magazzino di filosofia quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia n° 22, anno VIII, 2013/14 (A8): s a g g i (peer review)
P.E.M.
M a g a z z i n o
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F i l o s o f i a
Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia *Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia) *Redazione: Cristina Boracchi (Gallarate), Gianvito Brindisi (Napoli), Riccardo Lazzari (Milano), Simone L. Maestrone (Bonn), Alfredo Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Alessandra Rauti (Milano), Giacomo Rinaldi (Urbino), Erasmo S. Storace (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Roberto Valentini (Milano), Fabio A. Volontè (Varese), Alessandra Zambelli (Parigi) *Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano), Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Lorenzo Giacomini (Milano), Santino Maletta (Cosenza), Carlo Montaleone (Milano), Renato Pettoello (Milano), Valeria Pinto (Napoli) *Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina (Lexington, Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello (Milano), Klaus Held (Wuppertal), Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Giovanni Piana (Cosenza), Stefano Poggi (Firenze), Frithjof Rodi (Bochum), Gianni Scalia (Bologna), Franz-Anton Schwarz (Freiburg i. Br.), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven (Bruxelles/ Bochum), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti (Pavia), Stefano Zecchi (Milano). *Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Jan Bednarich (Gorizia), Simona Bertolini (Parma), Fiorenza Bevilacqua (Milano), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia), Ambrogio Cazzaniga (Milano), Alfredo Civita (Milano), Andrea Cudin (Trieste), Carmine Di Martino (Milano), Miriam Franchella (Milano), Andrea Gilardoni (Milano), Sergio Levi (Milano), Pier Giuseppe Milanesi (Pavia), Walter Minella (Pavia), Luca & Mirela Oliva (Chestnut Hill, Ma.), Fabrizio Palombi (Roma), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano), Paolo Volontè (Milano). *Recapiti: email: info@filosofiacontemporanea.it; “Associazione P.E.M”, via Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com; “Riccardo Lazzari” rlazzari@tin.it; “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Rubrica inviare a: Alfredo Marini email: eawqm-
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verum ipsum factum
So mma r io Friedrich-Wilhelm von Herrmann, “Essere e tempo” e l’esserci
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Fiorenza Bevilacqua, Che cosa fare di Senofonte?
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FILOSOFIA E POLITICA Davide D’Alessandro, Vita, Potere e Governo (attraverso Foucault e oltre)
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MEDI CI NA ANTI CA & EPI S TEMOLOGI A DELLE SCI ENZ E UMANE (PEM) Silvia Gastaldi presenta un testo di Paola E. Manuli, Elogio della castità. La Ginecologia di Sorano
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FILOSOFIA E TEOLOGIA: Luigi Ceccarini, Cristianesimo, morale e santità CONTAMINAZIONI Simone Luca Maestrone, L’“enigma mondo” nella Freiheitsschrift. La critica a Spinoza e il parallelismo onto-semantico nel trattato schellinghiano del 1809 Emilio Renzi, Nella risacca della storia. Servitù e grandezza della vita militare di Alfred de Vigny
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PRATICA FILOSOFICA Ambrogio Cazzaniga, Le radici “metafisiche” dell’Occidente (modelli per l’insegnamento di storia della filosofia
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IDEALISMO ITALIANO & IDEALISMO ANGLOSASSONE Cristian Cristofoletti, La filosofia hegeliana della religione oggi
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Chiuso in redazione il 31. 12. 2013 da Alfredo Marini
Rivista finanziata dalla
Fondazione Banca del Monte di Lombardia ISBN: 978-1495341014 ISSN: 1592–5919
Questa rivista prodotta in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, è espressione della AS SOCI AZ I ONE P. E. M. – MEDI CI NA ANTI CA & SCI ENZ E UMANE (Pavia) Alfredo Marini, v. Emilia 24, 27100 PV, tel. 0382.475098, cell. 328.3208089
Friedrich-Wilhelm von Herrmann
Essere e tempo e l’esserci
L’alto rango che spetta all’opera Essere e tempo – per cui essa può anche essere paragonata alle Meditationes de prima philosophia di Cartesio o alla Critica della ragion pura di Kant – sta nel fatto che in essa, come nelle suddette precedenti opere della filosofia moderna, è la filosofia in totale (cioè nei suoi problemi fondamentali) a essere rifondata. Cartesio compì la sua fondazione della filosofia prima con l’intuizione fondamentale dell’ego cogito cogitatum assolutamente indubitabile in quanto fondamento della verità, dell’essere e del conoscere. Kant pervenne al compito di una nuova fondazione della metafisica attraverso un’interpretazione trascendentale della pura ragione teoretica. Con riferimento terminologico a Kant, anche Heidegger cerca una fondazione della filosofia tutta in base all’intuizione inaugurale dell’essenza dell’uomo in quanto esserci. La domanda fondamentale che guida l’impresa della fondazione è quella circa il senso di essere in quanto tale e viene elaborata in Essere e tempo attraverso una fenomenologia ermeneutica dell’esserci. Benché Essere e tempo sia letto da 75 anni, regna ancor oggi una diffusa insicurezza su che cosa debba essere pensato in questo concetto di “esserci”. Nella letteratura critica si è consolidata, con
Ringrazio Fr.-Wilh. v. Herrmann per avermi concesso di tradurre in it. questa, che è la più concisa Presentazione sintetica di Essere e tempo da parte di chi ne ha fatto il più ampio Commento analitico (védine i volumi finora apparsi presso la casa ed. Vittorio Klostermann, Francoforte): Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Hermeneutische Phänomenologie des Daseins. Eine Erläuterung von ‘Sein und Zeit’, – Bd. I. “Einleitung: die Exposition der Frage nach sem Sinn von Sein”, 1987; – Bd. II. “Erster Abschnitt: Die vorbereitende Fundamentalanalyse des Daseins, § 9-§ 27”, 2005; – Bd. III. “Erster Abschnitt: Die vorbereitende Fundamentalanalyse des Daseins, § 28-§ 44”, 2008; … <n.d.t.>
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poche eccezioni, l’opinione che tutto ciò che la parola “esserci” nomina riguardi in sostanza l’essenza dell’uomo. Ne conseguirebbe che l’analitica esistenziale dell’esserci non sia che un’analitica dell’esistenza la quale, dal canto suo, resterebbe ancora esterna a ciò che nella domanda fondamentale si domanda. L’“esser-”, come anche il “-ci”, dell’esserci nominano – così dice l’opinione corrente – solo qualcosa che riguarda l’uomo in quanto uomo. Dato che una comprensione sufficiente di Essere e tempo fa tutt’uno con il chiarimento del contenuto fenomenale che è da pensare nel concetto di “esser-ci”, tenteremo subito questo chiarimento fondamentale. La concezione dominante di questo concetto-base potrebbe venirci confermata proprio da quella proposizione del § 2 di Essere e tempo1 in cui il termine “esserci” viene introdotto nel corso della ricerca: “Questo ente che noi stessi via via siamo e che tra l’altro possiede la possibilità d’essere del domandare, lo indichiamo col termine di esserci” (p. 72). La proposizione immediatamente successiva, che pone la domanda fondamentale di Essere e tempo in rapporto con l’analitica dell’esserci, sembra dare ragione all’opinione corrente: “La posizione espressa e perpicua della domanda circa il problema del senso di essere richiede dunque la preliminare e adeguata esplicitazione di un ente (l’esserci) rispetto al suo essere” (ivi). Ciò che il disoccultamento dell’esserci circa il suo essere – precedente la stessa domanda fondamentale – mette in luce (sia le molteplici maniere d’essere (-essere), che la schiusura in esse dischiusa (-ci) –, sembra riguardare solo l’uomo stesso nel suo essenziare esistenziale, cosicché il richiesto della domanda fondamentale di Essere e tempo sembra restare escluso dall’analitica dell’esserci. La stessa impressione, e cioè che nell’analitica esistenziale dell’esserci si tratti solo dell’essere, dell’esistenza dell’uomo, desta anche il modo in cui, nel § 4 di Essere e tempo, viene introdotto il concetto fondamentale “esistenza”: “L’essere stesso, rispetto al quale l’esserci può tenersi, e sempre in qualche rapporto si tiene, lo chiamiamo esistenza” (p. 12). Una chiosa a margine nell’“esemplare della bàita”3 chiarisce ulteriormente: “rispetto al 1 M. Heidegger, Essere e tempo, Einzelausgabe, Max Niemeyer, Tübingen, 15ª ediz. 1979. (tr. it. di Alfredo Marini, Oscar Mondadori “Classici moderni” n. 236 <n.d.t.>). 2 NB: la numerazione di pagina è quella dell’originale tedesco riportato a margine anche nell’Oscar-Mondadori della ns. traduz. it. <n.d.t.> 3 Heidegger teneva a portata di mano, nella sua bàita a Todtnauberg, un esemplare di Essere e tempo che negli anni si arricchì di note poi integrate, come Appedice, nell’edizione da noi a suo tempo tradotta. Gli impiegati dell’editore it. (da A.M. pregati di inserire la paginazione tedesca perché si potesse – anche nell’edizione “Oscar” – risalire agevolmente all’originale), lo ha fatto bensì, ma per quanto riguarda le chiose dello Hüttenexemplar, ha arbitrariamente tagliato l’Appendice che le conteneva, lasciando nel testo principale solo gli esponenti letterali che vi si riferivano: per rintracciare la traduzione di tali chiose bisognerà riprendere in mano la precedente edizione del relativo “Meridiano”. <n.d.t.>
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quale, come al suo proprio essere, l’esserci si tiene in questo o quel rapporto”. L’ente chiamato esserci si rapporta nel suo essere al proprio essere nella maniera del progetto dejetto. Projettando nel suo trovarsi dejetto, esso dischiudendo si rapporta a ciò in cui è già dejetto, e cioè la schiusura che si sta (tonalmente) dischiudendo. Questa schiusura, che si trova via via a dischiudersi e va dischiusa nel compiuto projettare, non pare esser altro che la schiusura dell’esistenza. Una tale spiegazione sembra confermarsi se, appena introdotta l’esistenza, torniamo con lo sguardo al concetto-base di “esserci”. Il “titolo esserci” sarebbe “stato scelto a designare questo ente puramente e semplicemente in quanto contiene l’espressione essere”, perché l’essenza dell’uomo starebbe nel fatto “che esso <questo ente> ha ogni volta da essere il suo essere in quanto suo” (ivi). Tuttavia, non più oltre che nel quinto capitolo della “Analisi fondamentale preparatoria dell’esserci”, nell’analitica esistenziale dell’“in-essere in quanto tale” (a partire dall’“essere-nel-mondo”) e qui, in particolare, soprattutto nei §§ 28, 29 e 31, un’esatta indagine fenomenologico-ermeneutica constata con chiarezza che il ci dell’esser-ci non è soltanto la schiusura dell’esistenza e dei suoi caratteri esistenziali costitutivi, ma il ci è già, anche e insieme, la schiusura di quello che è chiesto nella domanda fondamentale circa il senso dell’essere in quanto tale: la schiusura sia di tutto l’essere dell’ente che non è l’esserci, come anche del senso di questo essere. Nell’istruttivo § 28, che illustra “il compito di un’analisi tematica dell’inessere” a partire dall’“essere-nel-mondo”, si arriva a un chiarimento orientativo di cosa voglia dire intendere l’esserci come l’“essere del ci”. “L’ente che viene per essenza costituito dall’essere-nel-mondo è esso stesso ogni volta il proprio ‘ci’ (p. 132). L’“è” in corsivo nomina l’esistenza. L’espressione: “il proprio ‘ci’ ” richiama di nuovo l’opinione, che non si tratti d’altro che del ci dell’ente esistente e della sua esistenza. Il “ci” viene illustrato come “non-chiusura”. “Tale ente reca nel suo essere più proprio il carattere della non-chiusura” (ivi). Anche questa frase sembra voler sottolineare che la non-chiusura sia in fondo quella dell’esistenza, cioè di quell’essere che è proprio solo di questo ente e che perciò è detto l’essere “più proprio”. “L’espressione ‘ci’ indica questa schiusura essenziale” (ivi), che è “essenziale” perché appartiene all’essenza di questo ente, cioè all’esistenza. Ma in che maniera il ci, la schiusura, appartiene all’esistenza? Forse nel senso che il ci significhi soltanto l’esser dischiuso dell’esistenza? La proposizione successiva accenna in modo inequivocabile all’interna costituzione del ci. “Grazie a essa [alla schiusura] questo ente (l’esserci), in una con l’esser-ci di un mondo, ‘ci’ è per se stesso” (ivi). Grazie alla schiusura, l’esserci “‘ci’ è per se stesso”, ossia: è dischiuso come tale in quanto sé. Ma in che maniera è dischiuso in quanto sé? Non nel senso che sia chiuso in se stesso come polo del sé, e sia solo presso di sé. L’ente che viene chiamato “esserci” 7
viene dischiuso a se stesso nel senso che esiste come “esser-ci di un mondo”. “Esser-ci di un mondo” vuol dire: schiusura (-ci) di un mondo in, e per, l’esistenza (-essere). Un mondo, però, non viene dischiuso in, e per, l’esistenza nel senso di esser dischiuso nella schiusura del sé, nel sé dischiuso. Un mondo è piuttosto dischiuso in, e per, l’esistenza nel senso che l’esistenza, nella sua schiusura di sé, si estolle nell’orizzonte di un mondo, nella schiusura orizzontale di un mondo. L’esser-dischiuso-per-se-stesso del sé è un dischiuso estollersi nel dischiuso orizzonte del mondo. Nell’esplicito accompagnarsi ermeneutico al senso della schiusura del ci, l’interna costitutività del ci si mostra allo sguardo fenomenologico. Il -ci dell’esser-ci è costituito come un esser-dischiuso che si estolle [entrückt] come un sé, che si estolle, cioè, nella schiusura d’orizzonte. Il modo dell’estollersi, che caratterizza l’esistenza, è chiamato da Heidegger il momento estatico dell’esistenza. L’esistenza, così com’è, è costituita nell’estaticità del sé. Nel suo essenziare estatico essa è aperta nella comprensione per il mondo orizzontalmente dischiuso. In altre parole, il ci mostra in sé una struttura bi-unitaria: la schiusura della seità estatica e la schiusura d’orizzonte. L’esser-ci, come essere del ci, visto a partire dalla schiusura, nomina la dimensione seitaria-estatico-orizzontale della schiusura. La schiusura orizzontale è, nel ci, quella dimensione della schiusura che appartiene bensì essenzialmente alla dimensione della seità estatica, ma in modo tale da andare oltre di essa. L’intuizione della dimensione orizzontale della schiusura del ci, rende evidente che il ci non vuol dire solo la schiusura dell’esistenza propria ma va, oltre questa, in quella dimensione della schiusura a partire dalla quale l’esistenza comprende l’ente diverso dall’esserci nella sua intramondanità e nelle relative maniere d’essere. L’ente esistente si chiama ontologicamente “esserci” perché “è nella maniera dell’essere il proprio ci” (p. 133). Benché, anche qui, esso si chiami ancora “essere”, e non “il” ci, il ci vi è inteso non solo come schiusura del sé estatico, ma come schiusura piena, alla quale appartiene la schiusura orizzontale dentro la quale si estolle il sé esistente. Il pronome possessivo “proprio”, nelle espressioni “il proprio ci”, la propria schiusura”, vuol dire soltanto che il pieno ci, con la sua schiusura orizzontale, è dischiuso nell’ – e per – l’esserci sempre mio. Ma questo non significa che il -ci dell’esser-ci sia solo la schiusura del sé e della sua esistenza. Il “mio” ci è la schiusura della mia esistenza estatico-seitaria e la schiusura di ciò in cui io mi estollo nella mia esistenza. Questo dischiuso “in cui” è l’aperto [das Offene] del mondo e di tutto l’essere dell’ente diverso dall’esserci, dal quale l’ente come tutto e come questo e quello mi viene incontro. Il sé esistente, si chiama “esserci” non perché il ci sia solo quello della sua esistenza, ma perché esso, nella sua esistenza, tiene aperto non solo la schiusura estatico-seitaria ma,
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con questa, anche quella che è la schiusura d’orizzonte per il mondo e per l’essere di tutto l’ente. Il ci e la schiusura sono già indicati nel § 28 di Essere e tempo, come “la chiarìta” (ivi). L’ente esistente è “rischiarato in se stesso in quanto esserenel-mondo” (ivi), nel senso che “lui stesso è la chiarìta” (ivi). È la chiarìta in quanto esistendo la tiene aperta. Esser-ci come essere del ci vuol dire: essere della chiarìta, esistere tenendo aperta la chiarita che è dimensionata in modo estatico-seitario-orizzontale. In quanto orizzontale la chiarìta abbraccia non soltanto questo e quell’ente, non soltanto il mondo-circostante prossimo di una connessione di usi-per, ma la totalità dell’ente, che per me può solo essere aperta come questa totalità a partire dalla chiarìta che tutto abbraccia. Tuttavia qui non si tratta, o non si tratta ancora, della chiarìta esperita in senso-ontostorico, ma della chiarìta vista in senso ontologicofondamentale, che è costituita fondamentalmente in senso estatico-seitarioorizzontale. Il compito primario del quinto capitolo “L’in-essere in quanto tale” è la descrizione fenomenologico-ermeneutica di quelle maniere d’essere nelle quali l’ente esistente tiene aperto il ci, la schiusura. “Noi ravvisiamo nel trovarsi e nel comprendere le due maniere costitutive, tra loro cooriginarie, di essere il ci.” (ivi). E ancora una volta si affaccia il pensiero che la schiusura dischiusa nelle maniere d’essere esistenziali del trovarsi e del comprendere non siano altro che quelle dell’ente esistente. Eppure l’interpretazione dell’analisi del trovarsi nel § 29 “L’esser-ci come trovarsi” deve prendere le distanze da questo malinteso. Ogni tonalità o maniera di tonalizzazione dischiude la dejezione, come estatico-seitaria e orizzontale, nella totalità del ci. In ogni tonalità accade il getto autoschiudente del ci, che, riguardo all’ente esistente, accade in modo che quest’ultimo si sperimenta trasposto (dejetto) nella schiusura che fattiziamente si schiude. Dejetto vuol dire: trasposto nella piena dimensione estatico-seitaria-orizzontale della schiusura. Che la dejezione che accade a partire dal dischiudersi del getto tonale riguardi il tutto, risulta pienamente evidente dal secondo carattere ontologico essenziale del trovarsi: “La tonalità ha di volta in volta già dischiuso l’essere-nel-mondo come intero” (p. 137). L’“intero” viene descritto come segue: Il trovarsi è un fondamentale modo esistenziale della coorigiaria schiusura di mondo, ‘con-esserci’ ed esistenza (ivi). Questa descrizione si muove all’interno del duplice dimensionamento del ci. Il trovarsi non è solo schiusura d’esistenza, dunque: non solo schiusura tonale estatico-seitaria, ma cooriginariamente anche schiusura tonale-orizzontale di mondo e di maniere d’essere di ente non-esistente, come allamano o sottomano, vita, e così via. Mentre nella maniera d’essere fondamentale del trovarsi il ci via via fattiziamente si schiude, l’esserci così trasposto nell’auto-schiusura fattizia compie anche nella sua fondamentale maniera d’essere del comprendere 9
analoga schiusura. Di questo si dice nel § 31 “L’esser-ci come comprendere”: “La schiusura del comprendere, in quanto è quella dell’in-grazia-dicui (esistenza) e della significatività (mondo)4, riguarda cooriginariamente il pieno essere-nel-mondo.” (p. 143) Anche lo schiudere che si compie nell’autoschiusura fattizia appartiene pienamente alla schiusura in sé dimensionata come estatico-seitaria e orizzontale. Come lo schiudere della schiusura che si trova-fattiziamente-a-dischiudere ha la struttura dello schiudere che getta nella dejezione, così lo schiudere comprendente mostra la struttura esistenziale della projezione (p. 145) Il comprendere esistendo è in sé projettante, cioè dischiude aprendo la “piena schiusura dell’esserci come essere-nel-mondo” (p. 146). L’autoschiudersi che si trova-a-gettare forma con lo schiudere projettante-comprendente una compagine di due modi correlati di schiudimento, che costituiscono insieme l’unitario accadere dello schiudimento del ci. La schiusura che si dischiude a partire dalle maniere di schiudimento reciprocamente riferite l’una all’altra, della dejezione e della projezione è il ci dell’esser-ci, il quale ci, è in sé dimensionato come estatico-seitario e orizzontale. Nel §31, sub finem, viene messa propriamente a fuoco l’interna connessione tra la schiusura dell’intero essere-nel-mondo e la schiusura d’essere in quanto tale. Ma la schiusura d’essere in quanto tale non è altro che il chiesto [das Gefragte] della domanda fondamentale circa il senso di essere come tale. La proposizione decisiva suona: “Nel suo esser projettato sull’in-grazia-di-cui e insieme sulla significatività vi è già schiusura dell’essere in assoluto” (p. 147). Spieghiamo: nella projezione dell’esistenza sulla schiusura del sé estatico su quella possibilità d’esistenza che all’esserci nel suo essere importa, in una con la projezione dell’esistenza sull’orizzontale schiusura di mondo in quanto significatività, vi è già schiusura d’essere in quanto tale. “Essere in quanto tale” vuol dire essere in totale, non solo essere come esistenza, ma inoltre essere di ogni ente, essere di tutto l’ente non esistente, diverso dall’esserci. Schiusura d’essere come tale vuol dire: schiusura di esistenza e ‘coesistenza’ o ‘con-esserci’ e inoltre schiusura di ogni maniera d’essere diversa da quella dell’esserci. Nella schiusura dell’esserci in una possibilità del suo essere-nel-mondo non vi è solo schiusura d’esistenza, coesistenza e mondo, ma essenzialmente anche schiusura di ogni essere diverso dall’esserci, dunque schiusura di essere in totale, di essere in quanto tale. L’espressione “essere in quanto tale” è usata in Essere e tempo in senso stretto e in senso lato. Nella domanda fondamentale circa il senso d’essere 4 Il riferimento è al doppio orizzonte della mondanità (Weltlichkeit): quello “interno” dell’“in-grazia-di-cui” (Worumwillen) e quello “esterno” dell’“in-vista-di-cui” (Woraufhin). L’orizzonte dell’ “in-vista-di-cui” si chiama anche, come in Wilhelm Dilthey, “significatività” (Bedeutsamkeit). <n.d.t.>.
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in quanto tale, “essere in quanto tale” è usata in senso lato: essere in totale, e quindi: essere dell’esserci ed essere di tutto l’ente diverso dall’esserci. Ma quando si tratta dell’essere dell’esserci, dell’esistenza, e si fa occasionalmente menzione che la fondamentale domanda-guida dell’analitica dell’esserci è la domanda fondamentale circa il senso di essere come tale, allora l’espressione “essere in quanto tale” si riferisce a tutto l’essere diverso da quello dell’esserci. Essere in quanto tale significa allora: non solo essere come esistenza, ma anche tutto l’essere, l’essere in totale, essere in quanto tale. Come nella doppia projezione dell’esistenza – da un lato sulla schiusura estatico-seitaria di una possibilità d’esistenza, dall’altro sulla schiusura orizzontale del mondo che a tale possibilità appartiene (totalità di significatività) – vi sia “schiusura d’essere come tale”, è evidenzito dalla seguente proposizione: “Nel projettare su possibilità è già anticipata una comprensione d’essere” (ivi). Comprensione d’essere è un’altra parola per schiusura d’essere, comprensione come schiusura d’essere. Essere come tale o essere in totale sono dischiusi in un duplice modo: essere come esistenza o coesistenza in modo estatico-seitario, mentre tutto l’essere diverso da quello dell’esserci è dischiuso nella modalità di orizzonte. Se, nel projettare su possibilità, è già anticipata una comprensione d’essere, una schiusura d’essere come tale e in totale, ciò significa che la schiusura d’essere come tale, dischiusa nella dejezione e da dischiudere nella projezione, già scorre sotto il projettarsi dell’esserci su possibilità dell’essere-nel-mondo e già sempre accompagna quest’ultimo. L’ultima proposizione di questo importante capoverso rimanda esplicitamente il lettore alla terza Sezione della prima Parte, intitolata “Tempo ed essere”, a quel capoverso in cui la domanda fondamentale circa il senso di essere come tale ottiene una risposta. “Un chiarimento […] del senso esistenziale di questa comprensione d’essere potrà essere raggiunto solo sulla base dell’interpretazione chronica dell’essere” (ivi). Il chiarimento di come, nella comprensione esistenziale (projettare) venga dischiuso e compreso non solo essere come esistenza, ma essere in assoluto, essere di tutto l’ente diverso dall’esserci, rientra nell’ambito della risposta alla domanda circa il senso di essere come tale, grazie all’interpretazione chronica [temporal] dell’essere diverso dall’esserci. Il senso dell’essere dell’esserci è la temporalità [Zeitlichkeit] estatica. Invece il senso dell’essere di tutto l’ente diverso dall’esserci è il tempo orizzontale che appartiene alla temporalità esistenziale. Questa tematica dell’autointerpretazione chronica è annunciata nel §
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5 di Essere e tempo e svolta nei suoi tratti fondamentali nella Lezione marburghese “I problemi fondamentali della fenomenologia”.5 Ciascuna delle tre estasi temporali è per essenza inquadata in un orizzonte. I tre orizzonti temporali delle tre estasi temporali formano insieme il tempo orizzontale in base al quale le tre maniere d’essere dell’ente diverso dall’esserci ottengono il loro senso temporale [zeithaft], chronico [temporal] in quanto “presenza [Anwesenheit]. La temporalità esistenziale è la costituzione temporale della schiusura estatico-seitaria, mentre il tempo orizzontale forma la costituzione temporale della schiusura orizzontale. “Esserci” è bensì il nome ontologico dell’essere esistente, ma solo perché l’ente esistente nel compimento del suo essere tiene aperto il pieno e totale ci. Questo ci non è solo la schiusura del sé esistente e della sua esistenza, ma è la piena schiusura estatico-seitaria e orizzontale. La schiusura orizzontale, che si riferisce indietro alla schiusura estatico-seitaria non è però soltanto il luogo essenziale per il mondo, ma anche per tutto l’essere dell’ente diverso dall’esserci e per il tempo orizzontale, cioè per l’orizzonte chronico [temporal], a partire dal quale la domanda fondamentale circa il senso dell’essere in quanto tale ottiene la sua risposta. Già in Essere e tempo (nel § 44 “Esserci, schiusura e verità”) la schiusura, dunque il ci dell’esser-ci, è la verità originaria, più originaria dello svelamento antepredicativo dell’ente intramondano e, soprattutto, più originaria della verità dell’enunciato predicativo. Come sappiamo dalla continuazione di Essere e tempo, dalla Lezione marburghese intitolata “I problemi fondamentali della fenomenologia”, quello che viene presentato come il quarto problema dell’ontologia fondamentale fenomenologico-ermeneutica “Il carattere di verità dell’essere” (ivi, p. 33), appartiene alla tematica della terza Sezione “Tempo ed essere”. In altre parole, la, verità dell’essere non è innanzittutto tema del pensiero ontostorico, ma in prima istanza tema del problema ontologico-fondamentale dell’essere. Qui la verità dell’essere, in conformità alla doppia dimensionalità del ci e della schiusura, ha una costituzione estatico-seitaria-orizzontale. All’interno dell’ottica ontologico-fondamentale, l’esserci trascende in quanto projettare dejetto non solo di una data possibilità d’esistenza dell’essere-nel-mondo, ma anche della schiusura dell’essere in quanto tale, cioè: esso va, oltre l’ente, verso la schiusura sia del mondo che dell’essere come tale. In altre parole: nella sua schiusura estatico-seitaria l’esserci esiste trascendendo. Nella sua comprensione dell’essere, l’esserci va oltre l’ente verso la schiusura orizzontale del suo essere. Possiamo quindi dire che la schiusura estatico-seitaria e orizzontale
5 M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie, Gesamtausgabe Bd. 24, hrsg. v. Fr.-W. von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M., 3ª ediz. 1997, §§ 20 e 21.
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è costituita come un orizzonte trascendentale. Se la schiusura etatico-seitaria-orizzontale è costituita in un orizzonte trascendentale, allora, nel quadro problematico dell’ontologia fondamentale, la verità dell’essere come tale è strutturata in modo estatico-seitario-orizzontale, ossia in un orizzonte trascendentale. Sulla via ontologico-fondamentale di elaborazione del problema dell’essere, l’accadere della verità dell’essere si rivela un accadere duplice e uno, in sé reciprocamente riflesso, dell’autoschiudersi dejettivo e dello schiudere che projetta la schiusura dell’essere in quanto tale. Nel trapasso verso il pensiero ontostorico la verità dell’essere accade nella rejezione [o ri-getto, Zuwurf] chiaroscurante per la projezione scoprente. Il trapasso dell’ontologia fondamentale – cioè della schiusura d’orizzonte-trascendentale (ci) dell’essere in quanto tale – nel pensiero ontostorico, risulta dall’esperienza che la schiudentesi schiusura dejettiva (dejezione) proviene da un ri-getto chiaroscurante, che è ri-getto per il progetto. Ciò che via via chiaroscurando si ri-getta è un modo di accadere della chiarìta (o verità dell’essere), una maniera storica dell’esser rischiarato nella quale il progetto si esperisce dejetto, per assumere quella maniera storica in quanto ri-gettata [rejetta] e così farla propria aprendola ex novo alla propria maniera. La maniera storica dell’esser-rischiarato, che via via è rejetta e projettata, è il ci dell’esser-ci. L’oscuramento che appartiene alla rejezione rischiarante è la provenienza di ogni chiarìta. In ogni maniera della chiarìta, ciò che si rischiara è una maniera storica della verità dell’essere, e precisamente nel senso che la rischiarante verità dell’essere, oscurando, si mantiene in sé. Il suo oscuro mantenersi in sé significa che essa non si esaurisce nelle sue maniere di rischiaramento, tant’è vero che è di per se stessa inesauribile. L’accadere storico della rejezione chiaroscurante è inteso da Heidegger, nei Beiträge6 come sfera di ap-propriazione [Er-eignung]. La rejezione è ap-propriante perché fa diventare la projezione dell’esserci, alla quale si riferisce, proprietà [Eigentum] della ri-gettantesi maniera di rischiaramento dell’essere. Il progetto, così divenuto proprietà della ri-gettantesi verità dell’essere, è in quanto dejetto il progetto fatto-proprio. Come tale, esso assume il ri-gettato per riaprirlo [eröffnen] alla propria maniera. Anche il ri-getto appropriante e il progetto appropriato che ne risulta sono reciprocamente riferiti l’uno all’altro alla maniera di un accadere oscillante. Il tutto di tale oscillazione tra ri-getto appropriante e progetto appropriato costituisce l’approprio. L’essenziare della verità dell’essere come approprio è la
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M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) [Contributi alla filosofia (Dell’approprio)], Gesamtausgabe Bd. 65, hrsg. v. Fr.-W- von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 2ª ediz. 1994.
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coappartenenza tra l’appropriante ri-gettarsi della verità dell’essere e l’appropriata progettante ri-apertura [Eröffnen], che ne deriva, di questa maniera di ri-gettantesi rischiaramento. Nella sezione n. 198 dei Contributi alla filosofia, che reca il titolo “Fondazione dell’esser-ci come escussione del fondamento”, viene propriamente rilevato in Essere e tempo il significato dell’analitica esistenziale dell’esserci per il pensiero ontostorico. Là si afferma: “L’esser-ci non si lascia mai dimostrare e descrivere come qualcosa sottomano. Si può afferrare solo per via ermeneutica, ma in Essere e tempo ciò significa: nel progetto dejetto”7. Nel pensiero ontostorico, l’analitca esistenziale non è abbandonata, ma mantenuta. E, insieme, la maniera d’accesso fenomenologico-ermeneutica all’esser-ci è considerata inaggirabile e irrinunciabile. Ciò che nel passaggio al pensiero ontostorico è cambiato è la maniera della coappartenza dell’essere e del ci dell’esserci come verità dell’essere. Mentre nell’ontologia fondamentale l’essere del ci è costituito nel senso di un orizzonte trascendentale, nel pensiero ontostorico l’essere del ci si mostra nella sua costituzione d’approprio, cioè come projezione appropriata in oscillazione con la rejezione appropriante. Qui, il ci è la verità appropriante/ rejetta e appropriata/ projettante dell’essere, mentre nel pensiero ontologico-fondamentale il ci è la schiusura d’essere come tale, non ancora storicamente accadente, dejettaprojettata. Non solo nel pensiero ontologico-fondamentale, ma anche in quello ontostorico l’essere del ci è esperito e pensato nelle maniere d’essere della dejezione e della projezione, solo con la differenza che ora la dejezione è l’esser-appropriato a partire dalla rejezione appropriante. Ma questo mostra distintamente che il concetto ontostorico dell’esser-ci può essere pensato solo nella provenienza dall’analitica ontologico-fondamentale dell’esserci. Tuttavia, ciò presuppone un’adeguata comprensione del concetto di esserci ontologico-fondamentale di Essere e tempo. Ma questo può essere assunto e concepito adeguatamente solo se si vede che il ci non è solo il ci dell’esistenza e delle sue strutture esistenziali, ma che il ci abbraccia piuttosto, al di là della sua dimensione estatico-seitaria, la dimensione orizzontale che è come tale la verità dell’essere diverso dall’esserci. Nel pensiero ontostorico, la chiarìta orizzontale dell’essere si trasforma nella maniera di rischiaramento dell’essere via via destinalmente rejetta-projettata. Questa trasformazione si può adeguatamente comprendere solo se, passando attraverso Essere e tempo, ci si appropria compiutamente del concetto di esser-ci come l’essere esistente del ci, ivi ottenuto nelle molteplici e minute analisi singole che vi sono contenute. Il che implica: vedere che e
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Martin Heidegger, Beiträge…, cit. p.321.
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come nella schiusura estatico-seitaria di ogni possibilità d’esistenza dell’essere-nel-mondo, e nella schiusura orizzontale (che le appartiene) della totalità mondana di significatività (che appartiene alla possibilità d’esistenza) vi sia la schiusura estatico-seitaria e orizzontale dell’essere in quanto tale. Nel trapasso dalla via di elaborazione ontologico-fondamentale a quella ontostorica del problema dell’essere, ciò che innanzittutto si trasforma – dal suo costitutivo orizzonte trascendentale alla sua compagine d’approprio – è questa struttura estatico-seitario-orizzontale, ovvero chiarìta, ovvero verità dell’essere come tale. Questo mutamento decisivo che, mediante l’intuizione dell’origine ontologica della dejezione, viene introdotta alla chiarìta a partire dalla rejezione chiaroscurante, porta con sé una serie di ulteriori trasformazioni delle strutture esistenziali già impostate in sede ontologico-trascendentale. Tutte queste trasformazioni vengono propriamente tematizzate nei Contributi alla filosofia. Da questo mutamento immanente restano però intoccate le analisi esistenziali, le quali mostrano come noi, in quanto esserci, esistiamo nelle, e a partire dalle, possibilità d’esistenza dejettive e projettive dell’ateoretico essere-nel-mondo. Descrivere il tutto con analisi originali sarebbe un grande e fruttuoso compito per un pensiero filosofico a venire. Tutto ciò che nei Contributi alla filosofia viene svolto circa l’esser-ci e la verità dell'essere nel suo essenziare come approprio, è comprensibile adeguatamente solo da chi abbia fatto propria con autonome descrizioni fenomenologico-ermeneutiche la graduale conquista analitica dell’esser-ci in Essere e tempo. Così come i Contributi alla filosofia, e con essi tutti gli scritti ontostorici successivi, sono stati lasciati, essi richiedono dal lettore la totale padronanza dell’analitica dell’esserci di Essere e tempo. Il pensiero ontostorico è, così com’è, un’immanente configurazione di trasformazioni del pensiero ontologico-fondamentale impostato con l’analitica dell’esserci. Ogni proposizione del pensiero ontostorico è riferito all’analitica dell’esserci. Infatti, ogni proposizione che pensa la storia dell’approprio include come essenza dell’uomo, l’esser-ci. Ma la descrizione fenomenologico-ermeneutica dell’esser-ci è stata compiuta solo in Essere e tempo e nelle Lezioni marburghesi che accompagnano quest’opera fodamentale e, a loro volta, provengono dalle prime Lezioni friburghesi. Sia metodicamente che tematicamente, l’inizio decisivo di questa strada è la Lezione del semestre di guerra 1919: “L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo”8. Né i Contributi alla filosofia, né alcuno degli altri scritti ontostorici tratta M. Heidegger, L’idea della filosofia e il problema dela visione del mondo. In: Zur Bestimmung der Philosophie. Gesamtausgabe, Bd. 56/57, Hrsg. v. B. Heimbüchel, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M., 2ª ediz. 1999. – Cf. in proposito, dell’A., Hermeneutik und Reflekxion. Der Begrff der Phänomenologie bei Heidegger und Husserl. Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 2000. 8
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dell’esser-ci dell’uomo in una maniera che possa fare a meno dell’analitica dell’esser-ci di Essere e tempo, che sia tale, cioè, da offrire di per sé un adeguato e autosufficiente svolgimento del concetto onto-storico di esser-ci. Questo dato di fatto ci fa capire che l’interpretazione di processi di pensiero di storia dell’approprio, se vuol fare opera di spiegazione differenziata, deve rifarsi alle intuizioni analitiche relative ai caratteri d’essere esistenziali, e quindi riconoscere i molteplici caratteri esistenziali presenti nel linguaggio e nella concettualità ontostorica. Su qualunque itinerario di pensiero il pensiero storico dell’approprio voglia procedere, il suo compagno di viaggio irrinunciabile resterà Essere e tempo, con la sua elaborazione sistematica dell’analitica dell’esserci. Senza questo testo fondamentale della filosofia del XX secolo nessuna opera del pensiero ontostorico sarebbe stata possibile. Essere e tempo non è solo la mappa per il percorso ontologico-fondamentale, ma lo è anche per il pensiero di storia dell’approprio, che non si presenta come un nuovo inizio, ma è risultato dal precedente come una sua trasformazione immanente. A sua volta, anche la via ontologico-fondamentale della compagine orizzontale-trascendentale di essere e ci (esser-ci) conserva, nonostante il passaggio al percorso ontostorico, la sua propria verità di pensiero. D’altra parte, l’alto rango di Essere e tempo non è legato alla specifica prospettiva dell’orizzonte trascendentale, ma poggia sulla sua inaugurale apertura di una via verso il fattizio e fattuale essenziare dell’uomo: verso quell’essere del ci, che può essere concepito o nel senso di un orizzonte trascendentale o in quello dell’approprio. L’intuizione dell’essere del ci nelle sue due possibilità di svolgimento è il nuovo terreno su cui si è installata la filosofia nella totalità delle sue domande fondamentali.
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Fiorenza Bevilacqua
Che cosa fare di Senofonte? (dopo “Socratica III”, Trento 23-25 febbraio 2012)
I. I Socratici e la letteratura socratica antica Gli ultimi due decenni e soprattutto questi primi anni del nuovo secolo hanno visto una serie davvero pregevole di contributi, saggi e convegni dedicati a Socrate o meglio, per essere più precisi, alla produzione letteraria dei Socratici: non solo, quindi, di Platone e di Senofonte, ma anche di quelli che in passato venivano indicati con la denominazione palesemente svalutativa di “Socratici minori”, spesso presi in considerazione soltanto in quei casi (e nella misura) in cui veniva loro attribuita, talora in modo alquanto schematico e approssimativo, la patente di fondatori di una scuola filosofica. Certo, la limitata considerazione e il limitato interesse di cui sono stati vittime gli “altri Socratici” sono dovuti, almeno in parte, al fatto che delle loro opere, dei loro logoi Sokratikoi ci sono giunti soltanto frammenti, più o meno copiosi, più o meno estesi, il che ha indotto molti studiosi a distogliere il loro sguardo e a rivolgere altrove la loro attenzione, atteggiamento per altro comprensibile se si tiene presente l’estrema difficoltà di lavorare su testi frammentari e la frustrante precarietà non solo dei risultati di volta in volta raggiunti ma anche di quelli comunque raggiungibili. Di conseguenza, nonostante il numero considerevole di Socratici della prima generazione, cioè dei diretti discepoli di Socrate, e nonostante l’ampiezza della loro produzione letteraria, Platone finisce per apparire un isolato, l’unico vero discepolo di Socrate e si viene quindi a prospettare una linea univoca Socrate-PlatoneAristotele, una linea, beninteso, non solo di parziale continuità, ma anche di significative rotture, comunque una linea che isola queste tre figure, per altro straordinarie, all’interno di una sorta di vuoto pneumatico, un vuoto che, soprattutto per quanto concerne Socrate, risulta sicuramente penalizzante.
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Lasciando da parte Aristotele (anche se su Aristotele come possibile fonte sul Socrate storico dovremo tornare, sia pur brevemente), ci interessa sottolineare che privilegiare in modo esclusivo il Platone dei dialoghi socratici come unica fonte per ricostruire il pensiero del Socrate storico sia un’operazione per molti aspetti discutibile, non solo: a prescindere da tale ricostruzione (per non pochi studiosi dichiaratamente impossibile: vd. infra), oggi appare sempre più importante inquadrare i dialoghi di Platone nell’ambito di quel nuovo genere letterario, i logoi Sokratikoi, che Platone stesso contribuirà a sviluppare e a definire. Non solo Platone, dunque, e non Platone da solo: ma prima di addentrarci in questo discorso, mi sembra tuttavia necessario ribadire che, per diversi aspetti, Platone continua comunque a campeggiare isolato e i suoi dialoghi continuano a costituire un unicum nella pur rivalutata letteratura socratica: un unicum non soltanto per il loro spessore filosofico, ma anche per la straordinaria qualità letteraria di gran parte di essi, una qualità letteraria che acquisisce maggior risalto proprio dal confronto con il resto della letteratura socratica superstite e in particolare, come vedremo, con i logoi Sokratikoi che compongono i Memorabili di Senofonte. Inoltre non possiamo dimenticare che, per quanto gli scritti socratici di Senofonte abbiano goduto di grande considerazione in alcuni periodi e presso alcuni studiosi, per quanto siano stati oggetto negli ultimi decenni di una rinnovata e doverosa attenzione, nonché di una notevole rivalutazione, ciò non toglie che il Socrate che ha influenzato non solo la filosofia, ma l’intera cultura occidentale rimane sempre e comunque il Socrate platonico, che ha finito per assurgere a figura archetipica da un lato del giusto condannato ingiustamente1, dall’altro del maestro dotato di un eccezionale carisma, che ne faceva un modello esemplare e irraggiungibile per tutti i suoi riconoscenti discepoli (incluso il “cattivo discepolo” Alcibiade: cf. Symp., 215a-222b), nonché un pericoloso corruttore dei giovani per i suoi sospettosi nemici: in estrema sintesi, dunque, il maestro paradigmatico per gli uni, il cattivo maestro per gli altri. Il primo, imprescindibile passo avanti per la conoscenza stessa della letteratura socratica è stato il fondamentale lavoro di Gabriele Giannantoni2, che non si limita a una pur indispensabile e rigorosissima raccolta delle testimonianze su Socrate, dei testi dei Socratici (Platone e Senofonte ovviamente esclusi) e delle testimonianze relative a questi ultimi, ma offre una serie di preziose puntualizzazioni e di importanti indicazioni per ulteriori indagini, indicazioni che in molti casi costituiscono delle vere e proprie ipotesi di lavoro. Il passo successivo può ritenersi quello di una nuova e più 1
Si vedano in proposito i lavori di M. Montuori, in particolare Socrate. Fisiologia di un mito, III ed. accresciuta, Milano, 1998. 2 Socratis et Socraticorum reliquiae, Napoli 1985, II ed. 1990.
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meditata attenzione alla produzione degli “altri Socratici” non solo per quanto concerne il versante dei contenuti, ma anche riguardo al nuovo genere letterario a cui diedero vita e in cui tutti si cimentarono, i logoi Sokratikoi. In questo ambito si possono ricordare diversi, significativi contributi, da quelli di taglio prettamente storico-filologico come il breve saggio di Francesca Dinapoli3, a quelli incentrati sugli aspetti specificamente filosofici come il contributo di Michel Narcy4, fino ai numerosi lavori di Livio Rossetti, che si dipanano nell’arco di quasi quattro decenni. Rossetti infatti nei suoi primi contributi, che risalgono alla metà degli anni Settanta, si è occupato di un argomento generalmente trascurato, i logoi Sokratikoi perduti5, per poi passare ad analizzare la dimensione retorica del dialogare socratico, con una particolare attenzione per le strategie macro-retoriche: illuminante, in proposito, il saggio Sulla struttura macro-retorica del Filebo6. Infine merita di essere segnalato il recentissimo Le dialogue socratique (Paris 2011), che raccoglie una serie di contributi incentrati sulla novità costituita dai logoi Sokratikoi, sulla loro possibile genesi, nonché sulla retorica di Socrate e sulle strategie comunicazionali che presiedono, in particolare, a due logoi Sokratikoi quali l’Eutifrone di Platone e quello che lo studioso chiama l’Eutidemo di Senofonte, vale a dire la conversazione tra Socrate ed Eutidemo di Mem., IV, 2. Senza dubbio le indagini e le analisi di Rossetti segnano alcuni punti che, a buon diritto, possono ritenersi di non ritorno. In primo luogo la consapevolezza della radicale novità dei logoi Sokratikoi, sia rispetto ai trattati dei physiologoi sia rispetto ai “testi paradossali” della letteratura sofistica, una novità che darà luogo a una fioritura che non può non apparire prodigiosa (circa trecento unità dialogiche nell’arco di un quarto di secolo, in media dodici all’anno!); in secondo luogo il ruolo fondamentale che gioca la struttura dialogica con le sue strategie retoriche e comunicazionali, che non si configurano più come un elemento secondario, marginale, irrelato rispetto al piano dei contenuti, ma che risultano dotate di senso e di valore, quindi non più trascurabili: in altri termini non sarà più possibile leggere questi testi, questi dialoghi come se fossero dei trattati, considerando la dimensione dialogica come una semplice cornice e/ o un puro escamotage letterario. Certo, non mancano ancora aspetti che necessitano di ulteriori approfondi-
Il dialogo socratico: un’invenzione discussa (in: L. Rossetti/ A. Stavru, Socratica 2005, Studi sulla letteratura socratica antica presentati alle giornate di studio di Senigallia, Bari 2008, p. 343-51). 4 Che cosa è un dialogo socratico? (in: G. Mazzara/ M. Narcy/ L. Rossetti, Il Socrate dei dialoghi, Seminario palermitano del gennaio 2006, Bari 2007, p. 21-32). 5 In: “Rivista di Studi Classici”, XXII, 1974, p. 424-38; XXIII, 1975, p. 87-99 e 36181. 6 In: P. Cosenza, c/ di, Il Filebo di Platone e la sua fortuna, Napoli 1996, p. 321-52. 3
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menti e di necessarie puntualizzazioni, ad es. l’origine di questo nuovo genere letterario risulta tuttora piuttosto oscura e controversa. Senza dubbio a monte si trova un secolo di rappresentazioni teatrali, in particolare di tragedie, ma i dialoghi della tragedia e in particolare quelli che più sembrerebbero poter costituire un importante antecedente, cioè gli agoni, presentano una struttura ben diversa dal dialogare socratico; lo stesso discorso vale per i dialoghi che si rinvengono negli storici, quali, ad es., il dialogo tra Solone e Creso in Erodoto (I, 30-32), che pure può ritenersi una sorta di dialoghetto filosofico sul tema cruciale della felicità, ovvero il celebre dialogo tucidideo tra gli Ateniesi e i Meli (Tucidide, V, 84-113). Né persuade fino in fondo l’ipotesi formulata da Rossetti (Le dialogue, cit., p. 41-9), che individua l’origine dei logoi Sokratikoi in alcune pratiche interne alla cerchia socratica, da un lato il processo di standardizzazione del dialogo, dall’altro l’abitudine, attribuita a Socrate, di prodursi nella recitazione delle conversazioni meglio riuscite. Riguardo a quest’ultima, infatti, le testimonianze addotte dallo studioso, consistenti in alcuni passi tratti da diversi dialoghi di Platone, sembrano a prima vista attestare tale pratica, ma è difficile sottrarsi all’impressione che si tratti di un semplice gioco letterario, di un espediente finalizzato a conferire una patina di autenticità al dialogo che sta per essere riferito o da Socrate stesso o da qualcuno dei suoi discepoli (ad es. Apollodoro, che comunque fa riferimento a Socrate, per il Simposio, Fedone per il dialogo omonimo, Euclide, che fa ancora riferimento al racconto fattogli da Socrate, per il Teeteto): un gioco non troppo dissimile, in sostanza, da quello del Manzoni con l’anonimo, un gioco che sottintende e, al tempo stesso, istituisce la necessaria complicità con il lettore. Un altro aspetto che è stato giustamente posto in evidenza è quello dell’interazione, nei diversi logoi Sokratikoi, tra Socrate e i suoi interlocutori, nonché di come questa interazione si riverberi sul lettore. La scelta dell’interlocutore, in effetti, non è mai casuale o irrilevante, perché nel dialogare entrano in gioco le sue convinzioni, il suo vissuto e le sue emozioni, che Socrate riesce abilmente a gestire e molto spesso a manipolare. Si pensi, ad es., all’abilità con cui Socrate suscita le diverse emozioni in Eutidemo nel corso dell’elenchos di Mem., IV, 2 (finemente analizzate da Rossetti nel saggio sopra ricordato) oppure all’impatto spiazzante dell’interrogare socratico su Eutifrone nell’omonimo dialogo di Platone: un impatto dovuto non soltanto all’abilità dialettica di Socrate, ma anche al particolare status professionale dell’interlocutore, un indovino che non nutre dubbi sulla propria competenza in materia di santità, nonché alla sua particolare condizione emotiva del momento, in cui si accinge appunto, con boriosa sicumera, a presentare una denuncia contro il proprio padre. Ma oltre all’interlocutore principale giocano un loro ruolo e rivestono una loro funzione anche quanti si trovino ad assistere alla conversazione o a una parte di essa: talora fungono, per così dire, da “spalla” rispetto a Socrate (si pensi, 20
ad es., ai discepoli che lo accompagnano nella sua marcia di avvicinamento a Eutidemo in Mem., IV, 2, 1-7); più spesso invece costituiscono una sorta di pubblico, di uditori interni al dialogo, che sono comunque coinvolti dall’elenchos a cui Socrate sottopone l’interlocutore, non diversamente dagli uditori esterni, costituiti dal pubblico che ascoltava la lettura dei dialoghi (e non troppo diversamente da noi, lettori di oggi). Questo coinvolgimento è stato studiato con grande acume in un saggio recentissimo da una giovane e brillante studiosa, Laura Candiotto7, che ha coniato per esso la definizione di “elenchos retroattivo”. Né di secondaria importanza appare il sottolineare che, in una fase di trapasso dall’oralità alla scrittura, i dialoghi di Platone (e forse anche di altri Socratici) erano oggetto di pubbliche letture non soltanto all’interno della sua scuola, ma probabilmente anche davanti a un pubblico più vasto e certo molto più eterogeneo: cogliere questo aspetto significa anche rendersi conto di quanto Platone si preoccupasse di questo tipo di pubblico nell’ambito di una prospettiva politica e pedagogica in senso lato. L’attenzione ai personaggi, agli aspetti comunicazionali, alle strategie retoriche non può per altro indurre a trascurare l’analisi dei contenuti: si tratta di due approcci diversi, che tuttavia non dovrebbero rimanere irrelati, ma intrecciarsi nell’ottica di una comprensione meno unilaterale, più sfaccettata e articolata, di un testo in tutta la sua complessità. A questo proposito, ho in mente un testo che, al di là della sua apparenza lineare, risulta invece assai complesso: l’Economico di Senofonte. Complesso non solo e non tanto per la sua struttura problematica, forse spia di una mancata revisione finale da parte dell’autore, ma proprio per la sua natura ambigua, a metà strada tra il trattato tecnico (si pensi, per un argomento abbastanza affine, alle Entrate, probabilmente l’ultima opera di Senofonte) e il logos Sokratikos. A questa sua incerta natura sono in effetti dovuti i due diversi tipi di approccio esperiti in questi ultimi decenni. Da un lato, infatti, a partire dagli anni Settanta, abbiamo una serie di numerosi contributi fondati su un’analisi di tipo prevalentemente contenutistico, che mira a cogliere e ad esaminare gli orientamenti che emergono per quanto concerne l’amministrazione del patrimonio, la gestione della famiglia e degli schiavi, il ruolo della donna all’interno della famiglia, nonché il pensiero politico che comunque non manca di venire alla luce (si pensi, in particolare, all’ultimo capitolo, ma non solo): a questo filone appartengono anche due importanti commenti, corredati da preziose introduzioni, quello di Fabio Roscalla (Milano 1991) e quello di Sarah Pomeroy (Oxford 1994), che fin dal titolo dichiara in modo esplicito il tipo di analisi svolta: A Social and Historical Commentary. D’altro canto, però, non mancano studiosi che hanno preso in esame l’Economico in quanto logos Sokratikos: il contributo più recente in tal senso è un saggio di Gabriel 7
Le vie della confutazione. I dialoghi socratici di Platone, Milano-Udine 2012.
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Danzig8. Riguardo all’Economico Danzig ne sottolinea la valenza apologetica, anche se meno accentuata rispetto agli altri scritti socratici di Senofonte, ma soprattutto sostiene che al centro dell’opera non si collocano affatto le convinzioni di Iscomaco in materia di gestione dell’oikos, bensì il contrasto tra lo stile di vita di Socrate e quello di Iscomaco, tanto è vero che, a giudizio dello studioso, l’Economico è un trattato etico mascherato da trattato economico. Tuttavia l’approccio di Danzig, senza dubbio diverso e perfino antitetico rispetto a quello di Roscalla o a quello di Pomeroy, non è in realtà inconciliabile: Danzig stesso ammette che Iscomaco è una sorta di maschera di Senofonte, di un Senofonte ben diverso dal suo maestro, un Senofonte che, come in altri casi (cf. Anabasi, III, 1, 5-7), non ha seguito i suoi consigli e che sta quindi difendendo la propria scelta di vita, quella di un gentleman intento all’amministrazione del proprio oikos. Pertanto è proprio la chiave di lettura proposta da Danzig che finisce per legittimare pienamente un’analisi delle posizioni espresse da Iscomaco/ Senofonte con riferimento non soltanto alla società dell’epoca, ma anche al relativo dibattito su temi che potremmo definire “economici” (si pensi, in particolare, all’Economico pseudo-aristotelico spesso ricordato da Roscalla), nonché agli orientamenti politici di Senofonte quali emergono da altri suoi scritti (soprattutto lo Ierone e la Ciropedia). Due approcci diversi, dunque, ma che possono, anzi devono intrecciarsi.
