se ci confessassimo, ci aiuteremmo meglio. Ma c’è una reticenza a dirci le cose. Il mondo va storto soprattutto perché non abbiamo imparato e non vogliamo dirci le cose.” (13). Non è dunque vero, per Corona, che “le uniche parole che meritano di esistere sono quelle migliori del silenzio” – o almeno non lo è in linea generale e assoluta. Al contrario, dovremmo “dirci”, confessarci, parlare, dovremmo vincere la paura di condividere la nostra fragilità. Ma in “quale” parlare Corona intravede una possibile via di salvezza? Certo non nel vuoto conversare, nella faticosa esaustività, nel frastuono dell’informazione tipici del nostro tempo. Il parlar troppo, si sa, non riesce 5 Mauro Corona, Confessioni ultime. Con un film di Giorgio Fornoni, Chiarelettere, Milano 2013. Le pagine indicate tra parentesi nel testo si riferiscono a questa edizione.
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quasi mai a dire le cose essenziali, anzi, il più delle volte ne allontana irreparabilmente, vanificando ogni tentativo di comunicazione autentica. Parliamo tanto, troppo, eppure il cuore delle cose non riusciamo quasi mai a dirlo. Il “dirsi” che sottintende Corona non potrà dunque che essere di natura diversa, e risulterà probabilmente radicalmente contrapposto alla sovrabbondanza di parole tipica del nostro tempo. Forse dovremmo parlare meno, e dire “di più”. Nel finale disperato e struggente di Come sasso nella corrente6 Icio Protti, l’Amico buono e alter ego dell’autore, conclude il suo commovente resoconto degli ultimi giorni di vita dell’amico con le parole: “gli esseri umani non si dicono mai tutto, rovinando, come predicava lui, l’armonia del mondo”.7 “Dirsi tutto”: non ogni cosa, ogni dettaglio insignificante dell’esistenza, ogni azione o pensiero per quanto usato e banale. Quel “tutto” che dovremmo dirci è forse piuttosto l’essenza delle cose, il nucleo dell’esistenza umana, quel “cuore dell’essere” che, in un mondo dominato da infinite parole, rimane per lo più impigliato tra le pieghe della convenzione, soffocato e represso da un malinteso pudore a mettere a nudo le proprie fragilità. Forse la salvezza starebbe dunque in un dire meno, ma più autentico ed essenziale: in un dire che non sia un mero riferire e descrivere, ma che sappia invece racchiudere i nostri dubbi, il nostro naufragare e risorgere, la nostra inquietudine, le nostre ansie, la nostra umana paura di fronte alla morte: perché è questo che abbiamo bisogno di “confessare”. Se questo è vero, non esiste forse contrapposizione più netta tra l’esigenza elementare di questo “confessarsi” e l’infinita chiacchiera che per lo più domina, disgregandoli, i rapporti umani nel mondo contemporaneo. “Dirsi tutto” significherebbe trovare parole che sappiano superare la reticenza e l’“omertà” senza diventare chiacchiera, vuota conversazione, informazione. Sono parole rare, quelle che intende Corona; parole che a volte accadono e che dovrebbero accadere più spesso, parole che non tentano di sovrapporsi al silenzio, ma lo rendono presente e se ne fanno custodi. Parole preziose, perché pervase di sincerità e di ritegno. In effetti, nell’opera di Corona il “parlare” appare spesso come una forza che disgrega e allontana dall’armonia, così esplicitamente ne La voce degli uomini freddi8, epopea di un popolo “autentico” forgiato dal silenzio e dall’ascolto, ma più in generale nel sentire profondo di molti dei suoi personaggi e dei suoi racconti, dove non è mai il “discorrere” a svelare il senso delle cose. Se d’altra parte Corona non intende certo identificare la possibile 6
Mauro Corona, Come sasso nella corrente, Mondadori, Milano 2011. Come sasso nella corrente, op. cit. p. 197. 8 Mauro Corona, La voce degli uomini freddi, Mondadori, Milano 2013. 7
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salvezza dell’uomo nel “mutismo”, nella reticenza, nell’omertà del “non dire niente”, è forse possibile rintracciare nelle sue opere un intimo corrispondersi di silenzio originario e parola autentica, ai quali sono a loro volta contrapposti sia il “mutismo” sia la parola vuota e “disgregante”. La parola “autentica” sarebbe dunque quella che è capace di serbare in sé il silenzio (che non è mai solo assenza di parole e rumori) e condividerlo, mentre, al contrario, la parola disgregante proverrebbe dall’incapacità di ascoltare e di “corrispondere” con mitezza e ritegno all’essenza delle cose.9 Come il silenzio originario e la parola autentica, così anche il mutismo degli uomini e la parola disgregante risulterebbero strettamente collegate: dove l’uomo non sa più ascoltare il silenzio e si disperde nell’uso improprio della parola, egli si ritrova infine “muto” e incapace di un dire autentico.10 III. Tra autenticità e dispersione. Il canto delle manére 1.
Santo, natura duplice –
Il canto delle manére11, che, insieme a L’ombra del bastone12 e a Storia di Neve13 compone la “Trilogia della morte”, narra l’epopea di Santo dalla Val Martìn, boscaiolo ertano in perenne lotta con se stesso e con il mondo. Diviso tra la percezione di una possibile autenticità intravista durante l’infanzia (l’iniziazione alla vita dei boschi e alle voci della natura) e l’inquieta ambizione che si fa brama di possesso e denaro, Santo, uomo grande e tormentato, è una natura duplice, sospeso sul filo della vita come le due facce della manéra, la scure dei boscaioli ertani che ne segnerà la vita e la morte. Vittima e carnefice allo stesso tempo, egli vivrà una fuga costante, interna prima che fisica, tra passato e futuro, tra desiderio di vendetta e rimorso, tra brevi attimi di comunione con il tutto originario e un’irrefrenabile bramosia di (auto)distruzione. “Questo era Santo”, scrive Corona, “un uomo intrappolato tra l’istinto e il ragionamento, il bene e il male, la spinta del cuore e l’orgoglio” (375). 9 È questo corrispondere originario lo stato d’animo fondamentale che pervade il mondo descritto ne La voce degli uomini freddi (vedi punto IV di questo articolo), un corrispondere “trattenuto” e silente che “schiude l’essenza” il quale può ricordare la Verhaltenheit che Martin Heidegger delinea come atteggiamento fondamentale dell’“esser-ci” storicamente autentico. 10 Chi scrive è consapevole del fatto che i termini “autentico” e “autenticità” possono, in questa sede, avere unicamente la valenza di “indicazione formale”. In questo senso essi vengono a intendere una modalità dell’esistenza che corrisponda senza falsature a “ciò che è”, uno schiudersi originario verso l’essenza delle cose e il loro disvelarsi. 11 Le pagine indicate tra parentesi si riferiscono a questo testo (op. cit.). 12 Mauro Corona, L’ombra del bastone, Mondadori, Milano 2005. 13 Mauro Corona, Storia di Neve, Mondadori, Milano 2008.
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L’ambizione, prima naturale, si fa in Santo via via più smisurata fino a sfiorare la hybris e a varcarne i confini. La sua mancanza di misura, che lo accomuna agli eroi dell’epos e della tragedia, scaturisce dal desiderio di riscatto e di vendetta su un mondo disarmonico, rappresentato in primo luogo dal tradimento femminile. Se a tratti il desiderio di onnipotenza sembra fargli dimenticare le origini, in realtà sono proprio queste origini e la volontà di dimenticare ad alimentare in lui una funesta smania di “buttarsi via”. Santo vuole dimenticare “il bene” e “l’armonia”, perché ricordare significherebbe integrare nel cuore la delusione, il tradimento, la sconfitta. Rispondendo colpo su colpo alla meschinità del mondo, Santo cerca di assopire in un’illusoria rivalsa materiale delusioni e tradimenti subiti, non riuscendo però a negare in sé l’istinto originario. Uomo grande e iniziato ai misteri della natura, ma fondamentalmente incapace di confrontarsi con l’abisso proprio e del genere umano (o forse semplicemente troppo orgoglioso per piegarsi alla profondità del dolore), Santo è un uomo essenzialmente “moderno”, vittima della propria incapacità di guardare dentro l’abisso e risorgere ogni giorno da questo guardare. Incapace di accettare l’abisso, il dolore, la lacerazione, come parte del mistero dell’esistenza umana, egli contribuisce consapevolmente a “rovinare l’armonia del mondo” (quell’“armonia dei contrari” di eraclitea memoria che risulterebbe percepibile unicamente distaccandosi dalla propria individualità intesa come “soggetto” e cartesiana “autocoscienza”). Sospeso tra il bene e il male, tra il cuore e l’orgoglio, tra individualità solipsistica e apertura al “tutto”, Santo sceglierà la via della vendetta contro il mondo: se non può esistere l’armonia assoluta (l’impossibile e utopica armonia “senza contrari”), allora non deve esistere neppure la “piccola armonia” del compromesso e del perdono. Costretto in seguito all’uccisione di un suo rivale in amore a lasciare la natia Erto per l’“Esempòn”, la terra straniera sognata e temuta, Santo si espone apertamente al tormento della coscienza e alla necessità di dimenticarsi. E allora, dopo il primo spaesamento dell’emigrazione, dopo la scoperta di un’altra vita – possibile, per quanto tormentata dalla nostalgia e dal rimorso –, ecco il prevalere della “volontà di potenza”, il rinnovarsi dell’istinto autodistruttivo e, specchio esteriore del suo cupio dissolvi, la ripresa della “guerra dei boschi”. Forse più estremo ancora dell’omicidio commesso appare il fuoco, appiccato per vendetta e interesse a quei boschi “uniti come i grani del rosario, così perfetti che sarebbe bastato togliere un solo larice per cavare uno di quei grani e rovinare la corona intiera” (265). Soffocando in sé un’ultima reticenza, Santo si rende volontariamente sordo alla voce della coscienza. I suoni originari di un’umanità che vive in armonia con i ritmi della natura si perdono nel frastuono, tipicamente moderno,
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dello sfruttamento selvaggio, dove la natura non viene più percepita come madre, come mistero e magia, ma come oggetto di illimitata manipolazione. Eppure Santo non perderà mai del tutto il contatto profondo con le proprie origini e con quella voce che non smette di richiamarlo alla verità “del cuore”. Così è solo in parte per orgoglio e per ambizione che Santo decide di avvicinarsi al mondo dei poeti, scrittori e musicisti che ruotano intorno alla cittadina austriaca di Altaussee. Più profondamente è una mai sopita voglia di vivere a spingerlo verso quel mondo. L’incontro – letterariamente geniale – tra il boscaiolo Santo e il grande scrittore e drammaturgo Hugo von Hofmannsthal, che ne diverrà maestro e interlocutore, segna un punto chiave dell’intero romanzo. È l’incontro tra due mondi solo apparentemente lontani e contrapposti: nel romanzo di Corona quel mondo di lavoratori della parola sembra farsi naturale complemento al mondo di fatica e fisicità rappresentato da Santo – così come, parallelamente, Stefano e Raffaele, “uomini studiati” in fuga verso un’altra vita, ritrovano nel lavoro manuale libertà e dignità.14 Hofmannsthal, “uomo buono e tranquillo” ma con negli occhi “dolore e tribolazione” (272), si presta di buon grado a soddisfare il desiderio di Santo: imparare a leggere il tedesco. Quelle lezioni mirate a comprendere meglio la parola straniera divengono per Santo non solo e non tanto un ulteriore riscatto, ma motivo di riflessione vera. Se quel mondo fatto di uomini piegati a vergare parole e note si apre come un universo parallelo caratterizzato da un’autenticità sconosciuta e seducente, Santo contemporaneamente scopre un altro universo complementare: quello dell’alpinismo, che è sì fisicità e fatica, ma fatica svincolata dal fine pratico e coltivata solo per la bellezza di “scalare le montagne e sedersi sulle cime” (273). Eppure nessuno dei due mondi riuscirà a salvare Santo dal suo tormento di uomo “senza pietà di niente e di nissuno, né di alberi né di uomini” (299), e tanto meno di se stesso. Santo non riuscirà a trovare la via per ammettere la propria fragilità e superare quell’amore-odio verso la vita che lo porta a fare il male per “star male” lui stesso. Neppure la guerra, la fuga verso la Svizzera, l’inasprirsi delle lotte per il potere saranno sufficienti a fargli intravedere la necessità di cambiare strada. Eppure saranno le parole di Hofmannsthal che Santo porterà con sé nella morte, le parole che il suo mentore gli affiderà dopo il ritorno ad Altaussee. Quelle parole Santo le terrà con sé – nella giacca, sopra il cuore – come un ultimo monito, come a ripetere al mondo che sì, la strada l’aveva intravista e forse anche capita, anche se il destino lo aveva portato a negarla. Sono parole, quelle di Hofmannsthal, che richiamano le origini: “Sono tornato perché amo immensamente questa terra, e più passano gli 14
Cf. Il canto delle manére, p. 253 s.
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anni, più mi sembra ricca. Quando sarò vecchio, dai suoi torrenti, dai suoi laghi e dai suoi boschi mi verranno incontro i ricordi dell’infanzia, e il cerchio si chiuderà” (297). Anche Santo saprà a suo modo “chiudere il cerchio”. Ma lo chiuderà in maniera nietzscheanamente abissale, in un’ultima disperata prova di forza. 2. Hofmannsthal e la critica al linguaggio. La Lettera di Lord Chandos e la commedia L’uomo difficile. – Tra le opere di Hofmannsthal, Corona ne cita in forma diretta solamente una: Der Schwierige (“L’uomo difficile”), opera teatrale del tardo periodo (1921) nella quale i temi del linguaggio e dell’interpretazione ricoprono un ruolo essenziale. Anche se nel Canto delle manére il contenuto di questa commedia non viene menzionato apertamente, non è a mio avviso un caso che Corona scelga quest’opera, che per le sue tematiche rimanda esplicitamente alla critica al linguaggio formulata da Hofmannsthal vent’anni prima, in forma più radicale, nella Lettera di Lord Chandos. La Lettera, vero manifesto programmatico sui limiti del linguaggio, segna il distacco dell’autore dall’estetismo dei primi anni, periodo durante il quale i richiami alla poetica di Stefan George sono ancora predominanti.15 Epistola fittizia indirizzata a Francis Bacon (siamo dunque in epoca elisabettiana), la Lettera di Lord Chandos16 si sviluppa come una sorta di epochē che disvalora progressivamente la parola, constatando la sua incapacità di “dire” la realtà. “Ho perduto completamente la capacità di pensare o parlare in maniera coerente e logica su qualsiasi argomento”, scrive Chandos (41)17. Sono dapprima i concetti astratti a rivelarsi al giovane scrittore nella loro vuotezza: “Avvertivo un inspiegabile disagio solo a pronunciare le parole ‘spirito’, ‘anima’ e ‘corpo’” (41)18. Non solo le nozioni più generali, ma ogni forma di astrazione quotidianamente usata per esprimere idee o concetti 15 In Poesia e vita (1894) Hofmannsthal distingue la parola come “portatrice di un contenuto vissuto” [Träger eines Lebensinhaltes]” dalla parola poetica, che di questa è “sorella sognante” [traumhafte Bruderwort]. Queste due forme di linguaggio “si allontanano l’una dall’altra e si passano accanto, estranee l’una all’altra, oscillando come i due secchi in un pozzo” [“streben auseinander” und “fremd aneinander vorüber” “wie die beiden Eimer eines Brunnens”]. La poesia si distingue dalla parola non poetica perché è essenzialmente ritmo, suono, metrica, e con essa metafora e simbolo. 16 Le pagine indicate tra parentesi si riferiscono alla traduzione di Marga Vidusso Feriani in: Lettera di Lord Chandos, Rizzoli, Milano 1974, che qui riportiamo modificandola in alcuni punti. 17 “Es ist mir völlig die Fähigkeit abhanden gekommen, über irgend etwas zusammenhängend zu denken oder zu sprechen.” 18 “ich empfand ein unerklärliches Unbehagen, die Worte‚ ‘Geist’, ‘Seele’, ‘Körper’ nur auszusprechen”.
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vengono a perdere valore e fondamento. Le parole, scrive Chandos, “mi si sfacevano nella bocca come funghi ammuffiti” (43)19. In un metodico percorso lungo le varie modalità di linguaggio – percorso che ricorda da vicino il dubbio metodico di Cartesio – sempre più ambiti linguistici, prima vissuti con ovvietà e fiducia, divengono fonte di mistero e turbamento. Quello di Chandos non è dunque uno scetticismo razionale, forgiato nella riflessione teoretica, ma si presenta come un’esperienza totalizzante, sconvolgente, quasi mistica nella sua tragica esistenzialità: “Le singole parole mi fluttuavano intorno; divenivano occhi che mi guardavano fissi e che io, a mia volta, mi sento costretto a fissare: sono gorghi, che a guardarli mi danno le vertigini, che girano vorticosamente senza posa, e una volta attraversati i quali si approda nel vuoto.” (45)20 Anche se l’epistola termina con un messaggio di sfiducia radicale nel potere del linguaggio e con il definitivo “ammutolire” del suo autore, questa esperienza non permane però solo nella negazione. Come nelle Meditazioni di Cartesio, si fa strada una possibile nuova esperienza del mondo. Nel momento in cui viene meno la certezza di “possedere” le cose tramite il linguaggio, esse si rivelano nella loro essenza nascosta: “Un innaffiatoio, un erpice abbandonato nel campo, un cane al sole, un cimitero desolato, uno storpio, una piccola casa di contadini, tutto ciò può contenere la mia rivelazione. Ognuna di queste cose e le mille altre ad esse simili, su cui l’occhio altrimenti scorre con naturale indifferenza può assumere per me all’improvviso, in un momento qualsiasi momento che in alcun modo mi è dato di provocare, una sembianza nobile (erhaben) e commovente toccante (rührend), che qualsiasi parola pare troppo misera per tentare di descriverla” (49)
Questo improvviso disvelarsi delle “cose” che sfugge alla parola non è “preverbale” nel senso che sia sottratto in partenza alla possibilità di essere raccolto e indicato nel linguaggio. Se è vero che, prosegue Chandos, “quando questo singolare incantesimo mi abbandona, non so più dirne nulla”, in questa esigenza non colmabile sono però le “cose stesse” a invocare un linguaggio che ancora non esiste. Anche se è destinato a scomparire, a non essere messo in pratica, si affaccia all’orizzonte il “non luogo” utopico di una nuova forma espressiva che sia rivelazione (Offenbarung) e non mera retorica. Questo “dire” intravisto ma irrealizzabile è il linguaggio delle cose stesse, una lingua nella quale forse, ipotizza Chandos, “mi potrebbe essere
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“zerfielen mir im Munde wie modrige Pilze”. “Die einzelnen Worte schwammen um mich; sie gerannen zu Augen, die mich anstarrten und in die ich wieder hineinstarren muß; Wirbel sind sie, in die hinabzusehen mich schwindelt, die sich unaufhaltsam drehen und durch die hindurch man ins Leere kommt”. 20
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dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare” (61). È questo il linguaggio ignoto con il quale a volte le “cose mute” “parlano”.21 Sono le cose mute, che, disvelandosi, invocano una nuova e ancora sconosciuta essenza della parola. Nella Lettera di Lord Chandos questa ricerca di un nuovo linguaggio non viene perseguita ulteriormente. Il giovane giunge alla conclusione che ogni parola esplicitata sia priva di senso: l’essenziale, fondamentalmente indicibile, sfugge al linguaggio e gli è in un certo senso opposto perché la realtà, per dirla con Claudio Magris, si rivela solo in un flusso continuo nel quale le cose non sono più “nominabili né domabili dal linguaggio”.22 Al contrario del suo giovane alter ego letterario, Hofmannsthal troverà una via per superare la crisi della quale la Lettera è la testimonianza più esplicita, via che lo condurrà all’incontro con la musica e al linguaggio dei Mysterienspiele. Eppure Hofmannsthal non dimenticherà mai quello spartiacque che lo aveva condotto a un profondo scetticismo nei confronti della parola. La commedia L’uomo difficile23, insieme a L’incorruttibile unica opera di Hofmannsthal ambientata nel mondo a lui contemporaneo, riprende esplicitamente la critica al linguaggio propria della Lettera di Lord Chandos, trasponendola però su un piano più prettamente esistenziale ed etico.24 “L’uomo difficile” del titolo è il conte Hans-Karl, il quale, reduce dalla guerra, si ritrova profondamente estraneo al mondo delle convenzioni dell’aristocrazia dell’epoca. Pur non facendo vita appartata, Hans-Karl non solo si sottrae alla chiacchera e all’intrigo, ma sembra avere, più radicalmente, “abdicato” definitivamente alle ambizioni e a ogni progetto di vita pianificabile e calcolabile.
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“Eine Sprache, von deren Worten mir nicht eine bekannt ist, eine Sprache, in welcher die stummen Dingen zuweilen zu mir sprechen“. 22 Claudio Magris, L’indecenza dei segni. Introduzione a Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, op. cit., p. 6. 23 Le pagine indicate tra parentesi si riferiscono alla traduzione di G. Bemporad, Adelphi 1976, che qui seguiamo, modificandola in alcuni punti. 24 La prima idea dell’opera Der Schwierige risale all’autunno del 1909. Nei diari di quel periodo si trova l’annotazione: “Daß Sprache überhaupt eine […] nicht gemäße (wenngleich die einzige zur Verfügung stehende) Form, sich zu äußern. […] Sprache ist ein ungeheurer Kompromiß, für jedermann – nur dies wird selten bewußt, weil es das allgemeine Verständigungsmittel darstellt.” (5.10.1909, in: Reden und Aufsätze III, S. 502.). Cf anche 13.1.1910: “Der Schwierige / Hans-Karl zweifelt an dem Festen Gegebenen. Die Unterschiede, die couranten Unterschiede zwischen den Menschen, auch die Couranten Wertungen, sind ihm abhanden gekommen (vergl. “ein Brief”) / im Laufe des Stückes erfolgt sein Cur. Sie ist freilich so sonderbar wie die Rettung Münchhausens aus dem Sumpf.” (Sämtliche Werke XII, S. 223).
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Il “difficile” Hans-Karl è in realtà infinitamente semplice. Profondamente mite, si trova suo malgrado coinvolto nelle macchinazioni dei suoi famigliari, volte a pianificare matrimoni e a condurli in porto per mezzo di discorsi, delazioni, piccole cospirazioni, intrighi che mirano a dividere o unire destini e persone. Fondamentalmente estraneo a quel mondo, proprio per questo suo sottrarsi ne diviene in qualche modo il centro. Amato dalle donne e conteso dagli uomini, “Kari” detesta la conversazione, il parlare autoreferenziale ed esaustivo praticato e coltivato, specie nei salotti mondani, come forma di vuota e ridicola vanità: “Il discorrere si basa su una indecente sopravvalutazione di sé”25 (96)
constata, e ancora: “Certo è un po’ ridicolo immaginarsi di esercitare Dio sa quale effetto con parole ben tornite, in una vita dove alla fine tutto ciò che conta sono le cose ultime e inesprimibili.” (96, tr. leggermente modificata)26
È questa consapevolezza della inesprimibilità delle “cose ultime” – esplicito rimando alla Lettera di Lord Chandos – a fare di Hans-Karl un uomo “difficile” agli occhi del mondo. Egli è consapevole del fatto che la verità delle cose mute si disvela solo nel silenzio e si sottrae alla parola, che per sua natura è disgregante, spesso manipolatrice e, sempre, principio di confusione e di allontanamento da sé: “è impossibile aprire bocca senza suscitare le più disastrose confusioni” (137).27 Solo nel silenzio è possibile avvicinarsi a se stessi e alle “cose stesse”: “Quando parlo capisco molto meno di me stesso di quando sto zitto” (98/ tr. modificata)28. Il parlare, la parola è qui intesa innanzitutto come “conversazione”, come discorrere che analizza, seziona, manipola e disgrega:29 come parola espressa ed esplicitata (ausgeprochen) nella sua modalità più arrogante e vuota, la quale risulta “indecente” proprio perché priva di quel “ritegno” che, solo, permetterebbe di fare esperienza della verità intrinseca delle cose. Eppure la critica dell’“uomo difficile” è di carattere più generale e si estende al
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“Jedes Reden basiert auf einer indezenten Selbstüberschätzung”. “Es ist bloß lächerlich, wenn man sich einbildet, durch wohlgesetzte Wörter eine weiß Gott wie große Wirkung auszuüben, in einem Leben, wo doch schließlich alles auf das Letzte, Unaussprechliche ankommt”. 27 “Unmöglich, den Mund aufzumachen, ohne die heillosesten Konfusionen anzurichten”. 28 “Ich verstehe mich selbst viel schlechter, wenn ich rede, als wenn ich still bin”. 29 “Man kann nicht analysieren, ohne in die odiosesten Mißverständnisse zu verfallen”. 26
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dire in quanto tale: “Tutto ciò che viene espresso in parole è indecente. Il semplice fatto che si esprima qualcosa è indecente” (137/ tr. modificata).30 Come Lord Chandos, Hans-Karl non ripone dapprima alcuna fiducia nella possibilità di un parlare diverso e autentico. Il suo mondo si divide tra la rassegnata certezza dell’incomunicabilità dell’essenziale e una benevola, ma solo apparente accettazione di alcune regole dettate dal suo ruolo. L’“uomo difficile” non è un ribelle, ma a suo modo un “vagabondo tra due mondi” inconciliabili e distanti. La silenziosa comprensione di se stesso sembra destinata a rimanere un’esperienza solitaria e solipsistica – fino al momento della comparsa sulla scena di Helene, essa stessa “donna difficile” e diversa che racchiude in sé “ciò che è necessario e assoluto” (98/ tr. modificata). Helene non vive “nell’attimo”, ma comprende in sé “passato e futuro”. Il “riconoscersi” dei due avviene, e non potrebbe essere altrimenti, anche attraverso il medio della parola. Ma sono parole diverse, parole più dirette, senza veli e, paradossalmente, proprio per questo non “indecenti”. Parole che non girano intorno alle cose, ma ne centrano il cuore. Helene e Hans-Karl si riconoscono e si trovano in quanto esseri diversi, “spostati” rispetto a quello che gli altri considerano il centro. Rispetto a Hans-Karl, Helene fa tuttavia un passo ulteriore. Rompendo molto più decisamente di questi con le convenzioni, si dichiara a lui in modo diretto. Lasciando dietro a sé non solo i ruoli predefiniti, che vedono la donna soggetto passivo, ma soprattutto i mille panegirici del parlare macchinoso, Helene si espone consapevolmente al pericolo del fraintendimento, guidata da una fiducia ultima e irremovibile nel potere della semplicità e della verità. “Così è”, sembra intendere Helene, e, supportata da una inesorabile quanto stravolgente fiducia, riesce a tradurre in parole questo “essere”. Se Hans-Karl rappresenta l’autenticità solitaria che, contrapposta all’inautenticità della chiacchiera, dispera di una possibile “guarigione” – del mondo prima che di se stesso –, Helene si fa carico di un’autenticità più fiduciosa e forte. Facendo il passo più anticonvenzionale e pericoloso, Helene dice “le cose come stanno”, le nomina nel loro essere senza pretesa di dominarle e manipolarle, dimostrando così che esiste, e deve esistere, un modo di parlare diverso, che nulla ha a che fare con la smodatezza e la macchinosità del linguaggio disgregante. È così che cominciano per Hans-Karl una “convalescenza dello spirito” e una guarigione ben più profonda di quella seguita alle ferite di guerra. È a questa convalescenza, a questa guarigione che si riferiscono le parole di Hans-Karl: “La convalescenza è uno stato così singolare. Tutto il mondo è ritornato a me come una cosa pura e 30 “Alles, was man ausspricht, ist indezent. Das simple Faktum, daß man etwas ausspricht, ist indezent.”
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nuova e allo stesso tempo così naturale” (102)31. Per i due “difficili” si prefigura non solo un futuro d’amore, ma, più profondamente, un nuovo modo di essere nel mondo e con questo un nuovo modo di parlare. L’uomo difficile che in realtà è semplice, perché non avviluppato nel superfluo e nella macchinosità, ritrova se stesso nel momento in cui si percepisce compreso da Helene. Anche se si ritrovano per mezzo di parole espresse, quello che lega i due “difficili” è proprio il loro rimanere al di qua del vuoto e faticoso ronzio della parola che offusca, confonde, disgrega. Il loro è un uso della parola che serba in sé il ritegno e il silenzio, riuscendo così a dire “la verità”.32 3. “Tutto dobbiamo capire” – L’Hofmannsthal del Canto delle manére sembra intuire il tormento di Santo. Forse è per questo che consegna nelle sue mani Der Schwierige, testo esso stesso “difficile” (per il suo contenuto oltre che per il linguaggio, ancora troppo complicato per il boscaiolo ertano) che racconta di una possibile riconciliazione con se stessi e con la parola. “Un giorno, verso la fine del 1921, Hofmannsthal gli regalò un libro suo, con tanto di firma nella seconda pagina. S’intitolava Der Schwierige e Santo si mise a leggerlo. Un po’ alla volta arrivò in fondo ma non capì quasi niente […] Ma anche se si perdeva nell’intrigo, Santo leggeva l’istesso, perché gli piaceva l’andamento delle righe: era come sentire una musica o il cantare di un ruscello. […] Così io leggo con le orecchie, anche se vedo le parole con gli occhi.” (298)
Santo “non capisce quasi niente”, eppure il messaggio di Hofmannsthal arriva chiaro al suo cuore, arriva in una dimensione profonda, diversa dalla comprensione intellettuale, una dimensione che ricorda in parte l’esperienza “mistica” della Lettera di Lord Chandos. Sentendo le parole “come musica”, Santo si avvicina istintivamente al “non detto” di Hofmannsthal e ne diviene partecipe a un livello intimo e profondo. Per questo porterà con sé questo testo fino alla morte. Der Schwierige, intuisce Santo, potrebbe indicargli una via per ritrovare la fiducia nel bene e superare la lacerazione tra le sue due anime.
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“Die Genesung ist so ein merkwürdiger Zustand. Darin ist mir die ganze Welt so wiedergekommen, wie etwas Reines, Neues und dabei so Selbstverständliches”. 32 Hofmannsthal sembra qui preludere o avvicinarsi a una concezione fenomenologica ed ermeneutica della verità intesa non come “adeguazione” e come un riferire correttamente le cose, ma piuttosto come “disvelamento originario” (A-letheia).
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Come Hans-Karl, Santo conosce bene – più per istinto che per riflessione razionale – il crinale tra la dispersione, rappresentata dal pensiero “calcolante” e dalle parole esplicitate che gli fanno scegliere la via inautentica della “volontà di potenza”, e l’autenticità “del cuore”, che lo riporta alle voci della natura come unico baluardo contro il disgregamento di sé e del mondo. Pur votato al potere e all’oblio, Santo sa ancora ascoltare queste voci, che gli si fanno incontro nel suono antico dei ritmi del bosco, della terra, del lavoro degli uomini in armonia con la natura: il canto delle manére al quale si unisce “il ronfare dei segoni”, “il rombo delle cataste che rotolava dalle gobbe” (263), il canto del cuculo, “il grugulo dei forcelli”, lo “spaccar di stecchi del cedrone” (278), “e poi tordi, merli, cince, ciuffolotti”. Sono queste le voci amiche che aiutano Santo e gli danno coraggio (279), sostenendolo nel tormento e nel rimorso, nella perenne scontentezza della sua anima sospesa tra i morsi della coscienza e l’incapacità di cambiare vita. Risvegliando in lui rimorsi e pentimenti, queste voci lo riportano “a se stesso” e lo pongono davanti alla possibilità di una “conversione” dell’anima. Sono, al contrario, le parole esplicitate e con esse il pensare razionalizzante e calcolante a rigettarlo ogni volta nella distruttività. Come per Chandos e per Hans-Karl, anche per Santo le parole espresse, specchio del pensiero “razionale”, allontanano dal sentire originario e dall’esperienza più profonda delle cose. Così diverso per origini, il boscaiolo Santo si rivela dunque in fondo molto vicino ai protagonisti della commedia di Hofmannsthal. Rispetto a loro, Santo è però più complesso e, se vogliamo, più “difficile”, perché unisce in un'unica anima quella duplicità che in Der Schwierige si divide tra i due protagonisti da un parte e il resto del mondo dall’altra. Mentre nel testo di Hofmannsthal Hans-Karl e Helene rappresentano l’autenticità contrapposta alla dispersione e alla vuotezza degli altri personaggi, ognuno a suo modo votato alle convenzioni e ai piccoli giochi di potere, Santo racchiude in sé entrambe le dimensioni. È forse per quella univocità di intenti che Hans Karl e Helene riescono a fare il salto più grande che li trasporta al di là delle barriere imposte da una società che tutela se stessa per salvarsi, se pur solo illusoriamente, da un abisso intravisto ma negato fino al parossismo. Diversamente dai due personaggi di Hofmannsthal, Santo dalla Val raccoglie in sé l’abisso dell’essere nella sua interezza, abisso che è duplicità e sgomento. Di fronte a questo abisso, Santo sceglie di negarlo e di negare se stesso (ma più probabilmente è lui ad essere scelto dal proprio destino), soffocando il messaggio che le voci della natura gli trasmettono, sopprimendo la legge del cuore per votarsi alle lusinghe della “volontà di potenza” e, più sotterraneamente, alla volontà di autodistruzione. Ritornato ad Altaussee dopo la morte di Hofmannsthal, seguita al suicidio del figlio, Santo trova ad attenderlo un biglietto sul quale sono vergate 18
le parole: “La causa sta in una profondità infinita, negli abissi del carattere e del destino. Tutto dobbiamo capire” (304). Riportando questa frase tratta dall’ultima lettera di Hofmannsthal, datata 14 luglio 1929, Corona omette volutamente alcune parole. Nell’originale Hofmannsthal scrive “La causa di questo grave fatto sta in una profondità infinita…” Se le parole di Hofmannsthal sono chiaramente e direttamente rivolte al “grave fatto” del suicidio del figlio, omettendo l’inciso Corona conferisce a queste parole un significato più ampio, che trascende il fatto concreto e immediato. La “causa” si rivela come la dimensione ultima di “ciò che è”, perché negli abissi del carattere e del destino è riposta l’essenza ultima della vita, della morte, dell’essere in generale. “Tutto dobbiamo capire” – eppure non “capiamo” e, soprattutto, non accettiamo. Non sempre per inadeguatezza, per egoismo o per viltà. “Non capiamo” perché il dolore e la morte ci superano e non sono integrabili nell’esistenza umana. Non capiamo, anche se “tutto dobbiamo capire”.33 Non capiamo perché non possiamo capire, e forse la grandezza ultima dell’uomo non consiste in null’altro se non nel naufragare di fronte a questo imperativo eterno e inesorabile, cifra di un mistero al quale l’uomo non potrà mai corrispondere fino in fondo. Rileggendo queste parole, Santo le associa istintivamente alla propria situazione. “Spesso pensava al secondo biglietto di Hofmannsthal: ‘negli abissi del carattere e del destino. Tutto dobbiamo capire’. Ma lui non capiva perché la vita gli era andata di traverso e nianche intuiva da lontano che fursi era colpa del suo carattere. Ma, anche se avesse capito, le donne lo aveva maltrattato e quella non era colpa del suo carattere, ma di loro che era troie. Così pensava Santo, che credeva di aver sempre ragione anche quando aveva torto.” (305) Santo riesce fino all’ultimo a giustificarsi e a giustificare il suo vivere inautentico. È la forza dell’intelletto “disgregante” e delle parole lontane dalle voci originarie del cuore e della natura a convincerlo di “aver sempre ragione”. Di contro, quel “tutto dobbiamo capire” che a tratti richiama Santo a un’autenticità perduta non è un invito alla comprensione concettuale dell’intelletto, ma un imperativo, o forse un dato di fatto, che sono percepibili solo “con il cuore”. Le parole di Hofmannsthal sembrano voler “definire” l’essenza dell’uomo come testimone del disvelarsi dell’essere e allo stesso tempo la 33 “Man muß alles verstehen”: il verbo “müssen” indica una necessità, al contrario di “sollen”, che intende il dovere “morale”. Si tratta dunque di un “dover capire” affidato all’uomo dalla sua natura, e non di un imperativo etico in senso stretto, così come la “comprensione dell’essere” trascende l’etica e definisce l’uomo da un punto di vista ontologico.
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sua infinita fragilità. “Comprendendo” l’essere nella sua totalità, l’uomo è per sua natura chiamato a calarsi nell’abisso e a contenerlo, ascoltando e comprendendo le mute cose che vengono incontro, siano esse la bellezza di un giorno d’estate o il dolore lacerante e la morte, siano queste “cose” l’amore, la disperazione o l’intima vanità dell’esistenza umana. Eppure “capire”, “comprendere”, “ascoltare”, “contenere” l’abisso non significa che l’uomo sia, di fatto, in grado di abbracciare l’essere nella sua totalità, di spiegarlo e, tanto meno, di accettare fino in fondo l’abisso della morte e del dolore. “Capire tutto” non può significare trascendere la finitezza e farsi carico anche del nulla che precede e segue l’uomo, della morte sempre incombente che lo accompagna come la propria ombra oscura e inscindibile. Proprio nella “grande follia” metafisica dell’uomo moderno, che arriva a “dimostrare” e “spiegare” Dio e le cose ultime, risiede infatti il pericolo più grande: quello del credersi signore e sovrano di un “tutto” del quale in realtà non siamo che ospiti ignari e provvisori. Quel “tutto dobbiamo capire” sembra indicare piuttosto un non sottrarsi, un non fingere, un non “ripararsi troppo”: un corrispondere originario del cuore, un “abdicare”34 alle pretese razionalizzanti dell’intelletto per “affidarsi” semplicemente a ciò che è. Forse solo in questo affidarsi possiamo – potremmo – “capire”. 4.
I due abissi e lo scacco finale –
Sospeso tra carattere e destino, dopo altri anni errabondi e tormentati Santo sperimenterà infine il ritorno. La forza delle “radici elastiche” lo richiameranno alla terra natia, ai boschi, alle voci dell’infanzia, ed è ancora una volta il risuonare dell’armonia tra uomo e natura ad accompagnarlo nel suo ritornare malinconico: sono i rumori del battiferro, della macina, il canto delle manére (che sarà presto sostituito dal frastuono della motosega). Il ritornare di Santo è un andare verso la morte. “L’unico tornare possibile era quello verso casa, l’unico pensiero morire nella sua terra.” (357) Tornare a casa
34 “Abdicare”, parola cara a Fernando Pessoa e non meno a Mauro Corona, sottende quella libertà che forse sola potrebbe salvare l’uomo contemporaneo dai suoi drammi interiori ed esteriori. Abdicare: capire che la vita non consiste nell’accumulare (potere, oggetti, pensieri, responsabilità) ma nel lasciar andare e lasciar essere, anche quando questo potrebbe venire scambiato per passività o addirittura incoscienza. Di questo vivere autentico resta simbolo, nelle opere di Corona, l’“amico buono” Maurizio Protti detto Icio (29.1.19607.8.2015), inseparabile scudiero, confidente e alter ego dell’autore; cf. Mauro Corona, Il volo della martora, Vivalda, Torino 1997, p. 134-140; Cani, camosci cuculi (e un corvo), Mondadori, Milano 2007. “Scriveva il poeta Fernando Pessoa: ‘Siediti al sole. Abdica e sii re di te stesso”. “Questo è Icio Duran, un uomo di cuore che andava in giro sotto la pioggia con una borsa piena di cuccioli. Forse non ha capito tutto, ma la vita l’ha vissuta a modo suo, abdicando senza sedersi, sicuramente re di se stesso” (Cani, camosci… p. 210 e 213).
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significa prepararsi all’ultimo passo, e di fronte alla morte si fa più viva la voce della coscienza. “Adesso che dopo anni tornava a vedere i boschi dell’infanzia, della gioventù, dei vecchi taglialegna che gl’insegnava il mistiere da bambino, capiva tante robe. I suoi boschi gli stava presentando il conto.” (366).
Santo vivrà il ritorno alla terra natia e alle voci dell’infanzia, riuscendo anche, a tratti, a pacificarsi nella sua essenza duplice e ambigua. Così come saprà far convivere il fuoco libero del camino e il fuoco nascosto della Stube (392), Santo instaurerà, se pure per poco, una sorta di alleanza tra le due anime che convivono in lui. Fino all’ultimo gli sarà però negato il ritorno alle “radici” più profonde, quelle che non celano l’abisso, ma ne sono parte e ne rendono lo sguardo visibile, umano. In questa lotta interiore saranno ancora una volta le parole di Hofmannsthal ad accompagnarlo – il testo Der Schwierige riposto “in fondo allo zaino” come a custodire quel messaggio al quale non riuscirà a corrispondere fino in fondo. Un’ultima sfida attende l’ormai vecchio Santo dopo il ritorno in patria. Sarà l’antico faggio della sua infanzia a trascinarlo alla morte in una lenta ed epica lotta tra due “morituri”. Il vecchio faggio è un albero cresciuto sul crinale, lontano dalla vita e dall’allegria dei bambini (402). La sua solitudine antica (gli alberi sono uomini) rappresenta forse l’ultimo baluardo erto contro i colpi della vita. Compagno di Santo nell’ultimo ritorno, quell’albero si fa orgoglioso testimone di un’autenticità maschia e testarda, forse anch’essa disarmonica ma a suo modo invincibile; per questo essa è destinata a trionfare sulla vanità di Santo, che consapevolmente nega l’abisso, cercando di rendersene padrone. Santo decide di mostrare ancora una volta la sua superiorità nell’impresa, giudicata da molti impossibile, di tagliare il faggio posto in quella posizione difficile e pericolosa. Vanamente egli cerca di ingannare se stesso e di giustificare il suo atto come azione altruistica (il faggio è malato, serve legna per gli anziani). In realtà Santo intuisce che sta andando incontro al destino; e il vecchio faggio, creatura “abissale”, di questo destino è il custode silenzioso, testimone del tempo e del mistero che chiama alla decisione finale. Il tormento di Santo e il suo sfidare il destino sono tratti essenzialmente “moderni”. Nietzscheanamente esposto all’abisso, nella vita come nell’inevitabile scacco finale, Santo non sceglie però la strada del “bambino” nietzscheano che, più forte del “leone”, riesce a dimenticare, inventando ogni giorno un nuovo inizio. Le linee di un vivere autentico scorrono per Santo parallele come gli anelli degli alberi, cifre intrise di contraddizioni che forse 21
solo la vicinanza estrema della morte potrà raccogliere in una visione d’insieme. Santo, guerriero sconfitto eppure invincibile, cede epicamente al tramonto. Se da un lato la sua morte rappresenta un ultimo naufragare dell’uomo al cospetto dell’abisso, essa sembra allo stesso tempo evocare un’intesa originaria tra l’uomo e la natura. Uniti in una lotta che, sola, può farsi memore della primitiva armonia, nel loro vicendevole abbattersi i due abissi si regalano un’ultima intesa, forse l’unica alleanza ormai possibile dopo la moderna separazione tra l’uomo e il mistero della physis. Questo “ritrovarsi” dei due abissi non può che accadere “al di là della parola”. Sono gli “abissi del carattere e del destino” a riconsegnare Santo alle voci della natura, al loro perpetuarsi che ripeterà in eterno il “grande naufragare” dell’uomo. Così la morte – quella di Santo, e idealmente ogni morte – diventerà leggenda, quello “che deve venire letto” e tramandato, leggenda che prima di diventare parola è suono, canto – silenzio riappropriato a se stesso. “Da quel giorno, tutti gli anni, a novembre, nelle notti di luna calante, su per l’aspra Val da Diach, si sente il canto d’argento di una manéra. Tin, tin, tin. I vecchi assicura essere la Müller di Santo Corona in battaglia col suo faggio per l’eternità.” (406)
IV. Un uomo nuovo e antico. La voce degli uomini freddi Nelle opere di Corona, l’alleanza tra uomo e natura accade originariamente nel silenzio. Il silenzio è il linguaggio dell’essere nel suo accadere. Quando il silenzio si fa voce, non diventa qualcosa di diverso ma, semplicemente, risuona più nitido e vero. È allora che il silenzio raccoglie in sé il cuore dell’uomo, donandogli la percezione di un senso profondo delle cose. Ne La voce degli uomini freddi, opera lirica per eccellenza dove la parola si fa poesia raccolta e “intima” (“innig” nel senso che l’ultimo Hölderlin dà a questa parola),35 Corona narra l’epopea millenaria di un popolo “mite ed essenziale, che arrivava, durava e spariva in silenzio come la neve” (11). Gli uomini freddi erano “gente che taceva” (11) per “rassegnazione del peggio”. La loro rassegnazione non è però rinunciataria passività, ma un “consegnarsi ai segni”, al mistero, alle cifre sempre uguali e sempre diverse della natura. Gli uomini freddi non conoscono la lacerazione dell’uomo moderno e il suo infinito chiedere “perché”. Nel loro mondo, silenzio e parola non sono contrapposti.
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Su questo tema cf. Paola-L. Coriando, Affektenlehre und Phänomenologie der Stimmungen. Wege einer Ontologie und Ethik des Emotionalen, Klostermann, Frankfurt a. M. 2002, p. 187-207.
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“Dovevano e volevano ascoltare, più che farsi ascoltare. C’era intorno quella natura vigilante […]. Allora occorreva ascoltare quella voce senza sovrapporvi acuti di altre voci. C’era la terra umida e buona.” (59)
E ancora: “Lassù parlavano tutti poco. Erano convinti che le uniche parole degne di essere tramandate fossero quelle migliori del silenzio. Ce n’erano poche di quelle […]. Allora si rassegnarono a tacere e ascoltare quello che avanzava e aveva dignità di restare, che tacendo parlava e poteva competere e vincere col silenzio: le parole della natura.” (59)
Compenetrati di “quel silenzio che accompagnava i giorni verso l’eternità” (26), quegli uomini avevano “imparato dagli alberi a svuotarsi di tutto, e far passare il vento della sincerità che li facesse parlare e confessarsi.” (74). Così, a sera, quando la fatica lasciava posto al riposo, il silenzio veniva raccolto e custodito nei “canti della memoria”. Ricordando i morti, anch’essi iscritti in quel tempo circolare dove la “durata” (parola cara a Corona) non era contrapposta alla fine, gli uomini freddi chiudevano il cerchio dell’essere. Incastonato nell’eterno ritorno delle stagioni e nella coappartenenza originaria della vita e della morte, l’abisso della finitezza umana non viene vissuto come angoscia lacerante o come perdizione nell’assenza di senso, ma come un compagno di strada al quale offrire i brevi giorni, canti e riti, speranze e fallimenti. Dove “nulla è importante, nemmeno la vita” (46), dove tutto è “lasciato”, non esiste brama di possesso né ansia di restare. In quel “paese di voci”, “solo voci nell’aria, voci passate che non avevano più un corpo da cui partire o una bocca che le buttava fuori” (56), anche il dolore e lo struggimento si facevano “ringraziamento” (56) e riconoscente disposizione all’ascolto. Poiché gli uomini freddi vivono al di qua della lacerazione moderna in soggetto (io) e oggetto e della separazione tra corpo e anima, il loro “durare” non appare caratterizzato da una “cronologia” che projetta linearmente verso la fine, ma viene vissuto come un tempo circolare che unisce i vivi e i morti (un sommesso “soggiornare” nel mondo che può forse ricordare il “Geviert” dell’ultimo Heidegger).36
36 A ulteriore riprova del fatto che Corona non intende evocare un mondo “idilliaco” contrapposto al male esterno, è bene sottolineare come il nemico che porterà al tramonto di quella civiltà semplice e vera venga dal suo interno, dall’essenza stessa dell’uomo. Nel tragico finale che rimanda al disastro del Vajont Corona non “ipostatizza” dunque bene e male come forze essenzialmente contrapposte. È piuttosto la duplicità insita nell’uomo che porterà alla “perversione dell’essenza” (l’heideggeriana Verkehrung ins Unwesen) e alla sconfitta finale.
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Tra le pagine più alte di Corona, La voce degli uomini freddi viene a comporre una mitologia tenue e raccolta di un uomo “nuovo e antico” che esiste al di qua di lacerazione e speranza. Gli uomini freddi sono “testimoni dell’essere” che hanno superato da sempre la tensione che contrappone l’uomo all’impossibilità di dare una risposta alle cose ultime. Gli uomini freddi hanno raccolto mortalità e finitezza dell’uomo in un mite “accordo” che è consapevolezza e, più profondamente, un mite “aggiungersi” alla musica di “ciò che è”. In quel mondo di voci e silenzio, in quel “paese di echi” (54), l’inesprimibile, confine ultimo per Lord Chandos, è semplicemente presente, tra la neve, l’eterno ritorno delle stagioni e i destini degli uomini. È un mondo pervaso di senso, quello degli uomini freddi. Di un senso che non è mai analizzato, esplicitato, discusso, ma indicato e vissuto nella semplicità che si fa preghiera rituale. È una di queste “preghiere rituali” a introdurre la storia della “donna muta”. Alle porte dell’inverno, la festa del miele rinnova e sancisce l’alleanza tra uomo e natura e i vincoli della comunità: è questo il momento di dichiarare gli intenti d’amore e anche l’intenzione di restare in quel mondo magico e semplice – oppure di partire, abbandonandone le voci e le regole non scritte. Suggellato dall’abbraccio delle mani intrise nel miele, il girotondo che conclude la festa rituale simbolizza anche quel “lasciar essere” ogni cosa in quello che è, atteggiamento così profondamente ancorato nel cuore degli uomini freddi: lasciar essere che significa anche e soprattutto possibilità di scelta. Così, nella simbologia di questo rito, chi si presenta con le mani pulite alla danza circolare indica la propria volontà di uscire dalla comunità e viene “lasciato andare”. Come un giorno quella donna “alta, dai capelli come erbe d’autunno” (61). La donna lascia il paese per le “città fumanti” e nulla si saprà più di lei. Semplicemente, la donna “scivolò dalla montagna come una stella cadente e sparì” (61). Trent’anni dopo “si sentì piovere una voce” (61). Era una voce che piangeva lasciando cadere gocce di rugiada azzurra, una voce errabonda e sempre presente, una voce diversa da quelle dei morti che tornavano a visitare le anime rimaste nei loro luoghi. Quella era la voce di una donna viva, un lamento che ogni tanto “s’impigliava nei cespugli di spine e allora piangeva crocefissa” (62). Intanto, la donna che ne era stata il corpo, disfatta dagli anni e dalla vita, “viveva senza voce” nelle città fumanti (62), simbolo di inautenticità e disgregazione, e “ogni tanto si guardava le mani”, quelle mani che, un giorno, avevano suggellato la sua scelta. Ma “più che guardarle le univa come quando si prega, e una tastava l’altra per sentire se trovavano il miele” (62). “Dall’interno, da molto in fondo”
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la voce della coscienza le aveva sussurrato “di essere stanca, ma piano, come per non spaventarla”. “ ‘Io torno a casa’ ”, le aveva detto la voce, e la donna “lasciò che partisse” (63). L’ammutolire della donna dispersa nell’inautenticità presenta alcune analogie con l’esperienza di Lord Chandos, risulta però rispetto a questa più esistenziale e intimo e, soprattutto, si risolve in un estremo prevalere della parola sul mutismo. La donna ritrova infine un “dire” che è parola autentica per eccellenza (il canto) e lo ritrova nel momento in cui riesce nuovamente ad ascoltare. La voce che si allontana dalla donna dispersa nel mondo è la voce “della coscienza” – il richiamo dell’autenticità, che non è riposta nella dimensione solipsistica del soggetto, ma nell’appartenenza al disvelarsi del “tutto”. È dopo aver spezzato l’originaria alleanza con la “natura” (intesa come physis) che la donna si ritrova muta – incapace di parlare non solo con il mondo, ma prima di tutto con se stessa. Poiché non sa più ascoltare, la parola autentica si distacca da lei. L’incapacità di parlare rappresenta però in fondo anch’essa una prima, seppur frammentaria, forma di autenticità. Mentre il perdersi nella “chiacchiera” e il convincersi della giustezza della propria scelta avrebbero significato il distacco definitivo dall’autenticità, quell’improvviso ammutolire segna l’inizio di una possibile “conversione”: nel suo naufragare, la donna è ancora passibile di un ultimo salvamento. Percepire lo stato di necessità, il bisogno, il dolore, significa aprirsi alla possibilità del cambiamento.37 Dopo mesi la donna senza voce – sospesa tra abbandono e ritorno – riuscirà a fare l’ultimo passo: la conversione accade. Quel che resta di lei (il suo corpo ormai disfatto, la sua ombra disperata) segue la voce, la raggiunge, ritorna al paese della sua infanzia. Sono passi incerti a guidarla verso casa, passi non più abituati al ripido; e sono forse proprio questo ritegno e questa fragilità a indirizzarla verso il ritrovamento di sé: perché all’essenza delle cose non si può che arrivare spogliati di ogni orgoglio, di ogni sicurezza. È ancora una volta la festa del miele a segnare il punto di svolta: il ricongiungimento della donna con la sua voce. In questo ritrovarsi – è la voce a ritrovare la donna o piuttosto il contrario? (65) – voce e corpo interrompono il pianto per sussurrare una canzone, la vecchia canzone del ninnanante che aveva cullato la donna nella sua infanzia (68), canto che non sarà però preludio a una nuova vita, ma un’ultima ninnananna sussurrata sul cammino verso la morte. La voce ritrovata si fa un’ultima volta parola nel suo significato più alto, quello del canto e dell’elegia, anche se questo “dire” non 37 Così come nel pensiero di Martin Heidegger l’esperienza dello “stato di necessità” (Not) è il primo passo verso il superamento della necessità stessa, che per lo più nasconde se stessa dietro il funzionare apparente del nostro mondo dominato dalla “tecnica” e dalla “macchinazione”.
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raccoglie in sé che il breve attimo che prelude alla morte. Alla fine sarà proprio il vecchio ninnanante ad accompagnare la donna verso l’ultimo sonno, verso quella pace “che non la cullò mai da viva” (73): è dunque un canto, sono “parole” che accorderanno alla donna l’estrema riconciliazione. Parole da ascoltare e ripetere andando incontro alla morte come la “possibilità più intima” dell’esistenza. Molti dei temi più propri di Corona ricorrono in queste pagine, accompagnati qui da una prosa poetica che si fa confessione intima e avvicinano lo scrittore di Erto al Rilke del Malte Laurids Brigge, ma anche – e forse più profondamente – ai canti sommessi dell’ultimo Hölderlin. È uno “stato d’animo fondamentale” (Grundstimmung) a dischiudere la dimensione nella quale silenzio e parola autentica dispiegano la loro essenza.38 Voce, parola e silenzio si appartengono nella dimensione di un sentire più profondo rispetto alla riflessione oggettivante dell’intelletto. Nel romanzo La voce degli uomini freddi questa dimensione può essere rintracciata nell’atteggiamento e nello stato d’animo fondamentale dell’accettazione e dell’accordo. Traducendo in vita vissuta il “tutto dobbiamo capire” di Hofmannsthal, gli uomini freddi “comprendono” l’essere nella sua totalità, lasciano-essere “il tutto” rimanendo al di qua della lacerazione in soggetto e oggetto. Il loro accettare, capire, quel tenue “andare all’unisono” con le leggi della vita e della morte appare radicalmente contrapposto al pensiero teoretico proprio del mondo moderno. È un “andare insieme” a ciò che è, un vivere l’armonia dei contrari che, non escludendo il dolore e l’esperienza lacerante della fine, ma al contrario inglobandoli nella vita, riesce a iscrivere anche la morte in quel tutto misterioso e predominante che non fa più paura, ma ispira fiducia e un sommesso “affidarsi” a ciò che è. Gli uomini freddi vivono “la natura” come “il Sacro” (Hölderlin) e corrispondono al suo disvelarsi nel silenzio dell’ascolto e nella parola autentica.
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Lo “stato d’animo” (Stimmung) è una dimensione che poco o nulla ha a che fare con il sentimento o l’emotività intesa in senso classico. Nella filosofia tradizionale, le emozioni sono pensate a partire dalla loro contrapposizione con la neutralità dell’intelletto e sono di questo la controparte inferiore. Al contrario, nella fenomenologia ermeneutica lo stato d’animo indica la dimensione dell’originaria coappartenenza dell’uomo al disvelarsi dell’essere, che non è mai neutrale e puramente intellettuale, ma accade in un “sentire” profondo e originario situato “al di qua” di razionalità e irrazionalità, di impassibilità e sentimento. Senza voler qui in alcun modo ricondurre la poetica di Corona e di Hofmannsthal a una filosofia ben precisa, cosa che risulterebbe assolutamente arbitraria e riduttiva, appare però interessante come entrambi gli autori si muovano esplicitamente in una dimensione originaria, dove in ultima analisi non esiste distinzione tra sentire, percepire, guardare e essere “sentito” dal tutto che contiene e abbraccia l’uomo. Il superamento della soggettività passa anche attraverso un nuovo modo di intendere il rapporto tra “emozioni” e “razionalità”.
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Al contrario di Santo, uomo moderno separato dal tutto originario che racchiude in sé autenticità e dispersione, gli uomini freddi sono, da sempre, “tornati a casa”. Poiché essi appartengono al silenzio originario e ne sono custodi, il loro raccontarsi e il loro raro parlare possono dirsi “migliori” del silenzio. Migliori non già perché essi lo superino e lo vincano, ma perché sono capaci di custodirlo e tramandarlo. Così la “donna muta”, che ritrovando la voce autentica del suo essere nel mondo può ritornare – ritornare nel senso più ultimo, intimo ed estremo. La morte, diceva Heidegger, è lo scrigno del nulla, un nulla che può essere il vuoto niente della sconfitta finale o l’aprirsi al mistero dove anche l’angoscia può forse placarsi e trovare riposo. Per incamminarsi “senza odio” verso l’ultimo mistero bisogna aver superato il frastuono del mondo ma anche il mutismo che chiude il cuore. Bisogna aver ritrovato il silenzio originario. Quel silenzio custodito e trasmesso in un canto antico. V. Tradurre il silenzio Nel corso di questo tentativo sono stati messi in luce, senza alcuna pretesa di completezza, alcuni aspetti, i quali possono venire riassunti nei seguenti punti. 1.
Nelle opere di Hofmannsthal e di Corona è rintracciabile una fondamentale sfiducia riguardo alla parola intesa come riproduzione discorsiva della realtà. Entrambi gli autori sono alla ricerca di un modo nuovo di parlare, un “dire” “intuitivo” che custodisca il silenzio originario senza disgregarlo nella “conversazione” e nella sovrabbondanza di parole.
2.
Mentre nella commedia L’uomo difficile il parlare autentico dei due protagonisti viene contrapposto alla dispersione nell’inautenticità del resto del mondo, ne Il canto delle manére Santo racchiude in sé entrambe le possibilità, è un essere duplice e dunque più “difficile”. Per questo Santo, pur intuendo la necessità di ritornare all’autenticità (all’ascolto), non riesce a fare il passo finale. Fino all’ultimo, Santo lotterà contro l’abisso della sua anima, e ne sarà alla fine inghiottito.
3.
Nell’incontro tra l’“abissale” Santo dalla Val e l’Hofmannsthal personaggio letterario Corona lascia intravedere per Santo una possibile salvezza nel ritorno alle voci della natura e del cuore. Pur intuendone la necessità, in Santo prevarrà la divaricazione, tipica27
mente moderna, tra l’appartenenza al tutto originario e la consapevole e distruttiva negazione di quel mistero che lega l’uomo alla “causa” ultima. La smania di Santo di “buttarsi via” si manifesta anche nel linguaggio (i pensieri razionalizzanti che cercano di giustificare le sue azioni distruttive), così come l’autenticità ritorna nei momenti di ascolto che lo riportano a se stesso. 4.
Se nel Canto delle manére lo stato d’animo fondamentale del protagonista è dettato dall’inquietudine e dalla lacerazione, ne La voce degli uomini freddi Corona delinea un modo di vita autentico che scaturisce anche da un più profondo rapportarsi al silenzio e alla parola. Forgiati nell’ascolto delle voci della natura e nell’accettazione del mistero della vita e della morte, gli uomini freddi non conoscono la parola disgregante. Il loro è un dire che tramanda, racconta, “dis-vela” senza oggettivare e “mettere a nudo” il mistero originario. Parola e silenzio si corrispondono, come gli anelli degli alberi, in quel “tempo circolare” che rispecchia la sacralità insondabile della natura.
Se è vero che l’essenza dell’uomo riposa in una coappartenenza alla natura intesa come sacralità e mistero e se, come dice Hölderlin, siamo originariamente un colloquio39 che si fonda nell’ascolto, appare chiaro che l’ammutolire di Lord Chandos dinanzi all’indicibilità delle cose così come il naufragare di Santo al cospetto dell’abisso sono due aspetti dello stesso percorso, grande eppure interrotto, verso l’autenticità. La grandezza dell’ammutolire e la grandezza del baratro consistono entrambe nell’essersi liberati dalla superficie, dalla chiacchiera, dalla parola disgregante. È la ribellione contro il livellamento, contro la nullità che pervade un mondo “oggettivato” e infinitamente descritto, discusso, analizzato. Chandos e Santo sono uniti dalla grandezza del naufragio. È il tramontare grande e sublime dell’uomo moderno e della sua intima ambivalenza. Più originario di questo tramonto appare la possibilità delineata da Hofmannsthal nella commedia L’uomo difficile, e, soprattutto, da Corona ne La voce degli uomini freddi. Questa possibilità riposa nello stato d’animo fondamentale dell’accordo e del “lasciar essere”. Lasciando essere le cose, Hans-Karl e Helene si ritrovano e lasciano dietro a sé le convenzioni e la chiacchiera del mondo. Più intimamente, in questo “lasciar essere” che è ascolto e solo raramente si traduce in parole, gli uomini freddi di Corona 39
Friedrich Hölderin, Friedensfeier (“La festa della pace”): “Seit ein Gespräch wir sind / und hören können voneinander” (“Da quando siamo un colloquio / e possiamo ascoltarci l’un l’altro”).
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fanno esperienza dell’essenza dell’uomo. È questa un’esperienza “finita”, imperfetta e fragile, e proprio per questo autentica. Accettare la propria fragilità significa fare un passo indietro e disporsi all’ascolto. Solo da questo passo indietro possono, a volte, nascere parole “migliori del silenzio”. Sono le parole della poesia, ma anche le parole di un dialogo autentico che sappia condividere “ciò che è” senza disgregarlo in un infinito e vuoto discorrere. Sono parole che non vogliono dominare ma indicare, parole rare nell’essenza e per loro natura sporadiche, trattenute, discontinue. Quando queste parole accadono, non tentano di sostituirsi al silenzio. Piuttosto, esse lo “traducono” in brevi attimi di condivisione. Le parole autentiche preludono al silenzio e ne preparano la venuta. Il silenzio è diverso, dopo queste parole. Ritraendosi, esse lo liberano e lo rendono pieno di senso. La parola non è l’unica strada verso il cuore delle cose e forse neppure la più diretta. Se l’essere accade per Corona originariamente come ascolto, sguardo, presenza, mistero, sono ancora le sue opere a indicarci altre vie, non opposte, ma complementari alla parola. Così nella comunione con il tutto che vive nel lavoro delle mani, nella fatica, nel silenzioso affidarsi alle stagioni e al loro eterno ritorno. Più intimo di qualunque parola, per quanto vera ed essenziale, il linguaggio raccolto e silenzioso delle mani disvela e custodisce l’essenza delle cose. Più sinceri e grandi di qualunque voce umana sono per Corona il vento, l’eco, il turbinio delle foglie, il canto dei ruscelli e la quiete della neve. Più vero della parola è il parlare degli occhi che condividono un dolore, una promessa, la vicinanza della morte, un nuovo inizio. A volte sguardi e presenze si fanno parola. Senza perché, come la rosa e il suo saper fiorire.40 È bene che questa traduzione accada. È bene serbarla nel cuore, e poi lasciarla andare. Perché “i segreti vanno cercati ma lasciati dove stanno”.41
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Angelus Silesius: “la rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, non chiede se la si veda oppure no”. 41 Mauro Corona, I misteri della montagna. Milano, Mondadori 2015, p. 31.
