Magazzino di filosofia - n.25 A9/SAGGI

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magazzino di filosofia quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia n° 25, anno IX, 2015/ A9: s a g g i (peer review)

P.E.M.


M a g a z z i n o

d i

F i l o s o f i a

Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia *Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia) *Redazione: Gianvito Brindisi (Napoli), Riccardo Lazzari (Milano), Simone L. Maestrone (Bonn), Alfredo Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Alessandra Rauti (Milano), Giacomo Rinaldi (Urbino), Erasmo S. Storace (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Roberto Valentini (Milano), Fabio A. Volontè (Varese), Alessandra Zambelli (Parigi) *Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano), Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Lorenzo Giacomini (Milano), Santino Maletta (Cosenza), Carlo Montaleone (Milano), Renato Pettoello (Milano). *Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina (Lexington, Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello (Milano), Klaus Held (Wuppertal), Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Giovanni Piana (Cosenza), Stefano Poggi (Firenze), Frithjof Rodi (Bochum), Gianni Scalia (Bologna), Franz-Anton Schwarz (Freiburg i. Br.), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven (Bruxelles/ Bochum), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti (Pavia), Stefano Zecchi (Milano). *Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Jan Bednarich (Gorizia), Fiorenza Bevilacqua (Milano), Cristina Boracchi (Gallarate), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia), Andrea Cudin (Trieste), Carmine Di Martino (Milano), Miriam Franchella (Milano), Andrea Gilardoni (Milano), Sergio Levi (Milano), Pier Giuseppe Milanesi (Pavia), Walter Minella (Pavia), Luca & Mirela Oliva (Chestnut Hill, Ma.), Fabrizio Palombi (Roma), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano), Paolo Volontè (Milano). *Recapiti: email: info@filosofiacontemporanea.it; Associazione P.E.M, via Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com; “Riccardo Lazzari” rlazzari@tin.it; “Massimo Mezzanzanica” massimo.mezzanzanica@gmail.com; “Gianvito Brindisi” gvbrindisi@libero.it *Rubrica “Aggiornamenti”, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@>tin.it> / o: “Erasmo S. Storace” <erasmo.storace@alice.it> *SCHEDE e RECENSIONI, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@tin.it>/ o: “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Leggi nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic su “Expand”). *Acquista copie cartacee dei nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic sulla copertina, poi su “Copie Cartacee”) *Leggi una selezione dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18) sul Sito www.francoangeli.it (clic su “Riviste”, o telefona all’Ufficio Riviste, tel. 02 2837141). *Acquista le copie cartacee dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18 salvati dal macero) con email a: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com *Autorizz. del Tribunale di Pavia n. 508 del 14.04.2000, Quadrimestrale elettr., Dir. resp.: Alfredo Marini. I° quadrimestre 2015 – Finito di stampare nell’aprile 2015.


verum ipsum factum

Sommario

Guido Lucchini, Intorno alla collana viola. Appunti su de Martino e Pavese tra filosofia e letteratura (I)

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Vincenzo Rapone, La liberazione e la sua dialettica. L’antipsichiatria e Sartre 60

Storia della Scienza Antica & Epistemologia delle Scienze Umane Fiorenza Bevilacqua, L’Economico di Senofonte: un testo problematico, una ipotesi di lavoro

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Sara Mazzotti, Leopardi & Nietzsche (III°. L’arte del pensiero)

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A. De Vidovich, La lingua moribonda. Lettura di un canto popolare cremonese, con presentazione di G. Piana 185 c/ di Alfredo Marini e Massimo Mezzanzanica

Chiuso in redazione il 28.4.2015 da Massimo Mezzanzanica

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Rivista finanziata dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia ISBN: 978–1512024760 ISSN: 1592–5919

Questa rivista prodotta in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, esce per l’“Istituto Lombardo di Studi Filosofici e Giuridici”, ora “Istituto Filosofico Lombardo presso la Società Umanitaria” di Milano ed è espressione della ASSOCIAZIONE P.E.M. ‐ MEDICINA ANTICA & SCIENZE UMANE (Pavia)


Guido Lucchini

Intorno alla collana viola. Appunti su de Martino e Pavese tra filosofia e letteratura (I)

In un documento ben noto, la scheda della collana viola nell’Antologia Einaudi 1948, “alla quale Pavese aveva dedicato una cura minuziosa”1, si legge, oltre alla presentazione editoriale della “Collezione di studi religiosi etnologici e psicologici”, un breve profilo di Ernesto de Martino2, definito perentoriamente “un pioniere in questo campo” in Italia fin da Naturalismo e storicismo nell’etnologia, “nel cui nome abbiamo voluto iniziare la collezione”3, cui segue la recensione di Croce al Mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo4, favorevole, ma limitata dalla riserva sostanziale, 1

L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 284. L’autrice cita l’intero passo relativo alla collana viola, ma non ricorda la recensione di Croce. 2 Di norma seguo sempre la grafia minuscola “de Martino”, tranne nelle citazioni in cui è usato il maiuscolo. 3 Antologia Einaudi 1948, Torino, Einaudi, 1948, p. 373. 4 “Quaderni della Critica”, IV, 10 (1948), p. 79s., poi in: Nuove pagine sparse, II, Bari, Laterza, 1966, p. 77-79. Più severa la nota successiva Intorno al “ magismo” come età storica, in: “Atti dell’Accademia Pontaniana”, n.s., I, a.a. 1947-1948, 1949, p. 69-77, e in: “Quaderni della Critica”, IV, 12, 1948, p. 53-63, poi in: Filosofia e storiografia, Bari, Laterza, 1949, p. 183-208, ora in: Edizione nazionale, Saggi filosofici XII, c/ di S. Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005. Entrambi gli interventi crociani si leggono in appendice a Il mondo magico, Torino, Boringhieri, 19673, p. 277-78, p. 279-85. Sulle probabili ragioni di questa doppia recensione (la prima è chiamata da Croce “cenno bibliografico”), si veda G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, Napoli, Bibliopolis, 2001, p. 253. Come si legge nella nota del 17 giugno 1948, nei Taccuini di lavoro, VI, 1946-1949, Napoli, Arte Tipografica, 1987, p. 203-204, Croce, “avendo scritto alcune cartelle intorno ai giudizi dello Hegel sui fatti del magnetismo”, riprese in mano Il mondo magico per verificare che cosa se ne diceva. “Ma ripercorrendo questo libro,” – aggiunge il filosofo – “mi sono accorto che il giudizio da me dato è troppo benevolo e che l’affetto per quel giovane di cui ho seguito per più anni gli studii che conduce, mi ha fatto considerare superficiale e quasi accidentale un errore da lui enunciato, che, invece, è profondo e penetra in tutta la sua trattazione”. Croce

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anche se relativa ad un solo punto, alla storicità delle categorie della coscienza5, ovvero una delle tesi più originali del libro. Che in un volume dall’ambizione dichiarata di riassumere ed illustrare, anche visivamente6, gli orientamenti culturali e politici innovativi della casa editrice, per dare conto della prima opera della nuova collana viola si ricorresse ancora all’auctoritas del vecchio filosofo, che incarnava l’Italia liberale ormai lontanissima dalla temperie ideologica del secondo dopoguerra, quando ormai la sua fortuna era declinante, e per giunta in un’Antologia nella quale si pubblicava un brano di Gramsci tratto da Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, La scienza e la cultura, fortemente critico nei riguardi di Croce e Gentile, è un fatto che si presta a qualche considerazione, credo, non supervacanea. Certo, a differenza di Pavese, de Martino, dopo gli esordi legati al rapporto con Vittorio Macchioro, suo primo maestro e futuro suocero7, e con Adolfo Omodeo, relatore della sua tesi di laurea, si era formato al magistero di Croce, di cui può considerarsi a buon diritto un libero discepolo. La distanza che lo separava da Pavese e in genere dalla cerchia torinese dell’Einaudi, anticrociana o, al più, crociana di sinistra, si pensi in particolare a Leone Ginzburg, era grande8. Beninteso, si trattava di opzioni non tanto politiche quanto filosofiche. Nell’ambiente torinese la filosofia dello spirito non era

strappò le cartelle e l’indomani aveva già tracciato lo schema della nota, come risulta dai Taccuini, cit., 18 giugno 1948, p. 204. 5 “C’è qui una svista o scambio delle “categorie” coi “fatti” storici, che esse generano e cangiano e svolgono informando tutti di sé e rendendoli solo mercé di esse intelligibili”, Antologia Einaudi 1948, cit., p. 375. Rec. cit., p. 80. 6 Come dimostra nell’Antologia l’apparato iconografico costituito dalle foto di Hemingway, di Vittorini, della Morante, di Lukács, e via dicendo, autori considerati evidentemente assai rappresentativi degli indirizzi culturali della casa editrice. 7 Si veda R. Di Donato, I Greci selvaggi. Antropologia storica di E. de Martino, Roma, manifestolibri, 1999, in particolare il primo capitolo, Preistoria di Ernesto de Martino, p. 1740, che rielabora la comunicazione presentata al seminario su De Martino, diretto da Arnaldo Momigliano, tenutosi a Pisa nella primavera del 1987. Cf. anche G. Galasso, “La funzione storica del magismo”: problemi e orizzonti del primo De Martino, in: “Rivista Storica Italiana”, CIX, (1997) p. 483-517, soprattutto le p. 488-95, e G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., il cap. 2, Fra De Martino e Macchioro. Per un confronto, p. 4378. 8 “Non credo che Pavese abbia mai sentito alcun bisogno di giustificare il suo distacco dal breviario di estetica, dalla poesia e non poesia, dalla tetralogia dello spirito, dalle storie di Napoli, d’Italia e d’Europa. Meno che mai da Gentile e dai minori suoi. Era un distacco originario, conseguente alla vocazione dello scrittore”, C. Dionisotti, Per un taccuino di Pavese, in: “Belfagor”, XLVI, 1 (1991), p. 1-10, poi in: Ricordi della scuola italiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998, p. 511-22, cf. p. 521. I modi sono un po’ ruvidi, ma la sostanza è indubbiamente vera. Sui rapporti fra Croce e Ginzburg cf. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, cit., p. 6-24.

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mai stata di casa, nonostante il grande prestigio del Croce antifascista9. Sintomatico è il caso del maggiore studioso di letteratura italiana della scuola torinese, Dionisotti10, coetaneo di Pavese e di de Martino, debitore senza dubbio verso l’insegnamento del Croce erudito e storico, ma estraneo se non del tutto alla sua critica, certo alla sua estetica. Alla luce di queste considerazioni elementari il sodalizio tra lo scrittore e lo storico delle religioni, come si sa, segnato da screzi occasionali e da divergenze talvolta profonde, manifestatesi apertamente soltanto dopo il suicidio di Pavese11, risulta ancora più singolare. Sul piano documentario, dopo i lavori di Pietro Angelini12, resta ben poco da aggiungere. Così non pare invece su quello interpretativo e storico-culturale. Naturalmente contro il tentativo di mettere a confronto due personalità così diverse si oppone un’objezione di non lieve momento. Al di là dell’innegabile dilettantismo di Pavese negli studi antropologici, fino a che punto è legittima l’operazione critica? In altre parole, un narratore anzitutto, che non si segnala per eccessiva coerenza logica, anche se sensibilissimo alle più varie suggestioni culturali, può essere considerato alla stessa stregua di uno specialista di storia delle religioni, di solida formazione filosofica? Evidentemente la risposta non può che essere negativa. Tuttavia a una coscienza critica metodologicamente avvertita si apre forse un’altra strada. Osservati da vicino i due presentano un profilo ben più frastagliato. La cosa è più ovvia nel caso di 9 Si vedano almeno A. d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, Torino, Einaudi, 2000, in particolare le p. 57-58, su Gobetti, e le p. 196-98, su Lionello Venturi, e N. Bobbio, Trent’anni di di storia della cultura di Torino (1920-1950), introduzione di A. Papuzzi, Torino, Einaudi, 2002. 10 Oltre alla sua opera di studioso, naturalmente, si tenga presente questo giudizio sul Croce bibliofilo ed erudito, nella testimonianza Croce a Torino, in: Ricordi della scuola italiana, cit., p. 493-502: “è chiaro che il Croce minore non è separabile dal maggiore, l’erudito dallo storico”, p. 495. Sintomatica è l’assenza di qualsiasi riferimento al filosofo. Lo scritto autobiografico apparve dapprima in un opuscolo, G. Spadolini-C. Dionisotti, Benedetto Croce, Torino, Centro Pannunzio, 1993, p. 13-20. 11 Oltre all’articolo Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, in: “Società”, IX, 3 (1953), p. 313-42, si veda la lettera alquanto sgradevole, scritta a Giulio Einaudi, il 31 agosto 1950, a soli tre giorni dalla morte dello scrittore, edita in C. Pavese, E. de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, c/ di P. Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, Notizia supplementare, p. 181-82. Che il conflitto fra i due fosse riducibile all’insofferenza di Pavese verso la “pedagogia“ di cui ridondavano le prefazioni del suo collaboratore, come sostiene Sasso, cf. Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., p. 133-34, a me non pare affatto vero. 12 P. Angelini, La collana viola, nel numero monografico dedicato a de Martino di “Studi e Materiali di Storia delle religioni”, n.s., IX, 2, vol. 51 dalla fondazione, (1985), p. 299-312; C. Pavese, E. de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950 c/ di P. Angelini, cit.; Id., Ernesto de Martino, Roma, Carocci, 2009; L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, cit., p. 510-40.

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Pavese, nel quale convissero varie anime: il poeta, il narratore, il traduttore, il saggista, e via dicendo. Per non parlare delle scelte politiche, di cui il Taccuino edito da Lorenzo Mondo nel 199013 costituisce il documento più sconcertante e “indigesto”. Ma anche de Martino appare meno granitico di quanto possa sembrare di primo acchito. La sua figura complessa e poliedrica ha molte sfaccettature: com’è noto, non fu solo uno storico delle religioni e un antropologo, da una certa data sul campo, ma un meridionalista, uno studioso del folklore, un intellettuale organico, come usava dire, dal punto di vista politico14 non sempre lungimirante. Dinanzi alla loro opera vasta, relativamente alla vita non lunga di entrambi, e senz’altro varia, s’impone una scelta la più economica possibile in ordine agli studi pubblicati nella collana viola o di cui si progettò la pubblicazione. Ora, una ricerca siffatta non può che incentrarsi, almeno credo, sul concetto di mito, cui Pavese dedicò espressamente un solo saggio, Il mito, scritto poco prima di uccidersi, nel gennaio 1950, e uscito in: “Cultura e realtà” nel giugno di quell’anno, anche se il tema emerge più volte, a tacere d’altro, dal diario. Da cui consegue la preferenza accordata da un lato al Mestiere di vivere,15 lasciando invece sullo sfondo le opere narrative, compresi i Dialoghi con Leucò, in cui la problematica del mito è più esplicitamente tematizzata, dall’altro al libro di de Martino che inaugura la collezione. Ma vi è un’altra objezione, forse più pertinente. La collana viola, mutando anche veste e editore, sopravvisse quasi un decennio alla scomparsa di Pavese. Ora, nel mio lavoro oltrepasserò di molto il limite cronologico 13

Il tormento di Pavese, prima che il gallo canti, in: “La Stampa”, 8 agosto 1990, p. 1617. Ammirevole per equilibrio la reazione a caldo di un “superstite”, Dionisotti, l’articolo Per un taccuino di Pavese, in Ricordi della scuola italiana, cit., p. 511-22, partecipe ma non sdegnata, anzi intesa a comprendere le ragioni che portarono Pavese a una certa “benevolenza”, per usare un eufemismo, verso la repubblica sociale e alla successiva adesione al PCI. 14 Risulta assai istruttiva nel complesso la lettura delle sue lettere a Pietro Secchia, in: Compagni e amici, c/ di R Di Donato, Firenze, La Nuova Italia, 1993. 15 Non sembra casuale che sia proprio questo il solo libro di Pavese presente nella bibliografia di servizio dell’ultimo libro di de Martino, rimasto allo stato di abbozzo e, com’è noto, edito postumo diversi anni dopo la sua scomparsa, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, c/ di C. Gallini, Torino, Einaudi, 1977 (ma la bibliografia è stata redatta da P. Angelini). Interessante è questo giudizio sullo scrittore piemontese contenuto in un lungo appunto sulla crisi delle patrie culturali: “Cesare Pavese senza essere un meridionale immigrato a Torino portava con sé il fantasma della sua infanzia di Santo Stefano Belbo, e proprio con questa ininterrotta e rigerminante memoria si volse ad un certo momento alla lettura di libri etnologici e finché resse alla prova ne trasse argomento di poesia”. La fine del mondo, cit., Epilogo, 5.I.I. L’apocalissi dell’occidente, p. 479. Un altro riferimento a “Pavese, Diario” si trova in testa a un lungo appunto intitolato L’orizzonte dell’eterno ritorno, ibid., cap. I, Mundus, I.5.I. Iterazione mitico-rituale, p. 223.

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del 1950, occupandomi anche dell’ultima opera di de Martino, La fine del mondo, rimasta incompiuta e pubblicata postuma. È chiaro che giudicare le posizioni di due uomini, di cui uno interruppe tragicamente il corso della propria vita, mentre l’altro continuò la propria attività di studioso e di intellettuale “progressivo”, evolvendo il proprio pensiero e assumendo un atteggiamento critico a posteriori verso le scelte della collana negli anni 1945-50, potrebbe sembrare discutibile, se non illegittimo. Se la tematica meridionalista e l’adeguamento alla mutata situazione politica e culturale degli anni cinquanta hanno senza dubbio inciso profondamente nella produzione di de Martino successiva al Mondo magico, mi sembra non meno vero che una sorta di corrente sotterranea attraversi tutta la sua opera, riproponendo in modo tormentoso i problemi lasciati aperti in quel libro memorabile e in sostanza rimasti insoluti anche nella fase posteriore. Converrà perciò soffermarsi su quest’ultimo, che, come è stato scritto sia pure in una prospettiva diversa e in parte datata, “segna il punto più avanzato raggiunto […] da tutto il pensiero italiano del Novecento improntato all’idealismo, e forse non solo da quello”16. Pare dunque inevitabile prendere le mosse dal Mondo magico che, apparso nel 194817, ma già steso, almeno in parte, prima del collasso militare e politico del 194318, e probabilmente pubblicato da Einaudi soltanto dopo 16

C. Cases, nell’introduzione alla ristampa Boringhieri del 1973 di Il mondo magico, poi Introduzione a de Martino, in: Il Testimone secondario, Torino, Einaudi, 1985, p. 132-67, cf. p. 166. Si vedano anche Un colloquio con Ernesto de Martino, ivi, p. 48-55, apparso dapprima in: “Quaderni piacentini”, IV, 23-24 (1965), p. 4-10, e il commento di Fortini, Gli ultimi tempi (Note al dialogo di de Martino e Cases), ivi, p. 11-17, quindi ripubblicato col titolo Due interlocutori, in: F. Fortini, Saggi ed epigrammi, c/ di e introduzione di L. Lendini, e uno scritto di R. Rossanda, Milano, Mondadori, 2003, p. 1387-97. 17 Per le edizioni successive rimando all’insostituibile Nota bibliografica degli scritti di Ernesto de Martino, c/ di M. Gandini, in: “Studi e Materiali di Storia delle religioni”, numero monografico cit., p. 319-39, aggiornata nel 1995 da Silvio Previtera e consultabile sul sito www.ernestodemartino.it. 18 Cf. P. Angelini, Ernesto de Martino, cit., p. 41: “Il primo capitolo, […] probabilmente già pronto prima del fatidico 25 luglio 1943, è il frutto, come ha dimostrato Gino Satta, di un “vero e proprio taglia e incolla” compiuto su Percezione extrasensoriale e magismo etnologico [1942] che viene per ampia parte travasato nel testo. Il secondo […] è quello totalmente inedito, steso […] negli anni della Resistenza, e che vedrà la luce in anteprima su “Comunità” (La rappresentazione e l’esperienza della persona nel mondo magico, luglio 1946). Mentre una relativa caduta di tensione si nota nella costruzione del terzo capitolo, concepito come metodologico, ma […] capitolo anche questo costruito sulla falsariga di precedenti rassegne (in particolare i Lineamenti del 1942), con due “aggiornamenti” dell’ultim’ora”. Secondo Galasso, cf. “La funzione storica del magismo”: problemi e orizzonti del primo De Martino, cit., p. 484, il libro fu “scritto entro il 1944-1945”, anche se a tale affermazione non fa riscontro alcuna prova. Si può tuttavia convenire con l’autore che Naturalismo e storicismo nell’etnologia “è una sorta di prefazione metodologica al libro successivo”.

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una travagliata revisione19, pur scostandosi di molto dallo storicismo crociano, ne recava ancora indubbi segni20. Fin dal primo capitolo sui poteri magici l’autore affermava in termini non passibili di equivoco che “l’indagine coinvolge non soltanto il soggetto del giudizio (i poteri magici), ma anche la stessa categoria giudicante (il concetto di realtà)”21. In tal modo si poneva preliminarmente un problema la cui soluzione o, per meglio dire, proposta di soluzione, l’avrebbe portato nel corso di una serrata analisi a conclusioni lontane dall’immanentismo della filosofia dello spirito. Se l’abito mentale con cui de Martino affrontava la questione della realtà dei poteri magici rimaneva crociano, non altrettanto poteva dirsi del punto d’approdo del libro. Negando la legittimità di applicare al magismo le “categorie speculative che ora reggono l’interpretazione storica”, si veniva ipso facto “a negare implicitamente la perpetuità delle categorie con lo storicizzarle”. Di qui l’aspra critica di Croce, nella nota successiva, Intorno al magismo come età storica, cui si è già fatto cenno. L’anziano filosofo ravvisava infatti in tale tesi un’influenza celata, una “ascosa efficacia” del materialismo storico “che rinnegò l’autorità e la serietà del conoscere per attendere unicamente a cangiare il mondo e a produrre la rivoluzione delle rivoluzioni”22. Al di là del tono stizzoso e polemico, tipico soprattutto dell’ultimo 19 Dalla lettera di Pavese del 16 agosto 1946 (ds. su carta intestata “Il Politecnico”) si ricava che aveva ricevuto il dattiloscritto del Mondo magico, per il quale prometteva il contratto, cf. P. Angelini, La collana viola. Lettere 1945-1950, cit., p. 88, e da quella del 23 aprile 1947 risulta che le prime bozze erano illeggibili a causa del manoscritto e del “tremendo regime di note”, ivi, p. 96. Furono corrette da Pavese stesso. 20 Secondo G. Galasso, nel suo lungo studio Ernesto De Martino, in: Croce, Gramsci e altri storici, Milano, Il Saggiatore, 1969, p. 222-335, Il mondo magico è ancora pienamente partecipe dello storicismo assoluto “di cui si poneva come svolgimento”, cf. p. 259. 21 E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 22. 22 Ivi, p. 280. Il passo è considerato centrale da Cases, in una prospettiva ovviamente opposta (cf. Introduzione a de Martino, cit., p. 151-3). Di tutt’altro avviso è Galasso, secondo cui “molto più fondata appare invece l’individuazione […] di una influenza dell’esistenzialismo”, Ernesto De Martino, cit., p. 260. Anche se Galasso aggiunge la doverosa precisazione che l’“esistenzialismo” si deve intendere “quale […] era sostenuto e diffuso in Italia”, il termine non è esente da equivoci. Chi aveva osservato per primo certe consonanze tra de Martino e l’esistenzialismo italiano era stato Paci: “Bisogna notare che esiste un esistenzialismo positivo e che proprio di esso si serve il De Martino. I concetti usati dal De Martino di situazione iniziale e di situazione finale, sono tipici dell’Abbagnano”, Mito ed esistenza, in: Il nulla e il problema dell’uomo, Torino, Taylor, 1950, p. 131. Si ricordi che Paci aveva scritto una recensione molto elogiativa alla La struttura dell’esistenza, in: “Studi filosofici”, I, 4 (1940), p. 431-4, ristampato con qualche modifica e col titolo dell’opera di Abbagnano in Pensiero, esistenza e valore, Messina-Milano, Principato, 1940, p. 188-95. È innegabile che l’analisi della “crisi della presenza” di de Martino riveli una lettura flagrante di Sein und Zeit, citato una sola volta nel Mondo magico, anche se si può convenire con R. Pàstina sul fatto che egli ignorasse quell’opera prima di allora, cf. R. Pàstina, Le note sull’Esistenzialismo, in: Ernesto de Martino e la formazione del suo pensiero, c/ di C. Gallini,

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Croce, ciò che più conta è ben altro. Nella nota Intorno al magismo come età storica, contestando la legittimità di considerare le categorie della coscienza “formazioni storiche, prodotti di epoche dello spirito”, egli ricorreva a un argomento usato fin dalla Logica, quando aveva affermato perentoriamente il carattere eterno delle categorie che “sono fuori del tempo, perché sono tutte e ciascuna in ogni istante del tempo, e perciò non si possono imprigionare e impersonare in limiti empirici e individuali”23. Della contraddizione insita nel tentativo di storicizzare le categorie della magia, secondo un’opinione ancora diffusa, de Martino, un decennio più tardi, avrebbe scritto una sorta di palinodia nel primo capitolo di Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino, Einaudi, 195824. Il libro, che era uscito nelle Edizioni Scientifiche Einaudi, dopo che queste erano state cedute a Paolo Boringhieri (1957), si trova a un crocevia nell’itinerario culturale e biografico di de Martino. Il progetto in origine era più ampio. Come risulta da una lettera a Giulio Einaudi del 28 agosto 1952 (Archivio ESE Boringhieri, incart. de Martino), doveva essere un libro “sulla storia culturale del mondo contadino lucano”25, sviluppando la linea di studi indicata da Gramsci nelle sue note sul folklore. Cammin facendo, però il libro aveva mutato fisionomia, come si deduce da un’altra lettera di de Martino, di notevole interesse, questa volta a Paolo Boringhieri, del 26 luglio 1954 (Archivio ESE Boringhieri, incart. de Martino)26. Si era infatti ristretto al tema del “lamento funebre nel quadro del cerimoniale arcaico della morte”, analizzato in relazione sia al folklore sia al mondo classico, ed esaminato come una testimonianza essenziale del “conflitto fra ideologia arcaica della morte […] e ideologia cristiana”. L’oggetto della ricerca s’inseriva nella nuova prospettiva della collana viola. In una lettera allo stesso Boringhieri, ampiamente citata dalla Mangoni27, che però non riporta la data, Napoli, Liguori, 2005, p. 186. Sul rapporto ambiguo nei riguardi di Heidegger si leggono con profitto le osservazioni di Cases, Introduzione a de Martino, cit., p. 149-50. 23 B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, p. III, Le forme degli errori e la ricerca della verità, VII, La Fenomenologia dell’errore e la Storia della filosofia, Bari, Laterza, 19426, p. 311. Posizione ribadita trent’anni dopo all’inizio di La storia come pensiero e come azione, VI, Le categorie della storia e le forme dello spirito, Bari, Laterza, 1966, I ed. economica, p. 28: “Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali”. 24 Dalla 2ª ediz. (1975) il sottotitolo, per espresso desiderio dell’autore, è così modificato: Dal lamento funebre antico al pianto di Maria. 25 Cf. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, cit., p. 624. 26 Citata da L. Mangoni, ibid. 27 L. Mangoni, ivi, p. 625.

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de Martino prendeva atto della crisi della collana, definita da Calvino in modo agrodolce “la collana dei negretti”, e proponeva di rivitalizzare la collezione etnologica orientandola in senso meridionalistico. E qui la storia editoriale s’intreccia inestricabilmente con le vicende personali di de Martino, di interesse non lieve, come si vede in nota28, anche per la storia della 28 Nella lettera a Giulio Einaudi, da Roma, 1° aprile 1955 (ds. su carta intestata Einaudi. Archivio Einaudi, incart. de Martino, cart. 66, fasc. 970) de Martino, dopo avere elencato vari incidenti, si lamentava con l’editore dell’organizzazione interna della collana, giudicata “difettosa”, e aggiunge: “in realtà io non sono di fatto il responsabile della collana stessa, troppe cose essendo condivise da me con Boringhieri e troppo saltuari essendo i miei contatti con la Casa”. La risposta di Einaudi, ds., Torino, 7 aprile 1955, dal tono conciliante, tendeva a minimizzare i problemi, suggerendo che “l’inconveniente di cui ti lamenti […] potrebbe essere facilmente rimediato se tu facessi, una volta ogni tanto, un salto a Torino”. Ma queste non furono che le prime avvisaglie dello scontro con Boringhieri. Questi, una volta divenuto proprietario delle Edizioni Scientifiche Einaudi, dimezzava i compensi dei consulenti esterni, suscitando la comprensibile irritazione di de Martino che nella lettera a Giulio Einaudi , Roma, 30 dicembre 1957 (ds. su carta intestata Einaudi) dichiarava di considerare chiuso il rapporto con la casa dalla fine dell’anno. Dalla lettera a Luciano Foà, da Roma, 8 aprile 1958, risulta che invece restava valida la collaborazione relativamente a singole opere. Nel frattempo de Martino chiedeva all’editore un favore non irrilevante, di coinvolgere Franco Venturi, a lui noto “solo per fama” (cf. la lettera da Roma, del 23 maggio 1958), affinché Cantimori e Pugliesi Carratelli “raccogliessero il maggior numero di voti” dall’Università di Torino per entrare nella commissione giudicatrice del concorso per la cattedra di Storia delle Religioni all'Università di Roma, cui partecipava de Martino stesso. Dalla lettera di Einaudi, Torino, 7 giugno 1958, si apprende che l’editore si era adoperato attivamente in tal senso, ottenendo assicurazioni da Venturi. Ma in quegli stessi giorni si consumava la rottura con Paolo Boringhieri che, il 30 maggio 1958, gli scriveva una lettera durissima in cui lo accusava di avere espresso giudizi negativi sulla casa editrice e pertanto troncava ogni rapporto di collaborazione. Tutti i documenti si conservano presso l’Archivio Einaudi come pure la lettera di Einaudi del 21 novembre 1958, con cui si rammaricava con de Martino della sua rottura con Boringhieri e del suo accordo con Mondadori, di cui era venuto a conoscenza in ritardo. Ampi stralci della lettera sono citati dalla Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, cit., p. 892-3, che non cita tuttavia la risposta di de Martino, del 24 novembre, che merita di essere riportata, almeno in parte: “Caro Einaudi, la tua lettera mi ha profondamente rattristato, perché io sono stato e resto legato alla casa editrice Einaudi per qualche cosa che tocca il piano della vita morale e di ricordi che nulla può cancellare. Tuttavia proprio questo legame, da me profondamente sentito, meritava una migliore sorte. Quando le Edizioni Scientifiche Einaudi furono cedute a Paolo Boringhieri, e fui in certo senso “ceduto” anch’io in quanto consulente della etnologica, io mi sentii un po' ‘anima morta’ e mi ricordai di Gogol e di Cicikov. Avrei desiderato fra l'altro una tua lettera di commiato e di ringraziamento. Non venne: in cambio il nuovo padrone si affrettò subito [...] a comunicarmi a voce che non intendeva mantenere le 50.000 lire mensili come consulente, e mi sarei dovuto accontentare della metà” (corsivo nel testo). Dopo avere ricapitolato i fatti, la lettera a Einaudi, rimasta senza risposta, e la lettera di Calvino del 9 giugno 1958, in cui questi si augurava che le divergenze con Boringhieri potessero essere superate senza intromissioni di Einaudi, così concludeva: “Scusami questa lunga lettera, ma ho sentito moralmente l'obbligo di scrivertela, anche perché il ricordo dei tempi di Pavese e l'affetto cordiale che ho verso di te non mi consentono di accettare da parte tua il rimprovero

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cultura. Fondamentale è l’introduzione in cui de Martino in un rapido profilo autobiografico ripercorre le tappe della propria attività scientifica, dal primo libro, che gli appare a distanza di molti anni “non senza qualche tratto di giovanile baldanza e di scolastica ingenuità”, al Mondo magico, “il tentativo di interpretare storicisticamente la magia”, per esporre in breve l’oggetto della nuova opera che si apre, com’è noto, col commento di una pagina molto intensa di Croce29 sul culto dei morti. Nel lungo brano citato il filosofo si riferisce esplicitamente alle “varie forme di celebrazioni” attraverso le quali, secondo le efficaci parole di de Martino, “si avvia l’aspra fatica di far morire i nostri morti in noi”30. Il lutto per definizione non è razionalizzabile, ma può essere reso oggettivo nelle forme istituzionali del culto dei defunti. È chiaro che Croce aveva presente soprattutto la superiore giustificazione del cristianesimo, ma de Martino, discepolo non ribelle ma originale, estende la considerazione crociana a ogni possibile civiltà religiosa. Il ‘superamento’ del sistema avviene qui più in un allargamento dell’orizzonte della ricerca che in un sovvertimento radicale dei suoi principi. Il dramma storico analizzato non è più la crisi della presenza del rito magico-religioso, ma la crisi di un altro istituto culturale, il pianto funebre antico, lungamente combattuto dal cristianesimo. Se Il mondo magico era incentrato sul concetto di presenza e di angoscia di perderla, non meno che di riscatto o, per usare un termine più caro agli specialisti di filosofia, di trascendimento, Morte e pianto rituale nel mondo antico riprende in parte la stessa problematica applicandola ad altro argomento, in qualche modo però affine, dal momento che il pianto rituale non può prescindere dalla crisi del cordoglio, dalla Trauerarbeit di freudiana memoria. Ma, venendo alla tesi che informa

di frettolosità e di leggerezza che mi brucia”. Ma, nonostante tutto, il desiderio di riallacciare un rapporto di consulenza con la Einaudi doveva rimanere molto forte, se egli raggiunse presto un accordo di collaborazione, grazie alla mediazione di Panzieri (ottobre 1959; la risposta affermativa di de Martino è del 2 novembre), soprattutto se rispose con entusiasmo all’editore, appena gli fu prospettata una nuova collana di studi religiosi all’inizio del 1960. De Martino ruppe gli indugi, scrivendo a Einaudi l’8 ottobre 1960: “Col 1° gennaio del ’61 scadono i tuoi impegni di non concorrenza con Boringhieri per quanto concerne la “viola”. [sul margine sinistro un appunto autografo di Einaudi, credo, corregge: “scade nel 62, se non sbaglio]. Tu sai con quanta gioia vedo risorgere la vecchia “viola” cui il caro Pavese e successivamente io demmo il meglio di noi”. E nell’estate del 1962 redasse una Premessa, conservata nell’Archivio Einaudi e pubblicata da Angelini, in appendice a La collana viola. Lettere 1945-1950, cit., p. 201-203. Ma non era destino che egli vedesse nascere la nuova collana, battezzata di “scienze religiose” e nel 1963 subito trasformatasi nella più comprensiva “Nuova Biblioteca Scientifica Einaudi” (cf. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, cit., p. 916-17). 29 La pagina è tolta dai Frammenti di etica, Bari, Laterza, 1922, p. 22-4. 30 E. de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 6.

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il libro, ci s’imbatte in limine nella ben nota autocritica, di cui non può stupire tuttavia il tono sbrigativo. L’autore ritratta, infatti, quanto aveva sostenuto nel secondo capitolo del Mondo magico, arrendendosi senza condizioni ai suoi critici. Giacché, come ben si vede dalle critiche riferite, non vi è soltanto il Croce della memoria Intorno al magismo come età storica, ma anche un comprimario di vaglia, Paci, di cui cita un passo da Il nulla e il problema dell’uomo: Nella formulazione di dieci anni or sono quel concetto restò infatti impigliato in una grave contraddizione, almeno nella misura in cui pretese di farsi valere come concetto di un’unità precategoriale della persona e addirittura di un’unità la cui conquista avrebbe formato problema storico di un’epoca definita, onde poi, assicurata tale conquista, si sarebbe maturata la condizione fondamentale per la nascita delle distinte categorie operative o valori. La contraddizione non sfuggì al Croce […]. Pur con diverso accento ed in una diversa prospettiva anche il Paci ripeteva lo stesso avvertimento (ivi, p. 12-13).

E, riassumendo le objezioni mossegli, come sappiamo, de Martino le fa proprie in toto, limitandosi a dire che “Croce aveva ragione”, che la sua critica era “ineccepibile”. L’unica linea di resistenza è costituita dal sostenere, dopo avere riconosciuto che “il ‘taglio’ dell’unità della presenza dalle categorie del fare significa l’annientamento della stessa possibilità di esserci in una storia umana” (ivi, p. 13), che il rischio di tale annientamento tuttavia esiste, ed è tanto più forte “nelle civiltà cosiddette primitive”, mentre si riduce via via che s’innalza il livello della vita culturale, “il che appunto ammetteva il Paci”. E il nome dell’allievo di Banfi non è fatto certo per caso e non solo per le pagine che Paci aveva dedicato al Mondo magico. A lui e al suo libro vichiano de Martino allude chiaramente quando nella sua riflessione deduce dal rapporto che fonda la storicità della presenza e al tempo stesso “rende possibile la cultura”, il rischio “di non esserci nella storia umana, che si configura, si noti questo passaggio, “come un rischio di intenebrarsi nella ingens sylva della natura” (ivi, p. 14) . Se la regressione allo stato di natura immane sempre alla “civiltà”, non stupisce che de Martino riprenda una pagina del Croce di La storia come pensiero e come azione sull’ethos considerato “non più come una distinta forma del circolo spirituale, ma come la potenza suprema”31 dell’attività umana, pagina richiamata

31 Ibid. Non sono del tutto sicuro del riferimento crociano, ma credo che de Martino alluda

a questo passo: “Bene e male e i loro contrasti, e il trionfo del bene, e il rinascere dell’insidia e del pericolo, non sono effetto di una forza estranea alla vita […] ma sono nella vita stessa, la quale, per parlare in linguaggio naturalistico, vuole specificazione delle funzioni nell’unico organismo, e, per ripetere la cosa in linguaggio filosofico, perpetuamente si distingue nelle

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pari pari qualche tempo dopo in un lungo saggio, Mito, scienze religiose e civiltà moderna32. E a Paci, credo, allude anche più avanti, quando in polemica con Carlo Antoni, ravvisa nel suo Commento a Croce una confusione fra la categoria del vitale e quella dell’economico. Ma in realtà l’objettivo resta l’ultimo Croce e la sua discussione con Paci, che aveva proposto di identificare il concetto di esistenza con quello di forma economica, suscitando l’interesse ma anche il dissenso del vecchio filosofo. La critica di de Martino, secondo il quale se nell’ultimo Croce essa [scil. la vitalità] appare ora come la materia di tutte le forme ed ora una forma fra le altre, ciò deriva dalla perdurante confusione fra il vitale che è sempre materia e la coerenza culturale economica che è certamente una forma,33

a ben vedere, riguarda lo stesso Paci che soltanto alla fine del suo decennale confronto con Croce, mi sembra, arriverà a riconoscere, sebbene in modo non del tutto esplicito, che il ‘vitale’ non è valore in sé, alla stregua delle altre forme dello spirito, ma un mezzo per conquistare e affermare la vita morale. Come si vedrà oltre, negli appunti filosofici coevi alla stesura della Fine del mondo, de Martino ritornerà sulla questione, coinvolgendo, nella critica qui abbozzata, apertamente anche Paci. Ora, l’interpretazione di Cases, secondo cui si tratterebbe di una mera autocritica di de Martino, dovuta all’”isolamento teorico in cui egli era venuto a trovarsi”34, non sembra reggere del tutto a un’analisi più approfondita. È uno dei meriti della monografia di Sasso avere mostrato, anche sulla scorta di materiale fino ad allora inedito35, che la posizione di de Martino è più complessa e in un certo senso irrisolta. Il testo manoscritto, pubblicato da Sasso e secondo lui “databile fra il 1948 e il 1949” (ivi, p. 280), è di notevole importanza, se si considera che il primo segno di resipiscenza “palinodica”, per così dire, ossia la prefazione al volume di E. Durkheim, H. Hubert e M.

sue forme e nel circolo di esse si unifica”. La storia come pensiero e come azione, XI, L’attività morale, cit., p. 45. 32 Apparso dapprima in: “Nuovi Argomenti”, 37 (marzo-aprile 1959), p. 1-48, poi in: simbolo valore, Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 15-64. 33 E. de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 15. 34 C. Cases, Introduzione a de Martino, cit., p. 156. Su questo punto cruciale mi pare che abbia ragione Sasso quando discorre “piuttosto, di ambiguità”, G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., p. 259, anche se non direi l’interpretazione di Cases sia del tutto “sulla linea del Solmi”, di cui irrigidisce alcuni spunti. 35 G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., Appendice al cap. 8, Storicizzazione delle categorie?, p. 280-82.

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Mauss, Le origini dei poteri magici, apparso nella collana nel 195136, è già prospettata a Pavese nella lettera dell’11 maggio 194937. L’oscillazione di de Martino tra lo “storicismo che si sviluppa da Hegel a Marx ed oltre (e per cui non ha senso parlare di eternità delle categorie) e la versione o riduzione crociana”, per usare le parole di Solmi38, è per così dire all’origine del suo pensiero e, come si vedrà più avanti, appare già nella discussione con Cantoni occasionata dalla pubblicazione quasi contemporanea di Naturalismo e storicismo nell’etnologia e di I primitivi. A questo proposito non si può tacere che le critiche in senso trascendentalistico a de Martino non provennero soltanto da parte idealistica e crociana, ma anche dalla scuola banfiana, com’è dimostrato dalla polemica con Cantoni e dalle pagine di Paci sul Mondo magico, contenute nel saggio sopracitato Mito ed esistenza. Nell’abbozzo di replica a Croce pubblicato da Sasso l’argomento centrale della propria difesa dall’accusa di storicizzazione delle categorie consiste nell’usare appunto la distinzione, che ho ricordato sopra, istituita al principio di La storia come pensiero e come azione, tra “le eterne categorie” e i “i nostri concetti delle categorie che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali”. Scrive infatti de Martino: Non ho teorizzato il cangiamento storico della categoria di realtà, ma ho raccontato la storia, e quindi il cangiamento, di realtà di cui non si era riusciti ancora a raccontare la storia. Che da ciò nasca un incremento della nostra coscienza della categoria di realtà, che tale coscienza ne risulti approfondita e si disvelino nessi prima inosservati, questo mi pare ovvio, ed è in fondo sempre accaduto, in maggiore o minore misura, ogni volta che si produce un reale allargamento dell’orizzonte storiografico. […] L’accusa mossami dal Croce di voler storicizzare le categorie trae origine da una reale oscurità e manchevolezza del Mondo magico, e cioè dalla non eseguita deduzione della nuova categoria di esistenza, e dall’aver contratto in una sua forma storica – il dramma esistenziale magico – la sua produttività categoriale. La religione e la politica vanno studiate come forme storiche di questa stessa categoria39.

L’ammissione di oscurità è importante, ma ancora più il riconoscimento che il libro si muoveva sul sottile crinale della distinzione crociana, intrudendo

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Proprio da questa prefazione prendeva le mosse l’articolo di Renato Solmi, Ernesto de Martino e il problema delle categorie, in: “Il Mulino”, I (1952), p. 315-27, ora in: Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 51-61, per criticarne il ripiegamento verso posizioni crociane. 37 La collana viola. Lettere 1945-1950, cit., p. 132-33. 38 Ernesto De Martino e il problema delle categorie, cit., p. 54. 39 G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., Appendice al cap. 8, Storicizzazione delle categorie?, cit., p. 281.

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però una categoria estranea alla sua filosofia, ovvero l’esistenza. E qui, almeno mi sembra, soccorre ancora il nome di Paci40, anche se il pensiero di de Martino non appare del tutto chiarito. La “nuova categoria” ossia, per usare i termini della discussione fra Croce e Paci, la vitalità sarebbe stata confusa nel Mondo magico con una sua età storica, il dramma esistenziale magico, il quale sembra configurarsi come una forma dell’ethos “del trascendimento della vita nel valore”, per servirci di un’espressione del de Martino successivo. Se la questione appare più intricata di come spesso è stata presentata, nessun dubbio invece può esservi sul fatto che il giovane antropologo e storico delle religioni tuttavia si distaccasse precocemente da Croce in un punto essenziale del suo sistema, la completa risoluzione del mito e della religione nella filosofia. Basta riprendere in mano la Logica, parte terza, capitolo III, Il mitologismo, in cui si trova chiaramente espressa la concezione crociana del mito. Sua caratteristica, decisiva per il filosofo, è la presenza di “un’affermazione o giudizio logico” che compenetrano “la rappresentazione, acquistando pretesa di verità: pretesa logicamente infondata”41. Croce non vede differenze sostanziali fra il mito e la religione: si tratta di due formazioni spirituali identiche, appunto perché ambedue si fondano sopra “l’affermazione dell’universale come mera rappresentazione” (ivi, p. 285). Di qui la conclusione che, stante l’identità fra mito e religione, questa “non si distingue dalla filosofia per nessun carattere positivo ma solo come una filosofia fallace si distingue dalla vera”, onde “si deve affermare che la religione, in quanto verità, è identica alla filosofia”42. In una parola, la religione 40

Si pensi, per esempio, ai saggi raccolti in Esistenza, pensiero e valore, cit. Sintomatica un’affermazione del genere: “Le forme dello spirito considerate dal Croce e dal Gentile o come distinti o come momenti dialettici, non vengono dedotte dogmaticamente, ma vengono spiegate per mezzo del punto di vista dei valori”. Valori ed opere, p. 169. Il libro compare nell’elenco di opere di Paci contenuto nel Quaderno di Torre a mare, in: E. de Martino, Scritti filosofici, c/ di R. Pàstina, Bologna, il Mulino, 2005, p. 46. 41 B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, cit., p. 283. Cf. anche G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., Appendice al cap. 8, Storicizzazione delle categorie?, p. 282-83. 42 Ivi, p. 286. Non meraviglia affatto che nella stessa pagina Croce non perdesse l’occasione per accusare “il cosiddetto modernismo” di inconseguenza nel vano tentativo “di serbare una religione, ossia una verità mitologica, accanto a una storia delle religioni, che si vorrebbe poi condurre con piena libertà mentale e con metodo affatto critico”, richiamandosi a un articolo di Gentile apparso in: “La Critica”, VI, 1908, Il modernismo e l’Enciclica, p. 208-29. Gentile, un anno più tardi, in polemica con Martinetti, avrebbe sostenuto hegelianamente, che è impossibile “filosofare in qualunque modo intorno alla religione, senza assorbirla nella filosofia”, cf. G. Gentile, Il regno dello spirito, in: “La Cultura”, XXVIII, 4 (15 febbraio 1909), p. 98-103. Entrambi gli articoli furono poi raccolti nel volume Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia. Saggi, Bari, Laterza, 1909. Sul modernismo, com’è noto, Croce non mutò parere. Basti pensare al saggio L’ultimo Fogazzaro, ripresa di

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non possiede alcuna autonomia43 nel sistema crociano, non vi trova posto se non per essere superata nella filosofia. Da questa angusta visione de Martino si liberò assai presto attraverso varie letture, soprattutto della scuola sociologica francese, in primis LévyBruhl naturalmente. Ma qui va fatto anche il nome di un filosofo, certo non particolarmente stimato da Croce44: Ernst Cassirer. Nell’elaborazione del vecchi giudizii, in: “La Critica”, XXXIII, 1 (1935), p. 161-71, poi in: Letteratura della nuova Italia, VI, Bari, Laterza, 1940, p. 235-48, al principio del quale si legge a distanza di tanti anni un giudizio sul movimento modernista, formulato in termini non dissimili: “Perché che cosa sia la Chiesa cattolica è ben noto: una potenza politica, fondata sopra un gruppo di credenze di carattere mitologico, in parte di assai primitiva mitologia, e che, come istituzione e potenza politica e annodamento di molteplici interessi, tende a persistere nell'esser suo e a conservarsi. Chiunque pretenda di conservarla bensì, ma insieme di dissolvere o di rielaborare quelle credenze introducendovi la ragione e lo spirito critico, e di cangiare in conformità la pratica stessa della Chiesa, toglie su di sé un’impresa disperatamente contradittoria”, p. 162-63. E ancora, in uno scritto di appena due precedenti la scomparsa, Osservazioni intorno alla dottrina delle categorie, in: “Quaderni della Critica”, VI, 17-18 (1950), p. 15-21, poi in: Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari, Laterza, 1952, p. 123-32, Croce ribadisce che le religioni sono sempre “mitologia”. 43 Cf. G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., cap. I, Gli esordi. Questioni preliminari, p.10; cap. 2, Fra De Martino e Macchioro. Per un confronto, p. 53s., 64. 44 Basti ricordare al riguardo la nota occasionata dalla memoria di Cassirer, Zur Logik der Kulturwissenschaften. Fünf Studien (“Göteborgs Högskolas Årsskrift”, XLVIII, 1, Göteborg, Wettersgren & Kerber, 1942, p. 1-139. Il libro è stato tradotto in italiano molto tardi, Sulla logica delle scienze della cultura: cinque studi, c/ di M. Maggi, Firenze, La Nuova Italia, 1979), nella quale Croce, pur apprezzando lo storico della filosofia, dava un giudizio sostanzialmente limitativo sul filosofo e specialmente sull’autore della Filosofia delle forme simboliche: “Chiara è l’affinità dell’opera del Cassirer con quella del Rickert e per essa del Windelband (non senza il concorrente influsso dell’arida e matematizzante scuola di Marburg, e in ispecie del Cohen) […]. Per il Cassirer, come per costoro, compreso il più fine Windelband, non c’è una logica della filosofia, e la logica del conoscere è sempre unicamente la logica astratta e intellettualistica, quella stessa della matematica e delle scienze matematiche della natura. Non fa maraviglia che egli concepisca naturalisticamente anche la filosofia delle «forme», come le chiama, ‘simboliche’”, in: “La Critica”, XLI, 1 (1943), p. 93-95, col titolo Filosofia tedesca contemporanea, poi in: Discorsi di varia filosofia, vol. II, XXIII. Note di storia della filosofia, VI, Filosofia tedesca contemporanea, Bari, Laterza, 19592, p. 251-56, cf. p. 252-53. Alcuni anni prima Croce non aveva partecipato alla miscellanea per i sessant’anni di Cassirer, Philosophy and History: Essays presented to Ernst Cassirer, edited by R. Klibansky and H.J Paton, Oxford, Clarendon Press, 1936, ma per evitare “che il suo nome apparisse accanto a quello di Gentile”, G. Sasso, Dalla biografia giovanile di Guido Calogero. La vicenda degli “Studi crociani”, in: “La Cultura”, n.s., XXXVI, 1 (1998), p. 5-41, cf. p. 29. L’episodio – continua Sasso – “richiederebbe di essere ricostruito a parte, a partire dalle lettere dei vari personaggi interessati all’impresa, conservate nell’Archivio Calogero”. Il giovane filosofo, che si era recato a Heidelberg nell’anno accademico 1927-1928, per seguire i corsi di Klibansky, Jaspers e Rickert, collaborò alla miscellanea, della quale era probabilmente il referente italiano, con l’articolo On the so-called identity of history and philosophy, p. 35-52.

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concetto di mito, che sarà uno dei motivi di maggior dissenso con Pavese, nel definire la rappresentazione mitica dello spazio45 e la cosiddetta legge di partecipazione di Lévy-Bruhl, il secondo volume della Filosofia delle forme simboliche, Das mythische Denken (1925), riveste un’importanza fondamentale, fin dagli anni della stesura di Naturalismo e storicismo nell’etnologia. Se appena consegnato il libro per la stampa, de Martino “in una lettera a Pettazzoni, non datata ma presumibilmente del settembre 1940”46, proponeva addirittura “un articolo espositivo e critico del secondo volume della Philosophie der symbolischen Formen del Cassirer, che come sapete, apre nuove vie alla filosofia della mitologia e della storia delle religioni” (ivi), se ne può arguire che l’opera restava ancora al centro dei suoi interessi, benché, come è già stato osservato, il nome di Cassirer nel Mondo magico occorresse soltanto tre volte47. A tale scarsità di rimandi non corrisponde tuttavia un interesse scemato per il filosofo, anzi è vero il contrario. Non direi infatti che si possa del tutto condividere il giudizio di Ginzburg, secondo cui de Martino si sarebbe comportato “come il leone della favola, cancellando con la coda le tracce del proprio cammino” (ivi). Almeno fino al Mondo magico

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Nel primo saggio di Naturalismo e storicismo nell’etnologia, “Introduzione” di S. De Matteis, Lecce, Argo, 1997, p. 63-116, dedicato al prelogismo di Lévy-Bruhl, l’opera di Cassirer è utilizzata ampiamente sul piano delle informazioni: su Tylor e Lévy-Bruhl, sulla causalità mitica, sulla legge di partecipazione, sul mana e sullo spazio mitico, cf. rispettivamente E. Cassirer, Il pensiero mitico, Firenze, La Nuova Italia, 1964, p. 54, 69, 84, 95, 110-12, 154-55. Riguardo all’ultimo punto si consideri la nota 20: “Il Cassirer , che si è occupato a sua volta del problema della rappresentazione dello spazio nel mito, afferma che lo spazio mitico è, sì, qualitativamente differenziato […] ma compie tuttavia una funzione ordinatrice e semplificatrice della molteplicità empirica” p. 108. 46 Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., Nota introduttiva. Magia, natura, storia, di S. De Matteis, p. 254. 47 G. Galasso, Dal Mondo magico a La fine del mondo, in Ernesto de Martino e la cultura europea, c/ di C. Gallini, M. Massenzio, Napoli, Liguori, 1997, p. 321-35, cf. p. 335. La prima citazione è fortemente critica e accomuna il filosofo a Lévy-Bruhl e a Klages e altri “irrazionalisti moderni” che astraggono “il rischio di non esserci […] dalla concreta relazione con l’altro momento, il riscatto di questo rischio”, E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 96. Lo stesso dicasi della seconda, relativa all’interpretazione della magia imitativa: “Ernesto Cassirer ha cercato di dedurre la imitazione magica dai caratteri fondamentali del mito come forma del pensiero dotata di una sua propria legalità plasmatrice [...]. [Segue una citazione da Das mythische Denken, cit., p. 87] D’altra parte quando si riconduce la magia imitativa [...] alla (pretesa) forma del pensiero mitico, l’imitazione resta per così dire prigioniera della forma che di quel pensiero si afferma caratteristica: si configura cioè come mera coinonia affettiva del soggetto e dell’oggetto, [...] senza che sia giustificata come azione diretta a un fine”, ivi, p. 135-36. La terza è una mera citazione consensuale, tolta dal primo volume della Philosophie der symbolischen Formen, p. 39, anche se importante, perché relativa all’unità trascendentale dell’autocoscienza. Cf. C. Ginzburg, Momigliano e de Martino, cit., p. 410.

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Cassirer è un punto di riferimento, anche se non sempre riconosciuto apertamente. Sulla base di vari dati si può collocare in modo ormai certo la lettura delle sue opere tra la fine degli anni trenta e il principio degli anni quaranta. Il primo ad accennare al rapporto col filosofo neokantiano, anche se in termini non del tutto chiari, fu Galasso nel suo lungo e nell’insieme accurato studio degli anni sessanta. Fra le lettere di Croce a de Martino aveva notato infatti che “il nome di Cassirer ricorre in una cartolina al de Martino del 2 novembre 1940, con la quale il Croce si congratula con lui per Naturalismo e storicismo”48. E sulla scorta di un’esplorazione archivistica nel fondo di Adolfo Omodeo affermava che lo storico, con cui de Martino si era laureato nel 1932, alla fine del 1940 gli aveva inviato “volumi del Dilthey e del Cassirer” (ivi, n. 54, p. 326), senza però precisare quali. Un’ulteriore conferma venne, parecchi anni più tardi, da Carlo Ginzburg, che in un suo acuto articolo citava due lettere di de Martino a Raffaele Pettazzoni, una del 19 gennaio 1939, nella quale “aveva dichiarato di voler utilizzare il secondo volume della Filosofia delle forme simboliche”49, l’altra “(non datata, ma certamente di poco anteriore al 7 aprile 1941)” (ivi, p. 403), nella quale si legge: “ Sono anche in corrispondenza con Cassirer” (ivi, p. 404). Dalla sola lettera a Banfi che si sia conservata, del 12 febbraio 1941, pubblicata dallo stesso Ginzburg, si apprende poi, fra le molte cose interessanti, che de Martino aveva iniziato l’opera destinata a diventare Il mondo magico (“Attualmente lavoro intorno a una ‘Storia del Magismo’”) (ivi, p. 406), e che aveva condotto ampie letture del filosofo neokantiano: Nella mia lettura del Cassirer mi è rimasta fin’ora inaccessibile la sola opera Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, 3 voll. (e anche Zur Einsteinschen Relavitätstheorie, 1921). Ero anche disposto ad acquistarla o a farla acquistare a qualche biblioteca della mia città, ma dalla Germania mi si è risposto che è ‘fuori commercio’. Il Cassirer sarebbe disposto a vendermi una copia dell’opera al prezzo di 50 corone svedesi, ma pare molto difficile trovare in questo momento un libraio di Göteborg che si assuma il rischio dell’operazione. Prima comunque di battere questa via desidererei sapere se nella biblioteca universitaria c’è l’opera in questione, e se è possibile trovarla in antiquariato (ivi).

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Ernesto De Martino, cit., n. 11, p. 322. C. Ginzburg, Momigliano e de Martino, in: “Rivista Storica Italiana”, C, 2 (1988), p. 400-13, cf. p. 407. La lettera è parzialmente edita a p. 402. Preziosa è l’indicazione del “capitolo secondo della parte seconda” (Lineamenti fondamentali di una morfologia del mito: spazio, tempo e numero), ritenuto da de Martino importante per approfondire “lo studio […] dell’energia numinosa presso i popoli primitivi”. 49

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Infine, dalla lettera ad Omodeo50 del 20 ottobre 1940, edita integralmente qualche anno dopo da Girolamo Imbruglia51 (ma con ogni probabilità la data è errata, come dimostra la lettera del filosofo tedesco da Göteborg, del 12 ottobre 1940, pubblicata per la prima volta nel 1989)52, si ricava che il giovane studioso aveva richiesto a Cassirer il I e il III volume della Philosophie der symbolischen Formen (il secondo lo aveva con sé in quel momento), manifestando anche l’interesse ad entrare in rapporti epistolari con lui. La lettera53, con cui il filosofo ringraziava de Martino di avergli inviato una copia di Naturalismo e storicismo nell’etnologia, fa da perfetto pendant con quella a Banfi sopracitata. Was meine Bücher betrifft, so bedaure ich sehr, Ihnen keinen Weg zeigen zu können, auf dem Sie sich sie verschaffen könnten. Sie stehen, gleich zu vielen anderen, auf dem Index – und ich selbst, der immer wieder nach ihnen gefragt wird, habe kein Mittel, sie mir zu verschaffen. Nur zwei Wege gäbe es, die vielleicht Aussicht auf Erfolg hätten: der über ein deutsches philosophisches Antiquariat, von dem ich insbesondere – die Firma Alfred Lorentz, Leipzig, Kronprinzstrasse 10 – empfehle. Sie könnten vielleicht antiquarisch die von Ihnen

50 Omodeo, sebbene ne fosse il dedicatario, recensì favorevolmente Naturalismo e storicismo nell’etnologia, apprezzando in modo particolare il saggio su Lévy-Bruhl, in: “La Critica”, XXXIX, 1 (1941), p. 104-107, ora in: Il senso della storia, c/ di L. Russo, Torino, Einaudi, 1955, p. 107-12. Cf. G. Galasso, “La funzione storica del magismo”: problemi e orizzonti del primo De Martino, cit., p. 503-6. 51 G. Imbruglia, Mondo, persona e storia in E. de Martino tra Croce e Cassirer, in: “Archivio di Storia della Cultura”, III (1990), p. 339-61, cf. p. 345-46. Si veda anche il giudizio, che mi pare condivisibile, sulle ragioni dell’interesse di de Martino per Cassirer: “Nel 1938 de Martino aveva fatto riferimento a Il pensiero mitico di Cassirer soprattutto a proposito della categoria del tempo, che era però la traccia per accogliere l’idea di un’unica grande struttura emotiva e mentale definibile come mitico-religiosa”, p. 352. La lettera, che aveva fornito a Galasso le informazioni di cui aveva dato conto in modo così impreciso (cf. n. 48), è stata in seguito ripubblicata in: Dal laboratorio del “Mondo magico”. Carteggi 1940-1943, c/ di P. Angelini, Lecce, Argo, 2007, p. 48-50. I volumi di Dilthey richiesti sono Einleitung in die Geisteswissenschaften. Versuch einer Grundlegung für das Studium der Gesellschaft und der Geschichte, c/ di B. Groethuysen, (vol. I delle Gesammelte Schriften, Leipzig-Berlin, Teubner, 1914); Die geistige Welt. Einleitung in die Philosophie des Lebens. Erste Hälfte: Abhandlungen zur Grundlegung der Geisteswissenschaften, c/ di G. Misch (vol. V, ivi, 1924); Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, c/ di B. Groethuysen (vol. VII, ivi, 1927); Weltanschaungslehre. Abhandlungen zur Philosophie der Philosophie, c/ di B. Groethuysen, (vol. VIII, ivi, 1931), come annota il curatore il quale avverte che la data della lettera potrebbe non essere esatta. 52 Dall’Epistolario di Ernesto de Martino, c/ di P. Angelini, in: “Quaderni del dipartimento di scienze sociali Istituto universitario orientale di Napoli”, 3-4 (1989), p. 163216, cf. p. 204-5. 53 Dal laboratorio del “Mondo magico”. Carteggi 1940-1943, cit., p. 45-7.

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gewünschten Schriften noch besorgen. Was die “Studien der Bibliothek Warburg” betrifft, so müssten Sie sich wohl zum mindesten in mehreren italienischen Bibliotheken (vor allem in Florenz und Rom) finden [...]. Von meinen “Erkenntnisproblemen” könnte ich Ihnen noch ein Exemplar zum Preis von 50 (schwedischen) Kronen; vom “Substanzbegriff”, 1 Exemplar für 15 schw. Kr. von hier aus verschaffen. Doch weiss ich nicht, ob die Übersendung des Betrages von Italien aus gegenwärtig möglich ist.54

Che l’incontro con Cassirer, un autore che, sia detto tra parentesi, aveva cominciato ad essere tradotto in Italia all’inizio degli anni trenta55, sia legato soprattutto al decennio 1940-50 e sia circoscritto soltanto a determinate opere56, fra cui spiccano naturalmente Das mythische Denken57 e in genere la Filosofia delle forme simboliche, è molto plausibile. Ora, è indubbio che, come scrive Sasso58, l’utilizzazione critica da parte di de Martino si spiegasse non solo con la ricca, per quanto datata, documentazione bibliografica

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Ivi, p. 45-46. I corsivi sono nel testo; ho corretto qualche refuso. R. Lazzari, Cinquant’anni di studi su Cassirer, in: Ernst Cassirer cinquant’anni dopo, numero monografico della “Rivista di storia della filosofia”, L (1995), p. 889-921. Per la fortuna di Cassirer in Italia, cf. la rassegna curata da B. Centi, Die Cassirer Forschung in Italien, in: Symbolische Formen, mögliche Welten - Ernst Cassirer, hrsg. v. E. Rudolph und H.J. Sandkühler, in: “Dialektik”, I (1995), p. 145-54. 56 Certo, si deve aggiungere il caso del Mythe of the State, di cui de Martino suggeriva la traduzione nella lettera del 9 ottobre 1948, scrivendo a Pavese: “è una esplorazione documentata dei rapporti fra la mentalità magica primitiva e alcuni tratti caratteristici del nazismo tedesco. […] Purtroppo il libro si presta a una interpretazione nettamente reazionaria, e cioè a una polemica contro il mostro del giorno, cioè il comunismo”. C. Pavese, E. de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, cit., p. 107. Il libro, com’è noto, uscì invece nel 1950 da Longanesi nella non bella traduzione di Camillo Pellizzi. Ben più articolata era la lettura di Renato Solmi nella sua acuta recensione apparsa in: “Il pensiero critico”, II, 1 (1951), p. 163-74, Ernst Cassirer e il mito dello Stato, ora in: Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, cit., p. 41-50. 57 Pavese avrebbe voluto pubblicare nella collezione Das Mythische Denken, se non si fosse frapposto il veto della vedova del filosofo, cf. la lettera di Pavese a de Martino del 14 ottobre 1949: “Succede che la vedova Cassirer non vuole saperne di venderci il II Vol. solo”, C. Pavese, E. de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, cit., p. 154. Dalla lettera di de Martino del 16 giugno 1945 risulta che egli in un primo tempo aveva assunto l’impegno di tradurre il volume per Einaudi, ivi, p. 63. Lo avrebbe dovuto consegnare nel maggio 1946, cf. la lettera di Pavese del 30 giugno 1945, ivi, p. 65, ma dopo reiterate promesse di terminare il lavoro nel 1947, cf. la lettera del I marzo 1947, ivi, p. 91, poi entro il 1948, cf. la lettera del 18 febbraio 1948, ivi, p. 101, non se ne fece nulla. Lo scritto di Cassirer, il testo ampliato di una conferenza tenuta presso la Società di Scienze delle Religioni ad Amburgo nel luglio 1921, è stato tradotto in italiano molto tardi, cf. La forma del concetto nel pensiero mitico, in: Mito e concetto, c/ di R. Lazzari, Firenze, La Nuova Italia, 1992. 58 G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., cap. VI, Fra Lévy-Bruhl e Cassirer. Verso la crisi della “presenza”, p. 187-203, specialmente le p. 196-201. 55

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offerta dal libro di Cassirer, cui si è già accennato, ma soprattutto con il quadro delineato nell’introduzione relativo al rapporto fra mito e concetto59. In altre parole, de Martino poteva trovare in quell’opera gli strumenti concettuali per quell’“allargamento storiografico” del crocianesimo auspicato fin da Naturalismo e storicismo nell’etnologia, che di fatto si configurava però come un’eversione della filosofia dello spirito, almeno per ciò che attiene alla quadripartizione delle forme dello spirito. Se è probabile che il problema dell’unità dell’anima nel mito, analizzato dal filosofo tedesco verso la fine del volume, dovesse richiamare in particolar modo l’attenzione di de Martino60, oserei affermare che vi erano altre ragioni d’interesse e al tempo stesso di dissenso. Quest’ultime mi paiono in estrema sintesi racchiudersi in un termine, che certo andrebbe ulteriormente chiarito, cioè il neokantismo, estraneo al pensiero del giovane antropologo che poteva sì carteggiare col remoto Banfi e con i suoi allievi più interessati alle tematiche affini, più sensibili alle suggestioni del cosiddetto irrazionalismo germanico61, ma non accettare l’impianto categoriale del filosofo milanese ed in genere della sua scuola.

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Un accenno alla Philosophie der symbolischen Formen intesa come una filosofia della cultura avvicinabile ai Principii di una teoria della ragione di Banfi si trova nel IV paragrafo del saggio Neokantismo ed esistenzialismo di Paci, in: Il nulla e il problema dell’uomo, cit., p. 100. 60 G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., p. 200-201. Un accenno, degno di essere approfondito, sull’influenza del Cassirer di Il pensiero mitico si trova nel profilo di A. Binazzi, Ernesto de Martino, Ritratti di critici contemporanei, in: “Belfagor”, XXIV, 6 (1969), p. 678-93, cf. p. 681, n. 4. 61 Nell’articolo Situazione della filosofia contemporanea, per così dire proemiale di “Studi filosofici”, I, 1 (1940), p. 5-25, la posizione di Banfi risulta ancora aperta, sia pure criticamente, verso le più varie correnti “irrazionalistiche”, cf. p. 11: “Invero l’irrazionalismo si appella non alla ragione, ma all’intuizione; tuttavia, là dove vuol valere non come riaffermata ricchezza d’esperienza, ma come verità metafisica, sostituisce a un dogmatismo un altro […]. Perciò l’irrazionalismo contemporaneo, da Nietzsche a Bergson, da Simmel a Klages ha una dialettica interiore che si risolve solo quando l’irrazionalismo è concepito in rapporto a un rinnovamento della struttura del razionale. Allora tutta la sua ricchezza di apporti […] può esser valutata non come negazione, ma come arricchimento del sapere filosofico”. Su Banfi e de Martino si veda anche la testimonianza di Arnaldo Momigliano, Per la storia delle religioni nell’Italia contemporanea: Antonio Banfi ed Ernesto de Martino tra persona ed apocalissi, in: “Rivista Storica Italiana”, XCIX, fasc. II (1987), p. 435-56. Se la ricostruzione dell’ambiente culturale nell’Italia degli anni trenta, da “La Cultura” a “Religio”, a “Studi e Materiali di Storia delle religioni”, la rivista fondata da Raffaele Pettazzoni, è preziosa, l’accostamento a Banfi, di cui si menziona un saggio sulla Persona, che de Martino non poteva conoscere perché pubblicato postumo soltanto nel 1980, non riesce del tutto persuasiva.

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Come tutti sanno, nel 1941 l’uscita di I primitivi di Cantoni62 nella collana “I filosofi”63 diretta da Banfi seguì di pochi mesi quella di Naturalismo e storicismo nell’etnologia, talché è ormai un luogo comune dire che i due libri, diversissimi nella struttura e negli scopi, segnarono una svolta nella cultura italiana fino ad allora poco interessata a siffatte ricerche, a parte qualche eccezione. Ora, è indubbio che l’opera di Cantoni, soprattutto nella prima versione che rielabora la tesi di laurea del 1938, molto dovesse al secondo volume della Filosofia delle forme simboliche di Cassirer e alle opere di Lévy-Bruhl, due autori che erano non meno presenti alla riflessione di de Martino anche se in un’altra prospettiva. Molto significante al riguardo è la 62

Questo è il titolo di copertina, nel frontespizio invece appare Il pensiero dei primitivi, c/ di R. Cantoni. Dalla 2ª ediz., riveduta e ampliata, reca il titolo di Il pensiero dei primitivi. Preludio a un’antropologia, Milano, Il Saggiatore, 1963. Non è questa la sede per un confronto approfondito fra le due edizioni. Mi limiterò a qualche sondaggio minimo sulla scorta della terza edizione (1968). Innanzitutto, oltre al considerevole aggiornamento bibliografico, sono aggiunti tre capitoli e scompare l’ultimo dell’edizione del 1941 (Il pensiero dei primitivi e le forme della vita spirituale), rifuso nel capitolo precedente, Il pensiero primitivo e l’unità dello spirito, lievemente modificato anche nel titolo con l’aggiunta dell’aggettivo umano. In generale è attenuata l’influenza di Lévy-Bruhl, di cui utilizzano anche i Carnets, usciti postumi nel 1949, e di Cassirer, rilevabile fin dal titolo dei capitoli (La spiegazione causale, Il problema del caso, Lo spazio concreto e vissuto, Il sentimento del tempo, titolo quest’ultimo anche ungarettiano, com’è ovvio, ecc.) e più esplicito è il dialogo con il primo libro di de Martino, citato in extremis nella 1ª ediz. Ma la tesi fondamentale dell’opera non è sottoposta a un’effettiva revisione. Un solo esempio. Nell’introduzione è inserito un ampio excursus su Freud e soprattutto Jung (19683, p. 16-19), del quale si accoglie con varie cautele la nozione di inconscio collettivo (“è vero a condizione di non valere come argomento antistoricistico”, p. 17), ma rimane inalterato il “quadro di questo mondo magico, mistico o mitico, che presenta una sua reale unità e coerenza. A questo quadro giunge lo studioso che nelle sue indagini sul pensiero primitivo ha adottato un metodo di riduzione fenomenologica per così dire, che consiste nel fare volutamente astrazione da tutto ciò che spontaneamente e irresistibilmente la nostra cultura di occidentali impregnata di cognizioni scientifiche, di presupposti religiosi e morali, inconsciamente projetta nell’interpretazione dello spirito primitivo. Solo abbandonando questa che è la china naturale del nostro pensiero (la sua naturale Einstellung, direbbe la fenomenologia tedesca!), noi possiamo sperare di cogliere i dati costitutivi della coscienza primitiva” (19411, p. 7-8; 19683, p. 21). Significativamente cade un lungo riferimento alle ricerche “che la scuola antropologica inglese di Frazer e di Tylor prima e la scuola sociologica francese di Durkheim, Mauss e Lévy-Bruhl dopo” (19411, p. 7). 63 La collana era costituita da antologie del pensiero di un filosofo, precedute da un’ampia introduzione. Il volume di Cantoni deroga alla formula, adducendo questa giustificazione: “Un’antologia del pensiero dei primitivi non può essere che una silloge di testimonianze raccolte e interpretate dagli studiosi di questo pensiero. Ho ritenuto più conveniente inserire direttamente nel testo il materiale raccolto per evitare, data la natura particolare dell’argomento, il duplice inconveniente di una descrizione che apparisse generica […] e di un’antologia che, non soccorsa di continuo dall’illuminazione critica, risultasse disorientante per il lettore. Mi sono proposto infatti di orientare il lettore, nuovo a questi studi, sul problema della mentalità primitiva”, Avvertenza, p. 1 (corsivi nel testo).

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lettera di Cantoni a de Martino del 28 gennaio 194164, quando il suo libro era sous presse o quasi, probabilmente sollecitata da un’altra di de Martino a Banfi, andata perduta. Il giovane allievo del filosofo milanese, fra le sue indicazioni bibliografiche, si soffermava a lungo su Klages, autore da lui tradotto65 e già oggetto di uno studio di Banfi, Ludwig Klages66. Cantoni, poi, si associava nell’apprezzare il Cassirer della Filosofia delle forme simboliche, di cui laudativamente aveva appena compendiato in un saggio, che stava per uscire in “Studi filosofici”, la tesi fondamentale, secondo cui le categorie del pensiero mitico “sottintendono e preannunciano, seppure allo stato embrionale e latente, le categorie teoretiche e l’ordine ch’esse recano nell’esperienza”67, e definiva Croce senza mezzi termini “il pensatore più

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Nella lettera a Banfi del 17 febbraio 1941 Cantoni, annunciando l’imminente pubblicazione del suo libro sui primitivi, lo informava del rapporto epistolare con de Martino: “Mi ha scritto molto simpaticamente e intelligentemente quel de Martino a cui avevo dato le informazioni che chiedeva. Per una curiosa combinazione si occupa esattamente delle stesse cose di cui mi occupo io e mi interessa molto sapere dove andrà a finire nei suoi studi sulla civiltà magica. Mi scrive tra l’altro: ‘Un profondo rinnovamento della filosofia dello spirito è ormai necessario se non si vuole correre il rischio di rinchiudersi in una sorta di arcadia speculativa in cui tutto è semplice e concluso’, il che è perlomeno singolare dato che segue alla pubblicazione di un libro senz’altro interessante, ma di evidente ispirazione crociana“. Cit. in: C. Montaleone, Cultura a Milano nel dopoguerra. Filosofia e engagement in Remo Cantoni, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 225. 65 L. Klages, L’anima e lo spirito, Milano, Bompiani, 1940, volume recensito da Ottavia Abate in: “Studi filosofici”, II, 1, 1941, p. 105-107. Cantoni aveva già pubblicato un articolo, Ludwig Klages, ovvero lo spirito contro l’anima, in: “Corrente di vita giovanile”, II, 9 (1939), p. 2-6. 66 A. Banfi, Ludwig Klages, in: “Studi germanici”, II, 4 (1937), p. 547-81, ristampato poi col titolo Ludwig Klages e l’irrazionalismo in: Filosofi contemporanei, c/ di R. Cantoni, Firenze, Parenti, 1961, p. 213-53, saggio non privo di simpatia verso la psicologia dell’autore tedesco, da leggersi insieme con l’altro, uscito lo stesso anno, Avvicinamento a George, in: “Il Convegno”, XVIII, 9-10 (1937), p. 357-80, poi in: Scritti letterari, c/ di C. Cordiè, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 215-37. Sul numero si veda il breve cenno di Croce in: “La Critica”, XXXVI, 3 (1938), p. 294-95, poi in: Nuove pagine sparse, II, Metodologia storiografica. Osservazioni su libri nuovi – Varietà, Napoli, Ricciardi, 1949, p. 115-17. 67 R. Cantoni, Mito e scepsi, in: “Studi filosofici”, II, 1 (1941), p. 1-34, cf. p. 19, poi rielaborato e raccolto col titolo Scepsi e mito, in: Mito e storia, Milano, Mondadori, 1953, p. 326-96. Cassirer è menzionato in nota, per Das mythische Denken, anche in Il pensiero mitico e il paradosso della vita razionale, ivi, VII, 3-4 (1946), p. 192-204, cf. p. 195, una delle relazioni tenute alla Casa della Cultura di Milano, il 18, 20 e 21 giugno 1946. Nello stesso saggio Cantoni ribadisce l’importanza di Lévy-Bruhl, cf. p. 197, e delinea la sua concezione del mito, in sostanza già elaborata in I primitivi: “Non è possibile […] bandire il mito dalla nostra vita spirituale, esso è una forza perenne […] al punto che la stessa storia della civiltà e del pensiero si può configurare in duplice modo, come una storia della critica razionale che intende espellere ogni intrusione mitica e, da un punto di vista più alto, come una fenomenologia del mito”, p. 197.

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vivo nella cultura italiana d’oggi”68. Lo scambio epistolare avviene negli ultimi anni del fascismo, momento cruciale per la storia d’Italia, ma importante anche per la biografia dei due corrispondenti, entrambi alla vigilia della pubblicazione della loro opera prima. Di lì a poco, infatti, s’intreccerà un dialogo fra i due giovani studiosi, non privo di incomprensioni, ma essenziale per capire lo svolgimento posteriore, soprattutto del pensiero di de Martino. Quest’ultimo appare meno aggiornato riguardo alla letteratura sull’argomento, ma più determinato nelle scelte filosofiche, anche quando sono più discutibili. Comune ad ambedue era l’abito mentale più filosofico che storico o antropologico, ma profondamente diverso era il modo di porsi oltre Croce. La cosa risulta evidente appena si consideri, anche rapidamente, le recensioni che i due si scambiarono a stretto giro di posta, recensioni, almeno le più significative, apparse nella stessa sede, la rivista di Banfi. Naturalismo e storicismo nell’etnologia è tempestivamente segnalato fra i libri ricevuti in: “Studi filosofici”, I, 4 (1940), p. 450. Poco dopo Cantoni recensirà il libro (ivi, II, 4 (1941), p. 44447), aprendo la discussione. Egli aveva buon gioco a criticare l’assunto baldanzoso ma provinciale di intraprendere “la radicale riforma del sapere etnologico” alla luce della metodologia crociana, pur fra lodi generiche per le buone intenzioni di promuovere “mercé l’etnologia un allargamento della nostra autocoscienza storica”69. Ma dopo questo esordio in apparenza benevolo, la recensione prendeva un’altra piega. Cantoni non poteva condividere né le accuse di scarso vigore speculativo rivolte alla scuola sociologica francese né la svalutazione complessiva degli studi di Lévy-Bruhl, da de Martino considerato per giunta reo di un “malsano amore per il primitivo”, in omag-

68 Dal laboratorio del “Mondo magico”. Carteggi 1940-1943, cit., p. 78. Di Croce qualche mese più tardi avrebbe recensito con favore Il carattere della filosofia moderna, in: “Studi filosofici”, II, 3 (1941), p. 436-40. Che tale giudizio sia così singolare nell’ambiente filosofico milanese, come ritiene Sasso (Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., p. 168-69), a me non sembra del tutto vero. Lo stesso Sasso si vede costretto a ricordare il caso di Paci, ancora più notevole. In realtà nella scuola di Banfi convissero posizioni alquanto diverse e orientamenti culturali eterogenei, se non eclettici, certo non riconducibili sempre al maestro. Cantoni nell’immediato dopoguerra avrebbe mutato parere nei riguardi di Croce, cf. la recensione ai Discorsi di varia filosofia, in: “Studi filosofici”, VII, 1 (1946) p. 64-65, fin dall’esordio: “La posizione di Benedetto Croce nella cultura italiana è quella di un dittatore il cui potere vacilla”, con la relativa accusa di essere “rimasto teologo pur avendo combattuto la teologia” (cf. p. 67), motivi tutti ampiamente svolti nel più noto articolo La dittatura dell’idealismo, in: “Il Politecnico” , III, 37 (1947), p. 3-6; ivi, 38, p. 10-13, che presenta singolari convergenze con un saggio del più anticrociano degli allievi di Banfi, Giulio Preti, Lo spiritualismo cattolico, in: “Studi filosofici”, VII, 1 (1946), p. 47-64. 69 Tutti i documenti sono ripubblicati in appendice a Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., 4. Il dibattito De Martino-Cantoni, p. 305-37, da cui cito, cf. p. 306.