II. Il Socrate storico ovvero la questione socratica rivisitata Il Socrate dell’Economico, dunque, nella sua opposizione a Iscomaco/ Senofonte sembra avere non pochi punti di contatto con il Socrate storico: si tratta di un’affermazione che si può formulare con una qualche tranquillità, dato che questi punti di contatto riguardano appunto lo stile di vita del Socrate storico: e anche se le nostre fonti talora si differenziano per alcuni dettagli, per qualche aspetto secondario, gli unici dati relativi al Socrate storico su cui possiamo nutrire ragionevoli certezze sono proprio alcuni dati biografici, inerenti alla sua vita e alla sua attività di intellettuale. Ad es. possiamo essere ragionevolmente certi che si intrattenesse a conversare con chiunque lo desiderasse senza farsi pagare e che questa sua scelta di vita lo avesse ridotto alla povertà; possiamo inoltre credere tranquillamente alla sua padronanza di sé, così come non abbiamo motivo di dubitare che si fosse reso impopolare presso non pochi personaggi di una qualche importanza e Why Socrates Was Not a Farmer: Xenophon’s Apology for Socrates. Incluso come ultimo capitolo nel volume Apologizing for Socrates: How Plato and Xenophon Created Our Socrates (Lanham 2010), esso rielabora un precedente articolo (apparso in “Greece and Rome”, L, 2003) dal titolo assai più esplicito: Why Socrates Was Not a Farmer: Xenophon’s Oeconomicus as a Philosophical Dialogue 8
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di assai più notevole presunzione; né possiamo dubitare della sua strenua difesa della legalità sia in occasione del processo agli strateghi delle Arginuse sia riguardo alla vicenda di Leone di Salamina messo a morte illegalmente dai Trenta; infine conosciamo con precisione le accuse che gli furono mosse in sede processuale e possiamo dare per certo che davanti ai giudici rivendicò con fierezza e orgoglio il valore della propria vita e della propria missione filosofica. Ma, a parte il fatto che anche riguardo a questi aspetti salienti della sua biografia emergono dalle nostre fonti (Platone e Senofonte innanzi tutto) talune diversità di accenti se non delle vere e proprie discrepanze, bisogna tuttavia ricordare che la cosiddetta questione socratica – autentico convitato di pietra di qualsiasi discorso su Socrate – si gioca fondamentalmente sulla possibilità di ricostruire o meno sia un modo di fare filosofia sia dei punti di dottrina (come ama definirli Rossetti) attribuibili al Socrate storico. Certo, possiamo con buone ragioni proclamare che l’unica risposta possibile agli (impossibili?) interrogativi che la questione socratica ci pone consista nell’accantonarla come insolubi è questa una posizione che vanta ormai una lunga tradizione, a partire dall’ormai classico saggio di Olof Gigon del 19479 fino alle recenti prese di posizione di Louis-André Dorion, a cui si deve la recentissima pubblicazione dei Memorabili di Senofonte per i tipi de “Les Belles Lettres”10 con un ricchissimo commento e una imponente introduzione. Buona parte di quest'ultima (p. VII-CCLII) vede lo studioso impegnato a sostenere che la questione socratica va messa da parte una volta per tutte, dal momento che le nostre fonti su Socrate, cioè i logoi Sokratikoi scritti dai suoi discepoli (e in particolare quelli scritti da Platone e Senofonte, gli unici che ci siano pervenuti integri) non sono testimonianze su Socrate, bensì interpretazioni di Socrate: di Socrate in quanto maestro e soprattutto di Socrate in quanto pensatore, il che fa sì che il pensiero del Socrate storico rimanga comunque inattingibile, del tutto al di fuori e al di là della nostra portata (p. CXIII-CXIV). Pertanto, a giudizio di Dorion, si tratta di esaminare, analizzare, confrontare le diverse immagini di Socrate che ci vengono proposte dai diversi logoi Sokratikoi apprezzandole nella loro autonomia e nelle loro interrelazioni, senza l’ingiustificata pretesa di individuare quella più prossima al Socrate storico, una pretesa che, secondo lo studioso, ha spesso condotto a una arbitraria svalutazione degli scritti socratici di Senofonte (p. CXV). La posizione di Dorion presenta senz’altro dei punti di forza indiscutibili: ha l’indubbio merito di ribadire e di sottolineare, sulla scorta di tutta una serie di precedenti contributi (si pensi, in par-
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Sokrates. Sein Bild in Dichtung und Geschichte, Bern 1947. Xénophon, Mémorables, texte établi par M. Bandini et traduit par L.-A. Dorion, t. I, Paris 2000; t. II, Paris 2011. 10
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ticolare, ai numerosi lavori di Rossetti), il carattere di fiction, di libera invenzione, di elaborazione creativa che caratterizza il nuovo genere letterario costituito dai logoi Sokratikoi e, quindi, la loro natura di creazione letteraria e non di testimonianza storica; di conseguenza, quando Dorion afferma che proprio questa specifica natura delle nostre fonti (ognuna delle quali ci presenta un suo Socrate spesso incompatibile con quello di altri logoi Sokratikoi) esige da parte nostra la presa d’atto dell’impossibilità di ricostruire il pensiero del Socrate storico, senza dubbio esprime una posizione che unisce al pregio di un indubbio rigore quello della doverosa prudenza, rigore e prudenza tanto più apprezzabili da parte di chi, come me, ha una formazione da filologo. Una posizione inattaccabile, dunque? A mio avviso no, almeno non del tutto: in effetti una posizione del genere non si sottrae al sospetto di voler eludere una sfida senza dubbio difficile, forse destinata alla sconfitta, ma non per questo da rifiutare a priori; una sfida che, in ultima analisi, non è troppo diversa da quella che si trova di fronte chi è alle prese con testi altamente ambigui, suscettibili di molteplici e contrastanti letture, come quelli delle tragedie: pur nella doverosa consapevolezza delle possibili letture altre o addirittura alternative, lo studioso – o anche il semplice lettore – dovrà rinunciare a costruire, elaborare, formulare una sua interpretazione dotata di una sua coerenza? O dovrà limitarsi a prendere atto della irriducibile pluralità delle chiavi di lettura e sospendere ogni tentativo, pur discutibile, di andare oltre e di muoversi lungo un percorso accidentato di ricerca? Credo proprio di no. Certo, un testo poetico è altra cosa rispetto a testi che sono comunque anche e soprattutto testi filosofici quali i logoi Sokratikoi: ma il rischio dell’interpretazione non è troppo diverso, soprattutto se si considera che sia i dialoghi socratici sia le tragedie che ci sono pervenute sono caratterizzati da una elevatissima ambiguità: ambiguo, sfaccettato, talora addirittura contraddittorio il messaggio che emerge a fatica dalla tragedia, ambiguo, sfaccettato, spesso contraddittorio il Socrate che emerge dai diversi logoi Sokratikoi, ma non per questo è precluso qualsiasi sforzo di ricercare una chiave di lettura che riesca a ricomporre in un disegno unitario i frammenti di un puzzle in apparenza impossibile. In effetti non tutti gli studiosi appaiono convinti della necessità o dell’opportunità di una definitiva messa in mora della questione socratica: interessante, ad es., la posizione espressa da Rossetti in tutta una serie di contributi, alcuni dei quali sono stati raccolti nel volume sopra ricordato, Le dialogue socratique. Rossetti infatti ritiene che sia necessario distinguere ciò che gli autori dei logoi Sokratikoi potevano manipolare a loro piacimento da ciò che non si prestava a una simile manipolazione. Mentre sono manipolabili le dottrine attribuite a Socrate o le argomentazioni a lui attribuite per sostenere o confutare una determinata tesi, esistono invece, a giudizio dello studioso,
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dei tratti ben precisi che caratterizzano Socrate e lo rendono immediatamente riconoscibile: il gusto per le analogie banalizzanti, la passione per i contro esempi, nonché alcune strategie comunicazionali come la capacità di creare intorno all’interlocutore un’atmosfera di stima per poi farlo precipitare nell’aporia, ovvero la tendenza a indurre l’interlocutore ad abbassare la guardia, lasciandosi incautamente andare a formulare un enunciato di carattere generale che Socrate avrà facile gioco a confutare. In sostanza sarebbero proprio le sue tipiche modalità di condurre, anzi di dirigere e di dominare lo scambio verbale, a costituire ciò che contraddistingue il Socrate di numerosi dialoghi non solo di Platone, ma anche di Senofonte e di Eschine di Sfetto, modalità che non vengono attribuite a nessun altro personaggio dell’epoca e che, pertanto, risalirebbero al Socrate storico, a cui possono quindi venire assegnate con certezza, quella certezza che invece non è possibile raggiungere per specifici aspetti dottrinali. Questa è dunque la soluzione, sia pure parziale, che Rossetti prospetta alla questione socratica, una soluzione senz’altro brillante e sorretta da straordinarie capacità di analisi delle strategie retoriche dei testi presi in esame: tuttavia restano aperti un paio di interrogativi non di poco conto. Il primo è quello che sorge spontaneo in chiunque, come me, si sia occupato in modo specifico degli scritti socratici di Senofonte e soprattutto dei Memorabili: se, come sostiene Rossetti, ciò che rende riconoscibile il personaggio Socrate sono le sue modalità di gestire il dialogo, le sue strategie retoriche e comunicative, come mai nelle oltre quaranta conversazioni dei Memorabili tali modalità trovano riscontro quasi esclusivamente nei due dialoghi presi in esame da Rossetti, cioè il primo dialogo con Eutidemo in Mem., IV, 2 (Le dialogue, cit., p. 63-103) e il secondo dialogo con Aristippo in Mem., III, 8 (Le dialogue, cit., p. 111127 )? Nelle altre conversazioni, infatti, Socrate utilizza modalità ben diverse, in quanto tiene delle vere e proprie lezioni, dei discorsi di tipo didattico che Senofonte stesso (Mem., I, 4, 1) pone in esplicita opposizione ai discorsi confutativi, agli elenchoi, quali sono appunto quelli a cui viene sottoposto Eutidemo in Mem., IV, 2. Di conseguenza non si sfugge all’impressione che nel prendere in esame, nell’analizzare, nello scomporre i meccanismi che presiedono al modo di interagire e di organizzare la comunicazione da parte di Socrate, Rossetti abbia finito per tenere presente soprattutto il Socrate dei dialoghi “socratici” di Platone, trascurando il Socrate dei Memorabili se non laddove appare più vicino al suo omonimo platonico: una scelta più che legittima, ma che forse sarebbe stato opportuno esplicitare. Ma l’interrogativo più importante rimane comunque un altro: siamo proprio sicuri che sia impossibile attribuire al Socrate storico qualsiasi punto di dottrina, qualsiasi contenuto specificamente filosofico? Nella introduzione alla mia edizione dei Memorabili (Torino 2010) ho fatto riferimento a due studiosi molto diversi per formazione, metodologia 25
di indagine, orizzonti culturali, ma accomunati dalla convinzione che, con tutti i rischi che l’operazione comporta, sia comunque possibile risalire al pensiero del Socrate storico, quanto meno per alcuni aspetti: si tratta di Gregory Vlastos e di Giovanni Reale. Come è noto, Vlastos in quello che è il suo saggio più importante su Socrate11 tenta innanzi tutto di stabilire una cronologia relativa dei dialoghi di Platone (cronologia che coincide quasi completamente con quella proposta da L. Brandwood in base a un’analisi fondata esclusivamente su criteri stilistici). A partire da questa cronologia si spinge poi ad affermare che il Socrate dei dialoghi giovanili (e in particolare dei dialoghi elenctici: Apologia, Carmide, Critone, Eutifrone, Gorgia, Ione, Ippia Minore, Lachete, Protagora, Repubblica libro I) e il Socrate dei dialoghi del periodo di mezzo (Cratilo, Fedone, Simposio, Repubblica libri II-X, Fedro, Parmenide, Teeteto) differiscono radicalmente riguardo a dieci punti di fondamentale rilevanza (Socrates, cit., p. 47-9 = Socrate, cit., p. 634): pertanto questi punti in cui il pensiero del Socrate dei dialoghi giovanili differisce da quello dei dialoghi del periodo successivo costituirebbero il nucleo essenziale della filosofia del Socrate storico. Tuttavia lo stesso Vlastos riconosce che sarebbe possibile che anche la filosofia dei dialoghi giovanili non abbia nulla a che vedere con il Socrate storico, ma che sia stata elaborata anch’essa da Platone in una fase iniziale della sua attività intellettuale (Socrates, cit., p. 81 = Socrate, cit., 107-8): ed è qui che, a giudizio dello studioso, entrano in gioco Aristotele e Senofonte (Socrates, cit., p. 91-105 = Socrate, cit., p. 120-40). Vlastos, infatti, a differenza di altri studiosi che ritengono irrilevante la testimonianza di Aristotele riguardo a Socrate in quanto non si tratterebbe di una fonte autonoma, considera Aristotele una fonte della massima importanza per distinguere il pensiero del Socrate storico da quello di Platone, in particolare per quanto concerne la dottrina delle idee. Quanto a Senofonte, Vlastos, pur ammettendo che Senofonte fosse scarsamente fornito di attitudini speculative, lo ritiene comunque una fonte che nessuno può permettersi di trascurare, dato che si tratta comunque di una testimonianza di prima mano: i Memorabili, quindi, si rivelano preziosi se messi a confronto con i dialoghi giovanili di Platone, nella misura in cui attribuiscono a Socrate alcune dottrine (ad es., sia pure in modo non limpidissimo, quella della virtù-scienza) che hanno un preciso riscontro in tali dialoghi e che, quindi, è verosimile attribuire al Socrate storico. Senza dubbio l’approccio di Vlastos presenta alcuni punti discutibili, se non decisamente deboli. Non è questa la sede per entrare nel merito, ma mi permetto di segnalare alcuni motivi di perplessità: da un lato la questione del valore
11 Socrates: Ironist and Moral Philosopher, Cambridge-Ithaca, N.Y., 1991 = Socrate il filosofo dell’ironia complessa, Firenze 1998.
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da attribuire alla testimonianza di Aristotele riguardo a Socrate, una questione che continua a dividere gli studiosi (si pensi, ad es., a due studiosi come Reale e Charles Kahn che negano qualsiasi peso a tale testimonianza), forse anche perché è quasi sempre stata affrontata senza i dovuti approfondimenti; dall’altro – e proprio questo, a mio avviso, è il limite più serio – i dieci punti di netta divergenza che Vlastos coglie tra i dialoghi giovanili di Platone e quelli del periodo di mezzo sono individuati, in alcuni casi, in modo troppo rigido e schematico. Per limitarmi a un unico esempio (forse il più eclatante), Vlastos sostiene che il Socrate dei dialoghi giovanili ha una concezione populista della filosofia, mentre quella del Socrate dei dialoghi di mezzo è una concezione elitaria: un’affermazione che pecca di una eccessiva, arbitraria semplificazione, soprattutto per quanto concerne i dialoghi giovanili. Infine è opportuno anche rilevare come lo studioso, nel solco di una tradizione consolidata e in base a una scelta certo consapevole, presti scarsissima attenzione alle dinamiche relazionali che prendono vita sia nei dialoghi di Platone sia nelle conversazioni dei Memorabili, nonché alle strategie retoriche utilizzate da Socrate e alle sue modalità di gestire e di dirigere lo scambio verbale (per altro va ricordato che lo studio e l’analisi di questi aspetti si sono sviluppati soprattutto dopo la morte dello studioso). Tuttavia, pur con queste e altre possibili riserve, non si può negare che il tentativo di Vlastos di giungere a una ricostruzione, sebbene parziale, della filosofia del Socrate storico meriti una indubbia considerazione e, almeno per alcuni aspetti, possa ritenersi un valido punto di partenza per un ulteriore percorso di ricerca. Certo, anche a Vlastos come a Reale potrebbe rimproverarsi di aver accordato una eccessiva posizione di privilegio ai dialoghi giovanili di Platone: ma su questo torneremo tra poco. Anche Reale, in effetti, nel suo saggio su Socrate (Socrate, Milano 2000), considera i dialoghi giovanili di Platone come la fonte per eccellenza riguardo al pensiero del Socrate storico, in particolare ritiene che sia attribuibile a Socrate la metodologia elenctica dei dialoghi aporetici (Socrate, cit., p. 35); riguardo poi all’Apologia arriva addirittura ad affermare che può essere considerata una sorta di documento storico (Socrate, cit., p. 35 e 12733), così come ritiene un efficace ritratto del Socrate storico quello che emerge dal discorso di Alcibiade nel Simposio12. Quanto alle altre fonti tradizionalmente prese in esame, Reale ritiene inaffidabile la testimonianza di Aristotele, non solo perché si tratta di una testimonianza indiretta e priva di valore autonomo in quanto Aristotele non conobbe mai Socrate, ma anche
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Socrate, cit., p. 35; contra M. Narcy, Socrate nel discorso di Alcibiade, Platone, Simposio, 215a-222b, in: L. Rossetti/ A. Stavru, c/ di, Socratica 2005, Bari 2008, p. 287-304, che però non convince.
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perché Aristotele tende a esporre e a interpretare il pensiero degli altri filosofi e, quindi, anche di Socrate, in base alle proprie categorie e alle proprie esigenze speculative (Socrate, cit., p. 40 e 167s.). Lo studioso considera invece importante la testimonianza di Aristofane (Socrate, cit., p. 30-33 e 226-28), spesso ritenuta di scarso valore in quanto segnata dalle deformazioni tipiche della commedia (e sulla linea di una forte rivalutazione di questa testimonianza si muove anche il saggio, innovativo e stimolante, di P. Vander Waerdt13. Riguardo poi a Senofonte, da un lato Reale concorda con la collaudata scarsa considerazione delle sue attitudini filosofiche, d’altro canto però lo considera un testimone affidabile, nel senso che ci fornisce una grande quantità di notizie che si rivelano preziose se messe a confronto con quanto si legge nei dialoghi giovanili di Platone: anche Senofonte, quindi, contribuisce, sia pure in modo diverso da Platone, a gettare luce sulla figura e sul pensiero del Socrate storico (Socrate, cit., p. 38). Lo studioso ricorre a due efficaci metafore sia per definire il peso e il valore degli scritti socratici di Senofonte, sia per esprimere il suo metodo per tentare di risalire al Socrate storico. La prima metafora, che può apparire impietosa ma che ha il pregio di una estrema chiarezza14, paragona Senofonte a “un fattorino che non conosce con precisione la merce che trasporta, ma tuttavia la trasporta in maniera abbastanza accurata” (Socrate, cit., p. 38). La seconda metafora invece è quella del gioco degli specchi, dove gli specchi sono le diverse fonti su Socrate, in particolare i suoi diversi discepoli, ognuno dei quali riflette a suo modo l’immagine e il pensiero del maestro: la sfida allora consiste nel “risalire all’oggetto rispecchiato, calcolando l’indice di variazione che è proprio della struttura degli specchi” (Socrate, cit., p. 118), pur tenendo presente che lo specchio che ingrandisce, vale a dire quello di Platone, è quello che può “far comprendere anche meglio l’oggetto riflesso, proprio in virtù del suo stesso ingrandimento” (ivi). Certo, per restare nell’ambito di questa metafora, il calcolo dell’indice di variazione si presenta assai difficile e complesso, soggetto a inferenze rischiose se non arbitrarie; tuttavia rimane, a mio avviso, un percorso praticabile: questo è particolarmente vero per Senofonte, come cercherò di chiarire più avanti. Ancora nell’ambito della medesima metafora appare legittima la preferenza accordata allo specchio che ingrandisce, quindi a Platone, nella misura in cui rende più chiaramente visibile l’oggetto riflesso: fuor di metafora, si può dunque ritenere che sia 13 Socrates in the Clouds, in: P.A. Vander Waerdt, c/ di, The Socratic Movement, IthacaLondon 1994, p. 48-86; vedi inoltre, più recentemente, G. Cerri, Le nuvole di Aristofane e la realtà storica di Socrate, in: F. Perusino/ M. Colantonio, c/ di, La commedia greca e la storia. Atti del seminario di studio. Urbino, 18-20 maggio 2010, Pisa 2012, p. 151-194. 14 Ed è mutuata, come precisa in nota lo studioso, da J. Patočka, Socrate, c/ di G. Girgenti e M. Cajthaml, testo ceco a fronte, Milano 1999, p. 41-3.
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Platone, proprio perché ingrandisce, cioè esplicita, a rendere più limpido il pensiero del maestro. Nel suo “ingrandire” Platone avrà aggiunto qualcosa di suo, ma al fine di chiarire, di puntualizzare, di meglio argomentare quanto affermato dal maestro: un po’ come dichiara di avere fatto Tucidide (I, 22, 1) con i discorsi da lui attribuiti ai vari personaggi della sua opera storica: fedele al loro pensiero nel suo complesso, ma sorretto da quelle argomentazioni che a lui parevano più opportune da avanzare in quella specifica circostanza (già Vlastos, Socrates, cit., p. 50 = Socrate, cit., p. 66, aveva suggerito questa analogia tra Tucidide e Platone). Vorrei solo aggiungere che tra gli specchi in cui possiamo cogliere un riflesso del Socrate storico non ci sono soltanto i suoi discepoli, gli autori di quella massa imponente di logoi Sokratikoi purtroppo in gran parte perduti o pervenutici soltanto in frammenti talora assai esigui: ci sono anche fonti letterarie, spesso trascurate dagli studiosi di filosofia. Non mi riferisco soltanto ad Aristofane, che merita senz’altro un’attenzione superiore a quella che per lo più gli è stata riservata, ma anche a Euripide, in cui è possibile cogliere spesso echi, tracce, indizi dei dibattiti culturali dell’epoca. Mi limito a un solo esempio di quella che Vincenzo Di Benedetto, in un saggio di molti anni fa (Euripide, teatro e società, Torino 1971) ormai divenuto un classico, non esita a definire la polemica con Socrate: riprendendo le opinioni di diversi studiosi (da Wilamowitz a Snell, da Pohlenz a Dodds a Winnington-Ingram), Di Benedetto individua nei vv. 373-79 dell’Ippolito un’affermazione che ha un preciso obiettivo polemico, quello della dottrina della virtù-scienza. Non è questa la sede per entrare nel merito delle argomentazioni addotte da Di Benedetto (Euripide, cit., p. 5-21) a sostegno della sua tesi: vorrei soltanto sottolineare l'importanza di questo passo che, se la chiave di lettura dello studioso dovesse dimostrarsi corretta (come personalmente inclino a credere), verrebbe a costituire una testimonianza di straordinario valore. L’Ippolito, infatti, fu messo in scena nel 428 a. C., ed è quindi anteriore non solo a tutta la produzione di logoi Sokratikoi, ma addirittura alle Nuvole di Aristofane: se dunque nei vv. 373-79 dell’Ippolito possiamo leggere una presa di posizione contro la teoria della virtù-scienza, siamo davanti a una fonte precedente e quindi indipendente da tutte le altre fonti a noi note, in particolare da quei logoi Sokratikoi tradizionalmente considerati la fonte principe per una possibile ricostruzione del pensiero del Socrate storico. Questi versi dunque ci consentono di gettare uno sguardo nel periodo della piena maturità di Socrate, un periodo in cui le sue convinzioni dovevano ormai essere ben note nell’ambito della élite intellettuale di Atene e certo non mancavano di suscitare appassionati dibattiti soprattutto se, come la teoria della virtù-scienza, rappresentavano una rottura con la tradizione, un paradosso inquietante e stimolante come solo i paradossi, nel loro andare para doxan, cioè oltre e contro l'opinione comune, sanno essere: un paradosso, quindi, in grado di 29
suscitare la riflessione apertamente polemica di un intellettuale sensibile alla complessità dell’essere umano quale fu Euripide. Ma soprattutto – e questo è ciò che più ci interessa in questa sede – i versi in questione sembrano dimostrare che la teoria della virtù-scienza circolava negli ambienti intellettuali di Atene molto prima che i Socratici e Platone in particolare si impegnassero nella stesura dei loro logoi Sokratikoi, creando un loro Socrate, e che quindi, con tutte le cautele del caso, appare legittimo poter ascrivere una teoria del genere al Socrate storico. Vorrei poi precisare in che senso e in che misura può essere accettabile, a mio avviso, la posizione di chi, come Reale, vede nell’Apologia platonica una sorta di documento storico. In questa sede mi propongo di lasciare da parte tutta una serie di problemi, ad es. la controversa questione della storicità dell’oracolo di Delfi, negata da Mario Montuori (Socrate, cit., p. 10954), rivendicata da Reale (Socrate, cit., p. 130-33), accettata con qualche riserva da Danzig (Apologizing, cit., p. 49-53): mi limito invece a prendere in esame la parte conclusiva del testo, cioè il discorso che Socrate, dopo essere stato condannato a morte, rivolge prima ai giudici che lo hanno condannato (Ap., 38c-39d), quindi a quelli che lo hanno assolto (Ap., 39e-42a). Come già notò il Wilamowitz (Platon, I, Berlin 1919, p. 165), questo terzo discorso, a differenza dei due precedenti, è quasi certamente fittizio, nel senso che non era in alcun modo previsto che l’imputato, dopo essere stato condannato, potesse rivolgere ai giudici un ulteriore discorso. Ma la natura fittizia di questo discorso costituisce di per sé una prova della sua inautenticità, per cui le affermazioni in esso contenute non possono che essere considerate estranee al Socrate storico? Sarebbe arduo sostenerlo, soprattutto per quanto concerne la parte finale del discorso, quella in cui, rivolgendosi ai giudici che lo hanno assolto, Socrate formula le due note ipotesi riguardo a ciò che attende l’uomo dopo la morte (Ap., 40c-41c; 42a), due ipotesi che, come è noto, sono lontanissime dalle dimostrazioni dell’immortalità dell’anima argomentate dal Socrate, ormai compiutamente platonico, del Fedone. Del resto, come è stato più volte osservato, neppure il Socrate dei Memorabili fa mai il benché minimo cenno all’immortalità dell’anima, fatto tanto più degno di nota in quanto Senofonte attribuisce invece una convinzione del genere a un altro dei suoi eroi, il Ciro della Ciropedia che, sul letto di morte, si spinge appunto ad affermare, sia pure con qualche dubbio, la natura immortale dell’anima (Cyr., VIII, 7, 17-22). Allora appare ragionevole supporre che questo ultimo discorso del Socrate dell’Apologia, benché fittizio, esponga comunque riflessioni e considerazioni che furono proprie del Socrate storico, magari esposte ad amici e discepoli subito dopo la condanna o nel lungo periodo di tempo trascorso in carcere in attesa dell’esecuzione: Platone, da quello straordinario scrittore che era, può aver deciso di trasformarle in un efficacissimo, emozionante messaggio di congedo dai veri 30
giudici, quelli che lo hanno assolto, un congedo che ha la serenità della speranza e l’eroismo di chi non ha certezze, e che raggiunge il suo apice emozionale nella sconvolgente semplicità delle ultime parole: “Ma ormai è tempo di andare via, io a morire, voi a vivere: chi di noi vada verso il meglio è ignoto a tutti tranne che al dio” (Ap., 42a). Il carattere fittizio di questo discorso, insomma, può benissimo non inficiarne il valore di testimonianza autentica. Più in generale, la componente di invenzione, di fiction dei logoi Sokratikoi, se pure rende arduo e complesso cogliere convinzioni e opinioni riconducibili al Socrate storico (certo diverso dai tanti Socrate protagonisti di questi logoi), tuttavia non per questo costituisce, di per sé, una prova di inautenticità: anzi paradossalmente può servire a sottolineare, a mettere in evidenza – creando un contesto, una situazione, degli interlocutori particolarmente appropriati – proprio quella che poteva essere la peculiarità, l'originalità, la sostanziale autenticità del discorso del Socrate storico. Tanto per fare un altro esempio, prendiamo l’Eutifrone: senza dubbio Platone può avere inventato sia l’incontro con l’indovino Eutifrone, sia l’intenzione di costui di andare a denunciare il proprio padre, sia il momento e le circostanze dell’incontro, che avviene appunto nei pressi del portico dell’arconte re, dove Socrate si è recato per informarsi riguardo all’accusa che un certo Meleto, del demo di Pito, ha presentato contro di lui (Euthyphr., 2a-b). E senza dubbio si tratta di “invenzioni” particolarmente felici: il luogo, il momento, le circostanze dell’incontro evocano l’imminente processo, così come l’interlocutore di Socrate, l’indovino Eutifrone, graniticamente convinto di sapere che cosa sia la santità, non può non rinviare agli accusatori di Socrate e alla loro tracotante sicumera nell’accusare il filosofo di empietà: si tratta, in sostanza, di “invenzioni” non solo felici, ma addirittura preziose per costruire un dialogo in cui le preoccupazioni apologetiche giocano un ruolo di primo piano. Ma queste “invenzioni” e la stessa finalità scopertamente apologetica sono sufficienti per rinunciare a scorgere nel dialogo qualsiasi traccia del pensiero o quanto meno dell’orientamento di Socrate in materia di santità? Certo, l’incontro tra Socrate ed Eutifrone può non essere mai avvenuto, è addirittura possibile (anche se di solito gli interlocutori di Socrate sono personaggi storici dell’Atene del tempo) che non sia mai esistito un indovino di nome Eutifrone vivo e operante nei primi mesi del 399 a. C., anzi è altamente probabile che circostanze, tempo, luogo e interlocutore siano una invenzione di Platone perfettamente funzionale alle finalità che si proponeva, finalità apologetiche in primo luogo: ma possiamo dire con certezza che tra tali finalità non ci fosse anche quella, strettamente connessa a quella apologetica, di mettere in luce il pensiero di Socrate riguardo alla santità, almeno nella sua pars destruens? Non intendo entrare nel merito della tormentatissima questione se nell’Eutifrone sia possibile individuare una prima elaborazione, ancora a uno stadio embrionale, della teoria delle idee, 31
come ritengono non pochi studiosi (tra cui Reale): quello che intendo dire è che gli aspetti fittizi del dialogo, creati soprattutto in funzione di evidenti preoccupazioni apologetiche, non ci possono né ci devono esimere dal ricercare nuclei di pensiero che possano risalire al Socrate storico (fondamentale, in tal senso, il confronto con l’Apologia) ovvero che possano invece costituire un primo abbozzo, ancora incerto, di quella teoria delle idee che troveremo compiutamente espressa nei dialoghi platonici del periodo di mezzo. Allo stesso modo il carattere fittizio del dialogo non deve esimerci da un’analisi delle modalità con cui Socrate gestisce e guida lo scambio verbale con Eutifrone: esemplare, per questo aspetto, la disamina condotta da Rossetti nel saggio sopra ricordato (Le dialogue, cit., p. 19-85). Anche in questo caso, dunque, lo studio del dialogo nei suoi elementi drammatici, relativi ai personaggi, alla loro interazione, alle strategie comunicazionali messe in atto da Socrate, alle emozioni suscitate negli eventuali uditori interni al dialogo nonché negli uditori esterni (ascoltatori delle pubbliche letture, ma anche noi lettori di oggi), deve trovare un punto di contatto, un momento di incontro con l’analisi dei nuclei di pensiero che, sia pure faticosamente, sia pure parzialmente, emergono dal testo: in altri termini se è sbagliato, come si è fatto per molto, troppo tempo, leggere i dialoghi di Platone e, più in generale, i logoi Sokratikoi come se fossero dei trattati, cosa che palesemente non sono né intendevano essere, mi pare altrettanto sbagliato leggerli come se fossero soltanto e/o soprattutto una sorta di testi teatrali, cosa che altrettanto palesemente non sono né volevano essere.
III. Non solo Platone, ma soprattutto Platone Come si è accennato all’inizio, negli ultimi decenni si è consolidato, da parte di non pochi studiosi, un impegno senz’altro apprezzabile e proficuo a prendere in esame, ad analizzare, ad approfondire la letteratura socratica antica nella sua interezza, da un lato prestando un’attenzione necessaria, anzi doverosa, alla nascita e alla prodigiosa fioritura dei logoi Sokratikoi nonché alla natura, alle caratteristiche e alle implicazioni di questo nuovo genere letterario, dall’altro dedicando stimolanti percorsi di ricerca a quei Socratici di cui possiamo parlare con una qualche cognizione di causa: primo fra tutti Senofonte, che avuto il privilegio di essere, insieme a Platone, l’unico i cui logoi Sokratikoi ci siano pervenuti integralmente, e in secondo luogo quei Socratici di cui ci sono comunque pervenuti frammenti relativamente estesi. Mi riferisco in particolare ad Antistene, a cui soprattutto Aldo Brancacci ha consacrato una serie di contributi davvero fondamentali15 e a Eschine di 15 (dall’ormai classico Oikeios logos. La filosofia del linguaggio di Antistene, Napoli 1990, fino al contributo presentato a Socratica III, Il pensiero politico di Antistene),
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Sfetto, oggetto delle cure di non pochi studiosi, da Gabriele Giannantoni16, fino a Charles Kahn17 e ai recentissimi interventi presentati proprio in occasione di Socratica III18). Si tratta, in sostanza, di un lavoro critico imponente per la mole di contributi prodotti e senza dubbio prezioso per consentire di allargare uno sguardo che per troppo tempo si è concentrato esclusivamente su Platone, con il risultato, certo non voluto ma inevitabile, di isolarlo da un contesto la cui conoscenza e comprensione arricchisce la stessa lettura dei suoi dialoghi, inclusi, per taluni aspetti, quelli della maturità. Non solo Platone, dunque, non più un Platone isolato e irrelato rispetto agli altri Socratici: tuttavia, anche accantonando per un momento la questione socratica, è pur vero che, rispetto alla produzione degli altri Socratici o, per essere più precisi, rispetto all'esigua parte di quella ricchissima produzione che è giunta fino a noi, Platone si accampa in modo netto come la figura predominante e come quella che nella storia della cultura occidentale è sempre prevalsa. Non solo Platone, quindi, ma soprattutto Platone, e non soltanto riguardo a Socrate, ma certamente anche riguardo a Socrate, quel Socrate che costituisce l’aspetto che in questa sede ci sta a cuore. In effetti il Socrate che ci interessa, il Socrate che nella visione consegnataci dalla tradizione segna il salto dalle indagini dei physiologoi alla ricerca su temi di natura etica, il Socrate spiazzante in tema di santità, il Socrate maestro che suscita nei suoi diversi discepoli non solo ammirata attenzione ma anche un inquietante odio-amore, il Socrate che affronta la morte senza certezze ma con la fermezza degli eroi omerici è il Socrate di Platone: il Socrate dell’Eutifrone, il Socrate dell’elogio di Alcibiade nel Simposio, il Socrate dell’Apologia e del Critone. Ma, al di là del fascino di questa immagine, di questo complesso archetipo, ritengo che i dialoghi giovanili di Platone (intendendo per dialoghi giovanili quelli che Vlastos chiama dialoghi elenctici, con qualche dubbio per l’Eutifrone) abbiano conservato non soltanto il tipico modo di dialogare del Socrate storico (come sostiene Rossetti), ma anche alcuni nuclei di pensiero, alcuni punti di dottrina a lui ragionevolmente ascrivibili. In particolare l’Apologia, se pure non può essere considerata, come vorrebbe Reale, una sorta di documento storico in senso stretto, tuttavia, anche per la sua probabile natura di instant-book, di testo scritto a ridosso del processo e della morte del maestro, rimane comunque un testo attendibile per una ricostruzione, almeno parziale, del pensiero del Socrate storico. Infatti da un lato è 16 L’Alcibiade d’Eschine et la littérature socratique sur Alcibiade, in: G. Romeyer Dherbey/ J.-B. Gourinat, c/ di, Socrate et les Socratiques, Paris 2001, p. 289-307. 17 Aeschines on Socratic Eros, in: P. A. Vander Waerdt, c/ di, The Socratic Movement, cit., p. 87-106. 18 J.-A. Mallet, The Notion of theia moira (divine Dispensation) in Aeschines of Sphettus’ Fragments; G. Pascalau, Honig und Milch aus vertrockneten Brunnen. Eine dionysische Metapher bei Platon und Aeschines von Sphettus.
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davvero inverosimile che Platone abbia modificato sensibilmente le argomentazioni, le affermazioni, i contenuti fondamentali dei primi due discorsi, quelli effettivamente pronunciati durante il processo (un processo affidato a ben cinquecento giudici e a cui avevano assistito centinaia di cittadini ateniesi); d’altro canto, come si è visto sopra, è improbabile che anche il terzo discorso, nonostante la sua natura fittizia, non esponga quelle che furono le considerazioni di Socrate riguardo alla morte imminente e a ciò che attende l’uomo dopo la morte. In particolare, un tema che dall’Apologia emerge con grande nettezza è quello, come è stato più volte sottolineato, della cura dell’anima, cura che si realizza attraverso la ricerca della virtù e che con la cura della virtù finisce per identificarsi (Ap., 29d-e; 30a-b; 31b; 36c; 38a; 41e). Ed è significativo che questo tema trovi un riscontro, sia pure un po’ sbiadito, nei Memorabili (I, 2, 2-8, dove la cura di sé, la cura dell’anima e la cura della virtù sembrano coincidere): più in generale, come cercherò di dimostrare, alcuni nuclei di pensiero del Socrate platonico, del Socrate dei dialoghi giovanili, sono rintracciabili anche in Senofonte. Ma riguardo a Senofonte il problema è senz’altro assai più vasto e complesso e investe tutti i suoi scritti socratici e, in particolare, il più ampio e il più importante, i Memorabili: un problema a cui non possiamo sottrarci.
IV. Che cosa fare di Senofonte? Come si è accennato all’inizio, Senofonte è stato oggetto, negli ultimi decenni, di una nuova attenzione e di una sostanziale rivalutazione, sia pure con sfumature spesso assai diverse: non è questa la sede per tracciare una sia pur sintetica storia della fortuna degli scritti socratici di Senofonte, basterà ricordare che senza dubbio questa nuova attenzione per Senofonte è nata con una serie di contributi, divenuti ormai classici anche se spesso non condivisi e duramente criticati, di Leo Strauss, che inizialmente si è dedicato al pensiero politico di Senofonte19 per poi passare a esaminare gli scritti socratici, con un saggio incentrato sull’Economico20 e soprattutto con il volume consacrato a una rivisitazione complessiva del Socrate di Senofonte21. A Senofonte ha dedicato quasi tutto il suo lavoro anche una studiosa che ha esplicitamente contestato la lettura proposta da Strauss, Vivienne J. Gray, i cui numerosi contributi sono particolarmente importanti perché Gray si è occupata di tutta la vasta e variegata opera di Senofonte, il che costituisce un dato se non unico senz’altro eccezionale, dal momento che gli scritti di The Spirit of Sparta or the Taste of Xenophon, “Social Research”, VI, 1939, p. 50236; On Tyranny: an Interpretation of Xenophon’s Hiero, New York 1948. 20 Xenophon’s Socratic Discourse. An Interpretation of the Oeconomicus, Ithaca, N.Y., 1970. 21 Xenophon’s Socrates, Ithaca, N. Y., 1972. 19
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Senofonte sono stati, per così dire, smembrati tra una pluralità di specialisti (storici, filosofi, studiosi del pensiero politico, critici letterari), che si sono occupati esclusivamente di quei testi che ritenevano rientrare nel settore di loro competenza: in particolare molto spesso quanti si sono dedicati allo studio delle opere socratiche disponevano di una conoscenza piuttosto approssimativa degli altri scritti di Senofonte. Ma la rivalutazione più convinta e più energica di Senofonte viene da uno studioso anche lui molto polemico con l’esegesi straussiana, Louis-André Dorion22, che ha dedicato a Senofonte una nutrita serie di importanti contributi e che, come abbiamo accennato, si è speso in un’argomentata difesa del valore dei suoi scritti soprattutto nell’introduzione ai Memorabili editi da “Les Belles Lettres”. In questa introduzione, ampia e articolata, Dorion non si limita, infatti, a tracciare una breve ma documentata storia della fortuna dell’opera, storia che inevitabilmente finisce per intrecciarsi a quella della questione socratica, ma illustra le motivazioni più ricorrenti che hanno indotto a considerare i Memorabili un testo di scarso valore soprattutto come fonte sul Socrate storico, per poi confutarle puntualmente (p. XIV-XCIX). Alcune di queste motivazioni sono in effetti di scarso peso, come l’asserita brevità della frequentazione di Socrate da parte di Senofonte oppure la pretesa superficialità della relazione tra Socrate e Senofonte, in quanto quest’ultimo non avrebbe fatto parte della ristretta cerchia dei discepoli e degli amici più intimi di Socrate; altre critiche mosse ai Memorabili risultano poi non pertinenti, come quella di chi sostiene che Senofonte nelle sue opere storiche si dimostra uno storico non certo obiettivo e imparziale, il che porrebbe una pesante ipoteca sulla attendibilità della testimonianza offerta dai Memorabili: una critica non pertinente, proprio perché i Memorabili non sono né intendevano essere un’opera storica, ma una raccolta, legata da una cornice narrativa, di logoi Sokratikoi, un genere letterario ben diverso dalla storiografia. Né può inficiare il valore dei Memorabili il palese intento apologetico che, sia pure in diversa misura e con modalità differenti, permea e informa di sé tutta l’opera: una finalità apologetica, infatti, è una caratteristica comune a gran parte, se non a tutti, i logoi Sokratikoi che ci sono pervenuti: in Platone è presente non soltanto nei dialoghi giovanili, ma anche in diversi dialoghi della maturità, dal Simposio al Fedone. Infine appare assai azzardata la tesi di chi asserisce che i Memorabili non costituiscono una fonte indipendente, in quanto Senofonte si sarebbe limitato a rielaborare gli scritti di altri Socratici: è stato soprattutto Gigon nel suo commento, per altro di fondamentale importanza, ai primi due libri dei Memorabili23, a sostenere la dipendenza di Senofonte dagli scritti di 22 Vedi soprattutto The Straussian Exegesis of Xenophon: The Paradigmatic Case of Memorabilia IV 4, in: V. J. Gray, c/ di, Xenophon, Oxford 2010, p. 283-323. 23 Kommentar zum ersten Buch von Xenophons Memorabilien, Basel 1953; Kommentar zum zweiten Buch von Xenophons Memorabilien, Basel 1956.
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Antistene, che Senofonte spesso avrebbe riutilizzato e/ o riassunto in modo maldestro, una tesi in parte dettata da un pregiudizio negativo nei confronti di Senofonte, ma comunque indimostrata e indimostrabile, data la perdita quasi totale dell’opera di Antistene. Più fondato, in quanto riferito a testi che ci sono pervenuti, il tentativo di dimostrare una dipendenza di Senofonte da Platone, dipendenza che è ammessa da molti sia per l’Apologia sia soprattutto per il Simposio, una dipendenza che per altro non compromette l’originalità di questi due opuscoli: è innegabile, a un esame scevro da pregiudizi, che il Simposio di Senofonte è un’opera del tutto diversa (e senza dubbio di spessore e di valore assolutamente minore) rispetto al Simposio platonico, e lo stesso discorso vale per la sua brevissima Apologia. Quanto ai Memorabili, la dipendenza dai dialoghi di Platone è stata asserita da Kahn in un suo saggio relativamente recente24, in cui lo studioso afferma che Senofonte è una sorta di spugna, che assorbe idee, argomenti e perfino frasi da Antistene, da Eschine ma soprattutto da Platone (p. 30), da cui dipenderebbero dieci passi da lui presi in esame, anche se poi lo studioso finisce per ammettere che tre di questi passi potrebbero dipendere non da Platone, ma da una fonte comune (p. 393-398). Ora è molto probabile che Senofonte, nel corso della stesura dei Memorabili (una stesura i cui termini cronologici non sono precisabili con esattezza, ma che diversi indizi inducono a supporre che si sia protratta per parecchi anni), abbia avuto modo di conoscere gli scritti di altri Socratici, in particolare dei più noti e prestigiosi come Antistene e, senza dubbio, Platone, ma ciò non implica automaticamente un rapporto di dipendenza, anzi non mancano passi che rivelano una volontà di distinguersi dagli altri Socratici (Mem., I, 4, 1; IV, 3, 2; Ap., 1). È quindi verosimile supporre che la conoscenza della letteratura socratica, lungi dall’implicare una piatta imitazione, una pedissequa dipendenza, abbia costituito invece uno stimolo a competere in qualche misura con gli altri Socratici, a polemizzare tacitamente con loro, a opporre al loro Socrate un suo Socrate. Perciò è senza dubbio importante confrontare Senofonte con i frammenti superstiti di Antistene e soprattutto con Platone: a tale scopo il secondo tomo dei Memorabili curati da Dorion presenta un preziosissimo indice (t. II, 2e partie, p. 289-320), in cui vengono elencati i passi di Platone che sono stati citati nel commento in quanto costituiscono un importante termine di confronto con numerosi passi dei Memorabili; particolarmente interessante e significativa è poi l’appendice (t. II, 1re partie, p. 415-417) dedicata ai riscontri tra la conversazione tra Socrate e Critobulo sul tema dell’amicizia (Mem., II, 6) e il Liside platonico. Questa operazione di sistematico confronto tra i Memorabili e i testi superstiti degli altri Socratici e 24 Plato and the Socratic Dialogue. The Philosophical Use of a Literary Form, Cambridge 1996.
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soprattutto di Platone risulta di grande interesse e certamente consente una comprensione assai più ricca, puntuale e rigorosa dei Memorabili, una comprensione che si configura come l’unico possibile obiettivo qualora si ritenga, con Dorion, che la questione socratica vada risolutamente accantonata una volta per sempre. Ma se invece si è convinti che la questione socratica rappresenti una sfida ardua e complessa, ma non impossibile? E se, per di più, si è convinti che gli scritti socratici di Senofonte non siano dotati (se non in misura assai limitata) di un autonomo valore speculativo, ma che risultino importanti soprattutto nella misura in cui possano gettare una qualche luce sul Socrate storico? Che cosa fare, allora, di Senofonte? Prima di tentare di abbozzare una risposta, vorrei fare una precisazione. Proprio perché mi sono occupata a lungo di Senofonte, e non soltanto delle opere socratiche, credo di essere particolarmente sensibile a quegli aspetti della sua produzione che meritano una piena rivalutazione. Innanzi tutto il suo straordinario talento di scrittore, che già Calvino aveva acutamente colto a proposito dell’Anabasi (Perché leggere i classici, Milano, II ed., 1995, p. 23-28 ), ma che si rivela anche in molte pagine della Ciropedia, nonché in non pochi passi delle Elleniche. Un altro aspetto per il quale Senofonte è assolutamente degno della più attenta considerazione è dato dalla sua veste di pensatore politico. Tutte le opere di Senofonte, perfino quelle in apparenza più innocue, perfino quelle che sembrano dei semplici trattati tecnici, come il Cinegetico o l’Ipparchico, presentano sempre un taglio politico che non può mai essere trascurato o sminuito: la riflessione su una serie di tematiche politiche, in particolare sul tema cruciale della leadership e del leader ideale (vedi l’ultimo libro di V. Gray, Xenophon’s Mirror of Princes, Oxford 2011), percorre come un insistente Leitmotiv tutta la sua produzione e assurge a una centralità che deve essere sempre tenuta presente. Un grande scrittore, dunque, e un interessante pensatore politico: ma questo vale anche per gli scritti socratici e, in particolare, per quello più ampio, più esauriente, più impegnativo, cioè i Memorabili? Senza dubbio sia l’Economico sia i Memorabili presentano non pochi passi in cui la riflessione politica si accampa in primo piano: si pensi, tanto per fare qualche esempio, al capitolo conclusivo dell’Economico oppure a tutta la prima parte (cap. 1-7) del III libro dei Memorabili (ma anche al dialogo tra Socrate e Critobulo di Mem., II, 6, i cui risvolti politici sono stati di solito sottovalutati). Pertanto, come vedremo, senza dubbio i Memorabili costituiscono un testo tutt’altro che trascurabile per una piena comprensione del pensiero politico di Senofonte e, forse, anche per gettare qualche luce sull’orientamento politico del Socrate storico. Diverso, invece, il discorso sulla qualità della scrittura: eccettuate poche conversazioni (ed es. il primo dialogo con Eutidemo in Mem., IV, 2), non ritroviamo nei Memorabili lo scrittore brillante ed efficace che avevamo imparato a conoscere e ad apprezzare da altre opere: dovremmo chiederci 37
perché e provare a formulare una risposta che tenga conto anche di quei passi in cui, invece, Senofonte sembra ritrovare lo smalto e l’incisività di cui dà ampia prova in altri suoi scritti. Ciò premesso, resta comunque aperta la questione fondamentale, quella inerente all’importanza e al valore dei Memorabili dal punto di vista specificamente filosofico: certo, possiamo ritenere che abbia rilevanza filosofica qualsiasi testo parli di filosofia, così come possiamo concordare con quanto afferma Dorion25 e cioè che con il termine filosofo si è inteso per molto tempo e spesso si intende tuttora chi si dedica allo studio della filosofia e/ o di alcuni filosofi, e non necessariamente chi elabora una propria autonoma riflessione di natura filosofica. Se ci manteniamo all'interno di questi limiti, se accettiamo questo tipo di definizione, allora senza dubbio Senofonte può essere ritenuto un filosofo e i Memorabili un testo filosofico. Un testo filosofico, insomma, perché presenta in forma dialogica (dato non trascurabile) una serie di discorsi di carattere filosofico attribuiti a un personaggio, Socrate, presentato come un filosofo e (soprattutto) come un maestro. Tuttavia mi pare arduo sostenere che i logoi Sokratikoi racchiusi nella cornice dei Memorabili siano dotati di un loro autonomo valore speculativo, cosa che neppure Dorion afferma, dato che, al contrario, dichiara che “Il est certain que si “philosophique” est pour nous synonyme de “critique” et de “spéculatif”, Xénophon fait plutôt pâle figure en tant que philosophe” (Introduction, cit., p. XCVII). Ma se così stanno le cose, se certo rimane utile e stimolante un confronto sistematico e fine a se stesso tra i Memorabili e gli scritti superstiti degli altri Socratici e di Platone in primo luogo, è anche vero che, da un punto di vista prettamente filosofico, i Memorabili sembrano importanti soprattutto nella misura in cui riescano a contribuire, sia pure parzialmente, a una ricostruzione della figura di Socrate come maestro e come filosofo. Inoltre costituiscono un’opera che riveste comunque una valenza politica importantissima, sia per mettere in luce la natura squisitamente politica del processo a Socrate, sia per arrivare a definire e a precisare alcuni aspetti del pensiero politico di Senofonte e forse anche per svelare, nonostante tutte le preoccupazioni apologetiche, alcuni orientamenti politici di Socrate stesso. Si tratta di questioni tra loro connesse, ma che mi propongo di affrontare separatamente. In primo luogo: in che misura i Memorabili, oltre a dar luogo a un doveroso confronto con i dialoghi di Platone e con i frammenti degli altri Socratici, possono contribuire alla nostra conoscenza del Socrate storico? Per tentare una risposta, vorrei riprendere l’efficace metafora di Reale, cioè cercare di calcolare “l’indice di variazione” che caratterizza lo specchio costituito dai Memorabili. Mi sembra che questo calcolo si possa effettuare su due piani distinti, anche se non irrelati: quello relativo al genere letterario, cioè 25
Introduction, cit., p. XCVI-XCIX.
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alle peculiari caratteristiche dei logoi Sokratikoi che leggiamo nei Memorabili, e quello relativo ai meccanismi di projezione che è possibile individuare – talora con chiarezza, talora con il beneficio del dubbio – nei discorsi che Senofonte pone sulla bocca del maestro. In effetti i logoi Sokratikoi dei Memorabili si contraddistinguono subito, a prima vista, per la loro singolare brevità: perfino quelli di maggiore ampiezza, come la prima conversazione con Aristippo (II, 1), la prima conversazione con Eutidemo (IV, 2) o il dialogo con Critobulo (II, 6), risultano molto più brevi anche dei più brevi dialoghi di Platone, come l’Eutifrone o l’Ippia minore. Non è improbabile che questa caratteristica, così immediatamente evidente, risenta dell’influenza delle chreiai: come è noto, è stata V. J. Gray in un suo importante saggio sulla struttura dei Memorabili26), che alcuni anni fa ho recensito proprio su questa rivista (9, 2002, p. 80-84), a considerare quest’opera come una raccolta non già di logoi Sokratikoi, bensì di chreiai, vale a dire di scambi verbali basati su uno schema domanda/risposta tra un uomo saggio e un interlocutore, introdotto da una varietà di formule standardizzate. Ora, sia nella recensione citata, sia nella mia Introduzione ai Memorabili (p. 23-25 e n. 79), ho sostenuto che la tesi della studiosa non mi sembrava convincente, sia perché le raccolte di chreiai a cui la studiosa fa riferimento sono decisamente tarde, sia perché, a mio avviso, ben pochi degli scambi verbali dei Memorabili possono considerarsi delle chreiai (lo sono quelli tra Socrate e i suoi anonimi interlocutori dei cap. 13 e 14 del III libro, quello tra Socrate e Antifonte di I, 6, 15, e forse quelli di III, 9, 4 e III, 9, 14). Oggi, tuttavia, pur essendo consapevole del fatto che le raccolte di chreiai a noi pervenute sono tutte tarde e pur continuando a ritenere che Senofonte abbia voluto cimentarsi, da buon Socratico, nel nuovo genere letterario che si era andato tumultuosamente imponendo, quello dei logoi Sokratikoi, sono assai più propensa non tanto a vedere nei Memorabili un insieme di chreiai (le chreiai vere e proprie sono appunto pochissime), quanto a riconsiderare l’influenza della letteratura sapienziale sui Memorabili, influenza che non mi sembra trascurabile. In altri termini: mentre Gray sostiene che Senofonte, di fronte a due diversi generi letterari, quello costituito dalla raccolta di massime e il nuovo genere del dialogo socratico, abbia scelto il primo, io sono invece convinta che abbia senza dubbio optato per il secondo, senza però sottrarsi alla suggestione esercitata da quelle raccolte di massime di sapienti che circolavano nell’Atene del suo tempo, a cui lui stesso allude più volte e proprio nei Memorabili (I, 6, 14; IV, 2, 1; IV, 2, 8-10). Una suggestione di questo tipo spiegherebbe assai bene sia la vistosa brevità dei dialoghi, sia la diffusa opacità della scrittura, sia soprattutto quella che nei Memorabili è, se non 26 The Framing of Socrates. The Literary Interpretation of Xenophon’s Memorabilia, Stuttgart 1998.
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l’unica, certo l’immagine prevalente di Socrate: quella di un sapiente di tipo tradizionale che istruisce e ammaestra i suoi interlocutori, che predilige il discorso di tipo didattico all’elenchos (l’unico autentico elenchos è quello a cui viene sottoposto Eutidemo in IV, 2). Una simile suggestione renderebbe conto, inoltre, dell’ampiezza degli insegnamenti impartiti da Socrate, che abbracciano gli ambiti più disparati dell’esistenza umana, un’ampiezza che, per altro può agevolmente spiegarsi anche come un fenomeno di projezione da parte di Senofonte. Il fenomeno della proiezione, in effetti, riesce a spiegare diversi aspetti del Socrate di Senofonte, innanzi tutto sul piano dei contenuti: alcune tematiche su cui si sofferma il Socrate dei Memorabili non solo non trovano riscontro nei dialoghi elenctici di Platon, ma soprattutto costituiscono un palese e costante oggetto di interesse da parte di Senofonte, come si ricava dai suoi scritti non socratici. Si pensi, ad es., alla questione della cura del corpo e della ginnastica, a cui il Socrate dei Memorabili dedica ampio spazio e a cui annette grande importanza27 ma che riveste un fondamentale valore agli occhi di Senofonte, come emerge da diversi passi dell’Anabasi e soprattutto della Ciropedia. Oppure, per fare un esempio ancora più eclatante, si pensi al Socrate che in Mem., III, 8, 8-10, fornisce indicazioni sulle caratteristiche che deve possedere una casa per risultare sia bella che funzionale: si tratta del medesimo argomento che nell’Economico viene preso in esame, con alcune considerazioni assai simili, da Iscomaco (Oec., 9, 2-5), in cui gli studiosi sono pressoché unanimi nel riconoscere un trasparente alter ego di Senofonte stesso. Ma i casi di proiezione non si esauriscono nell’attribuire a Socrate interessi che sappiamo propri di Senofonte: talora investono anche punti di dottrina tutt’altro che secondari. Un esempio di grande rilevanza è rappresentato dal tradizionale precetto di fare del bene ai propri amici e del male ai propri nemici: il Socrate dei Memorabili fa riferimento ad esso più volte, in varie forme (II, 1, 19; II, 1, 28; II, 2, 2; II, 3, 14; II, 6, 35; IV, 2, 15-16), con una particolare enfasi in II, 6, 35 e soprattutto in II, 3, 14. Ora è noto che tale precetto è non solo condiviso, ma in alcuni casi addirittura esaltato da Senofonte, come risulta in modo inequivocabile da numerosi passi di opere non socratiche, dall’Anabasi (quasi certamente una delle sue prime opere) alla Ciropedia (la cui lunga stesura si dipana invece negli ultimi anni della sua vita): si tratta dunque di un modello di comportamento a cui Senofonte rimase tenacemente fedele in tutto il corso della sua lunga esistenza. È legittimo quindi inferirne che Senofonte non esitò ad attribuire al maestro una delle sue più ferme e consolidate convinzioni: una conferma indiretta, ma preziosa, viene, come è noto,
27 Mem., I, 2, 4; I, 6, 7; II, 1, 20; II, 1, 20; III, 13, 6; IV, 5, 10; IV, 7, 9, e soprattutto l’intera conversazione con Epigene di III, 12.