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SCHEDE ESSENZIALI (201-207)
201. Raimondo Cubeddu, Atlante del liberalismo, Ideazione, Roma 1997, p. 165. (a) Raimondo Cubeddu è docente di Filosofia politica all’Università di Pisa ed è vicepresidente del Consiglio di amministrazione della Fondazione Magna Carta. Si è occupato di filosofia politica e di epistemologia delle scienze sociali, con particolare attenzione alla tradizione liberale e alla Scuola austriaca (Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek) ma anche al razionalismo critico di Karl Popper, di teoria delle istituzioni e delle dottrine del diritto naturale. Oltre a numerosi studi pubblicati in riviste e a capitoli di libri, è autore dei volumi: Storicismo e razionalismo critico. Il problema della conoscenza nelle scienze storico-politiche, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1980; Il liberalismo della scuola austriaca. Menger, Mises, Hayek, Morano, Napoli 1992; Friedrich A. von Hayek, Borla, Roma 1995; Tra scuola austriaca e Popper. Sulla filosofia delle scienze sociali, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996; Politica e certezza, Guida, Napoli 2000; Margini del liberalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2003; Lo spettro della competitività. Le radici istituzionali del declino italiano (con Alberto Vannucci), Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2006; Tra le righe. Leo Strauss su cristianesimo e liberalismo, Marco, Lungro (Cs) 2010; L’ombra della tirannide. Il male endemico della politica in Hayek e Strauss, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2014. (b) Con questo libro Raimondo Cubeddu si propone di fornire al lettore strumenti per orientarsi nella vasta rete di posizioni che, nella filosofia e nel pensiero politico, economico e giuridico dell’età moderna e contemporanea, si richiamano al liberalismo. Il suo intento è quello di spiegare cosa definisce il liberalismo differenziandolo da altre visioni della politica, della società e dell’economia. La difficoltà di orientarsi nel liberalismo e di darne una
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definizione univoca è legata a suo avviso sia alla varietà dei movimenti politici che si dichiarano liberali sia alla multiformità delle tradizioni di pensiero che si definiscono o vengono definite tali. A ciò si aggiunge che nell’ambito del liberalismo esistono tradizioni locali che hanno cercato di adattarne i principi a realtà storiche specifiche, e che si danno pensatori che si definiscono liberali senza esserlo veramente (come Giovanni Gentile) o che, pur non definendosi liberali (anche perché ai loro tempi il termine non esisteva in quanto designazione di una tendenza del pensiero politico), di fatto lo sono, come Locke, Montesquieu, Mandeville, Hume, Adam Smith, Kant, Wilhelm von Humboldt. Un problema centrale nello studio di Cubeddu è quello di distinguere la tradizione chiamata nel mondo anglosassone “classical liberalism” (che prende le mosse dai pensatori or ora menzionati per giungere fino a Friedrich von Hayek e a James Buchanan) dalla tradizione “liberal” e dal “libertarianism”, come anche da tutti quei composti che collegano il liberalismo ad altre tradizioni politiche (liberal-democrazia, liberal-socialismo, cattolicesimo liberale, socialismo liberale) e che specificano la parola libertà, caratterizzandola come “libertà positiva” e “libertà negativa”, “libertà per” e “libertà da”. Un ulteriore problema è quello di differenziare il liberalismo dal “repubblicanesimo”, cioè da quelle dottrine che, dall’età classica fino ai giorni nostri, hanno inteso la libertà umana come “virtù civica” connettendola al problema della “vita buona” (un problema rispetto a cui, secondo il filosofo della politica e del diritto Joseph Raz, la tradizione liberale assume un atteggiamento di “neutralità”). Tratto essenziale del liberalismo è per Cubeddu il suo nesso con l’economia di mercato, ovvero il riconoscimento dell’“interdipendenza tra politica ed economia” (p. 10), per cui libertà politica e libertà economica, istituzioni politiche e mercato si presuppongono reciprocamente (come si vede già nella teoria della proprietà individuale di Locke). Questo nesso tra politica ed economia toglie, secondo l’Autore, ogni fondamento alla distinzione tra liberalismo (come momento etico-politico volto a comporre gli interessi individuali in una superiore unità) e “liberismo” (termine, presente solo nel linguaggio politico italiano, che denota una dimensione puramente tecnico-economica e utilitaristica tesa a soddisfare i bisogni e gli interessi individuali) fatta valere da Croce contro Einaudi. (c) Se il problema fondamentale della filosofia politica consiste nella ricerca del miglior ordine politico possibile in circostanze date (con le parole di Leo Strauss: “conciliare un ordine che non sia oppressione con una libertà che non sia licenza”), e se il presupposto dell’analisi di tale problema è la spiegazione del modo in cui si genera un ordine, la specificità della soluzione liberale consiste nel chiedersi come l’azione di individui liberi possa gene-
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rare un ordine, cioè “un insieme di norme che consente di ridurre l’imprevedibilità degli esiti delle azioni individuali” (p. 20). Cubeddu si riferisce a questo proposito alle posizioni di Menger, Mises e Hayek che, evitando ipotesi provvidenzialistiche, finalistiche, naturalistiche o contrattualistiche e tentando di sciogliere il liberalismo da ipoteche economicistiche, hanno inteso l’ordine come combinazione spontanea di più elementi, utilizzando a questo proposito il concetto di “catallassi”, che indica il sistema degli scambi reciproci (di beni e di informazioni) tramite cui gli individui arrivano a stabilire in modo intersoggettivo, congetturale e provvisorio le regole relative ai propri rapporti reciproci. L’ordine politico liberale non è dunque un “ordinamento” (cioè un insieme di elementi che tendono deliberatamente a realizzare un fine o una pluralità di fini disposti gerarchicamente) e vuole essere conciliabile con la libertà individuale. Da questo concetto di ordine consegue che funzione dello Stato non è di distribuire risorse per compensare le disuguaglianze prodotte dal mercato, ma di favorire la riuscita del processo della catallassi impedendo la formazione di concentrazioni di conoscenze, e dunque di monopoli. In questa prospettiva, il liberalismo si configura sia come un’interpretazione individualistica delle istituzioni sociali sia come una teoria e prassi per il controllo e la riduzione del potere: se infatti gli individui sono per natura diversi perché la conoscenza di cui sono dotati è limitata e fallibile, l’uguaglianza di fronte alla legge rappresenta il tentativo di superare la disuguaglianza naturale senza cancellare le differenze. Principio ispiratore del liberalismo non è allora, come sostengono i suoi detrattori, uno sfrenato egoismo, ma il “governo della legge” (Rule of Law), per cui lo Stato deve essere sempre uno Stato di diritto basato sulla separazione tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Esso non deve realizzare finalità etiche, neanche quelle di un’“etica laica” o di un “bene comune”, ma garantire la certezza del diritto, facendo sì che l’incremento delle libertà individuali si traduca “in un incremento di libertà e di possibilità di scelta e di vita per tutti i membri della società” (p. 54). Da Kant a Popper, il liberalismo risponde dunque alla domanda platonica, se sia peferibile un “governo degli uomini” o un “governo della legge”, in modo antitetico alla democrazia, che rappresenta un’evoluzione della risposta secondo cui devono essere i “migliori” a svolgere l’attività di governo. Fondamento della visione liberale è infatti l’idea che il diritto non sia il prodotto della volontà umana (individuale o collettiva) in vista del raggiungimento di determinati fini (come vogliono i modelli politici “teleocratici”), ma vada inteso (secondo un modello “nomocratico”) come “l’insieme delle norme da osservare per raggiungere una pluralità compatibile di scopi individuali” (p. 47), in quanto i diritti individuali, pensati come “naturali”, sono antecedenti alla società e allo Stato. Il liberalismo si distingue dunque dal repubblicanesimo per la convinzione 33
che il miglior regime politico non nasca da un processo comunitario di educazione alla virtù, ma sia il risultato di un incremento delle possibilità di scelta individuali. D’altro canto, esso si differenzia sia dalle posizioni conservatrici sia da quelle socialiste per il rifiuto del primato della politica e dell’interventismo statale in base alla motivazione che la sovranità dei “consumatori” si traduce in un insieme di norme che possono non coincidere con gli interessi e con i fini dei detentori del potere politico. Tuttavia, per l’impossibilità di distinguere nettamente sfera pubblica e sfera privata, anche nel modello nomocratico è insita la tendenza a ridurre la libertà individuale, sebbene in misura minore rispetto a quella dello Stato teleocratico. “Esaminato dal punto di vista di un individualismo metodologico radicale, lo stato non potrà mai essere nulla di diverso dal potere degli individui che a qualsiasi titolo detengono la potestà di stabilire cosa sia diritto e di imporlo” (p. 141). Per questa diffidenza nei confronti del potere e dello Stato, la tradizione del liberalismo classico converge, almeno parzialmente, con le posizioni libertarie o “anarco-capitalistiche” di Murray N. Rothbard, che, radicalizzando la teoria lockiana dei diritti individuali, ha criticato con veemenza ogni ipotesi di interventismo statale e di proibizionismo, prendendo le distanze da quel liberalismo “statalistico” che, tra Otto e Novecento (anche in seguito all’affermarsi delle concezioni liberal-democratiche di John Stuart Mill), ha cercato di far fronte ai problemi della società di massa abbandonando di fatto la dottrina della separazione dei poteri e facendo proprie soluzioni di carattere democratico e socialista. Ma il primato dello Stato e l’identificazione tra quest’ultimo e le istituzioni vengono messi in discussione anche dalla crisi del Welfare State e dai fenomeni di globalizzazione che caratterizzano il mondo contemporaneo, in cui la creazione di entità politico-economiche sovranazionali e le trasformazioni dei mercati hanno condotto a uno svuotamento di significato della teoria della sovranità nazionale spingendo a pensare a forme di associazione politica diverse da quella statuale. Resta da vedere – si chiede Cubeddu – se il superamento dello Stato debba andare nella direzione della globalizzazione del mercato concorrenziale o in quella, auspicata da Rothbard, della nascita di “nazioni consensuali” dotate di forme specifiche di associazione politica. Anche la soluzione anarchico-libertaria, che porta verso la formazione di “privatopie” come alternativa allo Stato, non manca però di difficoltà: questa soluzione potrebbe infatti funzionare solo se il sistema delle “privatopie” fosse esteso universalmente. A fronte della condizione di incertezza di individui dotati di una conoscenza limitata e fallibile circa il futuro soddisfacimento delle loro aspettative, il “compromesso con lo Stato”, ovvero con una forma limitata di potere, potrebbe dunque essere un mezzo atto a riconoscere e garantire sia i diritti naturali sia le aspettative individuali. (Massimo Mezzanzanica) 34
202. Cornelius Castoriadis, L’institution imaginaire de la societé, Éditions du Seuil, Parigi 1975, p. 541. (a) Cornelius Castoriadis (1922-1997) nacque a Istanbul da una famiglia greca. In Grecia trascorse l’infanzia e la giovinezza, avvicinandosi dodicenne alla filosofia e al marxismo. Negli anni della dittatura di Metaxas aderì prima al partito comunista greco e poi a un piccolo gruppo trotzkista. Da entrambi prese le distanze dopo aver maturato la consapevolezza del carattere totalitario e oppressivo, fondato sul dominio di una nuova classe burocratica, del regime nato dalla rivoluzione d’ottobre, a cui quei partiti si richiamavano. Arrivato a Parigi nel 1945, incominciò nel 1948 a lavorare come economista presso l’OCSE, svolgendo questa attività fino al 1970. Nel 1948, dopo avere rotto i rapporti con gli ambienti trotzkisti parigini a cui si era avvicinato, fondò il gruppo di iniziativa politica “Socialisme ou Barbarie” e la rivista dal titolo omonimo. Nel contesto di questo gruppo, a cui appartennero tra gli altri Claude Lefort e Jean-François Lyotard, si sviluppò una critica di impronta libertaria delle diverse versioni dell’ideologia comunista, dallo stalinismo al trotzkismo al leninismo, e infine del pensiero dello stesso Marx e del marxismo in generale. Dopo lo scioglimento di “Socialisme ou Barbarie” nel 1966-67, Castoriadis non si occupò più attivamente di politica, tranne una breve parentesi nel maggio 1968. Nel 1973 incominciò la nuova attività di psicoanalista. Dopo aver abbandonato la Scuola freudiana di Parigi, fondata da Lacan, in cui si era formato, svolse una seconda analisi didattica, con Jean-Paul Valabrega, e partecipò con quest’ultimo alla fondazione del “Quarto gruppo”. Dal 1980 al 1995 fu Directeur d’études all’École d’Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi. Oltre a L’institution imaginaire de la societé, ha pubblicato da Seuil sei volumi intitolati Les carrefours du labyrinthe (1979-1999). Presso lo stesso editore sono in corso di pubblicazione i seminari da lui tenuti alla EHESS. (b) L’intenzione, al tempo stesso teorica e politica, che caratterizza gli studi raccolti in questo volume (di cui esiste una tr. it. parziale con il titolo L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995; alcune delle parti mancanti sono poi state tradotte in C. Castoriadis, L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, Dedalo, Bari 1998) è duplice. Da una parte, attraverso un confronto critico con il pensiero di Marx, essi intendono sviluppare una teoria della società di impostazione radicalmente diversa da quella marxista, individuando nell’“immaginario sociale” l’elemento istituente della società. Dall’altra, anche attraverso un confronto critico con la psicoanalisi freudiana, il funzionalismo di Malinowski e lo strutturalismo di Lévi-Strauss, essi mirano a mettere in luce i limiti di quello che viene definito pensiero “ereditato”, basato su una “logica-ontologia” che intende il reale come determinazione e limitazione (peras), e 35
fanno valere l’esigenza di una logica in grado di pensare l’indeterminato (apeiron). Per il primo aspetto, la proposta teorica di Castoriadis può essere messa in rapporto con l’opera di autori come Leo Strauss, Eric Voegelin, Hannah Arendt, Claude Lefort, che, su diversi versanti culturali e teorici, hanno tentato di riproporre nel Novecento un approccio filosofico alla politica contro l’egemonia di una scienza politica orientata in senso oggettivistico. Per il secondo aspetto, i principali contesti di riferimento sono quelli della psicoanalisi di impronta freudiana e lacaniana e delle teorie dell’immaginario sviluppatesi in Francia in ambito fenomenologico (Jean-Paul Sartre), ermeneutico (Paul Ricoeur), teologico (Henry Corbin), antropologico (Gilbert Durand) e sociologico (Michel Maffesoli). La concezione di Castoriadis può anche essere confrontata con la teoria dell’azione e la critica del totalitarismo di Hannah Arendt, la critica del leninismo di Anton Pannekoek (con cui Castoriadis intrattenne un rapporto epistolare), la critica della burocrazia di Bruno Rizzi e le posizioni del marxismo “occidentale” da Karl Korsch a Herbert Marcuse. Per la sua critica del totalitarismo, il pensiero di Castoriadis è stato inoltre stato apprezzato da intellettuali liberali, come, tra gli altri, Pierre Nora, Krysztof Pomian, François Furet e Pierre Manent. (c) Negli studi che compongono la prima parte dell’opera (intitolata “Marxismo e teoria rivoluzionaria”) l’analisi di Castoriadis si concentra sulla dottrina di Marx e sugli effetti che essa ha prodotto nel mondo contemporaneo. Secondo questa critica, il marxismo è diventato ideologia nel senso che Marx attribuiva alla parola: un insieme di idee che vela e giustifica una realtà. Questo vale sia per la teoria economica di Marx sia per la sua filosofia della storia. Individuando nell’economia il fattore determinante della storia, e riducendo la produzione a tecnica attraverso la teoria delle forze produttive, la dottrina di Marx pone un fattore astratto alla base della complessiva dimensione sociale e culturale, rivelando in questo modo il suo carattere idealistico di fondo e configurandosi come un sistema teorico chiuso di tipo tradizionale, al tempo stesso deterministico e razionalistico. In opposizione a questa tendenza, per Castoriadis, si tratta di riproporre il senso autentico della teoria, della prassi e del loro rapporto. Da una parte, anche la teoria è un fare, consistente nel “tentativo sempre incerto di realizzare il progetto di una delucidazione del mondo” (p. 110). Dall’altra, questo fare, come quello della politica, è praxis, cioè un fare che ha come fine e mezzo l’autonomia degli altri. Alla critica a Marx si aggiunge (nella seconda parte dell’opera, intitolata “L’immaginario sociale e l’istituzione”) quella a Freud, che subordina la fantasia al principio di realtà, obliterandone il carattere produttivo. L’immaginario costituisce invece secondo Castoriadis un elemento primario della psiche, capace di creare forme, immagini e figure che non sono ripetizioni di un evento reale già accaduto, ma creazione radicale “ex nihilo”. È 36
questo l’immaginario radicale, che, nei suoi due aspetti di immaginazione psico-corporea e immaginario sociale, istituisce, a partire dal “magma” delle significazioni sociali, la società ed è “alterità” e “originazione perpetua di alterità” (p. 532). Castoriadis enfatizza il carattere non fittizio e non speculare dell’immaginario, che non è “immagine di”, o “riflesso”, come accade quando lo si intende a partire dallo specchio o dallo sguardo dell’altro (egli allude qui alla psicoanalisi di Lacan), e nemmeno, come nello strutturalismo di Lévi-Strauss, una rete di relazioni tra segni, ma “creazione incessante ed essenzialmente indeterminata (sociale-storica e psichica) di figure/ forme/ immagini, a partire dalle quali solo può essere questione di qualche cosa. Quelle che chiamiamo ‘realtà’ e ‘razionalità’ sono sue opere” (p. 8). Il riconoscimento dell’immaginario, psichico e sociale, come luogo di origine dell’autoistituzione della società (per il concetto di istituzione, Castoriadis si riferisce a Merleau-Ponty, che a sua volta riprende e sviluppa la nozione husserliana di Stiftung) implica un’alterazione del senso di essere ereditato dalla tradizione, e dunque delle categorie relative al mondo della psiche e al mondo “sociale-storico”, a cominciare da quella di soggetto, che con Merleau-Ponty viene considerato come intrinsecamente legato al mondo. Attraverso tale alterazione, le categorie assumono un carattere paradossale e circolare, che le rende irriducibili a quelle della logica “insiemistico-identitaria”. Nella funzione istituente dell’immaginario e nella non coincidenza tra società “istituente” e società “istituita”, Castoriadis scorge un’espressione della “creatività della storia”, e dunque della possibilità di creare una società “autonoma”. Se l’alienazione, o eteronomia, consiste nell’occultamento dell’autoistituzione e dell’essenziale temporalità della società, l’autonomia è “l’instaurazione di una storia in cui la società non solo si sa, ma si fa come esplicitamente autoistituentesi” (p. 538). (Massimo Mezzanzanica) 203. Karl R. Popper, Miseria dello storicismo, tr. it. C. Montaleone, Feltrinelli, Milano 1997, p. 146. (a) Karl Raimund Popper nacque a Vienna il 28 luglio 1902 da una famiglia di origini ebraiche, agiata e colta ma ridotta in povertà dall’inflazione post-bellica. Avvicinatosi giovanissimo al socialismo, negli anni di studio all’università di Vienna lavorò come operaio in una ditta di riparazioni stradali e in una fabbrica di mobili. Nel 1928 conseguì il dottorato in filosofia con Karl Bühler e, ottenuta l’abilitazione all’insegnamento, lavorò dal 1930 al 1937 in una scuola elementare. Attratto dal marxismo e dalla psicoanalisi, se ne distaccò vedendo in entrambe le tendenze forme di sapere pseudoscientifico, in quanto non suscettibili di smentita. Dopo aver preso contatto con i pensatori e gli scienziati riuniti nel Circolo di Vienna si dedicò alla stesura 37
delle sue opere fondamentali: I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza (1930-1933; 1ª ed. Tubinga 1979) e la Logica della scoperta scientifica (Vienna 1935). Nel 1937, in seguito all’ascesa del nazionalsocialismo, emigrò in Nuova Zelanda, dove lavorò come lettore alla Università di Canterbury a Christchurch e scrisse le opere che avrebbero fatto di lui uno dei principali esponenti del pensiero liberale del Novecento e uno dei più agguerriti critici del totalitarismo in ogni sua forma: Miseria dello storicismo e La società aperta e i suoi nemici. Nel 1946, per iniziativa di Friedrich von Hayek, venne chiamato come professore straordinario alla London School of Economics. Negli anni successivi si dedicò all’elaborazione della prospettiva del razionalismo critico: dapprima avviando, con il proprio discorso inaugurale al congresso di Sociologia di Tubinga, nel 1961, la “disputa sul positivismo” con la teoria critica della Scuola di Francoforte; in seguito sviluppando la propria teoria della conoscenza negli studi Congetture e confutazioni (1963) e Conoscenza obiettiva (1972). Negli ultimi anni di vita si occupò intensamente di problemi della meccanica quantistica e di teoria dell’evoluzione, pubblicando in collaborazione con J. Eccles il volume L’io e il suo cervello (1977). Considerato uno degli esponenti di primo piano nel dibattito filosofico ed epistemologico contemporaneo, Popper si spense a Croydon, nei pressi di Londra, il 17 settembre 1994. (b) In questo libro – scritto “in memoria degli innumerevoli uomini, donne e bambini di tutte le credenze, nazioni o razze che caddero vittime della fede fascista e comunista nelle Inesorabili Leggi del Destino Storico” (p. 13) – Popper si propone di dimostrare la povertà dello storicismo come metodo di spiegazione e previsione degli eventi storici. Sua “tesi fondamentale” è “che la credenza diffusa nel determinismo storico e nella possibilità di predire il corso storico razionalmente o ‘scientificamente’ è una credenza errata” (p. 7). Con il termine “storicismo” Popper si riferisce a “filosofie profetiche della storia” come quelle di Hegel, Spengler e, soprattutto, di Marx (alla cui Miseria della filosofia allude il titolo del libro), delle quali intende mostrare il carattere “pseudoscientifico, pseudostorico e mitico” (ibid.). Le tesi sostenute in questo libro sono complementari sia alla critica di Marx (e di Hegel) svolta in modo più ampio e approfondito ne La società aperta e suoi nemici sia alla concezione, esposta in alcuni dei saggi pubblicati in Congetture e confutazioni, dell’intrinseca fallibilità e perfettibilità della conoscenza umana. Nella Prefazione all’edizione italiana, Popper precisa che la sua critica allo storicismo non coinvolge il pensiero di Croce, di cui apprezza il liberalismo e l’atteggiamento critico nei confronti del positivismo, pur essendo in disaccordo con il suo hegelismo. La critica popperiana dello storicismo coinvolge anche il pensiero utopistico e con esso le idee di un’economia pianificata e dell’“ingegneria sociale”, che produce e 38
incrementa “la palude dell’illimitata burocrazia e dell’illimitato potere dello stato” (ibid.). Alle concezioni assolutistiche e dogmatiche del sapere, che, nel tentativo di “portare il paradiso sulla terra” hanno come unico effetto quello di “trasformare la terra in un inferno” (p. 9-10), Popper oppone l’approccio del “razionalismo critico”, consistente nel coltivare uno spirito autocritico, capace di cercare gli errori, di correggerli e di imparare da essi in modo consapevole. (c) Per storicismo Popper intende “una interpretazione del metodo delle scienze sociali che aspiri alla previsione storica mediante la scoperta dei ‘ritmi’ o dei ‘patterns’, delle leggi, delle tendenze che sottostano all’evoluzione storica” (p. 18). Criticare lo storicismo significa dunque porre la questione del metodo delle scienze sociali, che “non hanno ancora trovato il loro Galileo” (p. 17), e della possibilità di applicare in esse i metodi della fisica. Secondo la risposta che viene data a questa domanda, nello storicismo convivono tesi “antinaturalistiche” e tesi “pronaturalistiche”. Le prime sostengono che la maggior parte dei metodi della fisica (come per es. generalizzazione, sperimentazione e quantificazione) non possano essere applicati alla sociologia per la specificità del suo oggetto (novità e non ripetitività, complessità e non esatta prevedibilità dei fenomeni), che rende problematica la distinzione tra obiettività e valutazione e porta a prediligere un approccio olistico ed essenzialistico insieme al metodo della comprensione intuitiva. Per le seconde, la sociologia, come la fisica, è un ambito del sapere che ha contemporaneamente carattere teoretico ed empirico. Essa deve cioè spiegare e predire gli eventi in base a leggi ricavate dall’osservazione. Entrambe le tesi si contraddistinguono secondo Popper per la loro concezione olistica della società. All’olismo Popper contrappone un individualismo metodologico che spiega i fenomeni storici e sociali come risultato delle azioni individuali, tenendo conto della “logica della situazione” e delle conseguenze involontarie delle azioni umane. In questa prospettiva, il processo storico può essere descritto solo da ipotesi singolari, relative a tendenze, e non da leggi universali. Ne risulta l’impossibilità di scoprire la legge dell’evoluzione della società per poterne predire il futuro. L’“errore centrale” dello storicismo consiste nel considerare le proprie interpretazioni come leggi universali dello sviluppo, tendenze assolute che non dipendono da condizioni iniziali e che spingono irresistibilmente l’evoluzione verso il futuro. Esse non sono dunque previsioni scientifiche (condizionali), ma profezie (non condizionali). A questa impostazione, che nella pratica conduce a tentativi totalitari di riplasmare globalmente la società orientandola verso uno stato ideale, Popper contrappone una tecnologia sociale o meccanica sociale “a spizzico”, un modo di lavorare sulle cose “saltuariamente” (p. 63), che si
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propone di affrontare in modo democratico, graduale e circoscritto i problemi sociali. (Massimo Mezzanzanica) 204. Santiago Zabala, Filosofare con Ernst Tugendhat. Il carattere ermeneutico della filosofia analitica. FrancoAngeli Editore, Milano 2004. (a) Santiago Zabala (Buenos Aires 1975) si è laureato in filosofia presso l’Università di Torino nel 2002 con la tesi La svolta linguistica di Ernst Tugendhat. II carattere ermeneutico della filosofia analitica, sotto la guida del professor Gianni Vattimo. Come suggerisce il titolo stesso della tesi di laurea è proprio a partire da essa che si sviluppa il contenuto del libro pubblicato nel 2004 presso la casa editrice Franco Angeli. Nonostante la sua giovane età, Santiago Zabala svolge un ruolo attivo all’interno del recente dibattito contemporaneo sulla relazione tra il metodo analitico e quello continentale di analisi filosofica, questo non soltanto grazie alle collaborazioni con Gianni Vattimo, con il quale collabora per la casa editrice “Davies Group” curando la collana di filosofia tedesca contemporanea, ma anche grazie alla conoscenza della lingua inglese e spagnola che gli hanno permesso di accompagnare agli studi in italiano, come ad esempio il saggio Che cosa significa pensare dopo la svolta linguistica. La filosofia di Ernst Tugendhat (“Eidos” N.1, Genova 2003) anche una serie di traduzioni di pensatori in lingua inglese, come nel caso di Richard Rorty (ricordiamo il saggio Le speranze di Richard Rorty. Il significato della filosofia per la politica, in “Filosofia Politica”, Bologna, Il Mulino, N. 2 e di prossima uscita presso la casa editrice Garzanti la traduzione dello scritto di Richard Rorty Anticlericalismo e ateismo all’interno del testo di R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, testo tra l’altro introdotto dallo stesso Zabala), che di tradurre saggi e interventi propri e del filosofo Gianni Vattimo all’interno di alcune riviste in lingua inglese e spagnola (pubbicata nel 2003 la traduzione Ethic’s withot transcendence, del saggio di Gianni Vattimo nella rivista Common Knowledge, volume 9, Duke University Press e di prossima pubblicazione, all’interno della stessa, il saggio Cristianity and the Death of God: A espose to Cardinal Lustiger). (b) Il primo libro pubblicato da Santiago Zabala ha il pregio immediato di presentarsi come la prima monografia disponibile in Italia su Ernst Tugendhat (1930), un filosofo poco tradotto in italiano e che, a causa dal proprio particolare percorso di pensiero, risulta essere di difficile collocazione all’interno del panorama contemporaneo. Una produzione apparentemente eterogenea contraddistingue il filosofo tedesco allievo di Martin Heidegger,
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il quale dopo uno studio sull’ontologia aristotelica (1957), un libro sul concetto di verità in Husserl e Heidegger, una introduzione alla filosofia analitica del 1976 e il testo Autocoscienza e autodeterminazione. Interpretazioni analitiche del 1979, pubblica nel 2003 uno studio sulla relazione con se stessi all’interno della mistica. In un’intervista rilasciata a Santiago Zabala nel 2002 e pubblicata all’interno del testo, Tugendhat stesso afferma di non sentirsi, oggi, particolarmente vicino ad alcun filosofo a lui contemporaneo, di non sapere quali siano i problemi filosofici ma di sapere, semplicemente, quali siano i suoi e di non credere nell’idea secondo la quale noi siamo nella storia che inizia con i presocratici e che lo scopo della filosofia sia (solo) di riflettere su questa storia. Non è un caso, quindi, che Franca D’Agostini nel suo testo Analitici e continentali collochi (seppur con riserve) il filosofo tedesco all’interno del movimento analitico, Santiago Zabala tenti di far emergere il profondo legame di continuità tra Tugendhat e il pensiero del suo maestro Martin Heidegger e contemporaneamente molti manuali di filosofia finiscano per non menzionarlo affatto. (c) L’idea centrale del testo di Zabala è che se si vuole trovare unitarietà all’interno del pensiero di Tugendhat, bisogna rivolgere l’attenzione non tanto alle formulazioni teoriche o alle influenze eterogenee, ma al problema generale verso cui tutte le sue argomentazioni tendono. Secondo l’autore di questa monografia, è sempre a partire da un’identico problema che il filosofo tedesco apre un confronto, un dialogo e una verifica delle posizioni fenomenologiche, ermeneutiche ed analitiche: il problema della nozione di verità, delle condizioni che permettono di distinguere il vero dal falso, l’asserzione vera da quella falsa. Proprio sulla base di questo presupposto, l’attenzione dell’autore finisce per soffermarsi maggiormente sull’opera più importante e controversa del filosofo cioè Introduzione alla filosofia analitica, (in cui viene argomentata l’ipotesi di trasformare l’ontologia in una semantica formale) lasciando sullo sfondo la partecipazione attiva di Tugendhat nel dibattito contemporaneo sulla morale (Problemi di etica) e sull’autocoscienza. Nel testo emerge che accettare alcuni capisaldi della filosofia analitica (come l’idea di Frege di considerare l’enunciato come unità minima di significato e l’idea di Wittgenstein di legare il significato di una espressio-ne alle sue regole d’uso), significa per Tugendhat affrontare la fenome-nologia trasformando la nozione di intenzionalità, la relazione con oggetti da parte del soggetto, con la relazione ad enunciati compresi intersog-gettivamente. É su questa base che diventa possibile la critica al con-cetto di rappresentazione e la dissoluzione dell’ontologia tradizionale in una semantica formale, che anzichè occuparsi degli enti in quanto enti si interroga sugli enunciati in quanto ”un ente è ciò che è perchè viene de-signiato da un’espressione [...] contenente una determinata forma logi-co-linguistica che gli permette di 41
comparire in un enunciato in determi-nate posizioni e non in altre“. Una particolare importanza all’interno del testo occupa il confronto tra Ernst Tugendhat e Martin Heidegger; Santi-ago Zabala sottolinea il continuo dialogo che le opere di Tugendhat aprono con le opere del proprio maestro, dialogo che a volte si risolve con una ripresa delle impostazioni concettuali del maestro, come nell’interpretazione del rapporto con se stessi come rapporto con la pro-pria esistenza (e non come relazione tra l’io e se stesso) e a volte assume la forma della critica, come nel caso del problema della verità delle asserzioni, problema che Heidegger ha lasciato irrisolto non fornendo le regole per riconoscere il vero dal falso. Molto utili per la scientificità e l’ampiezza sono, infine, l’apparato delle note e i riferimenti bibliografici. (Armando Canzonieri) 205. Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari 2014, p. 113, € 8,50. (a) Maurizio Ferraris è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino, dove dirige il Labont (Laboratorio di Ontologia). È direttore della “Rivista di Estetica”, condirettore di “Critique”, membro del comitato storico di “Alfabeta2” e editorialista di “La Repubblica”. Ha scritto una cinquantina di libri, tradotti in varie lingue, tra cui: Storia dell’ermeneutica (1988), Estetica razionale (1997), Dove sei? Ontologia del telefonino (2005), Ricostruire la decostruzione (2010), Anima e iPad (2011), Filosofia globalizzata (2013). Alla sua carriera è stato conferito nel 2008 il Premio filosofico “Viaggio a Siracusa”. (b) Richiamandosi alla forma del manifesto, e più precisamente del Manifesto di Marx e Engels, Ferraris porta l’attenzione del lettore su un nuovo spettro che si aggira per l’Europa: lo spettro del realismo. A questo spettro Ferraris, come egli stesso confessa nel Prologo del volume, ha dedicato gran parte degli sforzi teoretici profusi dopo la svolta che, agli inizi degli anni Novanta, lo aveva visto abbandonare la corrente ermeneutica per battere una nuova via nell’orizzonte filosofico postmoderno. Tale via ha assunto, nel corso di un ventennio, le vesti di un’estetica intesa come teoria della sensibilità, di una ontologia naturale intesa come teoria della inemendabilità e di una ontologia sociale intesa come teoria della documentabilità. Dalle spoglie dei lavori filosofici che hanno dato forma a queste idee è nato poi il Manifesto del nuovo realismo, che, nelle intenzioni dell’autore, si propone di fornire al lettore una presentazione chiara e concisa delle ragioni per cui il realismo è “la sola chance di emancipazione che sia data all’umanità […] contro l’illusione e il sortilegio” (p. 112). Agli occhi di Ferraris, tali ragioni 42
affondano le proprie radici nell’esito fallimentare del postmoderno, di cui è fornita una lucida diagnosi nel primo capitolo significativamente intitolato Realitysmo. L’attacco postmoderno alla realtà. Secondo l’articolata diagnosi del filosofo, il postmoderno, i cui caratteri cruciali sono l’ironizzazione, la desublimazione e la deoggettivazione, è giunto alla sua fine non perché ha mancato i propri obiettivi, ma perché li ha realizzati appieno. Il filosofo riconosce, infatti, nel populismo mediatico, imperante nella nostra epoca, una piena realizzazione politica e sociale delle idee postmoderne: nei telegiornali e nei talk show si attua la massima nicciana “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, che ha il suo significato più autentico ne “la ragione del più forte è sempre la migliore” (p. 6). Il mondo è così diventato favola, o meglio reality, e l’illusione è preferita alla verità, quest’ultima dissolta, con l’intera realtà, in un vortice ermeneutico inarrestabile. L’azione congiunta dell’ironizzazione, per cui è bene assumere un distacco ironico dalle proprie affermazioni, della desublimazione, per cui il desiderio costituisce una forma di emancipazione, mentre la ragione solo una forma di dominio, e infine della deoggettivazione, secondo cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni, ha condotto alla realizzazione di ciò che Ferraris rubrica sotto il titolo di realitysmo, inteso come “una variante del solipsismo, dell’idea che il mondo esterno non esista, che sia una mera rappresentazione” (p. 25). Con tale termine, che rimanda ai format televisivi, il postmoderno assume, nel Manifesto, la veste di un “antirealismo magico” (p. 26), che assegna al soggetto, allo spirito un pieno dominio sul mondo, su un mondo che non è più là fuori, ma è qui dentro in noi. Contro tale magia costruttivista, che raccoglie attorno a sé tanto il trascendentalismo quanto il postmoderno in cui il primo è culminato, Ferraris propone il farmaco “realismo”, i cui eccipienti sono: Ontologia, Critica, Illuminismo. Tali istanze intendono reagire a tre fallacie entro cui è fatalmente irretito tutto ciò che è rubricato sotto il termine “postmoderno”: la fallacia dell’essere-sapere, la fallacia dell’accertare-accettare e la fallacia del sapere-potere. Contro la prima fallacia che confonde l’essere con il sapere, quello che c’è con quello che sappiamo, l’esperienza del mondo con la sua conoscenza, e quindi l’ontologia con l’epistemologia, Ferraris oppone ciò che chiama l’inemendabilità, quale carattere fondamentale del reale: “ciò che ci sta di fronte non può essere corretto o trasformato attraverso il mero ricorso a schemi concettuali” (p. 48). L’inemendabilità è indice dell’esistenza di un mondo esterno, il quale oppone resistenza alle nostre categorie. La realtà che incontriamo non si lascia manipolare dall’azione concettuale, non è il prodotto di tale azione e il dato non è un mito, come affermano i postmoderni. In altri termini, contro le tesi costruzioniste, per cui “tutto è socialmente costruito” e “il mondo è la mia costruzione” (p. 62), l’inemendabilità ci ricorda che il reale è inaggirabile e crea attrito. Tuttavia, occorre osservare che, con l’appello alla legittimità del 43
reale, Ferraris non intende rinnegare in toto le intuizioni di stampo costruzionista, bensì intende sancire ciò che egli definisce kantianamente una pace perpetua tra esse e quelle realiste, ricollocando le prime nel loro alveo originario. Per il filosofo, infatti, accanto a regioni d’essere non costruite socialmente, vi sono alcune che lo sono. Più precisamente egli ripartisce gli oggetti in tre classi distinte: gli oggetti naturali che esistono nello spazio e nel tempo indipendentemente dal soggetto e dai suoi schemi concettuali, gli oggetti sociali che esistono sì nello spazio e nel tempo, ma sono dipendenti da soggetti; gli oggetti ideali, che esistono fuori dalla spazio-tempo indipendentemente dai soggetti. Con questa tripartizione, Ferraris, reintroduce nel suo discorso un’istanza costruzionista, collocandola, però, esclusivamente nell’area degli oggetti sociali, dove vige la legge costitutiva Oggetto=Atto Iscritto, per cui “un oggetto sociale è il risultato di un atto sociale […] che si caratterizza per essere registrato” (p. 75). Gli oggetti sociali sono dunque “iscrizioni di atti” che possiedono una loro oggettività attraverso la registrazione su un supporto sia esso un pezzo di carta, un file o solo la mente delle persone coinvolte nell’atto. Secondo questa legge, che sta al centro di ciò che Ferraris nomina “documentalità” o “costruzionismo debole”, le iscrizioni sono decisive nella costituzione della realtà sociale, ma non della realtà in generale, come propone il “testualismo forte” dei postmoderni. Ancora, differentemente dal postmodernismo, la documentalità, benché ammetta il ruolo costruttivo dell’atto sociale, non giunge mai ad affermare l’irrealtà degli oggetti dipendenti dal soggetto, bensì ne sancisce l’oggettività per mezzo della registrazione. Ora, all’irrealismo che sta al cuore del postmoderno è legata, nella lettura di Ferraris, la seconda fallacia, quella dell’accertare-accettare. Sancire l’irrealtà del mondo significa, infatti, affrancarsi dalla responsabilità di fronte al reale, che viene esclusivamente accettato: “il postmoderno ritiene che basti sostenere che tutto è socialmente costruito per immunizzarsi dall’attrito del reale” (p. 61). Per Ferraris, il reale, l’esistenza di un mondo esterno, è, invece, il presupposto inalienabile della morale: solo nel momento in cui c’è un mondo esterno le nostre azioni non sono mere illusioni, non sono sogni. Dunque, di contro all’antirealismo postmoderno per cui non vi è nulla da criticare e da trasformare, il realismo diviene l’inalienabile presupposto di ogni critica, di ogni trasformazione. Alle prime due fallacie Ferraris ne aggiunge una terza: quella del sapere-potere. Secondo tale fallacia “il sapere è uno strumento di dominio e una manifestazione della volontà di potenza” (p. 87) o, in altri termini, ogni sapere è esercitato da un potere, che riduce il sapere stesso ad un mero strumento di asservimento invece che di emancipazioni. A partire da tale prospettiva, Ferraris, nella scia delle riflessioni di Habermas, rintraccia nel postmodernismo una radicata istanza anti-illuminista, che eleva a sapere critico esclusivamente quel 44
sapere che dubita sistematicamente di ogni conoscenza. Di tale fallacia Ferraris presenta tre versioni: la prima mira semplicemente a mettere in discussione lo sguardo disinteressato del sapere; la seconda, che deriva dalle analisi di Foucault, sostiene che l’organizzazione del sapere è determinata da motivazioni di potere; la terza asserisce che “chi ritiene di disporre della verità tende a essere dogmatico o addirittura violento” (p. 90). Contro quest’ultimo argomento Ferraris oppone una radicale obiezione che mira ad affrancare la verità dalla violenza: si può avere verità senza violenza e violenza senza verità, perciò l’abbandono postmoderno della verità – l’addio alla verità quale estremizzazione nichilistica dell’asserzione “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni” – non porta né alla pace universale né alla sospensione della violenza, bensì esclusivamente alla superstizione. L’addio alla verità non risulta, dunque, emancipativo, bensì implica, paradossalmente, di nuovo, l’affermazione per cui “la ragione del più forte è sempre la migliore”. In altri termini, se il sapere è potere, l’elemento liberatorio – il sapere – è ridotto, al tempo stesso, all’“istanza che produce subordinazione e dominio” (p. 101), quindi violenza; in tal modo, la richiesta di emancipazione del postmoderno si ritorce su se stessa. Contro gli esiti paradossali della fallacia sapere-potere, che riduce il primo ad espressione del secondo, Ferraris propone, in chiusura del Manifesto, un nuovo illuminismo, al cui fondamento vi è la spinta emancipativa del realismo ed, accanto ad essa, l’appello kantiano all’“osare sapere” per fuoriuscire dallo stadio di minorità in cui versa il legno storto dell’umanità. Il richiamo al sapere e alla realtà diventano così, nelle brevi considerazioni finali di Ferraris, l’ultima chance contro l’illusione e il sortilegio che il postmodernismo con il suo addio alla verità ha contribuito ad alimentare; un postmodernismo che, nel vortice ermeneutico, nell’interpretazione del Manifesto, è dissolto e ridotto, paradossalmente e vorticosamente, alla massima “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”. Dunque, contro la deriva postmoderna, l’appello al reale, che fa attrito, e al mondo che ci provoca costituisce l’istanza profonda del discorso di Ferraris, che riconosce nel realismo e solo in questo il presupposto di ogni sapere, di ogni morale e di ogni critica. (c) Il volume, che costituisce una summa delle ricerche svolte dall’autore nell’ultimo ventennio, rappresenta un decisivo punto di riferimento nel dibattito filosofico contemporaneo. Con pungente intelligenza, Ferraris propone un nuovo realismo in opposizione alla prospettiva postmoderna. Che questo realismo sia nuovo e fecondo è quello che alla filosofia resta da vagliare nel presente, ma di certo ad esso va fin d’ora assegnato il merito, non da poco, di portare all’attenzione degli studiosi un’istanza genuina della riflessione filosofica: il problema della verità, della sua “oggettività”. In que-
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sto senso, ciò che c’è in gioco nella riflessione di Ferraris non è solo ed unicamente lo statuto di ciò che chiamiamo realtà, ma anche e soprattutto lo statuto di ciò che chiamiamo filosofia, di quella pratica filosofica che fa questione della verità del mondo e della propria verità. (Roberto Redaelli) 206. Leo Spitzer, Piccolo Puxi. Saggio sulla lingua di una madre, ed. it. c/ di A.M. Babbi e M. Salgaro, il Saggiatore, Milano 2015, p. 96. (a) Leo Spitzer nacque a Vienna nel febbraio 1887. Allievo di Wilhelm Meyer-Lübke, insegnò linguistica nelle Università di Marburgo (1925-1930) e di Colonia (1930-1933). A seguito delle leggi razionali fu allontanato dall’insegnamento. Proseguì quindi le proprie ricerche presso l’Ateneo di Istanbul e, dal 1937, presso la Johns Hopkins di Baltimora. Si è spento a Forte dei Marmi nel settembre 1960. Linguista, critico letterario, etimologo e filologo, è considerato il maggiore studioso di stilistica del Novecento. Tra le sue opere: Die Wortbildung als stilistisches Mittel exemplifiziert an Rabelais, Max Niemeyer, Halle 1910; Italienische Kriegsgefangenenbriefe, Hanstein, Bonn 1921 [trad. it. Lettere di prigionieri di guerra italiani. 19151918, Bollati Boringhieri, Torino 1976]; Italienische Umgangssprache, Kurt Schroeder, Bonn-Leipzig 1922 [trad. it. La lingua italiana del dialogo, il Saggiatore, Milano 2007]; Stilstudien, 2 voll., Hueber, München 1928 [trad. it. parz. Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, Einaudi, Torino 1959]; Romanische Stil- und literaturstudien, Elwertsche Verlagsbuchhandlung, Marburg 1931 [trad. it. parz. Cinque saggi di ispanistica, Giappichelli, Torino 1962]; Linguistics and Literary History, Princeton University Press, Princeton 1948 [trad. it. Critica stilistica e semantica storica, Laterza, Bari 1966]; nonché Classical and Christian ideas of world harmony, Johns Hopkins Press, Baltimora 1963 [trad. it. L'armonia del mondo. Storia semantica di un'idea, 1967]. (b) La prima riflessione sulla lingua madre o, secondo quanto si legge in un testo mediolatino del 1119, sulla “materna lingua” si deve al De vulgari eloquentia, all’inizio del quale si nomina quella “prima locutio” che definisce quel parlare che i fanciulli apprendono quando “cominciano a distinguere le voci“ e che li introduce ad un’esperienza della parola del tutto primordiale ed immediata, e proprio per questo destinata ad essere caduca. Dante conferisce a questa “lingua prima” il timbro di una implicita “ineffabilitade”, a motivo di un processo ad essa intrinseco di morte e di rinascita che nessuna “lingua grammatica” sarebbe in grado di comprendere e risolvere. Le parole della Mutter-Sprache “nel nascere già cadute” sembrano risiedere soltanto nella mente o, forse, suggerisce Leo Spitzer, in quel lato 46
affettivo del linguaggio che connota la lingua madre in forma più larvata e discreta, ossia là dove essa propriamente si determina come “lingua delle emozioni”, paragonabile soltanto alla parola della esaltazione religiosa o sensuale. In questa prospettiva, la registrazione attenta e meticolosa nell’arco di quattro anni, dal 1922 al 1926, dei nomignoli con i quali la moglie Emma appella il figlio Wolfgang e la loro sorvegliata e puntigliosa analisi, pubblicata in volume nel 1927, consente a Spitzer l’esemplificazione di un fenomeno che deve riconoscersi nella propria assoluta vitalità, poiché soltanto una scienza effettivamente vissuta parrebbe essere in grado di restituire quella dimensione in cui la lingua si lascia cogliere nel rutilante variare del proprio sorgere. Nello slittamento semantico che quasi senza posa trasforma il “nome ufficiale” in un coacervo onomastico composto da contaminazioni ed escrescenze date da derivazioni, assonanze, allitterazioni, onomatopee, contrepèterie, in un trionfo di splendente erudizione sempre conserta a una genuina pienezza del sentimento, si compie la scoperta dell’incantevole e fugace suono della “madre-lingua”, “pensato amorevolmente ed espresso ingenuamente”. Come ebbe tempestivamente ad osservare Bruno Migliorini, salutando la pubblicazione di Puxi, quello che potrebbe apparire un esercizio privato, un esperimento singolare, assume, grazie alla vigile levità della scrittura del linguista viennese, il rango di rigorosa trattazione storico-critica, capace di far assurgere “i teneri nomi che sa foggiare l’amore di una mamma” ad emblemi di quell’allontanamento dall’uso linguistico normale che si scorge ogniqualvolta – appunterà in seguito lo stesso Spitzer – i sentimenti agiscono sulla lingua, disvelando un ambito nel quale non si è ancora asserviti ad una particolare istituzione. Ma più che alla lezione di Hans Walter Gruhle, secondo la quale le manifestazioni verbali multiple costituirebbero l’esplosione quasi incontrollata di un processo affettivo intenso, o a quella di Charles Bally, sostenitrice dell’analisi del sentimento della lingua quale presupposto indispensabile per coglierne gli aspetti sostanziali, Spitzer pare ricordare i coevi Frühe Namen und Verse für Stefan compilati da Walter Benjamin, ma soprattutto alcune pagine della Recherche, ove al nome è conferito il compito di tradurre tutti gli avvenimenti sensuali dell’esperienza, “riempiendoli di un significato che diventa corpo della loro stessa natura”. (c) Esplicitamente la “stilistica filosofica” di Spitzer appare in quest’opera ispirata dal desiderio di descrivere la lingua di una madre, in quanto rappresentazione del rispecchiamento dell’anima nella lingua. Come tale essa non ha i tratti di quella “caccia” della quale Dante, nel XXXI canto dell’Inferno, rimprovera Nemrod ed il suo tracotante desiderio di recuperare alla lingua un supposto splendore originario, bensì quelli, assai più tenui, di un sentire talmente intimo da non potere quasi essere ricordato, come è 47
quello che scaturisce da una lingua in cui le emozioni si confondono immediatamente con la voce senza la mediazione del significato. Forse, sembra suggerire Spitzer, aveva ragione Rousseau nel sostenere che la lingua è cominciata con la passione o, meglio, che è una sorta di articolazione di suoni passionali ciò che ha creato la possibilità del linguaggio. Un’articolazione che riecheggia in alcuni momenti della vita nei quali i vezzeggiativi con cui da bambini si venne chiamati tornano alla mente ed insieme con essi la voce di nostra madre, trasfigurata in una lingua spettrale che non possiamo parlare né udire, ma che a suo modo ancora freme e accenna e sussurra. (Luigi Azzariti Fumaroli) 207. Platone, Filebo, Bompiani, Milano 2011, p. 280. (a) Platone (Atene 427- 347 a.C.) filosofo greco autore di trentasei Dialoghi nei quali affronta i maggiori temi filosofici. La forma dialogata riproduce la vivacità della discussione e dello scontro intellettuale. Socrate, suo maestro, è personaggio costante nei dialoghi, attorno a cui ruotano discepoli e avversari, sofisti o semplici interlocutori. Dopo un primo viaggio in Sicilia alla corte di Dioniso I, tiranno di Siracusa, tornato in patria, fondò la celebre Accademia, scuola che attrasse discepoli da tutto il mondo greco, tra cui Aristotele, e nella quale trascorse tutta la vita (ad eccezione di altri due viaggi in Sicilia) fra l’insegnamento e l’attività speculativa e letteraria. (b) Il Filebo è un’opera che, scritta diversi secoli fa, continua a richiamare argomenti e riflessioni tuttora valide, soprattutto quando ci si interroga su questioni preminenti dell’esistenza umana. Il tema di fondo è il bene, cioè se esso coincida con una vita fatta di piaceri, godimento e diletto oppure se, al contrario, collimi con una vita fondata su pensiero, intelligenza e ragione. La forma di scrittura è il dialogo rappresentato da un avvicendarsi serrato di domande e risposte che i protagonisti – Socrate, Protarco e Filebo – alternano tra loro. Si muovono idee che cercano di raggiungere la verità sulle questioni riguardanti il bene e in tal modo si confutano le tesi più deboli. Platone con l’arte della maieutica, dopo circa duemilacinquecento anni, interroga il lettore sollecitando il suo genuino punto di vista sulle cose e riproponendo così, attraverso il dialogo socratico, una ricerca incessante sull’uomo. Nella prima sezione La struttura del reale e la dialettica, emerge la poliedricità del piacere che può essere vissuto dagli individui in forme diverse, dissimili tra loro, buone o cattive. Ci si chiede, dunque, dal momento che i piaceri sono diversi tra loro, che cosa abbiano in comune gli opposti e come possano armonizzarsi con il bene. L'intrecciata questione sulla molteplicità del piacere mette in evidenza un primo livello di difficoltà sia per quanto 48
riguarda la categoria uno-molti, ad esempio: “io Protarco che sono uno per natura, ma sono, d’altra parte, molti io, anche contrari tra loro”; sia per quanto concerne la necessità di trovare un’unità comune al piacere e accertata con assoluta stabilità. L’altra questione sollevata successivamente da Platone è se la contesa tra piacere e pensiero per la vita buona, non sia invece da risolversi nella scelta di una terza realtà fondata sulla loro mescolanza. Infatti risulta chiaro che nessuno sceglierebbe una vita di “puro piacere” senza avere la minima coscienza o il ricordo di aver goduto, così come nessuno opterebbe per una vita di “puro pensiero” priva del giusto godimento o diletto, poiché l’uomo non è un sasso. Allora se le due realtà poste a confronto da sole non sono autosufficienti al raggiungimento del bene umano, il primato viene assegnato alla vita mista, intrisa di entrambi i fattori. Attraverso l’uso della dialettica, Platone cerca di raggiungere la verità su cosa rende veramente buona la vita mista, formata dall’intreccio di piacere e pensiero, e quale dei due abbia il primato per il raggiungimento del bene. A conclusione della prima sezione dell’opera, Platone, per dare fondatezza ontologica alle realtà multiformi di piacere e pensiero, tematizza quattro generi universali: l’illimitato, il limite, il misto che risulta dalla loro mescolanza e la causa. Il piacere e il dolore, con i loro gradi di intensità sempre maggiori o minori come, ad esempio, il caldo e il freddo o il duro e il morbido, sono realtà comprese nel genere dell’illimitato. La vita mista può essere collocata nel genere misto; infine l’intelligenza può essere considerata nel genere della causa o del principio di tutte le cose, poiché essa costituendosi come un limite (un freno) a un piacere infinito o illimitato, può diventare misura e proporzione della realtà. Nella seconda sezione, Il piacere e le scienze, viene offerta al lettore una disamina generale sul piacere che non intende assolutamente ridursi al nozionismo, semmai a sottolineare o ad esasperare la contrapposizione tra quelle forme di godimento smodato e intemperante, tipiche della maggioranza degli uomini, e “i piaceri puri” legati alla conoscenza (del Bene) ed esercitati, soprattutto, da poche persone. La prima distinzione verte tra piaceri e dolori fisici, ad esempio, la fame o la sete, e quelli dell’anima, come la speranza che nella maggior parte dei casi anticipa eventi gradevoli, oppure all’opposto, il timore che segnala l’eventualità di eventi funesti o incresciosi. Platone, oltre a mettere in evidenza che “l’anima è la sede di ogni impulso, di ogni desiderio” e che possiede uno status di superiorità rispetto al corpo, indica una nuova possibilità diversa sia da chi gode sia da chi soffre, cioè: uno stato senza godere e senza piacere. È la condizione tipica delle persone che seguono una vita fondata sul pensiero e sulla temperanza. Successivamente l’analisi si circoscrive intorno ai cosiddetti piaceri veri o falsi, quest’ultimi considerati fuorvianti per il raggiungimento del bene. Protarco, infatti, sostiene che i piaceri sono quello che sono e non ammettono quindi 49
alcuna determinazione qualitativa. Socrate, invece, ribadisce che come un’idea può essere per noi vera o falsa, anche le speranze, i dolori e le paure, allo stesso modo dei piaceri, possono diventare più o meno ingannevoli, a seconda del caso. Socrate fornisce alcuni esempi. Il primo è che le idee sono portatrici di speranze e di timori e pronosticano con le loro infinite possibilità eventi in cui sarà presente il piacere o il dolore. Esiste, quindi, una correlazione proporzionale tra un’idea falsa e la speranza da essa generata, nel senso che non si evincerà altro che un falso piacere, nella maggior parte dei casi. Il bene, pertanto, dipende da una corretta disposizione dell’anima. Il secondo esempio fornito da Socrate è che molti uomini sostengono di voler trascorrere la propria vita senza soffrire e che il piacere, dunque, consisterebbe nell’assenza di dolore. L’errore più grande di questa opinione comune è legato a una scorrettezza nell’impostazione generale che confonde l’assenza di dolore con il piacere (falso quindi) e che illude la persona di godere anche là dove c’è solo la scomparsa del dolore. Nell’analisi di Platone poi incontriamo i “piaceri misti” forti per natura e preceduti da un intenso desiderio, nel senso che rappresentano uno stato di godimento straordinariamente grande, spesso successivo a uno stato di dolore. In generale, quello che incontriamo è sempre un piacere misto sia nel senso della compresenza di anima e di corpo, sia nel senso dell’intreccio con il dolore. È il caso di un corpo disidratato che riceve acqua, o uno infreddolito che si riscalda. Mescolanze di questo tipo originano piaceri massimi che per la loro intensità possono diventare smisurati, quindi fuorvianti. La natura illimitata e mista dei piaceri sinora analizzati comporta una distinzione radicale con quelli privi di dolori che possono giustamente essere chiamati “puri”. Questi sono propri dell’anima e dipendono da esperienze particolari come la percezione delle forme matematiche, di suoni e di colori perfetti. Essi sono sottratti al ciclo del bisogno-soddisfazione oppure della corruzione-ripristino che caratterizza gli altri, e accompagnano le esperienze per così dire più elevate della vita. Inoltre, risultano ontologicamente diversi da quelli misti; infatti, se il piacere appartiene al genere dell’illimitato, i piaceri puri sono misurati e come tutte le cose pure sono superiori a ciò che è impuro per quanto grande e impressionante esso sia, così essi sono più veri, più belli e piacevoli degli altri. Nella terza ed ultima sezione, Il Bene come Misura e la gerarchia dei valori, Platone cerca di comporre una corretta mescolanza prendendo gli elementi puri di entrambi – piacere e pensiero . Ciò che determina la qualità di questa mescolanza, nella condotta di vita del piacere insieme al pensiero, è la misura e la proporzione, componenti indispensabili della bellezza, virtù e verità, a loro volta necessari per il compimento di una vita felice. È quindi possibile fornire un elenco dei beni che vede al primo posto ciò che si trova nella misura, seguito dal bello e dal proporzionato, quindi l’intelligenza e il 50
pensiero, mentre chiudono la rassegna gli elementi come le scienze, le opinioni giuste e i piaceri puri. Tale giudizio sottolinea quindi il contrasto del comportamento umano rispetto agli animali che, non dotati di razionalità, sono inclini a piaceri istintuali. (c) La lettura del Filebo di Platone, dunque, rilancia questioni fondamentali per l’uomo e risulta quanto mai significativa nell’attuale società che, dominata da una visione edonistica ed economico-tecnicista, rischia di smarrire il senso di quella misura e di quell’equilibrio che caratterizzano l’armonia cui la persona umana anela. (Emilio Pobbiati)
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R E C E N S I O N I
Micaela Latini e Aldo Meccariello (cura/ di), L’uomo e la (sua) fine. Saggi su Günther Anders, Asterios, Trieste 2013, p. 237, € 29,00. Il ritorno di interesse suscitato in anni recenti dall’antropologia filosofica tedesca di Gehlen, Plessner e Scheler ha coinvolto, almeno in parte, anche un autore irregolare e difficilmente classificabile come Günther Anders (pseudonimo di Günther Stern), il cui pensiero – che non di rado ha assunto in modo esplicito e consapevole le forme e i toni della provocazione e del moralismo socio-culturale – presenta diversi punti di contatto con quello di Arnold Gehlen ed Helmuth Plessner. L’attuale interesse per l’antropologia filosofica è legato non da ultimo al tentativo di rendersi conto del significato e della portata di quei mutamenti nella realtà sociale, culturale, scientifica e tecnologica del presente (dagli sviluppi delle biotecnologie a quelli delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione) che sembrano in grado di mutare nel profondo l’essere umano – fino a configurare l’avvento (magnificato o temuto, secondo i punti di vista) di una condizione “post-umana” – e che per questo spingono a un rinnovato interrogarsi sulla “natura” o “essenza” dell’uomo. Nel caso di Anders, che ha sempre inteso il suo pensiero come una “filosofia d’occasione” (Gelegenheitsphilosophie: termine “goethiano”, che indica un modo del filosofare non sistematico o accademico, ma intrinsecamente legato a sollecitazioni del presente, definito da Anders anche un “ibrido incrocio tra metafisica e giornalismo”) e che alla condizione dell’essere umano in un’età dominata dalla tecnica ha dedicato l’opera Die Antiquiertheit des Menschen (in due volumi, pubblicati rispettivamente nel 1956 e nel 1980 con i titoli: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution e Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der 53
dritten industriellen Revolution; tr. it. L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2007), questi motivi si compendiano nel tema della catastrofe, che nel suo pensiero svolge un ruolo centrale. L’opera di Anders può essere infatti intesa come un tentativo di comprendere l’essere umano a partire dalle catastrofi politiche e sociali (dai totalitarismi alla Shoah alle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki) che hanno attraversato la storia del XX secolo, e in base allo schema apocalittico di una possibile fine dell’uomo, legata in ultima analisi alla sua incapacità di rappresentarsi le conseguenze della tecnica da lui prodotta. In questo contesto, il pensiero di Anders, che si è espresso non solo nelle forme del trattato o del saggio, ma anche in quelle del romanzo (va ricordato almeno Die molussische Katakombe, rientrante nel genere della distopia – se ne veda la tr. it. La catacomba molussica, Lupetti, Milano 2008), del racconto, della poesia e della favola, è stato studiato soprattutto per il suo contributo a un’antropologia “negativa” (basata cioè su un concezione dell’uomo come essere aperto e indeterminato, privo di una natura prestabilita, che in questa condizione trova la radice della propria libertà) e per le sue riflessioni “apocalittiche” sulla tecnica e sulla minaccia atomica. A partire da qui sono stati individuati parallelismi, oltre che con i fondatori dell’antropologia filosofica tedesca del Novecento, in particolare con Gehlen e con la sua critica della tecnica, con autori come Husserl e Heidegger (che furono suoi maestri, e da cui per molti aspetti prese poi le distanze) e Sartre (che fu influenzato dai saggi giovanili di Anders Une interprétation de l’a posteriori, tradotto in francese dallo stesso Anders con Emmanuel Levinas, e Pathologie de la liberté – tr. it. Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, Palomar, Bari 1994), Adorno (a cui è accomunato dal pessimismo apocalittico) e Baudrillard (per le riflessioni sui media, sull’immagine e sulla “scomparsa del reale”, che nel pensatore francese si tengono tuttavia distanti da ogni forma di pessimismo). Diversi sono però gli aspetti del pensiero andersiano che restano ancora da mettere a fuoco e da valutare criticamente. Muovendo da tale constatazione, i contributi raccolti nel volume (presentati originariamente al convegno tenutosi a Frascati il 25 e il 26 ottobre 2012 in occasione del ventesimo anno dalla morte del filosofo) intendono, da una parte, considerare i diversi motivi del pensiero di Anders, evidenziandone l’importanza nella filosofia del Novecento e, dall’altra, aspirano ad affermare l’attualità delle sue analisi in tutti i loro aspetti, dagli studi antropologici e sociologici ai saggi sulla letteratura, dalle riflessioni musicologiche alle indagini nell’ambito delle arti figurative, fino
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alla multiforme attività letteraria. Il volume ha il merito di offrire un’immagine esauriente della vastità degli ambiti tematici con cui si è misurato Anders, evidenziando sia la richezza delle sollecitazioni che il suo pensiero può offrire alla discussione attuale sia alcuni aspetti contraddittori e aporetici della sua concezione dell’uomo, della cultura e della tecnica. Gli interventi sono suddivisi in due parti. Nella prima, intitolata “Antropologia, filosofia e politica”, si possono leggere i contributi di Antonio Stefano Caridi (sui temi della catastrofe e dell’apocalisse), Devis Colombo (sul rapporto con la fenomenologia), Sante Maletta e Aldo Meccariello (entrambi sul rapporto con Hannah Arendt), Francesco Miano (sull’atteggiamento di Anders nei confronti della “minaccia atomica”), Pier Paolo Portinaro (sull’antropologia), Vallori Rasini (sul tema della fine). La seconda parte, dedicata a “Arti, letterature e società”, ospita gli interventi di Andrea Bonavoglia (sulle interpretazioni di Grosz e Rodin), Mario Costa (sulla “non-estetica dei media”), Vincenzo Cuomo (sul tema della perdita del mondo in rapporto a Adorno e a Beckett), Leonardo V. Distaso (sull’interpretazione di Kafka), Micaela Latini (sui saggi letterari), Stefano Velotti (sul carattere “antiquato” dell’uomo), Silvia Vizzardelli (sulla fenomenologia dell’ascolto). La varietà di connessioni storiche e teoriche della produzione di Anders con quella di filosofi e letterati del Novecento viene messa in luce nel contributo di Pier Paolo Portinaro, che fa anche il punto sulla situazione interpretativa del pensiero di Anders, indicando alcuni aspetti meritevoli di essere studiati e approfonditi: il rapporto con il cugino Walter Benjamin e quello con la concezione della “vita activa” di Hannah Arendt, col pensiero di esponenti della Scuola di Francoforte come Marcuse e Adorno e col marxismo messianico di Ernst Bloch, con l’antropologia filosofica di Plessner, la critica della civiltà di Freud e la sociologia di Simmel. Sul versante letterario, l’opera di Anders andrebbe collocata nel percorso dall’“utopia alla distopia” che coinvolge autori come Herbert G. Wells, Karel Čapek, Evgenij Zamjatin, Aldous Huxley, Stanislaw Lem e il Franz Werfel di Stern des Ungeborenen. Sottolineando che, anche quantitativamente, l’opera di Anders appartiene alla letteratura non meno che alla filosofia (come mostra il predominio della componente letteraria dalla fine degli anni Venti agli anni dell’emigrazione americana), Portinaro si concentra su due aspetti: il rapporto di Anders con la letteratura tedesca (Brecht, Canetti, Kafka, Kraus) e il condizionamento esercitato sulla sua opera dal trauma della Shoah. Lo sviluppo dall’“uomo senza mondo” al “mondo senza uomo”, che secondo Anders caratterizza la propria produzione (e che, come evidenzia l’intervento di Micaela Latini, trova un’espressione paradigmatica in Samuel Beckett) è preparato dalla letteratura dell’età weimariana, sia che essa, come nei romanzi di Kafka, Döblin e Canetti (che trovano un corrispettivo nell’arte di 55
Grosz e Rodin), rappresenti la disumanizzazione e la solitudine dell’uomo nell’età del nichilismo sia che, come in Kraus e Brecht, si presenti come strumento del pensiero critico. Ma, ancora più indietro nel tempo (e al di là delle convergenze tra Anders e la letteratura della crisi), Portinaro individua una matrice schilleriana dell’opera di Anders. Tale matrice emerge in particolare là dove Schiller parla dell’uomo come “infinità vuota” e “potenza vuota”, mettendo in luce una discrepanza dell’uomo con se stesso, legata alla debolezza della volontà a fronte del crescente potenziamento della ragione nell’età della Aufklärung. Da tale situazione Schiller, deriva l’idea della necessità di una rivoluzione estetica che deve toccare la sensibilità dell’uomo, in modo analogo a Anders, che, individuando nella “vergogna prometeica” la reazione dell’essere umano alla propria imperfezione e subalternità al mondo delle macchine, afferma l’esigenza di una pedagogia dei sentimenti e delle emozioni. Il motivo della catastrofe viene trattato da Antonio Stefano Caridi in relazione al concetto di apocalisse. Secondo l’autore, pur collocandosi in un orizzonte laico, Anders riattiva uno schema di pensiero apocalittico attraverso il tema, di evidente origine religiosa, della fine del mondo. Questo tratto apocalittico, benché agli antipodi di quello che caratterizza il pensiero di Bloch, non è pensabile indipendentemente dall’intreccio tra messianismo ebraico e messianismo rivoluzionario che costituiva un aspetto importante degli ambienti frequentati da Anders negli anni dell’emigrazione. Tuttavia, secondo Anders, le catastrofi del Novecento, mostrando che “l’umanità in quanto tale è uccidibile”, svuotano di senso le prospettive apocalittiche, escatologiche, chiliastiche e messianiche. Con riferimento alle analisi delle “apocalissi culturali” svolte dall’antropologo Ernesto de Martino nei testi poi confluiti in La fine del mondo, la prospettiva di Anders può dunque essere definita come quella di una “apocalisse senza regno” o “senza eschaton” (p. 27), perché, il passaggio dall’“homo faber” all’“homo creator”, dal tipo umano in grado di produrre utensili in vista di fini determinati al tipo umano capace di modificare il mondo attraverso la tecnica, ha portato alla perdita del “mondo” e dell’esperienza del mondo per l’umanità. Assumendo consapevolmente un atteggiamento di “esagerazione” che può (e vuole) anche essere irritante e fastidioso, Anders mira a scuotere le coscienze in una condizione segnata dall’evento della bomba atomica e dalle sue conseguenze quanto alla stessa autodefinizione dell’umanità. A questo proposito, Caridi confronta l’impostazione di Anders con quella del filosofo ed epistemologo francese Jean-Pierre Dupuy, che, dopo avere sviluppato una forma di “catastrofismo illuminato”, in cui l’influsso di René Girard e Ivan Illich si congiunge a quello della teoria dell’ordine spontaneo di Friedrich von Hayek, si è incontrato con le posizioni di Anders. In questa prospettiva la catasfrofe è 56
un “fenomeno di ordine modale che spinge a considerare l’impossibile come necessario per meglio lottare contro di esso” (p. 19). Diversi interventi sottolineano che per Anders la minaccia atomica costituisce un evento epocale che, rendendo possibile l’estinzione dell’umanità, ne muta le condizioni di esistenza, rappresentando un punto di non ritorno, un “evento al di sopra della soglia storica” (p. 78). Essa cambia il nostro rapporto col futuro, che, come ricorda Francesco Miano, non deve estendersi più davanti a noi, ma deve esserci presente, ovvero essere presso di noi. La mancanza di consapevolezza di questa situazione è ricondotta da Anders alla “medialità”, termine con cui egli intende la circostanza, più evidente nei regimi totalitari, ma caratteristica a suo avviso del mondo contemporaneo in quanto tale, per cui l’azione umana ha assunto i tratti della collaborazione conformistica, in quanto essa si svolge in complessi industriali rispetto a cui il singolo non ha più una visione d’insieme. Questa condizione priva l’uomo di un autentico rapporto col futuro e dunque anche della consapevolezza di una possibile fine del futuro. In questa situazione, in cui non è più la tecnica ad essere al servizio dell’uomo, ma l’uomo al servizio della tecnica, si sviluppano quei fenomeni definiti da Anders “fine delle ere” e “fine dell’umanità dell’uomo”, messi a fuoco nell’intervento di Vallori Rasini. L’obsolescenza dell’uomo è legata al “dislivello prometeico”, ovvero alla desincronizzazione tra l’uomo e i suoi prodotti tecnologici. Per colmare tale dislivello, che si traduce in una crescente distanza tra corpo organico e corpo artificiale, tra le capacità dell’uomo e le potenzialità dei prodotti meccanici, la direzione intrapresa è quella di potenziare il corpo organico attraverso l’artificiale, forzandone i limiti naturali. Ma questo tentativo dell’uomo di farsi “macchinale” rappresenta secondo Anders una rinuncia alla sua umanità e conduce in ultima analisi alla deresponsabilizzazione. In questa critica della direzione assunta dallo sviluppo tecnologico nel contesto della terza rivoluzione industriale, che secondo Anders altera in modo irreversibile l’ambiente compromettendo la sopravvivenza dell’umanità, Mario Costa individua una contraddizione di fondo relativa alla nozione di natura umana. Se infatti la natura dell’uomo è di non avere una natura, come è possibile affermare che la tecnica produce una “devastazione dell’uomo”? Ricordando a questo riguardo l’invettiva rivoltagli da Helmut Schelsky, di essere “un predicatore che invita alla penitenza”, Costa ritiene che il tramonto dell’uomo della modernità, correttamente diagnosticato da Anders, non significhi il tramonto dell’uomo in quanto tale, ma piuttosto l’emergere di un altro uomo dalle nuove tecnologie (p. 153). Il tema del mutamento del carattere dell’azione che si produce nel contesto della terza rivoluzione industriale suggerisce un confronto tra la prospettiva di Anders e quella di Hannah Arendt, a cui il filosofo fu legato non solo 57
per affinità intellettuali e filosofiche, ma anche da un rapporto coniugale durato otto anni. L’intervento di Sante Maletta considera il rapporto tra Anders e Arendt dal punto di vista della filosofia sociale, interrogandosi sul rapporto tra le forme della soggettività e i modi della vita sociale. Anders e Arendt sono accomunati dal tentativo di sviluppare una “critica dell’esperienza”, ovvero dalla ricerca dei presupposti che, nel contesto della crisi della soggettività e della fine di una fondazione metafisica dell’etica, consentono all’individuo di non rinunciare totalmente alla propria capacità di azione. In questo quadro, emerge un’analogia tra le nozioni di “dislivello prometeico” e di “pensare da sé” (Selbstdenken). Se la prima indica una discrepanza tra produzione e rappresentazione (tra Herstellen e Vorstellen), esprimendo la duplice esigenza di una modificazione dell’apparato sensoriale umano per depotenziare il dislivello e di un funzionamento sinergico delle facoltà dell’animo umano (percezione, intelletto, affetti e immaginazione), la seconda, che Arendt riprende da Lessing, indica che il pensiero è un modo di muoversi dell’individuo nel mondo ed è costitutivamente legato all’immaginazione e alla presa di posizione nei confronti di altri, configurandosi dunque come una “parzialità appassionata” (p. 52). A fronte di quella che entrambi giudicano la condizione di crisi dello spazio pubblico, i due pensatori assumono così un atteggiamento simile, radicato secondo Maletta nel comune “stile heideggeriano” di pensiero (p. 54), individuando, nell’atmosfera determinata dal processo Eichmann, figure umane che, all’opposto del criminale nazista, incarnano la possibilità di essere buoni, ovvero di non partecipare al male. Figure di questo genere sono, per Anders, Claude Eatherly, il pilota che diede il via al lancio della bomba atomica su Hiroshima, e che, in seguito a una profonda crisi morale e psicologica, iniziò a battersi contro gli armamenti atomici; e, per Arendt, Anton Schmidt, il sergente della Wehrmacht che, per avere aiutato i partigiani polacchi negli anni della seconda guerra mondiale, fu giustiziato per tradimento. Tali figure, secondo Maletta, possono valere da “fondamento normativo non formale della filosofia sociale” e mostrano lo “statuto non monologico” del soggetto e dello spazio pubblico (p. 58). Dedicandosi a sua volta a un confronto tra i due pensatori, Aldo Meccariello individua la radice degli elementi comuni a Anders e Arendt nella loro provenienza da un medesimo humus filosofico e ravvisa la presenza delle categorie, tradizionalmente attribuite a Arendt, di natalità e pluralità già in alcuni scritti di Anders. Dalla concezione, che caratterizza entrambi gli autori, dell’uomo come essere indeterminato deriva, da un lato, l’importanza della prassi per la costruzione dell’identità individuale e, dall’altro, il carattere inoggettivabile e contingente dell’uomo. Così, la nascita per Anders è “choc” e per Arendt è “miracolo”. Su questa base, ritenendo che Heidegger determini in modo univoco e astratto l’essere dell’uomo come Dasein, entrambi sottolineano che l’uomo reale è naturalità 58
e corporeità, e può dirsi solo al plurale. Alludendo a una formulazione di Jean-Luc Nancy, Meccariello parla a questo rguardo di un “essere singolare e plurale” e ricorda una nota di diario in cui Anders scrive: “Ciò che io intendo è che l’uomo è uomini; che egli esiste solo al plurale; che gli uomini non rappresentano solo esemplari della forma-uomo prodotti in massa per caso, bensì che il plurale appartiene a questo tipo. Uomini non è il plurale del singolare uomo, ogni uomo è piuttosto una singolarizzazione degli uomini” (p. 72-73). Come mostra Devis Colombo nel contributo dal titolo La “fame” divora la fenomenologia, nei confronti di Husserl e di Heidegger Anders fa valere un “desiderio di concretezza”. Laureatosi con Husserl, ma con una tesi “contro di lui” (sul tema Il ruolo delle categorie di situazione nelle “proposizioni logiche”), Anders rifiuta di diventare suo assistente per andare a Marburgo a seguire i corsi di Heidegger, che però non ne apprezza gli interessi letterari, considerandolo, secondo una testimonianza dello stesso Anders, un “letterato dell’asfalto” (appellativo polemico, questo, che all’epoca veniva utilizzato contro quegli scrittori e artisti che, in luogo di difendere i valori della “Kultur”, ovvero di una comunità rurale e astorica, rappresentavano il processo della “Zivilisation”, che coinvolgeva le città in una rapida trasformazione). Per Anders, merito di Husserl è di avere raggiunto, tramite il metodo dell’epoche, il terreno di indagine della vita o del flusso di coscienza, che si colloca al di là sia della metafisica sia della ricerca empirica. Ma a Husserl egli rimprovera di aver circoscritto la riflessione ad atti intenzionali puramente teoretici e separati dal loro oggetto. Diversamente dall’analisi intenzionale di Husserl, l’analitica esistenziale di Heidegger ha maggiore concretezza, in quanto colloca la struttura dell’intenzionalità sul terreno della prassi. Tuttavia, al concetto heideggeriano di cura manca, secondo Anders, la dimensione dei bisogni. A questo proposito, Anders si riferisce polemicamente al concetto, o meglio all’esperienza della “fame”, da lui intesa come rappresentativa dei “bisogni acuti”, che implicano una caccia, un conquistare, un catturare, dunque una operosità che ha come effetto l’incorporazione di una preda. Nell’esperienza della fame il soggetto non ha dunque un rapporto puramente intenzionale con un oggetto teorico, ma tende invece a incorporare un oggetto con cui ha un rapporto pratico. Queste considerazioni1 si trovano già nel racconto breve del 1936 Der Hungermarsch (La marcia della fame), che nel 1937 ricevette il premio delle edizioni Querido di Amsterdam come miglior documento della letteratura dell’esilio. Affermando il primato e l’autosufficienza della sfera ontologica, Heidegger confermerebbe l’alienazione metafisica dell’uomo dal mondo e ridurrebbe ogni 1 Sviluppate in modo compiuto nel saggio Heidegger esteta dell’inazione (tr. it. in: Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998).