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gio al peggior Croce. Ma è proprio l’atteggiamento verso il filosofo napoletano a rivelare una convergenza a prima vista insospettata. Cantoni giudica esattissima la critica a “quel molto grave errore speculativo che è lo storicizzare le categorie ideali”, come scrive citando de Martino, che così commenta: “Le categorie ideali o le forme della vita spirituale […] non nascono nel tempo come gli oggetti della natura” (ivi, p. 307). Come si vede, involontariamente Cantoni precorreva il punctum dolens che avrebbe dato l’esca alla polemica tra de Martino e Croce dopo la pubblicazione del Mondo magico. La “cortesia” sarà ricambiata da de Martino con la breve recensione a Il pensiero dei primitivi su un periodico specializzato70, cui seguirà quella ben più impegnativa sulla stessa rivista di Banfi71. Comune alle due recensioni

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“Studi e Materiali di Storia delle religioni”, XVIII, 1-4 (1942) p. 103-105. “Studi filosofici”, III, 4 (1942), p. 350-55, cf. anche la lunga replica di Cantoni, ivi, p. 356-61, ora in: Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., 4. Il dibattito De MartinoCantoni, p. 322-33. Il nocciolo della sua risposta consiste nel ribadire la tesi di fondo dei Primitivi: “Il pensiero primitivo è […] un capitolo del pensiero mitico, e il mito penetra in varia guisa tutte le culture” p. 330, in altre parole esso ha “un carattere categoriale oltre che meramente storico” p. 333. È interessante notare che alla fine della recensione si accennava ai progetti futuri dei due studiosi, a una Storia del magismo, che de Martino scriverà, e a una Fenomenologia del mito che invece Cantoni non compirà, cf. anche la lettera di de Martino del 20 luglio 1945 alla Einaudi, da cui si ricava che aveva proposto a Cantoni di pubblicare nella collana viola la fenomenologia del mito “che sta preparando”, La collana viola, cit, p. 69. Nel fascicolo de Martino dell’Archivio Einaudi, Corrispondenza con autori italiani e stranieri, cart. 66, fasc. 970, si conserva la copia di una lettera ds. di de Martino a Cantoni, da Roma, I novembre 1945: “Caro Cantoni, ti ho scritto più volte ma sin ora non ho ricevuto risposta. Nella speranza che questa mia abbia maggiore fortuna, mi permetto di ricordarti che, in passato, prendesti con me impegno di pubblicare per Einaudi la tua Fenomenologia del Mito. Penso che figurerebbe assai bene nella nostra collana intorno alla quale stiamo lavorando attivamente. Fra breve uscirà la mia Introduzione alla Storia della Magia e la traduzione del 2° vol. della Filosofia delle forme simboliche del Cassirer, oltre ad opere di Levy Bruhl [sic], di Preuss di Thurnewald etc. Spero che la tua risposta sia affermativa. Cordiali saluti”. La risposta doveva essere stata affermativa, se in un foglio volante, ritrovato nell’Archivio ESE, in data 5 novembre 1945, contenente un elenco di titoli della nuova collana, figura l’opera di Cantoni, cf. P. Angelini, La collana viola. Lettere 1945-1950, cit., p. 72. Sulla discussione fra i due studiosi si vedano F. Remotti, I primitivi in noi: l’antropologia di Remo Cantoni; A. Vigorelli, Storia “ideal eterna” e storia “in tempo”. Una metafora vichiana nella discussione del nesso natura/cultura fra Cantoni e de Martino, in: Remo Cantoni filosofia a misura della vita, c/ di C. Montaleone e C. Sini, Milano, Edizioni Angelo Guerini e Associati, 1993, p. 81-90, 151-58, due articoli non privi d’interesse sia in ordine al diverso impianto delle due opere (acuta, per esempio, l’osservazione di Remotti sulla contrapposizione tra metafore temporali e spaziali in de Martino e in Cantoni), e sul diverso uso di Vico (cf. Vigorelli), ma a entrambi mi pare che sfugga la questione delle categorie accennata da de Martino nella sua recensione, centrale per gli sviluppi ulteriori del suo pensiero. 71

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è un argomento, soltanto accennato nella prima, ossia l’eccessiva condiscendenza mostrata da Cantoni verso le teorie di Lévy-Bruhl e in particolare verso il concetto di mentalità primitiva, alla quale contrappone quella di “mentalità magica”, con una significativa precisazione, “ma per una valutazione di questa mentalità si impone la considerazione storica, poiché il magismo non è una della categoria dello spirito al pari dell’arte o dell’ethos o del concetto logico, ma una formazione storica definita”72. Come si vede, Il mondo magico non è lontano, almeno nella sua problematica più generale. Nella seconda recensione de Martino riprende e sviluppa questa critica. Delle tre questioni che, a suo avviso, non erano state né affrontate né approfondite in modo adeguato nel libro, infatti, le prime due, la scarsa attenzione mostrata alla “realtà” dei fenomeni paranormali, l’altra, la mancata distinzione tra mentalità primitiva e mentalità psicopatologica, erano rilievi critici secondari e almeno in parte nati da un equivoco, e come tali facilmente rintuzzati da Cantoni nella sua replica. Ma la questione del magismo, inteso come forma storica separata e antitetica al “nostro modo ordinario di pensare e di agire”, è al centro del dissidio di fondo tra i due giovani studiosi, come viene detto chiaramente sul finire della recensione, dove mi pare che si avverta anche un’implicita, ma non troppo, allusione a Cassirer, così largamente utilizzato da Cantoni: Se la sacertà o il numinoso fossero una struttura categoriale al pari dell’arte, del concetto logico, ecc., se la pretesa “categoria affettiva del soprannaturale” accennasse a un modo eterno di plasmazione – una funzione – della sintesi spirituale, allora dovrebbe essere possibile per l’uomo moderno abbandonarsi in perfetta buona fede interiore […] alla vita delle partecipazioni mistiche […]. Su lo stesso piano della poesia e della scienza, della moralità e della religione, del diritto e dell’economia dovrebbe porsi anche la magia. Ma le cose non stanno per nulla in questi termini […]. Mentre poesia e scienza, ethos e diritto, ecc. sono avvertiti come strutture categoriali eterne […] il pensiero partecipazionista, la pura magia, non riescono a inserirsi organicamente nella nostra cultura, non possono rappresentare né un valore né un ideale per noi uomini moderni. Ciò dovrebbe, a nostro avviso, essere considerato come segno del carattere non categoriale, ma storico, dei concetti di magico, di numinoso, pensiero partecipazionista, mentalità primitiva e simili (ivi, p. 321-22, corsivi nel testo).

Il passo mi sembra rivestire un’importanza che va ben oltre l’episodio di una polemica contingente. Nella recensione de Martino non a caso attacca la tesi principale di Lévy-Bruhl, di cui cita un termine tecnico fatto proprio da Cantoni, “categoria affettiva del soprannaturale” (19411, p. 30), del prelogismo inerente alla mentalità primitiva, che, è bene notarlo, lo studioso francese 72

Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., Appendice, 3. Recensioni, rec. cit., p. 312.

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correggerà o almeno sfumerà alquanto nei Carnets postumi (1949)73, editi nella collana viola nel 1952, con una breve prefazione di de Martino poco significativa al riguardo. Ora, è vero che nel passo sopracitato si parla “dei concetti di magico, di numinoso, ecc.”, che alludono scopertamente a Rudolf Otto74, ma de Martino, a mio avviso, si riferisce a un luogo di Das mythische Denken, nel quale si afferma che i contenuti della coscienza mitica “formano un regno in se stesso chiuso; possiedono in certo qual modo un accento comune […]. Questo aspetto di stranezza, questo carattere di ‘eccezionalità’ è essenziale a ogni contenuto della coscienza mitica come tale; ciò si può osservare dai gradi più bassi ai gradi più alti, dalla visione magica del mondo, […] fino alle più pure manifestazioni della religione”75. Fin dalla conferenza Der Begriff der symbolischen Form im Aufbau der Geisteswissenschaften76, come si sa, Cassirer aveva teorizzato il concetto di simbolo, inteso come termine medio che unifichi le varie forme spirituali: Per “forma simbolica” si deve intendere ogni energia dello spirito mediante la quale un contenuto significativo spirituale è collegato a un concreto segno sensibile e intimamente annesso a tale segno. In questo senso ci si fa incontro il linguaggio, ci si fanno incontro il mondo mitico-religioso e l’arte, ciascuno come una specifica forma simbolica. Perché in tutti si esprime il fenomeno fondamentale per cui la nostra coscienza non si accontenta di ricevere l’impressione

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Molto opportunamente Cases sottolinea il fatto, discorrendo di Naturalismo e storicismo nell’etnologia: “Il divario incolmabile posto da Lévy-Bruhl tra la mentalità primitiva e quella civilizzata – si ricordi che non si conoscevano allora i Carnets, apparsi nel 1949, che tale divario appianano – […] urtava contro un dogma crociano che avrà fondamentale importanza negli sviluppi e negli arresti del pensiero di de Martino. […] La religione è, ovviamente, un momento eterno dello spirito, e lo stesso vale per la logica, ragion per cui non può darsi una mentalità prelogica”, Introduzione a de Martino, Il Testimone secondario, cit., p. 138. In modo particolare è importante il Carnet VI, in cui Lévy-Bruhl abbandona definitivamente l’ipotesi di una legge di partecipazione, intesa come funzione logica e cognitiva, a favore invece “d’une expérience de caractère essentiellement affectif”, L. Lévy-Bruhl, Carnets, Paris, PUF, 1998, p. 134. 74 Si veda il recente contributo di M. Massenzio, Etnologia e teoria della religione. I contributi di Ėmile Durkheim, Sigmund Freud, Rudolf Otto, in: Non solo verso Oriente. Studi sull’ebraismo in onore di Pier Cesare Ioly Zorattini, c/ di M. Del Bianco Cotrozzi, R. De Segni e M. Massenzio, con la collaborazione di M.A. D’Aronco, Firenze, Olschki, 2014, 2 voll., II, p. 641-53. 75 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, II, Il pensiero mitico, cit., p. 108-109 (miei corsivi). Poco dopo Cassirer cita Rudolf Otto “Per il concetto del sacro, inteso come categoria religiosa originaria”, p. 108. Cf. anche p. 115, n. 2. 76 Vorträge der Bibliothek Warburg, 1921-1922, Leipzig, Teubner, 1923.

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dall’esterno, ma collega e compenetra ogni impressione con una libera attività dell’espressione77.

Nello scritto La forma del concetto nel pensiero mitico, ben noto a de Martino78, Cassirer compie un passo ulteriore nel precisare la funzione della forma simbolica, richiamandosi esplicitamente alla struttura trascendentale kantiana: “è intrinseca anche al mito una precisa maniera del dare forma, com’è vero che esso non persiste esclusivamente nella cerchia delle rappresentazioni indefinite e delle affezioni, ma si esprime in forme oggettive”79. In questa prospettiva Cassirer privilegia l’analisi del pensiero mitico-astrologico, anche sulla scorta di suggestioni di Warburg e della sua scuola, ma anzitutto per il fatto che esso fornisce un esempio di ordinamento spaziale, di struttura del cosmo nella sua totalità (si ricordi che una delle tesi fondamentali di Cassirer circa il pensiero mitico riguarda il primato dell’intuizione spaziale su quella temporale80): “l’astrologia […] non consiste unicamente 77 Il concetto di forma simbolica nella costruzione delle scienze dello spirito, in: Mito e concetto, cit., p. 102-3. 78 Lo scritto di Cassirer, il testo ampliato di una conferenza tenuta presso la Società di Scienze delle Religioni ad Amburgo nel luglio 1921, è stato tradotto in italiano molto tardi, cf. La forma del concetto nel pensiero mitico, in: Mito e concetto, c/ di R. Lazzari, Firenze, La Nuova Italia, 1992. Insieme a Das mythische Denken de Martino cita anche lo scritto Die Begriffsform im mythischen Denken, Leipzig-Berlin, Teubner, 1922, “Studien der Bibliothek Warburg”, c/ di F. Saxl, nell’ultima nota (n. 30) del suo articolo Religionsethnologie und Historismus, in: “Paideuma”, II, 4-5 (settembre 1942), p. 178-96. La traduzione italiana si trova in appendice a Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., p. 266-88, da cui cito l’inizio: “Il primo che abbia inserito il problema della magia nella propria concettualizzazione storica è stato Ernst Cassirer. Di fatto, egli ha per primo tentato di dare rilievo logico e storico alla Weltanschaaung magica nel contesto della polemica antimagica affermatasi nel corso della civiltà occidentale” (p. 288). Dall’articolo, apparso sulla rivista di Frobenius nella Germania nazista in piena guerra, doveva essere espunto il nome del filosofo ebreo, come risulta dalla lettera di Pettazzoni del 20 ottobre 1941, secondo quanto riferisce C. Ginzburg, Momigliano e de Martino, cit., p. 409, ma de Martino “anche se lì per lì si disse disposto ad accettare il consiglio di Pettazzoni, alla fine evidentemente cambiò parere” (ibid). L’originale italiano è andato perduto. Nella lettera a Croce del 23 gennaio 1942 de Martino chiede al filosofo di rivedere il testo, “sia l’originale in italiano, sia la traduzione”, Dal laboratorio del “Mondo magico”. Carteggio 1940-1943, cit., p. 119. Sulla consistenza del carteggio fra de Martino e Pettazzoni depositato presso la biblioteca Giulio Cesare Croce di san Giovanni in Persiceto sono da vedere le precisazioni di R. Di Donato, in: “Belfagor”, LIII, 4 (1998), p. 492. 79 La forma del concetto nel pensiero mitico, ivi, p. 13 (corsivi nel testo). 80 In opposizione al pensiero scientifico moderno che culmina per Cassirer con la filosofia kantiana, ivi, p. 58-63. Ma proprio la tesi di una causalità mitica, dominata dalla contiguità spaziale, specifica e opposta alla causalità scientifica, tesi che, fra l’altro, spiega il ricorso alla scuola sociologica francese (in primo luogo Durkheim e Lévy-Bruhl), ampiamente utilizzata nel secondo volume della Filosofia delle forme simboliche, Das Mythische Denken, è uno dei motivi principali, credo, del dissenso di de Martino nel Mondo magico.

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in un miscuglio di superstizioni confuse, ma ha alla sua base una peculiare forma di pensiero. Il problema di pensare la totalità del mondo come un’unità legale […] è già posto nel modo più netto nell’astrologia” (ivi, p. 46, corsivi nel testo). Ostava però a una più completa intelligenza della nozione di forma simbolica il residuo crocianesimo di de Martino, che pur non condividendo all’altezza cronologica del Mondo magico l’universalità e l’eternità delle categorie di Croce, ne accettava tuttavia la riduzione a forme dello spirito immanente allo sviluppo storico. Anche se de Martino non è sempre chiarissimo al riguardo, sembra in sostanza accettare della filosofia dello spirito la quadripartizione e la circolarità delle forme. Quando discorre di sintesi a priori e di dialettica pare intenderle nel senso di Croce. Ora, la Filosofia delle forme simboliche, fin dalle prime pagine, si configura come un’estensione della “rivoluzione copernicana” di Kant, al di là della pura sfera teoretico-intellettuale. Anche Cassirer, quando parla di sintesi, sottintende il concetto di dialettica, ma in ben altro senso: La sintesi, a cui tende il pensiero empirico-teoretico, ha quale presupposto una corrispondente analisi , e può essere costruita solo sulla base di una simile analisi. La connessione presuppone qui la separazione, come a sua volta la separazione non ha altro scopo che di rendere possibile e di preparare la connessione. In questo senso ogni pensiero fondato sull’esperienza è in se stesso dialettico – se si prende il concetto di dialettica nel suo significato storico originario che gli è stato dato da Platone, se si pensa in esso l’unità di connessione e di separazione81.

Tuttavia almeno un altro punto dell’opera di Cassirer, a mio avviso, può avere esercitato un certo influsso su de Martino, vale a dire il rapporto fra mito e rito, centrale nel Mondo magico e oltre, anche se non sempre tematizzato esplicitamente. Quando Cassirer afferma che in ogni agire mitico “vi è un momento in cui si compie una vera transustanziazione” (ivi, p. 57), che “nel rapporto fra mito e rito, il rito rappresenta l’elemento primitivo, il mito l’elemento derivato” (ivi), riesce difficile non pensare alle pagine ancor oggi colme di suggestione nelle quali de Martino descrive il dramma esistenziale del rito magico. Mi limiterò a una sola citazione da Cassirer, per quanto lunga, che credo molto illuminante: Ciò che nel mito appartiene al mondo teorico della rappresentazione, ciò che è semplice notizia o racconto a cui si presta fede va inteso come indiretta interpretazione di ciò che è direttamente vivo nell’agire dell’uomo, nei suoi affetti e nella 81

E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, II, Il pensiero mitico, cit., p. 48s.

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sua volontà. […] È una credenza universalmente diffusa […] quella secondo cui sull’esatta celebrazione dei riti si fonda il perdurare della vita umana e della stessa esistenza del mondo. […] E questo […] risolversi dell’essere nell’azione mitico-magica, come pure l’immediata reazione di quest’azione sull’essere, vale tanto nel senso soggettivo che oggettivo. Non è semplice oggetto di curiosità e spettacolo ciò che viene compiuto dal danzatore che prende parte a un dramma mitico; il danzatore invece è il dio, diventa il dio. Particolarmente in tutti i riti che si riferiscono alla vegetazione, in cui si celebra la morte e la resurrezione del dio, si esprime sempre questo fondamentale sentimento di identità, di identificazione reale. Ciò che avviene in questi riti, come nella maggior parte dei culti misterici, non è semplice rappresentazione di un evento, ma l’evento stesso e il suo diretto compiersi […]. Pertanto neppure l’espressione di “incanto analogico”, che di solito viene usata per un determinato indirizzo dell’agire magico, risponde al vero senso di questo agire: infatti laddove noi vediamo un semplice simbolo e una somiglianza del simbolo, per la coscienza magica […] si trova presente l’oggetto stesso. Solo così si può comprendere la “fede” nella magia: questa ha bisogno non solo di credere nell’efficacia del mezzo magico, ma possiede, in quello che per noi è semplice mezzo, la cosa come tale e la coglie direttamente (ivi, p. 57-59, il primo corsivo è nel testo, gli altri sono miei).

Il secondo capitolo del Mondo magico, Il dramma storico del mondo magico, senz’altro il più denso e il più complesso dell’intera opera, è anche quello da cui emerge nel modo più chiaro il suo rapporto tormentato con la Stimmung esistenzialista degli anni quaranta in Italia. Non si tratta però di una semplice “spolveratura”, ma di un’appropriazione della filosofia dell’esistenza diffusasi già nel decennio precedente, e mediata soprattutto dagli scritti di Abbagnano e di Paci. Lasciando per ora impregiudicata la questione degli sviluppi successivi del pensiero di de Martino, credo opportuno ripensare le tesi fondamentali di quel capitolo alla luce di due concetti strettamente correlati, anche se non sempre espliciti e approfonditi, la “crisi della presenza” e la “valorizzazione”, che accompagneranno la sua riflessione negli ultimi anni fino alla morte immatura, dopo la lunga parentesi etnografica e meridionalista “gramsciana”. All’inizio del capitolo de Martino enuncia lucidamente il rapporto dialettico fra i due poli del cosiddetto dramma storico del magismo: Il semplice crollo della presenza, […] lo scatenarsi di impulsi incontrollati, rappresentano solo uno dei due poli del dramma magico: l’altro polo è costituito dal momento del riscatto della presenza che vuole esserci nel mondo. Per questa resistenza della presenza che vuole esserci, il crollo della presenza diventa un

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rischio appreso in un’angoscia caratteristica: e per il configurarsi di questo rischio la presenza si apre al còmpito del suo riscatto attraverso la creazione di forme culturali definite82.

Peculiarità di ogni forma di riscatto magico-religioso è quel processo che de Martino chiama “destorificazione”, termine non privo di ambiguità, perché, se da un lato importa una sorta di alienazione, dall’altro allude a un superamento collettivo, attraverso il rito, di uno stato di crisi e di angoscia, a una reintegrazione nella comunità che però è al tempo stesso un essere fuori dalla storia83. In quest’ultimo significato metastorico si può considerare affine al 82

E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 95 (miei corsivi). Il passo è parzialmente citato anche da Paci in: Il nulla e il problema dell’uomo, cit., nell’ultima parte del saggio Mito ed esistenza, riprodotta in appendice di Il mondo magico, a partire dalla seconda edizione. In Kierkegaard e la dialettica della fede, in: “Archivio di filosofia” 2 (1953), p. 9-44, si trova un accenno al “riaffioramento del terrore nel quale si trova il primitivo che rischia di perdere l’unità, l’armonia storica e sociale della propria persona”, E. Paci, Kierkegaard e Thomas Mann, Milano, Bompiani, 1991, p. 83, con rimando al Mondo magico. La discussione con de Martino “avrebbe dovuto far parte di un’appendice di Ingens sylva, come si deduce dalla lettera a Croce del 27 settembre 1948”, cf. A. Vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci. Una biografia intellettuale (1929-1959), Milano, Franco Angeli, 1987, p. 232. La lettera è stata pubblicata dallo stesso Vigorelli, Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, c/ di A. Vigorelli, in: “Rivista di storia della filosofia”, n.s., XLI, 6 (1986), p. 97-111, cf. p. 98s. 83 Il concetto, forse non del tutto perspicuo immediatamente, è enunciato in termini più chiari, per esempio, in un appunto della Fine del mondo, cit., cap. II, Il dramma dell’apocalissi cristiana, p. 354: “salvo l’occidente, la storia della cultura è la storia dei modi con cui l’uomo ha finto a se stesso di stare nella storia come se non ci stesse”. Con parole molto simili de Martino aveva già descritto il simbolismo mitico-rituale nel capitolo precedente: “Nella storia si deve ricominciare sempre di nuovo ogni volta: il mito delle origini offre un piano in cui riassorbire questo proliferante “sempre di nuovo” in una volta […] metastorica, che sta per tutte, che destorifica il divenire nella ripetizione della stessa immutabile permanenza metastorica. Con ciò il divenire storico è mascherato, appare anzi come maschera, apparenza, non-valore, e attraverso questa pia fraus si sta nella storia “come se” non ci si stesse” (ivi, p. 263). La frase, oltre che il concetto, quasi identica si trova già in articolo, Fenomenologia religiosa e storicismo, in: “Studi e Materiali di Storia delle religioni”, XXIV-XXV (1953-1954), p. 1-25, cf. p. 19, e ritorna varie volte nell’opera incompiuta, per es. nel commento al passo dei Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia di Jung-Kerény, cit. nel saggio del 1959 Mito, scienze religiose e civiltà moderna (cf. oltre): “Stare nella storia come se non ci si stesse, ecco che cosa esprime il passo indietro della iterazione rituale del mito” (ivi, p. 234). In una lunga nota sul tempo ciclico troviamo espresso lo stesso pensiero, in termini poco diversi: “Ma il tempo ciclico dei miti di origine e di fondazione non è soltanto un orizzonte di ripresa e di reintegrazione del cattivo passato che torna in modo irrelato […]: esso è anche un tempo protettivo della storicità del divenire, in quanto risolve i momenti critici dell’esistenza in soluzioni esemplari già avvenute in illo tempore, per opera dei numi: onde il ripresentarsi storico di quei momenti è destorificato […]. In tal modo la decisione umana di quei momenti si svolge per entro la protezione della già avvenuta decisione sul piano mitico, il che equivale a dire che attraverso la pia fraus dello

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processo che con linguaggio più speculativo definirà “valorizzazione”, in polemica soprattutto con l’analitica esistenziale di Heidegger, di cui però subirà senz’altro il fascino. All’altezza del Mondo magico non si discorre ancora di “simbolismo mitico-rituale” (la locuzione diventerà di uso abbastanza frequente a partire dalla Terra del rimorso), ma il concetto è già implicito, mentre il processo della “destorificazione”, intesa come istituto religioso che risolve i momenti critici, angosciosi nel rito, occultandoli e avviandone la trasformazione in valore attraverso il sacro, è chiaramente descritto nell’articolo sopracitato del 1953, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto.84 Ma nel concetto di “destorificazione”, come è stato già notato85, permane un residuo di ambiguità fra due processi ben distinti, il primo istituzionale che promuove un riscatto culturale collettivo, e il secondo involutivo e patologico, che invece rappresenta l’incapacità dell’individuo di trascendere la natura culturalmente. In de Martino sono presenti entrambe le accezioni, tant’è che a lui risalgono i termini “destorificazione istituzionale” e “destorificazione irrelativa”, ma non sempre si distinguono, almeno mi pare, le due dinamiche differenti. Una delle novità indiscutibili del Mondo magico consiste nella contrapposizione netta alle teorie di Frazer, spesso citato, e di Malinowski,86 mai menzionato. Del primo, a dire il vero, de Martino si vale più nella veste di

stare nella storia come se non ci stesse viene ridischiuso lo starci effettivo della operosità profana.” (ibid., cap. I, Mundus, I.5.I. Iterazione mitico-rituale, p. 221-22). 84 Nell’articolo, che prende spunto da una serrata critica dell’opera di Gerardus van der Leeuw, Phänomenologie der Religion, de Martino scrive: “Vi è dunque una tecnica della presenza verso se stessa, al fine di non diventare natura e di potersi permettere una cultura: una tecnica che può anche essere pensata come dominio sulla natura, ma nel senso di una lotta contro il naturalismo della presenza e per impedire il trionfo assoluto del vitale-animale” (art. cit., p. 17). E ancora, accennando al “dramma vitale-esistenziale”, precisa che non va intesa come una vicenda precategoriale. Al contrario, “l’umana angoscia di non esserci nella storia non potrebbe mai insorgere se la presenza non fosse già nella totalità delle sue potenze operative” (ibid.). Fra l’altro, de Martino osserva con spirito autocritico che nel “Mondo Magico, p. 77s., sono esemplificate le forme più propriamente magiche del riscatto […]. È tuttavia da avvertire che in questo libro il rischio di non esserci non è ragionato ancora come produzione della sfera vitale, e che inoltre esso è interpretato restrittivamente come rischio ‘magico’” (art. cit., p. 19). 85 M. Massenzio, Destorificazione istituzionale e destorificazione irrelativa, in: “Studi e Materiali di Storia delle religioni”, numero monografico cit., p. 197-204, cf. p. 200. 86 Si veda la sintesi rappresentata dalla voce Culture, stesa nel 1931 per l’Encyclopaedia of the Social Sciences, New York, Macmillan Co., vol. IV, p. 621-45, in: Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, c/ di P. Rossi, Torino, Einaudi, 1971, p. 135-92, soprattutto le p. 170-80. L’antropologo di origine polacca è citato soltanto due volte in Naturalismo e storicismo nell’etnologia, ma per altri studi.

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informatore87 che di teorico. Accenna infatti di sfuggita alla sua interpretazione della magia, fondata sulla legge di associazione delle idee per somiglianza e per contiguità88, senza però approfondirla, in breve, senza soffermarsi sul fatto essenziale per Frazer, che la magia è una sorta di pseudoscienza, un’applicazione rozza ed erronea dei principi causali della conoscenza scientifica89. Quanto a Malinowski, di cui, com’è noto, nel 1950 uscirà nella collana viola Sesso e repressione sessuale, se de Martino poteva condividerne la convinzione che la magia risponde a un bisogno fisiologico reale, che ha insomma un’efficacia pragmatica e funzionale, non poteva certo appagarsene né tanto meno accettare la sua teoria riduttiva del mito quale mero strumento di legittimazione della tradizione e dell’ordine esistente. Nell’opera manca invece una esplicita connessione con il mito, che sarà posta al centro della riflessione di de Martino abbastanza tardi, nel già citato ampio saggio del 1959 Mito, scienze religiose e civiltà moderna, e si ritroverà nei materiali preparatori di La fine del mondo, nei quali si assiste a un ritorno tormentoso e tormentato alla problematica del Mondo magico, senza tuttavia radicali ripensamenti: Il mito è metastoria, orizzonte metastorico. È mito delle origini, che il rito ripete e rinnova, riassorbendo in esse la proliferazione storica del divenire mondano e ripresentando il mondo sempre di nuovo secondo la potenza esemplare della prima volta, quando il mondo ebbe inizio per la decisione inaugurale di numi: onde mantenere il mondo, sostenere la vita, significa ripetere ritualmente il mito di fondazione.90

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Infatti Taboo and the perils of the soul è citato più spesso di The golden bough. “Per la scuola antropologica inglese la magia imitativa deriva da false associazioni per somiglianza, così come la magia contagiosa deriva da false associazioni per contiguità”. Il mondo magico, cit., p. 135. 89 Un accenno si trova tuttavia all’inizio di Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., p. 64: “Un altro grande rappresentante della scuola antropologica, Sir James Frazer, informando i criteri della sua ermeneutica agli stessi presupposti [scil. di Tylor], interpretò la magia come il primo passo di quella conoscenza causale che sarebbe culminata poi, attraverso la religione, nelle scienze positive dell’età moderna”. È interessante notare che né in quest’opera né nel Mondo magico compare il nome di Franz Boas, di un critico tra i più acuti e conseguenti dell’evoluzionismo di Primitive culture, all’epoca poco o per nulla conosciuto nella cultura italiana. È vero che de Martino poteva ritrovare il nome dell’antropologo e linguista tedesco-americano più volte nella Filosofia delle forme simboliche, ma citato soltanto nel primo volume per i suoi studi linguistici. 90 La fine del mondo, cit. p. 240. 88

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Il passo si trova fra varie letture critiche relative a tempo ciclico e tempo lineare, che accennano anche a Nietzsche e al libro di Löwith91 Significato e fine della storia (Meaning in History, 1949) ma soprattutto traggono spunto da Mircea Eliade. Il fatto è degno di nota, non solo perché sullo studioso romeno pesava da lungo tempo un giudizio infamante, legato ai suoi trascorsi politici nella Romania filofascista del decennio 1930-40 (fu, com’è noto, membro del Movimento Legionario fondato da Corneliu Codreanu92). Nel 1949 de Martino si era candidato a prefare Le mythe de l’eternel retour, libro che era molto piaciuto a Pavese93, ma la cui pubblicazione di lì a poco sarebbe stata bocciata nel consiglio dell’Einaudi94. L’annotazione di de Martino, in margine alla lettera del 14 luglio 1949 è troppo generica per avanzare ipotesi sul taglio che avrebbe voluto dare alla sua introduzione95. Ragionando per analogia, visto il tono cautelativo e talvolta fortemente ”pedagogico” delle sue prefazioni, si potrebbe immaginare che anche questa sarebbe stata alquanto critica, ma ovviamente nulla di più.

91 La medesima opera è menzionata anche da Pavese nel Mestiere di vivere, agosto settembre 1949, c/ di M. Guglielminetti e L. Nay, “Introduzione” di C. Segre, Torino, Einaudi, 2014, p. 373. Del pensatore tedesco si cita nello stesso appunto, nel cap. I, Mundus, 1.5.2. Letture critiche, p. 259, il libro Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, (con un piccolo lapsus, Wiederkunft) tradotto in italiano soltanto nel 1982. 92 Alla collaborazione di Eliade con Codreanu allude lo stesso de Martino nella minuta di una lettera a Giulio Einaudi, piuttosto diplomatica, senza data (ma probabilmente del 1951), forse non spedita, in parte edita da Angelini, La collana viola. Lettere 1945-1950, cit., p. 183. 93 Cf. ivi, p. 137. 94 Ivi, p. 143. Dell’episodio non vi è traccia nei verbali delle riunioni Einaudi, cf. I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952, c/ di T. Munari. “Prefazione” di L. Mangoni, Torino, Einaudi, 2011. Sulla questione si veda L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, cit., p. 532-34. 95 Scriveva infatti: “Pubblicherete Le mythe de l’eternel Retour di Mircea? Desidero farci la prefazione e mi prenoto fin da ora!” (ivi, p. 140). Intorno all’opera ci sarebbe stata in Italia una congiura del silenzio pressoché totale, se il libro non fosse stato recensito da Croce che lo aveva ricevuto direttamente dall’autore (cf. P. Angelini, Il rapporto tra Ernesto de Martino e Mircea Eliade, in: Ernesto de Martino e la cultura europea, cit., p. 220), in: “Quaderni della Critica”, V, 15, 1949, p. 100-102, quindi in: Terze pagine sparse, II, Bari, Laterza, 1955, p. 98-101. Il filosofo, che lodava all’inizio l’erudizione di Eliade, trascurava gli aspetti antropologici e storico-religiosi dell’opera, tutto preoccupato di rintuzzare le accuse dello studioso romeno, contenute soprattutto nelle ultime pagine, contro lo storicismo. Croce infatti non si perita di riaffermare la sua fede inconcussa nella razionalità della storia: “Né mi pare che vi sia luogo a scandolezzarsi del detto che quello che è storia è bene e non male, quando si traduca bene e male in ‘positivo’ e ‘negativo’, non potendosi disconoscere che la storia attua sempre il positivo e non mai il negativo” (rec. cit., p. 101). Più tardi de Martino ne diede notizia in una breve recensione, dedicata anche ad altre opere, in: “Studi e Materiali di Storia delle religioni”, XXIII (1951-1952), p. 148-50, in cui ribadiva la sua fede nello storicismo quale “teoria della produttività umana”.

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Ora, nel saggio del 1959 due mi sembrano i punti più salienti. In primo luogo, si assiste al tentativo di “una valutazione complessiva dell’irrazionalismo contemporaneo così come si riflette nelle scienze religiose, cioè in un dominio in certo senso elettivo per le più rischiose avventure della ragione abdicante” – come scrive de Martino stesso nella breve prefazione premessa alla ristampa in volume96 – che include anche la psicoanalisi, sia Jung, di cui critica peraltro le nozioni di inconscio collettivo e di archetipo, sia in modo più discutibile Freud, di cui cita l’Al di là del principio di piacere (1920), considerata come l’opera che apre nuove prospettive all’interpretazione psicoanalitica del fenomeno religioso.97 Ma L’avvenire di un’illusione, lo scritto che notoriamente nega nel modo più netto ed esplicito ogni valore di verità alla religione, è del 1927. In secondo luogo, dal saggio emerge una sorta di ambiguo riconoscimento del valore esistenziale della vita religiosa che prende le mosse da Rudolf Otto e da Mircea Eliade. Di quest’ultimo de Martino cita appunto Le mythe de l’eternel retour98 a proposito del cosid96

Furore simbolo valore, cit., p. 9. Ivi, p. 31s. Il riferimento a Al di là del principio del piacere si trova alle p. 20-1. L’interesse di de Martino per Jung era antico. Si ricordi la sua recensione alla tr. it. di Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Torino, Einaudi, 1942, in: “Primato”, IV, 1 (1943), p. 10-11, tutta in chiave storicistica. Lo stesso libro era oggetto di un articolo di R. Cantoni, Il problema dell’inconscio, in: “Studi filosofici”, V, 1-2 (1944), p. 71-82, in una prospettiva molto diversa. Cantoni, dopo avere esposto la nozione di inconscio collettivo, trovava in Jung un’auctoritas, per quanto non sempre attendibile, che confermava l’impianto di I primitivi. Dopo avere confrontato la psicologia di Jung e la sociologia di Durkheim, così proseguiva: “Il raffronto istituito da Jung, l’accostamento cioè di uno strato della nostra vita psichica (l’inconscio) con uno strato culturale (il mondo primitivo), conferma la verità di una tesi sempre sostenuta dall’autore di questa nota, anche in polemica con altri studiosi della mentalità primitiva: la mentalità primitiva cioè non ha solo interesse erudito o archeologico, ma è viva e operante anche nella nostra vita mentale di civilizzati” (p. 79). Il dialogo a distanza con il collega napoletano continuava: “Resta da osservare che in Jung, mentre troviamo rigorosamente affermata la convergenza della psicologia primitiva colla psicologia infantile e colla psicologia inconscia, è assai men chiara la coscienza critica della divergenza che pur esiste tra questi piani di ricerche. [Per un approfondimento dei problemi inerenti alla mentalità primitiva rinvio alla discussione sorta tra il Prof. De Martino e lo scrivente in: “Studi filosofici”, n. 4, 1942]” (p. 80). 98 Ivi, p. 22-24. Il libro di Eliade uscì in italiano soltanto nel 1968, per una casa editrice cattolica, di orientamento nettamente conservatore, la Borla di Torino (fino al 1976). Di grande interesse per comprendere il rapporto dello storico delle religioni romeno con la cultura italiana il Diario italiano (1927-1928), journal del viaggio compiuto prima di laurearsi con una tesi su La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno, ora in: Mircea Eliade e l’Italia, c/ di M. Mincu e R. Stagno, Milano, Jaca Book, 1987, p. 25-70, soprattutto i resoconti degli incontri con Papini, con Gentile e con Buonaiuti, p. 34-39, 64-70 (Eliade collaborerà a “Religio”). All’ammirato Papini dedicherà un articolo nel 1937, Papini, storico della letteratura italiana, ora in: L’isola di Euthanasius. Scritti letterari, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 227-33. Nella stessa raccolta si trova il necrologio di Rudolf Otto, p. 97

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detto “passo indietro”, togliendo l’espressione da un luogo famoso dei Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia di Jung-Kerény, libro di cui, quando era stato pubblicato nella collana viola, aveva lamentato l’assenza di una presentazione99: Prima di agire l’uomo antico avrebbe fatto sempre un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortale. Egli avrebbe cercato nel passato un modello in cui immergersi come in una campana di palombaro, per affrontare così, protetto e in pari tempo trasfigurato, il problema del presente100.

Nel saggio de Martino sembra attribuire agli studiosi sopracitati e ad altri “irrazionalisti” il merito di aver posto al centro della vita religiosa il simbolo mitico-rituale, tuttavia aggiunge una postilla rilevante, “in quanto orizzonte

223-26. Cf. anche P. Angelini, Il rapporto tra Ernesto de Martino e Mircea Eliade, in: Ernesto de Martino e la cultura europea, cit., p. 211-23. Un lemma bibliografico significativo da aggiungere al dossier relativo ai rapporti fra i due studiosi è la discussione avvenuta nell’ambito dei colloqui di Royaumont sulla parapsicologia, apparsa nel fascicolo doppio della rivista “La Tour Saint-Jacques”, II, 7 (settembre-dicembre 1956), fondata e diretta da Robert Amadou, accessibile anche in italiano, cf. E. de Martino e M. Eliade: Storia delle religioni e parapsicologia, un dibattito del ’56, in: “Belfagor”, LIII, 4 (1998), p. 45567. Il nome di Eliade ricorre spesso, sia pure variamente criticato, nella Fine del mondo, cit., soprattutto nel cap. I, Mundus, 1.5.2., 1.5.3., 1.5.4. In particolare, oltre a Tecniche dello Yoga e al Trattato di storia delle religioni, pubblicati nella collana viola rispettivamente nel 1952 e nel 1954, sono citati sovente Le mythe de l’eternel retour, Images et symboles; Mythes, rêves et mystères. In un saggio di quest’ultima raccolta, Expérience sensorielle et expérience mystique chez les primitifs [1953], Eliade cita con favore le ricerche di de Martino, “un ethnologue doublé d’un philosophe”, Mythes, rêves et mystères, Paris, Gallimard, 2013, p. 112, in particolare Il mondo magico, da lui recensito positivamente nell’articolo Science, idéalisme et phénomènes paranormaux, in: “Critique”, III, 23 (1948), p. 315-23 (riprodotto in italiano in appendice al Mondo magico, cit., p. 305-11). Cf. anche M. Eliade, Le messi del solstizio. Memorie 2 (1937-1960), c/ di R. Scagno, Milano, Jaca Book, 1995, p. 107-108. 99 Lettera a Pavese del 9 ottobre 1949, La collana viola. Lettere 1945-1950, cit., p. 109. Evidentemente la presentazione avrebbe dovuto segnare la distanza dai due autori. Altrove, in una lettera non datata, ma assegnata da Angelini all’autunno 1949, definisce Kerény “fior di reazionario”, ivi, p. 153. 100 Furore simbolo valore, cit., p. 22. Il passo è tratto dalla Ia edizione dei Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Einaudi, 1948, p. 18. Curiosamente de Martino nel testo del suo saggio e anche in nota cita l’opera con altro titolo, Introduzione all’essenza della mitologia, fedele all’originale (Einführung in das Wesen der Mythologie). Lo stesso brano è citato anche nella Fine del mondo, cit., cap. I, Mundus, 1.5.2. Letture critiche, p. 233. Degno di nota è il commento: “Ora il ‘passo indietro’ mitico è una tecnica di destorificazione, per cui l’iniziativa storica del qui e dell’ora […] veniva occultata o mascherata, e in tal modo dischiusa, come se fosse la ripetizione di una iniziativa primordiale: sul piano del rito tornava sempre lo stesso mito nel cui risultato esemplare era riassorbita la proliferazione storica del divenire” (ivi, p. 234).

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della crisi esistenziale e mediazione di valori” (ivi, p. 54), che limita fortemente il riconoscimento. Invero, se l’orizzonte del simbolo consiste nel cosiddetto “ethos del trascendimento” (locuzione non usata però in questo scritto), ne va della sua stessa asserita centralità. Infatti de Martino coerentemente viene a negare la legittimità di denominarlo mitico-rituale, proponendo di definirlo invece “ethos della presenza nel mondo, energia morale che fonda civiltà e storia: a questo ethos che lotta di continuo contro l’insidia della disgregazione e dell’isolamento accennava il Croce in una pagina giustamente famosa della sua Storia come pensiero e come azione “101. E così il cerchio si chiude… Beninteso, non credo che si tratti di un ritorno a Croce, di un ripiegamento dovuto alla solitudine culturale e politica dello studioso, come pure è stato autorevolmente sostenuto da Cases, ma di un’ambiguità intrinseca del suo “superamento” dello storicismo crociano. Nella Fine del mondo, pur tenendo conto dell’incompiutezza e della frammentarietà dell’opera102, aggravata dal fatto che l’edizione riunisce 101 Ivi, p. 55. Per la pagina di Croce cui allude de Martino si veda sopra. Sasso si sofferma a lungo sopra una lettera di de Martino a Croce, pubblicata da Angelini, Dall’Epistolario di Ernesto de Martino, cit., p. 168-71, della fine del 1940 o del principio del 1941, in cui cerca di spiegare la sua concezione della realtà dei poteri magici. Mi limito a una breve citazione, tolta da quella più ampia di Sasso: “Si può certamente dire, in oggi, che la magia sia per noi […] una ‘illusione’, ma a patto di considerarla come realtà per l’umanità primitiva, cioè come vera conoscenza e vera azione della natura sulla base delle sue necessità e dei suoi bisogni di azione. Voi stesso accennate che in certe condizioni patologiche ‘si riacquistano simpatie e corrispondenze con gli esseri e le cose naturali che non si possedevano allo stato di sanità e che si riperdono quando si torna a questo’: ora il totemismo […] è appunto questa ‘simpatia’ […] fra l’uomo primitivo e certi esseri o cose della natura […], ed è altresì un sistema essenzialmente magico”. G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., cap. V, Crocianesimo e nuove esperienze. Cantoni e Banfi, p. 164 (ho corretto un deplorevole refuso, per cui nella citazione si legge “santità” invece di “sanità”). Il passo crociano è tolto dall’articolo La natura come storia senza storia da noi scritta, in: “La Critica”, XXXVII, 1 (1937), p. 141-47, quindi inserito in: La storia come pensiero e come azione, a partire dalla III edizione, Bari, Laterza, 1939, p. 287-92. Nella lettera, in un luogo non citato da Sasso, de Martino afferma anche che “la magia è ‘la Storia come pensiero e azione’ dei primitivi” in: Dal laboratorio del “Mondo magico”. Carteggi 1940-1943, cit., p. 63. Il commento di Sasso (p. 164-67), tutt’interno allo svolgimento dello storicismo crociano, mi sembra non tenere nel debito conto il tentativo di de Martino di giustificare la propria ricerca usando argomentazioni di Croce stesso, con un’evidente torsione concettuale: il brano in questione fa parte di una confutazione più generale dell’età positivista e della sua “pseudostoria” naturalistica (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 266-67). 102 È importante notare, a riprova dello stato magmatico dell’opera, che pochi mesi prima della morte di de Martino, il 25 gennaio 1965 (Archivio Einaudi, incart. de Martino, cart. 66, fasc. 970), Giulio Einaudi, nella risposta all’avv. Alberto Carocci di Roma, elencando alcuni titoli della progettata nuova collana, menzionasse insieme a M. Mauss, Teoria generale della magia, e a R. Bastide, Les religions africaines au Brésil, due libri dello stesso de Martino, Marxismo e religione, e L’esperienza di fine del mondo nella schizofrenia, in cui si ravvisano alcune parti del testo edito postumo dalla Gallini. Il Carocci il 18 gennaio aveva scritto

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brani cronologicamente diversi e anche di varia provenienza, il tema è trattato più volte. Il simbolismo, anche se con qualche sfumatura differente, è presentato sempre come un procedimento istituzionalizzato di protezione dalle crisi esistenziali che consente un recupero attivo del soggetto nel mondo. Non è certo un caso che de Martino usi negli appunti filosofici coevi la locuzione parallela di “ethos del trascendimento” per indicare “la presentificazione, e la presentificazione è l’essere della situazione che si raccoglie nell’esserci, ed è l’esserci che si apre all’essere che intersoggettivamente vale”103. Il linguaggio non deve trarre in inganno. Sembra che de Martino scrivesse queste annotazioni avendo sotto gli occhi il testo originale di Sein und Zeit e la prima traduzione di Pietro Chiodi (Milano, Bocca, 1953), ma il suo uso dell’espressione heideggeriana è affatto diverso e diverge profondamente dal pensiero del filosofo, come si chiarisce subito dopo: “In questa prospettiva l’In der Welt sein di Heidegger diventa un Sein-sollen, che acquista rilievo per il rischio di non-poterci-essere-nel-mondo (cioè in nessun mondo culturale)” (ivi). L’idea, che qui come altrove si affaccia, di un trascendimento della situazione critica, diciamo pure dell’angoscia, nel “valore”, ossia in forme ed istituti culturali, in un attivo operare storico, definito altre volte “valorizzazione intersoggettiva”, non trova posto nell’analitica esistenziale104, che, a tacere d’altro, non vuole essere antropologica ma ontologica e l’idea stessa di un dover essere nel mondo, inteso come trascendimento della vita nel valore, come si esprime altrove de Martino, insomma in un progetto collettivo, è lontanissimo non solo dallo Heidegger di Essere e tempo, ma anche dagli sviluppi successivi del suo pensiero. Il rito si configura non solo come ripetizione dell’evento archetipo, ma come “anticipazione […] della risoluzione definitiva della storia nella metastoria”105, come si legge in un lungo paragrafo dedicato alla catatonia e alla schizofrenia (e la collocazione non pare casuale), dove ci s’imbatte in una

all’editore che de Martino, vista l’incertezza della collana di “scienze religiose”, chiedeva di essere libero di pubblicare altrove le sue opere (cf. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, cit., p. 917). Ma Einaudi fu irremovibile nel conservare i diritti della Fine del mondo. 103 E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 82. I materiali erano in parte già stati editi in: E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, cit. 104 Sasso coglie acutamente questo punto, quando scrive che “nell’utilizzare il concetto heideggeriano dell’angoscia, de Martino disponeva bensì sé stesso a, per così dire, riceverne e subirne la varia suggestività, ma lo sapesse o no, non ne accoglieva invece la sostanza”. G. Sasso, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, cit., cap. IX, Religione e destorificazione, p. 296. 105 La fine del mondo, cit. p. 140.

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descrizione di stati patologici che sembra seguire da vicino, o addirittura ricalcare, l’analisi della crisi della presenza del Mondo magico, come risulta evidente proprio dal riferimento al rito: L’angoscia del divenire, via via che esso scorre, si accumula, la pressione aumenta: ed ecco, ed allora la medicina è un momento di riposo nella metastoria, un alleggerimento del divenire mercé […] quindi l’iterazione dell’identico o di serie identiche di atti, mercé il rito e la stereotipia. Questa iterazione dell’identico, questa uccisione momentanea del divenire, genera la rappresentazione e l’esperienza […] di una storia che si rinnova, di una seconda nascita, e costituisce comunque una riparazione, un compenso […] onde ci si può concedere al corso ulteriore del divenire storico. Naturalmente l’efficacia del rito dipende dalla sua retta esecuzione106.

Se il Quaderno di Torre a mare e gli appunti segnati sulla copertina con la sigla 3ab risalgono, come pare accertato dal curatore, Roberto Pàstina107, al 1962, sebbene questi ultimi si riferiscano ampiamente alla polemica fra Paci e Croce di un decennio anteriore (1941-1951), cui ho già accennato, avremmo una prova ulteriore di una sostanziale continuità nel pensiero di de Martino. Il faldone si apre infatti con alcune note relative alla discussione tra i due filosofi, che prese le mosse dal saggio di Paci Il significato storico dell’esistenzialismo, apparso nella neonata rivista di Banfi108, in un numero 106 Ivi, p. 139. Al riguardo si vedano varie note del Quaderno di Torre a mare, in: Scritti filosofici, cit., p. 48-50, e questo appunto nel coevo quaderno 3ab: “L’angoscia è tanto poco disvelamento del più autentico essere dell’esserci in quanto essere per la morte, che in realtà l’autentico sta proprio nella copertura sociale dell’angoscia, non già nel senso di una inerte accettazione dell’anonimo ‘si muore’ ma nel senso che proprio quel ‘si muore’, […] quel soccorrere con comportamenti tradizionalizzati davanti all’evento luttuoso, e infine quell’educazione ad oltrepassare il cordoglio, ridischiudono l’ethos del trascendimento combattendo il rischio dell’angoscia” (ivi, p. 110). È appena il caso di ricordare Morte e pianto rituale nel mondo antico. 107 Ibid., Introduzione, p. VIII-IX. Cf. R. Pàstina, Il concetto di presenza nel primo De Martino, in: Ernesto de Martino e la formazione del suo pensiero, cit. 108 Com’è noto, la nascita della rivista, nella primavera del 1940, era stata l’occasione di una nota alquanto aspra di Croce, Una rivista che vuol risorgere, in: “La Critica”, XXXIX, 4 (1941), p. 262, ristampata in: Pagine sparse, III, Napoli, Ricciardi, 1943, p. 117, nella sezione Correnti filosofiche odierne. Senza mai nominare Banfi, citava con ironia un annuncio pubblicitario delle “Kantstudien” dal quale si traeva l’auspicio che la filosofia tedesca contribuisse a superare la crisi presente “in collaborazione con la filosofia delle nazioni amiche”, fin troppo chiara allusione ai rapporti fra l’Italia fascista e la Germania nazista. Croce, nella nota successiva, Hegel da scoprire, p. 262-63, quindi in: Pagine sparse, III, cit., p. 117-18, rivendicava poi il merito della ininterrotta tradizione hegeliana meridionale, svalutata da Banfi, ricordando anche una lusinghiera menzione di Löwith nel suo Da Hegel a Nietzsche, allora fresco di stampa. Altrettanto dura fu la replica di Banfi, Discussioni, in: “Studi filosofici”, II, 3-4 (1941), p. 378-81 (su Croce, cf. le p. 379-81), nella

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di “Studi filosofici” interamente dedicato all’esistenzialismo109, oggetto di una recensione partecipe ma non del tutto benevola di Croce110, anche se concentrata esclusivamente sul saggio del giovane allievo di Banfi, indizio indubbio di un singolare apprezzamento, vista la scarsa stima nella quale teneva gli esistenzialisti italiani111. Di Paci, citato quasi alla lettera, gli “pare quale ritornava, fra l’altro, sulla questione dello hegelismo italiano, usando parole astiose a proposito del saggio crociano: “B.C. fu pronto a ricordarmi, con l’autorità del Dr. Lövith [sic], che tale studio è stato compiuto ed esaurito dall’hegelismo napoletano, culminante nel suo “Saggio sullo Hegel”. Io non vorrò giudicare qui l’hegelismo napoletano, né quel libro, che mi sembrò sempre più morto che vivo”, p. 380, ed esprimendo un giudizio limitativo sul valore filosofico e più in generale culturale dell’opera crociana: “Certo B.C. ha avuto nei primi decenni del presente secolo il merito di riassumere in canoni chiari e intelligenti le esigenze della riflessione critica e storica del tempo suo e di garantirli in un sistema filosofico molto semplice”, p. 381. Croce rispose con una nota, Notizie ed osservazioni I. Due massime per gli studiosi di filosofia, non meno dura, in: “La Critica”, XL, 2 (1942), p. 125-26, ristampata in: Pagine sparse, III, cit., p. 121-22, cui seguì ancora un accenno polemico di Banfi in margine alla discussione sopra un articolo di Gustavo Bontadini, apparso nella “Rivista di filosofia neoscolastica” 6 (1941), cf. Discussioni, in: “Studi filosofici”, III, 3 (1941), p. 242: “Chi non vuol capire – benché molto già abbia inteso – è B.C. che sulla Critica […] riprende i soliti motivi”. Si veda anche E. Garin, Antonio Banfi e “Studi filosofici”, in: Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 19963, p. 241-64. 109 “Studi filosofici”, II, 2 (giugno 1941), p. 134-50, poi raccolto in: Esistenzialismo e storicismo, Milano, Mondadori, 1950, p. 9-31, insieme con l’altro saggio Arte, esistenza e forme dello spirito, apparso nella stessa rivista, I, 4 (dicembre 1940), p. 388-417, ivi ristampato col titolo L’esistenza e la aurora dello spirito, p. 32-74. Il fascicolo è aperto da un saggio di Abbagnano, Esistenza e sostanza, p. 113-33, cui seguono in ordine quelli di Paci già citato, di Pareyson, Idealismo ed esistenzialismo, p. 151-69 [poi, alquanto modificato, raccolto col titolo Esistenzialismo 1941 in: Studi sull’esistenzialismo, Firenze, Sansoni, 19712], cui si deve anche il Panorama dell’esistenzialismo, con la Bibliografia essenziale, p. 193-206, e di Banfi, Il problema dell’esistenza, p. 170-92. Non so se si sia notato che nel numero monografico appare alle p. 212-13, anche una breve recensione di de Martino al libro di Werner Leibbrand, Medicina Romantica, uscito da Laterza nel 1939, con cui egli iniziò la sua collaborazione alla rivista di Banfi. 110 B. Croce, “La Critica”, XL, 1 (1942), p. 48-49, ristampata in: Pagine sparse, III, cit., p. 320-21, nella sezione Problemi filosofici. Croce aveva già recensito duramente il discorso rettorale di Heidegger, Die Selbstbehauptung der deutschen Universität, ivi, XXXII, 1 (1934, p. 69-70, insieme a uno scritto di Karl Barth, Theologische Existenz heute!, che fa da contraltare positivo, poi ristampati in: Conversazioni critiche, s. V, VI, Tra il serio e il giocoso, Bari, Laterza, 19512, p. 362-63. Cf. anche la lettera di Croce del 9 settembre 1933, in: Carteggio Croce-Vossler 1899-1949, Bari, Laterza, 19832, p. 371. 111 Cf. Una critica dell’esistenzialismo, in: “Quaderni della Critica”, I, 1 (1945), p. 107109, poi in: Nuove pagine sparse, I, Vita, Pensiero, Letteratura, Postille, III. Avvertimenti filosofici, Napoli, Ricciardi, 1949, p. 254-56. Nella breve recensione consensuale al volume di Francesco De Bartolomeis, Idealismo ed esistenzialismo, Napoli, Ricciardi, 1944, vero e proprio pamphlet contro il cosiddetto esistenzialismo positivo, Croce, dopo avere riconosciuto che “Il solo motivo dell’esistenzialismo che presenti qualche interesse speculativo è nello Heidegger”, subito dava una stoccata sferzante: “gli altri esistenzialisti, tedeschi e francesi, valgono poco e meno ancora gli italiani, ecletticamente sconclusionati”

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plausibile la tesi che il significato dell’esistenzialismo sia da riporre nell’opposizione al razionalismo astratto e intellettualistico che persistette anche nella filosofia hegeliana, e perciò nell’avere riagitato il problema del finito, della persona, del nulla, e, in genere, i motivi dell’irrazionalismo” (B. Croce, rec. cit., p. 48), pur riducendo l’esistenzialismo a “un modesto episodio di siffatta opposizione […] modesto, perché altre schiere di oppositori vi furono di gran lunga meglio dotati speculativamente” (ivi). Non è difficile comprendere le ragioni dell’interesse del filosofo idealista per il saggio di Paci, dal momento che egli interpretava “la funzione dell’esistenza nella vita dello spirito” come se fosse “quella dal Croce assegnata alla forma pratica ed economica, forma che in realtà non è una forma ma, appunto, pura materia, e cioè pura esistenzialità, momento dell’essere, dunque, senza il quale non è possibile né l’arte, né la vita morale, né la stessa filosofia”112, interpretazione che affondava le sue radici, come sappiamo oggi, addirittura nella sua riflessione filosofica della prima giovinezza, testimoniata dal saggio su Croce rimasto inedito (1929-1930)113. Ma proprio tale modo di leggere la Filosofia della pratica e più in generale la teoria della circolarità delle forme dello spirito urtava contro un punto centrale nel pensiero di Croce, vale a dire la concezione stessa del circolo come successione di forme, ciascuna delle quali è nel contempo materia rispetto alla successiva, superiore, e forma rispetto alla precedente e inferiore. Inoltre Paci, intendendo la forma pratica come “pura esistenzialità”, introduceva un elemento di irrazionalità o comunque non del tutto riducibile alle categorie, che difficilmente Croce poteva accettare. Tuttavia è interessante notare che nella sua critica, mentre subito rilevava l’illegittimità dal punto di vista del suo sistema di considerare una forma meramente materiale, a suo giudizio una contraddizione in termini, egli accoglieva il dubbio riconoscimento alla propria filosofia che avrebbe anticipato i motivi validi dell’esistenzialismo, identificando la forma economica con quella vitale, identificazione che nel prosieguo della polemica non avrebbe riaffermato sempre con inconcussa certezza: Anche nel mettere in vista questo rapporto mi pare il Paci dica bene; e forse sarà in ragione di esso che io non sono riuscito a riscaldarmi mai per l’esistenziali-

(art. cit., p. 108, miei corsivi). Si tenga presente anche la breve nota polemica Un’avversione filosofica, in cui definiva Heidegger “un tormentato tormentatore”, accusandolo di provare “disinteresse per tutti i problemi della storia e della vita”, ivi, p. 257. La nota era apparsa dapprima in: “Quaderni della Critica”, III, 7 (1947), p. 96. 112 E. Paci, Il significato storico dell’esistenzialismo, cit., p. 149. Il passo è citato da Croce nella recensione. 113 A. Vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci, cit., p. 60-65.

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smo, che già avevo dentro di me e nutrivo ed educavo da cinquant’anni, chiudendolo nel concetto della forma economica (o utilitaria o vitale che si dica), la quale ho sempre tenacemente difesa contro quanti tentavano di scacciarla. Ma io dicevo “forma” e il nuovo critico dice “materia”; e io ridico ora che è forma e non è materia, ossia che è anche materia ma appunto perché è, anzitutto, forma. Una pura materia, una materia per sé, non è concepibile: meglio considerare, sulla traccia di Aristotele, la materia come non altro che la forma spirituale vista al lume di quella superiore, alla quale la realtà di volta in volta s’innalza; e di conseguenza, interpretare il “peso della materia” come il travaglio del “trapasso” dall'una all'altra forma. D’altra parte, non meno inconcepibile sarebbe una forma prima, indipendente dalle altre e premessa assoluta delle altre, perché la circolarità, che è l’unità dello spirito, esclude la costruzione della vita spirituale a mo’ di strati o di dantesche balze di Purgatorio (B. Croce, rec. cit., p. 48-49).

Com’è noto, la polemica114 si protrasse a varie riprese per un decennio, senza che nessuno dei due contendenti deflettesse in sostanza dalla propria posizione, pur con qualche reciproca concessione. Nello stesso 1942 Paci, traducendo e commentando per la collana diretta da Enrico Castelli Was ist Metaphysik?115, la prolusione letta da Heidegger il 24 luglio 1929 succedendo a Friburgo nella cattedra di Husserl, replicò a Croce nella lunga introduzione premessa al testo. La lettura dell’analitica esistenziale condotta da Paci interessa qui soltanto nella prospettiva di uno studioso di storia delle religioni che, formatosi, dopo il precedente discepolato con Omodeo, nell’alveo dello storicismo crociano, si apriva a correnti di pensiero più nuove alle quali reagiva con un atteggiamento misto di interesse e di diffidenza. In breve, il tentativo del giovane allievo di Banfi consisteva nel coniugare il concetto di esistenza, inteso come “l’esistere nel tempo, l’irrazionale della personalità, la vita della natura e dell’uomo in tutte le sue forme”116 alla teoria della circolarità delle forme dello spirito. Rispetto 114

Si vedano in proposito A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, il Mulino, 1959, p. 157-59; L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, cit., p. 305-11, pagine quest’ultime in buona sostanza più favorevoli a Croce che a Paci; A. Vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci, cit., p. 205-32; Id., La dialettica del vitale. Sulla polemica di Enzo Paci con Benedetto Croce, in: “Rivista di storia della filosofia”, n.s., XXXIX, 4 (1984), p. 751-77. Notevoli anche le Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, c/ di A. Vigorelli, cit., passim. 115 M. Heidegger, Che cosa è la metafisica?, “Introduzione”, Milano, Fratelli Bocca, 1942, p. 5-52, poi raccolta in: Esistenzialismo e storicismo, cit., col titolo Heidegger e lo storicismo, p. 115-46. 116 Ivi, p. 32 (miei corsivi). Il tentativo di Paci non fu senza qualche conseguenza nello sviluppo estremo della riflessione crociana, com’è dimostrato dagli ultimi due interventi, Ancora intorno alla vitalità come momento dello spirito, in: “Quaderni della Critica”, V, 15 (1949), p. 93-95, e Intorno a Hegel e la dialettica, I Delle categorie dello Spirito e della Dialettica. II Del nesso tra vitalità e dialettica. Risposta a un quesito proposto, ibid., VII, 19-

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alle quali “il mondo dell’esistere ha una funzione assai vicina a quella che viene ad assumere, nel pensiero di Croce, la forma economica”117. E qui, come si vede, Paci ripeteva quanto affermato nell’articolo del 1941, ribadendo anche la sua concezione dell’esistenza, identificata con la forma utilitaria o economica o vitale dello spirito, come materia delle altre forme spirituali, ossia il vero nodo del dissidio con Croce. Su questo punto Paci era disposto a concedere poco o nulla: ammetteva sì che non si dà una pura materia, sulla scorta dell’objezione di Croce, giacché, come aveva scritto nella recensione del 1942, “meglio considerare, sulla traccia di Aristotele, la materia come non altro che la forma spirituale vista al lume di quella superiore, alla quale la realtà di volta in volta s'innalza”118, ma “a con-

20 (1951), p. 2-5, 6-8, cui seguono Un poscritto, Un esempio e una Nota, p. 9-13, poi confluiti nelle Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit, p. 29-44 (l’ultimo libro del corpus crociano uscito, vivente l’autore; si veda ora nell’Edizione nazionale, Saggi filosofici XIII, cit.). “Essa [scil. la Vitalità]” – scrive il vecchio filosofo – “offre la ‘materia’ alle categorie successive, giusta la legge che regge il circolo delle categorie, che quella, che prima è ‘forma’, si presta poi all’ufficio di ‘materia’; né solo offre la materia, ma dà la cooperazione, fornendo alle forme successive le forze che furono sue. In effetto […] quelle resterebbero senza voce e senza gesto, impotenti ad esprimersi, se non le soccorresse la forma vitale che dà alle loro verità […], alle loro azioni sublimi ed eroiche il piacere e il dolore, comune manifestazione in cui culmina ogni vita. Altri caratteri delle altre forme si spiegano con la negatività persistente in quella della vitalità” (art. cit., p. 7). Importante ammissione, mi sembra, ma tale da scardinare l’architettura della teoria della circolarità delle forme dello spirito. Sintomatico al riguardo l’atteggiamento imbarazzato di un crociano “ortodosso” come Carlo Antoni: “Ridotto l’individuo all’esistenza animale, […] viene sovrapposto ad esso una sorta di Intelletto averroistico, unitario. L’iniziativa, però, è affidata […] alla vitalità, che non soltanto stimola ed alimenta le altre categorie, ma dà ai ‘valori’ dello spirito un’effettiva consistenza nel mondo, dà loro vita e movimento. Ma questa prerogativa, assegnata alla vitalità, rende difficile concepire quella circolarità delle forme dello spirito, che è stata dichiarata e sostenuta in tutte le opere crociane, come principio basilare del sistema”. C. Antoni, Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, 19642, p. 106. E si vedano anche le p. 13133, sul “privilegio capitale del momento economico”, la polarità reale tra piacere e dolore, “il negativo economico”. 117 M. Heidegger, Che cosa è la metafisica?, cit., p. 35. 118 B. Croce, rec. cit., p. 48. A dire il vero, nella recensione Croce ricorreva anche a un altro argomento alquanto velenoso, là dove, dopo essersi arrogato il merito di avere anticipato i pochi motivi validi dell’esistenzialismo, appropriandosi dell’interpretazione di Paci, non riconosceva tuttavia alcun valore speculativo ai tentativi “di pervenire da esso a una filosofia dello spirito e alla conoscenza e intelligenza della storia […] perché il mero esistenzialismo, crudo e verde, non potrebbe uscire dall’“angoscia” se non con un ritorno a trascendenti e mitologiche religioni, che è, del resto, ciò che tentano altri suoi seguaci, specialmente francesi, i quali se ne valgono come di una praefatio ad missam” (art. cit., p. 49), il che costituiva una lettura parziale, per non dire tendenziosa, intenta insomma a ricondurre nell’alveo dello spiritualismo più tradizionale quel sentimento dominante nel Novecento, cui si è ridotta spesso l’immagine più vulgata delle cosiddette filosofie dell’esistenza,

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disperazione o “angoscia”, al cui “superamento” aveva alluso molti anni prima, nel Contributo alla critica di me stesso, il ripensamento autobiografico scritto dopo il compimento del sistema. Né mi sembra molto diversa la valutazione che emerge da un articolo successivo, Conversazioni filosofiche. Note di logica. X. Di nuovo intorno alla ‘filosofia prima’ e al ‘problema fondamentale della filosofia’, in: “La Critica”, XLI, 2 (1943), p. 150-55, poi in: Discorsi di varia filosofia, vol. II, XX. Note di logica, VIII, cit., p. 28-35, che si chiude in questo modo: “se in alcune delle sue correnti [l’esistenzialismo] vede innanzi a sé la propria conclusione nel ritorno puro e semplice alla credenza cattolica, in alcune altre, tedesche e italiane, si propone di superare la mera esistenzialità col rimettersi a costruire una filosofia dello spirito e una concezione della realtà come storia. Con che l’esistenzialismo non apporta molta novità di concetti a chi conosca così la classica filosofia tedesca come la filosofia dello spirito e lo storicismo del novecento, né è già introduzione alla filosofia ma una delle infinite vie, o piuttosto delle infinite aporie, che possono spingere questo o quell’individuo a innalzarsi al filosofare. Ma quando né la catarsi e catastrofe religiosa, né il disegnato trapasso e innalzamento, che sarebbe un’autocritica confutazione e liberazione, hanno luogo, esso rimane uno dei sintomi dell’abbassamento spirituale dei tempi nostri, sicché, non senza intimo avvertimento della coscienza, se anche con intento di lodarlo e ammirarlo, è stato messo in istretto rapporto con la ‘poesia pura’ dei decadenti” (corsivi miei). Forse qui è ravvisabile un’allusione all’articolo di Paci, Arte, esistenza e forme dello spirito, apparso in: “Studi filosofici”, I, 4 (1940), p. 388-417 (poi confluito in: Esistenzialismo e storicismo, cit.), cf. la nota a p. 408-409, in cui citando il noto libro di Marcel Raymond, Da Baudelaire al surrealismo, scrive: “in quest’opera è messo in luce in modo particolare il bisogno metafisico implicito nella poesia contemporanea”. E, riferendosi alla situazione italiana: “Profondamente esistenzialistico è il tono della poesia di Montale”. Ancora più malevolo era l’intervento già citato nel numero inaugurale dei “Quaderni della Critica” (1945). Nell’esordio Croce non esitava a ricorrere a un argomento bassamente politico, insinuando il dubbio che l’esistenzialismo, passato di moda nell’Italia liberata, potesse continuare “le sue nobili esercitazioni nell’Italia repubblicana [scil. la RSI]” (art. cit., p. 108; su questo punto cf. E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza, 19662, II, p. 540-41). E da ultimo si ricordino le note polemiche La personalità, in: “Quaderni della Critica”, II, 4 (1946), p. 110-11, contro Kierkegaard e Heidegger; Esistenzialismo e letteratura, ibid., II, 6 (1946), p. 104-105; “Mockphilosophy” e “Homephilosophy” con riferimento all’Italia, ibid., III, 7 (1947), p. 75-77, poi raccolte in: Nuove pagine sparse, I, cit., Postille, II. Problemi morali, p. 230-31; I. Estetica, p. 222; IV. Miti storiografici sui caratteri dei popoli, p. 147-50, sulla “provinciale proclività ad adottare le mode anche più scadenti, come si è veduto in quella dell’esistenzialismo”; L’odierno “rinascimento esistenzialistico” di Hegel, ibid., V, 15 (1949), p. 14-20, poi in: Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., p. 70-80, contro Jean Wahl e Jean Hyppolite. Si veda anche in: La storia come pensiero e come azione, cit., p. 92, l’accenno sprezzante a Kierkegaard, definito “uno scrittore, che è venuto in onore ai nostri giorni forse in ragione della sua completa ottusità filosofica e storica”, all’interno del paragrafo dedicato a Burckhardt, che si valeva ampiamente del libro di Löwith, Jacob Burckhardt. Der Mensch inmitten der Geschichte, Luzern, Vita Nova-Verlag, 1936, dalla cui interpretazione però si dissociava del tutto. Due anni prima, nel 1936, Croce aveva affidato a Ginzburg la traduzione per Laterza delle Weltgeschichtliche Betrachtungen, progetto poi non andato a buon fine. Il 7 marzo 1937, in una lettera a Croce, Ginzburg chiedeva in prestito il libro di Löwith appunto, cf. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, cit., p. 23.

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dizione […] che si tenga ben fermo che il mondo dell’esistenza […] sia considerato come forma esistenziale e non come forma spirituale”119. Chiaro è dunque che nulla o quasi era concesso alle argomentazioni della recensione polemica di Croce, polemica invero più di difesa che di attacco. Quando nel 1950 Paci ripubblicò i suoi scritti sull’esistenzialismo, vi appose una lunga Nota critico-bibliografica in cui ricapitolava i termini della diatriba, insistendo sul carattere di economicità e di singolarità inerenti alla categoria della vitalità120, sulla sua eteronomia rispetto alle altre forme con le quali, a suo parere, intrattiene un rapporto dialettico e non di distinzione121: La circolarità è da intendersi come direzione dalla vitalità verso la moralità e perciò […] come direzione verso il valore inteso come fine, per il quale la vitalità

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E. Paci, Introduzione, cit., p. 35. Significativo era pure il “taglio” dell’introduzione all’antologia curata da Paci per la collana diretta da Banfi “I filosofi”, Nietzsche, Milano, Garzanti, 1940, fondata sulle opere di Charles Andler, Ernst Bertram e Jaspers soprattutto, ma incentrata sul Così parlò Zarathustra, considerato un poema filosofico che anticipa le tematiche della filosofia dell’esistenza (in particolare le p. 72-73, cf. p. 73: “Zarathustra è colui che ha risolto in sé l’essere per la morte”, i corsivi sono nel testo). È degno di nota che l’intervento di Paci con cui si aprì la famosa Inchiesta sull’esistenzialismo in Italia, ospitata sulla rivista di Bottai, “Primato”, fra il 7 gennaio e il 15 marzo 1943, esordisse citando Kierkegaard e Nietzsche e ripetendo, talvolta alla lettera, passi dell’introduzione all’antologia del 1940, relativi all’interpretazione del superuomo. Addirittura, sul finire dell’articolo, in un luogo in cui afferma che “ritornando alla nostra finitezza fondata dalla nostra libertà […] per noi lo spirito potrà diventare opera e la vita destino”, L. Mangoni, “Primato”, 1940-1943. Antologia, cit., p. 471, chiude con una citazione implicita, “Exultabit solitudo et florebit quasi lilium”, un versetto di Isaia ricordato a proposito di Nietzsche nell’introduzione, p. 90. Un breve commento di Banfi all’inchiesta, Quasi per concludere, si trova nella rubrica Discussioni, in: “Studi filosofici”, IV, 1 (1943), p. 247-51, di seguito a una nota, Esistenzialismo, di Graziano Graziussi, p. 246-47. Da entrambe emerge un giudizio limitativo sull’esistenzialismo italiano, che con l’esistenzialismo tedesco “non aveva di comune […] che appunto il nome”. In particolare Banfi insisteva sull’importanza di Kierkegaard che “non era da ricercarsi in una teoria filosofica ma nella concreta sua radicale esperienza religiosa”, p. 248, in sostanza estranea alla cultura italiana. L’inchiesta è stata ripubblicata, L’esistenzialismo in Italia, c/ di B. Maiorca, Torino, Paravia, 1993. Sulla breve stagione dell’esistenzialismo italiano, oltre alla già menzionata monografia di Santucci, in particolare cf. p. 177-86, cf. E. Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., II, p. 479-81; 523; L. Mangoni, “Primato”, 1940-1943. Antologia, cit., Premessa, p. 5-21; A. Vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci, cit., p. 184-91. 120 Gli interventi di Croce al riguardo fino agli anni trenta sono raccolti in: Conversazioni critiche, serie quarta, Bari, Laterza, 19512, La teoria dell’Utile, la casistica e la coscienza morale, p. 115-63. 121 Esistenzialismo e storicismo, cit., p. 297: “Si vorrà dire che la vitalità non è razionale in quanto distinta, ma lo è in quanto unità? In questo caso di nuovo si dovrà ammettere che tra il non razionale e il razionale non c’è rapporto di distinzione, ma di continuità dialettica”. E più avanti, a p. 299, aggiungeva: “Sembra che, nelle sue ultime osservazioni sul concetto di vitalità, il Croce accetti implicitamente il nostro punto di vista”.

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deve essere domata e diventare mezzo e non essere considerata autonoma, e cioè valore essa stessa, al medesimo titolo delle forme. (ivi, p. 300)

Ora, vien fatto di domandarsi che senso avesse ripercorrerla in modo partecipe, senza il debito distacco storico, come faceva de Martino a circa vent’anni di distanza122, che nei suoi appunti cita tutti i principali lemmi bibliografici della polemica, raccolti in: Esistenzialismo e storicismo, riprendendo perfino un’espressione di Croce, “il mero esistenzialismo, crudo e verde”123, usata in quella remota recensione e anche in un articolo successivo, Del nesso tra vitalità e dialettica. Poscritto e un esempio. Si sa che i rapporti personali fra de Martino e Paci erano improntati a reciproca stima124, e in qualche momento erano sfociati in una fattiva collaborazione, ma ciò non pare sufficiente a spiegare la passione con cui lo studioso napoletano era ritornato a riesaminare una vecchia discussione, non del tutto dimenticata, sibbene ormai inattuale e passata in giudicato nella cultura italiana degli anni sessanta. L’unica risposta plausibile, almeno a mio avviso, sembra essere data da un riaccendersi, per così dire, degli interessi teorici che stavano alla base del Mondo magico. Scrivo “per così dire”, perché di 122

Nell’anno dell’impresa etiopica in cui, com’è ben noto, il regime raggiunse il massimo consenso, apparve uno studio che segnò l’ingresso ufficiale in Italia delle cosiddette filosofie della crisi, il celebre articolo di K. Löwith, La conchiusione della filosofia classica con Hegel e la sua dissoluzione in Marx e Kierkegaard, in: “Giornale critico della filosofia italiana”, XVI, II s., vol. III (luglio-ottobre 1935), p. 343-71, in cui è presentata la sua interpretazione della filosofia posthegeliana, poi ampiamente sviluppata nel suo libro più noto, Da Hegel a Nietzsche (1941). Nello stesso 1935 Löwith tenne una conferenza su Lettura e interpretazione di Nietzsche (cf. V. Farias, Heidegger e il nazismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1988, p. 249) all’Istituto italiano di studi germanici, fondato nel 1932 grazie all’iniziativa determinante di Gentile (cf. G. Turi, Giovanni Gentile: una biografia, Firenze, Giunti, 1995, p. 436-37). Il Löwith, come tutti i docenti di origine ebraica, era stato privato dell’insegnamento e, beneficiando di una borsa della Rockfeller Foundation tra il 1934 e il 1936, aveva trovato, come altri, un rifugio precario in Italia, dove aveva conosciuto Gentile, il che spiega probabilmente la sede della pubblicazione. Sul clima culturale e politico italiano di quegli anni sono istruttive le osservazioni nel suo scritto autobiografico del 1940, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano, Il Saggiatore, 1988, in particolare il paragrafo Italiani e tedeschi, p. 114-18. 123 Secondo Alessandro Savorelli, si tratta di un’“immagine mutuata probabilmente da Ferdinando Galiani”, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Edizione nazionale, Saggi filosofici XIII, c/ di A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1998, Nota al testo, p. 317. 124 Paci ospitò nella rivista “aut aut”, VI, 31 (1956), p. 17-38, il saggio Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, e partecipò a una breve commemorazione, Ricordo di Ernesto De Martino, colloquio tra E. Paci, C.D. Levi Carpitella, G. Jervis, in: “Quaderni dell’ISSE”, 1 (1966), p. 5-14. Si veda anche E. Renzi, Commento a “Sulla fenomenologia della religione”. Una lettera inedita di Enzo Paci, in: Enzo Paci e Paul Ricoeur in un dialogo e dodici saggi, Milano, ATìeditore, 2010, p. 125-140; Id., Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, vol. 80, 2014, ad vocem.

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fatto essi, come si è visto, non si erano mai spenti, benché apparissero offuscati nella produzione del folclorista e del meridionalista, così evidentemente influenzata dal pensiero di Gramsci. In un lungo appunto sull’ethos del trascendimento De Martino muoveva una critica di fondo all’identificazione proposta da Paci tra l’esistenza e la forma utilitaria crociana: La soluzione del Paci […] è inaccettabile per due ragioni, la prima delle quali è la seguente. L’utile, il vitale, l’economico appaiono nella formulazione crociana avvolti da una certa confusione, poiché viene stretta insieme in una stessa denominazione categoriale sia la vitalità “cruda e verde” priva di qualsiasi educazione ulteriore, sia la plasmazione economico-sociale che invece costituisce un valore intersoggettivo, un certo progetto comunitario storicamente determinato di soddisfare i bisogni in modo relazionato. Ora tale plasmazione economico-sociale è tanto poco assimilabile alla vitalità […] che ogni regime economico-sociale è un assai complesso organismo di tecniche produttive, di compiti lavorativi […] di raggruppamenti sociali e di rapporti fra di essi. La qualità e la quantità dei bisogni individuali, il modo di soddisfarli o di rinunziarvi […] non possono prescindere dal sistema economico-sociale nel quale i singoli vivono […]. La seconda ragione che rende inaccettabile la teorizzazione di Paci è che ove si concepisca l’utile come materia delle forme spirituali non si facilita affatto la comprensione del passaggio a queste forme, poiché resta oscuro proprio ciò che induce a far passare la materia esistenziale alle forme spirituali125.