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dal Critone, dove invece Socrate, lungi dal condividere il modello di comportamento consacrato dalla tradizione, afferma risolutamente che non bisogna fare del male a nessuno tra gli uomini, qualunque cosa uno possa aver subito da loro (Crit., 49c): un’affermazione della cui radicale novità, del cui profondo valore di rottura, Socrate si dimostra pienamente consapevole, nel momento in cui avverte Critone che, se su questo punto si dichiarerà d’accordo con lui, si troverà a sottoscrivere un’opinione condivisa da ben pochi (Crit., 49d). Ancora, nel I libro della Repubblica, allorché Polemarco non esita a sostenere che la giustizia consista nel fare del bene agli amici e del male ai nemici, Socrate lo sottopone a un elenchos stringente per giungere, sia pure con argomentazioni diverse da quelle del Critone, alla medesima conclusione, che non si deve fare del male a nessuno (Resp., 332d-335e). Certo, si può supporre che il rifiuto del modello di comportamento tradizionale e l’affermazione del principio che non si deve fare del male a nessuno non risalga al Socrate storico e che invece sia frutto della riflessione di Platone, che lo avrebbe attribuito al maestro: ma, a parte il fatto che il Critone è uno dei primi dialoghi di Platone ed è quindi verosimile che il suo Socrate sia abbastanza vicino al Socrate storico, ciò non inficia comunque la validità della conclusione a cui siamo giunti in precedenza, cioè che la fedeltà del Socrate dei Memorabili al tradizionale precetto dell’etica greca altro non sia che la proiezione di quella che era una ferma convinzione di Senofonte, tante volte proclamata nei suoi scritti non socratici. Altri casi di palese projezione da parte di Senofonte si potrebbero citare: si pensi, per limitarci a un ultimo esempio, al tema dell’obbedienza volontaria, alla capacità indispensabile per un vero leader politico di farsi obbedire spontaneamente, un tema che nei Memorabili è appena accennato (III, 6, 15; IV, 6, 12), ma che invece rappresenta una sorta di filo rosso che si rinviene in quasi tutti gli scritti di Senofonte, dall’Economico (dove, non a caso, è Iscomaco ad affrontarlo a più riprese e nella conclusione stessa dell’opera) allo Ierone, dall’Anabasi alla Ciropedia, in cui, come esplicitamente dichiarato nell’incipit, la riflessione sul consenso necessario a una autentica leadership costituisce il nucleo centrale dell’intera opera. Tuttavia, a mio avviso, il frequente manifestarsi di meccanismi di proiezione è soltanto uno degli elementi, forse il più vistoso, di cui dobbiamo tener conto per calcolare l’“indice di variazione” che caratterizza i Memorabili. Mi sembra infatti di uguale importanza osservare come alcuni punti di dottrina presenti sia nei Memorabili sia in Platone subiscano, per così dire, una particolare torsione, una sorta di deformazione ad opera appunto di quello specchio che è Senofonte, con le sue personali convinzioni. Mi limiterò a un unico esempio, la teoria della virtù-scienza: non è ovviamente possibile, in questa sede, entrare nel merito di una questione così complessa (ho cercato di farlo, sia pur brevemente, nella mia Introduzione ai Memorabili, p. 137-153). Vorrei soltanto sottolineare come, alla 41
base delle incongruenze che si riscontrano al riguardo nei Memorabili, si possa cogliere una sorta di maldestro tentativo di conciliare quella che era la concezione della virtù propria di un uomo di azione quale fu Senofonte, per cui la virtù ha il suo presupposto e il suo fondamento nel dominio di sé, nella enkrateia (Mem., I, 5, 4), con la teoria che invece fa coincidere la virtù con la conoscenza di ciò che è moralmente buono, conoscenza che implicherebbe automaticamente una scelta in tal senso (Mem., III, 9, 4-5). In sostanza, al di là dei meccanismi di proiezione veri e propri, per i quali Senofonte fa del maestro il portavoce delle sue opinioni, esistono anche dei meccanismi più sottili e più complessi, in cui quelle che erano le personali convinzioni di Senofonte interagiscono con convinzioni a lui estranee, trasformandole e talora deformandole, con le incongruenze pressoché inevitabili che finiscono per prodursi. Ma proprio queste incongruenze rappresentano una spia preziosa che ci permette di cogliere e di calcolare l’“indice di variazione” dello specchio e, attraverso questo calcolo, di risalire all’immagine originaria. In altri termini proprio la confusione, le contraddizioni in cui cade Senofonte a proposito della dottrina della virtù-scienza ci danno la possibilità di capire quanto tale teoria gli fosse radicalmente estranea, il che rende assai verosimile che sia stata propria, in effetti, del Socrate storico, come sembrerebbe indirettamente confermato anche dai diversi passi dei dialoghi giovanili di Platone che ci mostrano un Socrate impegnato a illustrare questa sua convinzione. Paradossalmente, dunque, possono essere proprio i limiti, le ingenuità, se vogliamo, di Senofonte a permetterci di cogliere almeno alcuni aspetti di quello che è stato, con buone probabilità, il pensiero del Socrate storico. Lo stesso discorso vale per quelle che sembrano alcune contraddizioni che si rinvengono nei Memorabili. La più interessante è, a mio avviso, quella che emerge dalle parole di Ippia in Mem., IV, 4, 9: il sofista, rivolgendosi a Socrate che lo ha invitato a esporre le sue convinzioni in materia di giustizia, replica: “No, per Zeus, non mi sentirai parlare, almeno non prima che tu stesso abbia spiegato che cosa ritieni che sia giusto. Basta con il tuo prendersi gioco degli altri, interrogando e confutando (elenchon) tutti, senza essere disposto tu stesso a rendere conto a nessuno né a esprimere la tua opinione su nessun argomento”. Questo passo, su cui Vlastos ha giustamente richiamato l’attenzione (Socrates, cit., p. 105106 = Socrate, cit., p. 139-140), ci descrive un Socrate del tutto diverso da quello dei Memorabili, un Socrate che, lungi dall’impartire insegnamenti inerenti i più svariati ambiti, appare privo di proprie convinzioni di cui rendere conto, dedito a praticare sistematicamente quell’elenchos a cui invece il Socrate di Senofonte ricorre solo in casi eccezionali e che utilizza non come strumento di ricerca della verità, bensì come mezzo per selezionare i suoi discepoli, come mostra chiaramente l’unico vero e proprio elenchos presente nei Memorabili, quello a cui viene sottoposto il giovane Eutidemo 42
in IV, 2. Nelle parole di Ippia possiamo quindi intravedere un Socrate mai visto nei Memorabili, un Socrate che si proclama insciente e che fa sistematico ricorso all’elenchos, insomma un Socrate che fa il Socrate, direbbe Rossetti. Questo Socrate inedito, che qui compare in modo del tutto inaspettato, costituisce, sostiene ancora Vlastos (ivi) una sorta di svista da parte di Senofonte, che in un momento di distrazione ci ha restituito un Socrate da lui costantemente censurato e soppresso, un Socrate insciente e perciò dedito a un incessante processo di ricerca tramite l’elenchos. E questo inedito Socrate, che Senofonte ci fa balenare davanti per un attimo, rinvia al Socrate storico? Oppure rinvia semplicemente al Socrate dei dialoghi elenctici di Platone, che certo Senofonte aveva avuto modo di conoscere? Questa seconda ipotesi sembrerebbe corroborata dal fatto che un rimprovero molto simile a quello che Ippia rivolge a Socrate lo troviamo, come ha segnalato Kahn28, sulla bocca di Trasimaco in Resp., 336c; 337a; 337e. Per altro lo stesso Kahn ammette che non è possibile dimostrare con certezza la dipendenza di Mem., IV, 4, 9 dai passi citati della Repubblica e che, pertanto, non si può escludere che il comportamento denunciato da Ippia sia da ascriversi proprio al Socrate storico (ivi, p. 398). Quello che senza dubbio le parole di Ippia ci mostrano è una contraddizione, una crepa, una smagliatura nel ritratto di Socrate offerto dai Memorabili: una smagliatura tanto più interessante in quanto lo squarcio che ci apre ci mostra un Socrate in singolare sintonia con quello dei dialoghi elenctici di Platone: e mi sembra arduo sostenere che questa sintonia sia frutto del caso e priva di qualsiasi relazione con il Socrate storico. Rispetto a quest’ultimo, quindi, i Memorabili assolvono a una funzione importante: non solo di confronto con gli scritti degli altri Socratici e di Platone in particolare, ma anche, a mio avviso, di conferma di quanto leggiamo nei dialoghi elenctici di Platone, una conferma che certo deve calcolare con cura l’“indice di variazione” proprio di Senofonte (nonché, naturalmente, anche di quello proprio di Platone), ma una conferma che può risultare preziosa nel difficile tentativo di riasalire a quel comune denominatore che fu il Socrate storico. Con una ulteriore, importante precisazione: per calcolare l’“indice di variazione” proprio di Senofonte è indispensabile una conoscenza non superficiale di tutta la sua variegata produzione, inclusi quindi gli scritti non socratici. Veniamo ora al secondo aspetto della questione: la valenza politica dei Memorabili, una valenza di grande rilevanza sia in rapporto alla natura politica del processo a Socrate, sia al fine di precisare e definire il pensiero politico di Senofonte e, forse, del Socrate storico. Cominciamo con il primo punto: è indubbio che la seconda parte della sezione apologetica dei Memorabili (I, 2, 9-61) costituisce una fonte di importanza fondamentale, preziosa 28
Plato and the Socratic Dialogue, cit., p. 397.
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e insostituibile per comprendere la natura prettamente politica del processo intentato a Socrate. Come è noto, infatti, Senofonte, dopo aver brevemente confutato le accuse mosse a Socrate in sede processuale (I, 1, 1 - I, 2, 8), si impegna con puntigliosa meticolosità a confutare le accuse mosse a Socrate da un anonimo kategoros, identificato dagli studiosi con il retore Policrate, in un’orazione a cui accenna anche Isocrate (Busiride, 1 e 4-5). L’orazione di Policrate, che ha come terminus post quem il 393/ 392 (e verosimilmente scritta poco dopo tale data), è andata perduta, ma è proprio grazie a Mem., I, 2, 9-61, che riusciamo a ricostruirne il contenuto (oltre che dalla tarda Apologia di Socrate scritta da Libanio nel IV secolo d. C.). Le accuse mosse da Policrate sono accuse squisitamente politiche: Socrate veniva accusato di essere contrario al sorteggio delle cariche pubbliche, procedura tipica e fondante della democrazia (Mem., I, 2, 9-11), di essere stato il maestro di Crizia e di Alcibiade (Mem., I, 2, 12-48 ), di minare l’autorità dei padri e della famiglia (Mem., I, 2, 49-55), di interpretare i versi di alcuni poeti in chiave ostile al popolo (Mem., I, 2, 56-61): in sostanza il perfetto ritratto di un nemico della democrazia (che in Atene godeva dell’appoggio della tradizione, una tradizione che finiva quindi con l’identificarsi con l’autorità dei padri nei confronti dei giovani). E sono proprio queste accuse che ci permettono di renderci conto del clima politico in cui maturano il processo e la condanna a morte di Socrate, molto più delle accuse, vaghe e approssimative, avanzate in sede giudiziaria, molto più delle calunnie che da anni colpivano Socrate, ricordate da Platone nella parte iniziale dell’Apologia (Ap., 18a-20c). Appare dunque evidente che la democrazia restaurata, dopo essersi liberata con la cosiddetta guerra di Eleusi dal rischio di un colpo di coda degli oligarchi, avesse deciso di regolare i conti una volta per tutte con un intellettuale inquietante, che aveva il gravissimo torto di avere avuto come amici l’esecrato leader dei Trenta e un democratico inaffidabile e pronto al tradimento come Alcibiade; un intellettuale che per di più, come vedremo, non mostrava certo soverchie simpatie per la democrazia. Era forte, insomma, il sospetto che Socrate non soltanto avesse avuto amici e sodali pericolosi per la democrazia, ma che avesse guardato senza troppa ostilità il regime dei Trenta, come sembrava indicare anche il fatto di essere rimasto in città durante il periodo del governo oligarchico. E se le imputazioni mosse contro di lui dai suoi accusatori (tra cui un noto esponente di orientamento democratico quale Anito) altro non erano che le solite generiche accuse mosse contro i filosofi (Ap., 23d), ciò dipendeva dal fatto che l’amnistia proclamata nel 403 e ribadita nel 401 impediva di processare chiunque avesse avuto simpatie per i Trenta o avesse collaborato con loro, escludendo soltanto chi si fosse macchiato di delitti di sangue. Ma proprio di simpatie per i Trenta Socrate era sospettato, anzi ritenuto colpevole, simpatie che sembravano trovare conferma anche nel fatto che Crizia (e non 44
solo lui: si pensi a Carmide) aveva frequentato Socrate e il suo entourage. Se dunque siamo in grado di ricostruire le motivazioni profonde, nascoste e inconfessate che portarono a processare e a condannare Socrate, lo dobbiamo all’impegno profuso da Senofonte per confutare le accuse mosse da Policrate, accuse formulate alcuni anni dopo il processo ma che su di esso gettano finalmente luce, mostrandone in modo inequivocabile la valenza essenzialmente politica: e questo soltanto basterebbe per considerare la sezione apologetica dei Memorabili (e in particolare Mem., I, 2, 9-61) un testo di fondamentale importanza. Ma i Memorabili si rivelano preziosi anche per puntualizzare alcuni aspetti del pensiero politico di Senofonte, aspetti che trovano precisi riscontri anche nelle opere non socratiche: dalla politica intesa come techne, come sapere professionale che implica specifiche competenze in campo militare ed economico, all’obbedienza volontaria che il vero leader deve essere in grado di suscitare. Ma nei Memorabili c’è qualcosa di più, qualcosa che suona come una critica radicale alla democrazia e a tutte le sue procedure, non solo a quella del sorteggio delle cariche pubbliche, ovviamente incompatibile con una concezione della politica come techne, ma anche a quella dell’elezione, cara a conservatori come Isocrate, convinti che essa, a differenza del sorteggio, consentisse la scelta dei migliori. Il Socrate dei Memorabili, infatti, delegittima, sia pure indirettamente, anche questa alternativa, dal momento che, nel dialogo con Carmide (III, 7), nega qualsiasi validità alle scelte dell’assemblea popolare, composta da artigiani, da contadini, da commercianti, da gente preoccupata soltanto dei propri piccoli traffici quotidiani (III, 7, 6), cioè da persone incompetenti (III, 7, 7), anzi dagli uomini più stolti e più deboli di tutti (III, 7, 5). Da ciò discende non solo l’inadeguatezza della procedura elettorale, in quanto una massa di incompetenti non sarà mai in grado di eleggere i cittadini più idonei a rivestire determinate cariche (si ricordi che la carica di stratego era appunto elettiva), ma anche la delegittimazione dell’assemblea popolare. Pertanto non è semplicemente una specifica procedura a essere messa in discussione (questa è soltanto una conseguenza), ma la sovranità stessa dell’assemblea popolare, fondamento della democrazia ateniese: è lo stesso ordinamento democratico a venire pesantemente delegittimato. Ed è importante sottolineare che questa aperta sconfessione, questa condanna senza appello del fondamento della democrazia, benché adombrata anche in Oec., 4, 2-3, viene espressa in modo così esplicito solo in questo passo dei Memorabili, che quindi assurge a una fondamentale importanza per definire il pensiero politico di Senofonte. Ma, a questo riguardo, vi è di più: se nella conversazione con Carmide (uno dei futuri oligarchi, che proprio Socrate esorta a impegnarsi in politica!) viene formulato il rifiuto più netto e implacabile della democrazia, vi è un altro
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passo di straordinaria rilevanza in cui viene prospettata l’alternativa alla democrazia stessa. Si tratta di un passaggio che di solito è sfuggito all’attenzione degli studiosi, forse perché non è incluso nelle conversazioni più specificamente politiche dei Memorabili, ma si trova all'interno del dialogo con Critobulo sul tema dell’amicizia (II, 6): del resto non a caso, visto che l’amicizia nella società greca ha sempre avuto, fin dall’epoca più antica, una forte componente di tipo politico. In effetti il passo in questione (II, 6, 24-27) verte proprio sull’uso politico dell’amicizia o, per essere più precisi, degli amici: è un passaggio a cui mi riprometto di dedicare uno studio specifico, ma di cui vorrei fin da ora evidenziare alcuni aspetti, quelli che costituiscono un vero e proprio progetto politico di stampo oligarchico. Infatti Socrate, dopo aver enunciato (senza per altro fornirne alcuna dimostrazione) quelle che sono le caratteristiche morali dei kaloi te kagathoi, cioè dei “gentiluomini”, presentati come (gli unici) dotati di quella enkrateia che il Socrate dei Memorabili considera il fondamento della virtù (II, 6, 22-23), non esita a dichiarare: “E come potrebbe non essere naturale che i gentiluomini spartissero tra loro anche le cariche pubbliche, non soltanto senza danni, ma anzi con vantaggi reciproci?” (II, 6, 24). Qui viene enunciata con estrema, brutale chiarezza una radicale alternativa alla democrazia, un progetto politico inequivocabilmente oligarchico, in cui le cariche pubbliche sono appannaggio esclusivo dei kaloi te kagathoi, dei gentiluomini, che quindi finiscono per essere gli unici detentori della cittadinanza. Se la caratteristica della democrazia è la natura inclusiva della cittadinanza, estesa a tutti i maschi liberi, un ordinamento oligarchico si distingue invece per il carattere esclusivo della cittadinanza stessa, limitata a un gruppo ristretto, di solito coincidente con quanti possiedono proprietà fondiarie, e che esclude invece i banausoi, cioè coloro che per vivere sono costretti a praticare lavori manuali, quelli su cui, come si è visto, si appuntano gli strali di Socrate in Mem., III, 7, 5-7. Di questa discriminante i fautori dell’oligarchia erano ben consapevoli, come dimostra anche il fatto che i Trenta, guidati da Crizia, si erano affrettati a limitare la cittadinanza a soli tremila cittadini, come attesta lo stesso Senofonte (Hell., II, 3, 17-20). Non ci deve stupire, quindi, che Senofonte, che quasi certamente aveva militato nella cavalleria dei Trenta, che per tanto tempo aveva guardato con fiduciosa ammirazione al modello, anzi al miraggio di Sparta, continuasse a vagheggiare un regime di tipo oligarchico: quello che invece suscita il nostro interesse è la franchezza, esente da qualsiasi infingimento, da qualsiasi reticenza, con cui viene enunciata questa presa di posizione, una franchezza che non ha un riscontro altrettanto esplicito nel resto della sua produzione: siamo dunque di fronte a un passaggio cruciale, indispensabile per una compiuta comprensione di quella riflessione politica che pervade l’intera opera di Senofonte.
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Di Senofonte, abbiamo detto: ma anche di Socrate? La questione, come è ovvio, appare complessa e difficile non si dice da risolvere, ma anche semplicemente da dipanare nei suoi intricati fili. Un orientamento largamente diffuso tende a disgiungere l’immagine di Socrate quale fu percepita da molti dalla realtà del Socrate storico: ad es., Vlastos sostiene che Socrate fu ritenuto dagli Ateniesi suoi contemporanei e da quelli della generazione successiva (vedi Eschine, Contro Timarco, 173) un cittadino ostile alla democrazia e di malcelate simpatie oligarchiche, ma del tutto a torto29. Questa convinzione, fermamente sostenuta da Vlastos, deriva sia da alcune frequentazioni di Socrate, sia dal fatto che il Socrate platonico, che Vlastos ritiene assai più vicino del Socrate di Senofonte al Socrate storico, mostrerebbe un sincero attaccamento alla democrazia ateniese, soprattutto nell’Apologia e nel Critone. Ora l’argomento delle frequentazioni è senz’altro assai debole, se non irrilevante: è vero che Cherefonte, fedele e devoto discepolo di Socrate quale ci viene dipinto nelle Nuvole, fu un sincero democratico che, in esilio durante il governo dei Trenta, poté tornare ad Atene solo quando fu ripristinata la democrazia (Ap., 20e-21a); è vero che Lisia, che scrisse per Socrate una Apologia, era stato, insieme a suo fratello Polemarco, una vittima dei Trenta: ma in una città come l’Atene del V secolo, paragonabile per numero di cittadini a una piccola città di provincia dei nostri tempi, l’élite culturale e politica era costituita da una ristretta cerchia di poche centinaia di persone, nell’ambito della quale era pressoché inevitabile che tutti conoscessero tutti, che tutti frequentassero tutti. È pertanto rischioso inferire automaticamente dalle frequentazioni o anche dalle amicizie personali una sintonia politica: in altri termini l’amicizia di Cherefonte e di Lisia è di per sé ben poco significativa, tanto quanto lo è, sul versante opposto, la presenza al fianco di Socrate di personaggi come Crizia e Carmide o di discepoli quali Platone e Senofonte. Ma soprattutto siamo così sicuri che il Socrate di Platone sia, per così dire, un sincero democratico, come potrebbe sembrare dalla lettura dell’Apologia e del Critone? Qualche dubbio è lecito. Su questi dubbi mi sono soffermata in modo abbastanza dettagliato nella mia Introduzione ai Memorabili (p. 197-204), perciò mi limiterò a segnalare rapidamente i passaggi che suscitano maggiori perplessità. Innanzi tutto Ap., 31e32a, dove Socrate afferma che non vi è possibilità di salvezza per chiunque tenti di opporsi agli Ateniesi o a qualsiasi altra massa popolare per impedire che si verifichino molte ingiustizie e illegalità e che, pertanto, è necessario che chi intende battersi per la giustizia, se vuole sopravvivere, conduca una vita da privato cittadino e si tenga lontano dalla politica. Qui non vi è semplicemente un’accusa nei confronti degli Ateniesi, ma di qualsiasi altra 29
Socratic Studies, Cambridge 1994, p. 87-88 = Studi socratici, Milano 2003, p.
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massa popolare, di qualsiasi altro plethos, un termine dal significato non univoco, che indica la massa del popolo, ma anche la stessa assemblea popolare: l’accusa, quindi, sembra investire qualsiasi sistema politico fondato sulla sovranità dell’assemblea popolare, cioè qualsiasi ordinamento politico democratico. Inoltre, se è vero che i comportamenti illegali sono da ascriversi agli uomini e non vanno a discredito delle leggi vigenti, il fatto che avvengano molte ingiustizie getta invece una pesante ombra di dubbio sulla bontà di tali leggi, che evidentemente consentono o comunque non riescono a impedire il verificarsi di ingiustizie largamente diffuse. In sostanza una situazione in cui illegalità e ingiustizie esercitano un dominio tanto forte, da mettere addirittura a repentaglio la vita di chiunque cerchi di opporsi e voglia condurre una battaglia in nome della giustizia, chiama palesemente in causa non solo e non tanto gli uomini quanto lo stesso sistema politico. Ma prendiamo il Critone, in cui Socrate, a giudizio di Vlastos e non solo di Vlastos, esprimerebbe in modo inequivocabile una netta preferenza per le leggi di Atene rispetto a quelle di tutte le altre città e, quindi, una preferenza per la democrazia ateniese rispetto a qualsiasi altro tipo di ordinamento politico. Questa interpretazione si fonda su un passo del discorso che le Leggi rivolgono a Socrate (Crit., 52b-53a): innanzi tutto le Leggi gli ricordano che, eccettuate le spedizioni militari, si è allontanato da Atene una sola volta, per andare a vedere i giochi Istmici, e che non ha mai nutrito alcun desiderio di conoscere altre città e altre leggi, dimostrando in tal modo di essere pienamente soddisfatto di Atene e delle sue leggi (52b); quindi affermano che Socrate ha accettato di vivere ad Atene secondo le leggi della città e che ad Atene ha messo al mondo i suoi figli, ulteriore dimostrazione del fatto che la città gli piaceva (52c); infine dichiarano che in ben settant’anni di vita, se le leggi della città non gli fossero piaciute, avrebbe avuto tempo e modo per andarsene: invece si è ben guardato dal trasferirsi a Sparta o a Creta, di cui pure ha sempre elogiato la buona legislazione (52e), o in qualsiasi altra città greca o barbara; anzi si è allontanato da Atene molto meno di quanto facciano storpi, ciechi e altri invalidi, a tal punto, assai più degli altri Ateniesi, apprezzava la città e le sue leggi (53a). A una prima lettura questo passo sembra dimostrare in modo inconfutabile il profondo attaccamento di Socrate ad Atene e alle sue leggi, cioè al suo ordinamento politico, che Socrate ha dimostrato con i fatti, con la fedeltà di una vita, di preferire a qualsiasi altra città e a qualsiasi altro tipo di ordinamento, inclusi quelli di cui pure a parole non perdeva occasione per fare l’elogio, quelli di Sparta e di Creta, due autentiche roccaforti simbolo dell’oligarchia: e si noti l’abilità di Platone nel contrapporre il peso dei fatti alla leggerezza delle parole tante volte ripetute, presentate come una sorta di innocuo vezzo, un’abitudine priva di importanza e del tutto influente rispetto alle scelte concrete, rispetto appunto ai fatti, quei fatti che contano molto di più delle parole, quei fatti che con la 48
loro oggettività possono smentire qualsiasi dichiarazione, qualsiasi affermazione. Ma se passiamo a una lettura più attenta, più scaltrita, meno innocente, non possiamo fare a meno di porci una domanda che mette in crisi le nostre certezze: siamo proprio sicuri che una scelta di di fatto, una preferenza di fatto per Atene con le sue leggi implichi una preferenza politica per la democrazia ateniese? Il dubbio è più che lecito e non solo in linea di principio (come vedremo tra poco): non risulta, infatti, che nessuno degli Ateniesi più critici nei confronti della democrazia si sia mai trasferito a Sparta per tale motivo (lo farà Senofonte, ma a seguito di circostanze particolarissime: essere stato esiliato da Atene e poter vantare notevoli benemerenze verso Sparta, notoriamente tutt’altro che propensa ad accogliere stranieri); anzi l’objettivo che gli oligarchi si proponevano con i due colpi di stato del 411 e del 404 era, se mai, di trasformare Atene sul modello di Sparta, instaurando un governo oligarchico quale fu quello dei Quattrocento e poi quello dei Trenta. Non solo, ma in linea di principio la leale accettazione delle leggi e dell’ordinamento politico di Atene, un’accettazione che Socrate manifestò in tutta la sua vita e a prezzo della sua vita stessa, è cosa ben diversa dalla preferenza politica per quel tipo di ordinamento, cioè per la democrazia. Non dobbiamo mai dimenticare né il forte impegno apologetico che pervade il Critone, né la straordinaria capacità di Platone (senza dubbio superiore a quella, per altro notevole, di Senofonte) di manipolare il lettore: di che cosa poteva mai disporre Platone per mostrare la preferenza politica di Socrate per la democrazia? Non certo delle sue affermazioni, di quello che andava continuamente ripetendo, dato che Socrate, come Platone stesso ricorda, elogiava il buon ordinamento di Sparta e di Creta: e allora quale migliore strategia che contrapporre alle esplicite prese di posizione di Socrate le sue scelte concrete, ribadite per ben settant’anni, per dimostrare una preferenza di fatto per la democrazia? Quello che Platone non dice (mai sarebbe incorso in una simile ingenuità), ma sottilmente, efficacemente insinua nella mente del lettore è che una preferenza di fatto implichi automaticamente una preferenza politica: il che, oltre a non essere vero, viene smentito anche dalle affermazioni stesse attribuite a Socrate, degradate per altro a innocuo chiacchiericcio: ma di questa abilissima mistificazione noi non ci accorgiamo, anche grazie alla straordinaria emozione che suscitano in noi la coinvolgente bellezza del testo, la magia della scrittura di Platone. Questo è solo un esempio di come il Socrate apertamente filoligarchico di Senofonte possa rivelarsi prezioso anche per smascherare il preteso Socrate amante della democrazia che emergerebbe dai dialoghi di Platone e in particolare dall’Apologia e soprattutto dal Critone. Non per questo si vuole sostenere che l’orientamento politico del Socrate storico sia da identificarsi con quello del Socrate dei Memorabili, che certo risente non poco di meccanismi di proiezione da parte di Senofonte (si pensi in particolare al dialogo 49
con Carmide in III, 7 e al progetto politico di II, 6, 24-27), ma si intende soltanto affermare che il Socrate dei Memorabili può e deve metterci in guardia, spingendoci a guardare con maggiore attenzione, con la necessaria freddezza e con l’indispensabile distacco critico a quelli che sono gli orientamenti o addirittura le prese di posizione in campo politico del Socrate dei dialoghi giovanili di Platone: un Socrate che certo non ci apparirà comunque un fautore dei Trenta e dell’oligarchia, ma di cui non potremo sottovalutare le critiche, ferme e severe, alla democrazia ateniese. In conclusione, nell’ambito specificamente politico, i Memorabili offrono un contributo importante e significativo per precisare, articolare e completare il quadro del pensiero politico di Senofonte; inoltre ci forniscono anche spunti e suggerimenti per interrogarci sull’orientamento politico del Socrate storico e per indurci a una lettura meno ingenua dei dialoghi giovanili di Platone. Ma, al di fuori di questo specifico ambito, che cosa fare di Senofonte come Socratico, cioè, in ultima analisi, che cosa fare dei Memorabili? Senza dubbio possiamo considerarli come una fonte preziosa e insostituibile, anzi come l’unica fonte che ci permette di renderci conto della genesi politica, della natura politica, delle implicazioni politiche del processo a Socrate; senza dubbio, come suggerisce Dorion, possiamo impegnarci a confrontare i Memorabili con i dialoghi di Platone, in particolare i dialoghi giovanili, nonché con i testi superstiti degli altri Socratici, in un confronto stimolante e interessante; e se riteniamo la questione socratica un problema mal posto e insolubile, da accantonare una volta per tutte, possiamo fermarci qui. Ma se invece pensiamo che il tentativo di avvicinarci al Socrate storico sia una sfida rischiosa, forse destinata al fallimento, ma da affrontare, e se siamo convinti che, sul piano prettamente filosofico, i Memorabili siano importanti, se non come possibile fonte, almeno come possibile interpretazione del Socrate storico, ecco che i Memorabili acquistano un loro valore aggiunto, quello di una immagine del maestro da confrontare con altre immagini, nella consapevolezza che tutte, benché l’“indice di variazione” sia assai differente, riflettono qualcosa, ci restituiscono qualcosa dell’oggetto riflesso. E se pure riteniamo che l’immagine, l’interpretazione più ricca, più interessante e più filosoficamente pertinente sia quella che emerge dai dialoghi giovanili di Platone, tuttavia il Socrate dei Memorabili rappresenta comunque un termine di confronto utile per mettere in discussione stereotipi interpretativi consolidati e facili semplificazioni, per problematizzare alcune certezze date frettolosamente per acquisite, ovvero per confermare, magari in modo indiretto, quanto emerge dai dialoghi di Platone, dall’uso dell’elenchos a qualche punto di dottrina, come ad es. la teoria della virtù-scienza. Anche soltanto per quest’ultimo aspetto, forse il più importante, vale dunque la pena di prestare la nostra attenzione critica a Senofonte. 50
FILOSOFIA E POLITICA
Davide D’Alessandro, Vita, Potere e Governo (attraverso Foucault e oltre) 1. I sentieri della biopolitica Controllo dei corpi Michel Foucault, per biopolitica, intende «il modo in cui si è cercato, a partire dal XVII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica di governo dai fenomeni propri di un insieme costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, razze…»1. Il filosofo francese riteneva, infatti, che il liberalismo dovesse essere considerato e analizzato quale principio e metodo di razionalizzazione dell’esercizio di governo, una razionalizzazione che obbedisce alla regola dell’economia massimale, ovvero l’objettivo di massimizzare i suoi effetti (di governo) minimizzandone il costo. Tipica del liberalismo, poi, è la critica che il governo fa su se stesso. Tale critica deve essere rivolta all’individuazione dei migliori mezzi utili a raggiungere gli effetti voluti, ma anche alla possibilità e legittimità stesse del progetto di raggiungere degli effetti. La riflessione liberale, per Foucault, non muove dall’esistenza dello Stato, ma dalla società. È quest’ultima, infatti, che giustifica l’esistenza di un governo e che consente di svilupparne una tecnologia specifica. Le opere di Foucault ci consentono di riconoscere un passaggio storico decisivo nelle forme sociali: dalla società disciplinare alla società di controllo. La società disciplinare è quella in cui il controllo sociale viene costruito attraverso una 1
M. Foucault, Biopolitica e territorio, tr. it., Mimesis, Milano 1996, p. 23.
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rete sociale ramificata di dispositivi che producono e controllano costumi, abitudini e pratiche produttive. L’obbedienza al suo potere e ai suoi meccanismi d’integrazione e/ o di esclusione si realizza tramite istituzioni disciplinari – la prigione, la fabbrica, il manicomio, l’ospedale, l’università, la scuola, etc. – che strutturano il terreno sociale e offrono una logica propria alla “ragione” della disciplina. Il potere disciplinare governa strutturando i parametri e i limiti di pensiero e di pratica, sanzionando e/ o prescrivendo i comportamenti devianti e/o normali; Foucault si riferisce abitualmente all’Ancien Regime e al periodo classico della civilizzazione francese per illustrare l’apparizione della disciplinarità, ma potremmo dire, più in generale, che è nella prima fase di accumulazione capitalista che questo modello di potere prende forma in maniera stringente: Nel XVII-XVIII secolo si è prodotto un fenomeno importante: l’apparizione – si dovrebbe dire l’invenzione – di una nuova meccanica di potere che ha delle procedure sue proprie, degli strumenti del tutto nuovi, degli apparati molto diversi; una meccanica di potere che credo sia assolutamente incompatibile con i rapporti di sovranità.2
E che si caratterizza innanzitutto per il controllo dei corpi e di ciò che essi fanno, anziché sull’appropriazione della terra e dei suoi prodotti. Che cos’è la biopolitica? Ipotesi ed enigmi Secondo Laura Bazzicalupo esistono attualmente fenomeni geopolitici, si pensi alla radicalizzazione dei conflitti internazionali, al ricorso alla guerra come soluzione/semplificazione dei problemi, al terrorismo e alle sue vittime umane, alla gestione poliziesca delle popolazioni in stato di eccezione, nel nome della sicurezza e della sopravvivenza, alla assolutizzazione dei caratteri biologici che fa da perno alla deriva identitaria razzista e con cui si fronteggiano i flussi migratori, al ricorso a misure di polizia con cui vengono gestite le vite di questi flussi umani, privi di tutela giuridica, al movimento sentimental-economico degli aiuti umanitari. Esistono, dall’altra parte, fenomeni privati (che subiscono però l’attenzione mediatica), come la scelta alla pratica dell’eutanasia, la scelta sessuale dei singoli, oltre che la medicalizzazione del corpo attraverso le biotecniche, la profilassi, lo screening. Tutti questi fenomeni hanno un aspetto che li lega: sono fenomeni politici nei quali ne va direttamente della vita biologica degli uomini, in quanto esseri viventi. Come se la politica avesse preso in carico la gestione della vita biologica. Biopolitica, termine sempre più in uso, ha ancora un’aurea 2 M. Foucault, Bisogna difendere la società, (c/ di M. Bertani e A. Fontana), Feltrinelli, Milano 1998, p. 38.
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di genericità che rischia di comprometterne il vero significato, ha in sé un’implicazione vitale, il bios, la vita, che a sua volta, però, è un termine altrettanto sfuggente e generico. I discorsi intorno alla biopolitica sono volti alla dimostrazione degli esiti di questa deriva verso la necessità, che chiude gli spiragli della mediazione e a mostrare un radicale cambiamento del potere che fa presa diretta sulla vita modificandola e una trasformazione della vita che solleva pretese sul potere modificandone la logica, i fini, la legittimazione3.
La biopolitica è pensiero/ sguardo che, negli eventi, focalizza l’attuale tonalità e ne segue la trama, mentre l’orientamento dello sguardo costituisce l’oggetto (ivi). Privato e pubblico: la “nuda vita” in Esposito, Agamben e Foucault Oggi assistiamo alla separazione tra privato e pubblico. Le norme giuridiche moderne sono inadeguate a gestire tutto questo. L’analisi biopolitica illumina l’esercizio di potere che troviamo nei dispositivi morali e giuridici, che legittimano e organizzano l’azione normativa sulla vita, discorsi biogiuridici e bioetici rivolti alla natura del vivente per strutturare l’intervento politico su di esso. L’aver preso a oggetto la vita, ha modificato quella che chiamiamo “politica”, cambiandone forma, linguaggio e logica. Si fa appello diretto al consenso popolare, la costituzione materiale diventa più importante di quella giuridica e le sentenze giurisprudenziali si rivolgono al senso comune etico, all’ethos condiviso. Il modello giuridico-repressivo appare sempre più inadeguato ad affrontare la svolta che chiamiamo biopolitica. Stato, legge, cittadinanza, diritti, è un lessico continuamente scavalcato da appelli diretti al popolo, le scelte e le decisioni politiche vengono giustificate attraverso appelli diretti al sentire pubblico4. Giorgio Agamben ci fornisce un quadro piuttosto dettagliato del concetto di biopolitica, a partire dallo studio lessicale del termine. Secondo Agamben, ciò che noi indichiamo comunemente come vita, era per i Greci distinto attraverso due diversi termini: zoe indicava la vita comune di tutti gli esseri viventi; bios era invece la forma o maniera di vivere propria di ciascun singolo, unico e irriducibile individuo. Alcuni fra i più illustri filosofi dell’epoca ellenica, come Platone e Aristotele, nel momento in cui descrivono i vari tipi di vita (contemplativa, di piacere, politica), parlano di un particolare tipo di vita, che è appunto il bios. Intendiamoci: Agamben ci
3 L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 4. 4 L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010, p. 22-23.
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ricorda che la zoe, la semplice vita naturale, può in ogni caso essere considerata un bene per la civiltà greca, ma non è una vita pubblica, rimanendo confinata nell’oikos5. Il passaggio successivo, vale a dire l’inclusione della “nuda vita” all’interno dei meccanismi del potere statuale è stato felicemente analizzato da Foucault. Questi, ne La volontà di sapere, introduce per la prima volta il termine biopolitica. Scrive Foucault: Per millenni, l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele, un animale vivente e, inoltre, capace di esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente.6
C’è una soglia, pertanto, coincidente grosso modo con l’inizio dell’età moderna, in cui l’individuo, in quanto semplice corpo vivente, diventa oggetto di attenzione da parte delle strategie politiche. Foucault definisce tale soglia la “modernità biologica”, segnante il passaggio dallo “stato territoriale” allo “stato di popolazione” (ivi, 719). Nella nuova forma di stato, tecniche politiche sempre più sofisticate mettono in moto il processo di “animalizzazione” dell’uomo. Di più: Foucault giunge ad affermare che il biopotere a partire da quel momento si insedia nel mondo occidentale e diventerà l’elemento determinante per la futura nascita del capitalismo. Il potere, per il filosofo francese, è basato sui modelli giuridico-istituzionali, penetra nel corpo stesso dei soggetti e nelle loro forme di vita. Il potere ha cambiato la sua forma: se un tempo lo Stato aveva il diritto di far morire e di lasciar vivere (caratterizzandosi per una tensione verso la morte), ora lo stesso potere si trasforma in potere di far vivere e di lasciar morire. Così, «un potere che abbia come fine quello di potenziare la vita, potrà esigere la morte – potrà convincere i cittadini a morire e a uccidere – solo frammentando e spezzando il ‘continuum biologico’»7. L’eliminazione del pericolo, allora, non sarà più avvertita come un’offesa alla vita, quanto come un rafforzamento dei suoi significati. Lo stato occidentale moderno, in particolare, ha «integrato in una misura senza precedenti tecniche di individualizzazione soggettive e procedure di totalizzazione oggettive», al fine di creare «un doppio legame politico, costituito dalla individuazione e dalla simultanea totalizzazione delle strutture del potere moderno». Il rapporto tra vita, storia e politica è pensato quindi da Foucault nella spaziatura dispiegata da questa distinzione tra zoé e bios. Egli rivendica la storicità della nozione di vita: essa è «un indicatore epistemologico» caratterizzante l’epoca moderna nella 5
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 4. M. Foucault, Storia della sessualità. Volume I, La volontà di sapere, tr. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 2001, p. 127. 7 R. Escobar, Il campanile di Marcellinara. Ipotesi sull’obbedienza, in D. Corradini Broussard (a cura di), Miti e archetipi. Linguaggi e simboli della storia e della politica, ETS, Pisa 1992, p. 468. 6
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quale solo la vita della specie umana ha fatto il suo ingresso nella storia, del sapere e del potere; occorre risituare quelle che sono considerate le regolarità che definiscono la natura umana, «all’interno delle altre pratiche umane, economiche, tecniche, politiche, sociologiche che servono loro da condizione di formazione, comparsa e da modello»8. Sulla stessa falsariga, Hannah Arendt descrive il processo che porta l’homo laborans e la vita biologica che ne consegue a insediarsi al centro della scena politica. Foucault e Arendt sono dunque i precursori della biopolitica. Spiega meglio Antonio Tursi: La biopolitica è parte del biopotere che, legato a doppio filo al capitalismo e al suo pensiero, si articola appunto in bio-politica e anatomo-politica. Nel primo caso, si presenta come dispiegamento di pratiche governamentali, di controlli regolatori sulla popolazione, sul corpo-specie: lo Stato di ‘polizia’, nell’accezione che ne diede Johann H.G. von Justi, si occupa della nascita e della morte, del sesso, della salute e della malattia, dell’alimentazione e delle condizioni igieniche della ‘popolazione’ – problema economico e politico, questo, apparso nel XVIII secolo, e non prima. Nel secondo caso, si disciplinano i corpi-macchina dei singoli, le loro attitudini, le loro forze, producendo effetti individualizzati attraverso istituzioni quali le prigioni, le scuole, i collegi, le caserme. 9
Nel recente Lessico di biopolitica (ivi), viene descritta la prassi viva del nostro mondo e il modo in cui essa mostra come la vita diventi posta in gioco delle dinamiche di potere. Se partiamo dal presupposto che la vita sia sempre stata questione di potere, argomenta Tursi, è nel corso degli ultimi decenni che gli esempi di un diretto, irriducibile gioco della vita e sulla vita si sono moltiplicati. E continua: Abbiamo assistito al riemergere di un elemento vitale, il sangue, quale movente di guerre (etniche); alle migrazioni di corpi nudi e perciò indifesi e perciò vittime; ad una febbre dei media per la nostra salute alimentare, la salute dei nostri corpi minacciati da corpi estranei; all’apertura di orizzonti post-umani legati allo sviluppo delle biotecnologie; a guerre cosiddette umanitarie e a paure securitarie connesse alle bombe umane del terrorismo fondamentalista. In qualsiasi punto volgiamo lo sguardo, sia esso sito nel nostro più immediato quotidiano, sia esso dislocato in regioni estreme del mondo non occidentale, vediamo emergere prepotentemente vite che ci paiono nude, che subiscono le prepotenze dei poteri e che cercano di resistervi. 10
8 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, tr. it. di I. Bussoni e M. Mazzeo, DeriveApprodi, Roma 2005, p. 37. 9 A. Tursi, Filosofia politica, in AA.VV., Lessico di biopolitica, Manifestolibri, Roma 2006, p. 382 s. 10 Id, in Re.F, Recensioni filosofiche, n. 18, maggio 2007.
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Se Foucault, per sopravvenuta morte, non è riuscito ad approfondire il concetto di biopolitico nell’ambito dei più inquietanti “enigmi” della ragione storica che il Novecento ha posto in essere e che continuano ad essere attuali – scrive Agamben – è comunque proprio all’interno del termine che si potrà decidere se le categorie, sulla cui opposizione si è fondata la politica moderna (destra/ sinistra; privato/ pubblico; assolutismo/ democrazia), potranno essere abbandonate o potranno invece ritrovare l’originario senso smarrito. Agamben va oltre, avanzando l’ipotesi che l’implicazione della nuda vita costituisca il nucleo originario del potere sovrano: Si può dire, anzi, che la produzione di un corpo biopolitico sia la prestazione originale del potere sovrano. Mettendo la vita biologica al centro dei suoi calcoli, lo Stato moderno non fa altro che riportare alla luce il vincolo segreto che unisce il potere alla nuda vita, riannodando così col più immemoriale degli arcana imperii.11
L’originalità di Homo sacer consiste nell’affermazione della sua tesi di fondo: oggi la politica è diventata biopolitica. La nuda vita di cui parla Agamben è la vita uccidibile e insacrificabile dell’homo sacer, sulla cui immagine si discuterà a breve. Ampliando l’analisi di Foucault, Agamben afferma che la zoe non è stata inclusa nel concetto di polis nell’epoca moderna, ma la vita come tale è un oggetto eminente dei calcoli e delle previsioni del potere statale: Decisivo è il fatto che, di pari passo al processo per cui l’eccezione diventa ovunque la regola, lo spazio della nuda vita, situato in origine al margine dell’ordinamento, viene progressivamente a coincidere con lo spazio politico, e esclusione e inclusione, esterno e interno, bios e zoe, diritto e fatto entrano in una zona di irriducibile indistinzione (ivi, 12).
Agamben, peraltro, modifica completamente il concetto di potere secondo Foucault. Per il filosofo italiano, infatti, il biopotere ricalca l’unicità monologica della sovranità: nei soggetti dominati non c’è più nessun potere, il quale si definisce in una linearità unidirezionale (perdendo la complessità relazionale e generativa che era implicita nella sua produttività)12. Per Agamben, la biopolitica svela il segreto di ogni potere: la indistinzione fra vita e politica. La riflessione compiuta da Roberto Esposito in Bíos non è meno incisiva. Nella contemporaneità, numerosi episodi di cronaca portano alla ribalta il
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G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 9. L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit., p. 89.
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concetto di biopolitica. Foucault è stato uno dei primi autori ad avere affrontato l’argomento, ma non è riuscito a spiegare l’enigma per cui, una politica della vita (come fu a esempio quella perpetrata dal nazismo) sfocia sempre in un’opera di morte. Esposito cerca di risolvere l’enigma facendo afferire la biopolitica nel più ampio concetto di immunizzazione, il nesso che lega la biopolitica alla modernità. La riflessione di Esposito è vasta ed esauriente e si conclude con un’ipotesi, quella di ribaltare l’asse della questione, ossia non pensare più la vita in funzione della politica, ma la politica nella forma stessa della vita. Da Foucault in avanti, è scemato l’interesse per i concetti classici della politica, come quelli di diritto e sovranità, e si è affermato invece un interesse del tutto nuovo nei confronti della biopolitica. Il concetto di biopolitico è percorso da una tensione estenuante, a partire dalla sua stessa definizione. La biopolitica, più che al bios (vita qualificata) si richiama, infatti, alla zoe (vita semplicemente organica, ossia naturale, spogliata di ogni suo contenuto formale). Caduti col tempo tutti i grandi universali, al centro di ogni procedura politica vi è semplicemente la vita. Ma cos’è esattamente la biopolitica? Politica della vita o sulla vita? La risposta è complessa. Nella sua trattazione della biopolitica, Foucault si è implicitamente rifatto ad altri autori che hanno ragionato attraverso un approccio rispettivamente organicistico, antropologico e naturalistico. Rientrano nel primo filone gli studi di Rudolph Kjellen, Jacob von Uexküll e Morley Roberts. Secondo lo svedese Kjellen lo stato stesso è una forma di vita che prescinde da ogni teoria costituzionale o contrattualistica, trattandosi di un principio sostanziale, che sfugge a qualsiasi carattere istituzionale. Uexküll, invece, paragona lo stato (nella fattispecie quello tedesco) a un corpo sano, minacciato però da una serie di agenti patogeni che possono indebolirlo, contro i quali occorre formare un ceto di medici di stato che si avoca il diritto di ripristinare lo stato di salute espellendo i germi portatori di malattia. Parimenti Roberts, sulla falsariga di Uexküll, ritiene l’organismo statale come un corpo che deve essere salvaguardato da malattie attuali o potenziali. In tal senso, la biopolitica ha il compito di riconoscere i rischi organici che insidiano il corpo politico, individuandone i meccanismi di difesa. Con Roberts si fa strada quindi il concetto di immunità. Scrive Esposito: Il modo più semplice di considerare l’immunità è guardare al corpo umano come a un complesso organismo sociale e all’organismo nazionale come a un individuo funzionale più semplice, o come a una ‘persona’, entrambi esposti a rischi di diversa specie nei confronti dei quali è necessario intervenire. Tale intervento è l’immunità in azione.13
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R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, p. 9.
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Si fonda così un parallelo tra stato e corpo umano, la cui intossicazione è salvaguardata da meccanismi di espulsione immunitaria di tipo razziale. Il secondo filone è invece caratterizzato dal pensiero di Jean Starobinski e Edgar Morin. Il primo sostiene la possibilità che la politica incorpori elementi spirituali capaci di governarla in funzione di valori metapolitici. Il secondo, descrivendo una vita ‘multidimensionale’ dell’uomo, fa esplicito riferimento alla biopolitica quale scienza delle condotte degli stati e delle comunità umane, senza però approfondirne i dettagli. Il terzo filone, più recente, fa riferimento invece alla natura come parametro privilegiato e di determinazione politica. Sicché, mentre la filosofa moderna aveva considerato la natura come un problema da risolvere con la costituzione dell’ordine politico, la biopolitica attuale (postmoderna), rifacendosi sia all’evoluzionismo darwiniano, sia alla ricerca etologica, vede in essa la sua medesima condizione di esistenza. La politica è così ricondotta al suo ambito naturale, cioè «il terreno vitale da cui essa di volta in volta emerge e a cui inevitabilmente ritorna» (ivi, 14). La biopolitica, allora, alla luce di tale considerazione, viene a configurarsi come «il termine comunemente usato per descrivere l’approccio di quegli scienziati politici che usano i concetti biologici e le tecniche di ricerca biologica per studiare, spiegare, predire e talvolta anche prescrivere il comportamento politico» (ivi, 15). Esaminiano la prospettiva di Foucault. Egli, nel percorso di ricostruzione del termine biopolitica, segna un punto di svolta, poiché individua una modalità di relazione di potere, nella quale l’oggetto ‘vita’, condiziona ed è condizionato dal sapere finalizzato a governarla. La vita stessa diventa criterio e fine in base ai quali si esercita il potere; ciò comporta che la vita sia al centro di un giudizio politico di valore volto a selezionarla e a migliorarla. Foucault offre così uno strumento concettuale al fine di interpretare le nuove forme di vita e di potere. Durante i due corsi presso il Collège de France del 1977-78 e 1978-79 (entrambi dedicati alla biopolitica), esprime l’essenza del suo discorso sulla biopolitica: il modus della governamentalità, la forma economica e strategica di gestione del vivente14. Il metodo adottato nelle categorie foucaultiane è la genealogia: le verità sono indagate nella persistenza e discontinuità delle pratiche storiche e nei loro effetti. Foucault individua l’asse storico e contingente nel quale un discorso evidenzia saperi e pratiche che hanno pretesa di verità ed effetti di potere. Il discorso possiede quindi materialità e positività e possiamo fare un’analisi concreta delle formazioni discorsivo-pratiche, all’interno delle quali ci sono sistemi di verità in competizione o collusione. Nei sistemi di collusione, il potere regola, normalizza, sorveglia e opera differenziazione e resistenza. Il discorso si articola in dispositivi, 14
L Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit., p. 34.
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un insieme irriducibilmente eterogeneo che comporta dei discorsi, delle istituzioni, delle strutture architettoniche, delle decisioni regolamentari, delle leggi, delle misure amministrative, degli enunciati scientifici, delle proposizioni filosofiche, in breve del dicibile e del non dicibile.15
L’analisi di Foucault si unisce all’attenzione estrema ad alcuni dettagli, la genealogia su dettagli di superficie, il cui accumularsi e presentare discrasie, differenze, evidenzia la relazione significativa. Le formule generali (come: nella modernità il potere si fa biopolitica), sono vuote, mentre la pervasività, la disseminazione, la complessità, la contingenza, le dinamiche di inversione delle dinamiche sociali sono concrete. Il déchiffrement, di cui Foucault parla, significa che le pratiche sociali si possono interpretare diversamente rispetto a come sono interpretate dagli attori stessi16. Il discorso, in particolare quello veridico, ha un potere generativo, agisce affermando, producendo, costituendo dei campi di oggetti sui quali si dispongono affermazioni vere o false; «costituisce universi morali e veritativi che danno forma alle soggettivazioni, a come i soggetti si vedono, si valutano e desiderano diventare» (ivi). A quella che è la tradizionale e moderna antitesi tra verità (critica) e potere, Foucault contrappone il reciproco coinvolgimento della verità e del potere. La verità con effetti di potere è affermativa, positiva, produttiva: la genealogia è la pratica di indagine che aspira a decifrare il modo con cui verità-oggettività scientifica e soggettività si coimplicano nello spazio sociale. Questo mutamento di prospettiva ha come effetto la caduta dell’illusoria indipendenza del sapere dal potere17. Il ripensamento del concetto di potere mira a cogliere un’intrinseca produttività di ‘vita’: la capacità dei discorsi di verità di produrre vite concrete, soggettivazioni. Foucault è interessato al potere come dynamis, alle potenze dinamiche che si esercitano nel momento in cui contrastano o si intrecciano, collaborano e divergono da altri poteri o forze che li investono. Dobbiamo guardare la fitta trama di poteri che si piegano, si convertono, si alleano o si isolano: è una dinamica vivente, la cui logica è immanente (viva), e in cui le periferie non contano meno del centro. È questo il tratto generativo del potere: potere di vita sulla vita18.
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M. Foucault, Il giuoco, in Millepiani, 2, Mimesis, Milano 1994, p. 25-51. L Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit. p. 35. 17 M. Foucault, Sorvegliare e punire, tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 31. 18 L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit., p. 37-38. 16
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2. Biopolitica e politicizzazione della vita Biopotere e biopotenza Nietzsche, per Esposito, è l’autore che, al crepuscolo della modernità, denuncia la crisi delle teorie politiche e schiude un nuovo orizzonte di senso. Egli porta il lessico immunitario verso la sua piena maturazione, evidenziandone altresì il potere negativo. È possibile interpretare il pensiero di Nietzsche nell’ottica biopolitica soprattutto perché, come afferma Karl Löwith, la prospettiva politica si pone al centro della sua riflessione. Denunciando la normatività razionale insita nel moderno, Nietzsche di fatto contesta il concetto di libertà, destituendola dell’originaria assolutezza e riconducendola all’aporia costituiva che la rovescia nel suo contrario. La forma del potere politico non è, per Nietzsche, il risultato della volontà combinata dei singoli soggetti, che si esercita nel momento del contratto. Lo stato, vale a dire il più elaborato costrutto giuridico e politico dell’epoca moderna, è agli occhi di Nietzsche una sorta di belva che pianta gli artigli su una popolazione informe ed errabonda, ossia tutto ciò che c’è di più lontano dall’originaria ipotesi del patto fondante. Parlare di pace, in una società politica in cui le leggi servono esclusivamente a legittimare il dominio dei pochi sui molti, suona a Nietzsche falso e inefficace. L’elemento vitale è il riferimento primario della sua filosofia, ossia la vita come l’unica rappresentazione possibile dell’essere. Il carattere costitutivo della vita è la politica, se per politica si intende la modalità originaria in cui l’essere vive (e non una mediazione neutralizzante di carattere immunitario, come la intende la modernità). La dimensione politica del bios è dunque, per Nietzsche, la potenza che, fin dall’inizio, informa la vita in tutta la sua intensità, dal momento che la vita non consoce altra diversità che il suo infinito potenziamento. La vita è un immediato che si impone, a cui le istituzioni moderne (partiti, parlamenti, stati) non riescono a rapportarsi. La grande politica, allora, è quella che afferma la fisiologia sopra tutti gli altri problemi e vuole allevare l’umanità come un tutto, misurando il rango delle razze, dei popoli, degli individui secondo la garanzia di vita che porta in sé. Essa mette fine inesorabilmente a tutto quanto è degenerato e parassitario.19
Parlando di “degenerazione”, Nietzsche si inserisce all’interno di un discorso naturalistico, iniziato da Charles Darwin, che presuppone la specie umana non come una cosa data per sempre, ma come il risultato di una serie
19 F. Nietzsche, Frammenti postum 1887-1888, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII, t. III, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1971, p. 408.
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di forze, frutto di un processo di selezione, che la plasma e rimodella continuamente. Di qui l’interesse che Nietzsche attribuisce al corpo, non più il semplice ricettacolo della ragione, ma l’unica espressione importante dell’individuo. La relazione tra stato e corpo, che la tradizione accostava solo in modo analogico, diventa in Nietzsche una realtà effettuale. C’è stato finora – è sempre Nietzsche che parla – un colossale processo di fraintendimento del corpo, essendo lo stesso il risultato, sempre provvisorio, del conflitto elle forze di cui è costituito. Nietzsche è quindi il filosofo che anticipa ciò che successivamente metterà al centro Foucault: il corpo è l’elemento cruciale, è la genesi terminale delle dinamiche sociopolitiche, è il ruolo fondativo della lotta e la resistenza come contrappunto necessario al dispiegamento del potere. Le forze che attanagliano la realtà scatenano un conflitto che non raggiunge mai il suo esito definitivo, perché, da soccombenti, conservano pur sempre un potenziale energetico in grado di rovesciare quelle dominanti. Lo scontro tra queste due forze contrapposte determina lo stato di “salute” del corpo, che è tanto più in equilibrio quanto più si protegge da quelle forze potenzialmente distruttive. L’immunizzazione assume così un ruolo salvifico, preservando la vita da ogni ingerenza parassitaria e distruttiva. Ma la vita non è solo vigilanza dall’azione patogena di elementi destabilizzanti, bensì volontà di espressione, potenza. Ciò che vive vuole continuamente sfogare la propria forza. L’istinto basilare della vita è dunque l’espansione di potenza. La vita è questa tendenza al superamento per essere sempre pienamente se stessa: «Io sono il continuo, necessario superamento di me stesso», così si esprime Zarathustra20. Ma se la vita consiste in questo continuo spingersi fuori di sé, vuol dire che deve alterarsi per realizzarsi, esteriorizzarsi, contrassegnarsi per il suo “non”. E, si badi, tutto ciò non la preserva dal suo rischio di cadere nell’abisso. Il processo di immunizzazione, che dovrebbe impedire tale caduta, interessa tutta la civiltà occidentale. Rispetto ad altri autori, Nietzsche è quello che più chiaramente riconduce il paradigma immunitario alla sua originaria matrice biologica. Il sapere, così come il potere, si presenta in tal modo in un ruolo anestetico, profilattico. L’uomo, grazie al sapere, ha saputo nel corso dei secoli costruire grandi involucri immunitari destinati a proteggere la specie umana dal potenziale implosivo implicito nel suo istinto di affermazione incondizionata. Lo stesso stato è uno di questi involucri. Il problema è che esso, come ogni sistema di verità, se è necessario a proteggere gli individui dall’assalto di tutto ciò che è nocività e menzogna, è pur sempre un apparato coercitivo, in quanto crea nuovi e più opprimenti blocchi semantici destinati a ostruite il flusso energetico dell’esistenza. I processi
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F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Opere, cit., vol. VI, t. I, p. 139.
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immunitari, allora, garantiscono stabilità e durata all’organismo, ma ne inibiscono lo sviluppo innovativo. Insomma, dice Nietzsche, per evitare un male potenziale, l’immunizzazione ne produce uno attuale, imbrigliando la vita che reagisce con un naturale “risentimento”, ove con questo termine dobbiamo intendere «tutte le forme di resistenza, o vendetta, contrapposte alle forze originariamente affermative della vita»21. Scrive Esposito, commentando il pensiero del filosofo tedesco: Come ogni procedura di immunizzazione medica, essa [la forza del processo di civilizzazione] immette nel corpo sociale un nucleo antigenico destinato ad attivare gli anticorpi protettivi ma, così facendo, infetta preventivamente l’organismo indebolendo le sue forze primigenie» (ivi).
Forze e debolezze si avviluppano così a vicenda, tanto che uno stesso elemento può essere considerato forza per qualcuno e debolezza per qualcun altro. Nietzsche cita a tal proposito il cristianesimo, l’arte, la musica, tutti elementi che possono essere all’un tempo sia “estetici” che “anestetici”. Stesso discorso vale per tutte le organizzazioni giuridico-politiche, a partire dallo stato. Tutto il processo di civilizzazione è caratterizzato da insormontabili aporie, per cui ogni fenomeno può essere analizzato in modo ambivalente. La vita, limitandosi a sopravvivere, si indebolisce, degenera. I deboli, pertanto, tendono a ripararsi dalle insidie, vittime della paura, adottando un atteggiamento passivo nei confronti dell’esistenza, mentre i forti mettono la propria vita continuamente in gioco, come nel caso della guerra. La volontà di potenza si sostituisce così alla lotta per la sopravvivenza, quale nuovo orizzonte di riferimento ontogenetico e filogenetico. I puri, tuttavia, possono essere sempre contagiati dagli impuri. Quando ciò accade, la civiltà marcia compatta verso la decadenza (degenerazione). La decadenza non si può combattere: «Essa è assolutamente necessaria e propria di ogni tempo e di ogni popolo, ma ciò che con tutte le forze si deve combattere è il contagio delle parti sane dell’organismo» (ivi, 100). Un eccesso di protezione allontana il contagio. Per far ciò, scrive Nietzsche, la separazione tra le parti sane e quelle malate deve essere definita. L’immunizzazione celebra così il suo trionfo. E poco male se ciò richiede il sacrificio di esseri umani (né più e né meno che meri esseri parassitari). Quest’aspetto della filosofia nicciana è strettamente biopolitico: per poter essere elevata nella sua sostanza biologica, la vita deve discriminare se stessa, nel senso che la vita degli uni si può affermare solo a scapito di quella degli altri. Se, quindi, da una parte Nietzsche sembra radicare l’anima (un costrutto metafisico) alle sue radici biologiche, dall’altra cerca di risolvere
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R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 95.