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azione a filosofia. Al di là della correttezza di questa critica della fenomenologia (che, osserviamo en passant, per quanto riguarda Heidegger sembra misconoscere la centralità della nozione di prassi in Essere e tempo), Colombo sottolinea che è proprio attraverso un duraturo confronto con Heidegger che Anders sviluppa la propria “filosofia d’occasione” e la propria “antropologia filosofica nell’era della tecnocrazia” (p. 41-42). In questo, la posizione di Anders non è diversa da quella di altri pensatori formatisi nell’ambito della fenomenologia, come, per fare solo alcuni nomi, Scheler (di cui egli fu assistente nel 1926), Plessner, Levinas e Sartre, che hanno cercato di muoversi in una direzione diversa da quelle di Husserl e di Heidegger, ma basandosi sul loro pensiero e confrontandosi costantemente con esso. Al di là dei giudizi polemici, e dell’acredine nei confronti del maestro, legata forse anche alle vicende della relazione di entrambi con la Arendt, l’opera di Anders, come quella di Arendt, è profondamente influenzata da Heidegger, tanto che il suo tentativo di ottenere l’abilitazione alla libera docenza a Francoforte con Paul Tillich fallì forse anche in seguito alle pressioni di Adorno, che non solo non condivideva le tesi di Anders relative alle “situazioni musicali” (ad onta del fatto che, come ricorda Silvia Vizzardelli, alcuni passaggi della Teoria estetica relativi all’espressione musicale presentino affinità con i concetti andersiani di caduta e di abbandono), ma lo considerava altresì troppo vicino a Heidegger. (Massimo Mezzanzanica) Livio Rossetti, La filosofia non nasce con Talete e nemmeno con Socrate, Diogene Multimedia, Bologna 2015, p. 265. Livio Rossetti, che ha dedicato buona parte del suo impegno di ricerca alla letteratura socratica e all’analisi di quello straordinario fenomeno culturale che fu il dialogo socratico, in anni più recenti non ha mancato di rivolgere la sua attenzione a coloro che vengono etichettati con la generica denominazione di Presocratici. Come è noto, Rossetti si è occupato assiduamente di Parmenide1 e della cosiddetta scuola eleatica non solo come studioso, ma anche come responsabile scientifico dei convegni di Eleatica, giunti quest’anno alla nona edizione...Tuttavia non si è limitato a Parmenide, ma ha esteso il suo sguardo anche a Eraclito e soprattutto ai Milesi, in particolare
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Cf. L. Rossetti, Perché Parmenide non rinunciò alla seconda sezione del poema, mentre i suoi allievi diretti lo fecero?, in: N.-L. Cordero et al., Eleatica 2006, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 133-142; L. Rossetti, Parmenide filosofo?, in: L. Palumbo (ed.), Logon didonai. La filosofia come esercizio del render ragione. Studi in onore di Giovanni Casertano, Loffredo, Napoli 2011, p. 127-137.
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a Talete2 e ad Anassimandro3. Ma l’indagine su questi personaggi lo ha portato a un ripensamento complessivo del loro pensiero o, per meglio dire, dei nuclei di sapere che emergono da frammenti e testimonianze, un ripensamento che infine lo ha condotto a porsi una domanda decisiva: quando e con chi è nata la filosofia? A questa domanda Rossetti aveva già cercato di dare una prima risposta con alcuni brevi contributi4, ma è soltanto con questo volume, dal titolo volutamente ed efficacemente provocatorio, che la questione viene affrontata nella sua globalità e nella sua complessità. Inizialmente, dopo una brevissima introduzione, Rossetti nei primi due paragrafi del primo capitolo, intitolato La filosofia l’ha forse inventata Talete?, elenca quelle che, secondo testimonianze molto specifiche e quindi attendibili, sono state le scoperte, rispettivamente, di Talete e di Anassimandro. Nel caso di Talete si tratta di un numero impressionante di diverse, non facili misurazioni: questo aspetto della sua attività intellettuale (sul quale Rossetti ritornerà nell’ultimo capitolo) appare, afferma risolutamente lo studioso, molto più rilevante delle testimonianze che ci parlano di un Talete che individua nell’acqua l’elemento (stoicheion) comune a tutte le cose ovvero il principio (arche) di tutte le cose. Queste ultime testimonianze, vale a dire Aristotele e Teofrasto da un lato, Simplicio dall’altro, sono considerate poco affidabili da Rossetti, che giustamente nota: “Su che base [sott.: Talete] avrà affermato che l’acqua è (o si può presumere che sia) originaria e quantitativamente infinita? Aristotele ne parla a distanza di due secoli e mezzo, Simplicio di undici e ognuno con i propri mezzi espressivi. In un caso del genere l’informazione fornita soffre di rilevante instabilità semantica; infatti non è decodificabile in modo univoco per carenza di specifiche, per cui non la si può mettere sullo stesso piano di quelle che hanno il pregio opposto, il dono della nitidezza e stabilità” (p. 16). Informazioni ad alta stabilità semantica sono invece, secondo Rossetti, quelle relative alle misurazioni compiute da Talete oppure la notizia, fornitaci da Diogene Laerzio, I, 24, che Talete aveva colto l’analogia tra la “pietra di Magnesia” e l’ambra strofinata. Sono informazioni di questo tipo che risultano attendibili e meritano quindi 2 Cf. L. Rossetti, Talete sophos (ad Atene, sotto l’arcontato di Damasia), in: “Humanitas”, LII (2010), p. 33-39; L. Rossetti, Gli onori resi a Talete nella città di Atene, in: “Hypnos”, XXVII (2011), p. 205-21. 3 Cf. soprattutto L. Rossetti, Il trattato di Anassimandro sulla terra, in: “Peitho. Examina antiqua”, IV (2013), p. 24-61. 4 Cf. L. Rossetti, I Socratici “primi filosofi” e Socrate “primo filosofo”, in: L. RossettiA. Stavru (eds.), Socratica 2008. Studies in Ancient Socratic Literature, Levante editori, Bari 2010, p. 59-70; L. Rossetti, Quando gli Ionici (e altri) sono stati promossi filosofi, in: “Anais de Filosofia Clasica”, VIII (2010), p. 41-59; L. Rossetti, Chi ha inventato la filosofia? Ma la risposta esatta non è Talete di Mileto..., in: “Diogene”, XXII (2011), p. 91-94; L. Rossetti, Storia e preistoria della filosofia: alcune date cruciali, in: “Archai”, XV (2015), p. 11-20.
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un’attenta considerazione, assai più delle testimonianze approssimative e generiche sull’acqua come arche, destinate a una immeritata fortuna. Anche per Anassimandro Rossetti fornisce un elenco, ricavato da fonti affidabili, delle sue scoperte e di varie ipotesi da lui coerentemente elaborate riguardo a fenomeni naturali di vario genere: ne emerge il ritratto non tanto di un filosofo o di un proto-filosofo, ma di uno scienziato o di un proto-scienziato5. Non si può rigidamente escludere, per altro, che anche in Talete, Anassimandro o nell’altro Milesio, Anassimene, si possano rintracciare elementi e/ o aspetti che potrebbero avere una qualche rilevanza filosofica, ma ciò non fa sì che Talete, Anassimandro, Anassimene possano definirsi filosofi, né rende lecito affermare che con loro sia nata la filosofia. A questo proposito Rossetti introduce una basilare distinzione tra la filosofia quale noi la intendiamo, cioè una specifica branca dell’attività intellettuale umana, dotata un suo statuto epistemologico, e dunque consapevole di sé, e quella che Rossetti chiama la filosofia di fatto, che consiste appunto in un potenziale filosofico di fatto che affiora nelle parole dei poeti non meno che nel pensare, nel parlare e nell’agire di tutti i comuni mortali (bambini inclusi). Se per filosofia noi intendiamo questo potenziale filosofico, questa inconsapevole filosofia di fatto, essa è rintracciabile non solo in Talete, ma già in Omero6. Ma, avverte Rossetti, finché parliamo di questa filosofia spontanea, o filosofia di fatto o filosofia virtuale che dir si voglia, “non ci sono le condizioni per parlare di nascita o invenzione della filosofia. Finché la filosofia è ancora rigorosamente virtuale, cioè non consapevole, siamo tutt’al più nella fase di incubazione. Ma perché si possa dire che la filosofia nasce (o viene inventata) ... bisogna sapere che nel frattempo la filosofia è diventata consapevole di se stessa” (p. 32-3). Pertanto per i cosiddetti Presocratici si può parlare soltanto di una fase di incubazione della filosofia, dato che nessuno di loro fu consapevole di fare filosofia, di essere un filosofo. Non ebbe questa consapevolezza nemmeno Gorgia, che pure nel Peri tou me ontos (che è andato perduto, ma di cui possediamo due riassunti, oltre a varie informazioni di 5
Per Anassimandro come iniziatore del pensiero scientifico, come protagonista della prima, misconosciuta rivoluzione scientifica, si veda il brillante contributo di un fisico teorico quale C. Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori, Milano 2014. Si vedano anche D.L. Couprie, Heaven and Earth in Ancient Greek Cosmology. From Thales to Heraclides Ponticus, Springer, New York 2011; G. Calenda, I cieli alla luce della ragione. Talete, Anassimandro, Anassimene, Aracne, Roma 2015 (anche in questo caso l’autore è uno scienziato). 6 Non è un caso, infatti, che uno studioso attento alla complessità dei fenomeni culturali come M. Vegetti, pur dichiarando che l’etica fino a Platone non è dotata di alcuna autonomia, inizi la sua disamina dell’etica greca a partire dall’Iliade, in cui è possibile individuare con chiarezza le linee di un’etica ben precisa, un’etica ovviamente implicita, non teorizzata e neppure enunciata: così nel suo ormai classico saggio L’etica degli antichi, Laterza, RomaBari 1989.
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seconda mano) diede alla luce un testo che a buon diritto può dirsi filosofico, in virtù sia dell’estrema astrattezza del ragionamento sia del fatto che tale ragionamento “verte su universali eminentemente filosofici” (p. 37). Ma il Peri tou me ontos non può essere considerato l’atto di nascita della filosofia anche per un altro motivo, perché non ebbe l’impatto che meritava e rimase probabilmente una sorta di corpo estraneo, troppo complicato, in grado di sorprendere ma non di essere analizzato, di suscitare un dibattito. Qualcosa di analogo avviene, secondo Rossetti, anche con il Peri physeos e peri tou ontos di Melisso, un libro che Rossetti definisce un “materiale troppo sofisticato per essere spendibile, troppo refrattario all’analisi” (p. 44). Perchè nasca la filosofia è invece necessario che venga a crearsi un canale comunicazionale credibile, che la renda significativa per una cerchia piuttosto vasta di persone, il che accadrà soltanto con Platone, attraverso quel formidabile canale costituito dai dialoghi nonché attraverso la creazione dell’Accademia. Ma che dire di Parmenide? Come rifiutarsi di vedere in lui un filosofo? La risposta di Rossetti si colloca all’interno del secondo capitolo, in un breve, ma denso paragrafo, dotato di un titolo, anche in questo caso, volutamente e palesemente provocatorio: Il caso di Parmenide, un filosofo da “defilosofizzare” piuttosto energicamente. Ma in che senso bisogna “defilosofizzare” Parmenide? E perché? Rossetti prende le mosse dalla constatazione che, a quanto emerge sia dalle testimonianze sia dai frammenti superstiti, Parmenide profuse buona parte del suo impegno a illustrare e a spiegare una serie di fenomeni naturali di vario genere, con esiti spesso stupefacenti. In particolare Rossetti cita il fatto, a ragione definito “strepitoso” (p. 57, n. 5), che Parmenide, muovendo dalla convinzione della sfericità della terra (è il primo a sostenerla), giunge per via puramente congetturale, cioè basandosi esclusivamente sul ragionamento, a individuare le cinque principali fasce climatiche della terra, incluse la fascia temperata e quella fredda che devono trovarsi nell’emisfero meridionale. Ma si tratta solo del caso più sorprendente, di un esempio particolarmente significativo: Rossetti infatti rileva che, oltre a una quindicina di fenomeni naturali a cui fanno riferimento i frammenti, ve ne sono altri, quasi una decina, che testimonianze attendibili affermano essere stati trattati da Parmenide. A questo punto, sostiene Rossetti, non si può più negare o relegare a un ruolo secondario la tenace attenzione di Parmenide per questo genere di argomenti, anche se questo aspetto del pensiero di Parmenide è stato di solito sminuito e sottovalutato, a vantaggio pressoché esclusivo della sezione del poema che verte sull’essere7. 7 Da questa sottovalutazione sono per altro esenti diversi recenti contributi: basti citare, per limitarci a un unico, validissimo esempio, il volume Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione, testo, traduzione e note di G. Cerri, BUR, Milano 1999, che rappresenta un prezioso punto di riferimento per un corretto approccio a Parmenide.
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Ed è quindi in base a due fondamentali considerazioni che Rossetti afferma che Parmenide dovrebbe essere “de-filosofizzato”: innanzi tutto perché (non diversamente da altri, inclusi Gorgia e Melisso) se pure fu filosofo, lo fu senza sapere di esserlo e senza volerlo essere; in secondo luogo perché la parte filosofica del poema occupa uno spazio limitato, probabilmente meno del 25% del testo. Rossetti tuttavia si premura di precisare (e questo, a mio avviso, è un punto di fondamentale importanza) che non si tratta di “sminuire la rilevanza della sezione ‘ontologica’, ma solo di ristabilire le proporzioni” (p. 59). Ma anche ristabilire le proporzioni implica in ogni caso un ripensamento globale del pensiero di Parmenide, una nuova e più avvertita lettura del poema. La filosofia dunque non nasce né con Talete, né con Parmenide, ma soltanto, come Rossetti ha già anticipato, con Platone. Soltanto con Platone, infatti, la filosofia esce dalla sua lunga preistoria, soltanto con Platone si verifica questa svolta epocale, in quanto è Platone “che ha voluto e saputo trasformare la filosofia in un tipo di eccellenza riconosciuto, nell’oggetto di molti libri, in una disciplina che poteva stare alla pari con (anzi, in posizione strategica rispetto a) altre discipline che, all’epoca, si erano già costituite e/o si venivano definendo, nel tipo di formazione superiore che si poteva ricevere nella sua scuola” (p. 60). Rossetti poi, a ulteriore sostegno della sua tesi, rileva che termini come philosophia, philosophein, philosophos conoscono una impennata proprio a partire da Platone: in Platone infatti si rilevano poco meno 300 occorrenze, a cui si possono e si devono aggiungere le 16 che si rinvengono in Senofonte, le 87 in Isocrate e le 150 circa attestate in Aristotele, mentre per il periodo precedente le occorrenze sono appena una decina. Quindi Rossetti, dopo aver sottolineato che è stato Aristotele a retrodatare di ben due secoli l’inizio della filosofia, inaugurando quindi la tradizione che attribuisce a Talete il ruolo di protos euretes, dedica il terzo capitolo del volume (intitolato Storia e preistoria della parola “filosofia”) ad analizzare le occorrenze e l’uso dei termini philosophia, philosophein, philosophos in tre diversi periodi: prima del 425, ai tempi della maturità di Socrate e in riferimento a Socrate, subito dopo la morte di Socrate. A proposito di Socrate, Rossetti afferma che la filosofia non nasce neppure con Socrate e, a sostegno di questa tesi (che svilupperà nel successivo cap. IV), rileva che in tutti i passi in cui Aristotele parla di Socrate non compare alcun riferimento alla filosofia. Considerato che Aristotele attribuisce ad altri, a partire appunto da Talete, la qualifica di filosofo, mentre evita costantemente di associare Socrate alla filosofia (in particolare all’idea “moderna” di filosofia), non si può negare, asserisce lo studioso, che questo fatto rappresenti una evidenza vistosa, che non può essere trascurata: agli occhi di Aristotele,
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conclude Rossetti, “la distanza tra Socrate e Platone era, puramente e semplicemente, la distanza tra un non-filosofo e un filosofo” (p. 131). Dall’analisi dei termini philosophia, philosophein, philosophos nei tre periodi citati emerge infatti la netta differenza tra un’accezione “antica” di tali termini, che si riscontra in fonti pre-platoniche, non-platoniche8, nonché in alcuni passi dello stesso Platone, e un’accezione “moderna”, cioè quella che verrà accreditata da Platone9. Per quanto concerne, in particolare, la philosophia, Rossetti evidenzia una serie di aspetti in cui la filosofia, intesa nell’accezione “antica”, si differenzia dalla filosofia intesa nell’accezione “moderna”: rientrano tra i più importanti il fatto che la filosofia, secondo l’accezione antica, non è una istituzione culturale, non si configura come un sapere che si può insegnare e che si può far proprio, non è una specifica disciplina, non è identificabile con il particolare insegnamento di un determinato intellettuale, non evoca una serie di libri. Nel successivo cap. IV lo studioso, riprendendo il discorso su Socrate, si premura di precisare che Socrate non ha avuto alcun ruolo nell’ideare la nuova accezione di filosofia, perché quando essa ha cominciato a prendere forma era già morto da una quindicina di anni. Rossetti aggiunge poi di ritenere destinato al fallimento il tentativo di ricostruire una qualche filosofia di Socrate “intesa come un insegnamento consapevole, professato e argomentato” (p. 159): se pure un simile insegnamento ci fu, sostiene lo studioso, non fu un insegnamento propriamente filosofico e, nei casi in cui Socrate appare come portatore della nuova accezione della filosofia, quella “moderna”, egli diviene semplicemente un “testimonial” delle idee di Platone.
8 Rossetti opportunamente ricorda (p. 82) che una idea pre-platonica e non-platonica di filosofia era già stata concordemente identificata sia da A.W. Nightingale, Genres in Dialogue. Plato and the Construct of Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1995, sia da A. Laks, Introduction à la “philosophie présocratique”, PUF, Paris 2006. Per quanto riguarda poi Socrate e il modo in cui la sua attività di intellettuale veniva vista dai contemporanei Rossetti rinvia al volume di S. Peterson, Socrates and Philosophy in the Dialogues of Plato, Cambridge University Press, Cambridge 2011, nonché all’articolo di L. Edmunds, What was Socrates Called, in: “Classical Quarterly”, LVI/ 2 (2006), p. 414-25. 9 Per quanto concerne specificamente philosophos, Rossetti (p. 86) nota, a ragione, che l’occorrenza di questo termine in funzione di aggettivo (philosophous andras) in Eraclito, B 35 D. K., è molto dubbia, perché, come rilevato già da Marcovich e da Fronterotta, questa espressione sembra non appartenere al testo eracliteo, bensì costituire una espansione della frase di Eraclito (chrē ... mala pollon istoras ... einai) operata da Clemente Alessandrino per adattarla al proprio discorso. Pertanto si può affermare che, quasi certamente, philosophos, compare per la prima volta in Platone e in Senofonte. In Senofonte le occorrenze sono soltanto 6 (An., II, 1, 13; Mem., I, 2, 31; Oec., 14, 9; Cyn., 13, 6; 13, 9; Por., 5, 4) e, tranne che in An., II, 1, 13, negli altri casi philosophos è utilizzato nell’accezione “moderna” del termine: se ciò sia dovuto all’influenza di Platone è un problema complesso e di difficile soluzione.
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Nell’ultimo capitolo Rossetti, come si è accennato, ritorna a Talete e fornisce una interessantissima tabella10 dei vari nuclei di sapere a lui attribuiti, indicando le fonti per ciascuno di essi. Confrontando i vari ambiti in cui sono ripartiti questi nuclei di sapere (conoscenze astronomiche, cosmologiche e di scienze naturali; conoscenze matematiche; arché e principi; anima e dio), si nota che il gruppo di notizie più sicuro di cui disponiamo, in quanto dotate di elevata stabilità semantica, concerne le misurazioni effettuate da Talete: da qui il titolo di quest’ultimo capitolo: Talete il misuratore. Nell’Epilogo, infine, Rossetti confessa che, nel rileggere quanto ha scritto, prova come un senso di vertigine, evidentemente nella consapevolezza di quanto gran parte di ciò che è venuto esponendo urti contro tradizioni interpretative consolidate. Lo studioso è infatti del tutto consapevole di aver delineato e proposto “un ripensamento che riguarda anzitutto le categorie da cui muovere nel fare la storia della filosofia presocratica ... anzi nell’impostare le storie della filosofia” (p. 224). Un ripensamento che, per non pochi aspetti, equivale senz’altro a un ribaltamento. In effetti Rossetti, pur augurandosi che questo suo lavoro possa dar vita a un nuovo forum11 aperto alle opinioni dei lettori, alla discussione, al confronto, si mostra fermamente convinto che, per la fase che va da Talete a Platone, molti schemi interpretativi sedimentati nel tempo, troppo spesso ritenuti pacifici e pressoché immodificabili, siano da revocare decisamente in dubbio. E conclude questo suo lavoro, così stimolante e così felicemente provocatorio, chiamando in causa lettori e studiosi e formulando un auspicio che suona come un impegnativo programma di ricerche: “Filosofi o non filosofi, sul conto di questi presocratici c’è una quantità incredibile di cose ancora da scoprire, da guardare con rinnovata attenzione, da tentar di capire, indipendentemente da come siamo stati educati a inquadrare tutti questi personaggi. Sbaglio?” (p. 225). Senza dubbio, insieme a Rossetti, non si può che sperare in ulteriori indagini e ulteriori approfondimenti, tuttavia mi sembra possibile affermare che alcuni punti di fondamentale importanza rimangono fissati. In primo luogo mi pare difficilmente contestabile il fatto che, se la tradizione di attribuire a Talete la nascita della filosofia è rimasta tenacemente immutata, non scalfita dal dubbio, ciò sia dovuto quasi esclusivamente al prestigio di chi 10 Rossetti si premura di chiarire (p. 76) che la tabella in questione è ripresa dalle p. 2529 della tesi di laurea (del 2001) della sua allieva Flavia Marcacci (attualmente disponibile on line al seguente indirizzo: https://www.academia.edu/7249880/ Talete_di_Mileto_tra_filosofia_e_scienza). 11 Nuovo perché un forum ha già accompagnato la stesura di una parte di questo libro, cioè del secondo capitolo, come ricorda lo stesso Rossetti nelle pagine introduttive: vedi Per cominciare, p. 11-12.
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per primo ha sostenuto questo punto di vista, cioè Aristotele. Difficile ricostruire che cosa l’abbia indotto a una simile affermazione, così impegnativa: si può pensare, con Rossetti, che Aristotele abbia evitato di individuare in Platone l’iniziatore della philosophia (nell’accezione “moderna” che il termine aveva ormai assunto) per una sorta di “sotterranea animosità” verso il maestro (p. 77, n. 25), oppure si può ritenere che la consapevolezza della indubbia novità della rottura epistemologica rappresentata dai Milesi lo abbia spinto ad assegnare loro e, in particolare, al più antico tra loro, Talete, l’invenzione della filosofia. E proprio il valore della rottura epistemologica dei nuclei di sapere che emergono dai frammenti e dalle testimonianze sui Milesi mi sembra un altro dei punti fermi che emergono dal libro di Rossetti: una rottura rispetto non solo alle spiegazioni mitico-religiose dei fenomeni naturali, ma anche rispetto al piano dell’evidenza empirica, una rottura che, tuttavia, ne fa più dei protoscienziati12 che dei protofilosofi. Un altro punto fermo, essenziale per ogni futura ricerca, è senz’altro costituito dalla distinzione tra una filosofia di fatto, spontanea e non consapevole di sé, propria di tutti gli esseri umani e rinvenibile in qualsiasi testo (se non in qualsiasi opera umana), e una filosofia consapevole di sé, strutturata come una specifica disciplina, dotata di un suo statuto epistemologico, suscettibile di insegnamento/ apprendimento, che dà quindi vita a scuole e implica una produzione di testi scritti. Alla luce di questa fondamentale distinzione, sembra acquisito un altro dei nodi centrali (se non il nodo centrale) del lavoro di Rossetti, cioè che la filosofia intesa in questa ultima accezione nasce soltanto con Platone. A questo proposito è auspicabile, come lo stesso Rossetti non manca di augurarsi, una indagine rigorosa e sistematica sulle quasi 300 occorrenze di philosophia, philosophein, philosophos, che si rinvengono in Platone13. Non diversamente la nuova immagine dei Milesi, e soprattutto di Talete, il “misuratore”, che emerge con grande rilievo e completezza di documentazione dalle pagine di Rossetti (e in particolare dall’ultimo capitolo), non potrà non sollecitare una riconsiderazione complessiva del loro apporto a quella che sembra configurarsi come una prima rivoluzione scientifica. Ma non si tratta semplicemente di riprendere in esame e di approfondire quelli che ho cercato di evidenziare come i nodi essenziali del discorso elaborato da Rossetti: è necessaria, a mio avviso, anche e soprattutto una preliminare consapevolezza del fatto che ripartire da questi nodi rappresenta una scelta ben precisa. Significa infatti compiere una sorta di rivoluzione copernicana, mettere in moto un ripensamento globale di una tradizione in-
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Cf. supra, n. 5. A tale scopo esiste comunque un importante punto di partenza, costituito dal citato volume di S. Peterson: vedi supra, n. 8. 13
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terpretativa codificata e guardare con occhi diversi e con un diverso approccio a tutta quella lunga fase della cultura greca che dai Milesi giunge fino a gran parte del IV secolo. Un diverso approccio perché implica il sottrarre i cosiddetti Presocratici (ma forse sarebbe meglio dire: i pre-platonici) a quel prematuro incanalamento nella storia di una specifica disciplina, la filosofia, che all’epoca non esisteva ancora, per restituirli a un variegato panorama di poeti di vario genere e di sophoi dotati di interessi talora molto diversificati (si pensi ad es. a Talete e a Solone). A questo proposito devo aggiungere che ritengo un approccio di questo genere di fondamentale rilevanza: sono infatti convinta che sia necessario un approccio di tipo globale alla cultura greca, un approccio globale che non è un semplice sinonimo di approccio interdisciplinare, perché non si limita a connettere e unificare differenti contributi specialistici, ma opera, per così dire, a monte, accostandosi ai testi con uno sguardo già in partenza attento alle molteplici interconnessioni dei fenomeni culturali nelle loro articolate sfaccettature. Un approccio di questo genere risulta imprescindibile per la cultura greca, che non soltanto nella cosiddetta età arcaica, ma anche fino a quasi tutto il IV secolo si presenta fortemente interconnessa nelle sue diverse manifestazioni e in cui i diversi tipi di sapere, le diverse discipline, i diversi generi letterari quasi sempre si presentano allo stato nascente, come un processo in fieri. Infine vorrei esprimere un auspicio personale: mi sembra davvero importante che Rossetti riprenda il suo discorso su Parmenide, sia per approfondire l’analisi della prima parte del poema (il proemio e la sezione sull’essere), sia per precisare ulteriormente quello che rappresenta il nesso tra la prima parte e quella successiva, incentrata sulla descrizione e sulla spiegazione di diversi fenomeni naturali, giustamente valorizzata da Rossetti. Un lavoro del genere sarebbe davvero uno splendido completamento di un libro coraggioso e innovativo come questo. (Fiorenza Bevilacqua) J. Derrida, H.-G. Gadamer, P. Lacoue-Labarthe, Il caso Heidegger. Una filosofia nazista?, c/ di S. Facioni, Mimesis, Milano 2015. È dall’inizio del 2014 che, in seguito alla pubblicazione dei primi volumi dei cosiddetti Quaderni neri di Martin Heidegger1, si è rinnovato un acceso dibattito fra studiosi e non del pensiero del filosofo di Meßkirch. La questione, 1
M. Heidegger, Überlegungen II-VI (“Schwarze Hefte”, 1931-1938), Gesamtausgabe 94, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M. 2014, tr. it. di A. Iadicicco, Quaderni neri 1931-1938 (Riflessioni II-VI), Bompiani, Milano, 2015; Id., Überlegungen VII-XI (“Schwarze Hefte”, 1938-1939), Gesamtausgabe 95, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M. 2014, tr. it. di A. Iadicicco, Quaderni neri 1938-1939 (Riflessioni VII-XI), Bompiani,
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difatti, ha da subito interpellato diversi filosofi, anche non propriamente affiliati al circolo degli “heideggeriani” (ammesso che ne esista uno), raggiungendo il pubblico non specialistico attraverso il clamore suscitato dagli organi di stampa internazionale. Come se lo shock, provocato dalla Shoah e dagli orribili crimini perpetrati dal regime nazista, rivivesse d’improvviso nell’opinione pubblica mondiale attraverso quei passi dei Quaderni neri in cui Heidegger utilizza delle espressioni chiaramente antisemite. Si è quindi tentato di fare nuovamente i conti con la scomoda eredità heideggeriana – che, in fondo, ha interpellato e continua a interpellare l’intera storia del pensiero e della responsabilità europea – non senza difficoltà e chiusure acritiche che spesso hanno reso ardua, se non impossibile, la discussione. In questo dibattito, tanto appassionante quanto controverso anche in Italia2, si inserisce la recente pubblicazione, a cura di Silvano Facioni, de Il caso Heidegger. Una filosofia nazista?, traduzione di una memorabile conferenza, tenuta il 5 febbraio del 1988 a Heidelberg da tre personalità della statura di Jacques Derrida, Hans-Georg Gadamer e Philippe Lacoue-Labarthe e intitolata “Heidegger. Portée philosophique et politique de sa pensée”. Anche questo evento suscitò, all’epoca, una risonanza mediatica inusitata. Come nota la curatrice dell’edizione francese del testo, nonché organizzatrice della conferenza stessa, Mireille Calle-Gruber, si trattava di un “grande momento di discussione (Auseinandersetzung) e di verità” (p. 15) che ebbe luogo, simbolicamente, nella stessa aula universitaria in cui Heidegger, il 30 giugno 1933, in qualità di rettore dell’università di Friburgo, pronunciò un discorso su “L’Università nel III Reich”. Sia nel 1933 che nel 1988, vi fu una così grande affluenza di studenti, giornalisti e curiosi di ogni sorta, che si rese necessaria la ritrasmissione della conferenza in un’altra sala. L’incontro del 1988, nondimeno, si svolse inaspettatamente in francese su proposta di Gadamer, con la motivazione di poter dar vita ad una conversazione autentica sulla “base di una lingua comune” (p. 31): quella degli ospiti. In questo senso, si potrebbe dire che la discussione si svolse tra tre “stranieri”: due francesi in terra tedesca e un tedesco nella lingua francese3. Un altro
Milano, 2016; Id., Überlegungen XII-XV (“Schwarze Hefte”, 1939-1941), Gesamtausgabe 96, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M. 2014. 2 Dall’inizio del 2014 sono comparsi diversi articoli sui quotidiani nazionali. Per una ricostruzione dettagliata della vicenda si veda D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”, Bollati Boringhieri, Torino 2014. 3 D’altronde, non appena prese la parola, Derrida mise subito in campo questo “controsenso”: “c’è una qualche ironia, infatti, – quando si pensa a quanto Heidegger ha detto in un’intervista allo “Spiegel” circa la possibilità o meno di pensare in una lingua latina –, a ritrovarci questa sera per parlare di lui; e immagino il suo spettro o qualcosa del suo spettro mentre predice che stasera non si penserà! Ed è sicuramente quanto può accadere” (p. 36).
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elemento peculiare della conferenza “a tre voci” fu l’accordarsi preventivamente sull’opportunità di non utilizzare testi scritti: una impreparazione di base che, come notava Derrida, se da un lato esponeva rischiosamente i relatori a inciampare nel peso, o nel poco peso, da attribuire alle parole, dall’altro rispondeva all’istanza, rivolta dal pubblico agli stessi “filosofi di professione”, di “spiegarsi nella maniera più urgente, più immediata, in luoghi in cui abitualmente evitavano di recarsi, di parlare, di improvvisare” (p. 37). La prefazione di Reiner Wiehl, all’epoca moderatore della conferenza, ricorda come questo incontro epocale fu motivato, in primo luogo, dall’esigenza di riprendere un dialogo interrotto tra Derrida e Gadamer, svoltosi a Parigi nel 1981 a partire dal tema “Testo e interpretazione”, che “non li aveva realmente trovati concordi” (p. 13). Non a caso, la conferenza si apre con l’intervento di Gadamer, il quale, come prima cosa, mette in gioco non la filosofia di Heidegger o il contesto polemico creatosi intorno alla sua figura, ma “il concetto caratteristico dell’opera di Jacques Derrida, la decostruzione” (p. 31), che viene preso in considerazione rispetto a quella che era stata, durante la sua giovinezza, la Destruktion heideggeriana: “una nuova apertura che si annunciava, in cui si trovavano cose coperte, cose nascoste, le cose falsificate da una lunga storia di latinizzazione e concettualizzazione scolastica” (ibid.). Il carattere provocatorio della proposta di Derrida, secondo Gadamer, è dato dal fatto di collocare lo stesso cammino heideggeriano nel solco della metafisica e di un logocentrismo che pure tentava di superare, avendo Heidegger “insegnato che il logocentrismo era in qualche maniera il destino dell’Occidente” (p. 32). Eppure, la nuova occasione d’incontro tra Gadamer e Derrida, cui si aggiunse Lacoue-Labarthe, fu propiziata anche e soprattutto dalla pubblicazione del libro di Victor Farias, Heidegger e il nazismo4, e dalla coda polemica che ne seguì, particolarmente in Francia dove affioravano “radici più profonde che investivano il rimosso politico francese: l’antisemitismo, il collaborazionismo, la Resistenza, i crimini del regime di Vichy” (p. 16). In quel testo, l’adesione del filosofo di Meßkirch al regime hitleriano, con la conseguente accettazione della carica di rettore, veniva stigmatizzata e presentata come un elemento caratterizzante del suo pensiero. Heidegger doveva essere stato intrinsecamente nazista e anche la sua filosofia lo era, per cui la sua opera doveva essere bandita. Anche dopo la pubblicazione degli Schwarze Hefte, si sono registrate analoghe prese di posizione. La differenza fondamentale tra il 1988 e oggi sarebbe che ormai non si tratta più semplicemente di documenti, più o meno attendibili, che attesterebbero l’antisemitismo di Heidegger, ma di appunti
4 V. Farias, Heidegger et le nazisme, Verdier, Paris 1987, tr. it. di M. Marchetti e P. Amari, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino 1988.
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scritti di proprio pugno dall’autore che, tra l’altro, ne commissionò di persona la pubblicazione a chiusura della Gesamtausgabe. Da questo punto di vista, è innegabile che alcune affermazioni presentate dal testo della conferenza del 1988 non possano che suonare, ora, particolarmente ingenue. Rimangono però fermi, ancora oggi, alcuni punti decisivi della discussione che vertono innanzitutto sull’ineludibile responsabilità da assumere di fronte ad ogni possibile lettura di Heidegger, nonché la necessità – che i tre interlocutori non si esimono di mettere in campo – di interrogarsi essenzialmente ed incessantemente sul reiterato silenzio di Heidegger rispetto ad “Auschwitz”. Se Peter Trawny, curatore dei Quaderni neri, ha potuto parlare di “antisemitismo onto-storico”5 di Heidegger, va però notato, come fa Jean-Luc Nancy nella sua breve “Nota 2014” premessa al testo, che vi è una disparità tra i testi pubblicati da Heidegger, in cui non vi è cenno a tale questione, e questi appunti – e su questa disparità, o distorsione, “è necessario interrogarsi” (p. 9). Pur senza conoscere le annotazioni scoperte recentemente, le voci della conferenza di Heidelberg presentano spunti molto attuali per tentare di dare una forma a scottanti questioni, filosofiche e non, evidentemente mai riducibili all’inutile schierarsi pro o contro Heidegger. Oggi come allora, non sembra possibile, difatti, “chiudere affrettatamente il dibattito riconducendo Heidegger ad un nazismo ordinario, o addirittura a un metanazismo” (p. 19), così come rimane ferma l’ingiunzione alla responsabilità nella lettura: a mantenere una certa vigilanza, per dirla con Derrida, “davanti alla necessità di leggere Heidegger come lui stesso non ha fatto” (p. 52). Se in Heidegger vi è davvero, come sostiene Lacoue-Labarthe, “uno dei segreti del nazismo rimasto inosservato” (p. 48), allora non è possibile, né consigliabile, liquidarne la lettura in quanto “filosofia nazista”. Intanto per evitare di assumere lo stesso atteggiamento totalitario che si pretende di criticare, ma anche perché unicamente rinnovando le domande al testo di Heidegger (e al suo atteggiamento reticente) è possibile esercitare una forma di responsabilità, anche politica, che ci renda in grado di comprendere la storia di ciò che siamo6. Noi europei, in effetti, possiamo essere “in grado di cominciare l’analisi del nazismo proprio per aver letto Heidegger” (p. 47), dice a un certo punto Lacoue-Labarthe, il quale non manca certo di criticare i passaggi a vuoto dell’opera heideggeriana, in particolare quelli in cui il silenzio scioccante di fronte all’Olocausto sembra convertirsi nella critica livellante dello 5 Cfr. P. Trawny, Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung, Klostermann, Frankfurt a. M. 2014, tr. it. di C. Caradonna, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, Bompiani, Milano 2015. 6 Secondo quando dice ancora Derrida a p. 64: “la più acuta […], la più esigente responsabilità implica che continuiamo a fare questo lavoro, per esempio a interrogare la storia della responsabilità, la storia non solo dei concetti speculativi, ma della cultura della responsabilità”.
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sterminio, considerato alla stessa stregua di altri “sviamenti” provocati dal trionfo della tecnica, quali l’agricoltura meccanizzata, l’embargo e le bombe all’idrogeno. A quanto pare, la conferenza durò più di quattro ore, protraendosi fin oltre la mezzanotte, lasciando pochissimo spazio alla prevista discussione finale. In questo senso, il giorno successivo, il 6 febbraio, i relatori accettarono di incontrarsi nuovamente con una parte di pubblico e giornalisti presso il ristorante Sole d’oro di Heidelberg, dove Gadamer era solito recarsi. Per quanto l’andamento della discussione diventò per forza di cose più colloquiale, Derrida continuò a mettere l’accento sulla questione della responsabilità, non solo di Heidegger o degli studiosi, ma anche “di quanti non leggono, non ascoltano, selezionano, filtrano le cose, parlano di un libro piuttosto che di un altro”, giacché “in questo silenzio c’è la loro responsabilità” (p. 70), riproponendo, in altri termini, la semplice domanda diretta a costoro il giorno precedente: “va bene, parliamone, avete letto Sein und Zeit?” – testo che, secondo il pensatore francese, “attende ancora, tra le altre cose, di essere letto” (p. 41). Questo, d’altro canto, investe da vicino la responsabilità filosofica che, secondo Lacoue-Labarthe, ognuno è chiamato a impegnare di fronte al “caso Heidegger”. Una responsabilità in nome della quale, nel 1933, Heidegger decise di assumere un rischio filosofico e politico dal quale non ci sarebbe stato ritorno, come confermano le testimonianze di prima mano di Gadamer riguardo a quel periodo. Certo, questo non significa che si possa giustificare in alcun modo qualsivoglia scelta, reticenza o mancanza della persona Heidegger (o, ancor di più, della filosofia heideggeriana). Eppure, sempre seguendo le parole di Gadamer, non si può non considerare tutto ciò, così come ogni dibattito sulla questione, “proficuo perché rimane insoddisfacente e diviene un’ingiunzione a pensare” (p. 61). Come, d’altronde, ha sempre fatto il pensiero heideggeriano, provocando, in un senso o nell’altro, tutti quelli che hanno provato e proveranno, quantomeno, a leggerlo. (Saverio Alessandro Matrangolo) Vito Mancuso, Il principio passione, Garzanti, Milano 2013, p. 495. Il caso Vito Mancuso (nato nel 1962 a Carate Brianza) è, per così dire, esploso nella cultura italiana di questi anni, con la pubblicazione nel 2007 de L’anima e il suo destino (Cortina editore). È stata l’apparizione, a livello del cosiddetto grande pubblico, di una figura anomala, quella di un teologo operante al di fuori delle università ecclesiastiche, che però tratta, da laico (nel senso ecclesiastico del termine), in un linguaggio laico e in dialogo
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aperto con la cultura laica (nel senso comune del termine), una tematica teologica estranea da un secolo e mezzo – da quando furono chiuse le facoltà di teologia statali nel 1873 – alla cultura italiana. La ripetizione voluta dell’ambiguo termine laico vuole sottolineare l’originalità di questo autore, il cui successo editoriale è testimoniato anche dai numerosi interventi quale commentatore di vicende soprattutto ecclesiali e di tematiche religiose sui maggiori quotidiani italiani. L’opera che si intende qui presentare e discutere è solo l’ultima – per adesso – di una produzione ormai ampia che si colloca, volutamente, nello spazio epistemico della teologia, dove per teologia si deve intendere la teologia biblico-cristiana, con particolare riferimento a quella cattolica, vista la personale estrazione dell’autore. Prima de Il principio passione del 2013, Mancuso aveva pubblicato – e citiamo solo le opere teologiche più rilevanti sul piano teorico –, oltre al già nominato L’anima e il suo destino, Rifondazione della fede (titolo originario: Per amore, 2005) e Io e Dio (2011). L’opera oggetto della presente recensione è quindi da collocare all’interno di un progetto di ricerca più ampio, addirittura di un ripensamento sistematico della fede biblico-cristiana, quale sembra essere l’ambizione del nostro autore. Ci si potrebbe domandare cosa c’entra l’opera di un teologo – ché tale vuole essere – con la filosofia propriamente detta. Come si avrà modo di vedere più avanti, l’intera produzione teologica di Mancuso si costruisce a partire da presupposti filosofici ben determinati, che condizionano la sua lettura del fenomeno religioso e in particolare di quello ebraico-cristiano, di cui egli si fa interprete. Ad esempio, il capitolo finale di Rifondazione della fede presenta le Formule fondamentali (p. 282-3) che, secondo Mancuso, costituiscono l’asse portante, non solo della realtà umana, ma della realtà nella sua interezza: esse riguardano, essenzialmente, non la dimensione teologico-religiosa, ma soprattutto la dimensione etica, espressa dalle formule: Io, Tu, Noi, Non Io, Esso, variamente declinate. Del resto, il nesso filosofiateologia è antico quanto il Cristianesimo stesso, giacché, se si vuole pensare – magari con ambizione scientifico-sistematica – la fede religiosa, è inevitabile confrontarsi con i principi e le teorie filosofiche. Come direbbe Hegel, sin dalle prime righe della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: “La Filosofia ha i suoi oggetti in comune innanzitutto con la Religione. Entrambe hanno infatti per oggetto la ‘Verità’, e precisamente la Verità nel senso più alto, cioè nel senso che ‘Dio’ è la Verità (…). Entrambe (…) si occupano dell’ambito del Finito, della sfera ‘naturale’ e dello ‘spirito umano’, della loro relazione reciproca e della loro relazione a Dio come loro Verità” (tr. V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 91)
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– e cito Hegel, perché l’opera d’esordio di Mancuso è proprio dedicata al filosofo tedesco con il titolo Hegel teologo. E l’imperdonabile assenza del principe di questo mondo (Piemme 1996). Mancuso si propone, infatti, di “rifondare la fede”, come recita il titolo dello scritto del 2005, che può essere assunto come il suo “discorso sul metodo”, perché in esso sono esposte le categorie sorgive della sua ricerca, riguardanti indubbiamente la sfera etica. Invece, le tre opere teoriche successive – di notevole impatto editoriale e con varie traduzioni all’estero – sviluppano in modo sistematico questa “rifondazione”: rispettivamente, Il destino dell’anima il tema dell’“uomo”; Io e Dio il tema di “Dio”; Il principio passione il tema del “mondo”. Ho così suggerito una possibile interpretazione unitaria di queste tre opere, dove sono trattate, rispettivamente: l’antropologia, la teologia e la cosmologia, che si potrebbero riportare ad uno schema classico della filosofia moderna, come quello sancito, per fare un prestigioso esempio storico, nella Critica della ragione pura di Kant. Infatti, mentre sull’argomento del primo dei tre testi citati, Mancuso precisa: “la domanda riguarda la morte e l’al di là della morte, non tanto “che cosa’ ci sarà, piuttosto, molto più radicalmente, ‘se’ qualcosa ci sarà” (p. 4); nel Prologo di Io e Dio, chiarisce: “lo scopo fondativo rende questo libro un’opera di teologia fondamentale nel senso proprio del termine, in quanto intende riflettere sul ‘fondamento’ del discorso umano su Dio” (p. 17). Quale sia invece il tema de Il principio passione, esso è così schematizzato dal suo autore: “mentre ‘Io e Dio’ (…) era un’opera di teologia fondamentale, ‘Il principio passione’ è un’opera di teologia sistematica. Il suo objettivo è riproporre nel contesto contemporaneo il classico trattato che la manualistica teologica denominava ‘De Deo creante’” (p. 9). Ci si aspetterebbe, a questo punto, un pesante e (noioso) trattato teologico sul tema della creazione, leggibile solo dagli addetti ai lavori (ecclesiastici). Invece, un rapido sguardo all’Indice è sufficiente per mostrare l’impostazione e lo stile antiaccademici dell’autore. I primi cinque capitoli costituiscono, infatti, una specie di lunga introduzione al tema, sulla base dei dati offerti dalla mitologia, dalla filosofia e dalla scienza, oltre che da una lettura attenta della condizione umana e storica odierna; i tre capitoli successivi entrano nel vivo della tematica secondo le tipiche procedure della “scienza” teologica (Bibbia e tradizione ecclesiastica); gli ultimi due concludono, in modo sistematico, la trattazione, proponendo le tesi dell’autore sulla concezione dell’origine e della struttura del mondo e sul suo rapporto con Dio, sempre nel quadro ovviamente di una prospettiva teologica. “Sono consapevole che il metodo del mio argomentare, che si basa anche sulla filosofia e sulla scienza oltre che sulle fonti tradizionali della teologia, possa ingenerare notevoli perplessità sia in ambito filosofico sia in ambito scientifico.
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Oggi vige lo statuto della separazione tra i due ambiti, in base a cui ciò che dice la scienza non ha valore per la teologia e ovviamente ciò che dice la teologia ne ha ancora meno per la scienza.”
Mutuiamo queste asserzioni dal primo capitolo de Il destino dell’anima (p. 2): è legittimo però estendere queste parole anche al testo che stiamo esaminando, perché esso riprende la medesima prospettiva metodologica, la cui messa a fuoco, in via preliminare, è perciò indispensabile. Dunque, scienza, filosofia, teologia: ecco la struttura sincronica – ma nel testo ora esaminato anche diacronica – del metodo di lavoro di Mancuso. Perché un teologo affida al sapere scientifico questa sorprendente priorità? La ragione è da rintracciare nel progetto culturale generale – per non dire anche esistenziale – dell’autore, che vuole (ri)costruire una teologia su base laica ovvero in permanente e fecondo dialogo con il sapere non strettamente religioso, con lo scopo di disincagliare la religione (cristiano-cattolica in particolare) dalle secche di una separatezza secolare e sterile. Mancuso assume, come stile costitutivo della sua ricerca, il confronto con le scienze contemporanee (fisica, chimica, biologia, astrofisica, paleantropologia ecc.), da cui desume i dati fondamentali per l’elaborazione della sua concezione del mondo. Il suo modo di procedere può generare, in effetti, sconcerto per certa teologia tradizionale, del tutto estranea ai problemi delle scienze – un atteggiamento del resto comune anche a molta parte della stessa filosofia – ma dimostra attenzione coraggiosa a ciò che costituisce un fattore costitutivo (piaccia o no) della cultura contemporanea. Sembra invece che, alla dimensione filosofica, di primo acchito, venga riservata una posizione secondaria – una specie di bretella di collegamento – rispetto al connubio scienza-teologia. Ma non è così, se lo stesso Mancuso può affermare che “l’oggetto del presente libro (…) intende contribuire a una ricostruzione della cosmologia, e conseguentemente a una rinnovata filosofia della natura” (p. 34). La riflessione propriamente filosofica si snoda lungo due assi principali: quello di tipo etico-esistenziale, dove è evidente l’influsso determinante di Kant (e di Simon Weil: per non parlare degli apporti precipuamente teologici di Bonhoeffer e di Florenskij); quello di tipo cosmologico-naturale, in cui il pensiero evoluzionistico moderno (Darwin, Bergson, Teilhard de Chardin) viene messo in sequenza, addirittura, con l’antica e rinascimentale linea ilozoistica. Certamente, il modo di fare filosofia dell’autore può suscitare qualche perplessità, se stiamo a quanto sostiene sin dal primo capitolo:
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“la risposta sul principio dell’Universo dipende non solo dalla ragione ma anche e soprattutto dal sentimento, dal modo in cui ognuno ‘sente’ la vita, dall’emozione vitale che ognuno si porta dentro, dalla disposizione di fondo rispetto all’esistenza e dalla pratica di vita che ne consegue.” (p. 39)
Si potrebbero, ad esempio, individuare le formule linguistiche da cui traspare questa modalità debole di argomentare: “penso”, “ritengo”, “a me pare”, “l’ipotesi più plausibile” ecc., per non parlare del rinvio costante alla fede: “anche la cosmovisione contemporanea crollerà e ne sorgerà una più ricca e più affidabile, anche se, a sua volta, provvisoria come tutto ciò che riguarda questo mondo che proprio per questo va pensato come realtà secondaria. Tale stato di cose tuttavia non dispensa dal compito di giungere a una cosmovisione il più possibile coerente con i dati forniti dalla ricerca attuale, così da poter rinvenire alla sua luce l’ipotesi più plausibile sul senso del nostro essere e del nostro agire.” (p. 374)
Ma sarebbe far torto all’autore non riconoscere il coraggio – persino l’audacia – con cui egli costringe, per così dire, gli antichi asserti e dogmi teologici a confrontarsi con gli apporti della riflessione filosofica odierna e, soprattutto, con i risultati più recenti delle ricerche scientifiche, a partire dal principio di evoluzione. Evoluzione: ecco la formula di ingresso nel cuore della ricerca esposta nell’opera. È indubbio che questo concetto-principio – di vecchia ascendenza ottocentesca – riceva attualmente un consenso sempre più allargato, non solo (comprensibilmente) in ambito scientifico, ma estenda la sua valenza teorica anche alla sfera filosofica, giungendo a coinvolgere, come quest’opera dimostra, pure la dimensione teologica. È veramente paradossale che, dopo più di un secolo e mezzo di guerra frontale tra la nozione darwiniana di evoluzione e la fede biblica, sia proprio un teologo ad assumerla come il principio portante del suo discorso cosmologico sulla creazione. Ma cosa intende Mancuso per evoluzione? Per poter comprendere appieno la declinazione a cui l’autore sottopone questa nozione, si devono richiamare alcune premesse di quella che si può chiamare la sua ontologia generale, già pienamente esplicitate, ad esempio, nell’opera precedente L’anima e il suo destino. L’autore, risalendo sino alla nozione greca di physis e a quella rinascimentale di natura (Telesio e Bruno), non ha timore a sostenere che tutto ciò che costituisce il cosmo visibile sia materia – la “mater” delle cose. Ma rilegge questo concetto alla luce delle acquisizioni scientifiche della fisica del ’900, secondo cui tutta la materia è convertibile in energia (vedi la formula einsteiniana: e=m.c2): principio dinamico che, partendo dall’iniziale configurazione materialistica, pur restando unico, si 76
evolve, arricchendosi di qualità nuove sino ad acquisire forme di tipo spirituale come avviene appunto, nell’“anima” umana (che così possiede una intrinseca immortalità). Affiorano, come si vede, echi di ascendenza aristotelica ed hegeliana (quelli relativi alla filosofia della natura): ma è il caso di insistere su qualche precisazione ulteriore. Il concetto classico – ovvero darwiniano – di evoluzione è costitutivamente connesso con la legge della selezione naturale, che, di per sé, è cieca e meccanica – in ultima istanza, si direbbe atea. Come si giustifica, allora, la sua presenza, per di più in posizione centrale, in un testo di teologia? Mancuso argomenta l’assunzione di questo concetto, oltre che sulla base delle acquisizioni scientifiche, con l’attestazione della esperienza diretta dell’esistenza umana e del cosmo, la quale ci presenta una realtà contraddittoria: caotica e disordinata da un lato; ordinata e finalizzata dall’altro: “tutta la natura e tutta la storia sono una continua lotta contro il caos; il processo in cui siamo inseriti è, ovunque, logos+chaos” (p. 431). L’assunzione del concetto di evoluzione, perciò, si giustifica con la necessità di rendere ragione di questo duplice dato, anche se è proprio questa ambiguità dell’essere ad esigere che esso sia, per così dire, purgato dagli esiti meccanicistici e nichilistici che gli sono immanenti: “esistono (…) tre possibilità di concepire l’evoluzione: come processo senza meta (evoluzionismo ortodosso); come processo dotato di meta e di itinerario prefissato, per lo meno in alcuni tratti decisivi (creazionismo); come processo con meta ma senza itinerario prefissato (evoluzione come creazione). La terza posizione [è] quella da me sostenuta.” (p. 133)
Dunque, Mancuso accetta quanto viene affermato dall’evoluzionismo classico – l’assenza di un itinerario prefissato dovuta alla casualità della selezione naturale –, ma ritiene che non ci si debba arrestare a questo dato, ma integrarlo con la posizione di una meta. Come provare il darsi di questa meta finale? A questo punto, l’autore non può che fare ricorso a una fede – si intende fede solo “razionale”, in questa fase del discorso – che è così formulabile: “Credo (…) in un Dio che legandosi al mondo rimane al contempo sempre al di là del mondo, e che, con questo suo essere ‘al di là’, opera come una specie di attrattore cosmico verso cui il mondo si orienta e orientandosi produce evoluzione.” (p. 425-6)
L’ipotesi Dio non si configura, però, come del tutto arbitraria, perché Dio è il Logos operante e attivo nella materia, anche se in essa non si esaurisce: quel Logos di cui parla sì l’inizio del vangelo di Giovanni – “in principio era il Logos” (1,1), ma che si trova anche attestato nella esperienza mondana – 77
“la constatazione che nella natura vi sia lo ‘slancio’ di cui scriveva Bergson direi che è esperienza comune” (p. 142) – dove, accanto al disordine e al male, fanno la loro apparizione anche l’ordine e il bene e dove il chaos e il caso convivono con le leggi e le costanti dell’universo: “io vado alla ricerca della possibilità di conciliare la logica del mondo fisico con la sapienza del mondo morale e intravedo tale possibilità nella prospettiva evolutiva, la quale considera il mondo come un processo ininterrotto per nulla lineare, ma complessivamente orientato verso una crescente organizzazione.” (p. 107)
Fino a questo punto il discorso di Mancuso si muove su un terreno di tipo scientifico e filosofico e su di esso si potrebbe avanzare la riserva metodologica di una assunzione e trasposizione, un po’ troppo forzosa, sul piano filosofico delle risultanze scientifiche. Ma dov’è la componente teologica della ricerca, visto che l’opera vuole essere un testo teologico? Essa è ampiamente presente e, per semplificare l’esposizione, può essere suddivisa nei seguenti temi: l’analisi dei dati biblici, il ripensamento del concetto di creazione, la rivisitazione del concetto di Dio e la lettura in termini essenzialmente morali del “fenomeno umano” (per dirla alla Teilhard de Chardin). La rilettura dei dati biblici presente nei capitoli VII e VIII sembra molto rigorosa e accurata sul piano della documentazione filologica ma, al tempo stesso, riesce anche spiazzante su quello della sua (re)interpretazione, perché Mancuso rivede, dalla nuova prospettiva evoluzionistica, molti testi tradizionalmente ritenuti oscuri e perciò non tematizzati, e da essi fa sprigionare significati nascosti, che vengono posti in relazione, con una opportuna demitizzazione, con la cosmologia contemporanea. Ad esempio, il testo di Genesi 1,2, nella lettura ortodossa, viene generalmente ridimensionato e relativizzato all’assertorio v. 1: Mancuso invece ritiene che “le realtà naturali nominate in Gen. 1,2, cioè ‘tohu’ (deserto), ‘bohu’ (vuoto), ‘hoshekh’ (tenebra), ‘tehom’ (abisso), ‘mayim’ (acque)” (p. 235), esprimano, pur riconosciute come immagini mitologiche, la condizione di disordine e di chaos in cui si trovava il cosmo originario, in sintonia con la teoria della evoluzione. E ancora, il testo di 2 Pt. 2,3-6 – “i cieli esistevano già da lungo tempo e (…) la terra, uscita dall'acqua e in mezzo all'acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio; e (…) per queste stesse cause il mondo di allora, sommerso dall’acqua, perì” – non è solo uno dei tanti testi mitologici di cui la Bibbia è ricca, ma si riferisce, sia pure sempre con linguaggio simbolico, alla effettiva situazione cosmica iniziale. Il capitolo VII è prevalentemente dedicato alle figure dei mostri, delle signorie cosmiche e del satana, mentre il capitolo VIII tratta il tema dell’angelologia (in particolare degli angeli ri-
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belli): cosa c’entrano queste figure, sempre mitologiche, con il tema moderno dell’evoluzione? Con argomentazioni esegetiche per lo più condivisibili, l’autore mostra che esse sono da intendere come simboli del chaos in cui si trovava – e si trova – il cosmo naturale e umano, a conferma della validità, anche biblica, del concetto di evoluzione. Così egli demitizza, ad esempio, la figura del “satana”: “non credo che esista un potere cosmico alternativo a Dio, non credo cioè che esista il Diavolo come ‘essere vivo, spirituale’” (p. 275). Ma, al tempo stesso, non respinge nella dimensione favolistica queste narrazioni simboliche, perché esse rappresenterebbero la condizione effettiva di disordine e chaos in cui si trova la realtà finita, a proposito della quale si dice: “solo se si abbandonerà la falsa idea di una creazione inizialmente perfetta e poi all’improvviso inspiegabilmente corrottasi, [si può] accogliere la prospettiva evolutiva di una creazione continua, che si costruisce faticosamente giorno dopo giorno, in un drammatico impasto di logos e di chaos.” (p. 339)
Sarebbe utile, a questo punto, una trattazione della tesi, fortemente sostenuta da Mancuso, del rigetto del dogma del “peccato originale”, ripetutamente e costantemente affrontata nelle varie opere. Basti questa citazione: “ma se la tentazione viene dalla vita, se è la vita stessa con la sua logica implacabile, allora tutti nessuno escluso, ne sono coinvolti. Ecco l’autentico senso esistenziale del dogma del peccato originale, anche se questo dogma andrebbe completamente smontato e rimontato già a partire dal nome, non più ‘peccato originale’, bensì ‘chaos originale’. In origine non c’è nessun peccato da parte degli esseri umani, non è colpa loro se la vita si presenta così, nessuno nasce gravato da una colpa, e il continuare a ribadire questa prospettiva colpevolizzante del dogma del peccato originale può solo contribuire ad accrescere il malessere dell’umanità e il suo conseguente allontanamento dal cristianesimo.” (p. 346)
Ma veniamo al tema cruciale della creazione, il cui nesso dialettico con quello di evoluzione è facilmente intuibile. “Il chaos è la prima opera della creazione divina, il chaos è creato da Dio. Il vero autore del chaos risulta Dio stesso in quanto creatore dello spirito libero, cioè per definizione indeterminato e caotico. Questo però non va inteso nel senso che Dio disse: ‘Sia il chaos, e il chaos fu’, nel senso che Dio volle il caos in quanto tale; va inteso piuttosto nel senso che l’essere creato è da subito un intreccio originario di logos e di chaos” (p. 379): ecco subito una citazione illuminante della posizione di Mancuso sull’argomento. Come si può notare, essa non può che apparire eretica per un credente-teologo tradizionale: ma vediamo come l’autore la argomenta. Senza cedere a un dualismo di tipo gnostico, si insiste sulla componente di chaos che è presente nell’essere del mondo e 79
perciò viene denunciata “l’aporia del principio-logos e della prospettiva teologica tradizionale che lo fa proprio, cioè l’incapacità di riconoscere l’originarietà del chaos. Il chaos è un elemento strutturale del processo naturale ed è un errore ricondurlo totalmente al peccato, perché è piuttosto il peccato a dover essere spiegato in base al chaos” (p. 59). Precisato che le cosmovisioni possono essere tre – la anarchica (la realtà è casualità); la monarchica (la realtà è ordine razionale); la democratica (la realtà è evolutiva tra logos e chaos) – Mancuso prende posizioni per quest’ultima, che viene così ulteriormente precisata: “la creazione non come avvenuta una volta per sempre all’inizio del tempo, (…) ma come creazione continua, come processo dinamico, come un cammino privo di itinerario prefissato e che per questo richiede assidua dedizione, e considerando di conseguenza il chaos non dualisticamente opposto rispetto all’essere (…), ma come una caratteristica intrinseca della natura creata, la quale è strutturalmente logos+chaos e perciò permanentemente in cammino, ‘in progress’.” (p. 242-3)
È da sottolineare, a parte l’audacia del ripensamento radicale non certo frequente in un teologo, la notevole capacità di fare sintesi tra posizioni ritenute tradizionalmente incompatibili fra di loro: creazione sì, ma superamento del modello di un creato uscito già perfetto dalle mani di Dio, perché l’esperienza e la scienza attestano che così non è, visto lo sconcertante stato caotico ed imperfetto del cosmo visibile. Tuttavia, la materia vivente, pur non obbedendo da una parte a un disegno di idee eterne ‘ante rem’ che guida la vicenda cosmica e pur procedendo dall’altra per prove ed errori, possiede una “logica orientata alla relazione e all’aggregazione che (…) genera la tendenza (la spinta, lo slancio, la tensione, l’erōs) verso la costruzione di legami e di relazioni.” (p. 397)
A questo punto, entra inevitabilmente in scena il concetto fondamentale per un teologo ovvero il concetto di Dio. Come ridefinisce Dio Mancuso, vista l’idea di creazione da lui proposta? La teologia ortodossa insiste sulla assoluta trascendenza di Dio rispetto al mondo: ma non è contraddittoria questa formula, visto che si dà trascendenza solo in relazione a qualcosa di altro da essa? Posta l’idea di Dio, per l’uomo questo Dio può essere concepito solo a partire dalla realtà mondano-finita, ovvero da ciò di cui l’uomo fa esperienza. Dunque, la teologia deve assumere il nesso inscindibile Dio-mondo come il perno su cui costruire un’autentica immagine di Dio. Così Mancuso: “[Dio] fa muovere il processo [del mondo] standosene ‘fuori’, come vuole il teismo? Non completamente, perché se stesse completamente fuori, non sarebbe
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la Realtà primaria, cioè base e fondamento di ogni altra realtà, non sarebbe il creatore continuo e il sostenitore continuo di tutte le cose. Allora fa muovere il processo cosmico standosene ‘dentro’, come vuole il panteismo? Non completamente, perché se stesse completamente dentro, la Realtà primaria sarebbe il mondo, e non vi sarebbe nessun altro tipo di realtà se non l’energia materiale, (…) mentre esiste un’altra realtà oltre a quella che vediamo e che ci forma.” (p. 421-2)
Come si vedrà più avanti, questa “altra realtà oltre a quella che vediamo e che ci forma” viene argomentata (e creduta!) a partire dall’esperienza morale della vita dell’uomo: e, una volta ammessa e posta, si tratta di vedere come si relazioni con il mondo. Se sono da rifiutare sia il teismo sia il panteismo, cosa resta in mano al teologo (ma anche al filosofo) per pensare questa relazione? Mancuso, con il solito coraggio teorico, prende decisamente posizione per il ‘panenteismo’ (letteralmente: Dio ‘in’ tutte le cose). È, questa, una concezione risalente al filosofo tedesco K. Krause (1781-1832) ritenuto una figura secondaria nel panorama filosofico tedesco, la quale sta incontrando invece un consenso sempre più diffuso nella teologia contemporanea, almeno quella che si confronta con gli apporti delle scienze cosmologiche. Dopo aver definito genericamente il panenteismo così: “Dio fa muovere il processo stando sia fuori che dentro” (p. 422), così il nostro autore lo rilegge: “assumere questa prospettiva significa coinvolgere Dio nel farsi del mondo, rifiutandosi di concepirlo come già puramente realizzato a prescindere dal mondo e rifiutandosi di ritenere il mondo come inessenziale per la sua divinità. Questa prospettiva conduce piuttosto a concepire il mondo come essenziale per l’identità di Dio, tale cioè da toccarne e plasmarne la vita.” (p. 367-8)
e ancora più chiaramente: “Dio Realtà primaria guida l’evoluzione solo nella misura in cui ne è coinvolto, quindi non solo come dall’esterno ma anche dall’interno. In questa prospettiva la Realtà primaria detta Dio patisce gli stessi patimenti della realtà secondaria detta mondo, a cui ha dato origine traendola da sé.” (p. 420)
La tesi è, indubbiamente, suggestiva, anche per la vicinanza che sembra avere con la metafisica hegeliana dell’Assoluto (Idea) che si aliena nella Natura, come si può arguire da questa affermazione: “questa visione processuale, ponendo l’assoluto non in Dio ma nel regno di Dio, concepisce l’assoluto come ‘Dio+mondo’, e quindi fa del mondo una componente essenziale per la pienezza della divinità di Dio” (p. 370). Ma la questione cruciale non è di tipo emozionale, bensì logico-razionale, giacché Mancuso, volendo restare all’interno della prospettiva biblica, salva comunque l’alterità di Dio 81
rispetto al mondo, essendo pur sempre l’Originario da cui scaturisce il processo evoluzionistico e la “causa formale” di quest’ultimo: “di questo processo che è il mondo, Dio è la causa formale nel senso che la sua realtà vi immette una tendenza, un erōs, una passione, verso la relazione e l’uscita da sé.” (p. 398)
Ecco, emergere il termine “passione” che dà il titolo all’opera: perché “passione”? La nozione qui perde la sua valenza antropologica e acquisisce, come si è visto dalle citazioni riportate, una valenza cosmologica e persino metafisica e teologica: la ‘passione’ non è solo quella dell’universo soggetto a un processo evoluzionistico immane e tormentato, ma anche quella dello stesso Dio, che dopo essere stato il principio di esso, subisce esso stesso la “sofferenza” – la “passione” appunto – di una vicenda cosmica che non è più solamente nelle sue mani: “la creazione avviene sì dal nulla ma non in modo perfetto, nel senso che l’essere che scaturisce in seguito all’atto creativo emerge come caotico e bisognoso di ricevere una continua plasmazione, una condizione dell’essere che comporta il principio-passione (logos+chaos=pathos), sia per il Creatore sia per gli esseri creati.” (p. 231)
La “passione” immanente nello stesso Dio è, a sua volta, la connotazione necessaria perché possa affermarsi quella “libertà”, di cui l’uomo è il portatore unico nell’universo, almeno per quanto ora ne sappiamo: “tale indeterminazione iniziale [il chaos] è la condizione necessaria per la nascita della libertà. Se Dio non avesse posto l’essere iniziale quale impasto di logos e di chaos in un’originaria dialettica di ordine e disordine a causa della sua incompiutezza, non sarebbe mai potuta sorgere la libertà, né lo spirito che l’esprime. Ma siccome la finalità della creazione è esattamente il sorgere della libertà perché essa si determini liberamente come amore (cioè, per usare la terminologia religiosa, la santità), è del tutto coerente con questo objettivo che l’essere iniziale sia non perfettamente compiuto ma allo stato caotico. Senza il chaos originario, la libertà e l’amore non avrebbero mai potuto nascere.” (p. 379)
In un universo, dove tutto sia già ferreamente preordinato e predestinato, oppure dove viga il principio hegeliano della razionalità del reale, la libertà non potrebbe mai affermarsi, perché essa esige una sfera di indeterminazione e persino di chaos, da cui fuoriuscire con la forza di una decisione morale. Resta perciò da trattare un’ultima questione: la radice ultima da cui scaturisce la costruzione della teologia-filosofia di Mancuso. Qual è la radice del suo discorso, quella che gli permette di fare sintesi tra la concezione scientifica del mondo – evoluzionistica in particolare – e la sua adesione alla 82
fede biblica? L’opera Ripensare la fede la esplicita con chiarezza e le sue tracce affiorano in continuazione in quelle successive, compresa quella che stiamo analizzando. Ecco un testo senza ambiguità: “C’è una sola idea sussistente in sé e per sé, eterna, assoluta: è l’Idea del bene. L’Idea del bene è la forma primordiale dell’essere, la sua causa materiale e finale al contempo. Se l’essere è energia, l’Idea del bene è ciò che in-forma questa energia, che le dà forma modellandola verso un ordine sempre maggiore. Il bene, infatti, è essere ordinato, il bene coincide con l’ordine e l’Idea del bene coincide con l’Idea di ordine. In questa prospettiva, concetti che appaiono distinti a un livello inferiore del pensiero risultano unificati: essere, bene, verità, unità, bellezza risultano la stessa cosa. La coscienza umana ha intuito questa unificazione superiore e non ha saputo fare di meglio per esprimerla che coniare il termine Dio. Chi crede in Dio sostiene che la dimensione ultima dell’essere è questa dimensione profonda della realtà, sostiene che l’essenziale della vita, per quanto invisibile agli occhi, è ciò che consente la stessa esistenza di quel fenomeno assolutamente meraviglioso che sono gli occhi. Chi crede in Dio crede nella bellezza ordinata della vita, crede nella vita come bene.” (L’anima e il suo destino, p. 212)
Si è voluto ricorrere a questa citazione esterna a Il principio passione, proprio per mostrare uno – forse il principale – dei fili conduttori del pensiero dell’autore, da cui si può evincere che il teologo Mancuso rinvia al filosofo Mancuso, profondamente segnato, su questo punto, dalla filosofia di Kant. Il principio del pensiero mancusiano sembra essere l’affinità con la tesi di Kant, secondo la quale, all’interno dell’universo naturale, subordinato alle leggi cieche del determinismo evoluzionistico, esiste un fattore che ad esse si sottrae: l’esperienza morale dell’uomo, che, misteriosamente e paradossalmente, segue invece altre leggi, differenti ed eterogenee rispetto a quelle della natura. È proprio l’esperienza dei principi-valori della moralità – giustizia, libertà, amore, bene – che costituisce l’“élan vital”, sostenuto dalla fede sia filosofica sia biblica, verso il Divino, giacché, altrimenti, l’anomalia della moralità resterebbe senza adeguata giustificazione: “ecco l’unico scopo di questo immane processo cosmico che io, seguendo Kant, riesco a intravedere: la libertà in quanto mente che giunge a essere consapevole di tutto il lavoro necessario per crearla e che, trasformandosi in cuore, riproduce dentro e fuori di sé la medesima logica tendente all’organizzazione e all’armonia (e per questo Kant parla di ‘morale’)” (p. 388)
È, questo, in breve, il “sistema” filosofico-teologico – in quest’opera coniugato dal versante cosmologico – che ha suscitato, da una parte, l’interesse sorprendente, come si diceva, della cultura laica e, dall’altra, la reazione preoccupata e talora risentita della teologia cattolica ortodossa. D’altronde, 83