La nota critica, che è riassunta poco dopo in modo liquidatorio126, ricorda le osservazioni sopracitate dal I capitolo di Morte e pianto rituale nel mondo antico, e trova riscontro in un’altra dello stesso quaderno, relativa a un luogo di Il nulla e il problema dell’uomo, in cui de Martino rimprovera a Paci la “Confusione fra “persona” “utile” “esistenza” “sentimento” […] messi tutti insieme nello stesso sacco” (ivi, p. 68). Di qui l’objezione: “La corporeità, la individualità biologica, […] la maturazione della sessualità, etc. appartengono alla sfera della vita, ma l’ordine economico-sociale […] la produzione di strumenti (o di macchine) che prolunghino, sostituiscano, intensifichino le potenzialità corporee umane […] tutto ciò è forma culturale e non natura” (ivi). Qui è chiara l’influenza di Marx, il cui nome ritorna soltanto due volte in questi appunti, ma al quale sono dedicate varie annotazioni in: La fine del mondo, nel cap. IV, Il dramma dell’apocalissi marxiana. Nel capitolo, 125

Quaderno 3 ab, in: E. de Martino, Scritti filosofici, cit., p. 62-63. “È da ritenere dunque che la materia esistenziale sia affatto impotente ad assolvere le funzioni dinamiche che il Paci le assegna, e che la forza oltrepassante non sia la crociana ‘vitalità’ né la ‘materia esistenziale’ del Paci, ma forza etica, ethos del trascendimento” (ivi, p. 64, corsivo nel testo). 126

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stando almeno all’ordine dato dall’editore, de Martino si avvicina progressivamente al giovane Marx (i testi più presenti sono i Manoscritti economico–filosofici e l’Ideologia tedesca). Corre l’obbligo di rilevare che in un altro appunto del Quaderno di Torre a mare si legge: “Il mondo è l’operabile anche in senso più profondo, cioè nella sfera stessa dei bisogni. Nutrirsi e riprodursi, fame e sessualità, denunziano la vita: ma ci si nutre in tanti modi, il cibarsi è culturalmente plasmabile” (ivi, p. 42-43), parafrasi quasi letterale di un passo dell’Ideologia tedesca trascritto nella Fine del mondo127. Quando de Martino usa i termini di “utilizzabile”, “operabile” e via dicendo, si rifà naturalmente alla Zuhandenheit heideggeriana, ma l’accento, mi sembra, batte altrove, sulla vita economico-sociale intesa come la forma prima del cosiddetto ethos del trascendimento: “Il primo dovere del trascendere è l’uscir fuori: il porsi con gli altri, fra gli altri, in una relazione comunicante e in un mondo utilizzabile. La vita economico-sociale è la forma di questo uscir fuori”128. Vi è però un’ambiguità di fondo. Dopo aver citato la conclusione dell’articolo di Paci del 1941, che appunto diede l’avvio alla polemica con Croce, sul significato filosofico più alto dell’esistenzialismo, ossia “di avere riposto, di fronte alla riduzione hegeliana, il problema del finito, della persona, del nulla”129, de Martino aggiunge questa chiosa: “l’esistenzialismo ha il significato storico di segnalare una ‘crisi’ dei valori della società borghese” (ivi). Non occorre possedere antenne particolarmente sensibili per avvertire in queste parole un’eco della critica di Lukàcs130, menzionato una sola volta e probabilmente avendo presente Esistenzialismo o marxismo? piuttosto che La distruzione della ragione, mai citata 127

La fine del mondo, cit., p. 424: “Il primo presupposto di ogni esistenza umana […] (è che) per poter ‘far storia’ gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma vivere implica prima di tutto il mangiare e il bere […]. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente una azione storica”. 128 Scritti filosofici, cit., p. 30-31. È interessante notare, anche a livello di contaminazione terminologica, questo passo di La fine del mondo, cit., p. 434: “Il secondo motivo di vero della teoria marxiana è racchiuso nella posizione privilegiata che vi assume l’attività economica, il progetto comunitario dell’utilizzabile. In effetti la testimonianza inaugurale con cui il doverci-essere nel-mondo si manifesta (il testimoniare in concreto appartiene allo stesso ethos trascendentale del trascendimento della vita nel valore) è costituito dal modo di produzione dei beni materiali e della forma della società”. 129 Ivi, p. 30. La citazione di Paci è tolta da Esistenzialismo e storicismo, cit., p. 30. Nell’articolo in rivista si trova a p. 150. 130 Ivi, p. 13: “Occorre, con estrema cautela, approfondire e svolgere i motivi di vero racchiusi nel giudizio critico di Lukács sull’esistenzialismo: essere cioè questo movimento la filosofia della società borghese, dell’individuo alienato nella comunità, l’autocoscienza del Privatmensch”. Giudizio che sembra ricordare un altro pensatore marxista, certo non sospetto di simpatie lukacsiane, Galvano Della Volpe, cf. La libertà comunista, Ferrara, Messina, 1946, p. 184.

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in: La fine del mondo. Insomma, ci troviamo dinanzi a temi largamente diffusi nella cultura dei primi anni sessanta, qui ripresi, mi sembra, senza eccessiva originalità131. Spicca in questi appunti contraddistinti dalla grande attenzione prestata al pensiero e alle opere di Paci, l’assenza di ogni riferimento a Ingens sylva, il libro dedicato a Vico, che compare una sola volta, se ho visto bene, in un elenco degli scritti del filosofo132. Come spiegare questo silenzio in un libro dal quale invece si traggono vari spunti per una fenomenologia del mito? Sono note le condizioni eccezionali in cui maturò la ricerca né strettamente storica né filologica sul filosofo napoletano. Paci133 stesso racconta come, prigioniero nel Lager di Sandbostel nella Bassa Sassonia, s’imbatté “miracolosamente” in una copia del libro di Fausto Nicolini La giovinezza di Giambattista Vico 134 che, letto e riletto, lo spinse a riscoprire il filosofo e a riflettere di nuovo intensamente su Croce e sulle questioni inerenti alla categoria dell’utile135. Il Vico di Ingens sylva136 è un filosofo per più versi “contemporaneo”, immerso in un mondo violento che ricorda senz’altro la barbarie e gli orrori del presente feroce, come confessava l’autore stesso: “Ne-

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Fra l’altro, in tanto insistere sul processo di valorizzazione intersoggettiva, sull’esistenza che “è l’essere come dover essere dei valori” (ivi, p. 17, corsivi miei), mi pare sfuggire a de Martino che già Paci nell’articolo Il significato storico dell’esistenzialismo aveva scritto qualche cosa di simile: “La vita dello spirito, nelle opere in cui si concreta e si afferma, trasforma l’esistente in valore” (art. cit., p. 149). D’altronde, sembra riecheggiare certe formule di Abbagnano. Si veda, per esempio, il suo scritto Repliche ai contradditori, che conclude la nota inchiesta sull’esistenzialismo in “Primato”: “su tale problematicità deve vertere l’analisi esistenziale perché in essa solo è la possibilità e la libertà dell’impegno per il quale l’uomo si costituisce a dover essere e valore”, “Primato”, IV, 6 (15 marzo 1943), p. 103-104, ora in: L. Mangoni, “Primato”, 1940-1943. Antologia, cit., p. 484-94, cf. p. 487 (corsivi miei). 132 Scritti filosofici, cit., p. 46. 133 Nella prima lettera indirizzata a Nicolini, il 19 novembre 1948, in: Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, c/ di A. Vigorelli, p. 103-104. 134 F. Nicolini, La giovinezza di Giambattista Vico (1668-1700). Saggio biografico, Bari, Laterza, 1932. È lo stesso Paci a scriverlo a Nicolini nella lettera del 19 novembre 1948, in: Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, cit., p. 103-4. 135 Una descrizione sommaria del Diario del Lager si trova in: A. Vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci, cit., p. 219. 136 Nella lettera a Croce del 27 settembre 1948 Paci spiegava la ragione del titolo: “Ho scritto un saggio su Vico dal titolo Ingens sylva (la gran selva della barbarie sempre risorgente)”, in: Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, cit., p. 98. Il termine ricorre anche nel paragrafo di Mito ed esistenza dedicato al Mondo magico, in cui Paci, fra l’altro, scrive: “La barbarie sempre minacciosa, l’idra di Lerna vichiana, è proprio la perdita delle categorie che costituiscono l’uomo nella sua storicità” (Il nulla e il problema dell’uomo, cit., p. 126). In Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 13, de Martino citerà con approvazione proprio questo periodo.

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gli anni passati in Germania, in un campo di concentramento, la grande ombra di Vico venne a trovarmi e mi sembrò di sentire che tutta la sua opera era stata una lotta ‘eroica’ contro la ingens sylva della barbarie”137. Certo, Paci rielabora suggestioni ricavate dal libro di Nicolini, com’è dimostrato, a tacere d’altro, dalle pagine iniziali, dedicate al periodo di Vatolla e all’analisi della prima canzone, Affetti d’un disperato138, ma riconnettendosi al tema, più volte affrontato nel dialogo con Croce139, il rapporto dell’utile con le altre forme dello spirito. “La politica sembra legarsi per lui a un mondo aspro e duro che nega l’idea”140, così si legge al principio del libro, che tratteggia il ritratto di un pensatore profondamente pessimista, non privo di venature materialiste. Al di là di certe forzature, com’è il caso del riferimento a Novalis141, peraltro 137

Lettera cit. a Nicolini, in: Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, cit., p. 103. 138 G. Vico, L’autobiografia. Il carteggio e le poesie varie, seconda edizione riveduta e aumentata c/ di B. Croce e F. Nicolini, Bari, Laterza, 1929, p. 313-17. Croce, sul finire della vita, scrisse il proemio alla riproduzione in pochi esemplari, c/ di C. del Franco, Affetti d’un disperato. Canzone riprodotta dalla stampa originale del 1693, Napoli, Philobiblon, 1948, p. 7-22, proemio edito anche in: “Quaderni della Critica”, V, 13, 1949, p. 97-103, col titolo Gli “Affetti d’un disperato”. Canzone di G.B. Vico, cf. specialmente p. 102 per i riferimenti a Lucrezio. Copia delle bozze del proemio fu inviata da Croce a Paci, cf. Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, cit., lettere del 4 e 15 ottobre 1948, p. 99-100. Si veda nel saggio biografico del Nicolini soprattutto il cap. VI, Studi di autoperfezionamento: Filosofia, nel quale è posto l’accento sull’importanza del De rerum natura nella formazione di Vico: “Di certo, allo stato dei documenti, nessuno può giurare che proprio l’ateismo lucreziano […] riuscisse a scuotere momentaneamente in lui quella fede cattolica che, di mano in mano che egli progrediva negli studi, si venne facendo […] sempre più piena, più adamantina, più ottimistica. Ma è un fatto che, al tempo stesso che leggeva Lucrezio, compose (1692) e pubblicò (1693), guardandosene poi dal farne menzione nell’Autobiografia, gli Affetti d’un disperato, ossia una canzone che un fervido credente non avrebbe scritta nemmeno per esercitazione letteraria. Giacché in essa […] è oggettivato, con un pathos che non si ritrova più nei suoi versi posteriori, un pessimismo così cupo, una disperazione così straziante […] da fare del Vico di quella canzone, se non proprio un antenato poetico di Giacomo Leopardi (del quale tuttavia si presente qualche motivo), certo l’antitesi più perfetta di quel poeta, oltre che teorico e storico della Provvidenza, che sarà il Vico della Scienza nuova”. La giovinezza di Giambattista Vico (1668-1700). Saggio biografico, Bologna, il Mulino, 1992, [ristampa anastatica della prima edizione, in soli cento esemplari fuori commercio, estratti dagli “Atti dell’Accademia Pontaniana”, LXI (1931), Napoli, Accademia Pontaniana, 1932] p. 69. 139 A Croce Paci inviò in lettura le bozze del libro, come si ricava dalla lettera del 27 settembre 1948. Cf. A. Vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci, cit., p. 225. Risulta che Croce avesse letto il libro poco dopo, cf. l’annotazione del 16 novembre 1948 nei Taccuini di lavoro, VI, 1946-1949, cit., p. 235: “Letto per darne parere un libro di E. Paci sul Vico”. 140 Ingens sylva. Saggio sulla filosofia di G.B. Vico, Milano, Mondadori, 1949, p. 10. 141 Ibid., cf. p. 43 e 89.

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un autore verso il quale si accese l’interesse di Paci142 nell’immediato dopoguerra, e più in generale del tentativo di leggere Vico in una prospettiva trascendentale, non immemore del neokantismo in cui si era formato il suo maestro Banfi, Ingens sylva si segnala ancor oggi per lo sforzo di interpretare il filosofo in una prospettiva ormai postcrociana e palesemente tributaria nei riguardi delle correnti culturali contemporanee prevalenti. Da Croce lo separa il diverso giudizio su Vico “scopritore” dell’estetica, che presenta punti di contatto preterintenzionali, com’è ovvio, con la posizione di Pavese, consegnata ad alcune pagine dell’allora inedito diario, e l’accento posto sul pessimismo di Lucrezio143, considerato insieme a Tacito, l’altro grande autore latino di Vico. Ma de Martino poteva trovare suggestivi in modo particolare i capitoli Mito e arte, e Mito e filosofia, il che in effetti non sembra avvenuto più che tanto. Dal primo si ricavano affermazioni, che costituiscono il nerbo dell’interpretazione complessiva della gnoseologia vichiana: “Fantasia e mito appaiono, si è detto, nel pensiero vichiano, come mediazione del dualismo: il pensiero puro nella sua forma astratta, si fa sempre, nella concretezza della sintesi, visione, idea, nel suo senso di modello e di emblema”144. Il mito, nell’interpretazione che Paci dà della Scienza nuova in ispecie, non costituisce soltanto questa o quella mediazione, “ma contiene in sé, nella sua sintesi 142

Si pensi all’Introduzione ai Frammenti, Milano, Istituto editoriale italiano, 1948. “Il mio Vico è molto lucreziano (forse troppo!)”, così scriveva Paci nella lettera cit. a Croce del 27 settembre 1948, in: Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, cit., p. 98. Il vecchio studioso di Vico, di rimando, riconosceva che Lucrezio era “stato uno dei suoi autori o delle sue fonti”, lettera del 4 ottobre 1948, ivi, p. 99, i corsivi sono nel testo, ma subito aggiungeva che “le fonti sono fonti e vengono superate nel pensiero geniale e creatore del Vico” (ibid.). A chi è noto il significato riduttivo attribuito da Croce al termine “fonte”, fin dai primi anni del Novecento, questo riconoscimento non potrà che apparire dimidiato. Il libro di Paci era stato apprezzato e lodato da Croce nella lettera del 18 novembre 1948, ivi, p. 101-102, pur fra riserve sostanziali. Sintomatico è anche questo giudizio di Nicolini nella bibliografia relativa alla sua edizione, G. B. Vico, Opere, MilanoNapoli, Ricciardi, 1953, p. XLIII: “Uno storicista non può al certo plaudire alle conclusioni paradossali a cui, con ragionamenti sottili ma sofistici, perviene esistenzialisticamente l’esistenzialista Ezio [sic] Paci in Ingens sylva (1949): il che non impedisce che questo libro, scritto con vivacità e rivelante nell’autore un ingegno deviato ma acuto, si legga con piacere”. 144 Ingens sylva, cit., p. 145, (corsivo nel testo). Già nelle prime pagine del libro Paci aveva osservato: “Ma, prima, il sentire penetra nell’oscura zona della psiche, che ricorda senza sapere, che ricorda oscuramente, che ricorda e non sa di ricordare, come noi ricordiamo nel nostro inconscio, secondo Jung, gli eterni miti dell’umanità primitiva che conserviamo in noi. L’oscura memoria sarà il mito”. Ingens sylva, cit., p. 27 (corsivi nel testo). Paci, durante il suo primo incarico universitario, a Padova nel 1942, tenne un corso libero di psicologia, in cui tentava “di accostare, seguendo indicazioni junghiane, la filosofia presocratica e il mito, interpretato in senso psicanalitico” (A. Vigorelli, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci, cit., p. 173. Cf. anche le considerazioni di A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, cit., p. 237-40). 143

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immaginativa, il substrato di ogni sapere e di ogni attività”145. Il mito, in altre parole, diventa, come spiega più innanzi, fondamento di ogni fenomenologia della religione prima ancora che della società. Attribuendo a Vico la scoperta di “un’implicita e spesso esplicita teoria filosofica del mito”146, Paci giungeva a un’attualizzazione del filosofo napoletano, ritenuta probabilmente eccessiva da de Martino, che forse si sarà riconosciuto a stento in un Vico il quale “ha intravisto il mondo dell’inconscio con i suoi terrori e i suoi complessi studiato dalla scuola di Freud, […], la teoria del mito che nasce dall’inconscio collettivo di Jung […] ha precorso la visione dei grandi miti vegetativi di Frazer senza cadere nei suoi limiti; […] il sociologismo di Durckheim [sic] e la teoria della “partecipazione” di Lévy-Bruhl; […] ha infine capito la funzione preteoretica del mito e il sorgere delle categorie logiche da quelle mitiche, anticipando, tra gli altri, il Cassirer”147. Nel Mondo magico Vico è citato soltanto una volta, in limine, nella sola nota alla fine della Prefazione148, ma per segnare la distanza tra il filosofo napoletano 145

Ingens sylva, cit., p. 155. Ivi, p. 165. Nella più volte citata lettera a Croce del 27 settembre 1948 Paci affermava d’insistere “molto sul concetto di mito e sul rapporto natura-politica-momento economico”, in: Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, cit., p. 98. 147 Ibid,. p. 166. Tolto quanto di esagerato e, oserei dire, di arbitrario è insito in questa onnicomprensiva enumerazione, restano significativi i riferimenti, corroborati anche in nota, ad autori che direttamente o più spesso indirettamente hanno esercitato un’influenza evidente sulle scelte della collana viola: le “opere fondamentali di Lévy-Bruhl”, La fisiologia del mito di Untersteiner, di cui è noto l’apprezzamento di Pavese, cf. la sua lettera del 20 novembre 1947 al filologo classico, in: C. Pavese, Lettere 1945-1950, c/ di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1966, p. 195, e Das Mythische Denken, il secondo volume della trilogia di Cassirer, che ho più volte ricordato. Né manca altrove anche il richiamo alle due coeve “opere prime” di Remo Cantoni e di de Martino. Nelle pagine sul Mondo magico nel saggio Mito ed esistenza, in: Il nulla e il problema dell’uomo, cit., Paci riprendeva e compendiava una delle tesi fondamentali di Ingens sylva: “Il dramma esistenziale di cui parla il de Martino è il dramma eterno della storia come pensiero e come azione, o, come Vico l’intendeva, il dramma del dualismo tra la ragione e la barbarie, tra lo spirito e la natura” Mito ed esistenza, cit., p. 127. Su questo saggio si leggono sempre utilmente le pagine di Cases, anche se non scevre di un sarcasmo eccessivo, sulle “due filosofie perenni dell’idealismo e dell’esistenzialismo positivo”, Introduzione a de Martino, Il Testimone secondario, cit., p. 152-53, cf. p. 153. 148 Il mondo magico, cit., p. 13. Si cita il capoverso 378 dei Principj di scienza nuova, l. II, Della sapienza poetica, [Sezione prima. Metafisica poetica], [capitolo primo] Della metafisica poetica, che ne dà l’origini della poesia, dell’idolatria, della divinazione e de’ sagrifizi, in: G.B. Vico, Opere, c/ di F. Nicolini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953, p. 504-505, per auspicare che Il mondo magico possa avviare “la comprensione di quel mondo di cui Vico disperava che si potesse mai fermare l’immagine”. Si cita poi il capoverso, di cui la frase essenziale è la seguente: “Ci è naturalmente niegato di poter formare la vasta immagine di cotal donna che dicono ‘natura simpatetica’”. La stessa frase è citata da de Martino in un’importante lettera a Omodeo del 20 ottobre 1940 nella quale annuncia di avere intrapreso i suoi studi sul magismo, cf. Dal laboratorio del “Mondo magico”. Carteggi 1940-1943, cit., p. 48-50, e nella recensione a I primitivi di Cantoni, apparsa in: “Studi filosofici”, cf. 146

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e la propria ricerca sul magismo come età storica, la cui comprensione era stata manchevole non solo in lui ma proprio in quegli studiosi già oggetto di una sostanziale stroncatura in Naturalismo e storicismo nell’etnologia149. Nell’interpretazione di Paci, invece, Vico diventava addirittura il loro precursore! Dopo questo indugio sugli Scritti filosofici postumi di de Martino, che spero non sia stato né inutile né soverchio, è tempo di ritornare all’Epilogo di La fine del mondo, per trarne almeno qualche conclusione provvisoria. Nonostante il mutamento complessivo intervenuto nella cultura della seconda metà del secolo, i termini del confronto filosofico di de Martino sembrano ancora quelli della sua giovinezza. Una sottile trama continua lega i temi più profondi della sua riflessione, fin dall’esordio, per culminare nel Mondo magico e in Morte e pianto rituale nel mondo antico, libro quest’ultimo soltanto in parte ascrivibile alla ricerca etnografica nel Mezzogiorno, e riemerge prepotentemente, dopo la lunga fase meridionalistica e “gramsciana”150, nell’ultima opera, rimasta interrotta dall’immatura scomparsa. Del resto, anche le sue letture di testi letterari relative, almeno in senso lato, al tema delle apocalissi culturali, appaiono datate e tratte soprattutto dalla narrativa francese degli anni quaranta. Le opere più citate nell’Epilogo della Fine del mondo, infatti, non per caso sono La nausea, il testo più commentato, Lo straniero, Il mito di Sisifo. E oggi le note critiche appaiono spesso singolarmente sfocate: de Martino prende le mosse da Rimbaud, riletto sulla scorta dello studio postumo di Rivière (1930) e di un troppo celebre libro di Hugo Friedrich (La struttura della lirica moderna), per interpretarne l’opera alla luce della “rivolta contro lo scientificismo in quanto pretesa della totale spiegabilità scientifica dell’universo e dell’uomo” (ivi, p. 507), il che sembra, a dir poco, una chiave di lettura troppo riduttiva. Ma accade di peggio. Subito dopo è ricordata La lettera di Lord Chandos. Il testo, che poteva suggerire ben altre riflessioni, è letto come un documento “che esprime lo stato d’animo dei decadenti del principio del Novecento” (ivi, p. 510). Tali genericità, per non dire banalità, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., Appendice, 3. Recensioni, rec. cit., p. 312. Dal confronto col testo edito da Nicolini risulta un’omissione interessante. Nel passo citato da de Martino infatti tralascia una frase significativa, qui tra parentesi uncinate: “Così ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualizzate, <perch’erano tutte immerse ne’ sensi,> tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi”. 149 Al contrario, in questa opera ricorre più volte all’auctoritas della Scienza nuova, citando in successione i capoversi 504-19, 338-40, 933-34. 150 Interessante è la lunga nota critica sui limiti della “filosofia della prassi” in: La fine del mondo, cit., p. 439-41.

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stupiscono in un intellettuale dalla cultura raffinata e dalla sensibilità lontana da ogni primitivismo ideologico. Eppure non pare che si possano attribuire soltanto allo stato provvisorio di un’opera incompiuta e stesa probabilmente quando l’autore era già minato dal male inesorabile. Di Mann cita soltanto La morte a Venezia, su cui si sofferma a lungo, ed è ben curioso, se si pensa all’importanza del mito nella trilogia di Giuseppe e al dialogo con Kerény, più di un decennio prima così presente invece a Pavese151 e a Paci152, che in 151 Degno di nota è questo riferimento allo scrittore italiano nella lettera di Mann a Giulio Einaudi del 28 giugno 1953: “Quanto mi ha commosso la Sua descrizione della sorte di tutti questi martiri della loro idea! […] Stranamente familiare mi è parsa la citazione della lettera di Pintor a suo fratello. “Senza la guerra io sarei un intellettuale legato a problemi prevalentemente letterari” ecc. Per me, che sono di tanto più anziano, fu già la prima guerra mondiale ad assolvere la funzione che per questi giovani ha avuto la seconda. La crisi della mia vita trovò la sua espressione nelle ‘Considerazioni di un apolitico’; e dopo di allora non ho mai cessato di contrapporre, alla concezione apolitica della cultura propria dei miei connazionali, i Tedeschi, la totalità del fatto umano, dell’umanesimo che necessariamente include anche l’elemento politico. Altra cosa, certo, è la politica totalitaria, che il comunismo professa e impone. Chi non avrebbe i suoi dubbi sulla capacità e opportunità pedagogicoculturale di una burocrazia comunista? […] Questi dubbi mi hanno sempre tenuto lontano dal mondo ideologico comunista […]. Ma io mi chiedo, ad esempio, come Pavese, col suo interesse per ‘i temi più delicati e complessi della filosofia contemporanea’ e la sua tendenza al mito, si raffigurasse e la sua tendenza al mito, la sua vita personale in un’Italia sotto disciplina comunista, nella camicia di forza della dogmatica comunista. Credeva, forse, che certe sue sublimi passioni secondarie, tra cui il suo debole per le mie storie di Giuseppe, sotto il dominio comunista gli verrebbero permesse? Sarebbe stata un’ingenuità…[…] Pavese, forse, per amor della salvezza era disposto a grandi sacrifici intellettuali”. Th. Mann, Epistolario 1889-1936, Lettere a italiani, con un’introduzione di L. Mazzucchetti, Milano, Mondadori, 1963, p. 714-15 (corsivo nel testo). Naturalmente Mann cita la ben nota ultima lettera di Giaime Pintor al fratello Luigi, in: Il sangue d’Europa, c/ di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1950. 152 Scorrendo la Bibliografia degli scritti di Enzo Paci, c/ di A. Civita, “Introduzione” di M. Dal Pra, Firenze, La Nuova Italia, 1983, si scopre che il primo articolo sul romanziere tedesco risale addirittura al 1936 (ma nell’Indice dei nomi appare la data del 1935), L’ultimo Mann, in: “La Nuova Italia. Rassegna critica mensile della cultura italiana e straniera”, VII, 8-10, p. 218-22, sulle prime due parti delle Storie di Giuseppe, Le storie di Giacobbe e Il giovane Giuseppe (tradotte da Gustavo Sacerdote e uscite nella “Medusa” di Mondadori, nel 1933 e nel 1935), cui, secondo il giovanissimo autore, “è assolutamente impossibile negare il valore estetico e direi quasi lirico, […] specialmente del ‘Giovane Giuseppe’” (p. 220). “Il mito – continua Paci – […] è il punto di fusione tra pensiero e fantasia” (ibid.). Il romanzo è centrale anche nel saggio Due momenti fondamentali dell’opera di Thomas Mann, nel numero monografico di “aut aut” dedicato a Mann scomparso nell’agosto di quell’anno, V, 29 (settembre 1955), p. 423-39, che uscì insieme con l’altro, L’ironia di Thomas Mann, ivi, p. 363-75, uno dei suoi scritti manniani più significativi, in particolar modo il primo, attento a cogliere le relazioni fra Hans Castorp e la figura di Giuseppe: “Il filo di salvezza lasciato a Castorp è la possibilità di salvarsi dalla sua “aventure dans le mal”. L’avventura di Castorp sarà per Giuseppe il pozzo in cui lo gettano i fratelli, l’esilio nell’Egitto terra dei morti, […] la riforma sociale nella terra egiziana, la restituzione a Giacobbe e la salvezza di Israele. […]. L’armonia è una conquista, un compito inesauribile e una possibilità sempre aperta: la sua

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uno dei suoi primi saggi dedicati allo scrittore, Thomas Mann e la filosofia153, osservava finemente: nell’Abramo di Giuseppe e i suoi fratelli e nel suo “patto” si uniscono indissolubilmente la santificazione di Dio e quella dell’uomo e cioè, ancora una volta, l’immanenza e la trascendenza, la necessità e la libertà. Necessità e libertà perché l’uomo vive in piena libertà una vita già predestinata, una vita già vissuta innumerevoli volte, una vita già codificata nel mito, che sempre viene rivissuto e reincarnato dall’uomo, che rivive così in realtà sempre la stessa avventura, lo stesso mito nell’umano […]. È questa certamente l’idea centrale del mito di Giuseppe154.

possibilità si rivela nel sogno di Castorp (nel capitolo Neve), come una rivelazione subito perduta, ma essa vien attuata esteticamente […] nella figura di Giuseppe. Per questo abbiamo detto che il sogno di Castorp e il colloquio di Giuseppe col Faraone, la elezione di Giuseppe descritta nel capitolo Il pergolato cretese, debbono essere considerati come punti chiave di tutta l’opera di Mann”, E. Paci, Kierkegaard e Thomas Mann, cit., p. 239. Il rapporto con La montagna incantata era abbozzato fin dall’articolo del 1936. Il fascicolo della rivista comprendeva inoltre i contributi di F. Lion, Thomas Mann come filosofo, p. 376-83; G. Cambon, Felix Krull si confessa, p. 384-99; L. Mazzucchetti, Ricordo di Thomas Mann, p. 400-401; R. Sanesi, Omaggio a Tonio Kröger, p. 402-405; G. De Toni, Al lettore di Zauberberg, p. 405-22; G. Cives, Verità, bellezza e psicologia in Nobiltà dello spirito, p. 440-57. Paci vi pubblicò anche tre brevi recensioni a H. Mayer, Thomas Mann, Torino, Einaudi, 1955, ivi, p. 458-60; a una conferenza di C. Cases tenuta per la Settimana del libro Einaudi, in: “Notiziario Einaudi”, IV, 6-7 (1955), p. 7-9, Thomas Mann e lo “spirito del racconto”, ivi, p. 460-61; e infine al numero monografico Omaggio a Thomas Mann di “Il Ponte”, XI, 6 (1955), ivi, p. 461-63. L’interesse per lo scrittore accompagnò Paci per gran parte della vita (gli ultimi lavori sono l’articolo Memoria e presenza di Buddenbrook, in: “aut aut”, XIII, 78 (1963), p. 7-27, e l’“Introduzione” alle Opere, Torino, UTET, 1964, che contiene, oltre al primo romanzo, i saggi su Tolstoj, Wagner e Goethe). Tutti, tranne il più antico, sono stati ristampati in: E. Paci, Kierkegaard e Thomas Mann, cit. 153 “Studi filosofici”, VII, 2 (1946), p. 97-114, ristampato per la prima volta in: Esistenza ed immagine, Milano, Tarantola, 1947, di cui costituisce il secondo capitolo. Il libro fu inviato a Mann che rispose nella lettera dell’8-12 agosto 1950, notevole per il giudizio sulle Storie di Giuseppe, “non tanto lontane dall’‘Ulisse’”, e per le numerose notizie sulla genesi del Doktor Faustus. La lettera, insieme con quella del 15 novembre 1950, è stata pubblicata da Lavinia Mazzucchetti in: Lettere a italiani, cit., p. 693-98. Nella scheda introduttiva la Mazzucchetti cita un appunto del filosofo in cui afferma che il suo primo articolo su Mann fu pubblicato nel numero di “La Nuova Italia” dell’agosto-ottobre 1935 e non del 1936, ma si tratta evidentemente di un lapsus. Sull’importanza di Mann nella cerchia banfiana, con particolare riguardo a Antonia Pozzi, cf. F. Papi, Vita e filosofia. La scuola di Milano Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Milano, Guerini e Associati, 1990, p. 115-18. Su Banfi e sulla sua scuola si veda anche la testimonianza di Maria Corti in: Dialogo in pubblico. Intervista di C. Nesi, Milano, Bompiani, 2006, in special modo le p. 27-32 (l’intervista risale al 1992-94). 154 E. Paci, Kierkegaard e Thomas Mann, cit. p. 232-33.

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Certo, si può objettare che la prospettiva da cui si pone de Martino è diversa, interessandogli qui più il momento della crisi che quello del suo trascendimento nel mito. Ma riesce difficile soffocare l’impressione che Thomas Mann sia per lui soprattutto il “figurino” del decadente che civetta in modo ambiguo con la cosiddetta decadenza di cui in buona sostanza è complice. Per contro, se di Kafka menziona soltanto i tre romanzi con una breve bibliografia, de Martino si sofferma a lungo su David Herbert Lawrence, di cui trascrive (pour cause!) ampi brani tolti da un saggio scritto poco prima della morte, Apocalypse, fra l’altro uno molto caratteristico sulla rinascita del “grande cosmo vivente” del paganesimo. Che de Martino riporti questo passo155 sul sole cosmico degli antichi importa naturalmente più un giudizio culturale che critico-letterario, come del resto in tutte queste pagine. Infatti il luogo in questione è citato con apprezzamento e consenso evidenti da Kerény in apertura delle Figlie del sole, uno dei primi volumi della collana viola156, come ricorda in una scheda più avanti157. L’enfasi posta da Lawrence sulla “whole consciousness”, non solo intellettuale, ma scaturente dal senso di appartenenza all’intero universo, psichico e fisico, aveva anche risonanze junghiane, il che spiega probabilmente la sua fortuna in Kerény. Ma in de Martino, vigile e occhiuto censore di ogni cedimento all’irrazionale? Ancora una volta emerge in tutta chiarezza la sua ambivalenza, certo non influenzata da Pavese, verso certe tematiche tenute in grande sospetto dalla cultura italiana degli anni cinquanta. E, ripeto, l’orizzonte letterario della Fine del mondo resta chiuso entro quel decennio, con due uniche eccezioni notevoli, La noia, che però è considerata in stretta connessione con alcune celebri opere precedenti (Gli indifferenti, Agostino, La disubbidienza) e soprattutto Aspettando Godot. Ma nelle numerose annotazioni dedicate a La nausea e a Lo straniero non mi sembra che de Martino vada al di là di un commento tanto puntiglioso quanto ripetitivo, incentrato sui motivi di più accusata negatività: il senso di estraneità al mondo, la perdita del familiare, il sentimento dell’assurdo, e via dicendo. Nei due romanzi tuttavia interessa non tanto il valore letterario 155 La fine del mondo, cit., p. 516. Non specifica se è sua la traduzione o se invece cita dalla 1ª ediz. italiana, Milano, Mondadori, 1947 (tr. Ernesto Ayassot). 156 “Nessuno descrive con tanta efficacia la nostra situazione – la situazione di noi uomini – rispetto al Sole, come il poeta D.H. Lawrence”. K. Kerény, Figlie del Sole, Torino, Einaudi, 1949, p. 26. 157 La fine del mondo, cit., p. 519. De Martino cita il commento di Kerény al brano di Lawrence, Figlie del Sole, cit., p. 27. Il volume era stato proposto a Einaudi da de Martino stesso, cf. la lettera del 27 luglio 1946, C. Pavese, E. de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, cit., p. 82: “in collaborazione con Barberi e Brelich abbiamo finalmente varato queste ‘maligne’ Figlie del Sole: dico maligne perché il testo, stilisticamente assai complesso, […] ci ha messo più volte in difficoltà”.

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o comunque il grado di rappresentatività culturale, quanto il mero dato documentario: insomma costituiscono i paradigmi di una crisi nella quale si smarrisce il rapporto col mondo dell’utilizzabile, come scrive ricorrendo alla terminologia heideggeriana mediata da Chiodi. Si precisa dunque una linea interpretativa univoca, che privilegia un “sentimento” dominante, l’angoscia, o meglio ancora una condizione patologica (e qui de Martino segna la distanza massima dai filosofi dell’esistenza frequentati). E qui probabilmente si celava uno degli equivoci maggiori dell’opera incompiuta che però è impossibile dire quale forma avrebbe assunto. In una prospettiva che oggi appare molto datata, quella dell’apocalissi dell’Occidente, un brano riassuntivo sugli scrittori sommariamente esaminati mi sembra molto alquanto rivelatore: Il puro sentimento dell’assurdo in Camus – come la nausea di Sartre o la noia di Moravia – non è in realtà puro: nella sua purezza, cioè colto in ciò che esso significa, occorre cercarlo nelle descrizioni di Les obsessions et la psychasthénie del grande Janet158.

Affiora qui il nome di uno psicologo che molto aveva contato nella formazione di de Martino e le cui opere sono discretamente citate nel Mondo magico, non solo L’automatisme psychologique, largamente utilizzato per descrivere i poteri paranormali, ma proprio Les obsessions et la psychasthénie. Si aprirebbe qui un discorso molto interessante cui rinuncio per manifesta incompetenza. Si conferma tuttavia che il grande libro che inaugurava la collana viola conteneva in nuce la parte più viva e ricca del pensiero di de Martino. E Pavese? “Ma troppo è lungo ormai, Signor, il canto”.

158

La fine del mondo, cit., p. 544.

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Vincenzo Rapone

La liberazione e la sua dialettica. L’antipsichiatria e Sartre 1. L’antipsichiatria e Sartre. Dalla “libertà cartesiana” alla “psicanalisi esistenziale” Tra le possibili linee interpretative dell’opera di Sartre è certamente individuabile quella della sua tensione nella direzione della costituzione – come per altri intellettuali (si pensi, ad esempio, a Bataille) “impossibile” – della dimensione dell’intersoggettività, ovvero, della comunità quale prodotto dell’interazione tra individui. Questo percorso, che approderà significativamente a quella Teoria degli insiemi pratici1, che caratterizza, così significativamente, un’opera come la Critica della ragione dialettica, non vive solo della ricerca, impossibile e paradossale, quanto, al tempo stesso, indispensabile, della “comunità come fondamento”, ma anche della denuncia e della messa in discussione concreta della contraddizione di tutte quelle strutture culturali, sociali e comunitarie, nelle quali il singolo e il suo portato di autenticità vengono a trovarsi in una situazione di profonda e radicale mistificazione. Si tratta di una ricerca inclusiva dei paradossi oggettivanti di quelle scienze, umane (o pretese tali), che, come la psichiatria, più che a un’interrogazione rivolta allo statuto ontologico del rapporto ragione-follia, sembrano mirare a una radicale messa a distanza della differenza, a sua volta funzionale al consolidamento di quadri sociali e di rapporti di potere definiti. Se il tentativo di pensare il superamento della “solitudine” nella direzione della “solidarietà”2 può esser dunque letto come il fil rouge che caratterizza l’opera del filosofo francese proprio a partire dal superamento nella dire-

1

J.-P. Sartre, Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris 1960, tr. it., Critica della ragione dialettica. I. Teoria degli insiemi pratici (Preceduto da Questioni di metodo), c/ di P. Caruso, il Saggiatore, Milano 1974. 2 Cf. A. Montano, Solitudine e solidarietà. Saggi su Sartre, Merleau-Ponty e Camus, Bibliopolis, Napoli 2006.

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zione del mondo di quella posizione inizialmente fedele al cogito di Descartes3 (che caratterizza significativamente ancora un’opera come L’essere e il nulla), di cui le opere giovanili sono testimonianza, non è stato abbastanza sottolineato quanto pendant della riflessione e ricaduta del lavoro teorico di Sartre sia stata la ricerca di un manipolo di coraggiosi intellettuali, che, sulla scorta degli strumenti teorici messi loro a disposizione dalla fenomenologia, riporta al livello della schizofrenia la relativizzazione delle categorie di normalità e patologia. Relativizzazione che già Freud tematizza a tutti gli effetti, lavorando sulle nevrosi, ed evidenziando la misura in cui normalità e patologia non siano due ambiti distinti, quanto, piuttosto, coimplicantesi: la sofferenza nevrotica non è considerata nella psicoanalisi alcunché di patologico, di eccezionale, di fronte alla cosiddetta normalità. E se la teoria di Freud ha reso possibile l’emersione della sessualità come momento strutturante della vita psichica individuale, lo scienziato viennese dice in tal modo anche dell’impossibilità della scienza medica tradizionale di “dire tutto” sulla vita individuale, dal momento che la pulsione costituisce eccezione di fronte all’universalità delle categorie logiche. Nel libro L’io diviso (1959), Laing sottolinea giustamente che la differenza tra sanità e follia non è abissale e incolmabile; i confini sono spesso imprecisi e bastano in alcuni casi pochi gradi di temperatura perché da uno stato si passi all’altro: ‘Un po’ di febbre ed ecco che il mondo può cominciare ad assumere un aspetto minaccioso e persecutorio’. La rigida delimitazione, già da Freud abbattuta, tra normalità e follia, viene ancor più sfumata in ambito fenomenologico4.

Cinquant’anni dopo la scoperta della psicoanalisi, questa eccentricità di fronte al “discorso della scienza” e alle sue pretese oggettivanti non è più rappresentata dalla sessualità, quanto, piuttosto, dalla singolarità in quanto tale e dal contesto in cui quest’ultima si esteriorizza, singolarità che, in nome della peculiarità propria dei processi umani, si sottrae allo sguardo oggettivante e reificante della scienza medica e della psichiatria tradizionali, per rivendicare un proprio statuto all’interno di un discorso che, in una certa misura, si fa antagonistico nei confronti di quello scientifico, nonché della sua pretesa di “dire tutto”. Gli “antipsichiatri” evidenziano proprio quanto la psichiatria, oggettivando la malattia, “manchi” proprio quella dimensione singolare che è elemento essenziale e imprescindibile per la comprensione della sofferenza, sia 3

Cf. J.-P. Sartre, La liberté cartesienne, in: Id., Situations, I, Gallimard, Paris 1947, p. 314-334. 4 G. P. Lombardo, I nodi dell’antipsichiatria, Borla, Roma 1980, p. 31.

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essa nevrotica o psicotica, con particolare riferimento alla schizofrenia, quali entità sottratte alla nosografia tradizionale5. I c. d. pazienti, nella teoresi antipsichiatrica, vanno intesi, prima di tutto, a partire dall’umanità di esseri concreti, inseriti in un contesto storicamente e socialmente determinato, senza intendere con questo, banalmente, la necessità di umanizzarne “filantropicamente” il trattamento. Lo spostamento che si misura tra l’interesse della psicoanalisi per la nevrosi e quello dell’antipsichiatria rileva ai fini dell’attualità storica di questo discorso: se l’attenzione di Freud è rivolta a soggetti comunque segnati dalla “metafora paterna”, e quindi “sufficientemente edipizzati”, a coloro che “tradizionalmente” sono definiti nevrotici, e quindi ai fobici, agli ossessivi, alle isteriche, la psicosi in senso stretto non è considerata – da Freud stesso – trattabile con gli strumenti della cura psicoanalitica. La presa in carico della centralità della psicosi ha luogo all’interno di una critica radicale della centralità della struttura edipica6 nella costituzione della psiche in Freud, che preconizza, per alcuni tratti, la riflessione anti-edipica di Deleuze e Guattari7. Da questo punto di vista, la psicoanalisi freudiana sarebbe da associare, con le dovute differenze, alla psichiatria tradizionale di matrice pre-

5 Ed è in questi termini che, dietro la critica a un linguaggio particolare, fa capo il “sospetto” che la psichiatria, più che alla guarigione del paziente, sia funzionale al raddoppiamento delle condizioni che quella sofferenza hanno creato, allo scopo di continuare a marcare la rassicurante linea tra soggetti “sani” e “malati”. Così R.D. Laing, The divided self, Tavistock, London 1959, tr. it., L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino 1969, p. 22-23: “Una difficoltà di fondo si incontra già dall’inizio: come può uno psichiatra considerare direttamente il paziente per descriverlo, se il vocabolario psichiatrico a sua disposizione serve solo per tenerlo a distanza? Come si può mostrare il significato umano generale posseduto dallo stato del paziente, se le parole che si devono usare sono state inventate apposta per isolare e circoscrivere in una entità clinica particolare il senso della vita del paziente?”. 6 Così Laing (Intervista sul folle e il saggio, c/ di V. Caretti, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 97): “Non credo insomma che il resoconto freudiano sia, per così dire, un modello o stampo primario; è solo una delle trasformazioni possibili dell’insieme. Ma c’è di più: la versione freudiana della storia di Edipo è, dal punto di vista di un mitologista o di un antropologo, scandalosa, non foss’altro perché Giocasta era sposata a Laio, e Laio è uno dei tradizionali, mitici introduttori dell’omosessualità in Grecia. In altre parole, è una situazione assolutamente atipica. Non sono neppure convinto che il movimento della nostra libido debba necessariamente fissarsi su questi oggetti originari. Dico non necessariamente, benché talvolta certo accada. Sono d’accordo con Deleuze e Guattari quando dicono che Edipo, fissato, inchiodato a questo triangolo originario, non rappresenta il modo in cui agisce il nostro spirito quand’è incorrotto e senza paura. In altre parola, la libido è espansiva; noi vogliamo uscire, andar via, e se cerchiamo lo strano, il nuovo, il diverso, l’avventura, non è perché stiamo fuggendo da nostra madre”. 7 G. Deleuze-F. Guattari, L’anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris 1972, tr. it., L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975.

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kraepeliniana, secondo la quale lo psicotico è in posizione di eccezione rispetto alle cure, riservando a questi pazienti la sola possibilità di cure fisiche. I prodromi della “rivoluzione” antipsichiatrica si avvertono già intorno agli anni ’50: da un lato, la medicina tradizionale segna il passo nella cura dei pazienti psicotici e la percentuale di pazienti che cronicizzano la loro sofferenza sino a trasformarla in malattia è sempre maggiore; dall’altro, le strutture tardo-ottocentesche di internamento, lo stesso manicomio tradizionalmente inteso, non sono più funzionali agli assetti politici, socio-economici e istituzionali delle allora nascenti democrazie di Welfare State, che iniziano a palesare una dinamicità interna tale da rendere obsoleta una partizione assolutamente rigida tra soggetti psichicamente sani e soggetti psichicamente disabili, “folli”, consegnati a un destino di alienità. La straordinaria rilevanza di un’opera come Il diario di una schizofrenica8 di M.A. Sèchehaye, la nascita del movimento della psicoterapia istituzionale, seguito a breve dalla scuola di Palo Alto, nel cui ambito Bateson elabora la sua teoria del “doppio legame”9, l’importante scritto di Lacan relativo alla clinica delle psicosi10, sono momenti prodromici di una ricerca più vasta, che considera essenziale l’apporto teorico della psicanalisi esistenziale, elaborata da Sartre ne L’essere e il nulla11. Un primo punto di contatto forte tra la riflessione di Sartre e la ricerca dell’antipsichiatria inglese – che è comunque espressione di un movimento assai frastagliato e che non può essere ridotto a una definizione univoca – può essere ravvisato nella rottura operata nei confronti di quel naturalismo oggettivistico di cui è impregnata certa psichiatria, a favore di una concezione fenomenologico-intenzionale del fenomeno di coscienza. In questo senso, innanzitutto, si evidenzia come “psichiatra” e “paziente” siano persone non neutralmente disposte in un campo “oggettivo”, quanto, piuttosto,

8 M.-A. Sèchehaye, Journal d'une schizophrène: auto-observation d'une schizophrène pendant le traitement psychothérapique, PUF, Paris 1969. 9 Cf. G. Bateson, D.D. Jackson, J. Haley, J. Weakland, Toward a theory of schizophrenia, in: “Behavioral Science”, 1 (4)/1956, p. 251-264. 10 J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre III. Les psychoses (1955-56), Seuil, Paris 1981, tr. it. Il seminario. Le psicosi (1955-56), c/ di G. Contri, Einaudi, Torino 1985. 11 Ed è in questi termini che Sartre si esprime circa la necessità di studiare la singolarità in rapporto e alla propria attività e ai propri fini; così (L’Être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Parigi 1943, tr. it., L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1997, p. 633): “Se è vero che la realtà umana, come abbiamo tentato di stabilire, si annuncia e si definisce con i fini che persegue, diventa indispensabile uno studio e una classificazione di questi fini. Nel capitolo precedente non abbiamo in realtà considerato il per sé che sotto l’aspetto del suo libero progetto, cioè dello slancio con il quale si protende verso il suo fine. Conviene ora interrogare questo fine stesso, perché esso fa parte della soggettività assoluta, come suo limite trascendente e objettivo”.

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orientate intenzionalmente: Laing12, Cooper, Easterson e altri mettono a frutto la riflessione filosofica fenomenologico-esistenziale, chiarendo come il rapporto tra medico e paziente non sia di natura oggettiva, neutrale13. Il rapporto tradizionale medico-paziente, in cui il soggetto-paziente è considerato “malato” perché ha un disturbo, finisce per strutturare una relazione in cui quest’ultimo si costituisce come oggetto di fronte a un “soggetto-supposto-sapere”, il medico. Il punto di vista della psichiatria tradizionale è negato proprio a partire dalla considerazione che la psichiatria può ridursi a scienza della natura, accreditandosi come oggettiva, al prezzo di una pesante mistificazione del suo oggetto, mistificazione consistente nella riduzione del “paziente” a cosa14. 12 Per un’introduzione alle tematiche dell’antipsichiatria, cf., limitatamente al solo contesto italiano, M. Barnes, J. Berke, Viaggio attraverso la follia, Rusconi, Milano 1981; F. Basaglia, M. Mariani, P. Tranchina, “L’impossibile strategia”, in: La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale, c/ di F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 1971; D. De Salvia, Antipsichiatria, critica della sua critica, in: “Psicoterapia e scienze umane”, 4/1977, p. 1-17; A. Montezemolo, Le comunità antipsichiatriche inglesi, in: “Fogli d’informazione”, 16/ 1974, p. 381-383; M. Rossi-Monti, La follia del contesto: Valutazione critica dell’opera di R.D. Laing, in: “Per un’analisi storica e critica della psicologia”, 4-5/ 1978, p. 87-118; G. P. Lombardo, I nodi dell’antipsichiatria, cit.; L. Forti (c/ di), L’altra pazzia, Feltrinelli, Milano 1975. Sull’antipsichiatria in generale cf., inoltre, E. Cotti e R. Vigevani, Contro la psichiatria, La Nuova Italia, Firenze, 1970; C. Delacampagne, Antipsychiatrie ou le voies du sacré, Grasset, Paris 1974; J. Lesage De La Haye, La mort de l’asile. Histoire de l’antipsychiatrie, Éditions libertaires, Paris 2006. In particolare, su Laing e l’antipsichiatria, cf., infine, Ronald Laing et l’antipsychiatrie, c/ di R. Boyers, Payot, Paris 1971; G.C. Rapaille, Laing, Éditions Universitaires, Paris 1972. 13 Per Laing, in questo senso (The voice of Experience, Pantheon, London-New York 1982, tr. it., Nascita dell’esperienza, Mondadori, Milano 1982, p. 7): “L’esperienza non è un fatto oggettivo. Non occorre esperire un fatto scientifico. Le differenze o correlazioni, similitudini o dissimilitudini che esperiamo come eventi solo talvolta corrispondono a quelle differenze o correlazioni che consideriamo oggettivamente reali. Ogni scolaretto e scolaretta sa che le apparenze ingannano. Non è, però, facile definire cos’è l’esperienza. Tutte le esperienze sono esempi di esperienza, ma l’esperienza non è di per sé un’esperienza. L’esperienza di un fatto oggettivo o di un’idea astratta non è l’impressione o l’idea. L’effetto che produce su di noi un fatto oggettivo non può essere un fatto oggettivo. I fatti non sognano. Voglio fare spazio alla considerazione di questi effetti dei fatti”. 14 La partizione tra un approccio di tipo naturalistico-oggettivistico ed uno di stampo fenomenologico-esistenziale cessa per un attimo di essere questione di sapere: in gioco vi è il rapporto col paziente, che può essere considerato “cosa” o “persona”. Così R.D. Laing, L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, cit., p. 30: “Nella fenomenologia esistenziale l’esistenza in questione può essere la propria o quella dell’altro. Se l’altro è un paziente, la fenomenologia esistenziale diventa un tentativo di ricostruzione del suo modo di essere se stesso nel suo mondo: anche se, nel rapporto terapeutico, il centro di osservazione può essere il suo modo di essere con me. I pazienti si presentano allo psichiatra accusandolo di disturbi che vanno dalla difficoltà più particolare alla più generale. Ma al di là di quanto circoscritto o diffuso sia il disturbo inizialmente accusato, si sa che in realtà il paziente porta nella situazione terapeutica, intenzionalmente o no, la sua esistenza, tutto quanto il suo essere-nelmondo. Si sa che ogni aspetto del suo essere ha un qualche rapporto con tutti gli altri, anche

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Ma anche l’approccio a una cosa non è mai univoco: Sartre e Laing concordano che nell’esperienza sia in gioco sempre e comunque un aspetto soggettivo, che concerne tanto la scienza come soggetto epistemico, quanto lo psichiatra, tecnico solo in apparenza, specialista sostenuto da una presunzione di sapere. È all’interno del tentativo di fondare filosoficamente e, in particolare, fenomenologicamente, una posizione di tipo realista, che Sartre scopre l’impossibilità della coscienza di essere ridotta a cosa, a entità naturale, come vorrebbe la psicoanalisi classica. In polemica con la psicologia tradizionale, vengono conseguentemente rifiutate tanto posizioni oggettivistiche, di tipo positivistico, quanto di carattere soggettivistico, in ultima istanza fautrici di una posizione a metà tra il solipsismo e lo spiritualismo. Il tema principale è quello della dimostrazione dell’esistenza di una polarità nella coscienza stessa costituita dall’oggetto, nonché dell’oggettività stessa della dinamica psichica, tramite il ricorso alla nozione di intenzionalità15. In questa prospettiva, la coscienza è tutt’altro che una struttura oggettiva, e deve essere intesa al di fuori di ogni naturalismo: il filosofo francese rilegge la nozione di intenzionalità, in un senso che, più che allo stesso Husserl, la avvicina a quella di Brentano: ogni atto psichico è come se avesse un duplice oggetto, un oggetto primario, l’oggetto vero e proprio della coscienza, e, attraverso un atto interno alla coscienza stessa, che per Sartre è il cogito preriflessivo, un oggetto secondario, che è l’atto stesso. L’affermazione, propria de La transcendance de l’Ego, in virtù della quale il tipo di esistenza della coscienza è d’essere coscienza di sé, e prende coscienza di sé, in quanto è coscienza di un oggetto trascendente, va completata nel senso che ogni coscienza posizionale dell’oggetto è nel medesimo tempo coscienza non posizionale di se stessa, in una dinamica in virtù della quale per essere coscienza non tetica di sé, la coscienza deve essere coscienza tetica di qualche cosa. se poi possa risultare tutt’altro che chiaro i vari aspetti si articolano. Il compito della fenomenologia esistenziale consiste appunto nell’articolare il ‘mondo’ dell’altro e il suo modo di esservi”. 15 Si tratta di un passaggio reso ben intellegibile nel passo seguente da G. M. Tortolone (Invito al pensiero di Jean-Paul Sartre, Mursia, Milano 1993, p. 48): “In antitesi alla psicologia classica, e in particolare alle conclusioni di Descartes e Bergson, che finivano col prospettare una dinamica soggettivistica, privilegiando il versante spiritualistico, e incorrendo così facilmente nelle trappole dello spiritualismo, in cui l’io individuo arriva ad occupare tutta la realtà, determinandone ogni contenuto, qui il tema principale è all’opposto la dimostrazione dell’oggettività della forma psichica. L’io, l’Ego, si rivela un’entità oggettiva, una presenza al mondo indiscutibile e come tale prende possesso del proprio reale. Sartre propone dunque di definire con ‘Ego’ la sintesi di Io e Me: ossia l’unità sintetica e formale della coscienza riflessa, che risulta al contempo come l’aspetto attivo della personalità dell’individuo (Je) e della dimensione materiale dell’io (Moi), che inquadra la totalità psico-somatica individuale; e dunque fa parte del mondo allo stesso titolo oggettivo di ogni altra entità mondana costituente. Si tratta allora di mostrare che l’io\me è compromesso col mondo”.

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La stessa coscienza, in definitiva, non può ridursi al solo percipi: la coscienza non-tetica di sé è coscienza pre-riflessiva, che non coincide né con la percezione, né con la conoscenza, ma che costituisce quell’essere transfenomenico, sul cui sfondo si situa la relazione d’oggetto. Ed è il cogito preriflessivo, che permette alla coscienza di essere coscienza-di-sé, producendo costantemente una fessura nella coscienza d’oggetto, rendendola in qualche modo “mancante”, sulla base di un’originaria attività “nientificante”. Ogni andare verso l’oggetto presuppone dunque, anche, una struttura nientificante, che fa sì che ogni atto sia un letterale fuoriuscire della coscienza da sé, dalla sua pienezza immaginaria, per trovarsi “fuori”, altrove, in un’area profondamente decentrata; ecco i termini, di assoluta originalità, in cui Sartre rilegge tanto Descartes, quanto il superamento dell’orizzonte egologico, operato da Husserl. Ma a questo punto, è chiaro che la coscienza non è conoscenza, e che ogni conoscenza è tentativo, votato allo scacco, di fissarla essenzialisticamente, e a questo punto intendiamo meglio la definizione dell’esistenzialismo, come pensiero che antepone esistenza a essenza: è sullo sfondo di una struttura nientificante, che la coscienza si rivela non come struttura di conoscenza, bensì come atto. Ossia, che ogni atto di coscienza non potrà essere valutato in sé, non essendo la coscienza struttura sintetica votata alla conoscenza, ma, piuttosto, ciò avverrà sulla base di una determinata attitudine detotalizzante, che produce l’atto. Ecco perché, allora, la coscienza è progetto, è attitudine in situazione. Se, per Sartre, la verità prima, intesa come definizione logica del rapporto tra soggetto e oggetto, intesa alla maniera husserliana dell’epoché, e la totalità nella seconda fase della sua ricerca, intesa come perfezione del processo di totalizzazione parziale, sono objettivi mancati “da sempre” dal soggetto, ciò ha luogo sullo sfondo di una “radicale” mancanza d’essere. Sulla base dell’impossibilità di fondare se stesso in modo definitivo e inattaccabile, il soggetto, espropriato da un totale padroneggiamento, si costituisce intenzionalmente a un oggetto che non gli si dà né nella modalità del complemento narcisistico, egosintonico, per così dire, né, tantomeno, quale entità neutra, esterna. Da qui, due concetti fortemente caratterizzanti l’esistenzialismo letterario e filosofico di Sartre: da un lato, l’essere è sempre “essere in situazione”, dall’altro, l’umano è sempre “progetto”. In altri termini, non esiste alcuna equivalenza funzionale tra atti a livello dell’umano, perché il valore e la portata di qualsivoglia atto di coscienza dev’essere misurato sulla base del contesto nel quale si esplica, nonché del progetto, ossia della particolare tensione verso il reale che anima il singolo. La stessa sofferenza psichica, dunque, non va considerata come un punto d’approdo naturale, quanto, piuttosto, come l’esito, talvolta tragicamente fallimentare, del tentativo del singolo 66


di costruire la sua identità, differenziandosi dal sistema di relazioni che tende a costituirlo come un “essere generico”. Nella fase iniziale delle rispettive ricerche, che procedono se non parallelamente con singolare unità d’intenti, Sartre e gli antipsichiatri hanno dunque intenti comuni, rispetto alla negazione dell’ideologia oggettivistica, che permea di sé la psichiatria come scienza, riletta alla luce della nozione di intenzionalità. La relazione intenzionale ha, per il giovane Sartre, che attinge alla viva fonte l’insegnamento di Husserl in Germania, senza passare, come gli altri giovani filosofi francesi, per la mediazione di Gurvitch16, il significato di una profonda messa in crisi della centralità dell’io. Ma anche di tutte le categorie che tendono a fissarne l’identità in modo definitivo, a partire dalla costruzione rammemorativa della propria biografia, quale pietrificazione della memoria di sé. Il rapporto che l’io intrattiene con l’oggetto ha sempre, contemporaneamente, una funzione destabilizzante, costituendosi da un lato come correlato coscienziale della sua attività, dall’altro essendo possibile in virtù di quell’essere trans-fenomenico che è il cogito pre-riflessivo, sulla base della cui attività di negazione è possibile la fuoriuscita della coscienza verso il mondo. Questa tensione alla destabilizzazione di ogni categoria in grado di fissare l’identità sulla base di categorie stabilizzanti e, in ultima analisi, identitarie, che interpellano il singolo come soggetto, chiamandolo a confermare quel potere che pure lo opprime in nome di una responsabilità di ascendenza giuridica più che morale, ha luogo nell’ambito di una ricerca che si dipana a partire dal singolo chiuso nella monade del cogito, e che incontra progressivamente l’intersoggettività prima, gli insiemi pratici poi. La trasposizione in campo antipsichiatrico di questa riflessione avrà come objettivo polemico, primo tra tutti, la famiglia, investita di una critica radicale, quale fonte primigenia ma non esclusiva dell’alienazione dell’uomo, nonché del misconoscimento della sua più profonda autenticità. Lo scopo è quello della presa di coscienza anche politica del ruolo del c.d. “malato mentale” che, da oggetto di prassi alienanti, è chiamato a costituirsi come soggetto, progetto che si estende alla ridefinizione pratica e politica della linea di confine tra ragione e alienazione. La fenomenologia, movimento di pensiero ancora interno alla riflessione filosofica tradizionale, lavora alla relativizzazione delle categorie tese a differenziare rigidamente sanità mentale e follia, offrendo un contributo assolutamente originale nella direzione di una prassi di emancipazione, che ha costituito buona parte del patrimonio del c.d. movimento antipsichiatrico. Affiancati dal florilegio di ricerche nate nell’ambito di una certa psicoanalisi, politicamente orientata, 16 G.

Gurvitch, Les tendances actuelles de la philosophie allemande, Vrin, Paris 1930.

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nonché dall’importante ricerca di Foucault17, autori come Laing e Cooper rigettano uno stile di pensiero in apparenza analitico e formale, che però conferisce sostanzialità e oggettività agli asserti soggettivi: la scienza viene riportata al livello di attività nominalistica, soggettiva e non sostanziale, oggetto possibile di revisione epistemologica. Al tempo stesso, ogni pretesa di sostanzialità dell’io è negata, a favore di una considerazione dell’inaccessibilità dell’altro, che, in questo senso, resta, con Sartre, l’“inferno”. Per esperienza (parola-chiave per un corretto approccio a questo stile di pensiero), Laing e Cooper intendono, conformemente al significato di cui il termine experience si pregna nella lingua inglese, esperienza vissuta da una persona, in modo assai simile all’atto di cui parla Sartre. Si tratta di affermare la pertinenza di un punto di vista soggettivo su una realtà esterna, che, conformemente a tali assunti di partenza, può essere il solo punto di vista possibile, legato alla particolare realtà-situazione di cui è possibile “fare esperienza”18. Ciò premesso, la psichiatria scientista opererebbe una mistificazione che consiste proprio nel negare il valore dell’esperienza soggettiva, togliendo la parola a chi ne è testimone: in un senso che riguarda l’oggetto del suo interesse, la psichiatria occulta quanto quest’ultimo non sia tanto un dato, quanto, piuttosto, un costruito, effetto di un lavoro di sezionamento, circoscrizione, definizione, determinazione, taglio, operato dalle sue stesse categorie. In altri termini, la psichiatria si nega come esperienza, per affermarsi come sapere costruito attraverso categorie. Categorie, a loro volta, non assolute, ma storicizzabili nella definizione dell’oggetto della scienza in questione: in questo senso, la psichiatria non si occupa mai della follia in quanto tale (quest’ultima, in sé, straborderà sempre i limiti in cui una società tenterà di definirla), quanto piuttosto della c.d. malattia mentale, intesa da una determinata scienza in un determinato contesto storico-sociale. La scienza, però, nella critica fenomenologica, una volta determinato il proprio oggetto attraverso un’operazione di taglio preliminare, finirebbe per smarrire il senso dell’atto con cui si costituisce, mistificando circa il proprio valore di esperienza, ma anche scambiando e confondendo l’oggetto prodotto dalle proprie categorie costitutive con quello tout-court inteso. Una certa scienza, in altri termini, celebra acriticamente se stessa considerandosi non in rapporto a un oggetto prodotto da determinate categorie epistemiche, quanto, piuttosto, alla “cosa in sé” della follia. Nel caso di specie, la psichiatria si autorappresenterebbe in rapporto non alla psicosi in quanto prodotto dell’attività di un soggetto epistemico determinato, ma in rapporto a 17 Cf. M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Gallimard, Paris 1972, tr. it., Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1998. 18 Fondamentale, in questo senso, R.D. Laing, The politics of experience. The bird of paradise, tr. it., La politica dell’esperienza e L’uccello del paradiso, Feltrinelli, Milano 1990.

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un oggetto, la follia in sé, assoluto, destoricizzato, considerato indipendentemente da ogni attività costituente. E lo psichiatra, nel suo piccolo microcosmo, replicherebbe questa stessa dinamica, misconoscendo il proprio disporsi come soggetto, anzi negando la parzialità del suo proporsi al c.d. paziente, interpretato attraverso una batteria concettuale il cui scopo è più la categorizzazione, la spiegazione, la riduzione a intelligibile calcolabilità di un altro soggetto, il paziente psicotico, il quale sin dall’inizio è in posizione di subordinazione nei confronti del medico, depositario di un sapere solo supposto sul malessere psichico. Ma quest’esperienza non è singolare come nella psicoanalisi, quanto transpersonale: ogni singolarità è sempre e comunque inclusiva dell’esperienza che altri fanno del soggetto stesso e della realtà. Se la psicoanalisi si fa carico della struttura relazionale del soggetto, misconosce però, questo il tenore della critica antipsichiatrica, che la vita di relazione è inclusiva del tentativo di altri di “fare qualcosa di noi”, tentativo di dirigere in qualche modo, di usare strumentalmente l’altro, per proteggere sé non dall’altro in quanto tale, in “carne e ossa”, quanto dalle projezioni che evoca. L’essenza della psiche è sempre transpersonale, e lì dove c’è un soggetto considerato patologico, vi è una relazione intersoggettiva considerata patologica. L’attribuzione della responsabilità della produzione della condizione alienata di uno dei suoi membri alla famiglia è il risultato di un percorso di ricerca che non si chiude in una teoria compiuta, non pervenendo né all’elaborazione di un modello teorico-generale, né alla semplificante conclusione che le dinamiche familiari producono meccanicamente sofferenze individuali: ragionare nei termini di un rapporto lineare causa-effetto significherebbe infatti riscrivere la questione dell’alienità nell’ambito di quella razionalità analitica e formale, nonché di quel razionalismo scientista che legittima l’esistenza di entità nosografiche intese come realtà oggettive, da un lato “cose” (che sono in realtà costrutti euristici) come la psicosi, sia essa paranoidea o schizofrenica, dall’altro “pazienti” che “sono” psicotici o schizofrenici per il fatto di “avere” la schizofrenia.

2. L’antipsichiatria oltre l’esistenza “mancata” La ricerca degli antipsichiatri è tesa innanzitutto alla relativizzazione, alla “sospensione” delle categorie nosografiche tradizionali, la cui matrice concettuale è da rinvenire, sebbene in parte, nell’epoche husserliana, rivisitata

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in senso esistenziale19. Normalità e patologia psichica, salute e malattia, sono coppie di concetti svuotate di contenuto, demistificate nella loro pretesa scientificità, pensate in quanto giocate in una serie di rimandi reciproci, segnati da un’insuperabile dualità, della quale bisogna rinvenire la trama costituente. L’interesse per quei pazienti che la psichiatria classica designa come “schizofrenici” è legato proprio al desiderio di sottrarre la sofferenza psichica alle maglie dello scientismo e di quella ragione analitica che ne pervade la metodologia: è attraverso la coniugazione della “menzogna” sartriana con la nozione psicoanalitica di falso sé, elaborata da Winnicott, che si elabora un’originale teoria, per la quale il soggetto detto “schizofrenico” non sarebbe “altro” dall’individuo “normale”. Se può considerarsi luogo elettivo dell’analisi della sinistra freudiana la nevrosi ossessiva, quello degli antipsichiatri è la schizofrenia. Ma l’alienazione psichica è considerata, questo il nocciolo della teoresi antipsichiatrica, come una partizione interna alla più generale e pervasiva dimensione, costitutiva del falso sé, dell’alienazione sociale: soggetto cosiddetto sano e soggetto cosiddetto psicotico condividerebbero la dimensione del misconoscimento della propria dimensione più autentica, quella della libertà, negandola e alienandola nel gioco di identificazioni sociali, fatte di assunzioni di ruoli, dimensione rispetto alla quale schizofrenia e normalità sono esiti ugualmente possibili, ma qualitativamente non dissimili. È in un senso molto concreto che il problema della schizofrenia e il problema dell’alienazione all’interno delle famiglie sono identici. Si potrà objettare che sarebbe necessario attendere i risultati di un’indagine controllata e comparata di famiglie che hanno un componente psicotico ben identificato, o altresì un componente nevrotico, e famiglie in cui nessun componente è diagnosticato malato in senso psichiatrico. Il lavoro com’è svolto con le famiglie, comunque, mi ha condotto a sospettare che le sia le famiglie ‘psicotiche’ e ‘nevrotiche’, che le famiglie normali sono, nella nostra comunità, caratterizzate da un altro grado di alienazione della realtà personale di ciascuno dei suoi componenti20.

19 Ancora sulla scorta del lavoro teorico di Sartre, impegnatosi in un lavoro di immanentizzazione delle categorie fenomenologiche già a partire dal saggio Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité, in: “Nouvelle Revue Française”, 304/ 1939, p. 129-131, tr. it. Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in: Materialismo e rivoluzione, c/ di F. Fergnani e P.A. Rovatti, il Saggiatore, Milano 1977, p. 139-144. 20 D. Cooper, Psychiatry and Anti-Psychiatry, tr. it. Psichiatria e antipsichiatria, Armando, Roma 1969, p. 59.

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Il passo sopra riportato potrebbe essere eletto a manifesto dell’antipsichiatria inglese, movimento di pensiero che annulla ogni barriera tra alienazione sociale e mentale, finendo per scorgere negli imperativi delle strutture sociali tradizionali il luogo costitutivo di entrambe. Compito di chi scrive, sarà quello di ricostruire le tappe del percorso che ha condotto, a partire da presupposti “altri” da quelli propri della Scuola di Francoforte, un manipolo di intellettuali, criticati e di certo per molti aspetti anche criticabili21, ma comunque ispirati e coraggiosi nonché dotati delle corrosive armi della critica, a considerare la famiglia come il motore di processi che segnano i destini di alcuni degli individui che ne fanno parte, determinandone la sofferenza attraverso processi di invalidazione, misconoscimento, occultamento e segregazione, luogo inaugurale di quelle dinamiche di stigmatizzazione e di stereotipizzazione, su cui poi la psichiatria e le istituzioni di cura farebbero da calco, colludendo con il lavoro operato dalla famiglia: è nell’ambito della rivisitazione critica e metodologica della “ragion dialettica” che Laing, Cooper, Esterson, intellettuali di formazione medico-psichiatrica, si muovono nella ricerca di una possibile lettura dell’intellegibilità, oggettiva ma non per questo oggettivata, della sofferenza psichica, ripensandola alla luce dell’approccio fenomenologico-esistenziale. Con gli autori che costituiscono il movimento c.d. antipsichiatrico, la crisi della famiglia, la sua difficoltà nel costituirsi quale momento di sintesi tra pulsione e sfera simbolica, pur forse non approfondendosi in senso speculativo, si arricchisce di nuovi argomenti; prende altresì ulteriormente corpo una deriva mistico-irrazionale che aveva lambito in un senso più nobile gli esponenti della Scuola di Francoforte. Se la critica dell’istituzione familiare si costituisce, per questi ultimi, sulla scorta dei risultati dell’analisi freudiana, il testimone di un certo spirito anti-autoritario e critico viene recepito da autori che giungono alla critica della famiglia per il tramite di un lavoro di 21 Molto esplicativo in questo senso, seppur con particolare riferimento all’esperienza italiana, F. Marone, secondo il quale (La psichiatria alternativa in Italia, in: “La Psicoanalisi”, 25, Gennaio-Giugno 1999, p. 100): “È fin troppo facile parlar male dell’antipsichiatria: la paradossalità della sua teoria (l’inesistenza della malattia mentale), la contraddizione del suo metodo (la negazione delle tecniche), l’estremismo della sua prassi (l’abolizione degli ospedali psichiatrici), costituiscono un bersaglio immancabile per le esercitazioni retoriche dei ‘critici critici’”. Così invece A. Basaglia, F. Rotelli, M. Tommasini (Il nostro Laing, in: Portolano di Psicologia, c/ di P. Tranchina, E. Salvi, M.P. Deodori, S. Rogialli, Coop. Centro di Documentazione, Pistoia 1994): “Se David Cooper e Ronald Laing sembra siano stati un po’ travolti dalla loro ricerca, questo non ci sembra né merito, né demerito. Né fa grande il loro lavoro, né lo sminuisce. Ci ripropone forse la questione del costo ‘nel corpo proprio’ della ricerca sull’uomo. È allora ingiusto il moralismo e il livore anti-68 che traspare sul necrologio di Bernabei sull’Unità che riduce Laing al quadro di un guru stravagante del permissivismo, tra bloody mary e elogio della marijuana, con tutti i luoghi comuni a cui si ama ridurre la storia di quegli anni”.

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decostruzione tutto interno alle categorie psichiatriche tradizionali, reso possibile dalla feconda interazione di strumenti mutuati dall’analisi fenomenologico-esistenziale e da una certa sociologia critica. Non che Freud non avesse ben presente la natura sociale dell’inconscio e della vita psichica, ogni singolarità è sempre e comunque inclusiva dell’esperienza che altri fanno del soggetto stesso e della realtà: ciò nonostante, la referenza ultima della teoria psicoanalitica è in capo al singolo. Se la psicoanalisi si fa carico della struttura relazionale del soggetto, misconosce però, questo il tenore della critica antipsichiatrica, che la vita di relazione è inclusiva del tentativo di altri di “fare qualcosa di noi”, tentativo di dirigere in qualche modo, di usare strumentalmente l’altro, per proteggere sé non dall’altro in quanto tale, in “carne e ossa”, quanto dalle projezioni che evoca. A questo tentativo, si oppone il progetto del singolo, che edifica la sua esistenza come un’opera d’arte sulle rovine delle identificazioni fantasmatiche del gruppo di appartenenza. Ma l’essenza della psiche è e resta sempre trans-personale, e lì dove c’è un soggetto considerato patologico, vi è una relazione intersoggettiva considerata patologica, e la cura non avrà il singolo nella sua referenza, ma la strategia relazionale complessiva, in cui il singolo è calato. Da qui, nell’ambito di una progressiva estremizzazione, i toni messianici dell’antipsichiatria, che intende farsi portatrice di una terapeutica sociale complessiva. L’attribuzione della responsabilità della produzione della condizione alienata di uno dei suoi membri innanzitutto alla famiglia e poi alla società è il risultato di un percorso di ricerca che non si chiude in una teoria compiuta, non pervenendo né all’elaborazione di un modello teorico-generale, né alla semplificante conclusione che le dinamiche familiari producono meccanicamente sofferenze individuali: ragionare nei termini di un rapporto lineare causa-effetto, significherebbe infatti riscrivere la questione dell’alienità nell’ambito di quella razionalità analitica e formale, nonché di quel razionalismo scientista che legittima l’esistenza di entità nosografiche intese come realtà oggettive, da un lato “cose” (che sono in realtà costrutti euristici) come la psicosi, sia essa paranoidea o schizofrenica, dall’altro “pazienti” che “sono” psicotici o schizofrenici per il fatto di “avere” la schizofrenia. Non sia considerato casuale il richiamo alla riflessione di Sartre: la ricerca antipsichiatrica procede, come già accennato in precedenza, parallelamente, se non simmetricamente, a quella dell’intellettuale francese, il quale, a partire dalla sua riflessione giovanile, ma soprattutto da L’essere e il nulla22, costruisce un percorso di grande originalità, muovendosi nella dire22 Cf. J.-P. Sartre, L’Etre et le Néant, cit., tr. it. L’essere e il nulla, cit. Sul rapporto tra Sartre e l’antipsichiatria, cf., in particolare: R.D. Laing, D. Cooper, Reason and violence. A

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zione del superamento del solipsismo iniziale, proprio di una singolarità vanamente protesa nella direzione di un’alterità “infernale”, tale prima di tutto perché impossibile a pensarsi in quanto tale. Questa ricerca, tesa all’individuazione della centralità dei processi e delle prassi intersoggettive e di gruppo, costituenti a tutti gli effetti un superamento del soggettivismo iniziale, culminante con La critica della ragione dialettica23, non può esser scissa dalla serrata critica della ragione analitica, tesa alla considerazione della parte e non della totalità, nonché al conferimento unilaterale di significato a dati non più pensati come ipotesi, bensì sostanzializzati, senza che ci si sia presa preliminarmente in carico la dimensione ideologica e materiale di mediazione che li costituisce. In singolare consonanza d’intenti con l’intellettuale francese, gli antipsichiatri, con un procedere e un ardore che non esclude, talora, l’ingenuità, costruiscono una teoria della schizofrenia come “esperienza vissuta”, teorizzandola come una delle possibili modalità di un inautentico situarsi nel mondo, situarsi ‘alienato’, la cui espressione sintomatica più comune sarebbe non tanto la follia conclamata e accertata dagli specialisti, quanto, piuttosto, una normalità in sé patologica, in obbedienza alla quale il singolo è chiamato a investire in aree psichiche in cui in gioco non vi è tanto la propria costitutiva “mancanza d’essere”, il proprio desiderio, che, strutturati sulla base della capacità nientificatrice della coscienza, ne costituiscono il nocciolo di autenticità, quanto la narcisistica facoltà di risolversi in un immaginario che non è emancipazione, creazione, produzione progettuale, quanto affermazione tautologica di sé, messa in scena narcisisticamente connotata. Laing cita un’opera giovanile di Sartre, l’Imaginaire, del 1940, da cui si evince come: […] possiamo riconoscere in noi due io distinti: l’io immaginario, con le sue tendenze e i suoi desideri e l’io reale. Esistono sadici e masochisti immaginari: persone dall’immaginazione violenta. A ogni momento, il nostro io immaginario si frantuma e svanisce al contatto con la realtà, cedendo il posto all’io reale. Perché, per la loro stessa natura, il reale e l’immaginario non possono coesistere. Si tratta di due tipi diversi di oggetti: sentimenti e azioni completamente irriducibili le une alle altre24.

Decade of Sartre’s Philosophy 1950-1960, Tavistock, London 1964, tr. it. Ragione e violenza, con una Presentazione di J.-P. Sartre, Armando, Roma 1973. 23 Cf. J.-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, cit. 24 J.-P. Sartre, L’imaginaire. Psychologie phénomenologique de l’imagination; tr. it. L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Einaudi, Torino 2007, p. 219.