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il processo di degenerazione del corpo attraverso una rigenerazione artificiale che lo riporti alla sua essenza originaria, facendosi in tal modo artefice del discorso immunitario. Il rischio biologico dell’infezione diventa un rischio politico, che esige una risposta biopolitica. Nietzsche non ha dubbi al riguardo quando afferma che «il malato è un parassita della società» e che il medico deve assumersi la responsabilità di sopprimere senza riguardi una vita in degenerazione. Che cosa si deve fare, allora, di fronte al processo di decadenza biologica? Come si è detto, alla degenerazione non ci si può opporre. Di più: Nietzsche afferma che solo accelerando ciò che deve avvenire, si potrà lasciar spazio a nuove potenze affermative. A partire da questo momento, contraddicendo in parte ciò che aveva affermato fino a quel momento, il filosofo tedesco decostruisce la macchina immunitaria che aveva edificato, facendo sì che la degenerazione arrivi al culmine, perché solo in questo modo sarà possibile affermare l’arrivo dell’oltreuomo, quell’Űbermensch caratterizzato da un’inesauribile potenza di trasformazione: la nobilitazione avviene attraverso la degenerazione. La tanatopolitica, altra faccia della biopolitica Il nazismo ha portato alle estreme conseguenze la teoria biopolitica, nella convinzione che la vita si difende e si sviluppa solo allargando progressivamente il cerchio della morte. Nel nazismo, a differenza di quel che si può riscontrare nella filosofia politica moderna, non è solo il capo che detiene il potere di uccidere, distribuito in parti uguali all’interno del corpo sociale. Rispetto al paradigma biopolitico della prima modernità, il nazismo rappresenta certo una deriva, ma non un fatto inconciliabile con tale tradizione. Questo perché in ogni politica della/sulla vita è insita l’ombra di una minaccia: quella del suo capovolgimento in tanatopolitica. L’imperativo della sicurezza può infatti arrivare a giustificare di tutto, anche l’uccisione, in nome della protezione della vita. E appunto, l’apice di questa aporia è stato raggiunto dal nazismo. Per Foucault, il nazismo è l’ideologia che porta al parossismo il diritto sovrano di uccidere e i meccanismi del biopotere, condividendo quindi con gli altri regimi moderni la medesima opzione biopolitica. Esposito, tuttavia, ravvisa una differenza tra il nazismo e gli altri regimi totalitari, come, ad esempio, il comunismo. La biopolitica nazista, infatti, acquista un carattere specifico poiché non nasce dall’estremizzazione, ma dalla decomposizione della modernità. Il nazismo è già una biologia realizzata perché, a differenza di qualsiasi altra filosofia politica, è in accordo con la storia naturale e la biologia dell’uomo. Nel nazismo, politica e biologia formano un tutt’uno. La politica si fa biocrazia, dal momento che la ricerca
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biomedica si identifica direttamente con essa. È noto, del resto, il ruolo apportato dai medici nazisti nello sterminio. È vero che simili procedure di tanatopolitica furono riscontrate anche altrove, ma in Germania il controllo medico di ogni passaggio della produzione di morte assunse un aspetto capillare. Lo slogan “pulizia e salute”, scritto all’ingresso del lager di Mathausen, costituisce testimonianza probante di quanto affermato. I medici avevano un potere molto esteso di vita e di morte nei confronti delle vittime. Essi erano depositari di una “missione divina”, che il Reich seppe ben ricompensare. Sbaglia chi, superficialmente, ritiene che i medici nazisti siano stati semplicemente dei “macellai in camice bianco” In realtà, all’epoca, essi si adoperarono per una campagna salutista senza precedenti a vantaggio della comunità, solo che – paradossalmente – tale missione terapeutica poteva essere eseguita solo con l’eliminazione di tutti coloro che erano considerati nocivi nei confronti della salute pubblica. Da quanto detto, il genocidio ci appare il risultato della presenza di una forte etica medica. Gli elementi nocivi, i parassiti, erano considerati nemici della Vita. Il malato era il popolo tedesco nel suo complesso, che per esser ricondotto in stato di salute doveva espellere dal suo interno tutti gli elementi patogeni. A ragione, pertanto, si può affermare che il trascendentale del nazismo non sia stata la morte, ma la vita. La categoria dell’immunizzazione, anche in questo caso, ci spiega per quale motivo il nazismo ha finito per salvaguardare la vita incrementando la morte. La lotta a morte contro gli ebrei era propagandata come quella che opponeva il corpo e il sangue originariamente sani della nazione tedesca ai germi invasori penetrati al suo interno. Gli ebrei furono considerati parassiti nel senso letterale del termine. Hitler, fin dal suo periodo viennese, li considerava una moltitudine degradata e babelica, infida e velenosa, rappresentante il virus, lo sporco, l’impuro. Come l’ubriaco di cui riferisce Elias Canetti, ovunque Hitler vedeva mortifere masse di insetti fetidi, che dobbiamo necessariamente schiacciare, annientare uno a uno, senza peraltro sentirci in colpa, proprio perché colpiamo insetti, non persone. Schiacciando l’insetto o qualcuno come un insetto, ci si distanzia da lui, ci si distingue e ci si differenzia dalla sua morte che ha lo stesso non-senso della sua vita: giudei o zingari o negri o extracomunitari o islamici che li si chiami di volta in volta. Noi che lo uccidiamo con disprezzo non possiamo essere uguali a lui, non possiamo aver qualcosa in comune con lui. Noi non siamo lui, che peraltro non-è, come la sua stessa morte negata ci conferma a prima vista. Dunque, noi siamo.22
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R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, il Mulino, Bologna 2001, p. 46.
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Tutta la sfida naturale contro gli ebrei passa dunque attraverso la caratterizzazione biologico – immunitaria: perfino il gas passava attraverso le docce destinate alla disinfestazione. Nel parossismo autoimmunitario della concezione nazista, l’omicidio generalizzato è inteso come strumento di rigenerazione del popolo tedesco. La Germania si avoca così il diritto di salvare l’Occidente dalla “malattia mortale” della degenerazione. Il degenerato, nell’ottica nazista, è colui che si trova a una certa distanza dalla norma. Citando Edwin R. Lankester, autore di un libro interamente dedicato alla degenerazione, Esposito scrive che «la degenerazione può essere definita come un graduale mutamento della struttura in cui l’organismo riesce ad adattarsi a meno variate e meno complesse condizioni di vita»23. Il degenerato (alcolizzati, prostitute, omosessuali, obesi ecc.) assume quindi una condizione di esistenza né animale, né umana. Non stupisce che nella Germania nazista fioccavano provvedimenti tesi a tutelare la salute degli animali, che sanzionavano i loro maltrattamenti. La degenerazione è pericolosa perché, secondo il principio dell’ereditarietà, può riversarsi sull’intera specie. L’ereditarietà, per il nazismo, è un fatto: il processo degenerativo si diffonde attraverso la trasmissione dei caratteri ereditari. Propagandosi da un corpo all’altro, la degenerazione si diffonde per contagio, ecco perché si rendeva necessario un dispositivo immunitario atto a bloccarne la diffusione. Quest’idea, peraltro non completamente nuova (si pensi a quanto affermato da Lombroso ne L’uomo delinquente), non porta all’automatica conclusione che il processo di degenerazione sia totalmente negativo. Si fece strada l’idea che i processi degenerativi contenessero elementi evolutivi. Come già fu per Nietzsche, agli inizi del XX secolo alcune teorie (Esposito riporta quella di Gina Lombroso) postulavano una valorizzazione del differente, del difforme e dell’anormale in quanto “potenze innovative e trasformative della realtà”. Nonostante ciò, e in barba al valore narrativo di tre testi (Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hide, Il ritratto di Dorian Gray e Dracula, tutti e tre richiamanti lo stato di degenerazione che attanaglia la società) l’idea di degenerazione si chiuse intorno al proprio oggetto vittimario, rigidamente separato dall’elemento “sano”. A prevalere finì così l’eugenetica, che intendeva salvare i popoli civilizzati dal loro destino di progressiva degenerazione. L’eugenetica, attraverso un processo di selezione artificiale, si incarica di ricomporre la selezione naturale indebolita. Come sia possibile riportare in essere qualcosa di naturale attraverso un procedimento artificiale? Fedele al proposito secondo cui la salute dello stato è direttamente collegata alla salute biologica dei suoi membri, l’eugenetica si propone di favorire
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R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 126.
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l’incremento dei più forti e prevenire quello dei più deboli, agendo direttamente sulla nascita. Si tratta del primo esempio su vasta scala del fenomeno noto come “igiene razziale”. Attraverso l’eugenetica, la politica ricava il massimo di produttività dalla vita umana, riducendone al minimo i costi; essendo possibile quantificare il capitale biologico della nazione sulla qualità vitale dei suoi membri, ne deriverà la loro suddivisione in comparti di differente valore. Si passa quindi alla classificazione dei viventi in superuomo (l’ariano); antiuomo (l’ebreo); uomo medio (il mediterraneo); subuomo (lo slavo). Gli esseri inferiori, a loro volta, appaiono anche nel catalogo botanico e zoologico, come a dire che essi non sono propriamente umani, ma umani e animali allo stesso tempo. L’eugenetica, in ogni caso, non nacque in Germania. Agli inizi del XX secolo fu praticata per la prima volta negli Stati Uniti, ricorrendo alla sterilizzazione (la modalità più radicale di immunizzazione) nei confronti di soggetti ‘diversi’ (i criminali, i deboli di mente, i portatori di handicap ecc.) al fine di impedire loro di ‘contagiare’ la comunità. Se la sterilizzazione è la prima procedura immunitaria, l’eutanasia è quella culminante. Quando si cominciò a trattare il tema dell’eutanasia, si sostenne il diritto, da parte dello stato, di interrompere la vita in caso di malattia incurabile. Secondo Karl Binding e Alfred Hoche, i primi teorici del concetto in questione, l’eutanasia si poteva applicare a individui che erano già morti, ancorché esistenti. La semplice esistenza, di per sé, non è più indice della vita, che è tale, per i due autori, solo se coincidente con lo stato di coscienza. Nel 1939, in Germania, si cominciò ad applicare l’eutanasia nei confronti di bambini di età inferiore ai tre anni, sospettati di gravi malattie ereditarie. Nacquero centri appositamente specializzati nell’uccisione di bambini con iniezioni di veronal o dosi mortali di morfina. Qual è il momento preciso in cui la crisi sprofonda nel massacro? È difficile definire, persino tra i responsabili, il momento decisivo del passaggio all’atto. Anche l’analisi dei discorsi pubblici non si fa rivelatrice: per quanto importanti e inequivocabilmente chiari, questi discorsi non sono indicatori del fatto che la decisione sia stata presa. Potremmo dire che sono “intenzioni” formulate pubblicamente, che però ancora non si traducono in fatti. Ci troviamo di fronte all’enigma fondamentale, che pone la strage di massa, ossia quello della sua concreta realizzazione. Ricorrere agli archivi non ci aiuta granché, dal momento che i documenti scritti in merito a precisi ordini di procedere al massacro sono molto rari, se non addirittura inesistenti. Di più: compiute le stragi, gli autori hanno cercato di occultarne tutte le prove. Continuiamo allora a non conoscere il momento preciso in cui si decise di dare il via alla “soluzione finale”. Avvenne forse alla fine del 1942? Fu decisa perché si era sicuri della vittoria e dunque niente poteva più contrastare l’egemonia tedesca, come sostengono
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alcuni, oppure nell’imminenza della sconfitta, nella prospettiva di una possibile disfatta, come pensano invece altri? Gli storici Christoper Browing e Pierre Burrin affermano che la sorte degli ebrei sovietici sia stata decisa nel 1941, ma in quale momento è stata presa l’altra decisione, quella di uccidere tutti gli ebrei d’Europa? L’analisi in merito all’istante preciso in cui sarebbe stata presa la decisione è molto influenzata dal valore attribuito a un documento (agenda di Himmler, discorso di Himmler ecc.), ma si tratta di un tipo di ricerca molto sterile e artificioso. Infatti, nota Jacques Semelin, anziché di un’unica decisione, sarebbe meglio parlare di un processo di decisione, di una concatenazione di provvedimenti che, in circostanze sempre mutevoli, evolve verso una soluzione sempre più brutale.24
Lo studio del come si attua un massacro può essere metodologicamente utile per arrivare a comprenderne il perché. Se l’esercito e la polizia sono le reti del processo di distruzione, non c’è dubbio che lo stesso, una volta iniziato, proceda poi autonomamente, servendosi della stessa popolazione, alla stessa stregua di un apparato burocratico che funziona indipendentemente dalle singole identità dei soggetti che lo compongono. Questo è vero, ma non può essere taciuta l’importanza dei “guerriglieri ideologici”, coloro che occupano i punti chiave dell’amministrazione, non limitandosi ad aspettare ordini dall’alto, ma agendo autonomamente, molto spesso proprio per ovviare alle lentezze dell’amministrazione. In Germania, Heydrich, direttore dell’Ufficio centrale di sicurezza del Reich, reclutò alcuni di quelli che diventeranno gli organizzatori e gli esecutori dei primi genocidi, perpetrati in Urss, traducendo così in atto la specificità della concezione hitleriana della politica e della guerra. Questi uomini costituivano le Einsatzgruppen (gruppi di azione speciale), composte da volontari la cui missione era quella di eliminare i “giudeo-bloscevichi”. Anche le unità dell’esercito regolare tedesco si trovarono coinvolte in questa dinamica del massacro, accanendosi sugli ebrei e sui prigionieri sovietici catturati. È lo storico Omer Bertov a descriverci come la Wehrmacht sia stata trascinata nella lotta mortale contro il nemico totale e come dei semplici soldati abbiano assimilato l’ideologia della violenza. Altri riferimenti storici ci derivano dall’analisi di Dominique Vidal. Con un decreto emesso il 18 agosto 1939, vi si legge, «Hitler richiede ai medici e alle ostetriche di effettuare un censimento ‘scientifico’ delle malattie genetiche ed ereditarie». In un primo momento il programma riguarda solo i bambini con meno di 3 anni. I piccoli selezionati dal censimento vengono eliminati attraverso inie-
24J. Semelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, tr. it. di V. Zini, Einaudi, Torino 2007, p. 219-220.
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zioni di morfina o di scopolamina, per somministrazione di luminal o facendoli semplicemente morire di fame. Ben presto la selezione viene estesa ai portatori di handicap adulti. Nel corso della invasione della Polonia, nel settembre del 1939, Hitler convoca nel suo quartier generale di Danzica il dottor Leonardo Conti, responsabile dei servizi sanitari civili e capo della Camera dei medici del Reich, e Hans Heinrich Lammers, ministro del Reich e capo della Cancelleria. Incarica i due uomini di approfondire la questione della selezione e dell’eliminazione dei portatori di handicap. Lammers auspica che il progetto sia accompagnato da tutte le garanzie legali e regolamentato dalla legge. Hitler affida allora la missione al capo della cancelleria del Führer Bouhler e al medico suo assistente: Karl Brandt. Ha così inizio il “programma di eutanasia” battezzato Aktion T4. L’amministrazione è sotto il diretto controllo della Cancelleria del Führer. I principali responsabili sono: Philip Bouhler, capo della Cancelleria e generale di divisione delle SS, designato responsabile generale dell’azione T4; Karl Brandt, professore di medicina, medico personale di Hitler, generale di divisione delle SS, Alto commissario del Reich per la Sanità e membro del Consiglio di ricerca del Reich, designato responsabile in carica dell’azione T4; Werner Heyde, professore di medicina, responsabile della messa in opera dell’azione T4; Richard voti Hegener, responsabile della Gemeìnnutzige Krankentransporte GmbH (Gekrat), società addetta al trasporto dei malati verso i centri di eutanasia; August Becker, professore di medicina e tenente colonnello delle SS, responsabile dei gassaggi; Leonardo Conti, professore di medicina e segretario di Stato alla Sanità presso il ministero dell’Interno; Viktor Brack, ufficiale e responsabile amministrativo presso la cancelleria del NSDAP, responsabile dei servizi T4; Werner Blankenburg, generale delle SA. Con il passare del tempo Hitler confermerà per iscritto i poteri di messa a morte. Nell’ottobre del 1939, su carta intestata privata redige un documento privo di ogni valore ufficiale e retrodatato al 1° settembre 1939 – la data dell’entrata in guerra – con il quale conferisce a Bouhler e Brandt il mandato di estendere ai medici nominalmente designati il diritto di decidere se, secondo loro, dopo severa diagnosi, debba essere inflitto il colpo di grazia a malati incurabili. Attraverso questa procedura – che rimane segreta – i nazisti pensano di dimostrare ai mondo che, eliminando tutti coloro che possono essere un peso per la nazione, il Reich diverrà economicamente, militarmente e scientificamente superiore. Agli occhi di Hitler però non basta sterminare le persone affette da malattie mentali per purificare la razza. Nella dottrina razziale nazista, le minoranze determinate secondo criteri razziali sono «esseri inferiori» e di conseguenza «non degni di vivere»; dal 1919 Hitler affermava che non si doveva considerare la comunità ebraica come una comunità religiosa, ma come una comunità razziale. La prima prova di gassaggio avviene nel gennaio del 1940 presso la ex-prigione di Brandeburgo. La 68
prova ha successo e da quei momento il programma sarà esteso a tutto il territorio del Reich e della Polonia. Vengono istituiti sei centri di sterminio: Brandenburg-an-der-Havel, Grafeneck, vicino a Münsingen, Sonnenstein a Pirna, Bern-burg-and-der-Saale, Hadamar e Hartheim, vicino a Linz. L’esecuzione di massa viene organizzata come una catena di montaggio; ciascuna delle persone che eseguono questo lavoro di sterminio considera il proprio compito come “un atto giustificato economicamente e freddamente tecnico»25. Siamo di fronte, quindi, a un vero genocidio. Il termine è proprio, dal momento che soddisfa le tre principali condizioni che lo caratterizzano: l’intenzione dichiarata, da parte di uno stato sovrano, di sopprimere un gruppo omogeneo di persone; la soppressione integrale, che riguarda quindi tutti i suoi membri; l’attribuzione della semplice costituzione biologica quale causa della soppressione. Nonostante questo “carnevale di morte”, Esposito insiste sulla caratterizzazione biopolitica del nazismo, affermando che «quello che [i tedeschi] volevano uccidere nell’ebreo non era la vita, ma la presenza in essa della morte»26, evitando così il contagio, da parte del popolo tedesco, di una vita abitata e sopraffatta dalla morte. La morte finiva così per essere oggetto e strumento della cura, male e rimedio, veleno e antidoto: Alla presenza del morto nel vivo occorreva rispondere temprando la vita al fuoco sacro della morte. I morti divenivano così, insieme, i germi infettivi e gli agenti immunitari, i nemici da estinguere e la protezione da attivare» (ivi).
Non stupisce pertanto la maniacalità che in certi casi assunse il culto della morte durante il Reich. I principali dispositivi immunitari del nazismo sono stati: la normativizzazione assoluta della vita (con la biologizzazione del diritto, il potere assoluto passò ai medici, rappresentanti dell’istituzione statale); la doppia chiusura del corpo (la chiusura della sua chiusura): un’azione di completa sovrapposizione dell’individuo sul suo corpo, in unione con la sua anima, secondo un concetto di coincidenza tra corpo fisico e spiritualità, che diventa essa stessa, in unione con i propri simili, il corpo della nazione tedesca. Ciò potrà essere possibile solo dopo aver purificato il grande corpo etnico dalla degenerazione: il patrimonio sano della nazione, il suo carattere razziale, dovevano essere preservati dalla corruzione mediante una doppia politica demografica, concretizzatasi in negativo con la selezione contro i geni indesiderabili, e in positivo con la selezione dei migliori, a favore dei geni giudicati desiderabili. Alla prima faccia della medaglia appartengono, come abbiamo visto, le politiche di sterilizzazione
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Cf. Il programma Aktion t4, in www.lasecondaguerramondiale.com, 12 giugno 2011. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 148.
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prima e di eutanasia o “trattamento speciale” poi; mentre alla seconda, l’eugenetica, come ad esempio il progetto Lebensborn, voluto fortemente da Himmler, un reale tentativo di isolare i “geni migliori” del popolo tedesco, attraverso la consegna di centinaia di bambini, nati da tedeschi “puri”, a strutture apposite, nelle quali, tra amorevoli cure di personale specializzato, sarebbero cresciuti sino a formare un serbatoio genetico d’eccellenza; la soppressione anticipata della nascita (legge sulla sterilizzazione e sull’aborto), vale a dire la subordinazione della nascita al diretto comando politico. Nel nazismo la biopolitica ha visto la sua realizzazione storica più tragica, ma non si può dire che essa sia scomparsa con la disfatta di tale ideologia. Oggi, spiega Esposito, «dal rilievo crescente dell’elemento etnico nelle relazioni tra popoli e stati, alla centralità della questione sanitaria come indice privilegiato di funzionamento del sistema economico-produttivo, alla priorità dell’ordine pubblico nei programmi di tutti i partiti, quello che si registra da ogni parte è un tendenziale schiacciamento della politica sul dato puramente biologico, se non sul corpo stesso di coloro che ne sono al contempo soggetti ed oggetti» (ivi, 159). Di più: quello che sembrava essere la politica della vita, che il nazismo tentò invano di esportare al di fuori dei confini nazionali, sembra essere oggi generalizzata al mondo intero. La ragione di tutto ciò è evincibile dall’idea e pratica di guerra preventiva, che sembra essere l’unica realtà effettuale della coesistenza globale. Si è pertanto erroneamente ritenuto che il crollo del nazismo avesse ricomposto le mediazioni originarie tra politica e vita, come sostenuto da Arendt, ma ciò non sembra essere avvenuto. A tal proposito, scrive Eleonora de Conciliis, Esposito ha dovuto prendere le distanze proprio da quel pensiero che aveva con maggior forza insistito sulla necessità di collegare positivamente politica e vita, ossia dalla filosofia di Hannah Arendt. Una filosofia ritenuta – giustamente – ancora prigioniera di una concezione ‘irriflessa’ della polis greca come modello o mito, e dunque non sufficientemente radicale nel cogliere l’irreversibile processo di spoliticizzazione e di biologizzazione dell’umano inaugurato dal totalitarismo e dalla tecnica, ma proseguito anche dopo di esso; un processo che, secondo Martin Heidegger, rende superflua proprio la forma moderna e umanistica (cioè formalmente etico-valoriale) assunta dalla filosofia e ne decreta impietosamente la ‘fine’. Trovandosi così vicino – troppo vicino – al fuoco mortale della combustione fascista, Heidegger aveva capito che, se condotto fino in fondo, il crudele gioco della biopolitica non lascia spazio al pensiero filosofico. Per tale motivo, secondo Esposito (che si trova oggi vicino alla combustione scatenata dall’11 settembre, e pertanto nella stessa scomoda posizione di Heidegger rispetto alla fine della filosofia), costui aveva cercato di resistere alla biopolitica nazista rovesciandone la distinzione immunitaria tra esistenza e vita, e portando il senso del Dasein nel cuore della prima, anziché lasciarlo nel corpo
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suicida della seconda. Fieramente sprezzante nei confronti del biologismo, Heidegger non ha potuto tuttavia sottrarsi alla sfumatura conservatrice del suo pensiero, alla chiusura della filosofia (e della vita) nello spazio dell’Essere»27.
Occorre, allora, per Esposito, rovesciare i dispositivi bio-tanatologici precedentemente esaminati, vale a dire la normativizzazione della vita, la doppia chiusura del corpo e la soppressione anticipata della nascita, assumendo le stesse categorie di “vita”, “corpo” e “nascita”, convergendone la declinazione immunitaria (negativa) in una direzione aperta al senso originario della communitas. Continua de Conciliis: Esposito abbandona il territorio speculativo, per portarsi più decisamente a contatto con testi capaci di decostruire la forma stessa della biopolitica ed i suoi dispositivi di chiusura gerarchica: testi per così dire bio-filosofici (da MerleauPonty a Simondon), nei quali il corpo diventa carne, la nazione (con i suoi apporti fraterni e cruenti) nascita, e la legge, norma. Si tratta di figure concettuali che vengono sviluppate partendo da metafore di apertura inclusiva, e che dunque dovrebbero finalmente portare la biopolitica fuori del dominio claustrale del corpo e dell’esclusione: la figura della carne rinvierebbe, secondo Esposito, alla pluralità aperta del vivente (esemplificata dalla pittura da mattatoio di Bacon), quella della nascita all’estroflessione dell’interno, cioè a una doppiezza capace di sfuggire alla purezza monolitica dell’origine; infine, la figura della ‘norma di vita’ rinvierebbe all’eguaglianza strutturale e processuale delle diverse esistenze plurali. Siamo di fronte a un completo rovesciamento del paradigma immunitario, della metafora di cui pure l’autore aveva fatto il grimaldello del libro, in una pletora di contro-metafore che hanno il compito di far deflagrare dall’interno e portare la struttura biopolitica in cui siamo attualmente ingabbiati oltre la tanatopolitica: come i dipinti di Francis Bacon, esse debbono farci giudicare la morte ‘dal punto di vista della vita’ (Deleuze). (ivi)
La conclusione che Esposito ci offre nel corso delle sue ultime pagine di Bíos è che il rarefatto linguaggio della filosofia si è completamente sostituito a quello ‘impuro’ della genealogia: non è più il ‘saggio’ congiunto all’animale, di cui aveva parlato Nietzsche, a fornire l’immagine di una vita forte che, accogliendo in sé la debolezza della malattia, sopporti il lato oscuro della volontà di potenza, ma la pluralità debolmente comunitaria della carne: la ‘moltitudine’ spinoziana che Esposito (non diversamente da Antonio Negri, col quale ha avviato ormai da alcuni anni un dialogo critico a distanza sulle pagine di Micromega) evoca sul proprio palcoscenico speculativo per delineare il rovescio etico, l’inappariscente, ma risolutiva metamorfosi della biopolitica in ‘politica della vita’ (ivi).
27 E. De Conciliis, recensione a Bíos. Biopolitica e filosofia, in “Kainòs”, rivista on line di critica filosofica, n. 4/5 2004, 24 giugno 2011.
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Se il nazismo inchiodava la vita alla sua nuda esistenza materiale, un pensatore come Georges Canguilhem la ritiene invece qualcosa di unico e di irripetibile. L’anormale, secondo l’autore in questione, diventa la condizione di conoscibilità e di esistenza della norma stessa, per cui la norma non può essere imposta alla vita, ma solo desunta da essa. Canguilhem decostruisce la norma giuridica a partire dal paradigma biologico: Mentre questa, fissando un codice di comportamento anteriore alla sua attuazione, deve necessariamente prevedere la possibilità di deviazione della vita, e dunque di sanzione nei suoi confronti, la norma biologica coincide con la condizione vitale in cui si manifesta. La norma di vita di un organismo è data dall’organismo stesso.28
La vita arrischia la salute, e spesso la perde, nel confronto-scontro con la chiusura del corpo biologico, politico e normativo di altre vite. A soccombere, al di sotto del linguaggio filosofico che si limita a enunciare, cioè a metaforizzare la singolarità, è sempre la carne di un singolo, il senso della sua nascita e l’impotente immanenza della sua norma, di modo che si realizza, nella molteplicità della moltitudine, esattamente il contrario di ciò che scriveva Deleuze: «Una vita è immanenza dell’immanenza, l’immanenza assoluta: essa è potenza e beatitudine completa» (ivi, 211). Chiosa De Conciliis: Se si considera la compiaciuta fissazione estetico-biologica sul corpo manifestata dalla minoranza privilegiata dell’Occidente a confronto con la moltitudine dei derelitti, non è il richiamo all’impersonale’, ovvero alla carne chiusa dentro il vecchio soggetto-persona, a poter bloccare il meccanismo biopolitico dell’esclusione: il fatto che, oggi più che mai, un unico processo attraversi senza soluzione di continuità l’intera estensione del vivente, cioè l’intero pianeta, non significa che si possa smettere di distruggere una parte a favore dell’altra, ma che si produce anzi intensivamente il contrario: il mondo (soprav)vive morendo, grazie alla distruzione dei suoi pezzi di carne viva. 29
Biopolitica ed eugenetica Il Reich è stato dunque un regime fautore di una politica che ha espresso «il bilancio dei valori vivi di un popolo», assumendo «la cura del corpo biologico della nazione»30. Era il medico, nel Reich, il primo responsabile dell’economia dei valori umani. Si fa strada, con questo concetto, l’idea di eugenetica, che del resto non era nuova in Europa, essendo già stata proposta nel XVIII secolo. Il nazismo è stato un regime che è riuscito a conciliare la 28
R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 209. E. De Conciliis, recensione a Bíos, in Kainòs, cit. 30 R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 161. 29
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politica con lo sviluppo delle scienze biologiche e sociali dell’epoca, assolutizzando la cura della vita e fondendola con preoccupazioni di ordine propriamente eugenetico. La cura della vita, volendo fortificare la salute dell’insieme del popolo ed eliminare tutte le nefaste influenze che possono ledere a essa, coincide con la lotta contro il nemico. La più rigorosa formulazione biopolitica si trova espressa proprio in un opuscolo scritto da Otmar von Verschuer e pregno di ideologia nazionalsocialista, in cui il dato biologico è immediatamente politico. Vi si legge che «il nuovo Stato non conosce altro compito che l’adempimento delle condizioni necessaria alla conservazione del popolo» (ivi, 164). È evidente, pertanto, che «il totalitarismo del secolo scorso ha il suo fondamento in questa identità dinamica di vita e politica e, senza di questa, rimane incomprensibile» (ivi). Le leggi sull’eugenetica, che furono in Germania in breve tempo pensate e promulgate, sono comprensibili solo se si riscontra in esse il carattere eminentemente politico. I crimini dei nazisti emersero a Norimberga, soprattutto quando fu fatta luce sugli esperimenti compiuti dai ‘medici dei lager’ nei confronti delle VP (le cavie umane). Sbaglia chi pensa che questi esperimenti siano stati solo sadico-criminali e non scientifici. Coloro che li fecero erano illustri esponenti del mondo scientifico e non certo persone sprovvedute. Sbaglia anche chi pensa che procedure di questo tipo abbiano interessato solo regimi totalitari. Da quel che si sa, gli Stati Uniti (ma non certo solo loro) non sono affatto immuni dall’utilizzo di queste pratiche, che già cent’anni fa erano soliti compiere a danni di carcerati (l’attenuante del consenso dei detenuti è ipocrita, sapendo benissimo che la loro condizione non era certo quella di persone che potevano decidere liberamente). Dunque, le vittime dei lager, i detenuti nelle prigioni americane e chissà quanti altri soggetti sono stati i nuovi homines sacri (sul significato di questo termine torneremo in seguito) del XX secolo, in un periodo cioè in cui, all’ombra del nuovo orizzonte biopolitico, il medico e lo scienziato si sono addentrati in un terreno che in passato era sola prerogativa del sovrano. Il discorso può essere analizzato anche sotto un altro punto di vista, ovvero la distinzione tra vite degne e vite indegne di essere vissute. L’autorizzazione dell’annientamento della vita indegna di essere vissuta è un breve libro scritto nel 1920 da Binding, uno dei teorici precursori dell’ideologia della razza. Il titolo del libro è di per sé illuminante. In primo luogo, parlando del suicidio, l’autore ne sottolinea l’impunità nel nome della sovranità della persona che decide di disporre di se stessa. Poi, però, passando a trattare il tema dell’eutanasia, egli propone la necessità di autorizzare l’annientamento della vita indegna di essere vissuta. In tale affermazione è espressa la struttura biopolitica fondamentale della modernità, la possibilità cioè di decidere se la vita sia degna o indegna di essere vissuta.
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Roberto Escobar, in un illuminante passo de Il silenzio dei persecutori, può essere chiamato a intervenire nel dibattito iniziato da Binding. In altri termini, secondo Escobar, portato alle sue estreme conseguenze, il ragionamento di Binding può arrivare a un punto culmine, quello in cui, come scrive Escobar, distribuire la vita e la morte, se anche non significa più attribuire materialmente la morte ad alcuni individui a scapito di altri, comunque è un fatto tutt’altro che trascurabile anche in epoca odierna, laddove le istituzioni continuano a stabilire chi merita di vivere e chi, di converso, debba morire (basti pensare a quegli ordinamenti giuridici che prevedono la pena di morte). Anche adesso, per Escobar, si continua a distribuire la vita e la morte valorizzando alcuni e devalorizzando altri: Dai lager hitleriani ai gulag staliniani, dalle celle della morte statunitensi ai plotoni d’esecuzione cinesi, dall’esposizione al rischio di morire dei lavoratori migranti agli attentati terroristici, dalle molteplici “pulizie’ etniche alle guerre anch’esse ‘pulite’, milioni d’uccisioni non sono avvertite come omicidi dalle diverse opinioni pubbliche, e spesso neppure dagli ordinamenti giuridici dei tribunali.31
Sì, perché è lo stesso Binding a chiedersi se l’impunità dell’annientamento della vita possa essere limitata solo a se stessi o esteso a terzi. Il nazismo e, più in generale, ogni forma di totalitarismo, hanno purtroppo trovato la risposta a quella che sembra in effetti essere una domanda retorica. Il concetto di ‘vita senza valore’ si applica a quegli individui ‘incurabilmente perduti’. Binding sostiene che a decidere in merito alla loro morte debbano essere medici, psichiatri e giuristi, chiaro riferimento a una vita che cessa di avere valore giuridico e che quindi può essere uccisa senza commettere reato. Ogni politicizzazione della vita implica così una soglia al di là della quale essa non è più politicamente rilevante, ma è solo ‘nuda’ o, che è lo stesso, sacra. Ogni società fissa tale limite e decide quali devono essere questi “uomini sacri”. Escobar chiama persecutori, coloro che avocano a sé il potere di decidere della vita o della morte di queste “vittime sacre”. Per lui, i luoghi comuni attraverso cui si distribuiscono morte e vita sono quelli del fanatismo, del nazionalismo, del razzismo. L’ostinata e arcaica apologia della morte si ammanta ancora di eroi, di martiri, di sacrificio. Sono ancora tanti gli individui che avocano a sé il diritto di amministrare la vita e la morte. I persecutori ci seducono con le loro ‘nobili’ ragioni e, così facendo, banalizzano le vittime, riducendole a insensatezza, silenzio e invisibilità. Non sono persone, sono categorie. Sapendosi innocenti, i perseguitati sono svuotati di ogni capacità di reazione e ribellione, ridotti a ‘completa passività’, come furono le vittime 31
R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, il Mulino, Bologna 2002, p. 17.
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dei nazisti e degli stalinisti che si incamminavano verso i campi di sterminio. Il loro ostinato silenzio, il loro auto-annullamento fino all’invisibilità, possono essere così letti come ultima, inutile, estrema strategia di difesa. Un’altra consiste nel rendersi massimamente visibili come insieme, acquisendo così la titanica forza della massa. I corpi che si stringono e si addensano nella disperata difesa a oltranza sono l’unico (effimero) scudo possente contro le pallottole lanciate dai persecutori. Così facendo essi, confondendosi nell’insieme, non fanno altro che portare al parossismo l’invisibilità cui sono stati condannati dai persecutori (ivi). I quali persecutori, si badi bene, agiscono in totale buona fede. Non era forse un burocrate modello quell’Adolf Eichmann, indiscusso portatore della ‘banalità del male’? Così, analogamente, non si può dubitare neppure della ‘buona fede’ di Hitler. Questi, infatti, come testimonia sempre Escobar, odiava gli Ebrei, una moltitudine degradata e babelica, infida e velenosa. Nel Mein Kampf scriveva che gli Ebrei brulicano come insetti e formicolano ovunque: li si vede dappertutto. Essi non assomigliano al popolo tedesco, che contaminandosi con loro rischia di precipitare verso la degradazione più assoluta. Il singolo è così ridotto a stereotipo, a tipo. L’ebreo (con la minuscola) è il non-umano, il loro foriero di marciume che si oppone alla fierezza del noi. L’essenza dell’ebreo si costruisce sull’assenza. Egli (esso) non è, incarna la negatività. La brulicante presenza di questi negletti inquina la sacralità della domus. Dunque bisogna odiarli, affinché gli spiriti turbati da queste presenze ritrovino la certezza del proprio luogo comune. La questione è tuttavia un’altra, ed è Agamben a sollevarla: Se al sovrano, in quanto decide sullo stato di eccezione, compete in ogni tempo il potere di decidere quale vita possa essere uccisa senza commettere omicidio, nell’età della biopolitica questo potere tende a emanciparsi dallo stato di eccezione per trasformarsi in potere di decidere sul punto in cui la vita cessa di essere politicamente rilevante. Non soltanto, come suggerisce Schmitt, quando la vita diventa il valore politico supremo, si pone allora anche il problema del suo disvalore. (…). Nella biopolitica moderna, sovrano è colui che decide sul valore o sul disvalore della vita in quanto tale.32
Poiché nel Reich a decidere erano i medici, ecco che la figura del sovrano e quella del medico tendono a diventare un ibrido e a scambiarsi le parti. Foucault, come si è detto, è stato l’autore che, tra i primi, ha varato il termine biopolitica, scrivendo ne La volontà di sapere che «per millenni, l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente e, inoltre, capace di esistenza politica: l’uomo moderno è un animale nella cui politica
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G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 158.
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è in questione la sua vita di essere vivente» (ivi, 131) .. Per il filosofo francese, la biopolitica è il terreno in cui agiscono le pratiche con le quali la rete di poteri gestisce le discipline del corpo e le regolazioni delle popolazioni. È un’area d’incontro tra potere e sfera della vita, che si realizza pienamente nell’epoca dell’esplosione del capitalismo. Löwith ha parlato per primo di ‘politicizzazione della vita’ quale carattere fondamentale della politica degli stati totalitari. Vi sarebbe analogia tra democrazia e totalitarismo, essendo entrambe orientate verso la politicizzazione di tutto, compresi gli ambiti vitali. Infatti, nelle democrazie borghesi, la rivendicazione della nuda vita conduce al primato del privato sul pubblico e sugli obblighi collettivi; mentre, nel totalitarismo, diventa il criterio politico decisivo delle decisioni sovrane. In entrambi i casi, la vita biologica diventa il fatto politicamente rilevante. Peraltro, la prima registrazione della nuda vita come un nuovo soggetto politico è già implicita alle origini della democrazia moderna, essendo rintracciabile addirittura nell’Habeas corpus del 1679. Vi si legge chiaramente, infatti, che il corpus (dunque non l’homo) è il nuovo soggetto della politica. In questo modo, nota Agamben, «la nascente democrazia europea poneva al centro della sua lotta con l’assolutismo non bios, la vita qualificata del cittadino, ma zoe, la nuda vita nel suo anonimato, presa, come tale, nel bando sovrano» (ivi, 137). La democrazia moderna non abolisce la vita sacra, distribuendola in ogni singolo corpo. E, del resto, il corpo del Leviatano di Hobbes, il nuovo corpo politico dell’occidente, è formato da tutti i corpi dei singoli sudditi, assolutamente uccidibili. Arendt, nel Il declino dello stato-nazione e la fine dei diritti dell’uomo, analizza la singolare figura del rifugiato come quella di un soggetto sprovvisto dei più elementari diritti di cittadinanza. I diritti, lungi dall’essere proclamazioni gratuite di valori eterni metagiuridici, hanno una funzione storica reale all’interno del moderno stato-nazione, nel cui ambito la dichiarazione dei diritti rappresenta la figura originaria dell’iscrizione della vita naturale nell’ordine giuridico - politico. Il che equivale a dire che quella nuda naturale che, nell’antico regime, era politicamente indifferente e apparteneva, come vita creaturale, a Dio e, nel mondo classico era chiaramente distinta come zoe dalla vita politica (bios), entra ora in primo piano nella struttura dello stato e diventa anzi il fondamento terreno della sua legittimità e della sua sovranità (ivi, 140).
Il passaggio dalla sovranità regale alla sovranità nazionale è sancito dalle dichiarazioni dei diritti. Con il passaggio dallo stato di sudditanza a quello di cittadinanza, la mera nascita (nuda vita) diventa elemento immediato della sovranità. La nascita si fa nazione. In tale scenario, nell’Europa del XX secolo, il fascismo e il nazismo sono stati due movimenti biopolitici, in grado di garantire nella vita naturale il luogo per eccellenza della decisione 76
sovrana. Lo ius sanguinis equivale allo ius solis: la cittadinanza si fa origine e fondamento della sovranità, divenendo così la questione politica essenziale. Detto in altri termini, lo stato-nazione nega i diritti dell’uomo proprio nel momento in cui essi appaiono. Questo perché essi vengono assimilati ai diritti nazionali. Alla luce di queste considerazioni si comprende allora l’inquietudine che, per Arendt, rappresentano i rifugiati. Essi spezzano la continuità tra uomo e cittadino, tra natività e nazionalità, mettendo in crisi il principio della sovranità moderna. Quando, nell’Europa del primo XX secolo, rifugiati e apolidi varcano costantemente la linea di confine, gli stati introducono al loro interno norme che denaturalizzano e denazionalizzano in massa i loro cittadini. Con ciò entra in crisi il meccanismo di identificazione nascita-nazione, uno dei baluardi della dichiarazione dei diritti del 1789. Non esistendo più i diritti del cittadino, perché non ci sono più cittadini, vengono meno anche i diritti dell’uomo che a questi sono connessi. Definire quale uomo è cittadino e quale no diventi un problema politico fondamentale. Con il nazismo, la risposta alla domanda “chi e che cosa è tedesco e quindi chi e che cosa non lo è”, coincide con il compito politico supremo, con il compito di delimitazione del popolo tedesco. La necessità di definire e controllare la relazione uomocittadino, tra chi è dentro e chi è fuori dalla possibile inscrizione nel quadro dell’appartenenza alla nazione, è un problema che, con la fine della prima guerra mondiale, e con l’apparire di figure quali i rifugiati e gli apolidi che spezzano la continuità uomo cittadino, investe l’insieme degli stati europei. Se all’inizio i vari stati europei non avevano posto particolare interesse nel controllare le molte ondate di rifugiati che si susseguono, con la prima guerra mondiale essi assumono nuove modalità di controllo e gestione nei confronti dei movimenti di popolazioni. I rifugiati devono essere classificati e identificati in quanto tali. Il concetto di “straniero” assume un significato del tutto nuovo, poiché il legame creatosi tra sovranità statale e nazionalismo trasforma lo straniero in outsider. Lo stato è legittimato a identificare come non appartenente alla comunità nazionale e a escludere dalla società civile i gruppi di rifugiati. Le migrazioni, quindi, cominciano a essere pensate nel quadro dello stato-nazione, cioè attraverso la linea di demarcazione che separa “nazionali” e “non nazionali”. Quel che resta dell’individuo è solo la sua nuda vita, espulsa ai margini degli stati-nazione. Commenta Agamben: Ogni volta che i rifugiati non rappresentano più casi individuali, ma, come avviene sempre più spesso, un fenomeno di massa, tanto queste organizzazioni che i singoli stati, malgrado le solenni evocazioni dei diritti ‘sacri e inalienabili’ dell’uomo, si sono dimostrate assolutamente incapaci non solo di risolvere il problema, ma anche semplicemente di affrontarlo in modo adeguato (ivi, 147).
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Iniziato circa un secolo fa, questo processo di separazione di umanitario e politico è in auge ancora oggi. In alcuni paesi, Ruanda e Bosnia stanno a dimostrarlo, la vita umana è considerata nuda vita, vita sacra, ossia uccidibile e insacrificabile.
3. Biopolitica come governo Biopolitica e governamentalità Foucault orientò il suo corso del 1978, Sicurezza, territorio, popolazione, verso un orizzonte ampio che implica la biopolitica: una storia della governamentalità. Nel secondo corso, Nascita della biopolitica, analizzò la governamentalità liberale. Il concetto di biopolitica si va ad intrecciare con quello antico di governo (inteso come modus di gestione del potere). Il potere, secondo Foucault, è una questione di governo, «governare significa strutturare il campo di azione possibile degli altri»33. Foucault ebbe l’intuizione di ritenere che le vite umane fossero gestite da una serie di pratiche, corrispondenti a precisi regimi di verità e risalenti nella storia occidentale (ivi, 33). Nel pensiero di Foucault, l’obiettivo è cogliere ciò che lega i regimi di verità con le pratiche di governo politico ed economico che gestiscono le vite. La biopolitica, attraverso i ‘discorsi di veridizione’ (quello della biologia e quello dell’economia), oggettivizza l’uomo sia come essere biologico-vivente sia come attore produttivo/consumante. La biopolitica elegge delle verità-potere (scientifiche) che sono indiscutibili e certe. Egli vuole analizzare proprio gli effetti politici dei discorsi con pretesa di verità34. Il potere, quando prende in carico la vita, acquisisce come modus la governamentalità e finisce per oggettivarla (la vita), avendo come scopo finale quello di una sua soggettivazione (ivi, 36). La governamentalità non possiede un dominio completo, la sua è un’influenza temporanea e concepisce una forma di indipendenza al governato (che è il suo oggetto di cura). Il governato ha un potere deuteragonista (ivi). La governamentalità è la «giusta disposizione delle cose che prende in carico per condurle al fine loro conveniente»35. Foucault sovrappone biopolitica e governamentalità, perché proprio nell’indagine del modus governamentale troviamo la giusta relazione tra potere e bios, tra vita condotta e vita che conduce, vita governata e vita che governa. Il governo, che è «arte precisamente di esercitare il potere 33 M. Foucault, Il soggetto e il potere, in H. Dreyfus, P. Rabinow (c/ di), La ricerca di Michel Foucault: Analitica della verità e storia del presente, Ponte delle Grazie, Firenze 1989, p. 235-54. 34 L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, cit., p. 35. 35 M.Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1978-1979, tr. it., Feltrinelli, Milano 2005, p. 99.
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nella forma e secondo il modello dell’economia» (ivi), diventa paradigma di relazioni di potere; esclude lo status di dominio ed esprime temporaneità dell’influenza, reversibilità e una certa potenza e indipendenza dal governato. Quest’ultimo, nella relazione di potere, è l’oggetto di cura, di tutela e soggetto d’azione “libero”36. Per Foucault, l’economia è sia gestione finalizzata all’incremento, sia campo elettivo dell’azione di governo. La governamentalità è «l’insieme di istruzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e complessa di potere che ha, nella popolazione, il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale»37. La popolazione è «l’operatore della trasformazione che fa passare dalla storia naturale alla biologia, dall’analisi della ricchezza all’economia politica», la sua naturalità, la «rende continuamente accessibile ad agenti e tecniche di trasformazione, a condizione che questi siano illuminati, ragionati, guidati dall’analisi e dal calcolo» (ivi, 62). Il motore d’azione della naturalità è il desiderio, in base al quale ogni uomo agisce. Foucault si avvicina a Darwin, il primo a trattare gli esseri viventi non sul piano dell’individualità, ma su quello delle popolazioni e aggiunge che la popolazione non è solo bios, ma si costruisce tra la determinazione biologica (la specie) e una emergente dimensione psico-politica (il pubblico). Governare, quindi, significa orientare la popolazione verso determinazioni demografiche, statistiche, psicologiche, rimanendo ancorati al livello biologico, inteso come spazio di regolazione e scambio con l’ambiente. Per Foucault, il governo biopolitico mira a un fitness, ovvero ad adattare i comportamenti di un numero statisticamente significativo a nuove norme. La norma emerge dal comportamento globale di una popolazione; inoculando procedure e norme di vita (dietologiche, urbanistiche, territoriali), si controllano i comportamenti. La riconduzione della biopolitica alla governamentalità porta a un ripensamento del concetto di norma. La norma è immanente alla vita stessa. La norma è il modus in cui si organizza e diviene il vivente: modus di autogoverno delle forze vive sociali e modus del quale un efficace governo dei viventi tiene conto. La vita, essendo sempre normata, diventa sempre un discorso sulla vita con effetti di potere, un potere che è anche autonormante38. Il filosofo francese, nel suo ripensamento critico della biopolitica, ne ricava un’apertura su una logica immanentistica, ma anche normativa: la vita
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L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit. p. 48. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 88. 38 L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit., p. 52-56. 37
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produce norme nel suo incessante adattarsi. Il senso della norma e dell’istituzione biopolitica è quello inclusivo: il legame che assimila individui disordinati e devianti riconducendoli al processo produttivo, formativo. Paradossi della sovranità La trattazione della biopolitica, in Foucault, parte dal tema della sovranità. Lo schema figurale di tale concetto presuppone due elementi inseparabili: l’insieme degli individui da un lato, il potere dall’altro, che producono tra loro un risultato a somma zero: tanto più c’è diritto, tanto meno c’è potere e viceversa. Egli, in ogni caso, non analizza il rapporto tra soggetti e potere, ma l’assoggettamento dei primi a un determinato assetto che è giuridico e politico al contempo. Così, per il filosofo francese, il diritto è lo strumento usato dal sovrano per imporre la propria dominazione e, all’un tempo, il sovrano sarà tale solo in base al diritto che ne legittima l’operato. Nel secolo scorso, per Foucault, il potere è cambiato. Se prima conferiva la morte, poi ha cominciato a prendersi in carico la vita: Si tratta, per così dire, di una presa di potere sull’uomo in quanto essere vivente, di una sorta di statalizzazione del biologico, o almeno di una tendenza che condurrà verso ciò che si potrebbe chiamare la statalizzazione del biologico.39
Per l’odierna società politica, l’interesse principale si situa nel biologico, nel somatico, nel corporale, diventando così il corpo stesso una realtà biopolitica. Ossia, prima della postmodernità, la relazione tra politica e vita era sempre stata mediata da una serie di categorie che l’avevano filtrata, mentre nell’era postmoderna il rapporto è diretto, senza più intermediari: la vita entra direttamente nei meccanismi e nei dispositivi del governo degli uomini. Il perché è evidente: tutte le pratiche politiche messe in atto dai rispettivi governi si rivolgono alla vita, mentre la vita stessa entra nel gioco del potere in tutta la sua estensione. Parliamo quindi di biopolitica perché, da un lato, la politica è determinata dalla vita e, dall’altro, la vita è afferrata e penetrata dalla politica. Storia e natura, vita e politica si intrecciano, fungendo a vicenda da matrice e da esito provvisorio. In ogni caso, la biopolitica produce soggettività o morte: «O rende il soggetto il proprio oggetto o lo oggettiva definitivamente. O è politica della vita o sulla vita»40, non riuscendo così a sfuggire dall’enigma. E vi si resta, nell’enigma, fino a che si considerano la politica e la vita come due termini che, anziché comporsi, si pongono in un rapporto di appropriazione e dominio l’una con l’altra.
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M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 206. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 25.
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La biopolitica sembra così altra rispetto alla sovranità. Il nuovo regime di potere che emerge nella postmodernità è, tuttavia, attraversato dal codice biopolitico lungo tre aspetti fondamentali: il potere pastorale, le arti di governo e le scienze di polizia. Il primo allude a un rapporto stretto e biunivoco contenuto nella metafora del pastore e del gregge: le pecore obbediscono incondizionatamente al potere del pastore, che è tenuto a badare alla vita di ciascuna di esse. Così, secondo Foucault, fa lo stato moderno nei confronti dei cittadini. Il potere, allora, è quello che soggettiva gli individui, sottomettendoli da un lato al controllo e alla dipendenza, ma consentendo loro di acquisire coscienza e identità. Il secondo ha a che fare con una condotta di governo teorizzata nella forma della Ragion di Stato, che sposta il potere dall’esterno all’interno dei confini su cui si esercita. Il fine di tale forma di potere non è la mera coazione all’obbedienza, ma anche il benessere dei governati. Per far ciò, esso raccoglie e soddisfa tutte le richieste che gli arrivano dal corpo della popolazione. Il terzo (scienza di polizia) si costituisce intorno all’istituzione polizia, ordinata a favorire la vita in tutto il suo spessore, sviluppando gli elementi costitutivi della vita degli individui in maniera tale da rafforzare la potenza dello stato41. Tanto basta per affermare che, in Foucault, la biopolitica non limita la vita, come fa invece il potere sovrano (sovranità), ma la espande proporzionalmente al suo sviluppo. Nonostante ciò nel ragionamento di Foucault c’è qualcosa che non quadra, se lo stesso autore si premura di dire che un potere della vita, tale è quello della biopolitica, si esercita contro la vita stessa, come ha dimostrato il totalitarismo del Novecento. Esiste allora una relazione diretta (rapporto direttamente proporzionale) tra sviluppo del biopotere e in-
41 Il termine “polizia” è stato utilizzato anche da Hegel, con il quale il filosofo tedesco intende l'organizzazione pubblica a carattere amministrativo, sorta all'interno dello stesso sistema economico su cui si fonda la stessa società civile. Per polizia, Hegel intende l'istituto che svolge, all'interno della società, una funzione difensivo-preventiva, d'intervento e di protezione. Usando una terminologia moderna, si tratta di quell'apparato pubblico destinato a svolgere funzioni di politica economica. La sua necessità nasce dalla complessità della società economica. La dialettica interna di essa distrae il singolo, immerso nelle sue attività particolari, dal perseguimento di fini che sono di interesse generale. Si rende allora necessario l'intervento di un potere pubblico che vigili su questi compiti generali e queste organizzazioni di comune utilità. Questo potere si blocca però nel momento in cui dovesse garantire la reale partecipazione del singolo alla ricchezza generale. Coerentemente al resto del sistema hegeliano, la polizia può solo garantire la possibilità di partecipazione e non la partecipazione effettiva. Comunque Hegel, a differenza degli economisti classici, riconosce che le leggi economiche debbano essere regolate perché altrimenti tendono a distruggere la stessa società che le ha rese possibili. Secondo una felice espressione di Pasquale Salvucci, Hegel «non è tanto ottimista da ritenere superflua l'amministrazione pubblica, ma non è neppure tanto pessimista da negare l'autonomia sostanziale della società civile», cfr. P. Venditti, Morale e politica, QuattroVenti, Urbino 1989, p. 53.
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cremento della capacità omicida. Come se l’aspirazione della vita presupponesse un ordine di morte e la biopolitica degenerasse in tanatopolitica. Foucault, in Bisogna difendere la società, scrive che il vecchio diritto di sovranità è stato, nel corso degli anni, completato con un altro diritto, che non si è per questo sostituito al primo. Nel caso della Germania, ad esempio, il vecchio potere sovrano è stato integrato con le nuove teorie razziste, ma si potrebbe anche dire che il nuovo potere biopolitico abbia fatto uso del diritto sovrano di morte per dar vita al razzismo di stato. Foucault, insomma, cerca di sfuggire alle pastoie dell’enigma affermando che, una volta venuto meno il bilanciamento costituito dall’ordine sovrano, la vita è diventata l’unico campo di esercizio di un potere altrettanto sconfinato, che in parte si richiama al vecchio diritto del potere sovrano, in parte completa tale diritto con un altro. C’è quindi questo rapporto vischioso, ambiguo, che intercorre tra la sovranità e la biopolitica. Ma allora, totalitarismo e modernità tendono a essere al contempo simili e distinti, così come lo sono sovranità, biopolitica e totalitarismo. In tal modo, per quanto pregevoli, le riflessioni di Foucault sul nesso tra politica e vita rimangono incompiute e indefinite. È per questo motivo che Esposito cerca un nuovo orizzonte di senso, che chiarisca in primo luogo il significato della vita nella sua essenza. Per Foucault la politica è la produzione dei soggetti che può dar conto della complessità del rapporto di governo. Le tecnologie disciplinari e normalizzanti sono modi di esercizio di una nuova forma di potere/governo delle vite, che il potere sovrano non può esercitare totalmente. Queste due forme che si contrappongono, si articolano reciprocamente, fino alla fine della sovranità, quando esplode la biopolitica (ivi, 81). Per Agamben, il reale significato della biopolitica è l’implicazione della vita nel potere sovrano. Tema centrale del pensiero del filosofo italiano è il passaggio da zoé (vita dell’essere vivente, vita naturale) a bios (modo di vita politico, vita qualificata politicamente), il rapporto nuda vita-esistenza politica (zoe-bios), esclusione-inclusione è centrale all’interno della politica occidentale. L’uomo è il vivente che, nel linguaggio, separa e oppone a se stesso la propria nuda vita e insieme si mantiene in rapporto con essa in un’esclusione inclusiva: ciò permette che vi sia politica42. A fondamento della politica c’è la costituzione di una vita nuda, una vita che oltre a essere naturale è anche presa fuori, in un rapporto con il potere, sotto il quale si mantiene. Potere sovrano e nuda vita si trovano in questa relazione di eccezione (presa fuori), la nuda vita àncora il potere e ne rende possibile l’esercizio43; l’eccezione è una cattura:
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G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la vita nuda, cit., p. 11. L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit., p. 83.
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chiamiamo relazione d’eccezione questa forma estrema della relazione che include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione 44.
L’eccezione, come inclusione alla vita attraverso la sua esclusione, è l’atto che rivela la struttura della sovranità45. Per Agamben, il biopotere si radica nella sovranità che è strutturata sull’eccezione della vita nuova; lo Stato moderno, con la vita biologica al centro, fa luce sul collegamento fra potere e vita, che diventa lo spazio politico stesso. Per il fatto di collocarsi contemporaneamente all’interno e all’esterno dell’ordinamento giuridico, il sovrano si trova in una situazione paradossale. In che cosa consiste il paradosso? Agamben spiega che il sovrano, avendo il potere legale di sospendere la validità della legge, si pone legalmente al di fuori di essa. Si tratta di una paradossale “esclusione inclusiva”, come quella implicita nel potere di proclamare lo stato di eccezione. Secondo Carl Schmitt, il potere sovrano è “monopolio della decisione ultima”, ossia della decisione intorno alla sospensione dell’ordinamento giuridico normale attraverso la proclamazione dello stato di eccezione. Il sovrano segna il limite dell’ordinamento giuridico, essendo, come detto, contemporaneamente, fuori e dentro l’ordinamento giuridico (in altre parole, la legge è fuori di se stessa, in quanto l’ordinamento giuridico riconosce al sovrano il potere di sospendere l’ordinamento giuridico stesso). In questo senso l’eccezione (un caso singolo escluso dalla norma generale) è la forma originaria del diritto, il presupposto delle coordinate giuridiche fondamentali: ordinamento e localizzazione. L’“ordinamento dello spazio”, in cui per Schmitt consiste il nomos sovrano, non è solo «presa della terra, fissazione di un ordine giuridico e territoriale, ma, innanzi tutto, ‘presa del fuori’, eccezione»46. Dal momento che la norma si applica all’eccezione disapplicandosi, la relazione di eccezione è la forma estrema della relazione che include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione. Da ciò deriva che la situazione, che viene creata nell’eccezione, ha pertanto questo di particolare, che non può essere definita né come una situazione di fatto, né come una situazione di diritto, ma istituisce fra queste una paradossale soglia di indifferenza (ivi).
La norma giuridica, essendo generale, deve valere indipendentemente dal caso singolo. Se il linguistico, per esistere, presuppone il non-linguistico, la legge acquista senso solo riferendosi a un non-giuridico, che è lo stato di eccezione. Scrive Agamben: 44 45
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 22. G. Agamben, Homo sacer. Stato di eccezione”, vol. 2/1, Bollati Boringhieri, Torino
2003. 46
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 23.