è lo stesso Mancuso ad ammettere apertamente, fin dalle prime pagine de L’anima e il suo destino: “1) la creazione dell’anima umana da parte di Dio senza nessun concorso dei genitori; 2) il peccato originale; 3) la risurrezione della carne; 4) la dannazione eterna nell’Inferno (...) queste quattro questioni dottrinali distanziano il mio pensiero dall’ortodossia cattolica, così come si è storicamente configurata.” (p. 30)
Ma il gesuita Marcucci, già sul numero della “Civiltà cattolica” del 2 febbraio 2008, ha rincarato ancora di più la dose, perché imputava a Mancuso di “negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica”, mentre il teologo-vescovo B. Forte, sull’“Osservatore Romano” del medesimo giorno, accusava il nostro autore di “gnosticismo” e quindi di ridurre la fede a “gnosi”. Certamente, il pensiero del nostro autore costringe a ripensare alcuni pilastri portanti della fede cattolica: non solo le idee di Dio e di creazione, ma anche, ad esempio, il dogma centrale della redenzione operata dalla “passione” di Gesù, giacché, se la “passione” è già da sempre immanente in tutto l’essere creato dell’universo, perché dovrebbe essere necessaria la personale passione dell’uomo-dio Gesù di Nazareth? A noi, in questa sede, tocca solo concludere con un’ultima annotazione: la lingua e la scrittura di Mancuso sono aliene da tecnicismi e asprezze accademiche, ma assumono spesso l’andamento piano e scorrevole del linguaggio comune o anche giornalistico. Non è, questa, l’ultima qualità, che rende l’opera accessibile anche ai non addetti ai lavori: perché mostra la capacità di mettersi in sintonia con la sensibilità e la cultura odierne, che esigono la massima diffusione del sapere, anche al di là della ristretta cerchia degli specialisti. (Ambrogio Cazzaniga) Albert Camus, Tutto il teatro, tr. it. V. Pandolfi, F. Cuomo, F. Ousset, C. V. Lodovici, Bompiani, Milano 1993, p. 247. Il teatro di Albert Camus rientra nella definizione, per la verità non molto gratificante, di teatro metafisico. Le quattro pièces seguono in parallelo lo sviluppo logico del suo pensiero filosofico. Sarà dunque il caso di riprendere brevemente i punti essenziali attorno ai quali ruota la sua indagine. Intanto il tragitto filosofico non può essere disgiunto dallo sviluppo storico della prima metà del ventesimo secolo. La prima e la seconda guerra mondiale, alimentate da un parossismo nazionalistico, avevano, infatti, contribuito a scardinare quel muro morale già enormemente intaccato dalla scoperta nietzscheana. L’avanzare di una società sempre più posseduta dal mito dello 84
sviluppo a tutti i costi, l’idea (poi rivelatasi tragica) di un superomismo borghese, di un umanesimo totalitario, che avanzava nel mondo con gran trambusto di metalli, accecato da una volontà di tutto dominare e conoscere, assieme a quella nostalgia di unità, a quell’infatuazione tremenda per un ordine supremo delle cose degli uomini: tutto aveva contribuito a spezzare le strutture di un edificio che fino ad allora si credeva eterno e inviolabile. La prima metà del Novecento è stata così il cuore di un sentimento più che di una ragione, un sentimento che carpendo l’individuo dal suo limbo dorato lo trascinava nelle tenebre di una realtà che non era più in grado di evidenziare una direzione, un motivo e uno scopo. Così Camus, come Sartre, così la filosofia come la letteratura si mostrano attente al mutamento della sensibilità contemporanea. L’assurdo nasce sulle rovine del pensiero idealistico da un lato e su quello positivistico dall’altro, eliminando dall’ontologia umana qualsiasi percorso verticale, qualsiasi svista trascendente e ottenendo una visione orizzontale tra l’essere e il suo farsi esteriorità. Così, nel medesimo tempo, scrittori come Gide (si pensi ai Nutrimenti terrestri) e come lo stesso Sartre (si pensi alla Nausea e a Santo Genet, commediante e martire) indirizzano la propria ricerca verso un rapporto con il mondo completamente differente. Un rapporto non più di semplice e brutale dominio, ma di tipo vitalistico, nel quale l’ascolto delicato, il rispetto primordiale per le forze naturali, riconducono ad una visione primitiva, precristiana e preborghese del mondo. L’assurdo perciò è un termine piuttosto complesso. Nato dalla storia e più in particolare da un sentimento quasi comune di disorientamento davanti alla morte, ha sviluppato importanti conseguenze, che non solo in filosofia, ma, come in questo caso, anche nel teatro hanno tentato non di spiegare, ma semplicemente di mostrare l’accadere di un’inarrestabile emorragia di senso. I temi fondanti del pensiero camusiano sono da un lato l’assurdo e dall’altro la rivolta. Il primo raccoglie un’intera tradizione di pensiero, che da Kiekegaard in poi, passando per lo spartiacque nietzscheano, approda alla numerosa schiera dei pensatori esistenzialisti, conducendo l’indagine filosofica sul terreno dell’irrazionale, dell’amorale e del relativo. L’assurdo camusiano nasce così in buona compagnia e in fondo non porta grandi novità. Quello che pare però rilevante è la modalità con cui Camus propone questo suo universo. L’assurdo nasce da un’angoscia personale, da una distrazione essenziale che tutti colgono durante l’arco dell’esistenza. Una distrazione positiva che distoglie lo sguardo dall’abitudine del quotidiano andare dei fatti, per calarsi in una profondità sempre presente, ma fino ad allora ancora non svelata. La profondità di cui Camus parla è la distanza inevitabile e soprattutto sostanziale tra l’io personale e il reale, tra il soggetto e l’oggetto, una distanza che non rivela un rapporto di potere assoluto dell’uomo sulla 85
natura, ma che definisce e sancisce la sconfitta definitiva per una comprensione completamente razionale del Tutto. L’assurdo non è quindi lo sfondo sul quale si agisce, ma piuttosto il rapporto (tra uomo e mondo) dinamico e corrosivo che distingue l’essenza umana da quella animale. A questo primo punto, che nell’immagine di una dialettica canonica si propone come tesi, si oppone un’antitesi, una proposta cioè capace non di fuggire questo negativo, ma di fagocitarlo, di assorbirlo, per dare vita, poi, a una sintesi, sfortunatamente, ancora da venire (per Albert Camus), in cui la scelta non sia per un pessimismo cosmico, ma per un ottimismo pacato e razionale. Così nasce la Rivolta. In Camus questa ha due volti. Il primo è quello di chi travisa il senso dell’assurdo e, pur scavalcando gli -ismi tradizionali, mantiene intatto quel sentimento di assoluto che proprio l’assurdo aveva annullato. Mentre la seconda è quella di chi, pur lottando contro l’assurdo, nonostante tutto non va fino in fondo e quindi pone dei limiti al negativo, scoprendoli nel valore e nella dignità umana. Ed è proprio questo il punto finale del pensiero camusiano, la riscoperta di una natura umana. Un umanesimo che s’affanni sul terreno cruento e soprattutto instabile dell’assurdo: ecco il punto di svolta cui Camus volle arrivare, ma che non riuscì a completare a causa della sua prematura scomparsa. Se nei saggi camusiani (Il Mito di Sisifo e L’uomo in rivolta), a causa dell’andamento teoretico, il movimento assurdo-rivolta appare disgiunto, nella realtà esiste come movimento elastico e soprattutto unico. Parlare di assurdo implica inevitabilmente la presa di coscienza di qualcosa che già di per sé dirige l’azione umana, e questa azione nel momento in cui si produce prende il nome di rivolta. Per questo motivo il teatro aiuta, forse più che i romanzi o i saggi, a comprendere questa verità. L’immagine scenica, infatti, calandosi nel reale divenire e assumendo il dialogo come modulo espressivo, è in grado di evidenziare al meglio questa simbiosi essenziale. L’esplicazione del concetto di assurdo così si arricchisce di un nuovo strumento. Non solo il piano razionale, tipico della filosofia, non solo quello narrativo, anch’esso per certi aspetti ammalato di distanza (rispetto alla realtà di tutti i giorni), ma anche quello drammaturgico. Il “teatro dell’assurdo” è, infatti, un filone molto ricco, che ha portato sulle scene dei teatri di mezza Europa capolavori di autori come Beckett, Adamov e Genet. Come per Camus, ma più in generale per il pensiero moderno, anche qui il punto di partenza, il nucleo centrale dell’indagine è l’angoscia metafisica davanti all’assurdità dell’esistenza. Camus nel Mito di Sisifo afferma che lo stesso uomo secerne l’assurdo. Provate ad esempio a guardare un uomo che parla al telefono dietro a un tramezzo. E voi non riuscite ad ascoltarlo e ne vedete solo i gesti. Ecco l’assurdo. E assurdo, ma forse sarebbe meglio dire curioso, fu quello che successe nel penitenziario di San Quentin, nella baia di San Francisco. 86
Era il 1957, la serata appariva scura, il sole già aveva abbandonato la scena. All’interno della prigione si rappresentava, davanti a quasi duemila detenuti, una pièce che in Europa non aveva riscosso grande successo, una commedia che non era commedia, che stravolgeva i canoni del teatro di Brecht, senza veri personaggi, senza una logicità temporale. Era Aspettando Godot di Samuel Becket. Il successo fu assoluto. I carcerati diedero l’impressione di apprezzare molto. L’episodio sembra una curiosità. In realtà non lo è. Infatti l’assurdo nasce proprio da questa consapevolezza della verità di una realtà altra. La realtà anche dei diseredati, di colore che devono fari i conti con la brutalità della violenza e della morte. Loro vivono nell’assurdo, loro possono comprendere quest’assenza di senso che Beckett volle trasmettere con la sua pièce. La volontà di andare oltre la tradizione del buon gusto e della buona morale, la coscienza di una ripetizione in eterno dell’istante presente (ad esempio la vita del carcere) non può che avvicinare e sedurre gente come i carcerati di San Quentin, piuttosto che la società bene di Parigi o di Londra. La prima pièce del teatro camusiano fu il Caligola, il cui manoscritto venne terminato nel 1938. La sua prima rappresentazione avvenne nel ‘45 al teatro Hebertot di Parigi con la regia di Paul Oettly. Il suo successo fu dovuto al fatto che molte similitudini v’erano tra la follia del giovane imperatore e i fatti tragici della seconda guerra mondiale. Caligola, imperatore giusto e acclamato, dopo la morte di Drusilla, sua sorella e amante, fugge nella foresta. La tempesta infuria, i senatori lo cercano. La sua figura pare eclissarsi. Inizia così la sua follia. Perché? La consapevolezza della morte ne è la causa. La visione che si apre davanti agli occhi dell’imperatore è quella di un mondo che non pare più in grado di seguire un progetto razionale. L’opera si innesta su un percorso intellettuale ben preciso: l’itinerario verso la scoperta e la piena accettazione dell’assurdo. In questo senso, due sembrano i toni tematici da seguire. Il primo è quello di un sempre più evidente scontro tra Camus e ogni tentativo di mistificazione rispetto al reale. L’ateismo è qui militante. L’assenza di finalità assolute ancora più devastante. L’angoscia esistenziale scortica la pelle e oscura la vista. Tanto che, ennesimo fatto curioso, datata Parigi 1938 (lo stesso anno della conclusione del Caligola) è La confessione, libretto ossessivo di Arthur Adamov (rappresentante assoluto del “teatro dell’assurdo”), nel quale l’A. segue la tradizione di questo spaesamento di fronte al reale e afferma: “Tutto quello che so di me è che soffro. E se soffro è perché all’origine di me stesso vi è una mutilazione, una separazione. Io sono separato. Ciò da cui sono separato, non so dirlo. Ma sono separato. Una volta quella cosa si chiamava Dio. Ora non ha più nome” (A. Adamov, L’aveu, Éditions du Sagittaire, Paris 1946, p.19). Fondamentale appare questo punto che unisce Adamov e Beckett, ma 87
anche Sartre e Camus, i quali vollero porre l’assurdo non solo sul piano della vita che accade, ma anche su quello di una teoresi che in qualche modo sfugga alla brutalità della mera contingenza, ed è che nell’universo assurdo nulla è tragico. L’eroe camusiano per eccellenza, infatti, Sisifo non è per nulla tragico, come può esserlo Prometeo. Questo perché il senso tragico nasce dalla consapevolezza che la vita abbia un senso, ma che questo senso non sia reperibile da parte dell’uomo. Al contrario l’assurdo nega a priori l’esistenza di un senso e perciò a nulla serve agitarsi. L’indifferenza può essere una delle chiavi di lettura più appropriate di fronte alla vita. Un’indifferenza che non si fa passività, ma piuttosto consapevolezza di un dato, cioè dell’assenza di senso. Ecco il motivo per il quale sia Camus, sia Beckett o Adamov non vollero ingegnarsi a costruire una metafisica in grado di spiegare, ma semplicemente vollero mostrare e rendere evidente la vera essenza della vita umana. Il secondo aspetto del Caligola rimarca una volta di più la distanza che esiste tra uomo e mondo. Una distanza che si concretizza in uno sfruttamento quasi ossessivo delle parole speranza, progetto, futuro, per nascondere la vera identità (assurda appunto) dell’esistenza. Caligola, davanti all’arido fatto mortale, comprende una verità amara: tutto si equivale, nulla è più importante, perché tutto lo è. Perciò niente ha più valore. E questa presa di coscienza ci giunge ancor più netta, sapendo, come sappiamo, perché è lo stesso Scipione (giovane poeta, cui l’imperatore farà uccidere il padre), parlando con Cesonia (amante disprezzata), a rivelarcelo, che prima l’imperatore era un uomo normale, enormemente buono e comprensivo, servitore dello Stato e amante dell’arte. Camus, contrariamente ai suoi primi saggi, non esclude più Dio dalla lotta, e anzi lo coinvolge, per sfidarlo, per abbatterlo. L’uomo che ha compreso l’insensatezza dell’esistenza, la sua assurdità e la sua incomprensibilità, non si arrende. Il suo bisogno di assoluto continua a tormentarlo. Caligola è un uomo in rivolta, anzi è il primo uomo in rivolta. Ma la sua è una rivolta distorta, accecata dall’odio e da questo bisogno insensato di possedere la luna. Non solo Dio, ma anche gli uomini nella tomba! Ecco l’errore. L’ateismo camusiano non comprende se stesso. La lotta è per l’uomo. Al pari di Zarathustra è strumento di evidenza, estirpatore dell’inganno. Caligola è la volontà di potenza spezzata. Ma se Zarathustra tornerà dagli uomini, Caligola nemmeno ci prova. Nulla pare seguire il ritmo quotidiano. Tutto è allucinato e allucinante. Quello che Caligola dirà dopo tutto, questo è semplicemente Caligola. L’ateismo si trasforma in trascendenza, l’uomo diviene Dio, e assume la sua arbitrarietà e indifferenza verso il prossimo. Egli diviene strumento ideale per oltrepassare l’intreccio fenomenologico e
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approdare a una condizione di statica contemplazione. L’evidenza è smascherata, il mondo luminoso si è trasformato in un universo torvo e greve. Il linguaggio è privo di senso. Voltare la testa dall’altra parte non servirà. Il messaggio camusiano è quello di continuare. In generale Caligola rappresenta in pieno l’idea camusiana del reale e perciò condivide quella tradizione di pensiero che, consapevole degli errori dell’assolutismo, vuole porre dei paletti alla ragione, darle un limite, fornirle una cornice, all’interno della quale essa possa valere come strumento di ricerca esistenziale, al pari della passione e del sentimento, eliminando il rischio, per il futuro, della costruzione di un nuovo vitello d’oro. Nella seconda pièce la drammaturgia camusiana segue la scoperta di un radicamento quasi epidermico dell’assurdo. Il malinteso viene terminato nel 1942. Due anni più tardi va in scena per la prima volta al teatro des Marthurins per la regia di Marcel Herraud. Tutto si svolge seguendo i canoni della tragedia greca. Si è, infatti, in presenza di un luogo topico, con pochi personaggi e con un coro “assurdamente” silenzioso. Il protagonista è Jan, uomo di mezza età, che, dopo avere passato la sua vita al sud, dove è diventato ricco, decide di ritornare, assieme alla moglie, nelle terre della sua infanzia per riallacciare i legami con la madre e la sorella Marta, ennesimo Caligola immolato sull’altare della disperazione assurda. Ma Jan troverà solamente la morte. Le due donne, infatti, presa l’abitudine di avvelenare i clienti per poi derubarli, non riconoscono l’uomo. Tutto si svolge tra nebbie e sguardi chiusi, con le montagne a fare da prigione ideale. Maria rimarrà sconvolta, apprendendo la notizia della morte del marito. Disperata, attonita, con un filo di voce, ormai sola, domanderà aiuto al vecchio domestico, fino a quel momento silenzioso. La sua risposta sarà “no”. Riprendiamo dunque dalla fine, da quel “no” così perentorio ed assoluto, giunto dopo un continuo silenzio. Chi è quel vecchio domestico? Nell’intenzione camusiana nient’altro che la divinità. Qui il suo rifiuto è divenuto definitivo. Ecco cos’è alla fine Dio, semplice indifferenza ai fatti degli uomini. Il senso dell’assurdo si dà forma d’immanenza. Esso si radica nella realtà. Trasuda da ogni oggetto, dilegua e si riprende da ogni azione. Non c’è modo di fuggire. Dimostrazione ne è Marta, che da anni convive con una morte spirituale per una scelta negata: la sua fuga verso il sole (riferimento all’Algeria). Ma è come se questo suo destino fosse già stato scritto. Tutto, fin dall’inizio, risulta colmo dell’assurdo. Non c’è più Caligola con la sua vigorosa ribellione, piuttosto una sottile sensazione che pervade gesti e parole e che in sé comunica l’impossibilità di essere. Queste pagine sono piene di dolore, ma anche di lucida consapevolezza, perché nati nell’assurdo è impossibile fuggire da esso. Essere nel mondo non significa comprenderlo. Essere nel
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mondo è un fatto, la cosa importante è comprendere il rapporto che intercorre tra il soggetto e l’oggetto. E il rapporto è una continua tensione verso qualcosa che svanisce immediatamente all’orizzonte. Così Marta morirà con il cuore ancora gonfio di odio per il mondo e per Dio. In questo dramma il messaggio scorre sotterraneo. Infatti il malinteso svela un male, per certi versi definitivo, della realtà contemporanea, e cioè la menzogna. L’incapacità a sostenere lo sguardo davanti a questo sole nero che è l’assurdo crea, in maniera quasi fisiologica, un atteggiamento deviato – specchio crepato, che rimanda un’immagine distorta dell’uomo. Anche qui Camus non propone una via. La pièce ha il compito di chiarificare ulteriormente l’evidenza, di denudare l’animo e portarlo in quel deserto di speranze e ideali che è l’unica realtà accettabile da parte di Camus. Qui il pensiero si avvicina all’intuizione sartriana di un mondo non caotico, ma assurdo. In effetti il processo che ci porta a concludere per un’immanenza dell’assurdo sembra eliminare il punto discriminante del pensiero camusiano, l’importanza cioè del rapporto come fonte dell’assurdo, e l’intera carovana del circo umano pare venir inghiottita, senza possibilità di resistenza, dal vortice di questo caos indistinto. La sensazione è quella di uno scacco già dato in tempi precedenti. È come se il paesaggio della Moravia, la locanda cadente, i volti di Marta e della madre, non fossero altro che vittime sacrificate in nome di una nuova trascendenza. Se in Caligola esisteva uno schema temporale, che aiutava a comprendere il percorso dell’intelletto umano, qui ogni riferimento risulta scomparso. La tematica della temporalità è fondamentale nell’analisi dell’assurdo. Infatti la mancanza di senso che pervade l’intero universo umano coinvolge lo sviluppo temporale. Il legame con l’eterno ritorno nietzscheano è evidente. Eppure una differenza essenziale esiste. Ed è che la circolarità del tempo, la ripetizione dell’istante non porta ad un avanzamento, ad una crescita, ma piuttosto ad una fissità allarmante. La coscienza comune non può che crollare davanti a quest’evidenza. Così, ripensando alle tematiche più importanti di Aspettando Godot, il tempo assume una valenza non trascurabile. Vladimiro ed Estragone, Lucky e Pozzo, prendono vita dentro ad un tempo senza confini, e che per questo diviene un non tempo, quasi un’eternità. Ma un’eternità brutale e angosciosa. È stato oggi o forse era ieri? La domanda è sempre ricorrente, perché tutto è uguale, l’albero è sempre lì, il fosso è uguale a tanti altri fossi e soprattutto il signor Godot ancora non è arrivato e non arriverà mai. Perché non esiste, perché la rincorsa ad un senso non fa che riprodurre la medesima litania, l’identico giorno, eliminando idee come quella di progresso, annullando la speranza e precipitando l’individuo in un deliquio disperato. Beckett descrive perfettamente l’assurdo. In questa pièce ateismo, assenza di Dio, circolarità del 90
tempo, tutto riconduce alle tematiche camusiane. E infatti nel Malinteso ogni cosa contribuisce ad annullare il realismo temporale, per scegliere una strada di verità poco probabile. Fin dall’inizio, da quando Marta ci rivela il suo progetto e parla con la madre, la quale la ascolta, ma non vuole seguirla, fin da allora tutto precipita e i luoghi si fanno confusi e i giorni non servono. E così gli stessi gesti di Estragone e Vladimiro (il passarsi il cappello a vicenda ad esempio) per la loro casualità, la loro insensatezza contengono in sé un’incapacità di avanzamento o di sviluppo. Così il punto importante che il dramma camusiano coglie è quello dell’incomunicabilità che la mistificazione del reale crea. La menzogna per un linguaggio altro non porta affatto alla comprensione e non fa che ricreare da capo uno stato assurdo dal quale non si può fuggire e per il quale si può morire, se non si è armati di coscienza. Il linguaggio perde ogni riferimento logico. La semantica delle frasi corre in libertà, seguendo più che altro l’angoscia esistenziale di questa emorragia logica. Jan ne è un esempio, ma anche lo stesso Lucky di Beckett, che nel suo discorso delirante raccoglie e unisce tutto quello che la conoscenza umana ha raggiunto. Ma è un caos che traduce la parola direttamente in un universo semantico altro. Privo di senso certo, ma non del tutto campato in aria, come potrebbe sembrare. Le prime due pièces camusiane hanno punti comuni con i rappresentati del “teatro dell’assurdo”, anche se la drammaturgia di Camus, lo si è detto all’inizio, ha una valenza più marcatamente metafisica. L’assurdo, in ambito teatrale, viene analizzato seguendo una razionalità, che paradossalmente si tende a confutare. Il rischio più grave così è quello di scadere in testi semplicemente dimostrativi. Mentre lo scopo dell’assurdo è puramente il mostrare e non il dimostrare. L’assurdo crea situazioni fini a se stesse, che nascono e muoiono, senza lasciare traccia. E in Camus queste due anime, quelle dell’osservatore, dell’artista, del poeta e quella invece, meno apprezzabile, del moralizzatore, hanno sempre convissuto. Tanto che il suo stesso ateismo è stato visto dai molti come la riaffermazione dei valori più puri del cristianesimo. Valori che in effetti vengono alla luce nella seconda parte del suo pensiero. E che coincidono con la pietà per il dolore degli altri, con la coscienza che per vincere l’assurdo bisogna semplicemente combattere assieme agli altri. Termini come pietà e simpatia ricorrono molto spesso. Dando allo sviluppo del pensiero camusiano una direzione per certi versi criticabile, in quanto vengono tradite le basi dell’assurdo. La rivolta è il legame con la politica e con il mondo. La rivolta è la scelta, in verità non del tutto giustificabile, da parte di Camus di non abbandonare completamente la realtà e di tentare, al contrario, di recuperarne il senso. Il rischio è di scadere in una prosa e in una poetica del tutto moralizzatrici. E, infatti, le
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sue ultime due pièces sono macchiate da questa pretesa (per certi versi involontaria) di dimostrare e di insegnare una nuova via all’esistenza umana. Il terzo dramma camusiano nasce da un’idea di Jean Luis Barrault, il quale, venuto a sapere che Camus stava preparando un romanzo sulla tragedia della peste, gli propone quest’idea. Lo stato d’assedio viene terminato durante l’estate del 1948 (le ferite del nazismo sono ancora fresche), e verrà rappresentato in autunno al teatro Marigny di Parigi, senza per altro suscitare grande successo. Il fatto che questo dramma riprenda l’argomento della peste, dimostra la svolta verso un pensiero della rivolta che tenti la scalata alla vetta della natura umana. Molto è cambiato, sia nel pensiero sia nella vita dell’artista. Intanto sono passati davanti ai suoi occhi gli anni del terrore e della resistenza. Il senso di assurdo che Caligola e Il malinteso avevano così ben rappresentato, ora non basta. Non si può correre il rischio di precipitare nel baratro di un nulla eterno. Camus non vuole fare l’errore sartriano. Egli vuole dare una possibilità al genere umano. È talmente innamorato del mondo che preferisce correre dei rischi d’incoerenza, piuttosto che seguire la logica assurda di Caligola o di Marta e abbandonare l’essere umano a un destino fatto di semplice orrore. Solo un anno prima era uscita La peste. La sua opera costruttiva, il suo itinerario verso l’edificazione di un nuovo umanismo aveva compiuto i primi passi. Questa svolta è dovuta anche all’esperienza di Camus nella resistenza contro i tedeschi. La sua collaborazione al giornale clandestino “Combat” fu, per la nascita del sistema della Rivolta, fondamentale. E così questa terza pièce si prefigge il compito di sviluppare questa sensibilità ancora una volta raccolta per le strade della storia. Purtroppo però se l’intenzione appariva nobile, il risultato non lo fu altrettanto. L’allegoria in questo nuovo dramma è troppo scoperta, evidente ad ogni passaggio, appesantito da una lirica certamente fuori luogo, e da uno sfoggio, quasi manieristico, di una qualità poetica, indubbia in Camus, ma che certo non era da scoprire nello Stato d’assedio. E nonostante tutto, la grande qualità di quest’opera è la sua capacità di mostrare con allarmante evidenza la realtà alle coscienze, sorde per definizione. Tutto si svolge in Spagna, nella bella città di Cadice. Fin dall’inizio conosciamo i veri protagonisti. Da un lato Nada e dall’altro Diego. Il primo già nel nome porta un intero universo. Niente, lo chiamerà l’uomo corpulento, che farà il suo ingresso più avanti, e che si rivelerà essere la Peste. E Nada, infatti, rappresenta quel pensiero nichilista, che l’A., nonostante i suoi sforzi, mostra di non aver superato e forse di non volere superare. Nada è l’elemento dionisiaco, il folle ubriacone, che, dimentico di tutto, di sé e degli altri, pur sa e conosce. Vede oltre le apparenze e comprende che la fine è vicina, che una vita del genere, una
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vita fatta di semplici abitudini, di fughe incoscienti davanti alla verità tremenda, non è una vita, ma semplice contabilità. Vivere a Cadice (vivere nella società contemporanea) è solamente un fatto di pura ragioneria dell’attimo. Rientrare nella vita, per Nada, è come rientrare nei ranghi, sbattere i tacchi, tacere e marciare. Nada non crede a nulla; per questo, come Caligola, può permettersi di andare oltre e giudicare. Poi c’è Diego, amante di Vittoria (prima figura femminile di una certa importanza nell’opera di Camus) e sua futura sposa, se qualcosa non intervenisse a turbare quel quieto, tranquillo trambusto di una città di mare. Sì, perché, così come ad Orano, anche a Cadice la vita segue percorsi dal profilo tenue: il mercato, gli svaghi, il mare e poi l’amore. L’amore tra Vittoria e Diego. Un amore che sboccia e prosegue normalmente. Diego domanda la mano di Vittoria a suo padre, eminente personalità della città. E ottiene un sì, quasi insperato. È la storia già ascoltata che si ripete. “Sono i cavalli neri dell’amore, ancora tutti in fremiti, ma oramai tranquilli” (p. 182). Questo è l’assurdo. La consapevolezza di avere delle certezze, di credere ad una vera comprensione dei destini, del futuro. Il vivere sordi e soprattutto muti alle sollecitazioni dell’esistenza. L’assurdo vive e si alimenta di questa pochezza d’animo. Esso s’ingrandisce e si deforma. La sua dimenticanza, il pensare, cioè, da parte degli uomini di poter dare un senso all’andare (tragico) dei giorni, è l’errore più grave che si possa fare davanti a questa inevitabile emorragia di senso. Infatti viene un giorno in cui l’emorragia si trasforma in terrore, si muta in tirannia, assume le fattezze di una mera contabilità della morte. Così a Cadice fa il suo ingresso, accompagnato dalla segretaria, un uomo, è la Peste. A questo punto il tema della rivolta si fa dominante. Si è detto, precedentemente, che per comprenderlo al meglio non bisogna pensarlo disgiunto da quello dell’assurdo. Essere coscienti dell’assurdo significa già essere un uomo (o una donna) in rivolta. Così fin dall’inizio, fin da quando cioè arriva la Peste, Cadice si trasforma in una città in rivolta. Questa può essere silenziosa, come era accaduto per gli abitanti di Orano, e come accade qui, oppure dirompente e assidua come per il dottor Bernard Rieux, per Jan Tarrou e qui per il giovane Diego. A un certo punto perfino la delirante burocrazia della peste, la grottesca contabilità dei morti, sembra andare bene al popolo di Cadice. Solo Diego pare avere un fremito d’orgoglio. Parlando con la segretaria usa toni violenti e minacciosi: “Finitela, finite una buona volta questa vostra sporca commedia!” (p. 226). La rabbia fa scomparire il segno. La peste sembra neutralizzata. Diego non ha più paura. Questo è il punto: rendersi coscienti del fatto ineliminabile della morte, fuggire il terrore e darsi alla vita quasi senza coscienza. Diego lo comprende. La sua rivolta è buona, non come quella di Caligola o di Marta che non si rassegnarono all’evidenza della fine, e vollero credere ad un piano sul quale tutto finalmente fosse sve93
lato e compreso, non accorgendosi invece che tutto è già svelato, e tutto consiste in questo dolore, in questa continua emergenza nella quale versiamo ad ogni istante della nostra vita. Non bisogna avere paura, quindi ma nemmeno odiare. Potenza e bontà non vanno di pari passo, questo è vero. Dio, essere buono e onnipotente, è stato dimenticato. Ora il regno dell’avvenire è quello degli uomini. Uomini come Diego o come Tarrou o come il dottor Rieux, che comprendono l’enorme pericolo di una ragione assoluta, che sanno che la peste, come se n’è andata, potrà sempre ritornare, ma che non rinunciano alla lotta. Diego morirà, perché contrabbanderà la sua vita per quella di Vittoria, oramai morente. Diego è l’ultima vittima della peste. Dopo l’assurdo, quindi, la rivolta che coglie nel mezzo di un arco teso la giusta via verso l’affermazione di una vera dignità umana. La morte di Diego urla proprio la volontà di affermare l’esistenza di una natura umana da cui partire. Ancora il vero teatro della rivolta non si è reso evidente. Cadice, infatti, assieme ai suoi personaggi resta ancora intrappolata in un simbolismo troppo marcato. Sarà invece con l’ultima pièce che Camus riuscirà a gettare sul piatto della discussione il vero senso della rivolta. I giusti viene rappresentato nel 1949, il 18 dicembre, al teatro Hebertot con Serge Reggiani come protagonista. Il dramma prende spunto da una vicenda storica. Siamo a Mosca nel 1905. Il periodo è quello della rivoluzione. La grande rivoluzione del 1905, ad opera di quei terroristi, già citati ne L’uomo in rivolta, definiti “delicati”. Una rivoluzione d’importanza pari a quella del 1917, perché ebbe il grande merito di eliminare definitivamente il regime zarista. Camus, quindi, parte da un fatto storico e ambienta l’intero andamento della sua pièce su personaggi realmente esistiti. Ma, com’è ovvio, questo è un pretesto per scendere in profondità, recuperare le tematiche dell’assurdo e della rivolta e dare così forma definitiva al suo pensiero costruttivo. Quel pensiero, cioè, che non dimentico dell’immane tragedia in cui è precipitato l’uomo moderno, tenta nonostante tutto un diversivo, opera uno scarto verso la definizione e l’affermazione di una vera natura umana. Siamo in un appartamento di Mosca. Figure e volti si alternano. Il tema dominante è quello della rivoluzione. Passa di bocca in bocca e ogni volta assume sempre più evidenza il fatto che per proseguire la liberazione della Russia e del popolo russo, la prima azione da fare è quella di gettare una bomba sotto la carrozza del Granduca. Kalieyev, un giovane terrorista, si offre di compiere l’attentato. Ci prova una prima volta, ma vi rinuncia perché assieme al Granduca vi erano anche i suoi due nipoti. Di nuovo nell’appartamento la discussione si fa animata tra Kalieyev e Stepan (modello di rivoluzionario senza scrupoli, ennesimo elemento nichilista, assieme a Nada, a Marta e a Caligola). Stepan sostiene che se l’Organizzazione gli avesse 94
ordinato di uccidere il Granduca certo non si sarebbe fermato davanti alla presenza dei bambini. La posizione di Camus, rispetto a questo primo punto, è diversa. È quella di Kalieyev, che sostiene la presenza di un limite nella lotta. E questo limite non è solo la presenza dei bambini, ma l’innocenza stessa che essi rappresentano. Non si può, infatti, combattere l’ingiustizia che l’assurdo evidenzia, diventando carnefici per la seconda volta. Caligola sostiene l’odio, Marta muore odiando Dio e tutto quell’universo che l’ha costretta a odiare. Morire non riconciliati è il senso profondo di una rivolta tradita. Diego, rivolto alla peste, urla che né odio, né paura è quello che egli vuole, quello che egli pretende da tutti. Così Kalieyev non può gettare la bomba, perché la rivoluzione non è solo, come sostiene Stepan, la bomba; rivoluzione è anche la consapevolezza di essere minati, ora e per sempre, ma allo stesso tempo è la volontà di continuare a cercare, nel buio profondo della società contemporanea, un punto davanti al quale tutto si fermi. E questo rimane all’interno di quella dignità umana che gli stessi terroristi comprendono e che consiste nel rispetto dell’umanità che continua a vivere, magari ignorando la lotta, ma compresa nella propria voglia, non assente ma silenziosa, di mutare. Se Caligola o il signor Mersault o Marta, se Camus pensava l’assurdo come una solitudine tremenda e lo stesso signor Mersault (capolavoro dell’opera camusiana) voleva che nell’ora della propria esecuzione gli astanti gridassero parole d’insulto e di violenza nei confronti del condannato, lo sbaglio stava semplicemente in questa distanza forzata, che l’uomo svelato all’assurdo pretendeva per continuare. L’assurdo – se inizialmente divide, perché in sé è gravido di disperazione e di oscure certezze, come quella della morte – in un secondo momento pretende un salto. E il salto Camus lo propone uscendo dall’indagine specificamente politica per approdare ad una visione più generale. È questo il motivo per cui bisogna affannarsi a trovare dei limiti all’azione della rivolta. I limiti, infatti, implicano non una negazione assoluta (Caligola, Marta e Meursault), ma un’affermazione relativa. Un’affermazione che, in questa assenza di valori, in questa inarrestabile emorragia, tenga fermo un punto: la dignità dell’uomo. Questa stessa coscienza che sostiene la giustezza della rivolta esprime nello stesso tempo una volontà dell’uomo di farsi altro, affermando: mi rivolto dunque siamo. Così Kalieyev sostiene il valore della rivoluzione, perché è convinto, diversamente da Stepan, che oltre l’odio vi sia ancora qualcosa. E questo qualcosa si chiama amore. Kalieyev getta la bomba e si ritrova in carcere. La granduchessa lo va a trovare e inaspettatamente gli propone la salvezza. Ma il giovane terrorista rifiuta, perché vuole prepararsi alla morte, vuole morire, se no, se uscisse vivo da quella situazione, allora sì che sarebbe un vero assassino. Qui si conclude la pièce, gettando un ponte verso il cambiamento della società e verso l’approdo a un mondo felice. Fino a quando la vita verrà pagata con la vita, fino ad allora la rivoluzione, la rivolta manterrà un 95
senso, perché, pur nell’odio, pur nella morte un limite viene mantenuto: l’alto rispetto per l’esistenza umana, l’immensa considerazione della vita umana che quei terroristi portavano nel cuore. Quando la rivolta abbandona l’odio e si fa compassione, mutuo soccorso fra gli uomini, tutto è ancora possibile. La Granduchessa sostiene che non c’è amore lontano da Dio, ma Kalieyev, a pochi istanti dalla morte, risponde, come facendo un’eco contraria alle parole dello straniero, che sì qualcosa esiste ed è “l’amore per le creature”(p. 158). Ritorna in queste parole il parallelo e il punto di contatto con la tradizione cristiana, così disprezzata da Camus. Si conclude così il ciclo sulla rivolta. Quattro pièces che insieme delineano un percorso, per certi versi affascinante, ma che non maschera delle incongruenze di fondo. Incongruenze di sistema. Infatti se il senso non esiste, se l’assolutismo è stato negato, come si può pretendere di affermare l’esistenza di una natura umana, se non attraverso un salto, perfettamente illegittimo, verso una fissità eterna e sostanziale che coincide con quel piano trascendente così magnificamente affrescato nelle prime due pièces? È così, forse, un Camus a metà quello che appare non solo nel teatro, ma anche nel suo pensiero filosofico. Un Camus, lo si è detto precedentemente, che, per troppo amore nei confronti degli uomini, ha finito per tradirli, ricreando forse l’ennesimo inganno e nichilismo. La rivolta, se da un lato segna la giusta via verso una vera coscienza dell’assurdo, dall’altro (nella logicità e nella coerenza del pensiero) appresta la nuova sconfitta della volontà umana di tutto comprendere e tutto unire. Così Camus (contrariamente al suo pensiero), più che un uomo assurdo, ci appare un uomo tragico. (Davide Milosa)
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L E T T U R E Virgilio Cesarone, Tensione escatologica e spazio politico (Brevi note a partire dal Frammento teologico-politico di Walter Benjamin, in: Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 254-55) Oggetto di questo breve contributo è il rapporto tra tensione escatologica e spazio politico, sollevando e cercando di rispondere alla seguente domanda: l’attesa di una redenzione ultima riesce a rendere fecondo il terreno per un’azione politica che volga il suo operato al bene comune, oppure ogni concezione escatologico-messianica non può che condurre necessariamente al rifiuto di ogni possibile trasformazione di ciò che è politico, in vista di un dissolvimento dello stesso con l’avvento della fine di tutte le cose? In altre parole intendo affrontare alcune questioni al confine tra l’escatologia filosofica e la teologia politica, cercando di formulare le mie argomentazioni muovendo da uno scritto di Walter Benjamin, il Theologisch-politisches Fragment.1 La datazione di tale scritto, il cui nome nasce per attribuzione editoriale, è stata a lungo in dubbio: in un primo momento, su indicazione di Adorno, si pensò che fosse stato composto da Benjamin tra la fine del 1937 e l’inizio del ’38, poiché fu in quel periodo che Benjamin lo lesse allo stesso Adorno, presentandolo come “la novità delle novità”. Ma più che ad una novità di stesura, Benjamin si riferiva probabilmente ad un rinnovato interesse per i temi escatologici, come dimostra una lettera inviata in quegli anni a Karl Thieme, autore di un saggio sul rapporto tra marxismo e messianismo (ivi, 257-58). Tuttavia la ricostruzione fornita da Gershom Scholem, l’amico di un’intera vita di Benjamin, retrodata la stesura del Frammento al 1920-21 e quindi lo pone in stretta connessione innanzitutto con l’importante articolo di Benjamin Zur Kritik der Gewalt, e quindi con la lettura di Geist der Utopie di Ernst Bloch, di cui lo stesso Benjamin scrisse una recensione andata poi perduta.2 1 Walter Benjamin, Theologisch-Politisches Fragment, Gesammelte Schriften, vol. II/ 1, p. 203-04, tr. it. Framm. teologico-politico (Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 254-55. 2 Interessante notare che secondo Scholem la falsa datazione attribuita da Adorno sarebbe frutto di un astuto inganno dello stesso Benjamin, il quale voleva vedere se l’anarchismo metafisico del frammento (o la teologia mascherata da materialismo dialettico, così come
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Ma iniziamo ad esaminare il testo del Frammento: Solo il Messia stesso compie tutto l’accadere storico e precisamente nel senso che egli soltanto redime, compie e produce la relazione fra questo e il messianico stesso. Perciò nulla di storico può volersi porre da se stesso in relazione al messianico. Perciò il regno di Dio non è il telos della dynamis storica; esso non può essere posto come meta. Da un punto di vista storico, esso non è la meta, ma la fine. Perciò l’ordine del profano non può essere costruito guardando all’idea del regno di Dio, perciò la teocrazia non ha alcun senso politico, ma unicamente un senso religioso. Aver negato con la massima intensità il significato politico della teocrazia è il più grande merito del Geist der Utopie di Bloch.
Il Frammento si apre con la figura del Messia, a cui Benjamin attribuisce la possibilità di compiere [vollenden], vale a dire di portare alla sua fine, l’accadere di ciò che è storico. È importante evidenziare, come fa Jacob Taubes,3 che Benjamin non neutralizza qui la figura del Messia nel “messianico” o nel “politico”, ossia in una figurazione illuministica o romantica, ma affida l’attività redentiva all’avvento di una precisa figura personale, il Messia. Che cosa significa portare a compimento? Nient’altro che è solamente il Messia a poter mettere in relazione due sfere, ossia due regni, che di per sé sono eteromorfi, lo storico ed il messianico. Ma tale messa in relazione non può avvenire se non attraverso il compiersi, ossia ancora una volta il portare alle estreme conseguenze tale relazione, vale a dire attraverso la redenzione [Erlösung]. Ciò che è storico resta di per sé inane nei confronti del messianico, che quindi rimane inattingibile dalla storia (e dalla storicità dell’esserci votata al suo Sein-zum-Tode, potremmo dire heideggerianamente). Il Reich Gottes, allora, non rappresenta e non può rappresentare il fine ultimo del movimento storico, la sua meta. La teleologia della modernità, la sua fede nel progresso, non può che esser smascherata come idolatria, nel momento in cui pretende di indicare come regno di Dio ciò che invece è escluso per natura dal proprio ambito. La conclusione della storia, dunque, non può avvenire entro l’orizzonte storico, in cui si perseguono esclusivamente scopi (idolatrici appunto), che rimangono incommensurabili al Reich Gottes. Tale regno non si presenta come meta della storia, ma come fine della storia stessa, come termine ultimo. La teocrazia (ed ogni teologia politica, po-
viene presentata dalla I delle tesi in Sul concetto di storia) sarebbe stata compresa e accettata da Adorno (cf. Irving Wohlfarth, Zu Walter Benjamins Theologisch-politisches Fragment, in: Ashraf Noor-Josef Wohlmuth [eds.] “Judische” und “christliche” Sprachfigurationen im 20. Jahrhunderts, Schönigh, Paderborn-München-Wien-Zürich 2002, p. 145). Inoltre per quanto riguarda la lettura benjaminiana di Bloch si veda Gershom Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi, Milano 2008, p. 149. 3 Cf. Jacob Taubes, La Teologia politica di san Paolo, Adelphi, Milano 1997, p. 134.
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tremmo aggiungere) non ha quindi alcun valore politico, in quanto l’ordinamento profano delle cose non può che dispiegarsi su di un piano differente rispetto a quello del regno di Dio. Tuttavia, secondo l’interpretazione di Taubes, questo rifiuto di attribuire significato politico alla “teocrazia”, che rimane profondamente enigmatico, non significa affatto che essa non abbia un significato “pubblico”, ed è la storia stessa del Cristianesimo, e della teologia paolina in particolare, che lo dimostra a partire dalla teologia del martire, ossia di colui che testimonia pubblicamente il proprio credo.4 Nell’interpretazione del Frammento Taubes evidenzia il profondo debito di Benjamin nei confronti della teologia paolina, in quanto qui sarebbe in gioco non solo la relazione tra lo storico e il messianico, ma la natura tutta, compresa quella dell’uomo, per cui sarebbero i capitoli 5 e 8 della Lettera ai Romani a fornire a Benjamin l’impianto teologico decisivo. Tale impianto si contraddistinguerebbe, inoltre, anche per un atteggiamento molto polemico nei confronti dell’accesso all’ordine del mondo, configurantesi a partire dalla ripetizione contrassegnata da anankē, come mostra il secondo passo del Frammento: L’ordine del profano dev’essere edificato guardando all’idea di felicità. La relazione di quest’ordine col messianismo è uno degli elementi dottrinali essenziali della filosofia della storia. E proprio muovendo da esso si condiziona una concezione mistica della storia, il cui problema si può rappresentare in un’immagine. Se una freccia direzionale indica la meta nella cui direzione opera la dynamis del profano e un’altra la direzione dell’intensità messianica, allora la ricerca della felicità dell’umanità libera diverge certamente da quella direzione messianica; ma, come una forza, con il suo percorso, può promuoverne un’altra diretta in senso opposto, così anche l’ordine profano del profano può promuovere l’avvento del regno messianico. Il profano, quindi, non è certo una categoria del regno, ma una categoria – e certamente una delle più pertinenti – del suo più silenzioso approssimarsi. Infatti nella felicità tutto quanto è terreno aspira al suo tramonto, ma nella felicità soltanto è destinato a trovarlo.
Il movimento dell’accadere storico, ossia di ciò che pertiene all’ambito del profano, vede nell’idea di felicità la sua meta: tutto il reale è orientato teleologicamente al raggiungimento della felicità. Qui Benjamin si riferisce espressamente, a mio avviso, all’affermazione fondamentale dell’Etica nicomachea di Aristotele, in cui si mostra che tutto ciò attorno a cui ruota il movimento prassistico e pojetico della polis, pur nelle varie subordinazioni, è la felicità.5 È addirittura propria alla natura stessa la ricerca di questa felicità, se anche il pesce sa e cerca il suo bene, che è diverso da quello
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Taubes rimanda soprattutto a Rom. 13. Cf. Etica nicomachea, 1094a 3.
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dell’uomo (ivi, 1141a 22-24). Ma la questione che Benjamin affronta è proprio la relazione di questo movimento naturale, del bios (incluso quello politikos) con il messianismo, per giungere a una “concezione mistica della storia”. Il telos verso cui si muove il profano è essenzialmente direzionato altrove rispetto al movimento del messianico, ma le due forze non necessariamente si ostacolano a vicenda, poiché può accadere che l’una favorisca l’altra. La categoria del profano, pur essendo estranea dunque all’ambito messianico, può facilitare il suo avverarsi. Attraverso il profano, che etimologicamente indica proprio una soglia, quindi attraverso la differenza rispetto a tutto ciò che pertiene al regno, il regno stesso si avvicina. Non vi è dunque una completa estraneità tra i movimenti direzionali del profano e del sacro, piuttosto sembra esserci una sorta di armonia prestabilita.6 La sezione si conclude con la messa in relazione da parte di Benjamin di felicità e tramonto. Taubes interpreta questo passo in stretta connessione con l’anelito all’eternità del piacere esaltato dallo Zarathustra di Nietzsche.7 Il desiderio di un piacere continuativo, infatti, sarebbe desiderio di eternità, un’eternità che si configurerebbe a partire da una pienezza che però è contemporaneamente tensione verso il dissolvimento di quella Sehnsucht, ossia verso il raggiungimento di una maturità, che significa tramonto e quindi eterno ripetersi. Tutto questo cupio dissolvi accade però affatto mondanamente, poiché ciò che è proprio del regno del profano aspira al tramonto non appena raggiunto il suo acme. Mentre, certo, l’immediata intensità messianica del cuore, del singolo uomo interiore procede attraverso l’infelicità, nel senso del soffrire. Alla restitutio in integrum spirituale, che introduce all’immortalità, ne corrisponde una mondana, che conduce all’eternità di un tramonto e il ritmo di questo mondano che eternamente passa, che passa nella sua totalità, nella sua totalità spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è felicità. Poiché la natura è messianica per il suo eterno e totale passare. Sforzarsi di tendere a questo passare, anche per quei gradi dell’uomo che sono natura, è il compito della politica mondiale, il cui metodo deve chiamarsi nichilismo.
La conclusione del frammento mostra invece ciò che accade in coloro che vivono nell’infelicità, e per questo attendono il termine ultimo. Da una parte
6 Cf. Irwing Wohlfahrt, op. cit., p.168. Wohlfahrt interpreta inoltre questo ordine del profano non come una scomparsa di Dio, secondo la secolarizzazione cristiana, ma come un “vuoto divino”, e quindi a partire dalla teoria luriana del Zimzum, in cui il Creatore si ritrae per lasciare spazio al mondo (cf. ivi, p.170). 7 “Denn alle Lust will – Ewigkeit” (Perché ogni piacere vuole – eternità) (Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra, Kritische Studienausgabe, de Gruyter, Berlin 1999, p. 402).
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c’è una tensione spirituale verso l’immortalità, ossia verso la redenzione attraverso la restitutio in integrum; dall’altra c’è il compimento profano che porta all’eternità del tramonto.8 Ciò che segna il ritmo del trapassare di questa mondanità, ciò che inteso aristotelicamente segna il passaggio da un prima a un dopo, risulta essere, anche per la natura messianica, la felicità. Secondo quanto riferisce Giorgio Agamben, Benjamin aveva imparato dall’amico Scholem che il tempo messianico non è né il compiuto né l’incompiuto, né il passato né il futuro, ma la loro inversione.9 Proprio questo capovolgimento sarebbe quanto Paolo esprime con la formula ho nyn kairos (Rom. 11,5) il tempo kairologico in cui il passato, ciò che si è concluso, “ritrova attualità e diventa l’incompiuto e il presente (l’incompiuto) acquista una sorta di compiutezza”.10 È evidente che in questa prospettiva il Frammento contiene in nuce elementi che saranno portanti all’interno dell’ultimo scritto di Benjamin, le tesi di Sul concetto di storia. Mi limito qui ad evocare esclusivamente due concetti: il primo riguarda “l’indice segreto” presente nel passato, “che lo rinvia alla redenzione”, un Index che lega le varie generazioni attraverso un’attesa di riscatto, consegnata da una generazione a un’altra. L’altro elemento, a cui mi preme qui rimandare, è l’affermazione contenuta sempre nella II tesi, in cui Benjamin, proprio per questo legame tra generazioni, afferma che in ogni istante storico vi è presenza di una “debole forza messianica”.11 Ma per quale ragione la natura appare a Benjamin messianica? È la sua stessa caducità, il suo Vergängnis, all’origine della sua messianicità. Questo 8 La restitutio in integrum era un provvedimento pretorio del diritto romano con cui un magistrato rendeva nullo un atto giuridico che aveva provocato danni a una persona, facendo sì che lo stato del danneggiato tornasse quello anteriore al procedimento annullato. Ma più che a un riferimento giuridico Wohlfarth rimanda la restituito alla teoria luriana del Tikkun e del vaso rotto da riportare a integrità dopo la sua frantumazione; inoltre egli non vede alcuna cesura tra l’attesa del credente e l’azione rivoluzionaria, le quali, all’interno di una interpretazione giudaica, hanno una stretta corrispondenza (cf. Irwing Wohlfahrt, op. cit., p. 176177). 9 Cf. Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla ‘Lettera ai Romani’, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 74. Critico con questa lettura paolina del frammento è il già citato Wohlfarth, il quale rimprovera ad Agamben di non porre alcuna distinzione strutturale tra il messia ebraico e quello cristiano, di cui si attende un ritorno (cf. Wohlfarth, op. cit., p. 149). 10 Giorgio Agamben, op. cit., p. 74. 11 Walter Benjamin, Sul concetto di storia (II tesi), cit., p. 23. Secondo l’interpretazione di Agamben in questa frase ci sarebbe una citazione non esplicita (se non attraverso una variazione tipografica della spaziatura che è stata trasformata in corsivo) di 2 Cor. 12, 9-10: “Mi rispose [il Signore]: ‘Ti basta la mia grazia; la mia potenza si esprime nella debolezza’. Mi vanterò quindi volentieri delle mie debolezze, perché si stenda su di me la potenza di Cristo. Mi compiaccio quindi delle infermità, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni, delle angustie, a motivo di Cristo; perchè quando sono debole, allora sono forte”.
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anelito della natura a un passaggio verso una totalità, che sarebbe anche un compimento ultimo, ha sollevato molteplici attenzioni interpretative. Nell’interpretazione di Taubes Benjamin mostrerebbe in questo Frammento di avere una concezione paolina della creazione, poiché in essa vedrebbe sofferenza e vanità.12 È soprattutto il passo di Rom. 8, 18 che viene preso in considerazione, dove Paolo presenta una natura in attesa di una liberazione, che la tragga dalla caducità cui è stata sottomessa fin dalla creazione.13 Pur concordando con l’interpretazione di Taubes, Agamben ne inverte, per così dire, il segno: la natura non sarebbe in attesa, ma essa stessa porterebbe in sé il germe della propria redenzione (Agamben, cit. 131). L’ultima considerazione benjaminiana concerne invece il movimento proprio alla politica mondiale per assecondare questa tensione verso la completa attuazione della caducità propria della vita umana, anche negli strati di mera natura: la politica non può che declinarsi in forme nichilistiche. La comprensione del nichilismo in questo contesto è stata riferita a influenze nietzschiane;14 e tuttavia, a mio modesto vedere, pur non rifiutando il legame con Nietzsche, è convincente l’interpretazione di Taubes, che rimanda ancora a fonti dell’apostolo della vendetta.15 Una fra tutte è il famoso hōs mē di 1 Cor 7, 20-21. Proprio in un contesto di predicazione messianica, Paolo rappresenta la necessità per il credente di una trasvalutazione integrale di tutto quello che il nomos romano regolava. L’attesa messianica si fa viva ed efficace attraverso il capovolgimento di valore di quello che è presente proprio attraverso la certezza dell’avvento del messia. I rapporti di cittadinanza tra gli uomini devono lasciare il posto a una fratellanza nella luce, la quale nullifica ogni tipo di differenza di ruolo all’interno del mondo profano. Il significato del termine nichilismo in tale contesto va messo, inoltre, in stretta relazione con la posizione anarchica di Benjamin, esplicitatasi chiaramente nel saggio Per una critica della violenza, dove si argomenta che il 12
Jakob Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 138. “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto. Non solo lei, ma anche noi, che abbiamo la primizia dello Spirito, gemiamo in noi stessi aspettando l’adozione a figli, il riscatto del nostro corpo” (Rom. 8, 18). 14 Cf. Gerardo Cunico (Messianismo, religione e ateismo nella filosofia del Novecento, Milella, Lecce 2001, p. 146 e ss.) che però collega il nichilismo di Benjamin anche a letture bakuniniane, e Fabrizio Desideri (Apocalissi profana, postilla a Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, p. 324-26), il quale evidenzia soprattutto il rifiuto della ciclicità mitica a favore di un raggiungimento della felicità che porta all’estinzione del tempo. Su questi temi si veda inoltre, dello stesso Desideri, Walter Benjamin, il tempo e le forme, Editori Riuniti, Roma 1980, dove l’accento viene posto con più insistenza sulla matrice nietzschiana del tramonto di ogni felicità raggiunta. 15 “Apostel der Rache” è la definizione che dà Nietzsche di Paolo di Tarso (cf. Friedrich Nietzsche, Antichrist 45, KSA 6, p. 221-23). 13
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diritto, e quindi ogni istituzione politica, è contrassegnata da una inevitabile violenza che la pone in essere e ne sostiene l’efficacia attraverso il potere di polizia. Solo una “violenza pura” di tipo rivoluzionario sarebbe per Benjamin capace di oltrepassare le determinazioni giuridiche, instaurando una giustizia al di là del diritto. Tale è il caso della violenza divina scagliatasi sulla tribù di Korah, che aveva presentato le proprie “legali” rivendicazioni a Jahvè per essere stata esclusa dal godimento di diritti sacerdotali. Il castigo divino si abbatte su tutta la famiglia in modo fulmineo e senza spargimento di sangue: uomini donne e bambini furono inghiottiti dalla terra.16 Ancora una volta il richiamo ad Aristotele può servire per renderci consapevoli della volontà, da parte di Benjamin, di allontanarsi proprio da questo canone “greco”, ciclico e quindi mitico, per la comprensione del concetto di giustizia. Secondo le definizioni dell’Etica nicomachea (1131a10 ss.), la richiesta della tribù di Korah di vedersi assegnare una degna condizione all’interno del popolo d’Israele, corrisponderebbe proprio alla rivendicazione di un diritto in virtù di un concetto di giustizia di tipo distributivo. Il castigo biblico della tribù di Korah mostra invece una giustizia divina che si pone al di là di tali rivendicazioni affatto mondane, e che utilizza una misura incommensurabile con quella della vita profana. È molto opportuno ricordare che anche Kant, nel suo scritto La fine di tutte le cose, si riferisce al castigo subito da Korah, operando tuttavia entro un quadro concettuale che si oppone diametralmente a un’escatologia di tipo anarchico-nichilistico, quale quella di Benjamin, per presentare invece un concezione escatologica definita da Taubes trascendentale e sociale. Kant può essere chiamato in causa in questo discorso sull’escatologia, non solo perché è stato il filosofo sul cui pensiero lo stesso Benjamin si è formato17, ma perché egli ha posto sotto un esame accurato la pretesa dell’escatologia di fornire un qualche tipo di conoscenza. Quindi, proporre i punti essenziali della critica alla rilevanza veritativa dell’escatologia da parte di Kant, arricchirà senza dubbio il quadro concettuale sin qui presentato, fornendo l’opportunità di alcune brevi valutazioni conclusive. Il breve trattato La fine di tutte le cose, scritto nel 1794, in concomitanza con la seconda edizione di La religione, presenta in maniera unitaria e rigorosa la summa del pensiero di Kant su questioni riguardanti la filosofia della storia e i suoi rapporti con le dottrine etico-religiose. La prima questione affrontata riguarda la relazione tra tempo e fine: che cosa s’intende quando si dice a un uomo morente, che egli, uscendo dal tempo, si avvia verso l’eternità? Quest’affermazione riposa su di una concezione continuativa del 16 17
Cf. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in: Angelus Novus, cit., p. 26. Si veda quanto scrive in tale senso Scholem, op. cit., p. 100-08.
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tempo, secondo cui l’uomo, in realtà, non ne sortirebbe mai, passando da un tempo fisico a una dimensione noumenica del tempo, di cui non possiamo farci alcun concetto. Se però, a prescindere dalla sua realtà, diamo credito dal punto di vista morale a questa idea di un’uscita dal tempo, allora ci troviamo di fronte non alla fine di tutte le cose, intese come possibili oggetti di esperienza, ma all’inizio di un proseguimento “sovrasensibile”, di cui non possiamo dare alcuna determinazione se non morale.18 È “l’ultimo giorno” a rappresentare, dunque, la vera fine di tutte le cose, ossia quel giorno in cui l’uomo sarà chiamato a rendere conto del suo operato, e quel giorno sarà anche l’inizio dell’eternità con il destino contrassegnato dalla sentenza ultima. Ma, si chiede Kant, come interpretare questo tempo dopo il tempo? Non certamente in senso “fisico”, bensì esclusivamente in senso morale: La rappresentazione di quelle cose ultime che devono sopraggiungere dopo l’ultimo giorno va considerata come una figurazione sensibile di esso insieme alle sue conseguenze morali, per noi del resto non concepibili teoreticamente (ivi, 176-77)
Rispetto alla questione del giudizio finale e del suo duplice esito, condanna o accoglimento in paradiso, Kant esprime la convinzione che esso sia d’importante valore pratico, perché in questo modo l’uomo cerca di formarsi un giudizio nella sua coscienza sulla propria condotta morale. Ma perché l’uomo attende una fine del mondo? Ebbene la risposta è fornita da Kant sulla base del valore attribuito dagli uomini al mondo, che è connesso allo scopo finale che essi cercano di perseguire, poiché se non fosse raggiungibile alcuno scopo finale, la stessa creazione apparirebbe priva di senso “come una rappresentazione teatrale che non abbia epilogo e non dia possibilità di riconoscere alcun intento” (ivi, 179). Sul motivo per il quale, invece, la figurazione dell’ultimo giorno consista sempre in immagini terrificanti, Kant afferma che ciò dipende dall’opinione comune sulla corruzione propria al genere umano, per cui la fine terrificante sarebbe l’esito coerente con la presenza di una giustizia suprema. Kant ritiene che il cammino del progresso sia disarmonico, poiché ai miglioramenti dell’umanità dal punto di vista culturale, economico ed estetico, corrispondono miglioramenti molto più lenti dal punto di vista morale, e tutto ciò è molto pericoloso per la vita etica, “poiché i bisogni crescono in misura molto maggiore rispetto ai mezzi per soddisfarli” (ivi, 181). Tuttavia Kant è del parere che, visto il progresso dell’umanità, l’ultimo giorno possa configurarsi più come 18 Immanuel Kant, Das Ende aller Dinge, in: Kant-Werke, vol. VI, WBG, Darmstadt 1998, p. 175-76.
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l’ascensione di Elia in cielo che come lo sprofondare negli inferi della tribù di Korah. Ma lo stesso filosofo è consapevole, al di là di ogni “eroica fede nella virtù”, che un più vigoroso influsso alla conversione degli animi si debba al terrore con cui si immagina la comparsa della fine di tutte le cose. D’altro canto, secondo Kant, non si può avere nessuna concezione valida conoscitivamente dell’idea di eternità, e se questa fosse una continua trasformazione all’infinito, non potrebbe servire a nient’altro se non a favorire la continuazione di una condotta morale che passi dal bene al meglio da parte dell’uomo noumenico, al fine di non trasformare l’intenzione che dirige il suo comportamento all’infinito. Se invece il tempo della fine fosse un’immobilità totale, la stessa natura si irrigidirebbe e si pietrificherebbe, e il tempo sarebbe scandito dal medesimo inno di lode celeste o di lamento infernale. Nella sua interpretazione Taubes vede in Kant la profonda trasformazione dell’escatologia, che da metafisica diventa trascendentale: Il nomos è il vero autos. In tal modo l’ultima escatologia dello spirito si rivela come identità di nomos e autos. Nell’autonomia il nomos si identifica con l’autos. Le cose ultime non sono più heteros nomos, Dio e le cose del mondo. Bensì il presupposto del proprio essere spirituale.19
Ma questa trasformazione trascendentale dell’escatologia porta con sé una conseguenza fondamentale per la questione del bene comune, legando inscindibilmente l’escatologia dell’individuo e quella della società: la via verso il perfezionamento morale non può coinvolgere esclusivamente il singolo, altrimenti ogni tentativo di preservarsi dal male resterebbe vano. Quindi gli sforzi di promuovere la moralità da parte dell’individuo devono essere volti non esclusivamente a se stesso, ma al tutto costituito dal genere umano. Si comprende ancora meglio, allora, perché l’escato-logia di Kant sia stata definita una escato-prassi o una escato-etica.20 Le immagini escatologiche, benché private di ogni contenuto conoscitivo da parte di Kant, favoriscono l’incamminarsi dell’uomo copernicano – ossia di colui che, secondo Taubes, ha preso coscienza della distanza incolmabile tra cielo e terra e del proprio dominio sulle cose del mondo – verso l’individuazione di princìpi morali che regolino la vita etica. Ma il cuore delle differenti prospettive escatologiche tra Benjamin e Kant credo vada rinvenuto sulla concezione temporale del passaggio dal tempo 19
Jakob Taubes, Escatologia occidentale, Garzanti, Milano 1997, p.179. Cf. Josef Wohlmuth, Mistero della trasformazione. Tentativo di una escatologia tridimensionale in dialogo con il pensiero ebraico e la filosofia contemporanea, Queriniana, Brescia 2013, p. 151 ss. 20
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profano a quello escatologico. Mentre per Benjamin l’avvento del regno non porterà tanto a un nuovo tempo, quanto alla riconsiderazione del tempo accaduto precedentemente, attraverso un compimento che consiste nello svuotamento di significato per un’assunzione di valore completamente nuova,21 motivo per cui la natura tutta attende la fine del suo essere caduca, per Kant invece, pur nel significato esclusivamente pratico delle figurazioni escatologiche, rimane inattingibile la conclusione del cammino umano, e anche la prospettiva di procedere dal bene al meglio, nel momento in cui la meta finale rimane irraggiungibile, si rivelerebbe una via contrassegnata sempre dal male in confronto al termine ultimo. Per questo motivo la saggezza umana consiste nell’utilizzare la propria ragione pratica secondo le proprie regole, ossia in conformità con il fine ultimo di tutte le cose, il Sommo bene. In conclusione una tensione escatologica può risultare efficace per una trasformazione della politica, in vista del compimento del bene comune, solamente nel momento in cui lascia spazio alla trasformazione continua del bene comune, interpretando la parousia messianica non come il dissolvimento del tempo profano, ma come la sua trasvalutazione continua, ossia come la trasformazione qualitativa del tempo profano; questa metamorfosi del tempo, ossia questo cambio della forma del tempo profano sorgerebbe innanzitutto da una relazione ininterrotta con l’eternità, entro l’orizzonte pratico del tempo della fine. L’escatologia ha quindi un valore politico di estrema importanza, soprattutto per la costruzione del bene comune, nel momento in cui feconda con la sua tensione il cammino verso la giustizia.
21 Questo aspetto del tempo messianico è stato evidenziato soprattutto da Agamben, il quale lo collega a un verbo utilizzato più volte da Paolo di Tarso nelle sue epistole katargeo, e che Lutero tradusse con aufheben in senso di svuotamento e superamento (cf. Giorgio Agamben, op. cit., p. 92 ss.).
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Giacomo Rinaldi, L’idealismo etico di Thomas H. Green §1. La “metafisica della conoscenza” di Thomas H. Green Thomas Hill Green (1836-1882) è certamente uno dei più significativi esponenti della filosofia dell’Idealismo britannico. Professore di Filosofia morale all’Università di Oxford dal 1877 alla morte, egli desunse dall’accurato studio della filosofia di Hume, da un lato, e dall’influsso del pensiero di F.H. Bradley1, di cui fu collega nella medesima Università, dall’altro, la ferma convinzione dell’insuperabile inconsistenza, teoretica ed etica, dell’Empirismo e dell’Utilitarismo dominanti nella tradizione filosofica del suo paese, e della conseguente necessità di cercare piuttosto nel pensiero di Kant e di Hegel una più affidabile guida per la costruzione di un’adeguata teoria etica, di cui egli ci ha dato una sistematica esposizione nella sua opera più importante e più nota, Prolegomena to Ethics, pubblicata postuma nel 1883 dal fratello di F.H. Bradley, A.C. Bradley, con la collaborazione di un altro prominente filosofo idealista inglese, Edward Caird2.
1 Per un’ampia analisi e critica del pensiero di questa cruciale figura della filosofia contemporanea, cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, The Edwin Mellen Press, Lewiston, NY 1992, § 54; Id., Etica e metafisica nell’“idealismo scettico” di Francis H. Bradley, in: “Magazzino di filosofia”, 26/ 2015, p. 17-47; e Id., L’etica dell’Idealismo moderno, Aracne Editrice, Roma 2015, §§ 38-40. 2 Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, ed. by A.C. Bradley, with a Preface by E. Caird, Clarendon Press, Oxford 19065. Gli altri scritti filosofici di Green furono pubblicati negli anni seguenti in: Works of T.H. Green, edited with a Memoir by R.L. Nettleship, 3 vols., Longmans, 1885-1888. I due più importanti sono la sua “Introduzione” all’edizione Longmans delle Opere filosofiche di Hume e il saggio The Principles of Political Obligation. Sul pensiero di Edward Caird cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, cit., § 53, p. 434-35, e § 60, n. 131, p. 491-92, e Id., Ragione e Verità. Filosofia della religione
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Non diversamente da quella di Bradley, la prospettiva filosofica di Green ha carattere rigorosamente idealistico, nella misura in cui egli nega perentoriamente la realtà di qualsiasi oggettività che non si risolva – immediatamente o mediatamente – nel contenuto della nostra autocoscienza; e, nel contempo, metafisico, perché essa ripone il fondamento razionale e il principio generatore della coscienza umana finita, molteplice e transeunte nell’unità assoluta della “coscienza eterna” o del “principio spirituale”. Ma mentre l’autodistruzione del pensiero filosofico, cui l’idealismo scettico di Bradley mette in definitiva capo, lo induce ad avallare una concezione romantica, mistica o, per dirla con Hegel, “panteistico-acosmica” dell’Assoluto come un’indistinta “totalità senziente”, la rivendicazione greeniana della verità e realtà del pensiero autocosciente identifica la sua più adeguata realizzazione nello spirito umano con la sua infinita attività morale; e la “metafisica della conoscenza”, ch’egli pone a fondamento della sua teoria etica, e che concisamente abbozza nella Parte I dei suoi Prolegomena to Ethics, si risolve senz’altro in una consistente forma di idealismo morale, in cui l’eredità della “concezione morale del mondo” kantiano-fichtiana si coniuga inscindibilmente con quella della dottrina hegeliana dell’eticità. Nell’atto in cui noi riflettiamo sulle condizioni di possibilità della nostra esperienza del mondo, noi diveniamo coscienti di un oggetto diverso dal nostro stesso sé. Tale oggetto si presenta immediatamente come una molteplicità di fatti che si giustappongono nello spazio e si susseguono nel tempo, e noi possiamo accertarci della sua realtà mediante una serie di stati di coscienza – sensazioni, intuizioni, percezioni sensibili – che si susseguono anch’esse nel tempo. Ciascuna di esse, dunque, è la coscienza di un individuo singolare e transeunte, che ora “c’è” ma prima non c’era e poi non ci sarà più. Ma io non sono certo, di volta in volta, solo di un individuo singolare; io solo certo anche della molteplicità e della successione – idealmente infinita – di tali fatti o stati di coscienza. Ma come è ciò possibile, se la mia coscienza si esaurisce senza residuo in tale successione, in cui un solo stato di coscienza è di volta in volta presente e attuale? L’errore tipico dell’empirismo psicologico, ma anche del senso comune, è quello di non distinguere, dalla serie transeunte e molteplice dei nostri stati di coscienza, l’unità di una coscienza identica a se stessa, che, permanendo immutata nell’intera serie, rende possibile la sua apprensione come una unità, la quale, compiutamente sviluppata, viene infine a coincidere con la totalità sistematica della nostra esperienza del mondo. Nella misura in cui tale identità della coscienza rende possibile la sintesi del molteplice dell’esperienza, non può essere essa stessa un mero fatto o stato particolare di coscienza (ciò, infatti, e metafisica dell’essere, Aracne Editrice, Roma 2010, Parte II: “Lo sviluppo storico della filosofia della religione”, p. 466-72.