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Procedendo in questa direzione, il filosofo francese giunge alla seguente conclusione: Potremmo quindi pensare di dover classificare gli individui in due grandi categorie, a seconda della loro preferenza per una vita immaginaria o per una vita reale. Ma dobbiamo comprendere che cosa significhi una preferenza per l’immaginario. Non si tratta affatto di preferire un tipo di oggetto a un altro. Per esempio, non si deve credere che lo schizofrenico, e in generale il sognatore morboso, cerchi di sostituire al contenuto reale della sua vita un altro contenuto irreale, più attraente e brillante, e cerchi di dimenticare il carattere irreale delle sue immagini reagendo ad esse come se fossero oggetti reali effettivamente presenti. Preferire l’immaginario non è solo preferire alla mediocrità esistente una bellezza, una ricchezza, uno splendore immaginario nonostante la sua natura irreale, ma è anche ‘adottare’ un modo ‘immaginario’ di sentire e di agire proprio in quanto questo modo è immaginario. Non si tratta solo di scegliere questa o quella immagine, ma di scegliere lo stato immaginario con tutto quello che ne consegue; non si tratta solo di una fuga dal contenuto del reale (povertà, amore deluso, fallimenti delle proprie imprese, ecc.), ma della forma, dal carattere di presenza del reale, del tipo di risposte che esso esige da noi, dall’adattamento delle nostre azioni all’oggetto, dall’inesauribilità della percezione, dalla sua indipendenza, dal modo stesso che hanno di svilupparsi i nostri sentimenti (ivi).

Nei suoi lavori giovanili, Sartre evidenzia tutta l’incapacità degli approcci tradizionali, che non avevano saputo distinguere con sufficientemente precisione percezione e immaginazione, e lo fa distinguendo diversi tipi di immagine, in rapporto alla particolare materia, cui volta per volta fa riferimento l’intenzione immaginativa. Vengono distinte così immagini tratte dal mondo delle cose e immagini radicate nel nostro universo mentale: tenendo presente, dunque, che il mondo immaginario e quello reale non differiscono in virtù del proprio oggetto, la reciproca differenza è nel atteggiarsi della coscienza in rapporto a siffatti oggetti. A partire da questa considerazione, l’analisi si sviluppa verso la descrizione e lo studio unitario di quegli “atti di coscienza”, sottesi alla percezione così come all’immaginazione. In particolare, l’immaginazione si distingue dalla percezione, perché si struttura sulla base di una “nientificazione” del suo oggetto: mentre la percezione pone il proprio oggetto come esistente, l’immaginazione vive sullo sfondo della negazione, della dislocazione o dell’annullamento dell’oggetto considerato. Da qui, tanto la sua potenziale fecondità, quanto la sua altrettanto potenziale pericolosità: l’immaginazione non preludente all’incontro reale con l’altro, l’immaginazione chiusa in se stessa può essere una semplice declinazione dell’alienazione del singolo, più che non l’espressione delle sue po74


tenzialità creative. Laing recepisce la lettura sartriana, e interpreta l’iscrizione nell’immaginario e il suo valore formale nei seguenti termini, facendo della riflessione di quest’ultimo il perno di una lettura della schizofrenia; così: “Ma se una persona non agisce nella realtà, ma solo nella fantasia, diviene essa stessa irreale. Il ‘mondo’ effettivo di questa persona si immiserisce e si dissecca; la realtà del mondo fisico e delle altre persone cessa di essere usata come palestra per l’esercizio creativo dell’immaginazione, e perde sempre più il suo stesso significato”25. Conseguenza di tutto ciò è che: “[…] L’io, la cui relazione con la realtà è già tenue, perde sempre più il suo carattere reale e ne acquista uno sempre più fantastico, occupato com’è sempre di più in rapporti fantastici con i suoi fantasmi (immagini)” (ivi). Ora, gli antipsichiatri considerano l’alienazione totale e senza resto nell’immaginario proprio e altrui come una forma di alienazione, considerata a sua volta alla stregua di una condizione, al tempo stesso, generalizzata, ma non per questo originaria e, dunque, non necessaria dell’umano: da un certo punto di vista, essa è considerata fondante, ma non fondativa dell’esperienza. Il singolo non potrà che cominciare a individuarsi se non a partire dalle projezioni che altri pongono in essere su di lui, ma ciò che di fondativo in senso forte si dà, è la dialettica che lo porta ad affrancarsi, in modo più o meno felice, da quest’immaginario. La situazione, relativa a una scissione del soggetto, la sua percezione di un io “diviso”, l’essere il soggetto stesso preda dell’angoscia, sono il risultato dell’impatto traumatico con le projezioni da cui è investito: la persona come maschera, il “falso sé”, così come un sé in qualche modo non superficiale e orientato nel senso dell’autenticità, sarebbero il prodotto di meccanismi di assoggettamento, di cui il singolo è, integralmente, oggetto: l’alienazione, è dunque anche costitutiva della soggettività, ma non la esaurisce, perché l’uomo è anche attività, contraddizione, nientificazione di quest’universo che tende a colonizzarlo. In un certo senso, gli umani sono tutti in una certa qual misura schizoidi, cioè divisi dall’azione da quell’immaginario che ha la prima parola nella costruzione di ogni singolarità. In fondo, gli esiti più comuni del rapporto che ciascuno intrattiene con l’altrui immaginario sono di due tipi: da un lato, il singolo, detto “normale”, vivrebbe nel tentativo di alienare inautenticamente la propria libertà, sua dimensione “originaria”, e obliare lo scarto tra dato e costruito, annullando la tensione esistente tra le dimensioni dell’in sé e del per sé, per costituirsi nell’ambito di una rappresentazione narcisistica e immaginaria di se stesso come essere-uno, fittizia sintesi della propria scissione costitutiva (il falso sé). Il cosiddetto soggetto patologico, invece, il “pazzo”, fallendo nel suo 25 R.D.

Laing, L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, cit., p. 98.

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affrancamento dall’altrui immaginario, darebbe il suo assenso alla costruzione di un’identità “malata”, “folle”, istituzionalmente conclamata, per rassicurarsi di fronte a questa stessa dimensione. La sua sarebbe una fuga nella direzione dell’onnipotenza fantastica, strettamente collegata all’irrealtà dell’io, che però potrebbe essere preclusiva, e questo è molto importante, di una guarigione, di una salute spirituale, che non avrebbe nulla a che fare con la normalizzazione sociale, in sé patologica e deviante. In entrambi i casi, ciò che si tenta di obliare, invano, è la libertà, che originariamente caratterizza ogni soggettività, e il cui misconoscimento comporta nella vita di ciascuno, quel “ritorno del rimosso”, che, in ultima analisi, costituisce la stoffa della dimensione destinale di ciascuno. Dunque, ne L’io diviso, le categorie in gioco sono quelle del grande tentativo di denaturalizzazione della coscienza, proprio della tradizione psichiatrica di matrice fenomenologico-esistenziale, inaugurata da Jaspers26 e Binswanger27, e portato poi avanti da Minkowski: nella fase fenomenologicoesistenziale della riflessione dell’antipsichiatria inglese, e in particolare di Laing, l’essere schizoide, schizofrenico o normale, sono in fondo tre nomi per dire la singolarità: l’essere del cosiddetto schizofrenico è solo una dei possibili esiti dell’essere nel mondo del soggetto: in questo senso, l’esplosione della ‘patologia’, la sua funzione di separazione dell’individuo dal suo normale contesto relazionale, è solo fino a un certo punto una cesura rispetto all’individuo “normale”. A questo livello della loro analisi, l’alienazione “esistenziale” del soggetto precede e costituisce la patologia, ed è possibile sostenere come il delirio sia già “[…] derealizzato da un falso senso di realtà”, che però accomuna soggetti “normali” e “malati mentali”. In entrambi i casi, siamo di fronte all’esperienza sulla base della quale l’alterità dell’altro viene elusa, e quest’ultimo viene sostituito e vissuto come una personificazione, un’incarnazione di questa fantasia che, in ogni caso, è liquidazione della sua peculiare e irriducibile alterità: e il soggetto schizoide sarebbe costantemente impegnato a impiegare tutte le sue energie per prevenire la disintegrazione personale e per difendere un’unità “reale” minacciata da una pre-potente tendenza all’alienazione nell’immaginario dell’Altro. Laing e Cooper sono qui più autori di una teoria patogenetica, che non di una teoria eziologica28 della schizofrenia, ed elaborano progressivamente 26 K. Jaspers, Allgemeine Psychopatologie, tr. it. Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2000. 27 L. Binswanger, Drei Formen missglückten Verstiegenheit, tr. it. Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo, SE, Milano 1992. 28 Lo stesso Laing (The Self and the Others, tr. it. L’io e gli altri, Rizzoli, Milano 1997, p. 7) evidenzia come: “Tuttavia il lettore dovrà tener presente che non intendo sostenere che gli altri causano l’insorgere della pazzia, come non si può considerare l’alta montagna causa

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questa teoria sempre più al livello del contesto, della trama relazionale in cui si situa il singolo, del sistema di “riverberazioni reciproche”, il cui esito è la conclamata psicopatologia del soggetto, che esperisce una sofferenza falsamente singolare, essendo invece il prodotto di una trama di relazioni distorte, il cui esito finale è la “malattia”.

3. Della ricerca antipsichiatrica come rovescio della ricostruzione della biografia individuale. Il metodo regressivo-progressivo e la sua applicazione Per Sartre, così come per Freud, lo studio della biografia individuale ha un ruolo più che importante, pressoché fondamentale, nella ricerca dell’attitudine psicologica del singolo: tuttavia, vi è una profonda differenza tra i due approcci. Sartre, infatti, non cerca nelle biografie la conferma di leggi generali, che presiederebbero allo sviluppo della personalità. In questo senso, le biografie sartriane sono profondamente anti-psicoanalitiche: gli studi su Baudelaire, Genet, Flaubert, quali applicazioni del metodo progressivo-regressivo, hanno più la finalità di mostrarci attraverso quali contingenze il singolo è riuscito a fare di sé “qualcosa di diverso da ciò che gli altri hanno fatto di lui”, che non le leggi che presiedono ai meccanismi inconsci della psiche29. La convinzione di Sartre è che, in sostanza “niente può venire scoperto se, anzitutto, non ci si avvicina alla singolarità storica dell’oggetto”30. Per far questo, anche il marxismo, così attento alla dimensione materiale, di per sé non è sufficiente. È solo in questa prospettiva che possiamo guardare alla prossimità di Sartre a quei contesti nei quali si realizza il “comunismo reale”: nell’ambito di un progetto più ampio di integrazione dialettica, la di un collasso cardiaco in chi soffra di una malattia cardio-reumatica. Questo libro non espone affatto alcuna teoria eziologia della pazzia”. 29 Per S. Sportelli (Sartre e la psicanalisi, Dedalo, Bari 1981, p. 107): “Tra le applicazioni della psicanalisi che Freud ed altri psicanalisti ci hanno lasciato, un posto di rilievo è certamente occupato dalle biografie di grandi uomini, e in particolare di scrittori e artisti. Lo scopo di queste biografie psicanalitiche non era unico: non si trattava solo, con esse, di cogliere ‘le leggi della vita psichica’ o di verificare le possibilità ermeneutiche del metodo, ma anche – soprattutto quando riguardavano personaggi della letteratura e dell’arte – di cogliere i meccanismi psichici del processo creativo e della scelta stessa dell’attività artistica. Anche Sartre ci dà come esempi di applicazione della psicanalisi esistenziale, alcune biografie di scrittori, e gli objettivi che si pone sono gli stessi. Ma il filosofo francese non crede, come Freud, che ‘un’indagine psicoanalitica non riuscirà mai a illuminarci sulla necessità che l’individuo sia divenuto quello che è e nessun altro’, e che ci si debba arrestare al semplice riconoscimento di un ‘margine di libertà’, che non si può ulteriormente scomporre con la psicoanalisi”. 30 J.-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, cit., p. 105.

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riflessione marxiana avrebbe l’obbligo di integrare discipline maturate anche in ambito sociale borghese, in un contesto politico come quello occidentale, e, tra queste, prima di tutto la psicoanalisi e la sociologia, tese a fornire un giusto inquadramento del radicamento dell’oggetto di studio in un dato contesto. Per realizzare queste finalità, ci si muove nell’ambito di una serrata critica del trascendentalismo kantiano31: per l’intellettuale francese ciò che è dato, lo sfondo sul quale si staglia l’esistenza come tensione verso l’alterità non è costituito né da una struttura logico-trascendentale, né, tantomeno, dalla forma, intesa realisticamente, alla maniera degli strutturalisti, come forma materiale. Piuttosto, si tratta di un insieme di condizioni materiali, definibili come condizionamento, di cui alcune discipline borghesi non definirebbero altro, se non la formalizzazione. Il marxismo deve rendere ragione di quelle tensioni anche politicamente regressive nel cui alveo si strutturano gli oggetti in quanto singolari. Si tratta allora di definire le linee di un metodo che Sartre qualifica come “progressivo-regressivo” sulla scorta di quanto elaborato da un altro filosofo francese, Henri Lefebvre32. Quest’ultimo, in un articolo datato 1953, traccia le linee del possibile intervento nella riflessione teorica marxista di altre discipline, empiriche, tese a sviluppare un metodo euristico, solo in grado di rendere ragione di quell’“universale-singolare” che è di ciascun oggetto. Questo metodo era strutturato in tre fasi: a un primo momento, squisitamente descrittivo, di natura fenomenologica, dovevano affiancarsi indagini di tipo “analitico-regressivo” e “storico-genetico”, in corrispondenza di un duplice movimento, di progressione e di regressione. In questo modo, Sartre può fondare le istanze storicistiche di inquadramento dell’oggetto in un certo contesto storico, senza disancorarle da una metodologia che però sfugge da ogni parte al determinismo; è in questi termini che Sartre definisce un metodo, al tempo stesso “regressivo-progressivo e analitico-sintetico; nonché un andirivieni 31 Sul rapporto Sartre-Kant, cf. F. Scanzio, Sartre critico di Kant, in: “Paradigmi. Rivista di critica filosofica”, 26, IX/ 1991, p. 283-310. 32 Cf. H. Lefebvre, Perspectives de sociologie rurale, in: “Cahiers de Sociologie”, 1953. Laing e Cooper, riprendendo la dialettica universale-singolare, sostengono, a proposito di questa metodologia: “Sartre ritiene valido questo metodo con modifiche, per tutti i metodi dell’antropologia, e lo applica poi anche agli individui e ai rapporti concreti tra gli individui. Se vogliamo comprendere, per esempio, Valéry, un intellettuale proveniente dal gruppo storico concreto della piccola borghesia francese della fine del secolo scorso, non dobbiamo rivolgerci ai marxisti. Essi preferiscono sostituire a questo ben definito gruppo l’idea delle sue condizioni materiali e delle sue relazioni con altri gruppi e delle sue condizioni interne. Si torna così alle categorie economiche, e si vedono le oscillazioni dell’atteggiamento sociale della piccola borghesia, in relazione al suo contemporaneo timore della concentrazione capitalistica da una parte e della rivalsa popolare dall’altra. Questo schema di universalità è del tutto vero nel suo livello di astrazione. Ma noi stiamo trattando di Valéry, di un particolare uomo” (Ragione e violenza, cit., p. 51-52).

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proficuo tra l’oggetto (che contiene tutta l’epoca come significati gerarchizzanti) e l’epoca (che contiene l’oggetto nella sua totalizzazione)”33. In questo stile di ricerca, sono coimplicati due momenti: il recupero di ciò che Sartre stesso chiamerà “costituzione” ne L’idiot de la famille, ossia l’insieme di quei condizionamenti sociali, e familiari in senso lato, che costituiscono il punto di partenza nel percorso attraverso il quale il singolo “sceglie di diventare ciò che è”. Il secondo momento sarà costituito dal rendere intelligibile quel movimento progressivo di sintesi, costituito dalla progressiva interiorizzazione delle singole determinazioni costitutive, che vivono però all’interno di un processo di totalizzazione che non giunge mai a totalizzarsi in modo compiuto, e che è inclusivo della progressiva esteriorizzazione in azioni delle sue determinazioni costitutive. Questo metodo di lavoro apparteneva in fondo, seppur implicitamente, al bagaglio dell’intellettuale, già prima della sua formalizzazione. Guardiamolo all’opera già in una raccolta giovanile di racconti. Se il racconto che dà il titolo all’opera di Sartre, Il muro, ci avvicina alla tematica della contingenza storica, all’eterogenesi dei fini, all’incapacità del singolo di padroneggiare le conseguenze delle sue azioni, è nell’ambito della stessa raccolta che Erostrato, La camera, L’infanzia di un capo, ci offrono spunti introduttivi a una riflessione relativa al rapporto che Sartre intrattenne con lo spazio delle discipline psicologiche, psicoanalitiche e psichiatriche. È altresì chiaro che quest’ambito di riflessione costituisce una felice intersezione con il percorso fenomenologico-esistenziale di Sartre, impegnato a superare la tradizionale prospettiva di ricerche orientate a pensare il fenomeno di coscienza nei termini di un fondamento stabile. A esse il filosofo francese muove l’accusa di voler fissare ogni movimento di separazione e di trasformazione in categorie astratte il cui logicismo andrebbe ricondotto a una decostruzione genealogica dei rapporti di potere piuttosto che a un’effettiva rispondenza al proprio oggetto e alla sua pensabilità (è questo il caso della psicologia quando tenta di darsi uno statuto scientifico). Si tratta di restituire alla coscienza la sua dimensione immanente, decentrata, e della quale non è pensabile un autentico padroneggiamento34. Ciò che, anzitutto, interessa qui, è mettere in risalto come la riflessione del filosofo francese maturi, come abbiamo visto, da l’Essere e il nulla alla 33 J.-P.

Sartre, Critica della ragione dialettica, cit., p. 105. “Non definirei la follia come un viaggio nell’inconscio. Le nostre menti celano sempre la tendenza, fuorviante, a pensare in termini della singola persona quando parliamo di schizofrenia, follia o sanità, e simili. Dobbiamo tener presente che il linguaggio ci induce costantemente nell’errore che in L’essere e il nulla Sartre imputa a Hegel e Heidegger, financo a Husserl. Ossia l’errore di parlare d’un tratto della soggettività del tale come se non fosse intersoggettiva, come se la si potesse estrapolare dall’universo come un’essenza, come una cosa in sé” (R. D. Laing, Intervista sul folle e il saggio, cit., p. 109). 34 Così:

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Critica della ragione dialettica, nell’ambito di una progressiva apertura alle dimensioni dell’alterità, inclusiva non solo ed esclusivamente dell’intersoggettività, ma anche della materialità, della storia (pensiamo alla teoria degli insiemi pratici, alla rareté cui spesso si fa cenno). Nell’ambito di tale progressiva articolazione del suo pensiero è inquadrabile l’apertura maturata nei confronti della psicoanalisi e della sociologia, come discipline ausiliarie, delle quali pure non manca di evidenziare i limiti, legati a un certo meccanicismo nell’applicazione delle rispettive categorie. La sua critica ha il seguente tenore: il marxismo e l’analisi del profondo hanno aperto una strada feconda nella direzione del “concreto” (Sartre fa suo il grido di battaglia di Jean Wahl che, in quegli stessi anni, sostenendo l’interpretazione degli scritti giovanili e della Fenomenologia contro lo Hegel sistematico della Scienza della logica, esclamava programmaticamente: “verso il concreto!”), ma non sarebbero stati in grado di portarla fino in fondo, irrigidendosi nella ricerca di complessi e archetipi sovrastrutturali e astorici (nel caso della psicanalisi), o riducendo il concreto all’economico (nel caso del marxismo). Quanto con questa critica Sartre apra al superamento della modernità e apra al post-moderno, non può essere oggetto della presente ricerca; ci limiteremo a riferire il punto di vista di Montano, che, tracciando un bilancio di questo percorso teorico, sostiene: L’intento di Sartre, nel rivitalizzare la modernità, mira a riequilibrare il rapporto tra coscienza e mondo, tra soggettivismo e realismo. Tale progetto, avviato nel 1946 con Matérialisme et révolution, sembra esprimere il punto più alto della sua potenzialità nella Critique de la raison dialectique, ma trova un momento di qualificata ed efficace espressione nei Cahiers pour une morale, un libro postumo appunto. Un tale equilibrio, così come oggi è auspicato da Alain Touraine, Sartre a nostro avviso non lo ha raggiunto35.

Si tratta, allora, per Sartre di sviluppare delle discipline ausiliarie capaci di cogliere a fondo la mediazione dialettica che articola il reale sin nelle forme che ai singoli giungono come fenomeni, in opposizione al positivismo che li considera autoevidenti e certi sin dall’inizio. È la biografia individuale a rappresentare un importante momento della costituzione del concreto, e ciò attraverso una rivalutazione dell’infanzia: Sartre condivide lo sforzo freudiano di ritrovare nella preistoria del singolo la chiave della sua attualità. Il significato del ricorso a un metodo come quello progressivo-regressivo è tutto qui. Questa ricerca non sarà però segnata dall’oggettività, dalla passività inerme dell’interprete di fronte alla propria storia personale, quanto, al 35 A. Montano, Il disincanto della modernità. Saggi su Sartre, La Città del Sole, Napoli 1994, p. 20.

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contrario, dall’emersione della dialettica di assoggettamento e di soggettività, di attività e passività, di costituito e costituente, il cui risultato, mai definitivo e sempre, fortunatamente, incompiuto, è l’essere “ciò che si è”. È in questione una tensione alla costituzione della singolarità, forma di decisione in qualche modo “originaria”, che insieme a tutti i suoi travisamenti possibili, i misconoscimenti, gli adattamenti, le dimenticanze, costituirebbero per Sartre l’inconscio36. È solo a partire dalla problematica inerente alla progettualità del singolo e alla dimensione di scelta a esso collegata, che ha senso l’autobiografia individuale, oggi così tanto ripresa dagli approcci narratologici in tutt’altra accezione, quella della costruzione a scopi terapeutici di un racconto individuale in qualche modo “socialmente condivisibile”, segno dell’avvenuta normalizzazione del paziente dopo la terapia. Solo nell’ottica costituente-costituito Sartre riprende la nozione prima freudiana e poi lacaniana di inconscio, nozione originariamente schiacciata nell’ambito della psicanalisi esistenziale (e quindi al livello de L’essere e il nulla) sulla semplice dialettica tra in sé e per sé, ossia tra le dimensioni costituite dell’esistenza e quelle segnate invece dall’esposizione soggettiva, dalla scelta e dalla responsabilità individuale. Sartre, dopo un iniziale rifiuto, dichiara “plus interessant”37 la concezione dell’inconscio di Freud prima e di Lacan poi, sebbene lo colga, coerentemente con le sue premesse teoriche, sub specie fenomenologico-esistenziale, continuamente “doublée d’une réelle compréhension” (ivi). Così: Per quanto concerne la struttura inconscia del linguaggio, dobbiamo ammettere che la presenza di certe strutture del linguaggio rende conto dell’inconscio. Per me, Lacan ha chiarificato l’inconscio in quanto discorso che separa attraverso il linguaggio, o, se si preferisce, in quanto controfinalità della parola. Degli insiemi verbali (le lacaniane concatenazioni di significanti) si strutturano come insieme pratico-inerte attraverso l’atto del parlare, orbene tali intenzioni esprimono o costituiscono delle intenzioni che mi determinano senza essere mie38. 36 Così: “In un certo modo nasciamo tutti predestinati. Siamo votati a un certo tipo d’azione fin dalle origini dalla situazione in cui si trovano la famiglia e la società in un momento dato […]. La predestinazione è che sostituisce in me il determinismo: io ritengo che noi non siamo mai liberi – almeno provvisoriamente, oggi – poiché siamo alienati. Ci si perde sempre nell’infanzia: i metodi di educazione, il rapporto genitori-bambino, l’insegnamento, ecc., tutto ciò dà un io, ma un io perduto”, J.-P. Sartre, Sur «L’idiot de la famille», in: Situations, X, Gallimard, Paris 1976, p. 100, cit. in: S. Sportelli, Sartre e la psicanalisi, cit., p. 148. Sul tema dell’interesse sartiano per la biografia, cf. l’importante contributo, curato da G. Farina e R. Kirchmayr, Soggettivazione e destino. Saggi intorno al Flaubert di Sartre, Mondadori, Milano 2009. 37 J.-P. Sartre, Sartre par Sartre, in: Id., Situations, IX, Gallimard, Paris 1972, p. 110111. 38 J.-P. Sartre, Entretien sur l’anthropologie”, originariamente in: “Cahiers de philosophie”, febbraio 1966, poi in Situations, IX, cit., tr. it. L’antropologia, in: L’universale

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Tali insiemi si costituiscono, ancora, attraverso la nozione di intenzionalità, che investe da cima a fondo l’opera sartriana: non c’è processo mentale che sfugga alla legge dell’intenzionalità, e che non sia invischiato, deviato, tradito dal linguaggio; al tempo stesso Sartre rileva sino a che punto il singolo sia complice di questi “tradimenti” di cui pure si nutre il falso mito della profondità della coscienza, che, in quest’ottica, deve esser portata a uno stato di “purezza”, di “trasparenza” (qui emerge ancora il sostrato cartesiano del discorso dello scrittore francese)39. Ed è in questi termini che Sartre tematizza la scissione lacaniana tra soggetto dell’enunciazione e soggetto dell’enunciato: ogni intervento del significante produce di fatto una situazione in cui il soggetto è alienato rispetto al proprio discorso e non ha su di esso alcun effetto di “padroneggiamento”. In base a quanto detto, per lo scrittore francese, l’enunciato non può mai esser preso in quanto tale, ma è come un enigma, un rebus dietro al quale si nasconde il soggetto, sempre e solo nella misura in cui si ritenga centrale la nozione di intenzionalità. Il linguaggio e l’alienazione linguistica hanno, da un certo punto in poi, un valore assai importante nella riflessione sartriana sul fenomeno di coscienza, o, come si dirà a partire dalla Critique, sul vissuto, per il fatto che nello spazio diviso e fratturato dall’azione del linguaggio, il singolo si scopre al tempo stesso diviso, mancante e libero. Il linguaggio è, però, solo uno degli insiemi pratico-inerti in cui il singolo misura il fraintendimento di se stesso, ed esperisce quella non-coincidenza, quella mancanza d’essere, che è al tempo stesso ciò che fonda all’origine la sua libertà: la sua infanzia, a questo punto, assolve anche a un’altra funzione, giacché evidenzia il rapporto che il soggetto intrattiene prima di entrarvi de jure, con le maglie del linguaggio. Il linguaggio – lo ribadiamo – è però solo uno degli insiemi pratico-inerti che assoggettano il singolo rendendo puramente ipotetico il dominio che costui ha su di esso; questo fraintendimento si riproduce nelle istituzioni socializzanti che hanno quale scopo la produzione di soggettività. Già a partire dalla Trascendenza dell’ego40 l’io non è per Sartre mai coincidente con se stesso, mai padrone in casa propria: anche qui, in una certa e il singolare. Saggi filosofici dopo la “Critique”, c/ di F. Fergnani e P. A. Rovatti, Il Saggiatore, Milano 1980, p. 133. 39 Resta imprescindibile, sul punto, la riflessione contenuta in J.-P. Sartre, La liberté cartesienne, cit. 40 È in questi termini che il filosofo francese attesta del processo di radicale delocalizzazione della coscienza: “Per la maggior parte dei filosofi l’Ego è un ‘abitante’ della coscienza. Alcuni affermano la sua presenza formale in seno agli Erlebnisse in qualità di un principio vuoto di unificazione. Altri – per lo più psicologi – pensano di scoprire la sua essenza materiale, come centro dei desideri e degli atti, in ogni momento della nostra vita psichica. Noi vorremmo mostrare qui che l’Ego non è né formalmente, né materialmente nella coscienza: è fuori, nel mondo; è un essere nel mondo, come Ego dell’altro”, J.-P. Sartre,

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sintonia con la riflessione lacaniana in tema di immaginario (si pensi alle riflessioni contenute ne Lo stadio dello specchio41), l’io appare completamente schiacciato sul versante immaginario. Saremmo di fronte, in altri termini, al “semplice” prodotto di un’identificazione ipostatizzante, nell’ambito della quale il singolo cercherebbe un rimedio a un’altra opzione dividente che lo caratterizza: quella tra vissuto psichico e vissuto corporeo. Così, Sartre tenta di comprendere la soggettività nel suo istituirsi, in modo da pensare la singolarità come il prodotto mai definitivo di un’operazione di assoggettamento: anche così, l’uomo è passione inutile, tesa al superamento costante della datità e del limite che la situazione gli pone, talora anche in modo fecondo42. Il suo stesso stile narrativo testimonia di questa tensione teorica, anche al livello di un’opera giovanile, come Il muro: il racconto dal titolo L’infanzia di un capo già contiene, in nuce, questa concezione, in cui il metodo progressivo-regressivo contiene già una critica delle tendenze ipostatizzanti della psicoanalisi. Luciano, il suo protagonista, vive un’infanzia “indicibile” che lo porterà a un’avventura con un compagno altrettanto “indicibile”. Saranno prima la sicurezza e l’agio della famiglia e poi la vocazione al comando a ribaltare – o meglio a capovolgere – quell’insostenibile situazione di passività, e l’attitudine al comando si costituisce come una compensazione in cui l’intollerabile è ricondotto all’ordine. Così, il protagonista vi afferma: “Ho rischiato di perdermi, ma sono stato protetto dalla mia sanità morale!”. Nel commentare la progressiva normalizzazione del protagonista, Sartre scrive:

La transcendance de l’Ego, in: “Recherches philosophique”, 6/ 1936-37, tr. it. La trascendenza dell’Ego. Una descrizione fenomenologica, Egea, Milano 1992, p. 17 s. 41 Cf. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in: Scritti, tr. it. Einaudi, Torino 1974, 2 voll., p. 686 s. 42 “Qui Sartre opera apparentemente una conversione di rotta rispetto ai giudizi sulla psicoanalisi espressi ed argomentati nelle opere precedenti: ora egli afferma che solo la psicoanalisi è in grado di toccare il livello originario, restituendo all’uomo la sua interezza con tutto il peso della sua storia personale: ma noi sappiamo che egli si riferisce alla psicoanalisi esistenziale; dobbiamo dunque fare la debita tara. Ricostruendo il modo con cui il bambino vive le proprie relazioni sociali nella mediazione della sua particolare famiglia, la psicoanalisi definisce il ruolo dell’istituzione, e il modo personale di vivere originariamente le dinamiche sociali attraverso le prassi degli altri; così, all’interno di una totalizzazione dialettica si possono inquadrare da un lato le condizioni materiali della strutturazione oggettiva dell’individuo, e dall’altro l’azione determinante e ineliminabile dell’infanzia sulla prassi adulta”. Cf. G. M. Tortolone, Invito al pensiero di Jean-Paul Sartre, cit., p. 153. Sul rapporto tra Sartre e la psicoanalisi, cf., tra gli altri, i contributi di P. Verstraeten, Sartre et son rapporte à la névrose objective, in Autour de Jean-Paul Sartre. Littérature et philosophie, c/ di P. Verstraeten, Gallimard, Parigi 1981, p. 19-54, nonché Sartre et la psychanalyse lacanienne, in: Sartre après Sartre, c/ di G. Farina, Aragno, Torino 2008.

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La sera, a cena, guardò suo padre con simpatia. Il signor Fleurieur aveva le spalle quadrate, i gesti lenti e pesanti d’un contadino e al tempo stesso qualcosa che rivelava una vecchia razza, e gli occhi grigi, metallici e freddi d’un capo. “Gli rassomiglio”, Luciano pensò. Si ricordò che i Fleurier, di padre in figlio, erano capi d’industria da quattro generazioni: “Hanno un bel dire che la famiglia non esiste!” E pensò con orgoglio alla sanità morale dei Fleurieur43.

Nella “conversione” di Luciano Fleurieur, possiamo scorgere in sequenza la rimozione del vissuto infantile, la famiglia come struttura che rafforza la posizione di mistificazione del soggetto rispetto alla propria infanzia, nonché la possibilità che la stessa istituzione offre, quando fornisce il supporto identificativo per un’impossibile unità di vissuto corporeo e rappresentazione, mediato dalla tradizione. In verità, però, solo qualche pagina prima, di fronte all’assurdo dell’esistenza, di fronte alla sua radicale ingiustificabilità un altrettanto “valido” supporto identificativo glielo aveva offerto la psicoanalisi, che gli fornisce un’identità. Scrive Sartre: Era alquanto sedotto dal piglio scientifico che avevano preso le loro confidenze e il giovedì seguente lesse un libro di Freud alla Biblioteca Santa Genoveffa. Fu una rivelazione. ‘Dunque è così’, – ripete a se stesso Luciano girando a caso per le strade, dunque è così! Comperò in seguito L’introduzione alla psicoanalisi e la Psicopatologia della vita quotidiana: tutto divenne chiaro ai suoi occhi. Quella strana impressione di non esistere, quel senso di vuoto che era rimasto a lungo nella sua coscienza, le sue sonnolenze, le sue perplessità, quei vani sforzi per conoscer se stesso, i quali non incontrano mai altro che un velo di nebbia si dissolvono… (ivi, p. 154).

Sartre rifiuta consapevolmente l’opzione sostanzialistica della psicoanalisi, troppo spesso tesa alla ricerca di categorie non esplicative quanto costitutive dell’esperienza, criticandone la tendenza a confondere e sovrapporre aspetti impropriamente mutuati dal meccanicismo e dalla teleologia. Ma non solo; in verità egli fornisce anche solidi argomenti, tanto organicistici che cognitivistici alla critica dell’approccio oggettivante e reificante della psichiatria. Se la sua attenzione è rivolta alla comprensione dei meccanismi di elaborazione intellettuale e artistica delle situazioni di sofferenza (sublimazione), le neonate correnti antipsichiatriche applicheranno queste riflessioni alle situazioni nelle quali questi meccanismi di elaborazione in qualche modo “vengono meno”, lasciando il paziente in preda alle forme di esclusione e di etichettamento che prima la famiglia e poi le istituzioni di cura pongono in

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J.-P. Sartre, Le mur, Gallimard, Paris 1939, tr. it. Il muro, Einaudi, Torino 1995, p. 177.

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essere. A partire da L’io diviso44, di ispirazione esistenzialistica e assai vicino all’Essere e il nulla, la psichiatria critica d’oltremanica costruisce un percorso parallelo a quello che porterà Sartre alla scrittura della Critica della ragione dialettica. Il filosofo e intellettuale francese scriverà poi l’Introduzione a due opere fondamentali dell’antipsichiatria: I dannati della terra45 dell’etnopsichiatra Fanon e Ragione e violenza46 di David Cooper e Ronald Laing (che reca come sottotitolo, significativamente Un decennio di filosofia sartriana 1950-1960), fornendo un sostanziale avallo alle due opere. Egli contribuisce a problematizzare il rapporto che ogni scienza e ogni “tecnico” intrattiene col potere, nell’ospedale come nella scuola, cooperando nel fornire quadri di stabilizzazione del reale, funzionali alla stratificazione di ruoli di potere e alla definizione di un “dentro” e di un “fuori” dello spazio del ragionevole: il delirio è costantemente legato a quel de-lirare che è pratica di esclusione dal campo della ragione che ha luogo prima di tutto entro le mura rassicuranti delle famiglie, e il cosiddetto folle è colui che presta il proprio essere a quest’operazione sacrificale. Con tutto ciò, non è possibile sostenere, per Sartre come per gli antipsichiatri, che la situazione di sofferenza sia quella di un’esistenza “mancata” più d’ogni altra, come vuole Ludwig Binswanger a partire dalle sue Tre forme d’esistenza mancata47: il paziente non va riabilitato a un pieno possesso del suo destino, quanto a una

44 Così: “Anche l’isterico, dal canto suo, dissocia se stesso da gran parte delle sue azioni, ma in un suo modo caratteristico. La descrizione migliore di questa tecnica di evasione si trova, secondo me, nel capitolo sulla ‘malafede’ ne L’Être et le néant di Sartre, in cui si ha un brillante resoconto fenomenologico dei vari modi di fingere con se stessi e di non essere ‘in’ ciò che si sta facendo: forma di evasione da una piena partecipazione personale alle proprie azioni, che per il carattere isterico assume l’importanza di un modo di vivere. Naturalmente il concetto sartriano di ‘malafede’ va molto al di là di questo aspetto particolare”. R. D. Laing, L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, cit., p. 110. 45 F. Fanon, Les damnés de la terre, Parigi 1961, tr. it. I dannati della terra, con una Prefazione di J.-P. Sartre, Einaudi, Torino 2000. 46 Nell’ambito della sua Presentazione, Sartre non manca di evidenziare e ribadire le convergenze metodologiche tra i rispettivi approcci, nell’ambito di un complessivo progetto di relativizzazione della malattia, considerata comunque espressione funzionale delle esigenze del vivente: “Sono come voi del parere che non sia possibile comprendere le turbe psichiche dal di fuori, partendo dal determinismo positivista, né credo si possa ricostruirle attraverso una combinazione di concetti che restano all’esterno della malattia vissuta. E credo, inoltre, che non si possa né studiare, né guarire una nevrosi senza un rispetto radicale per quella che è la persona del paziente, senza uno sforzo costante per cogliere la situazione di base e riviverla, senza che ci si adoperi per rintracciare la risposta della persona a questa situazione: io – come voi, credo – considero la malattia mentale come la via d’uscita che l’organismo libero, nella sua unità totale, si inventa per poter vivere una situazione invivibile” (in: R. D. Laing, D. Cooper, Ragione e violenza, cit., p. 7). 47 L. Binswanger, Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo, cit.

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forma di depossessamento della propria storia individuale più felice e più produttiva tanto dal punto di vista artistico che da quello intellettuale.

4. Alienazione e strutture sociali. La “morte della famiglia”, compito politico preliminare a ogni possibile emancipazione Quali le conseguenze delle indagini antipsichiatriche in materia di intersoggettività, così influenzate dalla svolta di Sartre, che elegge a oggetto della sua riflessione gli insieme pratici? I risultati della ricerca dell’intellettuale francese trapassano nella riflessione antipsichiatrica, e non potrebbe essere diversamente, essendo in questione la definizione di pratiche, se non addirittura di tecniche, il cui objettivo è la liberazione, pensata all’interno e non al di fuori di strutture di assoggettamento: è in questo senso che si fa riferimento all’attivazione di una potenza del singolo, che parte dalla passività del soggettivarsi, del costituirsi “in guisa mediata” come soggetto. Già al livello de L’io e gli altri si rileva un primo cambiamento nella prospettiva d’indagine rispetto a L’io diviso: il singolo sofferente è considerato, da sempre, alienato in una rete fantasmatica che lo costituisce come “ontologicamente insicuro”: quest’effetto di alienazione non si percepisce nell’attualità, essendo rinvenibile solo nell’après coup, e quindi a posteriori. L’uomo com-preso com’è in un “sistema sociale di fantasia”, che tende a configurarlo, a nominarlo, a pre-determinarlo, non sempre riesce a sottrarsi48. Laing tende a dimostrare come la psicosi tradizionalmente intesa

48 Sulla scorta dell’osservazione di Bion, che testimonia dell’esperienza, di natura evidentemente controtransferale, sulla scorta della quale l’analista, in certe realtà: “[…] si sente manipolato in modo da svolgere un ruolo, non importa quanto difficile da riconoscere, nella fantasia di qualcun altro – o almeno lo riconoscerebbe se non fosse per ciò che, nel ricordo, egli chiama una perdita temporanea di insight, una sensazione di stare sperimentando forti sentimenti e allo stesso tempo la convinzione che la loro esistenza sia del tutto adeguatamente giustificata dalla situazione oggettiva, senza dovere ricorrere a recondite spiegazioni per trovare la causa del loro manifestarsi” (W. Bion, Group dynamics: a re-view, in: New Directions in Psychoanalysis, c/ di M. Klein, P. Heimann e R. Money-Kyrle, tr. it. Nuove vie della psicoanalisi, il Saggiatore, Milano 1966, p. 446). Laing, riconoscendo come l’analista sia colui il quale è in grado di scuotersi dal paralizzante senso di realtà indotto da questo stato, osserva che questa facoltà è decisamente fuori del comune. Così (L’io e gli altri, cit., p. 36): “Il fatto notevole qui osservato è che la perdita delle proprie percezioni e valutazioni individuali (la perdita, cioè, delle proprie appercezioni), ciò che chiamerò l’esser collocati in una posizione falsa, viene ‘capita’ solo retrospettivamente. Mentre la persona è alienata, essa può sentirsi ‘reale’; e, pur non ‘sentendosi’ paralizzata, può di fatto essere paralizzata, per quanto riguarda la propria appercezione o insight, proprio da questo stesso senso di ‘realtà’. Lo scuotersi da questo falso senso di realtà richiede una capacità del tutto fuori dell’ordinario. Ciò implica una derealizzazione del precedente falso senso di realtà ed

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possa essere rappresentata come il tentativo, fallimentare, di occupare o sfuggire una posizione che, nell’immaginario dell’Altro, si configura come per lui insostenibile; in questo senso: Alcuni gruppi operano nel loro ambito quasi interamente a un livello di fantasia. La famiglia può essere un gruppo o un nesso di questo tipo. È mia opinione che gli individui abbiano capacità (e forse necessità diverse) di scuotersi dal sistema di fantasia di un nesso. Se una persona ha una posizione sostenibile all’interno del sistema familiare di fantasia, può non avere un bisogno molto urgente di sforzarsi di emergerne. Ma se la sua posizione è insostenibile, allora il suo bisogno di emergerne è più disperato, mentre i suoi mezzi per farlo sono già compromessi (ivi, p. 37).

Tecnicamente, è chiaro come gli antipsichiatri lavorino avendo come riferimento, se non come paradigma, la relazione d’oggetto, e, conseguentemente, la relazione duale con la madre, che, però, in senso qui anti-psicanalitico, non è assolutizzata, né, tanto meno, considerata alla stregua di un archetipo: allo stesso modo dell’Edipo, il rapporto madre-bambino è considerato come un sottoinsieme di un più vasto sistema di relazioni: da questo punto di vista, antipsichiatria e pensiero post-freudiano non cessano di interrogarsi vicendevolmente. Nell’ambito del progressivo passaggio dalla dimensione individuale a quella più propriamente relazionale, la famiglia diviene il luogo “elettivo” in cui si situa quell’alienazione che abbiamo definito, se non fondamentale, certamente normalmente istituente la dimensione del singolo, luogo in qualche modo originario di una “violenza dell’interpretazione”, espropriante esilio della singolarità da se stessa49. Nella fase più lucida del loro pensiero, prima che una tendenza misticoestetizzante prendesse il sopravvento, Laing, Cooper e Esterson operano un superamento della prospettiva tradizionale, e lo fanno nella direzione propria dell’approccio caratterizzante la stessa teoria critica della Scuola di Francoforte, condivisa pure da tanta parte della letteratura sociologica e antropologica, secondo cui la famiglia è “semplicemente” un microsistema, da porre in relazione a un macrosistema sociale, strutturato sulla base di idee-forza una rirealizzazione del nuovo senso di realtà. Solo allora una persona è in grado di appercepire il sistema sociale di fantasia nel quale è sommersa”. 49 Cf. R. D. Laing, Mystification, confusion and conflict, in: Intensive family therapy: Theoretical and practical aspects, c/ di I. Boszormenyi-Nagy, J. Framo, Harper & Row, New York 1965. Per un’introduzione al disagio familiare in senso psichiatrico, seppur non dotata della corrosiva impostazione criticità degli esponenti dell’antipsichiatria, cf. M. Selvini Palazzoli, S. Cirillo, M. Selvini, A. M. Sorrentino, I giochi psicotici nella famiglia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1988.

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interpretabili politicamente, economicamente, ideologicamente50. La considerazione congiunta della famiglia come entità storico-sociale, strutturata all’interno di dinamiche che ne determinano i modi e le forme di esistenza, nonché, a sua volta, strutturante il carattere e i comportamenti dei suoi stessi componenti, viene superata a favore della considerazione sulla cui scorta, pur essendo la famiglia stessa cellula storicamente e culturalmente connotata, in grado di tenere in sé la dialettica di natura e cultura, i processi di socializzazione che le sono propri, pur essendo nella loro essenza culturali, tenderebbero, permanendo nella loro costitutiva artificialità, a definire le modalità di un passaggio che da un lato è avvenuto da sempre, ma che dall’altro non cessa di scriversi, circoscrivendo la differenza tra esseri che non hanno accesso all’ordine del linguaggio, al riconoscimento di soggetto, permanendo esseri “naturali” i cosiddetti folli, ed esseri “culturali”, riconosciuti e iscritti nell’ordine del linguaggio, i cosiddetti “sani”. Ecco che le personalità cosiddette sane e le personalità cosiddette patologiche trovano la propria ragion d’essere nell’interiorizzazione di rapporti familiari, che fanno, di una famiglia, “la Famiglia”, ossia l’orizzonte destinale in cui il singolo si iscrive, la sua modalità di soggettivazione fondamentale, fondata sull’interiorizzazione reciproca da parte di ciascuno della stessa interiorizzazione reciproca: a partire da una definizione che è di Sartre, è possibile sostenere come, per Laing, l’unità della famiglia risieda all’interno di ciascuna sintesi e ciascuna sintesi è connessa, tramite l’interiorità reciproca, con l’interiorizzazione reciproca dell’interiorizzazione reciproca. La strutturalità dell’Edipo, sostenuta con tanto vigore dagli orientamenti psicoanalitici di matrice lacaniana, viene letta come il prodotto formalizzato della relativa stabilizzazione della modalità di interiorizzazione di rapporti di assoggettamento, rapporti, tout-court, di forza, privi di qualsivoglia valenza pedagogica e inculturante. Se, però, l’ottica degli antipsichiatri è quella di riportare la pretesa autonomia delle strutture ai processi, e, quindi, alle prassi e ai rapporti di potere che le generano, è importante chiedersi in cosa consista materialmente tale movimento di assoggettamento del singolo alla struttura familiare. Laing è molto chiaro sul punto, specificando come siamo in presenza di meccanismi legati alla pura e semplice projezione, intesa come fatto psicologico, per lo più messa in azione dalle persone in causa, in modo non del tutto volontario e cosciente, projezione rafforzata però da un’ingiunzione che le conferirebbe carattere di coattività. 50 Per un’interessante lettura, che bene rende il senso del dibattito sulle trasformazioni della famiglia in quegli anni, seppur fortemente circoscritta all’ambito italiano, cf. Famiglia e società capitalistica, c/ di L. Castellina, “Il Manifesto”, Quaderno n.1, Alfani Editore, Roma 1974.

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Una projezione pura non basta. In quanto immagine di rapporti spettrali, tramite l’operazione di projezione, noi induciamo altri, e siamo noi stessi indotti, ad incarnarle: per rappresentare, a nostra insaputa, uno spettacolo di ombre cinesi, come immagini di immagini […] dei morti, che hanno a loro volta incarnato e rappresentato tali drammi projettati su di loro, ed indotti in loro, da quelli che li precedettero. È sorprendentemente lucida la comprensione e la resa in termini logici del meccanismo in cui la projezione diviene realtà sul soggetto, rendendo reale quell’area tra essere e non-essere, tra essere e nulla: le ombre che la famiglia projetta sui suoi membri, e che ne determinano l’appartenenza, che non è mai solo formale, essendo strettamente subordinata alla realizzazione di questa fantasmatica, ossia alla materializzazione di questo non-essere, diventano realtà51.

Ancora secondo Laing: “Un modo per far fare a qualcuno la propria volontà è quello di impartire un ordine. Tutt’altra cosa è indurre qualcuno ad essere ciò che si vuole egli sia, oppure si suppone sia, oppure si teme egli sia (lo si voglia o no), vale a dire indurlo a incarnare le proprie projezioni” (ivi). Il meccanismo di soggettivazione all’interno della famiglia, dunque, sarebbe fatto di projezioni di interpretazioni violente, anche se involontarie, che il singolo deve rendere “carne”, materializzandole: ma è davvero sorprendente come, per Laing, quest’operazione non passi per la formulazione di un comando, di un ordine, al quale, teoricamente, ci si potrebbe sempre sottrarre, quanto, più capziosamente, per la definizione di rapporti che si propongono come spontanei, naturali, e che sono nell’ordine del Sein, più che del Sollen. L’obbedienza, il dover-essere, l’ingiunzione, sono considerati solo in seconda istanza, sono fatti secondari: la famiglia agisce prima di tutto al livello della definizione affettiva del singolo, il cui comportamento è solo successivo all’introiezione di tale definizione di sé da parte di altri: devi essere come io ti voglio, è il messaggio preliminare e pre-linguistico rivolto al figlio, ma solo perché e nella misura in cui sei già così. Si potrebbe racchiudere in questa formula quella mistificazione fondamentale per cui ciò che ne va è della singolarità del soggetto, il quale, probabilmente per amore, fornisce il suo assenso a un’operazione che è tout-court, di colonizzazione dell’alterità, senza riuscire “a fare di sé qualcosa di diverso da ciò che gli altri hanno inteso”. Per Laing, il bambino è oggetto di una mistificazione fondamentale, che riguarda proprio l’interversione tra essere e dover-essere: In un contesto ipnotico (o analogo all’ipnosi), non gli si dice che cosa deve essere, ma che cosa è. Tali suggestioni, nel contesto, sono spesso più efficaci degli ordini (o di altre forme di coercizione o di persuasione). Un ordine non deve 51 R. D. Laing, The politics of the family and other essays, tr. it. La politica della famiglia. Le dinamiche del gruppo familiare nella nostra società, Einaudi, Torino 1974, p. 85.

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essere necessariamente definito come tale. A mio avviso, noi riceviamo la maggior parte delle nostre prime e più durevoli istruzioni sotto forma di attribuzioni. Ci viene detto: le cose stanno così e così. Per esempio, non si ordina al bambino di essere buono, ma gli si dice che è un bambino (o una bambina) buono o cattivo (ivi, p. 85-86).

La posta in gioco, evidentemente, è l’oggettività, e il terreno si fa a questo punto estremamente vischioso, perché si tratta di risalire alle modalità che sono a tutti gli effetti costitutive della soggettività “adulta”, negando dialetticamente l’oggettività del dato a favore di una ricognizione delle modalità costitutive della datità stessa: il soggetto, in altri termini, è il prodotto di una lotta la cui posta reale è la sua sovranità su se stesso, la sua autonomia. L’esito cosiddetto psicotico, nel soggetto, non sarebbe alcunché di naturale, di determinato univocamente, e, in definitiva, il ricercarne le ragioni in una pretesa costituzione biologica dell’individuo non sarebbe altro che la legittimazione naturalistica di rapporti giocati sul terreno della lotta per la propria individuazione. Ogni potere tende a celare quanto di “umano troppo umano” lo costituisce per legittimarsi attraverso una presunta oggettività, fatta di leggi che si vorrebbero univoche perché naturali. Quanto più i soggetti soccombono nella ricerca di una modalità “originale” di definizione di sé, tanto più tenderanno a considerare la famiglia alla stregua dell’unico modo, dell’unico medio, potremmo dire, di soggettivazione in ogni sfera della vita personale, lavorativa, amorosa, relazionale. Più si è sconfitti nel processo di individuazione di sé, più una famiglia diventerà “la Famiglia” per eccellenza, cellula criminale, oggetto dell’omertà e del misconoscimento di ogni posizione realmente autonoma. Trattandosi di un’operazione di colonizzazione, di un’azione cioè rivolta contro il singolo, come sostiene giustamente Laing, essa non passa per il linguaggio “parlato”, generando una qualche forma di resistenza da parte di chi è nella posizione di oggetto e che, a partire da questa posizione, è chiamato a soggettivarsi. In questo senso, lo stesso pre-sentimento che qualcosa del genere costituisca le soggettività adulte, essendone alla base, finisce per costituire un vero e proprio rischio per il soggetto; così: Di solito, energiche resistenze vengono opposte al processo di applicazione del passato sul futuro che viene alla luce, nelle più diverse circostanze. Se qualcuno, in una famiglia, comincia a rendersi conto di non essere che l’ombra di una marionetta, sarà saggio, da parte sua, usare la massima prudenza nella scelta della persona, cui confidarsi. Non è ‘normale’ rendersi conto di queste cose. Esistono una quantità di termini psichiatrici per definire tale consapevolezza e i più diversi trattamenti terapeutici (ivi, p. 89).

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Emergono due punti di rilievo: da un lato, la perpetuazione, da parte della famiglia stessa, di una serie di strategie relazionali, tese a costringere il soggetto ad accettare la sua designazione, dall’altro52, il ruolo che ha la psichiatria stessa nel convalidare il punto di vista familiare, costituendosi l’istituzione psichiatrica alla stregua di un calco di quella familiare; procediamo per ordine, limitando l’analisi alla famiglia quale “sistema interiorizzato”. Ciò che gli antipsichiatri cercano con veemenza nella pratica è un terreno sul quale fondare una terapia autentica. Questo terreno consiste nel considerare patologico non il paziente in quanto tale, quanto l’ambiente in cui si struttura la sua esperienza, che è considerata come il prodotto dell’interdizione della famiglia, di ogni famiglia, a che il soggetto possa fuoriuscirne. Né basta sfuggire dalla famiglia reale: allontanarsi dal nucleo familiare d’origine non vuol dire fare definitivamente i conti con la nostra “vera” famiglia, che è la famiglia simbolica, interiorizzata, che ritroviamo all’esterno nelle più svariate forme relazionali. Nella teoresi di Laing, Cooper e Esterson, questa famiglia introiettata (“la Famiglia”) giunge a interiorizzarsi nei singoli attraverso una processualità non lineare, che viene resa nei termini di una teoria che non è per niente ingenua: innanzitutto, gli esponenti del movimento antipsichiatrico chiariscono che l’interiorizzazione non è relativa a oggetti, come in certe teorie psicoanalitiche, quanto a relazioni che riguardano elementi, e, ancor di più, rapporti tra gli elementi. Così, la famiglia interiorizzata si configura come un sistema spazio-temporale: non si tratta di semplici rapporti spaziali, che si costituirebbero a questo punto come “spazializzati”. Una sequenza temporale è sempre presente: l’insieme presenta tratti di organicità in cui tempo e spazio sono compresenti in quella sintesi, unica e originale, che rende la famiglia stessa un “noi comune”, in opposizione agli “altri”, a coloro che della famiglia sono estranei. In questo senso, l’unità della famiglia non sarebbe tanto qualcosa di oggettivo, di reperibile sul piano fattuale, quanto, più coerentemente, qualcosa che si situerebbe al livello di ogni sintesi parziale, nonché della co-inerenza delle sintesi tra di loro, realizzata per il tramite di un movimento che è di interiorizzazione reciproca. A questa organizzazione dello spazio psichico, non sempre corrisponde una traduzione della praxis in termini di intelligibilità: si tratta di dinamiche su cui Sartre si è soffermato nell’ambito della sua Teoria degli insiemi pratici; così:

52 Sulla configurazione del rapporto tra momento psicopatologico ed esclusione, cf. E. Lemert, La paranoia e la dinamica dell’esclusione, in: F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia (c/ di), La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale, cit., p. 39-66.

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E siccome – ritornerò presto sull’argomento – il pensiero del gruppo, cioè la sua idea pratica dell’Universo, non è altro che il superamento verso l’oggetto trascendente dell’idea pratica che egli ha di se stesso, come, inoltre, dell’idea pratica che un gruppo ha di sé – o, se si vuole, lo schema di cui dispone per risolvere i suoi problemi interni –, non si distingue dalla sua costituzione interna (sotto il duplice aspetto d’azione su di sé e di struttura oggettiva), la differenziazione, pensiero astratto del gruppo statutario, diventa il pensiero concreto del gruppo organizzato: essa appare, infatti, come invenzione da parte dei terzi di una differenziazione sempre più precisa, onde il pensiero dell’oggetto trascendente esprime la struttura sempre più concreta e differenziata della molteplicità unificata. Così la differenziazione particolare importa poco, almeno per quanto concerne il nostro intento, e la sua comparsa, anche se nuova, è immediatamente intellegibile. Ma l’intelligibilità dell’azione organizzata è tutt’altra cosa: si tratta di sapere quale tipo di unità, di realtà, quale senso possa avere una praxis, sotto la nuova forma di praxis organizzata. Quel che conta per noi è quindi il rapporto dell’azione del gruppo su se stesso con l’azione dei suoi membri sull’oggetto53.

In questo senso, possiamo tradurre l’interiorizzazione come un’esperienza di “transfert” dall’esterno all’interno: un gruppo di relazioni si sposta da una modalità determinata di esperienza a un’altra. Così, dalla percezione esterna di una serie di relazioni si realizza un’unità, connotata – come si è visto – in senso spazio-temporale, che vive come sintesi al livello dell’immaginazione, della memoria, dei sogni, costituendo lo schema pre-formato, attraverso il quale il soggetto nel gruppo media il suo rapporto con se stesso, nonché con il mondo esterno: ma tutto ciò non basta però a costituirlo come un soggetto “attivo”54. 53

J.-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, cit., p. 106-107. È nei seguenti termini che il filosofo francese annoda le pratiche, sempre definite rispetto al compito che l’insieme pratico si dà, di autodefinizione del gruppo con la singolarità, nell’ambito di un processo il cui risultato finale è quello che egli stesso definisce passività attiva: “Studieremo progressivamente e con un approfondimento dell’esperienza i diversi momenti di tale relazione: bisognerà anzitutto precisare che cos’è il compito quando appare nel gruppo come obbjettivo di un processo d’organizzazione; questo ci condurrà a una nuova definizione dell’individuo comune, poiché il suo statuto nel gruppo organizzato è di per se stesso una determinazione (e quindi una limitazione) ed un arricchimento concreto dello statuto di giurato (l’inerzia della libertà, il diritto, ecc.). Poi, quando avremo scoperto la funzione come statuto dell’individuo comune, e il suo duplice aspetto (compito pratico rispetto all’oggetto, rapporto umano in quanto caratterizza l’essere-nel-gruppo-del terzo), bisognerà mostrare le basi di una logistica dei sistemi organizzati (come molteplicità e unità di reciprocità invertite e mediate) e descrivere le strutture in quanto tali, ossia come esse si creino nel gruppo per opporsi alle attività passive del pratico-inerte; vi vedremo allora, per l’appunto, un nuovo prodotto umano e sociale, la passività attiva”. Cf. ibid.. Ovviamente, questo processo di maturazione può essere oggetto di un tentativo di interdizione, teso a riportare la passività a se stessa, senza creazione di senso a vantaggio dei singoli. 54

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Si rende conto, in quest’ottica, del perché la famiglia costituisca un riparo alle debolezze individuali, una “protesi” per la “mancanza” del singolo, che non è debole in quanto tale, essendo invece stato reso “debole” da un meccanismo di assoggettamento, nel quale poi cerca riparo, identità, rispettabilità sociale. Non a caso, anche dal punto di vista etimologico, addomesticare è un’azione in cui il singolo è riportato al focolare (ad-domus). Un certo modo di “annodare”, spesso in modo del tutto fittizio, rappresentazione sociale e prassi concrete, e quindi rispettabilità e contenuto emozionale, diviene “il modo” di costituzione di soggettività che viene impresso ai figli dall’uni-verso genitoriale: esso è preesistente a ogni contestualizzazione sociale, culturale ed economica, giungendo a costituire l’orizzonte di possibilità del singolo, assai più di ogni possibile acquisizione successiva. Risulta palese, altresì, come ogni movimento teso a mettere in crisi quest’unità sintetica introjettata dal soggetto, venga duramente represso e ostracizzato da un sistema solo fino a un certo punto interno alla famiglia. La famiglia, ma il discorso può essere ampliato a quel tessuto sociale che le è immediatamente prossimo e che ne riproduce le modalità istituenti, tende a costituire modalità di soggettivazione conformiste, invalidando ogni tentativo autonomo di costruzione di sé. Il massimo grado di invalidazione dell’esperienza individuale operata da parte della famiglia è quello sulla base del quale l’“io comune” è talmente coeso e compatto, che il tentativo di individuazione del singolo è percepito a tal punto pericoloso, da costituire una minaccia per l’identità del gruppo, associata alla sua stessa esistenza in vita. In questo senso, la schizofrenia sarebbe il prodotto di una pratica di etichettamento, che trova le sue radici nella negazione psicologica di ogni forma di alterità, ma che diviene poi fatto sociale e, ancor più, politico: rendere l’altro folle è possibile rendendo la posizione di un membro della famiglia insostenibile da parte di altri55. La famiglia che non si costituisce più come pratica di mediazione simbolica e di accoglimento dell’alterità si trasforma in forma repressiva, se non segregativa.

55 Con riferimento a un importante saggio, quello dello psichiatra americano Harold F. Searles, The Effort to drive the Other Person Crazy – An Element in the Aetiology and Psychoterapy of Schizofrenia, in: “British Journal of Medical Psychology”, 32/ 1959, p. 118, tr. it. Il tentativo di far impazzire l’altro partecipante al rapporto: una componente dell’etiologia e della psicoterapia della schizofrenia, in: Scritti sulla schizofrenia, Boringhieri, Torino 2000, p. 243-270. Secondo la Jervis Comba (Prefazione a R. D. Laing, A. Esterson, Normalità e follia nella famiglia, Einaudi, Torino 1981, p. XXVIII) “di questo strumento si serve anche la famiglia per eliminare un membro sgradito, mostrandosi per quella che essa spesso è in una società: un protection racket, una sorta di mafia”.

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La schizofrenia, pur non apologizzata tout-court, è considerata alla stregua dell’esito di un’autonomizzazione mancata56, è considerata prodromica di un percorso di liberazione che passa per un ulteriore regressione del “paziente”, e in definitiva, per la follia stessa, di un impazzimento, stavolta creativo. Si tratta di un percorso su cui c’è una sola certezza: la famiglia d’origine del soggetto in questione non vi acconsentirà mai, per cui c’è bisogno di altri luoghi fisici in cui possa aver luogo57. Si tratta di tematiche che verranno sviluppate più compiutamente ne La politica dell’esperienza, di Laing; ma già in Normalità e follia nella famiglia58, che studia undici casi di donne schizofreniche, o definite tali dalla c.d. scienza psichiatrica, si riportano, caso per caso, le conversazioni che le “pazienti” intrattengono con i loro genitori in presenza di un “esperto”, che è lo psichiatra, ed è estremamente esemplificativo della messa in scena di dinamiche relazionali fatte di inganni reciproci, mistificazioni, comunicazione contraddittoria, aventi quale objettivo l’invalidazione di ogni tentativo del singolo di autonomizzarsi. Normalità e follia nella famiglia, a sua volta, costituisce la base di un lavoro più specifico di Esterson Foglie di primavera59, che circoscrive uno solo dei casi presentati ancora con Laing. La morte della famiglia di Cooper sigla poi tutto questo percorso, definendo l’abolizione dell’istituzione familiare alla stregua di un compito politico, dalla valenza rivoluzionaria: ancora in sintonia, seppur indiretta, stavolta, con Sartre, i dannati della terra non sono solo gli sfruttati in senso economico, quanto tutti coloro la cui autonomia, la cui presa soggettiva è stata oggetto di una mistificazione, di un’espropriazione, il cui prodotto, la 56 Molto significativamente, per Cooper (Psichiatria e antipsichiatria, cit., p. 57): “Quel che dobbiamo cercare di afferrare veramente è la nozione di autonomia di ciascun elemento della famiglia nella famiglia. Autonomia significa, per prima cosa, formulare una regola per se stessi, l’autoregolamento, e ciò implica un atto di rottura mediante il quale una persona infrange, liberandosene, un sistema che lo imprigiona; sistema in cui il suo ruolo, come quello di ogni altro, è di incarnare le projezioni di un altro individuo, e cioè di vivere sostitutivamente le tracce interiorizzate delle vaghe speranze, ambizioni e punizioni dei suoi genitori. Quello che l’individuo deve fare per liberarsi è molto semplice e complesso allo stesso tempo: deve accettare in sé questa pazzesca massa di relazioni primitive, sopportare questa disturbante interiorizzazione fino al limite più estremo, e quindi superarla verso il suo proprio campo di possibilità”. 57 In questo senso (ivi, p. 59): “Si è persino tentati di prendere in considerazione la rischiosa ipotesi che il componente riconosciuto schizofrenico voglia cercare, con il suo atto psicotico, di liberarsi dal sistema degli altri componenti ‘normali’ della famiglia ‘normale’. Dal momento in cui viene ammesso in un manicomio, comunque, il suo disperato tentativo di liberarsi fallirà inesorabilmente, a causa della sua mancanza di necessarie tattiche e strategie sociali”. 58 Cf. R. D. Laing, A. Esterson, Sanity, Madness and the Family, Tavistock, London 1964, tr. it. Normalità e follia nella famiglia, cit. 59 Cf. A. Esterson, The leaves of spring. A study in the dialectic of madness, tr. it. Foglie di primavera. Un’indagine sulla dialettica della follia, Einaudi, Torino 1982.

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follia, è siglata da un inconsolabile grido di dolore. La schizofrenia certificata dalla psichiatria, nella teoresi antipsichiatrica, sarebbe il tentativo, peraltro malriuscito, del soggetto per sottrarsi a una definizione di sé che il “malato” ha sentito come insopportabile, e che la stessa psichiatria tradizionale tenderebbe a validare ulteriormente, certificando l’effettiva patologia del paziente, che diventa così un dato inoppugnabile: al cosiddetto malato mentale non resta altro che la possibilità di soggettivarsi attraverso la sua sofferenza: dopo essere stato deprivato di ogni possibilità di individuarsi autonomamente, egli “deve” parlare il linguaggio dell’essere che gli è stato attribuito, e mediare se stesso col mondo per il tramite di questa stessa spoliazione fondamentale di sé. I “folli”, in un’ottica però qui più legata all’“ordine del discorso”, non hanno mai la facoltà di cessare di essere funzionali a una famiglia che ha prodotto lo schizofrenico conclamato per difendersi dall’idea di essere essa stessa folle, chiamando a incarnare questa projezione, e a una società i cui membri sono, in definitiva, razionali, solo perché nessuno psichiatra ha certificato il contrario: ma alcuni devono essere folli, per creare un sistema di differenze che garantisca la “sanità” di altri. Aspetti logici ed empirici del problema familiare devono essere mediati e integrati dall’approfondimento delle modalità attraverso le quali un sistema familiare giunge a essere, per un soggetto, la “Famiglia”. Vanno però, a questo punto, distinti tra loro gli ambiti. Se da un punto di vista fenomenologico-esistenziale ci si deve “limitare” alla constatazione che “ragione” e “follia” sono il prodotto di un unico movimento che si struttura nei modi della linearizzazione, della semplificazione, dell’unificazione immaginaria in una personalità di base, in un io coerente, prodotto dell’espulsione della contraddizione e della divisione soggettiva che lo abitano, da quello sociogenetico, invece, gli antipsichiatri constatano il reciproco posizionarsi, le modalità in cui “ragione” e “follia” si intrecciano, costituendosi reciprocamente. L’antipsichiatria, in altri termini, non solo evidenzia dal punto di vista metodologico come tutte le pre-notiones circa la patologia del soggetto costituiscano un limite riguardo alla possibilità di approcciarne l’alterità, ma compie un passo in avanti, pensando la dimensione della sofferenza psichica come il prodotto di una serie di prassi interpersonali di natura comunicativa (i “condizionamenti” cui fa riferimento Sartre nel suo metodo d’analisi progressivo-regressivo), affettiva, nonché, al limite, cognitiva, dal tenore mistificante, prassi che hanno quale esito finale la qualificazione di alcuni soggetti come “sani”, a patto dell’esclusione di altri dall’“ordine del discorso” (i “folli”) inteso in senso familista.

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La cosiddetta salute e la cosiddetta follia (esemplificazione del rapporto così come dell’intersezione tra “norma” e “antinorma”)60 sarebbero, in questa prospettiva il prodotto della partizione di un unico spazio: lo schizofrenico resta preda di una follia mortifera e non liberatrice, accettando quella dominazione su di sé, quella “violenza dell’interpretazione” operata da altri a sue spese, nonché la costruzione, col suo stesso beneplacito, di un’identità inautentica, prodotto di identificazioni indotte, cui il singolo acconsente volontariamente e forzatamente, non riuscendo a rinvenire altre possibilità di soggettivarsi nel mondo: per guarire dovrà poter impazzire creativamente, costruendosi come soggetto. Se non bisogna, però, cadere nell’equivoco di considerare i primi carnefici e i secondi vittime, perché normalità come adeguatezza alla realtà e follia come fallimento nell’essere conformi alle esigenze sociali sarebbero solo due nomi dell’alienazione sociale globale, è vero anche che la follia come esperienza creativa di recupero di una dimensione più profonda di espressione, non è assolutamente possibile nella famiglia concepita tradizionalmente. “Uscire dalla famiglia”: in questi termini la formulazione di un importante imperativo politico che è più di un semplice slogan legato al poliverso contestatario degli anni compresi tra la metà degli anni ’60 e la fine del decennio successivo: sono allora le comunità antipsichiatriche61 o le cosiddette comuni i luoghi di accoglimento delle soggettività-scarto, di quell’alterità rifiutata da una fin troppo patologica normalità, e la morte della famiglia diviene l’objettivo preliminare a ogni azione di trasformazione, rivoluzionaria o meno, della società, così come l’esistenza della famiglia era condizione trascendentale, essa stessa pre-liminare di ogni autorità. David Cooper definisce le comuni in questi termini: “Una comune è una struttura microsociale che consegue una vitale dialettica tra la solitudine e l’essere-con-altri; implica o una residenza comune per i suoi componenti, o per lo meno un’area comune di lavoro o di esperienza intorno alla quale possano espandersi perifericamente le situazioni residenziali”62. Ma la comune, bene inteso, non può strutturarsi che secondo una prospettiva antagonista sì, ma comunque legata al fatto che essa vive in un contesto ancora dominato da valori dell’appropriazione, dell’onnipotenza e della considerazione dell’altro come mero strumento. Cooper non misconosce quanto le forme alternative alla famiglia vivano in un regime che non è maturo ad accoglierle: 60 Il riferimento è alla problematizzazione del rapporto tra norma e antinorma, operato da Paolo Tranchina in: Norma e antinorma. Esperienze di psicanalisi e di lotte antistituzionali, Feltrinelli, Milano 1979. 61 Cf. A. Sabbadini, Le comunità antipsichiatriche inglesi, in: L. Forti (c/ di), L’altra pazzia, cit. 62 D. Cooper, The death of the Family, tr. it. La morte della famiglia, Einaudi, Torino 1972, p. 47.

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Prima di parlare di nuovi tipi di convivenza tra individui che siano in grado di evitare le restrizioni e la sottile violenza esercitata dalla famiglia, bisogna chiarire bene un punto. Per quanto riguarda i paesi capitalistici del primo mondo si può parlare di comuni solo come situazioni prototipo che non potranno mai liberamente diffondersi e prosperare in un contesto prerivoluzionario. La psicologia dell’appropriazione, del trattare altri individui, in misura maggiore o minore, come merce che si può possedere o scambiare è oggettivamente così prevalente che i tentativi di trascenderla devono per forza essere rari o isolati (ivi, p. 46).

Resta, però, prioritario l’objettivo strategico da perseguire: ogni interrogativo sull’uomo, ogni prospettiva di rinascita sociale, di palingenesi politica, la considerazione dei possibili effetti di senso indotti dalla morte di Dio prima, dalla morte dell’Uomo poi, sono possibili solo se resta primo l’objettivo politico della morte della Famiglia, istituzione che, nel costituirsi come mediatrice del senso, non riuscendo ad assolvere questo suo compito, non fa altro che filtrare oscuramente le esperienze, distorcendo il senso della realtà, rendendo impossibile un approccio autentico alla stessa. Le avanguardie e gli intellettuali pensano in quegli anni a forme di liberazione “altre” rivolte a soggetti “diversi”, forme non segregative, in grado di rendere esperibili forme di soggettivazione politica antagonista, più autentiche e radicali di quelle di una classe lavoratrice, che andava progressivamente smarrendo la sua funzione antagonista, lusingata dalle conquiste sociali di un Welfare State ancora in grado di garantirle. Se dell’antipsichiatria oggi qualcosa resta, è grazie alle figure di Basaglia da un lato, di Foucault, Deleuze e Guattari dall’altro. Ma né gli esiti della c.d. demanicomializzazione, effetto, a sua volta, della pur inizialmente illuminata legge 180, né la lettura dei seminari di Foucault posta in essere da tecnici e intellettuali costituiti e funzionali a quello che Lacan definisce Il discorso dell’università63 sono serviti a riabilitare le figure di Laing, Cooper ed Easterson. Quello che resta, è il loro tentativo di fare della critica della datità e degli insiemi pratici orientati in senso regressivo, l’impalcatura di una possibile cura, che tenesse in conto di quanto la sofferenza psichica, più che un dato originario, sia il prodotto, storicamente situato, di un’operazione di assoggettamento. Ed è sulla scorta di quest’impegno che Cooper può redigere quest’accorata dichiarazione, resa in occasione della dipartita di Sartre, intellettuale che di fronte alla liberazione di ciascuno non ha mai arretrato, commentando il ruolo da questi avuto nelle elaborazioni dell’antipsichiatria: 63 Cf. J. Lacan, Lé séminaire de Jacques Lacan. Livre XVII. L’envers de la psychanalyse, 1969-1970, Seuil, Paris 1991, tr. it. Il rovescio della psicoanalisi (1969-70), c/ di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2001.

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Dans tout cela nous devons beaucoup à Sartre. Ensemble, avec beaucoup d’autres – en Italie Franco Basaglia dont le travail dans le hôpitaux psychiatriques de Gorizia et Trieste (où l’hôpital est maintenant virtuellement vide) est internationalement reconnu –, nous avons une grand dette personnel et théorique avec Sartre. En lui exprimant ma propre gratitude je conclurai en soulignant simplement la manière décisive dont Sartre a aidé à clarifier notre vision des méditations entre les situations micropolitiques de la psychiatrie et la macropolitique – base de nos luttes contre la violence et le terrorisme de l’état bourgeois libéralfasciste avancé64.

64 D. Cooper, Sartre et l’anti-psychiatrie, in: Sartre inedit, “Obliques”, 18-19. Numéro spécial, c/ di M. Sicard, Paris 1978, p. 60.

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Storia della Scienza Antica & Epistemologia delle Scienze Umane Questa “rubrica tematica” è stata finora dedicata alla ripubblicazione delle opere di Paola E. Manuli in accordo con la Associazione Paola Eliana Manuli – per lo studio della Storia della Medicina Antica e dell’Epistemologia delle Scienze Umane (PEM). Ma essa è già, e resterà, aperta a qualsiasi collaborazione competente su queste materie, la storia delle quali tocca l’attualità e reca indelebile il segno dell’antica paideia.

Fiorenza Bevilacqua, L’Economico di Senofonte: un testo problematico, una ipotesi di lavoro I. L’Economico: la riscoperta L’Economico di Senofonte è stato a lungo trascurato dagli studiosi moderni: a dispetto dell’apprezzamento e dell’ammirazione che gli furono tributate nel mondo romano (come dimostra anche la traduzione, a noi non pervenuta, da parte di un giovane Cicerone), a dispetto dell’attenzione e della considerazione che gli furono riservate in età rinascimentale1, per tutto l’Ottocento e per buona parte del Novecento l’Economico suscita scarso se non scarsissimo interesse negli studiosi, sia che si tratti di filologi o di storici della filosofia o del pensiero politico. In parte questo disinteresse è riconducibile alla crescente svalutazione che si abbatte sulle opere socratiche di Senofonte, una svalutazione che inizia fin dai primi decenni dell’Ottocento2 e che si 1 Per una sintetica panoramica della fortuna dell’Economico in età rinascimentale, cf. S. B. Pomeroy, Xenophon Oeconomicus. A Social and Historical Commentary, Oxford University Press, Oxford 1994, p. 74-87. 2 Come è noto, tale svalutazione si può far risalire al celebre articolo di F. Schleiermacher, Über den Werth des Sokrates als Philosophen, in: “Abhandlungen der philosophischen Klasse der Königlich-preussischen Akademie der Wissenschaften aus den Jahren 18141815”, 1818, p. 50-68; quindi in: Sämmtlichen Werke, III, 2, Berlin 1838, p. 287-308; ora

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accentua nella prima metà del Novecento: solo negli ultimi decenni del secolo scorso, a partire dai controversi contributi di Leo Strauss3, a cui va comunque ascritto il merito di aver dato impulso a una nuova e più attenta considerazione degli scritti di Senofonte, abbiamo assistito a una importante inversione di tendenza, in parte dovuta alla messa in mora, teorizzata e praticata da molti studiosi, della questione socratica4. Ma di questa nuova attenzione, scevra da antichi pregiudizi5, ha beneficiato soprattutto, comprensibilmente, quella che è la più importante delle opere socratiche, i Memorabili, mentre la brevissima (ma interessante)6 Apologia, il Simposio e l’Economico sono rimasti per lo più nell’ombra. Tuttavia, per quanto riguarda specificamente l’Economico, si è comunque registrato un maggiore interesse, non a caso, nell’ultimo decennio del Novecento. Si tratta per altro di un interesse parziale, focalizzato soltanto su alcuni aspetti dell’Economico che, infatti, viene visto e preso in esame prevalentemente come un trattato, dando pressoché per scontata l’irrilevanza della sua natura di logos Sokratikos, considerata nel migliore dei casi come un dato da mettere tra parentesi. Va detto che una simile chiave di lettura non rappresenta certo una novità: per limitarci a un unico esempio, particolarmente autorevole, citiamo la presa di posizione di É. Delebecque, che, come è noto, ha consacrato la maggior parte della sua attività di studioso alle opere di Senofonte in tutta la loro estrema e complessa varietà. Ebbene Delebecque non solo nel suo saggio specificamente dedicato all’Economico si in: A. Patzer, c/ di, Der historische Sokrates, Wiss. Buchgeselleschaft, Darmstadt 1987, p. 41-58. 3 Cf. soprattutto L. Strauss, The Spirit of Sparta and the Taste of Xenophon, in: “Social Research”, VI (1939), p. 502-536; On Tyranny. An Interpretation of Xenophon’s Hiero, Political Science Classics, New York 1948; Xenophon’s Socratic Discourse. An Interpretation of the Oeconomicus, Cornell University Press, Ithaca (N. Y.) 1970; Xenophon’s Socrates, Cornell University Press, Ithaca (N. Y.) 1972. Anche se non si condividono le conclusioni a cui perviene lo studioso, né il tipo di esegesi da lui praticato, è indubbio che i suoi scritti sono stati importanti per indurre a una riconsiderazione delle opere, socratiche e non, di Senofonte. Di particolare importanza, ai fini del nostro discorso, il saggio sull’Economico, che Strauss definisce il logos Sokratikos per eccellenza (Xenophon’s Socratic Discourse, cit., p. 86). 4 Lo studioso che in anni recenti si è speso in tal senso con maggiore impegno e sistematicità è senz’altro L.-A. Dorion, in particolare nella sua ampia Introduction Générale in Xénophon. Mémorables, texte établi par M. Bandini et traduit par L.-A. Dorion, t. I, Les Belles Lettres, Paris 2000, p. VII-CCLII (vedi soprattutto p. VII-CXVIII). Del resto l’impossibilità di ricostruire il pensiero del Socrate storico e, quindi, l’inanità della questione socratica era già stata recisamente affermata da O. Gigon, Sokrates. Sein Bild in Dichtung und Geschichte, Bern 1947. 5 Una serie di pregiudizi svalutativi nei confronti di Senofonte sono minuziosamente elencati da L.-A. Dorion, Introduction, cit., p. XVII-XCIX. 6 Interessante anche e soprattutto in rapporto all’Apologia platonica.