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L’eccezione sovrana (come zona d’indifferenza fra natura e diritto) è la presupposizione della referenza giuridica nella forma della sua sospensione» (ivi, 25).
In ogni norma è implicito il riferimento alla trasgressione (come stato d’eccezione). Tra eccezione ed esempio, continua Agamben, potrebbe anche ravvisarsi qualche affinità, ma mentre la norma è esclusione inclusiva; l’esempio, al contrario, funziona come inclusione esclusiva. In Schmitt, la sovranità si presenta nella forma di una decisione sull’eccezione. Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Questa definizione può essere appropriata al concetto di sovranità, solo in quanto questo si assuma come concetto limite. Infatti concetto limite non significa un concetto confuso, come nella terminologia spuria della letteratura popolare, bensì un concetto relativo alla sfera più esterna. A ciò corrisponde il fatto che la sua definizione non può applicarsi al caso normale, ma a un caso limite. Risulterà dal seguito che qui con stato d’eccezione va inteso un concetto generale della dottrina dello Stato, e non qualsiasi ordinanza d’emergenza o stato d’assedio. Il fatto che lo stato d’eccezione sia eminentemente appropriato alla definizione giuridica della sovranità ha una ragione sistematica, di logica giuridica. Infatti, la decisione intorno alla eccezione è decisione in senso eminente, poiché una norma generale, contenuta nell’articolo di legge normalmente vigente, non può mai comprendere un’eccezione assoluta e non può perciò neppure dare fondamento pacificamente alla decisione che ci si trova di fronte a un vero e proprio caso d’eccezione47. In altri termini, in Schmitt la struttura “sovrana” della legge ha forma di uno stato di eccezione in cui fatto e diritto sono indistinguibili e in cui la vita, implicata nella sfera del diritto, esiste solo presupponendo un’eccezione alla sua stessa natura. L’eccezione è così la struttura della sovranità, la quale è a sua volta la struttura originaria in cui il diritto si riferisce alla vita e la include in sé attraverso la propria sospensione. L’esclusione dalla comunità è il bando (nella definizione di Jean-Luc Nancy), sotto forma di potenza della legge di mantenersi nella propria privazione, di applicarsi disapplicandosi. Colui che viene messo al bando non è solo fuori dalla legge, ma è abbandonato, cioè «esposto e rischiato nella soglia in cui vita e diritto, esterno e interno si confondono»48. Il paradosso della sovranità sta tutto dunque in questo abbandono del rapporto originario della legge con la vita, tanto che «la potenza insuperabile del nomos, la sua originaria ‘forza di legge’, è che esso tiene la vita nel suo bando abbandonandola» (ivi, 35).
47 K. Schmitt, Teologia politica, in G. Miglio – P. Schiera, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972, p. 33-35. 48 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 34.
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Agamben, del resto, aveva già dedicato ampio spazio alla trattazione dello stato d’eccezione. Nell’omonimo testo49, egli l’aveva definito uno spazio vuoto di diritto, una zona in cui tutte le determinazioni giuridiche sono destituite. Per affermarlo e sciogliere così le aporie da cui la teoria moderna dello stato di eccezione non riesce a venir fuori, il filosofo italiano era ricorso a un architetto scovato tra gli istituti del diritto romano: il iustitium. Il termine, costruito come ‘sol-stitium’, significa letteralmente «arresto, sospensione del diritto». Proclamato dal Senato in caso di tumulto, questo provvedimento instaurava un paradossale istituto giuridico che aveva come unica funzione la produzione di vuoto giuridico. Il paradosso di una situazione, promuovente provvedimenti giuridici che non possono essere compresi sul piano del diritto, sembra costituire l’oggetto ibrido dello stato di eccezione. Una realtà che «ha continuato a funzionare quasi senza interruzione a partire dalla prima guerra mondiale, attraverso fascismo e nazionalsocialismo, fino ai nostri giorni», sostiene Agamben, dopo aver passato in rassegna le innumerevoli difficoltà incontrate dalla tradizione giuridica di fronte al tentativo di fornirne una definizione concettuale e terminologica certa. Lo stato di eccezione non è un ritorno al potere assoluto, né tantomeno un modello dittatoriale, non è pienezza bensì vuoto, vuoto del diritto come l’esempio del “iustitium” insegna. Lo stato di eccezione, prosegue l’autore, «ha anzi assunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario. L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando all’esterno il diritto internazionale e producendo all’interno uno stato di eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto». La conclusione è senza appello, «dallo stato di eccezione effettivo in cui viviamo non è possibile il ritorno allo stato di diritto, poiché in questione ora sono i concetti stessi di stato e di diritto». Lo stato di eccezione è presentato da Agamben come una soglia oltre la quale vengono meno le tradizionali differenze fra democrazia, assolutismo e dittatura. Dall’inizio del secolo, la creazione volontaria di uno stato di eccezione permanente è divenuta una delle pratiche essenziali degli stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici. Nel corso di una breve ma efficace sintesi storica, di cui è corredato il volume, appare evidentemente come lo stato di eccezione moderno sia una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria. La definizione del concetto di stato di eccezione conduce Agamben alle stesse conclusioni cui pervengono autori di altre discipline che, studiando le modificazioni del politico e dei sistemi statuali, osservano un sostanziale svuotamento della partecipazione politica (modificazione delle regole e delle forme della rappresentanza) a vantaggio della verticalizzazione della decisione politica. Il ricorso sistematico della 49
G. Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Milano 2003.
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decretazione d’urgenza e al dispositivo delle deleghe legislative concesse all’esecutivo, tratto peculiare dello stato di eccezione come tecnica di governo, ha accompagnato la progressiva emergenza della nozione di “governabilità” (decisione), a scapito della “partecipazione” (deliberazione), per altro già sorpassata dal nuovo modello di governance, ovvero il sistema di governo globale prodotto dai luoghi sovranazionali della decisione, che esautora la vecchia governabilità frutto della decisione espressa dai singoli stati nazione50. Il paradosso della sovranità trova nel rapporto tra potere costituente e potere costituito la sua massima esplicazione. Mentre il secondo esiste solo nello Stato, il primo si situa fuori dallo Stato. Per Benjamin, tale rapporto è analogo a quello che si registra fra la violenza che pone il diritto e la violenza che lo conserva. Abbiamo a che fare, pertanto, con due forme di violenza che non sono però sullo stesso piano: la violenza che deriva dal potere costituente è una violenza “nobile e giusta” rispetto alla violenza che lo conserva, pur non possedendo in sé alcun titolo che possa legittimarne l’autorità. Abbiamo, dunque, un potere sovrano che si presuppone come stato di natura e con una costituzione che si presuppone come potere costituente. Tale rapporto ricorda quello, descritto da Aristotele, esistente tra la dynamis e l’energheia (potenza e atto). Da una parte, la potenza prevede l’atto e lo condiziona, dall’altra sembra rimanere subordinata all’atto stesso. Ecco perché la potenza che esiste è quella che non necessariamente può passare all’atto, mantenendosi in relazione con l’atto nella forma della sua sospensione: «Il potente può passare all’atto solo nel punto in cui depone la sua potenza di non essere»51. Il passaggio all’atto, pertanto, si configura in Aristotele non come un’alterazione o una distruzione della potenza nell’atto, ma come un conservarsi della potenza. Con lo stesso linguaggio aristotelico, Agamben può così spiegare il paradigma della sovranità, poiché alla struttura della potenza, che si mantiene in relazione con l’atto precisamente attraverso il suo poter non essere, corrisponde quella del bando sovrano, che si applica all’eccezione disapplicandosi (ivi, 54).
In base a quanto affermato, Agamben individua un’affinità tra democrazie e totalitarismo; entrambi sono emersi dalla crisi dell’ordine politico, nel momento in cui la struttura biopolitica nascosta del potere è divenuta spazio politico. La democrazia e il totalitarismo afferrano entrambi la vita, nel movimento di iscrizione della vita nell’ordine politico e in quello di crescente esposizione al potere52. Per Agamben, il totalitarismo è un terreno di analisi P. Persichetti, Lo stato d’eccezione, in «Liberazione», 27 maggio 2004. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 53. 52 L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit., p. 85. 50 51
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della biopolitica. Se la democrazia e il totalitarismo hanno come sfondo comune la biopolitica, il paradigma dello spazio politico moderno è il campo, nel punto in cui la politica diventa biopolitica. Il campo mantiene la struttura aporetica dello stato d’eccezione; è un nuovo luogo, un nuovo regolatore della comunità: segno che il sistema funziona se si trasforma in macchina letale, segno della crisi della politica e soluzione della crisi stessa. La sovranità della legge La sovranità appartiene alla legge. Questo è il principio basilare del termine, che porta all’estremo il suo paradosso. In un antico frammento, Pindaro colloca la sovranità della legge in una dimensione oscura e ambigua, definendo la sovranità del nomos attraverso una giustificazione della violenza. Unendo i due termini opposti di bia e dike (violenza e giustizia), il nomos agisce quale congiunzione di opposti. In Pindaro, pertanto, il nomos sovrano è il principio che congiungendo diritto e violenza, li rischia nell’indistinzione», per cui il sovrano è «il punto di indifferenza tra violenza e diritto, la soglia in cui la violenza trapassa in diritto e il diritto in violenza»53.
Si chiede Pindaro: come può la legge essere “sovrana” (nomos basileus)? Mentre la riflessione greca sulla legge è affidata prevalentemente a testi poetici, letterari e filosofici, quella romana conosce una vera e propria letteratura giurisprudenziale. Mentre in Grecia le leggi furono opera individuale ed eccezionale di legislatori famosi e spesso anche mitizzati (Licurgo, Dracone, Solone), a Roma invece esse furono prevalentemente opera collettiva e permanente: si può affermare che il diritto a Roma occupa lo stesso posto che in Grecia aveva occupato la filosofia. Diverso, invece, è l’orizzonte del pensiero e del sistema normativo giudaico nei quali la legge di rivelazione divina è codificata in un apparato di norme e in una selva di precetti che regolano ogni comportamento, gesto e scadenza della vita quotidiana: una pratica così pervasiva e una osservanza così scrupolosa da configurare un vero e proprio “impero della legge”. Il problema è se la legge sia un codice dettato dalla convenzione dell’uomo oppure iscritto nella natura. Furono i Sofisti a teorizzare che la legge positiva è convenzione (nomos) e a porla in contrasto con la natura (physis). Da quell’antitesi tra nomos e physis – e dalla superiorità di questa su quello – discendeva tanto la teoria della naturale uguaglianza fra gli uomini, quanto la teoria opposta della loro naturale ineguaglianza.
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G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 37-38.
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La prima è la tesi di Ippia esposta nel Protagora di Platone; la seconda è la tesi di Callicle, interlocutore di Socrate nel Gorgia platonico: nella maggior parte dei casi, la natura e la legge sono tra loro in contrasto [...]. Ma chi codifica le leggi – io credo – sono gli uomini deboli e la massa. È a propria misura e a proprio tornaconto che essi codificano le leggi e attribuiscono i meriti e i demeriti. Poiché temono gli uomini più forti e coloro che sono in grado di dominarli, affinché non ottengano un effettivo dominio su di loro, vanno dicendo che è vergognoso e ingiusto sopraffare, ed è in ciò che consiste il commettere ingiustizia: nel tentativo di dominare gli altri [...]. Ma è la natura stessa – io credo – a mostrarci che è giusto se il superiore domina l’inferiore, se chi è più forte domina chi migliori e i più forti dei nostri uomini: li prendiamo fin da piccoli, come leoni, e li streghiamo e li incantiamo, così da renderli schiavi dicendo loro che bisogna mirare all’uguaglianza e che in base a questo consistono il bene e la giustizia. Ma se vi fosse – io credo – un uomo dotato di natura abbastanza forte, egli si scuoterebbe di dosso e spezzerebbe e fuggirebbe tutte queste catene, e si metterebbe sotto i piedi i nostri scritti e i sortilegi e gli incantesimi e tutte le leggi contrarie alla natura: s’innalzerebbe davanti a tutti quale nostro padrone, lui che era il nostro schiavo, e di qui risplenderebbe la giustizia della natura54.
Analogamente, in Hobbes il fondamento della concezione di sovranità è il potere assoluto di cui gode il sovrano, che si rende necessario alla luce dell’identità che intercorre tra stato di natura e violenza. È l’antinomia tra physis e nomos che costituisce, pertanto, il presupposto che legittima il potere assoluto del sovrano, il quale contiene in sé lo stato di natura, sopravvissutogli rispetto a quello che accade al resto della comunità, ed evincibile proprio in virtù del suo naturale ius contra omnes55. Il nomos di cui parla Schmitt, a un’attenta analisi, è necessariamente connesso con lo stato di natura e con lo stato di eccezione, per cui stato di natura e stato di eccezione si configurano come due facce di un unico processo topologico in cui ciò che era presupposto come esterno (lo stato di natura) ricompare ora all’interno (come stato di eccezione), e il potere sovrano è appunto questa impossibilità di discernere esterno ed interno, natura ed eccezione, physis e nomos. Lo stato di eccezione non è, cioè, tanto una sospensione spazio-temporale, quanto una figura topologica complessa, in cui non solo l’eccezione e la regola, ma anche lo stato di natura e il diritto, il fuori e il dentro transitano l’uno nell’altro» (ivi, 44).
54 G. Vinciguerra, Sulla sovranità della legge (nomos basileus). Riflessioni sulla legge, in www.freevillage.it, 11 giugno 2011. 55 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 42.
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Ci sono situazioni che, pur essendo diverse, hanno come punto di collegamento l’indistinzione tra norma e vita. Agamben cerca tali situazioni nell’area della bioetica, considerando la medicina dei trapianti: qui ci sono i neomorts, appena morti, che testimoniano quella che è l’implicazione tra nuda vita e potere. (ivi) Corpi il cui status rende il concetto di vivo o morto non più scientifico, ma politico. Il confine che separa questi due concetti è mobile e la posta in gioco è la loro ridefinizione. Per Agamben è ormai impossibile distinguere tra il vivere dell’essere vivente e il suo esistere di soggetto politico, indistinzione tipica dello stato d’eccezione. Egli ritiene che sia il campo il nomos del moderno. Esso nasce con lo stato d’eccezione, non più però riferito a una situazione esterna e provvisoria di pericolo fattizio, ma capace di confondersi con la norma stessa: «il campo è lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola» (ivi, 188). Esiste quindi un nesso costitutivo tra stato di eccezione e campo di concentramento. Quest’ultimo è un pezzo di territorio al di fuori dell’ordinamento giuridico normale, ma non per questo esterno. Con il campo, il sovrano non decide solo sull’eccezione, ma produce una situazione di fatto come conseguenza della sua decisione sull’eccezione. Ecco perché «il campo è un ibrido di diritto e di fatto, in cui i due termini sono diventati indiscernibili» (ivi, 190). L’essenza del campo consiste nella materializzazione dello stato di eccezione, che crea uno spazio in cui norma e nuda vita si compenetrano fino a diventare non distinguibili. Non è automatico che il campo sia caratterizzato da episodi truculenti o malvagi. Ogni volta che si crea una tale struttura, si è in presenza di un campo (come fu il vecchio “Stadio della Vittoria” di Bari, dove nel 1991 la polizia italiano concentrò una consistente massa di albanesi appena sbarcati, prima di rimpatriarli, o come fu il velodromo in cui il governo di Vichy ammassò gli ebrei prima di consegnarli ai tedeschi). In casi come questi, un luogo apparentemente anodino delimita in realtà uno spazio in cui l’ordinamento normale è di fatto sospeso e in cui che si commettano o meno delle atrocità non dipende dal diritto, ma solo dalla civiltà e dal senso etico della polizia che agisce provvisoriamente come sovrana (ivi, 195).
Così inteso, il campo è lo spazio politico della modernità, che nasce nel momento in cui entra in crisi il vecchio stato-nazione, quello che era determinato dai fondamentali tre fattori di territorio, ordinamento e nascita. Il nomos che lo caratterizza non è più il punto di intersezione di queste tre variabili, ma il punto in cui, al loro interno, va a iscriversi la nuda vita. Il campo è così lo scarto che si determina in seguito allo scollamento di nascita e statonazione. Il nuovo sistema politico che ne deriva 89
non ordina più forme di vita e norme giuridiche in uno spazio determinato, ma contiene al suo interno una localizzazione dislocante che lo eccede, in cui ogni forma di vita e ogni norma possono virtualmente essere prese (ivi, 197).
Agamben individua così nella forma “campo” il paradigma biopolitico dell’Occidente. Un Occidente che – a suo dire – non è mai uscito dalla modernità e dalle sue dinamiche escludenti divenute visibili a tutti nella prima metà del Novecento attraverso alcune forme della politica: la messa al bando del diverso che si manifesta attraverso la proclamazione dello “Stato d’eccezione” e, quindi, attraverso un processo di legittimazione istituzionale della logica inclusione/esclusione; la nuda vita come soglia di articolazione tra zoe e bios che, però, resta imbrigliata nelle trame del potere sovrano al punto da essere decisa essa stessa dallo stesso potere sovrano; il campo come forma e spazio sociale della modernità (ivi, 203). I campi (che siano i campos de concentraciones istituiti a Cuba nel 1896 presso cui venivano rinchiuse le popolazioni in insurrezione contro i coloni, i campi di custodia protettiva Schutzhaft della Germania nazista divenuti successivamente lager e, quindi, luoghi di sterminio per gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari, i testimoni di Geova etc. e le zones d’attente internazionali del presente, istituite prevalentemente nei luoghi di frontiera ma anche negli aereoporti o nelle stazioni ferroviarie, presso cui vengono trattenuti gli immigrati senza documenti) realizzano una conditio inhumana, esponendo cioè la “nuda vita” delle persone, connotate come pericolose. Ma se il campo è il paradigma biopolitico della modernità, la proclamazione dello stato d’eccezione né è l’origine governamentale56. I campi, allora, secondo Agamben, sono luoghi d’eccezione entro cui vengono chiuse figure sociali altrettanto eccezionali o eccedenti all’interno di uno stato di sospensione del diritto, così come accade durante la proclamazione dello stato d’eccezione. L’eccezione si manifesta sempre accompagnata da una legittimazione e cioè dalla “necessità” di dover mettere ordine nel caos giuridico e sociale creato dalle situazioni di emergenza le quali, per definizione, perturbano l’ordine dato. Anche se lo stesso Agamben arriva a sostenere la tesi secondo cui lo stato d’eccezione può divenire la norma e cioè lo stato della legge (ivi, 37), restano aperte alcune questioni. La forma campo, per quanto la si voglia considerare una tipologia di contenimento dell’eccedenza umana divenuta ormai la regola e la norma57, non può che assumere una connotazione di provvisorietà tale da restare legata inequivocabilmente a casi di emergenza e d’eccezione.
G. Agamben, Stato d’eccezione, cit., 11. Questa la tesi di F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Ombre Corte, Verona 2003, p. 14-17. 56 57
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La forma della legge La struttura del bando sovrano è ben rappresentata da Franz Kafka nella leggenda Davanti alla legge58, che espone la forma pura della legge, quella in cui essa si manifesta con più forza. Ricordiamo che, per Kafka, la legge è muta, non parla, né risponde. L’uomo è libero nell’osservanza della legge di Dio, ma si tratta di una libertà tragica. Perché Dio è (attraverso la legge) muto? Il libro di Giobbe ci fornisce una valida risposta: Dio è muto perché il suo silenzio è un segno della punizione che ha inflitto per la colpa dell’uomo. E K. (il protagonista de Il processo) è un uomo e come tale ha la colpa in sé radicata. La sua colpevolezza è quindi esemplare, ineluttabile. Per quanto si agiti, non può professare alcuna innocenza. Il processo a K. è la sfinge della legge, ciò che non traspare. Entrare in essa è impossibile: guardata a vista da una lunga fila di guardiani, la legge è inavvicinabile (come sa bene il contadino protagonista della leggenda di cui sopra, che tenta invano di avvicinarsi alla sua porta), pertanto incomprensibile. Esiste ma non può essere compresa: nel cercare quanto meno di intuirne il mistero, l’uomo non può altro che logorarsi in una infinita solitudine. L’impossibilità di conoscere la legge equivale (ed è emblematico ancora una volta il caso di K. nell’ultimo capitolo del Processo) all’impossibilità di acquisire un’identità. K. perde la sua identità e diviene una cosa inanimata. Cerca di opporsi alla sua fine, ma inutilmente: constata l’impossibilità di uscire dalla situazione, finisce per accettare la sua condanna e la fondatezza della sua colpa. Il processo di cui è vittima non è un processo che si svolge nell’ambito dello Stato: il processo è fuori dallo Stato come fuori dallo Stato è K., l’uomo comune che non può conoscere il contenuto intrinseco della legge positiva, “il volto brutale del potere”. Se nella scena finale K. è convinto della bontà della propria colpa, lo è perché finalmente ha osservato l’autorità, la legge, la giustizia. L’Uomo di Kafka è destinato a non salvarsi mai dal senso di smarrimento che prova a contatto con il mondo. Non esiste una forma, né una legge, ed è impossibile (in quanto umana) la ricerca della via. Molti tentano di intraprendere una via, che dovrebbe portare al diritto, ma circa la giustezza del loro cammino non trovano altra risposta che il silenzio. Al di là di queste affermazioni, tornando al tema cruciale del discorso, lo stato della legge nel romanzo di Kafka definisce il bando di cui il nostro tempo non è ancora in grado di sciogliere l’enigma: quello di una legge che vige, ma non significa. Oggi, osserva Agamben, tutte le società o culture vivono una crisi di legittimità. La legge non ha, infatti, altro fondamento che quello del “nulla della Rivelazione”. Esponendo il rapporto della violenza con il 58 Le considerazioni che seguono sono tratte dall’analisi di F. Sciacca in La legge nascosta. Il paradosso di Franz Kafka, in D. Corradini Broussard (c/ di), Miti e archetipi, cit., p. 495 s.
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diritto, e “deponendo” così quest’ultimo, Benjamin intravede le condizioni di possibilità di un’altra epoca del diritto, capace di aprire un varco verso quella nuova giustizia a cui alludono le formidabili pagine di Kafka. A questa minaccia Schmitt risponde nella sua Teologia politica formulando la teoria dello stato di eccezione fittizio, per la quale l’inclusione-neutralizzazione della violenza rivoluzionaria nel dispositivo dell’ordine avviene attraverso una violenza sovrana, la decisione, che sospende il diritto nel dispositivo temporaneo dello stato di eccezione. Nella ottava Tesi sul concetto di storia, Benjamin torna a opporsi alla replica schmittiana, sostenendo che quando «lo stato di eccezione diviene la regola» non può più «rendere applicabile la norma sospendendone in maniera temporanea l’esercizio», né così garantire il funzionamento dell’ordine giuridico come vorrebbe Schmitt. In questo modo Benjamin smaschera lo stato di eccezione mostrandolo per ciò che è: «una fictio juris che pretende di mantenere il diritto nella sua stessa ‘sospensione’ come forza di legge senza legge»59. Per l’autore delle Tesi, con il nazismo diventa definitivamente palese che eccezione e norma non sono più né temporalmente né spazialmente distinte. Lo stato di eccezione è ormai effettivo: violenza e diritto sono normalmente unificati entro «una zona di anomia in cui agisce una violenza senza alcuna veste giuridica». Nella kantiana Critica della ragion pratica, la legge è rappresentata come pura forma, presentandosi come volontà pura, né libera né non libera. In tal senso, la legge morale è imperscrutabile e chi si trova a vivere sotto una legge che vige senza significare, non deve adoperarsi altro che al suo semplice rispetto. Ma la vita sotto una legge che vige senza significare e scevra di qualsiasi contenuto non è forse la vita nello stato di eccezione? La risposta sembrerebbe affermativa. Avremmo a che fare con una legge che perde il suo contenuto e, cessando di esistere come tale, si confonde con la vita. Il contadino che cerca di accedere alla legge non compie tuttavia un’opera vana, perché da ultimo riesce per sempre a far chiudere la porta della legge, che fino ad allora, per quanto inaccessibile, era aperta. Novello Messia, egli adempie il suo compito fino in fondo, costringendo il guardiano a rendere effettivo lo stato di eccezione virtuale, ossia a chiudere la porta della legge. L’esperienza della legge, che è implicita nella vigenza senza significato, è evidente anche nella produzione filosofica di Nancy, il quale ne identifica la struttura ontologica come abbandono, inteso come «rimettere, affidare o consegnare a un potere sovrano, affidare o consegnare al suo bando, cioè alla sua proclamazione e alla sua sentenza» (ivi). Il nostro tempo riconosce la legge come suprema vigenza senza significato e la sovranità altro non è
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A. Simoncini, Giorgio Agamben: Stato di eccezione, cit.
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che «questa legge al di là della legge cui siamo abbandonati» (ivi). In Benjamin, pertanto, violenza e diritto sono legate da un nesso irriducibile. Con le sue parole: La funzione della violenza nella creazione giuridica è, infatti, duplice, nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che viene instaurato come diritto, come scopo, con la violenza come mezzo, pure – nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioè immediatamente, la violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto, col nome di potere, non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e necessariamente legato ad esso. Creazione di diritto è creazione di potere, e quindi un atto di immediata manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità divina, potere il principio di ogni diritto mitico.60
Nel saggio in esame, da cui è tratta la citazione, Benjamin introduce anche una terza figura: la violenza divina, che è in rapporto con lo stato di eccezione come lo è quella sovrana, ma con una differenza. Finché lo stato di eccezione si distingue dal caso normale, commenta Agamben, la dialettica tra violenza che pone il diritto e violenza che lo conserva non si disgiunge, mentre la violenza divina si situa in una zona in cui non è più possibile distinguere tra eccezione e regola, per cui essa «non pone né conserva il diritto, ma lo depone»61. Il portatore del nesso tra violenza e diritto è definito da Benjamin “nuda vita”. Essa intrattiene un rapporto col potere sovrano ma, in primo luogo, occorre dire che istituisce un rapporto di coesistenza col sacro. Nel pensiero mitico, infatti, sacro è «il portatore destinato alla colpa»62, appunto la nuda vita. L’origine del dogma della sacertà della vita si situa, in Benjamin come in Schmitt, nella “nuda vita” in quanto elemento che, nell’eccezione, si trova nella relazione più intima con la sovranità. Governo della legge e assicurazione della vita Quando la governamentalità liberale determina stati di squilibrio sociale, disfunzioni, costi e rischi, la biopolitica sviluppa tecniche di assicurazione e regolazione compensative. Studiando lo stato sociale, emerge un incremento parallelo delle tecniche di sicurezza sociale e delle pratiche di medicalizzazione: lo scopo è condurre le persone a cautelarsi attraverso previdenza e risparmio, a cautelarsi dagli infortuni e a prevenire le malattie ereditarie, familiari e ambientali attraverso norme igieniche ed eugenetiche. Il
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W. Benjamin, Per la critica della violenza, Edizioni Alegre, Roma 2010, p. 41. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 74. 62 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 75. 61
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New Deal è stato il massimo esempio di dispiegamento di dispositivi di governo e di intervento economico, all’interno di un sistema liberale. Secondo Francois Ewald, nella società biopolitica il vincolo si riduce al fatto che ciascuno costituisce un rischio per gli altri. In base al potenziale di rischio, si formano i gruppi, al cui interno, ognuno è monitorato (prima di nascere) e poi educato all’igiene, istruito, controllato nella dieta, nei consumi, negli eccessi. Per Ewald, il diritto si perde in un’eccedenza di processi, negoziati, convenzioni, mediazioni, continua revisione di regole, con attori pubblici e privati che variano e con le decisioni politiche affidate ai tecnici e poi comunicate al pubblico che non può discuterle. Il principio giuridico liberale della responsabilità va verso la “colpa senza responsabilità”63, dove il danno si risolve con il risarcimento assicurativo. Lo Stato sociale si accolla le responsabilità, liberandone i cittadini. Nella biopolitica liberale, gli apparati di sicurezza sono il «criterio per calcolare il costo di produzione della libertà»64. Se si guarda l’apparato assicurativo (che comprende quindi il concetto di rischio) come perno centrale, la questione sicurezza diventa l’elemento di continuità tra l’interventismo del Welfare e la de-regulation neoliberale. Nel liberismo avanzato, il rischio è prodotto e incentivato come fattore di imprenditorialità e segno di libertà65, prevederlo e regolarlo è compito degli individui; i cittadini sono stimolati a co-produrre il loro benessere e la loro sicurezza, cittadini che sono però resi plasmabili di fronte all’influenza di poteri strutturati come quelli dell’industria farmacologica (ivi). E qui si manifesta tutto il concetto di ambivalenza di Foucault, il verificarsi di una «passivizzazione del vivente, un svuotamento delle scelte sue cognitive e dei desideri, tutto suscitato e poi gestito da un potere persuasivo e una volontà di sapere, per conoscere e neutralizzare i rischi» (ivi, 69). La bioeconomia (risvolto della biopolitica) è un innesto strutturale e diretto dell’economia sulle dinamiche del vivente. L’unità psicofisica del vivente (le idee, emozioni, ricordi, cultura di gruppo) è «coinvolta direttamente in attività, a lungo pertinenti alla sfera vitale privata o della politica attiva, per le quali ci si subordinava al lavoro, ora commercializzate e valorizzate nel dispositivo del mercato» (ivi, 70). Paolo Virno66 evidenzia come in questo modello di produzione, ma anche sociale, il ruolo del general intellect sia determinante; la creatività generale è il punto di resistenza del nuovo biopotere economico. Virno sottolinea che, nel nuovo dispositivo del lavoro, a organizzarsi sarà l’intera soggettività umana, fisica, psicologica, culturale di ciascun individuo, che entrerà con il suo personale ‘capitale umano’ nella competizione 63
L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit. p. 68. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1779, tr. it., Feltrinelli, Milano 2005, p. 67. 65 L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit. p. 68. 66 P. Virno, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, Roma 2003, p. III s. 64
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del mercato. Tale capitale coincide con chi lo detiene e lo usa e non è separabile dal suo bios. È una macchina produttiva che «piega al capitalismo la sua energia desiderante»67, in quanto il desiderio, come scrive Foucault, è il motore segreto delle vite. Il lavoro, come capitale umano, è il nuovo dispositivo e crea un intreccio paradossale tra l’esaltazione del momento attivo e volontario dell’agire e dello scegliere e l’opacità di un sistema che non è quindi governabile68. Si pone tuttavia un problema: fin quando è possibile parlare genericamente di “vita”? È opportuno, chiaro, anche perché il discorso ci porta automaticamente verso un’altra suggestiva ipotesi: quella della politicizzazione della morte. Fu nel 1959 che alcuni studiosi francesi scoprirono l’esistenza dell’oltrecoma, diverso dal come profondo, dal coma vigile. Si tratta di uno stato in cui la conservazione della vita vegetativa e della vita di relazione sono del tutto compromesse. La scoperta fu sensazionale, perché apriva nuovi interrogativi circa la morte. Si muore solo quando si arresta definitivamente il battito cardiaco e cessa la respirazione? Se la risposta è affermativa, è lecito allora parlare di sopravvivenza nel caso dell’oltrecoma? L’enigma fu sciolto coniando il nuovo termine di “morte cerebrale”, di fatto una morte a tutti gli effetti, anche se il battito cardiaco è reso ancora presente dalle tecniche di rianimazione e, con esso, la respirazione. L’istituzionalizzazione di questa nuova forma di morte rese porosi i confini tra la medicina e il diritto. A partire da quel momento, vita e morte non furono solo concetti scientifici, ma divennero propriamente termini politici. È lecito “uccidere” l’oltracomatoso? Quanto della sua figura ricorda l’homo sacer? L’interrogativo è ancora aperto, ma non stupisce che nel novero dei partigiani più accesi della morte cerebrale e della biopolitica si trovino coloro che invocano l’intervento dello stato, l’istituzione chiamata a decidere.
67 Deleuze G., Guattari F., L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002, p. 344 s. 68 L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit., p. 71.
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Storia della Medicina Antica & Epistemologia delle Scienze Umane Questa “rubrica tematica” è dedicata in primo luogo alla ripubblicazione delle opere di Paola Manuli in accordo con la Associazione Paola Eliana Manuli — per lo studio della Storia della Medi-cina Antica e dell’Epistemologia delle Scienze Umane (PEM). Ma essa è già, e resterà, aperta a qualsiasi collaborazione competente su queste materie, la storia delle quali tocca l’attualità e reca indelebile il segno dell’antica paideia.
Silvia Gastaldi presenta due testi di Paola Manuli. (II°)
Il secondo di questi contributi dedicati da Paola Manuli alla ginecologia antica compare nel 1981 in: Memoria. Rivista di storia delle donne, ed è dedicato a Sorano, un medico di origine greca, che vive a Roma nel I secolo d. C.: Elogio della castità. La ginecologia di Sorano. Benché la sua opera sia stata molto conosciuta e letta nel corso dei secoli, Sorano occupa certamente una posizione minoritaria nell’ambito di quella che Paola definisce “l’ortodossia della ginecologia greca” e che è legata fondamentalmente ai testi ippocratici, ad Aristotele, a Galeno; tuttavia l’interesse per questo personaggio è legato proprio alla singolarità, se non addirittura al paradosso delle sue posizioni. L’adesione di Sorano alla filosofia epicurea fa sì che, da una parte, i corpi, tanto quello maschile quanto quello femminile, siano valutati sulla base di criteri quantitativi – in conformità appunto alla dottrina atomistica – e non qualitativi, e che, su questa base, si possa prospettare l’uguaglianza tra i sessi e di conseguenza la non esistenza di patologie specificamente femminili; dall’altra, tuttavia, questo rovesciamento dei canoni tradizionali è ostacolato
Vedi nel precedente n. 21 del MAG, il I° saggio dal titolo: Fisiologia e patologia del femminile negli scritti ippocratici dell'antica ginecologia greca.
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dal presupposto che renderebbe possibile non solo l’uguaglianza, ma anche la perfetta salute di uomini e donne, e cioè la riproduzione. Sorano insiste sul danno apportato al maschio dal coito, in quanto il seme non è più interpretato come residuo da espellere, ma come alimento da trattenere, e parallelamente, e per la stessa ragione, dei mestrui per quanto riguarda la donna. Riguardo a questa, di conseguenza, la gravidanza si prospetta come dannosa, allo stesso modo del parto. Ne scaturisce il privilegiamento della totale castità e, per quanto riguarda le donne, di quelle figure che, nella ginecologia “ortodossa”, sono individuate come patologiche, e cioè le vergini e le donne ormai non più fertili, cui si aggiungono tutte quelle altre tipologie femminili – dalle atlete alle cantanti – che non presentano mestruazioni. Nell’elogio della castità di cui Sorano si fa portavoce si avverte chiaramente la matrice epicurea del suo pensiero: l’epicureismo, infatti, sostiene che il saggio non si sposerà né avrà figli, per non vedere turbata la propria atarassia sia da rapporti interpersonali spesso conflittuali, sia per le insidie insite nei piaceri sessuali. D’altro canto, però – e in questo risiede il paradosso – la sua ginecologia si pone al servizio delle esigenze della società in cui vive (in particolare del ceto senatorio romano), al fine di delineare le migliori condizioni affinché la donna sia madre e riproduttrice della specie e della famiglia. Così, pur partendo da presupposti totalmente “altri”, Sorano approda a quelle stesse conclusioni cui era giunta la ginecologia tradizionale, e cioè a riconoscere in quello della donna un corpo malato, la cui prima patologia è la gravidanza, a individuare nella donna mascolina la donna sana, proprio perché assimilabile al modello maschile.
Paola Manuli, Elogio della castità. La Ginecologia di Sorano Si crede comunemente che la ginecologia antica sia ormai estinta, disattivata. La logica delle rivoluzioni scientifiche, del superamento progressivo degli ostacoli epistemologici, vorrebbe infatti che questa arcaica forma di sapere sul corpo della donna, ingenua e carica di pregiudizi, troppo densa di livelli metaforici e troppo vicina al senso comune, sia divenuta ormai incommensurabile con l’immaginario scientifico contemporaneo. I teorici della purezza epistemologica direbbero che di essa nessun contenuto può essere ormai tradotto e riformulato negli schemi del sapere attuale sul corpo femminile. Tuttavia, se i contenuti della ginecologia classica non sono più riscrivibili e il loro valore non corrisponde più ai criteri intersoggettivi Pubbl. in: “Memoria. Rivista delle donne”, n. 3, presso Rosenberg & Sellier, Torino 1981, p. 39-49. Il prof. Alfredo Marini (titolare dei diritti sulle opere di P.E.Manuli), ringrazia il primo editore del testo.
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dell’obbiettività, ci accorgiamo che qualcosa continua comunque a sopravvivere nelle nostre rappresentazioni del femminile – pensiamo soltanto alla connotazione e all’uso non psicoanalitico del termine “isterica” – e nella cultura orale di alcuni ginecologi, in certe eziologie, in certe terapie falliche di sicuro effetto consigliate con un breve ammiccare alle pazienti ancora nubili. Molti valori della ginecologia classica vengono dunque ancora oggi riproposti, e il prototipo di molti discorsi sul corpo della donna è tuttora rappresentato dai testi ippocratici, platonici, aristotelici, galenici che contengono l’archeologia di un immaginario femminile oggi ancora irrisolto. Un residuo passivo, di quelli che si chiamerebbero “ideologici”, che continua a turbare la linearità dei discorsi scientifici. Un residuo depositato proprio nel senso comune, inspiegabilmente arretrato e inattuale, che appare però ben più costante nel tempo rispetto alle antiche teorie della ginecologia greca: quelle, estinte per davvero. La ginecologia greca, un sapere che si snoda a partire dal V secolo a. C. sino al II d. C., è connotata da un inconfondibile stile culturale, e se le teorie subiscono le sorti alterne della fortuna, gli stili godono invece di una notevole stabilità. Descriveremo perciò la permanenza di alcuni elementi formali, che hanno contribuito in passato a strutturare sia il sapere mitico che il sapere scientifico, e che hanno molto condizionato la biologia del femminile, lasciando di sé tracce indelebili. Parleremo di Sorano, uno dei più famosi ginecologi dell’antichità, greco trapiantato a Roma, vissuto nel I secolo d.C. La Ginecologia di Sorano è un testo classico nella storia della medicina e della biologia antiche, che in fatto di permanenza nell’orizzonte scientifico e di permeabilità nel senso comune non ha quasi l’eguale: la Ginecologia, redatta in greco nel I secolo d.C., venne dapprima parafrasata in latino nel VI secolo da un certo Muscio, altrimenti ignoto. Questa parafrasi, dedicata alle levatrici, venne nuovamente tradotta in greco in epoca bizantina. Fu conosciuta nel mondo arabo attraverso Paolo di Egina, e il manuale di Muscio, redatto nella forma semplificata del catechismo, fu assai popolare nel medioevo. L’ultima traduzione latina della Ginecologia risale al 1793. Considerata la fortuna di questo testo, non è affatto sorprendente che alcuni contenuti rappresentativi e ideologici in essa contenuti, e i valori che essa riflette, abbiano potuto sedimentarsi perfettamente nell’ambito della cultura occidentale. Se cercassimo le ragioni più probabili del successo di Sorano in un arco così ampio di secoli, dovremmo certamente individuarle negli atteggiamenti mentali, nei principi e regole metodiche che lo resero facilmente assimilabile in ambiti scientifici tanto diversi e cronologicamente distanti fra loro: la nota polemica contro la superstizione e le pratiche magiche (Temkin, p. 7, 165), il rifiuto delle rappresentazioni fantastiche dell’anatomia femminile (Temkin, p. 152), il diffuso buon senso e la ragionevolezza 99
delle sue prescrizioni (Temkin, p. 82) testimoniano di un rigoroso razionalismo. Infine, l’apertura filantropica con cui si introduce al suo pubblico ci restituisce di lui un’immagine gradevole e positiva, di onesto professionista del mondo antico, il quale ebbe tra l’altro il merito di dedicare un manuale alle levatrici che ebbe tanto peso nella storica lotta alla superstizione e all’ignoranza (delle donne). Eppure questa iconografia classica di Sorano non coincide minimamente con quanto della Ginecologia si è perfettamente sedimentato nel nostro immaginario. Quella descrizione vagamente agiografica ci porterebbe fuori strada, mentre la figura di Sorano si costruisce soltanto per contrasto, a partire dall’immagine della tradizione per così dire “ortodossa” della ginecologia greca. Cioè quello spazio di sapere sul corpo delle donne tracciato dalla sequenza ormai mitica e secolare di personaggi famosi come Ippocrate, Platone, Aristotele, Erofilo, Erasistrato, Galeno. Si tratta di una scienza con un regime di notevole stabilità dottrinale, in cui l’invenzione, soprattutto quella metaforica, è sempre più scarsa mano a mano che si procede nel tempo. Essa contiene una vera e propria tipologia fondatrice dell’immaginario biologico femminile, che identifica la donna nella sua determinazione anatomica sessuale e comunica nel suo linguaggio un’esperienza del corpo altrimenti ineffabile. Organizza cioè matrici, metrai incoercibili amorfe e proliferanti, che silenziosamente perseguono il proprio destino biologico, in un linguaggio sensato che interrompe ogni fluttuazione semantica sottraendole alla simbolizzazione mitica e religiosa. Questo non significa tuttavia che ci troviamo ora nel luogo della purezza denotativa, in cui il solo valore dei testi biologici sulla riproduzione sta nella specificità dell’apparato scientifico e tecnico. Anzi, questi stessi testi continuano a veicolare sensi che esorbitano la loro determinazione linguistica e lessicale, connotazioni che generano doppi sensi e rendono ambigua la comunicazione. L’utero è pensato come un animale, lo sperma come escremento, il mestruo simultaneamente come nonseme e come analogo della secrezione seminale. Si potrebbe continuare. Per poter essere definito, il corpo femminile si metonimizza con quello dell’utero, e la sua conoscenza è resa possibile soltanto grazie a questo sguardo mutilante, a questa esclusione che intrappola il corpo in una rete riduttiva che diviene la verità onnivora e onnicomprensiva di tutto il “femminile”. All’utero che rappresenta il femminile si applicano due metaforizzazioni essenziali: una agricola e una ferina. Utero-terra che accoglie il seme e produce frutto, utero-animale che brama solo di riprodursi, sordo ai comandi della ragione. Entrambe le metafore risalgono, com’è noto, nella loro forma definitiva a Platone, il quale convoglia nel Timeo i valori fondamentali della ginecologia ippocratica. Attraverso di esse venivano simbolizzate le due grandi categorizzazioni del femminile: le madri da un lato, le isteriche dall’altro. Nella metafora agricola, che imponeva il modello 100
dell’aratura e della fecondazione dall’esterno, veniva convogliata una teoria della riproduzione da cui era ovviamente esclusa qualsiasi ipotesi partenogenetica. Tale ipotesi, o fantasia, o illusione, nasceva dal fatto che la mancanza dell’utero nel maschio rendeva empiricamente meno accertabile e meno evidente il suo apporto riproduttivo. L’idea partenogenetica, di cui non possiamo esibire documenti testuali nella biologia, se non a partire da Aristotele, ha certamente agito come idolo polemico nella formazione di un sapere biologico sul femminile e ne possiamo spiare i segni nei testi aristotelici sulla riproduzione: si dice che le cavalle possano essere fecondate dal vento, che la jena sia ermafrodita, che tutti i pesci siano femmina, che i cefalopodi e i crostacei godano di una generazione agamica. Alla partenogenesi corrisponde probabilmente, in un altro ordine del discorso, il mito dell’età dell’oro, in cui la terra produceva spontaneamente i propri frutti, senza semina e aratura, e in cui l’analogia terra-donna si configura secondo uno statuto diverso rispetto a quello del potere fallico nella generazione. Nella metafora ferina, che istituisce l’equazione di maternità e salute, confluisce invece tutto il versante negativo della femminilità, l’eziologia di tutti i mali che insorgono nel rifiuto del ruolo materno. I due livelli metaforici, quello agricolo e quello ferino, producono cosi il valore simbolico essenziale del femminile: corpo, materia, nutrimento, irragionevolezza, malattia. Una rete di significati da cui rimane escluso quello di “sperma”: non producendo sperma la femmina è quindi impotente, incompiuta, passiva, fredda, strutturalmente malata, strutturalmente isterica. Il coito, la gravidanza, il parto, sono tutte pratiche apotropaiche nei confronti dell’isteria, lo scatenarsi dell’animale selvaggio, la migrazione dell’utero all’interno del corpo che interferisce con l’attività degli organi vitali e produce soffocamento, afonia, paralisi, con una sintomatologia fra le più complicate e le più mimetiche. Dell’isteria il coito è farmaco assoluto. Sorano rimette in discussione proprio questi valori, tutte queste determinazioni del femminile che contrassegnano il percorso della ginecologia classica. Egli rappresenta una voce minore nell’archeologia dell’immaginario femminile, ma forse una delle più importanti. Il particolare interesse della ginecologia di Sorano nasce dal fatto che soltanto qui, e per la prima volta, nel percorso del sapere biologico sulla specie, compaiono i presupposti teorici per un’omogeneità strutturale di maschile e femminile. Viene istituito infatti nientedimeno che il fondamento dell’eguaglianza tra i sessi. La teoria fisica dell’atomismo, a cui Sorano aderisce, è un potente traduttore di codici, di grande portata semplificatrice, che permette una nuova lettura dello spazio del corpo. Rispetto alla sua rappresentazione aristotelica, il corpo femminile viene ora indagato secondo criteri metrici e non qualitativi, ciò che rende possibile una omogenea considerazione delle strutture anatomiche sia maschili che femminili. 101
Nel dotto articolo di Kind, nella Pauly-Wissowa, è scritto che Sorano, come tutti i medici metodici, non acconsente alla convenzione di fare dell’anatomia lo strumento fondamentale per la lettura del corpo. A differenza della biologia classica, quella aristotelica come quella galenica, i cui fondamenti filosofici sono essenzialmente omogenei, la dottrina metodica rifiuta di fermarsi alle macrostrutture, organi e apparati, e preferisce il semplice al complesso. Con procedimenti razionali di tipo ipotetico scopre dunque alla base di tutta la realtà fisica gli atomi e il vuoto, collocandosi così su di un versante filosofico minoritario, atomistico, democriteo ed epicureo. Le aggregazioni più complesse vengono lette come determinazioni e specificazioni fisiologiche e anatomiche di principi materiali elementari, e anche i corpi maschili e femminili, una volta tradotti nel codice fisico saranno indifferentemente aggregazioni più o meno dense di atomi e di vuoto. La diretta conseguenza di questo riduzionismo concettuale è che non esistono differenze essenziali tra gli uomini e le donne, e i loro corpi condividono una patologia comune. Non esistono, in una parola, le “malattie delle donne” come categoria patologica separata dalle altre, come un principio differenziale che condanni il femminile a una maggiore morbilità (Temkin, p. 128, 132). Per comprendere l’originalità e il valore assolutamente rivoluzionario di tale conclusione non bisogna dimenticare che le “malattie delle donne” erano un topos classico della letteratura medica, avvalorato e giustificato dal fatto che la natura femminile è essenzialmente inferma, perché i corpi delle donne sono più freddi, più umidi, più porosi e più flaccidi di quelli maschili. Tuttavia, ancor prima che l’eguaglianza dei sessi venga esplicitamente tematizzata, anzi ancor prima di essere accolta a un livello di consapevolezza teorica, nascono subito le difficoltà. L’eguaglianza viene negata nel momento stesso in cui è dichiarata: la differenza tra maschile e femminile scomparirebbe se, e solo se, da entrambe le parti si sapesse rinunciare alla reciproca differenza sessuale. In altre parole, abdicando al proprio istinto riproduttivo. Una umanità asessuata dove i maschi e le femmine potrebbero essere perfettamente sani e perfettamente simmetrici. Il coito è dannoso, dice Sorano, perché provoca una perdita di seme, e cioè una sottrazione di materia nutritiva. Lo sperma infatti conserva in Sorano una connotazione esclusivamente alimentare e non assume mai quella di «residuo», che comporta al contrario la necessità di una sua eliminazione, al pari di tutti gli altri residui, come l’urina e le feci. Il rapporto sessuale, che produce in tutti debilitazione, non giova perché danneggia e indebolisce il corpo senza offrire alcun vantaggio: (1. III, cap. 29: Ilberg, p. 113; Temkin, p. 154).
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Per la stessa ragione la gravidanza è sempre nociva. La condizione ottimale per i maschi e per le femmine è una vita ascetica condotta nella verginità perpetua e nella completa astinenza dai piaceri sessuali. Noi diciamo che la verginità permanente è salutare, dato che in generale l’accoppiamento è nocivo, come si è ampiamente dimostrato nell’Hygieinōn. Vediamo infatti che anche fra gli animali irrazionali sono più forti le femmine a cui si impedisce il coito, e fra le donne sono più immuni da malattie quelle che rinunciano al matrimonio per la regola legata al culto degli dèi, e quelle che sono per legge costrette a mantenere la verginità. Le difficoltà nella purificazione mestruale, l’obesità smisurata, nascono dalla pigrizia e dalla mancanza di movimento del corpo; dato che molte di quelle che così conservano la verginità mantengono una stretta clausura, non partecipano agli esercizi fisici necessari né agli esercizi passivi e al beneficio che ne proviene, perciò sono preda dei disturbi di cui parlavamo. Ragione per cui la verginità perpetua è salutare così nei maschi come nelle femmine, mentre l’accoppiamento è probabilmente coerente con il generale principio della natura secondo cui, in vista della continuità, i due generi preservano la perpetuazione degli animali. (1. I, cap. 32: Ilberg, p. 21-22; Temkin, p. 29-30).
Alla domanda, perfettamente giustificata nell’orizzonte scientifico in cui si colloca Sorano, se la catarsi mestruale sia utile o no al corpo femminile, Sorano risponde negativamente: I primi (coloro che affermano l’utilità della catarsi) dicono dunque che la natura è sollecita degli uomini: vedendo che i maschi eliminano il residuo con gli esercizi fisici, mentre le donne lo accumulano in quantità per il fatto di condurre una vita sedentaria e chiusa fra le mura domestiche, preoccupandosi che queste non corressero pericolo, escogitò di eliminare il residuo per mezzo della purificazione mestruale. (...) A costoro bisogna dire che la provvidenzialità della natura è controversa, e la sua determinazione più difficile rispetto a ciò che ora si cerca, sia perché, se si preoccupa degli uomini, può misurare gli appetiti così che essi non assumano più alimento del giusto, sia perché può evitare che il residuo si produca. È proprio della natura infatti espellere provvidenzialmente il superfluo; di questa stessa è proprio anche prevenire la produzione di materia residua. Se dunque la purificazione è provvidenziale, la natura l’ha escogitata non per la conservazione della salute, ma per la riproduzione. (1. I, cap. 27-28: Ilberg, p. 17-18; Temkin, p. 23- 24).
La catarsi mestruale non è dunque «purificazione», secondo un codice escrementizio, ma “sottrazione” (Ilberg, p. 30) secondo un codice alimentare. Il valore della salute si trova soltanto nell’assenza di mestruo, e riguarda perciò esclusivamente quelle figure femminili che si collocano al di fuori della logica riproduttiva.
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Bisogna dire che quanto alla salute la catarsi è dannosa a tutte, benché il malessere sia più sensibile nelle più cagionevoli, mentre in quelle che hanno un corpo più robusto il suo danno è meno evidente. Vediamo che la maggior parte delle donne che non hanno catarsi sono più energiche, come quelle mascoline e quelle sterili. Nelle donne che hanno superato la maturità il fatto di non avere più catarsi non danneggia per nulla la loro buona salute; tutt’al contrario, l’interruzione del flusso sanguigno fa deperire la maggior parte di quelle più delicate. Inoltre le fanciulle non ancora mestruate dovrebbero avere minor salute: se invece esse godono di un perfetto benessere, la catarsi non è mai utile alla salute, ma solo alla procreazione dei figli. Senza catarsi infatti la concezione non avviene. (1. I, cap. 29: Ilberg, p. 19; Temkin, p. 26-27).
Le fanciulle impuberi, le donne che hanno ormai trascorso la menopausa, quelle senza mestruo come le mascoline, le atlete, le cantanti (Temkin, p. 19) sono le uniche figure femminili che si sottraggano ai pericoli anche mortali della gravidanza e del parto. Gravidanza e parto che vengono rappresentate come una vera devastazione dei corpi femminili (Temkin, p. 27). Il collo dell’utero si allunga (Temkin, p. 10), l’orifizio diventa calloso (Temkin, p. 11), e gli accoppiamenti stessi vi producono deformazione (Temkin, p. 15). La gravidanza porta con sé atonia, atrofia, vecchiaia precoce (Temkin, p. 41-42), disseccamento, perdita di colore, febbre (Temkin, p. 89). La frivola società romana del I secolo, quella dell’aristocrazia in cui Sorano sembra trovare la propria clientela, è popolata di fragili madri che non conoscono l’arte della puericultura (Temkin, p. 115) e di nutrici di lingua greca destinate a far sì che la bellezza e la giovinezza di queste ultime non sfioriscano prematuramente, che i loro corpi non divengano completamente emaciati a causa dello sfruttamento eccessivo che l’allattamento produce (Temkin, p. 90). La metafora agricola agisce qui in funzione terroristica: la terra appare esausta dopo la riproduzione (Temkin, p. 90). Il tema stoico della provvidenzialità della natura è distorto: la vera provvidenzialità è quella della technē medica, e la presenza dei ginecologi, indice e spia delle malattie femminili (Temkin, p. 129) è resa necessaria dalla cecità degli individui che si fanno strumento della perpetuazione della specie. Ma l’istinto sessuale è imposto da un ordine naturale che stranamente e sorprendentemente coincide con l’ordine sociale. Riproduzione biologica e riproduzione sociale si identificano, e tutto il patologico che nasce dalla maternità viene convalidato e quasi gratificato dall’adempimento di una necessità sociale e politica che corrisponde all’istituto matrimoniale e che comporta la legge economica della trasmissione ereditaria dei beni. La ginecologia di Sorano è un singolare esempio di come si possa agire e fare teoria nella contraddizione più palese. Elabora un sapere sul femminile (e sul maschile) ispirato all’ideale di rinuncia al mondo che corrisponde al modello tipico della secessione epicurea: la dissidenza e il ritiro come 104
pratiche della pace e della serenità corrispondono infatti al rifiuto del turbamento sessuale e alla raccomandazione di una verginità perpetua. Contemporaneamente però questo sapere si rende pienamente funzionale alla richiesta della struttura familiare, la quale se ne attende una prestazione professionale al servizio della riproduzione e della produzione sociale. La ginecologia di Sorano, pur non identificandosi affatto con questo compito – essa vi si dedica quasi controvoglia, come se si trattasse di ripristinare la salute laddove questo fine viene perennemente frustrato – accetta comunque di gestire le funzioni sessuali e riproduttive del femminile. Si tratta infatti di un sapere profondamente e tradizionalmente organico alla società, al di fuori della quale esso smetterebbe di esistere nelle sue strutture canoniche, e muterebbe radicalmente la ragion d’essere dei ginecologi. La ginecologia di Sorano si propone infatti uno scopo immediatamente pratico: identificare la buona fattrice, la buona nutrice, la buona levatrice. Come la veterinaria, a cui si associa per il continuo richiamo alla norma del mondo animale (Temkin, p. 27, 30, 94), essa si piega al compito, politico e naturale insieme, di una regolamentazione e di una selezione riproduttive. Come un individuo che diviene inconsapevolmente strumento della specie, anch’essa, collocandosi all’incrocio di nomos e di physis, sceglie la fattrice, la levatrice, la balia, l’epoca dell’accoppiamento e del matrimonio (Temkin, p. 30). Si incunea nelle necessità più elementari della famiglia, mentre il suo interesse e le sue cure vorrebbero essere unicamente rivolte ai corpi femminili. Sullo sfondo del divenire, in cui spiccano la nascita e la morte, il turbamento continuo, il saggio epicureo – con cui Sorano si identifica continuamente – preferirebbe una tendenza entropica all’atarassia. Cioè la morte della specie. Gli epicurei ritengono che il saggio non debba innamorarsi (...) sostengono che l’amplesso non giova mai, c’è da contentarsi che non nuoccia. (Diogene Laerzio X, p. 118-119).
Se alla natura si comanda soltanto divenendone padroni, lo strumento con cui dominare il patologico che nasce in margine alle funzioni riproduttive sarà rappresentato soltanto dal sovvertimento dell’ordine e della norma naturali. Il sapere di Sorano dovrebbe dunque funzionare per la morte e per l’estinzione, il vero trionfo della technē. Ma l’oggetto biologico è tale da resistere all’entropia e alla degradazione, e così anche la pratica della ginecologia è costretta a derogare dalle sue scelte ideologiche preliminari, dalle condizioni igieniche prescritte dal suo sapere, e a concedere al coito una sua particolare legittimità. Ambiguamente diviso tra pagano e cristiano, tra etica classica e morale epicurea, ma totalmente devoto e funzionale alla aristocrazia senatoria in cui verosimilmente si trova a operare, Sorano afferma che le nozze non avven105
gono per “lussuria” ma per i figli e la discendenza. Sarebbe assurdo informarsi sulla nobilità e sulla ricchezza della sposa senza accertarsi che essa sia in grado di concepire (Temkin, p. 32). Questo è appunto enunciato come il compito del ginecologo e della maia, sua figura subalterna. Al riconoscimento della fecondità della futura sposa si associa presto una generale regolamentazione di tutta la vita sessuale femminile, un’aspirazione al totale dominio tecnico sul corpo dell’utero. L’essenza del femminile viene individuata in un organo inessenziale per la vita (Temkin, p. 13), l’utero appunto, che intreccia legami simpatetici con le mammelle, lo stomaco, le meningi (Temkin, p. 13, 7, 148, 120). L’utero metonimizza il femminile con l’ormai tradizionale identificazione di femminile e materno: nel metalinguaggio dell’etimologia metra è colei che «rende madri» (Temkin, p. 8). Dell’arcaica rappresentazione ferina l’utero conserva il senso del tatto (Temkin, p. 9) e l’essere immagine del corpo (Temkin, p. 32), un doppio che però sembra aver perduto tutto il suo valore simbolico nella rappresentazione dell’isteria (Temkin, p. 203, 152): Biasimiamo poi tutti coloro che per esempio percuotono la parte infiammata e che producono il torpore attraverso effluvi di cattivi odori. Infatti l’utero non striscia fuori dalla propria tana come un animale, allettato da odori gradevoli e respinto da quelli disgustosi, bensì si sposta per la costipazione dovuta all’infiammazione. (1. III, cap. 29: Ilberg, p. 113; Temkin, p. 152).