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darebbe luogo a un irrazionale regressus in infinitum); e, di conseguenza, siccome i fatti particolari sono l’oggetto peculiare dell’intuizione sensibile, non può neppure essere un contenuto o un atto della nostra sensibilità, bensì è il prodotto dell’attività di un principio a essa irriducibile – il pensiero. Dalla molteplicità dei fatti sensibili, temporali e transeunti è perciò necessario distinguere l’unità originaria di un atto del pensiero, che Green opportunamente denomina, in quanto essenzialmente diverso dall’intera sfera della coscienza sensibile, che è inscindibilmente connessa a un organo sensoriale corporeo, come il “principio spirituale”3 dell’esperienza umana, e, in quanto diverso dalla caducità dei fatti temporali, come una coscienza “immobile, eternamente una con sé stessa” (immobile, eternally one with itself)”4. La necessaria distinzione tra l’unità della coscienza eterna e la molteplicità dei fatti sensibili viene tuttavia radicalmente fraintesa qualora essa sia concepita, alla maniera di Kant e di molti neokantiani5, come la contrapposizione dualistica tra due entità eterogenee e originariamente indipendenti: l’unità sintetica originaria dell’appercezione, da un lato, che unifica il molteplice dell’intuizione sensibile imprimendo in esso il sistema delle sue leggi a priori, e le “cose-in-sé”, dall’altro, la cui azione sulla nostra sensibilità sarebbe la causa della presenza di tale molteplice nella nostra esperienza. Sostenendo questa concezione, Kant non si accorge di incorrere in due fondamentali errori gnoseologici: anzitutto, quello di affermare l’esistenza di una realtà che per definizione trascende la nostra autocoscienza, e che perciò non può per principio essere un contenuto in essa immanente, e, di conseguenza, un oggetto della nostra conoscenza, non solo quanto alla sua essenza, bensì pure quanto alla sua mera esistenza (a differenza, ancora una volta, di Kant, infatti, Green comprende ottimamente6 che tra “that” e “what” non c’è alcuna differenza reale o dualismo: l’esistenza non è che la forma implicita, virtuale dell’essenza, e l’essenza, viceversa, è la stessa esistenza compiutamente sviluppata). In secondo luogo, affermando che la cosa-in-sé è la causa della genesi del molteplice della sensazione nella nostra coscienza, Kant viola palesemente un altro principio fondamentale della sua Filosofia critica, e cioè che le categorie dell’intelletto, quali appunto quella della causalità, sono passibili solo di un “uso empirico”7, possono cioè connettere solo i dati dell’esperienza sensibile, ma non essere usate in maniera “trascendente” per 3
Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 53-62. Cf. ivi, p. 62. 5 Cf. G. Rinaldi, La filosofia dei valori di Heinrich Rickert e l’autoconfutazione dell’epistemologia neokantiana, in: “Magazzino di filosofia”, 24/ 2014, p. 157-204. 6 Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 21. 7 Cf. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in: Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischer Akademie der Wissenschaften, Bd. III, hrsg. von B. Erdmann, Berlin 1911, p. 116-18 (B 146-49). 4
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spiegare l’origine del contenuto dell’esperienza mediante un concetto a essa radicalmente eterogeneo qual è per l’appunto quello della cosa-in-sé. Il rapporto tra l’unità della coscienza eterna e la molteplicità temporale dei suoi contenuti dev’essere perciò concepito in maniera diversa da quella suggerita da Kant. Noi possiamo rappresentarci distintamente il molteplice sensibile solo nell’atto in cui ne diveniamo consapevoli; ma noi possiamo divenirne consapevoli solo unificando in maniera universale e necessaria a priori le differenze percepite in virtù dell’attività sintetica della coscienza eterna in noi. Dunque, il molteplice sensibile è, in quanto tale, privo di esistenza reale; quando fissiamo il suo concetto come una realtà indipendente dalla coscienza eterna, perciò, non facciamo in realtà altro che generare nel nostro pensiero un’astrazione che, per quanto necessaria “per noi”, cioè alla nostra riflessione empirica, è tuttavia “in sé” priva di realtà. Viceversa, quando teorizziamo il concetto della coscienza eterna, non possiamo evitare di attribuire a esso una identità con sé, che lo trasforma in un oggetto ideale indipendente; ma esso è in realtà solo un’attività sintetica, è il principio formale dell’esperienza, e come tale è assolutamente inscindibile dal molteplice che esso unifica, o dalla materia che esso informa. Quanto poco, perciò, è legittimo affermare la realtà di una materia della sensazione indipendente dalla coscienza eterna, tanto poco è legittimo postulare la realtà di una coscienza eterna che sia radicalmente altra o trascendente rispetto al mondo dell’esperienza sensibile. L’unità del principio spirituale, che è la stessa unità dell’esperienza, dev’esser perciò concepita come una Totalità organica, vivente, infinita, che comprende in se stessa sia l’unità della sua attività spirituale che la molteplicità dei suoi contenuti sensibili, i quali, di conseguenza, lungi dall’essere “cose” fisse e indipendenti, sono solo “momenti ideali” di un’unica, onnicomprensiva realtà. Green replica8 quindi in maniera convincente alla consueta objezione che l’empirismo naturalistico ed evoluzionistico solleva contro la concezione idealistica che la realtà sia un prodotto dell’attività di una coscienza eterna o di un principio spirituale: e cioè che, per quanto sia innegabile che l’unità sintetica dell’esperienza non si spiega senza ammettere l’identità dell’autocoscienza, quest’ultima potrebbe tuttavia essere plausibilmente “explained away” dalle scienze naturali come nulla più che un “fatto” prodotto nella coscienza dell’individuo dalla precedente evoluzione degli organismi viventi, e rientrante quindi anch’esso, in ultima istanza, nella più originaria e comprensiva totalità materiale della natura. Chi sostiene questa teoria trascura di riflettere sul fatto che, qualora la stessa coscienza eterna non fosse
8
Cf. ivi, p. 94-96.
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altro che un fatto contingente, prodotto nel tempo dall’evoluzione della natura, tornerebbe a riproporsi il problema di come noi possiamo divenir consapevoli dell’esistenza di tale fatto, e quindi verificare la plausibilità della tesi che ci viene proposta. Il “fatto” dell’identità della coscienza sarebbe infatti, in quanto tale, un evento nella serie temporale dei fenomeni naturali; ma la coscienza di tale successione è possibile solo se si ammette la presenza e permanenza in essa dell’identità sovratemporale e onniinclisiva di una coscienza che, come tale, si distingue essenzialmente da ogni possibile fatto sensibile o stato della coscienza empirica, e coincide piuttosto col “principio spirituale”, che così – contrariamente a quanto i sostenitori dell’empirismo evoluzionistico pretendono – non può essere plausibilmente spiegato come il mero risultato causale di qualsiasi processo naturale. La “metafisica della conoscenza” di Green culmina nell’abbozzo di una critica serrata, intransigente, persuasiva di ogni possibile concezione materialistica o naturalistica del mondo, che mostra9 con innegabile acume come molte delle più fruttuose teorie sviluppate sulla sua base – a es., l’evoluzionismo darwiniano –, lungi dal poter dare esaustivamente ragione della presenza del principio spirituale nell’uomo, possono e debbono essere, viceversa, spiegate solo quale riflesso della sua attività nel nostro pensiero. Tutto ciò che le teorie evoluzionistiche sono riuscite a provare empiricamente, infatti, è solo l’esistenza di particolari processi evolutivi in particolari specie biologiche; l’estensione del concetto dell’evoluzione alla totalità dell’universo (naturale e umano), quale principio esplicativo unitario ed esaustivo della sua genesi e sviluppo, si spiega solo col fatto che nell’uomo, in quanto essere razionale e spirituale, è presente e attiva l’idea della Totalità, che induce il nostro pensiero a cercare forme di unità dei fenomeni sempre più organiche, comprensive, sistematiche, una delle quali è per l’appunto la concezione evoluzionistica dei fenomeni biologici. La critica greeniana del naturalismo e dell’evoluzionismo è sicuramente di cruciale rilevanza per la costruzione della sua filosofia morale, perché essa esclude per principio la possibilità di sostenere l’esistenza di qualsiasi (parziale o totale) condizionamento dell’umano volere da parte della causalità naturale, riconoscendo così pienamente a esso quella “libertà trascendentale”, cioè autonomia e autodeterminazione, che costituisce, come abbiamo già avuto modo di osservare altrove10, una delle più valide e decisive acquisizioni della filosofia dell’Idealismo moderno, che consente di concepire l’intera Etica come una sorta di “metafisica della libertà” o di “Filosofia dello spirito oggettivo”.
9
Cf. ivi, p. 213-214.
10 Cf. G. Rinaldi, Teoria etica, Edizioni Goliardiche, Trieste 2004, §§ 38-40 , e Id., L’etica
dell’Idealismo moderno, cit., §§ 21-36.
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La conoscenza umana si realizza, dunque, solo in quanto la coscienza eterna unifica la molteplicità dei dati sensibili nel sistema totale dell’esperienza. Ma l’intuizione di tali dati è possibile solo mediante organi sensoriali (vista, udito, odorato, gusto e tatto), che sono partes integrantes di un organismo animale che è esso stesso un fatto particolare del mondo sensibile, e con cui la coscienza umana si identifica nell’atto della percezione sensibile. Il sé, dunque, diviene cosciente di sé non solo in quanto coscienza eterna, cioè principio universale assoluto di ogni possibile coscienza soggettiva, bensì anche in quanto soggetto finito, io empirico, sé individuale. Qual è, dunque, il carattere della relazione tra la coscienza eterna e la coscienza finita? La cruciale rilevanza, non solo teoretica ma anche etica, di questo interrogativo diviene immediatamente palese non appena si rammenti che Green stesso, pur opportunamente osservando che, in sede di filosofia, “è generalmente desiderabile evitar l’uso del linguaggio teologico”11, non nega una sostanziale analogia tra tale concetto e quello teologico di “Dio”, e così il problema del chiarimento di tale relazione viene a coincidere, in sostanza, con quello metafisico tradizionale del rapporto tra Dio e uomo, o della possibilità e necessità della creazione, e la sua rilevanza etica consiste ovviamente nel fatto che, secondo le concezioni teologiche tradizionali dell’etica, il fondamento ultimo della stessa validità delle norme morali sta per l’appunto nella loro origine o sanzione divina. Green condivide, a tale proposito, la tesi fondamentale sostenuta dalla teologia cristiana tradizionale e dallo stesso criticismo kantiano, e cioè che, siccome la nostra conoscenza concerne o “dati di fatto” (matters of fact) o “relazioni”, e la coscienza eterna, essendo la condizione di possibilità di ogni fatto e relazione, non è essa stessa un fatto o una relazione12, ed è perciò, a rigore, inconoscibile, noi non possiamo formarci un’idea adeguata della sua essenza. Tutto ciò, che a proposito di essa possiamo legittimamente affermare, è che essa “c’è”, nel senso che è reale, che non è soltanto un’astratta idea regolativa del “nostro” pensiero, e che essa, in ragione della sua essenziale infinità e immutabilità (predicati, questi, essenzialmente inerenti nella sua identità eterna), si distingue essenzialmente dall’autocoscienza umana, che è invece, nella sua sostanza, lo sforzo infinito di realizzare un “modello” di “perfezione” morale, che rimane tuttavia per principio inattingibile, sì che la relazione tra le due coscienze può esser solo quella tra il perfetto “originale” divino e la sua imperfetta “riproduzione” nell’uomo. Queste asserzioni di Green hanno indotto alcuni interpreti del suo pensiero a considerare la sua metafisica della
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Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 62: “the use of theological language […] it is generally desirable to avoid”. 12 Cf. ivi, p. 362.
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conoscenza come una rinnovata versione del teismo tradizionale, e ad annoverarlo addirittura tra gli esponenti della cosiddetta “Destra hegeliana”13. Si tratta, in realtà, di un’inferenza storicamente illegittima, perché, a onta di alcune certamente fuorvianti formulazioni occasionali di Green, essa si distingue essenzialmente dal Dio personale trascendente della teologia tradizionale per almeno tre fondamentali ragioni: (1) laddove quest’ultimo è un Ente trascendente intelligibile che esclude dalla propria identità la fatticità del mondo sensibile, la coscienza eterna di Green è una totalità spirituale, che, proprio come lo Spirito assoluto di Hegel, contiene in sé stessa, come si è poc’anzi accennato, la stessa molteplicità dei dati dell’intuizione sensibile; (2) laddove l’essenza del Dio personale trascendente si rapporta dualisticamente non solo a quella della natura da lui creata, bensì pure alla stessa coscienza umana, Green, in uno dei luoghi più profondi e suggestivi dei suoi Prolegomena14, dichiara esplicitamente che, se può essere plausibile concepire in tal modo il rapporto tra Dio e la natura, tale prospettiva dualistica diviene invece falsa quando sia applicata alla relazione tra Dio e il sé individuale, perché in quest’ultimo, nella misura in cui unifica il molteplice sensibile nell’identità di un oggetto, è eo ipso immanente l’attività della coscienza eterna, e perciò le due coscienze sono in realtà una sola; e infine (3) laddove l’intera teologia e metafisica tradizionale attribuisce alla religione e alle sue rappresentazioni la facoltà di rivelare l’essenza del Divino in una maniera più certa e profonda di quanto sia concesso alla finita ratio dell’uomo15, Green, seguendo palesemente, a questo proposito, le orme della filosofia hegeliana della religione, rovescia senz’altro tale indebito rapporto di “subalternazione”, insistendo, da un lato, sull’insuperabile imperfezione dell’immaginazione religiosa16, e, dall’altro, sull’assoluta identità tra “la ragione trascendente e la ragione immanente”. che non sono infatti altro che “differenti aspetti di un’unica e medesima realtà, che è l’operazione dello spirito divino nell’uomo”17 – anche se, conformemente alla sua accennata 13 Cf. G. de Ruggiero, La filosofia contemporanea, Bari, Laterza 19623, Parte III, cap. 2, § 2: “La destra hegeliana: Green”, p. 323-27. 14 Cf. Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 215-216: “This consideration may suggest the true notion of the spiritual relation in which we stand to God; that He is not merely a Being who has made us, in the sense that we exist as an object of the divine consciousness in the same way in which we must suppose the system of nature so to exist. He is a Being in which we exist; with whom we are in principle one; with / whom the human spirit is identical, in the sense that He is all which the human spirit is capable of becoming”. 15 Cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità. Filosofia della religione e metafisica dell’essere, cit., Parte III: “Critica della metafisica dell’essere”, p. 568-588. 16 Cf. Th. H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 385-396. 17 Cf. ivi, p. 253: “reason without and reason within, reason as objective and reason as subjective […] these being but different aspects of one and the same reality, which is the operation of the divine mind in man”.
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concezione della nostra conoscenza, tale ragione ha fondamentalmente un carattere piuttosto pratico (etico) che teoretico (speculativo), com’era invece il caso di Hegel. Possiamo, dunque, concludere che la metafisica della conoscenza di Green mette capo a una profonda – quantunque, sul piano teoretico, inadeguatamente sviluppata – concezione immanentistica, o, meglio “panenteistica”18, dell’Assoluto, ch’egli condivide pienamente coi maggiori esponenti della filosofia dell’Idealismo moderno. § 2. La critica greeniana dell’Edonismo e dell’Utilitarismo La sommaria metafisica della conoscenza di Green, da noi ora accennata, diviene nei suoi Prolegomena il fondamento teoretico di un’ampia, organica e dettagliata filosofia morale, in cui il lettore ha il piacere di riscontrare non solo una compiuta e consistente sistemazione dei principali risultati filosofici conseguiti dall’etica dell’Idealismo moderno, ma anche sviluppi teorici indubbiamente originali e stimolanti. In essa possiamo distinguere due aspetti fondamentali: una pars destruens, che mostra con impareggiabile sottigliezza e acume l’insuperabile inconsistenza di ogni possibile etica edonistica o utilitaristica; e una pars construens, che consiste invece nell’abbozzo di un’“etica della perfezione” e in una interessante rivendicazione del suo “valore pratico” per la direzione della condotta individuale e per la risoluzione dei “casi di coscienza”. La critica greeniana dell’Edonismo e dell’Utilitarismo presenta indubbie analogie con quella svolta qualche anno
18 Il termine “panenteismo”, com’è noto, è stato coniato dall’allievo di Fichte K.Ch. Krause (1781-1832) per designare la propria prospettiva filosofica in contrapposizione sia al teismo trascendente della metafisica e della teologia tradizionale che al punto di vista del “panteismo” naturalistico, ed è stata recentemente ripresa da Robert Williams per caratterizzare l’essenza della stessa fondamentale concezione speculativa hegeliana, ch’egli opportunamente difende, del Vero Infinito come unità dinamica e dialettica del finito e dell’(astratto) Infinito. Noi condividiamo senz’altro la sua insistenza sul ruolo cruciale che questa dottrina metafisica svolge nell’intero pensiero hegeliano, e la riteniamo in sostanza equivalente a quella di “panteismo idealistico”, con cui noi abbiamo designato l’adeguata definizione dell’essenza del Divino che l’odierna Filosofia della religione può e deve formulare in polemica sia contro il tradizionale teismo trascendente che contro le diverse varianti dell’ateismo contemporaneo. Cf. G. Rinaldi, Ragione e Verità, cit., Parte I: “Filosofia della religione”, cap. 7, p. 173-85; e R. Williams, Tragedy, Recognition, and the Death of God: Studies in Hegel and Whitehead, Oxford University Press, Oxford 2012, p. 15. Per una recente interpretazione e valutazione della metafisica neohegeliana di Williams Cf. G. Rinaldi, Tragedia, riconoscimento e morte di Dio, in: “Magazzino di filosofia”, 23/ 2014, p. 119-45.
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prima da Bradley19, ma si distingue anche da essa per una maggiore ampiezza delle tematiche prese in considerazione e per una più marcata forza di persuasione e sottigliezza analitica. I fondamentali assunti, che le due prospettive critiche condividono, sono, da un lato, la tesi ermeneutica che il principio dell’Utilitarismo è, in definitiva, riducibile a quello dell’Edonismo, e, dall’altro, la tesi metafisica che il movente ultimo del comportamento umano non è il bisogno, desiderio o impulso naturale, bensì il principio “spirituale” della Ragione autocosciente. Il piacere, Green anzitutto osserva20, è uno stato immediato della nostra autocoscienza pratica, e come tale può essere consaputo solo in virtù della sintesi del molteplice resa possibile dalla presenza del principio spirituale in noi. Tale sintesi trasforma la molteplicità delle nostre sensazioni o degli impulsi naturali nell’unità di un oggetto, che, nel caso della volontà, diventa il fine ch’essa immediatamente persegue. La volontà, dunque, vuole anzitutto un oggetto, sia esso un bene reale o l’idea della verità. Ma il piacere è solo uno stato soggettivo, individuale, “privato” del sé singolare, è il sentimento della soddisfazione di sé che consegue dalla riuscita, non impedita realizzazione del fine di volta in volta perseguito dalla volontà. Da questo punto di vista, esso è certamente un elemento essenziale e affermativo dell’autocoscienza umana, ma solo in quanto elemento concomitante o conseguente del processo del volere, e non già in quanto suo fine ultimo o causa determinante. Come già aveva osservato Bradley, dunque, il primo e fondamentale limite dell’etica utilitaristica o edonistica è quello di fraintendere l’essenza del suo stesso principio ultimo ed esclusivo – il piacere – trasformandolo indebitamente nella causa della sua vera causa, e degradando quest’ultima, viceversa, a un mero mezzo utile al suo conseguimento. A differenza di forme più radicali di Edonismo, quali quelle sostenute da Epicuro e da J. Bentham, J.S. Mill si rende conto che il piacere, in ragione della sua immediata particolarità, è uno stato d’animo inscindibilmente connesso alla soddisfazione dei bisogni naturali, corporei del sé singolare, e che, di conseguenza, la sua elevazione a unico valore e fine ultimo dell’umano agire offende il comune sentimento etico; e corre ai ripari affermando21 la legittimità di una discriminazione qualitativa dei piaceri, che consente di
19 Cf. F.H. Bradley, Ethical Studies, H.S. King & Co., London 1876 (reprint Thoemmes Antiquarian Books 1990), p. 78-127; e anche G. Rinaldi, L’etica dell’Idealismo moderno, cit., § 39. 20 Cf. Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 174-83. 21 Cf. J.S. Mill, Utilitarianism, in: Id., Essays on Ethics, Religion and Society, ed. by J.M. Robson, London-Toronto 1969, p. 203-59, qui 210-11, e anche G. Rinaldi, Teoria etica, cit., § 30.
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distinguere, a es. – come già fu il caso di Platone e di Aristotele –22, tra “piaceri nobili”, quali quelli derivanti dalla contemplazione estetica o dall’attività intellettuale, e “piaceri volgari”, quali i piaceri carnali, e rivendicando il primato assiologico dei primi sui secondi. Green acutamente obietta, come già Bradley23, che per effettuare tale distinzione è necessario presupporre la validità di un criterio razionale che, comunque ulteriormente configurato, non può in ogni caso essere derivato dalla stessa essenza del piacere, che infatti, in quanto immediata, è in sé indifferenziata e indiscriminabile; il che palesemente contraddice al principio stesso dell’Edonismo, e cioè che il piacere sia l’unico valore, movente e incentivo del comportamento umano; e per tale ragione dev’essere altresì respinta come non meno inconsistente l’affermazione di Mill che per l’etica utilitaristica la virtù non è un mero mezzo per conseguire il piacere, bensì è anch’essa un valore intrinseco o fine in sé stesso24. È dunque per principio impossibile una discriminazione qualitativa dei piaceri dal punto di vista dell’Utilitarismo. Ma ciò significa forse che è anche impossibile discriminarli quantitativamente? È noto che l’assunto cruciale dell’intera etica utilitaristica è l’affermazione della possibilità di principio di elaborare un “calcolo dei piaceri e dei dolori” che, mediante la quantificazione dei piaceri e dei dolori secondo il loro numero, la loro intensità e la loro durata, e quindi la somma dei valori positivi così ottenuti e la sottrazione di quelli negativi, ci consentirebbe di determinare in maniera “scientificamente” valida qual è il massimo piacere che in una determinata situazione è per noi possibile conseguire, e che coincide senz’altro col bene oggettivo, reale, incondizionato che la nostra volontà può e deve perseguire. La prima objezione di Green è che il teorico dell’Utilitarismo fraintende, di nuovo, sia l’essenza del piacere che quella delle operazioni aritmetiche. Il piacere, infatti, è uno stato d’animo immediato, particolare della coscienza sensibile, laddove il calcolo aritmetico è il prodotto di una operazione dell’intelletto finito, che come tale è una funzione della riflessione, operante mediante concetti generali, sintesi predicative e regole inferenziali, che sono, in realtà, la radicale negazione dell’immediatezza dell’intuizione e dell’impulso sensibile. Nella misura in cui diviene l’oggetto di un calcolo aritmetico, dunque, l’essenza del piacere viene estraniata a sé stessa, diviene una costruzione della riflessione, che, come tale, non è uno stato d’animo piacevole, e neppure una fonte diretta o indiretta di piacere. “Una somma di 22
Cf. Platone, Philebus, ed. by H.N. Fowler, W. Heinemann, London 19524, 10-11, 20b23b; 16, 28d-31b; 38-42, 60d-66d; Aristotele, Ethica Nichomachea, rec. F. Susemihl, Lipsiae 19123, I, 3, 1095b 16-20. 23 Cf. F.H. Bradley, Ethical Studies, cit., p. 85. 24 Cf. Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 183-92.
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piaceri”, conclude perciò ottimamente Green, “non è un piacere”25. La seconda, non meno acuta objezione è che l’idea di una somma, in quanto sintesi estrinseca di elementi eterogenei, implica la possibilità della loro giustapposizione, cioè esistenza simultanea (com’è il caso, a es., delle cose materiali nello spazio fisico), laddove i piaceri, in quanto stati d’animo dell’io empirico, si susseguono nel tempo, e ciò significa che essi possono esistere, ed essere goduti dall’individuo, solo uno dopo l’altro: il piacere reale, dunque, è quello che io godo qui e ora; tutti gli altri piaceri che non sono per me qui e ora semplicemente non esistono, e perciò la maggiore somma dei piaceri possibili è in realtà solo un’astrazione contraddittoria. Non meno inconsistenti del criterio del maggior numero possibile di piaceri sono quelli, coi quali esso viene in genere integrato dai teorici dell’Utilitarismo, e cioè la loro maggiore intensità e durata possibile. Green osserva26 giustamente che noi non disponiamo di uno strumento per misurare la diversa intensità del piacere che il godimento del medesimo oggetto produce in individui differenti; ma anche se l’avessimo, esso non ci fornirebbe il risultato richiesto, perché il piacere, in ragione della sua immediatezza sensibile, è uno stato d’animo radicalmente particolare, diverso da individuo a individuo, laddove la misura della sua intensità presuppone che esso sia invece una grandezza omogenea, che nei diversi individui è solo quantitativamente differente. Analoga è l’objezione che si può rivolgere contro il criterio della maggior durata possibile del piacere. È vero che una breve serie di piaceri intensi, che produca conseguenze dolorose per il resto della vita di una persona, non può senz’altro sembrare oggettivamente preferibile a una serie di piaceri meno intensi, le cui conseguenze non siano tuttavia dolorose, o lo siano per una minore durata; ma anche qui il fattore decisivo è la particolare costituzione fisica della persona in questione, il che rende in definitiva inapplicabile anche tale criterio. L’opportuno esempio addotto da Green27 è quello di una persona che, sapendo di essere prossima alla morte, ha ogni ragione di preferire la serie di piaceri intensi ma alla lunga nocivi, ben sapendo che quando le loro conseguenze dolorose diverranno avvertibili essa non ci sarà più. La peculiare temporalità e caducità del piacere costituisce infine il motivo di una terza obiezione di Green28, che mette in questione la congruenza tra tale stato d’animo e l’essenza del volere. Quest’ultimo, come si è detto, è l’attività dello spirito umano che persegue la realizzazione di un fine, la cui identità oggettiva viene costituita dall’immanenza in esso della coscienza eterna, e che perciò non può essere meno stabile e permanente di questa. Lo spirito umano, perciò, si può realizzare pienamente solo nella misura in cui 25
Cf. ivi, p. 258: “A sum of pleasures is not a pleasure”. Cf. ivi, p. 413. 27 Cf. ivi, p. 414. 28 Cf. ivi, p. 259-61 e 264-68. 26
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gli atti, in cui il processo del volere si determina, contribuiscono a creare un mondo morale, quale, a es., l’eticità di una famiglia, la cui identità spirituale sopravviva alla caducità dell’individuo29; e tale non è certamente il caso di un comportamento pratico, quale quello raccomandato dall’utilitarista, che si esaurisce nel mero perseguimento di una casuale somma di piaceri transeunti e perituri. Più differenziato è il giudizio di Green su quello che è un altro assunto cruciale della versione “altruistica” dell’Utilitarismo proposta da Mill, e cioè che l’utilità, ch’egli identifica col principio etico, non è già il piacere “egoistico” dell’individuo isolato, bensì la felicità del maggior numero possibile di “esseri senzienti” (uomini, ma anche animali, nella misura in cui si suppone che anch’essi provino sentimenti di piacere e di dolore)30. Il principio etico viene perciò da lui concepito come un ideale universale, che, come tale, non è un oggetto della coscienza sensibile, bensì della ragione (come verrà messo esplicitamente in rilievo da un altro teorico dell’Utilitarismo, Henry Sidgwick)31, ed è perciò almeno formalmente identico a quel principio spirituale che Green pone a fondamento dell’Etica. D’altra parte, Mill è anche consapevole che l’idea della maggiore felicità possibile del maggior numero possibile di esseri senzienti è solo un’esigenza, un dover-essere, cui si contrappone una realtà sociale, in cui la maggioranza degli individui non sa o non può conseguire la massima felicità idealmente possibile. Il teorico dell’Utilitarismo appare perciò animato da uno zelo umanitario e riformatore, che vuole correggere le attuali ingiustizie sociali alla luce del principio che “ognuno dovrebbe contare per uno e nessuno per più di uno”32, ovverosia dell’universale eguaglianza degli uomini, per cui tutti avrebbero diritto alla medesima quantità di piacere. Green riconosce anche l’affinità tra questa tendenza umanitaria ed egualitaria dell’etica utilitaristica e alcune tesi fondamentali della propria “etica della perfezione” (cf. infra, § 3); ma anche a questo proposito mette giustamente in rilievo l’incongruenza in essa tra la forma universale del suo principio e il suo contenuto empirico particolare. Anzitutto, lo zelo riformatore di Mill presuppone che il piacere, che nella società attuale gli individui generalmente perseguono, non sia il vero piacere, che solo il calcolo utilitaristico dei piaceri e dei dolori potrebbe stabilire in maniera scientifica, e proprio perciò sarebbe necessaria una trasformazione o addirittura una rivoluzione sociale. Ciò, tuttavia, contraddice palesemente al principio fondamentale dell’Utilitarismo, e cioè che il piacere sia
29
Cf. ivi, p. 268-71. Cf. J.S. Mill, Utilitarianism, cit., p. 223. 31 Cf. Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 430 ss. 32 Cf. ivi, p. 246: “every one should count for one and no one for more than one”. 30
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l’unico movente di ogni comportamento umano o animale, sì che nelle circostanze date il piacere che ciascuno di essi di fatto persegue, anche se è difforme dai requisiti dell’utilitarista, è già il massimo piacere per lui possibile, e perciò le riforme sociali proposte da Mill appaiono, se non altro, superflue. Ma v’è di più. La volontà di effettuare tali riforme presuppone la libertà di farle, e ciò significa, nella prospettiva empiristica dell’utilitarista, ch’egli, e i suoi seguaci, avrebbero la possibilità di trasformare o meno la società attuale a loro discrezione. Anche questo assunto, tuttavia, viene categoricamente smentito dal fatto che, se il piacere è l’unico movente del comportamento umano o animale, la ragione di ciò sta nel fatto che l’uomo, proprio come gli animali, è fondamentalmente un essere naturale, e come tale singolare, contingente, finito, e perciò soggetto alla causalità meccanica universale della natura, che, come tale, è la radicale negazione di ogni vera libertà. D’altra parte, se è vero il principio dell’Edonismo, dovremo escludere anche che il comportamento umano possa essere determinato dall’idea o dal sentimento del dovere; gli unici “doveri”, che ciascun individuo presumibilmente riconoscerà, saranno perciò quelli accompagnati da una sanzione, che eccitano cioè nella sua immaginazione la rappresentazione di un piacere o di un dolore futuro in conseguenza del loro adempimento o della loro violazione. Ma in tal caso è chiaro che i doveri, che hanno effettiva influenza sul comportamento umano, saranno solo quelli “positivi” sanciti dalle istituzioni realmente esistenti (a es., lo Stato); ma l’ideale utilitaristico della maggior felicità del maggior numero possibile di esseri senzienti non rientra certamente in tale categoria. Contrariamente alle aspettative dei suoi fautori, l’etica utilitaristica è dunque destinata a rimanere inefficace, e perciò Green giustamente conclude negando a essa qualsiasi reale “valore pratico”33. Infine, l’ideale universalistico dell’Utilitarismo contraddice palesemente alla radicale particolarità della natura del piacere. In quanto determinazione del senso interno, il piacere è uno stato d’animo del sé privato, che è tale perché esclude da sé un’indefinita molteplicità di altri sé: perché, dunque, io dovrei rinunciare a un piacere che, se goduto da me solo, è triplo di quello che potrebbe essere invece goduto da tre diverse persone? Si può dare una risposta sensata a questo interrogativo solo se si presuppone che ogni persona, in quanto tale, è dotata di un valore intrinseco, e che perciò il valore intrinseco della soddisfazione di tre persone può esser senz’altro ritenuto superiore a quello di una persona sola; ma il fatto è che, in base alla teoria utilitaristica, l’unico valore intrinseco è il piacere, e in tal caso è irragionevole sacrificare un piacere maggiore, quale è quello che io posso godere da solo, a quello tre volte inferiore di tre diverse persone, sebbene la somma complessiva rimanga la stessa, dal momento che, in ragione della 33
Cf. ivi, p. 397-429.
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sua natura esclusiva, il perseguimento del piacere esige che io escluda gli altri dal suo godimento34. Green conclude la sua requisitoria contro l’etica utilitaristica mettendo in rilievo tre ulteriori difficoltà35, che sono particolarmente significative, perché derivano direttamente dal suo peculiare assunto empiristico. La prima è che la maggior felicità possibile del maggior numero possibile di esseri senzienti è solo un’idea-limite priva di realtà, perché nella serie dei numeri naturali sono reali solo le grandezze finite, nessuna delle quali è per principio la maggiore possibile, perché a ciascuna di esse si può sempre aggiungere una unità, dando così luogo alla cattiva infinità del progressus in infinitum. La seconda objezione è che, qualora si restringa l’idea del maggior numero possibile a quella della maggior quantità relativa di un piacere rispetto a un altro, che si ha altresì la facoltà di scegliere, tale determinazione dell’essenza del principio etico è non meno inadeguata della precedente, perché, osserva bene Green, esso esplica, per definizione, il “fine ultimo”, cioè assoluto, della volontà, laddove il criterio accennato ci consente solo di identificare e scegliere un fine relativo: se io devo scegliere A perché il piacere da esso prodotto è maggiore di quello prodotto da B, per la medesima ragione non devo scegliere A se esiste un C che è in grado di produrre in me un piacere maggiore di quello che viene prodotto da A. Infine, mettendo a frutto la fondamentale lezione hegeliana, Green osserva che il piacere, come ogni altra determinazione della natura e dello spirito, è reale solo in quanto unità dialettica di opposti. Ciò significa che tanto più intenso è il piacere che io posso godere quanto più profondo è il dolore che l’ha preceduto: voler produrre uno stato d’animo individuale, o addirittura una società comprendente tutti gli esseri senzienti, in cui il dolore venga abolito, o per lo meno ridotto al minimo possibile, e si realizzi una felicità costante e universale, scevra di ogni dolore e consistente nell’aggregazione di tutti i piaceri possibili, significa in realtà minare alla radice la stessa idea del piacere e della felicità. Possiamo concludere il nostro esame della critica greeniana dell’etica edonistica e utilitaristica osservando che essa coniuga in maniera ammirevole sottigliezza analitica, vigore costruttivo e potenza speculativa, e costituisce senz’altro una delle più valide e perennemente attuali acquisizioni teoretiche dell’etica dell’Idealismo moderno.
34 Si potrebbe, a questo proposito, replicare, con Hume e Mill, che nell’animo umano, oltre alla tendenza al piacere, c’è anche un sentimento disinteressato di benevolenza, per cui noi proviamo piacere a vedere la felicità di un altro anche senza la nostra ma questa ammissione contraddice palesemente al loro fondamentale principio etico, che il piacere (individuale) sia l’unico movente reale del comportamento umano. 35 Cf. ivi, p. 441-45.
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§ 3. L’ideale morale della “perfezione” La pars construens dell’etica di Green è non meno articolata, consistente e convincente della sua accennata critica dell’Edonismo e dell’Utilitarismo. Prendendo opportunamente le distanze da qualsiasi forma di empirismo morale, egli deduce le determinazioni essenziali del principio etico dal risultato fondamentale della sua metafisica della conoscenza: l’idea cioè che la sintesi del molteplice sensibile sia resa possibile dall’immanenza in noi dell’attività “autorealizzantesi” (self-realizing) e “autooggettivantesi” (self-objectifying)36 della coscienza eterna. Quest’ultima, infatti, per quanto in sé stessa compiutamente reale, e anzi coincidente con la stessa totalità del reale (cf. supra, § 1), nella coscienza finita dell’individuo, che nella sfera della moralità si configura più specificamente come la “persona”, assume la forma di un “ideale morale”, di una “perfezione” spirituale che essa deve sforzarsi di realizzare sempre più adeguatamente, pur essendo destinata a rimanere, nella sua prospettiva, che è quella dell’ordinaria coscienza morale, perennemente incompleta. Green loda37, a questo proposito, Kant per aver chiaramente compreso che il principio etico non consiste né nel piacere, né nella felicità, né nell’utilità, bensì in una legge morale o dovere incondizionato che, da un lato, è la “legge divina immanente” in noi, dall’altro è l’idea di una umanità “perfetta”. Tale idea, in ragione della sua assoluta universalità, non è ovviamente l’oggetto dei nostri sentimenti, bisogni o desideri naturali, bensì ci è rivelata dalla nostra Ragione, anzi coincide con la stessa attività della “Ragione in noi”, e perciò Green loda anche la celebre sentenza stoica che la virtù, cioè la moralità dell’individuo, consiste nel “vivere secondo ragione” (ivi, p. 202). Ma la Ragione, prima ancora che un principio dell’azione morale, è un oggetto della coscienza teoretica: la determinazione che Green ci offre dell’essenza del principio etico solleva perciò immediatamente il cruciale problema metafisico della relazione tra teoria e prassi, conoscenza e volontà, e la soluzione ch’egli ne propone è non meno convincente e profonda della sua concezione del principio etico. Sebbene alla coscienza finita immediata pensiero e volontà appaiano come “facoltà” dello spirito umano radicalmente differenti, in quanto nella conoscenza teoretica è inizialmente dato solo l’oggetto, e il soggetto per assimilarlo deve anzitutto adeguarsi a esso, laddove nell’attività pratica un fine originariamente presente alla sola coscienza soggettiva dev’essere realizzato trasformando il mondo immediatamente dato per renderlo adeguato al suo contenuto38, una più profonda considerazione razionale dell’essenza della 36
Cf. ivi, p. 250. Cf. ivi, p. 249. 38 Cf. G. Rinaldi, Il concetto dell’“idealismo”, in “Magazzino di filosofia”, 27/ 2015, § 6. 37
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loro relazione mette capo alla conclusione opposta, e cioè che essi non sono due attività eterogenee dello spirito umano, bensì due diverse forme in cui un unico e medesimo principio spirituale si manifesta. Green osserva39 anzitutto che, nella misura in cui l’essenza dell’autocoscienza consiste nell’unificazione del molteplice dato, la stessa affermazione della differenza tra il pensiero e la volontà implica la loro identificazione nella più originaria unità dell’“atto spirituale” (spiritual act). Ma anche l’analisi del loro contenuto specifico mostra con evidenza come nell’attività del volere sia necessariamente presente e immanente la conoscenza teoretica e, viceversa, come quest’ultima sia impossibile e impensabile se non si ammette, quale suo essenziale elemento costitutivo, l’energia del volere. Volere significa anzitutto agire per realizzare un fine determinato: ma a tal uopo è necessario conoscere la natura delle circostanze esterne, l’idoneità e la concatenazione dei mezzi indispensabili alla sua realizzazione come pure le sue prevedibili conseguenze. Già da questo punto di vista esteriore e finito appare chiaro che è impossibile volontà senza conoscenza. Ma l’immanenza del pensare nel volere diviene ancor più intrinseca e sostanziale non appena si consideri che, se è vero che i desideri, che la volontà tende immediatamente a soddisfare, sono anzitutto e per lo più di genere sensibile, e non sono così un prodotto della pura ragione, è altresì vero che quanto più lo spirito umano realizza il proprio concetto, tanto maggiore è la rilevanza che nella sua stessa vita pratica le idee della Ragione (a es., l’ideale della verità per il filosofo o l’ideale della bellezza per l’artista) conseguono quale principio in ultima istanza determinante dello stesso volere. D’altra parte, prosegue bene Green, è solo nella sfera della coscienza sensibile che il comportamento teoretico presuppone un dato passivo che si sforza quindi di assimilare a sé stesso; nelle più elevate attività spirituali della contemplazione estetica e della riflessione filosofica, al contrario, l’oggetto – proprio come nel caso del volere – si risolve esaustivamente in un prodotto, in una creazione assoluta della stessa Ragione autocosciente. E non meno innegabile è il fatto che ogni possibile forma della conoscenza della verità – anche quella più elementare e immediata concernente l’esistenza empirica degli oggetti nel mondo esterno – esige inevitabilmente concentrazione, sforzo, tensione del volere per il conseguimento di un objettivo che, per tal verso, non si distingue essenzialmente da quelli che il comportamento “pratico” stricto sensu inteso persegue. Dobbiamo perciò respingere anche il tenace pregiudizio del senso comune, che l’attività del pensiero si limiti, come tale, a contemplare delle possibilità ideali, o a formulare delle “ipotesi”, o delle alternative, che possono trovare un riscontro nella realtà oggettiva solo nella misura in cui la volontà, messa in moto dal desiderio, procede a realizzarle. Questa concezione dell’essenza 39
Cf. Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 30ss.
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del pensiero, da un lato, astrae indebitamente il contenuto finito del pensiero ipotetico dalla sua origine nell’atto assoluto dell’autocoscienza, in cui esso è il principio generatore della sua realtà, che è ogni realtà, e in cui perciò pensiero ed essere, soggetto e oggetto si identificano senza residuo. Dall’altro, il desiderio (sensibile) si distingue dalla volontà (razionale) per il fatto che, mentre quest’ultima è un’attività autodeterminantesi, e in tal misura libera – anzi, è la stessa essenza e realizzazione della libertà –40, esso è invece l’aspirazione ad appropriarsi di un oggetto immediatamente dato, che ci appare come piacevole, è perciò una determinazione della coscienza sensibile che, in quanto finita e quindi passiva, è essenzialmente dipendente da altro, è l’attività del non-Io nell’Io, è perciò la contraddizione di sé con sé, e come tale di necessità si toglie, si annulla nel processo del volere. Green perciò giustamente conclude41 che mettere la Ragione al servizio della soddisfazione dei nostri interessi particolari – com’è segnatamente il caso di tutte quelle forme di attività “razionale” che Kant opportunamente chiama “imperativi ipotetici” o “regole dell’abilità” (Vorschriften der Geschicklichkeit)42, e che oggi, dopo Weber e Adorno, potremmo anche designare col termine di “ragione strumentale” o “ratio tecnologica”43 – significa nulla più e nulla meno che mettere la ragione al servizio del vizio. L’attività della “Ragione in noi” è dunque l’unico principio, la condizione nel contempo necessaria e sufficiente per comprendere l’essenza del mondo morale, le forme spirituali determinate, in cui esso si manifesta, e il processo della sua realizzazione nella storia della civiltà umana. Diversamente da quanto riteneva Kant, dunque, l’essenza del mondo morale è intrinsecamente autocosciente; è quindi possibile, in linea di principio, la sua conoscenza in e mediante il pensiero teoretico – anche se Green, a
40 Particolarmente illuminanti sono le considerazioni di Hegel in proposito. Cf. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in: Id., Werke in 20 Bänden, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969-1971, Bd. 3, §§ 481-82; e Id., Grundlinien der Philosophie des Rechts, in: Id., Werke in 20 Bänden, cit., “Einleitung”, §§ 4-7. 41 Cf. Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 204. 42 Cf. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in: Kant’s gesammelte Schriften, cit., Bd. V, hrsg. von P. Natorp, Berlin 1913, p. 20 (37). 43 Per una articolata critica della originaria versione weberiana della teoria della ragione strumentale, e per la sua appropriazione e ulteriore sviluppo da parte della Teoria critica della società, cf. G. Rinaldi, Teoria etica, cit., §§ 90 e 128, n. 26; e Id., Dialettica, arte e società. Saggio su Theodor W. Adorno, Urbino, QuattroVenti 1994, p. 109-10.
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differenza di Hegel (ma anche di Spinoza)44, nega45 recisamente che essa possa esser mai “adeguata”. Egli distingue, anzitutto, in esso due elementi costitutivi fondamentali: la “persona”, che è il soggetto reale del processo del volere, e la “legge” o “ideale morale”, che è il fine o “valore assoluto” che essa si sforza di realizzare. Il concetto della persona46 si distingue da quello dell’autocoscienza perché, mentre quest’ultima è incondizionatamente identica al principio spirituale della realtà, cioè alla coscienza eterna, essa è invece la forma immediata, in cui tale principio si presenta come uno spirito finito, che come tale si distingue da una molteplicità di altri soggetti finiti, e che si riferisce all’ideale morale come a un compito che esso deve adempiere, senza tuttavia poterlo mai realizzare completamente. La persona è dunque l’unico soggetto reale del mondo morale; e da questa tesi Green deriva due conseguenze di cruciale rilevanza filosofica. La prima è che, diversamente da quanto sosteneva Hegel47, la persona non può essere considerata come un “accidente” di una sostanza etica che consisterebbe nello “spirito di un popolo” (Volksgeist) o in una speciale missione morale, che una nazione spiritualmente superiore alle altre avrebbe in proprio il compito di realizzare; a differenza della persona, infatti, lo spirito del popolo non ha una propria autocoscienza, che, tuttavia, per la consistente prospettiva idealistica di Green è il principio di ogni realtà e verità. La seconda è che la persona non può essere considerata – diversamente da quanto sostengono le concezioni evoluzionistiche o materialistiche della storia – come un evento particolare e transeunte inerente in un processo naturale o storico-sociale che 44
Secondo Spinoza, infatti, la mente umana è in grado di formare “idee adeguate” circa l’essenza del principio etico e le modalità della sua realizzazione nella vita reale (cf. B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demontrata, in Id., Opera, c/ C. Gebhardt, Heidelberg 1924, vol. 2, Pars II, Def. IV, e Prop. XXXIV e XXXIX-XLI; Pars IV, Prop. XXVII). Secondo Hegel, l’autocoscienza adeguata che l’Idea logica consegue nel Sapere assoluto si estende anche (sia pur a determinate condizioni) alle stesse scienze della sua realizzazione nella natura e nello spirito. Cf. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in: Id., Werke in 20 Bänden, cit.,. p. 575-591 (= GW, p. 422-434), e Id., Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, cit., Bd. 3, §§ 377-380 e Zusätze. 45 Cf. Th. H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 221-22. 46 Intorno a questa cruciale problematica filosofica Cf. G. Rinaldi, Hegel und das philosophische Verständnis der Person, in AA. VV., Autonomie und Normativität. Zu Hegels Rechtsphilosophie, hrsg. von K. Seelmann und B. Zabel, Mohr Siebeck, Tübingen 2014, p. 18-43. 47 Cf. G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., § 145: “Daß das Sittliche das System dieser Bestimmungen der Idee ist, macht die Vernünftigkeit desselben aus. Es ist auf diese Weise die Freiheit oder der an und für sich seiende Wille als das Objektive, Kreis der Notwendigkeit, dessen Momente die sittlichen Mächte sind, welche das Leben der Individuen regieren und in diesen als ihre Akzidenzen ihre Vorstellung, erscheinende Gestalt und Wirklichkeit haben“. Questa determinazione dell’essenza della relazione tra l’individuo e lo Stato non esaurisce, comunque, l’assai più complessa concezione hegeliana. Cf. G. Rinaldi, L’etica dell’Idealismo moderno, cit., § 35.
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la determina e la trascende; e la ragione di ciò sta nel fatto, osserva acutamente Green, che anche l’evoluzione della natura e la prassi umana, che tende a realizzare l’idea di una “società perfetta”, non sono altro che forme di successione temporale, che può esistere ed essere concepita solo come una unità, il cui fondamento è l’unità della coscienza eterna, sì che la stessa persona, nella misura in cui si identifica (parzialmente) con essa, lungi dall’essere determinata da tali processi, è in realtà l’attività in ultima istanza determinante la loro stessa possibilità e articolazione. Ciò non significa, ovviamente, negare che lo sviluppo morale della persona sia condizionato anche dall’influenza su di essa esercitata, a es. attraverso l’educazione, dalla società in cui vive: significa soltanto che il rapporto metafisico tra la persona e la società non è quello dell’unilaterale dipendenza della prima dalla seconda, bensì quello della loro determinazione reciproca. Il secondo elemento fondamentale del mondo morale è, secondo Green, come si è detto, la legge morale, che coincide con l’attività della Ragione autocosciente nell’uomo, sì che è, almeno in linea di principio, possibile esplicarne il contenuto razionale – cioè l’idea del Bene – in un sistema di doveri determinati universali. A differenza di quanto sostenuto sia da Fichte che da Hegel48, tuttavia, Green nega che tale esplicazione possa assumere la forma della deduzione a priori della loro totalità dall’unità del principio etico. Siccome tali doveri sono l’espressione delle “potenze etiche” reali che determinano lo sviluppo storico dell’eticità, e tale sviluppo nella nostra situazione storica è ancora incompleto – la società in cui viviamo, cioè, non è assolutamente perfetta –, è di conseguenza impossibile elaborare una teoria completa e definitiva dei doveri determinati. La soluzione della difficoltà proposta da Green è quella di esplicare il contenuto dell’ideale morale in forme inevitabilmente provvisorie e incomplete, ma non perciò meno valide e moralmente impegnative, riflettendo sul contenuto e sulla tendenza evolutiva della storia dell’umanità, quali ci sono resi manifesti dalla nostra concreta “esperienza”49. Questa mostra che l’autocoscienza dello spirito umano ha sviluppato una serie di concezioni morali del mondo, e che quella dell’epoca storica in cui viviamo, che Green identifica senz’altro con la “moralità convenzionale” della “Cristianità moderna”50, è migliore delle precedenti, e conserva perciò un imprescindibile valore normativo anche per la riflessione filosofica. Ma anche in essa sono presenti delle residue contraddizioni, specialmente nella forma del conflitto tra doveri opposti ma entrambi incondizionati; e allora il “valore pratico” di un’etica idealistica della
48
Cf. ivi, §§ 28 e 35. Cf. Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 226. 50 Cf. ivi, p. 305. 49
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perfezione, quale quella delineata da Green, consiste per l’appunto nell’aiutare la persona a risolvere tali conflitti, contribuendo così a orientare l’eticità realmente esistente verso una più completa, per quanto certamente non esauriente, determinazione e specificazione pratica dell’ideale morale. Green distingue51, non diversamente da Vico e da Hegel, due modalità fondamentali dell’attività determinante della Ragione nello sviluppo storico della civiltà umana. La prima è quella ancora inconscia, in cui essa c’è e agisce, ma non sa ancora sé stessa; in cui cioè il fine, che gli individui consapevolmente si propongono, è solo la soddisfazione dei loro bisogni naturali, la quale, tuttavia, dà inevitabilmente luogo alla creazione di norme e istituzioni etiche che si tramandano di generazione in generazione, costituendo così quella “moralità convenzionale” che è la base storica reale di ogni possibile eticità. In rapporto a essa la persona si chiede soltanto: “Che cosa devo fare?”, e il costante adempimento dei doveri determinati, che la società in cui vive le impone, le conferisce la qualità morale della “rispettabilità”. Ma Green comprende chiaramente che la Ragione è essenzialmente autocosciente, e che perciò questo stadio elementare di sviluppo dell’eticità dev’essere immediatamente superato da quello in cui la persona si pone un altro, ben diverso interrogativo: “Che genere di persona io devo essere?” Laddove nel primo genere di moralità l’adempimento della norma oggettiva era sufficiente a garantire la validità morale del comportamento della persona, ora essa si rende conto che non meno rilevante è il carattere della motivazione interiore, dell’intenzione soggettiva che si estrinseca nella sua azione. Per la persona, che così prende coscienza della sua intrinseca essenza morale, diviene allora importante sapere perché essa ha ubbidito a tale norma: è stato solo per la paura della punizione, che nel caso della sua violazione un giudice umano o divino avrebbe potuto infliggerle, o, viceversa, per la speranza di conseguire benefici di qualsiasi genere mediante il suo adempimento, o perché essa ha invece riconosciuto il valore intrinseco dell’ideale morale che in tale norma più o meno adeguatamente s’incarna? Laddove nel primo genere di moralità è richiesta solo la considerazione degli effetti dell’azione, nel secondo genere acquista invece rilevanza decisiva la motivazione per cui la persona l’ha compiuta; anche se, soggiunge saggiamente Green sulle orme di Hegel52, la stessa previsione delle conseguenze esterne prodotta dall’azione in questione è un elemento integrante della sua
51 52
Cf. ivi, p. 355-71. Cf. ivi, p. 346-55; e G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., §
118.
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motivazione, sì che la contrapposizione dualistica tra una pura “Gesinnungsethik“ e una “Verantwortungsethik” – quale a es. quella assai malamente teorizzata da M. Weber –53 è in realtà ingiustificata e inconsistente. Le motivazioni interiori del nostro comportamento morale non sono dunque qualità immediatamente osservabili negli effetti delle nostre azioni, ma sono accertabili solo dalla nostra riflessione autocosciente (a rigore, precisa Green54, quella di ciascun soggetto in prima persona, oppure quella di altri soggetti sulla base dei resoconti che “individui non comuni”, come a es. Napoleone, hanno lasciato circa le motivazioni ultime delle loro azioni), che, qualora sia svolta in forma più universale e sistematica, è il principio stesso del pensiero filosofico. È perciò possibile suddividere lo sviluppo di questo secondo genere di eticità nelle due epoche fondamentali in cui, a suo giudizio, si articola la storia dell’etica filosofica: quella della morale greca e quella della morale cristiana. Anche a questo proposito egli opportunamente rifiuta55 qualsiasi contrapposizione dualistica del genere di quella che inficia la teoria etica di Bergson56, osservando che, ad onta della loro essenziale differenza, esse sono tuttavia entrambe espressioni del medesimo principio spirituale: quello cioè che identifica lo scopo ultimo del nostro agire con l’ideale morale della virtù, che è un fine in sé stesso, ha un valore intrinseco, non è ricavato dalla riflessione sul contenuto dei nostri interessi o passioni particolari, bensì è una pura autodeterminazione della Ragione in noi; e ciò che essa esige è il controllo – e, se necessario, la “repressione” – dei nostri “istinti corporei” (bodily instincts), cioè delle inclinazioni sensibili. La divergenza tra le due concezioni morali consiste nel diverso grado di universalità e compiutezza, con cui l’ideale razionale della virtù viene in esse consaputo e realizzato. Mentre, infatti, la concezione greca della vita, a onta della sua intrinseca universalità, può conseguire reale attuazione solo in gruppi sociali particolari, individuati da differenze naturali quali la razza, l’estrazione sociale o il sesso – i cittadini ateniesi, a es., e non i barbari; gli uomini liberi e non gli schiavi; i maschi e non le femmine –, l’ideale morale cristiano si estende indistintamente a tutti gli esseri umani, afferma il valore assoluto dell’eguaglianza di tutti gli uomini in quanto tutti “fratelli in Cristo”, e non pone perciò alcun limite all’ambito della sua realizzazione57. 53 Cf. M. Weber, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, hrsg. von J. Winkelmann, Mohr, Tübingen 19734, “Der Sinn der ‘Wertfreiheit’ der soziologischen und ökonomischen Wissenschaften” (1917), p. 505; e, per una generale del suo relativismo storico, supra, n. 44. 54 Cf. Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 349-55. 55 Cf. ivi, p. 290 ss. 56 Cf. G. Rinaldi, L’etica dell’Idealismo moderno, cit., §§ 60-61. 57 Edward Caird identifica perciò giustamente nella tendenza egualitaria la caratteristica fondamentale e distintiva dell’idealismo etico di Green: “If there was […] a quality by which he was distinguished, it was an intensely democratic or Christian tone of feeling that could
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D’altra parte, sebbene Green riconosca che nel caso delle virtù della fortezza o del coraggio (andreia) il controllo delle passioni (la paura e il dolore) richiesto dall’ideale morale greco non è meno completo di quello comandato dalla morale cristiana, diverso è il caso della temperanza (sōphrosynē). A questo proposito Green rileva58 un’eccessiva indulgenza dell’etica greca nei confronti del godimento non solo dei piaceri carnali, ma anche di “piaceri puri” quali la contemplazione artistica o filosofica, che verrebbe opportunamente corretta dalla morale cristiana. Laddove, infatti, la teoria aristotelica della temperanza non pone altro limite al godimento sessuale che l’obbligo di evitare quegli eccessi, le cui conseguenze potrebbero compromettere l’adempimento dei propri doveri civili, e sia Platone che Aristotele affermano il valore morale assoluto dei piaceri puri (cf. supra, n. 22), la morale cristiana esige invece il “sacrificio” completo dei propri interessi egoistici, nega la legittimità di qualsiasi soddisfazione dell’impulso sessuale al di fuori della famiglia monogamica ed esalta la superiore perfezione morale della castità; e l’“entusiasmo altruistico” che l’anima può richiedere al credente, qualora ciò sia reso necessario dall’esigenza di promuovere il benessere degli altri, anche il sacrificio dei suoi pur in sé legittimi interessi artistici o filosofici. All’ovvia objezione che neppure la morale cristiana è del tutto pura, perché, nella misura in cui identifica la legge morale coi comandamenti di un Dio trascendente e onnipotente, che premia o punisce gli uomini per la loro ubbidienza o inadempienza al suo volere, essa solleva il legittimo sospetto che il vero motivo dell’ottemperanza del credente a essa sia pur sempre l’interesse personale, Green replica che questo è certamente il deprecabile difetto della “retorica religiosa” (ivi, p. 308), ma che l’ideale morale predicato da Cristo è non meno autonomo e disinteressato di quello teorizzato dall’etica kantiana. L’aspetto più originale e stimolante dell’etica di Green è certamente il rilievo del suo “valore pratico” per la condotta dell’individuo in contrapposizione a quello a torto rivendicato dall’Utilitarismo (cf. supra, § 2). Laddove, infatti, la dottrina hegeliana dell’eticità ha carattere puramente teoretico, e si propone di esplicarne l’essenza alla luce di una “teoria dell’universo”59, cioè di una metafisica dell’Assoluto, Green, pur riconoscendo esplicitamente la legittimità di tale proposito, pone al centro delle sue riflessioni l’attività “autorealizzantesi” della Ragione nella coscienza dell’indivi-
not tolerate the thought of privilege, and constantly desired for every class and individual a full share in all the great heritage of humanity” (E. Caird, “Preface to the Fifth Edition”, in: Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. VII). 58 Cf. ivi, p. 315-19. 59 ivi, p. 167.
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duo, nella quale si configura inevitabilmente come un “dover-essere” e solleva l’esigenza della sua concreta attuazione nelle situazioni particolari della sua vita morale. In rapporto alle scelte determinate ch’egli in essa è chiamato a compiere, la teoria etica di Green configura la legge morale come l’ideale di una perfetta realizzazione delle facoltà dello spirito umano; dal che segue il dovere di preferire, sempre e comunque, al vano perseguimento di contingenti e fuggevoli piaceri egoistici, il loro sacrificio – ed eventualmente il dolore da esso prodotto – in vista di una sempre più ampia e completa realizzazione dell’ideale dell’“umanità”. Non diversamente da Bradley60, dunque, egli scorge nell’umanitarismo un valore morale assoluto, che integra, eleva e, se necessario, corregge le non meno legittime istanze sollevate dalla “moralità convenzionale”. Ma la peculiare funzione pratica che la sua teoria è chiamata a svolgere è piuttosto quella della soluzione dei problemi di coscienza generati dal conflitto dei doveri. Qualora esso non sia, osserva bene Green61, una mera costruzione artificiosa elaborata dalla sofistica morale per consentire all’individuo di contrapporre a un dovere determinato e incondizionato un presunto dovere opposto e non meno incondizionato che annulla la validità del primo, e così di soddisfare quei suoi desideri, il cui sacrificio il vero dovere legittimamente esigeva; e qualora non sia l’accidentale conflitto tra il dovere imposto dalla “coscienziosità” (a es., il dovere di dire sempre la verità) e una sia pur nobile (disinteressata) passione che si oppone al suo adempimento (a es., il desiderio di salvare la vita di un innocente), nel qual caso esso può essere facilmente risolto in base al principio della priorità assiologica dell’universalità del dovere rispetto alla particolarità della passione; esso consiste in sostanza nelle opposte, ma egualmente valide, esigenze che due “autorità etiche” oggettive – a es., la Chiesa e lo Stato di cui un individuo è membro – sollevano nei suoi confronti. Se esse sono in contraddizione l’una con l’altra – la storia europea è piena di questi conflitti –, a quale delle due egli è tenuto a obbedire? Green profondamente risponde che tale conflitto è generato dal fatto che una pluralità di istituzioni o di valori etici solleva la medesima incondizionata esigenza nei confronti della coscienza “perplessa” dell’individuo; ma tale pluralità, in ragione della sua essenziale immediatezza ed esteriorità, sussiste in realtà soltanto nella soggettiva immaginazione (politica o religiosa) degli individui che vivono in una determinata situazione storica, laddove l’ideale morale, in sé e per sé considerato, coincide con l’unità assoluta della coscienza eterna, ed è perciò rigorosamente unitario, e come tale dev’essere concepito da un’adeguata teoria filosofica della morale. Quest’ultima, di conseguenza, è per principio in grado di sceverare, nei dogmi o riti di una 60 61
Cf. G. Rinaldi, L’etica dell’Idealismo moderno, cit., § 40. Cf. ivi, p. 372-96.
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determinata religione o nei doveri positivi sanciti dall’autorità dello Stato, la forma immaginativa esteriore, che è in sé inadeguata e che è come tale la causa del conflitto, dal loro contenuto etico sostanziale, che anche la più radicale critica della coscienza religiosa o delle istituzioni di uno Stato “ingiusto” deve tuttavia alla fine riconoscere, e liberare così il secondo dalla sua inadeguata espressione nella prima, eliminando eo ipso la causa dell’accennato conflitto dei doveri. Ma così emerge chiaramente un’altra cruciale differenza tra l’etica della perfezione di Green e la dottrina hegeliana dell’eticità. Laddove entrambe, infatti, riconoscono alla ragione filosofica il diritto di criticare l’elemento dell’immaginazione religiosa onde estrarre da essa il contenuto sostanziale – speculativo ed etico – in essa immanente, Hegel nega invece recisamente – con la significativa, ma certamente da un punto di vista pratico irrilevante eccezione dell’“individuo cosmico-storico” – il diritto e il dovere dell’individuo di sottoporre a critica il sistema delle “potenze etiche” e dei doveri determinati sanciti dalla costituzione dello Stato di cui è membro, e deride la “vanità” (Eitelkeit) di chi pretende di essere moralmente migliore del proprio tempo62, Green deduce invece dalla tesi precedentemente accennata dell’insuperabile imperfezione di ogni società reale non solo il diritto della coscienza individuale di sottoporre a critica le stesse esigenze che l’autorità dello Stato (o magari quella più informale dell’“opinione pubblica”) solleva nei suoi confronti, ma anche – qualora la contraddizione tra l’esigenza di una più estesa realizzazione dell’ideale morale e la sua esistenza concreta appaia inconciliabile – quello di rovesciare mediante una rivoluzione – in nome di “Dio e del Popolo” (God and the People)63 o, più in generale, del progresso spirituale dell’umanità – le istituzioni di fatto esistenti ma non più rispondenti allo stato presente della coscienza morale. Di conseguenza, l’unica vera, assoluta autorità morale, che Green è in definitiva disposto a riconoscere, è quella dell’interiore coscienza o, meglio, “coscienziosità” (conscientiousness) dell’individuo, ovverosia di quel Gewissen, la cui genuina rilevanza etica Hegel aveva invece decisamente negato: La coscienza nell’individuo, pur dovendo la sua educazione a quelle istituzioni e regole, non è propriamente il mero organo di una di esse o di tutte, ma può
62
Cf. G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., §§ 124 e Anm., 140, Anm. e Zusatz, 348; e Id., Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, in: Id., Werke in 20 Bänden, cit., p. 44-49. 63 Green cita letteralmente questo celebre dictum mazziniano, pur senza fare il nome del suo autore, a p. 391 dei Prolegomena to Ethics.
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apprendere liberamente e autonomamente l’ideale di cui esse sono espressioni più o meno adeguate.64
§ 4. Significato e limiti dell’etica di Green Le perplessità scettiche, che pervadono il pensiero di Bradley, sono fortunatamente assenti in quello di Green, la cui caratteristica peculiare è piuttosto un nobile fervore morale, che anima e vivifica la sua intera trattazione, nella quale l’incrollabile certezza della veracità della propria “coscienziosità” gli consente di offrire una soluzione plausibile, e spesso illuminante, ai fondamentali problemi di competenza della Filosofia morale, senza per questo pretendere di giustificarla in base a una compiuta “teoria dell’universo”, e di risolvere così il “mistero” della relazione tra la coscienza eterna e la persona. Quella che Green, in effetti, svolge sembra essere una rinnovata, e più consistente, versione di quell’etica della “coscienziosità” (Gewissen) o della “miglior convinzione” (bessere Überzeugung), che Hegel aveva invece provveduto, per parte sua, a criticare aspramente nel celebre §140 della Filosofia del diritto. L’imprescindibile compito filosofico, che ci rimane, a questo punto, da assolvere, è quello di formularne una plausibile valutazione critica, che dev’essere accuratamente discriminante in rapporto alle diverse tesi sostenute da Green: se, infatti, è innegabile che la dottrina hegeliana dell’eticità è metafisicamente superiore alla sua per almeno tre fondamentali ragioni, si deve tuttavia riconoscere che, per almeno un altro verso, essa sembra poter costituire una valida alternativa alla stessa concezione hegeliana, e offrire così un originale e significativo contributo allo sviluppo dell’idealismo filosofico contemporaneo. Il primo limite dell’etica di Green è la sua svalutazione della realtà e verità della “contemplazione”, cioè della pura attività teoretica dello spirito, che lo induce a considerare “irreale” la celebrazione aristotelica della sophia e del bios theoretikos quale forma suprema di virtù e di felicità65, e a giudicare legittima la negazione, tipica dell’etica cristiana e della sua inveterata tendenza ascetica e trascendente, dell’intrinseco valore morale dei “piaceri puri” generati in noi dalla contemplazione estetica e dalla conoscenza filosofica – negazione che non solo è in sé inaccettabile, ma che è anche inconsistente rispetto ad altre, più felici tesi esplicitamente sostenute dallo stesso Green. Essa è inaccettabile, perché, negando l’assoluta realtà e valore (anche morale) della conoscenza filosofica, l’intera teoria greeniana della coscienza eterna, cioè la sua metafisica 64
ivi, p. 395: “Conscience in the individual, while owing its education to those institutions and rules, is not properly the mere organ of any or all of them, but may freely and in its own right apprehend the ideal of which they are more or less inadequate expressions”. 65 Cf. Aristotele, Ethica Nicomachea, cit., VI, 1141a -9-1141b 7, e X, 7, 1177a 11-1178a 8, e infra, n. 74.
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della conoscenza, si priva dell’unico fondamento razionale che potrebbe garantirne l’oggettiva verità rispetto ad altri opposti assunti sostenuti da altre forme di “sapere immediato”: all’inconcussa fede morale di Green nell’unità della coscienza finita e della coscienza eterna la riflessione filosofica potrebbe infatti, con eguale diritto, contrapporre la fede immoralistica nietzscheana nei “valori vitali”66 oppure quella nichilistica nella radicale “assurdità” dell’esistenza67, il cui contenuto, tuttavia, è nulla meno che la perentoria negazione del suo idealismo etico. Ma la sua accennata svalutazione è altresì inconsistente con altri, più felici luoghi dei suoi Prolegomena, nei quali egli annovera infatti, tra le forme tipiche, in cui l’ideale morale si realizza, oltre al mantenimento della famiglia e allo svolgimento di lavori di pubblica utilità, anche “la produzione di un sistema di filosofia”68; sostiene, inoltre, che “la composizione di un libro su una tematica astrusa”69 è fornita di intrinseco valore morale anche se essa non dà alcun lenimento alle sofferenze altrui; e non manca neppure di celebrare “l’immenso servizio pratico che Socrate e i suoi seguaci resero al genere umano”70 e di polemizzare vivacemente contro “l’abitudine, comune sia agli apologeti del Cristianesimo che ai professori di scienze naturali, di screditare per la sua inutilità la ‘mera’ filosofia”71. Come tutto ciò può conciliarsi con la sua asserzione, che “il linguaggio di Aristotele circa la beatitudine della vita contemplative esprime poco più che la presunzione di un filosofo; che, se applicato al modo in cui noi faticosamente perseguiamo la scienza e la filosofia, è del tutto falso; e che, se tentiamo di tradurlo nella concezione di una fruizione del Divino superiore a quella che noi possiamo tuttora esperire, noi usciamo dal mondo reale”72? Il secondo limite dell’etica di Green consiste nel fatto che, laddove Hegel era riuscito a conferire all’idea razionale della sostanzialità etica dello Stato una configurazione e soggettività concreta nella forma dello “spirito del popolo”, e poteva perciò attribuire intrinseco valore morale al sacrificio dell’individuo per l’attuazione della missione assegnata nella storia del 66
Cf. G. Rinaldi, L’etica dell’Idealismo moderno, cit., §§ 64-65. Cf. ivi, §§ 66-67. 68 Cf. Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 275: “the production of a system of philosophy”. 69 ivi, p. 276: “the composition of a book on an abstruse subject”. 70 ivi, p. 295: “the immense practical service which Socrates and his followers rendered to mankind”. 71 ibidem: “The habit of derogation from the uses of ‘mere philosophy’, common alike to Christian advocates and the professors of natural science”. 72 ivi, p. 341: “that Aristotle’s language about the blessedness of the contemplative life expresses little more than a philosopher’s conceit; that, if applied to the pursuit of science and philosophy as we in fact painfully pursue them, it is quite untrue; and that, in any attempt to translate it into an account of some fruition of the Godhead higher than we can yet experience, we pass at once into a region of unreality”. 67
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mondo alla nazione cui egli appartiene, Green non scorge invece, come si è detto (cf. supra, § 3), nel carattere nazionale dell’individuo realmente esistente nulla più che un “accidente” dell’unico soggetto cui egli attribuisce effettiva autocoscienza, cioè la persona. L’unico valore etico effettivamente universale, infatti, è per lui l’idea – non ulteriormente determinata né specificata – dell’umanità. Ci si potrebbe chiedere, a questo proposito, se l’indeterminata universalità di tale idea non sia per l’appunto uno di quegli “universali astratti”, alla cui manifesta contraddittorietà e vuotaggine Hegel giustamente contrapponeva l’“universale concreto” come quella Totalità logica che contiene in sé stessa la sua compiuta specificazione e individuazione; e, inoltre, se il concetto hegeliano dello “spirito del popolo” non costituisca per l’appunto l’adeguata e imprescindibile configurazione degli elementi costitutivi di tale totalità nella sfera dell’eticità. Il terzo limite consiste nell’incondizionata identificazione dell’universalità dell’ideale morale col principio dell’eguaglianza degli uomini, per cui a ciascuna persona, in quanto tale, dovrebbe essere riconosciuto un valore intrinseco, che è indipendente da ogni differenza di nazionalità, classe sociale o censo e dalla sua stessa capacità (e merito) intellettuale, e il progresso spirituale dell’umanità consisterebbe nella sempre più “estesa” attuazione di tale ideale. All’“entusiasmo altruistico” ed egualitario di Green si potrebbe objettare, da un lato, che – come proprio e solo Hegel ha mostrato con insuperabile chiarezza e precisione73 – il concetto dell’eguaglianza non è che l’esteriorizzazione della categoria logica dell’Identità (concreta) a opera dell’intelletto finito, e che perciò la sua validità si restringe alla sola sfera del Diritto astratto (nel senso legittimo, ma “tautologico”, che “tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge”)74; nella quale, peraltro, la sua concreta attuazione è sempre determinata e specificata da circostanze contingenti (a es., non è giusto che persone che percepiscono un reddito differente paghino su di esso una eguale tassa); e, dall’altro, che la sostanzialità autocosciente dello Stato implica necessariamente che esso si costituisca come una totalità organica di individui e funzioni, che è possibile e pensabile solo se si è disposti a integrare il momento della sua identità o universalità (su cui si fonda appunto il principio dell’eguaglianza degli uomini) con quello della sua non meno necessaria differenziazione (a es., quella tra governanti e governati); sì che, se si deve concedere a Green che una discriminazione del valore intrinseco delle persone sulla base della loro razza, origine sociale, religione, censo, ecc. è moralmente ingiustificabile, si deve invece negare che tale sia anche il caso di 73 Cf. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in: Id., Werke in 20 Bänden, cit., Bd. 2, p. 47-52 (= GW, p. 267-272). 74 Cf. Id., Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., § 49 e Zusatz; e Id., Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, cit., Bd. 3, § 539.