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rifiuta di considerarlo un logos Sokratikos7, ma anche in quello che costituisce il suo contributo fondamentale allo studio di Senofonte, quell’Essai sur la vie de Xénophon, tuttora imprescindibile per chiunque intenda occuparsi di Senofonte (a qualunque titolo e in qualunque ambito)8, non esita a includere l’Economico non già tra gli scritti socratici, bensì tra gli scritti tecnici9. La novità riscontrabile in alcuni importante studi dell’ultimo decennio del secolo scorso è invece costituita dal particolare interesse che suscitano quelle che vengono individuate come le tematiche centrali dell’opera, strettamente intrecciate l’una all’altra: la gestione del patrimonio familiare, dell’azienda domestica da un lato e quella della famiglia dall’altro, in base ai due significati fondamentali del termine oikos. La prima tematica implicava una riflessione più generale sull’economia delle società antiche, nella fattispecie del mondo greco, una riflessione che andava di pari passo con l’esigenza di un approccio che non rappresentasse soltanto una rottura con le ideologie del classicismo10, ma che andasse anche oltre l’immagine che una serie di testi avevano inteso offrire della polis, della sua vita politica, delle sue strutture sociali: si pensi al caso esemplare dell’epitaphios logos del Pericle tucidideo11. Nel contempo, sulla scia dell’onda lunga del sessantotto nonché delle esperienze e dei diversi tentativi di elaborazioni teoriche del femminismo, si assisteva a una vasta fioritura di studi sulla storia delle donne e sulla storia della famiglia, il che non poteva non portare a una rinnovata attenzione per l’Economico, in particolare per quanto concerne lo spazio e l’importanza assegnati alla figura e al ruolo della donna, anzi della moglie, all’interno dell’oikos (Oec., 7-10): non è un caso che Sarah Pomeroy dichiari esplicitamente che il suo lavoro sull’Economico è dovuto al fatto 7 É. Delebecque, Sur la date et l’object de l’Économique, in: “Revue des Études Grecques”, XLXIV (1957), p. 21-58: vedi p. 37. Non sostanzialmente diversa la posizione espressa in tempi relativamente recenti da uno studioso competente e rigoroso quale F. Bourriot: cf. Kalos Kagathos-Kalokagathia. D’un terme de propagande de sophistes à une notion sociale et philosophique. Étude d’histoire athénienne, Olms Verlag, Hildesheim 1995, p. 324 e 338. 8 É. Delebecque, Essai sur la vie de Xénophon, Klincksiek, Paris 1957. Anche se non poche delle convinzioni espresse dallo studioso possono non apparire condivisibili, tuttavia il suo monumentale lavoro rimane comunque fondamentale anche e soprattutto perché prende in considerazione tutta la vasta e variegata produzione di Senofonte, senza limitarsi a uno specifico settore (le opere storiche, le opere socratiche, i trattati tecnici, ecc.): un approccio globale che appare sempre più indispensabile, alla luce delle forti interconnessioni che presentano tutte le opere di Senofonte. 9 É. Delebecque, Essai, cit., p. 516-517. 10 Si pensi, ad es., a due fondamentali lavori di L. Canfora: Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino 1980; Le vie del classicismo, Laterza, Bari 1989. 11 Tucidide, II, 35-46. Proprio a questo discorso fa riferimento Diego Lanza nel saggio introduttivo (p. 5-15) al commento all’Economico di F. Roscalla: Senofonte. Economico, introduzione, traduzione e note di F. Roscalla, con un saggio di D. Lanza, BUR, Milano 1991.

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che quest’opera abbraccia le tematiche che sono state al centro della sua attività di studiosa, l’agricoltura e soprattutto, in anni più recenti, la storia delle donne e della famiglia12. Né deve sorprendere che, in quest’ottica e con questo tipo di approccio, Pomeroy non abbia esitato a definire con estrema chiarezza il taglio del suo commento (tuttora il più ampio e il più ricco disponibile): A Social and Historical Commentary. In effetti, benché la studiosa appaia consapevole del fatto che l’Economico rientra a pieno titolo nel nuovo e fiorente genere letterario dei logoi Sokratikoi, al pari dei dialoghi di Platone, nonché di altri Socratici, quali soprattutto Antistene ed Eschine di Sfetto13, di fatto però non solo lo prende in esame come se fosse un trattato, in cui prima Socrate e poi Iscomaco fungono da portavoce di Senofonte, ma presta un’attenzione assai scarsa ed episodica a tutti quegli aspetti che trovano riscontro nelle altre opere socratiche di Senofonte e in particolare nei Memorabili. Tra questi aspetti bisogna annoverare anche la valenza apologetica dell’Economico, certo non dichiarata e senz’altro meno evidente rispetto all’Apologia e ai Memorabili, ma non per questo meno importante e significativa14. In sostanza il fatto che l’Economico sia un logos Sokratikos, con i complessi problemi che ne derivano, risulta pressoché obliterato nel lavoro di Pomeroy, pur così interessante e documentato nel suo genere. Anche il commento di Fabio Roscalla, di grande interesse e di indubbia rilevanza, sembra in gran parte dimenticare che l’Economico è un dialogo so-

12 S. B. Pomeroy, Xenophon Oeconomicus. A Social and Historical Commentary, Oxford University Press, Oxford 1994, p. VII. Tra i suoi numerosi contributi sulla storia delle donne ci limitiamo a ricordare Goddesses, Whores, Wives and Slaves, Schocker Books, New York 1975 (Donne in Atene e Roma, tr. it., Einaudi, Torino 1978); Women in Hellenistic Egypt from Alexander to Cleopatras, Schocker Books, New York 1984. 13 Cf. S. B. Pomeroy, Xenophon Oeconomicus, cit., p. 25-29. 14 La valenza apologetica dell’Economico verrà colta in maniera esemplare da G. Danzig, Why Socrates Was Not a Farmer: Xenophon’s Oeconomicus as a Philosophical Dialogue, in: “Greece and Rome”, L/1 (2003), p. 57-76; una successiva versione di questo articolo compare come ultimo capitolo del volume Apologizing for Socrates: How Plato and Xenophon created Our Socrates, Lexington Books, Lanham 2010, p. 239-263, con il titolo Why Socrates Was Not a Farmer. Xenophon’s Apology for Socrates in Oeconomicus.

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cratico: lo studioso si mostra attento soprattutto ad alcune convinzioni innovative poste sulla bocca sia di Socrate15 sia di Iscomaco16, non manca di operare opportuni raffronti con l’Economico pseudoaristotelico, con il I libro della Politica di Aristotele, nonché con vari passi di Platone, coglie puntualmente non pochi punti di contatto con i Memorabili, ma pare non porsi il problema del perché Senofonte, invece di scrivere un trattato (come nel caso delle Entrate, in cui la riflessione economica si sposta dall’oikos alla polis)17, abbia deciso di costruire un dialogo socratico, mettendo in scena due interlocutori scelti non a caso, quali Critobulo18 e Iscomaco19. Anzi, riguardo al personaggio di Iscomaco, la cui controversa storicità rappresenta un problema cruciale per alcuni studiosi20, si limita a giudicare irrilevante una eventuale base storica di questo personaggio in quanto “egli rimane comunque portavoce di idee specificamente senofontee. In questo senso va indagata la sua funzione all’interno del dialogo”21. Bisogna tuttavia ricordare

15 Socrate infatti prospetta a Critobulo la possibilità che un libero cittadino esperto in amministrazione dell’oikos possa amministrare in cambio di una retribuzione (misthos) l’oikos di un altro: Oec., 1, 2-4. Ora questa figura di amministratore professionale (oikonomos ovvero oikonomikos) rappresenta una interessante novità, dato che il proprietario di un oikos ne delegava in tutto o in parte l’amministrazione a un epitropos che altri non era che uno dei suoi schiavi, non già a un libero cittadino retribuito per la sua prestazione professionale (così infatti dichiarerà di fare anche Iscomaco). Per questa figura dell’oikonomos/oikonomikos e la sua valenza innovativa cf. F. Roscalla, Senofonte. Economico, cit., p. 33-44. 16 Senza dubbio Iscomaco esprime una posizione innovativa quando dichiara che il desiderio di guadagno, lungi dal rappresentare un ostacolo, costituisce un incentivo per indurre gli schiavi a impegnarsi nel lavoro dei campi (Oec., 12, 15); ancora più innovativo l’elogio dell’operato del proprio padre, che traeva notevole guadagno dall’acquistare dei campi improduttivi per metterli a coltura accrescndone il valore e quindi rivenderli (Oec., 20, 22-29: in proposito cf. F. Roscalla, Senofonte. Economico, cit., p. 50-52). 17 Il problema appare ancora più rilevante se si tengono presenti due fatti: innanzi tutto se si ricorda che per Senofonte l’oikos e la polis differiscono soltanto da un punto di vista quantitativo (cf. soprattutto Mem., III, 4, 12; III, 6, 4; III, 6, 14-15); in secondo luogo se si considera che le Entrate sono quasi certamente l’ultima opera di Senofonte e che anche l’Economico o quanto meno la sua seconda parte (Oec., 7-21) deve essere stato composto piuttosto tardi, dal momento che, come sostiene Roscalla con buone ragioni, presenta alcune incongruenze che inducono a pensare a una mancata revisione finale da parte dell’autore: cf. F. Roscalla, Senofonte. Economico, cit., p. 21-30. 18 Critobulo non è stato scelto a caso, dato che appare in piena sintonia con il Critobulo del Simposio e soprattutto con il Critobulo dei Memorabili: vedi infra. 19 Anche il personaggio di Iscomaco non è stato scelto a caso, sia che costituisca un kalos kagathos da additare come esempio, sia che debba essere interpretato in chiave ironica (vedi infra). 20 Vedi infra. 21 F. Roscalla, Senofonte. Economico, cit., p. 121.

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che, in un suo successivo contributo22, Roscalla presta invece attenzione ai due personaggi fondamentali del dialogo, Socrate e Iscomaco, e si sofferma sulla scelta di presentare Socrate in sintonia con Iscomaco, esemplare kalos kagathos, e quindi di annettere il filosofo, per così dire, al gruppo dei kaloi kagathoi, un gruppo che nell’Atene degli ultimi anni del V secolo e nei primi anni del secolo successivo si presentava contraddistinto da caratteristiche economiche e politiche ben precise23. Ancora negli anni novanta del Novecento vede la luce un volume indubbiamente originale, che considera senz’altro come un trattato la prima parte dell’Economico, intitolato, con un qualche gusto della provocazione, Un dialogo sul management (Senofonte, Economico, I-VI)24. L’autore, Leonardo Paganelli, che può vantare competenze davvero non comuni in campo economico e in particolare in quello, decisamente specialistico, dell’economia aziendale, non si nasconde il fatto che Senofonte, nei capp. 1-6 dell’Economico, definisce il fine dell’azienda non solo in termini utilitaristici ma anche morali25, tuttavia l’analisi sviluppata nell’ampia introduzione (il volume è privo di commento ad loc.) è incentrata esclusivamente sulla gestione dell’aziensa domestica, sulla scienza del management, sui vari metodi di valutazione delle aziende (metodo patrimoniale semplice e metodo reddituale semplice), sulla periousia come objettivo del manager senofonteo. Un contributo certo originale e di grande interesse, ma dichiaratamente unilaterale nel suo approccio. Non bisogna tuttavia dimenticare che negli ultimi decenni del secolo scorso, in un periodo di poco precedente ai tre commenti appena ricordati, non sono mancati contributi che hanno preso in esame l’Economico come logos Sokratikos, anzi esclusivamente come tale, riservando invece un’attenzione assai scarsa, o comunque alquanto limitata, agli aspetti più significativi sotto il profilo prettamente economico e più interessanti a livello di

22 F. Roscalla, Kalokagathia e kaloi kagathoi in Senofonte, in: C. Tuplin, c/ di, Xenophon and his World, Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2004, p. 115-124. 23 Sostanzialmente aristocratici di tendenze oligarchiche moderate, rappresentate, all’interno dei Trenta, da Teramene, non a caso presentato da Senofonte in una luce nettamente positiva (cf. Hell., II, 3, 15-56), in contrapposizione a Crizia, eroe negativo nelle Elleniche e oggetto di un durissimo giudizio nei Memorabili (cf. soprattutto Mem., I, 2, 12). 24 L. Paganelli, Un dialogo sul management (Senofonte, Economico, I-VI), CisalpinoIstituto Editoriale Universitario, Milano 1992. Il volume offre, oltre al testo critico e alla traduzione italiana, un’ampia Introduzione (p. 11-66) e una utile Appendice con la “Nomenclatura senofontea del management” (p. 123-162), nonché un’adeguata bibliografia (p. 163-171). 25 L. Paganelli, Un dialogo sul management, cit., p. 13-14.

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rapporti sociali. Lasciando da parte il saggio di Strauss26, questa impostazione si rinviene nel lavoro di Sandra Taragna Novo, che già nel titolo27 mostra di leggere l’Economico alla luce di quanto emerge dalle altre opere socratiche, in particolare dai Memorabili, senza dubbio il testo chiave per quanto concerne l’etica del Socrate di Senofonte: pertinenti, quindi, i raffronti con gli altri scritti socratici di Senofonte, e costante la tendenza a impostare il problema della kalokagathia e della natura del kalos kagathos in termini etici, prescindendo da implicazioni e risvolti di tipo sociale28. La studiosa ritiene infatti che la kalokagathia, essenzialmente connessa con la virtù, possa ascriversi tanto a Iscomaco quanto a Socrate, tanto all’abile amministratore quanto al filosofo, anche se la kalokagathia di quest’ultimo costituisce una più compiuta perfezione rispetto a quella del primo29. In sostanza, come Taragna Novo dichiara esplicitamente già nell’Introduzione30, il tipo di vita, anzi la paideia del buon amministratore (nonché del buon capo politico) non è che un deuteron beltiston (oggi diremmo: second best) rispetto al prōton beltiston costituito dalla filosofia: come avremo modo di vedere, il confronto tra il modello di vita impersonato da Iscomaco e quello, certo diverso (ma complementare?), incarnato da Socrate è destinato ad alimentare un dibattito tuttora aperto. Ancora nell’ultimo quarto del secolo scorso ha visto la luce un altro lavoro caratterizzato da un approccio assai simile a quello di Taragna Novo, quello di Carlo Natali, che dell’Economico fornisce una traduzione (con testo greco a fronte), corredata da commento, introduzione e bibliografia ragionata31. Anche Natali considera l’Economico un logos Sokratikos a pieno titolo, incentrato sulla presentazione e sul raffronto tra due modelli di vita, quello di Iscomaco e quello di Socrate, entrambi, a suo avviso, ugualmente positivi (un tema su cui lo studioso ritornerà in seguito)32; anche Natali quindi è particolarmente attento ai punti di

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Cf. supra, n. 3. S. Taragna Novo, Economia ed etica nell’Economico di Senofonte, Giappichelli, Torino 1960. 28 Non bisogna tuttavia dimenticare che la studiosa è attenta anche a problemi filologici tutt’altro che marginali o irrilevanti, come mostra l’ultimo capitolo del volume (p. 109-118), dedicato al problema della composizione dell’opera: a suo giudizio, l’Economico si configura come un’opera assolutamente unitaria, distinta e complementare rispetto ai Memorabili. 29 S. Taragna Novo, Economia, cit., p. 67-68. 30 S. Taragna Novo, Economia, cit., p. 6-7. 31 Senofonte, L’amministrazione della casa (Economico), a cura di C. Natali, Marsilio, Venezia 1988. 32 Vedi soprattutto Socrate dans l’Économique de Xénophon, in: G. Romeyer Dherbey / J.-B. Gourinat, c/ di, Socrate et les Socratiques, Vrin, Paris 2001, p. 263-288. 27

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contatto con i Memorabili, ma anche con testi filosofici che trattano argomenti simili, quali l’Economico pseudoaristotelico33, l’Economico di Filodemo di Gadara, nonché la Politica (ma anche l’Etica Nicomachea) di Aristotele. Senza dubbio però, nonostante questi significativi precedenti, è soprattutto nei primi anni di questo secolo che è andata decisamente accentuandosi la tendenza ad analizzare e a studiare l’Economico come un logos Sokratikos: esemplari in tal senso i lavori di Gabriel Danzig34 e di LouisAndré Dorion35. Due contributi di grande interesse, ma segnati da un approccio alquanto unilaterale, che sembra non porsi nemmeno il problema di cogliere e di puntualizzare gli aspetti più significativi che emergono a livello sia di orientamento economico sia di risvolti sociali. Un approccio diverso dai precedenti è poi costituito dalla riflessione che Michel Foucault ha dedicato all’Economico, non soltanto nel capitolo La maisonnée d’Ishcomaque, ma più in generale in una serie di considerazioni distribuite in tutto il complesso di quel volume straordinario che è L’usage des plaisirs36. Da un lato, infatti, lo studioso dà inizio al capitolo in questione dichiarando che l’Economico racchiude in sé “le traité de vie matrimoniale le plus développé que nous ait laissé la Grèce classique”, per poi affermare subito dopo che esso “se donne comme un ensemble de précepts concenant la maniére de gouverner son patrimoine. (...) Le paysage dans lequel s’inscrit cette analyse est socialement et politiquement très bien marquè. C’est le petit monde des propriétaires fonciers qui ont à mantenir, à accroître et à transmettre à ceux qui portent leur nom les biens de la famille”37. Ma a questo ceto, socialmente così ben definito, compete, prosegue Foucault, non soltanto un’accorta amministrazione del proprio oikos, ma anche il compito di dirigere gli affari della città: l’arte del comando è infatti unica, sia che riguardi gli affari privati sia che riguardi gli affari pubblici, sia

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È molto probabile che il I libro, senz’altro il più interessante di questo opuscolo assai composito (il II libro, infatti, è una mera raccolta di aneddoti relativi ai modi più disparati per procurarsi del denaro, mentre il libro III ci è pervenuto soltanto in una traduzione latina), abbia come sua fonte principale proprio l’Economico di Senofonte. Tuttora ottima, soprattutto per il lettore italiano, l’edizione (purtroppo priva del testo originale, ma fornita di un ricchissimo, puntuale commento) curata da Renato Laurenti: Aristotele, Il trattato sull’economia, Laterza, Bari 1967. 34 Vedi supra, n. 14. 35 L.-A. Dorion, Socrate oikonomikos, in: M. Narcy / A. Tordesillas, c/ di, Xénophon et Socrate. Actes du colloque d’Aix en Provence (6-9 novembre 2003), Vrin, Paris 2008, p. 253281; ora in: L’autre Socrate, Les Belles Lettres, Paris 2013, p. 315-345. 36 M. Foucault, L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984; tr. it. L. Guarino, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984. Il capitolo dedicato all’Economico si intitola appunto La maisonnée d’Ischomaque, p. 198-215 (La famiglia di Iscomaco, p. 156-169). 37 M. Foucault, L’usage des plaisirs, cit., p. 198 (L’uso dei piaceri, cit., p. 156).

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l’ambito dell’oikos sia quello della polis, ricorda lo studioso citando a proposito la conclusione del discorso di Socrate a Nicomachide in Mem., III, 438. Come si può constatare, fin dalle primissime pagine del capitolo specificamente dedicato all’Economico lo studioso si mostra perfettamente consapevole delle implicazioni sociali e politiche di questo testo, così come nelle pagine successive riuscirà a cogliere con grande acutezza gli aspetti fondamentali che caratterizzano anche il rapporto di coppia strettamente finalizzato a una proficua gestione dell’oikos, nonché il ruolo della moglie, “la maîtresse obéissant de la maison”39. Ma nello stesso tempo Foucault appare molto attento allo spessore filosofico dell’Economico: si consideri, ad es., quanto scrive a proposito del ruolo rivestito sia dalla natura che dal nomos nell’assegnare funzioni specifiche e rigorosamente distinte a ciascuno dei due coniugi40, ma si pensi anche e soprattutto alla riflessione su quella enkrateia che si accampa in primissimo piano non solo nei Memorabili, ma anche nell’Economico: una riflessione che si concentra soprattutto nel capitolo esplicitamente ad essa dedicato41, ma che percorre come un fiume carsico l’intero volume, compreso appunto il capitolo relativo all’Economico42. Certo in Foucault manca una specifica attenzione all’aspetto dialogico dell’Economico: lo studioso infatti accenna appena, di passaggio, a quella che sembra essere la probabile funzione del personaggio di Critobulo43, non si chiede perché al dialogo con Critobulo faccia seguito un secondo dialogo con Iscomaco (un dialogo tra l’altro atipico, in quanto Socrate pare assolvere all’inedito ruolo di discepolo del suo nuovo interlocutore), non si pone il problema di un possibile contrasto tra il modello di vita delineato e praticato da Socrate nella prima parte dell’Economico e quello descritto e praticato da Iscomaco nella seconda parte. In sostanza, se è vero che Foucault non si limita a vedere nell’Economico un mero trattato tecnico con ben precise implicazioni di tipo sociale e politico, ma ne coglie puntualmente le valenze filosofiche, è anche vero che, proprio in questo ambito, nell’ambito filosofico, tende comunque a considerarlo, sia pure implicitamente, più come un trattato filosofico che come un dialogo filosofico. In

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Ivi, p. 200 (tr. it. cit., 157). Per la precisione il passo citato è Mem., III, 4, 12; analoghe considerazioni sulla differenza meramente quantitativa tra oikos e polis costituiscono una sorta di Leitmotiv dei Memorabili: vedi soprattutto Mem., III, 6, 4; III, 6, 14-16; cf. anche I, 1, 7; I, 2, 48; I, 2, 64; IV, 1, 2; IV, 2, 11; IV, 4, 16. 39 M. Foucault, L’usage des plaisirs, cit., p. 215 (L’uso dei piaceri, cit., p. 169). 40 Ivi, 206-207 (tr. it. cit., p. 162-163). 41 ivi, 85-105 (tr. it. cit., p. 68-82). 42 Cf. in particolare p. 208-211 (tr. it. p. 164-165). 43 Limitandosi a notare l’affinità tra lui e l’Eutidemo dei Memorabili: vedi p. 108 (tr. it. p. 84-85).

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altri termini se Foucault ha l’indubbio merito di cogliere pienamente le molteplici valenze di questo scritto, tuttavia non si sofferma sulla sua natura di logos Sokratikos e sulle implicazioni, tutt’altro che trascurabili, che ne discendono. Cerchiamo dunque di cogliere quelle che possono essere le buone ragioni che possono giustificare approcci così differenti.

II. L’Economico: un trattato? Cominciamo col chiederci: l’Economico è un trattato?44 E, più precisamente, un trattato tecnico che non solo descrive in tutta la seconda parte (cap. 7-21) la vita di un kalos kagathos, fornendo precise indicazioni sul complesso delle sue attività (cap. 11-14), sulla coltivazione dei campi (cap. 1519), su come arricchirsi con l’agricoltura (cap. 20), su come educare e gestire una moglie (cap. 7-10), ma offre anche interessanti riflessioni sul tema e sulla natura della ricchezza (capp. 1-6), nonché sull’arte di esercitare il comando (cap. 21)? Ebbene sì, l’Economico per tutti questi motivi e per tutti questi aspetti è un trattato: non solo un trattato, come vedremo, ma anche un trattato. Un trattato che sia attraverso il personaggio di Socrate sia attraverso quello di Iscomaco dà voce ad alcune convinzioni decisamente innovative che, con ogni probabilità, erano proprie di Senofonte. Mi limiterò ad accennare ad alcuni esempi. Proprio all’inizio dell’Economico (1, 1-4), conversando con Critobulo, Socrate allude a una figura professionale nuova, un esperto dell’amministrazione dell’oikos, denominato oikonomikos (1, 3), a cui chi lo desideri possa appunto affidare l’amministrazione del proprio oikos in cambio di una retribuzione (1, 4). Si tratta di una novità rilevante45: infatti, come vedremo nella seconda parte dell’Economico, di solito è il proprietario che cura personalmente l’amministrazione del proprio oikos e, quando ha bisogno di sovrintendenti che possano sostituirlo in questo delicato compito, ricorre a schiavi che egli stesso si è premurato di formare e di preparare a questa funzione (12, 2-15,1): ma questi sovrintendenti (epitropoi) sono degli schiavi, mentre l’oikonomikos è un cittadino che svolge la

44 Cf. supra, n. 7. Devo confessare che, quando ho cominciato a occuparmi di Senofonte, anch’io ho prestato scarsissima attenzione alla sua natura di logos Sokratikos e di fatto l’ho sostanzialmente considerato come un trattato (cf. Anabasi di Senofonte, a cura di F. Bevilacqua, UTET, Torino 2002, p. 60-62 e 83-86): è un errore di cui faccio volentieri ammenda. 45 Cf. supra n. 15; vedi anche R. Descat, Aux origines de l’oikonomia grecque, in: “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”, LVII (1988), p. 103-119.

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sua attività di amministratore di oikos in cambio di un salario (1, 4). L’inedita figura dell’oikonomikos ha per altro un significativo riscontro in due conversazione dei Memorabili (II, 8; II, 10): in una (Mem., II, 8) Socrate consiglia infatti all’amico Eutero, ridotto all’indigenza da varie vicissitudini, di cercare lavoro come amministratore alle dipendenze di un concittadino ricco, nell’altra (Mem., II, 10) Socrate si rivolge invece a un concittadino ricco per convincerlo ad assumere Ermogene, notoriamente povero, come amministratore regolarmente retribuito (Mem., II, 10, 4 e 6). Non è casuale, né in Oec., 1, 4, né in Mem., II, 10, 4 e 6, la sottolineatura della retribuzione dovuta all’amministratore: infatti era una pratica ammessa aiutare un concittadino ad amministrare il suo oikos o addirittura sostituirlo in tale compito, ma a titolo gratuito, come favore amicale, una pratica che poteva al massimo attendersi che tale favore venisse ricambiato46; ma un libero cittadino che si prestasse a svolgere la funzione di amministratore di un oikos altrui come un’attività retribuita costituiva una indubbia novità47. Un’altra presa di posizione decisamente innovativa è posta sulla bocca di Iscomaco: questi, nell’ultima parte della sua conversazione con Socrate, elogia il sistema utilizzato da suo padre per trarre guadagno dall’agricoltura, consistente nell’acquistare a basso prezzo campi improduttivi, renderli produttivi accrescendone quindi il valore per poi rivenderli con un considerevole margine di guadagno (20, 13-29). Anche in questo caso ci troviamo davanti a un’affermazione inedita48, che suona come una lode del guadagno tout-court e di un guadagno ottenuto all’interno di una logica che non è quella dell’onesto e accorto proprietario terriero che si limita a coltivare (anzi a far coltivare) nel modo più produttivo i propri campi, bensì la logica del mercante, come Socrate si affretterà a far notare a Iscomaco (20, 27-28), il quale per altro nella sua replica si guarderà bene dallo sconfessare il proprio punto di vista (20, 29). Qui, come si può notare, è proprio Socrate a esprimere le resistenze che non poteva non incontrare una simile presa di posizione, che sembrava attribuire il punto di vista dei mercanti, spesso meteci, a un kalos kagathos quale il padre di Iscomaco. Del resto è ancora Iscomaco a sostenere che il desiderio di guadagno favorisce l’impegno (12, 15), un’affermazione provocatoriamente polemica sia nei confronti di quella che poteva essere la dichiarata communis opinio sia nei confronti delle posizioni 46

Cf. Mem., III, 6, 14; Platone, Lys., 209c-d; Gorg., 520d-e. Del carattere di novità di questa nuova figura professionale Senofonte si mostra pienamente consapevole, tanto è vero che nel dialogo tra Socrate ed Eutero pone sulla bocca di quest’ultimo (Mem., II, 8, 4-5) delle objezioni che mostrano chiaramente come proporre un impiego di questo tipo suscitasse profonde resistenze, dovute soprattutto al fatto che di solito un’attività di questo genere veniva affidata a uno schiavo. 48 Cf. supra, n. 16. 47

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espresse da Platone nella Repubblica (e certo non estranee ad altri Socratici: si pensi, ad es., ad Antistene). Ci troviamo dunque di fronte ad affermazioni estremamente interessanti, sia su un terreno propriamente economico sia soprattutto sul piano ideologico, affermazioni che meritano di essere prese in esame in sé e per sé, come se appunto facessero parte di un trattato. Così come, per riprendere la definizione di Foucault, appare indubbio che i capp. 7-10, pur con qualche digressione al loro interno (la più ampia è quella relativa all’ordine che regna su una nave fenicia: 8, 11-16), costituiscano “le traité de vie matrimoniale le plus développé que nous ait laissé la Grèce classique”, un trattato le cui valenze ideologiche rappresentano tuttora un problema aperto49. Anche un’altra tematica presente nell’Economico, quella dell’arte del comando, con il tema correlato dell’obbedienza volontaria, può indurre a considerare l’Economico alla stregua di un trattato in cui Senofonte ha dato voce alle sue opinioni in proposito: opinioni che trovano spazio non solo nei Memorabili, ma anche in opere non socratiche, come lo Ierone e soprattutto la Ciropedia50, e che quindi sono riconducibili, con ottime probabilità, a Senofonte stesso. Non mancano, dunque, valide ragioni per considerare l’Economico, al di là della sua forma dialogica, come una sorta di trattato, almeno in buona parte. Ma è soltanto un trattato?

III. L’Economico: un dialogo socratico? Ora non possiamo fare a meno di compiere il passo successivo: l’Economico è un dialogo socratico? Anche in questo caso la risposta è sì, l’Economico è un dialogo socratico o quanto meno è anche un dialogo socratico. Anzi, per essere più precisi, è costituito da due dialoghi socratici51: un primo dialogo tra Socrate e Critobulo (cap. 1-6) e un secondo dialogo, riferito a Critobulo 49

Ad es., per quanto concerne il ruolo della moglie all’interno dell’oikos e nell’ambito stesso della relazione con il marito, Pomeroy (Xenophon Oeconomicus, cit., cf. in particolare p. 31-39) tende a sottolineare gli elementi innovativi di valorizzazione molto più di quanto non faccia Foucault, che insiste invece sulla dissimetria tra marito e moglie e ribadisce che se, la moglie deve essere rispettata (oltre che tenuta in pugno) dal marito, è solo in virtù della obbedienza che dimostra nel suo ruolo di padrona di casa: cf. L’usage des plaisirs, cit., p. 198-215; vedi in particolare p. 215 (L’uso dei piaceri, cit., 156-169; vedi in particolare p. 168-169). 50 Cf. in proposito il recente lavoro di V.J. Gray, Xenophon’s Mirror of Princes, Oxford University Press, Oxford 2011. 51 Non intendo in questa sede soffermarmi sulla questione, assai controversa, del rapporto tra queste due parti e delle rispettive date di composizione, né su quella della probabile mancanza di una revisione finale dell’opera da parte di Senofonte (cf. supra n. 17; infra, n. 93): si tratta di problemi non marginali, ma che mi riservo di affrontare in altro momento e in altra sede.

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da Socrate, tra quest’ultimo e Iscomaco (cap. 7-21). Cominciamo con il primo dialogo, che presenta tutte le caratteristiche di un logos Sokratikos, anzi di un logos Sokratikos senofonteo, molto simile a quelli che si leggono nei Memorabili: nel corso di una conversazione didattica con Critobulo (non si tratta infatti di un elenchos)52 Socrate si preoccupa prima di definire prima una serie di termini (oikonomia, oikonomikos, oikos, ktēmata, chrēmata) per poi giungere a una definizione della ricchezza in termini relativi: ricco è chi possiede più di quanto gli è necessario, povero chi, pur fornito di un cospicuo patrimonio, non riesce a sostenere tutte le spese che si trova ad affrontare. Pertanto Socrate, il cui intero patrimonio ammonta a sole cinque mine, è ricco perché tale modestissimo patrimonio è comunque sufficiente a soddisfare i suoi bisogni, mentre Critobulo, con un patrimonio che è cento volte quello di Socrate, è povero perché il suo patrimonio non è sufficiente a sostenere tutte le spese che Critobulo, per diversi motivi, si trova a dover affrontare: una concezione relativa della ricchezza che si rinviene anche negli altri scritti socratici di Senofonte53. La ricchezza di Socrate ha il suo fondamento nella riduzione dei bisogni, resa possibile dalla sua esemplare enkrateia, anch’essa ripetutamente sottolineata nei Memorabili54, mentre la povertà di Critobulo da un lato nasce dalla sua mancanza di enkrateia (Oec., 2, 7: Critobulo, invece di pensare a procurarsi del denaro, si occupa delle sue storie con i ragazzi), dall’altro dalle molteplici spese che deve affrontare in quanto appartenente alla classe liturgica55. Anche qui, come negli altri logoi Sokratikoi di Senofonte, la scelta dell’interlocutore è tutt’altro che casuale: in effetti Critobulo compare come un giovane privo di enkrateia nei confronti dei piaceri del sesso sia nei Memorabili, dove a più riprese viene presentato come irresponsabilmente incline a baciare i bei ragazzi56, sia nel Simposio, dove si dichiara disposto a tutto per amore di Clinia (Symp., 4, 1452 In effetti il Socrate di Senofonte preferisce di gran lunga conversazioni di tipo didattico all’elenchos: nei Memorabili Socrate fa ricorso all’elenchos, anzi a una serie di brevi elenchoi un’unica volta, nella prima delle sue conversazioni con Eutidemo (IV, 2). Per l’atteggiamento del Socrate dei Memorabili nei confronti dell’elenchos cf. L.-A. Dorion, Introduction, cit., p. CXVIII-CLXXXII; Memorabili di Senofonte, a cura di F. Bevilacqua, UTET, Torino, 2010, p. 113-129. 53 Cf. Mem., IV, 2, 37-38; Symp., 4, 34-37, dove è posta sulla bocca di Antistene. Vedi anche Hier., 4, 8-11. 54 Cf. Mem., I, 2, 1; I, 2, 14; I, 3, 5-8; I, 3, 14-15; I, 6, 8-9; IV, 8, 11; vedi anche Ap., 16. 55 Oec., 2, 5-6: è possibile cogliere nelle parole di Socrate, che ricorda a Critobulo i suoi obblighi di cittadino appartenente alla classe liturgica, una velata critica al sistema delle liturgie imposto ai cittadini più ricchi: una critica che diviene esplicita e diretta nel Simposio, in cui Carmide, ridotto in povertà, si proclama felice della sua nuova condizione, che lo ha liberato dalla schiavitù delle liturgie e dalla minaccia dei sicofanti (Symp., 4, 29-32). 56 Cf. Mem., I, 3, 8-10 e 13; II, 6, 30-33.

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16), anche a fargli dono di tutti i suoi averi (Symp., 4, 14). Né bisogna dimenticare che nei Memorabili Critobulo è l’interlocutore di Socrate in un lungo dialogo sull’amicizia, anzi per essere più precisi, su quali amici sia opportuno procurarsi e in che modo, un dialogo in cui i kaloi kagathoi giocano un ruolo importante, sia perché presentati come gli unici capaci di instaurare tra loro solidi legami di philia57, sia perché considerati i possibili protagonisti di un progetto politico di stampo palesemente oligarchico58. Non sembra quindi un caso né che Critobulo sia stato scelto come interlocutore di Socrate nella prima parte dell’Economico, né che nella seconda parte del dialogo, quella che Socrate si incarica di riferire a Critobulo perché possa trarne i debiti insegnamenti, l’interlocutore di Socrate sia Iscomaco, scelto da Socrate proprio in quanto chiamato a ragione kalos kagathos (Oec., 6, 1617). Superfluo aggiungere che Iscomaco, il kalos kagathos Iscomaco potrà costituire un modello positivo per il giovane e scapestrato Critobulo: un modello positivo perché si mostrerà anche lui, al pari di Socrate, dotato di enkrateia59, nonché in possesso di quelle competenze necessarie per gestire un oikos, ma anche la stessa polis, perché unica è l’arte di saper comandare, in quanto la differenza tra oikos e polis è di ordine meramente quantitativo60. Un’arte del comando che, oltre a richiedere competenze specifiche61, esige anche la capacità di ottenere dai propri sottoposti una obbedienza spontanea: un tema che verrà esplicitamente affrontato nel capitolo conclusivo dell’Economico, e che si rinviene non solo nei Memorabili, ma, sia pure con diversità di accenti, in tutte le opere di Senofonte, dall’Anabasi all’Agesilao, dallo Ierone alla Ciropedia, dall’Ipparco alla Costituzione degli Spartani.

57 Legami di philia più che di amicizia: in effetti l’italiano “amicizia”, così come le diverse traduzioni di philia in varie lingue moderne (ad es. amitié, friendship, Freundschaft) è privo della connotazione in senso politico che il greco philia assume in contesti del genere. 58 Sul progetto politico che emerge da Mem., II, 6, 22-27, ho presentato un intervento alla “International Conference: Plato and Xenophon: Comparative Studies”, organizzata dall’Università di Bar Ilan (Tel Aviv) nei giorni 9-11 giugno 2014. Per questo importante convegno vedi il mio report in un prossimo numero di “Magazzino di filosofia”. 59 Da Mem., II, 6, 22-23, sembra che la enkrateia sia non solo tipica dei kaloi kagathoi, ma anche esclusiva dei kaloi kagathoi. 60 Cf. supra n. 17. Vedi anche Mem., I, 1, 7; I, 2, 48; I, 2, 64; IV, 1, 2; IV, 2, 11; IV, 4, 16. 61 Si tratta di competenze di ordine fondamentalmente economico sia per l’oikos che per la polis; per quest’ultima sono necessarie anche competenze di tipo militare: vedi il dialogo con Glaucone in Mem., III, 6. Del resto anche il kalos kagathos Iscomaco, l’abile amministratore del proprio oikos, si esercita costantemente a compiere manovre militari con il suo cavallo: vedi Oec., 11, 17.

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IV. L’Economico: alcuni problemi aperti A questo punto potremmo dirci soddisfatti: stabilita la duplice natura dell’Economico, dialogo socratico e, al tempo stesso, trattato sull’amministrazione dell’oikos, potremmo accostarci al testo tenendo sempre presente questa sua natura ambivalente. Ma prima di un approccio diretto è ragionevole e prudente cercare di acquisire una qualche consapevolezza almeno di alcuni problemi che rimangono aperti. Come abbiamo visto, la scelta degli interlocutori di Socrate nell’Economico, come in generale nei logoi Sokratikoi, non è né casuale né irrilevante. Abbiamo visto che non è casuale la scelta di Critobulo, che riveste un ruolo significativo nel Simposio e soprattutto nei Memorabili; superfluo aggiungere che Critobulo è un personaggio storicamente esistito, che faceva parte dell’entourage socratico62 e, come noto, era figlio di Critone, il che gli garantiva di godere del cospicuo patrimonio paterno, che forse, almeno in parte (come sembrerebbe da Oec., 2, 2 sgg.), gli era stato assegnato dal padre mentre questi era ancora in vita. Critobulo, quindi, si presenta come l’interlocutore ideale per gli insegnamenti che gli impartirà Socrate, dapprima in prima persona (cap. 1-6), quindi tramite Iscomaco (cap. 2-21). Infatti è un giovane ricco, ma incapace di amministrare il suo oikos, sia perché privo di enkrateia sia perché privo, come egli stesso ammette (Oec., 6, 11), delle necessarie competenze tecniche; nel contempo, tuttavia, aspira a diventare un kalos kagathos (Oec., 6, 12) come quell’Iscomaco che Socrate gli presenterà come tale (Oec., 6, 14-17). Non desta perplessità, dunque, né suscita ulteriori interrogativi la scelta di Critobulo come interlocutore di Socrate. Quello che invece dobbiamo chiederci è il perché della scelta di Iscomaco. Certo Iscomaco viene scelto da Socrate, come lui stesso esplicitamente dichiara, in quanto kalos kagathos, anzi in quanto autentico kalos kagathos che merita pienamente questo appellativo. Inoltre è opinione largamente diffusa tra gli studiosi, a partire dall’autorevole presa di posizione di Delebecque63, che Iscomaco non sia altro che la maschera di Senofonte stesso, un suo trasparente alter ego, un “portavoce di idee specificamente senofontee” per riprendere l’efficace definizione di Roscalla64. Ammettiamo pure che sia così: ma perché Senofonte avrebbe scelto come kalos kagathos esemplare, come controfigura di se stesso proprio Iscomaco? Il testo, come abbiamo visto, ci dice perché Socrate ha scelto Iscomaco: ma perché lo ha scelto Senofonte? La domanda non è oziosa come potrebbe parere a prima vista: di solito infatti i personaggi dei logoi Sokratikoi sono personaggi storicamente esistiti e la 62

Diogene Laerzio, II, 121. É. Delebecque, Essai, cit., 365-367. 64 Cf. supra, n. 21. 63

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loro scelta è funzionale agli scopi che l’autore si propone65. Se poi consideriamo i logoi Sokratikoi di Senofonte, non possiamo fare a meno di notare che nel Simposio i personaggi messi in scena sono personaggi che, a quanto conosciamo della loro realtà storica, risultano pienamente funzionali alla loro caratterizzazione, alla loro funzione, al loro ruolo. Quanto ai Memorabili, fermo restando che di solito la scelta degli interlocutori di Socrate si rivela funzionale agli intenti perseguiti, è vero però che una simile affermazione non può essere estesa a tutti i dialoghi, dato che in qualche raro caso l’interlocutore è per noi un perfetto sconosciuto66, poiché non ci è noto da nessun altra fonte. Per noi, tuttavia: non è detto, infatti, che risultasse tale anche per i contemporanei. Riguardo a Iscomaco, però, la questione è più complicata, perché, lungi dall’esserci sconosciuto da altre fonti, è forse da identificarsi con un Iscomaco di cui ci parlano Andocide, Lisia e altri67: ma se così stanno le cose, di tratta di una identificazione senz’altro inquietante, che pone in discussione l’intera interpretazione dell’Economico. In effetti, come abbiamo accennato, una sezione piuttosto estesa dela seconda parte dell’Economico (capp. 7-10) verte sull’educazione che Iscomaco ha impartito con successo alla giovane moglie, una educazione che viene proposta come esemplare, così come appare esemplare, in virtù della educazione impartitale, la stessa moglie di Iscomaco. Da notare, in particolare, come questa giovane donna venga dissuasa dall’utilizzare strumenti di seduzione quali scarpe con la suola rialzata68 e il maquillage dell’epoca69 (10, 2-8): anche da questo punto 65 Cf. L. Candiotto, Le vie della confutazione. I dialoghi socratici di Platone, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 32-35; 53-65; 102-112. La studiosa sottolinea come l’elenchos non sia solo in funzione di quel determinato interlocutore, ma anche in funzione del gruppo dei presenti, tramite quello che Candiotto chiama “elenchos retroattivo”. Per questo interessante volume cf. la mia recensione in: “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”, CIII (2013/1), p. 189-196. 66 È appunto il caso di Aristarco (II, 7), di Eutero (II, 8), di Diodoro (II, 10), di Nicomachide (III, 4), di Clitone e di Pistia (III, 10). 67 Un elenco completo delle fonti in nostro possesso che parlano di un Iscomaco si può leggere in: S.B. Pomeroy, Xenophon Oeconomicus, cit., p. 260-261, dove la studiosa precisa anche quali di queste fonti alludono, a suo giudizio, all’Iscomaco di cui parlano Andocide e Lisia, verosimilmente lo stesso Iscomaco dell’Economico. 68 Letteralmente: “scarpe alte”, il che, a mio avviso, fa pensare non a scarpe fornite di tacchi alti, bensì a calzature dotate di una suola rialzata di alcuni centimetri. 69 In Oec., 10, 2, i cosmetici usati dalla moglie di Iscomaco sono lo psimythion, una sostanza a base di carbonato di piombo usata per rendere più bianca la carnagione, e la enchouse, una sostanza ricavata da una pianta usata invece per conferire alla pelle un colorito rosa acceso, quasi rosso. S.B. Pomeroy, Xenophon Oeconomicus, cit., p. 304-305, fa notare che, a quanto risulta dalla documentazione iconografica, dalla documentazione archeologica, e da alcuni testi letterari (cf. ad es. Aristofane, Lys., 43-48), le donne greche facevano largo uso di cosmetici, un’abitudine quanto meno tollerata se non ammessa. Da notare, inoltre, che

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di vista, dunque, una moglie esemplare, la cui rinuncia ai deprecati strumenti di seduzione è del tutto in linea con quella enkrateia che proprio in ciò che attiene al sesso trova uno degli ambiti fondamentali in cui deve esercitarsi70. Ora però, secondo un’affidabile ricostruzione di J.K. Davies71, l’Iscomaco dell’Economico sarebbe appunto da identificare con l’Iscomaco di cui ci parlano Andocide (Sui misteri, 124-127) e Lisia (Sui beni di Aristofane, 46). Andocide in realtà accenna appena a Iscomaco, perché quello di cui intende parlare sono le scandolose vicende di cui si erano resi protagonisti Callia e la vedova di Iscomaco, Crisilla72. Infatti Callia, che in prime nozze aveva sposato la figlia di Glaucone da cui aveva avuto il figlio Ipponico, in seconde nozze sposò la figlia di Iscomaco e di Crisilla, a sua volta vedova di Epilico, ma dopo nemmeno un anno di matrimonio prese a convivere anche con la madre di lei, Crisilla: la figlia di Crisilla tentò il suicidio, quindi fuggì dalla casa di Callia, il quale, stancatosi di Crisilla, la cacciò via. Crisilla era incinta, ma Callia negò che il figlio di Crisilla fosse suo. In seguito, tuttavia, Callia riprese la sua relazione con Crisilla, la accolse di nuovo nella propria casa e riconobbe il figlio. Se dunque, come ritiene Davies, l’Iscomaco dell’Economico è lo stesso di cui parla Andocide, qualche problema si pone, l’abbondante uso di cosmetici, nonché di scarpe con le suole rialzate caratterizza anche Kakia, il Vizio, nell’apologo di Eracle al bivio, che Socrate, attribuendolo a Prodico, narra nei Memorabili (I, 1, 22). Significativo il fatto che anche Ciro, il monarca esemplare, il leader ideale, faccia uso di analoghi accorgimenti, scarpe con suole rialzate e cosmetici, per affascinare, anzi per “stregare” (katagoēteuein) i propri sudditi (Cyr., VIII, 1, 40-42): ciò che non è lecito nell’ambito della seduzione amorosa, diviene invece lecito nell’ambito della seduzione politica. In proposito mi permetto di rinviare al mio Seduzione e potere nella Ciropedia e nell’Economico di Senofonte, in: F. Benedetti / S. Grandolini c/ di, Studi di Filologia e tradizione greca in memoria di Aristide Colonna, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2003, p. 131-140. 70 In realtà in Oec., 7, 15, non si fa riferimento alla enkrateia, bensì alla sōphrosynē, che sembra essere la medesima per l’uomo e per la donna (“è proprio infatti dell’uomo e della donna sōphrones”); tuttavia bisogna tenere presente che in Senofonte sōphrosynē/ sōphronein ed enkrateia sono pressoché sinonimi, come è confermato anche dal fatto che, poco dopo, si afferma che il dio ha assegnato in ugual misura all’uomo e alla donna la capacità di esercitare la enkrateia (Oec., 7, 27). Contra, riguardo alla sōphrosynē, Aristotele, Pol., I, 1260a21. 71 J.K. Davies, Athenian Propertied Families, Clarendon Press, Oxford 1971, p. 248 e 265-268. 72 Non è un caso che Andocide non esiti a farne il nome, così come non è un caso che nell’Economico Iscomaco non faccia mai il nome di sua moglie: fare il nome di una donna perbene era contrario alle regole del bon ton. Si poteva fare il nome di una etera come Teodote (Mem., III, 11) o di una donna con uno status irregolare come Aspasia (cf. Mem., II, 6, 36; Oec., 3, 14; vedi anche il Menesseno platonico). Non è neppure un caso che Andocide, nell’orazione citata, non faccia invece il nome della figlia di Crisilla e di Iscomaco, ritenuta una vittima innocente, una donna perbene, né della figlia di lei e del suo primo marito, Epilico, evidentemente considerata anch’essa una donna rispettabile.

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innanzi tutto in relazione alla moglie di Iscomaco: come può Senofonte aver presentato come una moglie esemplarmente educata quella stessa donna che, dopo la morte del marito, si abbandonerà a una condotta così platealmente scandalosa, resa ancor più scandalosa dalle parole indignate e sprezzanti con cui Andocide tratta lei e la sua storia con Callia? Il problema è stato colto innanzi tutto da Strauss, il quale per altro sembra non annettervi soverchia importanza73. Strauss infatti afferma che il racconto fatto da Socrate riguardo a Iscomaco e a sua moglie è del tutto compatibile con la possibilità che costei in seguito si sia comportata in modo così riprovevole, così come è compatibile con il fatto che tale condotta fosse nota a Socrate e ai suoi amici74 nel momento in cui Socrate riferisce loro quanto Iscomaco gli ha raccontato a proposito della educazione della sua giovane moglie. Pertanto Strauss ne trae la conclusione che, se Socrate non era riuscito a educare Santippe, tuttavia, data la successiva condotta della moglie di Iscomaco, Socrate si dimostra comunque superiore a Iscomaco, sia perché non è andato incontro ad amare disillusioni sia perché è sempre stato consapevole della propria ignoranza dell’arte di gestire una moglie. Se Strauss, sorprendentemente75, dedica scarso spazio e scarsa attenzione al problema dello scandalo che vide protagonista la moglie di Iscomaco, la questione viene invece ripresa, come è noto, da F.D. Harvey76, che ipotizzava una possibile soluzione nell’ammettere che Senofonte, nel momento in cui scriveva l’Economico, fosse senz’altro al corrente di tale scandalo (l’orazione di Andocide è databile al 399) e che, proprio per questo, intendesse difendere la reputazione e la virtù di una donna che, quando Senofonte viveva ad Atene, aveva conosciuto e apprezzato. Una spiegazione poco persuasiva, tanto è vero che a brevissima distanza di tempo D.C. Mackenzie77 rispondeva prendendo posizione a favore di una lettura ironica sia del personaggio di Iscomaco, non certo un modello da seguire visti i risultati del suo insegnamento, sia della sua virtuosa moglie, visto il suo successivo comportamento di cui gli Ateniesi, all’epoca in cui Senofonte scriveva l’Economico, dovevano ormai essere ben al corrente. 73

L. Strauss, Xenophon’s Socratic Discourse, cit., p. 156-158. In effetti, anche se Critobulo è l’unico che dialoga con Socrate, la conversazione avviene in presenza di anonimi amici, menzionati en passant per due volte (Oec., 3, 1; 3, 12); non si dimentichi, inoltre, che tra questi amici figura anche l’io narrante, cioè Senofonte. 75 Sorprendentemente dato che Strauss, come è noto, è fautore di una esegesi ironica degli scritti di Senofonte e la successiva condotta della moglie di Iscomaco avrebbe potuto costituire uno dei punti di forza per quella interpretazione ironica dell’Economico che Strauss comunque sostiene. Per un altro esempio di lettura ironica dell’Economico e, in particolare, del personaggio di Iscomaco vedi infra, n. 83. 76 F.D. Harvey, The Wicked Wife of Ischomachos, in: “Échos du Monde Classique”, XXVIII, N. S. 3/1 (1984), p. 68-70. 77 D.C. Mackenzie, The Wicked Wife of Ischomachos – Again, in: “Échos du Monde Classique”, XXIX, N. S. 4/1 (1985), p. 95-96. 74

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Ancora a brevissima distanza D. Nails78 replicava che Senofonte aveva semplicemente inteso dar sfogo alla propria misoginia, mostrando ai suoi lettori che una donna, benché educata nel modo migliore, non può che abbandonarsi a una condotta immorale non appena venga lasciata libera di agire a suo piacimento. Al di là di questa polemica, ormai un po’ datata ma rimasta senza risposte convincenti, altri aspetti inquietanti emergono a proposito dell’Iscomaco storico: infatti da un accenno che leggiamo in una orazione di Lisia (Sui beni di Aristofane, 46), veniamo a sapere di un ricco Iscomaco (probabilmente lo stesso a cui si riferisce Andocide) che, finché era in vita, si riteneva che disponesse di un patrimonio di oltre settanta talenti, ma che alla sua morte non lasciò ai suoi due figli neppure dieci talenti per ciascuno. Da questa notizia non pare proprio che l’Iscomaco in questione fosse un accorto amministratore e anche questo potrebbe essere un elemento a favore di una lettura ironica del personaggio di Iscomaco79. Non è questa la sede per entrare nel merito delle molte letture ironiche che, sulla scia dell’approccio straussiano, sono state tentate per varie opere di Senofonte80, tuttavia va detto che, al di là del rapporto tra l’Iscomaco storico e l’omonimo personaggio dell’Economico, il testo stesso sembra offrire alcuni spunti per mettere in dubbio la funzione di esemplare kalos kagathos assegnata a Iscomaco. Tanto per limitarci a qualche esempio, possiamo pensare al valore positivo che Iscomaco assegna non già a quella che per Socrate è la vera ricchezza, che consiste nel limitare i propri bisogni, bensì a quella ricchezza che nasce dal continuo arricchimento, dall’incessante aumento del proprio patrimonio. Si tratta della ricchezza a cui mirava e che riusciva a procurarsi il padre di Iscomaco, che certo Iscomaco cita come un modello positivo (20, 22-26), ma che non manca di suscitare l’ironica replica di Socrate che paragona il padre di Iscomaco a un mercante (20, 27-28): una osservazione che non poteva certo suonare lusinghiera alle orecchie di Iscomaco (e a quelle dei lettori?), che infatti cerca di ricondurla a un bonario scherzo, a una innocua battuta di spirito (20, 29). Ma la replica di Socrate è davvero così bonaria, così innocua? O non è, invece, una radicale messa in discussione di un tipo di ricchezza e di una modalità di arricchimento di cui pure Iscomaco si mostra entusiasta? Ancora: a proposito del massimo guadagno che è possibile 78 D. Nails, The Shrewish Wife of Socrates, in: “Échos du Monde Classique”, XXIX, N. S. 4/1 (1985), p. 97-99. 79 Cf. G. Danzig, Apologizing for Socrates, cit., p. 258-259, che conclude che Senofonte intende mostrarci che il successo ottenuto da Iscomaco non è affidabile, non è stabile. 80 Cf. in proposito due recentissimi contributi di grande interesse, decisamente critici nei confronti di questo tipo di esegesi: V.J. Gray, Xenophon’s Mirror of Princes, cit., p. 246-290 (relativamente alla Ciropedia); L.-A. Dorion, L’exégèse straussienne de Xénophon: le case paradigmatique de Mémorables IV 4, in: “Philosophie Antique”, I (2001), p. 87-118; ora in: L’autre Socrate, cit., p. 51-92.

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trarre dall’agricoltura, accrescendo il raccolto dei vari cereali, Socrate non si limita a dichiarare a Iscomaco che imparerebbe con piacere in che modo, se intendesse lavorare la terra, potrebbe raccogliere la maggior quantità possibile di orzo e di grano, ma aggiunge, en passant: “questo infatti è proprio di un vero filosofo” (16, 9). Questa affermazione risulta davvero sorprendente (ancor più perché è l’unico passo in cui ricorre il termine philosophos) e si è inevitabilmente tentati di darne una lettura ironica ovvero autoironica81. Certo si può pensare, con Roscalla, che Senofonte voglia polemicamente contrapporre al philosophos platonico un philosophos per il quale l’impegno a ricavare il massimo guadagno rappresenta un fatto positivo, anzi “la condizione necessaria e ineliminabile per la formazione del vero filosofo”82. Tuttavia il contrasto con le posizioni espresse da Socrate nella prima parte del dialogo sembra eclatante ed è forte la tentazione di leggere una simile affermazione non tanto come autoironica, bensì come pervasa di una ironia diretta verso Iscomaco, una ironia che suona come una presa di distanza nei suoi confronti. Ma su questo passo, tanto sconcertante quanto cruciale, torneremo tra breve. Un ultimo esempio, infine, che sembra minare la figura di Iscomaco quale kalos kagathos esemplare. Come si è accennato, l’arte del comando, che richiede le medesime doti sia che si eserciti a livello dell’oikos sia che si eserciti nell’ambito della polis, si fonda, oltre che su specifiche competenze di tipo tecnico, sulla capacità di ottenere l’obbedienza spontanea dai propri sottoposti: il tema dell’obbedienza spontanea, indispensabile per un’autentica leadership, è una sorta di filo rosso che, come abbiamo accennato, percorre tutta la produzione di Senofonte e il valore dell’obbedienza volontaria è ribadito dallo stesso Iscomaco proprio nel capitolo conclusivo dell’opera. Ma siamo proprio sicuri che Iscomaco nell’ambito del suo oikos sia riuscito ad assicurarsi una obbedienza di questo genere? E che dire del passaggio in cui Iscomaco afferma di far ricorso, per punire i propri schiavi, alle leggi di Solone e di Draconte (14, 4), precisando di mettere a morte chi tenta di rubare (14, 5)? Sembrerebbe che Iscomaco ottenga l’obbedienza soprattutto tramite il terrore e non procurandosi la benevolenza e lo zelo da parte dei suoi sottoposti: nessuna meraviglia, quindi, 81

Natali, L’amministrazione della casa, cit., p. 239, sostiene che si tratta di una battuta autoironica da parte di Socrate; Pomeroy, invece, nel suo commento non dedica neppure una riga a questa affermazione, probabilmente perché intende sarebbe proprio del filosofo non già in che modo ottenere il raccolto più abbondante possibile, bensì l’imparare (manthanein): infatti traduce: “first I think I should like to learn (for it is very characteristic of a philosopher to want to learn) how I should cultivate soil if I want to get the largest yield of barley and wheat” (Xenophon Oeconomicus, cit., p. 185). Mi sembra però che una simile interpretazione non sia assolutamente compatibile con il testo. Per le occorrenze del termine philosophos in Senofonte cf. infra, n. 115. 82 F. Roscalla, Senofonte. Economico, cit., p. 201.

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se non è mancato chi ha dato una lettura ironica anche di Oec., 21, 12, in quanto proprio Iscomaco sarebbe sinistramente simile ai tiranni che depreca, condannati a vivere come si dice che viva Tantalo nell’Ade83. Ma al di là di una possibile lettura ironica del personaggio stesso di Iscomaco, importanti interrogativi al riguardo rimangono aperti: Iscomaco è davvero il portavoce di Senofonte, il suo alter ego? Iscomaco è davvero un kalos kagathos esemplare nella sua gestione dell’oikos e per le attitudini al comando di cui dà prova? Che tipo di ricchezza persegue Iscomaco? Che ruolo riveste la enkrateia nella vita di Iscomaco? E, più in generale, qual è il modello di vita che Iscomaco persegue e pratica? In che cosa si differenzia da quello di Socrate? E quali sono invece i possibili punti di contatto? Si tratta di due modelli di vita diversi ma conciliabili? Oppure sono segnati da una irriducibile alterità? Sono tutte domande che esigono una risposta o almeno un adeguato approfondimento. Veniamo ora a Socrate: anche in questo caso restano aperte questioni non marginali. Il Socrate della prima parte dell’Economico non pone, in effetti, grossi problemi: è simile per molti aspetti al Socrate dei Memorabili. In linea con il Socrate dei Memorabili è la concezione relativa della ricchezza, fondata sulla riduzione dei bisogni, quindi, in ultima analisi, su quella enkrateia che nei Memorabili Socrate definisce il fondamento della virtù (I, 5, 4) e di cui lui stesso rappresenta un inarrivabile modello84. Ancora in linea con il Socrate dei Memorabili è il fatto che Socrate esprima a più riprese opinioni e considerazioni che non possono non essere ricondotte a Senofonte. Sicuramente riconducibile a Senofonte è infatti l’apprezzamento per l’organizzazione politica, amministrativa ed economica dell’impero persiano (Oec., 4, 4-16), che Senofonte aveva avuto modo di conoscere di persona, ma che con ogni probabilità doveva essere pressoché sconosciuta al Socrate storico. Ancor più riconducibile a Senofonte è l’elogio di Ciro il giovane (Oec., 4, 18-25), presentato nell’Anabasi come un leader esemplare85, di cui il Socrate storico ben poco poteva sapere se non ciò che aveva detto a Senofonte stesso quando gli aveva chiesto se fosse opportuno unirsi alla progettata spedizione di Ciro contro il fratello Artaserse (An., III, 1, 4-

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Cf. J.A. Stevens, Friendship and Profit in Xenophon’s Oeconomicus, in: P. A. Vander Waerdt, c/ di, The Socratic Movement, Cornell University Press, Ithaca and London 1994, p. 235. Più in generale il saggio di Stevens (p. 209-237) si muove nell’ambito di una lettura decisamente ironica del personaggio di Iscomaco. Si può non essere d’accordo, ma si tratta di una interpretazione da tenere comunque presente. 84 Cf. supra, n. 54. 85 Cf. An., I, 9. Da notare che in Oec., 4, 19, viene ripreso quasi alla lettera quanto narrato in An., I, 9, 31.

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7)86. Ugualmente riconducibile a Senofonte pare anche l’elogio dell’agricoltura che Socrate pronuncia in Oec., 5, 1-17, che può essere considerato opportunamente prolettico rispetto all’elogio dell’agricoltura e alla lunga trattazione delle sue varie tecniche che svilupperà Iscomaco, ma che sembra senz’altro più ascrivibile a Senofonte (verosimilmente figlio di un proprietario terriero87 e lui stesso impegnato a gestire una tenuta agricola negli anni felici di Scillunte88) che al Socrate storico. È assai probabile, in effetti, che il Socrate storico nutrisse per la campagna e per l’agricoltura quel totale e meditato disinteresse che Platone gli attribuisce nel Fedro89. In sostanza nei primi sei capitoli dell’Economico, quelli che Delebecque chiama “l’Economico di Critobulo”90, ci troviamo di fronte a un Socrate che ci è familiare, quello stesso che abbiamo avuto modo di conoscere dalle pagine dei Memorabili, quel Socrate che così spesso rivela interessi, convinzioni, opinioni proprie di Senofonte. Le cose però si fanno più complicate non appena passiamo ai capitoli successivi, all’Economico di Iscomaco, per utilizzare ancora una volta una definizione di Delebecque91. Innanzi tutto: nel dialogo tra Socrate e Iscomaco qual è l’atteggiamento di Socrate? Perché – e questo è un dato atipico – sembra assumere l’atteggiamento del discepolo? Ma questo inedito atteggiamento lo assume poi davvero? E se Socrate fa ricorso a Iscomaco in quanto autentico kalos kagathos, qual è il significato esatto di questo termine? O, per essere più precisi, chi sono i kaloi kagathoi? E Socrate è anche lui un kalos kagathos? Oppure il suo modello di vita, il suo stile di vita si contrappone radicalmente a quello del kalos kagathos? E se è così, quale dei due modelli di vita viene presentato come superiore all’altro: quello di Socrate o quello di Iscomaco? Non è certo possibile in questa sede dare delle risposte, né approfondire adeguatamente simili interrogativi. Limitiamoci dunque a precisarne il senso, a chiarirne alcuni aspetti. Abbiamo visto che la motivazione addotta da Socrate per riferire a Critobulo la sua conversazione con Iscomaco con86

Su questo passo dell’Anabasi ha giustamente richiamato l’attenzione G. Danzig, Apologizing for Socrates, cit., p. 260-261. 87 Se Iscomaco è la maschera di Senofonte, allora anche il padre di Senofonte è un proprietario terriero come il padre di Iscomaco (su costui vedi Oec., 20, 22-29); ma, anche a prescindere da questa ipotesi, la stessa militanza, pressoché certa, di Senofonte nella cavalleria dei Trenta induce a ritenere che fosse figlio di un proprietario terriero, probabilmente appartenente alla classe liturgica. 88 Cf. An., V, 3, 7-13. 89 Phraedr., 230d. 90 Per la precisione É. Delebecque, Essai, cit., p. 235, indica con questo nome i primi cinque capitoli dell’Economico, mentre assegna al cap. 6 una funzione di collegamento tra le due sezioni dell’opera. 91 Con questo nome É. Delebecque, Essai, cit., p. 363, indica i capp. 7-21 dell’Economico.

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siste nel fatto che costui è ritenuto a ragione un kalos kagathos da tutti, uomini, donne, concittadini e stranieri (Oec., 6, 12-17). Fin qui, almeno a prima vista, nulla di sorprendente: anche il Socrate dei Memorabili, quando ritiene di non possedere conoscenze adeguate in un determinato campo, non esita a mandare i suoi amici da chi ha fama di essere esperto in materia (Mem., I, 6, 14; III, 1, 3; IV, 7, 1). Quello che può invece risultare sorprendente è che, nel corso della conversazione con Critobulo, Socrate ha già individuato un esperto con cui metterlo in contatto, vale a dire Aspasia (Oec., 3, 14), almeno per quanto riguarda l’educazione della sua giovanissima moglie: ma non soltanto di un incontro tra Critobulo e Aspasia92 non c’è traccia nell’Economico, ma il ruolo di esperto in questo campo verrà assunto da Iscomaco, che si soffermerà a lungo sulla educazione impartita alla giovane moglie (Oec., 7-10). Ciò fa sì che la promessa di Socrate di far incontrare Critobulo con Aspasia risulti del tutto incongruente con il prosieguo dell’opera, il che potrebbe rendere credibile l’ipotesi che Senofonte non abbia avuto tempo e modo per una revisione finale dell’opera93. Ma, accantonando la questione dell’accenno ad Aspasia, dobbiamo chiederci perché Socrate abbia deciso di ricorre a un altro, Iscomaco, quale kalos kagathos: ciò implica forse che Socrate non sia un kalos kagathos lui stesso? Anche su questo punto il dibattito è aperto. Se, ad es., Natali sostiene che Socrate non è né un esperto di economia né tanto meno un kalos kagathos94, Danzig replica che, benché agli occhi dei suoi concittadini Socrate, a causa della sua

92 Questa promessa di Socrate ha suscitato una enorme mole di problemi, perché è sembrato sorprendente che Socrate presenti Aspasia, che non era la moglie bensì la compagna di Pericle, come esperta per quanto concerne l’educazione di una moglie: per una sintetica panoramica delle varie interpretazioni esperite rinviamo a S. Pomeroy, Xenophōn. Oeconomicus, cit., p. 232-234. Il problema poi è ulteriormente complicato dal fatto che nei Memorabili, ancora in una conversazione con Critobulo, Socrate accenna ad Aspasia come un’autorità nell’arte di accoppiare le persone (Mem., II, 6, 36), un’arte in cui lo stesso Socrate nel Simposio si proclama esperto (Symp., 3, 10; 4, 56-64). Un’ulterore complicazione è data dal rapporto tra questi due passi di Senofonte e il dialogo Aspasia di Eschine di Sfetto, in cui, secondo la testimonianza di Cicerone (De inventione, 1, 51-52), Aspasia teneva una sorta di breve lezione sul matrimonio a Senofonte e sua moglie: ciò non implica necessariamente che Senofonte abbia preso spunto da Eschine, in quanto potrebbe essersi verificato esattamente il contrario: vedi ancora S. Pomeroy, Xenophon. Oeconomicus, cit, 72-73. Ancora più complessa la questione dei rapporti tra Aspasia e l’entourage socratico e delle immagini di lei proposte dai Socratici: basti ricordare il Menesseno, in cui Platone attribuisce ad Aspasia il discorso funebre pronunciato da Socrate, nonché l’Aspasia di Antistene (Diogene Laerzio, VI, 16). Si tratta comunque di questioni che, per la loro complessità e le molteplici implicazioni, esulano da un’analisi dell’Economico. 93 Per altre significative incongruenze che fanno pensare a una mancata revisione dell’opera nel suo complesso cf. F. Roscalla, Senofonte. Economico, cit., p. 21-30. 94 C. Natali, Socrate dans l’Économique, cit., p. 282.

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povertà95 e del suo palese fallimento riguardo alla educazione di sua moglie Santippe96, non potesse apparire un kalos kagathos, tuttavia, come si ricava da Mem., I, 2, 2-3, in realtà l’unico vero kalos kagathos è proprio lui97. Anche Dorion è persuaso che Socrate, oltre che un esperto di amministrazione dell’oikos, sia anche un kalos kagathos98 e che Iscomaco, alter ego di Senofonte, venga introdotto per illustrare ed esemplificare un modello di gestione dell’oikos diverso da quello praticato da Socrate, ma ugualmente legittimo e necessario alla polis99. A questo punto, però, si ripresentano almeno altre due questioni. Innanzi tutto: che cosa indica il termine kalos kagathos negli scritti di Senofonte? E in secondo luogo: se Socrate e Iscomaco sono entrambi dei kaloi kagathoi, ma praticano e rappresentano due diversi tipi di gestione dell’oikos o addirittura due diversi modelli di vita, questi due diversi modelli vengono posti sullo stesso piano oppure uno dei due si configura, come già sostenuto da Taragna Novo100, come second best? La prima questione è certamente complessa, ma di importanza fondamentale: senza dubbio richiede un esame approfondito del temine kalos kagathos e di kalokagathia in tutti gli scritti di Senofonte, non solo quindi nelle opere socratiche, ma anche, ad es., nelle Elleniche. Si può ritenere pressoché acquisita la consapevolezza della forte connotazione in senso sociale di kalos kagathos, tanto è vero che viene generalmente tradotto come “gentiluomo”, “gentleman”, “homme de bien” e via dicendo; ma una ipotesi molto interessante e, a mio avviso, persuasiva è stata formulata, come si è accennato101, da Roscalla, che individua nei kaloi kagathoi un gruppo ben definito, non solo socialmente, ma anche politicamente, di cittadini ateniesi di orientamente oligarchico moderato, vicini a quel Teramene che nelle Elleniche appare, in antitesi al deprecato Crizia, come una sorta di eroe positivo, come, verrebbe da dire, il buon oligarca. Certo l’ipotesi avanzata da Roscalla merita un’attenta, ulteriore verifica, ma può comunque costituire un utile punto di partenza e possiamo, almeno provvisoriamente, assumere che non solo Iscomaco ma anche Socrate vengano rappresentati da Senofonte come dei

95 La povertà di Socrate è la conseguenza della sua enkrateia o, per essere più precisi, di quello che potrebbe definirsi il suo ascetismo: questa tesi è stata argomentata in modo convincente da L. Edmunds, Ascetism and Poverty: Versions of Life of Socrates in Plato and Xenophōn (si tratta di una conferenza tenuta a Bologna nel giugno 2014, il cui testo mi è stato gentilmente fornito dall’autore). 96 Cf. Symp., 2, 10; Mem., II, 2, 7-8. 97 G. Danzig, Apologizing for Socrates, cit., p. 246-247 e n. 17. 98 L.-A. Dorion, Socrate oikonomikos, cit., p. 268; ora in: L’autre Socrate, cit., p. 334. 99 L.-A. Dorion, Socrate oikonomikos, cit., p. 276; ora in: L’autre Socrate, cit., p. 343. 100 Cf. supra, n. 30. 101 Cf. supra, n. 22 e 23.

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kaloi kagathoi sia pure diversi tra loro non solo per il tipo di gestione dell’oikos, ma anche, più in generale, per stile di vita. Due stili di vita che tuttavia hanno come comune premessa quella enkrateia che per Iscomaco non meno che per Socrate si configura come il fondamento della virtù e che anche Iscomaco non si limita a praticare, ma mira a insegnare ai suoi sottoposti. Due stili di vita e due modelli di oikonomia che risultano, come si è detto, entrambi necessari alla polis, anche se non è difficile ammettere che il modello di Iscomaco è senz’altro più alla portata della maggior parte dei ricchi ateniesi come Critobulo ed è per questo che appare ragionevole supporre che sia stato introdotto il personaggio di Iscomaco, un kalos kagathos certo più facile da imitare. Ma questi due diversi modelli, questi due diversi stili di vita sono posti sullo stesso piano? Qui le opinioni divergono ancora una volta: mentre Natali inclina a ritenere che la vita dell’operoso gentleman Iscomaco si collochi al di sopra della vita del filosofo102, altri, come già Taragna Novo, pur ammettendo che la vita di Senofonte si è conformata molto di più al modello di Iscomaco che a quello di Socrate, sostengono che Senofonte tuttavia sembra aver riconosciuto la superiorità dello stile di vita del suo maestro103.

V. Una ipotesi di lavoro Questi sono solo alcuni dei problemi che si prospettano a chiunque intenda occuparsi dell’Economico con l’attenzione e il rigore che merita questo testo, in apparenza lineare, in realtà così complesso, ambivalente, sfaccettato. Tuttavia ritengo possibile delineare almeno una ipotesi di lavoro, che in parte ho già enunciato: l’indispensabile punto di partenza non può che essere costituito dalla consapevolezza della duplice natura di questo scritto: per certi aspetti un trattato, ma anche (soprattutto?) un logos Sokratikos. Ma l’Economico è duplice anche da un altro punto di vista, perché non è soltanto un’opera dotata di valore apologetico, ma costituisce una duplice apologia: “both a Xenophontic apology for Socrates, and a Socratic apology for Xenophon” secondo la geniale definizione di Danzig104. Un’apologia di Socrate da parte di Senofonte: come si è già accennato, anche l’Economico, al pari di tutti gli scritti socratici di Senofonte105, è caratterizzato da una finalità 102

Cf. C. Natali, Socrate dans l’Économique, cit., p. 284. Cf. G. Danzig, Apologizing for Socrates, cit., p. 260; L.-A. Dorion, Socrates oikonomikos, cit., p. 277; ora in: L’autre Socrate, cit., 343. 104 G. Danzig, Apologizing for Socrates, cit., 263. 105 Finalità apologetiche sono per altro rintracciabili anche in opere non socratiche quali le Elleniche e l’Anabasi: cf. Hell., I, 7, 15; An., III, 1, 5-7. 103

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apologetica, sia pure meno accentuata e soprattutto meno evidente rispetto a quanto è immediatamente riscontrabile nell’Apologia e nei Memorabili. La difesa di Socrate si gioca su un terreno diverso rispetto a quelli in cui Senofonte si spende nell’Apologia e nei Memorabili: qui infatti Senofonte si propone di dimostrare che quella che poteva apparire agli occhi degli Ateniesi come la disdicevole povertà a cui Socrate era costretto dalla sua pretesa incapacità di gestire con successo il proprio oikos non è affatto povertà e, in secondo luogo, che Socrate, se solo lo avesse voluto, sarebbe stato in grado di arricchirsi in quanto pienamente capace di farlo106. Abbiamo già visto come, proprio nei due capitoli iniziali, è Socrate, non Critobulo, a risultare ricco, dato che la ricchezza consiste nel disporre di una eccedenza rispetto ai propri bisogni: la ricchezza di Socrate nasce dunque da una drastica limitazione di questi ultimi, frutto della sua straordinaria enkrateia. Non solo: teniamo presente che esiste anche un altro tipo di ricchezza, che consiste sempre e comunque nel disporre di una eccedenza, ma che si ottiene non già riducendo i propri bisogni e quindi le spese, ma aumentando le entrate, accrescendo il proprio patrimonio. È questo il tipo di ricchezza che viene proposto a Critobulo tramite il modello Iscomaco, è questo il tipo di ricchezza indicato per chi, data la propria collocazione sociale, ha degli obblighi innanzi tutto verso la città, vale a dire per i cittadini della classe liturgica. Ma attenzione: anche Socrate, se solo avesse voluto, avrebbe potuto ottenere questo tipo di ricchezza. Non si dimentichi (non è un dettaglio insignificante) che la conversazione tra Socrate e Iscomaco, a differenza di quella tra Socrate e Critobulo, non è, per così dire, in presa diretta107, bensì viene riferita da Socrate a Critobulo. Si tratta di una conversazione avvenuta qualche tempo prima, anche se non ne viene precisata l’epoca108, il che suggerisce, sia pure implicitamente, che Socrate, se solo avesse voluto, avrebbe potuto 106 Diversa la strategia difensiva messa in atto da Platone: la povertà di Socrate viene presentata come la conseguenza non già della sua enkrateia, bensì della sua scelta di dedicarsi esclusivamente alla propria missione filosofica: cf. Ap., 23b-c; 31b-c. 107 La conversazione tra Socrate e Critobulo viene infatti presentata come un ricordo personale dell’autore, secondo l’impostazione dei Memorabili, in apparenza allo scopo di avvalorare la veridicità della conversazione stessa: in realtà questa pretesa testimonianza autoptica suona come una consapevole assunzione di responsabilità per quanto l’autore andrà scrivendo. 108 L’unico elemento che può suggerire una possibile data drammatica per la conversazione tra Socrate e Iscomaco è la menzione del portico di Zeus Eleuterio (Oec., 7, 1), costruito nell’ultimo trentennio del V secolo; quanto alla data drammatica della conversazione tra Socrate e Critobulo, essa si colloca tra la morte di Ciro nel 401 (Oec., 4, 18-19) e la morte di Socrate nella primavera del 399: una data drammatica che smentisce, non diversamente da quanto si verifica per il Simposio, la iniziale dichiarazione di autopsia, dato che in quel periodo Senofonte non si trovava ad Atene, bensì in Asia. Per il valore di simili dichiarazioni vedi nota precedente.

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mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti da Iscomaco: Iscomaco stesso, infatti, a più riprese109 dichiara che anche Socrate potrebbe praticare con successo l’agricoltura, perché è la più facile delle arti, che non richiede altro se non richiamare alla memoria ciò che si è osservato110. Ma Socrate non è interessato a farlo, Socrate non vuole arricchirsi con l’agricoltura, Socrate non vuole condurre la vita del proprietario terriero quale è Iscomaco: e lo dice chiaramente, sia pure en passant. Si tratta di un punto cruciale del dialogo con Iscomaco, un passaggio a cui abbiamo già accennato, ma che ora vale la pena di citare per esteso. Socrate infatti dichiara: “Io credo, Iscomaco, che innanzi tutto vorrei apprendere (infatti questo soprattutto è proprio di un filosofo) in che modo io, se lo volessi, potrei, lavorando la terra, raccogliere la maggior quantità possibile di orzo e di frumento” (Oec., 16, 9).