Il biasimo di Sorano si estende anche a coloro, e sono molti, che nei casi di prolasso «fanno odorare sostanze profumate, mentre applicano all’utero fumigazioni opposte, ritenendo che l’utero, come un animale, rifugga i cattivi odori e invece si volga verso quelli gradevoli» (1. IV, cap. 36 (85): Ilberg, p. 149- 150; Temkin, p. 203). Eppure anche in Sorano, benché egli neghi recisamente la sua natura ferina, l’utero conserva ancora qualcosa dell’animale selvaggio e incarna la resistenza passiva del corpo femminile a ogni forma di volontà e di razionalità. L’utero si assoggetta sempre alle necessità della riproduzione, indipendentemente dal consenso e dall’opportunità. L’orifìzio si dilata nel desiderio di ricevere il seme (Temkin, p. 10), e la fecondazione è qualcosa di ineluttabile che solo la frustrazione del desiderio, la frigidità che diverrà un contrassegno del femminile, possono evitare. Il concepimento infatti non si verifica senza orexis, e il desiderio compare persino nelle donne che subiscono una violenza sessuale (Temkin, p. 36). È il corpo a cedere, ed è più forte di ogni decisione (krisis) e di ogni atto di volontà. Il corpo, il corpo dell’utero, è dominato unicamente dalla frigidità, da una totale e prolungata astinenza che dopo molti anni di castità produce una modificazione anatomica permanente, il collasso del collo dell’utero, che si ritira proprio come accade ai genitali maschili nel caso analogo (Temkin, p. 31). Esiste un regime appropriato della frigidità, che riduce al silenzio gli 106
organi della generazione così che essi mutino natura e insieme si modifichi anche tutto il corpo. Sorano classifica diversamente dai suoi predecessori i corpi femminili: nelle donne mascoline, nelle atlete, nelle cantanti non vi è nulla di non codificato, di mostruoso, di patologico. Tutte si iscrivono nell’ordine del fisiologico. Il loro mutamento di status sessuale, i cui sintomi sono la sospensione del mestruo, l’aspetto, i costumi, il modo di vita, ha un fondamento nell’eccessiva attività che favorisce un mutamento nella generale complessione dei loro corpi. Qualora esse desiderino avere figli, possono in qualunque momento riacquistare le caratteristiche femminili seguendo un opportuno regime di vita. Esiste infatti, e non ci stupisce ormai, anche un regime del femminile (Temkin, p. 133-134-135) che rispetta e anzi favorisce la connotazione essenzialmente passiva delle (vere) donne. La terapia della femminilità consiste nel dedicarsi alle attività domestiche più comuni, nel fare il pane, portare acqua, pulire il grano, occuparsi della casa. Questo almeno è il regime delle balie (Temkin, p. 97), che può essere opportunamente convertito, qualora si tratti di donne che dispongono di una servitù, in moderati esercizi del corpo, in esercizi passivi e riflessivi come dondolarsi, farsi condurre in carrozza, movimenti oscillatori e sussultori che ben si addicono alla passività stessa del femminile. La rinuncia al movimento violento del corpo si identifica dunque con la rinuncia all’emancipazione dallo spazio domestico, a una scomoda assimilazione al maschile in una cultura fisica che comporterebbe sì la perdita della femminilità ma anche il vantaggio della libertà dalla riproduzione. Purtroppo però – e questo sembra essere il senso complessivo del discorso di Sorano – nelle donne come negli uomini l’istinto riproduttivo è come un impulso masochistico che erotizza le tendenze distruttive facendole confluire nella nascita del desiderio, il principio di ogni decadenza fisica e poi di forzate astinenze. L’istinto riproduttivo reca come conseguenza nuove e sempre rinnovate umiliazioni della carne: dai metodi anticoncezionali alle mille privazioni delle gravide, delle madri e delle stesse nutrici, costrette all’occorrenza a tradursi in farmaco per il neonato seguendo un regime appropriato alle sue malattie (Temkin, p. 126; Temkin, p. 50, 48, 90, 99). È notevole ad esempio l’effetto di frustrazione prodotto da una delle prime prescrizioni anticoncezionali di Sorano: una sorta di “coitus interruptus” al femminile (Temkin, p. 63), di estremo sadismo, che fa della rinuncia al piacere la garanzia della sterilità. La ginecologia di Sorano indica la radice di un modo ancora oggi assai diffuso di vivere la contraccezione e l’aborto (Temkin, p. 63, 65-66). L’aborto è ammissibile soltanto qualora vi sia un grave rischio per la madre, messo al bando in tutti gli altri casi non solo per la sua pericolosità ma anche
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per ragioni etiche e di deontologia professionale. Soprattutto non va praticato quando il figlio sia stato concepito nell’adulterio o quando la donna se ne voglia liberare per ragioni estetiche: Alcuni bandiscono gli abortivi chiamando a testimone Ippocrate che dice: non somministrerò a nessuno un abortivo. Dice ancora che il compito della medicina è salvare e prendersi cura di ciò che la natura produce. Altri invece li prescrivono con una distinzione, dicono cioè che gli abortivi non si devono dare quando ci si vuole liberare di un figlio concepito nell’adulterio, e neppure quando si vuole abortire per salvaguardare la bellezza, (li prescrivono) bensì se si vuole prevenire il pericolo che si verificherebbe nel portare a compimento la gravidanza, quando l’utero è piccolo e non potrebbe arrivare al termine, oppure perché sul collo dell’utero ci sono dei condilomi o delle ragadi o tutte le volte che è implicata una simile difficoltà. Dicono le stesse cose anche degli anticoncezionali, con le quali anche noi siamo d’accordo. (1. I, cap. 60: Ilberg, p. 45; Temkin, p. 63).
Il testo di Sorano mobilita qui un codice morale che ci riporta per analogia al rumore delle recenti crociate del movimento per la vita: ma se la continuità della specie non rappresenta un valore, come Sorano più volte sottolinea, questa sua filantropia sottilmente ipocrita, questa sua deontologia professionale in aperta contraddizione con le assunzioni ideologiche sulla non provvidenzialità della natura, non possono che suggerirci una strisciante misoginia, direttamente proporzionale alla forza dell’ideale ascetico. Il saggio non dovrà sposarsi né avere figli, come dice Epicuro nei Casi dubbi e nei libri Sulla natura. Se si sposerà lo farà solo in circostanze particolari della vita. In certi casi poi se ne asterrà di proposito. (Diogene Laerzio X, 119).
Dopo tutto questo, e nonostante che Sorano affermi che le donne non hanno pathē ma solo erga, non malattie proprie ma solo attività fisiologiche chiamate gravidanza, parto, fare latte (Temkin, p. 128-32), è estremamente difficile non riconoscere proprio nella gravidanza la prima ed essenziale malattia del genere femminile. In verità, nel femminile il non-patologico corrisponde soltanto a quel versante mascolino o emancipato in una forma di professionalità che si colloca al di fuori della tempesta riproduttiva, nella quiete dello stato verginale e religioso, nella vedovanza, nella sterilità, nella vecchiaia, nell’omosessualità. Il presupposto atomistico ed epicureo che sembrava destinato ad annullare le differenze tra maschile e femminile non ha agito in questo senso e non ha sovvertito gli altri elementi di quell’immaginario scientifico a cui Sorano attinge. Il suo progetto igienico ed egualitario segnala una sconfitta, è ostacolato dalle funzioni riproduttive, linguaggio del corpo che non pensa e che si oppone alla razionalità della scienza. E cosi la
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posizione del femminile continua anche qui, come nella ginecologia classica, a essere quella di una maggior debolezza, perché le attività riproduttive, gli erga delle donne che si sommano ai pathē della specie nel suo complesso, non fanno che ostacolare la provvidenzialità della tecnica. Non il femminile potrebbe dunque essere sano, ma il mascolino. Non il corpo naturale che subito diventa vecchio grasso atonico atrofico, ma il corpo – mostruoso nella ginecologia classica – delle donne emancipate, liberate dall’ambito domestico come dai costumi di vita femminili. Tutte rappresentate in una funzione professionale: oltre alle atlete, le cantanti, le vestali, Sorano attribuisce doti e virtù maschili anche alle levatrici: di mezza età, è importante che non possano più divenire madri. Le loro caratteristiche fisiche e intellettuali sono inequivocabilmente maschili (Temkin, p. 3-6). Il corpo naturale è un’amplificazione dell’utero bramoso del coito e della riproduzione, e che si riproduce a dispetto di una tecnica che si vorrebbe predisposta unicamente per il suo benessere. La normalità sociale della madre e della moglie non coincidono affatto, e tautologicamente, con la norma della salute. Il corpo femminile può essere sano, ma senza utero, bello ma senza figli, forte ma senza mestruo, sapiente e vuoto come quello delle levatrici. Il corpo sano e mascolino è artificiale come la tecnica e il regime che lo producono. Persegue la sua atarassia nel ritiro da ogni istinto vitale. Sorano è all’origine di un modo che sarà tipicamente cristiano di simbollzzare la sessualità, e non soltanto la sessualità femminile. È all’origine dell’abbandono di una morale biologica pagana, dove le pratiche sessuali equivalevano alle pratiche igieniche. Con lui continua la lenta elaborazione di un’ideologia che apparterrà soprattutto al cristianesimo, della mortificazione del corpo nella esaltazione della castità. La malattia che nasce dalla riproduzione potrà essere tradotta nel binomio causale di colpa e di espiazione, un ordine lineare rappresentato ad altri livelli dai molteplici conflitti che nascono intorno alla specificità anatomica del maschile e del femminile. Nel nostro immaginario Sorano corrisponde al luogo di condensazione di una profonda censura del corpo e del desiderio, immagine riflessa di quel rovescio della ginecologia classica che per molti versi ancora ci appartiene e che projetta la sua ombra su ogni rappresentazione pagana e vitale della sessualità.
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Bibliografia. Su Sorano si vedano la R.E. Pauly-Wissowa, art. Soranos (Kind), 1929, col. 11131130 e L. Edelstein, The 'Methodists' in 'Ancient Medicine', Baltimore, 1967, p. 17391. II testo della Ginecologia di Sorano è edito nel Corpus medicorum graecorum da I. Ilberg, Sorani Gynaeciorum libri IV, Lipsiae et Berolini in aedibus B. G. Teubneri 1927. Ne esiste una traduzione in lingua inglese curata da O. Temkin, Gynecology, Johns Hopkins Press, Baltimore 1956. Per tutti quei temi che nel corso dell’articolo vengono soltanto accennati faccio riferimento a un lavoro di imminente pubblicazione presso l’editore Boringhieri dal titolo La malattia femminile nella ginecologia antica, in cui si segue un arco diacronico da Ippocrate a Galeno. Sui molteplici problemi connessi alla ginecologia antica segnalo una bibliografia essenziale G. Baader, Spezialärzte in der Spätantike, “Medizinhistorisches Journal”, II, 1967, p. 231-38. S. Campese – S. Gastaldi, La donna e i filosofi: archeologia di un’immagine culturale, Zanichelli, Bologna 1977. S. Campese, Madre materia. Donna, casa, città nell’antropologia di Aristotele, Boringhieri, Torino 1983; M. Detienne, Potagerie de femmes ou comment engendrer seule, “Traverses”, V-VI, 1976, p. 75-81. P. Diepgen, Die Frauenheilkunde der alten Welt. Handbuch der Gynäkologie, XII, Iª ed. W. Stoeckel, München 1937. H. Fasbender, Entwicklungslehre, Geburtshilfe und Gynäkologie in den hippokratischen Schriften, Stuttgart 1897. E. Fehrle, Die kultische Keuschheit im Altertum, Giessen 1910. W. GerIach, Das Problem des weiblichen Samens in der antiken und mittelalterlichen Medizin, “Archiv für Geschichte der Medizin”, XXX, 1938, p. 177-93. J.-J. Goux, Materia, differenza dei sessi, “Vel”, 1975, p. 2-101. P. Herfst, Le travail de la femme dans la Grèce ancienne, Utrecht 1922. C.M. Horowitz, Aristotle and Woman, “Journal of History of Biology”, IX, 1976, p. 183-213. L. Irigaray, Speculum, Feltrinelli, Milano 1975. R. Joly, Le niveau de la science hippocratique, Paris 1966. H. Licht, Sexual Life in Ancient Greece, London 1969. N. Loraux, Le lit, la guerre, “L’homme”, XXI (1), 1981. N. Loraux, Sur la race des femmes et quelques-unes de ses tribus, “Arethusa”, XI, 1978. P. E. Manuli, Donne mascoline, femmine sterili, vergini perpetue: la ginecologia greca tra Ipposcrate e Sorano, in: AA.VV., “Madre materia”, Boringhieri, Torino 1983. D. Nickel, Ärztliche Ethik und Schwangerschaftsunterbrechung bei den Hippokratikern, NTM, IX, 1972, p. 73-80. D. Nickel, Berufsvorstellungen über weibliche Medizionalpersonen, in der Antike, “Klio”, LXI, 1979, p. 515-18.
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A. Rousselle, Observation féminine et idéologie masculine: le corps de la femme d’après les médecins grecs, “Annales E. S.C.”, 5,1980. W. Schoenfeld, Frauen in der abendländischen Heilkunde vom klassischen Altertum bis zum Ausgang des XIX Jahrhunderts, Stuttgart 1947. H.-J. von Schumann, Sexualkunde und Sexualmedizin in der klassischen Antike, München 1975. G. Sissa, Il corpo della donna. Lineamenti di una ginecologia filosofica, in: AA.VV., “Madre materia”, Boringhieri, Torino 1983. G. Sissa, La Pizia delfica: immagine di una mantica amorosa e balsamica, “aut aut”, 184-85, luglio 1981. S. Vegetti-Finzi, Topologia della sessualità e cancellazione del femminile, “aut aut “, 177-78, maggio-agosto 1980. M. Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari, donne alle origini della razionalità greca, Il Saggiatore, Milano 1979.
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FILOSOFIA E TEOLOGIA
Luigi Ceccarini, Esiste una morale cristiana? Cristianesimo, morale e santità.
La Teologia non ha come suo oggetto la moralità dell’agire umano. Essa invece è una riflessione sulla salvezza dell’uomo completamente gratuita (per grazia), e quindi è una riflessione sull’azione di Dio; si tratta di “teologia” cristiana, e non di comportamenti umani. Come sarebbe possibile che la teologia, la scienza che si occupa di Dio, si interessi dell’agire dell’uomo? Non sarebbe questo discorso sul comportamento umano una svalutazione del compito nobilissimo di glorificare degnamente Iddio? Il teologo deve cercare di intendere correttamente la divina auto-rivelazione e deve renderla sempre attuale per ogni generazione. È per questo che distingueremo nettamente tra “morale” (parte della filosofia e del tutto umana) e santità (che deriva dalla nostra figliolanza divina). Se Dio ci giudicasse secondo le norme della nostra morale borghese o proletaria, o di qualunque altro genere, sarebbe uno di noi e non il Dio onnipotente e creatore d’ogni bene. La morale è un agire del tutto umano e non riguarda di per sé il rapporto con Dio, nostro Padre. La “santità” è la somiglianza con Dio nell’agire, mentre l’uomo inteso come specie animale/ spirituale può, anzi deve, avere una “morale”, ma solo perché è un “animale di gruppo” e deve obbedire ad alcune poche regole dettate dal gruppo stesso (regole che sono state formulate e messe alla prova durante i millenni dell’evoluzione). In una sintesi perfetta “agere sequitur 113
esse”: siamo uomini, perciò ci comportiamo da uomini; siamo animali di branco, perciò ci comportiamo secondo regole che chiamiamo “morali”; siamo stati redenti (siamo “figli” del Dio vivente, del Santo), perciò ci comportiamo da santi. Questa è la via del cristiano. Paolo ci dice: voi siete già figli di Dio, perciò cercate di vivere secondo la vostra vera identità, quella divina (I Tess. 2,12). Il messaggio, la vita che chiamiamo cristiana, o l’Evangelo è questo: “Mediante le morte e la resurrezione di Gesù, il Dio creatore ha sconfitto la potenza della morte, di modo che la vita nel suo mondo nuovo, nella nuova creazione, nell’alba del nuovo giorno, sia già anticipata nella vita di coloro che sono stati afferrati dall’evangelo e che sarà portata a compimento al ritorno del Messia. Allora i morti risorgeranno e i viventi saranno trasformati di modo che tutto il suo popolo, liberato (salvato) dall’estrema corruzione, partecipi della gloria di cui egli già gode”.1
L’Evangelo è il messaggio della lieta notizia che il Dio creatore ha sconfitto per sempre il potere del peccato e della morte; ci ha trasformati a immagine del figlio suo, Gesù, e perciò noi dobbiamo amarci a vicenda esattamente come Gesù ci ha amato, fino alla morte. La “libertà nello Spirito” di cui ci parla Paolo, soprattutto la libertà dalla Legge, e la nullità di tutte le opere “Non è mai per Paolo un incentivo ad alzare le spalle e ad aspettare passivamente l’intervento divino della salvezza finale, ma piuttosto a fare nel presente quelle cose che propriamente anticipano e quindi conducono alla futura eredità stessa” (ivi, p. 270).
Dio ci potrebbe obbligare moralmente o prescrivendoci una Legge (come la Torah, la Sharia, eccetera) oppure iscrivendo una Legge nella nostra costituzione fisica (sia biologica che razionale). Ma è possibile che sia così? La morale è un tema che riguarda il comportamento dell’uomo di fronte all’altro uomo, al gruppo in cui vive; non è, se non di riflesso, un tema che riguarda il comportamento dell’uomo di fronte a Dio. Dio è ben altro e ben superiore ad un giudice inflessibile: Egli è il “Grazioso”, colui che concede la grazia, colui che predestina, e, come segno di questa predestinazione (predestina sempre al bene, alla vita, mai alla morte e al peccato) Egli si dà a conoscere e noi lo serviamo amandoci ed amandolo sopra ogni cosa. La legge morale invita e vieta; l’etica teologica invece ha un solo scopo: che noi ci possiamo amare come Dio ci ama; che ci comportiamo come santi, perché Lui è santo. 1
Wright N.T., Risurrezione, Claudiana, Torino 2006, p. 265.
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Dio vuole che “tutti” gli uomini siano salvi, e questo fatto rende “impossibile” la dannazione di un gran numero di uomini; per questo nessuno è predestinato alla morte eterna. Agostino, nella sua grandezza, si ingannò nella lettura di Paolo. Dio non può volere la salvezza di tutti gli uomini, e predestinarne alcuni alla salvezza e tutti gli altri alla dannazione. Si contraddirebbe. Vedremo più avanti come sia possibile che la vita etica, che riguarda il gruppo umano, possa avere un rilievo anche nei riguardi di Dio. Noi, come anche Dio, se vogliamo attuare un piano futuro, cominciamo ad attuarlo; cioè il primo nell’attuazione è sempre l’ultimo nell’intenzione. Se voglio scrivere qualcosa debbo per prima cosa procurarmi della carta e un mezzo per scrivere; dovrò anche decidere cosa scrivere, in quale alfabeto, con quale lunghezza, rivolgendomi a quale lettore, eccetera. Così anche Dio: ha deciso ‘prima’ della nostra creazione di chiamarci tutti alla Sua gloria. Poi ha creato tutte le cose visibili e invisibili, tra cui anche l’uomo/ donna, poi è sempre intervenuto a guidarci e con amore di padre a redimerci affinché il suo progetto si realizzasse. All’interno della Chiesa cristiana sappiamo, perché ci è stato rivelato dal complesso della vita, della predicazione, della morte e resurrezione di Gesù e dalla predicazione degli Evangelisti e degli Apostoli (comprendendo i vari compagni di Paolo e tutti gli aiutanti di ogni Apostolo a qualsiasi titolo), sappiamo in cosa consiste il retto atteggiamento, che non chiamerei morale, ma piuttosto un fare/ operare filiale (nel senso del “fare”, non del “credere” o pensare; il credere o il pensare sono indifferenti al cospetto di Dio, mentre è il fare, il comportarsi concreto, ciò che conta). Ci baseremo prevalentemente sulle Lettere dell’Apostolo Paolo, perché è quello che ha sviluppato maggiormente la straordinaria distinzione tra il comportamento umano, che deve sempre essere guidato dalla giustizia e dall’amore verso tutti, e che è insito fin da principio nel cuore dell’uomo (a prescindere dalla salvazione) e l’azione della redenzione o della salvezza, che deve essere attribuita totalmente a Dio, per mezzo del Cristo, e mai all’uomo, che non potrà mai gloriarsene. Vedremo che la morale umana che l’Apostolo descrive è prevalentemente un riconoscersi sempre e comunque “peccatori”, cioè sempre manchevoli in quell’amore verso l’altro uomo in cui consiste la vera “morale rivelata e umana”. La conclusione sarà che saremo sempre in ogni caso virtuosi e peccatori: cercheremo il bene, ma lo compiremo sempre imperfettamente rispetto all’ideale d’amore proposto dal comandamento nuovo. Questo non deve però esimerci, come ci invita l’Apostolo, a impegnarci per fare sempre la volontà di Dio. È opportuno procedere per passi successivi. Il primo passo sarà quello di constatare che il Nuovo Testamento non contiene una “legge” morale, ma contiene dei “consigli” (che noi chiamiamo evangelici), il cui scopo è quello 115
di esemplificare ciò che ci si attende dal comportamento dei cristiani: fare sempre la “volontà di Dio”. Il Padre, la cui volontà e la cui azione ci dovrebbe essere da guida, è il Signore che fa piovere sui buoni e sui cattivi, è il Signore che fa più festa per il peccatore che torna alla casa del Padre, che non per chi ci è sempre restato; è chi fa splendere il sole su tutti. Egli è “Il Padre veramente santo e fonte di ogni santità”; Egli è la fonte e la sorgente dell’amore, di tutto l’amore, di ogni amore. “Colui che ama il suo fratello, dimora nella luce e nessun ostacolo è in lui. Ma chi odia il suo fratello è nella tenebra, cammina nella tenebra, e non sa dove va, perché la tenebra ha accecato i suoi occhi.” (1 Jo., 2, 10-11) E Paolo: “Non siate debitori di nulla a nessuno, fuorché dell’amore scambievole, perché chi ama il prossimo, ha adempiuto la legge. Infatti i comandamenti: ‘Non commettere adulterio, non ammazzare, non rubare, non desiderare’, e tutti gli altri, si compendiano in queste parole: ‘Amerai il prossimo tuo, come te stesso.’ L’amore non fa del male al prossimo. Il compimento della legge è dunque l’amore.” (Rom., 13, 8-10)
Si comprende come noi saremmo tenuti, per la fede che ci è donata, all’amare il prossimo come noi stessi; ad amare ogni prossimo, chiunque sia nostro prossimo (e la sfera del prossimo la si dovrà ampliare fino alle estreme regioni del mondo reale e possibile). Il nemico da cui guardarsi è “mammona” (il vero nome e l’essenza del Satana). Mammona è il denaro, è il potere dell’uomo sull’uomo, è tutto ciò che schiavizza l’altro uomo; in una parola sola è l’idolatria, l’adorazione di un falso dio, l’assunzione di disvalori, che vengono assunti al rango di valori comuni e approvati. È il peccato del mondo, adoratore di Mammona, del maligno, del satana, del Male (come recitiamo nel Padre nostro: “liberaci dal Male”). È impressionante constatare con quale vigore venga invocata vendetta (travestita da giustizia) anche da battezzati che magari recitano il Padre nostro dov’è l’invocazione “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Debiti significa peccati, ma significa anche debiti in senso proprio. Quale misericordia si aspettano coloro che invocano una giustizia retributiva? Costoro sono la vergogna delle chiese. Paolo è stato chiarissimo a questo riguardo nella 1 Corinti 6, 1-9 e, come se non bastasse, anche nella lettera ai Colossesi (Col. 3, 12-16). È mammona la sete di vendetta perché crede che lo scopo del mondo non sia la gloria di Dio ma il “mio” diritto. L’adorazione dell’io coniugato in tutte le forme possibili è l’origine del desiderio di denaro, di potere, di ogni “rivalità” tra gli esseri umani.
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Per questo ci sono stati donati dei consigli evangelici. Essi non sono delle Leggi positive (emesse da una Autorità che obbliga, e perciò “leggi”) ma sono delle guide che esemplificano e facilitano la scelta concreta dell’amore. I consigli sono stati donati per permetterci di comprendere meglio il nostro ruolo mondano. Amare come Dio ama. Questo perché, come scriveva De Lubac: “Quando alcuni Padri e più ancora certi medievali, numerosi, dicevano che ‘l’immagine’ che è in noi, è fatta per la ‘rassomiglianza’ divina, e che, in conseguenza, dobbiamo passare dalla ‘dignità dell’immagine’, ricevuta al momento della ‘prima creazione’, alla ‘perfezione della rassomiglianza’, ‘riservata per la consumazione delle cose’”
– pensavano a una somiglianza anche negli obblighi della vita morale: siate santi perché Io sono santo”.2 Un comandamento radicale come questo è di difficile interiorizzazione. Siamo troppo rozzi (siamo un popolo dalla dura cervice, almeno quanto lo era Israele durante l’esodo). Occorreva esemplificare, consigliare; il consiglio rende più sensibile e visibile anche a noi l’esigenza che l’Amore fontale ci richiede. Il secondo passo consiste nel considerare che Gesù si è incarnato ed è morto e risorto non per insegnarci una morale, né per condannare qualcuno, ma per salvare tutti (“Per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo”). Soltanto alcune pochissime citazioni neotestamentarie occorrono, perché nessuno tra i cristiani dubita minimamente di questa verità. Il Vangelo secondo Giovanni ci dice: “Infatti Dio ha tanto amato il mondo, che ha sacrificato il suo Figlio Unigenito, affinché ognuno che crede in lui, non perisca, ma abbia la vita eterna.” (Jo., 3, 16). Gesù stesso ci dice nel Vangelo secondo Matteo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, e Io vi darò completo riposo” (Mt., 11, 28). Nella sua prima lettera, Giovanni scrive: “E se qualcuno avesse peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto. Ed egli è vittima espiatrice per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per tutto l’universo” (1 Jo., 2, 1-2). San Paolo, poi, nella prima lettera a Timoteo scrive: “È cosa certa e degna di essere accettata da tutti, che Cristo Gesù è venuto in questo mondo a salvare i peccatori, del quale il primo sono io” (1 Tim., 1, 15). L’incarnazione non ci ha mondati solo dal peccato originale originato, ma da tutti i peccati, al plurale. Dunque anche dai nostri personali peccati quotidiani e straordinari. Non abbiamo più nulla da pagare o da scontare. L’idea che il perdono divino consista di due passaggi: il perdono vero e proprio e la ingiunzione di una pena adeguata al danno da noi peccaminosamente provocato (concezione che deriva dal diritto romano) non si regge, 2
De Lubac H., Il mistero del soprannaturale, Il Mulino, Bologna 1967, p. 52.
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alla luce della Rivelazione. La teoria della pena da scontare portò alla teoria delle indulgenze. L’idea delle indulgenze ha ormai rivelato tutta la sua carica di “pia” menzogna. Le indulgenze erano nate per motivi legati alle persecuzioni imperiali nell’antichità; nell’Antichità, cessate le persecuzioni dovevano cessare anche le indulgenze stesse, invece si trasformarono nella sciocca idea della “riparazione” (non solo nel mondo presente, ma anche per i defunti) di un torto già perdonato, ma ancora gravante sul reo. Occorre ritornare alla concezione evangelica che la morale, dal punto di vista teologico, è la morale dell’amore (meglio dire forse dell’agape o della carità, se quest’ultima non avesse assunto il cattivo significato di “elemosina”); occorre richiamare alla mente l’immagine che Gesù ci dà nella parabola del Figlio prodigo, che quando ritorna alla casa paterna non trova un Padre incattivito e che gli riserva, oltre al perdono, una penitenza riparatrice, ma trova invece tutta la paterna sollecitudine e tutto l’amore che egli credeva perduto. Ascoltiamo Karl Barth: “La dottrina paolinica della salvazione rimaneva trasferita su di un piano di suprema astrazione, al di là di ogni dato psicologico, sociologico, storico, al di là della ‘esperienza religiosa’, della ‘mistica’ come della osservanza ortodossa e legalistica; una realtà inafferrabile, non intuibile, riposante in ultima analisi sopra un giudizio divino, chiuso nella sua trascendente oggettività e inaccessibile agli uomini: la stessa “salvazione per fede”, fonte di tutta la pietà protestante, si trasferiva senza residui su quel piano oggettivo divino”:
le parole di Paolo (Rom., 1, 17): ‘Il giusto vivrà per la sua fede’, erano rese da Barth in una forma oggettiva: “Il giusto vivrà per la fedeltà di Dio” 3. Come ci ha insegnato questo grande teologo, l’etica non ci interessa direttamente. Noi stiamo esaminando una tematica “teologica”; è un argomento che riguarda Dio, anche se non in se stesso, ma “economicamente” in rapporto con l’uomo. Con questo non si afferma che non esista una morale umana, una morale naturalmente autonoma e non eteronoma o teonoma. Essendo noi un animale di gruppo, politicamente organizzato è evidente che dovremo avere delle regole che riguarderanno il comportamento sociale e comunitario dell’uomo: a questo comportamento non diamo però un valore teologico. La morale umana che scaturisce dalla razionalità e dal linguaggio dell’uomo è “presupposta”, è sottostante, ai motivi che portano alla nostra salvezza che procede soltanto da Dio. Altrimenti trasformeremmo il Dio della gloria in una specie di contabile che annota tutte le entrate e le uscite 3
Barth K., L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano1962, p. 81-89.
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(o tutto il bene e il male) e alla fine, al momento del giudizio, si limita a fare la somma e a regolarsi di conseguenza. Il potere reale spetterebbe all’uomo e la giustizia divina sarebbe simile a quella umana. A ognuno sarebbe dato, in questo caso, quello che avrà autonomamente meritato. L’impegno etico del cristiano deve essere quello dell’amore agapico. È l’impegno più difficile, perché ci sono mille e mille modi per non amare veramente eppure esser certi di non aver odiato; per questo l’impegno etico del cristiano, pur non sopprimendo il dono della Grazia divina, deve essere perseguito con tutte le forze e le energie umane. Karl Barth afferma: “La grande impossibilità della giustizia di Dio si pone come un ostacolo assoluto appunto sulla via di questa, apparentemente così possibile, possibilità di una precedente o consecutiva giustizia umana. È impossibile gloriarsi di qualsiasi cosa che sia precedente o consecutiva, che sia prima o dopo l’attimo (che non è un attimo nel tempo), in cui viene suonata l’ultima tromba, in cui l’uomo, nella sua nuda umanità, sta davanti a Dio ed è rivestito della giustizia di Dio” (ivi, 83).
La morale delle chiese si è orientata piuttosto in senso contrario: si è sempre teso a ricostruire una Lex (sia canonica, che naturale, divinamente comandata) che valesse nella nuova economia, e questo pur avendo prima distrutto la Legge contenuta nell’antica Torah; l’osservanza minuziosa del fariseismo è divenuta così equivalente all’osservanza minuziosa della cosiddetta “teologia morale” ecclesiastica. Abbiamo detto però che l’uomo come animale deve avere una morale. E ciò per due motivi. Perché non sarebbe una persona umana (e cioè un animale dotato di linguaggio e quindi destinato a comunicare e a convivere con altri uomini; convivenza che significa comportamento atto a non offendere); l’uomo dovrà perciò avere una capacità morale, in parte innata e in parte storica. Un animale che vive insieme ad altri animali e che parla, deve rispettare delle norme sociali evoluzionisticamente predisposte, pena la sua non sopravvivenza. Questa non può essere una considerazione d’ordine teologico, ma rientra nel piano delle scienze dell’uomo. Il piano teologico invece non riguarda soltanto la vita umana sulla terra, ma il suo destino eterno, tutto interamente nelle mani dell’Onnipotente. Questo piano non è d’ordine morale, il suo nome è “salvazione”. Gesù ci libera dalla morte (perché ci precede nella risurrezione, nella vita nell’eone che verrà) e liberandoci dalla morte ci libera dal peccato che della morte è la causa. Questa teologia dei due eoni è stata da tempo abbandonata ma occorre recuperarla. I primi cristiani, con Paolo, credevano che l’economia della salvezza consistesse di due eoni (grandi tempi, di un tempo non temporale) 119
il presente eone era dominato da potenze e forze negative (chiamiamole demoniache se vogliamo). L’uomo non aveva da combattere solo contro la carne e il sangue, ma contro tutte queste potenze che tenevano in schiavitù tutti gli uomini e tutta la creazione. Attendevano l’eone futuro (escatologico o della fine della storia, non del mondo) in cui il Cristo vittorioso avrebbe vinto tutte le potenze ostili e avrebbe sottomesso a Sé tutte le cose. Allora il Cristo avrebbe consegnato tutta la realtà a Dio e Dio sarebbe stato tutto in tutte le cose. Scrive Paolo: “L’ultimo nemico che sarà distrutto è la morte... E quando avrà assoggettato a Lui tutte le cose, allora anch’egli, il Figlio, si sottometterà a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia il tutto in tutte le cose.” (1 Cor. 15, 28)
Si è invece passati a una teologia che interpreta i due eoni in senso traslato e spirituale quasi il primo fosse questo “mondo” corruttibile mentre l’altro fosse l’altro mondo, cioè il “paradiso”. In questo modo si trasforma il cristianesimo in una fede ultramondana che poco ha a che fare con le realtà terrene. Il cristiano vive invece nel mondo e ha la piena responsabilità di questo mondo. Scrive un Autore contemporaneo: “La fede, che qualifica la soggettività del cristiano, non può andare disgiunta dalle opere; essa non consiste infatti (e non può consistere) in un’adesione astratta a un patrimonio di verità o di valori, ma nel coinvolgimento esistenziale nel rapporto con Dio, che conferisce un nuovo orientamento alla vita e alle scelte umane”.4
Si noti come l’Autore scriva che la salvazione “non può consistere in un’adesione astratta a un patrimonio di verità”; questo è un fraintendimento tra la fede “in” cui crediamo (che è un complesso di verità) e la fede “per mezzo della quale” crediamo (che è l’abbandono fiduciale al Dio inaccessibile). È certo che nessun “dogma” ci può salvare; e tutti i dogmi sono delle “verità astratte” che non salvano nessuno. Ma non di questa fede parliamo come è ora riconosciuto dallo Accordo cattolico-luterano sulla dottrina della giustificazione, firmato il 31 Ottobre 1999 ad Augusta. Citerò alcuni passaggi di questo importantissimo documento che mette pace tra cattolici e luterani almeno su questo tema. “Insieme confessiamo che l’uomo viene giustificato nella fede nell’evangelo, ‘indipendentemente dalle opere della legge’ (Rom.3, 28). Cristo ha portato a
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Piana G., L’agire morale, Cittadella, Assisi 2006, p. 26.
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compimento la legge e l’ha superata quale via alla salvezza mediante la sua morte e risurrezione.” (Consenso, n. 31) “Insieme confessiamo che le opere buone – una vita cristiana nella fede, nella speranza e nella carità – seguono la giustificazione e sono frutti della giustificazione. Quando il giustificato in Cristo vive e agisce nella grazia ricevuta, porta, con linguaggio biblico, buoni frutti” (n. 37). Considerando le opere buone del cristiano come ‘frutti’ e ‘segni’ della giustificazione, non come propri ‘meriti’, essi intendono la vita eterna, secondo il Nuovo Testamento, un ‘premio’ immeritato, nel senso di un compimento della promessa di Dio fatta ai credenti” (n. 39)
Appare dunque chiaro che la vita che segue alla grazia, alla giustificazione, è una vita che dà frutti nello spirito e che essa consiste nella fede, nella speranza e soprattutto nella carità: cioè nell’amore del prossimo come segno dell’amore verso Dio. Nel linguaggio medioevale agere sequitur esse. Vediamo alcune testimonianze dalle Scritture. “Benedetto sia Iddio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il quale (Dio) ci ha benedetti nelle sedi celesti con ogni benedizione spirituale in Cristo, come in lui ci aveva eletti prima ancora della fondazione del mondo, affinché fossimo santi e immacolati dinnanzi a lui nell’amore, predestinandoci all’adozione di figli suoi per mezzo di Gesù Cristo, secondo il beneplacito del suo volere, a lode della sua grazia, di cui ora ci ha gratificati nel suo Diletto, nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione delle cadute secondo la ricchezza della sua grazia, che abbondante (Dio) riversò su di noi con tutta sapienza e prudenza, facendoci noto il mistero della propria volontà secondo il suo beneplacito, che egli aveva prestabilito in se stesso, da dispensarsi nella pienezza dei tempi, cioè: ricapitolare tutte le cose nel Cristo, quelle nei cieli e quelle che sono sulla terra, in lui, per cui divenimmo eredi (di Dio), predestinati per disposizione di Colui che tutto opera secondo il consiglio del suo volere, affinché fossimo in lode della sua gloria” (Ef., 1,3-12).
Nella seconda lettera ai Corinti Paolo scrive: “Se uno è in Cristo, egli è una creatura nuova: le cose vecchie sono passate, ecco, sono diventate nuove. Tutto però è da Dio, che ci ha riconciliati con se stesso per mezzo di Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione, sicché era Dio, che in Cristo si riconciliava il mondo, non imputando più agli uomini i loro errori e affidando a noi il messaggio della riconciliazione”. (2 Cor., 5, 17-19).
C’è una differenza tra gli stessi peccati. Il peccato di chi “crede” e pone la sua fiducia nell’Onnipotente, è ben diverso dal peccato di chi si pone con noncuranza nei confronti di Dio, e magari neppure ne riconosce l’azione. Il
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peccato del credente è sempre dinnanzi agli occhi del peccatore, egli grida a Dio, e Dio lo ascolta e lo salva. Come recita il salmista: “Lavami tutto dalla mia colpa/ e rendimi puro dal mio peccato,/ perché riconosco le mie iniquità/ e il mio peccato mi sta sempre davanti” (Ps. 51, 4). Scrive Paolo:
“Non so infatti quello che faccio, poiché non faccio quello che voglio ma faccio quello che odio. Ora, se io faccio quello che non voglio, convengo con la Legge che è buona. Dunque non sono più io che agisco, ma il peccato che abita in me. Io so che il bene non abita in me, cioè nella mia carne, poiché il volere il bene mi sta davanti, ma il compierlo no. Infatti io non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio” (Rom., 7,14-19). E conclude Paolo: “Infelice che sono. Chi mi libererà da questo corpo della morte? Grazia a Dio, per Gesù Cristo, Signor nostro. Dunque, io stesso, con la mente sono servo della legge di Dio, ma con la carne a quella del peccato”(Rom., 7, 25).
E prosegue: “Non c’è dunque ora nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. La legge infatti dello spirito di vita in Cristo Gesù, mi ha liberato dalla Legge del peccato e della morte” (Rom., 8, 1-2).
Paolo descrive qui vividamente la triplice schiavitù cui siamo assoggettati per il fatto di essere degli “animali”; mentre con la ragione illuminata dalla fede comprende che la vita vera è solo nell’amore di Cristo, il nostro volere segue invece un interesse fondamentalmente egoistico. Dal punto di vista biologico noi abbiamo un cervello limbico, la parte più antica comune a tutti gli animali che presiede agli istinti basilari, come l’istinto di sopravvivenza anche a scapito di tutti gli altri. Poi l’evoluzione ci ha dotato di una corteccia cerebrale che ci permette di essere razionali e di controllare, almeno in parte, tutti gli istinti. Tra queste due parti del cervello c’è quasi una lotta, come ce la descrive perfettamente Paolo. Il peccato non è però il frutto della creazione (l’essere degli animali dipende dalla creazione); il peccato è immergersi “totalmente” nella creazione, nel mondo e rifiutarsi di invocare con fede/ fiducia la salvezza che Gesù ci ha portato; non riconoscere che la volontà del Padre è che tutti gli uomini siano salvi, non per merito nostro, ma per grazia. Che significato avrebbe la grazia, se ci salvassimo solo per merito nostro?
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“Infatti se fossero eredi quelli che si basano sulla Legge, la fede sarebbe vana e la promessa sarebbe senza alcun valore” (Rom., 4, 14).
Ancora: “Per grazia, infatti, siete stati salvati, mediante la fede; ora, tutto questo non viene da voi, ma è un dono di Dio; e neppure è frutto di opere, affinché nessuno si possa gloriare. Siamo, infatti, opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù, per compiere le opere buone che Dio ha predisposte, affinché noi le praticassimo” (Ef., 2, 8-10).
Tutti i salmi ripetono questa realtà: Dio perdona a chi con fiducia si rivolge a Lui. Del resto la perfezione di Dio che noi saremmo chiamati a ripetere è troppo alta perché noi vi possiamo aspirare con successo: essa rimane una “utopia” che serve a riconoscersi peccatori, anche se ci potremmo considerare dei giusti; nessuno è giusto, fuorché il Signore nostro Gesù il Cristo. Questo vale, sia ben chiaro, all’interno e solo nell’economia della Chiesa cristiana (solo i battezzati debbono divenire santi perché immersi nel Santo). La chiesa è infatti la comunità dei redenti. Essa non deve essere la totalità delle genti, ma è come un lievito. È la natura sacerdotale della chiesa, di tutti i fedeli, di essere i testimoni nel mondo di come si dovrebbe vivere secondo la volontà di Dio. Per questo la chiesa dovrebbe non accumulare denaro, potere. Dovrebbe mostrare tutta la misericordia divina, tutta la comunione di beni materiali e spirituali, come ci mostra la lettura di Atti per la chiesa di Gerusalemme guidata da Giacomo, il fratello del Signore. Noi viviamo in questa economia e dovremmo mostrare che così si comporta un cristiano e non con cerimonie religiose o cose simili. “Santo” (Qadosh) significa “separato”, messo in disparte per uno scopo, per essere a lode del Signore e a salvazione dell’umanità. Noi siamo “santi” perché Dio è il Santo (Egli non è nel mondo che crea, Egli è separato da tutto ciò che è). Cosa valga al di fuori della Chiesa nessuno lo sa. Non ci è stato rivelato e nessuna opinione può essere considerata la verità. Di certo, quello che sappiamo è che Dio vuole che ogni uomo sia salvo; è certo che la sua misericordia è la sua verità; Dio non si pente e realizzerà ciò che ha stabilito da sempre; il come lo realizzerà rientra nell’abisso della sua divina volontà, e non ci è stato comunicato. Se nella creazione ci è stato donato il privilegio di discernere tra bene e male (cioè se abbiamo il senso morale) è certo che questo avrà una sua funzione nel determinare il nostro destino: ma non si dimentichi che Dio è più forte della nostra volontà, e che Egli dirà la parola finale e conclusiva sulla nostra salvezza eterna. Il Signore sa che noi siamo come l’erba del campo, che al mattino nasce e fiorisce, e alla sera è falciata e dissecca (Ps. 90, 5-6): non si attende da noi una fedeltà a noi impossibile.
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Potremmo anche insinuare che forse tutto il problema dell’etica umana, più che nella legge positiva, consiste nella formazione dell’“Io etico” cioè di quell’io interiore che non parla esternamente, ma che mi guarda/ mi vede mentre agisco e mi rimprovera o mi loda dall’interno, da quella mente a cui appartengono i vari miei “io”. Alcuni chiamano questo “Io” coscienza. Il cristiano deve osservare la morale della sua comunità esattamente come il non cristiano. Il cristianesimo non comporta una osservanza di una legge morale specificamente cristiana. Se così fosse ridurremmo Gesù Cristo alla dimensioni di un semplice legislatore, e non si comprenderebbe perché, semplicemente per portare una legge, sia stato necessario che Dio stesso si facesse carne ed abitasse presso di noi. L’incarnazione è l’irruzione del Dio Altissimo nell’intimo dell’uomo; Egli abita “in” noi; “et abitavit in nobis”. Infatti con l’Incarnazione Dio si è reso presente nell’uomo Gesù, e con la sua morte e resurrezione ha cambiato radicalmente la storia e il futuro dell’uomo. Parlo di futuro perché Gesù è venuto per inaugurare l’eone futuro che nella sua persona è già presente, ma non ancora definitivamente stabilito. L’economia della chiesa è appunto il periodo di tempo che va dall’inizio della vita di Gesù in Palestina fino all’instaurazione definitiva del Regno. Dio è sempre concepito come un “futuro”, come un’assoluta novità, come Colui che sovverte l’ordine che noi ci aspetteremmo. Il nostro Dio nulla ha a che fare con il Dio atemporale e immobile dei greci. Egli si presenta sul Sinai come l’inatteso, con un Nome misterioso che è comunque un futuro: “JHWH” è una forma verbale che implica un futuro, anche se non sappiamo più tradurre esattamente il suo significato; si rivela profeticamente sempre in luoghi e con parole del tutto inattese; si rivela in Gesù Cristo come Colui che deve “venire”. Noi siamo nell’attesa sia del Regno di Dio, sia di “Colui che deve venire” (il Figlio dell’uomo che verrà con potenza). La Chiesa cristiana non è il Regno di Dio, ma solo una sua prefigurazione. Noi viviamo in attesa del compimento della redenzione cosmica di cui già facciamo parte nella speranza e nella forza dello Spirito. Cerchiamo di chiarire in poco cos’è questo Regno che aspettiamo con fede e speranza. Come ci spiega Tom Wright i cristiani odierni sperano di lasciare questa terra piena d’ingiustizie e di dolori e di ‘andare’ in cielo o nel regno di Dio, dove ovviamente tutto è perfezione e felicità. “Tuttavia tale concezione fortemente dualistica e non ebraica non pretende in alcun modo di corrispondere all’intento di Gesù. Non dovremmo (…) lasciarci fuorviare dal modo in cui alcuni continuano a usare le espressioni ‘regno dei cieli’ o ‘regno di Dio’ come se facessero riferimento alla destinazione ultima del popolo di Dio, ossia che l’espressione ‘regno dei cieli’ indichi un luogo chiamato ‘cielo’ in cui il governo di Dio si realizza pienamente e dove giungono i salvati.
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(…) Il ‘regno di Dio’ o il ‘regno dei cieli’ (reverente modo ebraico per dire la medesima cosa) non è né un luogo né una destinazione spirituale, ma piuttosto un fatto, ossia che Dio governa nel modo in cui aveva sempre inteso.” 5
L’INTENZIONE DI DIO E DEL SUO CRISTO È QUELLA DI SALVARE QUESTO MONDO (CHE È BUONO COME MOSTRA IL FATTO DELLA RESURREZIONE) E PERCIÒ I CRISTIANI NON DEBBONO FUGGIRE DAL MONDO MA DEVONO COLLABORARE CON DIO PER FAR SÌ CHE DIO REGNI IN TERRA COME IN CIELO.
La storia assume tutto il suo senso rettilineo e non ciclico, solo se ci situiamo nell’avvento, nella prospettiva del ritorno glorioso di Cristo, alla cosiddetta fine dei tempi, o anche dei tempi ultimi, dell’eschaton. Il Cristo è venuto, si è incarnato, ha parlato, ha agito, è morto ed è risorto per riconciliarci col Padre; non è stata, la sua, una missione etica, non ha portato una morale, fosse anche una morale superiore, ma ci ha portato la dimensione della “nuova creazione”, della capacità di Dio che ora è la nostra dimensione reale. L’Incarnazione è una nuova creazione, noi siamo stati in Cristo creati a nuova vita. Viviamo ora già nello zoe aionis, che non significa “vita eterna’”ma “l’età a venire”: è l’età in cui il Regno di Dio sarà realizzato definitivamente. Noi siamo immersi nella morte di Cristo: è nel momento culminante dell’Incarnazione, cioè la passione, morte, resurrezione e intronizzazione, che Gesù è costituito Signore e Messia, mediatore perfetto tra noi e il Padre; ed è in questo momento che noi siamo stabilmente e definitivamente immersi, nella attesa dell’avvento del Regno. La sua morte e la sua resurrezione sono “misticamente” realizzate in noi con il battesimo. Il battesimo non è un inserimento in una qualche chiesa, ma è l’inserimento nella morte e resurrezione di Cristo. “Oppure ignorate che noi tutti, battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Siamo stati dunque sepolti con lui nella sua morte mediante il battesimo, affinché come Cristo fu risuscitato dai morti dalla gloria del Padre, così anche noi dobbiamo camminare in una vita nuova. Se siamo infatti connaturati con lui, per una morte simile alla sua, lo saremo anche per una somigliante risurrezione” (Rom 6, 3-5); “Così anche voi consideratevi di esser morti al peccato e di dover vivere per Iddio in Cristo Gesù”. (Rom 6, 11)
Dal momento del battesimo, tutto diventa per noi comune con Cristo: è veramente entrare nella sua vita, nella vita di chi è morto e ora siede alla destra del Padre. Questa vita non è solo una promessa che si realizzerà dopo la 5
Wright N.T., Il mito del millennio, Claudiana, Torino 1999, p. 42.
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nostra resurrezione, ma comincia veramente fin da ora, da questa terra che non è più la nostra vera terra; la nostra vita nello Spirito è preludio della vita futura (non della vita eterna dopo la morte, ma della vita dell’evo futuro, quando Dio sarà tutto in tutti). Con Paolo possiamo dire che il nostro uomo vecchio, appartenente per generazione a questo mondo, è morto. Era sotto il dominio della Legge e quindi del peccato (il peccato del mondo, l’idolatria), ma è stato crocifisso con Cristo, è stato distrutto dalla morte, e chi è morto è libero dal peccato. In Paolo la legge “nuova” è trasformata in “esortazione” e istruzione, che non condanna né riprova. I cristiani sono persone attive, al servizio del loro Signore, ma poiché vivono ancora nella carne hanno bisogno, fino alla parousia, di un ammonimento e di un consiglio che li aiuti a “comprendere”, ad introiettare il comportamento che segue dall’essere veramente figli del Dio vivente.6 I comandamenti hanno una funzione pedagogica e non prescrittiva. Dio non dà Leggi, ma ci “educa” lentamente all’unica funzione della giustizia: fare sempre la Sua volontà, il che significa soltanto amare il nostro prossimo, tutto il nostro prossimo, anche il prossimo che detesto, anche colui che non sopporto, anche l’incolto e il volgare; amare la creazione tutta, perché tutte le creature sono state create dall’amore divino e perciò meritano il rispetto della loro identità, meritano di non essere considerate come totalmente sottomesse al nostro arbitrio, ma create per la gloria di Dio e da Lui viste come ‘buone e belle’. La scienza ci ha fornito la spiegazione del meccanismo biologico della esigenza di formarsi e di vivere nel gruppo: si tratta dei “neuroni specchio”, i neuroni che si attivano permettendoci di comprendere le azioni e addirittura le intenzioni altrui. Questo fa di noi uomini l’animale che sa imitare e comprendere le azioni altrui e che possiede perciò una cultura da trasmettere attraverso le generazioni. Questo dà una ragione dell’importanza essenziale dell’amore verso il prossimo, dell’atteggiamento di comprensione radicale delle ragioni altrui, anche nel caso che noi non le apprezziamo, o addirittura le detestiamo. Ricordiamo che l’Avvento cristiano non è la “memoria” della prima venuta di Cristo; l’avvento cristiano è l’attesa dei tempi escatologici, l’attesa del ritorno del Signore dall’alto della Sua gloria per instaurare l’incoato Regno di Dio. Allora Dio sarà tutto in tutti; allora il Figlio si sottometterà al Padre, dopo che tutto sarà sottomesso a Lui. Scrive J. Moltmann: “Questa visione onnicomprensiva di Dio e della nuova creazione per la speranza cristiana è ancorata nel ricordo, alla resurrezione del Cristo crocifisso. Nella
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Wright, Risurrezione, op. cit., p. 325. 126
resurrezione di Cristo possiamo conoscere una nuova libertà nella storia, che non è solo liberazione dalla tirannia storica, ma anche una liberazione dalla tirannia della storia stessa. Nella resurrezione di Cristo possiamo vedere un bagliore della gloria di Dio che sta per venire e della sua nuova creazione. Certo, secondo la fede cristiana solo Cristo è risuscitato, solo in lui questo futuro di un essere nuovo è realmente incominciato, noi invece non siamo ancora entrati nella realtà di questo nuovo essere, ma nella fede e nella speranza noi pure partecipiamo già alle ‘forze del nuovo mondo’. Per questo Cristo diventa per i credenti il punto focale di una speranza onnicomprensiva per il nuovo mondo nel quale Dio inabita”. 7
La legge morale è tutta qui. Si può riassumere dichiarando che “agere sequitur esse”. Una preghiera allo spezzare del pane nel rito eucaristico anglicano recita: “Though we are many, we are one body, because we all share in one bread”. Se diveniamo un solo corpo, nessuno può più dire suo ciò che ha; tutto diviene di tutti, ogni egoismo è precluso. Questa è l’unica conseguenza vitale del popolo di Dio. Naturalmente noi non raggiungiamo mai definitivamente questa santità, ed è per questo che siamo sempre manchevoli dinnanzi all’Altissimo; “Sicché giusto tu apparisca nella Tua sentenza e irreprensibile nel Tuo giudizio” (Ps. 51,6). Abbiamo visto che come Dio è “santo” cioè del tutto separato dal mondo, anche noi dovremmo essere separati da ciò che costituisce il mondo ai nostri occhi “umani”: il denaro, il sesso, il cibo, il potere, la gloria e così via. Questa non è però una norma morale, ma è un imperativo/ ragionevole solo interiore, e quindi non totalmente esternabile ed esauribile. Scriveva il p. Joseph Fuchs: “Diciamo dunque che la legge morale, benché sia di per sé una legge interna, può essere formulata, attraverso una concettualizzazione, come una legge esterna. Ma in quanto legge morale esternamente formulata, non è la legge morale nella sua originalità, essa è veramente legge morale soltanto nel caso che la conoscenza di essa sia stata una conoscenza vera – e non erronea – e sia stata concettualizzata ed espressa senza sbagli: non ogni tentativo infatti di conoscenza morale riesce bene. La scolastica chiamava legge morale non semplicemente la ratio, ma piuttosto la recta ratio. Ne segue che un principio morale esternamente formulato vale tanto quanto o l’intelligibilità interna o l’autorità che lo propone ce lo fa ragionevolmente accettare” 8.
Ebbene così deve essere anche per i vari comandamenti che Dio ci ha donato nel tempo e nei diversi Patti che Egli ha stabilito con noi uomini. Fintanto che noi non abbiamo ragionevolmente accettato ciò che Egli consiglia, il
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Moltmann J., Religione, rivoluzione, futuro, Queriniana, Brescia 1971, p. 36. Fuchs J., Coscienza, legge, autorità, Queriniana, Brescia 1970, p. 340.
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comandamento rimane un “semplice” messaggio o consiglio di comportamento conveniente. Amare e fare/ comportarsi si implicano vicendevolmente. Chi ama, opera per il bene, e chi opera per il bene ama davvero e non solo a parole. “Questo però significa che l’umanità solidale e accentrata in Adamo, viene sempre già guidata con amore dal secondo Adamo, il vero uomo-Dio, che ricostruisce e concilia perfettamente in sé la irraggiungibile “umanità divina”, così come ci dimostra storicamente il rapporto dialogico tra Dio e l’umanità” 9.
Cristo ci ha liberati in senso totale e totalizzante. Egli ci ha liberato con la nuova Pasqua; come la Pasqua antica è stata il passaggio dalla schiavitù alla libertà dei figli d’Israele che erano stati schiavi di Faraone, così con la nuova Pasqua noi figli di Adamo siamo passati da schiavi che eravamo del mondo, della Legge, del peccato, delle abitudini, della ribellione, della rivolta, alla libertà dei “figli” di Dio. Nessuno meglio di Paolo ci parla di questa totale liberazione dalla Legge, da ogni legge, anche dalla legge ecclesiastica che si è posta in luogo della Legge antica, anche della legge naturale, anche da qualunque cosa abbia la natura di legge. “Perciò l’amore-agape si spinge molto più in là del riconoscimento dell’altra persona come persona. Esso vuole la riunione con l’altro e con tutto ciò da cui si è separati. L’amore nel suo carattere di agape è il principio morale assoluto, l’assoluto etico che cercavamo. Ma perché sia capito rettamente, è necessario liberarlo da molte false implicazioni. L’amore come agape ha in sé il fondamentale principio di giustizia. Se neghiamo la giustizia agli altri, ma affermiamo di amarli, ciò vuol dire che ci sfugge completamente il significato dell’agape. Associamo l’ingiustizia al sentimento, e diciamo che questo è amore. L’agape, inoltre, non deve essere confuso con altre qualità dell’amore: la “libido”, l’amicizia, la compassione, la pietà, l’eros. Certo l’agape è in rapporto e può essere combinato con tutte quelle qualità, ma ne è anche il giudice. La sua grandezza sta in questo, che accetta e tollera l’altra persona anche se per noi è inaccettabile e a stento riusciamo a tollerarla. Il suo objettivo è una unione, che non è la semplice unione basata sulla simpatia o sull’amicizia, ma una unione nonostante l’inimicizia.” 10 AUTONOMIA E LEGGE NATURALE
Prendiamo ora in considerazione la morale umana: vogliamo vedere se essa ha delle ripercussioni teologiche. È del tutto indifferente alla salvezza o ha una certa influenza, anche se non determinante? È ovvio che dobbiamo avere un comportamento compatibile con la nostra natura di “animale che 9 10
“Civiltà Cattolica” 3814, p 341. “Civiltà Cattolica” (CTI) 3814, p. 342.