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una distinzione fondata sul merito (intellettuale e morale). Se si annulla anche questa differenza, allora si dovrebbe anche negare, per conseguenza, il fatto che il processo di “auto-oggettivazione” dello spirito si realizzi in una serie progressiva (gerarchia) di fasi e gradi di diverso valore – il che, in realtà, significa nulla più e nulla meno che pretendere che tale processo non sia un processo. L’acquisizione più originale e suggestiva dell’etica di Green è indubbiamente il riconoscimento alla “coscienziosità” dell’individuo di una suprema autorità morale, che gli conferisce il diritto di sottoporre al suo esame, e cercare di riconciliare, l’eventuale conflitto dei doveri a lui imposti dall’“autorità morale esterna” – che, egli acutamente osserva75, è, a rigore, una contraddizione – di istituzioni quali la Chiesa o lo Stato. In rapporto a tale problematica non si può negare che la sua filosofia morale può a buon diritto rivendicare un “valore pratico” che non spetta invece alla dottrina hegeliana dell’eticità (e che essa, per la verità, non aveva neppure avanzato la pretesa di avere). D’altra parte, laddove l’etica utilitaristica, elevando il criterio della maggioranza dei consensi, cioè l’“opinione pubblica”, a fondamento ultimo ed esclusivo della specificazione e applicazione della legge morale, induce inevitabilmente l’individuo ad adeguarsi passivamente e conformisticamente “al gusto o all’opinione popolare” (ivi, 446: to popular taste or opinion); il riconoscimento della suprema autorità morale della sua coscienziosità lo sollecita invece a “cercare la bellezza suprema nell’arte, la verità più completa nella conoscenza”76, anche se ciò non gli consente di “salvare sé stesso e quelli ch’egli ama da molte sofferenze”77 – e questa è certamente una corretta identificazione della direzione che il progresso spirituale dell’umanità può e deve seguire. All’objezione hegeliana che la coscienziosità, ad onta del suo innegabile significato morale, rimane comunque una forma di sapere immediato, e non dispone perciò di un adeguato criterio razionale per fondare la validità oggettiva delle opzioni da essa preferite, si potrebbe replicare che ciò è, almeno entro certi limiti, possibile facendo ricorso al criterio pratico, con cui già Bradley aveva cercato di risolvere l’analoga difficoltà sollevata dal conflitto dei doveri78, e cioè subordinando l’adempimento del dovere giudicato inferiore a quello giudicato superiore, e
75 Th.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., p. 392: “In truth the phrase “external authority”, as applied to the imagined imponents of duty, involves something of a contradiction”. 76 ibidem: “seek the highest beauty in art, the completest truth in knowledge”. 77 ibidem: “save himself and those whom he loves from much suffering”. 78 Cf. G. Rinaldi, L’etica dell’Idealismo moderno, cit., § 40.
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accertandosi che la formulazione di tale giudizio non sia motivata dal desiderio di agevolare in tal modo la soddisfazione dei propri interessi particolari.
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Storia della Scienza Antica & Epistemologia delle Scienze Umane Questa “rubrica tematica” è stata finora dedicata alla ripubblicazione delle opere di Paola E. Manuli in accordo con la “Associazione Paola Eliana Manuli – per lo Studio della Storia della Medicina Antica e dell’Epistemologia della Scienze Umane”. Da questo numero la rubrica filosofica, aperta alla storia della scienza antica, è affidata alla collaborazione di Fiorenza Bevilacqua
[cronache di convegni tematici periodici internazionali] c/ di Fiorenza Bevilacqua
Plato and Xenophon: Comparative Studies. Bar Ilan University, Tel Aviv, Department of Classical Studies, 9-11 June 2014. Questo interessante convegno, promosso dall’università di Bar Ilan, ha visto la luce grazie all’impegno di Gabriel Danzig, Chairman del Department of Classical Studies dell’Università di Bar Ilan, e di Nili Alon Amit, docente al Hakibutzim Academic College di Tel Aviv. Per molti aspetti questo convegno può considerarsi una prosecuzione di Socratica III, il convegno tenutosi a Trento nel febbraio del 20121, dove era stato presentato proprio un importante lavoro di Danzig, Apologizing for Socrates: How Plato and Xenophon Created Our Socrates2, un volume che già nel titolo rivela una impostazione di tipo comparativistico. Una impostazione che è stata dichiaratamente posta al centro di questo convegno che, a differenza di 1 Vedi il mio report Socratica III. A Conference on Socrates, the Socratics and the Ancient Socratic Literature. Trento, 23-25 febbraio 2012, in: “Magazzino di filosofia”, XX (2012), p. 187-197. 2 G. Danzig, Apologizing for Socrates. How Plato and Xenophon Created Our Socrates, Lexington Books, Lanham 2010. Vedi la mia recensione in: “Magazzino di filosofia”, XXI (2012), p. 46-53.
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Socratica III, si è occupato non dei Socratici e della letteratura socratica in generale, bensì soltanto dei due Socratici di cui possiamo parlare con piena cognizione di causa, in quanto gli unici due di cui ci siano pervenute le opere, cioè Platone e Senofonte. Il convegno si è articolato in dieci sessioni, ognuna delle quali dedicata a uno specifico tema, anche se spesso i temi affrontati sono apparsi per così dire trasversali, cioè comuni a più aree tematiche, il che ha senz’altro contribuito a rendere il dibattito particolarmente vivace e partecipato. Ad esempio, se pure era prevista una sessione intitolata Politics, anche i lavori presentati in altre sessioni spesso hanno mostrato significativi risvolti di tipo politico. In questo ambito, quindi, possiamo far rientrare contributi molto diversi tra loro, sia per quanto concerne l’aspetto e/ o il testo preso in esame, sia per il tipo di approccio. Non è mancato chi, come Gregory McBrayer, ha incentrato la sua attenzione su una questione che, a prima vista, può apparire di scarsa rilevanza politica, ma a torto, cioè la relazione tra Socrate e Alcibiade, un personaggio che, come è noto, giocò un ruolo di primo piano nella vita politica di Atene e nella guerra del Peloponneso, un personaggio quindi politicamente compromettente. Lo studioso ha preso in considerazione, sia pure sinteticamente, il personaggio di Alcibiade in quattro dialoghi di Platone, l’Alcibiade primo, l’Alcibiade secondo (sulla cui paternità platonica, per lo più negata, McBrayer non si pronuncia), il Protagora e infine, ovviamente, il Simposio: a suo giudizio, questi dialoghi si susseguirebbero in quest’ordine e fornirebbero una sorta di storia della relazione tra Socrate e Alcibiade, che vedrebbe all’inizio un interesse di Socrate per Alcibiade come possibile discepolo per poi concludersi nel Simposio con la dichiarazione, attraverso le parole di Alcibiade, di un fallimento la cui responsabilità ricade unicamente sulle spalle di Alcibiade stesso. Pertanto lo studioso conclude che, mentre Platone denigra Alcibiade, Senofonte invece lo elogia (ma su questo punto torneremo più avanti): una conclusione che appare un po’ troppo drastica, soprattutto se si pensa all’Alcibiade del Simposio, che non è affatto un personaggio connotato in maniera univoca, ma anzi risulta inquietante e affascinante proprio per la sua ambiguità, un’ambiguità che si riflette anche nella sua relazione di dichiarato odio/amore nei confronti di Socrate, un’ambiguità che si manifesta anche nella paradossale lucidità della sua ubriachezza. Quanto a Senofonte3, McBrayer prende in considerazione sia i Memorabili (in particolare Mem., I, 2, 12; I, 2, 40-46) sia i vari passi delle 3
McBrayer infatti si limita a prendere in considerazione il personaggio di Alcibiade in Platone e in Senofonte, senza neppure accennare all’Alcibiade di Eschine di Sfetto: benché egli non ne espliciti le motivazioni, è probabile che la scelta di non prendere in esame questo logos Sokratikos sia dovuta al fatto che ce ne sono pervenuti soltanto alcuni frammenti (per altro di grande interesse e ampiamente studiati).
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Elleniche in cui compare Alcibiade, traendone appunto la conclusione che Senofonte ne traccia un ritratto largamente positivo: questa conclusione si basa soprattutto sulle Elleniche, anzi sulla prima sezione delle Elleniche (I, 1 - II, 3, 9), dato che nel prosieguo dell’opera Alcibiade viene ricordato, di passaggio, un’unica volta. Questo fatto è tutt’altro che irrilevante, dato che la prima sezione delle Elleniche presenta una serie di caratteristiche (anche sul piano linguistico) che non si rinvengono nel resto dell’opera: McBrayer appare consapevole della netta cesura che separa questa prima parte dal resto delle Elleniche, ma non prende neppure in considerazione (neanche al fine di respingerla) l’ipotesi, ventilata da autorevoli studiosi (ad es. Luciano Canfora), in base alla quale questa prima tranche dell’opera risulterebbe così diversa in quanto frutto di una rielaborazione da parte di Senofonte di appunti tucididei, nel qual caso il giudizio positivo su Alcibiade sarebbe dunque da ricondurre a Tucidide. D’altro canto anche dai Memorabili non è facile ricavare un giudizio positivo su Alcibiade: anche prescindendo dalla durissima condanna chiaramente espressa in Mem., I, 2, 12, è difficile ricavare elementi positivi da I, 2, 40-46: infatti nel dialogo con Pericle Alcibiade mostra sì di saper far uso dell’elenchos, ma si tratta, per citare l’efficace definizione di Dorion4, di un cattivo uso dell’elenchos. Infine desta un qualche stupore il fatto che McBrayer riconduca la relazione tra Socrate e Alcibiade all’accusa di corrompere i giovani, quando invece Senofonte ne parla non in relazione a tale accusa, bensì all’interno della seconda parte della sezione apologetica (Mem., I, 2, 9-61), che si occupa non già di confutare le accuse formulate in sede processuale, bensì le accuse postume mosse dall’anonimo katēgoros, ormai concordemente identificato con il retore Policrate: tra queste accuse la più compromettente e la più politicamente significativa era infatti quella che vedeva in Socrate il maestro di Crizia e di Alcibiade (Mem., I, 2, 12). Ancora in ambito politico un contributo di indubbio interesse è quello di Carol Atack, dedicato al confronto tra il Politico di Platone e il personaggio di Ciro, protagonista dichiarato della Ciropedia5. La studiosa premette, a ragione, che entrambe le opere si inquadrano nell’ambito di quel dibattito sulla monarchia come forma di governo che si sviluppa già nella prima metà del IV secolo e che vede coinvolti non solo Platone e Senofonte, ma anche una
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Vedi L.-A. Dorion, Introduction, in: Xénophon. Mémorables, texte établi par M. Bandini et traduit par L.-A. Dorion, t. I, Les Belles Lettres, Paris 2000, p. CLX. 5 Buona parte del contributo di Atack riprende spunti e osservazioni dalla sua tesi di dottorato (Debating Kingship: Models of Monarchy in Fifth-and fourth-century BCE Greek Political Thought, PhD Thesis, University of Cambridge, Cambridge 2014).
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figura politicamente e culturalmente rilevante come quella di Isocrate6; inoltre ribadisce, ancora a ragione, l’importanza e l’originalità di Senofonte come pensatore politico, seriamente impegnato in quello che era il dibattito dell’epoca. Atack imposta il confronto tra i due testi prendendo in esame il tema del re pastore e quello del kairos, nonché il nodo centrale della temporalità. Per quanto riguarda il problema del rapporto cronologico tra le due opere, la studiosa sostiene che è possibile sia considerare la Ciropedia come una risposta al Politico sia viceversa, mentre non si può neppure escludere che la Ciropedia, dato il lungo periodo in cui si è protratta la sua composizione7 e la possibilità che la sezione finale rappresenti un’aggiunta seriore8, possa aver provocato una risposta di Platone con il Politico e, nel contempo, costituire nella sua sezione finale una risposta al Politico stesso. Saggiamente, per altro, Atack si limita a un’analisi comparativa delle due tematiche prescelte, evitando di lasciarsi prendere nei lacci di una questione cronologica probabilmente insolubile e comunque di scarsa rilevanza. Prima di affrontare le due tematiche in questione, la studiosa dedica un breve preambolo alla basilikē technē, un tema attualmente oggetto di rinnovata attenzione critica9: Atack sostiene che sia Platone che Senofonte sembrano impegnati a individuare una particolare qualità che caratterizza colui che regna 6 Al riguardo è degno di nota il recente contributo di S. Gastaldi, che mette in discussione la tradizione interpretativa che vede Isocrate e Platone in una permanente, netta contrapposizione (Isocrate e Platone: un rapporto controverso, in: F. De Luise / A. Stavru, c /di, Socratica III. A Conference on Socrates, the Socratics and the Ancient Socratic Literature, Academia Verlag, Sankt Augustin 2013, p. 175-182). Atack invece riprone l’impostazione tradizionale che presenta i due Socratici, Platone e Senofonte, impegnati a replicare polemicamente a Isocrate. 7 Riguardo alla composizione della Ciropedia, come terminus ante quem è ragionevolmente sicuro il 358, anno della morte di Artaserse II e dell’ascesa al trono di Artaserse III Ochos, che Senofonte sembra non conoscere (cf. Cyr., VIII, 1, 20; VIII, 8, 12, che sembrano presupporre Artaserse II come re dei Persiani); come terminus post quem si potrebbe pensare alla rivolta dei satrapi, capeggiata da Mitridate e Reomitre, del 362/361, a cui allude Cyr., VIII, 8, 4, anche se ciò che vale per l’ultimo capitolo non vale necessariamente per l’intera opera, la cui composizione deve comunque essersi protratta per diversi anni. 8 Personalmente ritengo altamente improbabile che l’ultimo capitolo della Ciropedia rappresenti un’aggiunta seriore, sia perché il tema della decadenza dell’impero persiano è chiaramente preannunciato in Cyr., VIII, 1, 7-8, sia perché è davvero poco probabile che Senofonte intendesse concludere la sua opera con la serena scena di Ciro sul letto di morte, lasciando al lettore l’impressione di un impero persiano stabile e forte come al tempo del suo fondatore ed esponendosi quindi a facili critiche nel momento in cui la crisi e la decadenza dell’impero persiano erano sotto gli occhi di tutti. 9 Vedi, ad es., L.-A. Dorion, Socrate et la basilike techne: essai d’exégèse comparative, in: V. Karasmanis, c /di, Socrates. 2400 Years since His Death (399 B. C.-2001 A. D.), International Symposium Proceedings (Athens-Delphi, 13-21 July), European Cultural Centre of Delphi, Hellenic Ministry of Culture, 2004, p. 51-62; ora in: L’autre Socrate, Les Belles Lettres, Paris 2013, p. 147-169.
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con successo, il che da un lato rinvierebbe alla convinzione socratica che esista un’arte, una techne, la basilike techne appunto, superiore a tutte le altre, e dall’altro al nuovo discorso che vede nel re un esempio, un paradeigma virtuoso da proporre all’imitazione dei sudditi. Ancora secondo Atack sia Platone che Senofonte, rispettivamente nel Politico e nella Ciropedia, vanno oltre la problematica e il concetto stesso di basilike techne per concentrare la loro attenzione sulle specifiche qualità del buon sovrano, del sovrano esemplare. Una immagine tradizionale del sovrano, familiare ai Greci fin dall’epica omerica, è quella del re pastore10: ed è appunto l’analogia tra il re e il pastore, nota la studiosa, che si colloca non a caso, utilizzando il procedimento della ring-composition, all’inizio e alla fine (I, 1, 2; VIII, 2, 14) della Ciropedia, adombrando una differenza di natura qualitativa tra il re e i suoi sudditi, e nel contempo fornendo una sorta di implicita replica alle posizioni espresse da Trasimaco nel I libro della Repubblica (Resp., 343 bc). Platone, invece, rileva Atack, con il Politico prende posizione contro la ripresa dell’analogia re/ pastore che si rinviene sia in Senofonte che in Isocrate, dove la superiorità del re rispetto ai sudditi è analoga a quella del pastore rispetto al suo gregge: per Platone infatti la metafora del re pastore è applicabile solo a un sovrano divino, ontologicamente distinto dai sudditi, come lo è il pastore rispetto al suo gregge. Importante è anche la questione della temporalità: mentre nella Ciropedia Senofonte presenta Ciro come un esempio storicamente esistito del re pastore, che è tale in virtù della sua superiorità rispetto ai sudditi, Platone attraverso il mito del Politico afferma che una simile relazione tra sovrano e sudditi non può trovare spazio nella temporalità storica della società umana. Quanto al kairos, si tratta di un termine chiave nella cultura greca del V e del IV secolo, un termine che per altro ha anch’esso una lunga storia a partire dall’epica omerica e che, nota la studiosa, diviene particolarmente importante nel lessico dei pensatori politici del IV secolo: mentre nei testi del V secolo esso assume prevalentemente un aspetto normativo11, in testi come il Politico e la Ciropedia l’aspetto prevalente, secondo Atack, è quello temporale, in quanto l’azione politica efficace è legata al tempo, nonché all’occasione, alla circostanza: ciò vale per il politikos di Platone non meno che per il Ciro di Senofonte. Ancora, la studiosa sottolinea che il kairos può essere colto dall’individuo e non dall’agire collettivo: la capacità di cogliere il kairos sia a livello tattico che a livello strategico è una delle caratteristiche fondamentali di Ciro, mentre nel Politico il tema del kairos ha uno spazio più limitato e il termine 10 Per questa metafora cf. anche Mem., III, 2, 1, dove si cita la formula omerica “Agamennone pastore di popoli”. 11 Ma non necessariamente e non sempre positivo: basti pensare alla connotazione costantemente negativa del kairos nel Filottete.
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stesso ricorre con minor frequenza12. Atack insiste inoltre sul fatto che Senofonte è consapevole della componente etica e normativa del kairos: si tratta di una tesi innovativa, anche se non priva di precedenti, e forse sarebbe stato opportuno che venisse argomentata e motivata in modo più ampio ed esaustivo. Infine, dopo aver accennato a un altro punto che si rinviene sia in Senofonte13 sia in Platone14, cioè alla cosiddetta uguaglianza geometrica, la studiosa conclude affermando, non a torto, che questi due testi, il Politico e la Ciropedia, se oggetto di una lettura comparata, ricevono l’uno dall’altro una nuova luce che permette una interpretazione più articolata e più ricca. Ciò vale, a mio avviso, anche per un altro aspetto, quello del rapporto tra il politikos di Platone, nonché il Ciro di Senofonte da un lato e la funzione, il ruolo delle leggi dall’altro: un tema senza dubbio complesso, ma che non può in alcun modo essere accantonato, data la sua innegabile rilevanza, ed è quindi auspicabile che la studiosa estenda la sua indagine in tal senso. Un altro contributo di notevole spessore politico è quello di Noreen Humble, che verte sul ruolo di Sparta nel pensiero di Senofonte e di Platone: premesso che la Sparta storica è quasi altrettanto inafferrabile del Socrate storico, la studiosa prende in considerazione la cosiddetta15 Costituzione degli Spartani di Senofonte16 e, per Platone, soprattutto quel passaggio della Repubblica che descrive le caratteristiche dello stato che Platone chiama timocrazia o timarchia (Resp., 544c-550c)17. Certo, afferma Humble, vi sono differenze anche cospicue, in quanto in Platone è istituita una correlazione tra il regime timocratico e la parte dell’anima dominata dal thymos; niente di tutto questo, ovviamente, in Senofonte, ma la studiosa avanza l’ipotesi che la Costituzione degli Spartani non intenda tanto collocarsi in una dimensione di tipo storiografico, ma si proponga di contribuire a un dibattito di tipo prevalentemente teorico, tanto più che la struttura retorica dell’opera sembrerebbe indicare una intenzione di natura filosofica. I punti di contatto più significativi tra i due testi in questione sono individuati da un lato nel desiderio di ricchezza e nel possesso illegale e segreto di ricchezze nascoste nelle case di privati cittadini (Resp., 548a-c; Resp. Lac., 7, 5-6), dall’altro 12
Vedi soprattutto Pol., 305d3-4, citato dalla studiosa. Cf. Cyr., II, 2, 18. 14 Cf. Gorg., 508a; vedi anche Resp., 557a; 558c; Leg., 757a-758b. 15 Cosiddetta perché si tratta di un titolo ormai invalso nell’uso, ma non corretto, dato che la distinzione tra leggi costituzionali e leggi ordinarie è del tutto estranea all’orizzonte del pensiero politico dei Greci. 16 A cui la studiosa aveva già dedicato un significativo contributo The Author, Date and Purpose of Chapter 14 of the Lakedaimonion Politeia, in: C. Tuplin, c/ di, Xenophon and his World. Papers from a conference held in Liverpool in July 1999, Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2004, p. 215-228. 17 La studiosa per altro accenna anche a quel passo delle Leggi, in cui si fa riferimento agli efori (Leg., 712d) e che ricorda da vicino Resp. Lac., 8, 4. 13
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in un tipo di educazione che in realtà lascia molto a desiderare: nella Costituzione degli Spartani perché fondata non sulla persuasione ma sulla paura della punizione, nello stato timocratico di Platone perché carente in alcune aree, quali la musica e la filosofia. La studiosa pertanto, rifiutando il filolaconismo tradizionalmente attribuito a Senofonte, sostiene che verosimilmente sia Senofonte sia Platone, pur molto critici nei confronti dell’Atene del loro tempo, ammiravano senza dubbio alcuni aspetti dell’ordinamento politico e dello stile di vita di Sparta, ma senza rinunciare a coglierne gli aspetti ritenuti negativi. Infine Humble prospetta tre possibili soluzioni in grado di spiegare le analogie tra i due testi: la prima ipotesi le vede come eredità di un dibattito che doveva essersi tenuto nell’entourage di Socrate intorno a questioni come i mezzi più idonei (la forza, l’imitazione, la persuasione) per inculcare la virtù ovvero intorno ai rischi e alle conseguenze di un eccessivo desiderio di ricchezza; la seconda consiste nel supporre che Senofonte, nel momento in cui scriveva la Costituzione degli Spartani, avesse davanti a sé la Repubblica e intendesse mostrare come a Sparta fossero presenti aspetti meno positivi rispetto a quanto potesse far supporre la descrizione del regime timocratico in Platone; infine è possibile che Platone abbia tratto spunto proprio dall’opuscolo di Senofonte per delineare quel regime timocratico che per non pochi aspetti ricorda la politeia spartana. La studiosa propende per quest’ultima ipotesi, pur dichiarando che la questione merita un ulteriore lavoro di approfondimento. Senza dubbio si tratta di un approfondimento opportuno, anzi necessario; personalmente, in attesa degli esiti di tale lavoro, ritengo tuttavia più verosimile la prima ipotesi, soprattutto perché i punti di contatto evidenziati da Humble mi sembrano comunque piuttosto sfumati, il che rende arduo postulare una dipendenza di un testo dall’altro. Il contributo della studiosa rimane comunque di notevole interesse e ha inoltre il merito di invitare a una lettura più cauta della Costituzione degli Spartani, nella consapevolezza delle sue molteplici sfaccettature. Un contributo che può ritenersi di tipo politico in senso lato è poi quello di Christopher Tuplin, che si è occupato della Persia quale appare nelle opere di Platone, di Senofonte e degli altri Socratici: un contributo pregevole per il materiale raccolto, per le possibili fonti ipotizzate, e per alcune conclusioni prospettate. Lo studioso sostiene infatti che non tutti i Socratici della prima generazione subirono il fascino della Persia e del suo impero: Platone e Senofonte lo dimostrano chiaramente. Riguardo a Senofonte Tuplin, dopo alcune sintetiche osservazioni sull’Economico, afferma che Iscomaco è un modello assai problematico e che forse lo è anche lo stesso Ciro; infine dichiara, con particolare riferimento alle Leggi, che Platone non intendeva liquidare con malevolo disprezzo quanto Senofonte aveva scritto
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riguardo a Ciro, alla sua educazione e alla storia dell’impero persiano, ma si impegnava semplicemente a delineare una visione alternativa delle cose. Ancora in ambito politico si muove Josh Vandiver, che si è concentrato su un aspetto, a suo dire, fondamentale della Ciropedia, cioè la philotimia, vista come l’unica motivazione adeguata a guidare lo sviluppo della personalità di un leader politico ideale quale è Ciro. Lo studioso sostiene che Senofonte, rivendicando il valore positivo della philotimia, intende inserirsi consapevolmente nel dibattito politico contemporaneo: in effetti se pure la philotimia trova significativi spazi anche nella produzione tragica del V secolo, è anche vero che, allo stesso tempo, si poneva il problema di quanto essa fosse compatibile nel contesto e con il contesto della polis. Senofonte quindi intende, di fronte all’incalzare delle critiche, impegnarsi in una difesa del valore della philotimia, in termini sia morali che politici, impostando un dialogo a distanza con Platone: in particolare Vandiver afferma che, come è generalmente riconosciuto che Platone nelle Leggi abbia voluto replicare alla Ciropedia, così anche la Ciropedia rappresenta una replica e precisamente una replica alla Repubblica di Platone, secondo una ipotesi già avanzata nell’antichità18. Nella Repubblica, infatti, il termine philotimia mostra le stesse connotazioni negative che si rinvengono nei testi del tardo V secolo, pertanto nel momento in cui Senofonte presenta Ciro come philotimotatos entra consapevolmente in polemica non soltanto con Erodoto e con Tucidide, ma anche e soprattutto con Platone. La philotimia di Ciro, inoltre, appare come una caratteristica che si rivela fin dalla sua infanzia, il che spiegherebbe, a giudizio dello studioso, il fatto che Senofonte indugi a narrare con ricchezza di dettagli la prima fase della sua vita, cercando di mettere in luce le potenzialità del suo carattere; non diversamente Platone descrive Socrate come dotato di determinate virtù che lo rendono, più di ogni altro, adatto alla vita e all’attività del filosofo, e come naturalmente predisposto, più di ogni altro, a una vita spesa nella ricerca filosofica. In sostanza, afferma Vandiver, Ciro è per natura dotato di una serie di virtù (quali la philanthrōpia, la philomathia, la capacità di affrontare fatiche e pericoli) che traggono la loro origine dalla philotimia (cf. Cyr., I, 2, 1-2), così come le virtù naturali di Socrate derivano dal suo eros per la pratica della filosofia. La philotimia dunque costituisce la motivazione fondamentale che condurrà Ciro a diventare un leader politico, anzi il leader ideale, e permea e struttura la sua personalità. Lo studioso inoltre coglie dei punti di contatto tra il carattere philotimos di Ciro e coloro che, nella Repubblica, presentano una predominanza della parte thumoeides dell’anima (cioè i guardiani della città
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Vandiver cita infatti Aulo Gellio, XIV, 3; Ateneo, 504e-505a; Diogene Laerzio, III,
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ideale), nonché un’analogia con la città timocratica e il carattere ad essa corrispondente (appunto l’uomo philotimos, philonikos e philarchos). La philotimia di Ciro da un lato lo spinge, fin dall’infanzia, a costruire delle reti di protetti, dall’altro a ricercare la competizione in tutta una serie di ambiti, dalla caccia alle varie tecniche di guerra; il medesimo amore per la competizione contraddistingue per altro anche coloro che, nella Repubblica, sono caratterizzati dalla predominanza della parte thymoeides dell’anima. In accordo con la propria philotimia, Ciro si adopera quindi a motivare gli altri facendo uso del rimprovero o dell’elogio a seconda delle circostanze. Ciro inoltre dà prova di moderazione per quanto concerne cibo, bevande, sesso e ricchezze in quanto, secondo Vandiver, i suoi desideri sono orientati in modo pressoché esclusivo verso l’onore e la gloria, così come nel caso del Socrate platonico la moderazione è dovuta al fatto che Socrate è dominato in modo pressoché esclusivo dal desiderio di conoscere, di ricercare, di spendersi nella ricerca e nella pratica della filosofia. Infine lo studioso sottolinea che sia nella Ciropedia sia nella Repubblica le virtù hanno due caratteristiche di rilievo: sono instabili e, se portate all’eccesso, possono diventare vizi; pertanto le virtù naturali non sono sufficienti, ma data la loro instabilità necessitano di una adeguata paideia: esemplare in tal senso, nella Ciropedia, la lunga lezione impartita a Ciro da suo padre Cambise (Cyr., I, 6), nonché il lungo percorso educativo che Ciro affronta una volta tornato in Persia. Quanto alla philotimia come motivazione all’agire politico, lo studioso sottolinea, a ragione, che tale motivazione non può valere per tutti i cittadini, ma non compie esplicitamente il passo successivo, quello di riconoscere che essa può valere solo per un leader o comunque per una élite, anche se non manca di rilevare il valore positivo assegnato alla philotimia in età ellenistica e soprattutto dalla classe dirigente a Roma. In sostanza un contributo ricco di spunti interessanti, anche se la philotimia rimane in gran parte irrelata rispetto alle altre qualità che fanno di Ciro il leader ideale. Un lavoro inerente a un ambito particolare della politica, quello dell’economia, è stato poi presentato da una giovane e promettente studiosa, Tazuko Angel Van Berkel, che parte dal noto rifiuto da parte di Socrate di farsi pagare per le sue conversazioni e si propone di indagarne le motivazioni: più precisamente la studiosa intende mettere in luce in che misura tale rifiuto si fondi sulla comprensione da parte di Socrate del fenomeno costituito dal denaro e dell’influenza che esso esercita sull’anima umana e sulle relazioni interpersonali. A tale scopo Van Berkel delinea un percorso articolato in tre tappe. Innanzi tutto viene preso in esame l’atteggiamento di Senofonte e di Platone nei confronti del denaro e del processo di arricchimento: premesso che le convinzioni in materia di economia di Senofonte e di Platone emergono soprattutto in opere non socratiche, cioè, rispettivamente, nei Poroi e 145
nelle Leggi, la studiosa afferma che, se invece si prendono in esame le opere socratiche di entrambi, si può notare il ricorrere in entrambi di alcuni principi, in particolare quello dell’uso appropriato, il che, a giudizio di Van Berkel, starebbe a indicare una comune ascendenza socratica. Per Senofonte la studiosa si sofferma innanzi tutto sul primo capitolo dell’Economico, in cui non solo viene abbozzata una distinzione tra il valore d’uso e il valore di scambio (Oec., 1, 10-11), ma si afferma una concezione del valore d’uso (ma in ultima analisi anche del valore di scambio)19 relativa non tanto alla potenziale utilità di un oggetto, bensì alla capacità di chi lo possiede di farne l’uso appropriato: ciò vale per la ricchezza stessa (chrēmata)20, che risulta inutile per chi non sa utilizzarla. Ma il dato più significativo di questa parte iniziale dell’Economico è costituito, nota a ragione Van Berkel, dalla concezione soggettiva della ricchezza a cui Socrate dà voce: ricco è chi possiede più di quanto è necessario per soddisfare i propri bisogni e, quindi, è ricco chi, come Socrate, è in grado di limitare i propri desideri e i propri bisogni, mentre è povero chi, come Critobulo, pur dotato di un ingente patrimonio, conduce un tipo di vita che rende tale patrimonio insufficiente a soddisfare le proprie necessità (Oec., 2, 2-8). Riguardo a Platone, secondo la studiosa, data la dicotomia corpo-anima, ricchezza e denaro sono oggetto di una valutazione negativa, in quanto appartenenti alla sfera del corpo; tuttavia anche in Platone compare una concezione relativa della ricchezza e della povertà, in quanto quest’ultima viene presentata non come frutto della diminuzione del patrimonio, ma di una crescente insaziabilità (Leg., 736e). Più pertinenti, a mio avviso, se si intende rinvenire una qualche traccia o almeno una qualche influenza del Socrate storico21, le considerazioni che Van Berkel trae dal Gorgia, dove Socrate in opposizione a Callicle afferma che sono felici coloro che non hanno bisogno di nulla (Gorg., 492e) e dove l’anima insaziabile viene paragonata a un orcio forato (Gorg., 493a-494a); pertinenti anche i riferimenti all’Eutidemo, dove il valore della ricchezza è posto in relazione alla capacità di chi la possiede di farne un uso corretto (Euthyd., 281c-e); interessante, infine, l’accenno allo pseudo-platonico Erissia22, in 19
Cf. Oec., 1, 11-12. In realtà il termine chremata è dotato di una molteplicità di significati: “cose”, “oggetti”, ma anche “ricchezza”, “denaro”. 21 Difficilmente infatti, come la stessa Van Berkel ha sottolineato in precedenza, può ravvisarsi una influenza socratica nelle Leggi, l’ultima opera di Platone. 22 Come è noto, l’Erissia è un dialogo che già nell’antichità veniva considerato spurio, tanto è vero che non fu incluso nelle nove tetralogie in cui Trasillo riunì le opere attribuite a Platone: nonostante le perduranti incertezze sulla sua datazione (Laurenti lo colloca negli anni immediatamente successivi alla morte di Platone, quindi all’epoca di Speusippo e di Senocrate, mentre altri propendono per una datazione più bassa), sembra comunque pressoché certo che sia stato scritto nell’ambiente dell’Accademia e che in esso si possano cogliere diversi spunti di una tradizione socratico-platonica. 20
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cui viene ribadito che la ricchezza consiste in ciò che è utile a chi la possiede, in ciò che il possessore è in grado di utilizzare. Nella seconda fase della sua indagine la studiosa si occupa poi della ricchezza e del denaro in rapporto alle relazioni interpersonali. Riguardo a Senofonte rileva, a ragione, che egli estende la nozione dell’uso appropriato anche alle relazioni interpersonali e, in particolare, a quel tipo di relazione che in Grecia rivestiva una particolare importanza, anche in ambito politico, cioè l’amicizia: come bisogna saper utilizzare in modo appropriato i propri beni affinché costituiscano una ricchezza, così bisogna saper gestire23 in modo appropriato i propri amici; non deve perciò sorprendere che il Socrate dei Memorabili utilizzi a proposito delle relazioni con gli amici una terminologia di tipo economico: esemplari, in tal senso, i cap. 4, 5, e soprattutto il 10 del libro II. Questa particolare applicazione del concetto di uso appropriato alle relazioni interpersonali, asserisce Van Berkel, è tipica di Senofonte. Quanto a Platone, la studiosa esamina diversi passi di vari dialoghi in cui il Socrate platonico dà voce alle diverse motivazioni per cui è sbagliato e riprovevole fornire insegnamenti a pagamento: non già perché, come asserisce il Socrate di Senofonte, chi pretende un pagamento si trova poi costretto a impartirli e perde la sua libertà di conversare con chi preferisce (Mem., I, 2, 5-7), ma perché, in ultima analisi, lo statuto ontologico di concetti quali la conoscenza, la sapienza, la virtù è incommensurabile con lo statuto ontologico del denaro. Riguardo alle modalità con cui il denaro influisce sulle relazioni interpersonali, Van Berkel, non a torto, si sofferma in particolare sul dialogo tra Socrate e Antifonte in Mem., I, 6, sottolineando come la visione del mondo di Antifonte sia permeata dalla logica e dal linguaggio del mercato, tanto da ridurre la sophia a un’abilità commerciabile, mentre per Socrate la sapienza e la virtù, al pari della bellezza, sono dotate di un valore intrinseco e non sono in vendita. Quindi la studiosa, facendo riferimento per Senofonte ad Ages., 4, 4, e a Mem., I, 2, 5-7, e per Platone a Hipp. Ma., 281b-c, nonché a Resp., 338b19, istituisce una netta opposizione tra le relazioni costruite sul (o comunque mediate dal) misthos e quelle governate dalla logica della charis e della pistis, per poi concludere che, riguardo all’economia e al denaro, il contrasto tra Platone e Senofonte è stato talvolta esagerato. Entrambi infatti definiscono ricchezza e povertà in relazione ai bisogni, entrambi insistono sul concetto dell’uso appropriato di qualsiasi bene (incluso il denaro), mentre la differenza fondamentale, a giudizio di Van Berkel, sarebbe costituita dal fatto che, mentre Platone costruisce la sua teoria del valore in base al dualismo corpo-anima, Senofonte l’articola in base all’opposizione tra il breve e 23
Chresthai significa “aver bisogno di”, “usare”, ma anche, in riferimento a persone, “gestire”, “rapportarsi con”: un aspetto davvero pregevole del contributo di Van Berkel è la sua puntuale attenzione, la sua spiccata sensibilità per le questioni di natura lessicale.
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il lungo periodo e al ruolo centrale della enkrateia nel privilegiare quei beni che si rivelano appunto tali nel lungo periodo. Il contributo di Van Berkel è senza dubbio apprezzabile per molti aspetti: per aver affrontato un argomento non facile, complesso e di notevole rilevanza politica (anche se spesso trascurato o comunque sottovalutato); per l’ampiezza dei riferimenti bibliografici citati; per l’accurata analisi della terminologia riconducibile alla radice chrē. Quello che rimane invece da chiarire è se il confronto tra i testi presi in esame intenda muoversi sul terreno di un mero studio di tipo comparativo o se invece, come sembrerebbe, si proponga anche di giungere a qualche conclusione riguardo alla posizione del Socrate storico: in questa seconda ipotesi sarebbe stato necessario precisare quali dialoghi di Platone si ritengono suscettibili di gettare una qualche luce al riguardo. Di impostazione rigidamente comparativistica, conforme ai presupposti metodologici tante volte riaffermati, è invece il contributo di Louis-André Dorion, che indaga i differenti motivi per i quali Socrate obbedisce alle leggi sia in Platone che in Senofonte, a partire da due testi in particolare, il Critone e Mem., IV, 4, che, asserisce lo studioso, finora non sono stati oggetto di un’analisi comparativa. Premesso che in entrambi i testi è presente un’ovvia preoccupazione apologetica, Dorion rileva che in Mem., IV, 4, 1-4, Senofonte elenca una serie di circostanze in cui Socrate rifiutò di disobbedire alle leggi, senza tuttavia fare alcun cenno al suo rifiuto di evadere dal carcere in nome dell’obbedienza alle leggi della città; solo in Ap., 23, si allude a un tentativo, da parte non di Critone, ma di non meglio precisati amici, di convincere Socrate alla fuga. Non bisogna poi dimenticare, ricorda lo studioso, che secondo Diogene Laerzio (II, 60; III, 36), sarebbe stato Eschine a proporre a Socrate di evadere dal carcere, ma Platone avrebbe sostituito Critone a Eschine per ostilità nei confronti di quest’ultimo; infine anche nel Critone, se è Critone a dialogare con Socrate per convincerlo a fuggire, è anche vero che in vari punti si accenna a un gruppo di amici, Critone ovviamente incluso, che si sta adoperando in tal senso. Ora queste discrepanze non sembrano di particolare rilevanza, ma ho voluto soffermarmi su di esse perché Dorion mostra di considerarle un buon esempio di quello che O. Gigon chiamava “Sokratesdichtung”, vale a dire la natura di fiction che permea profondamente tutto ciò che ci è pervenuto riguardo a Socrate. Non è questa la sede per entrare nel merito della questione, facendo notare, ad es., che la presunta discrepanza tra il Critone e il breve cenno che si legge in Ap., 23, si riduce davvero a poca cosa, ma ho voluto citare questo passaggio, in apparenza marginale, del contributo di Dorion perché ritengo che possa evidenziare come lo studioso, anche riguardo ad aspetti di scarsa importanza, si impegni sempre e comunque per cercare di dimostrare quella assoluta inattingibilità del Socrate storico, perfino per quanto concerne la sua biografia, 148
che è alla base del suo approccio metodologico. Per altro il contributo di Dorion risulta puntuale nel cogliere il positivismo giuridico che caratterizza il Socrate di Senofonte, che fa coincidere ciò che è giusto con ciò che è legale, nonché nel contestare l’esegesi straussiana che invita, come è noto, a non prendere alla lettera l’equazione giustizia-legalità, dettata esclusivamente da preoccupazioni apologetiche; altrettanto puntuale l’analisi della posizione del Socrate del Critone, che ammette che le leggi possano essere, o quanto meno apparire al cittadino, ingiuste, nel qual caso la scelta possibile è tra convincere la città a modificare le leggi e trasferirsi a vivere altrove. Corretta anche l’osservazione che il Socrate di Senofonte non solo si presenta come un esperto in campo politico, anzi come un maestro in tale ambito, ma sia nel dialogo con Ippia (Mem., IV, 4), sia, più sinteticamente, nel corso di una conversazione con Eutidemo (Mem., IV, 6, 5-6) tiene una vera e propria lezione su che cosa sia la giustizia, mentre il Socrate di Platone, con la sua professione di inscienza, non può intraprendere un simile compito e, nel Critone, sono le Leggi a parlare per lui. Ancora in Senofonte, e non solo nei suoi scritti socratici, è degno di nota il nesso che lega i diversi leader presentati come esemplari e l’obbedienza alle leggi: Senofonte, convinto sostenitore dell’efficacia dell’esempio, ritiene che i cittadini (o, nel caso di Ciro, i sudditi) siano indotti al rispetto delle leggi dal comportamento dei loro leader: il ruolo cruciale del leader è enunciato nel modo più netto in Cyr., VIII, 8, 5, così come la sua superiorità rispetto alle leggi scritte è enunciata esplicitamente in Cyr., VIII, 1, 22, un passaggio che giustamente lo studioso sottolinea, senza per altro soffermarsi a coglierne le inquietanti implicazioni. Nulla di simile in Platone: a tal proposito Dorion cita a ragione Menex., 238c, dove non sono i leader, bensì l’ordinamento politico, la politeia a formare il carattere e le qualità dei cittadini. Infine lo studioso esamina i casi in cui, stando a Platone e/ o a Senofonte, Socrate disobbedisce alle leggi (o preannuncia di farlo: Ap., 29c-d): in relazione al rifiuto di Socrate di obbedire all’ordine dei Trenta di arrestare Leone di Salamina, mentre Platone si limita a definire ingiusto tale ordine (Ap., 32d), Senofonte asserisce che si trattava di un ordine illegale (Mem., IV, 4, 3), ma non è improbabile che questa pretesa illegalità sia da ascriversi allo zelo apologetico di Senofonte. Soltanto Senofonte, poi, in due passi dei Memorabili fa riferimento al fatto che i Trenta avevano vietato a Socrate di conversare con i giovani24, ma mentre in Mem., IV, 4, 3, questo divieto viene definito un ordine, e un ordine che violava le leggi, in Mem., I, 2, 31-34, esso si configura invece come una delle leggi emanate dai Trenta: il rifiuto di Socrate di obbedire a questa legge, benché egli si dichiari disposto a obbedire alle leggi (Mem., I,
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Come è noto, nessun’altra fonte fa parola di questo divieto.
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2, 34), secondo Dorion si spiegherebbe solo ammettendo che Socrate consideri i Trenta un governo tirannico, quindi del tutto delegittimato a emanare leggi degne di questo nome: una interpretazione senz’altro ingegnosa, anche se meritevole di ulteriori approfondimenti. Riguardo poi alle leggi non scritte, che il Socrate di Senofonte presenta come di origine divina (Mem., IV, 4, 19-24), esse non solo non sono in contrasto con il diritto positivo, con le leggi scritte, ma anzi ne rappresentano il fondamento. A conclusione del suo contributo lo studioso si sofferma sul fatto che, sia secondo Platone sia secondo Senofonte, Socrate si rifiuta di adulare i giudici e di cercare di commuoverli allo scopo di essere assolto: ma mentre in Platone (Ap., 38d-e) questo rifiuto è motivato dal fatto che ricorrere a tutti i mezzi possibili per salvare la propria vita è indegno di un uomo, in Senofonte (Mem., IV, 4, 4) questo comportamento è attribuito al rispetto di Socrate per le leggi e, per essere più precisi, al fatto che indurre i giudici a emettere una sentenza lasciandosi travolgere da elementi emotivi, quali lacrime e suppliche, significa indurli a infrangere il loro giuramento di giudicare in base alla legge (il che, si potrebbe aggiungere, configurerebbe una violazione non soltanto della legalità, ma anche della pietas). Quanto al mio contributo, ho deciso di analizzare un passo dei Memorabili di grande rilevanza politica (Mem., II, 6, 22-27), che tuttavia finora non ha ottenuto tutta l’attenzione che merita, forse perché non fa parte della tranche più esplicitamente politica dell’opera, cioè i capp. 1-7 del libro III, ma si trova all’interno di una conversazione tra Socrate e Critobulo sul tema dell’amicizia. Socrate, dopo aver premesso che gli uomini nutrono sentimenti contraddittori verso i loro simili (§ 21), sostiene che tuttavia l’amicizia unisce tra loro i kaloi kagathoi (§ 22), poiché essi, grazie alla virtù, sono in grado non solo di accontentarsi di un modesto patrimonio, ma anche di dominare i loro desideri in materia di cibo, bevande e sesso, nonché di rinunciare all’avidità e di dividere i propri beni con gli amici (§ 23). Subito dopo, Socrate passa a enunciare il suo progetto politico, ma questa sorta di introduzione è di fondamentale importanza, in quanto in essa Socrate enuncia quelle caratteristiche morali che, a suo avviso, sono proprie dei kaloi kagathoi, cioè la sophrosyne e soprattutto quella enkrateia che è il fondamento della virtù (Mem., I, 5, 4), che è indispensabile a chiunque intenda esercitare il potere e che qui è posta alla base di comportamenti collaborativi che (e questo è punto fondamentale) vengono messi in atto solo all’interno del gruppo. Ma il passaggio cruciale (§ 24) è quello in cui Socrate propone che i kaloi kagathoi si spartiscano tutte le cariche pubbliche: un progetto politico di stampo apertamente oligarchico formulato con brutale franchezza. Questo progetto presenta due aspetti di grande interesse: innanzi tutto il mono-
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polio delle cariche pubbliche da parte dei kaloi kagathoi e quindi la limitazione a una élite dei diritti di cittadinanza presenta una significativa coincidenza con il progetto politico dei Trenta, che nella sua versione moderata (quella di Teramene) Senofonte aveva condiviso, militando nella cavalleria dei Trenta. L’altro aspetto di grande interesse è costituito dal fatto che Socrate (§ 27) non esita a istituire una equivalenza da un lato tra “i migliori”, “la minoranza”, i “buoni”, cioè i kaloi kagathoi, e dall’altro tra “i peggiori”, “la maggioranza”, i “malvagi”, cioè il dēmos: una equivalenza tipica della propaganda antidemocratica, ma che qui funge da legittimazione etica di un progetto politico di chiaro stampo oligarchico. Certo rimangono aperti non pochi problemi, innanzi tutto quello di stabilire con precisione a quale gruppo sociale intenda riferirsi Senofonte con l’espressione kaloi kagathoi (indispensabile a tale scopo un puntuale raffronto con l’Economico); in secondo luogo rimane aperta la questione se lo stesso Socrate possa configurarsi come un kalos kagathos; infine ci si può e ci si deve interrogare sulle modalità di realizzazione di un simile progetto, che non implicano necessariamente un rovesciamento di un assetto istituzionale di tipo democratico, ma che potrebbero assumere la forma di una spartizione delle cariche pubbliche e delle posizioni di potere anche all’interno di un ordinamento istituzionale formalmente democratico. Connesso all’ambito della politica è anche, come si è visto, il tema dell’amicizia, su cui si è cimentata una giovane e brillante studiosa, Melina Tamiolaki. Sulla philia25, un argomento senz’altro oggetto di dibattito all’interno della cerchia di Socrate, Tamiolaki prende in esame due testi di indubbia rilevanza, per Platone il Liside e per Senofonte la più lunga delle conversazioni di Socrate sull’amicizia, cioè il dialogo con Critobulo in Mem., II, 6. La studiosa muove da alcune premesse: che sia Platone sia Senofonte utilizzano questa tematica per promuovere una ben precisa immagine di Socrate; che entrambi, contrariamente ad altri autori, discutono della philia in contesti che implicano, più o meno direttamente, la dimensione dell’eros; infine che entrambi presentano una teoria della philia che adattano ai loro interessi e alle loro priorità. Quindi Tamiolaki si propone di esaminare le somiglianze e le divergenze tra Platone e Senofonte riguardo alla terminologia e alla teoria dell’amicizia, nonché gli elementi che caratterizzano la trattazione dell’amicizia nell’uno e nell’altro, per poi analizzare le implicazioni delle diverse immagini di Socrate che emergono dai testi in questione, immagini segnate da palesi finalità apologetiche. Riguardo alla terminologia, la studiosa si impegna in un’accurata analisi dei termini in 25
Come rileva a ragione Tamiolaki, il termine philia copre un range di significati molto più ampio delle sue traduzioni nelle lingue moderne (friendship, amitié, Freundschaft, amicizia, ecc.).
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gioco nel Liside (philein; philos nel suo duplice significato, a seconda che sia usato come sostantivo o come aggettivo; to philon), sottolineando come queste oscillazioni conducano gradualmente a un maggiore livello di astrazione e preparino la transizione alla discussione sul tema del prōton philon; in Senofonte, invece, nota la studiosa, i termini philos e philia vengono usati nel significato più concreto, di “amico” e di “amicizia”, intesa come legame tra due persone, mentre assai più raro che in Platone è l’uso di philein. Dopo aver evidenziato che a proposito della philia Senofonte, a differenza di Platone, enfatizza il ruolo della opheleia, cioè della utilità, Tamiolaki si sofferma su una questione trascurata dagli studiosi, cioè il fatto che Senofonte, in rapporto alla opheleia, utilizza due diversi aggettivi, ophelimos e chrēsimos, e dall’analisi di alcuni passi trae una conclusione di grande interesse e di grande rilevanza: benché i due aggettivi siano spesso interscambiabili, ophelimos implica una prospettiva a lungo termine, mentre chrēsimos allude a una occasione specifica: in relazione agli amici il primo si riferisce soprattutto al carattere, mentre il secondo evoca la loro utilità pratica, e non è un caso che Socrate, di cui i Memorabili illustrano puntigliosamente l’utilità nei confronti degli amici (ma anche di semplici concittadini), non è mai presentato come chrēsimos. Quanto ai temi comuni a Platone e a Senofonte riguardo alla philia, la studiosa ritiene che i più importanti siano la concezione dell’amico come un possesso, lo sfondo omoerotico delle conversazioni e l’attività erotica di Socrate, la metafora della caccia, l’elogio dell’amico. Nell’approccio a questi temi comuni non mancano tuttavia differenze, a volte assai sottili e sfumate, a volte molto più nette: riguardo all’amico come possesso, Tamiolaki fa notare che, mentre il Socrate di Platone istituisce un paragone tra beni di vario tipo e gli amici, a tutto vantaggio di questi ultimi, il paragone istituito dal Socrate di Senofonte è invece tra l’utilità degli altri beni e l’utilità degli amici, dichiarata superiore a quella di qualsiasi altro possesso. La studiosa asserisce quindi che nel Liside l’indagine sulla philia si intreccia a quella sull’erōs, nonché su come l’erastēs deve approcciare l’erōmenos, mentre nei Memorabili non compare una esplicita connessione tra philia ed erōs: benché Socrate si dichiari erōtikos e quindi in grado di aiutare Critobulo nella caccia ai kaloi kagathoi, tuttavia il resto dell’opera, a giudizio di Tamiolaki, non conferma questa sua dichiarazione e Socrate appare come un consigliere di potenziali erastai più che come un seduttore intellettuale lui stesso: un’affermazione che suscita qualche perplessità, se si pensa all’indubbia seduzione intellettuale che Socrate esercita nei confronti di Eutidemo, il discepolo paradigmatico, una seduzione anch’essa, in
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qualche misura, paradigmatica26. Quanto alla metafora della caccia, familiare ai Greci per antica tradizione27, anche in questo caso emergono differenze non di poco conto: secondo la studiosa, nel Liside Socrate utilizza questa metafora in riferimento all’avere catturato ciò di cui andava a caccia, vale a dire il significato dell’amicizia (Lys., 218c5-6): pertanto la metafora assume una dimensione filosofica, a cui per altro si intreccerebbe una dimensione seduttiva/ erotica di Socrate nei confronti di Liside e di Menesseno. Nei Memorabili invece la metafora della caccia compare sia nella conversazione con Critobulo sia in quella con Teodote (Mem., III, 11), copre tutti i tipi di amicizia e assume una valenza essenzialmente pratica, scevra da implicazioni filosofiche. Riguardo infine all’elogio dell’amico, mentre il Socrate di Senofonte si propone a Critobulo come intermediario tra Critobulo stesso e coloro che quest’ultimo vuole acquisire come amici (Mem., II, 6, 33-39), il Socrate di Platone, al di là di quanto dichiara nel Liside, si mostra un raffinato seduttore che non ricorre né alla caccia né all’elogio, ma all’elenchos per guidare l’interlocutore alla ricerca della verità (e nel contempo per condurre a termine la sua opera di seduzione intellettuale). Quanto alla teoria dell’amicizia, si riscontrano significative differenze, la più importante delle quali è forse quella relativa all’autarkes: per il Socrate di Senofonte il buon amico deve essere autarkes, mentre per il Socrate del Liside chi è autarkes non può avere amici, in quanto la sua perfezione morale non necessita di amici né di qualsiasi altro essere umano. Più in generale, da un punto di vista storico Tamiolaki non manca di ricordare che, mentre nel V secolo l’amicizia è segnata da forti connotazioni politiche, nel IV secolo invece l’attenzione tende a spostarsi sul rapporto tra individui: è probabile che Socrate abbia orientato il dibattito sull’amicizia verso istanze morali, cercando di collegarlo al tema della virtù. Inoltre la studiosa prospetta una inedita interpretazione complessiva di un dialogo difficile, a tratti oscuro, quale il Liside, tradizionalmente catalogato come aporetico: sostiene infatti che Platone abbia inteso creare deliberatamente una falsa aporia, nel senso che il dialogo contiene molte tesi potenzialmente valide che vengono confutate con argomentazioni assai fragili, poco credibili; tenendo conto che, a differenza degli altri dialoghi aporetici, qui gli interlocutori di Socrate 26 Sulla seduzione intellettuale che Socrate attua nei confronti di Eutidemo cf. L.-A. Dorion, Introduction, cit., p. CCXI-CCXIII. Parzialmente diversa la posizione di L. Rossetti, che nel suo ampio saggio dedicato al dialogo tra Socrate ed Eutidemo di Mem., IV, 2 (L’Eutidemo di Senofonte: Memorabili IV 2, in: G. Mazzara / M. Narcy / L. Rossetti, c/ di, Il Socrate dei dialoghi. Seminario palermitano del gennaio 2006, Levante editori, Bari 2007, p. 63-103; ora in: L. Rossetti, Le dialogue socratique, Les Belles Lettres, Paris 2011, p. 5599), sostiene che “il tema della seduzione rimane decisamente sullo sfondo” (p. 67 n. 9 = Le dialogue socratique, cit., p. 59 n. 3). 27 Cf., ad es., Saffo, 1, 21 Voigt.
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sono degli adolescenti, il carattere artificiale dell’aporia può essere considerato un mezzo di iniziare i suoi giovani interlocutori al metodo dell’elenchos. Non è certo questa la sede per entrare nel merito di questa inedita interpretazione, che ci si augura che Tamiolaki si impegni ad approfondire e a precisare, ma si tratta comunque di una lettura in grado di stimolare una discussione che non potrà che risultare utile e coinvolgente. Quanto a Senofonte, la studiosa insiste sul fatto che la sua teoria dell’amicizia è strutturata intorno a posizioni di tipo politico: Senofonte usa per l’amicizia una terminologia squisitamente politica, vede gli amici come preziosi, indispensabili alleati per il leader e non è un caso che i metodi suggeriti per procurarsi degli amici siano gli stessi che Ciro e Agesilao utilizzano nei confronti di alleati e sudditi: benefici consistenti per lo più in vantaggi materiali. A una terminologia politica fa riferimento, secondo Tamiolaki, anche l’espressione kaloi kagathoi, che sia nell’Economico sia nei Memorabili e, in particolare, proprio nella conversazione con Critobulo sta a indicare gli aristocratici, che Socrate propone a Critobulo come gli unici amici possibili. Al contrario di Platone, infatti, Senofonte subordina la morale e i comportamenti individuali a quelle che sono le sue finalità e le sue priorità politiche. La studiosa conclude infine il suo ricchissimo e stimolante contributo affermando che l’elemento che accomuna il Liside e il dialogo con Critobulo in Mem., II, 6, è costituito dall’intento di presentare una immagine di Socrate che lo difenda da una delle accuse mosse in sede processuale, cioè quella di corrompere i giovani, da intendere nel senso di intrattenere con loro relazioni sessuali. La difesa di Senofonte si fonda sulla utilità di Socrate nei confronti dei suoi amici, il che renderebbe poco credibile l’accusa di corrompere i giovani: una difesa debole, a giudizio di Tamiolaki; più abile, invece, la difesa di Platone che nel Liside riesce, attraverso l’ironia socratica, a insinuare dubbi sulla personalità di Socrate, sul suo preteso ruolo di seduttore di giovani. Questa parte conclusiva mi sembra la meno convincente di un contributo pur così pregevole: pare improbabile, infatti, che l’accusa di corrompere i giovani intendesse affermare o comunque insinuare che Socrate intrattenesse relazioni sessuali con i suoi giovani amici28, in quanto la corruzione cui si alludeva era verosimilmente di natura squisitamente politica (come di natura squisitamente politica fu tutto il processo), nel senso che Socrate li avrebbe indotti a un atteggiamento ostile nei confronti della democrazia, la stessa accusa che pochi anni dopo la sua morte gli fu mossa da quel retore Policrate29 che proprio Senofonte si incaricherà di confutare all’interno della prima sezione, quella propriamente apologetica, dei Memorabili. 28
In proposito mi permetto di rinviare a quanto ho scritto nella mia recensione a G. Danzig (cf. supra, n. 2): vedi in particolare p. 50-51. 29 Vedi Mem., I, 2, 9.
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Ancora sul tema della philia verte il contributo di Egidia Occhipinti, che si propone di cogliere l’aspetto utilitaristico della philia in Platone e in Senofonte. Anche Occhipinti muove dalla premessa che il termine philia ha una estensione molto più ampia dei termini con cui viene tradotto nelle lingue moderne, per poi notare che, mentre per noi l’accostamento tra utilità e amicizia costituisce un paradosso, quello tra utilità e philia trova riscontro nei libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea. A giudizio della studiosa, pertanto, philia sta a indicare una relazione fondata su reciproca fiducia e reciproci benefici, una reciprocità che si colloca quindi alla base della philia stessa. Per Platone Occhipinti prende in considerazione il Liside, un dialogo aporetico da cui, per altro, è possibile trarre qualche conclusione: da un lato infatti viene respinta l’idea tradizionale che la philia sia basata sulla somiglianza, dall’altro la philia è strettamente connessa all’ers, una connessione destinata a divenire più chiara nel Simposio (in particolare nel discorso di Aristofane e nel racconto della vicenda di Alcesti narrato da Fedro), nonché nella Repubblica, dove Socrate trasferisce la philia dall’ambito delle relazioni all’interno della famiglia alle relazioni tra tutti i cittadini, poiché nella città ideale ciascuno dei guardiani considererà qualsiasi altro guardiano come suo parente (Resp., 463c): la studiosa però non chiarisce perché questo tipo di philia estesa oltre l’ambito della famiglia sia connessa alla dimensione dell’erōs. Una concezione in parte utilitaristica della philia è riscontrabile, secondo Occhipinti, nel Fedro, dove comunque è difficile distinguere l’amicizia dall’amore. In Senofonte, invece, prevale una concezione della philia come utile e fonte di benefici: l’aiuto reciproco diviene così la base dell’amicizia sia tra i cittadini sia tra gli stati. Tuttavia, nota la studiosa, le relazioni di tipo politico in Senofonte si configurano spesso come relazioni improntate a una precisa gerarchia: si pensi in particolare a quelle che nella Ciropedia Ciro intrattiene con i suoi amici, con i suoi alleati e con i nemici sconfitti, spesso trasformati in amici e alleati. Una simile concezione dell’amicizia, prosegue Occhipinti, non ha nulla a che vedere con un’autentica generosità, ma nel caso di Ciro mira a garantirgli obbedienza e fedeltà. Anche in alcuni passi dei Memorabili (I, 6, 3; II, 4, 1-6) si riscontra una visione palesemente utilitaristica della philia, che nasce, secondo la concezione tradizionale, dalla somiglianza, in quanto essa può esistere soltanto tra i buoni (II, 6, 14-16). In conclusione Occhipinti afferma che sia in Platone che in Senofonte la philia si fonda su esigenze e bisogni utilitaristici, ma in Senofonte l’idea che la philia deve essere fonte di benefici assume particolare importanza in ambito sociale e politico; inoltre in Senofonte spesso la philia si traduce in relazioni di tipo gerarchico; più difficile, invece, precisare la visione della philia in Platone, dato che il Liside si configura come una discussione aporetica. 155
Non troppo lontana dalla tematica della philia è senz’altro quella dell’erōs, una tematica di indiscutibile rilevanza, di estrema complessità e dalle molteplici sfaccettature. Dell’erōs e, più specificamente, della dimensione erotica della paideia quale appare nel Simposio di Senofonte e in quello di Platone si è occupato un interessante contributo di Francesca Pentassuglio. Il punto di partenza della sua analisi è costituito dal fatto che in entrambi i testi ci viene presentato un Socrate che in ambito erotico rovescia quelle che erano le regole riconosciute nell’ethos tradizionale, vale a dire la gerarchia, l’asimmetria e il desiderio a senso unico nella relazione omosessuale. Tuttavia se in entrambi i casi Socrate sostituisce la reciprocità al carattere gerarchico e asimmetrico della relazione erotica, le funzioni e le implicazioni di tale reciprocità rimangono assai differenti nei due testi in questione. Nel Simposio di Senofonte il tema della reciprocità è sviluppato soprattutto nei paragrafi centrali del discorso di Socrate sull’erōs, dove la reciprocità viene presentata come un aspetto che caratterizza l’erōs tēs psychēs, un aspetto a cui viene conferito un particolare risalto nell’ambito delle relazioni omosessuali. Questa reciprocità costituisce in Senofonte anche la base per la distinzione tra relazioni lecite e illecite, sia di tipo omosessuale che di tipo eterosessuale, ed è connessa a un altro fondamentale requisito delle relazioni lecite, cioè la mancanza di qualsiasi coercizione e la libera concessione dei propri favori, come emerge anche dallo Ierone (1, 28-38) e dall’Economico (10, 12). Ancora nel Simposio di Senofonte l’elogio dell’erōs tēs psychēs, contrapposto all’erōs rivolto al corpo, si traduce nella condanna dei rapporti sessuali tra erastēs ed erōmenos, mentre della relazione fondata sull’erōs tēs psychēs viene sottolineata la durata nel tempo e la reciprocità, in quanto l’erōmenos sarà spinto a ricambiare l’erastēs dalla consapevolezza di essere ammirato da lui per il suo virtuoso carattere e non per la sua effimera bellezza. Inoltre Socrate afferma esplicitamente che, in una relazione in cui l’erastēs ama non l’anima bensì il corpo dell’erōmenos e riesce a indurlo ad avere rapporti sessuali, non può esserci reciprocità perché l’erōmenos, a differenza di una donna, non prova piacere durante il rapporto e finisce per provare disgusto verso l’erastēs (Symp., 8, 21-22). La studiosa sottolinea poi come l’asimmetria nella relazione omosessuale tra un adulto e un giovane fosse una caratteristica di questo tipo di esperienza erotica e la distinguesse dalla philia, basata invece sulla reciprocità, come rivela l’ambivalenza stessa del termine philos, che ha valore sia attivo “amico di” sia passivo “caro a”; anche sul piano emozionale, non solo su quello fisico, rimaneva una asimmetria, evidenziata dal fatto che i Greci parlavano di erōs in riferimento all’amante e di philia in riferimento all’amato, cioè a un sentimento che include affetto, gratitudine, ammirazione. Alla base di questa concezione che vedeva un’asimmetria gerarchica nelle relazioni omosessuali si collocava la lettura in chiave pedagogica di tali relazioni, in quanto 156
si supponeva che l’erastēs fosse dotato di una serie di virtù che lo rendevano atto all’educazione dell’erōmenos: a questo proposito Pentassuglio cita un passaggio del discorso di Pausania (Symp., 185a-b), in cui la mancanza di desiderio da parte dell’erōmenos diverrebbe una componente fondamentale della valenza educativa (anche sul piano politico) della sua relazione con l’erastēs. La studiosa sostiene inoltre che nel discorso di Socrate nel Simposio di Senofonte esiste una stretta connessione tra reciprocità, erōs tēs psychēs e kalokagathia (Symp., 8, 10-11), presentata come la caratteristica che accomuna entrambi i partner, in quanto la kalokagathia dell’amante genera quella dell’amato e viceversa, in una sorta di circolo virtuoso (Symp., 8, 2527): su questo punto, per altro, sarebbe stato auspicabile un ulteriore approfondimento del significato di kalokagathia nonché di un termine come kalos kagathos, alla luce non soltanto del Simposio, ma anche di uno scritto fondamentale al riguardo come l’Economico. Quanto al rovesciamento di ruolo tra erastēs ed erōmenos che si verifica nel Simposio di Platone, esso, come è noto, riguarda lo scambio di ruoli tra Alcibiade e Socrate, il quale, ricercato da Alcibiade come suo erastēs, finisce per diventare erōmenos, mentre Alcibiade è costretto ad assumere il ruolo di erastēs: a questo proposito Pentassuglio sottolinea che Socrate, paragonato da Alcibiade alle statuette dei Sileni (assimilabili a erastai) che, una volta aperte, mostrano al proprio interno immagini di dèi (Symp., 215a-b), appare a sua volta oggetto di erōs e pertanto, assumendo contemporaneamente il ruolo di amante e di amato in relazione ad Alcibiade, romperebbe l’asimmetria su cui tradizionalmente si fondavano le relazioni omosessuali. Una reciprocità tra amante e amato è adombrata, a giudizio della studiosa, anche nel discorso di Diotima, in cui a entrambi viene assegnato un ruolo attivo, in quanto nessuno dei due rimane un mero oggetto del desiderio in una relazione erotica che è, al tempo stesso, un modello per la ricerca filosofica. Come si può constatare, si tratta di un contributo di notevole spessore, anche se, a mio parere, sarebbe stato utile prendere in considerazione per Senofonte non soltanto il Simposio, ma anche la prima conversazione con Eutidemo nei Memorabili (IV, 2): nel corso di questo dialogo, infatti, da un lato Socrate, che inizialmente appare come erastēs di Eutidemo il bello, finisce per assumere su di sé il ruolo di erōmenos, di oggetto di desiderio per Eutidemo; dall’altro la seduzione intellettuale operata da Socrate e finalizzata ad avviare Eutidemo a un esemplare percorso educativo si contrappone con estrema nettezza al rozzo tentativo di seduzione fisica tentato da Crizia nei confronti del medesimo Eutidemo (Mem., I, 2, 29-30).30
30
Cf. supra, n. 29.