Un punto cruciale innanzi tutto perché, almeno a prima vista, assolutamente sorprendente111: come è possibile che Socrate affermi che apprendere in che modo trarre il maggior guadagno possibile (perché di questo, in ultima analisi, si tratta) dalla pratica dell’agricoltura, questo soprattutto è proprio del filosofo? Un’affermazione che suona scandalosa, aggravata dal fatto che questa è l’unica occorrenza in tutta l’opera del termine philosophos, un’affermazione che non può, almeno in un primo momento, che lasciarci profondamente disorientati. Ma è proprio dal nostro disorientamento che dobbiamo partire, un disorientamento che nasce dal fatto che si tratta di un’affermazione che non solo ci appare stupefacente, ma anche volutamente provocatoria: ed è proprio da qui che dobbiamo partire. In effetti siamo di fronte a una provocazione, e a una provocazione consapevole, deliberata: Senofonte ha voluto attirare, anzi fermare l’attenzione del lettore su questa frase, perché ha voluto proporci, con il massimo risalto possibile, una immagine di Socrate, del suo Socrate, del tutto diversa rispetto a quella di Platone: un Socrate che non disconosce affatto l’importanza di accrescere il proprio patrimonio, di auxein ton oikon, un Socrate che anzi in tal campo può essere addirittura un maestro, come suggerisce lo stesso Iscomaco (Oec., 18, 9). Del resto anche nei Memorabili Socrate appare non solo come un precettore politico112, ma anche come un consigliere esperto in questioni 109

Cf. Oec., 15, 10; 18, 3; 18, 5; 18, 9-10; 19, 5; 19, 13; 19, 16; Cf. Oec., 15, 10-11; 19, 17; e soprattutto 16, 8. 111 Tanto è vero che diversi studiosi hanno cercato in vario modo di sminuirne la portata: cf. supra, n. 81. 112 Soprattutto, come è palese, nei primi sette capitoli del III libro, ma, sia pure in modo meno evidente, in molti altri passi: si pensi in particolare al dialogo con Critobulo, dove 110

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economiche: si pensi, in particolare, alle conversazioni con Aristarco (Mem., II, 7), con Eutero (Mem., II, 8) e con Diodoro (Mem., II, 10)113. Né si dimentichi il fatto che, anche nel suo ruolo di precettore politico, il Socrate dei Memorabili assegna sempre una fondamentale importanza alle competenze economiche: si pensi soprattutto al dialogo con Nicomachide (Mem., III, 4) e a quello, particolarmente importante, con Glaucone (Mem., III, 6)114. Un Socrate, insomma, assolutamente diverso, polemicamente diverso da quello di Platone; un Socrate, inoltre, che qui propone in modo esplicito una immagine del philosophos115 del tutto diversa rispetto a quella delineata dal Socrate platonico. Ma c’è un’altra frase di fondamentale importanza su cui dobbiamo soffermarci: “se volessi” (ei bouloimen). Che cosa vuol dirci Socrate, in questa incidentale in apparenza così innocua? Qualcosa, in realtà, di molto importante: e cioè che si tratta di una mera ipotesi, perché mettersi a praticare l’agricoltura per ricavarne quanto è più possibile è, e rimane, per Socrate una mera possibilità. In altri termini: il filosofo è sì interessato ad apprendere e quindi a sapere come sia possibile ottenere il raccolto più abbondante, come sia possibile praticare l’agricoltura nel modo più redditizio, ma non perché sia interessato a dedicarsi all’agricoltura, a vivere la vita del proprietario terriero. Il filosofo è interessato ad apprendere ciò che potrebbe essergli utile solo se scegliesse ciò che rappresenta per lui una semplice possibilità, ma una possibilità che non intende esperire. A ragione Danzig cita a questo proposito116 l’aneddoto narrato da Aristotele117 a Socrate non esita a illustrare un progetto politico di natura chiaramente oligarchica (II, 6, 2227: cf. supra, n. 58). 113 Particolarmente interessante il fatto che sia nella conversazione con Eutero sia in quella con Diodoro Socrate faccia riferimento a una figura di amministratore che non è uno schiavo, bensì un libero cittadino che viene retribuito per quella che si configura come una prestazione professionale: cf. Mem., II, 8, 2-6; II, 10, 3-4 e 6. Si tratta, con ogni evidenza, della medesima figura professionale a cui Socrate allude in Oec., 1, 3-4. 114 Cf. in particolare Mem., IIII, 4, 1-2; III, 4, 7-12; III, 6, 4-6; III, 6, 12-14. 115 Il significato di questo termine è in Senofonte è per altro da approfondire. Può comunque essere utile ricordare che termini come philosophos e philosophia (nonché philosophein) ricorrono assai raramente fino agli ultimi decenni del V secolo, mentre diventano di uso corrente nel periodo immediatamente successivo, quei primi decenni del quarto secolo che vedono la straordinaria fioritura dei dialoghi socratici, sia pure con significative differenze: non è un caso, a mio parere, che a fronte di ben 346 occorrenze in Platone, se ne riscontrino soltanto 18 in Senofonte (per questi dati vedi L. Rossetti, Le dialogue socratique, Les Belles Lettres, Paris 2011, p. 265). Per un primo approccio a questo problema cf. L. Rossetti, I Socratici "primi filosofi" e Socrate “primo filosofo”, in: L. Rossetti / A. Stavru, c/ di, Socratica 2008. Studies in Ancient Socratic Literature, Levante Editori, Bari 2010, p. 59-70 (ora in: Le dialogue socratique, cit., p. 265-277); L. Edmunds, What Was Socrates Called?, in: “Classical Quarterly”, LVI (2006), p. 414-425. 116 G. Danzig, Apologizing for Socrates, cit., p. 249, n. 19. 117 Aristotele, Pol., 1259a5-19.

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proposito di Talete, che dimostrò ai suoi concittadini che un filosofo è capacissimo di arricchirsi qualora decida di farlo, ma non è interessato a farlo118. Dunque il Socrate che riferisce a Critobulo la sua conversazione con Iscomaco è un Socrate che sarebbe sì in grado di perseguire e di conseguire la ricchezza propria di Iscomaco, quella che consiste appunto nell’auxein ton oikon, ma che ha scelto di mirare a un altro tipo di ricchezza, quella fondata sulla riduzione dei bisogni, una ricchezza che agli occhi dei suoi concittadini poteva apparire come una povertà di cui vergognarsi. Ma non è solo un Socrate che ha scelto un altro tipo di ricchezza, è anche un Socrate che ha scelto anche un altro tipo di vita: quella che nei Memorabili emerge in modo esemplare nel dialogo con Antifonte (Mem., I, 6). Un Socrate che appare povero non perché incapace di amministrare il suo oikos, non perché ignorante in materia di amministrazione dell’oikos (oikonomia), ma perché ha scelto un tipo di ricchezza che viene erroneamente scambiata per povertà119. Questa, a grandi linee, la difesa di Socrate in cui Senofonte si impegna nell’Economico. Ma in che senso l’Economico è anche una difesa di Senofonte da parte di Socrate? In che senso Senofonte aveva bisogno di attribuire, sia pure indirettamente, a Socrate una difesa di se stesso, delle proprie scelte, del proprio stile di vita? Danzig suggerisce, a ragione, di partire da quanto Senofonte stesso ci racconta dei propri rapporti con Socrate120. A differenza di Platone, infatti, che nulla ci dice dei suoi rapporti con Socrate121, Senofonte ci mostra, vorrei dire mette in scena, due momenti della sua relazione con Socrate. Uno è all’inizio della seconda sezione dei Memorabili, la sezione apomnemoneutica: essa si apre illustrando la pietas di Socrate (Mem., I, 3, 1-4), poi la sua esemplare enkrateia (Mem., I, 3, 5-7),

118 Talete, infatti, poiché la sua povertà gli era stata rinfacciata come prova dell’inutilità della filosofia, decise di smentire i suoi concittadini: avendo previsto, grazie ai suoi studi sugli astri, che nell’anno seguente vi sarebbe stata una grande abbondanza di olive, durante l’inverno si accaparrò a poco prezzo, in assenza di concorrenti, tutti i frantoi del territorio di Mileto e di Chio; quando poi giunse il tempo del raccolto e tutti si misero a cercare i frantoi, poté darli in affitto al prezzo da lui voluto, data ancora una volta l’assenza di concorrenti, e in tal modo si procurò grandi ricchezze. 119 Cf. Oec., 11, 3, in cui è palese il riferimento alle Nuvole di Aristofane, in cui Socrate viene rappresentato come un miserabile, costretto ad andarsene in giro scalzo e a sopportare molti mali (Nub., 102-104; 363); per l’atteggiamento di scherno dei poeti comici verso la povertà di Socrate cf. anche, ad es., Ameipsias, fr. 9 Koch. 120 Cf. G. Danzig, Apologizing for Socrates, cit., 260-261. 121 Come è noto, Platone nomina se stesso soltanto tre volte: due volte nell’Apologia, prima tra i discepoli presenti (Ap., 34a), quindi tra coloro che sono disposti a farsi garanti per Socrate di un’ammenda di trenta mine (Ap., 38b); una volta nel Fedone, dove si afferma che Platone non era presente alla morte di Socrate (Phaed., 59b). Naturalmente non si tiene conto delle lettere e, in particolare, della Lettera VII.

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quindi viene introdotta la prima delle oltre quaranta conversazioni dei Memorabili e l’interlocutore di Socrate è proprio Senofonte (Mem., I, 3, 8-13). La collocazione stessa di questa conversazione mira ovviamente a conferirle un particolare risalto e, quindi, indirettamente, a conferirlo anche all’interlocutore. Ma qual è l’immagine di se stesso che Senofonte intende trasmettere, e di fatto trasmette, al lettore? Quella di un giovane sconsiderato che, al pari di Critobulo, presente alla conversazione e reo di aver baciato il bellissimo figlio di Alcibiade (Mem., I, 3, 8-10), si lascia irretire dal fascino dei bei ragazzi, attirandosi i rimproveri e una severa messa in guardia da parte di Socrate. Certo l’objettivo principale di questo breve dialogo è senza dubbio quello di mettere in evidenza come Socrate si rendesse utile ai suoi giovani amici esortandoli all’esercizio della enkrateia nei confronti degli aphrodisia, tanto è vero che alla conversazione tra Socrate e Senofonte fa seguito, come conclusione, un discorso volto a esaltare la straordinaria enkrateia di Socrate nei confronti dei piaceri del sesso (Mem., I, 3, 14). Ma nel contempo da questo dialogo emerge l’immagine di un Senofonte che non solo appare bisognoso di una dura reprimenda da parte di Socrate, ma che non risulta neppure pentito: la conversazione infatti si conclude con energici ammonimenti rivolti da Socrate tanto a Senofonte quanto a Critobulo (Mem., I, 3, 13), ma nulla ci viene detto riguardo all’esito di tali moniti. Anzi, riguardo a Critobulo, se consideriamo come viene presentato nell’Economico122 e soprattutto nel Simposio123, sembrerebbe proprio che i rimproveri e le esortazioni abbiano avuto scarso effetto. Quanto a Senofonte, sebbene nell’Anabasi appaia come un comandante dotato di enkrateia124, nel dialogo con Socrate di Mem., I, 3, 8-13, non si configura certo come un bravo discepolo e il giudizio su di lui rimane in sospeso. Ma vi è di più: nell’unico altro passo in cui vediamo Senofonte interagire con Socrate, Senofonte risulta un discepolo che disattende deliberatamente il consiglio di Socrate e sembra quasi farsene gioco. L’episodio (An., III, 1, 4-8) è notissimo: Senofonte è stato invitato dall’amico Prosseno a prendere parte all’imminente spedizione di Ciro contro il fratello Artaserse; Senofonte allora chiede consiglio a Socrate, che teme che partecipare all’impresa di Ciro possa esporre Senofonte a gravi accuse da parte degli Ateniesi, dato che Ciro aveva aiutato gli Spartani nella guerra del Peloponneso e quindi suggerisce a Senofonte di recarsi a Delfi per consultare l’oracolo riguardo a questa spedizione. Senofonte 122 Cf. Oec., 2, 7, dove Critobulo appare dedito non già a procurarsi dei beni, ma a relazioni con ragazzi. 123 Nel Simposio, infatti, Critobulo appare totalmente preso dal suo amore per Clinia (Symp., 4, 12-16). 124 Cf. An., IV, 3, 10 (dove per altro la enkrateia di Senofonte si mostra nei confronti di cibo, bevande e sonno).

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però si limita a domandare a quali dèi dovesse sacrificare per compiere felicemente il viaggio e per tornare a casa sano e salvo dopo la conclusione dell’impresa e l’oracolo fornisce le indicazioni richieste. Quando Senofonte, tornato ad Atene, riferisce il responso a Socrate, questi lo rimprovera per non aver chiesto al dio se fosse opportuno partire o no per la spedizione, ma di aver già deciso per conto proprio; tuttavia lo esorta a fare comunque ciò che il dio ha ordinato e quindi Senofonte, dopo aver offerto sacrifici agli dèi indicati dall’oracolo, salpa da Atene alla volta dell’Asia minore. Fin da una prima lettura è facile rendersi conto che questo episodio ha innanzi tutto una finalità apologetica nei confronti di Socrate: Senofonte intendeva liberarlo dal sospetto che potesse in qualche modo avere incoraggiato un suo discepolo, un suo giovane amico, a partecipare a una spedizione guidata da quel Ciro che aveva sostenuto attivamente gli Spartani durante l’ultima fase, quella decisiva, della guerra del Peloponneso125. Più complesso cogliere che cosa questo breve racconto intenda comunicarci riguardo a Senofonte, in che luce intenda mostraci questo personaggio, destinato a divenire il protagonista dell’opera, nel momento in cui presenta lo presenta126. Probabilmente anche qui è possibile cogliere una finalità apologetica, non solo nei confronti di Socrate, ma anche di Senofonte stesso: infatti questo passo insinua abilmente, e per bocca di una figura autorevole come Socrate, che Senofonte, qualora si fosse unito alla spedizione di Ciro, avrebbe potuto esporsi a facili accuse da parte degli Ateniesi, dato che pareva che Ciro avesse aiutato gli Spartani nella guerra contro Atene. Questa insinuazione serve a fornire una spiegazione plausibile a quella condanna all’esilio che colpì Senofonte, una condanna che, data anche la lunga durata di quell’esilio, nessuno dei lettori dell’Anabasi poteva ignorare: e si tratta di una spiegazione che attenua e sfuma le responsabilità di Senofonte, che appare come una vittima della sospettosità persecutoria degli Ateniesi nei confronti di un giovane di buona famiglia che non aveva altra colpa se non quella di aver seguito un principe persiano che in passato si era schierato a fianco dei nemici di Atene. Questa opera di manipolazione del lettore ebbe un indubbio successo, tanto che non mancano fonti antiche che attribuiscono la condanna all’esilio di Senofonte

125 Senofonte in realtà si esprime in modo molto più cauto, presentando l’aiuto di Ciro agli Spartani come una opinione, una convinzione degli Ateniesi: “si pensava (edokei) che Ciro avesse aiutato con entusiasmo gli Spartani nella guerra contro Atene” (An., III, 1, 5). Senofonte, per altro, sapeva benissimo che il consistente aiuto di Ciro agli Spartani era un dato di fatto: cf. in particolare Hell., I, 5, 1-9; II, 1, 7-15. 126 Senofonte compare già, fugacemente, nel corso della battaglia di Cunassa (An., I, 8, 15-16), nonché al fianco degli strateghi Cleanore e Sofeneto nel momento in cui questi ultimi incontrano Arieo (An., II, 5, 37-41), ma è soltanto in An., III, 1, 4-8, che presenta se stesso e spiega come si sia unito alla spedizione di Ciro.

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alla sua partecipazione alla spedizione di Ciro127. Ma perché mai Senofonte aveva bisogno di far credere che la condanna che lo aveva colpito fosse dovuta a una leggerezza, forse irresponsabile, di un giovane amante dell’avventura? Per un motivo molto semplice: perché la spiegazione alternativa prospettata da autorevoli studiosi128 è senz’altro molto meno onorevole, dato che attribuisce la condanna all’esilio al fatto che Senofonte nel 394 aveva combattuto a fianco degli Spartani contro gli Ateniesi nella battaglia di Coronea. Non una leggerezza irresponsabile quindi, ma un vero e proprio reato di tradimento. Ma anche se teniamo invece fermo che Senofonte fu condannato all’esilio non già dopo Coronea, bensì già nel 399 (come An., VII, 5, 57, sembra suggerire), è possibile pensare che il motivo non sia stata la partecipazione alla fallita impresa di Ciro, ma qualche episodio, più precisamente un reato di sangue, avvenuto durante il governo dei Trenta129. Anche in questo passo dell’Anabasi, quindi, è possibile trovare, racchiuso nel breve spazio di cinque paragrafi, ciò che ritroveremo nell’Economico: un Socrate che fornisce un’anticipata difesa dell’accusa che verrà mossa a Senofonte e un Senofonte che, nel suo ruolo di narratore, difende Socrate da ogni possibile accusa di complicità con la scelta del personaggio Senofonte. Insomma anche An., III, 1, 4-8, contiene “both a Xenophontic apology for Socrates, and a Socratic apology for Xenophon”. Ma la questione, riguardo al personaggio di Senofonte, è più complessa: se è vero che Senofonte, attraverso le parole di Socrate, appare come la futura vittima dei rancori politici dei sospettosi Ateniesi, è altrettanto vero che nei confronti di Socrate si configura come un discepolo disobbediente, come un “cattivo discepolo”. Non è certo un caso che, nelle due uniche circostanze in cui Senofonte ci mostra se 127 Cf., ad es., Pausania, V, 6, 5; Dione Crisostomo, VIII, 1. Più articolata (e non del tutto chiara) la motivazione della condanna all’esilio in Diogene Laerzio: infatti dapprima (II, 51) afferma che la condanna gli fu inflitta per laconismo, quando Senofonte si trovava ormai presso Agesilao, a cui aveva affidato il comando dei Cirei superstiti e di cui era diventato grande amico; più avanti però (II, 58), Diogene Laerzio, citando un proprio epigramma (Anth. Pal., VII, 98), afferma che la condanna di Senofonte fu dovuta alla sua partecipazione alla spedizione di Ciro: pertanto sembrerebbe che si possa ragionevolmente concludere che, secondo Diogene Laerzio, la condanna all’esilio fu determinata dal laconismo di Senofonte, consistente prima nell’aver seguito Ciro, amico degli Spartani, e quindi nell’essersi aggregato al re spartano Agesilao, fornendogli l’apporto di quanto restava dell’esercito dei Cirei. Non troppo dissimile, tra gli studiosi moderni, la posizione di É. Delebecque, Essai, cit., p. 120123, il quale fissa la condanna all’esilio di Senofonte nel 399 (in base ad An., VII, 7, 57), ufficialmente motivata dalla sua partecipazione all’impresa di Ciro, mentre il laconismo di Senofonte ne sarebbe stata l’autentica e inconfessata motivazione. 128 Così P. Masqueray (Xénophon, Anabase, texte établi et raduit par P. Masqueray, I, Les Belles Lettres, Paris 1930, p. VIII-IX); non diversa la posizione di H.R. Breitenbach, Xenophon von Athen, in: R. E., IX, A 2, Stuttgart 1967, col. 1575. 129 In proposito mi permetto di rinviare a quanto ho scritto in: Anabasi di Senofonte, cit., p. 17-21 e 145-147.

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stesso in relazione con Socrate, delinei la propria figura come quella di un cattivo discepolo: un discepolo disobbediente in An., III, 1, 4-8, un discepolo che si attira pesanti rimproveri del maestro in Mem., I, 3, 8-13. Ma il Senofonte cattivo discepolo è soltanto un personaggio che vive in questi due passi? Oppure è ragionevole pensare che Senofonte in qualche misura si ritenesse un cattivo discepolo? E in che senso un cattivo discepolo? Forse può essere utile andare a ricercare quella che è la confessione più significativa – e più struggente- di un altro cattivo discepolo, l’Alcibiade del Simposio platonico. Un Alcibiade che è consapevole di essere un cattivo discepolo, perché sa che le sue scelte di vita lo hanno portato a disattendere gli insegnamenti del maestro: Alcibiade infatti ha deciso di dedicarsi alla politica, trascurando di prendersi cura di sé130, anzi fuggendo e allontanandosi da Socrate (Symp., 216a-b). Ma le scelte di vita di Senofonte sono poi così diverse? Anche Senofonte si è dato alla politica condividendo il progetto politico dei Trenta nella versione moderata, quella terameniana131, per poi impegolarsi in una spedizione destinata al fallimento, aggregarsi agli Spartani appena giunto in Asia minore e battersi al fianco del re spartano Agesilao contro gli Ateniesi a Coronea. E quando finalmente, o per propria scelta o perché a Sparta era ormai inutile e troppo ingombrante, abbandona avventure e battaglie, non si prende cura di sé, non si dedica alla riflessione filosofica a tempo pieno, non fonda una propria scuola come altri Socratici: negli anni felici di Scillunte, descritti con nostalgica stilizzazione in An., V, 3, 7-13, Senofonte vive la vita del gentiluomo di campagna, del proprietario terriero che ama la caccia, che si distingue per la sua pietas verso gli dei e per la signorile ospitalità che offre ai vicini. Una vita non molto diversa da quella dell’Iscomaco dell’Economico. Ma nell’Economico Socrate, anche se la vita di Iscomaco è ben diversa dalla sua, anche se la ricchezza di Iscomaco si fonda su basi del tutto diverse dalla sua, nonostante tutto questo, mostra di apprezzare Iscomaco, quel kalos kagathos in cui Senofonte non poteva non identificarsi132. E l’apprezzamento che Socrate mostra per la vita di Iscomaco, sia pure come second best, non poteva che risultare, in ultima analisi, un’apologia di Senofonte133. 130

Per la cura di sé, intesa come cura dell’anima, nell’insegnamento del Socrate storico cf. F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 185-193, 207-214, nonché, in relazione a Senofonte, 217-222. 131 Cf. F. Roscalla, Kalokagathia e kaloi kagathoi, cit., p. 119-120. 132 Cf. ancora F. Roscalla, Senofonte. Economico, cit., p. 120-121. 133 Anche se è senza dubbio l’Anabasi l’opera segnata dalle più vistose finalità apologetiche per quanto riguarda la condotta di Senofonte (a tal punto che, per renderla più credibile, Senofonte non esitò ad attribuirla a un ignoto Temistogene di Siracusa: Hell., III, 1, 2), finalità apologetiche, sia pure indirette, sono riscontrabili anche nei Memorabili: in effetti quella sorta di riabilitazione postuma di Carmide, che emerge con sconcertante

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chiarezza da Mem., III, 6, può leggersi come una riabilitazione di Senofonte stesso e dei suoi inquietanti trascorsi politici: vedi F. Bevilacqua, Memorabili di Senofonte, cit., p. 181-187.

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Sara Mazzotti LEOPARDI E NIETZSCHE: UN’AFFINITÀ ELETTIVA?

III° L’ARTE DEL PENSIERO

3.1 La parola diventa arte Leopardi e Nietzsche, come abbiamo già avuto modo di considerare trattando la filologia, hanno compiuto una scelta precisa riguardo al valore da assegnare alla parola. La parola, infatti, per entrambi i nostri filosofi, non riveste mai un ruolo meramente decorativo o semplicemente ornamentale, bensì è parte integrante e indivisibile del pensiero. Il pensiero è, dunque, caratterizzato dalla salda unione di idea e parola, senza la quale non avrebbe alcuna possibilità di esistenza. Da una tale premessa, deriva l’evidente conseguenza che la selezione di uno stile particolare, posta in essere dagli autori, non sarà assolutamente frutto del caso, ma diverrà per noi fondamentale momento del processo di comprensione del loro stesso pensiero. Il pensiero filosofico di Leopardi e Nietzsche si configura, quindi, come “arte”, in quanto è contraddistinto sia da un aspetto “conoscitivo”, sia da un altrettanto rilevante aspetto “creativo”. Il termine “scienza”, invece, accostato alla filosofia di questi due pensatori, appare estremamente riduttivo e inadeguato, perché lascia trasparire solo l’elemento “passivo” connaturato alla conoscenza, tralasciando completamente quello dell’ “attività” creativa. Per comprendere appieno questo punto di vista, possiamo instaurare un interessante paragone tra l’arte del “colore” del pittore austriaco Schiele1 e l’arte della “parola” di Nietzsche e Leopardi. Il soggetto da rappresentare è, per tutti, il medesimo, ovvero il pensiero.

1 Egon Leo Adolf Schiele nacque il 12 giugno 1890 a Tulln e morì il 31 ottobre 1918 a Vienna.

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Come Schiele che, quando dipinse se stesso, non utilizzò un’immagine statica ma ne preferì una dinamica, e così facendo lasciò emergere l’incessante flusso del divenire nel quale si sentiva immerso, così Leopardi e Nietzsche non imprigionarono la loro filosofia in un sistema chiuso e definito, ma le permisero di fluttuare libera in un mare di domande e coerenti risposte. Come Schiele che, per sottolineare quella perduta fiducia nella facoltà sistematrice della ragione e in quella sua capacità di redimere i contrasti e riportare le opposizioni in unità, optò per l’eliminazione della centralità della figura, assicurata dal rapporto gerarchico con lo sfondo, e frantumò il tratto delle sue pennellate per delineare le mille vibrazioni discontinue dell’emozione a scapito di una tenuta monolitica dell’immagine, garantita dalla ragione, così Leopardi e Nietzsche, sperimentando generi letterari differenti, permisero ai molteplici aspetti del proprio pensiero di indossare ogni volta abiti nuovi e non un unico vestito ormai logoro, adattato per tutte le stagioni. Come Schiele che considerò il “disegno” un genere artistico a sé e fu attirato da questa tecnica, specialmente per la possibilità di accennare le figure, lasciandole apparentemente incompiute, così Nietzsche e Leopardi amarono il “frammento”, l’ “aforisma”, che consentiva loro di tratteggiare un pensiero inevitabilmente aperto e proprio per questo capace di percorrere qualsiasi strada e, quindi, privo di confine. Leopardi e Nietzsche, dunque, dipinsero con le parole la loro filosofia, preferendo il colore sfumato della “poesia”. Ambedue furono, infatti, investiti con impeto dal fascino travolgente della poesia e strenui assertori della magia che solo il linguaggio poetico possiede, ossia la capacità di esprimere ciò che risulta indicibile a mezzi unilateralmente razionali. Non appena Leopardi ebbe la possibilità di esternare liberamente il suo pensiero scelse la poesia. Fu spinto ad imboccare quella direzione dalla delicata sensibilità che lo faceva tremare di emozione allo spettacolo di un raggio di luna tra gli alberi o agitare fino alla commozione nel seguire, dalla sua finestra, le vicissitudini della prima lucciola di primavera, calpestata e ridotta a “una striscia lucida fra la polvere”2, dal gioco crudele di alcuni ragazzi. O forse fu la stessa poesia a sceglierlo e a non abbandonarlo più. Per semplicità e maggiore chiarezza possiamo distinguere, nella produzione poetica leopardiana, due periodi, qualificati da peculiarità diverse assunte dalla poesia.

2

G. Leopardi, Ricordi d’infanzia e di adolescenza, Newton 1997, p. 1105.

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Il primo periodo è dominato dall’incanto di una poesia esclusivamente “immaginativa”. Questa poesia aveva come scopo il diletto ed adoperava l’imitazione della natura, come unico mezzo idoneo per ottenerlo3. La magia poetica consisteva, per Leopardi, nel poter guardare la natura con lo stupore e la fremente emozione propria degli uomini antichi o dei bimbi, quando ancora le rigorose spiegazioni scientifiche non ne avevano immiserito la fantasia. Per provare quella stessa sensazione, è sufficiente intraprendere un viaggio a ritroso nella memoria e fermarci tra i ricordi in penombra dell’infanzia. Avremo così accesso ad un regno retto dall’autorità assoluta dell’immaginazione, i cui sudditi, siano essi piante, stelle, pietre o soffi di vento, possiedono occhi, parola, sentimenti. Compito del poeta è, dunque, quello di gettare il seme della parola e aspettare che germogli nelle anime fertili. Queste le parole di Leopardi: … mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui4.

Per capire ancor meglio a quali caratteristiche questa poesia deve dar vita per essere considerata tale, è utile il riferimento a due testi in particolare, la Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di Mad. la baronessa di Staël Holstein ai medesimi e il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Questi scritti rappresentano, inoltre, il primo tentativo leopardiano di inserirsi, rimediando così all’isolamento recanatese, nel dibattito letterario sul Romanticismo. Il primo di essi è una lettera che Leopardi scrisse nel 1816 e inviò alla rivista milanese che aveva ospitato tra le sue pagine alcune riflessioni della baronessa di Staël aventi per oggetto il problema dell’imitazione e dell’aggiornamento culturale degli italiani. Lettera che non venne pubblicata e apparve a stampa la prima volta nella raccolta degli Scritti vari inediti dalla carte napoletane, nel 1906. Leopardi dissentiva caldamente dalle opinioni della baronessa, soprattutto quando ella prospettava, come estrema soluzione per risollevare le sorti di una letteratura italiana isterilita, quella di imitare quanto più possibile la

3 4

Cf. Id., Zibaldone, 5. Id., Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, Newton 1997, p. 973.

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letteratura degli stranieri. Leopardi rimane attonito di fronte ad una risoluzione per lui profondamente assurda. Un individuo non diventa, infatti, poeta studiando o imitando opere altrui. La poesia è quella “scintilla celeste” e quell’ “impulso soprumano”5 che pervade l’uomo, prendendo dimora in lui senza il suo previo consenso. Non tutti gli animi sono atti a svolgere una simile funzione. Tematica questa, che sarà ulteriormente approfondita nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, di due anni più tardi. Scritto a Recanati fra il gennaio e l’agosto del 1818, questo lungo saggio, capitale per la comprensione dell’estetica leopardiana, era destinato, come il precedente, a rimanere inedito fino al 1906. Dal marzo del 1818, Leopardi aveva spedito allo Stella una prima parte del Discorso, nella speranza di vederlo pubblicato sullo Spettatore italiano. Questa rivista, infatti, nel gennaio del 1818 aveva divulgato quelle Osservazioni del Cavalier Lodovico di Breme sulla poesia moderna, che costituiscono il principale bersaglio della polemica antiromantica leopardiana. Leopardi, infatti, intrattiene una vivace contesa con i romantici, che vogliono modificare le fattezze della poesia, come quando afferma: Già è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il più che possono la poesia dal commercio coi sensi, … e di farla praticare coll’intelletto, … e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale6.

La poesia è, per Leopardi, un brivido di emozione, destato dal potere della fantasia e percepito con i sensi. E l’emozione è qualcosa di informe che, proprio per questo, non può essere squadrata da ogni lato dall’intervento di un geometrico intelletto. La poesia, inoltre, deve cantare le forme eterne e immutabili della natura, perché esse possono essere avvolte dalla fantasia e condurre a un inganno dell’immaginazione che non procura funesti danni all’individuo che vi si immerge, come li produce invece un inganno che investe l’intelletto e che ha per oggetto le forme mutevoli e transitorie dell’incivilimento7. Un’ultima considerazione fa ribollire il sangue di Leopardi, ovvero la pretesa superiorità dei romantici in relazione al “sentimento”. Il sentimento autentico è, per Leopardi, quel turbamento vivo e intenso che nasce spontaneamente dal contatto con la natura. 5 Id., Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di Mad. la baronessa di Staël Holstein ai medesimi, Newton 1997, p. 943. 6 Id., Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., p. 969. 7 Cfr. Id., Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., p. 971.

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Chi, dunque, più dei poeti antichi può aver provato l’emozione del sentimento? Quello che i moderni romantici ostentano come reale sentimento, non è altro che un’analisi meditata di esso, e quindi avulsa da una tale passione. Così, infatti, spiega: Imitavano gli antichi non altrimenti queste che le altre cose naturali, con una divina sprezzatura, schiettamente e, possiamo dire, innocentemente, ingenuamente, scrivendo non come chi si contempla e rivolge e tasta e fruga e spreme e penetra il cuore, ma come chi riceve il dettato di esso cuore, e così lo pone in carta senza molto o punto considerarlo […] (ivi., p. 987).

Leopardi attraversò, nel 1819, un periodo molto difficile, caratterizzato dall’alternanza di momenti di entusiasmo seguiti da avvilenti depressioni. Nel marzo 1819, inoltre, si erano acuiti i disturbi alla vista che lo tenevano lontano dai libri per molte ore, imponendogli passeggiate meditabonde per la stanza o nel giardino. In una lettera indirizzata all’amico Giordani, sfoga la sua incontenibile inquietudine: Domandi notizia de’miei studi, ma sono due mesi ch’io non istudio, né leggo più niente per malattia d’occhi, e la mia vita si consuma sedendo colle braccia in croce, o passeggiando per le stanze. I disegni mi s’accumulano in testa, ma non posso appena raccorgli frettolosamente in carta perché non mi cadano dalla memoria8.

Leopardi è convinto di poter realizzare qualcosa di importante, ma capisce altresì che ciò non sarà mai possibile in quel “natio borgo selvaggio, intra una gente zotica, vil”9, e oppresso dalla rigida educazione di genitori che non lo comprendono. Così, infatti, si lamenta: Farò mai niente di grande? né anche adesso che mi vo sbattendo per questa gabbia come un orso? In questo paese di frati, ... e in questa maledetta casa, dove pagherebbero un tesoro perché mi facessi frate ancor io, … a tutti i patti mi fanno viver da frate, e in età di ventun anno, e con questo cuore ch’io mi trovo, fatevi certo ch’in brevissimo, io scoppierò […]10.

8

Id., Epistolario, cit., p. 1183. Id., Le ricordanze, 1829, vv. 30-31. 10 Id., Epistolario, cit., p. 1184. 9

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La decisione di allontanarsi da Recanati lo infervora, benché sia estremamente consapevole dell’enorme difficoltà di mantenersi da solo fuori casa, senza l’appoggio della famiglia. Questa forzata inattività, questo vorticoso turbinio di pensieri contrastanti legato all’impossibilità di relazionarsi con il mondo esterno, portano Leopardi a guardare la realtà riflessa all’interno di sé. In preda a questa lacerante crisi, perde la forza dell’immaginazione e la spontaneità dei versi, e si dedica alla ragione e al vero, cominciando a delineare alcuni tratti della sua filosofia11. Questo radicale mutamento non include necessariamente l’annullamento della voce poetica. Le canzoni Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, composte tra il marzo e l’aprile del 1819, sono, infatti, la prova di quella pensosità filosofica che trae lo spunto da fatti di cronaca. La donna della prima canzone fu identificata con Serafina Basvecchi, figlia della marchesa Olimpia, zia di Giacomo, la protagonista della seconda era invece ricavata da una vicenda delittuosa, verificatasi a Pesaro nel gennaio 1819. Entrambe le poesie affrontano il tema della violenza contro un innocente, perpetrata dalla natura e dal fato o dalla volontà della persona amata. Ha così inizio il secondo periodo della produzione poetica leopardiana, ovvero quello della cosiddetta “poesia sentimentale”, che interpreterà un duplice ruolo12. Da un lato, infatti, come tra breve avremo modo di puntualizzare, questa poesia sarà un anello indispensabile nella catena del processo conoscitivo che ci condurrà al disvelamento della verità e ritrarrà l’intensa emozione dell’uomo di fronte ad essa. Dall’altro, invece, creerà l’unico possibile luogo di esistenza delle indispensabili illusioni. Anche Nietzsche conobbe, già da bambino, la malia della poesia e ne rimase completamente stregato. Dopo la morte del padre e del fratellino Joseph, la famiglia fu costretta a lasciare il villaggio di Röcken per trasferirsi nella vicina cittadina di Naumburg. Qui il piccolo Friedrich iniziò a frequentare la scuola e a conoscere i suoi primi amici, Gustav Krug e Wilhelm Pinder. Fu proprio frequentando la casa di quest’ultimo che l’incantesimo poetico lo sedusse. 11 12

Id., Zibaldone, 143-44, 2 luglio 1820. Ibid, 136, 24 giugno 1820.

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Il consigliere Pinder, padre di Wilhelm, infatti, nel tempo libero dagli impegni lavorativi, amava radunare la famiglia per leggere ad alta voce e commentare poesie. Venerava Goethe13. Si creava così quell’atmosfera magica, che Nietzsche, nella Gaia scienza, attribuirà alla poesia come caratteristica fondamentale. Meditando sull’origine della composizione poetica egli, dunque, sostiene che essa: “dà un ordine nuovo a tutti gli atomi della proposizione, impone la scelta delle parole e conferisce un nuovo colore al pensiero […]”14. Quel fascino prepotente che Nietzsche ha sempre riconosciuto alla poesia, consiste nel produrre zone d’ombra che abbiano il potere di far rilucere e nello stesso tempo di occultare il pensiero. Proprio per questa sua capacità, Nietzsche adopererà il linguaggio poetico per giungere alla verità e successivamente allontanarsi da lei. Questa passione condivisa strinse ancor più il legame con l’amico Wilhelm, come rammenta Nietzsche nelle pagine del suo diario autobiografico: … quando si sviluppò il nostro interesse per la poesia, non potemmo fare a meno l’uno dell’altro, e allora non mancava mai la materia alle nostre conversazioni. Ci scambiavamo le nostre opinioni su poeti e scrittori, … facevamo progetti comuni, ci assegnavamo dei compiti poetici […]15.

La produzione poetica nietzschiana, rispetto a quella leopardiana, fu forse non meno voluminosa, ma certamente di scarso valore letterario e totalmente priva di freschezza e spontaneità. Le composizioni poetiche di Nietzsche erano sovente originate dall’impellenza di una ricorrenza da festeggiare e dalla volontà di fare della poesia un dono. La quasi totalità delle sue poesie, essendo quindi commissionata da esigenze esterne, aveva difficoltà a ritrarre semplicemente i moti che increspavano il suo animo, gli affetti e le passioni. Nietzsche, tuttavia, fu consapevole dei molteplici ostacoli che questa scelta gli opponeva e li descrisse meticolosamente lui stesso nel suo diario. Suddivise la sua esperienza poetica in tre periodi distinti che culminarono in una brusca rottura. La poesia che si impose nel primo periodo, ebbe per oggetto l’incredibile violenza della natura. Pur gravata da evidenti durezze linguistiche, la parola sapeva comunque cogliere quella devastante e poderosa gagliardia della danza delle saette, accompagnata dalla musica dei tuoni, durante un temporale. Nietzsche amava, 13

Cf. F. Nietzsche, La mia vita,cit., p. 21. Id., La gaia scienza, cit., p. 122. 15 Id., La mia vita, cit., p. 22. 14

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infatti, rappresentare il vigore di quelle forze naturali che si scatenano senza remore, libere dalle briglie dell’intelletto (ivi, p. 18). La poesia, protagonista del secondo periodo, apparve, invece, provvista di una lingua adorna e brillante. Non ottenne, però, il plauso per l’eleganza, bensì risultò riprovevole per l’artificiosità, la leziosaggine e la piena mancanza di naturalezza (ivi, p. 23). La poesia del terzo periodo fu figlia delle prime due. Mescolò in sé, infatti, l’energia e la vivacità dell’emozione alla semplicità e armonia della parola (ivi, p. 35). Permaneva un unico problema da risolvere, per il quale Nietzsche si lambiccava il cervello e così si lagnava: “Una poesia priva di concetti ma ammantata di frasi e di immagini assomiglia a una mela rossa di fuori, che nell’interno ha il verme” (ivi). Nietzsche ventiduenne bollerà queste sue composizioni come “orripilanti e tremendamente noiose” (ivi, p. 135), e calcherà la mano aggiungendo: “… ero solito datare l’inizio dell’autocoscienza in un giovane dal momento in cui aveva gettato nel fuoco le sue poesie, cosa che feci io stesso a Lipsia conformemente a quest’opinione” (ivi, p. 166). Nietzsche subì l’intenso richiamo della poesia, ma non seppe racchiudere l’enorme ricchezza concettuale del suo pensiero in quegli angusti confini che, per lui, la forma metrica del verso necessita. Fece sua la parola poetica, imponendole però di albergare nell’ariosa frase della prosa. Giustificò la sua scelta con questa persuasiva asserzione: “Si tenga presente che grandi maestri della prosa sono stati quasi sempre anche poeti: pubblicamente, o anche soltanto in segreto e per le loro “pareti domestiche”; e, a dire il vero, solo sotto gli occhi della poesia si scrive in buona prosa!”16. Scelta avvalorata anche dalle parole di Leopardi: L’uomo potrebb’esser poeta caldissimo in prosa, senza veruna sconvenienza assoluta: e quella prosa, che sarebbe poesia, potrebbe senza nessuna sconvenienza assumere interissimamente il linguaggio, il modo, e tutti i possibili caratteri del poeta”. (Zib., 1696, 14 settembre 1821)

3.2 La parola conosce, la filosofia Il viaggio intrapreso nei nascosti recessi del pensiero di Leopardi e Nietzsche ci regala ora la vibrante emozione della visita al luogo di maggior fascino dell’intero percorso, ovvero quello della filosofia. 16

Id., La gaia scienza, cit., p. 128.

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Addentrandoci in esso, saremo rapiti da un dialogo sempre più incalzante, serrato e intimo tra i nostri due pensatori, che combatteranno una faticosa battaglia, l’esito vittorioso della quale si trasformerà per noi in un dono inestimabile. Ma, procediamo con ordine. La prima tappa di questa ideale visita guidata comincia dal comprendere quale sia lo scopo che la filosofia e, come tra breve chiariremo, qualsivoglia sapere deve necessariamente raggiungere. Leopardi e Nietzsche, in pieno accordo, affermano con vigoria che la conoscenza deve procedere alla promozione e alla realizzazione della vita come istanza fondamentale. Il sapere deve espandere e modificare la globalità dell’individuo, non essere relegato in una dimensione interiore, nella quale si accumulano passivamente conoscenze o usato come un superfluo accessorio. Convincenti appaiono, a questo proposito, le parole che Nietzsche, nella Seconda Considerazione Inattuale, edita nel 1874, scrive crucciato: Falso e superficiale invero, perché si tollerò la contraddizione fra vita e sapere, perché non si vide l’elemento caratteristico dei veri popoli civili: che la cultura può svilupparsi e fiorire solo dalla vita, mentre presso i Tedeschi essa viene appuntata come un fiore di carta o viene versata sopra come un’inzuccheratura, e perciò è destinata a rimanere sempre menzognera e sterile17.

Considerazione che anche Leopardi propugna nello Zibaldone, rimbrottando così gli studiosi del suo tempo: “… i moderni pensatori e ragionevoli, si contentano dello stesso pensiero, il quale resta nell’interno, e non ha veruna o poca influenza sul loro esterno; e non produce quasi nulla nell’esteriore” (Zib., 1019, 6 maggio 1821). È come se la conoscenza fosse cibo. Esso, infatti, una volta ingerito, perde la sua dimensione specifica per diventare carne e sangue, dunque individuo. Il sapere dovrebbe comportarsi nell’identico modo. All’orizzonte di questo progetto condiviso, però, si staglia minaccioso un pericolo. E se il sapere che l’uomo progressivamente acquisisce e avidamente ingurgita, avesse il gusto acre di una bacca velenosa e invece di nutrirlo, lo conducesse a morte sicura? Leopardi e Nietzsche, infatti, hanno già sentito quel sapore pungente della verità diffondersi implacabile nella loro bocca. Ci sono due frasi di Nietzsche che urgentemente catturano la nostra attenzione e che risulteranno basilari anche per spiegare l’atteggiamento posto in essere da Leopardi. 17

Id., Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 90.

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Le riportiamo, per chiarezza, interamente: “Per quanto l’uomo possa espandersi con la sua conoscenza, apparire a se stesso objettivo: alla fine non ne ricava nient’altro che la propria biografia”18. E, ancora: “Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad oggi ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore”19. Nietzsche e Leopardi, infatti, divergono profondamente dai grandi sistemi della filosofia contemporanea, i quali ripongono la loro principale ambizione nel distaccare totalmente il pensiero dalla persona, nello sbarazzarsi di ogni soggettività, procedendo verso una conoscenza pura ed oggettiva. Sovente la posizione concettuale, assunta da entrambi i nostri filosofi, viene inficiata da un pregiudizio radicato che ne contesta la validità. Esso, infatti, è erroneamente basato sulla convinzione che la filosofia che deriva dall’accettazione di un simile atteggiamento, sia l’ingenua e pedissequa trasposizione di particolari esperienze di vita, prive, quindi, di qualsiasi efficacia universale. Un giudizio di questo genere sarebbe gravato da un’insostenibile superficialità se rapportato alla complessa e variegata meditazione di Nietzsche e Leopardi. Seguiamone, dunque, con entusiasmo la riflessione in questo frangente. Il punto nodale di essa è rappresentato dall’oggetto sul quale l’indagine del filosofo si incentra, che nella terminologia leopardiana viene indicato con la parola “natura”, mentre in quella nietzschiana con “esistenza”, benché il significato risulti il medesimo. Da quanto detto, appare senza indugio evidente che tra l’ipotetico soggetto conoscente e l’oggetto che deve a sua volta scandagliare, venga a mancare una reale differenza, dal momento che l’uno è parte integrante dell’altro. L’uomo vive, dunque, e così facendo, spartisce con l’esistenza stessa inequivocabilmente le stesse peculiarità. Tutto ciò ci spinge, ammaliati dalla prospettiva suggerita da Leopardi e Nietzsche, ad imboccare una strada diversa da quella percorsa dai più, ossia quella di conoscere intimamente noi stessi per palesare così la verità del mondo che ci circonda. In questa impresa, saremo supportati anche dall’esortazione di Leopardi: E secondo queste osservazioni si conosce come il filosofo non sia filosofo nella vita e nelle azioni, s’egli non guarda se stesso e i fatti suoi come quelli degli altri,

18 19

Id., Umano, troppo umano, I, cit., p. 274. Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 11.

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s’egli non li osserva dall’alto, … se insomma non si spoglia dell’abitudine naturale di escluder se stesso e i fatti suoi dalla dottrina generale degli uomini … (Zib., 1870, 8 ottobre 1821).

Resta a questo punto da spiegare quale modo l’individuo possieda per conoscersi radicalmente. Leopardi e Nietzsche, nuovamente in armonica consonanza di idee, sostengono che quell’unica possibilità sia rappresentata dal “dolore”. Solo il dolore, infatti, estranea talmente l’uomo dalla realtà nella quale si trova immerso, da consentirgli, in una sorta di rannicchiamento in sé, di sviscerare ogni sua zona nascosta o recondita. Per maggiore precisione, affidiamoci alle parole chiarificatrici dapprima di Leopardi, che scrive: … l’uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla. L’anima, i desideri, i pensieri, i trattenimenti dell’uomo felice, sono tutti al di fuori, e la solitudine non è fatta per lui …. Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in relazione colle cose esteriori … (Zib., 635, 9 febbraio 1821).

Dal momento che: “… la prosperità abbagliando e distraendo l’intelletto, è madre e conservatrice d’illusioni, e la sventura dissipatrice degl’inganni, e introduttrice della ragione e della certezza del nulla delle cose” (Zib., 235, 9 settembre 1820). Anche Nietzsche si sofferma a riflettere su questo aspetto, sottolineandolo con questa immagine: “Il grande dolore soltanto, quel lungo, lento dolore che vuole tempo, in cui, per così dire, veniamo bruciati come con legna verde, costringe noi filosofi a discendere nelle nostre ultime profondità […]”20. L’esperienza di dolore che ambedue i nostri pensatori vissero direttamente sulla propria pelle, fu quella della malattia. Non li si può capire né come uomini, né come filosofi, il che è la stessa cosa, se si rimuove l’analisi del loro ambiguo e tortuoso rapporto proprio con questa presenza costante. Compagna complicata, strinse amicizia con loro durante la giovinezza e li scortò fedele sempre. Quando non era lei a raggiungerli, come morbo di natura “fisica”, erano loro ad invitarla inconsciamente, come somatizzazione di natura “psichica”. Fu proprio questo particolare meccanismo a donare a Leopardi e Nietzsche quella acutezza e straordinaria perspicacia di pensiero, isolati infatti dagli altri e dal mondo, riuscirono a concentrarsi senza distrazioni su di sé. 20

Id., La gaia scienza, cit., p. 32.

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Da una certa angolazione, la malattia, dunque, era meritevole di ringraziamento. Nietzsche, infatti, le dedicò queste parole: “Per quanto riguarda la mia lunga infermità, non le devo infinitamente di più della mia salute? Le devo la mia filosofia”21. Il volto fisico della malattia fu, per Leopardi, quel corpo gracile e curvo e quella salute sempre cagionevole e delicata, mentre quello mentale si impadronì dei suoi occhi, chiudendoli al mondo, a causa di gravi oftalmie che davano luogo a periodi di temporanea cecità. In Nietzsche, la malattia del corpo assediò immediatamente con virulenza gli occhi, angustiandoli dapprima con una rilevante miopia accompagnata da astigmatismo, alla quale si aggiunsero in seguito preoccupanti lesioni alla retina. La misteriosa affezione, invece, che lo perseguitò tutta la vita, e che egli stesso pronosticò essere di origine psichica, si manifestava con violenti attacchi di mal di testa, vomito di bile e acutissimi dolori di stomaco, ed aveva una durata media di una trentina di ore ogni singola apparizione. È interessante notare come, anche nell’orizzonte di sofferenza della malattia, emergano affinità tra i nostri due pensatori. Una prima potrebbe essere evidenziata dalla condivisione di una vista debole, che non permetteva loro di relazionarsi con la realtà circostante. Situazione questa che diventava scaturigine di quella impellente necessità, provata da entrambi, di trarre alimento, colori, respiro da sé, tutti frutti germogliati dal terreno fecondo del pensiero. In un altro aspetto, poi, Nietzsche e Leopardi si assomigliarono. Dopo aver, infatti, trascorso un primo periodo della vita dimorando stabilmente in un unico luogo, che per Leopardi fu Recanati e per Nietzsche Basilea, decisero di abbandonare per sempre la stanzialità ed errare ossessivamente di città in città. Leopardi, superate innumerevoli difficoltà e ostacoli, riuscì a lasciare per la prima volta Recanati nel novembre del 1822 alla volta di Roma, città nella quale sarebbe stato ospitato dallo zio, Carlo Antici. Da qual momento la sua esistenza fu costellata da continui ritorni e nevrotiche partenze, che si conclusero con l’addio definitivo a Recanati, avvenuto il 30 aprile del 1830. Soggiornò in diverse città, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, terminando il viaggio della sua vita a Napoli nel 1837, dopo esservi giunto ai primi di ottobre del 1833. Anche Nietzsche, una volta finiti i dieci anni di servizio presso l’università della città svizzera di Basilea, in qualità di docente di filologia classica, nel maggio del 1879, cominciò a vagabondare. 21

Id.,Scritti su Wagner, Adelphi, Milano 1979, p. 411.

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Ad un certo punto si stabilizzò, dando vita ad una sorta di pendolarismo che d’estate lo portava in Alta Engadina, soprattutto a Saint-Moritz e SilsMaria, e d’inverno in Riviera, a Genova e Nizza, sue città predilette. La sua vita cosciente lo abbandonò nel freddo gennaio del 1889 a Torino. Leopardi e Nietzsche erano perfettamente a conoscenza del fatto che la malattia dimorasse dentro di loro e che li avrebbe seguiti in ogni dove. Ufficialmente, infatti, cercavano di scoprire una città che, con il suo clima, potesse attutire o limitare i disturbi della sua presenza, tuttavia sapevano e probabilmente non volevano debellarla. Forse il loro incessante peregrinare voleva ottenere un fine diverso. Forse la città tanto sospirata era proprio quella che, in qualche modo, riusciva ad incarnare il loro pensiero e a renderlo visibile. Un ultimo rapido cenno è da riservare al metodo che i nostri due filosofi preferivano come compensazione di una vita grama e priva di svaghi, ovvero divorare instancabilmente dolci di ogni genere. Leopardi e Nietzsche erano “golosi” estremamente sofisticati, non si contentavano certo di trangugiare prelibatezze senza criterio, anzi tendevano a degustare solo prodotti tipici del luogo in cui risiedevano in quel momento. Benché entrambi vivessero in condizioni di estrema indigenza, con un solo soprabito ormai liso e consunto a ripararli indiscriminatamente dal caldo e dal freddo, e si ingegnassero per sbarcare il lunario, pur tuttavia qualche risorsa nascosta non mancava mai per soddisfare la loro mania di dolci e di gelati. Leopardi sfogò, infatti, questo suo autentico furore durante la permanenza a Napoli. Egli impazziva letteralmente davanti a una granita di limone o di cioccolata. Si racconta addirittura che un giorno, mentre, placidamente seduto ai tavolini del Caffé delle Due Sicilie nell’affollata via Toledo, sorbiva i suoi molteplici gelati, attirò l’attenzione di un gruppetto di persone allibite dalla sua smisurata ingordigia. Quelle volte in cui Leopardi, poi, percorreva la strada sotto il colle di Sant’Elmo per inoltrarsi nelle viuzze centrali di Napoli, faceva sempre una tappa nella sua pasticceria di fiducia, Pintauro, in via Santa Brigida, avviluppato dall’irresistibile profumo delle sfogliatelle, le frolle, i mandorlati, i canditi, le cassate e le paste di riso. Nietzsche non era certo da meno. Era ghiotto a tal punto che, a Bonn, i suoi amici Franconi avevano inventato per lui un epigramma che così recitava: “Per i dolciumi/e il tè/ andrà in miseria nera”22. A Torino, infatti, sia a pranzo che a cena mangiava in trattorie modestissime, ma non rinunciava al lusso di frequentare i caffé eleganti. Prediligeva 22

C.P. Janz, Vita di Nietzsche, vol. 1,cit., p. 120.

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il Nazionale e il Giardino Caffé Romano, che d’estate offriva anche la gioia della musica. Al caffé Nietzsche leggeva i giornali, ma soprattutto si rimpinzava di sorbetti, gelati, spumoni e del sublime cioccolato torinese. Dopo questa breve e gustosa digressione, è giunto ormai il tempo di riprendere il filo d’Arianna della nostra riflessione. Da quanto sin qui considerato, emerge in tutta evidenza l’abilità, dimostrata da Leopardi e Nietzsche, di convertire creativamente la propria sofferenza. La malattia, per entrambi, agì positivamente come occasione e stimolo a guardare in modo più coraggioso e spregiudicato in volto la condizione umana e la legge delle cose. Essa diventò strumento conoscitivo vero e proprio in grado di illuminare la verità. Rimangono ora da illustrare i differenti passaggi che, in compagnia di Nietzsche e Leopardi, è necessario fare per realizzare un tale svelamento. Avvalendoci dell’ausilio di un’immagine cara a Nietzsche, ovvero quella dell’“acqua”, tenteremo di renderli chiari e visualizzabili. È come se, per i nostri due pensatori, l’atto conoscitivo sia paragonabile ad un’“immersione” al mare. Il primo passo consiste nel non avere paura dell’acqua, in questo caso particolare, nel non temere di tuffarsi nell’acqua della verità. Anzi, puntualizza Nietzsche: “Colui che si è dedicato alla conoscenza non scende malvolentieri nell’acqua della verità quando è sporca, bensì quando è acqua bassa e superficiale”23. Una volta in acqua, dopo aver minuziosamente controllato l’attrezzatura, messo in bocca l’erogatore, tolta l’aria dal jacket, inizia la nostra discesa. Per Leopardi e Nietzsche è indispensabile che essa si concluda soltanto quando il fondale sarà percepito distintamente dalle nostre pinne. Questo metaforicamente significa l’aver avuto il coraggio di non arrestarci alla superficie, ma di aver voluto toccare comunque la verità, senza preoccuparci preventivamente di sapere se il suo fondo sarebbe stato roccioso oppure sabbioso, senza sapere se essa sarebbe stata, quindi, positiva e bella o aspra e crudele, perché torbida. È ancora Nietzsche che ci sprona con queste parole: “Non scoraggiarti/ Ovunque tu sia, scava a fondo! / Là sotto è la sorgente! / Lascia che gridino gli uomini scuri: / Là sotto c’è sempre – inferno!”24. Leopardi e Nietzsche, sfruttando, dunque, l’aspetto euristico del dolore, sono penetrati nei recessi inesplorati della loro anima e hanno veduto le sembianze della verità. Questa vicenda conoscitiva ha fatto sorgere in entrambi la consapevolezza della sterilità di voler, ad ogni costo, ridurre l’uomo entro 23 24

Id., Così parlo Zarathustra, cit., p. 60. Id., La gaia scienza, cit., p. 36.

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gli angusti limiti di un’ottica unitaria, invece di lasciar liberamente emergere la sua natura proteiforme e composita. Riutilizzando l’immagine precedente, è come se di fronte all’inebriante distesa marina, sapessimo cogliere soltanto l’increspatura delle sue acque, ignorando completamente la vita pulsante che si agita sotto quella superficie. L’uomo, infatti, non è semplicemente ragione, ma anche immaginazione, emozione, passione. Riallacciandoci alla tesi sostenuta in precedenza, l’aver scoperto il carattere multiforme proprio dell’essere umano, porta all’immediata conseguenza di una piena partecipazione di tale peculiarità con la “natura-esistenza”, di cui l’uomo rappresenta una parte, che costituisce a sua volta l’oggetto del processo filosofico. Proprio per questo motivo, Leopardi e Nietzsche si incaponiscono nel negare in modo deciso alla ragione quella sua pretesa totalizzante nei confronti della vita e del sapere. Se, infatti, il filosofo si ostina a voler analizzare l’oggetto-vita unicamente con lo strumento della ragione analitica, non sarà in grado di cogliere di esso nient’altro che la scorza ed anzi produrrà una conoscenza costantemente falsa. Tale conoscenza sarà, quindi, invalidata dalla mancata considerazione di tutte le altre parti costitutive dell’oggetto in questione. A questo proposito è utile riportare un esempio chiarificatore, inserito da Leopardi nello Zibaldone, che grazie alla sua limpidezza ci faciliterà la comprensione: Scomponete una macchina complicatissima, toglietele una gran parte delle sue ruote, e ponetele da parte senza pensarvi più; quindi ricomponete la macchina, e mettetevi a ragionare sopra le sue proprietà, i suoi mezzi, i suoi effetti: tutti i vostri ragionamenti saranno falsi, la macchina non è più quella … (Zib., 1837, 4 ottobre 1821).

Rubando un’altra immagine dalle feconde pagine zibaldoniane, quella del “corpo morto”25, è come se, trovandoci dinnanzi ad un corpo esanime di un individuo, noi cercassimo soltanto di stabilirne la statura o il colore degli occhi e dei capelli, senza essere in grado di attribuirgli sogni, emozioni, passioni. Anche Nietzsche propone un interessante esempio. La “musica”26, sostiene infatti, è sì corredata di partitura musicale, ovvero di una dimensione misurabile e matematica, ma una persona priva dell’uso dell’udito, avendo

25 26

Cf. G. Leopardi, Zibaldone, 3239, 22 agosto 1823. Cf. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 309.

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dimestichezza solo di essa, non può comunque comprendere la musica in quanto tale. La musica è anche suono, vibrazione, emozione. Gli esempi testé citati, ci invitano caldamente a non incappare nell’errore di credere in un mondo che dovrebbe avere il suo equivalente e la sua misura solo nel pensiero umano. Nietzsche indignato, così prorompe: Innanzitutto non si deve voler spogliare l’esistenza del suo carattere polimorfo …. Una siffatta interpretazione che altro non ammette se non il contare, calcolare, pesare, vedere e toccare con mano, è una balordaggine e una ingenuità …. Non sarebbe invece assai verosimile che in primo luogo si lasci afferrare proprio quel che l’esistenza ha di più superficiale ed esteriore – il massimamente apparente, la sua epidermide […]? (ivi, p. 308-309).

L’insoddisfazione e la critica, che sia Leopardi che Nietzsche indirizzano alla volta di un processo conoscitivo eccessivamente sbilanciato dalla parte della razionalità, non si traduce mai, però, in un ripudio dell’istanza filosofica e della forza di penetrazione del pensiero. Quel particolarissimo sapere filosofico, infatti, che frulla nella mente dei nostri due pensatori, per indicare il quale Leopardi coniò un azzeccato termine, quello di “ultrafilosofia”27, altro non è se non una sempre più stretta e produttiva collaborazione tra l’ineliminabile momento razionale-analitico e l’indispensabile momento immaginativo-passionale. La filosofia deve essere come un puzzle, il cui gioco di pazienza consiste nel rimettere insieme i vari pezzi di un’immagine precedentemente scomposta. Essa non deve, dunque, restare appagata dall’ammucchiare in modo disordinato verità riposte e solitarie, bensì deve trovare il sistema di farne combaciare i contorni per ottenere un tutto provvisto di significato. Questa la precisa spiegazione di Leopardi: Il pensatore cerca naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose. È impossibile ch’egli si contenti delle nozioni e delle verità del tutto isolate. E se se ne accontentasse, la sua filosofia sarebbe trivialissima e meschinissima …. Lo scopo della filosofia … è il trovar le ragioni delle verità. Queste ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col mezzo del generalizzare (Zib., 946-47, 16 aprile 1821).

27

G. Leopardi, Zibaldone, 115, 7 giugno 1820.

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Ed è proprio a questo punto che entra in gioco l’istanza immaginativo-passionale, che per Leopardi e Nietzsche, possiede un rilievo teoretico-esplicativo pari a quello della ragione e in più funge da vera e propria condizione e possibilità di conoscenza. Il filosofo ha a disposizione, infatti, un solo espediente in grado di assicurargli di scovare quelle vicendevoli relazioni tra verità disparate che egli, infaticabilmente si sforza di ottenere. Deve lasciarsi, dunque, interamente pervadere da una passione intensa che idealmente lo trasporterà su di un’“eminenza”28, permettendogli così di vedere. Queste le parole di Leopardi: Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore corporale, di entusiasmo, di disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di quasi ubriachezza e furore, scopre delle verità che molti secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per iscoprire […] (Zib., 1975, 23 ottobre 1821).

Da quanto detto, emerge la necessità, da parte del filosofo che realmente vuole conoscere, di sfruttare tutti gli istinti di cui è munito e di vivere i problemi “con anima e corpo”29, come sostiene Nietzsche. La conoscenza che risulterà da un simile procedere, apparirà intuitiva ed immediata, alla stregua di un lampo rivelatore. Per Leopardi sarà quel famoso “colpo d’occhio”, che “scuopre in un tratto le cose contenute in un vasto campo, e i loro scambievoli rapporti”30. Per Nietzsche, che si fermerà alquanto a difendere l’efficacia di un mezzo conoscitivo di tal fatta, sembrerà come la rapida abluzione in un bagno freddo. La velocità dell’operazione non pregiudicherà, comunque, una breve permanenza sul fondo. Questo significa che la conoscenza immediata è perfettamente in grado di cogliere intuitivamente la verità. Ma, seguiamo il ragionamento di Nietzsche che si domanda: “… è proprio vero che una cosa resta incompresa e ignota per il semplice fatto che viene afferrata al volo, adocchiata e colta in un baleno? Si deve proprio prendere prima di tutto saldo possesso di essa? Averci fatto sopra la cova come su di un uovo?”.

28

G. Leopardi, Zibaldone, 1855, 5-6 ottobre 1821. F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1886-87, 5 [29]. 30 G. Leopardi, Zibaldone, 1845, 5-6 ottobre 1821. 29

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Precisando ulteriormente: “… ci sono verità particolarmente timide e sensibili al solletico, di cui non ci si può impadronire se non all’improvviso – verità che si deve cogliere di sorpresa o lasciarle andare …”31. Tale conoscenza, però, non raggiunge l’autosufficienza. Essa diventa, infatti, il materiale privilegiato dello sviluppo speculativo, connaturato al momento razionale – analitico. Così Leopardi espone commentando: “Il mondo alla fine è sempre in istato di freddo, e le verità scoperte nel calore, per grandi che sieno non mettono radici nella mente umana , finché non sono sanzionate dal placido progresso della fredda ragione …” (Zib. ,1976, 23 ottobre 1821). Dopo aver ultimato di descrivere , insieme a Leopardi e Nietzsche, le diverse fasi della nostra “immersione” nelle acque della verità, ce la troviamo ora dinnanzi. Essa ci appare sgradevole, avversa, calamitosa. A tal proposito Nietzsche, infatti, afferma: “Le persone che afferrano una cosa in tutta la sua profondità, le rimangono raramente fedeli per sempre. Esse hanno appunto portato alla luce il fondo: lì c’è sempre molto di brutto da vedere”32. E Leopardi gli dà man forte dicendo: “Colui che non si è fermato alla superficie, è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come effettivamente indegno” (Zib., 1648, 7 settembre 1821).

3.3 La “nuda osservazione” di Leopardi Il Leopardi maturo approda ad una gnoseologia basata unicamente su “osservazione” ed “esperienza”33, da ciò si arguisce la sua convinzione di una netta preponderanza della dimostrazione sensibile e del suo indiscusso primato su quella logica, nell’ambito dell’investigazione della natura. Cercheremo di capire, ora, le motivazioni principali che persuasero Leopardi ad imboccare proprio quella direzione. Il giovane Giacomo fu irresistibilmente attratto dalla rivoluzione copernicana e, sollecitato dalla precoce lettura di Fontenelle, fin da subito si mise seriamente a riflettere sulle molteplici conseguenze che un tale cambiamento epocale avrebbe avuto non solo dal punto di vista astronomico, ma specialmente da quello umano.

31

F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 318. Id., Umano, troppo umano, I, cit., p. 271. 33 G. Leopardi, Zibaldone, 2711, 21 maggio 1823. 32

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Leopardi, infatti, cita espressamente Fontenelle34 nella sua mastodontica Storia dell’astronomia dalla sua origine all’anno MDCCCXI, redatta nel 1813, opera che, nell’arco di cinque capitoli35, corredati da note puntualissime, ripercorre i mutamenti e i progressi compiuti nello studio degli astri, descrivendone minutamente gli artefici fondamentali. Il letterato e filosofo francese Fontenelle trova di diritto posto in queste pagine, grazie al lavoro che lo rese celebre, la Conversazione sulla pluralità dei mondi, del 1686, in cui l’autore espone in forma divulgativa e letteraria la teoria copernicana, che ancora stentava a diffondersi perché illustri pensatori e scienziati, dopo la dura condanna ecclesiastica, si ripromisero di non insistervi. A riprova dell’enorme interesse suscitato in Leopardi dal copernicanesimo, riportiamo lo stralcio di uno dei primi pensieri scritti sullo Zibaldone: Una prova in mille di quanto influiscano i sistemi puramente fisici sugl’intellettuali e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnuova interamente l’idea della natura e dell’uomo […], rivela una pluralità di mondi, mostra l’uomo un essere non unico […], abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima […] (Zib., 84).

Per Leopardi, infatti, l’accettazione del dogma copernicano implica l’esistenza di numerosi mondi accanto al nostro, come abbiamo avuto modo di comprendere nella disamina del precedente capitolo, che, per analogia, brulicano anch’essi di creature viventi caratterizzate però da differenti modi di essere e di pensare. La perdita dell’immobilità e della posizione di centralità, poi, che il sistema di Tolomeo aveva assegnato alla terra, a parere di Leopardi, non sottintende solo l’esigenza di mappare nuovamente il cielo, ma coinvolge in prima persona l’essere umano, abitatore della medesima, il quale, divenuto ormai consapevole di ciò, dovrebbe eliminare spontaneamente quella sicumera antropocentrica e antropomorfica che fino a questo momento l’aveva contraddistinto. L’idea che l’uomo ha di se stesso, quindi, da un lato “si abbassa”, in quanto, smarrita l’unicità, si relativizza, tuttavia dall’altro, prosegue Leopardi, si “sublima”, perché: “Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza” (Zib., 3171, 12 agosto 1823). 34

Id., Storia dell’astronomia dalla sua origine all’anno MDCCCXI, Newton 1997, p.

805. 35

Il primo capitolo si occupa dello studio degli astri dalle origini a Talete, il secondo, da Talete a Tolomeo, il terzo, da Tolomeo a Copernico, il quarto, da quest’ultimo fino alla cometa del 1811, e l’opera si conclude con un capitolo riassuntivo generale.

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Leopardi, inoltre, come già abbiamo avuto modo di evidenziare, fornisce della realtà una spiegazione materialistica e meccanicistica. La natura, ovvero la materia universale, gli appare come un meccanismo che non è mosso da fini o da provvidenziali disegni, bensì da forze intrinseche alla materia stessa, che ha in sé la sua ragione d’essere. Siccome la materia agisce, quindi, secondo leggi necessarie a lei immanenti, l’unico itinerario conoscitivo che, per Leopardi, l’uomo può proficuamente percorrere, consiste nell’esclusivo utilizzo dei sensi, i soli in grado di captare e descrivere tali processi in modo freddo e totalmente oggettivo. Per Leopardi, infatti, la conoscenza propria dell’essere umano dovrebbe fondarsi su un’osservazione quanto più possibile “nuda”36, ossia non intrisa del benché minimo elemento di un soggettivismo che ne ostacolerebbe irrimediabilmente il decorso, facendola incorrere in errore. È come se l’uomo dovesse comportarsi come una pellicola fotografica che, subendo l’azione della luce su di sé, si impressionasse, riproducendo passivamente immagini della realtà che la circonda. Anzi, spiega Leopardi: […] sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch’esse non hanno. La natura ci sta tutta spiegata davanti […]. Per ben conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto; e queste, fabbricateci e cagionateci da noi col nostro raziocinio (Zib., 2710, 21 maggio 1823).

Se gli antichi dunque, chiarisce ulteriormente Leopardi, legittimati nella loro vanità gnoseologica da una visione tolemaica del reale, diedero vita ad un processo conoscitivo incentrato su una netta prevalenza della dimensione soggettiva, attraverso un miscuglio di “speculazione”, “immaginazione” e “raziocinio”37, spetta ora ai moderni il compito di svellere la miriade di errori che tale metodo ha prodotto. L’uomo moderno, prosegue Leopardi, a seguito dei rivolgimenti del copernicanesimo, ha annientato quella superbia antropocentrica che gli era propria, ed ora può sradicare l’errore, ma non piantare al suo posto alcuna verità positiva. Anche quelle verità che d’acchito potrebbero sembrare proposizioni positive, come quella che afferma che tutte le idee dell’uomo procedono dai sensi, aggiunge Leopardi con vigore, sarebbero del tutto superflue se non

36 37

G. Leopardi, Zibaldone, 2711, 21 maggio 1823. Id., Zibaldone, 2711, 21 maggio 1823.

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fosse esistito l’errore contrario, come, nel caso citato ad esempio, il credere nell’esistenza delle idee innate38. Ma c’è un problema. Leopardi, infatti, si rende immediatamente conto che l’uomo ha sì sopportato serenamente la decentralizzazione della terra, senza però trarre da tutto questo le debite conseguenze. Anzi, i mutamenti cagionati dalla rivoluzione copernicana non hanno scalfito per nulla l’insolente arroganza gnoseologica dell’essere umano che, imperterrito, continua ad assolutizzare e dogmatizzare tutto ciò che lo riguarda come fosse definitivo e incontrovertibile. Leopardi non riesce proprio a mandar giù questo atteggiamento pusillanime che non denota altro che mancanza di coraggio nell’accettare una verità cruda ed aspra. Inflessibile e severo, denuncia: Così ti spiacque il vero dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci dié. Per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe palese: e, fuggitivo, appelli vil chi lui segue, e solo magnanimo colui che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, fin sopra gli astri il mortal grado estolle39. (vv. 78-86)

Leopardi decide, poi, nelle Operette morali, di usare l’arma di una mordace e caustica ironia per colpire una volta di più quell’insopportabile presunzione umana. Così, nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, del 1824, Leopardi descrive meticolosamente quella totale indifferenza e quel tranquillo procedere della natura, dopo che il genere umano è scomparso, autodistruttosi per effetto dell’incivilimento. È inutile, quindi, che l’uomo si incaponisca ad attribuirsi una posizione di privilegio nell’universo, se quest’ultimo non nota neppure la sua mancanza, non altera quel suo stabile equilibrio e non veste neanche di “gramaglie”40. O, ancora, nel Dialogo della Terra e della Luna, operetta sempre del 1824, in cui la luna, conversando amabilmente con la terra, ne controbatte una ad una le argomentazioni, dimostrandone l’erroneità e l’infondatezza, aprendo in tal modo un’ulteriore ferita nella pretesa geocentrica e antropocentrica della terra. 38

Cf. Id., Zibaldone, 2713, 22 maggio 1823. Id., La ginestra, 1836, vv.78-86. 40 Id., Operette morali, cit., p. 510. 39

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Per ultimare, poi, con un’emblematica operetta, scritta da Leopardi nel 1827, intitolata Copernico. In essa, infatti, un sole ormai stanco di darsi indefessamente da fare per il benessere di quei “quattro animaluzzi” (ivi, p. 586) che vivono su quello sperduto “granellino di sabbia” (ivi, p. 587) che è la terra, decide di andare anticipatamente in pensione. Convoca, quindi, al suo cospetto Copernico, affinché convinca la terra a muoversi direttamente lei e possa così continuare ad usufruire di quei benefici di cui il sole è garante. Interessanti sono soprattutto le parole che Leopardi fa pronunciare al Sole, intento a persuadere Copernico della validità della sua proposta: E gli uomini si contenteranno di essere quello che sono: e se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a rovescio, e argomentando in dispetto della evidenza delle cose; come facilissimamente potranno fare; e in questo modo continueranno a tenersi per quel che vorranno […] (ivi, p. 590).

Leopardi, qui, vuole beffardamente punzecchiare tutti quei pensatori che, non appagati dalla ruvida e sgradevole verità portata allo scoperto dalla gnoseologia, realizzano, lavorandola secondo il modello voluto, una realtà che li aggrada. Con tutta probabilità, Leopardi pose tra essi anche Kant, di cui ebbe una conoscenza superficiale e non diretta. Leggendo, infatti, il De Allemagne di Madame de Staël, ricevette una leggera infarinatura di alcune delle idee che Kant espose nella sua Critica del giudizio, ma nulla più. Kant, dunque, partendo da una lettura del copernicanesimo opposta a quella di Leopardi, giudicò del tutto lecito che l’uomo non si spogliasse di quell’orgoglio gnoseologico peculiare. Egli ritenne, infatti, che Copernico avesse elaborato quella sua ipotesi, la quale troverà una piena teorizzazione nel De revolutionibus orbium coelestium del 1543, privilegiando una ricerca esclusivamente logica e razionale, priva, dapprima, delle prove concrete che le successive osservazioni astronomiche di Galileo forniranno per avvalorarla. Questo significa, per Kant, che l’essere umano ha ampliato il suo bagaglio conoscitivo partendo da sé e non dal reale che lo circonda. Per il filosofo tedesco, infatti, l’uomo possiede forme trascendentali di conoscenza, ossia schemi concettuali e categorie intellettuali che, applicate al reale, gli permettono di conoscere senza un intervento diretto dell’esperienza. I cosiddetti “giudizi sintetici a priori”, inoltre, assicurano una conoscenza oggettiva e universale, in quanto risultano identici per tutti i soggetti conoscitivi umani. Il “fenomenismo” kantiano, però, non consente di conoscere la realtà così come essa è, bensì soltanto di percepire il suo aspetto “umano”. È come se l’uomo kantiano assomigliasse ad una talpa, la quale, a causa di occhietti 154


piccolissimi ricoperti da una membrana, fosse in grado di distinguere a malapena luci ed ombre. La sua realtà non sarà, dunque, immagine e colore, ma unicamente suono e profumo. Le riflessioni gnoseologiche di Leopardi, quindi, rimangono estranee alla grande avventura di quello che è stato definito il “copernicanesimo kantiano” in filosofia. Leopardi attribuì, infatti, ai sensi un ruolo troppo preponderante, schierandosi in difesa di un deciso empirismo.

3.4 Gli “antropomorfismi” di Nietzsche Nietzsche invece, dissimilmente da Leopardi, rimase piacevolmente impigliato nelle fitte maglie della rete filosofica gettata da Kant. Egli ebbe, infatti, una maggiore confidenza e dimestichezza con il criticismo kantiano, grazie soprattutto alla sua giovanile passione per Schopenhauer. Schopenhauer consacrò, infatti, l’intera sua vita alla realizzazione di un originale sistema filosofico che aveva per base proprio il pensiero di Kant. Anzi, dichiarò di essere l’unico legittimo epigono dell’eredità kantiana e ingaggiò vivaci alterchi con i rappresentanti dell’idealismo tedesco, ovverosia Fichte, Schelling ed Hegel, rei, a suo dire, di aver equivocato la filosofia di Kant e di aver ottenuto il solo risultato di averla orrendamente deturpata. L’attrazione di Schopenhauer per Kant fu immediata e già la sua tesi di laurea del 1813, intitolata La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, ne è una prova manifesta. Qui, infatti, Schopenhauer riconosce a Kant il merito di aver riflettuto seriamente su un così importante principio filosofico, riuscendo ad estrapolarlo dal tradizionale ambito metafisico nel quale giaceva, e a trapiantarlo in quello di un nuovo criticismo. Il progetto, cui l’opera principale di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, volle dar vita, fu quello di tradurre il pensiero kantiano in termini metafisico-positivi. Lasciando inalterata la fondamentale distinzione, introdotta dallo stesso Kant, tra “fenomeno” e “cosa in sé”, Schopenhauer individuò, contrariamente al suo mentore, una possibile via d’accesso al noumeno, ovvero l’autocoscienza. Come già sappiamo, Nietzsche, dunque, lesse con bramosia gli scritti di Schopenhauer, sia il Mondo, sia Parerga e paralipomena, lavoro del 1851, in cui l’autore ribadisce la sua posizione filosofica, arricchendone la trattazione con l’aggiunta di velenose note polemiche contro “quel corrompiteste”41 di Hegel.

41

F. De Sanctis, Dialogo tra A e D, cit., p. 21.

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Furono proprio queste letture, quindi, ad invogliare Nietzsche ad approfondire la conoscenza di Kant. Lesse, infatti, direttamente la Critica del giudizio e dallo studio della monumentale Storia della filosofia moderna del filosofo tedesco Kuno Fischer, seppe trarre una comprensione pressoché esaustiva della meditazione kantiana. Prima, però, di capire in quale modo l’influenza di Kant si manifestò, esaminando nei minimi particolari la gnoseologia nietzschiana, dobbiamo soffermarci su un altro aspetto della riflessione che cattura il nostro interesse. Su Nietzsche, come in precedenza su Leopardi, la rivoluzione copernicana suscitò una profonda impressione che cagionò in entrambi una vivace, benché diversa, reazione. All’inizio, tutti e due i nostri pensatori annoverarono tra i naturali postumi del copernicanesimo un’immediata destabilizzazione che investì l’uomo, sminuendone drasticamente l’importanza. Nella Genealogia della morale, Nietzsche, infatti, così si interroga: Non è forse, da Copernico in poi, in un inarrestabile progresso l’autodiminuirsi dell’uomo, la sua volontà di farsi piccolo […]. Da Copernico in poi, si direbbe che l’uomo sia finito su un piano inclinato – ormai va rotolando, sempre più rapidamente, lontano dal punto centrale – dove? nel nulla?42.

Archiviato l’iniziale, inevitabile smarrimento, Nietzsche seppe, poi, riabilitare l’essere umano e la terra che lo ospita, guardando il copernicanesimo e i suoi risvolti con gli stessi occhi con cui li vide Giordano Bruno. Il filosofo italiano fu il primo, infatti, a far derivare coerentemente dall’ipotesi di Copernico le scomode conseguenze filosofiche che gli valsero la condanna come eretico, a Roma nel 1600. Bruno fu un coraggioso sostenitore dell’immagine di un universo aperto, che egli non concepì come “eliocentrico” ma, alla maniera di Cusano, come “onnicentrico”, in quanto infinito. Svolse per la prima volta queste tesi nel De infinito, opera del 1584, per riprenderle nuovamente nel De immenso, nel 1591. Nietzsche, con tutta probabilità, acquisì una certa familiarità con la meditazione bruniana, specialmente grazie alla feconda amicizia con lo sfortunato barone Heinrich von Stein, morto d’infarto, a soli trent’anni, il giorno dopo aver ottenuto una cattedra all’università di Berlino. Egli si laureò a pieni voti in filosofia ad Halle, infatti, con una tesi proprio sul pensiero filosofico di Giordano Bruno e nelle lettere inviate a Nietzsche, incluse sovente, nella traduzione tedesca, diverse poesie di questo suo pensatore favorito, al fine di condividerne l’entusiasmo con il nuovo interlocutore.

42

F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 149-150.

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Ciò che più colpì Nietzsche fu quell’idea suggestiva di un universo senza inizio né fine, simboleggiato da una temporalità circolare ed eterna, descritta, nello Zarathustra, da queste parole: “In ogni attimo comincia l’essere […]. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità”43. L’ascendente che il pensiero kantiano, dunque, ebbe sulla gnoseologia nietzschiana sarà evidente laddove, come vedremo, anche per Nietzsche, l’atto conoscitivo prenderà le mosse, non dalle informazioni che l’ambiente esterno fornirà al soggetto, bensì dalle molteplici schematizzazioni che lo stesso soggetto impiegherà per interagire col reale. Un esempio chiarificatore può risultare utile per comprendere appieno i vari aspetti che caratterizzano il percorso conoscitivo nietzschiano, ovvero quello della psicodiagnostica di Rorschach, una tecnica projettiva basata su una prova consistente nel dare un’interpretazione a dieci macchie d’inchiostro. Il punto nevralgico del lavoro interpretativo è rappresentato dal caos della macchia. Dando una propria interpretazione, il soggetto mette ordine nel caos, provocando un atto creatore. Trattandosi di un test projettivo, infatti, il modo nel quale ogni singolo soggetto organizza o struttura le macchie di inchiostro nel processo percettivo riflette gli aspetti fondamentali della sua dinamica psicologica. Le macchie d’inchiostro si prestano a funzionare da stimolo perché sono relativamente ambigue o scarsamente strutturate; non sollecitano, cioè, risposte apprese attraverso l’esperienza, ma permettono una grande varietà di possibili risposte, rivelando in tal modo tratti precipui della personalità dell’interpretante. Per Nietzsche, infatti, come il precedente capitolo ci ha dato modo di capire, la realtà autentica altro non è che flusso caotico e incessante dalla natura proteiforme, che nessun ordine può permanentemente imbrigliare. In una realtà di tal fatta non trova certo posto l’esistenza di cose, di corpi o della materia stessa. In essa, perciò, neppure l’io ha reale diritto di cittadinanza come condizione e causa del pensare o dell’agire, bensì è il soggetto stesso ad essere una sorta di “sintesi”, cui il pensiero e l’azione danno vita44. Un reale così destrutturato e totalmente privo di senso necessita, a parere di Nietzsche, di un’immediata interpretazione, ossia dell’imposizione di uno schema che gli dia valore, evitando agli enti in esso presenti di perire o di annullarsi a causa di questa mancanza (ivi, p. 45). Proprio per questo motivo Nietzsche sostiene, infatti, che questa capacità interpretativa, sola manifestazione conoscitiva possibile, non sia prerogativa esclusiva del genere umano, ma peculiarità di ciascun essere senza distinzione, benché quella umana goda di una maggiore plasticità. Conoscenza significa, quindi, per Nietzsche: 43 44

Id., Così parlò Zarathustra, cit., p. 256. Cfr. Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 60.