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deve vivere in gruppo”, e per di più in un gruppo che possiede un linguaggio, un gruppo di interlocutori. La morale umana non può essere teonoma, deve essere necessariamente autonoma. Parlo dell’agire morale nell’ambito della condivisione della vita e dell’agire del gruppo umano, come tale. Non c’è nessuna “natura” da cui si possa derivare una legge, la cui trasgressione costituisca un “peccato” religioso, non c’è nessuna legge divina positiva che dovremmo obbligatoriamente seguire; tutta la legislazione civile obbliga solo civilmente; e solo in minima parte (la parte spettante alla storia del singolo in quanto membro di un popolo ed erede di una cultura) obbliga moralmente. Ciò che deve essere attribuito alla “natura” (intendendo per natura il codice genetico) è la predisposizione che si è formata durante i millenni della evoluzione a comportarsi come “animale” responsabile “nel” gruppo di cui ci troviamo a far parte. Questa predisposizione ci è stata data dalla nostra storia evolutiva (di fatto, come un fatto, non come un comando, che dovrebbe essere accolto volontariamente) allo scopo di sopravvivenza e di successo della specie. Tutto ciò può sembrare simile all’imperativo morale kantiano; cioè il nostro codice genetico ci “dice” di seguire un certo comportamento, che però ci è comunicato di fatto solo dall’esempio della famiglia e della società (intesa in senso lato) nella quale viviamo. È lo stesso tipo di innatismo che ci appartiene nel linguaggio. Se noi parliamo certo dobbiamo avere una capacità genetica di parlare; ma se non siamo in contatto durante la fase dell’apprendimento linguistico con altri uomini che stiano parlando, non parleremo mai, e non diverremo uomini. Nasciamo “animali”; parlando e comunicando diveniamo delle persone. Così nasciamo capaci di agire secondo delle regole morali, e siamo in grado di apprezzare un comportamento di tipo “morale”; ma se non saremo inseriti all’interno di un gruppo etico, responsabile, chiamati non tanto all’osservanza della legge, quanto al giudizio morale su noi stessi, non diverremo mai soggetti eticamente determinati, cioè non diverremo mai persone umane. L’uomo è stato creato “libero”. Un essere fornito di razionalità non può non essere libero e dunque responsabile. Dio non ha creato l’uomo e “dopo” gli ha fatto dono della libertà, ma la libertà è parte dell’essenza che costituisce l’umanità. Ma se l’uomo è libero la legge morale dovrà essere da lui stesso compresa, dovrà essere come qualcosa che gli appare evidente e non obbligatoria per imposizione. In altre parole dovrà essere non eteronoma, proveniente da altri, e neppure teonoma, proveniente da Dio stesso, ma deve provenire come esigenza dello stesso uomo, cioè autonoma. L’autonomia è un fatto incontestabile. Può esser utile il parallelo del linguaggio, che è innato, come capacità o potenza, ma che per realizzarsi richiede una lingua 129
storica e naturale, che venga parlata e “insegnata” a colui che la possiede solo in potenza. L’uomo è un essere così nobile ed è creato come “immagine di Dio” che non può essere soggetto a nessuna norma che non sia del tutto autonoma. Essendo l’uomo capace per la sua apertura al tutto di una vita “morale” deve trovare la norma del suo comportamento etico nel suo interiore. Deve trovare la misura del suo agire nella sua ragione: ma non come una norma preesistente, non come un circuito neuronale prestabilito (allora sarebbe un “istinto” e perciò non un agire morale); la responsabilità derivante dall’agire morale deve trovare la sua ragion d’essere nella libertà. Libertà significa che se trovo una regola d’azione, posso anche non obbedire; se mi comporto “secondo la mia natura”, questa espressione diviene equivoca, perché seguendo i miei “istinti” quali che essi siano, sempre mi comporto secondo natura; ma questo non è il campo della morale, non è il campo della libertà. L’istinto non è per definizione libero. L’istinto segue la legge del sì e del no. Se c’è lo stimolo adatto c’è automaticamente la reazione preordinata, la reazione istintiva. Nessuno vuole negare che tutto ciò che accade nell’essere umano (come in tutto il resto) sia stato possibile, e dunque sia stato reso “potenziale” da quella che chiamiamo “natura”, ma che, nel caso dei viventi, possiamo più propriamente chiamare il codice genetico; il codice genetico è infatti la dizione contemporanea di ciò che Aristotele chiamava la causa formale, o anche l’essenza, o la “forma” dell’essere vivente. Ma l’essere in potenza è solo l’essere di una facoltà, non una determinazione matematica o naturale degli atti da porre. Certo, l’uomo sente in se stesso la forza dell’imperativo morale di fare il bene e di evitare il male; ma non più di questo. Cosa sia in concreto e nella situazione data il bene e il male, questo non è determinato dalla natura. Questo è frutto di una storia personale, di tradizioni apprese consciamente o inconsciamente, di frequentazioni, di elementi differenti di cultura nel senso più alto del termine, anche di cultura e di tradizioni religiose o di suggerimenti che provengono dalla Rivelazione divina. Parliamo dell’autonomia-creata propria dell’uomo. Se l’uomo è stato creato libero, la vita morale è stata prevista come potenzialità; nulla avviene in atto che non sia stato prima in potenza. La libertà in atto è stata prima ovviamente libertà potenziale: quindi l’autonomia della nostra morale è un’autonomia “creata”. Che essa sia “creata” significa che essa stessa è il frutto della volontà salvifica di Dio e non costituisce una sorta di “indipendenza” contro Dio.
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“In ogni processo decisionale è presente un momento conoscitivo. La coscienza opera nella situazione concreta con il bagaglio di conoscenze e valutazioni previamente acquisite; vi è presente la sua storia personale di conoscenze e decisioni, percezioni di valore e orientamenti; la singola decisione ha già le sue radici nel passato, non è mai del tutto nuova. Si ha quindi un influsso normalmente decisivo e determinante dell’autocomprensione con cui la persona affronta la valutazione concreta e giunge alla conseguente decisione operativa. A questo livello giocano il loro ruolo più evidente sia le conseguenze morali interiorizzate dal singolo, sia le precomprensioni e prevalutazioni culturalmente indotte. Emerge qui anche l’importanza della riflessione morale e delle conoscenze esplicite, motivate e formulate, circa le norme o le prospettive di valore; tutto ciò ha una funzione critica e liberatrice per una vera autonomia e una vera responsabilità, per una vita morale autentica” (ivi, p. 355).
“Naturale” deriva da “natura, nascere”; tutto quello che esiste in natura, è naturale. Non può esistere qualcosa che sia “creato” dall’uomo e non da Dio e che dunque non sia naturale. Dunque tutto ciò che esiste, per il fatto che esista, è naturale e non può esserci nessuna azione che sia “contro natura”. L’idea di invocare la natura come fonte della legge morale è da collegarsi al tentativo giusnaturalista del XVI secolo di laicizzare l’eccessivo potere ecclesiastico in materia di comportamenti. Riassume le difficoltà odierne sulla Legge naturale la “Civiltà Cattolica”, commentando il documento emesso dalla “Commissione Teologica Internazionale” (CTI), pubblicato in “Civiltà Cattolica” n . 3814 del 2009, p. 341-398: “Il modello razionalista moderno della legge naturale, evoluzione della concezione medievale sino alla secolarizzazione del XIX secolo, è caratterizzato: 1) dalla credenza essenziali sta in una natura umana immutabile e a-storica, di cui la ragione può cogliere perfettamente la definizione e le proprietà essenziali; 2) dal mettere tra parentesi la situazione concreta delle persone umane nella storia della salvezza, segnata dal peccato e dalla grazia, il cui influsso sulla conoscenza e sulla pratica della legge naturale è però decisivo; 3) dall’idea che è possibile per la ragione dedurre a priori i precetti della legge naturale a partire dalla definizione dell’essenza dell’essere umano; 4) dalla massima estensione data ai principi così dedotti, tanto che la legge naturale appare come un codice di leggi già fatte che regola la quasi-totalità dei comportamenti. Questa tendenza a estendere il campo delle determinazioni della legge naturale è stata all’origine di una grave crisi quando, in particolare con il progresso delle scienze umane, il pensiero occidentale ha preso maggiormente coscienza della storicità delle istituzioni umane” .
In questi termini siamo del tutto d’accordo. Più avanti è così che viene precisato in che senso la legge naturale deve essere invocata:
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“Questo primo principio è conosciuto naturalmente, con la ragione pratica, così come il principio di non contraddizione (…). Il bene morale corrisponde al desiderio profondo della persona umana, che tende spontaneamente verso ciò che la realizza pienamente. (…). Spetta alla ragione del soggetto esaminare se questi beni particolari possono integrarsi nella realizzazione autentica della persona: in tal caso saranno giudicati moralmente buoni”.
Resta da chiedersi se vale ancora la pena di distinguere una legge naturale dal sano istinto fornitoci dall’evoluzione, che tende alla sopravvivenza della specie, e che comporta, come abbiamo detto, un’etica per il fatto che siamo per natura un animale politico, che deve convivere e convivere civilmente, con tutti i nostri simili. Scrive il p. Cattorini su “Civiltà Cattolica” del marzo 2009, in una recensione del volume a cura di Giuseppe Angelini La legge naturale. I principi dell’umano e la molteplicità delle culture: “Il giusnaturalismo moderno aveva cercato di rimediare all’egemonia ecclesiastica e di declinare laicamente istanze sacrali, e attualmente accade invece che siano agenzie religiose (tipicamente quelle cattoliche) ad appellarsi ad una normatività “naturale”, che la ragione universale potrebbe spontaneamente cogliere, in modo da fondare almeno una serie di divieti basilari. L’usura del concetto risente di più fattori: la plasmabilità della natura propiziata dalla tecnologia, il pluralismo culturale in cui viviamo e infine l’ambiguità con cui l’etica di stampo razionalistico ne ha forzato l’uso per pervenire a conclusioni normative univoche, deduttive, essenzialistiche, oggettivistiche e immuni da turbolenze emotive.”
Parole universali come “Natura” e “foresta” non esistono in re, non esistono come “cose”, in natura. Dio non ha creato tutte le cose e “poi” ha creato anche la “natura”; Dio non ha creato tutte le piante e tutti gli alberi e “poi” ha creato anche le foreste. Neppure esiste una cosa come un “gatto”; quello che potrebbe esistere sarebbe caso mai “questo” gatto. Quello che esiste è il “singolo” (il “questo qui”). Ma cos’è un singolo? Un singolo c’è, oppure deve essere da noi stessi cercato, inventato, creato, fatto, costruito? C’è “questo” gatto, oppure l’esistenza di “questo” gatto dipende anche da me che lo sto accarezzando? Uno scienziato ci direbbe che esiste un ammasso di enti fluenti e divenienti (atomi? campi gravitazionali?), che non ha né forma, né principio né fine. Questo ammasso (il caos diveniente sempre altro) noi lo “categorizziamo”, cioè lo “diciamo” e così lo stabilizziamo. Le “idee” o le “forme” platoniche non esistono, solo i particolari esistono, e le differenti forme le costruiamo noi con gli universali, che sono un frutto del nostro linguaggio. Consideriamo l’esempio di un puzzle. Se supponiamo che il mondo sia già fatto, o già dato, ma olisticamente, come un ammasso (un caos) di realtà 132
non separate lo potremmo pensare come l’immagine di un puzzle. Esso consiste in un’immagine che viene poi ritagliata in mille pezzi differenti, e se ne può ricomporre l’unità incastrando i vari pezzi nel modo giusto (ma arbitrario, perché tagliati casualmente, o secondo una ragione che ci sfugge). Noi, per mezzo del linguaggio, dividiamo l’unica figura del “mondo” secondo pezzi differenti, e chiamiamo un pezzo “gatto”, e un altro pezzo “mente”; ma altri potrebbero ritagliare il mondo in modo differente: ci possono essere differenti letture o interpretazioni del mondo e nessuna di esse sarebbe più corretta delle altre, sarebbero solo differenti. Infatti non c’è nessuna ragione (oltre a quella di sopravvivere, di utilizzare il mondo) per cui un pezzo venga tagliato in quel modo o in quell’altro. Come accade tutto questo? Seguiamo la riflessione di Nelson Goodman. Se per ipotesi noi chiamassimo “realtà” non lo stato di fatto, non la “cosa in sé”, ma la cosa “nell’esperienza” che di quella cosa noi abbiamo, avremmo la conseguenza che gli oggetti materiali, come noi li consideriamo, come già fatti, già dati, predeterminati, in realtà prendono forma e natura dallo stato della nostra esperienza. È un’impostazione somigliante a quella di John Locke. Questi considera che gli oggetti della nostra conoscenza sensibile non consistano in una “essenza reale”, cioè in una essenza tutta “già-fatta”, tutta “pre-data”, che corrisponda precisamente all’idea di “sostanza” (di una realtà invisibile, soggiacente al visibile), ma pensa che l’oggetto venga costituito nella “essenza nominale”, cioè nella nostra esperienza, che mentre percepisce, denomina, e così dà forma, alle sensazioni. Nel “dare il nome”, noi non mettiamo solo un’etichetta sotto l’oggetto (il nome non ha solo una funzione di riferimento), ma ha anche una funzione costitutiva. L’oggetto viene “identificato”, nel senso che riceve un’identità, e viene “stabilizzato”, nel senso che mantiene un’astratta invariabilità, o sostanzializzazione. Fuori di noi non esistono “cose” già fatte; cose solo da interpretare, e non anche da scrivere. Un gatto è un gatto: questo è vero se per gatto intendo non una bestia anonima e amorfa, solo persistente e dotata di un certo codice genetico. Un gatto è un’esperienza che “io” ho vissuto da ragazzo, è stata l’esperienza di un affetto intensissimo, ricambiato totalmente (o almeno così io lo vissi); ma il gatto in sé è l’insieme di molte cose che gatto non sono (ossa, muscoli, sangue, eccetera; il gatto è l’insieme di atomi vari che sono collegati tra di loro da legami chimici ed elettrici). Ma il gatto, per me, è stata un’esperienza unica d’affetto e di stima reciproca. Gli atomi e i peli non c’entrano per niente. Questo è ciò che esiste: un’esperienza “mia” vissuta intensamente e a cui ho dato il nome di gatto (con il consenso di tutti). È la lingua che denomina “gatto”; da allora in poi lo stesso gatto, anche se “quel” gatto invecchia e cambia (dimagrisce o ingrassa, si sposta o dorme) resta denominato gatto. È il gatto nominale/ affettivo che resta lo stesso, e non il gatto reale/ cosale. 133
Così il concerto “Imperatore” di Beethoven è sempre lo stesso concerto, per quante volte lo ascolto (eseguito o no dalla stessa orchestra e dallo stesso direttore), perché mi ostino a chiamarlo come lo chiamai la prima volta, non perché l’esperienza che vivo sia sempre identica. “L’identificazione si basa sull’organizzazione in entità e in generi. La risposta alla domanda ‘lo stesso o non lo stesso?’ deve essere sempre ‘lo stesso cosa?’. Differenti così-e-così possono essere lo stesso questo-e-quello: ciò cui ci riferiamo o che indichiamo, verbalmente o in altra maniera, può essere eventi diversi ma lo stesso oggetto, città diverse ma lo stesso stato, membri diversi ma lo stesso club o club diversi ma gli stessi membri, inning diversi ma la stessa partita di baseball”.11
Lo stesso vale per tutte le esperienze che noi abbiamo, esse sono composte di tantissimi elementi uno tra i quali è la presenza dell’oggetto (lo chiamo oggetto perché lo prendo in esame io, ma lui a sua volta potrebbe chiamare oggetto me: non c’è una differenza ontologica tra oggetto e soggetto di un’esperienza). Un altro fattore importantissimo è lo stato emotivo che concomita l’esperienza. Questa sarà esperienza visiva, o tattile, o olfattiva, o acustica: il tutto con emozioni più o meno positive. Poi metto un nome all’oggetto d’esperienza e da allora in poi lo denomino così. È quindi la lingua che attribuisce stabilità e concretezza all’esperienza, che per natura sua è fuggevole e abbondantemente incomunicabile. “Per l’uomo della strada, la maggior parte delle versioni proprie della scienza, dell’arte e della percezione si distaccano in qualche modo dal servizievole mondo di tutti i giorni, che egli ha costruito a buon mercato a partire da frammenti della tradizione scientifica e artistica e dalla sua stessa lotta per la sopravvivenza. Quest’ultimo mondo, a dire il vero, è quello preso più spesso per reale; infatti la realtà in un mondo, come il realismo in pittura, è largamente una questione di abitudine” (ivi, p. 38).
Noi abbiamo categorizzato un enorme insieme di “cose” differenti e disparate sotto il nome di “natura” e abbiamo incluso nel nome natura un insieme di sentimenti/ emozioni positive, mentre un tempo aveva connotazioni del tutto negative. Noi infatti ci chiamiamo civili e non allo stato di natura, non selvaggi. Se esistesse una legge “naturale” noi vorremmo certamente uscirne per andare verso una legge civile, o comunque non da selvaggi. Naturalmente un fondamento biologico c’è. In ogni manifestazione dell’agire umano c’è una potenzialità innata (ogni atto presuppone una potenza, se vogliamo seguire Aristotele). Ma in che senso? Scrive Felice Cimatti: 11
Goodman N., Vedere e costruire il mondo, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 23.
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“La risposta alla domanda di Wittgenstein, quale gioco scegliere, nel tempo della morte di Dio, è forse una risposta naturalistica? Stiamo forse sostenendo che esiste un fondamento biologico di qualche tipo per l’etica? Come se il nostro cervello contenesse dei neuroni speciali, specificamente dedicati al comportamento etico? È una tesi che conosce molti sostenitori, questa, forte oggigiorno soprattutto fra gli studiosi di etologia e delle neuroscienze. Ora il punto che c’interessa è molto semplice, qui, e fondamentale. Senza negare, ovviamente, l’esistenza di una necessaria base neurologica per tutti i nostri comportamenti, anche quelli che definiamo etici, rimane che un’etica naturale è, in realtà, letteralmente impossibile, perché o un comportamento è consapevole e volontario, e solo in questo caso si può definirlo un comportamento etico, oppure è impermeabile alla coscienza e alla volontà, e quindi è un istinto naturale, di conseguenza non può in nessun modo essere definito un comportamento etico.”
Prendiamo l’esempio di un bambino che piange al sentir piangere un altro bambino. Continua Cimatti: “La base neurologica di questa capacità sono i cosiddetti neuroni specchio, una classe particolare di neuroni nel cervello intellettivo di un animale, che risuonano alla presenza di certe azioni compiute da un altro animale. La particolarità di questi neuroni è che si attivano non solo in risposta alla percezione di una certa azione, ma anche quando è lo stesso animale a compiere quella azione. In questo modo è possibile dare una spiegazione neurologica, ad esempio, dell’imitazione: vedo una certa azione, e sono in grado di svolgerla anche io, semplicemente osservandola. Fin qui è tutto chiaro, il problema è: che ha a che fare tutto questo, ad esempio l’empatia, con l’etica? Questo evidentemente non è un problema empirico, ma logico: quando definiamo un qualunque comportamento come gesto etico? In realtà la risposta è molto netta: quando scelgo di comportarmi in questo modo. E se c’è una scelta, dietro ogni comportamento etico, questo significa che si sarebbe potuto scegliere in un altro modo. C’è etica se è possibile comportarsi in un modo diverso da come la regola etica impone di comportarsi.” 12
Scrive il p. Sergio Bastianel: “Ciò che direttamente interessa la riflessione morale è l’agire umano in quanto tale, cioè un determinato comportamento derivante dalla libera scelta consapevole di una persona, frutto della sua libera autodeterminazione e quindi attribuibile alla sua responsabilità.” (…). “Il valore morale non consiste in questo o quel bene intenzionato dall’agire concreto, bensì nel rapporto del soggetto al
12 Cimatti F., Il possibile, il reale. Il sacro. Dopo la morte di Dio, Codice, Torino 2009, p. 160-161.
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bene concreto; ciò che direttamente esso connota è la correttezza o non correttezza del rapporto; riguarda il vero e sensato auto realizzarsi della persona come tale nel suo concreto determinarsi rispetto ai beni-per-l’uomo.” 13
Ma com’è possibile uscire dal mondo umano e guardarlo dall’esterno? Il mio sarà sempre un punto di vista particolare, e allora come potrò stabilire il valore assoluto (cioè non particolare) di una qualunque affermazione che riguardi l’etica? Naturale è tutto ciò che “nasce” e dunque che esiste. Noi siamo schiavi e non liberi riguardo al cibo, al sesso, e al gruppo nel quale nasciamo. Scrive Vito Mancuso: “L’uomo naturale è definibile primariamente non come libertà, ma come necessità, legato com’è alle tre catene del nutrimento, della sessualità, del sociale”. 14
Possiamo scegliere il “come” sottostare a queste “leggi” naturali, ma non riguardo al “se”; ognuno di noi è libero nello stabilire cosa mangiare, o con chi; o come fare sesso; o se sottostare alla legge della tribù e come, ma non nell’essere obbligati a seguire l’obbligazione. Un concetto come quello di “Legge naturale” è del tutto estranea alla Rivelazione giudaico-cristiana. Mai negli Evangeli sentiamo il Signore riferirsi a una presunta legge naturale, egli ci esorta piuttosto all’amore assoluto per ogni essere vivente. Questo non in base a una presunta “natura” (concetto non ebraico e dunque estraneo al cristianesimo antico, e impensabile nel linguaggio di Gesù) ma in base alla volontà del Padre. “Una siffatta concezione etica, quale riflesso di un’interpretazione meccanicista, automatica, ripetitiva ed eterna del mondo, offerta e ribadita con varianti e accentuazioni diverse da filosofi come Eraclito, Democrito, Epicuro e Aristotele, è quanto di più inconciliabile, incomprensibile e improponibile possa esistere per la sensibilità religiosa e intellettiva dell’ebraismo”.15
È una mentalità che risale forse all’ellenismo, e che è stata accolta dalla Chiesa latina e greca nei primi secoli come confacente alle sue esigenze; oggi, forse, potremmo farne del tutto a meno. Una struttura nel cosmo (e dunque nella natura) esiste, ma la struttura se studiata può solo descriverci come “avvengono” le cose, non come debbono avvenire. La moralità, il che significa l’uso del verbo “dovere”, non è inscritta nelle cose che nulla debbono, anche se il loro divenire è “necessitato” 13
Bastianel S., Autonomia morale del credente, Morcelliana, Brescia 1980, p. 29. MancusoV., Rifondazione della fede, Mondadori, Milano 2005, p. 61. 15 Laras G., Ebraismo ed ellenismo, in AAVV, Monoteismo, Mondadori, Milano 2002, p. 20. 14
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da un determinismo macroscopico e da una libertà apparente a livello “quantistico”; il verbo “dovere” si riferisce solo a una libertà di scelta libera e volontaria; il dovere è espressione solo di una mente intelligente. Intelligenza è sinonimo di volontarietà. Dove non c’è intelligenza non ci può essere neppure divenire volontario, libero e dunque responsabile. Una legge naturale può essere solo descrittiva e mai prescrittiva. La legge fisica ci dice “come” avvengono, non come “debbono” avvenire le cose. Il comportamento umano è specificato dal “progetto”: noi viviamo nel tempo e progettiamo tutto quel che deve avvenire. Se io “voglio” un fine “debbo” volere anche i mezzi necessari al fine. Se voglio che un chiodo entri in una parete devo usare un martello. Questa è la legge naturale. Essa mi dice come funzionano le cose, non come io dovrei comportarmi. “Non ha alcun senso appellarsi alla natura per fondare la morale, perché la natura apparirà agli uomini che l’osservano così come ciascuno la vuole fare apparire: chi razionale, chi completamente razionale, chi specchio della personale provvidenza divina, chi totale indifferenza, chi normata da leggi eterne e perfette, chi matrigna malvagia che gode nel far soffrire i suoi figli, come la sentiva Giacomo Leopardi. Com’è ancora possibile guardare alla natura per fondare su di essa valori morali assoluti, vincolanti per ogni uomo? Il fatto è che l’uomo, per quanto lo voglia, non può uscire da se stesso. (…) La ragione conoscente è guidata dalla volontà: è la volontà (di aderire al bene in sé oppure solo al bene per me) che supporta e dà forma al conoscere. È la volontà il motore; tutto nasce da lì, tutto ritorna lì. Il che equivale a dire che la scienza del bene, l’uomo non la potrà fondare mai al di fuori di sé; dovrà necessariamente scendere nell’intimo di se stesso. ‘In interiore homine’, diceva Agostino, ‘habitat veritas (Agostino, De vera religione, 39, 72)”16.
Mancuso così prosegue: “Per motivare il bene è inutile richiamarsi al successo e alla felicità che si otterrebbe nel mondo, all’obbedienza che si deve a Dio e alla Chiesa, o alla razionalità della natura a cui si dovrebbero conformare le nostre azioni. L’unica motivazione è di tipo interiore, concerne il nostro intimo, e dice che il bene è meglio del male perché noi siamo fatti per il bene. (…) A giustificare l’adesione dell’uomo al bene non è il mondo, non è la natura, non è la storia, non è il regno della forza…non sono ‘né il sangue, né la carne, né il volere di uomo’ (cf. Giovanni 1,13)” (ivi).
La struttura che possiamo riscontrare nell’uomo è di carattere comunitario. La natura della mente umana è sociale e non individuale. Nasciamo come esseri potenziali, ma se non entriamo in un contatto dialogico verbale con
16
Mancuso V., Rifondazione, cit., p. 32.
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altre menti umane, non diventeremo mai delle persone; non parlando, neppure possiamo volere il bene o il male. “La prima cosa che voglio sottolineare è il carattere assoluto dell’imperativo morale. Ciò significa che, se da noi si esige qualcosa moralmente, questa esigenza è incondizionata. Il fatto che i contenuti dell’imperativo morale mutino secondo la nostra situazione nel tempo e nello spazio, non muta l’assolutezza formale dell’imperativo morale in sé. Nel momento in cui riconosciamo qualcosa come nostro dovere morale, in qualsiasi condizione, questo dovere è incondizionato. Se gli obbediamo o no è un’altra questione” (…). Se derivasse da autorità, terrene o celesti, che non s’identificassero con la natura dell’imperativo morale, non sarebbe incondizionato e dovremmo respingerlo”.17
Dunque sembra logico che una legge morale naturale non esista. Tutto ciò che esiste è natura sua naturale; la nostra natura di animali di gruppo ci consiglia di accogliere la legge della comunità, che si potrebbe riassumere nel “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Cosa differenzia una cosiddetta legge naturale dall’esigenza di non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te? “L’unica esistenza di cui abbiamo l’intuizione immediata è la mia propria, e l’amore è il mio solo modo di ottenere sull’esistenza estranea un’intuizione dello stesso ordine: amare è quindi al tempo stesso essere e non essere se stessi; l’amore compie il miracolo di essere con un altro, coesse, di essere al posto dell’altro, di essere quest’altro. L’amore è la contraddizione risolta e vissuta”.18
Amore è parola equivoca. Benedetto XVI nella sua enciclica “Deus caritas est” cerca di armonizzare tutti i differenti tipi di amore per dare un solo senso al concetto. Egli scrive: “Nel dibattito filosofico e teologico queste distinzioni sono state spesso radicalizzare fino al punto di porle tra loro in contrapposizione: tipicamente cristiano sarebbe l’amore discendente, oblativo, l’agape appunto, la cultura non cristiana, invece, soprattutto quella greca, sarebbe caratterizzata dall’amore ascendente, bramoso e possessivo, cioè dall’eros”.
Il Pontefice prosegue: “In realtà eros e agape – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere”. (ivi, p. 20)
17 18
Tillich P., La mia ricerca degli assoluti, Ubaldini, Roma 1956, p. 66. Benedetto XVI, Deus caritas est, LEV, Roma 2006, p. 19.
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Scopo del Papa, così sembra, è di evitare che il cristianesimo possa essere accusato di disprezzare l’amore in tutte le sue dimensioni o almeno nella sua dimensione erotica (l’accusa, storicamente fondata, di un disprezzo del corpo, che è l’oggetto primario dell’eros). Infatti egli scrive: “La fede cristiana, al contrario, ha considerato l’uomo sempre come essere uniduale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì, l’eros, vuole sollevarci “in estasi” verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni.” (ivi, p. 16)
La legge cosiddetta naturale non rispetta la legge dell’amore. L’amore ama, perché esiste l’amato; meglio ancora l’amore agapico esiste perché esiste l’altro che è a sua volta, come me, una parola di Dio, una sua creatura; come tale va amato e ben voluto; perché Dio lo ama e lo salva, a prescindere da ogni altra considerazione. La legge naturale dovrebbe valere anche se l’uomo fosse il solo essere vivente, il Robinson sull’Isola deserta. Sarebbe un’assurdità. Cristo è morto per i “nostri peccati” (al plurale). Egli è stato il dono perfetto che ci ha restituito la dignità di Figli di Dio; ma se figli, anche eredi. Eredi del Regno che dunque non potrebbe essere affidato a un incerto vivere morale. In altre parole: Cristo ci ha salvato dal peccato e quindi dalla morte, Egli è il Giusto che ha riscattato l’intera Umanità, non dall’errore ma dal “giudizio”. Tutto il Nuovo Testamento infatti non fa altro che ripeterci che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi; che se abbiamo peccato, abbiamo un Avvocato presso il Padre che intercede per noi. Giovanni giunge a dire: “Chiunque è nato da Dio (cioè, noi, i battezzati. <n.d.a.>) non commette peccato, perché il seme di Lui dimora in esso; e non può peccare, perché è nato da Dio” (1 Jo., 3, 9). Cosa significa questa impeccabilità dei figli di Dio? Cosa significa che Gesù è morto per i nostri peccati? Può significare che ormai non è l’osservanza della cosiddetta Legge che ci salva, come insegna Paolo, ma è solo l’amore verso gli altri causato dall’amore con cui Gesù ci ha amato. Che se uno non ama il fratello neppure ama Dio. È Giovanni a insegnarcelo. “Se uno dicesse: ‘Io amo Iddio’ e odia il suo fratello è un bugiardo, perché chi non ama il suo fratello, che vede, non può amare Iddio, che non vede. E noi abbiamo ricevuto da Lui questo comandamento, che chi ama Iddio, ami anche il proprio fratello” (1 Jo., 4, 20-21).
Se un uomo ama Dio nei propri fratelli (nel prossimo) potrà commettere qualche errore nelle valutazioni delle situazioni concrete in cui verrà a trovarsi, ma finché ama, finché ama davvero e non a parole, non può peccare. 139
La potenza della Legge, di ogni legge positiva o naturale, cede di fronte alla potenza di colui che ama. Ma poiché l’amore perfetto che si richiede da noi (“amerai il prossimo tuo come te stesso”) è di difficile attuazione, noi siamo sempre manchevoli, cioè siamo sempre peccatori, anche quando noi compiamo il bene. Ma se abbiamo fede in Gesù (se ci lasciamo amare con fiducia) e ci richiamiamo alla sua giustizia, non dobbiamo temere per noi perché Egli è appunto morto per i nostri peccati (il plurale indica chiaramente che non si tratta del solo peccato d’origine, ma di tutti i peccati). Scrive Paolo: “Non c’è dunque ora nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. La Legge infatti dello spirito di vita in Cristo Gesù, mi ha liberato dalla Legge del peccato e della morte.” (Rom., 8, 1). L’amore è il compimento della Legge; Cristo non ha abolito la Legge, ma l’ha riassunta nell’amore. “Non siate debitori di nulla a nessuno, fuorché dell’amore scambievole, perché chi ama il prossimo, ha adempiuto la legge. Infatti i comandamenti: ‘Non commettere adulterio, non ammazzare, non rubare, non desiderare’, e tutti gli altri, si compendiano in queste parole ‘Amerai il prossimo tuo, come te stesso’. L’amore non fa del male al prossimo. Il compimento della legge è dunque l’amore” (Rom., 13, 8-10). “Vi esorto dunque, io prigioniero nel Signore a tenere una condotta degna della vocazione con cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e dolcezza, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, studiandovi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza della vostra chiamata; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti, il quale è sopra a tutto, opera in tutto ed è in tutto” (Ef., 4, 1-6).
Un solo peccato irremissibile esiste ed è il peccato contro lo Spirito Santo; questo peccato è la negazione espressa o pratica del disegno salvifico del Padre. L’Evangelista Matteo ci dice: “Perciò Io vi dico: Ogni peccato e ogni bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. Chiunque parlerà contro il Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma chi avrà parlato contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato né in questo secolo né in quello avvenire” (Mt., 12, 31-32).
Per chiarirci ritorniamo un istante a Paolo: “Voi non avete ricevuto uno spirito di schiavitù, per cadere di nuovo nel timore, ma avete ricevuto uno spirito di figli adottivi, per cui gridiamo: Abba, il Padre. Lo Spirito stesso rende testimonianza insieme al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Se figli, anche eredi; eredi di Dio, coeredi di Cristo, poiché soffriamo insieme per essere glorificati insieme” (Rom., 8, 15-17).
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E ci ripete: “Ora, la prova che voi siete figli, sta nel fatto che Iddio mandò lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori, il quale grida: Abba, il Padre. Sicché tu non sei più schiavo, ma figlio, e se figlio, anche erede da parte di Dio” (Gal., 4, 6-7).
Il peccato contro lo Spirito è l’unico peccato dal quale dobbiamo temere il non perdono. È l’affermare che Dio ci è estraneo, che Dio non ci ama, che Dio ci è indifferente, che Dio non ci perdona, che l’azione di Dio nel mondo non è stata redentiva e che noi dobbiamo ancora pagare per tutti i peccati che abbiamo commesso, come se il Cristo non fosse morto e risorto per noi, come se noi non fossimo i coeredi di Cristo. È vivere con la convinzione che ogni giustizia è nostra, che siamo noi gli autori di tutta la nostra salvezza. È l’atteggiamento di indifferenza rispetto a Colui che ci chiede solo di lasciarci amare. Non esiste nel cristianesimo una determinata e fissa legge morale rivelata. La morale che esiste è l’implicita legge di un animale sociale raffinato che si chiama anche “politica”. Non c’è altra morale che questa. Parlare di morale è parlare di sociologia politica, non di teologia. Non si può uscire dallo jus conditum o dallo jus condendum. Il positivismo sceglie di trattare solo dello jus conditum, ma è chiaro che c’è in noi un’esigenza di giustizia che chiamiamo jus condendum. Ma tutto questo nulla ha a che fare con la fede. È una esigenza di carattere politico perché nessuna società può esistere senza legge. Chi ha dato potere di formulare leggi sulle azioni mie più segrete e nascoste a qualcuno? In nome di chi, e perché? Posso io essere considerato soggetto e schiavo di una natura anonima e immutabile? Posso essere soggetto a un giudizio che non si basi sulla mia “ragion veduta”, sulle mie più profonde convinzioni, ma che si basi solo sull’aspetto esterno di un comportamento ambiguo e diveniente? È a questo punto che comincia a farsi strada l’idea dell’io etico più maturo, che obbedisce alla norma non perché è la norma del padre, (Freud), né perché teme una sanzione, né solo perché c’è un imperativo categorico ancora metafisico e legato alla natura o alla sostanza platonica – ma debbo ubbidire perché “io” (l’io etico) considero non adatto e non degno di “me” quel comportamento. Posso sfuggire a tutti i tribunali, posso essere perdonato da tutti gli Dei, ma non posso né fuggire né essere perdonato da me, se infrango la “legge” che io stesso mi sono dato. Non me la sono data da solo. Me la sono costruita esaminando e ponderando le motivazioni addotte da tutti i predicatori o i riformatori etici che ho letto (Socrate, Platone, Mosè, Cristo, Pitagora, Budda, Confucio, e così via), e mi sono “convinto” che questo è il comportamento più “dignitoso” e più adatto a me, che possa esistere. Accettando le “mie” regole divento anche “responsabile”. Assumo le conseguenze delle mie azioni. Mi osservo e mi giudico 141
senza pietà; sono instancabile in questa attività. L’“io” è posto irreparabilmente davanti al “me stesso”. Bene e male non esistono in sé, ma sono parole che adattiamo ai nostri scopi: tutto ciò che facilita la vita lo chiamiamo bene (la vita umana, beninteso: ad esempio gli antibiotici sono contro la vita, ma sono “buoni” perché servono a noi), e chiamiamo male ciò che la ostacola. Ma oltre al bene e al male fisico, ce n’è uno ancora più importante, ed è il bene e il male morale. Cos’è “morale”? È quel comportamento (anche solo interiore e del tutto mentale) che “io” giudico degno di me, della mia dignità (intesa come risonanza anche emotiva). È il giudizio “sul” comportamento, dovuto in ultima analisi alla storia evolutiva dell’uomo e ai preconcetti e pregiudizi sociali e collettivi del gruppo al quale apparteniamo. La mia opinione “morale” dunque è fondata solo sul fatto che è “indiscutibile”, anche se è condivisa dagli altri, o da Dio nel suo giudizio insindacabile. Poi, e per estensione (in seguito alla nascita dello Stato e della civiltà cittadina), nasce e si forma la prospettiva giuridica, e infine nasce anche l’atteggiamento cosiddetto morale che riguarda tutti come imperativo attuale “religioso” (i comandamenti, dati come guida e consiglio di cui tener conto). L’imperativo categorico (o imperativo in potenza) diviene il mio imperativo attuale nella mia morale, diviene la mia “norma”. Nel modo cioè in cui io giudico degno di me, opportuno, questo o quel modo d’agire. Quanto sia fondamentale per stabilire nella mia mente morale cosa è degno fare e cosa non fare, quanto sia importante la religione in cui siamo stati allevati, la filosofia che abbiamo imparato ad amare, l’insegnamento della storia che ci ha preceduto, lascio a voi decidere. Certo è fondamentale. È la tradizione, il “tradere” ciò che l’esperienza delle passate generazioni ha esperimentato come fruttuoso e portatore di bene. C’è una “dignità intrinseca” al mio essere uomo, c’è un io morale che mi giudica. Io non debbo rispondere a nessun tribunale, ma io sono sempre sotto l’occhio vigile del mio “io morale”. La moralità che l’io morale vuole osservare sarà, più o meno, quella che i miei padri mi avranno involontariamente o volontariamente tramandato – salvo delle piccole varianti che la vita e le mie esperienze mi avranno convinto ad apportare – ma l’istanza morale che coglie l’imperativo è di carattere linguistico. È precisamente il mio essere capace di “dirmi” in tanti sensi formalmente diversi. È la mia capacità di “giudicarmi” e di condannarmi o di assolvermi. Da questa stima per noi stessi, noi siamo costretti ad assumere un atteggiamento che sia degno di essere poi “raccontato”, narrato, ai nostri figli, amici, parenti; a chiunque abbia la cortesia di ascoltarci. Tutti sappiamo per esperienza personale quanto piacere ci faccia e quanto gusto ci sia nel
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raccontare la nostra storia (quella che noi in quel momento reputiamo tale) a chi si compiace di ascoltarci. Ogni vivente sembra avere una preoccupazione fondamentale – oltre a quelle fisiche di sopravvivere, di mangiare per sopravvivere, di riprodursi per sopravvivere come “specie”, eccetera – ed è la preoccupazione di autoaffermarsi formalmente come si è – nel caso degli animali – o come si crede o si desidera di essere – nel caso degli esseri umani. Si manifesta qui un bisogno istintivo di noi uomini – che viviamo in un contesto sociale e non da isolati e selvaggi – di avere quelle manifestazioni di onore (di riconoscimento della nostra dignità) che, a seconda del luogo e del tempo in cui viviamo, sono d’uso quando si incontra una “persona”. Perché l’io è una persona, una maschera che indosso per recitare la parte che mi sono incaricato di recitare sul palcoscenico del mondo, o più concretamente, sul palcoscenico della comunità in cui vivo e agisco. È proprio per questo suo essere quasi “istintivo”, o comunque dovuto al nostro normale debito evolutivo, che un “diritto” nasce in tutte le culture, che ogni epoca e ogni latitudine hanno una morale; per il senso di risonanza emotivo/ razionale in ogni uomo che nasce. La realtà umana non è frutto di un meccanismo infernale, detto “natura” o “essenza”, che pre-determinerebbe inesorabilmente tutto il mio agire, cosicché non io agirei liberamente e con la dignità di persona, ma eseguirei ciò che è stato programmato per me, prima di me, dal caso, o dalla natura, o dalla formazione del mio essere biologico. L’uomo non sarebbe più il risultato della libertà e della dignità del suo proprio volere, ma sarebbe l’automa, che esegue un programma pre-registrato. L’imperativo (l’esigenza) di una vita morale è la condizione stessa del mio essere libero; neppure la “grazia” proveniente da Dio può togliermi questa libertà che Dio stesso mi ha dato, creandomi a “sua immagine e somiglianza”. È questa l’essenza della libertà che ci è concessa: l’inventare noi stessi e il mondo in cui abitiamo. È l’accettare l’idea che il mondo, così come lo conosciamo noi, è frutto non solo del “caso”, ma anche del passato storico della umanità che io “abito”, e anche del mio attuale e personale gusto estetico, morale, e anche metafisico. L’uomo ha la natura di “non avere natura”, se così si può dire; oppure ha la natura di “dirsi/ narrarsi divenendo”; l’uomo non è mai statico, come tutte le cose diviene sempre, e con lui diviene anche il complesso delle situazioni in cui deve manifestare un comportamento morale. Non c’è nulla di più falso e ingannevole che l’apologia del “naturale”. Dovremmo invece fare un’apologia dell’artificiale, o del civile. Tutto ciò che circonda un europeo odierno è “innaturale”. La parola “civiltà”, deriva dalla parola “città” (civitas-civitatis, da cui civilitas); ora il senso della città indica il principale manufatto, il capolavoro, fatto dall’uomo, che è il luogo 143
dove l’uomo vive e opera sicuro, non esposto al rischio delle belve, e delle temperie della natura (come alluvioni, frane, desertificazione, e così via). La città è fatta di case, fatte dalla mano dell’uomo in base a progetti umani, non fatte dalla natura. Nella casa abita il cuore dell’uomo, lì risiedono i suoi affetti, lì trova ristoro, lì ha la sua maggiore libertà. Nella città non esiste nulla di naturale, ma tutto è stato trasformato dall’uomo e per l’uomo, in base a gusti e a preconcetti, tipici di noi umani (e delle culture in cui abitiamo, e che parliamo). La città è il prototipo del mondo umanizzato, della innaturalità. È evidente, da quello che abbiamo scritto, che non esiste una legge naturale, nel senso di proposizioni definite e stabili; è vero invece che la creazione segue la regola “se questo, allora quello”; questa regola deve essere però intesa da noi come un “fatto fisico” e non come un principio del nostro agire morale. Neppure esiste una legge morale che viene dall’esterno dell’uomo, una legge teonoma. I dieci comandamenti (che sono stato dati a Mosè e quindi destinati al popolo ebraico, perché popolo sacerdotale) sono storicamente stati superati dal comandamento unico dell’amore verso l’altro, il prossimo. Ma l’amore non può essere una norma “obbligante”, perché l’amore o lo si ha, o non lo si può imporre per legge. Per questo l’amore, che è la nostra norma d’azione, è stato infuso nei nostri cuori mediante l’effusione dello Spirito: noi amiamo gli altri perché siamo stati e siamo a nostra volta amati dal Padre, che nel Figlio ci ha donato lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio. Dio ci ama (ama tutti gli uomini, “i giusti e i peccatori”) e il suo amore è ciò che cementa l’umanità e ne fa una comunità santa e santificante. La legge della libertà è l’amore. Non però io libero e solo in un mondo che è mio, ma io-con-l’altro in Gesù nel Padre, in comunione con un mondo che è dono a noi, perché lo trasformiamo in dono a nostra volta, come si esprime la liturgia. Il gesto eucaristico diviene così l’espressione somma della vita, e dunque dell’amore; cioè, come dicemmo, della moralità. La divinizzazione è opera dello spirito, perché in questo si riassume il disegno segreto del Padre che ha realizzato nel Figlio, Gesù. La divinizzazione avviene tramite l’amore, perché esso è la pienezza della vita e della koinonia divina; se “Dio è amore” (1 Jo., 4, 8) solo coloro che sono nell’amore e dall’amore possono divenire Dio. L’amore, del resto, è la forza creatrice della realtà: era lo Spirito di Dio che si librava sopra le acque del caos primigenio; è lo Spirito di Dio che adombra con la sua potenza Maria, per farne la Theotocos. È lo Spirito che scende sopra Gesù nel Giordano e che lo porta nel deserto; ed è lo Spirito che avvolge di turbine e fuoco i
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discepoli rifugiati nel cenacolo. Spirito della mutazione e della trasformazione, del costruire in novità di essere ciò che prima era confuso e indeterminato, disperso; Spirito di pentecoste, consolatore e unificatore. Ora l’unità è solo opera d’amore; è nell’amore che i dispersi si ritrovano e si fondono; è nell’amore che cessa la divisione e la distinzione tra il mio e il tuo, che fa dei credenti un cuore solo e un solo sentire (cf. Act., 4, 32) e nessuno può più dire “suo” quello che gli appartiene. È perciò con l’amore che Dio trasfigura l’immagine umana nella perfezione dell’immagine dell’uomo-Dio, Gesù. Chiunque ama è da Dio per il semplice fatto che non è più nato da volontà di uomo, né è frutto della carne (Jo., 1, 12-13) ma è reso simile nella natura alla natura divina. Nel gesto profondo dell’amore è vivo e vivente il gesto di essere riconciliati con il Padre o, in altre parole, il fatto di essere uomini in Gesù, l’uomo-figlio. Ancora per questo è la vita un dinamismo avvolgente ed evolvente, non una stasi, un possesso dato una volta per tutte: è solo vivendo che si diviene viventi, cioè è amando che si diviene amanti. Riuniti dal Padre nel Figlio unigenito e incarnato, nel vincolo dello Spirito che è Amore, l’uomo si trova immerso già da ora (anche se potremmo sottolineare il non ancora) nel vortice della vita e della dinamica trinitaria: in Dio viviamo, siamo nel mondo l’irradiazione della sua gloria, la presenza della sua salvezza, il segno della sua unità nella distinzione delle Persone. Il vincolo di unità è lo Spirito, cioè l’amore che collegandoci l’uno all’altro, diviene non legge, ma essere in e con, e per questo unica condotta, unico rapporto possibile. Tutta la problematica morale, senza eccezione, viene risolta da questo semplice principio. Non ne seguirà una morale negativa o di comando, ma uno slancio verso, un tendere a, che non costituisce una anomia, una mancanza di legge, ma la legge dell’esserci, la legge dell’uomo, legge del dono, legge della libertà nello Spirito; cioè una moralità tutta in positivo, secondo quanto ci dice Paolo: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor., 3, 21-23). La salvezza viene esclusivamente dal Padre per mezzo del Figlio, che ci comunicano lo Spirito. Questo è un fatto che riguarda la Teologia e non l’etica. Il consiglio/ comando di amare il prossimo come noi stessi “eleva” (per azione dello Spirito) il comportamento umano ai limiti della partecipazione alla vita divina, ma non è in sé sufficiente per la salvezza, che è previa e che consiste invece nella “grazia”, totalmente gratis data. L’amore si inserisce nel complesso potenziale e realizzato nel concreto della storia personale e tribale del singolo, e quindi l’amore eleva e divinizza il comportamento comunitario che chiamiamo l’agire morale umano.
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CONTAMINAZIONI
Simone Luca Maestrone, L’“enigma mondo” nella Freiheitsschrift. La critica a Spinoza e il parallelismo onto-semantico nel trattato schellinghiano del 1809 Se si dovessero quasi per gioco accostare le schellinghiane Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi (1809) a un’opera d’arte, il paragone più calzante sarebbe probabilmente quello con una sinfonia di Gustav Mahler. L’accostamento musicale, che i più potrebbero trovare eclettico, è presto spiegato. L’opera di Schelling possiede i tratti di un’indagine profondamente composita. Il suo andamento richiama un susseguirsi quasi dialogico di temi, non sempre conseguenziali.1 Tale aspetto, su cui la Forschung si è più volte soffermata, è ben segnalato già nel titolo dello scritto. Non si parla, infatti, di un’indagine unitaria, bensì di “ricerche” al plurale, e questa pluralità d’intenti è del resto facilmente rintracciabile all’interno del testo stesso. Se si guarda alla struttura dell’opera si noterà che in essa si sedimentano e trovano un nuovo significato questioni già presenti in opere precedenti. A tal proposito l’esempio paradigmatico è
1 F.W.J. Schelling, Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden Gegenstände, in Id., Sämmtliche Werke, Bd. VII, hrsg. v. K. F. A. Schelling, Cotta, Stuttgart-Augsburg 1860, p. 333-416 [tr. it. e c/ di G. Strummiello, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi, Bompiani, Milano 2007]; d’ora in poi l’opera di Schelling sarà abbreviata con SW, seguito dal volume, dalla pagina originale e dalla pagina della traduzione, talvolta leggermente modificata. Lo stesso Schelling sottolinea l’andamento dialogico e a tratti rapsodico del suo testo: Cf. SW, VII, 410 Anm.; p. 265.
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costituito certamente dalla distinzione dell’essenza in quanto “fondamento d’esistenza” e dell’essenza in quanto “esistente” (SW, VII, 357; 141) 2, già apparsa nella Naturphilosophie, ma che assume in questo testo una ben diversa centralità. Nondimeno nelle Ricerche si affacciano tematiche che troveranno pieno spazio solo in opere successive. A titolo esemplificativo si potrebbe ricordare la fondamentale comparsa di una “libertà originaria” che Schelling identifica tout court con la cosa in sé kantiana (SW, VII, 351-352; 129), mossa che si renderà del tutto perspicua solo alcuni anni più tardi, nelle Conferenze di Erlangen (1821). Ma non solo, oltre a questo carattere di revisione/anticipazione della propria filosofia, in questo scritto sono rintracciabili anche nuclei tematici che appaiono qui in forma di abbozzo e scompaiono subito dopo, mentre il lettore si aspetterebbe di vederli sviluppati in opere successive. Un tema caratteristico che scompare già l’anno successivo nelle Lezioni private di Stoccarda (1810) è quello dell’“auto-predestinazione” dell’uomo, annoverabile fra le pagine più enigmatiche del trattato3. Proprio in quest’ambiguo carattere generale, apparentemente privo di forma e sviluppo unitari, così come di un vero e proprio centro, si sente l’anacronistica affinità con il compositore austriaco: la cellula melodica che non viene portata a pieno sviluppo e si dissolve ironicamente, la rielaborazione talvolta straniante di motivi di opere precedenti, l’eco anticipata (Vorklang), gli improvvisi cambiamenti di ritmo e ovviamente un sapiente citazionismo. Analogamente a un componimento mahleriano l’opera schellinghiana è, in effetti, intessuta di citazioni, cripto-citazioni, lievi rimandi e veri e propri confronti con la tradizione che l’ha preceduta. L’eterogeneità e l’ampiezza dell’elenco di autori e testi chiamati in causa da Schelling in questo, pur breve, trattato ha ben pochi precedenti nella sua produzione. Si va dal Timeo platonico alla Teodicea e agli scritti di logica di Leibniz, dalla Religionsschrift kantiana alla dottrina agostiniana del peccato, il tutto immerso in una tetra atmosfera e terminologia teosofica, tipica del primo periodo monachese, che fa capo agli scritti del philosophus teutonicus (J. Böhme) assimilati, come è noto, attraverso la tradizione del pietismo svevo. Anche se il catalogo degli autori citati in queste pagine potrebbe facilmente proseguire (Baader, Fichte, Hamann, F. Schlegel), il confronto più significativo per l’economia del testo resta però quello iniziale con Spinoza. La
2 Nella risposta a Eschenmayer dell’aprile 1812, al fine di rendere più chiara la nozione di Existenz apparsa nella Freiheitsschrift, Schelling distingue fra “esistente” (Existirende) determinato e “esistenza” in generale in quanto “puro esistere”, l’Existenz della Freiheitsschrift sarebbe da intendersi sempre secondo la prima delle due accezioni (Cf. SW, VIII, 164). 3 Cf. SW, VII, 386-387; 207-209.
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cosa non stupisce, fin dagli esordi Spinoza assume un ruolo centrale nel tentativo schellinghiano di sviluppare un proprio sistema filosofico quale correttivo dell’idealismo unilaterale fichtiano4. Nel caso particolare delle Ricerche l’importanza di tale critica si lega però indissolubilmente alla più ampia questione introduttiva del panteismo e del “più alto” (Heidegger) significato dell’identità. Lo scopo di Schelling è smarcare la propria nozione di panteismo dal fatalismo e ribadire la propria distanza da Spinoza, che, per quanto panteista, professava una dottrina priva di vita e dunque una visione meccanicistico-determinista. Sull’argomento esistono già eccellenti ricostruzioni e, per non ripetere nei limiti del possibile il già scritto5, ci concentreremo qui sugli aspetti teorici che più ci interessano, trattando piuttosto sommariamente il contesto in cui sono inseriti. L’obiettivo di fondo del nostro scritto è duplice, da un lato evidenziare un particolare aspetto della critica a Spinoza contenuta nelle prime pagine del testo, dall’altro tratteggiare per sommi capi un parallelismo fra la circoscritta indagine logica delle prime pagine e la struttura ontologica di fondo dell’intero trattato. Come ha giustamente sottolineato Martin Heidegger6, le Ricerche si aprono con una domanda fondamentale: esiste una compatibilità fra libertà e sistema? È possibile conciliare la nostra libertà individuale, sentita come un “fatto”, con una “visione scientifica del mondo”? Schelling non ha dubbi in proposito, ma alla sicurezza con la quale risponde in modo affermativo non fa poi seguito un’articolazione della risposta altrettanto semplice. Per cercare di comprendere i motivi di questa compatibilità dobbiamo in primo luogo spiegare che cosa significhi “sistema” in questo particolare periodo del suo Denkweg. Parlare di una “visione scientifica del mondo”, ossia di un sistema, significa per Schelling parlare dell’omnitudo realitatis, di ciò che la scienza contemporanea denominerebbe l’universo nella sua interezza.
4 A. Bowie, Schelling and Modern European Philosophy, Routledge, London-New York 1993, p. 15-17, 23. 5 Oltre alle ben note analisi di Martin Heidegger (M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, c/ di E. Mazzarella, C. Tatasciore, Guida, Napoli 1994), che si concentrano proprio sulla prima parte del testo, possiamo certo rimandare a H. M. Baumgartner, «Introduzione»: panorama, struttura e problemi, in RICERCHE FILOSOFICHE SULL’ESSENZA DELLA LIBERTÀ UMANA. Commentario, c/ di F. Moiso, F. Viganò, Milano 1997, p. 135-150; J. Hennigfeld, F.W.J. SCHELLINGS «Über das Wesen der menschlichen Freiheit», Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2001, in particolare p. 37-46; in àmbito italiano, va certamente menzionato D. De Pretto, La questione del Panteismo, in L’essenza della libertà. Guida alla lettura delle Ricerche Filosofiche di F.W.J. Schelling, c/ di F. Forlin, M. Dalla Valle, Mimesis, Milano 2010, p. 33-59. 6 M. Heidegger, Schelling, cit., p. 49-61.
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L’esordio delle Lezioni di Stoccarda esprime, con una certa solennità, appunto questa convinzione: “In che misura è possibile in generale un sistema? Risposta: già molto prima che l’uomo pensasse di farne uno, un sistema esisteva: il sistema del mondo”7. Il sistema è dunque qui inteso come la totalità monistica per antonomasia, quello che Hegel chiamerebbe “Spirito assoluto” e lo stesso Schelling ha definito nella propria Filosofia dell’identità “Ragione assoluta”, ma che entrambi non esitano più brevemente a indicare come “Dio” o l’“Assoluto”8. Secondo l’approccio metafisico difeso nelle Richerche, tutto ciò che esiste è contenuto in questa totalità, poiché, come afferma Schelling, “prima o al di fuori di Dio non c’è nulla” (SW, VII, 357; 143). La posizione filosofica che difende una tale convinzione è definita in termini generali nelle prime pagine del trattato come “panteismo”. Ma, aggiunge subito Schelling, questa “dottrina dell’immanenza delle cose in Dio” (SW, VII, 339; 99) non sfocia necessariamente, come molti allora professavano, in una visione determinista della realtà. L’identificazione tra panteismo e ateo fatalismo è certamente uno degli esiti più noti della celebre pluridecennale querelle su Spinoza9, che avrebbe trovato, pochi anni più tardi, nell’aperta polemica fra Jacobi e Schelling il suo burrascoso capitolo conclusivo. Il bersaglio polemico esplicito in queste pagine è comunque F.
7 SW, VII, p. 421; p. 143. 8 In questo frangente non ha importanza sottolineare che per il più anziano degli Stiftler questa totalità era chiusa, mentre per Schelling deve, per sussistere, restare aperta. Wolfram Hogrebe ha rimarcato questa essenziale differenza parodiando una celebre formulazione hegeliana per esprimere la “variante aperta” di Schelling: “das Wahre ist das Ganze bis auf Eins” – “il vero è l’intero meno uno” – (W. Hogrebe, Predicazione e genesi. La metafisica come euristica fondamentale a partire dai Weltalter di Schelling, c/ di S. L. Maestrone, Rosenberg & Sellier, Torino 2012, p. 124). Markus Gabriel ha messo a frutto questa intuizione schellinghiana nella sua concezione di una “ritrazione costitutiva” del mondo (Cf. M. Gabriel, Il senso dell’esistenza. Per un nuovo realismo ontologico, c/ di S. L. Maestrone, Carocci, Roma 2012, p. 57; si veda anche Id., Die Welt als konstitutiver Entzug, in Was sich nicht sagen lässt. Das Nicht-Begriffliche in Wissenschaft, Kunst und Religion, c/ di G. Kreis, J. Bromand, Akademie Verlag, Berlin 2010, p. 85-100). Nel caso della Freiheitsschrift questa “apertura costitutiva” è da rintracciarsi nel ruolo del Grund, che, per quanto non si lasci mai del tutto ridurre a sistema “esistente”, costringendo quest’ultimo a mantenersi epistemicamente “aperto”, è comunque ricompreso nel più ampio orizzonte dell’Indifferenza. 9 La controversia intorno a Spinoza, che si sviluppò in Germania alla fine del diciottesimo secolo, può essere suddivisa in tre episodi successivi. Il dibattito si aprì con la pubblicazione delle Lettere sulla dottrina di Spinoza (1785) di Jacobi, si riaccese con il cosiddetto Atheismus-Streit (1798) intorno a Fichte, e si concluse con la pubblicazione (1812) della risposta schellinghiana allo scritto di Jacobi Von den göttlichen Dingen. Su quest’ultimo atto della controversia, con particolare attenzione al ruolo giocato da Schelling all’interno del dibattito, si veda l’ampia antologia di testi critici e opere dell’epoca, Der Streit um die Göttlichen Dinge, c/ di W. Jaeschke, Meiner, Hamburg 1999.