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Ancora sulla tematica dell’erōs è infine da ricordare il contributo di taglio rigorosamente filologico di Menachem Luz, che sviluppa un’analisi comparativa tra il testo conservatoci dal Pap. Flor. 113 e il ruolo dell’erōs nei discorsi pronunciati da Antistene nel Simposio di Senofonte. Il testo del papiro, che verte sul tema del successo o del fallimento nell’ambito delle arti, delle scienze e della filosofia, presenta nella sezione centrale due aneddoti dialogati (del genere della chreia), seguiti da una sezione frammentaria che descrive un simposio: i protagonisti dei due aneddoti sono Socrate e Antistene, che ammettono il loro fallimento nel tentativo di rendere migliori, rispettivamente, Alcibiade e un anonimo giovane amato da Antistene. L’analisi dettagliata dei due aneddoti e il confronto con i discorsi di Antistene nel Simposio di Senofonte (Symp., 3, 4-6; 4, 34-44; 4, 61-62) porta lo studioso a concludere che tanto il dialogo conservato (non nella sua interezza) nel Pap. Flor. 113, quanto i discorsi attribuiti ad Antistene nel Simposio di Senofonte si rifanno a quello che della filosofia di Antistene ci è noto dai frammenti superstiti: pertanto il Pap. Flor. 113 costituisce un testo di apprezzabile rilevanza nell’ambito della letteratura socratica. Un argomento connesso in qualche misura a quello dell’eros è stato affrontato da Jenny Bryan, che si è occupata delle relazioni che Socrate intrattiene con le donne in Platone e in Senofonte. Per quanto riguarda Platone, la studiosa prende in esame il rapporto tra Aspasia e Socrate nel Menesseno e quello tra Diotima e Socrate nel Simposio. In entrambi i casi Socrate riferisce un discorso che viene attribuito a una donna, il che a prima vista rappresenta senz’altro una provocazione, dato che la parola e il discorso sono appannaggio esclusivo degli uomini. Tuttavia, argomenta Bryan, la provocazione è smussata e ricondotta a una dimensione rassicurante: infatti non solo un discorso attribuito a una donna è comunque riferito e pronunciato da un uomo, ma è fondato il sospetto che sia Aspasia sia, a maggior ragione, Diotima altro non siano che una trasparente maschera di Socrate stesso. Non mancano, in entrambi i testi, indizi precisi in tal senso: nel Menesseno è Menesseno che avanza dubbi sul fatto che il discorso che Socrate ha attribuito ad Aspasia sia stato effettivamente composto da lei (Menex., 249d7-e2); nel Simposio è Aristofane, che si rende conto che Socrate nel preteso discorso di Diotima ha fatto una precisa allusione a quanto Aristofane stesso aveva affermato poco prima e cerca quindi di intervenire in proposito (Symp., 212c4-6): un passaggio che mira a rendere esplicito il fatto che Diotima non è che un alter ego che Socrate stesso ha creato. Meno convenzionale e più autenticamente provocatorio nelle sue relazioni con le donne è invece, a giudizio della studiosa, il Socrate di Senofonte. L’interazione più significativa e più sorprendente del Socrate di Senofonte è senz’altro quella con l’etera Teodote (Mem., III, 11). Riprendendo osservazioni 158
formulate da diversi studiosi31, Bryan sostiene che esistono parallelismi tra Socrate e Teodote: ad es., se Teodote è una donna disposta a stare insieme a chi riesce a persuaderla (Mem., III, 11, 1), alla fine della conversazione è Socrate che diviene una etera che deve essere persuasa (Mem., III, 11, 1518) e che da un lato si identifica con Teodote, dall’altro risulta superiore a lei nell’arte della seduzione. Degno di nota è inoltre il fatto che Teodote chieda a Socrate di aiutarla nella caccia agli amici (Mem., III, 11, 15), il che è in piena sintonia con il ruolo di intermediario, di mezzano che Socrate stesso si attribuisce nel Simposio (3, 10). Infine Socrate assume anche il ruolo di esperto nelle arti magiche della seduzione (Mem., III, 11, 16-17). Tuttavia, prosegue la studiosa, è innegabile che esista una tensione tra il Socrate esperto nell’arte della seduzione e in quella del mezzano da un lato e il Socrate campione di enkrateia dall’altro; la conclusione è che l’interazione del Socrate di Senofonte con Teodote si caratterizza, secondo Bryan, come molto più dirompente e provocatoria di quella del Socrate platonico con Aspasia o Diotima. Infine vengono prese in considerazione le affermazioni di Socrate relative alla danzatrice/ acrobata e a Santippe che si leggono nel Simposio. La studiosa coglie un parallelismo tra Socrate e la danzatrice/ acrobata nella misura in cui entrambi si sono allenati e preparati ad affrontare senza paura i rischi di una pericolosa danza acrobatica in un caso ovvero le tentazioni costituite dai desideri nell’altro: e sono proprio le interazioni con Teodote nei Memorabili e con la danzatrice/ acrobata nel Simposio a sottolineare ulteriormente la straordinaria enkrateia di Socrate. Quanto allo scambio di battute tra Antistene e Socrate a proposito di Santippe (Symp., 2, 10), secondo Bryan starebbe a dimostrare lo scarso rispetto di Socrate per i comportamenti convenzionali, compresi quelli da lui stesso consigliati ai suoi amici e compagni. In conclusione la studiosa ribadisce che le interazioni del Socrate platonico con le donne sono assai meno innovative e provocatorie di quanto sembrino a prima vista, mentre le interazioni del Socrate di Senofonte con le donne, apparentemente convenzionali, in realtà ci mostrerebbero un Socrate in un certo senso alieno ed estraneo alle convenzioni che pure egli stesso difende. 31
La studiosa cita G. Danzig, Apologizing, cit., p. 171, nonché D.K. O’ Connor, Xenophon and the Enviable Life of Socrates, in: D. Morrison, c/ di, The Cambridge Companion to Socrates, Cambridge University Press, Cambridge (Ma) 2011, p. 62. Non accenna invece all’interpretazione del dialogo tra Socrate e Teodote fornita da M. Narcy in una serie di contributi: La meilleure amie de Socrate. Xénophon, Mémorables III 11, in: “Les Études philosophiques“, LXIX (2004/ 2), p. 213-34 (l’unico ricordato da Bryan en passant); La Teodote di Senofonte: un Alcibiade al femminile?, in: G. Mazzara / M. Narcy / L. Rossetti, c/ di, Il Socrate dei dialoghi, cit., p. 53-62; Socrate et son âme dans les Mémorables, in: M. Narcy/A. Tordesillas, c/ di, Xénophon et Socrate. Actes du colloque d’Aix en Provence (6-9 novembre 2003), Vrin, Paris 2008, p. 29-47.
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Una serie di importanti contributi si è poi occupata di questioni inerenti all’etica, dal tema della virtù a quello della felicità. Di grande rigore e di rimarchevole ampiezza culturale il contributo di Lowell Edmunds relativo alla triade di virtù socratiche rinvenibile negli scritti di Senofonte e alla povertà di Socrate. Lo studioso si pone innanzi tutto il problema della relazione esistente tra queste tre virtù, il dominio di sé (enkrateia), la capacità di sopportare circostanze esterne avverse (karteria) e l’autosufficienza (autarkeia), per esaminare se e in quale misura ciascuna di esse caratterizzi anche il Socrate di Platone e, più in generale, quale spazio e quale ruolo rivestano in Platone; infine viene indagato il rapporto fra queste tre virtù e la povertà di Socrate. Riguardo al primo punto Edmunds, dopo aver sottolineato la centralità e la preminenza della enkrateia, esplicitamente affermata in Mem., I, 5, 4 (cf. anche IV, 5, 8), suggerisce una stretta connessione tra enkrateia e karteria, ravvisabile anche a livello storico-linguistico, e ricorda che Aristotele nell’Etica Nicomachea sostiene che la differenza tra enkrateia e karteria è la stessa differenza che esiste tra “vincere” (kratein) e “resistere” (antechein), il che fa sì che la enkrateia sia preferibile alla karteria (Eth. Nic., 1150a32-36). Benché la enkrateia indichi la capacità di dominare il desiderio di cibo, bevande, sonno, sesso (quindi i desideri provenienti dall’interno dell’uomo), mentre la karteria indica la capacità di resistere a circostanze avverse esterne all’uomo, quali il freddo, il caldo e la fatica, lo studioso rileva – ed è senz’altro un punto di particolare interesse – che questi due termini risultano in alcuni casi interscambiabili. Da un lato, infatti, karteria/ karterein possono essere usati per indicare la resistenza verso il desiderio di sesso (Mem., II, 6, 22), ovvero verso il desiderio di cibo, bevande, sesso, sonno (Mem., IV, 5, 9), ovvero verso il desiderio di cibo (Cyr., IV, 2, 46) o di sesso (Cyr., VI, 1, 36), ovvero ancora la capacità di resistere al freddo e, nel contempo, al desiderio di cibo e di bevande (Cyr., II, 3, 13). D’altro canto, asserisce Edmunds, nella prima conversazione con Aristippo Socrate usa l’aggettivo enkrates per indicare il dominio, il controllo sia sui desideri sia sulle avverse condizioni esterne (Mem., II, 1, 7), così come in Cyr., VIII, 1, 36, sembra esserci una parziale sovrapposizione tra gli ambiti in cui si esercita la enkrateia e quelli in cui si esercita la karteria. Quindi lo studioso, dopo aver ricordato che il Socrate di Senofonte non solo esorta alla karteria, ma anche (e soprattutto) la pratica in prima persona, come emerge dal dialogo con Antifonte (Mem., I, 6, 2-3 e 7), cita una serie di testi che fanno riferimento alla karteria del Socrate storico, quale almeno ci viene presentato non solo in vari passi delle Nuvole di Aristofane, ma anche in frammenti del Konnos di Ameipsias, nonché nel celebre discorso di Alcibiade nel Simposio di Platone. Quanto ad autarkeia e all’aggettivo autarkes, questi termini ricorrono quattro volte nei Memorabili e la autarkeia è comunque implicita in Mem., I, 2, 1: da un’attenta analisi di questi cinque passi emerge 160
che soltanto uno (Mem., I, 2, 14) presenta una chiara relazione fra le tre virtù socratiche; pertanto, conclude Edmunds, è ben difficile sostenere che in Senofonte sussista una sistematica connessione tra autarkeia ed enkrateia. Riguardo poi alla triade in Platone, se è vero che per il Socrate platonico la enkrateia è irrilevante, in quanto è una conseguenza della conoscenza, è vero tuttavia che, per ciò che concerne il suo stile di vita, il Socrate di Platone non è diverso dal Socrate di Senofonte. Si pensi a quanto di lui narra Alcibiade nel Simposio, non solo riguardo al suo rifiuto di accettare l’offerta di fare sesso da parte di Alcibiade, ma anche riguardo alla sua capacità di resistere alla fame e al freddo durante l’assedio di Potidea: ebbene in tutti questi passi (Symp., 219d5-7; 220a1; 220a6) si riscontrano termini come karteria, karterein, karteresis. Pertanto, secondo lo studioso, non solo il Socrate descritto da Alcibiade dà prova di karteria ma, se come in Senofonte anche in Platone la karteria presuppone la enkrateia, allora anche quest’ultima può essere ascritta a Socrate, benché Alcibiade non usi questo termine32. Quanto alla autarkeia, Edmunds rileva che il Socrate platonico non ne parla mai in relazione a sé e, tranne un caso isolato33, non si riferisce ad essa come a una virtù: perciò Platone si mostra in pieno accordo con Senofonte, in cui la autarkeia presenta una relazione assai debole, per non dire inesistente, con la enkrateia e la karteria. Riguardo alla povertà di Socrate, nella misura in cui comportava una diminuzione di status, suscettibile di derisione se non di aperto biasimo, sia Platone che Senofonte sono costretti a elaborare una linea di difesa. Mentre altri (lo studioso cita Antifonte in Mem., I, 6, il poeta comico Eupoli, nonché ovviamente le Nuvole) vedevano la karteria di Socrate come la conseguenza della sua povertà, Senofonte presenta la karteria come la causa, deliberatamente scelta, della povertà; quanto a Platone, se nel Fedone (82c2-8) Socrate ammette che la povertà può essere conseguenza della karteria, nell’Apologia (23b7-c1) Socrate presenta la propria attuale povertà come conseguenza della missione filosofica intrapresa per obbedire al dio di Delfi. Pertanto sia in Platone sia in Senofonte la povertà di Socrate viene presentata come conseguenza di una scelta consapevole, quella della pratica della karteria/ enkrateia in Senofonte, quella della pratica della filosofia in Platone. Edmunds è quindi in grado di formulare alcune prime conclusioni: che la presunta triade di virtù socratiche negli scritti di Senofonte si riduce in realtà a una diade (enkrateia e karteria); che il tema della autarkeia è 32 A questo proposito vale la pena di ricordare che, a giudizio di G. Reale (Socrate, BUR, Milano 2000, p. 35), l’elogio di Socrate pronunciato da Alcibiade nel Simposio fornisce significativi elementi ascrivibili al Socrate storico. Non diversa la posizione di G. Vlastos: vedi Socrates. Ironist and Moral Philosopher, Cambridge University Press, Ithaca (N. Y.) 1991, p. 33 (Socrate il filosofo dell’ironia complessa, tr. it. A. Blasina, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 43). 33 Resp., 387d-e1, dove l’uomo epieikēs risulta appunto autarkēs.
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assente in Platone; che in Senofonte la autarkeia è posta in relazione alla sua povertà; che sia in Platone sia in Senofonte la povertà di Socrate è la conseguenza e non la causa della sua straordinaria karteria; che sia Platone sia Senofonte difendono la povertà di Socrate presentandola come l’esito del suo stile di vita. Ma lo studioso si pone un ulteriore problema a partire dal fatto che è possibile distinguere due diversi tipi di karteria, la prima da intendersi come una espressione di enkrateia e che si esercita in relazione a circostanze esterne avverse, e la seconda, quella di cui Socrate dà prova, da intendersi come una deliberata pratica quotidiana di austerità. Si tratta quindi di spiegare questo secondo tipo di karteria, che Edmunds definisce senz’altro ascetismo, e che Socrate stesso si trova a dover difendere in due significativi dialoghi dei Memorabili, cioè nella prima conversazione con Aristippo (II, 1) e nella conversazione con Antifonte (I, 6): ma è solo alla fine di quest’ultima (I, 6, 10) che Socrate fornisce una ragione del suo ascetismo, dichiaratamente finalizzato al conseguimento della autosufficienza, della autarkeia. Pertanto, se in Senofonte la autarkeia non è connessa alla enkrateia (e quindi a quel tipo di karteria che è ordinaria espressione della enkrateia stessa), è vero invece che la autarkeia è l’objettivo della particolare karteria praticata da Socrate, del suo ascetismo. Infine lo studioso prende in esame il tema dell’autosufficienza in relazione ad alcuni intellettuali dell’epoca. Innanzi tutto Ippia di Elide e Aristippo di Cirene i quali, pur non praticando forme di ascetismo, si proponevano l’objettivo dell’autosufficienza, nel caso di Ippia attraverso la sua padronanza di molteplici tecniche che lo rendeva indipendente da qualsiasi comunità (cf. Hipp. Min., 368b-d), nel caso di Aristippo (Mem., II, 1, 12) sostenendo un tipo di libertà consistente nel “non comandare e non essere comandato”34: queste, non a caso, le posizioni di due sofisti itineranti. Ma nel caso di Socrate e di Antistene, che vivono stabilmente ad Atene, la autarkeia a cui mira il loro ascetismo è politica o meglio anti-politica, nel senso che tende a renderli indipendenti dalla polis, a condurre una vita che si colloca al di fuori o al di sopra della dimensione politica. L’atteggiamento e il punto di vista di Socrate sembrano così opporsi nettamente a quanto affermerà Aristotele, che vedrà come autosufficiente la polis, non già l’individuo quando si trova a essere isolato dalla città35. Ma la tematica della autarkeia, se pure affrontata con
34 Opportunamente Edmunds ricorda che questa è la rivendicazione avanzata da Otane in Erodoto (III, 83, 1). 35 Edmunds cita a ragione Pol., 1253a27-29, dove l’ipotetico individuo dotato di autarkeia viene considerato estraneo alla polis, e quindi o una bestia o un dio.
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maggiore consapevolezza da intellettuali che siamo soliti includere nella categoria dei filosofi36, è presente anche in testi di diversa natura, sui quali Edmunds ha l’indubbio merito di richiamare l’attenzione. Estremamente importante, infatti, è in Erodoto l’episodio dell’incontro tra Creso e Solone (I, 29-33), che culmina in una sorta di dialoghetto filosofico sul tema cruciale della felicità: già la definizione dell’essere umano come completamente in balia del caso (I, 32, 4) lascia ben poco spazio, sostiene a ragione lo studioso, a qualsiasi pretesa di autosufficienza, ma poco dopo Erodoto, per bocca di Solone37, non esita addirittura ad affermare che nessun uomo38 è autarkes, così come non lo è nessuna regione della terra (I, 32, 8-9). Diversa la posizione di Tucidide, che pure mantiene l’analogia istituita da Erodoto tra un paese e il singolo individuo, ma rovesciandone il segno: come Atene è la città più autosufficiente della Grecia (II, 36, 3), così lo è il singolo cittadino ateniese (II, 41, 1): questo è quanto afferma Pericle nel suo epitaphios logos per i caduti del primo anno di guerra. Ma, fa notare Edmunds, subito dopo, la peste si incaricherà di smentire il fiducioso ottimismo di Pericle: nessun essere umano, anzi propriamente nessun corpo umano si mostrerà autarkēs nei confronti della malattia (II, 51, 3) e a ragione lo studioso ricorda che non è casuale né scevro di ironia il fatto che la medesima espressione (soma autarkēs) usata trionfalmente da Pericle in riferimento al cittadino venga ora riutilizzata in riferimento alla vulnerabilità della sua costituzione fisica. Queste considerazioni relative a Erodoto e a Tucidide non sono fine a se stesse, né a dimostrare semplicemente la presenza di una riflessione sulla autarkeia negli ultimi tre decenni del V secolo: Edmunds infatti ne trae la conclusione che l’autosufficienza, radicale e individuale, a cui mirava Socrate (e con lui Ippia, Aristippo, Antistene) era anti-politica e sfidava implicitamente sia l’autosufficienza dell’individuo basata sull’autosufficienza della polis proclamata da Pericle (e subito smentita dalla peste), sia l’arcaico pessimismo di Erodoto: nei confronti della democrazia esaltata da Pericle Socrate, nel corso della sua vita, decise di prendere la più netta distanza, assumendo una posizione radicalmente apolitica.
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Si tratta di un termine dai confini assai incerti e dallo spettro tuttora alquanto approssimativo: ancora più labili e sfumati tali confini nella Grecia del V e del IV secolo a. C.: v. infra, n.63. 37 Non vi è dubbio, infatti, che il Solone erodoteo sia un semplice portavoce dell’autore, dato il carattere fittizio del dialogo tra Solone e Creso: la scelta di Solone come portavoce è probabilmente dovuta a una certa sintonia che Erodoto avvertiva rispetto ad alcune convinzioni di Solone tuttora riscontrabili nei frammenti superstiti. 38 L’espressione anthrōpou sōma, se pure può ritenersi una semplice perifrasi per indicare l’essere umano, tuttavia, come sostiene Edmunds, pone comunque l’accento sulla fisicità dell’essere umano.
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A differenza del contributo di Edmunds, incentrato sulle virtù attribuite a Socrate, quello di Nili Alon verte su quelle che, negli scritti (socratici e non) di Senofonte, vengono presentate come virtù e, in particolare, sulla Virtù personificata quale appare nell’apologo di Eracle al bivio attribuito a Prodico e riferito da Socrate a conclusione della sua prima conversazione con Aristippo (Mem., II, 1, 21-33). Innanzi tutto la studiosa precisa che una differenza fondamentale tra Senofonte e Platone è costituita dal fatto che, mentre in Platone (e in particolare nel Platone dei dialoghi giovanili) siamo di fronte a sistematiche discussioni sull’essenza della virtù, Senofonte non si pone interrogativi di questo genere, ma si limita a fornire, in diverse opere, diversi elenchi di virtù: la enkrateia; la sōphrosynē39; la epimeleia, ovvero l’impegno assiduo; la disponibilità ad affrontare il ponos, cioè la fatica; inoltre alcune delle virtù dell’ethos tradizionale, quali la pietas (eusebeia), il coraggio (andreia), la sapienza (sophia). Tali virtù, tutte o in parte, non vengono attribuite soltanto a leader ideali come Ciro e Agesilao oppure a Socrate, ma si riscontrano anche nel ritratto del cacciatore delineato nel Cinegetico, il che, a giudizio di Alon, dimostrerebbe che Senofonte è più interessato alla sostanza della virtù che ai singoli individui che mostrano di possederla. Premesso che in Senofonte non vi è traccia di una ricerca orientata alla definizione della virtù, la studiosa ha deciso di prendere in esame Mem., II, 1, 21-33, dove la Virtù (Aretē) appare personificata come una mitologica figura femminile, per poi confrontare la serie di aretai ricavabili da questo passo con quelle che emergono in altri scritti di Senofonte. In Mem., II, 1, 20, Socrate, prima di riferire l’apologo attribuito a Prodico, cita alcuni versi di Esiodo (Op., 287-92) e questa citazione, secondo Alon, risulta importante soprattutto perché funzionale a quanto Socrate intende sostenere, cioè che il cammino verso la virtù costituisce un impegno che va messo in atto con costanza, senza interruzione. Quanto all’apologo che Socrate attribuisce a Prodico, la studiosa sostiene una tesi senza dubbio di grande interesse, cioè che non solo è di Senofonte la veste stilistica del racconto, che non solo i contenuti fondamentali del racconto sono in linea con le convinzioni generali di Senofonte per quanto concerne la virtù e le virtù40, ma addirittura che l’intero racconto è stato creato da Senofonte, come dimostrerebbe anche il fatto che contenuti assai simili sono posti sulla bocca di Ciro in Cyr., II, 2, 24. La Virtù conclude il suo discorso prospettando la vittoria della mente sul corpo, vittoria che può essere ottenuta solo a prezzo di un duro, incessante sforzo:
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Per altro in Senofonte, a giudizio di molti studiosi, sophrosyne può sostanzialmente ritenersi un sinonimo di enkrateia. 40 La studiosa ricorda che già L.-A. Dorion aveva sostenuto che le virtù elencate dalla Virtù in questo racconto sono le tipiche virtù care a Senofonte: vedi Héraclès entre Prodicos et Xénophon, in: “Philosophie antique”, VIII (2008), p. 85-114.
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quanto alla felicità, non si configura semplicemente come la meta a cui conduce la virtù, bensì come la gioia che comporta la pratica stessa della virtù (Mem., II, 1, 33). La virtù, per altro, appare connessa all’amicizia (Mem., II, 6, 35 e 39), nonché all’arte della guerra, poiché ciò che caratterizza la virtù sono lo studio e la pratica, non gli scopi inerenti ai diversi ambiti: pertanto, asserisce Alon, è lecito considerare il duro lavoro e la pratica come l’essenza di tutte le virtù. Del resto da Mem., I, 2, 19-20, emerge che la virtù è una qualità acquisita, il che conferma quanto asserito nel discorso di Aretē, vale a dire la fondamentale connessione della virtù con la epimeleia, l’impegno costante. Degno di nota il fatto che un’opera non socratica, l’Agesilao, offra un interessante elenco di virtù attribuite al protagonista ed è particolarmente significativa l’enfasi posta sulla eusebeia, che sembra così configurarsi come il primo e fondamentale tratto della virtù (Ages., 3, 1-2 e 5); in seguito, in una sorta di riassunto delle virtù del suo eroe (Ages., 10, 1-2), Senofonte ne elogerà la karteria, il coraggio, la sapienza (sophia), ancora la pietas, la moderazione (sophrosyne) e il domino di sé (enkrateia). Non diverse sono le virtù attribuite a Ciro, l’altro leader ideale: innanzi tutto la pietas (Cyr., I, 5, 6), quindi, implicitamente, la enkrateia, che Ciro esalta e raccomanda ai suoi uomini (Cyr., I, 5, 7-9); in un altro discorso di Ciro ai suoi (Cyr., VII, 5, 74-76) alla enkrateia si affiancano poi la sophrosyne e la epimeleia, mentre nella conclusione di questo stesso discorso (Cyr., VII, 5, 78-80) si fa un chiaro riferimento, anche se i due termini non compaiono, alla karteria e ancora una volta alla enkrateia. Quanto al Cinegetico, nel capitolo finale si insiste sul valore del ponos (Cyn., 12, 20), mentre la virtù appare non tanto personificata come nel racconto di Eracle al bivio, ma addirittura trasformata in una divinità (Cyn., 12, 21). La conclusione della studiosa è che la Virtù personificata di Mem., II, 1, 21-33, nel suo discorso non fa altro che delineare gli elementi che caratterizzano la definizione di virtù di Senofonte, cioè la enkrateia, la sophrosyne e la epimeleia; né bisogna dimenticare che la felicità a cui la virtù conduce non si configura come la meta finale, ma come il risultato, avvertibile già durante il percorso, di un atteggiamento orientato verso la virtù. Delle virtù e del loro statuto ontologico alla luce del Simposio di Senofonte si è invece occupata Susan Prince41. Scopo dichiarato della studiosa è quello di smentire la convinzione che Senofonte ignorasse la teoria platonica delle Forme e che non avesse alcun interesse per i problemi ontologici che questa teoria intendeva affrontare: Prince è invece persuasa che Senofonte conoscesse le questioni ontologiche connesse alla definizione della 41
Prince può vantare una conoscenza particolarmente sicura dei testi superstiti di Antistene: è infatti di prossima pubblicazione il volume da lei curato Antisthenes of Athens: Texts, Translations, and Commentary, University of Michigan Press, Ann Arbor.
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essenza delle virtù, ma che abbia deliberatamente scelto di rifiutare o di passare sotto silenzio alcune delle risposte che a tali questioni venivano date, o perché vicino alle posizioni di Antistene o in virtù del proprio scetticismo riguardo alla metafisica. La studiosa ricorda che Heinrich Maier, seguito in tempi recenti da Andreas Patzer, aveva sostenuto che Senofonte era a conoscenza della teoria platonica delle Forme, ma aveva deciso di non farne parola perché intendeva creare l’immagine di un suo Socrate, diverso da quello offerto dai testi di altri Socratici, Platone e Antistene in primo luogo, da lui per altro ampiamente utilizzati. Prince sostiene che rifiutare o accantonare la teoria delle Forme non significa mostrare disinteresse per le questioni ontologiche ad essa sottese e cita l’esempio di Antistene: proprio il suo rifiuto della teoria delle Forme sta non già a smentire, bensì a dimostrare il suo serio impegno sul versante ontologico. Se Patzer e Maier affermano apertamente che il Simposio di Senofonte è privo di qualsiasi riferimento a problemi di natura definizionale e ontologica, Prince sostiene invece che un’attenta lettura di questo testo rivela che Senofonte era al corrente di questo tipo di problematiche. Il primo passo preso in esame dalla studiosa è Symp., 6, 12, dove Socrate chiede a Ermogene che cosa è la paroinia, cioè il comportamento sconveniente di chi ha ecceduto con il vino, utilizzando la formula che troviamo nei primi dialoghi di Platone: ti esti?. Ermogene risponde di non sapere che cosa è la paroinia, tuttavia sarà in grado di esporre la sua opinione: questa distinzione tra una conoscenza di cui si dichiara privo e la propria opinione è in sintonia, nota la studiosa, con l’ordinario procedere della conversazione nei dialoghi definizionali di Platone, dove il punto di partenza è costituito dall’opinione dell’interlocutore, destinata poi a venire sottoposta a un elenchos, mentre la definizione che dovrebbe rispondere al ti esti? iniziale rimane un objettivo non raggiunto. Prince osserva che la rinuncia di Ermogene a rispondere alla domanda posta per ripiegare su una più praticabile alternativa mostra un interessante parallelismo con quella che, secondo Aristotele42, era la posizione di Antistene rispetto al tipico ti esti? socratico, una posizione tradizionalmente interpretata come espressione dello scetticismo di Antistene, ma che Brancacci interpreta invece, in accordo con altre testimonianze, nel senso che Antistene negava che potesse
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Met., VIII, 3, 1043b25-28: “Essi [i seguaci di Antistene] sostengono che non è possibile definire l’essenza (to ti esti), perché la definizione è costituita da una lunga serie di parole, ma che è possibile solamente insegnare di che qualità sia la cosa; così per esempio non è possibile definire che cosa sia l’argento, ma si può dire che è simile al piombo” (trad. di G. Reale).
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essere oggetto di definizione l’essenza platonica, cioè, in altri termini, negava le Forme platoniche come entità reali43. All’opinione espressa da Ermogene Socrate replica con un controesempio, mentre la narrazione si incaricherà di fornire subito dopo un concreto esempio di paroinia con il comportamento del Siracusano (Symp., 6, 6-8), finché Socrate non metterà fine a questo increscioso episodio: a giudizio della studiosa, Senofonte qui intenderebbe dimostrare al lettore la falsità della cosiddetta “fallacia socratica”, cioè di quel principio in base al quale non è possibile riconoscere un esempio di qualcosa se non si è in grado di dare una definizione di questo qualcosa. Il secondo passaggio analizzato da Prince è Symp., 2, 12-13, anche alla luce della questione relativa alla funzione di Antistene nel Simposio e, in particolare, alla sua presenza nel cap. 2. La studiosa sostiene che proprio il Simposio, assai più dei Memorabili, risulta affidabile per ricostruire la considerazione di Senofonte nei confronti di Antistene e che in tutti i passaggi del Simposio, eccettuato il suo ampio discorso centrale, Antistene appare non come una figura dogmatica, bensì come una figura eristica e protrettica: in particolare buona parte del materiale presente nel cap. 2 farebbe riferimento al Protrettico di Antistene. Inoltre in Symp., 2, 12, Socrate, rivolgendosi proprio ad Antistene, sembra citare la sua celebre tesi che non è possibile contraddire44. Dato che qui la soluzione del problema relativo alla possibilità di contraddire viene affidata non a un’argomentazione come in Mem., IV, 6, 13, bensì a una percezione visiva, Prince ne trae la conclusione che proprio in questo potrebbe risiedere la differenza tra come Socrate e Antistene concepivano il modo migliore di insegnare, il primo attraverso la dialettica, il secondo attraverso l’esperienza o la percezione. La studiosa prende poi in considerazione Symp., 3, 4, un passo che pone il problema del rapporto tra la giustizia (dikaiosynē) e la kalokagathia, intesa come virtù45: Antistene afferma infatti che la virtù coincide con la giustizia, adducendo l’argomentazione che, mentre il coraggio (andreia) e la sapienza (sophia) in alcuni casi possono risultare dannosi agli amici e alla città, la giustizia non può mai essere associata all’ingiustizia (a cui sembra sottinteso che possano invece essere associati coraggio e sapienza, con il risultato di potersi rivelare dannosi). Prince si domanda quanto una simile affermazione sia in linea con ciò che di Antistene ci è noto da altre testimonianze e la risposta è prevalentemente negativa: innanzi tutto non pare che Antistene abbia mai sostenuto 43 Cf. A. Brancacci, Oikeios logos. La filosofia del linguaggio di Antistene, Bibliopoli, Napoli 1990, p. 228-40. 44 Questa tesi, come è noto, è attribuita ad Antistene da Aristotele, Met., IV, 29, 1024b3234, nonché in Top., I, 11, 104b20-21. 45 In effetti questo è il significato prevalente (anche in Senofonte) del termine kalokagathia, spesso per altro non esente da una connotazione in senso sociale: cf., ad es., Mem., IV, 2, 27.
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una sorta di gerarchia tra le virtù, che vedrebbe la giustizia collocarsi al di sopra del coraggio e della sapienza, ma al contrario sembrerebbe aver considerato tutte le virtù come aspetti diversi della medesima capacità umana; in secondo luogo non sembra neppure che Antistene abbia classificato le virtù in base alla loro purezza (attribuita alla sola giustizia), mentre la loro potenziale mescolanza ad altro comporterebbe la possibilità di un danno. L’unico elemento che potrebbe richiamare Antistene è il fatto che la giustizia viene definita la virtù “più incontestabile” (anamphilogotate) e, a giudizio della studiosa, questo aggettivo composto con alfa privativa, oltre a richiamare la tesi di Antistene che non è possibile contraddire (in greco: antilegein), appare in sintonia con l’abbondante presenza di aggettivi composti con alfa privativa nei frammenti superstiti di Antistene. Prince inoltre sostiene che, sebbene l’Antistene di Symp., 3, 4, abbia ben poco a che vedere con l’Antistene storico, tuttavia l’affermazione che gli viene attribuita in questo passo dimostra che Senofonte era consapevole delle intenzioni provocatorie di Antistene nell’affrontare questioni relative alla natura o all’unità della virtù e al rapporto tra quest’ultima e la sapienza. Infine la studiosa rivolge la sua attenzione a Symp., 4, 56-60, in cui Socrate afferma di voler arrivare a definire l’attività del mastropos, dell’“intermediario”, quale si vanta di essere: Prince nota, a ragione, che non si tratta di dare una definizione dell’essenza del mastropos, bensì di identificarlo cogliendone le funzioni, anzi di stabilire “di quale tipo di funzioni” (poia erga) si tratti (Symp., 4, 56) e rileva, sulle orme di Werner Müller, che la definizione tramite funzione era la forma preferita da Antistene e che è plausibile che Senofonte fosse d’accordo con Antistene nel ritenere preferibile questo tipo di definizione. In conclusione la studiosa ribadisce che, a suo avviso, il Simposio e in particolare i passi presi in esame dimostrano che Senofonte non ignorava i problemi a cui Platone intendeva dare una risposta con la teoria delle Forme, ma che, forse per influenza di Antistene, non intendeva seguire le direttrici di ricerca lungo le quali si muoveva Platone; più in generale, conclude Prince, si potrebbe affermare che lo scopo perseguito con il Simposio fosse quello di dimostrare che Socrate non aveva ad Atene un autentico successore. In sostanza questo contributo, sebbene talvolta i passi citati a riscontro (in particolare quelli dei Memorabili) vengano esaminati un po’ sommariamente, risulta ricco di singole osservazioni interessanti e bibliograficamente ben documentato, anche se a tratti sembra risentire di una certa frammentarietà e di un filo conduttore non sempre perspicuo, un limite dovuto almeno in parte al fatto che non è certo agevole lavorare su testi pervenutici soltanto in frammenti come quelli di Antistene.
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Ancora di una questione etica si è occupata Roslyn Weiss in un ampio contributo incentrato sulla risposta all’ingiustizia intenzionalmente commessa in Platone, Senofonte e Aristotele. Si tratta di un lavoro di notevole interesse non solo per la tesi sostenuta dalla studiosa, ma anche per l’implicito invito a rivedere e ad approfondire l’intera questione. Infatti Weiss si propone di dimostrare che, a differenza del Socrate di Senofonte e di Aristotele, il Socrate di Platone separa la pietà dal perdono e perciò può avere pietà di coloro che commettono ingiustizia deliberatamente, benché biasimi il loro comportamento: ma per giungere a questa conclusione la studiosa (ed è proprio questo l’aspetto più importante e più stimolante del suo lavoro) si impegna strenuamente a smentire la diffusa convinzione che vede nel Socrate platonico il propugnatore della teoria che nessuno fa del male intenzionalmente, ma soltanto per ignoranza, e che quindi ogni azione malvagia è frutto di un errore intellettuale, in quanto chiunque, quando agisce, non può che fare ciò che ritiene bene, ciò che ritiene giusto46. Non è possibile in questa sede rendere conto delle argomentazioni addotte da Weiss per sostenere che, al contrario, il Socrate platonico è persuaso che esistono persone che scelgono il male deliberatamente, sapendo cioè che è male, perciò mi limito a segnalare due punti che mi sembrano particolarmente rilevanti. Innanzi tutto la studiosa rileva che nell’Apologia compare un passaggio molto significativo al riguardo: in Ap., 41d7-e1, infatti, Socrate afferma che coloro che lo hanno condannato a morte sono degni di biasimo perché lo hanno fatto con l’intenzione di fargli del male: dunque non per un errore intellettuale, credendo di agire giustamente e/ o per il bene di Socrate, ma al contrario perché pensavano che in tal modo gli avrebbero arrecato un danno. Questo passaggio47 appare in effetti in palese contraddizione con la dottrina, tradizionalmente attribuita a Socrate o quanto meno al Socrate platonico, che nessuno fa del male volontariamente: tuttavia, a mio avviso, non bisogna dimenticare che ci troviamo di fronte a un passaggio che fa parte del terzo discorso di Socrate, quello pronunciato dopo che è stata emessa la sentenza di condanna
46 A smentire la tesi dell’impossibilità dell’akrasia, tradizionalmente attribuita a Socrate (e in particolare al Socrate platonico) Weiss aveva già dedicato un ampio saggio (The Socratic Paradox and Its Enemies, University of Chicago Press, Chicago 2006), in cui venivano presi in considerazione anche testi (il IV libro della Repubblica, il IX libro delle Leggi) privi di qualsiasi rilevanza sia per una eventuale ricostruzione delle convinzioni del Socrate storico sia, più in generale, per delineare una qualche eredità socratica. 47 La studiosa ricorda che la contraddizione tra questo passaggio dell’Apologia e il Protagora era già stata messa in luce in un interessante articolo di G. Seel, If You Know What Is Best, You Do It: Socratic Intellectualism in Xenophon and Plato, in: L. Judson/ V. Karasmanis, c/ di, In Remembering Socrates: Philosophical Essays, Clarendon Press, Oxford 2006, p. 20-49 (vedi p. 38-39).
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a morte, un discorso che si immagina48 tenuto non soltanto davanti ai numerosi giudici, ma anche e soprattutto davanti a un folto pubblico: perciò non è inverosimile supporre che Platone abbia posto sulla bocca di Socrate affermazioni che risultassero comprensibili a un vasto uditorio, che fossero in qualche modo all’interno di un modo di pensare condiviso e certo alieno da sottigliezze filosofiche e da inquietanti paradossi. Il problema, comunque, rimane senz’altro aperto. L’altro punto di particolare interesse del contributo di Weiss è costituito dal fatto che, a suo avviso, l’attribuzione a Socrate della teoria che nessuno fa del male volontariamente/ intenzionalmente49 si fonda esclusivamente sul Protagora: è a partire proprio e soltanto da questo dialogo che Aristotele l’avrebbe attribuita a Socrate50. La studiosa propone quindi una lettura del Protagora che tende a circoscrivere e a ridurre sensibilmente la portata delle affermazioni formulate da Socrate: in sostanza l’affermazione che nessuno fa del male intenzionalmente si fonda sull’identificazione del bene con il piacere e, stando così le cose, nessuno può fare a meno di scegliere il piacere e, se ciò non avviene, è soltanto per un errato calcolo dei piaceri (da perseguire) e dei dolori (da evitare). È solo partendo da premesse squisitamente edonistiche, sostiene quindi Weiss, che nel Protagora si giustifica da parte di Socrate la negazione della akrasia, negazione che quindi risulta a tali premesse strettamente legata; per di più, a parere della studiosa, tale negazione si rinviene solo nel Protagora, ma non in altri dialoghi spesso citati a riscontro, quali il Gorgia e il Menone. Anche in questo caso non è possibile in questa sede entrare nel merito dell’analisi compiuta da Weiss di alcuni passi di questi due dialoghi, perciò mi limito a sottolineare l’attenzione prestata alla distinzione, presente e fondamentale nel Menone, tra il desiderare (epithymein) e il volere (boulesthai): questa 48 Il carattere fittizio di questo discorso (non era infatti previsto che l’imputato dopo la sentenza di condanna avesse facoltà di rivolgere ai giudici un ulteriore discorso) fu rilevato, come è noto, già da U. Wilamowitz, Platon, I, Berlin 1919, p. 165. 49 Esiste in effetti, come nota anche la studiosa, un problema di interpretazione per termini come hekōn ovvero boulomenos, che possono significare “intenzionalmente”, “deliberatamente” ovvero “volontariamente” (quest’ultimo a sua volta suscettibile di differenti interpretazioni). 50 Aristotele, Eth. Nic., VII, 2, 1145b23-27, dove appunto attribuisce a Socrate la dottrina dell’inesistenza della akrasia e quindi della dottrina che vede nella agnoia, cioè nell’ignoranza, l’unica causa di scelte moralmente errate. Non è questa la sede, ovviamente, per entrare nel merito del valore da attribuire alla testimonianza di Aristotele per quanto concerne il pensiero di Socrate, una questione notoriamente molto controversa: personalmente sono incline a ritenere che si tratti di una testimonianza che non possiamo permetterci di trascurare, perché, benché sia una fonte di seconda mano, Aristotele ebbe comunque la possibilità di conoscere il pensiero del Socrate storico attraverso una tradizione orale che senza dubbio era ben viva all’interno dell’Accademia, come dimostrerebbe anche il fatto che non tutte le affermazioni di Aristotele relative a Socrate trovano riscontro nei dialoghi di Platone: cf. G. Vlastos, Socrates, cit., p. 97 (Socrate, tr. it. cit., p. 129).
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distinzione fa sì, secondo la studiosa, che almeno implicitamente emerga una distinzione tra gli uomini in base ai loro desideri: se è vero che nessuno può volere cose cattive perché, in quanto dannose, lo condurrebbero inevitabilmente all’infelicità, è anche vero che alcuni desiderano cose cattive e quindi, se pure non è possibile operare una distinzione tra gli uomini in base a ciò che vogliono, sembrerebbe tuttavia possibile operarla in base a ciò che desiderano. Pertanto, secondo Weiss, il Socrate di Platone ritiene che coloro che fanno del male per errore meritano il perdono, ma non la pietà, perché non c’è motivo di avere pietà di loro, dato che il loro agire non corrompe comunque la loro anima, mentre coloro che deliberatamente fanno del male, perché desiderano (anche se non vogliono) fare del male, recano un danno gravissimo alla loro anima e quindi meritano pietà, ma non il perdono. Quanto al Socrate di Senofonte, la studiosa sostiene che né in Mem., IV, 6, 6, né in Mem., III, 9, 4, viene enunciata la dottrina della virtù-scienza (e quindi dell’impossibilità della akrasia) tradizionalmente attribuita al Socrate platonico (ma che secondo Weiss si rinviene soltanto nel Protagora); inoltre la studiosa afferma, non a torto, che in Senofonte la akrasia si configura come l’opposto della enkrateia, quella enkrateia che per il Socrate di Senofonte costituisce il fondamento della virtù (Mem., I, 5, 4) e che rappresenta un prius rispetto alla stessa sophia, perché è proprio la mancanza di enkrateia, cioè la akrasia che tiene lontana dagli uomini la sophia (Mem., IV, 5, 6). Pertanto per il Socrate di Senofonte l’ignoranza che scaturisce dalla mancanza di enkrateia e che porta a scelte sbagliate (vedi ancora Mem., IV, 5, 6, nonché IV, 5, 11) non merita né pietà né perdono. Tralasciando l’ultima parte del contributo di Weiss, che si occupa di Aristotele e appare un po’ eccentrica e marginale rispetto a quanto precede, mi sembra che il lavoro della studiosa tradisca un impegno molto diverso riguardo a Platone e a Senofonte: per quanto concerne quest’ultimo, infatti, l’analisi appare un po’ sbrigativa in rapporto all’estrema complessità che la questione riveste nei Memorabili, dove da un lato sembrerebbe che Senofonte intenda attribuire al suo Socrate la dottrina della virtù-scienza51, mentre dall’altro pare farne un sostenitore della teoria che vede a fondamento della virtù la enkrateia52; per quanto riguarda Platone invece la lettura di Weiss, anche laddove può apparire non condivisibile (personalmente rimango perplessa soprattutto per quanto riguarda il Gorgia), è comunque estremamente attenta e, al di là delle conclusioni raggiunte, pone stimolanti interrogativi che invitano a una revisione e a un ripensamento del problema nel suo complesso e a non dare più 51
È irrilevante, ai fini del nostro discorso, a quale fonte Senofonte facesse riferimento, se ai propri personali ricordi del Socrate storico oppure al Socrate platonico del Protagora. 52 Quella enkrateia che pare collocarsi a fondamento della virtù anche in scritti non socratici: cf., ad es., Cyr. III, 1, 16, dove per altro non si parla di enkrateia bensì di sōphrosynē (ma vedi supra, n. 39).
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per scontata la tradizionale attribuzione a Socrate della teoria della virtùscienza e dell’impossibilità dell’akrasia. Ancora nel campo dell’etica si collocano tre contributi che vertono sul tema della felicità. Senz’altro originale, anche nel titolo provocatorio (The Happiness of the Lamb and the Middle Way of Aristippus in Memorabilia, II, 1, 11), quello di Louis L’Allier. Lo studioso prende le mosse dalla prima, ampia conversazione tra Socrate e Aristippo che si legge in Mem., II, 1 (e che affronta anche e soprattutto la questione della felicità), e in particolare da quanto afferma Aristippo in II, 1, 11: mentre Socrate prospetta come unica alternativa possibile quella tra comandare o essere comandato, Aristippo, che ha già dichiarato di non appartenere alla categoria di coloro che desiderano comandare (II, 1, 8), risponde rifiutando una simile alternativa e sostenendo invece di perseguire una via di mezzo, che non passa né attraverso il potere né attraverso la schiavitù, ma attraverso la libertà (II, 1, 11). Socrate replicherà ad Aristippo che nel mondo degli esseri umani una strada simile non esiste e che è inevitabile che i più forti asserviscano i più deboli (II, 1, 12-13); Aristippo replicherà a sua volta che, proprio per evitare una sorte simile, non intende chiudersi all’interno di una cittadinanza (politeia), bensì rimanere ovunque nella condizione di xenos (straniero, ma anche ospite) (II, 1, 13); al che Socrate objetterà che la condizione dello straniero/ ospite, nonostante le garanzie che la città dichiara di offrirgli, è una condizione di assoluta vulnerabilità, che lo rende ancora più indifeso di qualsiasi cittadino (II, 1, 14-15). La via di mezzo di Aristippo sembra dunque del tutto impraticabile: tuttavia, sostiene L’Allier, benché per Senofonte l’ambito in cui un uomo può conseguire un’autentica grandezza e una vera felicità sia quello politico, per un certo periodo Senofonte ha guardato con interesse alla via di mezzo, apparentemente impraticabile, teorizzata da Aristippo. Secondo lo studioso, infatti, nel dialogo in questione emerge da un lato che chi comanda deve essere provvisto di enkrateia, di karteria e di competenza, dall’altro che solo chi comanda gode contemporaneamente sia della libertà sia della sicurezza, che appunto gli consentono di essere felice: ora, prosegue L’Allier, esiste però una classe di cittadini che possiede le stesse qualità di chi comanda e gode delle sue stesse prerogative: si tratta degli agricoltori, la cui vita virtuosa, fondata sulla enkrateia, sulla karteria e sulla fatica, e quindi destinata a condurli alla felicità, viene descritta nell’Economico. Tuttavia lo studioso afferma, a ragione, che la vita del proprietario terriero dell’Economico, Iscomaco, non coincide con la via di mezzo di Aristippo, dato che Iscomaco, pur vivendo nella sua tenuta di campagna e pur essendo un capo, un leader nell’ambito del suo oikos, tuttavia è inserito nel contesto della polis, nel suo caso Atene, verso la quale è tenuto
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ad assolvere una serie di obblighi, finanziari e militari. Esiste però, a giudizio di L’Allier, una classe di agricoltori la cui condizione e la cui vita sembrano realizzare la terza via di Aristippo: essi compaiono in uno spazio lontano dalla Grecia, in quella sorta di mondo virtuale (“experimental world” lo definisce lo studioso) della Ciropedia: si tratta appunto di un gruppo di agricoltori oggetto di un accordo tra Ciro, gli Armeni e i Caldei (Cyr., III, 2, 23 e, più dettagliatamente, V, 4, 24). Costoro infatti, esenti da qualsiasi obbligo militare, si dedicheranno in tutta tranquillità alle loro occupazioni senza essere essere coinvolti nelle vicissitudini della guerra: padroni e signori nel proprio appezzamento di terreno, e quindi liberi, godono anche della sicurezza, una sicurezza che per altro dipende da quanto deciso dal vero leader, in questo caso dal loro sovrano, Ciro. Lo studioso, pertanto, rifacendosi all’incipit della Ciropedia, in cui Ciro viene implicitamente presentato come un abile pastore di popoli (secondo una similitudine familiare ai Greci)53, conclude che l’esistenza di questo gruppo di agricoltori presenta significative somiglianze con la via di mezzo di Aristippo ed è una vita felice, ma si tratta non di una sorta di felicità filosofica, bensì di una felicità che nasce da una collocazione politica ben precisa, di una felicità in ultima analisi di tipo materiale: la felicità, appunto, degli agnelli (o forse sarebbe meglio dire: delle pecore). Come si può constatare, il contributo di L’Allier è senz’altro originale, anche se la tesi che lo studioso intende dimostrare non risulta del tutto convincente: in particolare appare piuttosto debole il nesso tra la via di mezzo di Aristippo, che si fonda sull’essere straniero/ estraneo/ (provvisorio) ospite di una comunità politica, e quindi indipendente da qualsiasi governante/ capo/ sovrano, e il gruppo di agricoltori della Ciropedia, la cui esistenza, caratterizzata da libertà e sicurezza, e quindi felice (sia pure della felicità degli agnelli) può comunque realizzarsi, come riconosce L’Allier stesso, soltanto all’interno dei limiti stabiliti da chi detiene il potere politico. Sulla concezione della felicità propria del Socrate di Senofonte si è invece spesa Olga Chernyakhovskaya, una giovane studiosa che ha appena dedicato al Socrate di Senofonte un ricchissimo e stimolante volume54. Nel contributo presentato in questo convegno il tema della felicità viene preso in esame da diverse angolazioni e sotto molteplici aspetti. Bisogna premettere che la studiosa si occupa della felicità individuale, non della felicità collettiva: se è vero, infatti, che per il Socrate di Senofonte la felicità collettiva coincide sostanzialmente con la prosperità materiale, una simile affermazione, a giudizio di Chernyakhovskaya, non vale per quella che è la felicità 53
Cf. supra n. 10. Riguardo all’analisi e al conseguente rifiuto di questa metafora nel Politico di Platone vedi il contributo di C. Atack. 54 O. Chernyakhovskaya, Sokrates bei Xenophon, Narr Verlag, Tübingen 2014.
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dei singoli individui, che costituisce una questione assai più complessa, su cui verte appunto il suo lavoro. Innanzi tutto viene preso in esame il rapporto tra felicità e autarkeia, in base a quello che a buon diritto può ritenersi il passaggio chiave, cioè Mem., I, 6, 10, in cui Socrate, nella sua replica ad Antifonte, individua nell’aver bisogno del meno possibile (quindi in una tendenziale, anche se imperfetta autarkeia, benché questo termine qui non ricorra) la condizione più prossima al divino. Ora la studiosa sostiene che una simile affermazione non significa affatto che la felicità consista nella autarkeia55, in primo luogo perché Socrate afferma sì che la divinità è perfetta, ma non che è felice; in ogni caso, se pure così fosse, prosegue Chernyakhovskaya, una condizione prossima alla felicità non si identifica con la felicità, così come una condizione prossima alla perfezione non implica la felicità. Questo punto meriterebbe, a mio avviso (e non certo per amore di polemica), di essere approfondito: infatti è vero che Socrate non afferma che la divinità è felice, ma non bisogna dimenticare che per i Greci da un lato perfezione e felicità sono strettamente associate, dall’altro che la felicità è un attributo tradizionale, e quindi implicitamente sottinteso, degli dèi; inoltre, proprio a conclusione della conversazione con Antifonte, Senofonte attribuisce a Socrate la felicità che è propria degli dèi, definendolo makarios56, rendendo quindi esplicita quella felicità che si accompagna a chi, come Socrate, vive in una condizione di autarkeia simile, pur nella sua inevitabile imperfezione, a quella della divinità. La studiosa passa quindi a esaminare la natura del piacere: esso nasce dal processo che porta a soddisfare i desideri inerenti alla sfera del corpo (quali il desiderio di cibo, bevande, sonno, sesso), alleviando la sensazione sgradevole o addirittura la vera e propria sofferenza che deriva, ad es., dalla fame; perciò, argomenta Chernyakhovskaya, perché si generi il piacere sono necessarie due condizioni: in primo luogo una certa sofferenza, in secondo luogo l’eliminazione di tale sofferenza. Pertanto il meccanismo che genera il piacere è lo stesso per tutti gli esseri umani, ma la sensazione del piacere è, secondo la studiosa, eminentemente soggettiva, e ciò vale anche per la felicità; per altro, precisa Chernyakhovskaya, bisogna tenere presente che nella gerarchia edonistica, mentre i piaceri del corpo si collocano nel punto più basso, la felicità si colloca invece nel punto più alto. In seguito viene preso in considerazione il rapporto tra la felicità e i ponoi, da intendersi in senso lato come i compiti che ciascuno decide di intraprendere, tenendo conto ovviamente della propria dynamis, cioè delle proprie capacità e dei propri limiti: la felicità consiste appunto nel portare a termine 55
Così invece L.-A. Dorion, Xénophon. Mémorables, cit., t. I, p. 157; F. Bevilacqua, Memorabili di Senofonte, UTET, Torino 2010, p. 361-362 (entrambi citati dalla studiosa). 56 Mem., I, 6, 14: non a caso Senofonte usa questo termine, in luogo di eudaimon, che sta invece a indicare l’essere felici degli uomini, una felicità caratterizzata, come è insito nella stessa etimologia, da una ineliminabile precarietà.
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con successo i compiti prescelti. La studiosa, a questo proposito, ricorda che anche nella città ideale di Platone vale il principio che ciascuno deve svolgere il compito adatto alle sue capacità, il compito che gli è proprio (to autou prattein), ma nota che, mentre per Platone sono le capacità innate a determinare il compito proprio di ciascun individuo, il Socrate di Senofonte, benché riconosca che gli individui sono dotati di capacità innate differenti, tuttavia è convinto che siano le competenze e le abilità acquisite a costituire il fattore decisivo del successo in una determinata attività (Mem., III, 9, 1-3; IV, 1, 23). Chernyakhovskaya aggiunge poi che, per altro, in un passaggio della Ciropedia (VIII, 2, 5) Senofonte formula il principio “un uomo, un compito”, ma ciò è dovuto al fatto che nella Ciropedia Senofonte, proprio come Platone nella Repubblica, e a differenza del Socrate dei Memorabili (III, 2, 2-4; IV, 1, 2), si pone nell’ottica del bene dello stato nel suo complesso, non in quella della felicità dei singoli individui. Senz’altro condivisibile quanto afferma la studiosa a proposito di Cyr., VIII, 2, 4 (anche se l’aspetto più interessante di questo passaggio mi sembra essere un altro)57, meno convincente, a mio avviso, la sua interpretazione dei due passi appena citati dei Memorabili: se è vero che in III, 2, 2-4, Socrate, lasciando da parte tutto il resto, afferma che la virtù del buon comandante, del buon leader, è la capacità di rendere felici (eudaimonas) coloro su cui comanda, mi sembra più probabile che qui, e ancor più IV, 1, 2 (dove si parla di rendere eudaimonas uomini e città), l’aggettivo in questione non alluda tanto alla felicità, quanto alla prosperità materiale. Riguardo al nesso tra felicità e circostanze esterne, Chernyakhovskaya fa notare che per il Socrate di Senofonte la felicità dipende anche da circostanze esterne che sfuggono al controllo dell’uomo: ad es., se guardiamo al Socrate dell’Apologia (Ap., 6; cf. Mem., IV, 8, 8), egli non esita a dichiarare di preferire ormai la morte alla vita, perché la vecchiaia con i suoi acciacchi, fisici e mentali, gli impedirà di condurre, come ha fatto finora, una vita felice: pertanto Socrate ammette che la felicità non dipende soltanto da lui, ma anche da circostanze esterne che si sottraggono al suo controllo. Non solo: la studiosa, sulla base di Oec., 11, 8, nonché di Mem., I, 1, 8, sostiene che la felicità non soltanto necessita di alcune condizioni 57 Secondo la studiosa infatti Senofonte sostiene, a proposito dei piatti serviti alla tavola del re dei Persiani, che dei piatti raffinati possono suscitare maggior piacere di piatti più semplici. Si tratta di una interpretazione assolutamente corretta, ma ciò che soprattutto colpisce è quanto Senofonte scrive subito dopo (Cyr., VIII, 2, 5), proprio per spiegare lo straordinario piacere che possono provocare i piatti squisiti della tavola reale, un risultato dovuto, a suo avviso, all’accentuata divisione del lavoro possibile soltanto nelle grandi città: Senofonte quindi coglie non solo il legame tra un’accentuata divisione/ specializzazione del lavoro e la migliore qualità del prodotto, ma anche il fatto che la divisione/ specializzazione del lavoro varia in funzione dell’ampiezza del mercato, dando così prova di quell’“istinto borghese” già notato da Marx (K. Marx, Das Kapital, I, 1967; ora in K. Marx-F. Engels, Werke, XXIII, Berlin 1970, p. 388 e n. 81).
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esterne, ma anche della benevolenza divina: le prime possono essere realizzate, sia pure in parte, da un governo che si preoccupa del benessere e della prosperità dei cittadini, mentre la benevolenza degli dèi può essere acquisita mediante appropriati atti di culto. Chernyakhovskaya torna poi alla natura soggettiva sia della sensazione del piacere, sia della felicità: nel dialogo con Antifonte, infatti, Socrate sostiene che ciò che distingue le persone felici da quelle infelici non è tanto il successo o l’insuccesso in quanto si è intrapreso, bensì la percezione dell’uno o dell’altro, il fatto che le persone felici pensano che le cose stiano andando bene per loro, mentre quelle infelici pensano il contrario (Mem., I, 6, 8); e nel momento in cui passa a parlare di se stesso, Socrate afferma che per lui il piacere è costituito non semplicemente dal fatto di diventare migliore, ma dall’esserne consapevole (ibid.). Pertanto la natura soggettiva della felicità è data soprattutto dal fatto che essa dipende dalla percezione soggettiva della realtà da parte di una determinata persona: tuttavia non per questo, secondo la studiosa, viene meno una gerarchia ben precisa, che vede al gradino inferiore della scala i piaceri derivanti dalla soddisfazione dei desideri del corpo, poi i piaceri che derivano dall’aver svolto con successo determinati compiti di tipo tecnico, e al culmine di questa scala il piacere che Socrate ricava dalla consapevolezza della propria perfezione o meglio del proprio costante perfezionamento. In Senofonte però non troviamo alcuna argomentazione tesa a dimostrare che i ponoi di natura intellettuale sono fonte di un piacere maggiore di quello che possono arrecare ponoi di altra natura, tecnica o pratica che dir si voglia; è solo il Socrate di Platone che sostiene che soltanto chi preferisce i piaceri dell’intelletto, cioè il filosofo, è guidato non solo dalla ragione e dall’intelligenza, ma anche dall’esperienza poiché ha sperimentato tutti i tipi di piacere, mentre chi è dedito alle forme inferiori di piacere ignora i piaceri dell’intelletto (Resp., 582a-d). Come si può constatare, il contributo di Chernyakhovskaya offre molti spunti suscettibili di interessanti sviluppi e presenta alcune conclusioni di notevole rilievo: in particolare mi sembra pregevole la sottolineatura della dimensione soggettiva della felicità, legata alla percezione soggettiva del singolo individuo. Ancora in tema di felicità il convegno ha potuto beneficiare di un contributo di grande chiarezza e rigore, quello di Gabriel Danzig, incentrato sulla cruciale questione del rapporto tra virtù, felicità e il fine (telos) della vita umana in Senofonte. Lo studioso esordisce affermando che, mentre per Platone e Aristotele la pratica della virtù costituisce un fine in sé, a prescindere dall’utilità dei risultati a cui dà luogo, per Senofonte invece tutte le virtù meritevoli del suo apprezzamento producono utili risultati, e di conseguenza, proprio perché priva di utilità, la contemplazione teoretica non rientra per lui nel novero delle attività virtuose. Per Senofonte il fine immediato 176
dell’agire virtuoso è costituito dai suoi risultati in campo economico e politico, risultati che a loro volta da un lato forniscono un diretto contributo alla felicità, dall’altro, come Danzig avrà cura di sottolineare, contribuiscono ad essa attraverso una forma di gratificazione psicologica. È importante inoltre notare che queste convinzioni di Senofonte, se mostrano chiaramente il suo disinteresse per questioni di natura teoretica, potrebbero nel contempo rappresentare una deliberata risposta polemica a convinzioni che riteneva errate, quelle di Platone in particolare: a questo proposito lo studioso nota a ragione che tra i Socratici Platone costituisce una eccezione proprio per il suo fortissimo interesse per problemi di grande astrazione e di grande complessità teoretica, un interesse estraneo, per quanto ne sappiamo, agli altri discepoli di Socrate. A dimostrazione che per Senofonte la virtù, lungi dal costituire un fine, rappresenta un mezzo per ottenere determinati risultati pratici (economici, politici, militari), Danzig cita un interessante discorso di uno degli eroi più importanti di Senofonte, Ciro. In questo discorso, rivolto ai suoi soldati (Cyr., I, 5, 8-10), Ciro afferma chiaramente che il fine della virtù non coincide affatto con la pratica della virtù stessa, ma con i risultati che la virtù produce. Il caso più significativo è quello della enkrateia, quella stessa enkrateia che, come è noto, il Socrate di Senofonte definisce il fondamento della virtù (Mem., I, 5, 4): ebbene in Cyr., I, 5, 8-10, come altrove (cf., ad es., Mem., I, 6, 5; II, 1, 30), anche la pratica della enkrateia viene presentata non come un fine, né come qualcosa di piacevole: chi pratica la enkrateia lo fa non soltanto perché abbandonarsi ai piaceri del corpo in modo incontrollato porta a esiti disastrosi, ma soprattutto perché proprio la enkrateia permette in seguito di godere maggiormente di quegli stessi piaceri (Cyr., I, 5, 9). Ancora in questo discorso Ciro afferma che anche l’abilità oratoria non è un fine in sé, ma ha come fine quello di persuadere gli altri (Cyr., I, 5, 9); il terzo esempio è quello della pratica militare (ta polemika), che non è un fine in sé, ma ha lo scopo di procurare a chi combatte ricchezza, eudaimonia e onori (Cyr., I, 5, 9); infine Ciro paragona implicitamente la pratica della aretē all’agricoltura, un’attività che palesemente non costituisce un fine in sé, dato che il fine è rappresentato dai suoi frutti (Cyr., I, 5, 10). È interessante notare che Ciro non esita dunque ad accomunare una virtù, la enkrateia, a tecniche quali l’abilità oratoria o la pratica militare ovvero ad attività pratiche come l’agricoltura: Danzig rileva, a ragione, che qui come altrove Senofonte sembra ignorare la distinzione tra le virtù e le arti: qui la mancata distinzione tra le une e le altre è dovuta al fatto che viene messo in risalto il loro presunto elemento comune, cioè il fatto di essere praticate non già come un fine, ma al contrario di essere finalizzate all’acquisizione di determinati beni/ vantaggi. In sostanza in questo discorso Senofonte, per bocca di Ciro, dà voce all’idea che la virtù è apprezzabile per i suoi risultati, mentre l’idea opposta, cioè che la virtù sia un fine in sé, che 177
abbia in sé la propria ricompensa, non ha alcun riscontro, afferma giustamente lo studioso, in nessuna delle opere di Senofonte. Ma, si potrebbe obiettare, il discorso in questione è appunto posto sulla bocca di Ciro e quindi potrebbe essere impostato in base all’ottica del personaggio (che comunque, a dispetto di ogni possibile lettura ironica58, rappresenta senz’altro un eroe positivo, se non l’eroe positivo per eccellenza); pertanto lo studioso prende in esame quello tra gli eroi di Senofonte che meglio di chiunque altro avrebbe potuto esprimere una diversa concezione della virtù, non finalizzata a scopi pratici, ma vista come fine in sé e per sé, vale a dire Socrate. Come è noto, il Socrate dei Memorabili trova assurdo indagare i fenomeni del cosmo, anche perché si tratta di indagini prive di qualsiasi finalità pratica (Mem., I, 1, 11-15): una convinzione che viene ribadita nella parte conclusiva dell’opera, dove Socrate sostiene che bisogna limitare lo studio della geometria, dell’astronomia, dell’aritmetica esclusivamente a ciò che è suscettibile di una utilizzazione pratica (Mem., IV, 7, 2-8). Danzig ricorda poi che in Mem., IV, 2, 33, Socrate si spinge ancora oltre, asserendo che perfino la sophia è un bene ambivalente, in quanto può suscitare invidia e può quindi esporre a disavventure. Quanto alle virtù morali, anche per Socrate la enkrateia non è fine a se stessa, ma si configura come un mezzo sia per accrescere il godimento di quegli stessi piaceri sottoposti al suo controllo (cf. in particolare Mem., II, 1, 30 e 33), sia per esercitare in modo proficuo una serie di attività e per stringere valide amicizie (Mem., II, 1, 32)59. Lo studioso rileva quindi che anche quelle che il Socrate di Senofonte chiama “le cose belle e buone”, che costituiscono il fine della pratica delle virtù, non sono altro che beni esteriori, come emerge chiaramente da Mem., II, 1, 28. Riguardo alla eudaimonia, la descrizione che se ne legge in Mem., IV, 2, 3435, è significativo che non faccia nessun riferimento alla pratica della virtù come a un elemento della felicità, ma soltanto a beni esteriori: in sostanza anche per Socrate, non meno che per Ciro, la virtù non è un fine, ma soltanto un mezzo in vista di quei beni che costituiscono gli elementi della eudaimonia, elementi dei quali la pratica della virtù non fa parte. A questa conclusione, tuttavia, Danzig aggiunge una importante precisazione: la pratica della virtù non si limita a procurare dei beni esteriori che rappresentano gli elementi costitutivi della eudaimonia, ma anche dei beni interiori forse ancora più preziosi: partendo ancora una volta dalla prima conversazione di Socrate con Aristippo (Mem., II, 1), lo studioso sostiene che si tratta da un 58
Per una confutazione efficace e puntuale delle letture ironiche della Ciropedia vedi V. J. Gray, Xenophon’s Mirror of Princes, Oxford University Press, Oxford 2011, p. 246-90. 59 Per questa concezione squisitamente utilitaristica della enkrateia cf. F. Bevilacqua, Memorabili, cit., p. 160-161; cf. anche M. Narcy, Socrate et son âme, cit., p. 40-42, dove più che l’aspetto utilitaristico, viene evidenziato quello propriamente edonistico.
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lato del piacere prodotto dalla speranza di ottenere una serie di beni, dall’altro (e questo mi sembra l’aspetto più interessante) della gratificazione che nasce dalla consapevolezza dei risultati positivi raggiunti. Interessante anche notare come Danzig, nel rilevare questo secondo aspetto, appaia in sintonia con la sottolineatura posta da Chernyakhovskaya sulla dimensione soggettiva sia del piacere che della felicità (cf. supra), una sintonia di cui lo stesso Danzig si mostra pienamente consapevole, evidenziando alcuni passi in cui è proprio Socrate, come sostenuto da Chernyakhovskaya, a mostrarsi fiero del proprio continuo miglioramento (Mem., I, 6, 8-9; IV, 8, 6-8; Ap., 5-6). In conclusione lo studioso ribadisce che la felicità non consiste nella pratica della virtù, bensì costituisce il risultato di tale pratica, ma aggiunge che, se pure i diretti risultati della pratica della virtù sono di natura essenzialmente economica e politica, è anche vero che le aspettative che essi generano e le riflessioni che suscitano retrospettivamente (insieme all’ammirazione e all’invidia degli altri) creano quella sensazione di gratificazione e di apprezzamento di sé che Senofonte e il suo Socrate identificano con la felicità. Un altro gruppo di contributi ha poi affrontato tematiche di ordine più specificamente filosofico, con una particolare attenzione per la natura e le finalità dell’elenchos. Uno studio interessante, che fornisce un prezioso materiale per ulteriori indagini, è quello di Sandra Peterson, che si è dedicata ad analizzare le sedici occorrenze dei termini philosophia, philosophein e philosophos nell’intera opera di Senofonte. Gli scopi dichiarati di questo lavoro sono innanzi tutto capire in che senso Senofonte intendesse questi termini e, in secondo luogo, in che senso venivano intesi dai contemporanei di Senofonte. La studiosa muove dalla constatazione che questi termini ricorrono molto raramente in testi anteriori a quelli di Platone e di Senofonte, i quali per altro ne fanno un uso quantitativamente molto diverso: in effetti, a fronte di ben 346 occorrenze in Platone, ne troviamo solo 16 in Senofonte60. La tesi che Peterson si propone di dimostrare è che negli scritti di Senofonte il termine philosophia nella maggior parte dei casi sta a indicare l’abilità nello scontro verbale. La studiosa prende come punto di partenza il Simposio, dove il termine philosophia ricorre già nel cap. 1 e dove, secondo Peterson, indica appunto la capacità di imporsi nelle discussioni conviviali, il che non implica semplicemente il fatto di divertire gli altri ospiti, ma anche di ostentare la propria abilità e quindi di guadagnarsi considerazione e prestigio: perciò, sostiene la studiosa, la conversazione che si svolge durante il simposio ha un aspetto serio, che nasce non dagli argomenti oggetto di discussione, bensì dall’obiettivo dei partecipanti di distinguersi a spese degli 60
Per questi dati la studiosa attinge a L. Rossetti, Le dialogue socratique, cit., p. 265.
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altri, facendoli sembrare inferiori nella conversazione. Anche la seconda occorrenza di philosophia nel Simposio (Symp., 4, 62) conferma, secondo Peterson, il significato di abilità verbale, come dimostra l’associazione della philosophia con Prodico. Quanto al verbo philosophein, che ricorre nella forma del participio aoristo philosophesas, riferito a Solone61, in Symp., 8, 39, la studiosa, a sostegno della sua tesi, fornisce una interpretazione senza dubbio originale di questo termine che, a suo avviso, starebbe a indicare non una riflessione compiuta da Solone in vista delle leggi da lui istituite, bensì che Solone avrebbe istituito quelle leggi essendo riuscito a sconfiggere i suoi avversari con la sua abilità oratoria: una interpretazione che tuttavia appare piuttosto forzata e lascia davvero perplessi. Più in generale si ha l’impressione che nei passi presi in esame l’interpretazione dei termini in questione sia piegata sempre e comunque alla tesi da dimostrare: così in Mem., I, 2, 19, philosophein viene inteso non già come essere dediti alla filosofia, praticare la filosofia, ovvero dichiararsi, proclamarsi filosofi, bensì come essere impegnati in scontri verbali; analogamente in Mem., I, 2, 31, il termine philosophoi starebbe a designare coloro che insegnano l’arte dei discorsi, come dimostrerebbe il divieto imposto da Crizia a Socrate di insegnare tale arte; ancora in Mem., I, 6, 2, oi philosophountes indicherebbe coloro che praticano e insegnano (in questo caso a pagamento) l’arte di imporsi negli scontri verbali, mentre philosophia indicherebbe appunto tale arte; infine in Mem., IV, 2, 23, l’espressione, posta sulla bocca di Eutidemo, philosophein philosophian alluderebbe all’apprendimento e alla pratica di abilità verbali soprattutto nell’ambito di conversazioni basate sullo schema domanda/ risposta. Anche negli altri passi presi in esame (An., II, 1, 3: philosophos; Por., 5, 4: philosophoi; Cyr., VI, 1, 41: pephilosopheka; Oec., 16, 9: philosophou) la studiosa interpreta i termini in questione nel medesimo senso: unica eccezione, a suo avviso, le due occorrenze che si rinvengono nel Cinegetico, dove i philosophoi sono contrapposti ai sophistai (Cyn., 13, 6; 13, 9), proprio perché questi ultimi praticano la loro arte soltanto a livello di parole e non di pensiero. Le conclusioni presentate da Peterson sono per lo più negative: innanzi tutto né Senofonte né i suoi personaggi (incluso Socrate stesso) chiamano mai Socrate philosophos; in secondo luogo gli scritti di Senofonte non offrono alcuna prova che Senofonte considerasse se stesso un philosophos o aspirasse a esserlo; inoltre dagli scritti di Senofonte non si ricava mai una immagine del philosophos simile a quella delineata da Pla61
Peterson opportunamente ricorda che il verbo philosophein (nella forma del participio presente) è associato a Solone già in Erodoto, I, 30, 2, nelle parole poste sulla bocca di Creso: che Senofonte avesse ben presente il racconto erodoteo dell’incontro tra Solone e Creso è dimostrato dalla narrazione delle vicende di Creso nella Ciropedia: cf. in particolare Cyr., VII, 2, 15-20; vedi inoltre infra, a proposito del contributo di Anthony Ellis.