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L’esperienza resa possibile semplificando enormemente l’accadere reale […]: così che sembrano esserci cose simili e uguali. La conoscenza è falsificazione che riduce il molteplice e l’innumerevole a uguale, simile, calcolabile. La vita dunque è possibile solo in virtù di un tale apparato di falsificazione45.

Il prendere possesso intellettualmente e sensibilmente di quella che viene considerata realtà vuol dire, afferma Nietzsche, projettare su di essa un senso mancante. Questa operazione interpretativa consiste nel descrivere ciò che ci circonda partendo da un particolare ed autonomo punto di vista. Ogni singola interpretazione, perciò, rifletterà, come uno specchio, le caratteristiche dell’ente dal quale promana. Siccome, secondo la riflessione di Nietzsche, ogni essere, in quanto tale, è “volontà di potenza” e, questa stessa volontà di potenza possiede due opposte polarità, la forza e la debolezza, connaturate indissolubilmente a due diverse qualità, l’azione e la reazione, è evidente che sarà proprio l’analisi dell’interpretazione a svelarci da quale tipo di volontà essa è determinata. Il compito svolto dall’interpretazione è, infatti, sostanzialmente quello di modellare il reale in modo tale da soddisfare quei bisogni, desideri, interessi che vengono resi necessari e inderogabili dalla brama di potenza della volontà del soggetto in questione. Nietzsche spiega: “Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo […]. Ogni istinto è una specie di avidità di dominio, ognuno ha la propria prospettiva e vorrebbe imporla come norma a tutti gli altri istinti”46. Nietzsche introduce a tal proposito un interessante concetto, egregiamente racchiuso nel termine “prospettivismo” (ivi), da non confondersi con quello simile di relativismo. Per il relativismo, infatti, le differenti spiegazioni del reale debbono essere poste indiscutibilmente sullo stesso piano, in quanto, rispetto ad una verità assoluta per nulla conoscibile, nessuna di esse può vantare legittimamente pretese o privilegi di sorta. Il prospettivismo di Nietzsche, invece, valuta ogni singola interpretazione, assegnando ad essa il vertice di un’ipotetica scala gerarchica quando, supportata da un eccesso di potenza, afferma pienamente la vita, o, al contrario i gradini più bassi, nel caso in cui, legata ad una mancanza di potenza, essa cerchi di conservare in qualunque modo l’esistenza, immiserendola anche, per ottenere lo scopo. Per Nietzsche, infatti, non può esistere una verità che si professi assoluta. La verità è, dunque, solo una delle numerose ipotesi interpretative che riesce provvisoriamente a prendere sulle sue rivali il sopravvento, è “un processum 45 46

Id., Frammenti postumi, 1885, 34 [252]. Ivi., 1886-87, 7 [60].

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in infinitum, un determinare attivo, non una presa di coscienza di qualcosa di saldo e definito “in sé”47. Dal momento, dunque, che esistono interpretazioni migliori e peggiori, un valido metodo che Nietzsche utilizza per determinarne con immediatezza il valore, scoprendo di che natura è la volontà di potenza che ad esse soggiace, è quello di capire se l’essere che interpreta ricerchi una verità totale, piena ed assoluta, oppure accetti che tutto in essa sia precario, rendendosi disponibile a dar vita ad “interpretazioni infinite”48. Infatti, soltanto una volontà di potenza forte e attiva, consapevole della propria forza creativa, non bramerà l’assolutezza della verità, laddove la volontà debole necessariamente la desidererà con intensità per riceverne sostegno e protezione, convinta che il senso delle cose sia attributo oggettivo di esse e non mera projezione49. Del primo gruppo, secondo Nietzsche, fa parte esclusivamente l’interpretazione artistica e creativa del reale, che avremo modo di esaminare nei paragrafi successivi, mentre apparterranno al secondo, sebbene non a pari merito, quella scientifica e quella religiosa. Anche la scienza, infatti, essendo conoscenza del mondo è, per la meditazione nietzschiana, interpretazione, che, a sua volta, altro non è che falsificazione di esso. C’è una splendida frase di Nietzsche che ben esplicita questo pensiero: Parvenza è per me proprio ciò che opera e vive, che si spinge tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è parvenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più – che tra tutti questi sognatori anch’io, l’“uomo della conoscenza”, danzo la mia danza […]50.

La scienza è, quindi, “la più fedele umanizzazione possibile delle cose” (ivi, p. 154), perché, applicando alla realtà schemi concettuali e categorie intellettuali al fine di semplificarla e di annientare così quell’imbarazzante paura che la caoticità e ambiguità del flusso ingenera nell’essere umano, fa sì che le cose stesse riproducano direttamente le esigenze fisiologiche indispensabili per conservare un certo tipo di vita. Tutto ciò che a prima vista sembrerebbe possedere piena autonomia di movimento e di giudizio, sbotta Nietzsche, come la logica, la coscienza o la stessa fisica, è costretto, invece, su precisi e determinati binari proprio dall’istinto51, ossia dalla volontà di potenza. Lo sguardo scientifico del reale, 47

Id., Frammenti postumi, 1887, 9 [91]. Id., La gaia scienza, cit., p. 310. 49 Cf. Id., Frammenti postumi, 1887-88, 9 [60]. 50 Id., La gaia scienza, cit., p. 99. 51 Cf. Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 3. 48

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perciò, non sarà intessuto da “convinzioni”, ma solo da “ipotesi”, “provvisori punti di vista” e “funzioni regolative”52 che temporaneamente sapranno accomodare per noi un mondo umano in cui la sopravvivenza sia assicurata. L’unica verità che può legittimamente abitare la gnoseologia nietzschiana è quella ingentilita e ammorbidita dall’inevitabile interpretazione, che quest’immagine poetica rende visibile: Voi verità, via, via, voi dallo sguardo fosco. Non voglio sui miei monti scorgere aspre impazienti verità. Dal sorriso dorata la verità oggi si avvicini a me, addolcita dal sole, abbronzata d’amore – stacco dall’albero solo una verità matura53. (Sulla povertà di chi è il più ricco)

3.5 La parola crea, la filosofia Al termine del secondo paragrafo, abbiamo lasciato Leopardi e Nietzsche al cospetto dell’infausta e penosa verità. Benché entrambi siano concordi nell’attribuire alla scoperta della verità e al cammino tortuoso della sua ricerca, aspetti di per sé positivi, come testimoniano queste parole di Leopardi: “Il vero certamente non è bello: ma pur anch’esso appaga o, se non altro, affetta in qualche modo l’anima, ed esiste senza dubbio il piacere della verità e della conoscenza del vero, arrivando al quale, l’uomo pur si diletta e compiace, ancorché brutto e misero e terribile sia questo tal vero”54, tuttavia sono anche perfettamente consapevoli dell’estrema nocività che un tale sapere riverserebbe sul processo di potenziamento della vita. Per Nietzsche e Leopardi, infatti, come già in precedenza abbiamo avuto modo di chiarire, il sapere non deve avere mai come objettivo uno sterile e infruttuoso accrescimento di sé, ma rimanere sotto la signoria e suprema guida dell’unico scopo auspicabile, ossia la vita. A tal proposito, Nietzsche si pone questa domanda:

52

Id., La gaia scienza, cit., p. 253. Id., Scritti su Wagner, cit., p. 238. 54 G. Leopardi, Zibaldone, 2653, 13 dicembre 1822. 53

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Ma la vita deve dominare sulla conoscenza, sulla scienza, oppure la conoscenza deve dominare sulla vita? Quale delle due forze è la più alta e la decisiva? Nessuno può dubitarne: la vita è il potere più alto, dominante, poiché una conoscenza che distruggesse la vita distruggerebbe nel contempo se stessa55.

A questo punto, è necessario capire quale soluzione abbiano architettato i nostri due pensatori per uscire da questa impasse e per rendere metaforicamente appetibile e sapida una verità disgustosa e nauseante. Leopardi e Nietzsche hanno, infatti, pensato ad un rimedio assai interessante, che consiste sostanzialmente nel dilatare il compito del filosofo, il quale non si esaurisce più nella passività del disvelamento della verità, bensì viene arricchito da un momento prettamente “creativo”. L’attività, inerente a questa particolare fase del processo filosofico, si manifesterà attraverso l’accettazione del materiale costitutivo connaturato alla verità, e la susseguente plasmazione e riconfigurazione di esso, ad opera dell’essenza creativa propria del filosofo. È come se la verità assumesse la foggia di una materia informe e morbida che la “vis creativa” filosofica plasma e lavora secondo il modello voluto, ovvero un notabile accrescimento della vita per l’uomo. Una considerazione preliminare è doverosa. Proprio perché Leopardi e Nietzsche hanno ormai veduto l’aspetto atroce e spaventoso della verità, mettono in guardia quei pensatori deboli e privi dell’indispensabile nerbo creativo per tenerle testa, dal porsi, ad ogni costo, sulle sue tracce. Nietzsche, ci avverte: “Chi non ha ali non deve mettersi al di sopra degli abissi”56. E così spiega: Colui che è più ricco di pienezza vitale, […] non solo può concedersi lo spettacolo dell’orrore e della precarietà; […] in lui malvagità, assurdità, deformità appaiono in un certo senso premesse in conseguenza di uno straripamento di forze generatrici e fecondanti che può fare di ogni deserto una contrada fertile e ubertosa57.

Detto questo, è consigliabile lasciare che sia, quindi, il filosofo a portare a termine l’immane compito di trasformare questo sapere negativo in qualcosa che abbia un valore positivo e fecondo in vista dell’esistenza. Questa istanza “creativa” la troviamo presente già nei primi pensieri vergati da Leopardi sul suo Zibaldone, esplicitata nel modo che segue: 55

F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 96. Id., Così parlò Zarathustra, cit., p. 117. 57 Id., La gaia scienza, cit., p. 303. 56

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In somma convien che il filosofo si ponga bene in mente, che la vita per se stessa non importa nulla, ma il passarla bene e felicemente, o se non altro, anzi soprattutto, il non passarla male e infelicemente. E perciò non riponga l’utilità in quelle cose che semplicemente conservano la vita, considerata quasi fosse un bene per se stessa, ma in quelle che la rendono un bene […]” (Zib., 351-52, 21 novembre 1820).

Anche Nietzsche riempie numerose pagine delle sue opere nel tentativo di tributare somma rilevanza alla dimensione creativa ingenita nell’uomo, che nel filosofo, poi, trova completa realizzazione: […] i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano […]. Essi protendono verso l’avvenire la loro mano creatrice […]. Il loro “conoscere” è creare […]58.

Dal momento che: “Nell’uomo creatura e creatore sono congiunti: nell’uomo c’è materia, frammento, sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos; ma nell’uomo c’è anche il creatore, il plasmatore, la durezza del martello […]”59. Prima di procedere addentrandoci nell’analisi del modo in cui, concretamente, la potenza creativa del filosofo agisce, è utile soffermarci a descrivere le linee principali di quell’ardua e inevitabile lotta che entrambi i nostri pensatori ingaggiarono contro le diverse correnti della filosofia contemporanea. Leopardi e Nietzsche furono, infatti, profondi estimatori della filosofia antica e ne inglobarono il dettame fondamentale, ovvero la necessità di dar vita ad un sapere filosofico in grado soprattutto di insegnare a “fabbricare”, e non solo a “disingannare e atterrare”60. Ma, per costruire è indispensabile preventivamente demolire. Ci occuperemo, adesso, proprio della “pars destruens” del progetto filosofico leopardiano e nietzschiano, e dell’aspro attacco inferto ad una tradizione filosofica occidentale obnubilata dalla fitta nebbia della “metafisica”. È come se, prendendo in prestito una splendida immagine di Nietzsche, i nostri due filosofi, al fine di ottenere realmente una conoscenza globale delle differenti concezioni filosofiche succedutesi nel tempo, fossero saliti su un’imbarcazione, allontanandosi così dalla riva del proprio presente, per veleggiare sul mare delle passate configurazioni del mondo61. La rotta prestabilita, li fece collidere dapprima contro la metafisica.

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Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 120. Ivi, p. 134. 60 G. Leopardi, Zibaldone, 2709, 21 maggio 1823. 61 Cf. Id., Umano, troppo umano, I, cit., p. 292. 59

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Leopardi e Nietzsche denunciarono immediatamente la presenza dell’idealismo alle radici della metafisica. Questo termine ha un’origine accidentale e indica, nell’opera di Aristotele, i quattordici libri che seguono quelli relativi alla fisica, in cui egli si è occupato della cosiddetta “filosofia prima”, ossia della scienza che indaga l’essere in quanto tale. La parola idealismo, invece, di origine seicentesca, viene usata generalmente per designare la filosofia di Platone in quanto fondata sulla tesi che la realtà vera consiste nelle idee, in opposizione alle cose materiali, la cui realtà, mutevole e precaria, sarebbe solo apparente. Per Platone, infatti, l’idea è l’oggetto di una visione o intuizione intellettuale, di contro al sensibile, colto dai sensi, l’idea rappresenta l’essenza intelligibile, sottratta al mutamento. L’idea platonica costituisce così una sorta di modello originario o archetipo eterno delle forme, di cui le cose sensibili sono semplici copie, approssimativamente somiglianti. Ne deriva che solo una conoscenza intellettuale delle idee garantisce un sapere vero. Platone assegna, poi, all’idea uno statuto ontologico proprio, una forma di sussistenza in sé che si realizza nell’esistenza in un mondo puramente intelligibile, chiamato “iperuranio”. Il fondamento ontologico dell’idea si traduce, per Platone in contenuto cognitivo mediante la dottrina della “reminiscenza”: l’anima vede le idee nell’iperuranio, ma, unitasi al corpo, dimentica tale sapere, di cui l’esperienza delle cose empiriche fornisce uno stimolo a ricordare. Secondo la meditazione dei nostri due pensatori, dunque, l’idealismo ha attecchito sul terreno della metafisica grazie alla confusione ed erronea identificazione di “essere” e “idea”. Dalla comparsa di Platone, infatti, tutte le dottrine filosofiche legate alla prospettiva metafisica, attribuiscono all’essere le medesime caratteristiche dell’idea, ovvero l’eternità, la necessità e l’immobilità. Anzi, su questo punto la metafisica è tassativa: l’essere veramente tale non può divenire e non rientra neppure nella stessa sfera di intelligibilità del mondo. L’accettazione di una simile visione filosofica implica, a parere di Leopardi e Nietzsche, il procedere verso una sistematica calunnia dei sensi e del corpo, e un progressivo innalzamento della sola conoscenza intellettuale. L’uomo metafisico è, inoltre, fondamentalmente passivo nei confronti della realtà. Credendo, infatti, nell’illusione dell’esistenza di un modo sovrasensibile, provveduto del fascino intenso dell’ideale, egli tende a rifuggire la rischiosità e imprevedibilità della realtà, per affidarsi alla sicurezza di una struttura prestabilita e invariabile, dotata già di un senso proprio.

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A questo punto, i nostri valorosi combattenti, armati del loro particolare pensiero, possono iniziare a battersi, utilizzando come grido di guerra per accompagnare lo slancio nella carica, le parole scritte da Nietzsche nella prefazione del Crepuscolo degli idoli: “Questo piccolo scritto è una grande dichiarazione di guerra; e per quanto riguarda l’auscultare gli idoli, questa volta non sono idoli del nostro tempo, ma idoli eterni, quelli che qui vengono toccati col martello […]”62. Per Leopardi e Nietzsche, infatti, il pensiero metafisico trae alimento dalla pusillanimità di quei filosofi che disdegnano la conoscenza fornita dai sensi, perché essa parla di caducità, di fragilità, generazione e morte. Essi, dunque, aborrendo la realtà che li circonda, si inventano un mondo corredato di peculiarità opposte, per zittire definitivamente quell’incessante bisogno di assoluto e infinito che non dà all’uomo tregua. Nietzsche prorompe: “[…] Platone è un codardo di fronte alla realtà – conseguentemente si rifugia nell’ideale […]” (ivi, p. 133). Per Leopardi l’unico mondo esistente è quello reale in cui viviamo, da ciò consegue che l’unica forma di conoscenza idonea per afferrarlo è quella assicurata dall’esperienza, mediante l’ausilio dei sensi. Queste le sue precise parole: “[Ogni idea] è figlia della madre comune di tutte le idee, cioè dell’esperienza che deriva dalle nostre sensazioni, e non già di un insegnamento e di una forma ispirataci e impressaci dalla natura nella mente avanti l’esperienza […]” (Zib., 1339, 17 luglio 1821). Anche Nietzsche, pienamente concorde con Leopardi nell’attribuire potere esplicativo ai sensi e agli istinti che albergano nell’essere umano, che si trasformeranno poi in concetto, così ne attesta la consonanza: “ […] i sensi ci mostrano il divenire, lo scorrere, il cangiamento, non mentono… […] Il mondo “apparente” è l’unico mondo: il “vero mondo” è solo un’aggiunta mendace…” (ivi, p. 41). La soppressione decisiva delle idee innate, quindi, produce un considerevole effetto che Leopardi, con perspicuità, descrive: Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta […]. Vale a dire di una perfezione la quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria […] (Zib., 1340, 17 luglio 1821).

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Id., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 24.

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La grande e profonda lacerazione della realtà, causata dal pensiero filosofico di Nietzsche e Leopardi, rivela un identico sostrato, caratterizzato dalla compresenza di un “essere” che veste i panni del divenire e di un “nulla” dal quale l’essere stesso momentaneamente si sporge. Le prime pagine zibaldoniane attestano già, in modo evidente, l’incombente presenza del nulla nella meditazione di Leopardi. Riportiamo un esempio su tutti per delineare quell’impressione viva e immediata che tale esistenza ha destato in lui: “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla” (Zib, 85). E la spiegazione somministrata: “In somma il principio delle cose […] è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec.” (Zib., 1341, 18 luglio 1821). Nietzsche e Leopardi avendo, infatti, posto come fondamento del sapere l’esperienza, negano recisamente l’esistenza di qualcosa che possa precedere la realtà dell’esperienza stessa, e che appaia, dunque, eterna e assoluta. Sarà proprio tale negazione, connaturata a questa mancanza, ad essere fatta coincidere con il nulla. L’essere è, quindi, quel furtivo far capolino, quell’uscire temporaneo dal nulla. Il palesamento di una simile circostanza, costringe, poi, entrambi i nostri pensatori a una netta e decisa ricusazione di quella specifica concezione che adorna l’essere di caratteri quali, appunto, l’eternità, l’assolutezza o l’immutabilità, che non esistono nell’attuale realtà. L’essere, l’esistenza, proprio in quanto tale, prenderà, quindi, su di sé la caducità, la labilità, la fugacità e quell’incessante movimento del flusso del divenire, ossia quel complesso di peculiarità che qualifica ciò che possiede un’esistenza reale. Nietzsche riesce a rendere intelligibile questo concetto, con estrema comprensibilità, facendo riferimento al soggetto, inteso come individuo. È come se il divenire fosse un’ipotetica retta e l’essere un segmento di essa, compreso tra due punti tracciati dallo stesso soggetto. Così, infatti, chiarisce: “Il senso soggettivo cresce nella misura in cui noi, con la memoria e la fantasia, costruiamo il modo delle cose identiche. In questo mondo di immagini da noi stessi create noi inventiamo noi stessi come unità, come ciò che rimane costante nel cambiamento”63. Quindi: “È questa l’azione culturale privata – vogliamo creare unità (ma crediamo che si tratti solo di scoprirla!)”64. 63 64

Id., Frammenti postumi, 1880, 6 [349]. Ibid., 1878, 32 [8].

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Quanto sin qui preso in esame, mostra un altro effetto di grande interesse e rilevanza. Se, infatti, secondo Leopardi e Nietzsche, non esiste alcunché che possa essere anteriore alla vita delle cose realmente esistenti, questo significa anche un’immediata rimozione di quell’immagine primordiale o modello esemplare e perfetto cui esse necessariamente dovevano fare riferimento e riprodurre con la maggiore approssimazione possibile. Domina, dunque, una completa relatività, che ha sbaragliato l’immaginaria assolutezza. Questa l’asserzione di Leopardi: La verità, che una cosa sia buona, che un’altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che relativi. Quest’è una fonte immensa di errori e volgari e filosofici. […] Non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo (Zib., 452, 22 dicembre 1820).

Suffragata anche da queste parole di Nietzsche: “[…] il peggiore e più ostinato e pericoloso di tutti gli errori è stato, fino a oggi, un errore da dogmatici, vale a dire l’invenzione platonica […] del bene in sé”65. Se, quindi, non c’è alcun prototipo assoluto, eterno e primitivo in grado di imporre gerarchie di valori dall’esterno, ciò comporta che quelle strutture dominanti che soggiogano l’uomo, intimate dalla metafisica, dalla morale e dalla religione, non sono state introdotte da altri se non dall’uomo stesso. Leopardi e Nietzsche combattono, infatti, strenuamente nel tentativo di sbaragliare quel pregiudizio caratteristico e intimamente radicato nel pensiero metafisico, ovvero quel credere ciecamente che una cosa sia ricca di qualità positive e degna di costante rispetto e pubblica stima, solo se totalmente avulsa da ogni sorta di trasformazione o cambiamento. Questa forte avversione e profonda ripugnanza, che i filosofi metafisici provano dinnanzi alle molteplici sfaccettature del divenire, viene definita da Nietzsche, con l’ausilio di un superbo neologismo, “egitticismo”66. È come se il filosofo metafisico fosse considerato alla stessa stregua di un imbalsamatore. Come l’imbalsamatore prepara, infatti, con sostanze speciali, cadaveri d’uomo per sottrarli ai naturali processi di decomposizione e garantire loro eternità, così il filosofo destoricizza e mummifica l’idea per assicurarle il massimo valore. Questa è la superstizione che, per Nietzsche, ci permette di odorare il puzzo della metafisica:

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Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 4. Id., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 40.

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[…] le cose di valore supremo devono avere un’origine diversa, un’origine loro propria – non possono essere derivate da questo mondo effimero, seduttore, ingannatore, irrilevante […]. Piuttosto la loro origine deve essere in seno all’essere, nel non transeunte, […] nella ‘cosa in sé’ – là e in nessun altro luogo!67.

È di vitale importanza, per l’attuazione del progetto filosofico leopardiano e nietzschiano, che l’uomo, scrollatosi di dosso questo pregiudizio, riesca in seguito a liberarsi anche da quell’insidiosa convinzione di dover, ad ogni costo, sottostare a scale di senso dal valore assoluto e incontestabile. Per i nostri due pensatori, infatti, è lo stesso individuo a porre valori, grazie all’essenza creativa insita in lui, che, a sua volta però, viene messa completamente a tacere dalla distorta e nociva visione della vita ingiunta dalla filosofia metafisica. Soffocato da essa, dunque, l’uomo introduce valori che immediatamente porta al di fuori dei suoi confini, percependoli, poi, come estranei e totalmente sconosciuti. Ma, ribadisce Leopardi: Supporre il bello e il buono assoluto, è tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte […], giacché tolte queste non v’è altra possibile ragione per cui le cose debbano assolutamente essere così e così, […] indipendentemente da ogni volontà […] (Zib., 1341, 17 luglio 1821).

Per Leopardi e Nietzsche, dunque, “vivere” assume il significato di “valutare”, ossia di donare un determinato valore alle cose. Il punto focale della loro riflessione, infatti, consiste nel restituire all’individuo questa vitale consapevolezza, l’unica in grado di spronarlo a guardare la realtà, che lo cinge da ogni parte, con nuovi occhi, e l’unica, inoltre, a dargli la possibilità di creare valori che non denigrino e impoveriscano più l’esistenza, ma anzi la proteggano e difendano con rinnovata foga. Proprio tale consapevolezza impedisce, secondo i disegni dei nostri due filosofi, di lasciare l’uomo avvolto nelle spire di una totale mancanza di senso, anche in seguito all’inevitabile caduta dei valori supremi su cui si è finora basato l’intero fondamento del fenomeno culturale europeo. La particolare forma di nichilismo, adottata da Leopardi e Nietzsche, dunque, si potrebbe definire “temporanea” o, ancor meglio “selettiva”, in quanto essa non nega in assoluto l’esistenza di valori, ma sottolinea il carattere di negazione radicale soltanto di quei peculiari sistemi di valori che tendono ad immiserire la vita. La sua azione consiste, infatti, in un intervento, da parte della volontà, per accelerare il processo di disgregazione di siffatte strutture e lasciare finalmente spazio ad un rinnovamento sostanziale. 67

Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 8.

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Affinché tutto ciò sia possibile, è necessaria una filosofia del disinganno attiva e coerente, che vada innanzitutto a recuperare l’uomo da quel mondo fallace e illusorio della metafisica, presso cui momentaneamente dimora. La navigazione intrapresa da Nietzsche e Leopardi, subisce un’ulteriore battuta d’arresto cagionata dall’inevitabile urto contro quelle correnti filosofiche, collegate dapprima all’illuminismo, che confluiranno poi, radicalizzandosi, nel positivismo. Il termine illuminismo indica propriamente, sia un periodo della storia europea che coincide approssimativamente col XVIII secolo, sia l’orientamento culturale e l’evoluzione generale delle idee che in esso si manifestarono. Per estensione si può qualificare come “illuministica” ogni forma di pensiero e corrente filosofica che si proponga di rischiarare la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza, della superstizione, dell’oscurantismo, attraverso la conoscenza e la scienza. Il positivismo è, invece, un indirizzo filosofico assai composito, che sorse in Francia nella prima metà del XIX secolo, e nella seconda metà si sviluppò in tutti i paesi europei, a cominciare dall’Inghilterra. Il termine fu coniato da Saint-Simon, e venne poi adottato da Comte per designare lo stadio scientifico del sapere umano, in contrapposizione ai due precedenti, quello teologico e quello metafisico. Per farsi “positiva”, la filosofia deve riconoscere come vero e unico sapere quello delle scienze, di contro alla pretesa tradizionale che la filosofia abbia oggetti privilegiati, o livelli della realtà suoi propri, inattingibili alle scienze. Anziché la ricerca di principi superiori, il compito della conoscenza è solo quello di scoprire leggi di natura, le quali altro non sono che descrizioni abbreviate dei fatti stessi. Benché entrambi i nostri filosofi riconoscano, ad un tale modo di procedere filosofico, il merito indiscusso di aver fatto riacquistare all’uomo una visione nuovamente chiara della verità, avendo dissipato, infatti, la densa e illusoria nebbia della metafisica che lo ottenebrava, pur tuttavia attribuiscono ad esso anche il biasimo di averne ferito gli occhi con la luce viva e cruda della stessa verità, dannosa come l’insopportabile riverbero del sole sulla neve. L’aspetto positivo è così descritto da Leopardi in un pensiero dello Zibaldone: “[…] l’apice del sapere umano e della filosofia […] consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti […]. E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia” (Zib., 305, 7 novembre 1820).

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Mentre l’aspetto negativo è spiegato ottimamente da Nietzsche in una pagina del Crepuscolo degli idoli: “La più cruda luce diurna, la razionalità a ogni costo, la vita chiara, fredda, prudente, cosciente, senza istinto, in contrasto agli istinti, era essa stessa soltanto una malattia, una malattia diversa […]”68. Per Leopardi e Nietzsche, infatti, una filosofia che si presenta sotto le spoglie di scienza, ovvero come mera conoscenza e inclemente svelamento della verità, arreca all’individuo danni addirittura maggiori e più lesivi di quelli provocati dalle molteplici seduzioni della metafisica. Tale giudizio acquista coerenza, eliminando ipotetiche contraddizioni e squilibri, solo alla luce di quel risoluto capovolgimento, al quale diedero vita i nostri pensatori, concernente il rapporto intrattenuto dalla verità con la felicità. Di contro all’asserzione caldeggiata da Socrate e approvata dalla quasi totalità dei filosofi della tradizione occidentale, convergente in una piena coincidenza di verità e felicità, si staglia la visione di Nietzsche e Leopardi che percepisce, invece, queste due componenti come perentoriamente incompatibili. La visione della crudezza e dell’asprezza della verità, infatti, dissolve in un soffio quell’illusione di felicità in cui è dolce cullarsi. La soluzione di maggiore efficacia sarebbe forse quella di proseguire a crogiolarsi e deliziarsi nell’illusione, evitando, così, la dolorosa ricognizione della verità. A tal proposito, Leopardi sostiene: “ Dicono che la felicità dell’uomo non può consistere fuorché nella verità. Così parrebbe, perché qual felicità in una cosa che sia falsa? […] Eppure io dico che la felicità consiste nell’ignoranza del vero” (Zib., 326, 14 novembre 1820). E Nietzsche, a sua volta, si chiede: “Posto pure che noi vogliamo la verità: perché non, piuttosto, la non verità? E l’incertezza? E perfino l’ignoranza?”69. Per i nostri due filosofi, infatti, l’accertamento della verità comporta deleteri effetti collaterali a scapito dell’individuo, che essi prontamente ci illustrano. Lasciamo, dapprima, la parola a Leopardi che dichiara: “L’intera filosofia è del tutto inattiva, e un popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione” (Zib., 520, 17 gennaio 1821). Nietzsche annuisce, facendo un rapido cenno col capo: “La conoscenza uccide l’azione, per agire occorre essere avvolti nell’illusione […]”70. 68

Id., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 38. Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 7. 70 Id., La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1972, p. 55. 69

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Al che, Leopardi incalza, enunciando: “[…] la ragione pura e senza mescolanza è fonte immediata […] di assoluta e necessaria pazzia” (Zib., 104, 20 gennaio 1820). E rincara la dose: “[…] credono che l’uomo sarà felice quando si regolerà intieramente secondo la pura ragione. Ed allora si ammazzerà da se stesso” (Zib., 223, 23 agosto 1820). Nietzsche continua con energia ad assentire, spiegando: […] la cognizione dell’universale menzogna e falsità che ci è oggi fornita dalla scienza – il riconoscimento dell’illusione e dell’errore come condizione dell’esistenza conoscitiva e sensibile – non sarebbe affatto sopportabile. Le conseguenze dell’onestà sarebbero la nausea e il suicidio71.

Ciò che Leopardi e Nietzsche contestano ai filosofi illuministi, malgrado quanto appena descritto minutamente, non è quella loro accanita ostinazione di palesare la verità, ma quell’assurda ed erronea sovrapposizione che tende a ridurre il ruolo del filosofo a quello dello scienziato. Anche per i nostri due pensatori, infatti, è di fondamentale importanza il momento in cui il filosofo mostra l’ardire e il coraggio di fissare negli occhi la verità, sebbene tale svelamento non ne esaurisca assolutamente la mansione caratteristica. Queste dure parole di Leopardi servono da ammonimento per quei filosofi codardi e d’animo angusto che si scervellano, affannati, allo scopo di trovare nuovi sotterfugi in grado di mantenere la verità a dovuta distanza: […] calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di […] mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera72.

Anzi, la verità, una volta scoperta, diverrà sostanza malleabile nelle esperte e creative mani del filosofo. La profonda differenza che intercorre tra filosofia e scienza è ben spiegata, però, da un pensiero di Nietzsche, che troviamo tra le pagine di Umano, troppo umano: […] la conoscenza per la vita deve apparire la più grande possibile. È questo l’antagonismo fra i singoli campi scientifici e la filosofia. Quest’ultima vuole […] dare al vivere e all’agire la massima profondità e il massimo significato

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Id., La gaia scienza, cit., p. 146. G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 603.

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possibili; nei primi si ricerca la conoscenza e nient’altro – qualunque cosa ne debba risultare73.

Il filosofo possiede, dunque, quell’incalcolabile valore dell’attività creativa e proprio per questo suo carattere essenziale, sbottano all’unisono, risentiti, Leopardi e Nietzsche, non può certo essere equiparato allo scienziato che, come uno specchio, si sente appagato dal lasciar scorrere su di sé passivamente le immagini della conoscenza. Puntualizza Nietzsche nuovamente: “La sua anima rispecchiante ed eternamente levigantesi non sa più affermare, non sa più negare; egli non dà ordini e neppure distrugge”74. Un ultimo cenno è d’obbligo, prima di assaporare l’analisi della dimensione creativa propria dell’uomo. Benché, come tra breve avremo modo di rilevare, l’attività creativa riguarderà da vicino esclusivamente l’aspetto immaginativo dell’individuo, inducendo, dunque, entrambi i nostri filosofi ad un’energica azione di abbattimento di quei subdoli imbrogli e ingannevoli raggiri messi in campo dall’intelletto, tuttavia alcuni di questi errori saranno comunque ammessi. Leopardi e Nietzsche pongono, infatti, in essere una sorta di “pragmatismo vitale”, che consiste sostanzialmente nell’accettare solo quegli errori dell’intelletto, definiti “utili”75, o meno “anti-vitali”76 di altri, che saranno in grado di svolgere un’efficace azione positiva sulla realtà dell’esistenza. Vi sono errori, divenuti a tal punto parte integrante del tessuto connettivo dell’essere umano e della sua stessa vita, che, estirparli con la forza, produrrebbe un danno ancor più profondo di quello cagionato dalla loro stessa natura di errore. Lasciamo, quindi, la parola a Leopardi che così si esprime: Conchiudo che la filosofia la quale sgombra dalla vita umana mille errori non naturali che la società aveva fatti nascere, la filosofia la quale riduce gl’intelletti della moltitudine alla purità naturale […] è dannosa e distruttiva della società, perché quegli errori […] sono necessari alla sussistenza e conservazione della società […] (Zib., 4135-36, 18 aprile 1825).

E a Nietzsche che, condividendone appieno l’idea, commenta: Per immensi periodi di tempo l’intelletto non ha prodotto nient’altro che errori: alcuni di questi si dimostrarono utili e atti alla conservazione della specie: chi si 73

F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, cit., p. 19. Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 111. 75 Id., La gaia scienza, cit., p. 152. 76 G. Leopardi, Zibaldone, 521, 17 gennaio 1821. 74

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imbatté in essi o li ricevette in eredità, combatté con maggiore fortuna la sua battaglia per se stesso e la sua prole.

E conclude, chiarendo: “[…] la forza delle conoscenze non sta nel loro grado di verità, bensì nella loro età, nel loro essere incorporate, nel loro carattere di condizione di vita”77. Leopardi e Nietzsche ci hanno fatto un dono. È giunto finalmente il momento di avventarci su di esso per scartarlo, con quell’impeto colmo di curiosità che, da bimbi, ci faceva addirittura tremare dall’emozione. Dal nostro pacco divelto, spuntano due splendide ali, che rappresentano metaforicamente quella potenza creativa che costituisce l’essenza stessa dell’uomo. È come se l’essere umano fosse una strana specie di uccello che, costretto a vivere entro il limitato spazio di una gabbia, avesse atrofizzato le sue ali e disimparato totalmente a volare. Un giorno, però, questo goffo animale, avendo trovato la porticina della sua dimora sbadatamente aperta, guadagnò la libertà. Finché riuscì a procurarsi il cibo razzolando qua e là, non fece neppure caso a quei due mozziconi di ala, distesi sul fianco, che si portava appresso. Ma, un periodo di siccità rese arida la terra, secche le piante e diminuì drasticamente la possibilità di reperire nutrimento. Il nostro buffo e affamato uccello vide allora, adagiato sul fondo di uno stagno, un granchietto prelibato che avrebbe proprio fatto al caso suo e senza ulteriore indugio si immerse nell’acqua. Sommerso dall’acqua, però, si rese immediatamente conto di non poter respirare, dal momento che quello non era il suo naturale ambiente. Fu lì che si rammentò di possedere un paio di ali, si diede, dunque, con esse, una rapida spinta e, riconquistato il suo cielo, si librò in volo. Questa fiabesca similitudine ci consente di ripercorrere brevemente le tappe principali del tragitto filosofico leopardiano e nietzschiano. I nostri due pensatori, infatti, restituiscono dapprima all’individuo la libertà di cercare la verità, senza più quell’oppressione esercitata dai condizionamenti falsi e ingannevoli, imposti da alcune dottrine filosofiche. L’uomo, dunque, si tuffa senza remore nelle acque della verità fino a toccarne il fondo, ossia fino a visualizzarne la raccapricciante e spaventosa fisionomia. Qui, diviene consapevole che la sola compagnia della verità, totalmente dispiegata, lo condurrà a sicura distruzione e morte.

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F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 150.

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Per Nietzsche e Leopardi, l’uomo può ancora salvarsi. Un deciso battito delle sue ali creative lo toglierà dalle limacciose acque della verità, facendolo volteggiare nell’infinito cielo dell’illusione. Una considerazione introduttiva è necessaria. Entrambi i nostri autori, infatti, tributano un sincero omaggio e un sentito ringraziamento a quel turbamento profondo che la vista della verità suscita nell’uomo. Se tale agghiacciante impressione, dunque, non avesse pungolato la potenza creativa insita nell’individuo, essa sarebbe, con tutta probabilità, rimasta sonnolenta in un angolo per cadere, poi, inevitabilmente in disuso. Ecco le parole di Nietzsche, aliene da simulazione: “Vi è saggezza nel fatto che molte cose al mondo abbiano un odore cattivo: proprio la nausea fa spuntare le ali e crea energie presaghe di sorgenti!”78. Per Leopardi e Nietzsche, la filosofia stessa, quindi, si trasforma in una sorta di “gioco creativo”, ovvero l’attività creativa organizza in forme la materia proveniente dalla verità, producendo illusioni protettrici della vita. È come se la verità fosse un’ampia spiaggia di finissima sabbia e noi potessimo modellarla, dando vita alle forme più svariate, avendo come unico limite quello della nostra immaginazione, e come unico objettivo, l’amore per la vita. I nostri due filosofi incitano con ogni mezzo l’individuo a mettere in moto al più presto l’agire creativo, soltanto così, infatti, potrà rendere belle le cose che tali non sono ed appassionarsi alla vita. La filosofia diventa così “arte di vivere”79, diviene “filosofia pratica”80. A tal proposito, Leopardi asserisce: E riducendo l’osservazione al generale troveremo il suo fondamento nella natura delle cose, vedendo come […] l’uso della pura ragione […] abbia istecchito e isterilito questa povera vita, e come tutto il bello di questo mondo consista nell’immaginazione […]” (Zib., 111, 30 aprile 1820).

La creatività agisce, a parere di Leopardi e Nietzsche, attraverso l’immaginazione, producendo illusioni che ammantano le cose e donano loro piacevolezza. L’illusione è una specie particolare di errore, che si potrebbe, per chiarezza, definire “consapevole”. L’illusione è, infatti, il risultato della riconfigurazione del materiale proveniente dalla stessa verità. Chi crea illusioni, dunque, è perfettamente a conoscenza dell’aspetto terribile della verità e lo accetta per poi trasformarlo. 78

Id., Così parlò Zarathustra, cit., p. 241. Id., Frammenti postumi, 1887, 9 [57]. 80 G. Leopardi, Zibaldone, 4518, 31 maggio. 79

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È come se l’illusione fosse neve. Essa cade soffice sugli oggetti del mondo, e senza mutarne la natura, li avvolge, addolcendone i contorni e rendendo ovattati i rumori. Anche lo scorcio di una città industriale, se innevato, può diventare magico e denso di fascino. Leopardi, quindi, dichiara: Le illusioni non possono esser condannate, spregiate, perseguitate se non dagl’illusi, e da coloro che credono che questo mondo sia […] qualcosa di bello, illusione capitalissima: e quindi il mezzo filosofo combatte le illusioni perché appunto è illuso, il vero filosofo le ama e le predica […]. (Zib., 1715, 16 settembre 1821).

E Nietzsche precisa: “[…] mi sono destato di colpo in mezzo a questo sogno, ma solo per essere cosciente che appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire […]”81. Infatti: “Vivere è la condizione per conoscere. Sbagliare è la condizione per vivere […]. Conoscere l’errore non lo elimina! […] Dobbiamo amare e curare l’errore […]”82. Rimane un’ultima indagine da compiere, ossia capire di quale materiale siano costituite le nostre ali creative. I nostri due filosofi ci rispondono ch’esse sono formate interamente da poesia, sono composte, cioè, dall’immenso potere di trasformazione che solo la parola ha la capacità di possedere. Dal momento che: “[…] sono indicibilmente più importanti i nomi dati alle cose di quel che esse sono. […] basta creare nuovi nomi e valutazioni e verosimiglianze per creare, col tempo, nuove “cose” (ivi, p. 218). L’attività creativa, infatti, secondo Leopardi e Nietzsche, si deve nutrire principalmente di contemplazione. L’individuo deve, dunque, sapersi ritagliare vasti spazi in cui perdersi a guardare attentamente e ad ascoltare il rumore sommesso e strisciante del mondo che gli passa accanto. La meditazione prodotta sarà parola e cambierà quello stesso mondo. Grida Nietzsche con entusiasmo: “Siamo noi, i pensanti-senzienti, a fare realmente e continuamente qualcosa che ancora non esiste […]” (ivi). La parola che sarà destinata a portare a termine una simile impresa titanica, non sarà semplice parola, bensì, appunto, poesia. La poesia rappresenta, infatti, l’emblema stesso della potenza creativa. Leopardi, spiega, emozionato:

81 82

F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 99. Id., Frammenti postumi, 1881, 11 [162].

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L’imitazione tien sempre molto del servile. Falsissima idea considerare e definir la poesia per arte imitativa […]. Il poeta immagina: l’immaginazione vede il mondo come non è, finge, inventa […]: creatore, inventore, non imitatore; ecco il carattere essenziale del poeta (Zib., 4358, 29 agosto 1828).

Nietzsche, dunque, si domanda: “Quali mezzi abbiamo per renderci belle, attraenti, desiderabili le cose, quando non sono tali? – e io penso che in sé non lo siano mai!”. E così risponde: […] dobbiamo imparare dagli artisti, e per il resto essere più saggi di loro. In essi, infatti, questa sottile forza cessa di solito, laddove cessa l’arte e comincia la vita; noi invece vogliamo essere i poeti della nostra vita e in primo luogo nelle cose minime e quotidiane83.

Il poeta agisce creativamente, edificando mondi illusori e dando vita a false configurazioni del reale verso le quali guardare, per gustare appieno il sapore agrodolce dell’esistenza. Il suo intervento ingannevole consiste nel riempire questi mondi di immagini totalmente prive di una netta e precisa linea che le circoscriva esternamente. L’immaginazione viene stimolata, dunque, da una simile circostanza, ad arrotondare e smussare quel contorno sfumato, al fine di renderlo ancora più armonioso. La creatività poetica, inoltre, è “duplice”. Essa non si palesa, infatti, soltanto nel poeta che concretamente fissa sulla carta tali immagini, ma anche nel lettore e fruitore di poesia, che adopera la sua facoltà inventiva per completare, a suo piacimento, quell’abbozzo di immagine che il poeta tratteggia incompiutamente. L’effetto positivo di un tale procedere ha il proprio fondamento nella possibilità, accordata ad ognuno di noi, di far assumere al mondo la forma desiderata e strenuamente auspicata. In che modo, dunque, il poeta riesce a dissolvere i confini delle immagini? La produzione poetica leopardiana ce lo mostra chiaramente. Il poeta deve, infatti, rifuggire dal ritrarre immagini di situazioni presenti. Ciò che è presente è reale, e come tale è ben determinato e privo di incertezze o approssimazioni. Il poeta, quindi, deve riprodurre unicamente immagini dai limiti sgretolati o inesatti, come quelle che vedono protagonista il passato, i cui contorni sono stati addolciti dall’azione lenitiva del tempo, o quelle che parlano di

83

Id., La gaia scienza, cit., p. 215-216.

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futuro e si cibano con ingordigia dell’incertezza di ciò che ancora non è avvenuto. Leopardi, per esempio, farà vestire alla speranza i panni della giovinezza, periodo della vita che si nutre di sogni e progetti per l’avvenire, o quelli della primavera, stagione in cui i fiori non sono ancora divenuti frutti. Prediligerà, così, immagini di circostanze non mai pienamente realizzate e concluse, tali da lasciare spazio alle innumerevoli declinazioni che la creatività può assumere. Dissipare limiti, rimuovere confini, significa, anche, dare all’infinito diritto di cittadinanza nel territorio della poesia. L’infinito è, infatti, ciò che si presenta come assolutamente avulso da limiti e determinazioni spaziali e temporali, proprio per questo nella realtà non può esistere. Puntualizza Leopardi: “Niente nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, […] è un sogno, non una realtà […]” (Zib., 4177, 2 maggio 1826). Plachiamo anche noi, quindi, quell’assillante bisogno di infinito che ineluttabilmente ci attanaglia e prepariamoci a spiccare quel tanto sospirato primo volo creativo nel cielo dell’illusione che Leopardi ci ha apprestato: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare (L’infinito, 1819).

3.6 Vita o sopravvivenza: il ruolo della dimensione creativa nel pensiero leopardiano e nietzschiano L’enorme rilievo che Leopardi attribuisce alla dimensione creativa, ovvero all’arte della parola, non può essere compreso appieno se da essa si recide quell’insopprimibile componente agonistica del pensiero leopardiano. 176


Come tutti i bimbi che, dopo aver ascoltato le favole lette loro amorevolmente dai genitori, fanno un’accurata disamina dei personaggi che le popolano, per scegliere quello che maggiormente incarna la loro indole, immedesimandovisi, così anche il piccolo Giacomo, da subito e per sempre, elesse senza indugi lo schieramento al fianco del quale combattere. Il suo interesse non ricadde mai, infatti, su quegli eroi che, certi della propria superiorità e dello scontato esito della contesa, ingaggiavano scontri a cuor leggero, bensì investì quegli uomini che, sebbene consapevoli dell’estrema difficoltà dell’impresa, non rinunciavano a fronteggiare il nemico con negli occhi il bagliore dell’audacia e della sfida. È come se, in un violento alterco scoppiato tra cani, prendessimo le parti, non di un nerboruto alano, ma di un ardimentoso e certamente impavido chihuahua. Perciò, quando nel 1809, Leopardi si appassionò alla lettura dell’Iliade, nelle due versioni italiane reperibili in casa, quella del Cesarotti e di Giacinto Ceruti, parteggiò per Ettore, disdegnando l’altezzosità e la boria di Achille, oppure, quando i movimentati giochi in giardino riproducevano frammenti di storia, egli si identificò sempre con l’idealista Pompeo, dopo aver intimato al fratello Carlo di impersonare il dispotico Cesare. Fu proprio a causa di questa sua indiscussa predilezione che Leopardi decise di dedicare le sue prime composizioni poetiche, come il sonetto del 1809, La morte di Ettore o il Catone in Affrica, dell’anno successivo, alla celebrazione di quei molteplici eroi soccombenti che davano vita alle sue fanciullesche fantasie. Questa passione fatale non si esaurirà con il progredire dell’età, ma anzi, saprà mettere profonde radici nella meditazione matura di Leopardi. Prima, però, di considerare gli sviluppi susseguenti che una tale presa di posizione implicherà e di coinvolgere la dimensione creativa, dobbiamo soffermarci su alcuni autori che condivisero con Leopardi il medesimo modo di sentire e con i quali entrò in contatto. Uno scrittore che Leopardi giovinetto particolarmente amò e che innalzò, dopo la lettura della sua autobiografia, nel novembre 1817, a incontrastato modello umano, prima ancora che letterario, fu Vittorio Alfieri. Di nobile e ricca famiglia, abbandonò ben presto una carriera militare intrapresa controvoglia, per viaggiare in tutta Europa. La sua giovinezza fu, quindi, tutt’altro che noiosa, movimentata da amori, duelli e tentati suicidi, fin quando, a seguito dell’inaspettato successo della sua prima tragedia, Antonio e Cleopatra, presentata a Torino nel 1775, si convertì totalmente al teatro e alla poesia. Allo stile dominante, lezioso e arcadico, preferì un modo di esprimersi conciso, sobrio, un dialogo serrato e scarno.

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Nucleo fondamentale della sua poesia è il pessimismo sulla capacità della personalità umana di manifestarsi liberamente. L’Alfieri, interprete dello spirito rivoluzionario di fine settecento, pone il problema politico della lotta contro il tiranno, forza del male anche in termini morali, al fine di spronare l’individuo ad affermare comunque la propria libertà di coscienza. Pertanto le sue opere contengono sempre la lotta, sfortunata, dell’eroe contro la tirannide. Il carisma dell’Alfieri galvanizzò Leopardi, che gli consacrò alcuni versi di una canzone, composta a Recanati nel gennaio del 1820 e che così recita: Allobrogo feroce, a cui dal polo maschia virtù, non già da questa mia stanca ed arida terra, venne nel petto; onde privato, inerme, (memorando ardimento) in su la scena mosse guerra a’ tiranni: almen si dia questa misera guerra e questo vano campo all’ire inferme del mondo84 (vv. 155-163).

Già nell’Alfieri, dunque, la lotta tra eroe e tiranno è portata su un piano che non è più esclusivamente politico, ma raggiunge, ampliandosi, uno sviluppo anti-teistico. A sua volta, questo atteggiamento alfieriano di rivolta contro la divinità e il fato si nutriva, attingendone a piene mani, di tutta una tradizione classica che aveva avuto il suo massimo esponente in Lucano. Poeta latino, nipote del filosofo Seneca, mostrò ingegno precocissimo. Entrato nella cerchia degli amici di Nerone, la gelosia poetica di questi generò tra i due un odio mortale. Lucano fu l’anima della congiura pisoniana contro il principe, scoperta la quale, il poeta fu costretto ad uccidersi, tagliandosi le vene. Della sua consistente produzione poetica, è rimasto il poema più famoso, la Farsaglia, in dieci libri, incompiuto a causa della morte violenta dello stesso autore. Argomento dei primi otto libri è la guerra civile tra Cesare e Pompeo, mentre il nono e il decimo narrano le imprese di Cesare in Africa. Lucano scelse una materia genuinamente romana e quasi contemporanea, bandendo così ogni possibile residuo mitologico o leggendario. Le sue simpatie ricaddero ovviamente sul vinto Pompeo, difensore strenuo della libertà, contro Cesare, oppressore di essa, benché il vero protagonista del poema

84 G. Leopardi, Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, 1820, vv. 155-163.

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fosse in verità Catone, simbolo dell’inestinguibile aspirazione dell’uomo alla libertà. L’influsso lucaneo agì su Leopardi soprattutto attraverso l’amicizia con il Giordani, il quale mostrò particolare affinità ideologica con il poeta anticesariano per antonomasia, anche se fu ostile allo stile enfatico e all’aggressività verbale delle sue produzioni. Probabilmente anche il cugino di Leopardi, Francesco Cassi, che aveva speso parte della vita nel volgarizzamento della Farsaglia, la cui stesura definitiva vide la luce nel 1837, più volte gliene parlò, confrontandosi con lui. Anche per Leopardi, dunque, come per l’Alfieri e per Lucano, la protesta ebbe natura proteiforme. Dapprima, infatti, si concretò in una polemica esigenza di azione politica. Tre furono le poesie che meglio fecero trasparire questa leopardiana lotta civile, due scritte nel 1818, All’Italia e Sopra il monumento di Dante, e una nel 1820, Ad Angelo Mai. Queste composizioni sono, infatti, ricolme del malcelato disprezzo che Leopardi riversava sui contemporanei, incapaci del benché minimo ardimento nel combattere per restituire libertà alla propria patria, “ancella”85 ormai dell’invasore straniero, ma pronti a morire “per li tiranni suoi”86, a fianco, cioè, dell’esercito napoleonico nella glaciale Russia. Livido, così Leopardi si rivolse all’Italia: nessun pugna per te? Non ti difende nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo combatterò, procomberò sol io87 (vv. 36-38).

La successiva riflessione leopardiana, consapevole dell’ingenita infelicità propria dell’essenza dell’uomo, stimò del tutto risibile il continuare ad affaccendarsi in complicate questioni politiche. Leopardi chiarì il suo mutato punto di vista in una lettera a Giordani: […] considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere le perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degl’individui88.

85

Id., All’Italia, 1818, v. 24. Id., Sopra il monumento di Dante, 1818, v. 136. 87 Id., All’Italia, 1818, vv. 36-38. 88 Id., Epistolario, cit., p. 1370. 86

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Esaurito il filone politico, la battaglia di Leopardi assunse i connotati di una vera e propria opposizione dell’uomo contro il destino, il fato, l’ordine stesso del mondo. Nella produzione poetica leopardiana, il ruolo del fiero eroe che guerreggia con la necessità, è affidato a Bruto, beniamino di Leopardi, divenuto, poi, emblema di quest’aspra lotta. Quelle che più in profondità fecero vibrare le corde dell’emozione leopardiana, furono le parole che Bruto, congiurato contro Cesare, poco prima di togliersi la vita nel 42 a. C., pronunciò con tutto l’impeto di cui era capace: “Non in re, sed in verba tantum esse virtutem”89. Parole che Leopardi rinvenne leggendo la Storia romana di Cassio Dione e gli scritti di Floro, e che non seppe dimenticare perché costituivano il cuore stesso del suo pensiero. Anche per Leopardi, infatti, la virtù, la gloria, l’amore, altro non sono che illusioni, errori palesi, semplici parole, tuttavia il combattere per esse costituisce la necessaria e non valicabile linea di demarcazione tra l’uomo che realmente “vive” e quello che si contenta solo di “sopravvivere”. Chiarisce Leopardi: “[…] la cognizione del vero è fonte di […] bassezza d’animo, iniquità e disonestà di azioni: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi […]”90. La contrapposizione tra i due diversi modelli umani, dunque, che Leopardi ha in mente viene resa palese nel Bruto minore, canzone del 1821, dallo scontro tra la figura del “prode” che “guerreggia”91 e del “plebeo” che “si consola” (ivi, v. 35). Per meglio capire, riportiamo la spiegazione che lo stesso Leopardi, in un suo scritto, ci fornisce: […] è proprio degli spiriti grandi e forti […] il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino […]. Proprio degli spiriti deboli di natura […] si è il cedere e conformarsi alla fortuna e al fato, il ridursi a desiderare solamente poco, e questo poco ancora rimessamente; anzi, per così dire, il perdere quasi del tutto l’abito e la facoltà siccome di sperare, così di desiderare92.

Per Leopardi, infatti, un’anima grande non potrebbe mai capitolare dinnanzi al destino, senza averlo prima valorosamente combattuto, imbracciando 89

Id., Zibaldone, 523, 18 gennaio 1821. Id., Operette morali, cit., p. 585. 91 Id., Bruto minore, 1821, v. 39. 92 Id., Preambolo del volgarizzatore, Newton 1997, p. 1074. 90

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l’arma delle illusioni, altrimenti un odio atroce verso sé la pervaderebbe, distruggendola93. È proprio a questo punto che entra finalmente in scena la dimensione creativa, quell’arte poetica della parola che sola, come terreno fertile e ricco, ha il potere di far germogliare in sé quei “dolci inganni”94 e “leggiadri errori”95. Le illusioni, infatti, sono solo parole e come tali possono vivere soltanto in un mondo predisposto per accoglierle, quello della poesia. Per Leopardi, inoltre, un uomo “vive”, quando ascolta nel petto il proprio cuore che incessantemente pulsa in preda a sensazioni o sentimenti intensi cagionati dalla presenza delle illusioni, “muore” quando quello stesso cuore “più non sente”, diventando “un sepolcro ambulante”96 e nulla più. È come se, per Leopardi, il cuore umano assomigliasse a quei sonagli di terracotta che si appendono in prossimità delle finestre e che esprimono la loro essenza, solo quando, ebbri di vento, possono cantare il loro canto. Leopardi grida alle nostre orecchie che una vita priva di affetti e illusioni “è notte senza stelle a mezzo il verno”97, è un freddo vegetare e lento arrancare. Splendide sono le parole con le quali De Sanctis descrisse l’impressione immediata e viva che l’incontro con Leopardi gli lasciò: Perché Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare – chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti perché non abbi ad arrossire al suo cospetto98.

Anche per Nietzsche, la dimensione creativa svolge un ruolo di primaria importanza nella sua multiforme meditazione. Richiamando alla mente alcuni concetti che i paragrafi precedenti hanno già posto in evidenza, a parere di Nietzsche, l’interpretazione creativa ed artistica del reale surclassa nettamente le altre, ovverosia quella scientifica e quella religiosa, rimanendo, ovviamente, nell’ambito limitato della prospettiva organica umana. Questa interpretazione è, infatti, l’unica che deriva da una volontà di potenza forte e attiva e la sola che, conscia della propria vis creativa, rispetta 93

Cf. Id., Zibaldone, 503-04, 15 gennaio 1821. Id., Il risorgimento, 1828, v. 110. 95 Id., Il pensiero dominante, 1831, v. 112. 96 Id., Zibaldone, 4149, 3 novembre 1825. 97 Id., Aspasia, 1834, v. 108. 98 F .De Sanctis, Dialogo tra A e D, cit., p. 26. 94

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la dinamicità e caoticità della realtà, approvandone senza remore tutti gli aspetti. Mentre le rimanenti interpretazioni umane, inconsapevoli di questa potenzialità creativa, si perdono in inutili e infruttuose ricerche di una verità assoluta che, nel pensiero nietzschiano, non gode di alcun diritto di cittadinanza, quella artistica, invece, si dispone favorevolmente essa stessa ad attribuire, ad un reale che ne è privo, “sensi infiniti” senza posa. La conclusione essenziale cui approda Nietzsche è che solo un’interpretazione di tal fatta, dunque, può elevarsi, ammantandosene, ad un nichilismo “attivo”, per il quale tutto, proprio perché è opera nostra, ha più senso e valore della prospettiva tradizionale, in quanto il suo valore è infinito, bistrattando così quel nichilismo “passivo” che, stimando il tutto soggettivo, nega che qualcosa possa avere ancora significato. Nietzsche spiega la sua posizione: Tutta la bellezza e la sublimità da noi prestata alle cose reali e immaginarie, voglio rivendicarla come patrimonio e prodotto dell’uomo: come la sua più bella apologia. […] È stato questo finora il suo più grande disinteresse: di aver ammirato e adorato, e saputo nascondersi di essere stato lui a creare ciò che ha ammirato99.

L’interpretazione artistica e creativa, inoltre, non soltanto celebra, esaltandola oltremodo, questa vita, ma la soverchia abbondanza di potenza da cui trae origine, giunta a contatto con essa, l’avvolge con la sua arrogante ed insolente pienezza, trasfigurandola. Quest’eccesso di forza creativa agisce, rubando l’incredibile immagine nietzschiana, come: […] la felicità di un dio colmo di potenza e d’amore, di lacrime e di riso, una felicità che, come il sole alla sera, non si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge nel mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro100.

Non esistono, dunque, per Nietzsche, semplicemente interpretazioni diverse, provocate da una differente qualità della volontà di potenza da cui derivano, ma anche dissimili tipi umani che danno loro corpo con efficacia. La figura di essere umano che assurge a simbolo dell’interpretazione artistica e creativa è quella dell’Übermensch, del superuomo. Influenzato verosimilmente dall’allora imperante dottrina evoluzionistica, Nietzsche approvò di essa l’idea generale della storicità della natura e 99

F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1887-88, 11 [87]. Id., La gaia scienza, cit., p. 243.

100

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delle specie viventi. Queste ultime non sarebbero, infatti, state create compiute agli inizi dei tempi, come attesta la visione biblica tradizionale, bensì sarebbero protagoniste di una continua evoluzione. Evoluzione che, agli occhi di Nietzsche, in energica opposizione alla visione di Darwin, non conduce necessariamente al perfezionamento o consolidamento del genere umano nella fattispecie, ma è un avanzare del tutto casuale. Nietzsche oppone, quindi, al darwinismo due precise osservazioni: le forme inferiori sono del tutto incapaci di generare forme superiori e sono spesso i deboli a vincere la battaglia della vita. Per Nietzsche, poi, il caso felice è l’espressione della volontà di potenza, che si traduce in chi si appropria dell’ambiente, imponendo il proprio senso, per Darwin invece, è l’espressione dell’animale che possiede gli organi giusti per adattarsi all’ambiente in cui si trova a vivere. Nietzsche ripone, perciò, la sua fiducia proprio in questo incedere casuale, nella speranza che un giorno nuovamente l’interpretazione artistica del reale, incarnata dal superuomo, possa trionfare, scalzando l’egemonia di quell’ “ultimo uomo”101 che fa della debolezza e del risentimento contro l’esistenza, il suo solo scopo. Il superuomo è, infatti, colui che riesce a raggiungere la piena consapevolezza di essere “frammento di fato”102, destino esso stesso. Sarebbe, perciò, del tutto vano e fittizio l’incaponirsi nel combattere o il lasciarsi cedevolmente cogliere dalla rassegnazione di fronte alla necessità del fato, ma senz’altro più giovevole il tramutarla in bellezza. Precisa Nietzsche: “Voglio imparare sempre di più a vedere il necessario nelle cose come fosse quel che v’è di bello in loro – così sarò uno di quelli che rendono belle le cose. Amor fati: sia questo d’ora innanzi il mio amore!”103. Nello Zarathustra, Nietzsche fa indossare al superuomo i panni di un giovane pastore che, risvegliatosi di soprassalto a causa dell’ingombrante presenza di un’orribile e nera serpe nelle sue fauci, emblema dell’eterno ritorno, decise di mozzarle la testa. Queste le parole che descrivono l’istante successivo alla repentina deliberazione: “[…] non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva!”104. La scelta messa in atto dal “pastore-superuomo” non deriva da null’altro che dal suo essere conscio di voler con tutte le forze se stesso, ossia quell’ineluttabile eterno ritorno che rappresenta l’essenza propria del destino, e non dall’esserne dominato o soggiogato come fosse qualcosa di estraneo e opprimente. Anzi, questa risoluzione porta il superuomo anche a 101

Id., Così parlò Zarathustra, cit., p. 9. Id., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 64. 103 Id., La gaia scienza, cit., p. 198. 104 Id., Così parlò Zarathustra, cit., p. 186. 102

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“redimere il passato […] e ricercare ogni “così fu”, finché la volontà dica: “ma così volli che fosse! Così vorrò che sia –” (ivi, p. 233). Attendiamo, perciò, con desiderio e fiducia anche noi insieme a Nietzsche che, in un prossimo futuro, sia l’interpretazione artistica e creativa ad avere la meglio, dal momento che: In questo stato di ebbrezza si arricchisce tutto con la propria pienezza: ciò che si vede, ciò che si vuole, lo si vede turgido, compresso, vigoroso, sovraccarico di forza. L’uomo in questo stato trasforma le cose, sino a che esse rispecchino la sua potenza – sino a che diventino i riflessi della sua perfezione. Questo dover trasformare in ciò che è perfetto è – arte105.

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Id., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 87.

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Cominciamo a frequentare questo spazio aperto con alcuni contributi filosofico-musicali che il nostro amico Armando De Vidovich ha recentemente presentato nei Seminari di “Filosofia e vita quotidiana” dell’Istituto Filosofico Lombardo ospitati dalla Fondazione Humaniter presso la Società Umanitaria (sede di Milano)

Armando De Vidovich (1937-2014) dopo aver ottenuto il diploma di maturità classica a Cremona nel 1956 si trasferì a Milano per iscriversi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi, detta “la Statale” per distinguerla dalle altre tre università milanesi (Università Cattolica del Sacro Cuore, Università Commerciale “L. Bocconi” e Politecnico) a loro volta designate con un nomignolo gergale: “la Cattolica”, “la Bocconi” e “il Poli”. Per un concorso di vari eventi, accademici e non, proprio nell’anno nel quale Armando vi si iscriveva il corso di laurea in Filosofia della Statale di Milano divenne uno dei più importanti e autorevoli corsi di quel genere in Italia. Il suo corpo docente era formato da studiosi piuttosto giovani e di notevole preparazione, accomunati dall’essere apertamente laici e antifascisti, il che – allora – bastava a differenziarlo notevolmente dai corpi docenti dei corsi di laurea in Filosofia di gran parte delle altre Università italiane. A “Filosofia della Statale”, come la chiamavano studenti e professori, il rapporto docenti/discenti era ancora bassissimo: le matricole dell’anno accademico 1956/57 erano appena una quindicina e, sommandole agli iscritti degli anni in corso, l’insieme degli studenti non superava le cinquanta unità. Le piccole dimensioni della popolazione universitaria favorivano la miglior integrazione possibile fra studenti e professori: gli insegnanti erano incalzati da domande, richieste di orientamenti specifici, di bibliografie e gli studenti si facevano un punto di orgoglio di presentarsi agli esami soltanto dopo una preparazione quanto più accurata possibile, avendo letto i testi degli autori prescritti nella lingua originale, e dopo aver seguito scrupolosamente tutte le lezioni. L’interesse di Armando per gli studi filosofici si integra con la passione per la musica, praticata fin dall’adolescenza e sempre vissuta con impegno pur senza farne oggetto di studi formali. Iniziò a 14 anni col pianoforte e 185


successivamente prese lezioni di canto per educare formalmente la sua dote naturale di baritono/ basso. Armando vive intensamente l’esperienza universitaria, frequenta tutte le lezioni che gli è possibile seguire rispettando il piano di studi e verso il terzo anno concorda l’argomento della tesi – “Teoria dell’intenzionalità nella fenomenologia di Husserl” – con Enzo Paci, titolare di Filosofia Teoretica, col quale la discute nell’anno accademico 1960/61 ottenendo il massimo dei voti e la lode. La vivacità dello sviluppo economico agli inizi degli Anni Sessanta induceva numerose grandi aziende industriali ad assumere giovani laureati in materie umanistiche per impiegarli in ruoli complementari a quelli tradizionali della produzione e delle vendite, quali la pubblicità e la comunicazione. In tale contesto, all’indomani della laurea il giovane De Vidovich accetta di entrare nel settore pubblicitario della Pirelli, dove inizia una carriera manageriale che lo vede spostarsi dopo tre anni dalla Pirelli all’Alfa Romeo, dove resta altri quattro anni per poi passare al settore dei beni di consumo entrando in Alemagna nel 1969 e rimanendovi fino al 1973. Nei tredici anni trascorsi come lavoratore dipendente Armando non abbandona i suoi interessi culturali e pubblica su varie riviste numerosi articoli di critica musicale. Dalla fine del 1973 per il resto dei suoi anni Armando si guadagna da vivere come libero professionista, per un lungo periodo in società con un grafico olandese Coenraad Smit col quale fonda una società di servizi di comunicazione chiamata Flauto magico, che ottiene numerosi e lusinghieri successi nel campo della comunicazione grafica e dei marchi. Nel 1990 i soci decidono di chiudere Flauto magico, Smit torna in Olanda e De Vidovich continua a lavorare nel settore come free lance, dedicando progressivamente molto più tempo che in passato alla musica, che pratica soprattutto cantando nei complessi corali Anonymi Cantores di Milano e Corale Polifonica Valchiusella di Ivrea diretti dal Maestro Bernardino Streito. Fra il 1995 e il 2005 e dal 2005 al 2012 nel complesso corale Cantosospeso, fondato nel 1987 dal Maestro italo-brasiliano Martinho Lutero Galati de Oliveira, che prende il nome dall’opera del compositore Luigi Nono, di cui Martinho Lutero è stato allievo. Il saggio di filosofia della musica “San Bassàan” che qui pubblichiamo è uno fra i molti studi che Armando De Vidovich ha scritto facendoli conoscere soltanto a pochi amici, per il piacere di scambiare con loro qualche idea. In futuro il “Magazzino di filosofia” ospiterà qualcun altro fra questi studi, che meritano di essere conosciuti. (Michele Pacifico)

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Giovanni Piana presenta un testo di Armando De Vidovich, La lingua moribonda Che cosa è mai una filastrocca di quattro strofe con tre versi ripetuti? Che cosa può dirci, quanto a musica ed a pensieri, e può forse suscitare una riflessione che, oltre a poche cose che riguardano il costume, ci suggeriscano un àmbito più ampio? Ci può portare al di là dell’infantilismo una canzone troppo semplice e forse troppo simile a un canto d’osteria? E poi la bicicletta rotta di cui in essa ci parla potrà interessare al massimo un etnomusicologo piuttosto che rientrare negli interessi filosofici che non hanno certo di mira simili incidenti della vita quotidiana. È possibile che siano queste le domande che il lettore si porrà dopo aver letto le prime righe di questo saggio di Armando De Vidovich – e posso persino immaginare che egli scuota il capo per manifestare le sue perplessità. Ma credo anche che appena poco oltre la lettura della filastrocca questo atteggiamento iniziale muti radicalmente. Da una analisi minuziosa di questo testo elementare – come lo sono, certo, la maggior parte dei testi delle canzoni popolari, ma questo lo è in particolare misura – Armando De Vidovich riesce a trarre a cascata suggestioni, temi, pensieri, racconti sino ad approdare a spunti di amplissimo respiro che riguardano la lingua, la musica, il rapporto testo-musica, il suono stesso e le sue capacità espressive, concludendo con un originalissimo cenno di discussione su lingua-dialetto-gergo che a me sembra possa essere la base di fecondissimi sviluppi. Naturalmente accanto agli aspetti di analisi tecnica non mancano i riferimenti al sociale che sono interni al tipo di musica trattata – e tanto più sono sorprendenti quanto più il materiale è minimo. Basta leggere il commento che ci viene regalato alla fine del testo come una sorta di dono supplementare per rendersi conto della fortissima presenza di questi richiami. Peraltro io sono rimasto colpito soprattutto da questo: che non si tratta tanto di “sociologia”, quanto di un’esibizione di dipinti, di “quadretti” o “scenari”, come una volta si esprime l’autore, che mostrano di scorcio situazioni e ambienti di un passato trascorso: vediamo (o udiamo) interni ed esterni, figure umane che non hanno ormai più un volto, ma la cui sagoma e il cui senso può ancora essere intravisto attraverso la canzone. Ma io desidero lasciare al lettore il piacere di leggere senza troppe anticipazioni questo testo che è magistrale anche letterariamente e per l’equilibrio stilistico da cui è sostenuto. Vorrei soltanto attirare l’attenzione su alcuni aspetti che riguardano le tematiche generali soggiacenti. In realtà, vi è una sorta di filo conduttore che si annuncia fin dall’inizio e che permane, or più or meno in evidenza, sino al termine del saggio. Questo filo ricollega le osservazioni particolari a una ricerca di senso che si affida 187


sia al testo che alla musica secondo una raffinata e sottintesa “filosofia della musica”. Non a caso ben presto, e già nelle considerazioni sul ritmo, fa la sua comparsa la parola “evocazione” o altre che ne riprendono il significato. Sono le evocazioni che debbono essere colte, nella loro determinatezza e indeterminatezza essenziali – e Armando De Vidovich non ha certo timore, tipico di certe analisi pedantesche, di evocare a sua volta, in modo puramente esemplificativo, ma non per questo meno significativo, non solo la “barchetta” del quarto dei Carmina di Catullo, ma Rimbaud, Gadda e addirittura Mussorgsky per la “canzone di Varlaam” del Boris Godunov. Naturalmente, l’autore è ben consapevole della distanza che separa questi richiami dalla filastrocca cremonese, così come è consapevole del fatto che le sue evocazioni debbono essere strettamente interne ad essa – debbono riguardare anzitutto il modo in cui viene organizzato il ritmo e sviluppata la melodia: fatti tecnici, dunque, come il tipo del “levare”, l’assenza di una tonalità decisa, l’andamento tendenzialmente discendente dei segmenti melodici… ma proprio su questi fatti la ricerca del senso è dominante. Da essi scaturiscono aggettivazioni e descrizioni che riguardano la musica, ma che vanno al di là di essa: “… senso di stanchezza, fissità di uno sguardo che non si sa dove andrà a posarsi e che, in un piccolo sussulto, si riaccende a ogni ripresa delle strofa… aria ciondolante e sospesa… clima vagamente depressivo e sconsolato…”. Ma – lo abbiamo già detto – il saggio di De Vidovich va oltre la filastrocca cremonese per aprirsi a un discorso ben più ampio. Esso occupa quella che è una vera e propria sua seconda parte che riguarda ancora la musica, ma culmina in una discussione sui rapporti tra lingua, dialetto e gergo. Il filo conduttore resta tuttavia quello che abbiamo detto, e anzi proprio qui esso appare ancora più chiaramente delineato. Infatti questa parte si apre sull’“espressività” del dialetto come un’espressività essenzialmente sonoro–musicale. La musica, e il suono stesso, “prima di comunicare accoglie, crea risonanze emotive prima che comprensione di significati”; e ciò, sostiene De Vidovich, si può dire anzitutto del dialetto che affida la comunicazione alla parola, certo, ma ad una parola intonata da inclinazioni sonore del genere più vario (“intonazioni interrogative, scettiche, di sfida, dubitative, assertive, sarcastiche, partecipative, provocatorie, in una gamma di scelte relazionali che nessun altro espediente linguistico riuscirebbe a realizzare con altrettanta rapidità ed efficacia”). In questo avviamento del problema il tema dell’evocazione viene realmente in primo piano. Certo, uno dei meriti di questo saggio è quello di rifiutare con estrema nettezza le plateali rivendicazioni di una rinascita forzosa del dialetto. Il suo titolo è sotto questo riguardo significativo. Il dialetto è una lingua moribonda – ma questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare alla custodia dei ricordi che esso 188


contiene, della loro densità affettiva e immaginativa, e dei paesaggi da esso evocati. Nelle interpretazioni che ci offre Armando De Vidovich la filastrocca del biciclista è diventata musicalmente soprattutto il canto del grande fiume: “la pigra mandata uguale e pur potente della sua acqua, la fissità pallida del paesaggio”. Ora, dopo questa lettura, la sentiamo così, e il massimo risultato che può conseguire un testo che abbia per argomento un brano musicale è quello di condurci di passo in passo a mutare il nostro ascolto di esso e di farci comprendere il suo senso. (G. Piana)

Armando De Vidovich, La lingua moribonda. Lettura di un canto popolare cremonese  Più che un canto sarebbe una filastrocca canora, e il suo testo, al contrario di quel che può accadere per molte arie o canzoni, andrebbe cantato o ascoltato, prima che letto, o anche, da chi ha sufficiente dimestichezza con le note, guardato sul pentagramma:

In primo approccio, anche per facilitare chi non ha quella dimestichezza, si può vederlo in una sua caratteristica marcante: la triplice ripetizione dello stesso verso in ogni strofa: La lu e la le a San Bassàan

 Nei dialetti lombardi la vocale “o” non accentata (con) si pronuncia “u” (cun); la vocale “u” (lu) si pronuncia come in fr. (o come il ted. ü) (lü); il dittongo “oeu” (si pronuncia come il fr. oe o il ted. ö) (carioeula). Per es.: l’it. “con lui” si scrive “con lu” e si pronuncia “cun lü”; l’it. “con la carriola” si scrive “con la carioeula” e si pronuncia “cun la cariöla”. [n.d.r.]

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la lu e la le a San Bassàan la lu e la le a San Bassàan in bicicléta. La bicicléta la va pu, la bicicléta la va pu, la bicicléta la va pu perché l’è rô ta. E se l’è rô ta. fala giustàa, e se l’è rô ta. fala giustàa, e se l’è rô ta. fala giustàa dal biciclista. El biciclista l’è a l’ospedàal el biciclista l’è a l’ospedàal el biciclista l’è a l’ospedàal che l’è malàa.