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tone nel Fedone e nella Repubblica; infine in Senofonte non troviamo alcuna prova che egli intendesse la philosophia come uno stile di vita62, né come indagine sui fenomeni del cosmo. Come conclusione in positivo la studiosa sostiene poi che Senofonte non considerava se stesso un philosophos nel senso da lui attribuito a questo termine, in quanto, benché fosse in grado di impegnarsi sul terreno di ciò che intendeva per philosophia, non abbiamo alcuna prova che avesse interesse a farlo. Nel complesso il contributo di Peterson risulta senz’altro utile sia per il materiale raccolto sia per gli interrogativi che pone, sia pure en passant, su che cosa intendiamo noi con il termine “filosofo”63 e quale sia stato il percorso dal philosophos al “filosofo”; meno convincente, invece, la sua interpretazione dei termini in questione, che risulta spesso forzata in funzione di una tesi che appare in buona misura precostituita. Al problema della ricerca definizionale e alla funzione dell’elenchos in Platone e in Senofonte è invece dedicato il contributo di Deborah Modrak. In primo luogo la studiosa prende in esame l’elenchos quale appare in una serie di dialoghi di Platone comunemente definiti “socratici”: l’Eutifrone, il Lachete, il Carmide, il I libro della Repubblica64, il Menone65. La domanda iniziale comune a tutti questi dialoghi è del tipo “Che cosa è X?”, dove X è una delle tradizionali virtù: la santità nell’Eutifrone, il coraggio nel Lachete, la sōphrosynē nel Carmide, la giustizia nel I libro della Repubblica, la virtù
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Questa affermazione mi lascia perplessa: si pensi, in particolare, alla conversazione con Antifonte, dove Socrate, nell’opporre il proprio stile di vita a quello di Antifonte, delinea non solo quello che è, a suo avviso, lo stile di vita del filosofo, ma anche, sia pure implicitamente, quello che è per lui il legame tra la filosofia e lo stile di vita di chi ad essa si dedica ( Mem., I, 6). 63 Si tratta ovviamente di un discorso amplissimo: vedi comunque, ad es., alcune pertinenti considerazioni di L.-A. Dorion, Introduction, cit., p. XCVI-XCIX. Riguardo ai termini usati nel V secolo per indicare la specifica professione di alcuni intellettuali cf. L. Edmunds, What was Socrates called?, in: “Classical Quarterly”, LVI/2 (2008), p. 414-425. 64 Come è noto, il I libro della Repubblica, secondo non pochi studiosi, è stato composto in un’epoca precedente al resto dell’opera: per limitarci a un unico esempio, Vlastos lo include nel gruppo più antico dei dialoghi giovanili (earlier dialogues), cioè nel gruppo di quelli che chiama dialoghi elenctici (elenctic dialogues), mentre assegna i libri II-X ai cosiddetti dialoghi di mezzo (middle dialogues), cioè a quelli della piena maturità di Platone: vedi G. Vlastos, Socrates, cit., p. 46-47 (Socrate, tr. it., cit., p. 61-62). 65 Il Menone nella classificazione di Vlastos è incluso nel gruppo dei dialoghi giovanili più recenti, quelli che lo studioso chiama i dialoghi di transizione, composti dopo i dialoghi elenctici e prima dei dialoghi del periodo di mezzo (vedi nota precedente); tuttavia mi sembra corretto notare che, nonostante il procedimento elenctico, il Menone a livello di contenuti (si pensi alla teoria dell’anamnesi) appare più vicino ai dialoghi di mezzo che ai dialoghi elenctici, nonché agli altri dialoghi considerati da Vlastos di transizione, quali il Liside, l’Eutidemo, l’Ippia Maggiore, il Menesseno.
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stessa nel Menone. Concentrando la discussione intorno a un singolo concetto morale, il Socrate di questi dialoghi fa sì che la definizione assuma piena centralità nell’ambito della sfera morale e, come è stato ampiamente notato, Socrate insiste sul fatto che la definizione deve possedere caratteristiche non solo di universalità, ma anche di esclusività. Tuttavia, nota Modrak, questa esigenza sembra nascere non tanto da una concezione della definizione come affermazione di una essenza, bensì dall’obiettivo di garantire la conoscenza dei concetti morali, in quanto chi sia in possesso di tale conoscenza non potrà che agire in conformità ad essa. Mentre i vari interlocutori di Socrate propongono diverse definizioni in risposta alla domanda “Che cosa è X?”, Socrate con le sue domande e i suoi controesempi mira a indicare le caratteristiche che una corretta definizione deve possedere. Un’altra caratteristica dell’elenchos, almeno in Platone, è che la definizione cercata investe quelle che dovrebbero essere le competenze dell’interlocutore (si pensi, ad es., all’Eutifrone del dialogo omonimo), ma Socrate pratica l’elenchos in maniera profondamente destabilizzante, poiché si limita a far emergere gli errori e la confusione di cui è preda il suo interlocutore senza offrire alcuna soluzione: il suo interlocutore fa appello alle proprie intuizioni ovvero alle convinzioni tradizionali espresse dai poeti ovvero a quelle più innovative insegnate dai sofisti, ma Socrate appare determinato a stabilire che nessuna di queste opinioni costituisce un’autentica conoscenza. In seguito il Socrate platonico abbandonerà l’elenchos come strumento principe della ricerca definizionale in favore della diairesi, come emerge dal Sofista, ma la definizione ottenuta tramite la diairesi soddisferà comunque i requisiti cercati tramite l’elenchos, cioè l’universalità, l’esclusività, l’individuazione delle caratteristiche essenziali. Stando a Mem., I, 1, 16, anche il Socrate di Senofonte è impegnato nella ricerca definizionale e, secondo la studiosa, anche in Mem., IV, 6, Socrate pratica un tipo di elenchos che utilizza sì, come in Platone, la domanda “Che cosa è X?”, ma a differenza di quanto accade in Platone, passa rapidamente da un argomento all’altro, per cui se inizialmente la definizione cercata riguarda la pietà (IV, 6, 2-4), subito dopo è in gioco la definizione della giustizia (IV, 6, 5-6), quindi quella della sapienza (IV, 6, 7), poi quella del bene (IV, 6, 8), del bello (IV, 6, 9), del coraggio (IV, 6, 10-11)66. Pertanto Modrak nota, a ragione, che in questa conversazione tra Socrate ed Eutidemo sono assenti alcune delle caratteristiche dell’elenchos quale compare nei dialoghi “socratici” di Platone: innanzi tutto manca la professione di inscienza del Socrate platonico, come è 66
Per altro è davvero molto opinabile che la conversazione con Eutidemo di Mem., IV, 6, possa considerarsi un elenchos ovvero un insieme di elenchoi: a differenza di quanto accade in Mem., IV, 2, in cui Eutidemo viene sottoposto a una serie di elenchoi, il dialogo di Mem., IV, 6, si configura come una conversazione, anzi come una successione di conversazioni di tipo didattico, secondo l’abituale modalità del Socrate di Senofonte.
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del tutto assente l’ostinata insistenza del Socrate platonico nel riproporre la domanda iniziale; inoltre il Socrate di questa conversazione si accontenta immediatamente delle definizioni fornite da Eutidemo, nonostante il loro carattere impreciso (si pensi ad es. alla definizione estremamente generica della eusebeia in IV, 6, 2). Quanto al metodo della diairesi, un accenno lo si può cogliere nella definizione che Senofonte dà della dialettica in Mem., IV, 5, 11-12; tuttavia, mentre Platone sembra presentare l’elenchos come utile per distruggere il falso sapere, ma inevitabilmente destinato a condurre all’aporia, e quindi propone la diairesi come corretto metodo in vista di una corretta definizione, Senofonte, a giudizio della studiosa, tende a fondere i due metodi, inserendo l’elenchos di Mem., IV, 6, all’interno di riferimenti al metodo della diairesi per giungere a una definizione (Mem., IV, 6, 1, e soprattutto IV, 6, 14-15). Pertanto Modrak conclude che, a dispetto delle differenze riscontrabili, sia Platone che Senofonte sono impegnati a mostrare l’importanza dell’elenchos socratico, così come entrambi considerano il metodo della diairesi come complementare all’elenchos, in quanto sia la diairesi sia l’elenchos rispondono alla stessa concezione di quelli che sono i requisiti fondamentali di una corretta definizione. Questa conclusione può suscitare qualche perplessità, come lascia perplessi considerare un elenchos la conversazione tra Socrate ed Eutidemo di Mem., IV, 6; tuttavia questo contributo, pregevole per l’attenta analisi dei passi citati, ha anche il non piccolo merito di riproporre un approfondimento per quanto riguarda l’uso e le finalità dell’elenchos nei Memorabili, nonché riguardo alla concezione della dialettica che emerge in Mem., IV, 6. Ancora all’elenchos, anzi alla forma logica dell’elenchos in Senofonte e in Platone è dedicato anche il contributo, di non comune rigore, di una giovane e brillante studiosa, Geneviève Lachance. Innanzi tutto la studiosa ricorda che, a differenza di quanto si riscontra nei primi dialoghi di Platone, negli scritti socratici di Senofonte l’elenchos compare assai raramente, perché Senofonte non lo riteneva utile al fine dell’acquisizione della virtù, ma soltanto allo scopo di smascherare coloro che erano convinti di sapere tutto; quindi premette che, per mettere in luce la concezione dell’elenchos di Senofonte, intende seguire un percorso poco frequentato, quello dell’analisi formale, prendendo in esame gli unici due elenchoi presenti nei Memorabili, in I, 2, 40-46 e in IV, 267. Dopo aver citato i modelli di elenchos proposti in
67 Secondo la nota tesi di L.-A. Dorion, che vede in questi due passi gli unici elenchoi presenti nell’intera opera: cf. Introduction, cit., p. CLX-CLXXXIII.
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epoche diverse da Robinson68 e da Vlastos69, Lachance afferma che entrambi i modelli, benché differenti, sono fondati esclusivamente sugli elenchoi che si rinvengono in Platone, mentre non sono stati presi in considerazione gli elenchoi in Senofonte. Infatti, asserisce la studiosa, il primo elenchos che incontriamo nei Memorabili, quello a cui Alcibiade sottopone Pericle (I, 2, 40-46), ha uno scopo ben diverso rispetto agli elenchoi dei primi dialoghi di Platone, perché Senofonte non intendeva descrivere né un procedimento catartico né un metodo filosofico, bensì mostrare i danni dell’elenchos nelle mani di un giovane inquietante e privo di remore quale Alcibiade70. Riguardo alla forma degli elenchoi presenti nei Memorabili, abbiamo sia la reductio ad absurdum, sia la presentazione di controesempi. La confutazione di Pericle ad opera di Alcibiade contiene tre reductiones ad absurdum, mentre la confutazione di Eutidemo contiene tre presentazioni di controesempi e due reductiones ad absurdum. Quanto alla confutazione di Pericle messa in atto da Alcibiade, Lachance, al termine di una dettagliata analisi, conclude che i tre elenchoi mostrano una forte impronta sofistica, poiché si basano su una dubbia identità, quella tra illegalità e violenza (bia). Riguardo invece alla confutazione del giovane Eutidemo in IV, 2, due degli elenchoi a cui viene sottoposto (IV, 2, 19-20; IV, 2, 36-39) sono delle reductiones ad absurdum: a questo proposito la studiosa rileva che Senofonte fa uso della reductio ad absurdum molto più di Platone: nei Memorabili ben cinque elenchoi su otto sono reductiones ad absurdum, mentre nei dialoghi confutativi di Platone su ventitré elenchoi soltanto due si configurano come vere e proprie reductiones ad absurdum. Di questo procedimento, per altro, Platone e Senofonte fanno lo stesso uso: Socrate non formula un’affermazione che contraddice la definizione fornita all’inizio dal suo interlocutore, ma si limita a metterne in luce le conseguenze assurde. Quanto ai controesempi, essi vengono ampiamente utilizzati nella confutazione a cui il Socrate dei Memorabili sottopone Eutidemo: infatti tre degli elenchoi di questo dialogo si fondano su controesempi (IV, 2, 12-13; IV, 2, 16-18; IV, 2, 3135), addotti allo scopo di confutare un’affermazione intesa esplicitamente o implicitamente come universale. In realtà, come è stato notato71, questi controesempi non sono affatto validi: infatti il Socrate di Senofonte qui prende 68 R. Robinson, Plato’s Earlier Dialectic, Oxfort University Press, New York-London 1953, p. 23. 69 G. Vlastos, Socratic Studies, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 11 (tr. it. F. Filippi, Studi socratici, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 9). Come è noto, il primo capitolo di questo volume è la versione riveduta e corretta del saggio The Socratic Elenchus, in: “Oxford Studies in Ancient Philosophy”, I (1983), p. 27-58. 70 Cf. L.-A. Dorion, Introduction, cit., p. CLX-CLXIX. 71 Cf. L. Rossetti, L’Eutidemo di Senofonte, cit., p. 74-81 e 86-92; vedi in particolare 7980 (ora in: Le dialogue socratique, cit., p. 67-76 e 81-89; vedi in particolare p. 73-74).
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una proposizione relativa per assoluta e in tal modo incorre nella fallacia denominata “dicto secundum quid ad dictum simpliciter”, un tipo di fallacia72 che si basa appunto sull’eliminazione di una specifica condizione: ad es. nel primo elenchos (§§. 12-13) un’affermazione come “il furto non è ingiusto in alcune situazioni” o “il furto non è ingiusto nei confronti di alcune persone” diviene “il furto non è ingiusto” tout-court. Lachance nota inoltre che il Socrate di Platone utilizza i controesempi molto raramente: soltanto quattro dei ventitré elenchoi presenti nei dialoghi confutativi si basano esclusivamente sulla presentazione di controesempi e, per di più, quando il Socrate platonico ricorre ai controesempi li inserisce nell’ambito di più ampie argomentazioni: in Platone, a differenza che in Senofonte, i controesempi costituiscono soltanto un momento della sequenza argomentativa. Infine la studiosa affronta un passaggio molto controverso, Mem., III, 8, 1-7, in cui, a quanto afferma Senofonte stesso, Aristippo cerca di confutare Socrate nello stesso modo in cui in precedenza era stato confutato da Socrate73. Come è stato notato da molti74, Aristippo utilizza all’inizio (§§ 1-3) un tipo di confutazione che assomiglia a quello usato da Socrate con Eutidemo in IV, 2, 31-35. Socrate riesce a sottrarsi al tipo di confutazione messo in atto da Aristippo rispondendo proprio con i controesempi che Aristippo avrebbe potuto usare contro di lui; più interessante, secondo Lachance, il passaggio successivo (§§ 4-7), che dimostra come Senofonte non ignorasse del tutto la distinzione tra relativo e assoluto: infatti Socrate, nel rispondere ad Aristippo, evita di incorrere in una contraddizione proprio perché utilizza una fondamentale distinzione: una stessa cosa può essere X e non-X, ma non rispetto allo stesso scopo. La studiosa sostiene quindi che esiste una enorme differenza tra il Socrate di Senofonte e quello di Platone: mentre il primo adotta tesi di tipo relativistico, il secondo le rifiuta; ciò spiega perché il primo usa i controesempi per smentire una tesi di carattere generale, mentre il secondo, più che controesempi, utilizza esempi che possono rappresentare casi particolari, ma utili per giungere, tramite un procedimento induttivo, a un’affermazione di carattere generale. A questo punto Lachance pone un problema davvero interessante: perché mai Senofonte ci mostra un Socrate che confuta Eutidemo mediante contraddizioni che Senofonte sa essere false? L’uso dell’elenchos nei confronti di Eutidemo non è presentato come 72
La studiosa ricorda che questo tipo di fallacia fu descritto per la prima volta da Aristotele, S.E., 166b37-167a20. 73 Il che potrebbe indurre a ritenere un elenchos la precedente conversazione tra Socrate e Aristippo (Mem., II, 1): in realtà, però, anche la prima conversazione tra Socrate e Aristippo non costituisce un elenchos nel senso tecnico del termine. 74 Vedi A. Delatte, Le troisième livre des Souvenirs socratiques de Xénophon. Étude critique, Librairie E. Droz, Paris 1933, p. 99; L.-A. Dorion, Xénophon. Mémorables, cit., t. II, 1re partie, p. 335-336, entrambi citati dalla studiosa.
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un “buon” uso dell’elenchos75? La risposta della studiosa è che, se III, 8, non è apocrifo76 e non è stato scritto molti anni dopo IV, 277, si deve ammettere che Senofonte abbia deliberatamente rappresentato Socrate mentre cerca di confutare Eutidemo utilizzando contraddizioni false. Ma, data la fondamentale finalità apologetica dei Memorabili, lo scopo dell’elenchos che Socrate infligge a Eutidemo deve essere eticamente positivo e in effetti lo è, nella misura in cui non consiste nello stabilire la verità di una determinata tesi, ma nel dimostrare l’ignoranza di Eutidemo: le false contraddizioni, i veri e propri sofismi impiegati da Socrate servono proprio a mettere in luce l’ignoranza di Eutidemo che li accetta, li subisce, senza riuscire a controbatterli proprio a causa della sua profonda ignoranza. Pertanto, conclude a ragione la studiosa, lo scopo dell’elenchos di Mem., IV, 2, finisce per essere in sostanziale sintonia con quelli che leggiamo nei primi dialoghi di Platone. Come si può constatare il contributo di Lachance risulta davvero prezioso non solo per il rigore con cui vengono analizzati i passi presi in esame, ma anche per l’originalità delle conclusioni a cui perviene, nonché per il problema che pone riguardo a Mem., III, 8, se cioè questo dialogo tra Socrate e Aristippo dimostri la consapevolezza da parte di Senofonte della fallacia dei controesempi utilizzati da Socrate nell’elenchos rivolto a Eutidemo: la studiosa, come si è detto, dà una risposta positiva, ma il problema, a mio avviso, rimane aperto e merita di essere riesaminato e approfondito. Un altro interessante studio, incentrato su un tema molto specifico, ma ricco di implicazioni di apprezzabile spessore è quello di Anthony Ellis, di che ha preso in esame la riscrittura da parte di Senofonte del racconto erodoteo relativo a Creso per indagare la concezione della divinità sottesa a tale riscrittura, una concezione propria per molti aspetti non soltanto di Senofonte ma, più in generale, dell’entourage socratico Platone incluso. Il lavoro dello studioso si articola in tre parti: nella prima Ellis istituisce un confronto tra le due versioni del logos di Creso al fine di cogliere le implicazioni teologiche della versione erodotea; nella seconda si propone di indagare quali reazioni la teologia sottesa al racconto di Erodoto poteva suscitare nei Socratici; infine nella terza viene esaminata la teologia di Senofonte alla luce dell’analisi condotta nelle due sezioni precedenti. Premesso che il racconto dell’incontro tra Ciro e Creso che si legge in Cyr., VII, 2, 9-29, concentra 75
Secondo l’efficace definizione di L.-A. Dorion: vedi Introduction, cit., p. CLXIXCLXXXII. 76 Per questa ipotesi, oggi generalmente respinta, vedi A. Delatte, Le troisième, cit., p. 96-98. 77 Personalmente ritengo che, in effetti, III, 8, sia stato scritto molto dopo IV, 2, perché considero abbastanza probabile che i libri II-III siano stati composti in un secondo momento rispetto al resto dell’opera, una ipotesi che mi propongo di approfondire e di verificare con il dovuto rigore.
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una serie di temi della più ampia narrazione erodotea78, la cui conoscenza sembra presupposta nel lettore79, Ellis pur riconoscendo che, come sottolineato da molti studiosi, il Ciro di Senofonte è privo di quei tratti negativi che caratterizzano il Ciro erodoteo, ritiene che altri siano i punti di fondamentale divergenza tra le due narrazioni, dovuti alla diversa concezione teologica di Senofonte: essi riguardano i motivi alla base delle sventure di Creso, gli oracoli emanati da Apollo, le riflessioni sulla felicità umana. In Erodoto si possono individuare alcuni snodi cruciali dal punto di vista teologico e filosofico al tempo stesso (due punti di vista, secondo Ellis, non nettamente scindibili): la caduta di Sardi presentata come tisis per la colpa commessa da Gige antenato di Creso; la morte di Atis vista come punizione per Creso, ad opera di una divinità invidiosa, in quanto si era ritenuto il più felice di tutti gli uomini; la consultazione degli oracoli e soprattutto dell’oracolo di Delfi che con un responso ingannevole80 diviene la causa immediata e diretta della sconfitta di Creso nella guerra scatenata contro Ciro. Lo studioso pertanto si sofferma ad analizzare la reazione dei Socratici nei confronti dei tre aspetti teologicamente rilevanti della narrazione erodotea: l’invidia della divinità; la colpa ereditata dagli antenati; l’inganno da parte della divinità. Nei confronti di una divinità concepita come invidiosa è nettissima l’opposizione sia di Platone sia di Senofonte: in Phaedr., 247a, nonché in Tim., 29e, si afferma esplicitamente che l’invidia (phthonos) è del tutto estranea alla divinità; quanto a Senofonte è vero che nei suoi scritti non troviamo prese di posizione così esplicite, tuttavia da un lato l’invidia è vista come propria degli stolti ed estranea all’uomo assennato (Mem., III, 9, 8)81, dall’altro nel dialogo tra Socrate e Aristodemo (Mem., I, 4) e in una delle conversazioni con Eutidemo (Mem., IV, 3 ) si afferma che l’amore per gli uomini
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Come è noto, il logos di Creso in Erodoto si articola in due ampie sezioni, con qualche passaggio di collegamento tra l’una e l’altra: una prima sezione (I, 26-55) comprende le conquiste di Creso, ma soprattutto l’incontro tra Creso e Solone, la morte annunciata di suo figlio Atis e i test a cui Creso sottopone diversi oracoli; una seconda sezione (I, 76-91) abbraccia la campagna di Creso contro Ciro, la sua sconfitta, il suo miracoloso salvataggio dalla morte sul rogo, il suo colloquio con Ciro e infine la risposta dell’oracolo di Delfi alle rimostranze esposte dagli inviati di Creso. 79 Vedi in particolare Cyr., VII, 2, 17, dove si dà per scontato che il lettore abbia presente i test a cui il Creso erodoteo sottopone una serie di oracoli, tra cui l’oracolo di Delfi (Erodoto, I, 46-49). 80 Si tratta del responso riferito in I, 53, 3, e a cui si allude in I, 75, 1, dove viene definito kibdēlos, cioè, come sostiene Ellis con buone ragioni, “ingannevole” e non semplicemente “ambiguo”, come intendono altri. 81 Cf. anche Mem., II, 6, 21-23, dove l’invidia è presentata come un sentimento negativo che i kaloi kagathoi sono in grado di eliminare completamente.
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(philanthropia)82 e la cura per loro83 sono caratteristiche fondamentali della divinità. Il Socrate dei Memorabili insiste sui vantaggi, sulle opportunità, sui doni che gli dèi hanno profuso agli uomini, in netto contrasto con quanto affermano in Erodoto i “saggi consiglieri” riguardo alla condizione umana (vedi soprattutto I, 32; VII, 46). Inoltre, nota Ellis, anche nella Ciropedia l’invidia non solo è oggetto di condanna84, ma è un sentimento di cui Ciro, il leader ideale, è del tutto privo (Cyr., I, 4, 15), mentre è caratterizzato dalla philanthrōpia (Cyr., I, 2, 1), con una significativa analogia con la divinità. Quanto alla colpa commessa da un antenato e quindi all’idea di una responsabilità ereditata, come quella che il Creso erodoteo eredita da Gige e che è chiamato a pagare, una simile idea, pur così presente in testi letterari ancora nel V secolo, è del tutto estranea a Senofonte, a Platone, ad Aristotele. Riguardo poi alla comunicazione tra gli dèi e gli uomini tramite sogni, oracoli e sacrifici, anche in questo caso grande è la distanza tra Senofonte ed Erodoto. Il Socrate di Senofonte a più riprese insiste sulla disponibilità degli dèi a comunicare con gli uomini e a consigliarli per il meglio tramite prodigi e l’arte mantica (Mem., I, 1, 6-9; I, 4, 15; IV, 3, 12; IV, 7, 10), così come anche Ciro, seguendo i consigli di suo padre Cambise (Cyr., I, 6, 46), confida nella possibilità che gli dèi indichino almeno agli uomini per cui nutrono sentimenti benevoli che cosa devono o non devono fare. Anche Erodoto è convinto che prodigi e profezie possano mettere gli uomini in condizione di agire per il meglio, tuttavia gli oracoli85 e soprattutto i sogni possono essere ingannevoli o ambigui; inoltre spesso si limitano a rivelare ciò che inevitabilmente accadrà, senza che vi sia alcuna possibilità di impedirlo: si pensi, ad es., ai sogni di Astiage relativi a sua figlia Mandane e al figlio di lei (I, 107-108). Del resto oracoli e sogni ingannevoli, ambigui, fuorvianti sono largamente presenti nella letteratura greca, a partire dal sogno che Zeus invia ad Agamennone per attirarlo in un rovinoso inganno (Il., II, 5-40); non solo: per Erodoto la conoscenza anticipata di una sventura incombente non serve a evitarla, anzi accresce l’angoscia, perché è terribile sapere molto e non poter fare nulla (IX, 16, 5)86. Tutte queste profonde divergenze tra Erodoto e Senofonte hanno quindi portato quest’ultimo a riscrivere il logos di Creso in una chiave del tutto diversa: una scelta, ribadisce lo studioso, assoluta-
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Cf. Mem., IV, 3, 5; IV, 3, 7. Cf. Mem., I, 4, 14; IV, 3, 3; IV, 3, 12. 84 Cf. in particolare Cyr., II, 4, 10; III, 1, 39; IV, 6, 4; VIII, 5, 24. 85 Bisogna tenere presente che Erodoto è comunque consapevole che i responsi della Pizia potevano essere comperati (cf. V, 62, 2-63, 1), ma non manca di ribadire polemicamente la sua fiducia nelle profezie e negli oracoli: vedi in particolare VIII, 77. 86 A ragione Ellis nota che le parole pronunciate in questo passo da un saggio persiano ricordano quelle di Tiresia in Oed. T., 316-318. 83
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mente consapevole e deliberata. In effetti nella Ciropedia Creso, nel raccontare a Ciro la propria storia, narra in linea di massima gli stessi eventi che troviamo in Erodoto, ma con differenze significative: in primo luogo scompare il dialogo tra Solone e Creso, soprattutto perché i temi centrali di natura teologica contenuti nel discorso di Solone, cioè la divinità presentata come invidiosa e incline a capovolgere le sorti di chi è ricco e felice, risultavano inaccettabili per Senofonte; in secondo luogo la morte di Atis, che in Erodoto si configura come la nemesis divina che colpisce Creso perché si era ritenuto il più felice degli uomini, nel racconto del Creso di Senofonte non ha alcuna spiegazione di tipo teologico: Creso si limita ad affermare che essa colpisce Atis nel fiore dell’età. Ancora: in Senofonte è completamente assente il motivo della colpa ereditata dall’antenato, Gige, che Creso è destinato a espiare: se Creso precipita nella rovina è solo a causa degli errori commessi da lui personalmente. Anche la seconda sventura in cui incappa Creso, la disfatta ad opera di Ciro, ha una causa esclusivamente umana: non c’è nessun oracolo ingannevole a indurlo a combattere contro Ciro, è Creso che si lascia convincere dal re degli Assiri: l’unico oracolo di cui Creso fa menzione, nota a ragione Ellis, è un oracolo dal sapore socratico, in quanto esorta Creso a conoscere se stesso (Cyr., VII, 2, 20; cf. Mem., IV, 2, 24-29). Inoltre Creso non esita a riconoscere che, nei suoi rapporti con l’oracolo di Delfi, il comportamento scorretto è stato solo suo, mentre nessuna critica può essere mossa al dio: Creso infatti non ha esitato a mettere alla prova la veridicità dell’oracolo, mostrando una diffidenza che avrebbe irritato non si dice un dio, ma anche un semplice gentiluomo (Cyr., VII, 2, 7). Nella versione di Senofonte, dunque, le sventure in cui Creso è incorso sono dovute soltanto alla sua arroganza, al non essere stato capace di conoscere se stesso e, quindi, i propri limiti. Per altro, ricorda giustamente lo studioso, è comunque vero che Senofonte è convinto che l’arroganza umana può attirare la punizione divina: non è dunque un caso che il suo Ciro, a differenza del Ciro di Erodoto che va incontro alla disfatta e alla morte perché convinto di essere “qualcosa più di un uomo” (I, 204, 2), proclami sul letto di morte che, nonostante i suoi successi, non ha mai nutrito pensieri più orgogliosi di quelli che si addicono a un essere umano (Cyr., VIII, 7, 3). Ellis aggiunge poi che, se pure è verosimile che Senofonte conoscesse diversi racconti, oltre a quelli a noi pervenuti, delle vite di Ciro e di Creso, tuttavia è molto probabile che fosse il testo di Erodoto quello che Senofonte aveva in mente e a cui intendeva opporre la propria riscrittura delle vicende che li avevano portati a incontrarsi nonché del loro stesso incontro. Un tratto comune a Erodoto e a Senofonte è invece costituito dallo stretto legame tra la dimensione teologica e i processi storici: ma mentre per Erodoto gli uomini, anche i più saggi, sono comunque in balia del caso (I, 32, 4), negli scritti di Senofonte gli uomini più saggi (il Ciro della Ciropedia 189
e il Socrate dei Memorabili) sono fermamente convinti che la pietà e il ricorso alle pratiche divinatorie costituiscono per gli esseri umani una guida sicura e affidabile in tutti quei campi in cui la sapienza umana si rivela insufficiente e inadeguata87. In sostanza, conclude lo studioso, Senofonte ha una visione assai diversa da Erodoto per quanto riguarda il ruolo e il peso degli dèi nelle vicende umane, una visione senz’altro più serena e ottimistica. In un convegno di studi dall’impostazione dichiaratamente comparativistica non poteva poi mancare un gruppo di contributi incentrati sull’intertestualità. Innanzi tutto quello di David M. Johnson, programmaticamente intitolato Xenophon’s Intertextual Socrates. Dopo un’ampia premessa, in cui si sofferma sulla rivalutazione degli scritti socratici di Senofonte avvenuta negli ultimi decenni e sul lavoro svolto da Dorion in questa direzione, lo studioso afferma che Senofonte non intendeva costruire un suo Socrate in opposizione a quello di Platone. Certo non mancano passaggi in cui Senofonte sembra voler replicare a Platone: ad es. l’Apologia di Senofonte inizia con una velata accusa di incompletezza verso quella di Platone; Mem., I, 4, 1, costituisce una risposta all’accusa mossa a Socrate nel Clitofonte (della cui paternità platonica per altro Johnson non sembra convinto); quanto al Simposio di Senofonte, lo studioso non esita a considerarlo come una replica a quello di Platone. Senofonte per altro ha una sua propria agenda e se il suo Socrate è diverso da quello di Platone, ciò è dovuto appunto a una sua scelta deliberata e non al fatto che Senofonte fosse incapace di capire Platone o Socrate. Perciò, ad es., non è sorprendente che nell’Apologia di Senofonte, a differenza che in quella di Platone, l’oracolo non dica nulla riguardo alla sapienza di Socrate (Ap., 14), perché la sapienza negli scritti socratici di Senofonte riveste un ruolo molto meno importante che in Platone. Analogamente non è un caso che, a differenza che in Platone, il daimonion di Socrate fornisca saggi consigli e, per di più, non soltanto a Socrate, ma anche ai suoi amici: Senofonte infatti si preoccupa costantemente di sottolineare quanto Socrate fosse utile a coloro che lo frequentavano. Tuttavia studiare Platone e Senofonte come due autori ciascuno dei quali dotato di una propria agenda, se pure rappresenta una salutare rottura con una tradizione interpretativa che rimaneva impigliata nella rete della questione socratica con conseguente svalutazione di Senofonte, presenta però il rischio, nota Johnson non a torto, di ridurre Socrate a semplice portavoce dell’uno o dell’altro. La sua risposta a questo problema consiste nello spostare, per così dire, il punto di vista da cui guardare a Socrate: studiare Socrate, secondo lo studioso, significa sempre e soltanto studiare la ricezione di Socrate: Socrate si identifica, per così 87
Cf. in particolare Mem., I, 1, 6-9; IV, 3, 12; IV, 7, 10; Cyr., I, 6, 2-6.
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dire, con la sua ricezione, dato che non esiste nel suo caso la distinzione tra un testo originale e la sua ricezione. Senofonte conosceva almeno una parte degli scritti degli altri Socratici, ma poteva contare anche sui suoi personali ricordi, anche se le sue ripetute dichiarazioni di autopsia (viziate spesso da eclatanti anacronismi) non vanno prese alla lettera, bensì intese come una piena assunzione di responsabilità per quanto andava scrivendo nelle sue opere socratiche. Quanto al rischio di leggere Senofonte solo in funzione di Senofonte, Johnson, riprendendo una posizione di Vander Waerdt88, afferma che il ritratto di Socrate filosoficamente più brillante non può che essere che quello di Platone89, ma che Senofonte si rivela comunque prezioso perché tocca temi mai affrontati dal Socrate platonico, come gli argomenti di natura teologica di Mem., I, 4, e IV, 3, ovvero la questione della legge naturale in Mem., IV, 4. Inoltre è fondamentale cogliere i passaggi improntanti all’intertestualità, alcuni dei quali espliciti, in cui Senofonte dichiara di volersi distinguere da altri Socratici (Mem., I, 4, 1; IV, 3, 1-2; Ap., 1, 1), altri impliciti ma che palesemente rinviano a Platone, nonché ad Aristofane90. Lo studioso ribadisce pertanto che Senofonte, che presuppone nei suoi lettori la conoscenza di vari scritti degli altri Socratici, non intende contrapporsi a tali scritti, bensì integrarli e precisarli. Il confronto, ovviamente, è soprattutto con Platone, dato che degli altri Socratici ci sono pervenuti soltanto dei frammenti, e di solito è Senofonte che prende Platone come riferimento (e non viceversa), ma spesso non possiamo neppure escludere che entrambi attingano a una fonte comune: testi perduti di altri Socratici, oppure ricordi di conversazioni del Socrate storico oppure ancora argomenti discussi all’interno della cerchia socratica. A riprova di quella che Johnson considera una sorta di conversazione a distanza tra Senofonte e Platone, lo studioso cita Mem., I, 1, 16, dove Senofonte parla di un Socrate impegnato in ricerche definizionali, un Socrate che ha ben poco a che fare con il Socrate dei Memorabili e che invece ricorda da vicino il Socrate dei primi dialoghi di Platone; allo stesso modo il rimprovero che Ippia rivolge a Socrate in Mem., IV, 4, 9, ricorda quello di Trasimaco al Socrate platonico in Resp., 336b, e sembra ben poco in sintonia con il Socrate di Senofonte, sempre pronto a esprimere senza reticenze la propria opinione e alieno, se non in rarissimi
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P.A. Vander Waerdt, Introduction, in: P.A. Vander Waerdt, c/ di, The Socratic Movement, Cornell University Press, Ithaca-London 1994, p. 3. 89 Al riguardo mi permetto di rinviare al mio Che cosa fare di Senofonte?, in: “Magazzino di filosofia”, XXII (2013), p. 17-50: vedi in particolare p. 32-34. 90 Numerosi, come è noto, i passi del Simposio che rinviano al Simposio di Platone (cf. Platon, Le Banquet, texte établi et traduit par L. Robin, Les Belles Lettres, Paris 1929, p. CXI); quanto ad Aristofane, chiare allusioni alle Nuvole si riscontrano in Symp., 6, 6, nonché in Oec., 11, 3.
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casi, dalla pratica dell’elenchos91. La conclusione dello studioso è che Mem., IV, 4, 9, non costituisca un incauto prestito da Platone, ma che Senofonte, presentando un Socrate che aveva anche alcuni tratti del Socrate platonico, intendesse non contrapporgli un suo Socrate, ma aggiungere nuovi tratti a un Socrate già noto ai suoi lettori: in sostanza il Socrate di Senofonte non è il Socrate che appare in Senofonte e solo in Senofonte, bensì un Socrate rimodellato da Senofonte. Ma il Socrate di Senofonte non è soltanto (intenzionalmente) intertestuale, ma anche intratestuale, nel senso che è Socrate quale appare in tutte le opere socratiche di Senofonte, non solo quindi nei Memorabili, ma anche nell’Economico92 e nel Simposio. L’ultima questione affrontata da Johnson in questo suo stimolante contributo riguarda la enkrateia: lo studioso infatti ritiene che il Socrate di Senofonte sia fondamentalmente compatibile con quello di Platone, che Senofonte avrebbe inteso integrare, in parte anche correggere, ma non soppiantare: rimane però aperto il problema della enkrateia, che per Senofonte costituisce il fondamento della virtù e quindi, secondo Dorion, viene ad assumere quella funzione che per il Socrate platonico è invece propria della sophia. Johnson ritiene corretta la tesi di Dorion se essa intende affermare che la enkrateia costituisce l’insegnamento più importante che il Socrate di Senofonte intende impartire: in effetti il Socrate di Senofonte insiste ripetutamente sul valore e sulla importanza della enkrateia, ma ciò, a giudizio dello studioso, avverrebbe soltanto perché Senofonte si proponeva di raggiungere un pubblico più ampio rispetto a quello a cui mirava Platone. Invece, secondo Johnson, la tesi di Dorion è discutibile se Dorion intende affermare che per il Socrate di Senofonte la enkrateia rappresenta il fondamento della sua filosofia: se infatti questa affermazione sta a significare che la enkrateia costituisce la necessaria base per le virtù, la libertà e la felicità, si tratta di una tesi condivisibile; non lo è invece se implica che la enkrateia rappresenti un tratto fondamentale a cui tutte le altre virtù e la stessa felicità possono essere ricondotte. Secondo Johnson infatti la enkrateia per il Socrate di Senofonte è necessaria, ma non sufficiente e quindi alla sophia rimane affidato un ruolo importante da svolgere. Nella sua conclusione lo studioso sostiene che una possibile compatibilità su argomenti in cui Platone e Senofonte erano sembrati inconciliabili apre la strada a due rilevanti conseguenze: da un lato
91 Cf. R. Waterfield, Xenophon’s Socratic Mission, in: C. Tuplin, c/ di, Xenophon and His World, cit., p. 79-113: a p. 109 Waterfield sostiene che si tratta di un evidente prestito da Platone; diversa l’interpretazione di G. Vlastos, che ritiene che si tratti di una sorta di svista di Senofonte che, per un momento, lascia intravedere il Socrate storico (Socrates, cit., p. 105-06; Socrate, tr. it., cit., p. 139-40). 92 Considerato da alcuni nell’antichità il quinto libro dei Memorabili: vedi Galeno, Commentarii in Hippocratis Peri arthron, I, 1.
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permette di reimpostare il nostro approccio alla questione socratica; dall’altro se è vero, come sostiene Vander Waerdt, che il ritratto di Socrate filosoficamente più significativo è quello di Platone, è anche vero che il Socrate più affidabile non è quello di Platone né quello di Senofonte, bensì un Socrate intertestuale che getta un ponte tra l’uno e l’altro. Una conclusione, come si può constatare, senz’altro interessante su cui dovremo ritornare. Anche Boris Hogenmüller si è occupato di intertestualità, con un approccio rigorosamente filologico, analizzando l’influenza del Critone e del Fedone sull’Apologia di Senofonte. Infatti, secondo Hogenmüller, attento studioso di questo opuscolo93, non soltanto l’Apologia platonica, ma anche i due dialoghi incentrati sugli eventi che seguirono il processo, cioè il Critone e il Fedone, hanno lasciato tracce significative nell’Apologia di Senofonte. In Ap., 23, Senofonte afferma che Socrate riteneva che ormai fosse giunto per lui il momento opportuno per morire e che questa sua convinzione divenne palese dopo che fu pronunciata la sentenza di colpevolezza; quindi adduce due fatti che, a suo avviso, dimostrerebbero che Socrate era convinto che per lui ormai fosse meglio morire: in primo luogo il suo rifiuto di proporre una pena alternativa alla pena di morte chiesta dai suoi accusatori94, in secondo luogo il suo rifiuto di accettare la proposta degli amici che volevano farlo evadere dal carcere. Ora, afferma lo studioso, questo secondo fatto non ha nulla a che vedere con quanto avvenne durante il processo, in quanto si verifica nel periodo di detenzione che intercorre tra la condanna a morte e l’esecuzione, ed è proprio la scarsa pertinenza di questo fatto rispetto al contesto in cui è inserito che induce a pensare a un prestito da Platone: dal Critone in generale (e in particolare da Crit., 43a-53a), nonché da un fugace accenno del Fedone, quando appunto Socrate allude a una sua possibile fuga dal carcere (Phaed., 99a). L’altro passo che rivela un prestito da Platone, in questo caso da due passi del Fedone, è Ap., 28, dove Senofonte riferisce un breve scambio verbale tra Socrate e il devoto discepolo Apollodoro, uno scambio verbale che non sembra connesso né con quanto precede né con quanto segue: l’impressione che se ne ricava, asserisce Hogenmüller, è che Senofonte abbia voluto inserire qui, un po’ forzatamente, un aneddoto la cui 93
Vedi B. Hogenmüller, Xenophon, Apologie des Sokrates. Ein Kommentar, Südwestdeutscher Verlag für Hochschulschriften, Saarbrücken 2008. 94 Anzi Senofonte aggiunge addirittura che Socrate proibì ai suoi amici di proporre una pena alternativa: come è noto, questo contrasta con quanto si legge nell’Apologia platonica (Ap., 36b-38b), probabilmente per una deliberata scelta di Senofonte di contrapporsi a Platone, presentando un Socrate più intransigente e meno ironico (si ricordi che il Socrate platonico propone come pena alternativa quella di essere mantenuto a spese della città nel Pritaneo e solo a seguito delle insistenze degli amici accetterà che questi ultimi propongano una multa di trenta mine di cui si fanno garanti, dal momento che Socrate non potrebbe permettersi di pagare più di una mina).
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versione originale è in Platone. Senofonte in effetti non si limita a riportare lo scambio di battute tra Apollodoro, che si dichiara addolorato di veder morire Socrate ingiustamente, e Socrate che gli domanda se per caso preferirebbe vederlo morire giustamente, ma precisa che Socrate risponde ad Apollodoro accarezzandogli la testa. Ora Apollodoro è presente nel Fedone e balza in primo piano, per così dire, in Phaed., 117d, quando, dopo aver visto Socrate bere la cicuta, scoppia rumorosamente in singhiozzi; anche nel Fedone Socrate accarezza la testa di un suo discepolo, per consolarlo della propria morte ormai imminente (Phaed., 89a9-b4): questo discepolo non è Apollodoro, bensì Fedone, l’io narrante del dialogo. La breve scena in cui Socrate accarezza affettuosamente la testa di Fedone è perfettamente inserita nel contesto, a differenza di quanto accade in Senofonte: ciò, secondo lo studioso, dimostra in modo inequivocabile che il creatore originario della scena in cui Socrate accarezza la testa di un discepolo in un gesto che è insieme affettuoso e consolatorio non può essere che Platone, mentre Senofonte ha ripreso questa scena sostituendo a Fedone un altro discepolo, Apollodoro, proprio quello che, sempre in base al Fedone, risultava il più afflitto dall’imminente morte del maestro. Tuttavia, conclude Hogenmüller, anche se per l’Apologia Senofonte ha ampiamente attinto a Platone, ciò non deve implicare in alcun modo un giudizio negativo su Senofonte, che comunque riesce a creare una sua immagine originale di Socrate. Ancora sull’intertestualità verte il contributo di Katarzyna Jazdzewska, relativo al tema del riso nel Simposio di Platone e in quello di Senofonte. Dopo aver premesso che, a partire dall’Iliade95, il riso appare un elemento tipico e ricorrente del banchetto, la studiosa nota a ragione che, ancora a partire da Omero, gli autori greci si mostrano consapevoli della natura ambigua del riso, che non è solo espressione di allegria, di benevolo e innocente scherzo, di un’atmosfera di reciproca confidenza, ma può diventare anche derisione, aggressività beffarda ovvero manifestazione esteriore di una insensata arroganza96. Jazdzewska passa quindi ad analizzare il tema del riso nel Simposio di Platone, rilevando che solo due volte un personaggio ride e un’unica volta compare una risata collettiva (alla fine del discorso di Alcibiade): risultano invece relativamente frequenti i termini connessi con il riso, dall’aggettivo geloios (“divertente” ma anche “ridicolo”) e relativo avverbio, ai verbi gelaō (“ridere”) e katagelaō (“deridere”), al sostantivo gelos (“riso”), all’aggettivo verbale katagelastos (“ridicolo”). Questi termini sono associati soprattutto ad Aristofane e ad Alcibiade, che la studiosa ritiene i 95 Ad es., il banchetto degli dèi alla fine del I libro dell’Iliade conosce un momento di grandi risate (Il., I, 595-600). 96 Così, ad es., in Erodoto, dove il riso di Cambise è la manifestazione della sua empia e arrogante follia: cf. III, 29, 1-2; III, 35, 1-4; III, 37, 2-3; III, 38, 1.
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due personaggi più comici del Simposio, una considerazione che per quanto riguarda Alcibiade appare alquanto sorprendente e non viene adeguatamente motivata97. Ma anche Socrate è connesso con il lessico del riso, nella misura in cui da un lato esprime la sua preoccupazione di suscitare il riso altrui, dall’altro si mostra consapevole del fatto che questo è il prezzo da pagare per dire la verità: del resto lo stesso Alcibiade nel suo discorso non manca di far notare che i discorsi di Socrate a prima vista appaiono ridicoli (geloioi), tanto che ogni persona ignorante e sciocca si metterebbe a ridere, mentre se si penetra in essi si scopre che sono gli unici dotati di intelligenza (Symp., 221e-222a). Non a torto, quindi, Jazdzewska sostiene che nel Simposio il rapporto tra il riso e la verità non è a senso unico. Riguardo al Simposio di Senofonte, la studiosa nota che il riso gode di uno spazio assai più ampio che in Platone: non solo i personaggi ridono più spesso, ma alcuni di loro, in particolare il buffone Filippo, esprimono le loro riflessioni sulla natura del riso. Un altro aspetto rilevante è che, a differenza di quanto accade in Platone, l’aggettivo geloios (con il relativo avverbio) non oscilla tra il significato di “divertente” e quello di “ridicolo” ma, tranne un unico caso (Symp., 4, 8), assume una connotazione decisamente positiva, “divertente”, “buffo”. Chi suscita più spesso il riso è naturalmente Filippo, ma ciò si verifica anche con Nicerato (Symp., 4, 45) e perfino con Socrate stesso che in ben due circostanze (Symp., 2, 16; 3, 10) si impegna a suscitare il riso dei convitati a proprie spese. Senofonte in sostanza evita di presentare personaggi che provocano il riso a spese di qualcun altro tra i presenti, mentre in tutti i casi i personaggi che hanno a che fare con il riso (Filippo, Nicerato, Socrate) con le loro parole e con il loro comportamento fanno capire chiaramente di voler far ridere gli altri esponendo al riso se stessi. In conclusione Jazdzewska afferma che il confronto tra le due opere rivela un’accentuata differenza per quanto concerne il lessico del riso e, più in generale, l’approccio al riso stesso. Infatti in Platone ricorrono per ben sei volte termini come katagelaō e katagelastos, del tutto assenti in Senofonte: mentre Senofonte, quindi, appare interessato all’aspetto propriamente giocoso, allegro del riso, Platone rivela una significativa attenzione per il lato oscuro del riso, quello che può tradursi in derisione. Tuttavia Senofonte e Platone presentano anche una caratteristica comune: a differenza di quanto accade in Omero, in Erodoto e nei tragici, né il Simposio di Platone né quello di Senofonte ci mostrano un riso che è frutto di beffarda arroganza o di compiaciuto inganno. 97 L’unica motivazione fornita dalla studiosa consiste nell’ubriachezza di Alcibiade, che suscita l’indulgente risata dei presenti al termine del suo discorso (Symp., 222c). Non è questa, ovviamente, la sede per entrare nel merito della questione, ma nel complesso il personaggio di Alcibiade mi sembra che possa definirsi comico soltanto per alcuni aspetti alquanto esteriori e superficiali, mentre il suo discorso presenta, a mio avviso, uno spessore che non esiterei a definire tragico: vedi in particolare Symp., 216a-c.
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Esaurita questa sintetica panoramica dei lavori presentati, non si possono infine passare sotto silenzio i due interventi etichettati come key-speeches, che hanno cercato di puntualizzare aspetti ritenuti fondamentali dai due studiosi in questione. L’intervento di James Redfield si è aperto con un doveroso riconoscimento del contributo, davvero straordinario e innovativo, fornito da Livio Rossetti allo studio della letteratura socratica e, più precisamente, di quel nuovo genere letterario costituito dai logoi Sokratikoi, un contributo imprescindibile per chiunque intenda occuparsi di Socrate, di Senofonte e dello stesso Platone98. Redfield sottolinea che Platone e Senofonte sono autori dei più antichi testi a carattere autobiografico giunti fino a noi, la VII Lettera e l’Anabasi: Socrate appare in entrambi, ma mentre in Platone compaiono soltanto accenni molto generici al rapporto tra l’autore e Socrate, Senofonte al contrario, in un celebre passo dell’Anabasi, rievoca un particolare momento della sua relazione con Socrate, il momento in cui Senofonte gli chiede un consiglio riguardo alla propria partecipazione alla spedizione che Ciro sta preparando (An., III, 1, 4-8), un episodio la cui indiretta valenza apologetica nei confronti di Socrate è stata ampiamente rilevata. Lo studioso nota, non a torto, che in questo episodio Socrate non viene presentato come un maestro né come un filosofo, bensì come un uomo più anziano, evidentemente ritenuto saggio, a cui un giovane si rivolge per un consiglio riguardo a una scelta non certo priva di conseguenze. Partendo da questa constatazione Redfield esprime i propri dubbi riguardo alla possibilità che Socrate insegnasse ciò che noi intendiamo per filosofia, cioè un insieme relativamente coerente di proposizioni e metodi finalizzati a rispondere a una serie di questioni fondamentali di tipo etico, metafisico e via dicendo. Ciò è dimostrato, secondo lo studioso, dalla diversità delle posizioni assunte dai diversi discepoli di Socrate: basti pensare, ad es., alla distanza che intercorre tra Aristippo e Antistene. Quanto a Senofonte, dato che le sue opere socratiche risalgono verosimilmente agli ultimi quindici anni della sua vita99, è probabile, sostiene Redfield, che egli ricordasse ben poco delle conversazioni di Socrate e che abbia fatto ampio ricorso agli scritti degli altri Socratici: il problema è dato dal fatto che è difficile farsi una idea del carattere prevalente, della comune natura dei numerosissimi dialoghi che vennero 98I lavori di Rossetti sulla letteratura socratica e sui logoi Sokratikoi si sviluppano a partire dai primi anni settanta fino ai nostri giorni: vedi il recente ed esaustivo Le dialogue socratique, cit. (cf. la mia recensione in: “Eikasmos”, XXV, 2014, p. 525-30). 99 Redfield segue la cronologia proposta da Higgins, che colloca le opere socratiche nell’arco di tempo che va dal 368 al 354 (W. E. Higgins, Xenophon the Athenian: The Problem of the Individual and the Society of the Polis, New York State University Press, Albany 1977, p. 131). In realtà il problema della datazione delle opere socratiche, che non necessariamente devono essere assegnate al medesimo periodo, è molto più complesso, anche per quanto concerne una sola di queste opere, cioè i Memorabili: cf. supra, n. 77.
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composti in poco più di un quarto di secolo100. Infatti da un lato i dialoghi di Platone erano verosimilmente atipici, diversi da quelli degli altri Socratici, dall’altro i dialoghi degli altri Socratici sono andati perduti ovvero, nel migliore dei casi, ci sono pervenuti soltanto in frammenti più o meno numerosi, più o meno estesi. Quest’ultima affermazione, tuttavia, non è del tutto esatta: infatti, nota lo studioso, ci sono giunti perfettamente integri alcuni dialoghi socratici considerati come spuri, cioè non platonici, da Trasillo, che nei primi anni del principato di Augusto, raccolse, come è noto, in nove tetralogie i dialoghi da lui ritenuti opera di Platone101. I dialoghi a cui fu negata la paternità platonica (Sul giusto, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco) consistono per lo più in rapidi scambi verbali domanda/ risposta, che sfociano in un’aporia o in un paradosso: tenendo presente questi dialoghi, si può quindi ritenere probabile che i logoi Sokratikoi fossero, in generale, assai più simili ad essi che ai dialoghi di Platone, senza dubbio atipici sia per spessore filosofico sia per la straordinaria qualità della scrittura. Redfield, pur sottolineando l’importanza dell’apporto della letteratura socratica, conclude affermando che non vi è possibilità di individuare quali elementi dell’insegnamento attribuito a Socrate derivino dai ricordi personali di Senofonte, quali invece dagli scritti degli altri Socratici e quali infine siano frutto di una sua libera invenzione. Quanto al key-speech di Dorion, lo studioso ha sostanzialmente ribadito i punti fondamentali esposti nella sua ricca e corposa introduzione ai Memorabili102: l’impossibilità di risalire al pensiero del Socrate storico e quindi da un lato la definitiva messa in mora della questione socratica e dall’altro la ribadita necessità di studiare Platone e Senofonte in una prospettiva di tipo comparativistico, mettendo a confronto temi comuni ma sviluppati in modo assai diverso; dall’accantonamento della questione socratica deriva anche la rinata attenzione per Senofonte, non più considerato come un discepolo poco dotato di Socrate, come il fratello minore di Platone, bensì come l’autore di una immagine di Socrate ben definita e coerente. Un bilancio complessivo del convegno mi sembra debba tenere conto di almeno due aspetti particolarmente positivi e degni di nota. Innanzi tutto, a differenza di quanto si era verificato a Trento dove i partecipanti erano rappresentati quasi esclusivamente da specialisti di filosofia antica, in questo 100
Circa trecento, nel primo quarto del IV secolo, con una media di una dozzina all’anno: vedi L. Rossetti, Le dialogue socratique, cit., p. 26-33. 101 Come è noto, anche per alcuni dialoghi attribuiti a Platone da Trasillo (e quindi inclusi nelle tetralogie) sussistono dubbi di autenticità: in particolare è generalmente negata la paternità platonica per l’Alcibiade II, l’Ipparco, gli Amanti, il Teage, l’Ippia maggiore, il Clitofonte, il Minosse, che pertanto potrebbero anch’essi essere considerati come preziosi logoi Sokratikoi sopravvissuti nella loro interezza. 102 L.-A. Dorion, Introduction, cit., p. VII-CCLII.
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convegno erano presenti anche studiosi (spesso filologi di formazione) che hanno dedicato il loro impegno di ricerca sia a testi di natura filosofica sia a testi letterari: questo perché nel mondo anglofono (ma anche in alcuni paesi europei), benché ovviamente esistano specialisti dei vari ambiti (filosofia, teatro, poesia, ecc.), vi è comunque una notevole tendenza a un approccio di tipo globale al mondo antico e, in particolare, alla cultura greca: un approccio globale che non è un semplice sinonimo di approccio interdisciplinare, perché non si limita a connettere e unificare differenti contributi specialistici, operando per così dire a valle, ma opera a monte, con un approccio ai testi (che si tratti di una tragedia o di un dialogo filosofico) già in partenza attento alle molteplici interconnessioni dei fenomeni culturali nelle loro complesse sfaccettature. Un approccio di questo genere risulta particolarmente appropriato e pertinente in rapporto alla cultura greca, che fino a quasi tutto il quarto secolo103 si presenta come fortemente interconnessa nelle sue diverse manifestazioni: si pensi a Platone che vede nello studio della geometria la necessaria premessa per affrontare un percorso filosofico, a Platone che scrive dialoghi impensabili senza le suggestioni esercitate dal teatro104, a Platone in cui i miti rappresentano una chiave di volta per penetrare nello stesso discorso filosofico. Un secondo aspetto positivo, altrettanto fondamentale, di questo convegno è che i lavori presentati e il conseguente dibattito non si sono appiattiti su quella che pure è stata l’impostazione dichiarata, cioè una prospettiva di tipo meramente comparativistico: in effetti, se è vero che quasi tutti i contributi hanno sviluppato un’analisi di una serie di temi comuni a Platone e a Senofonte, è anche vero che, mentre molti dei partecipanti hanno accettato il presupposto che questo tipo di indagine sia l’unico possibile, e quindi esaustivo e fine a se stesso, altri invece hanno espresso la convinzione che uno studio di tipo comparativistico risulta senza dubbio utile, prezioso, indispensabile, ma che sia anche possibile e forse doveroso partire da qui per cercare di cogliere almeno qualche aspetto del pensiero e degli orientamenti del Socrate storico. A questo proposito non è un caso che una posizione di questo genere sia propria soprattutto di studiosi che hanno una formazione di tipo filologico e, quindi, una consolidata abitudine ad affrontare testi altamente problematici come quelli della tragedia, testi la cui interpretazione è segnata da una ineliminabile, fortissima soggettività e da 103
Ad es., è solo a partire da Aristotele che matematica e filosofia andranno incontro a una separazione destinata a durare nel tempo, è solo a partire da Aristotele che la forma severa e spoglia del trattato diventerà il genere canonico dell’esposizione filosofica, è solo con Aristotele che mythos e logos si collocheranno su piani definitivamente separati. 104 Ad es., l’Apologia, il Critone, il Fedone sembrano costituire una sorta di trilogia che scandisce in tre momenti distinti (il processo, il carcere, l’esecuzione) il dramma della condanna e della morte di Socrate; oppure si pensi alla straordinaria teatralità dell’irrompere sulla scena di Alcibiade ubriaco nella parte finale del Simposio.
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una altrettanto ineliminabile, fortissima assunzione di responsabilità: in altri termini chi non si sottrae al rischio di proporre, pur nella consapevolezza delle infinite alternative possibili, una propria chiave di lettura dell’Edipo re o dell’Alcesti è forse più disposto ad accettare anche il rischio di spendersi per individuare almeno qualche tratto isolato riconducibile al Socrate storico, che si tratti delle sue modalità di gestire il dialogo105 o dei suoi orientamenti politici, senza trincerarsi dietro la pretesa certezza (a rigore, incontrovertibile) che, data la sua totale agrafia, noi del Socrate storico, tranne alcuni dati biografici, nulla possiamo e nulla potremo conoscere106. Su questo punto il dibattito rimane dunque aperto ed è destinato a continuare, con nuovi sviluppi e ulteriori articolazioni: ma questo convegno costituisce uno stimolante punto di partenza. (Fiorenza Bevilacqua)
105 Si tratta, come è noto, della posizione di L. Rossetti: vedi in particolare Le dialogue socratique, cit. p. 129-94 e 215-44. 106 Si tratta, come è noto, della posizione assunta da O. Gigon che, ammessa la possibilità di conoscere una serie di eventi della vita di Socrate, non esitava poi a dichiarare apertamente: “Mehr wissen zu wollen, is unfruchtbares Bemühe” (Sokrates. Seine Bild in Dichtung und Geschichte, Bern 1947, p. 64).
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Convegni Dal 9 al 12 settembre si è tenuto a Landau in der Pfalz il convegno Lebenswelt und Lebensform, organizzato dalla Deutsche Gesellschaft für phänomenologische Forschung. Tra gli interventi: Sebastian Luft, “Phänomenologische Lebenswissenschaft und empirische Wissenschaften vom Leben – ein Abgleich”; Inga Römer, “Cora Diamonds Ethik in realistischem Geist als hermeneutische Phänomenologie der ethischen Lebensformen”; Hans-Helmuth Gander, “Freundschaft als Lebensform”; Jürgen Goldstein, “Passungenauigkeiten. Hans Blumenberg und die Phänomenologie der Geschichte”; Thomas Fuchs, “Vertrautheit und Vertrauen als Grundlagen der Lebenswelt”; Annette Hilt, “Der Sinn des Unscheinbaren – Eugen Finks Leitfäden einer Phänomenologie der Lebenswelt und Lebensformen”. I relatori hanno esaminato l’argomento declinandolo secondo quella pluralità di prospettive che caratterizza la fenomenologia e che è indice della sua capacità di aderire ai fenomeni, tematizzando quell’ovvietà non ovvia di cui è intessuta l’esperienza: se Hans-Helmuth Gander ha analizzato il fenomeno dell’amicizia come virtù e come sentimento, problematizzando il nesso tra amicizia e norme della morale, spaziando da Aristotele a Charles Taylor e a Honneth, l’intervento di Jürgen Goldstein ha indagato il proficuo rapporto di Blumenberg con la fenomenologia husserliana e heideggeriana, fornendo preziosi spunti per comprendere meglio tale autore “generalista” e 201
la sua concezione della storia, influenzata dalla teleologia husserliana e guidata dall’idea di un “platonismo dinamico”. Thomas Fuchs ha quindi illustrato l’importanza della Urdoxa, della credenza originaria nel mondo, e il legame fondamentale tra fiducia nel mondo e fiducia negli altri, mostrando sulla scorta di esempi tratti dalla sfera clinica come tale legame risulti compromesso nell’esperienza schizofrenica, caratterizzata – come evidenziato da Jaspers nella definizione della Wahnstimmung – dalla proiezione sulla realtà intramondana della minaccia trascendentale del sé. Annette Hilt ha infine presentato gli elementi chiave della fenomenologia cosmologica di Eugen Fink, soffermandosi in particolare sul concetto di pre-datità del mondo e mostrando come dagli anni Quaranta in poi il mondo prenda, nella filosofia finkiana, il posto occupato negli anni Trenta dalla vita trascendentale. Riferendosi ai testi Welt und Endlichkeit, Existenz und Coexistenz, Grundphänomene des menschlichen Daseins e Spiel als Weltsymbol, la Hilt ha illustrato la centralità della nozione di inapparenza (Unscheinbarkeit) e come il gioco assurga a simbolo dei fenomeni dell’esistenza umana, rivelando quest’ultima come infinito rapporto dell’uomo al cosmo, sempre mediato dalla relazione con gli altri. (Giulia Cervo)
Osservatorio librario
Alessandra Zambelli, Adler face à Freud: une différence à sauvegarder (Dialogue intime entre les deux matrices de la psychthérapie psychanalitique). Préface de Virginie Megglé. L’Harmattan, (5-7, rue de l’Ecole-Polytechnique, 75005 Paris), 2014 Paris. Affrontando direttamente, ma anche “praticamente”, la questione della differenza essenziale e “protoscismatica” tra queste due concezioni fondatrici della psicologia del profondo (lasciando solo provvisoriamente da parte Jung!), l’Autrice – che da parte sua non teme l’ossimoro, anzi si attribuisce uno spirito insieme eretico ed ecumenico – intende in realtà contribuire all’evoluzione del paradigma psicoterapeutico tout court. 202
Essa intende lavorare, in risonanza con gli studi di psicologia individuale del prof. Andrea Ferrero, seguendo un proprio progetto di ricerca nell’orbita dell’IAIP, nel senso dell’apertura e della differenza da salvaguardare, quella autenticamente epistemologica, disattivandone il potenziale “scismatico” tuttora presente tra psicanalisi e psicologia individuale. In questo intento, di chiarire le premesse epistemologiche recuperandone i doni specifici, i riferimenti espliciti dell’A. sono: 1. il paradigma corporale di Adler e quello fenomenologico di Merleau-Ponty; 2. le analisi di Jean Laplanche sulla metapsicologia freudiana: l’impatto dell’angoscia sulle pulsioni nella strutturazione del super-io (l’aggancio clinico è al “piccolo Hans” e all’“uomo dei topi”) le suggerisce l’ipotesi, presso Adler, di un’inesplicita teoria del dolore; 3. Dallo studio del diverso modello di inconscio e dall’analisi del narcisismo e della pulsione di morte emerge “la relation à l’autre” come “pierre angoulaire de leur difference”. È così posta in evidenza la matrice kantiana della “psicologia individuale” di Adler che, influenzato da Hans Vaihinger (la filosofia dell’ “als ob”), “passa dal quadro incosciente e pulsionale al quadro finzionale e teleologico” che si concentra sulla nozione adleriana del Gemeinschaftsgefühl (“sentimento di comunanza”). Un’osservazione a proposito di questo termine tedesco. “Gemeinschaft” evoca l’antica koinōnia platonica ma ha anche una storia recente assai densa, che va dalla omonima categoria critico-trascendentale kantiana, attraverso tutto l’idealismo tedesco, fino alla categoria olistico-sociologica di F. Tönnies (un allievo di Dilthey) ed è centrale nella Gestalt, nella fenomenologia, nel neoidealismo e nel relazionismo italiano: è il percorso opposto a quello del nichilismo europeo – quello, per intenderci, che con “l’ideologia del sospetto” non seppe reggere la differenza tra apollo e dioniso, armonia e tragedia, “concordia discors” e “mors tua vita mea”. L’A. preferisce accoglierlo nella traduzione suggerita dal prof. Guy van Kerckhoven: “sentimento di appartenenza”). In ogni caso è una scelta dura, e, in tempi di “globalizzazione” (concetto ipocrita per eccellenza), bisogna dire: “qui si convien lasciare ogni sospetto…”. L’A. ha già chiaro il titolo della sua prossima opera: Pour une Clinique du Comme Si. Auguri! (Alfredo Marini) Eugen Fink, Sein und Endlichkeit. Band 5/2 der Eugen Fink Gesamtausgabe Vom Wesen der menschlichen Freiheit, hrsg. von Riccardo Lazzari, Alber, Friburgo i.Br.-Monaco d.B 2016, p. 672, € 99,99. Questa seconda parte del volume delle opere di Fink dedicato a Sein und Endlichkeit (Essere e finitezza) presenta, come testi principali, le lezioni 203
Vom Wesen der menschlichen Freiheit (L’essenza della libertà umana, 1947) e Welt und Endlichkeit (Mondo e finitezza, 1949, ripetuta nel 1966). Il filo conduttore di queste lezioni, e degli altri testi pubblicati nel volume, è la questione del rapporto tra uomo e mondo. Le dimensioni dell’antropologia e della cosmologia sono qui indissolubilmente connesse, e l’uomo viene caratterizzato come l’essere finito che, in virtù della sua libertà, è aperto al mondo. Attraverso la discussione di due modi radicalmente diversi di trattare il problema della libertà, quello di Kant e quello di Nietzsche, Fink propone, da una parte, un’antropologia fondata cosmologicamente e sviluppa, dall’altra, la questione della differenza cosmologica, ovvero la distinzione tra il mondo come totalità dell’essere e l’ente interno al mondo. Axel Ossenkop, Guy van Kerckhoven, Rainer Fink, Eugen Fink 19051975. Lebensbild des Freiburger Phänomenologen, Alber, Friburgo i.Br.Monaco d.B. 2015, p. 1070, € 149,00. L’intento di questa “monografia per immagini” è di richiamare alla memoria e rendere presente nella sua singolarità la figura del filosofo, fenomenologo e pedagogista tedesco Eugen Fink (1905-1975). Oltre a un ampio testo introduttivo, il volume presenta più di 1500 immagini, che comprendono foto del filosofo, dei luoghi in cui ha vissuto, delle persone da lui conosciute e frequentate, di pagine edite e inedite (a stampa e/o dattiloscritte) delle sue opere, di lettere e testi di vario genere presenti nel suo lascito o reperiti presso centri di ricerca e istituzioni. In tal modo esso descrive con efficacia e vivacità il cammino di pensiero del filosofo, collocandolo nel contesto del movimento fenomenologico e evidenziandone in particolare la posizione di spicco in quella “fenomenologia friburghese” che ha costituito il centro di irradiazione dell’influsso della fenomenologia sulla filosofia europea degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso. Frithjof Rodi, Über die Erfahrung von Bedeutsamkeit, Alber, Friburgo i.Br.-Monaco d.B 2015, p. 240, € 32. Al centro di questo studio si trovano le esperienze della significatività e la loro articolazione. Secondo Rodi tali esperienze appartengono a un ambito di ricerca che si sottrae a una rigorosa analisi logico-epistemologica. Collocandosi nell’ambito di confine tra ermeneutica, logica e retorica, esse costituiscono un ambito fenomenico in cui le strutture del mondo della vita si intrecciano con il livello delle più elevate funzioni cognitive. Riferendosi all’ermeneutica della vita diltheyana e ad autori legati alla tradizione ermeneutica e fenomenologica come Georg Misch, Hans Lipps e Helmuth 204
Plessner, Rodi indaga, in base all’esempio di concetti di epoche storiche, metafore, allusioni e altri fenomeni di carattere linguistico, la funzione costitutiva di senso di queste espressioni caratterizzabili come “epidigmatiche”, la cui presenza pregnante-evocativa è parte fondamentale dell’orizzonte delle diverse culture e richiede di essere considerata nella comprensione interculturale. Emilio Renzi, Persona. Una antropologia filosofica nell’età della globalizzazione, Ati editore, Milano 2015, p.138, €15,00. Muovendo dall’affermazione di Albert Camus, secondo cui “l’uomo non è un’idea”, i saggi raccolti in questo libro individuano nella persona la questione centrale di una possibile antropologia filosofica contemporanea. Intendendo la persona come “relazione” e “unità vivente di pensiero, esperienza e azione”, i saggi ne ripercorrono la genealogia e gli intrecci con la nozione di comunità attraverso diversi pensatori: da Mauss a Renouvier, Mounier e Maritain, da Husserl, Scheler, Paci e Merleau-Ponty ai comunitari americani Alinsky e Sennett fino a Adriano Olivetti, Aldo Capitini e Angela Zucconi. Considerando la persona come titolare di diritti inalienabili, l’Autore evidenzia l’importanza, nel contesto attuale, dello “jus cosmopoliticum” kantiano, riprendendo in questo quadro le riflessioni di Ricoeur sulla questione dei “migranti”. (L’Osservatorio librario è c/ di Massimo Mezzanzanica)
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