* * * Il testo ha una sua singolarità, ma, anche se un’analisi letteraria – come più avanti proposta – può già bene illuminarne lo scenario, solo l’anima sonora, ossia il cursus melodico di ritmo e suono, ne rivela una speciale forza evocativa. È il contrario dello Sprachgesang. Il canto parlato caro agli espressionisti è uno squarcio nel tessuto melodico e armonico in cui la parola irrompe rispettandone in qualche modo solo o la trama o l’ordito, ossia il ritmo e il posizionamento variabile nell’altezza dei suoni. Con questo espediente la parola si sottrae alle coordinate dello spazio musicale, si svincola brutalmente dalle direttrici del sistema, tonale o atonale che sia, per affermare, con la sua improvvisa estraneità, un primato semantico e narrativo. È come se denunciasse l’insufficienza della parola cantata, il bisogno di enfatizzare il verbo e non il suono che lo riveste. Però, pur estraniata dal canto per essere parola, non la si sente come una vera e propria parola, ad esempio come un recitativo parlato, ma come una parola intensificata, “detta musicalmente”. Nel caso in esame invece – potremmo giocare ai contrari e dire Singgespräch, discorso cantato – uno sviluppo musicale minimale e poverissimo ricava qualcosa proprio dalla sua sconcertante ripetitività cui manca ogni sviluppo compositivo; ricava, paradossalmente, uno spessore intenzionale 190


ed evocativo che le parole da sole, nella loro depauperata banalità, non potrebbero mai avere. Proprio la povertà musicale lo rende ricco. E, analogamente, il suono che si canta è un suono parlato, discorsivo, poco musicale, pur se identificato da note del pentagramma. La “lettura fonologica” che, a riprova dell’assunto, viene raccomandata, può essere attivata in due fasi, considerando separatamente prima il ritmo e poi la melodia. In generale, il ritmo è una distribuzione di determinate quantità lungo l’asse del tempo, una dislocazione di durate differenziate delle singole sillabe in un percorso più o meno ricorrente e riconoscibile. In questa accezione, prima che sul pentagramma possiamo sbozzarlo ricorrendo alla metrica quantitativa della lirica classica latina: La lu e la le a San Bassàan

˘ ¯́ ˘¯́ ˘¯́ ˘ ¯ L’ottonario ripetuto delle prime due strofe ricorda un dimetro giambico acatalettico. È difficile dire “somiglia” dato che la metrica italiana accentuativa non è sovrapponibile, come sapeva anche il Carducci “barbarico”, a quella latina quantitativa. Inoltre non abbiamo riprove certe di come venissero recitate le poesie ai tempi in cui furono scritte. Ma la trasposizione del verso nello schema ritmico della filastrocca cantata restituisce in qualche modo alla parola il peso espressivo delle quantità vocaliche e dà loro un particolare colore dinamico. Analogamente il novenario della terza e quarta strofa, letto come ottonario, rinunciando alla sillaba della anacrusi, ricalca, alla lontana un gliconeo, il cui dattilo centrale si può sovrapporre alla terzina dello schema ritmico: (E) se l’è rôta fa-la giustàa

́ ́​́ ́ ́ ¯́ ˘ ¯́ ˘˘ ¯́ ˘ ¯́

Il dimetro e il gliconeo sono un segmento di noti versi classici: il trimetro giambico, nella forma o pura, o archilochea, o quella ipponattea (più noto

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come “scazonte”), il tetrametro catalettico (il settenario giambico) e, col gliconeo unito al ferecrateo, il meno diffuso verso priapeo. I grandi poeti latini, da Seneca a Marziale, ne fecero frequentemente uso, ma, ai fini di questa analisi, basterà richiamare uno dei più famosi trimetri giambici puri: Catullo. Phaselus ille, qu em v idetis, ho spites

˘ ¯́ ˘ ¯́˘ ¯́ ˘ ¯ ˘ ¯́ ˘¯́ a- it fu iss e n av iu m c e le rr imu s

˘ ¯́ ˘¯́˘ ¯́˘ ¯ ˘ ¯́ ˘¯́ Per far raccontare al più veloce dei battelli le sue imprese il poeta ricorre a un ritmo che richiama la cadenza propulsiva dei remi. Messo in musica, il carme potrebbe avere l’andamento ternario della barcarola:

Lo stesso ritmo, cioè, della nostra sfortunata coppietta in bicicleta, così ben stagliato che lo si avverte, costante, e lo si conta mentalmente, anche nella silente battuta di chiusura della strofa, con una nota sola e una lunga pausa. Si potrebbe cantare il phaselus con gli stessi suoni dei due in bicicleta, se non si fosse trattenuti da una qualche forma di riguardo attenta a evitare sgradevoli contaminazioni. Se infatti nell’epico racconto del nobile legno del poeta veronese si sentono, col sibilare dei venti, lo stormire dei boschi, la furia delle tempeste, i clapotements furieux des marées che hanno reso altrettanto celebre il Bateau ivre di Rimbaud, qui il ritmo cede man mano all’inerzia di una corrente pigra, che trascina il galleggiante in percorsi passivi, a volte statici o a direzione invertita dal gioco sinuoso e rimbalzante dei gorghi. Come nel Po, fiume, non diversamente da quello rimbaudiano, impassible, ma, nel nostro caso, meno aulico. Venendo alla melodia, vi si sente una cedevolezza iterativa, sempre più priva di una meta riconoscibile, ben resa dalla ripetizione della frase che 192


resta ostinatamente uguale con la sola differenza di spostamento nell’altezza in una progressione discendente. La melodia si stempera così in una sequenza armonica che scoraggerebbe ogni tentativo di modulazione. Una modulazione, o un movimento accordale contrappuntato, darebbe anzi spazio a uno sviluppo che sottrarrebbe alla indolenza melodica la sua insistita fissità. È una monotonia vinacciosa e malinconica, canto strascicato in una bettola d’altri tempi, con fioche lampade su tavolati di legno e sulle bocce opache dei mezzi litri. Su di essa incombe il progressivo torpore di una ebbrezza inerte e stanca. L’esaurirsi – si parva licet – della canzone di Varlaam nel Boris. Sugli stessi suoni un canto da osteria spesso udito in quei luoghi diceva: E se son cioc portèm a càa … (ecc.) con la carioeula.1. Bella icona in cui l’ubriaco sfinito viene trasportato come un sacco in un cantiere o in una cava o nei campi in cui si può supporre che, gli altri giorni della settimana, lui lavori. Domina allora nel carme cremonese un senso di stanchezza, fissità di uno sguardo che non si sa dove andrà a posarsi e che, in un piccolo sussulto, si riaccende a ogni ripresa delle strofa. L’anacrusi dell’attacco è ogni volta più greve e corpulenta, impastata nello sforzo. Nulla, ovviamente, del felice scatto al gradino sonoro superiore che caratterizza usualmente questo enunciato di frase musicale in innumerevoli brani classici. L’esiguo filo melodico chiude sulla terza maggiore: non c’è l’affermazione perentoria della tonica, il senso di conclusione e di ripresa, il punto fermo, ma un’aria atona e sospesa. Le cose staranno sempre così, reiterate senza che si dia da intravedere una loro fine. Ma proprio in questa aria ciondolante e sospesa aleggia una vaga e indistinta felicità, un senso di quiete bonaria nel clima vagamente depressivo e sconsolato. La narrazione alterna, nel gioco strofico, tesi e antitesi di una avventura tenace e pur perdente: una coppia in bicicletta, una bicicletta scassata, la ricerca di un meccanico, un meccanico fuori servizio… È probabile che la serie continuasse ad libitum oltre questo che è allora un frammento, evocando – chi sa – la chiamata di un medico per guarire il meccanico, la sua esosa parcella, la speranza di un prestito, la delusione del rifiuto e così via su innumeri percorsi. Il discorso diventa quindi particolarmente significativo solo in quanto cantato, dotato in qualche modo di una intonazione o di una cadenza. 1

Se sono ubriaco portatemi a casa con la carriola.

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* * * Intonazione e cadenza sono peculiari del dialetto. Possiamo ascoltare il dialetto come una parlata in cui la componente fonica del lemma spesso prevale su quella semantica. È una parlata intonativa: in essa fattori come la modulazione, l’accentuazione quantitativa, i sussulti ritmici, l’enfasi data agli archi del fraseggio sono i veri momenti istitutivi del messaggio. È un contesto in cui l’interiezione è già un racconto, decodificato dai suoni prima che dal significato delle parole e del loro governo sintattico. Le vocalizzazioni dispiegano un andamento ascendente o discendente o ondulatorio, si trascinano o distorcono, subiscono improvvisi arresti o accelerazioni – öhö, ühh, iihí, uéééé, àho – e in questa dinamica fanno emergere intonazioni interrogative, scettiche, di sfida, dubitative, assertive, sarcastiche, partecipative, provocatorie, in una gamma di scelte relazionali che nessun altro espediente linguistico riuscirebbe a realizzare con altrettanta rapidità ed efficacia. In una variopinta babele dei più noti e imitati dialetti italici, carica di insulti, scherni, sfide, traduceva Gadda l’incessante cicaleccio vespertino di tanti uccelli dentro un grande albero. Ciò vale per ogni dialetto e per ogni sua variante locale, e ognuno trova nei sensi intonativi la propria singolare ricchezza. Si pensi, per dire degli aspetti più noti, alla forza teatrale – danza di rimbalzi – del napoletano e delle parlate meridionali, alla carica ironica del toscano, alle arguzie del veneto, e così via. E si pensi a come questi aspetti costituiscano il nerbo del teatro di Goldoni, o di Eduardo, o del filone filmico della commedia all’italiana. I dialetti basso padani in cui si iscrive il nostro esempio non hanno generato opere immortali2: hanno del grande fiume, e delle campagne in cui si muove, tutta la piattezza, la pigra mandata uguale e pur potente della sua acqua, la fissità pallida del paesaggio. Però la sequenza sonora della filastrocca diventa immediato paesaggio emozionale: prima di comunicare accoglie, crea risonanze emotive prima che comprensione di significati. 2 Però una mirabile messa in scena di alcuni anni fa della Moscheta del Ruzzante tradotta in cremonese dimostrava non solo che è unica la matrice generativa di tutti i dialetti della pianura padana, ma anche quanta e grande dignità scenica avesse una parlata che pure non ha conquistato notorietà oltre i confini della provincia. Inoltre, per cogliere, in un solo immenso lampo, l’ibridazione fra dialetto e poesia classica che ha ispirato tutto questo nostro discorso, si abbia presente il grande epos del Baldus, poema in latino dialettizzato o in dialetto padano latinizzato che dir si voglia.

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È langue prima che parole. Questa dimensione empatica, che si dispiega su portati antepredicativi, presume affettività profonde, radici sommerse in una palude linguistica primitiva senza la quale nessun linguaggio esisterebbe. “Prima l’affettività, poi il verbo” diceva Musatti. Se la parola è suono, il suono è intento e l’intento è qualcosa che precede l’esistenza del mondo, sta al di qua del discorso. Chi ha qualche familiarità col canto, e in particolare col canto in tessiture polifoniche in cui la parola, spartita fra le diverse voci, è in uno stato così fusionale col suono da non essere sempre identificabile, sa che all’ascoltatore si comunica quel che si pensa più ancora di quel che gli si fa udire. Potere del pensiero di percorrere con immensa rapidità non solo gli spazi interni della persona, ma anche quelli esterni che separano dalle altre persone. Molti eventi ci permettono di attivare questo momento creativo e di riprovarne la forza di coinvolgimento; la musica in primis probabilmente, ma, come la musica, qualsiasi altro evento in cui la percezione pura, l’αἴσθησις, precede il riconoscimento che se ne ha e l’elaborazione cognitiva che ne consegue. La filastrocca della coppietta in bicicletta ci regala qualche sentore frammentario di cosa doveva essere la lirica classica della cui recitazione non ci sono pervenute registrazioni nemmeno debolmente indirette. Ci parla di una lingua morta alludendo a quegli aspetti della fonia che i suoi dizionari non possono restituire. La metrica intonativa e quantitativa sopravvive in qualche modo nel dialetto; la parlata popolare o locale ha dato alla poesia alcuni di quei codici di rottura che trasformano un racconto in una invenzione, ma dalla poesia, o da qualche forma di inconscio collettivo che la anima, ha mutuato ritmi e suoni che la pura lingua letteraria della comunità non sempre tesaurizza. Una lingua è morta, ma sopravvivono, come fatti emozionali, molte sue deformazioni. Muore anche il dialetto, però, per lo meno nella accezione di lingua spontanea differenziata primitivamente e sottostante alla lingua ecumenica di riferimento, lingua materna parallela. Oggi, soprattutto nei centri medi e medio grandi, viene sostituito, come lingua marcante di gruppo, dalle svariate gergalità che, in particolare nelle età giovanili, si costruiscono coinvolgendo l’immaginario collettivo nella stratificazione di stilemi, modi di dire, neologismi mutuati dalle innumerevoli fonti che la globalità mass-mediale alimenta. Non c’è più, o c’è sempre meno, il circoscritto mondo linguistico del dialetto, così confinato territorialmente da rendere palesi, ai suoi parlanti, le

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differenze di pronuncia, di cadenza e persino di vocaboli dalla città al paese immediatamente fuori porta. C’è invece, ugualmente diverso da regione a regione, ossia su porzioni più estese del territorio, un turbinio di suggestioni verbali a rapida obsolescenza – soprannomi, termini in codice, iperboli, neologismi – in cui gli individui soddisfano il bisogno di darsi una identità emotiva prima che sociale, affermando una propria differenza, magari provvisoria, prima di confondersi in lingue a portata universale crescente. Il gergo non è, probabilmente, la stessa cosa del dialetto, anche se ne assume parecchie funzioni. Il suono esiste sempre anche nella parlata gergale, sempre improntata dalla cadenza dialettale in cui si cala la lingua madre, ma non ha un radicamento primitivo riconoscibile; è più appreso che vissuto, è usato più che sentito. Si stratifica in tempi brevi e altrettanto rapidamente esce di scena a viene sostituito. In altre parole, non resta nelle filastrocche; anzi, le filastrocche o i canti popolari come sedimentazione emotiva sono quanto di più estraneo ai gerghi di gruppo. Non hanno a disposizione il lungo tempo necessario a far nascere storie, racconti, quadretti, né la dimensione affettiva che fa nascere questa affabulazione. Le grandi trincee con cui si vuole proteggere la sopravvivenza dei dialetti locali ─ club, corsi, poesie, brani teatrali, il cabaret, il cinema, i siti web ─ sono tanto commoventi quanto imbelli. Come fermare una frana coi guardrail messi ai lati della strada di montagna per evitare alle auto di precipitare a valle: servono a chi sulla strada ci va, fin che la strada c’è, per minimizzare il rischio, ma non a impedire che la strada scompaia se così vuole il monte che si sposta. È una morte abbastanza lenta. Il dialetto – lingua moribonda ma dalla lunga agonia – impiegherà a morire parecchio tempo e avrà, in qualche modo, dei sostituti. Però saranno imitazioni, “ricordo di”, tappa filologica, che stanno all’originale come il verso endecasillabo sta alla strofa saffica, come il lacerto cremonese or ora dissezionato sta al trimetro giambico o allo scazonte di catulliana o archilochea memoria. * * * Ed ecco, per finire, il testo con alcune essenziali note di commento

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La lu e la le3 a San Bassàan4 in bicicléta5. La bicicléta la va pu 6 perché l’è rôta. E se l’è rôta fala giustàa dal biciclista7. El biciclista l’è a l’ospedàal 8 che l’è malàa 9.

17.10.2004

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Lui e lei: il “la” che precede il pronome personale assolve la funzione del raddoppio della proclitica, figura tipica delle lingue neolatine e, nel raddoppio, specifica delle parlate settentrionali e centrali della penisola; cf. nel cremonese lu l’è ‘ndàa, te te ghet dit paralleli, ad esempio, ai veneti ti ti se sta, ti ti ghe ga dito, e così via. Sul rafforzamento espressivo che la parlata ne guadagna sono stati scritti numerosi saggi, nella esegesi della poesia e del teatro dialettali, come nella analisi delle funzioni generative esplorate dallo strutturalismo. 4 San Bassano, quartiere proletario (una volta) della periferia nord-occidentale di Cremona; per la marcatura proletaria si veda una scherzosa filastrocca una volta diffusa nel piccolo mondo studentesco: “E vaca dit, me son de San Bassàan, vo a scòla a la Ponsona, con la sigola in maan”. La “Ponsona” è l’Istituto Tecnico Industriale Ala Ponzone Cimino, in un passato non lontano massimo objettivo di formazione secondaria della classe proletaria; la sigola ─ cipolla ─ oltre che pretesto per disegnare in modo caricaturale la figura di un idiota grossolano, è sarcastica allusione alla povertà contadina della merenda dello studente; e vaca dit è la parafonia di una interiezione blasfema. 5 Si tratta, come si evince dal contesto dei versi successivi, di una sola bicicletta, da uomo, con la passeggera portata in canna, prassi un tempo assai frequente, spesso adottata da una coppia, tanto da diventare quadretto ricorrente sia di molte scene di film neorealisti che di svariate allusioni scurrili. Mezzo di trasporto, e modo d’uso, molto rudimentali e poco affidabili, come il successivo richiamo al guasto meccanico prontamente conferma. 6 Vedi nota 3. Da sottolineare, in questo non meno che nei successivi versi, la semplicità icastica dello schema narrativo tutta sostenuta dalla enunciazione dell’effetto (“arresto”, “riparazione”, “assenza”) anteposta a quella della causa (“rottura”, “meccanico”, “malattia”): la ripetizione ossessiva dell’effetto nel triplice ritorno dello stesso verso crea il quadro desolato di chi si rassegna a non poter intervenire sulle cause per modificare gli effetti: è, se si vuole, una riproposizione molto essenziale e primitiva del Dasein. 7 Biciclista: meccanico per la riparazione di cicli e, non di rado, di motocicli; artigiano di tecnica “minore” a confronto con quella dei meccanici veri e propri specializzati nella riparazione di automobili, trattori e altre macchine più complesse e costose; lavorava prevalentemente in uno sgabuzzino straripante su strada con tutte le biciclette accatastate, assillato tanto dalle urgenze della clientela quanto dalle frequenti discussioni circa l’esosità delle sue spettanze. Il richiamo a questa ormai quasi scomparsa figura rafforza il colore di dimessa povertà che caratterizza l’intera scena. 8 Ospedal: ospedale. È una evocazione drammatica: una volta si andava all’ospedale solo per qualche malattia seria, o cronica, come quelle dell’età senile, e in ogni caso di non rapida e spontanea guarigione. 9 In una lectio parallela si legge “con la testa rôta”, versione ritmica che ripropone un dattilo. La si può assumere come ipotesi che innesca una reiterazione forzata e ridonda sul

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tema delle ripetizione: rotta la bicicletta, rotta la testa del meccanico, altre cose rotte possono accadere a rendere incessante il peregrinare della sfortunata coppietta.

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Lettere (II) Nel precedente n. 23 del MAGAZZINODIFILOSOFIA abbiamo pubblicato una prima Lettera di Fr.-Wilhelm von Herrmann dedicata ai taccuini di telacerata nera in cui Heidegger registrò per anni le sue “considerazioni” largamente occasionali. Questi stanno uscendo da Klostermann curati dal prof. P. Trawny ma, sebbene destinati solo aprês coup alla pubblicazione, non sono mai nati come un’opera in sé organica e autosufficiente (recante in sé tutti gli ingredienti indispensabili alla propria comprensione) e restano, anche per Heidegger, un aggregato di documenti – al limite: documenti su se stesso! – bisognosi di collocazione ermeneutica. Non sembra tuttavia che – a garantire una tale collocazione – “il pensiero dominante” di Heidegger sia mai stato un objettivo “pre-autobiografico” di disciplina morale (come l’analoga premura dei taccuini di Benedetto Croce che intendeva “invigilare se stesso”, quasi a fornire la continuazione indefinita di un famoso “contributo alla critica di se stesso”). In quelli di Heidegger esso fu piuttosto la pura e semplice permanenza tonale della “einzige Frage”, il basso continuo, il motivo stesso della sua vita: la domanda circa il “senso dell’essere” (un motivo che non era mai stato quello di essere bene accolto in qualche consorteria morale che si intestasse il sacrificio divino e che Sciascia avrebbe forse chiamato “mafia dell’antimafia”). Intanto, il problema di come gestire gli inediti pone di nuovo in grande imbarazzo la stessa Martin Heidegger Gesellschaft e i suoi valorosi aderenti. Per capire quale sia la differenza tra un’opera unitaria e un insieme di documenti basta pensare a quanto sia difficile leggere la lista della spesa di un grande filosofo: qui la servetta tracia sta a Talete (Teeteto 173) come il cameriere del grand’uomo sta al grand’uomo (Hegel e Goethe e Croce). Paradossalmente, lo sciocco (insipiens) è ormai diventato colui che, nell’interpretazione, nella critica e in generale nella lettura di un testo, crede che quanto si rivela sia davvero l’oggetto (il senso di un testo che, come il suo autore, sarebbe lì per tutti). Se mai qualcosa si rivelasse, sarebbe il senso contestuale dell’oggetto e del soggetto – lettore, critico o interprete che sia – il quale (adottando l’aut-aut romanesco però tramutandolo in un vel-vel)

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non solo “ci è” ma anche “ci fa”. Ciò eleva alla seconda (se non alla terza) potenza la difficoltà di voler “vendere” Heidegger. E castiga gli incauti. Come la prima, anche questa seconda Lettera di von Herrmann prende distanza dal Curatore di tali quaderni neri articolando e approfondendo le ragioni della prima.

Friedrich-Wilhelm v. Herrmann, La posizione dei “taccuini d’appunti” – o “quaderni di telacerata nera” – nell’opera di Martin Heidegger I. La dimensione filosofica dei ‘taccuini’ Il vol. 66 della Gesamtausgabe intitolato Riflessione contiene l’Appendice “Sguardo retrospettivo sulla via percorsa”, che riproduce un testo dal titolo “Aggiunta su desiderio e volontà (Conservare i tentativi fatti)” (GA 66, p. 419-28)1. I “tentativi fatti” sono i manoscritti di Heidegger inediti fino al 1938/ 39. Sotto “I. Stato dell’arte” (p. 419) sono elencati 7 tipologie di manoscritti: “1. Le lezioni, 2. Le conferenze, 3. Gli appunti per le esercitazioni, 4. Lavori preparatori per l’opera, 5. Considerazioni e indicazioni, quaderni II-IVV, 6. Le lezioni su Hölderlin e lavori preparatori sull’‘Empedocle’. 7. Dell’approprio (Contributi alla filosofia) + il n. 4”. Sotto “II. In particolare”, Heidegger fornisce illustrazioni particolarmente significative circa i sette tipi di manoscritti elencati. Al nostro scopo, sono importanti specialmente i dati e i chiarimenti riferiti al n. 5. Considerazioni e indicazioni in collegamento con quelli che riguardano il n. 4. I lavori preparatori per l’opera e quelli che si riferiscono al n. 7. “Dell’approprio”. Al n. “5. Riflessioni e indicazioni” si dice: Il contenuto di questi taccuini, soprattutto del II, del IV e del V, presenta ancora in parte anche le tonalità fondamentali del domandare e i rimandi agli orizzonti estremi di quei tentativi di pensiero. Benché sembrino via via scaturire da intuizioni occasionali, essi contengono il tratto della preoccupazione incessante per l’unica domanda che li sottende (GA 66, p. 426).

Il testo “Conservare i tentativi fatti” è posteriore alla chiusura, nel 1938, del

1 Martin Heidegger, Besinnung, Gesamtausgabe, Band 66 (Ediz. completa, vol. 66), cura di Fr.-W. v. Herrmann, editore V. Klostermann, Frankfurt am Main 1997.

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manoscritto “Contributi alla filosofia (Dell’approprio)”2. Perciò, dei ‘taccuini’, egli menziona solo i quaderni dal II al V delle “Considerazioni” ora pubblicate nel vol. 94 dell’Edizione completa.3 Il quaderno I non ci è pervenuto e neppure Heidegger lo cita mai. È lecito supporre che lui stesso lo abbia scartato. Il perché, di nuovo, si può solo supporre; forse conteneva appunti per la prevista rielaborazione di Essere e tempo, nella 3ª edizione del 1931 sulla base della lezione friburghese del semestre estivo 1930 “Sull’essenza della libertà umana”4, nella quale la radice della connessione tematica di Essere e tempo viene rintracciata in quella di “essere e libertà”. Il quaderno II delle “Considerazioni” comincia nell’ottobre del 1931. È allora che ha inizio il pensiero ontostorico. I “Quaderni di tela cerata nera”, cioè i ‘taccuini’, appartengono integralmente al lungo percorso del pensiero ontostorico, che si protrae dal 1930-31 fino alla prima metà degli anni ’70. Le “Considerazioni” degli anni 1931-1941 (ora pubblicate nei volumi 94-96 dell’Edizione completa) accompagnano il percorso del pensiero ontostorico, che si svolge principalmente nei “Lavori preparatori per l’opera” e nelle grosse trattazioni che vanno dai “Contributi alla filosofia (Dell’approprio)” (1937-38) fino a “L’approprio” (1941-42). Nel chiarimento annesso al n. “5. Considerazioni e indicazioni” vanno notate tre cose: 1. Le tonalità fondamentali del domandare; 2. I rimandi agli ultimi orizzonti dei tentativi del pensare; 3. Il tratto dell’incessante preoccupazione per l’unica domanda. Le tonalità fondamentali del domandare sono lo spavento, il ritegno, la timidezza che di volta in volta determinano il pensiero ontostorico. Gli “ultimi orizzonti dei tentativi del pensare”, nel n. “4 I lavori preparatori per l’opera” (GA 66, p. 424s) sono così menzionati: La distinzione di ente ed essere, L’esser-ci – la verità, Lo spazio-tempo, Le modalità, La tonalità, Il linguaggio, Il procedere e l’essenziare <wesen> della domanda.

L’“unica domanda”, nei tentativi di pensare del pensiero ontostorico, è “la

2 Martin Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), Gesamtausgabe Bd. 65, a cura di F.-W. v. Herrmann, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1989. 3 Martin Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), Gesamtausgabe, vol. 94 a cura di P. Trawny, V. Klostermann, Frankfurt am Main 2014. 4 Martin Heidegger, Vom Wesen der menschlichen Freiheit. Einleitung in die Philosophie, Freiburger Vorlesung Sommersemester 1930, Gesamtausgabe, vol. 31 a cura di H. Tietjen, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1982.

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domanda circa la verità dell’esse <Seyn>” (GA 66, p. 424) che in tali “orizzonti” si mantiene. I “Lavori preparatori per l’opera” sono chiamati “Avvìi”, perché contengono originariamente tutta la problematica di Essere e tempo e in tali orizzonti la condensano. All’interno di questi orizzonti si tengono pure le “Considerazioni” nella misura in cui anch’esse, come i “Lavori preparatori per l’opera”, stanno al servizio dell’unica domanda circa la verità dell’esse. Nella stessa sezione 4. sui “Lavori preparatori per l’opera” si dice anche qualcosa di importante circa i Contributi alla filosofia (Dell’approprio): Dalla primavera del 1932 è fissato nei suoi aspetti essenziali quel piano che nel progetto ‘Dell’approprio’ ottiene la sua prima configurazione (GA 66, p. 424).

Le trattazioni che seguono ai “Contributi alla filosofia”: “Riflessione” (1938/39), “Il superamento della metafisica” (1938/39 in GA 67), “La storia dell’esse” (1938/40 in GA 69), “Dell’Inizio” (1941 in GA 70), “L’approprio” (1941/42 in GA 71) e “Le gittate dell’inizio” (1944 in GA 72) sono sempre nuove figure di quello che era stato fissato per la prima volta nella primvera del 1932 come piano per la concezione del pensiero ontostorico. Mentre le trattazioni ontostoriche spianano la via maestra decisiva del pensiero ontostorico, in quanto compongono e soppesano i tratti caratteristici per la messa in opera di questo pensiero, le “Considerazioni” accompagnano questa via maestra e la completano. Esse viaggiano coordinate e subordinate ai grandi lavori che aprono la strada, e quindi non sono ad essi preordinate né tanto meno sovraordinate. Ne consegue che gli appunti, più o meno lunghi, dei neri quaderni di telacerata sono accessibili e comprensibili solo a partire dalle grandi trattazioni. Questo stato di fatto è l’unica ragione per cui Martin Heidegger ha voluto che i ‘quaderni neri’ costituissero la coda dell’Edizione completa e solo in coda alla pubblicazione di tutti gli altri volumi dell’Edizione completa dovessero apparire. Le “Considerazioni” dei ‘taccuini’ sono in vario modo commenti criticoontostorici dei fatti di cronaca. Inoltre, essi sono integrazioni di pensieri precedenti in quanto prendono ripetutamente posizione su pensieri già prima espressi e li ripensano talvolta anche in senso critico. Un esempio di ripresa di pensieri precedenti sono gli appunti 201, 202 del vol. 94, che ripensano e integrano il tema “uomo e animale”, ricollegandosi al confronto tra l’animale “povero di mondo” e l’uomo “creatore di mondo” (nella lezione del semestre invernale 1929/30 I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitudine – solitudine <GA 29/30>). Tutti i pensieri che gli passano per la testa, ma che non appartengono a

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un manoscritto attualmente in lavorazione e neppure rientrano in un fascicolo di manoscritti raggruppabili sotto un titolo o un concetto – a partire dal 1931 trovano accoglienza nei ‘taccuini’. Sul comodino da notte di Heidegger, accanto al suo letto, stavano carta e matita, sicché, se in un’ora di veglia qualche pensiero gli si presentava, egli lo potesse subito annotare e al mattino successivo registrare a chiare lettere nel ‘quaderno nero’. II. Quale sia l’uso illegittimo e quale, invece, il solo uso legittimo dei “quaderni di telacerata nera” In due dei tre volumi delle Considerazioni (vol. 95 e vol. 96)5 il lettore si imbatte in 13 passi (ciascuno dei quali consta di una, di due, di quattro o – in un caso – di cinque frasi) nei quali Martin Heidegger prende posizione criticamente in una prospettiva ontostorica su “giudaismo internazionale” e “giudaismo universale”. Questi passi, che occupano a malapena 2 pagine e mezzo in formato DIN A4 in rapporto alle 1250 dei tre volumi delle Considerazioni, sono quelli che il curatore di questi volumi ha assunto a pretesto per squalificare non solo i 13 passi ma, in base ad essi, tutto il pensiero ontostorico – e quindi questo pensiero in quanto tale – come “sistematicamente antisemitico”. I termini concettuali che sorreggono la presa di posizione critica di Heidegger circa il “giudaismo internazionale” sono: l’assenza di fondamento, l’assenza di storicità, il mero calcolare con l’ente, il gigantismo, l’assenza di mondo, la vuota razionalità calcolatoria, l’ignorare il problema dell’essere, la macchinazione dell’ente, la libertà come semplice assenza di legame, lo sradicamento di tutto l’ente dall’essere. Chi ha davvero letto tutti i trattati ontostorici, e cioè i testi fondamentali del pensiero ontostorico, e ci ha lavorato sopra, vede subito che i termini e i concetti elencati sono quei concetti ontostorici coi quali Heidegger caratterizza lo spirito dell’ultima modernità e quindi il tempo presente, in quanto esso si concepisce fondamentalmente in base allo spirito delle scienze matematico-naturali e della tecnica moderna. Ma questo vuol dire che quei concetti non sono antisemitici in quanto tali e quindi che essi non vengono riferiti soltanto allo spirito ebraico, ma allo spirito dell’attualità come tale. Se quindi Heidegger definisce in questi termini lo spirito dell’“ebraismo internazionale” è perché include quest’ultimo nello spirito attuale della modernità. Il fatto che egli citi e critichi esplicitamente l’“ebraismo universale” 5 Martin Heidegger, Überlegungen VII-XI (Schwarze Hefte 1938/1939), Gesamtausgabe vol. 95, a cura di P. Trawny, V. Klostermann Frankfurt am Main 2014; dello Stesso, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939/1941), Gesamtausgabe vol. 96, a cura di P. Trawny, V. Klostermann, Frankfurt am Main 2014.

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benché la caratterizzazione che ne dà coincida con quella generale dello spirito moderno, va inteso come un riflesso sullo spirito del tempo allora dominante. Il modo di pensare ontostorico, con la sua specifica concettualizzazione, non è per essenza antisemita e non scaturisce da un atteggiamento fondamentalmente antisemitico, ma da uno spirito fenomenologico che esperisce i fenomeni, li descrive e li concettualizza nella loro peculiare storicità. Oltre al volume Heidegger e il mito della congiura mondiale giudaica – che ignora completamente la dimensione filosofica da noi delineata –, il Curatore dei tre volumi delle Considerazioni ha dato il via a una frenetica corsa omicida-suicida (amok) annunciando urbi et orbi l’“antisemitismo” contenuto nelle Considerazioni e nel pensiero di Heidegger überhaupt. Nei suoi interventi sui media e in collaborazioni selettive coi giornalisti forniva loro le proprie tesi circa l’antisemitismo nel pensiero di Heidegger, tesi che venivano avidamente accolte per essere poi elaborate e diffuse nei media, condite con la condanna morale di Heidegger. Il nostro Curatore risparmiava così ai giornalisti la fatica di leggere in proprio le Considerazioni; essi infatti dovevano ben essere imbevuti dell’opinione che il Curatore dovesse sapere meglio di chiunque altro quale fosse il contenuto dei noti volumi dei “quaderni neri”. Il punto culminante della sua azione calunniosa circa il pensiero heideggeriano, il Curatore poté permetterselo l’8 settembre 2014 in un convegno sui “quaderni neri” all’Università Emory, di Atlanta (USA), allorché rivelò che la “tarda filosofia personale” di Heidegger era “sistematicamente antisemita”, e poi quando affermò che “per comprendere” Heidegger fosse necessario “ricorrere al modello esoterico/ essoterico” cercando tra le righe – come si fa per la dottrina non scritta di Platone – la dottrina segreta di Heidegger, la quale per l’appunto sarebbe “sistematicamente antisemitica”. Nessuno, fra i presenti che ascoltarono la relazione del nostro Curatore, in maggioranza professori, pretese una dimostrazione di tale enormità. L’immagine del pensiero heideggerino, dopo questa comparsata del Curatore, risultava totalmente compromessa in senso antisemitico. Va tenuto ben presente, che l’attuale campagna contro Martin Heidegger, a differenza di precedenti analoghe aggressioni, è stata scatenata dal Curatore stesso dei ‘Quaderni di telacerata nera’, che lui stesso (e non i giornalisti) ha promosso la slavina dell’accusa di antisemitismo. Con ciò, il Curatore si è gettato alle spalle lo spirito del pensiero heideggeriano, quello dell’Amministrazione del Lascito e anche quello della comunità dei curatori dell’Edizione completa delle opere (la Martin Heideggers Gesamtausgabe – HGA). Il Curatore si è isolato, si è reso autoreferenziale, si è posto al di sopra e al di là di ogni prassi accademica e, nel perseguimento dei suoi fini personali – sui quali io qui mi taccio – ha puntato tutta la posta su una sola 204


carta. Così sarà anche il solo responsabile del suo libro da cima a fondo calunnioso e delle sue calunniose comparse in pubblico. Lo scandalo non sono i 13 passi delle Considerazioni: lo scandalo sta solo nell’uso falsificatorio, calunnioso e profondamente non vero di tali testi. Né il suo ‘libro’, che non è un libro di filosofia, come giustamente ha giudicato la professoressa svizzera Ingeborg Schüßler (Losanna), perché non è un libro di vera e verace interpretazione, né le sue svariate dissertazioni in Germania, in Francia, in Olanda negli USA e altrove, sono condivise, ma anzi sono condannate sia dall’Amministrazione del Lascito che dai singoli Curatori della Gesamtausgabe. La sua tesi del sistematico antisemitismo del pensiero di Martin Heidegger non è una visione ermeneutica seriamente discutibile, ma una mera affermazione senza prove. Come “principale collaboratore” filosofico (così, per iscritto, mi ha nominato Martin Heidegger) e come suo assistente privato negli ultimi quattro anni della sua vita, avevo raccomandato all’Amministrazione del Lascito l’attuale curatore dei ‘quaderni neri’ soltanto come redattore e non come interprete. Quanto al suo non-filosofico libro e alle sue non-filosofiche conferenze, tenute qua e là per il mondo – che, dopo anni di frequentazione reciproca e a lui favorevole, mi hanno completamente stupito e, per la loro non-verità profondamente deluso – ho dovuto prendere nettamente distanza per iscritto dal Curatore. Per amore del pensiero di Martin Heidegger e per amore della verità. Il libro del Curatore che accompagna le Considerazioni avrebbe dovuto essere concepito e realizzato in modo molto diverso. Se a questo libro si voleva aggiungere una dichiarazione dell’editore a proposito dei 13 passi critici, la presa di posizione critica circa quelle affermazioni avrebbe dovuto esplicitare la dimensione filosofica delle Considerazioni e delle affermazioni critiche che in esse qua e là emergono – come abbiamo appena fatto noi nel primo capitolo del nostro saggio e all’inizio del secondo. Questo sarebbe stato l’unico modo legittimo di presentare i primi tre volumi dei “quaderni di telacerata nera”. Invece, il Curatore passa sopra alla dimensione filosofica dei ‘quaderni neri’, e quindi anche dei tre volumi di Considerazioni, perseguendo una prospettiva puramente ideologico-politica, nella quale viene completamente ignorato l’importo filosofico delle Considerazioni stesse e la loro posizione nel quadro che comprende gli altri tipi di manoscritti del pensiero ontostorico. Così facendo, egli produce nei lettori del suo libro non-filosofico e negli uditori delle sue conferenze la falsa apparenza che i ‘quaderni neri’ siano tutto sommato dedicati a sviluppare una concezione antisemitica. Il suo modo di trattare i ‘quaderni di telacerata nera’, i ‘taccuini’ di Heidegger, è dunque da cima a fondo falsificatorio e radicalmente non-vero. 205


Nella sua relazione all’Università Emory di Atlanta (USA), il Curatore ha spiegato anche un capoverso dei Contributi alla filosofia. (Dell’appropro), come una dimostrazione dell’antisemitismo ontostorico di Heidegger. Quel capoverso suona come segue: Che stupidaggine dire che la ricerca sperimentale è nordica-germanica mentre quella razionale sarebbe straniera! Allora dovremmo deciderci ad annoverare Leibniz e Newton tra i ‘giudei’! ”. Ma il progetto matematico della natura è proprio il presupposto della necessità e della possibilità dell’‘esperimento’ in quanto metrico (GA 65, p. 163).

Riferendosi a questo passo, il Curatore voleva intenderlo nel senso che Heidegger avesse giudicato anche Newton e Leibniz come dei ‘Giudei’. Ma con ciò il Curatore mostra di aver completamente frainteso quello che Heidegger intendeva capovolgendolo nel suo contrario. Lì Heidegger rivolgeva invece una critica frontale a una tesi tipica della concezione nazionalsocialista delle scienze naturali, che definiva ‘nordico-germanica’ la ricerca sperimentale e ‘straniera’ (per dire: “giudaica”) quella razionale. Questa classificazione nazionalsocialistica della ricerca sperimentale attribuita allo spirito nordico-germanico rispetto a quella razionale, attribuita allo spirito giudaico, viene dichiarata da Heidegger una “pura stupidaggine” perché la ricerca sperimentale nelle scienze naturali richiede essa stessa la fondazione razionale fornita dal progetto matematico della natura, che fu per una parte essenziale elaborato da Newton e da Leibniz. Se la distinzione tra ricerca sperimentale e razionale corrispondesse davvero a quella tra giudaismo e germanismo, allora i nazionalsocialisti avrebbero dovuto includere anche i grandi razionalisti Newton e Leibniz tra i “giudei” – il che notoriamente non era. “Giudei” è posta da Heidegger tra virgolette perché qui sta parlando dei Giudei nell’uso nazionalsocialistico della parola. Quella citazione, tratta dai Contributi alla filosofia, è, contrariamente a come l’intende il Curatore, una chiara dimostrazione che Heidegger non intende la ricerca e il pensiero razionale, alla maniera della tesi nazionalsocialista, come una specificità esclusiva dello spirito ebraico e che, anzi, egli non associa affatto la razionalità come tale a un determinato spirito-di-popolo. Questa citazione non è dunque un esempio del preteso pensiero antisemitico di Heidegger, ma se mai un controesempio del fatto che Heidegger non pensa in antisemitica guisa, né nelle scienze positive né nella filosofia. È invece questo grave fraintendimento di quel passo, da parte del nostro Curatore, che dà da pensare e vien da chiedersi: “Può un curatore filosofico permettersi un simile fraintendimento? Questo grossolano equivoco non segnala una insicurezza di lettura e di comprensione? Per il momento, nel 206


volume 94 delle Considerazioni, mi sono imbattuto in simili incertezze anche in altri due casi. Chi va soggetto a fondamentali fraintendimenti e a simili incertezze di intelligenza testuale, può anche facilmente incappare nel misconoscimento della dimensione filosofica dei ‘quaderni di telacerata nera’, anzi nel non percepirla affatto, e arrivare ad affermazioni sconclusionate. Del resto, siamo di fronte a un caso abbastanza singolare: quello di un Redattore che, incaricato di curare un singolo testo appartenente all’Edizione completa di un’opera filosofica, accompagna la sua redazione con un’esposizione che sconfessa il pensiero dell’Autore. Tutti mi chiedono se non sia il caso di sostituire un simile editor con qualcun altro. In base alla nostra esplicitazione di quella che è la dimensione propriamente filosofica dei tre volumi delle Considerazioni e all’analisi che abbiamo fatto della concettualità propria dei 13 passi testuali in esse contenuti, discende che questi passi non costituiscono affatto dei “pilastri sistemici”, cioè: non sono tratti di pensiero costitutivi nella compagine del pensiero ontostorico. Certo, per comprendere nel suo contenuto enunciativo tale constatazione, bisogna avere chiara intelligenza di cosa significhi l’interna sistematicità e l’interna coerenza, o carattere di compagine, di un pensiero filosofico. Con altre parole, bisogna essere capaci di pensare sistematicamente in proprio, e saper distinguere tra un pensiero sistematico e un pensiero soltanto accompagnatorio-esemplificativo (lediglich beiherspielendes Denken) – o come dice Hegel: un pensiero “detto di passata” (nebenher gesagt). Quanto a Heidegger, nei Contributi alla filosofia e soprattutto nella sua coeva prima lezione schellinghiana, egli sottolinea che “Ogni filosofia è sistematica, ma non ogni filosofia è sistema” (GA, vol. 42, p. 51)6. Ogni filosofia, e quindi anche il pensiero ontostorico, è in sé sistematica, cioè coerente (gefügt). Il carattere di sistematicità del pensiero ontostorico viene espresso da Heidegger col termine “compagine” (Gefüge), che indica l’interna commessura (Fügung) e l’interno ordine [co-haerentia] del domandare. I ‘quaderni di telacerata nera’ delle Considerazioni, i loro appunti contrassegnati da un numerus currens sono però determinati dalla inesausta premura per l’unica domanda circa la verità dell’esse (Seyn) che si svolge sistematicamente in una rigorosa coerenza del domandare e del domandato. Vedere questa coerenza, elaborarla e comprenderla: ecco il solo modo legittimo di praticare questi appunti.

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Martin Heidegger, Schelling: Vom Wesen der menschlichen Freiheit (1809), Freiburger Vorlesung Sommersemester 1936, Gesamtausgabe Band 42, a cura di Ingrid Schüßler, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1988.

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E, contestualmente, è il caso di distinguere cosa sia un pensiero sistematico della compagine e cosa invece un pensiero accompagnatorio [ac-cidentale, sym-bebēkon <ndt>], che non appartiene alla compagine sistematica di un pensiero. In questo senso i 13 passi dai volumi 95 e 96 dell’Edizione completa, letti e riletti, sono un pensiero soltanto concomitante, togliendo il quale la coerenza del domandare che concerne il problema circa la verità dell’esse (Seyn) resta intatta. È solo in questo senso che dobbiamo insistere sulla “irrilevanza filosofica” di quei 13 passi, secondo l’acuta formulazione del mio collega ungherese, prof. I. Fehér (Budapest). (tr. it. di Alfredo Marini) (segue: il testo originale della Lettera di von Herrmann)

Friedrich-Wilhelm v. Herrmann, Die Stellung von Martin Heideggers ‘Notizbüchern’ oder ‘schwarzen Wachstuchheften’ in seinem Gesamtwerk I.

Die philosophische Dimension der ‘Notizbücher’

Im ANHANG „Ein Rückblick auf den Weg“ zu Band 66 Besinnung der Gesamtausgabe ist ein Text abgedruckt, der überschrieben ist Beilage zu Wunsch und Wille (Über die Bewahrung des Versuchten) (GA 66 S. 419-428)1. Das „Versuchte“ sind die bis 1937/ 38 unveröffentlichten Manuskripte Martin Heideggers. Unter „I. Was vorliegt“ (S. 419) werden 7 Manuskriptarten aufgezählt: „1. die Vorlesungen, 2. die Vorträge, 3. die Aufzeichnungen zu den Übungen, 4. Vorarbeiten zum Werk, 5. Überlegungen und Winke Heft II -IV – V, 6. die Hölderlinvorlesung und Vorarbeiten zum ‘Empedokles’, 7. Vom Ereignis (Beiträge zur Philosophie) dazu Nr. 4“. Unter „II. Zum Einzelnen“ gibt Heidegger hochbedeutsame Erläuterungen zu den aufgezählten sieben Manuskriptarten. Für unser Vorhaben sind von besonderer Bedeutung die erläuternden Angaben zu 5. Überlegungen und Winke in Verbindung mit den Erläuterungen zu 4. Die Vorarbeiten zum Werk und den Erläuterungen zu 7. „Vom Ereignis“. Zu „5. Überlegungen und Winke“ heisst es: „Was in diesen Notizbüchern vor allem II, IV und V festgehalten ist, gibt z.T. auch immer die 1 Martin Heidegger, Besinnung, Gesamtausgabe Band 66. Hrsg. v. F.-W. v. Herrmann. V. Klostermann Frankfurt am Main 1997.

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Grundstimmungen des Fragens und die Weisungen in die äussersten Gesichtskreise der denkerischen Versuche. Scheinbar je nach Augenblicken entstanden, enthalten sie den Zug der unausgesetzten Bemühung um die einzige Frage“(GA 66, S. 426). Der Text „Über die Bewahrung des Versuchten“ ist nach Abschluss des Manuskriptes „Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis)“2 1938 verfasst. Daher nennt er von den ‘Notizbüchern’ nur die Hefte II -V der „Überlegungen“, die jetzt im Band 94 der Gesamtausgabe veröffentlicht sind3. Das Heft I liegt nicht vor und wird auch von Heidegger nirgends erwähnt. Die Vermutung liegt nahe, dass er es selbst ausgesondert hat. Weshalb, lässt sich auch nur vermuten; vielleicht enthielt es Aufzeichnungen zur geplanten Umarbeitung von Sein und Zeit für die 3. Auflage 1931 auf der Grundlage der Freiburger Vorlesung Sommersemester 1930 „Vom Wesen der menschlichen Freiheit“4, in der der sachliche Zusammenhang von ‘Sein und Zeit’ in denjenigenvon ‘Sein und Freiheit’ zurückverwurzelt wird. Das Heft II der „Überlegungen“ beginnt im Oktober 1931. Es ist die Zeit, in der das Seinsgeschichtliche Denken einsetzt. Die ‘Schwarzen Wachstuchhefte’, also die ‘Notizbücher’, gehören insgesamt zu dem langen Weg des Seinsgeschichtlichen Denkens, der sich von 1930/ 31 bis in die erste Hälfte der siebziger Jahre erstreckt. Die „Überlegungen“ von 1931/ 1941 (jetzt veröffentlicht in den Bänden 94-96 der Gesamtausgabe) begleiten den Weg des Seinsgeschichtlichen Denkens, das sich vor allem in den „Vorarbeiten zum Werk“ und in den grossen Abhandlungen von den Beiträgen zur Philosophie (Vom Ereignis) (1937/ 38) bis „Das Ereignis“ (1941/ 42) entfaltet. In der erläuternden Angabe zu „5.Überlegungen und Winke“ ist dreierlei zu beachten: 1. Die Grundstimmungen des Fragens; 2. die Weisungen in die äußersten Gesichtskreise der denkerischen Versuche; 3. der Zug der unausgesetzten Bemühung um die einzige Frage. Die „Grundstimmungen des Fragens“ sind das Erschrecken, die Verhaltenheit, die Scheu, die das seinsgeschichtliche Denken jeweils stimmen. Die „äussersten Gesichtskreise der denkerischen Versuche“ werden in „4. Die 2

Martin Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), Gesamtausgabe Bd. 65. Hrsg. v. F.-W. v. Herrmann. V. Klostermann Frankfurt am Main 1989. 3 Martin Heidegger, Überlegungen II -VI (Schwarze Hefte 1931-1938). Gesamtausgabe Band 94. Hrsg. v. P. Trawny, V. Klostermann Frankfurt am Main 2014. 4 Martin Heidegger, Vom Wesen der menschlichen Freiheit. Einleitung in die Philosophie. Freiburger Vorlesung Sommersemester 1930. Gesamtausgabe Band 31. Hrsg. v. H. Tietjen. V. Klostermann Frankfurt am Main 1982.

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Vorarbeiten zum Werk“ (GA 66, S. 424 f.) genannt: Die Unterscheidung von Seiendem und Sein, Das Da-sein – die Wahrheit, Der Zeit -Raum, Die Modalitäten, Die Stimmung, Die Sprache, Das Vorgehen und das Wesen der Frage.

Die „einzige Frage“ der denkerischen Versuche des Seinsgeschichtlichen Denkens ist „die Frage nach der Wahrheit des Seyns (GA 66, S. 424), die sich in den genannten „Gesichtskreisen“ hält. Die „Vorarbeiten zum Werk“ werden „Anläufe“ genannt, die die ganze Fragestellung von Sein und Zeit ursprünglicher festhalten und in die genannten Gesichtskreise rücken. Innerhalb dieser Gesichtskreise halten sich auch die „Überlegungen“, sofern auch sie wie die „Vorarbeiten zum Werk“ im Dienste der einzigen Frage nach der Wahrheit des Seyns stehen. Im selben Abschnitt 4. über die „Vorarbeiten zum Werk“ wird auch Wichtiges über die Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) gesagt: „Seit dem Frühjahr 1932 steht in den Grundzügen der Plan fest, der in dem Entwurf ‘Vom Ereignis’ seine erste Gestalt gewinnt“ (GA 66, S. 424). Die auf die Beiträge zur Philosophie folgenden Abhandlungen Besinnung (1938/ 39), Die Überwindung der Metaphysik (1938/ 39 in GA 67), Die Geschichte des Seyns (1938/ 40 GA 69), Über den Anfang (1941 GA70), Das Ereignis (1941/ 42 GA71) und Die Stege des Anfangs (1944 GA72) sind immer wieder neue Gestalten dessen, was erstmals als Plan für das Gefüge des Seinsgeschichtlichen Denkens seit Frühjahr 1932 feststand. Während die seinsgeschichtlichen Abhandlungen den entscheidenden Hauptweg des Seinsgeschichtlichen Denkens bahnen, sofern sie die Gedankenzüge für das Gefüge dieses Denkens zusammenstellen und bedenken, begleiten die „Überlegungen“ diesen Hauptweg und ergänzen ihn. Sie sind den großen wegbahnenden Arbeiten neben- und nachgeordnet und somit nicht vorgeordnet oder gar übergeordnet. Die kürzeren oder längeren Aufzeichnungen der ‘Schwarzen Wachstuchhefte’ sind daher nur von den grossen Abhandlungen her zugänglich und verständlich. Dieser Tatbestand ist der alleinige Grund dafür, dass die ‘Schwarzen Hefte’ nach Martin Heideggers Willen den Abschluss der Gesamtausgabe bilden und auch erst nach der Veröffentlichung aller anderen Bände der Gesamtausgabe erscheinen sollen. Die ‘Notizbücher’ „Überlegungen“ sind vielfach seinsgeschichtlich-kritische Deutungen des jeweiligen Zeitgeschehens. Darüberhinaus sind sie die Ergänzungen zu früher Gedachtem, indem sie erneut Stellung nehmen zu diesem oder jenem früher geäusserten Gedanken und diesen gelegentlich auch kritisch bedenken. Ein Beispiel für eine Bezugnahme zu früher Gedachtem sind die Aufzeichnungen 201, 202 und 204 aus dem Bande 94, die 210


das Thema ‘Tier und Mensch’ im Anschluss an die vergleichende Betrachtung der Weltarmut des Tieres und der Weltbildung des Menschen aus der Vorlesung vom Wintersemester 1929/ 30 Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit (GA 29/ 30) aufgreifen und ergänzend bedenken. Alle von Mal zu Mal sich einstellenden Gedanken, die nicht zu einem im Werden stehenden Manuskript gehören und die auch nicht diesem oder jenem unter einem Begriffswort stehenden Manuskriptenkonvolut hinzugefügt werden, finden seit 1931 in den ‘Notizbüchern’ Aufnahme. Auf Heideggers Nachttisch neben seinem Bett lagen Zettel und Bleistift, um die während der Nacht in einer schlaflosen Stunde sich dann und wann einstellenden Gedanken sogleich zu notieren und am nächsten Tag in das ‘Schwarze Heft’ in sorgfältigen Schriftzügen einzutragen. II.

Vom unrechtmäßigen und dem allein rechtmäßigen Umgang mit den ‘Schwarzen Wachstuchsheften’

In zwei von insgesamt drei Bänden der „Überlegungen“ (Bd. 95 und Bd. 96)5 stösst der Leser auf 13 Textstellen von je einem oder zwei oder vier oder in einem Fall fünf Sätzen, in denen Martin Heidegger in seinsgeschichtlich-kritischer Perspektive zum „internationalen Judentum“ und „Weltjudentum“ Stellung nimmt. Diese Textstellen, die kaum 2 ½ Seiten DIN A 4 füllen im Verhältnis zu den 1.250 Seiten der drei Bände „Überlegungen“, nahm der Herausgeber dieser Bände zum Anlass, nicht etwa nur die 13 Textstellen, sondern von diesen her das ganze Seinsgeschichtliche Denken, somit dieses als solches, als „systematisch-antisemitisch“ abzuqualifizieren. Die Heideggers kritische Stellungnahme zum „Internationalen Judentum“ tragenden Wortbegriffe sind: die Bodenlosigkeit, das Geschichtslose, das blosse Rechnen mit dem Seienden, das Riesige, die Weltlosigkeit, die leere Rationalität und Rechenfähigkeit, das Versäumnis der Seinsfrage, die Machenschaft des Seienden, das schlechthin Ungebundensein, die Entwurzelung alles Seienden aus dem Sein. Wer die seinsgeschichtlichen Abhandlungen, also die Haupttexte des Seinsgeschichtlichen Denkens, wirklich und vollständig gelesen und durchgearbeitet hat, sieht sofort, dass die aufgezählten Wortbegriffe jene seinsgeschichtlichen Begriffe sind, in denen Heidegger den Geist der neuesten Neuzeit und damit der Gegenwart kennzeichnet, sofern diese sich grundsätzlich aus dem Geist der mathematischen Naturwissenschaft und 5

Martin Heidegger, Überlegungen VII-XI (Schwarze Hefte 1938/ 39), Gesamtausgbe Band 95. Hrsg. von P. Trawny, V. Klostermann Frankfurt am Main 2014.

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modernen Technik versteht. Das bedeutet nun aber, dass jene Wortbegriffe nicht als solche antisemitisch sind, also nicht nur auf den jüdischen Geist, sondern auf den Gegenwartsgeist überhaupt bezogen werden. Wenn also Heidegger mit diesen Wortbegriffen den Geist des „internationalen Judentums“ kennzeichnet, dann bezieht er dieses in den neuzeitlichen Gegenwartsgeist ein. Dass er das „Weltjudentum“ eigens erwähnt und eigens kritisch beleuchtet, obwohl das von ihm herausgehobene Kennzeichen auch das des allgemeinen neuzeitlichen Gegenwartsgeistes ist, muss als Reflex auf den damals herrschenden Zeitgeist verstanden werden. Die seinsgeschichtliche Denkungsart und ihre eigene Begrifflichkeit ist nicht vom Wesen her antisemitisch und entspringt nicht einer antisemitischen Grundhaltung, sondern einem phänomenologischen Geist, der die Phänomene in ihrer eigentümlichen Geschichtlichkeit erfährt, sichtbar macht und begreift. Ausser dem vom Herausgeber der drei Bände der „Überlegungen“ verfassten Buch Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung, das die von uns umrissene philosophische Dimension der „Überlegungen“ völlig unbeachtet lässt, setzte der Herausgeber zu einem nationalen und internationalen Amoklauf an und verkündete allerorts den „Antisemitismus“ in den „Überlegungen“ und im Denken Heideggers überhaupt. In seinen Auftritten in den Medien und in selbstgewählter Zusammenarbeit mit den Journalisten bediente er diese mit seinen Behauptungen vom Antisemitismus im Denken Heideggers, die ohne kritische Rückfragen begierig aufgenommen und in den Medien unter moralischer Verurteilung Heideggers verarbeitet und verbreitet wurden. Der Herausgeber nahm auf diese Weise den Journalisten das eigene Lesen der „Überlegungen“ ab; denn diese sollten und mussten von der Meinung erfüllt sein, dass der Herausgeber am besten wissen müsse, was die fraglichen Bände der ‘Schwarzen Wachstuchshefte’ enthalten. Den Höhepunkt seiner Verleumdung des Denkens Martin Heideggers leistete sich der Herausgeber am 8. September 2014 auf einer Tagung über die ‘Schwarzen Hefte’ an der Emory University von Atlanta (USA), indem er verkündete, Heideggers „eigene spätere Philosophie“ sei „systematisch antisemitisch“, ferner, indem er äusserte, dass man Heidegger „mit den Mitteln des esoterisch-exoterischen Modells verstehen“ müsse und „wie in Platos ungeschriebener Lehre zwischen den Zeilen nach Heideggers versteckter Lehre suchen müsse, die „systematisch antisemitisch“ sei. Keiner der anwesenden Hörer des Referats vom Herausgeber, die überwiegend Professoren waren, stellte dem Referenten die Frage nach dem Beweis für diese ungeheure Behauptung. Heideggers Denken wurde in diesem Auftritt des Herausgebers als zutiefst antisemitisch kompromittiert. Festzuhalten bleibt, dass die jetzige Kampagne gegen Martin Heidegger

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im Unterschied zu früheren ähnlichen Angriffen vom Herausgeber der ‘Schwarzen Wachstuchhefte’ selbst ausgelöst worden ist, dass er selbst und nicht die Journalisten die Lawine des Antisemitismus-Vorwurfs losgetreten hat. Damit ist der Herausgeber dem Geist des Heideggerschen Denkens, der Nachlassverwaltung und auch der Gemeinschaft der Herausgeber von Martin Heideggers Gesamtausgabe in den Rücken gefallen. Der Herausgeber hat sich isoliert, verselbständigt, über alle akademischen Gepflogenheiten hinweggesetzt und in der Verfolgung seines subjektiven Zweckes, über den ich hier schweige, alles auf eine Karte gesetzt. So muss er auch sein durch und durch verleumderisches Buch und seine verleumderischen öffentlichen Auftritte ganz allein verantworten. Der Skandal sind nicht die genannten 13 Textstellen aus den „Überlegungen“, sondern der Skandal ist allein der verfälschende, verleumdende, zu tiefst unwahre Umgang mit diesen Textstellen. Weder sein ‘Buch’, das kein philosophisches Buch ist, wie Frau Prof. Ingeborg Schüssler, Lausanne, Schweiz, treffend urteilte, kein Buch wahrhaftiger und wahrer Interpretation ist, noch seine Ausführungen auf seinen vielen Auftritten in Deutschland, Frankreich, Holland, in den Vereinigten Staaten von Nordamerika und anderswo, werden von der Nachlassverwaltung und den Einzelherausgebern der Martin Heidegger-Gesamtausgabe mitgetragen, sondern vielmehr verurteilt. Seine These vom systematischen Antisemitismus des Denkens Martin Heideggers ist keine ernsthaft diskutierbare Interpretationssicht, sondern eine bloße Behauptung ohne mitgegebene Beweise. Als philosophischer ‘Hauptmitarbeiter’ an der Gesamtausgabe, wie mich Martin Heidegger schriftlich genannt hat, und als sein Privatassistent in seinen letzten vier Lebensjahren , hatte ich den jetzigen Herausgeber der ‘Schwarzen Hefte’ nur als Text-Editor, nicht aber als Text-Interpreten der Nachlassverwaltung empfohlen. Von seinem unphilosophischen Buch und seinen international vorgetragenen unphilosophischen Ausführungen, die mich nach meinem vieljährigen, ihn mannigfach fördernden Umgang mit ihm völlig überrascht und ihrer Unwahrheit wegen tief enttäuscht haben, musste ich mich brieflich um des Denkens Martin Heideggers und um der Wahrheit willen strikt von dem Herausgeber distanzieren. Das die Edition der „Überlegungen“ begleitende Buch des Herausgebers hätte gänzlich anders konzipiert und verfaßt werden müssen. Sollte mit diesem Buch eine Erklärung des Verlages zu den 13 kritischen Textstellen abgegeben werden, dann hätte die klärende Stellungnahme zu diesen Äusserungen die philosophische Dimension der „Überlegungen“ und der in diesen verstreut auftauchenden kritischen Äusserungen herausarbeiten müssen – so wie wir es im ersten Abschnitt unseres Essays und zu Beginn des zweiten Abschnittes getan haben. Das allein wäre der rechtmäßige Umgang mit 213


den ersten drei Bänden der ‘Schwarzen Wachstuchhefte’ gewesen. Stattdessen übergeht der Herausgeber die philosophische Dimension der ‘Schwarzen Hefte’ und somit der drei Bände „Überlegungen“ und verfolgt eine rein ideologisch-politische Perspektive, in der er den philosophischen Gehalt der „Überlegungen“ und deren Stellung zu den anderen Manuskriptarten des Seinsgeschichtlichen Denkens völlig ignoriert. Dadurch erweckt er bei den Lesern seines völlig unphilosophischen Buches und den Hörern seiner mündlichen Ausführungen den falschen Schein, dass es sich bei den ‘Schwarzen Heften’ im ganzen um antisemitisches Gedankengut handle. Sein Umgang mit den ‘Schwarzen Wachstuchheften’, mit Heideggers ‘Notizbüchern’, ist daher durch und durch verfälschend und somit zutiefst unwahr. In seinem Referat an der Emory University von Atlanta, USA, deutete der Herausgeber einen Textabschnitt aus den Beiträgen zur Philosophie. (Vom Ereignis) als einen Nachweis für Heideggers seinsgeschichtlichen Antisemitismus. Dieser Abschnitt hat folgenden Wortlaut: „Der reine Blödsinn zu sagen, dass experimentelle Forschen sei nordisch-germanisch und das rationale dagegen fremdartig! Wir müssen uns dann schon entschliessen, Newton und Leibniz zu den ‘Juden’ zu zählen. Gerade der Entwurf der Natur im mathematischen Sinne ist die Voraussetzung für die Notwendigkeit und Möglichkeit des ‘Experimentes’ als des messenden.“ (GA 65, S. 163). In seinem Hinweis auf diese Textstelle wollte der Herausgeber diese so verstehen, dass Heidegger auch Newton und Leibniz als ‘Juden’ bezeichnet habe. Damit gibt aber der Herausgeber zu erkennen, dass er das in diesem Zitat von Heidegger Gesagte gänzlich missverstanden, ja, in sein Gegenteil verkehrt hat. Heidegger wendet sich vielmehr in beissender Kritik gegen einen Satz aus dem nationalsozialistischen Wissenschaftsverständnis der Naturwissenschaften, der das experimentelle Forschen als ‘nordisch- germanisch’ und das rationale Forschen als ‘fremdartig’, soll heissen als ‘jüdisch’ bestimmt. Diese nationalsozialsozialistische Zuordnung des experimentellen Forschens zum nordisch-germanischen Geist und des rationalen Forschens zum jüdischen Geist wird von Heidegger als ‘reiner Blödsinn’ erklärt, denn das experimentelle Forschen in den Naturwissenschaften bedürfe selbst der rationalen Grundlegung durch den mathematischen Naturentwurf, der in wesentlicher Weise von Newton und Leibniz gestiftet wurde. Würde die Aufteilung des experimentellen und des rationalen Forschens auf das Germanische und auf das Jüdische zutreffen, dann müssten die grossen Rationalisten Newton und Leibniz von den Nationalsozialisten auch zu den ‘Juden’ gezählt werden, die sie ganz offensichtlich nicht sind. ‘Juden’ steht bei Heidegger in Anführungszeichen, weil er hier von den Juden im Sinne des nationalsozialistischen Sprachgebrauchs spricht. Jenes Zitat aus den 214


„Beiträgen zur Philosophie“ ist im Gegensatz zum Verständnis des Herausgebers ein klarer Nachweis dafür, dass Heidegger das rationale Forschen und Denken nicht wie jener nationalsozialistische Satz als ein Spezificum nur des jüdischen Geistes begreift, dass also Heidegger das Rationale als solches gerade nicht auf einen Volksgeist festlegt. Dieses Zitat ist somit kein Beispiel für das Heidegger angelastete antisemitische Denken, sondern vielmehr ein Gegenbeispiel dafür, dass Heidegger weder in den positiven Wissenschaften noch in der Philosophie antisemitisch denkt. Das beim Herausgeber vorliegende völlige Missverständnis jenes Zitats gibt zu denken und zu fragen: Darf ein philosophischer Herausgeber sich ein derartiges Missverständnis leisten? Weist dieses grobe Missverständnis nicht in eine Unsicherheit des Lesens und logischen Verstehens hin? Bisher bin ich auf solche Unsicherheiten auch in zwei weiteren Fällen im Band 94 der „Überlegungen“ gestossen. Wer solchen fundamentalen Missverständnissen und Unsicherheiten des Begreifens erliegt, kann dann auch leicht in die Lage geraten, die philosophische Dimension der ‘Schwarzen Wachstuchhefte’ zu verkennen, ja garnicht erst zu erkennen und daher zu abstrusen Behauptungen zu gelangen. Hier stehen wir vor einem wohl einzigartigen Fall, dass ein an der Herausgabe einer philosophischen Gesamtausgabe beteiligter Einzelherausgeber seine Edition mit einer desavouierenden Darstellung des Denkens seines Autors begleitet. Immer wieder werde ich gefragt, ob nicht ein solcher Herausgeber durch einen anderen abgelöst werden müsse. Aus unserer Kennzeichnung der Philosophischen Dimension der drei Bände „Überlegungen“ und aus unserer Analyse der Begrifflichkeit jener 13 knappen Textstellen aus den „Überlegungen“ geht hervor, dass diese Textstellen keine gedanklich-systematischen „Bausteine“, d.h. keine konstitutiven Gedankenzüge im Gefüge des Seinsgeschichtlichen Denkens sind. Um diese Feststellung in ihrem Aussagegehalt zu verstehen, muss man allerdings ein klares Verständnis von dem haben, was die innere Systematik und der innere Gefügecharakter eines philosophischen Denkens besagt. Mit anderen Worten, man muss selbst systematisch zu denken verstehen und zwischen einem systematischen und einem lediglich beiherspielenden (Hegel: nebenher gesagten) Gedanken unterscheiden können. Heidegger selbst betont in den Beiträgen zur Philosophie und vor allem in seiner gleichzeitigen ersten Schelling-Vorlesung: „Jede Philosophie ist systematisch, aber nicht jede ist System“ (GA Bd. 42, S. 51)6. Jede Philosophie und 6 Martin Heidegger, Schelling: Vom Wesen der menschlichen Freiheit (1809), Freiburger Vorlesung Sommersemester 1936, Gesamtausgabe Band 42. Hrsg. von Ingrid Schüssler, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1988.

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somit auch das Seinsgeschichtliche Denken ist in sich systematisch, d. h. gefügt. Den systematischen Charakter des Seinsgeschichtlichen Denkens fasst Heidegger in dem Wort ‘Gefüge’, das die innere Fügung und Ordnung des Fragens anzeigt. Die ‘Schwarzen Wachstuchhefte’ der „Überlegungen“, ihre durchgezählten Aufzeichnungen, sind bestimmt von der unausgesetzten Bemühung um die einzige Frage nach der Wahrheit des Seyns, die sich systematisch in einem strengen Gefüge des Fragens und des Gefragten entfaltet. Dies zu sehen, herauszuarbeiten und zu begreifen ist der allein rechtmäßige Umgang mit diesen Aufzeichnungen. Und hierbei gilt es zu unterscheiden, was ein systematischer Gedanke des Gefüges und was ein beiherspielender Gedanke ist, der nicht zum systematischen Gefüge eines Denkens gehört. In diesem Sinne sind die von uns immer wieder bedachten 13 Textstellen aus den Bänden 95 und 96 der Gesamtausgabe lediglich beiherspielende Gedanken, durch deren Wegfall das Gefüge des Fragens der Frage nach der Wahrheit des Seyns nicht angetastet wird. Allein in diesem Sinne müssen wir betonen, dass jene 13 Textstellen „philosophisch belanglos“ sind, wie es zuerst mein ungarischer Kollege, Prof. István Fehér aus Budapest, mit scharfem Urteilsvermögen formuliert hat.

Convegni NAPOLI, lunedì 19 gennaio alle ore 16, presso Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli Presentazione degli Atti del Convegno Stato di Diritto contro Ragion di Stato Per lo Stato di Diritto, federalista, democratico e i Diritti Umani contro la Ragion di Stato Saluti: Domenico Letizia – Seg. Associazione Radicale “Legalità e Trasparenza” di Caserta Introduzione: Matteo Angioli – Non c’è Pace Senza Giustizia Intervengono: Aldo Masullo – Filosofo e Politico Italiano Gianfranco Borrelli – Prof. di Storia delle Dottrine Politiche all’Università Federico II 216


Francesco Di Donato – Prof. di Storia delle Istituzioni Politiche all’Università Parthenope Luigi Compagna – Senatore della Repubblica Italiana Elisabetta Zamparutti – Tesoriere di Nessuno Tocchi Caino Conclusioni: Marco Pannella – Leader del Partito Radicale Modera il dibattito: Alessandro Barbano – Direttore de Il Mattino Sempre più cittadini di molti Paesi “democratici” sono espropriati del loro diritto civile e umano di conoscere in che modo e perché i governi a vari livelli prendano determinate decisioni che influiscono sui loro diritti umani e libertà civili, soprattutto per quanto riguarda questioni di “sicurezza nazionale”. Avvenimenti recenti, a partire dallo scandalo che coinvolge la National Security Agency (NSA) sollevato da Edward Snowden, l’utilizzo dei droni, gli attuali scontri a sfondo razziale negli Stati Uniti (ad esempio Ferguson) e le conseguenze della strutturale militarizzazione delle forze di polizia – soprattutto a causa di pretesti come la guerra alla droga e la guerra al terrorismo – testimoniano l’erosione dello Stato di Diritto, base della democrazia. Ancora più preoccupante è il fatto che tali sviluppi allarmanti spesso si siano verificati senza alcuna forma di controllo democratico. Il recente rapporto sul programma di tortura della CIA pubblicato dal Senato americano è certamente un passo importante che può rafforzare la qualità della democrazia americana. Sull'altra sponda dell’Atlantico, tuttavia, i cittadini britannici non hanno ancora il diritto di conoscere le responsabilità dettagliate del coinvolgimento del Regno Unito nell’invasione dell’Iraq nel 2003. Lo sconcertante e inaccettabile ritardo della pubblicazione del Rapporto Chilcot impedisce di conoscere i fatti, assegnare le responsabilità e trarre lezioni per il futuro. Da un lato vi sono Paesi di solida tradizione democratica che sembrano scivolare in una sorta di “sonno della ragione” e in cui, contemporaneamente, si assiste a un crescente disinteresse degli elettori a partecipare alla vita democratica del proprio paese e a una diffusa mancanza di fiducia nelle istituzioni di governo. Dall’altro lato esistono realtà in cui è la Ragion di Stato e la “legge della giungla” a prevalere. Le imponenti manifestazioni nonviolente a Hong-Kong testimoniano il persistente comportamento antidemocratico della Cina; l’intervento militare russo in Ucraina e le politiche di “normalizzazione” in Cecenia sono emblematiche del potere di Putin e del suo pugno di ferro; dopo il disastro del 2003, Iraq e Siria insieme all’Occidente sono alle prese con il fondamentalismo islamico dell’ISIS, al cui cospetto perfino la minaccia di Al Qaeda sembra inferiore; l’Iran sembra considerare i Paesi vicini sempre più come un cortile di casa e sfida la comunità internazionale aumentando di anno in anno le esecuzioni capitali nonostante 217


il progresso della moratoria universale ONU sulla pena di morte. Così, cinquant'anni dopo la sconfitta dei Paesi di “socialismo reale”, il rinnovato ricorso all’uso sistemico della Ragion di Stato, ormai prevalente, ha trasformato la maggioranza dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite in “democrazie reali”. L’avvertimento profetico del Presidente Eisenhower nel 1961 contro il pericolo derivante, per gli Stati Uniti e per il mondo intero, dal “complesso militare-industriale-congressuale” è rimasto inascoltato. Come denunciato dall’American Civil Liberties Union (ACLU) nel rapporto dello scorso giugno La Guerra arriva a casa, negli ultimi due decenni, in molti Paesi e città abbiamo assistito all’impiego di mezzi e strategie militariste e a un prolungato, pretestuoso e arbitrario Stato di emergenza proclamato per la pretesa necessità di difendersi e difenderci in tal modo da minacce derivanti da terrorismo, immigrazione, droga e altri “nemici”. Si è radicato così uno “Stato di Emergenza” permanente, le cui radici spesso affondano in presupposti ingannevoli, se non vere e proprie menzogne. Vittime della multiforme Ragion di Stato sono i diritti umani, la responsabilità, la mancanza di supervisione nel processo decisionale e, in ultima analisi, la pace. Ormai, lo Stato di Diritto rischia di esser sostituito e sepolto dallo Stato di Polizia. L’invasione dell’Iraq nel 2003 è certamente il fatto più rappresentativo nella storia recente, che dimostra con assoluta chiarezza come i processi decisionali illegittimi siano prevalsi nel cuore stesso dei Paesi democratici. Dalla fine del 2002, il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito ha condotto una campagna per l’esilio di Saddam Hussein quale unica alternativa alla guerra e per la transizione democratica in Iraq attraverso un governo provvisorio sotto la supervisione dell’ONU. Negli anni immediatamente successivi, gli sforzi si sono concentrati sulla ricerca della verità riguardo le circostanze in cui l’invasione fu decisa e, più di recente, sulla codificazione in sede ONU di un “diritto umano universale alla conoscenza”. Benché alcuni Paesi forniscano ai cittadini gli strumenti per accedere alle informazioni, ad esempio attraverso i Freedom of Information Acts (FOIA), questa normativa talvolta non risponde alle attese naturali e legittime dei cittadini, rivelandosi inadeguata e non disponibile in molti Paesi. Il diritto di conoscere ciò che i membri di Governo fanno segretamente a nome dei cittadini potrebbe migliorare il rapporto tra eletti ed elettori. Non vogliamo abolire il Segreto di Stato, bensì rivedere e perfezionare i meccanismi di controllo democratico così da contribuire al progresso della democrazia e del diritto nazionale e internazionale, garantendo nello stesso tempo il rispetto effettivo dei diritti umani. L’Organizzazione delle Nazioni Unite co-

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stituisce il primo objettivo istituzionale in cui proseguire e rafforzare l’iniziativa e l’adozione di una risoluzione o dichiarazione politica presso di essa potrebbe rappresentare il primo passo verso la codificazione del diritto alla conoscenza. La Prima Conferenza Internazionale si è tenuta lo scorso febbraio 2014 presso il Parlamento e la Commissione Europea a Bruxelles e ha permesso di gettare le basi per ulteriori attività di ricerca, più chiare e risolute. L’incontro ha avuto un carattere prevalentemente accademico, di ricerca culturale e scientifica: accademici, politici, diplomatici e osservatori hanno discusso le possibili vie d'uscita dallo “Stato di eccezione” permanente ed hanno analizzato la relazione tra il potere di fatto delle “democrazie reali” e il sistema di legge positivista esistente, basato sui Trattati e le Convenzioni ONU per i Diritti Umani. Gli Atti del Convegno di febbraio 2014 sono stati pubblicati in inglese, italiano e francese e sono stati presentati in tre luoghi simbolo: il 18 settembre presso il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, il 22 ottobre presso la Camera dei Comuni a Londra, il 4 dicembre presso la Camera dei Deputati a Roma. Una quarta presentazione si è svolta il 19 gennaio presso l’Istituto di Studi Filosofici a Napoli. Gli Organizzatori: Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito (PRNTT) è una organizzazione politica – con Status Consultivo Generale presso il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) – che promuove l’applicazione e il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, incoraggiando i suoi membri a perseguire azioni nonviolente per indurre le istituzioni nazionali e internazionali a rispettare le proprie leggi seguendo princìpi democratici. Il Partito Radicale, in quanto tale, non partecipa alle elezioni nazionali, regionali o locali. Membri del PRNTT sono Marco Pannella, Emma Bonino, il leader dell’opposizione cambogiana Sam Rainsy, leader della minoranza uigura Rebiya Kadeer, il ministro degli Interni tibetano Dolma Gyari, e George Soros. Non c'è Pace Senza Giustizia (NPSG) è un’organizzazione internazionale fondata da Emma Bonino e nata da una campagna nel 1993 del Partito Radicale per la creazione della Corte Penale Internazionale. NPSG lavora per la tutela e la promozione dei diritti umani, della democrazia, dello Stato di diritto e della giustizia internazionale. Le sue attività si svolgono secondo tre linee e programmi tematici: giustizia penale internazionale, mutilazioni genitali femminili, democrazia in Medio Oriente e Nord Africa. NPSG è un membro costitutivo del PRNTT. Nessuno Tocchi Caino (NTC) è un’organizzazione con sede in Italia e in Belgio, fondata nel 1994, che conduce una campagna per l’abolizione della 219


pena di morte in tutto il mondo attraverso la promozione della moratoria universale ONU delle esecuzioni capitali. NTC è un membro costitutivo del PRNTT. (Dal sito: http://www.radicali.it/evento/presentazione-atti-del-convegno-stato-dirittocontro-ragion-stato)

Osservatorio librario Giorgio Agamben, Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Einaudi, Torino 2013, p. 68, € 7,00. I testi raccolti da Giorgio Agamben in questo volume – un tentativo di interpretazione dell’abdicazione di Benedetto XVI (Il mistero della Chiesa) e una conferenza sul tema della fine dei tempi quale emerge dalla Seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi (Mysterium iniquitatis. La storia come mistero) – si muovono attorno alla questione del significato politico del messianismo. La decisione di Benedetto XVI – considerata alla luce dell’abdicazione di Celestino V – viene collocata nel contesto escatologico della filosofia cristiana della storia e interpretata in rapporto alla questione del male e alle categorie filosofico-politiche di legittimità e legalità, facendo così emergere il significato politico del tema messianico della fine dei tempi e della questione del male. In appendice al volume vengono pubblicate le Dichiarazioni di Celestino V e Benedetto XVI, insieme ad alcuni brani dal Liber regularum di Ticonio e dal Civitate Dei di Sant’Agostino Ubaldo Fadini, Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, ombre corte, Verona 2013, p. 154, € 15,00. L’autore cerca di offrire un’immagine delle trasformazioni della soggettività nel contesto dell’attuale affermazione di un’economia “biocapitalistica” che qualifica la forza lavoro come capitale variabile e – insieme – come modalità di incorporazione di parti di capitale fisso. Per soddisfare l’esigenza di ridefinire il rapporto tra il “vivente” e il “positivo”, il “corpo” e la “tecnica”, l’Autore accosta prospettive teoriche differenziate e ritenute spesso inconciliabili, dalla teoria critica di Adorno e Benjamin al pensiero

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“differenzialista” di Deleuze e Guattari fino agli studi di André Gorz e Christian Marazzi. Particolare rilievo viene attribuito alla riflessione deleuziana sull’istituzione, che, slegando quest’ultima dalla legge per connetterla all’immaginazione, evidenzia le potenzialità critiche e trasformatrici insite nel passaggio “dal diritto alla politica”. Guy van Kerckhoven, Le présent de la rencontre. Essays phénoménologiques, Hermann, Parigi 2014, p. 365, € 32,00. In questo studio Guy van Kerckhoven prosegue la direzione di indagine intrapresa nel precedente volume De la Rencontre. La face détournée, pubblicato presso lo stesso editore nel 2012. Rifacendosi all’esempio di Frederic Buytendijk e Otto Friedrich Bollnow, l’Autore propone una vera e propria “fenomenologia dell’incontro” che si sviluppa attraverso saggi dedicati a poeti e filosofi come Hugo von Hofmannstahl e Philippe Jacottet, Romano Guardini e Paul Valéry, Georg Misch e Henri Alain-Fournier. Quello che l’autore cerca di cogliere attraverso le sue analisi è il mostrarsi delle cose e degli altri nel presente, un incontro carico del senso di meraviglia che promana dalla poesia di Baudelaire A una passante, riprodotta al termine del volume. Gunnar Declerck, Résistence et tangibilité. Essai sur l’origine phénoménologique des corps, Le Cercle Herméneutique, Argenteuil 2014, p. 348, € 23,00. Cosa sono i corpi che ci circondano nella quotidianità e con i quali dobbiamo costantemente negoziare il nostro spazio? E, più radicalmente: perché ci sono dei corpi? L’autore risponde a queste domande tentando, in primo luogo, a fronte della desostanzializzazione del reale avviata dalla meccanica quantistica, di comprendere il ruolo svolto dall’anticipazione del possibile nella percezione. La realtà dei corpi a cui ci introduce la percezione costituisce un mondo solido solo perché la soggettività dà senso a ciò che è riferendolo a ciò che può essere. L’opera sviluppa questa idea criticando la concezione “attualistica”, che subordina il fenomeno del corpo all’esperienza in atto di una resistenza, e decostruendo l’approccio fisicalistico e objettivistico, che pretende di derivare le proprietà dei corpi percepiti da strutture ontologiche a essi soggiacenti. Bruno Leoni, Opere complete, vol. V: Liberalismo e storia del pensiero politico, Istituto Bruno Leoni, Milano 2014, € 7,99 (e-book). Gli scritti raccolti in questo libro rendono conto della parte dell’opera di Bruno Leoni che riguarda la storia del pensiero politico moderno e in particolare la prospettiva teorica liberale. Al centro dei testi qui presentati (tra i 221


quali il più ampio è quello intitolato Il pensiero politico e sociale dell’Ottocento e del Novecento, del 1953) si trova la tensione, che caratterizza l’intero pensiero economico e giuridico di Leoni, tra Stato e mercato, intervento pubblico e libertà individuale. Alle analisi dedicate al razionalismo e al socialismo, a Marx e al sindacalismo si aggiungono quelle sul pensiero liberale, nelle quali Leoni esprime la sua convinzione che per gli uomini non possa esserci libertà senza libero mercato. (L’Osservatorio librario è c/ di Massimo Mezzanzanica)

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