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Schlegel, il quale, convertitosi al cattolicesimo proprio in quel periodo, nel suo libro sulla saggezza e la lingua degli indiani (1808) asseriva che ogni spiegazione panteistica della realtà non fosse altro che un puro “gioco combinatorio” della ragione dietro al quale si sarebbe nascosto il più cieco fatalismo e, in ultima istanza, la più immorale forma di nichilismo, intendendo con ciò essenzialmente l’impossibilità di distinguere il bene dal male. Quest’opinione, di derivazione jacobiana, era per Schelling inaccettabile. Del tutto post-kantianamente, la posta in gioco era la legittimità di poter argomentare in modo “scientifico” sulla totalità, più in breve, su Dio stesso, punto sul quale la rottura tra Jacobi e Schelling diverrà presto insanabile. Più nello specifico, nelle Ricerche il problema centrale restava per il filosofo di Leonberg l’eccessiva genericità del concetto di panteismo adoperato da F. Schlegel. Ma perché Schelling reagì in maniera così veemente allo scritto del più giovane degli Schlegel? Possiamo in linea del tutto preliminare affermare che egli in quegli anni difendesse una dottrina panteista? Per quanto gli studiosi non siano unanimi nell’accettare tale conclusione10, il porre la questione di una possibile trascendenza (libertà) nell’immanenza del sistema, come domanda preliminare di tutto il trattato, sembra rinviare a una posizione monistica che potrebbe certamente essere definita panteistica. D’altronde le parole di Schelling non difettano qui certo in chiarezza: “Non si potrebbe infatti negare che, se con panteismo non si indicasse nient’altro se non la dottrina dell’immanenza delle cose in Dio, ogni concezione razionale dovrebbe essere rapportata in un senso o nell’altro a tale dottrina” (SW VII, 339; 99). Una tale opinione viene ribadita nella parte conclusiva del testo: “se qualcuno volesse chiamare questo sistema panteismo […] questo gli si potrebbe anche concedere” (SW, VII, 409; 263)11. Il problema è dunque l’esatta formulazione del concetto, senza la quale si rischia inoltre di interpretare in modo scorretto la forma più nota di panteismo, ossia lo spinozismo. Secondo una diffusa spiegazione superficiale, prosegue Schelling, il panteismo consisterebbe “in una piena identificazione di Dio con le cose” (SW, VII, 340; 101). Un’identificazione fra gli enti finiti e l’essere supremo che condurrebbe, o a un crasso materialismo, o a un radicale “acosmismo”, e che comunque non avrebbe nulla a che vedere con la dottrina di Spinoza. Queste
10 Si pensi a Horst Fuhrmans che definì la posizione schellinghiana nella sua fase intermedia, aperta proprio dallo Scritto sulla libertà, come una forma di “teismo esplicativo” (H. Fuhrmans, Schellings Philosophie der Weltalter, Schwann, Düsseldorf 1954, p. 450-469). 11 Con un’ammissione che va nella stessa direzione si concludono le Stuttgarter Privatvorlesungen dell’anno successivo: “Allora [sc. al compiersi del sistema] Dio è realmente tutto in tutto e il panteismo è vero” (SW, VII, 484; p. 192).
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ipotesi, infatti, così come quella ancora più assurda di un’identificazione della singola cosa con la divinità, sono a parere del Nostro ben distanti dalle tesi professate nell’Etica. Come egli chiarisce subito, in Spinoza vige un’essenziale distinzione ontologica e logica (differenza di genere) fra l’essere in generale (sostanza) e le entità finite (modi). Richiamandosi palesemente alle definizioni di “sostanza” (Def. III) e di “modo” (Def. V) del primo libro dell’Etica Schelling afferma: “Dio è ciò che è in sé e può essere concepito soltanto a partire da sé; il finito, invece, è ciò che è necessariamente in un altro e può essere concepito solo a partire da quest’altro”12. Schelling individua nelle sopra menzionate interpretazioni fallaci della dottrina spinoziana un errore logico comune: una “generale incomprensione della legge di identità o del senso della copula nel giudizio” (SW, VII, 341; 103). Quest’osservazione apre una sezione altamente significativa dello scritto, è qui che compare la struttura logica che si ripeterà nell’impianto ontologico generale dell’intero trattato. La struttura logica a cui ci stiamo riferendo è il giudizio elementare predicativo (soggetto legato al predicato tramite la copula), mentre l’impianto ontologico è costituito dalla distinzione fra “fondamento” ed “esistente”, ricompresi in ultima istanza nell’orizzonte monistico del non-fondamento o indifferenza13. Questa struttura ontologica ci dice che l’essenza (Wesen), ossia Dio14, è costituito da qualcosa che “eksiste”, il “Dio sensu eminenti” (SW, VII), cioè il sistema, e da qualcosa che, seppur in Dio, è altro da Lui, una sorta di sostrato irrazionale su cui poggerebbe la realtà. Come questo fondamento è la “base” gnoseologicamente
12 SW, VII, 340; 101. Si noti come il primo diretto richiamo a Spinoza all’interno del trattato serva surrettiziamente a Schelling – accentuando il più possibile la differenza fra sostanza e cose – a mostrare che anche la forma “classica” di panteismo ammette distinzioni nell’immanenza. 13 Come ricorda F. Forlin, Limite e fondamento. Il problema del male in Schelling (18011809), Guerini, Milano 2005, p. 283-284, Heidegger ha messo per primo in luce la relazione fra soggettopredicato e fondamentoesistente, ma sembra non aver voluto vedere il rapporto che intercorre fra la copula e l’Ungrund, avendo tralasciato inspiegabilmente nella sua analisi le ultime pagine del trattato. 14 Heidegger, Schelling, cit., p. 186, definisce il Wesen schellinghiano, a sua volta ripartito in “esistente” e “fondamento”, come ogni “singolo ente che sta in se stesso come un tutto”. Questa concezione è corretta, ma incompleta. Il Wesen è in primo luogo l’Assoluto, la totalità, che si distingue in una parte intelligibile, il sistema di ciò che esiste, e in una base o sostrato di tale sistema, che resta per definizione “indeterminabile”. Tale struttura si ripete, come sostenuto da Heidegger, in ogni singolo elemento del sistema, cioè in ogni singolo ente. Si potrebbe affermare, seguendo Markus Gabriel, che il Grund è “energia continuativa”, ossia ciò che tiene insieme un mondo altamente discrezionale (cf. M. Gabriel, L’assoluto e il mondo nella Freiheitsschrift di Schelling, c /di S. L. Maestrone, Rosenberg & Sellier, Torino 2012, p. 141).
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impenetrabile dell’esistente, che, in quanto esistente, è determinato e conoscibile, così il soggetto si fa base della componente predicativa ad esso attribuita. Un soggetto senza predicati sarebbe qualcosa di inconoscibile, e dunque non sarebbe nemmeno più soggetto. Io chiamo questo rispecchiamento fra giudizio e piano ontologico, parallelismo onto-semantico. Tale parallelismo non agisce solo come possibile chiave di lettura delle Richerche, ma è una delle risposte che Schelling propone in relazione a uno dei problemi di fondo di tutta la sua filosofia, ovvero, come vedremo fra poco, è una modalità per pensare il paradossale “storicizzarsi dell’assoluto”15. Dimostrare ragionevolmente una tale spropositata tesi, vista la complessità del percorso schellinghiano, esula dagli obiettivi che ci siamo posti in questo saggio. Ciò che ad ogni modo possiamo fare è offrire alcuni spunti di riflessione correlati a queste pagine, che conducano nella direzione di una tale ambiziosa ipotesi. Manfred Frank ha ampiamente dimostrato l’influsso determinante della dottrina logica di Gottfried Ploucquet sul pensiero dei tre celebri Stiftler16. Questo influsso è rinvenibile chiaramente anche nelle pagine delle Ricerche dedicate a una chiarificazione dell’identità. Schelling, come Ploucquet, utilizza la copula, e non il segno dell’uguale, per formalizzare l’identità. Grazie a quest’accoppiamento (copula e identità) si rende subito manifesto che egli non intendeva l’identità come una vuota tautologia, ma piuttosto come un’“identità della predicazione”17. Come si noterà a breve, qui un argomento logico viene utilizzato per fondare una tesi metafisica. Tale strategia non è nuova nell’idealismo gnoseologico di Schelling e Hegel, si pensi alla celebre tesi della co-appartenenza del differente e dell’identico nella Differenzschrift, tesi da entrambi condivisa e che trova un’ulteriore formulazione proprio nella dottrina schellinghiana del giudizio18.
15 Su questa fondamentale questione del pensiero schellinghiano cf. P. David, Schelling de l’Absolu à l’histoire, PUF, Paris 1998. 16 Fra i molti luoghi testuali che si potrebbero richiamare, ne ricordiamo due, M. Frank, Auswege aus dem Deutschen Idealismus, Suhrkamp, Frankfurt a./ M. 2007, p. 312; dello stesso Frank, ma in lingua italiana, rimandiamo a Id., Natura e Spirito. Lezioni sulla filosofia di Schelling, c/ di E. C. Corriero, Rosenberg & Sellier, Torino 2010, p. 247-264. 17 Id., Auswege, cit., p. 336. Cf. W. Hogrebe, Predicazione e genesi, cit., in particolare § 14. 18 Alla base di tale formulazione si trova il pensiero platonico del “terzo che media” fra il “limite” e l’“illimitato”, o, detto altrimenti, in una formulazione sempre platonica, ma ampiamente utilizzata dallo stesso Schelling, del “più bello fra tutti i legami” (desmos, Band). Il primo concetto è centrale nel Filebo (14c, 23d), il secondo nel Timeo (31c, 36a). L’intera riflessione intorno all’“enigma del mondo” è riconducibile a questi due dialoghi platonici, che Schelling commento ampiamente in giovane età (cf. F.W.J. Schelling, Timaeus (1794), c/ di F. Moiso, F. Viganò, Guerini, Milano 1995).
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Ciò che non deve sfuggire è che Schelling insiste sulla spiegazione della copula come identità non solo per difendere la tesi principe della sua filosofia, ossia l’identità di spirito e natura, ma anche perché nella struttura del giudizio si nasconderebbe uno strumento per indagare l’“enigma del mondo” (“Weltgeheimnis”; SW, I, 294; 40)19. In altre parole, in questa spiegazione si dovrebbe ravvisare un chiarimento del fondamentale enunciato monistico che ha alla base il peculiare significato attribuito da Schelling alla copula: l’Uno (infinito) è i Molti (finito). Il ben noto problema platonico, denominato suggestivamente dal giovane Schelling appunto “enigma del mondo”, trova la propria prima formulazione nel suo pensiero, in una celebre domanda della sesta lettera filosofica sul dogmatismo e criticismo: “come può l’Assoluto uscire da se stesso e contrapporsi un mondo?” (SW, I, 310). Tale essenziale interrogativo, non privo di una certa “vertigine neoplatonica” (Deleuze), può essere liberamente riformulato in modo seguente: come erompe la molteplicità dall’Uno, o ancora, perché c’è differenza e non solo mera identità? Che questa sia una Leitfrage della filosofia schellinghiana lo dimostra ad esempio una sua celebre riformulazione, di ben trentanove anni più tardi, che riafferma in altri termini la stessa preoccupazione: “perché in generale vi è senso, perché al posto del senso non vi è l’insensato?”20. Anche se in Filosofia e Religione (1804) si era stabilito a chiare lettere che non c’è passaggio fra infinito e finito, ma solo un salto, un’inesplicabile “caduta” nel finito, la questione presentata da Platone nel Filebo non era certo un affare chiuso per Schelling. Tutt’altro, a nostro avviso le prime pagine dello Scritto sulla libertà sono un ottimo esempio di quella che oserei definire la “metafisica della differenza” schellinghiana, metafisica che ha come oggetto d’indagine privilegiato proprio il sorgere della differenza dall’indifferenziato o, detto altrimenti, il progressivo storicizzarsi dell’assoluto. Come comincia a delinearsi fin dall’elenco delle false interpretazioni del panteismo, non sembra quindi casuale che l’intera critica a Spinoza si concentri in queste pagine sempre sul rapporto fra sostanza e modi finiti. A differenza che in altre analoghe pagine dedicate a Spinoza, non c’è qui traccia della critica all’ambigua natura cartesiana degli attributi e alla loro impossibile compenetrazione21. Lo stesso problema dell’immortalità dell’anima – come è noto, oggetto
19 La paginazione italiana fa riferimento a F.W.J. Schelling, Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, c/ di G. Semerari, Laterza, Bari 1995. 20 Per “insensato” s’intende qui l’indifferenziato. Solo la differenza produce determinazione, e dunque senso. 21 Si leggano ad esempio le dense pagine dedicate a Spinoza come prosecutore della dottrina cartesiana nelle Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna, tr. it. G. Durante, Laterza, Bari 1996, p. 29-40 (SW, X, 33-48).
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dell’aristotelico quinto libro dell’Etica – è qui di sfuggita richiamato solo in relazione alla forma modale d’“espressione” della sostanza. Anche quando si scaglia contro l’astrattezza e incompletezza del sistema spinoziano, da lui paragonato a “un’opera abbozzata solo nei contorni esterni”, il rimprovero è rivolto alla dottrina delle modificazioni (cf. SW, VII, 349-350; 123). Per approfondire meglio questa evidente restrizione tematica riprendiamo l’analisi dell’aspetto logico di queste pagine. Schelling parte qui da una ben precisa convinzione, nel giudizio la copula non esprime mai una mera “medesimezza” (“Einerleiheit”) fra soggetto e predicato. Ciò viene subito chiarito analizzando un enunciato predicativo elementare: “la proposizione ‘questo corpo è blu’, non significa che il corpo in ciò e per ciò, in cui e per cui è corpo, sia anche blu, ma solo che quella stessa cosa che è questo corpo è anche, quantunque da un altro punto di vista, blu” (SW, VII, 341; 105). Un’uguaglianza di “essere-corpo” e “essere-blu” sarebbe ovviamente incomprensibile. Vi è qualcosa, una “x” la chiamerà Schelling in un’analoga spiegazione contenuta nei Weltalter 22, che da un certo punto di vista è soggetto (corpo) e da un altro è predicato (blu). Questa “doppia prospettiva” a partire dallo stesso si basa sulla nozione leibniziana della duplicazione dell’essenza. Schelling cita in una nota la Defensio Trinitatis (1768) di Leibniz che è appunto la fonte di tale nozione, per la verità già ampiamente discussa in epoca medioevale. In quel testo Leibniz difendeva la duplicità dell’essenza di Cristo dall’eresia sociniana che non accettava la natura ancipite (divina e umana) di quest’ultimo. Senza entrare nei particolari23, ciò che ci interessa dell’esempio di Schelling è che la copula sembra rimandare a qualcosa che anticipa la separazione fra soggetto e predicato. Ribaltando la funzione temporale della copula della teoria aristotelica24, essa appare come un qualcosa che “precede” una qualunque “separazione originaria”, si tratti qui di quella fra soggetto e oggetto (Hölderlin) o della ben più complessa separazione di un universo discrezionale conoscibile. Qui Schelling segue per così dire l’impulso parmenideo della sua filosofia dell’Identità: la separazione è solo riflesso, apparenza, la verità è invece l’immobile unità originaria ed eterna. L’infinito è il finito, nel senso che entrambi si co-appartengono in una dimensione d’indistinzione che li precede. In questo breve passaggio intorno alla copula viene dunque antici-
22 Cf. SW, VIII, 213-214. 23 L’argomento è stato trattato più nello specifico da C. Kömürcü, Sensucht und Finsternis. Schellings Theorie des Sprachsubjekts, Passagen, Wien, 2011, in particolare p. 21-42. 24 Cf. Aristotele, Dell’espressione, 10, 19b.
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pata la figura e funzione dell’“Indifferenza” che compare al termine del trattato per ricomporre il “dualismo interno” fra “fondamento” ed “esistente”. A tal proposito Schelling afferma: “prima di ogni fondamento e di ogni esistente, quindi in generale prima di ogni dualità, deve darsi un’essenza; come potremmo chiamarla se non fondamento originario (Urgrund) o non-fondamento (Ungrund)?” (SW, VII, 406; 257). Come la copula che unisce, lasciando essere autonomamente i due termini del giudizio, così questo “nonfondamento” unifica la realtà, “scindendosi in due inizi ugualmente eterni” (SW, VII, 408; 259), o per meglio dire, lasciando essere la differenza senza né porla, né negarla. Questa sorta di Gelassenheit onto-semantica è ciò che Schelling in queste pagine chiama anche l’“amore, che è tutto in tutto” (SW, VII, 408; 261). Ora, tornando alle pagine iniziali del testo, alla prima spiegazione del giudizio ne fa subito seguito un’altra, di tutt’altro tenore, fornita da Schelling tramite esempi: “Posta per esempio la proposizione: ‘il perfetto è l’imperfetto’, il suo significato sarebbe: l’imperfetto non è per ciò e in ciò per cui è imperfetto, ma per il perfetto che è in esso […]. O: ‘il bene è il male’ – che vuol dire: il male non ha la forza di essere per se stesso e ciò che è in esso è […] bene” (SW, VII, 341; 105). In entrambi questi esempi, e ce ne sarebbero anche altri, appare chiaro che al soggetto viene attribuita un’importanza ben maggiore. Al centro dell’analisi non sta più la copula, ma il rapporto di dipendenza esistenziale del predicato dal soggetto. Soggetto e predicato di un qualsiasi giudizio vengono interpretati come “antecedente” e “conseguente”. Il predicato è contenuto implicitamente nel soggetto, si trova in esso come “compresso” (Frank). Anche questa nozione proviene dalla logica di Ploucquet, ma ciò che a noi interessa è questa sorta di carattere “progressivo” del giudizio, imprimente un senso dinamico, che potremmo definire eracliteo, alla struttura logica dell’identità: “Questo principio [sc. l’identità] non esprime un’unità, che, rigirandosi nel circolo della medesimezza, non sarebbe progressiva, e perciò stesso risulterebbe insensibile e priva di vita. L’unità di questa legge è immediatamente creatrice” (SW, VII, 345; 113-115). Il soggetto “produce” il predicato poiché ne è “fondamento”, aggiunge Schelling. Il predicato “dipende” dal soggetto poiché consegue da esso, ma tale diretta derivazione non dice nulla della sua essenza. In poche righe l’analisi del giudizio si trasforma nell’esplicazione nella legge dell’“assolutezza derivata” che è poi la soluzione del problema della compatibilità fra sistema e libertà con la quale si apriva il trattato: “Ciò di cui esso [sc. il soggetto] è, per la sua essenza, fondamento, è per ciò stesso qualcosa di dipendente e conformemente al concetto di immanenza, di compreso in lui. Ma la dipendenza non elimina l’autonomia, e non elimina neanche la libertà. Essa non determina l’essenza e dice solo che il dipendente, quale che esso sia, può darsi solo come conseguenza di ciò da cui dipende; 156
non dice cosa sia o cosa non sia. Ogni individuo organico, in quanto divenuto, diviene solo attraverso un altro, da cui dipende appunto secondo il divenire, ma non secondo l’essere” (SW, VII, 346). Secondo questa concezione la panteistica immanenza in Dio delle cose e la libertà non sono per nulla in contraddizione, “anzi proprio ciò che è libero, in quanto è libero è in Dio” (SW, VII, 347; 117-119). Come Schelling tiene a precisare, questa concezione espone anche il rapporto che sarebbe dovuto intercorrere fra la sostanza e i suoi modi, se Spinoza avesse avuto alla base una concezione organica della natura. L’infinito è il finito, nel senso che quest’ultimo è contenuto implicitamente nel primo, senza che però la sua derivazione (esplicazione) da esso ne impedisca un’esistenza autonoma. Se paragoniamo la complessiva spiegazione del giudizio, oscillante fra eternità e divenire, alla “dottrina dei principi” in Dio così come viene esposta nel trattato, le somiglianze appaiono evidenti. Recuperando l’immagine da Böhme, Schelling definisce il fondamento come “il desiderio che l’Uno eterno prova, di generare se stesso” (SW, VII, 359; 145). Il fondamento desidera “esplicarsi” nell’“esistenza” – come il soggetto nel predicato – e tale progressivo “esplicarsi” (Entfaltung), seguendo i dettami della Naturphilosophie, avviene “per gradi” (stufenweise), lasciando però sempre un fondante “residuo oscuro” che resta “impredicabile”. La complessa ontogenesi (teogonia) contenuta in queste pagine sembra in effetti sorretta da quella generale legge del divenire che afferma che “ogni nascita è nascita dall’oscurità [sc. fondamento] alla luce [sc. esistente]” (SW, VII, 360; 149). Ma a questa esplicazione eraclitea, che si renderà ancora più evidente a Stoccarda, fa da continuo contraltare l’ipotesi parmenidea che rende il modello negentropico (dal caos all’ordine) delle Ricerche estremamente labile. Portiamo solo un esempio. Discutendo l’apparente priorità del fondamento, che del resto verrà notata e criticata da Eschenmayer, Schelling afferma: “Nel circolo da cui tutto diviene non c’è alcuna contraddizione nel fatto che ciò da cui l’uno è prodotto venga esso stesso prodotto da quest’ultimo. Qui non c’è un primo e un ultimo, perché tutto si presuppone reciprocamente […]. Dio ha in sé un intimo fondamento della sua esistenza, che, per questo, lo precede come esistente; ma allo stesso modo Dio è ancora il prius del fondamento, in quanto il fondamento, anche come tale, non potrebbe essere se dio non esistesse in atto” (SW, VII, 358; 143-145). Per essere fondamento di qualcosa, quel qualcosa di cui il “fondamento” è fondamento deve ovviamente già esistere, altrimenti il fondamento non sarebbe alla base di un bel nulla e non potrebbe dirsi fondamento. Per questo motivo Schelling parla di “due inizi eterni”, ma la spiegazione non è certo priva di ambiguità, proprio
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per il continuo oscillare fra una linearità per così dire eraclitea e una circolarità che abbiamo definito parmenidea25. È come se, grazie a quest’oscillazione, si percepisse in questa fase il tentativo schellinghiano di staccarsi dalla propria filosofia dell’identità. Tentativo su cui nascerà progressivamente l’ampio disegno della tarda filosofia storica. Ma torniamo a Spinoza, con un giudizio complessivo sul suo sistema si chiude la sezione del trattato dedicata al problema del panteismo: “E qui, allora, una volta per tutte, la nostra esatta opinione sullo spinozismo! Questo sistema non è fatalismo perché concepisce le cose come comprese in Dio; infatti, come abbiamo mostrato, il panteismo non rende impossibile la libertà, per lo meno quella formale. […] L’errore del suo sistema non consiste affatto in ciò, che egli pone le cose in Dio, bensì nel fatto che esse sono cose – nell’astratto concetto degli esseri mondani, anzi della stessa sostanza infinita, che per lui appunto è anche una cosa” (SW, VII, 349; 121-123). La reificazione della sostanza, ossia concepire l’“Incondizionato” (Unbedingte) – uno dei primi nomi che Schelling attribuisce all’Assoluto – come una cosa (Ding) e dunque come qualcosa di condizionato (bedingt), è un errore che Schelling imputa a Spinoza fin dai suoi primi scritti. Non contemplando l’essenziale opposizione fra un principio spirituale e uno materiale, il suo sistema resta privo di “forza vitale” e resta lontano dalla “pienezza della realtà”. La filosofia spinoziana è unilaterale, prosegue Schelling, perché dimentica della parte ideale del sistema, in cui domina la libertà. Quest’ultima viene qui intesa in senso idealistico come auto-posizione, come autodeterminazione a partire dalla propria essenza, oppure, sempre seguendo il Kant della prima Critica, come quel “cominciare da se stesso una serie di cose o di stati successivi” (KrV, A 450/B 478; 302)26, che il filosofo di Königsberg chiamava “libertà trascendentale” e Schelling definisce fichtianamente “libertà formale”. La derivazione organica permette appunto questa “spontaneità assoluta” del derivato, solo che in Kant e Fichte essa era attribuita solamente alla volontà degli esseri umani, Schelling allargherà a tutto l’esistente questa formula27, trovandosi poi costretto a dover ridefinire 25 Gli stessi problemi si presenteranno nella complessa trattazione dell’“Inizio” nell’incompiuto progetto delle Età del mondo, dove Schelling sembra oscillare fra un’iniziale pacificante unità e un’originaria dualità oppositiva (cf. G. Strummiello, L’idea rovesciata. Schelling e l’ontoteologia, Pagina, Bari 2007, p. 49-78). 26 La paginazione italiana si riferisce a I. Kant, Critica della ragione pura, c /di V. Mathieu, tr. it. di G. Gentile, G. Lombardo-Radice, Laterza, Bari 2005. 27 SW, VII, 351-352; 129: “Ma resterà sempre notevole il fatto che Kant, dopo aver in primo luogo distinto le cose in sé dai fenomeni solo per via negativa, attraverso l’indipendenza dal tempo, e dopo aver trattato nelle discussioni metafisiche della sua Critica della ragion pratica l’indipendenza dal tempo e la libertà come concetti correlativi, non sia passato
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la libertà umana come facoltà (Vermögen) di poter compiere il bene e il male. La comparsa del male in Dio, il celebre “discorso temerario”, per usare le parole di Luigi Pareyson, solleverà ovviamente la questione della teodicea, risolta da Schelling grazie all’ambiguo statuto ontologico del fondamento, contenuto in Dio, ma essenzialmente diverso da lui. Ma questa ricerca, certamente degna di approfondimenti, non può qui essere presa in esame. Per concludere invece la nostra indagine, possiamo dunque affermare che la questione del panteismo e la critica a Spinoza possono essere lette in queste pagine come una riflessione intorno all’“enigma del mondo” e la risposta proposta qui da Schelling è fornita tramite la complessa “dottrina dei principi” in Dio, descritta anche tramite una parallela concezione dell’identità “dinamica” del giudizio, che permette, in ultima istanza, di pensare una forma di trascendenza nell’immanenza divina.
all’idea di applicare questo unico possibile concetto positivo dell’in-sé anche alle cose, ciò che gli avrebbe permesso di innalzarsi immediatamente ad un più alto punto di vista della riflessione e di superare quella negatività che contraddistingue la sua filosofia teoretica” (c.vo mio).
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Emilio Renzi, Nella risacca della storia. Servitù e grandezza della vita militare di Alfred de Vigny 1. Un’opera in più racconti Servitù e grandezza della vita militare di Alfred de Vigny (1797-1863) è un’opera apparsa in origine sotto forma di tre lunghi racconti pubblicati nella “Revue des Deux Mondes” tra il 1833 e il 1835 e in quell’anno raccolti in volume. Appartiene dunque alla stagione del Romanticismo e della Restaurazione europea. L’opera ha una struttura solo apparentemente semplice. Tre parti o Libri: due sulla “Servitù”, il terzo sulla “Grandezza”. All’incirca, pari tra loro. È una struttura che potremmo definire trina quanto alle arcate narrative, poiché ogni Libro contiene uno o più racconti, autonomi rispetto agli altri, e unitaria grazie al contenuto che corre da un capo all’altro. Il contenuto consiste a ben vedere in una pervasiva atmosfera di tensione tra la storia e la morale, tra una società che cerca di creare di nuovo se stessa dopo la folgorante parabola napoleonica, e una etica del Dovere che, come vedremo, è l’essenza della polarità tra “servitù” e “grandezza” nella “vita militare”. La vita sotto le armi di Alfred de Vigny ebbe una fulminea “falsa partenza” e un più lungo, monotono e deludente tracciato, cui man mano de Vigny sovrappose una ricerca di poeta e di prosatore, che culminò in una semiappartata gloria cui rese omaggio Charles Baudelaire andando a fargli visita sul letto di morte. Al romanzo storico Cinq-Mars, del 1826, fece seguire il racconto Stello, del 1832, nel quale de Vigny definì il poeta un “paria della società”, la cui salvezza sta nell’appartarsi dalla vita politica e sociale. In questa prospettiva de Vigny vedeva coincidere la figura del poeta e quella del soldato. “Appartengo” – fa dire a e di stesso Alfred de Vigny nel testo iniziale del primo Libro “alla generazione che, nata col secolo e nutrita di bollettini di guerra dell’imperatore, aveva sempre davanti agli occhi una spada sguainata, spada che arrivò a impugnare solo quando la Francia stava per riporla nel fodero dei Borboni” (p. 7). Vi sono passi, in queste prime pagine, che sono giustamente famosi. Parafrasarli sarebbe riduttivo: “Mi trovai a essere, verso la fine dell’Impero, un liceale svagato. Sentivamo la guerra come una viva presenza dentro il collegio; il tamburo copriva la voce dei maestri, e la voce misteriosa dei libri ci appariva come un linguaggio freddo e pedantesco. I logaritmi e i tropi ci apparivano come dei gradini per ascendere alla stella della Legion d’onore, l’astro più bello del firmamento, per dei ragazzi” (p. 11-12).
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Ai proclami e alle voci altisonanti seguirono però le attese irrisolte. Fui, scrive de Vigny, “spettatore più che attore” (p. 7). E ascoltatore di una storia è il narratore del racconto del primo Libro, “Lauretta e il sigillo rosso”. Nella fuga dell’Esercito borbonico da Parigi verso Arras e il Belgio, incalzato dalla ritornante Armée di Napoleone fuggito dall’Elba, un vecchio ufficiale assiso su una carretta racconta di esser stato comandato dal Direttorio, vent’anni prima, a trasportare sulla sua nave dei condannati alla Cajenna. Alla partenza gli fu consegnata una lettera chiusa da un sigillo rosso, da aprire in alto mare. Quando lo fa, legge che dovrà procedere alla fucilazione di uno dei condannati, un giovane la cui colpa è aver scritto versi irridenti i rivoluzionari. Il giovane era stato imbarcato con la fidanzata, Lauretta; una corrente di simpatia era nata tra il capitano e i due; e, afferma il capitano, (ossia, com’è chiaro, de Vigny stesso), vi sono “doveri odiosi”, che esigono abnegazione. La ragazza impazzirà; l’ufficiale andrà a riprenderla dai genitori quando stava per essere rinchiusa al manicomio di Charenton; la porterà con sé in tutte le campagne dell’Imperatore, su una carretta. Infine il racconto, per così dire “di secondo grado”, si salda nel racconto principale: anni dopo, il narratore, a sua volta diventato vecchio ufficiale, saprà che la donna sopravissuta alla Beresina (“i pazzi non si ammalano mai”, p. 57), era morta di crepacuore all’ospedale di Amiens, tre giorni dopo che il salvatore era stato steso da una palla a Waterloo. Un richiamo a una vicenda dell’epoca raccorda la conclusione del primo Libro all’inizio del secondo: era morto di dolore anche un capitano di marina che aveva obbedito all’ordine del Comitato di Salute pubblica di fucilare gli inglesi catturati in mare. De Vigny pone il problema: “giungerà mai una legge che in tali circostanze accordi il Dovere e la Coscienza?” (p. 65-66). Il secondo Libro ha appunto a tema “La responsabilità” e contiene il racconto “La veglia di Vincennes”. Nella spianata del forte di Vincennes presso Parigi due giovani tenenti passeggiano, discutono del Politecnico e di astronomia e di Laplace… i furori della Rivoluzione e dell’età napoleonica sono evidentemente alle spalle. Questi ufficiali non vengono dalla gavetta ma dalle Accademie professionali. Viceversa l’anziano sottufficiale che incontrano viene proprio da quel mondo. Il suo scrupoloso andirivieni nel controllare che la polveriera sia in sicurezza e che le quantità di esplosivi corrispondano ai registri, è interrotta dalla narrazione della vita che l’ha portato sin là. Un racconto, anche questo diciamo “di grado due”, si incastona dunque nel racconto principale. Da giovane recluta aveva incontrato una fanciulla che aveva potuto sposare grazie all’incoraggiamento della regina e della principessa di Lamballe, che l’avevano voluta in una recita. Un acquerello di grazia settecentesca precede la tragedia: un’esplosione terribile che si fa avvertire sino a Parigi scuote il forte; nell’ispezione il sottufficiale aveva contravvenuto alle norme regolamentari servendosi di un lume e sotto 161
il portello era rimasto un residuo di polvere pirica. Il cadavere smembrato giace tra il fumo, il Re passa in carrozza, molto velocemente; solerte, il comandante la piazza lo rassicura; del resto i due giovani polytechniciens non sono da meno, riprendono il sonno interrotto. La durezza è l’altra faccia dello scampato pericolo, la responsabilità detta comportamenti insensibili. Il terzo Libro reca la sovrascritta “Ricordi di grandezza militare” ed è ambientato in una Parigi notturna, percorsa e squarciata da esplosioni, da improvvisi silenzi. È la rivoluzione detta delle “Tre gloriose” (Giornate), quando, nel luglio del 1830, il popolo scacciò Carlo X, l’ultimo dei Borboni, per sostituirlo con Luigi Filippo d’Orléans, monarca costituzionale. Il racconto che la illustra narrativamente si intitola “Vita e morte del capitano Renaud Bastone di giunco”. Un reparto della Guardia è acquartierato presso il ponte di Jena. De Vigny, che si suppone fosse anch’egli di servizio in zona, vede che è comandato da un ufficiale che non ha armi, impugna solo una canna. Nota anche che dà ordini con calma e precisione; controlla la situazione. I due si riconoscono quando più forte è la vampa di una cannonata. A scandire la vita del capitano Renaud si succedono tre suoi racconti in prima persona. Figlio di un ammiraglio, giovanissimo si trovò imbarcato su una nave della spedizione di Napoleone (o, più esattamente e per allora, generale Bonaparte) verso l’Egitto. Nella sosta a Malta viene presentato a Napoleone, che gli dice di studiare (“matematica!”), in una scuola militare. Riceve una lettera dal padre, che è stato fatto prigioniero degli inglesi, la rilegge nelle nuove circostanze: lo metteva in guardia dalla vanità e spirito di dominio di Napoleone. La giovane età lo portò invece a un approdo diverso, entrare nel “corpo dei paggi” dell’Imperatore. Così, un giorno, “il caso, nostro padrone in tutto…”, gli fa assistere all’incontro tra Napoleone e Pio VII (papa Chiaramonti). Questo, nella scrittura di de Vigny, che tende alla ridondanza delle espressioni sentimentali, è un autentico “pezzo forte”. La scena è descritta dall’angolo visuale dell’adolescente, che passa dallo stupore alla paura allo sgomento. Per accenni, il Papa è a Fontainebleau in condizione di semiprigionia; Napoleone vuole convincerlo, o forzarlo?, a trasferirsi a Parigi, a guidare la Chiesa sotto la guida dell’Impero. Il Papa gli butta sul volto due sole parole, la prima volta “commediante!”; e quando l’Imperatore alza i toni e fracassa per terra un vaso, tragediante! (le due parole sono in italiano nel testo). Compresi, fa dire de Vigny al giovane, non il genio dell’uomo ma il suo carattere. (Per inciso, gli incontri avvennero realmente ma non se ne hanno resoconti. Invenzione dunque, quella di de Vigny, tipicamente “romanzesca”). Il paggio cresce ed è arruolato nel corpo che dovrà sbarcare in Inghilterra. Imbarcato su un naviglio piatto, è catturato dagli inglesi ed esattamente 162
dall’ammiraglio Collingwood, colui che aveva tenuto prigioniero il padre. È a lui che dà la parola d’onore di non fuggire. Un giorno, sceso a terra a Gibilterra, incontra un ufficiale francese che gli dice di unirsi a lui in un’evasione sicura. Mormora delle objezioni, fuggire sarebbe disonorevole. L’altro, più realista, trova che siano sottigliezze, lo irride: “In fede mia, non sono casista (sic, “casuista”) e se vuoi, ti invierò un vescovo che ti dirà la sua opinione”… Alla fine sarà liberato in seguito a uno scambio tra prigionieri e Collingwood, congedandolo, gli racconterà di esser stato a conoscenza della manovra e di aver apprezzato la fedeltà alla parola. Gli raccomanderà infine di “consacrarsi a un Principio piuttosto che a un Uomo”. Alla Beresina e poi a Reims rivedrà l’Imperatore sconfitto; quanto a lui, continuerà a battersi, ucciderà un ragazzo russo che stava per ucciderlo. Alla fine (che è l’inizio di questa serie di narrazioni ognuna delle quali è generata dalla precedente), sul ponte di Jena si farà uccidere da un ragazzo armato dai rivoltosi, ma ed è questa la domanda che tutte le stringe “Eravamo in guerra… non è più assassino di quanto lo fui io a Reims. Di quanti assassini si compone una battaglia? Ecco uno dei punti intorno ai quali la nostra ragione si perde e non sa che dire. È la guerra che ha torto e non noi” (p. 216).
2. Nella risacca della storia “La scrittura” osserva con apprezzabile finezza Eraldo Affinati nella sua Introduzione a Servitù e grandezza “nasce in una risacca dell’azione storica, quando tutto è già avvenuto e sia l’atto valoroso, sia quello pusillanime, sono irrimediabilmente trascorsi” (p. XX). Risacca: l’onda c’è stata, si è avventata, ha fatto quel che doveva fare, sta passando ed è passata, è seguita da un movimento uguale e contrario ma più debole, strascicato, svanente. L’attesa della “Grande Storia” è conclusa dalla disillusione delle “piccole vicende finali”. Il tenente Giovanni Drogo nel Deserto dei tartari di Dino Buzzati aspetta per una vita il nemico, quando questo è avvistato sul confine la malattia (l’età) lo fa uscire dal campo di battaglia… e gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Non c’è grandezza senza servitù né questa senza quella: l’una e l’altra stanno fra loro in una condizione di tensione. La “vita militare” è una esistenza in tensione. Nell’opera di Alfred de Vigny riscontriamo almeno le tensioni seguenti: tra il dolore e la morte: tra la morte data e subita e quella eseguita; tra la fatica (tutte le narrazioni si svolgono quando le condizioni meteorologiche sono avverse) e la costanza, il coraggio. Tra la lealtà alla parola data e i conflitti fra “cura di sé” e dovere; tra crudeltà (fucilazione dei marinai inglesi) e dignità del mestiere cui la società, lo Stato, si affidano nelle situazioni difficili. In ognuna delle scansioni (racconti primari, racconti inseriti, mise en abyme…) che compongono la partitura di Servitù e grandezza si 163
muovono “coppie” di protagonisti o comprimari: narratori e ascoltatori, giovani ufficiali imberbi e sottufficiali dalle facce cotte dall’età, indurite dai rischi delle campagne per tutta l’Europa. Giovanni Papini così condensò la decisione di Lev Nikolàevič Tolstòj di abbandonare la vita bella e partire con l’artiglieria contro i ribelli ceceni: “ragazze e Caucaso”. Un altro esempio di coppia dialettica, due mondi da (classicamente) conquistare. De Vigny non ha scritto Guerra e pace nemmeno lontanamente e in nessun senso, questo è ovvio. Tuttavia ha pur sempre descritto la società del suo tempo, la Francia della Restaurazione imposta dal Congresso di Vienna… “il tentativo intrapreso dai Borboni, con mezzi inadeguati, di ristabilire situazioni del tutto cancellate e su cui gli avvenimenti già avevano espresso la loro sentenza…” Da questo punto di vista, l’opera di de Vigny rientra a modo suo nella categoria del romanzo realistico dell’Ottocento, anche se non possiede il fulgore di quelli di Stendhal né la fluviale potenza di quelli di Balzac né l’amara lucidità di un Flaubert. In più, de Vigny ha osato un parallelo non frequente. Ha paragonato il militare al poeta. Come il militare è teso tra il pericolo e i regolamenti, l’esistenza e la norma, così il poeta è agito dalla polarità tra vita e forma, sentimenti e struttura. Il soldato e il poeta sono ambedue reietti, rifiutati dalla società: “Il Soldato, altro Paria moderno” (p. 219). La società li chiama, li onora quando servono, gli passa sopra e oltre quando non servono più. Baudelaire, abbiamo accennato, ebbe per de Vigny grande ammirazione, citiamo perciò “L’albatro” dai Fiori del male: Come il principe dei nembi è il Poeta che, avvezzo alla tempesta, si ride dell’arciere: ma esiliato sulla terra, fra scherni, camminare non può per le sue ali di gigante”. “Quel che v’è di più bello dopo l’ispirazione – scrive de Vigny è la dedizione; dopo il Poeta, viene il Soldato; senza alcuna colpa è condannato alla condizione dell’ilota” (p. 19). E tuttavia non è ancora questa la conclusione. Se “il valore nel mestiere delle armi consiste non tanto nella gloria dl combattere quanto nell’onore di soffrire in silenzio e di adempiere con costanza a dei doveri spesso odiosi” (p. 134), ecco le parole-chiave di Servitù e grandezza: dovere, onore. L’ONORE (così la grafia di de Vigny) è “la coscienza, ma una coscienza esaltata” (p. 28 e 223). L’elevazione a potenza, per così dire, di onore ossia l’idea fondamentale dell’opera, è “abnegazione” (p. 21, 60 e 134).
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Affidiamoci, come sovente, al Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano: “… rinnegamento di sé e disposizione di mettersi a servizio degli altri o di Dio col sacrificio dei propri interessi. Così in Matteo XVI, 24 e in Luca IX, 23: «se uno vuole seguirmi rinneghi se stesso e porti giorno per giorno la sua croce». Questo rinnegamento di se stesso, però, non è la perdita della propria individualità ma ritrovamento del vero «se stesso»”. Ossia e laicamente, è ri-scoperta, conquista (e sconfitte), metodo e volontà e “tenuta di gara”. È “ascesi” o esercizio, è ricerca.
3. Altri militari Ora, un apparente passo indietro. Se ho scelto Servitù e grandezza per un ciclo di conferenze alla Fondazione Corrente su Estetica e Romanzo, è perché quando Fulvio Papi volle invitarmi ero fresco della lettura di due romanzi recenti, italiani e “militari”: Limbo di Melania Mazzucco, e Il corpo umano di Paolo Giordano, ambedue apparsi nel 2012, rispettivamente presso Einaudi e Mondadori. Ora, i “romanzi militari” sono una rarità nella letteratura italiana contemporanea: i capolavori di Mario Rigoni Stern, Beppe Fenoglio, Carlo Emilio Gadda nella Grande Guerra, Emilio Lussu sull’Altopiano di Asiago, Manlio Cancogni in Albania, Mario Tobino in Libia e così via, appartengono al genere delle “testimonianze”. Certamente rese con stili di scrittura spesso straordinari: ma non opere di invenzione. Mentre i libri di Mazzucco e di Giordano hanno un’ambientazione che non è quella dei rispettivi mondi natii, i protagonisti sono appunto di “invenzione”, la trama ha svolgimento e contenuti dettati dalla forze delle cose da dire non da eventi esterni. Terminata la loro lettura mi era tornata in mente l’opera di de Vigny, che avevo letto negli anni, lontani, ingordi e felici, del Ginnasio. Secondo Paolo Giordano, il senso della scelta dei giovani italiani di oggi per il servizio militare volontario è la ricerca di una appartenenza a una comunità che non c’è o non viene trovata nell’odierna Italia slabbrata. Protagonista del romanzo della Mazzucco è il maresciallo degli alpini Paris Manuela: una donna. Siamo evidentemente nel dopo Guerra fredda o nel dopo Terza guerra mondiale ossia nel mondo globalizzato anche nella abolizione o sospensione della leva e in ogni caso nella decrescita degli Stati nazionali. Manuela è responsabile della “vita e della morte” del suo plotone: trenta uomini. Anche se, dopo l’esplosione del taleban suicida che ne ucciderà alcuni e ferirà gravemente il suo corpo, si sorprende lei sopravissuta a pensare che non sa bene che cosa voglia dire, quella responsabilità. Quella “abnegazione”. Da tutt’altra parte e con tutt’altra storia e cultura, un prefatore di eccezione nel secondo dopoguerra a Servitù e grandezza – il generale Charles De 165
Gaulle scrisse che l’opera di Alfred de Vigny offriva “il profilo filosofico del soldato come tipo umano in tempo di pace”. È l’intuizione o la previsione del nuovo ordine (o disordine) internazionale. Con questo però stiamo uscendo del tutto dal Romanticismo e dalla Restaurazione in Francia e quindi è l’ora di prendere congedo.
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PRATICA FILOSOFICA
Ambrogio Cazzaniga, Le radici “metafisiche” dell’Occidente (modelli per l’insegnamento di storia della filosofia Risalire alle “radici” della cultura occidentale vuol dire individuare le forze storiche generatrici da cui essa è derivata. Restando sul piano più specificamente filosofico, non è difficile identificare queste matrici fondanti: la “metafisica” greca, la “metafisica” biblica, la “metafisica” moderna. Viene qui usato il termine “metafisica”, anche se si è consapevoli che essa, a partire dall’ età moderna, è stata oggetto o di critica – a cominciare da Kant – o di rigetto soprattutto nella filosofia della seconda metà del XX secolo. Eppure, se si vogliono ricostruire le sorgenti da cui l’Occidente è scaturito, si devono fare i conti proprio con le “metafisiche” di base, ovvero con le “concezioni del Tutto” che sono state immesse nella civiltà di questa zona del Pianeta.1 Come si vede, in questo studio, assumo il termine “metafisica” in un’accezione la più possibile elementare e neutra, ovvero come il sapere che mira a scoprire il “senso del Tutto”. Alle due componenti del termine “meta-fisica”, attribuisco perciò le seguenti valenze semantiche: “fisica” si riferisce a ciò che riguarda la sfera dell’essere “mondano”; il prefisso “meta” invece riguarda il fatto che esso viene problematizzato con la categoria, razionalmente posta, di “Tutto”. Si tratta di vedere se il Tutto coincide con l’essere mondano oppure se comprende in sé anche “altro” essere, non empiricamente rilevabile. Proprio per questo motivo, non dovrebbe riuscire incoerente che io utilizzi il lemma “metafisica” in un lavoro che sfrutta alcune indicazioni di Heidegger, ovvero di un filosofo che, dopo aver sostenuto che la metafisica è il cuore insopprimibile non solo della filosofia ma dell'intera civiltà occidentale, ritiene di doverne proclamare la fine, poiché essa, in quanto sapere dell’“ente” (del finito mondano), avrebbe “dimenticato” l’“essere”. Quanto a coloro che parlano spregiativamente della metafisica perché sarebbe il sapere di ciò che sta “al di là” dell’esperienza, si deve rilevare che questa loro concezione respinge, giustamente, l’aprioristica e nebulosa nozione di “al di là”, ma, insieme, prende a pretesto quest’ultima per rifiutare la possibilità di qualsiasi 1
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Già Eraclito, in uno dei suoi frammenti più noti, affermava: “una sola è la sapienza: riconoscere la ragione per la quale il Tutto è governato attraverso il Tutto” [fr. 41].2 Fin dai suoi inizi, quindi, la filosofia greca aveva compreso che solo ‘elevandosi’ a questo supremo ‘punto di vista’, è possibile attingere quella “sapienza” (to sofon), di cui la “filo-sofia” è da sempre alla ricerca e che ha poi le sue ricadute sul piano storico concreto. Se ovvio può essere parlare di metafisica greca e moderna, può suscitare qualche riserva quella aggettivata come biblica: con questo termine, però, si vuole semplicemente sostenere che l’ebraismo e il cristianesimo, di cui si trova testimonianza appunto nella Bibbia, per quanto siano ambedue fondati sulla “fede” e non sulla “razionalità”, sono comunque determinazioni essi pure del “senso del Tutto”. Ed è proprio dall’intreccio, ora conflittuale ora concorde, tra le “metafisiche” greca e biblica, con le loro propaggini in età moderna, che è nato l’orizzonte entro il quale si è costituito l’Occidente. Per quanto riguarda la metafisica moderna, si deve subito precisare che il presente discorso riguarda solo un filone di essa, quello che si è costruito proprio a partire dalle prime due potenti radici ricordate. Se si prendono in esame, ad esempio, con una selezione che si spera non arbitraria e che in seguito si dovrà argomentare, le filosofie di Spinoza, di Diderot, di Hegel e di Nietzsche, si può sostenere che questa linea filosofica della modernità è come la ripresa, sia pure in un ambiente storico del tutto mutato, di un paradigma teorico dell’antica filosofia greca, che ha trovato, come si vedrà, nella nozione di physis il suo perno concettuale. Pertanto, la storia metafisica dell’Occidente si potrebbe schematizzare nelle seguenti tre formule: metafisica greca della physis, metafisica biblica (ebraico-cristiana) della “creazione”, metafisica moderna del “mondo”. Questa tripartizione non presenta, ovviamente, nulla di originale, perché riprende uno schema storiografico consolidato da lungo tempo. Ciò che però si vorrebbe sottolineare è che, per poterlo argomentare adeguatamente, è necessario collocarsi nel punto di vista di quella che si chiama, da alcuni decenni, la “postmodernità”, termine con cui si indica il momento storico attuale, segnato dal fatto che la spinta creativa e innovativa della modernità (i secoli XVII, XVIII, XIX e parzialmente il sec. XX) si sarebbe esaurita e saremmo perciò entrati in una fase storica nuova. Il lemma di “postmodernità”, a dire il vero, proprio per come è linguisticamente costruito e quindi discorso metafisico: ad esempio, quello nel senso sopra enunciato, che ritengo del tutto legittimo, purché se ne accerti lo statuto. 2 Traduzione mia. Letteralmente, la formula panta dia panta significa: “tutte le cose attraverso tutte le cose”. Ma la traduzione proposta non mi sembra che alteri il senso dell’originale. Mette conto invece rilevare che il verbo kybernan è il medesimo che, insieme al verbo periechein, viene attribuito, secondo Aristotele, all’apeiron di Anassimandro [vedi Aristotele, Fisica III 203b 10-12].
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per la sua genericità, implica sì la consapevolezza che la fase storica della “modernità” si sarebbe chiusa nelle sue forze traenti e che un’epoca nuova si starebbe aprendo, ma anche che non è ancora possibile dare un volto definito e ben determinato a quest'ultima – che perciò è, per adesso, un’epoca solamente “post”.3 Riandare alle metafisiche delle tre grandi epoche che hanno preceduto quella postmoderna che staremmo vivendo vuol dire, perlomeno, conoscere il complesso sfondo storico di quel futuro verso cui è incamminata l’umanità occidentale. Nel presente contributo – suddiviso in tre sezioni, corrispondenti alle tre metafisiche sopra ricordate – ci si propone di ricostruire, a maglie larghe e nelle linee essenziali, questo percorso. Quanto si andrà sostenendo, quindi, sarà guidato solo dalla finalità di attuare una sintesi – senz’altro discutibile e problematica – sul tema proposto: sarà come un indugiare per “fare il punto”, così da poter guardare, con maggiore consapevolezza, il nostro presente e il futuro che ci attende. La schematizzazione dell’intero corso storico della filosofia (e della cultura) occidentale in tre grandi paradigmi, quali propongo in questo lavoro, può suscitare l’idea che si tratti di un’operazione di semplificazione, per non dire di forzatura, dell’immenso materiale prodotto in alcuni millenni di storia. Il contributo vuole, però, qualificarsi come un’ipotesi di lavoro, con la quale mostrare che la coscienza umana, alla fine, quando si apre al massimo problema – il ‘senso del Tutto’ – non produce percorsi dispersi o frammentati, alternativi e inconciliabili, bensì pensa sempre la “medesima cosa”, e che le risposte che a quel problema sono state date sono (poche) variazioni all’interno di uno stesso spartito. Fuoriesce, infine, da questo lavoro l’intento di sondare come questo problema metafisico sia stato affrontato anche da altre culture – quella indiana, quella cinese ecc. Ma ritengo che, anche all’interno di esse, si possano rinvenire le medesime vie concettuali percorse in Occidente. Ad esempio, se si prendono in considerazione la nozione induista di Brahma o quella cinese di Tao, si può mostrare che la struttura concettuale a esse sottesa, alla fine, non è differente da quella della tradizione occidentale, a partire da quella fondativa della nozione greca di physis. Ma questo richiede uno spazio fisico e delle competenze che qui non sono date.
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Sembra superfluo richiamare che, almeno a livello storico-filosofico, il testo che ha reso nota e diffusa la nozione di “postmodernità” è La condizione postmoderna di J.F. Lyotard, tr. it. C. Formenti, Feltrinelli, Milano 1981 (l’originale risale al 1979).
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Una premessa È necessaria comunque una premessa teorica alla trattazione delle tre forme di metafisica sopra richiamate. Per avviare il discorso, ricorro alla metafora della “apertura”: è una figura ampiamente presente nel linguaggio filosofico, soprattutto fenomenologico e heideggeriano, che io cercherò di declinare però in modo adeguato e utile allo sviluppo del mio discorso. Orbene, la metafora dell’“apertura” – ovvero, in linea generale, ciò che è visibile e manifesto e quindi che sta fuori dal nascondimento – può essere articolata in due modalità, come è suggerito del resto dal suo stesso contenuto semantico:
una modalità che si può chiamare, in modo generico, soggettiva4: l’uomo, in quanto “co-scienza”, è “apertura” su ciò che è – sulla “realtà” o “essere”. È costitutivo infatti della coscienza (dell’uomo) essere in relazione con l’“altro” da sé - in questo momento, io sono in relazione con la stanza in cui mi trovo e con tutto ciò che vedo fuori dalla finestra posta a lato del punto in cui sono seduto. Nella tradizione fenomenologica, l’apertura può anche essere chiamata “intenzionalità” – l’essere proteso (aperto appunto) verso l’“altro”5 una modalità che si può chiamare, sempre con approssimazione, “oggettiva”: la realtà su cui la coscienza è affacciata è “tutto ciò che è”, ovvero il “non nascosto”, ciò che si dispiega e giunge alla “presenza”, per quanto articolata temporalmente – in questo caso, si deve parlare, in modo più pertinente, di “Aperto”6.
4 Mi rendo conto che la coppia moderna di “soggetto-oggetto”, così come quella medioevale di “intellectus-res”, pongono dei problemi teorici e storici di grande rilevanza. Ai fini del mio discorso, però, faccio ricorso alla prima coppia di termini solo in via provvisoria e preliminare, per poter avviare la riflessione 5 Al netto della terminologia specifica heideggeriana, è del tutto pertinente il seguente asserto: “nel dirigersi-verso… e nel cogliere, non è che l’esserci esca dalla sua sfera interna, nella quale sarebbe in prima istanza come incapsulato, bensì esso è, secondo il suo primario modo d’essere, sempre già ‘al di fuori’, presso un ente incontrato del mondo via via già svelato”, M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. A. Marini, Mondadori, Milano 2006, p. 187. Accostare il termine husserliano di “coscienza” con quello heideggeriano di “apertura”, può sembrare un atto di confusione storica e teorica. Heidegger, dal canto suo, ha bandito dal linguaggio la prima nozione, a causa della sua critica spietata del concetto moderno di “soggetto”. Io ricorro sia all’uno sia all’altro termine, perché sono funzionali al mio discorso, senza per questo aderire in toto all’orizzonte teorico degli autori citati. 6 A proposito della metafora dell’Aperto, può essere utile la seguente precisazione di M. Zarader, sia pure relativa al concetto greco di physis: l’“avanzare nell’aperto è ciò che permette ad ogni ente, di qualunque ente si tratti, fosse uomo o dio, di venire alla presenza e di stabilirsi in essa”, M. Zarader, Heidegger e le parole dell’origine, tr. it. S. Delfino, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 43.
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Ora, dire che si devono “di-mostrare” sia l’“apertura” (la coscienza relazionale o intenzionale) sia l’“Aperto” (tutto ciò che è manifesto) è come dire che non si vuole vedere ciò che da sempre sta “davanti agli occhi”. L’apertura e l’Aperto, inestricabilmente relazionati, costituiscono il dato fenomenologico immediato del sapere e della realtà. Si può perciò concludere, in prima istanza, che questo intreccio di “Apertura” e di “Aperto”, considerati nella loro sintesi, attuale e possibile (ciò che è dato e ciò che può essere dato), costituiscono un orizzonte intrascendibile e quindi, in questa fase del discorso, il “Tutto”. La coscienza comune tende a pensare che, se si vuole trovare il Tutto, si debba andare verso un immaginario “al di là”, collocato non si sa dove, rispetto a questo orizzonte dell’apertura. Invece, se si rimane fedeli a questa metafora, si deve riconoscere che il Tutto è già da sempre davanti agli occhi o, anche, è ciò di cui si dà il sapere: il Tutto è, appunto, tutto ciò che si manifesta o che si può manifestare. Si comprende allora perché sia Platone sia Aristotele abbiano indicato nella meraviglia la genesi del sapere filosofico. Abituati alla realtà che sta sottomano come ciò che è ‘ovvio’, non si è più in grado di “meravigliarsi” dell’apparire del Tutto – per dirla in greco, del suo phainesthai, ovvero della “presenza” o del “manifestarsi” di ciò che è.7 Ecco la vera meraviglia, che è uno stato tutt’altro che “teoreticistico”: che l’“essere” - anziché il “nulla” - sia e che si manifesti, ovvero possieda una connotazione per la quale esso non è ciò che è disponibile per l’uomo, bensì è ciò che, viceversa, è da sempre “dato” e che quindi esige dall’uomo la disponibilità – l’apertura appunto.8 Ora, l’uomo comune – e anche il filosofo si trova in tale condizione all’inizio della ricerca - ha difficoltà a riconoscere che, da sempre egli si affaccia sull’Intero, anzi è ricompreso nell’Intero. Ma tale difficoltà è dovuta solamente alle cattive abitudini di pensiero acquisite oppure ai pregiudizi indotti dal condizionamento ambientale e della tradizione storica di appartenenza o, infine, alla concentrazione pratico-affettiva su uno solo o solo su alcuni enti finiti. L’uomo tende infatti ad applicare lo schema di “soggetto-oggetto” anche al pensiero del Tutto, ovvero anche a ciò che si può chiamare l’apertura metafisica. Sennonché, in questo caso, il dualismo soggetto-oggetto è come se implodesse, perché si rivela inadatto ad esprimere quello che è il “giusto” rapporto tra la coscienza e il Tutto. Non è possibile, infatti, distanziare e separare dalla coscienza pensante il Tutto come se fosse 7 “L’irrequietezza dell’uomo, che lo spinge ad allontanarsi dal mistero [la velatezza dell’Intero] per volgersi alla realtà praticabile, e che lo fa passare via via da un oggetto all’altro della realtà corrente, senza accorgersi del mistero, è l’‘errare’ (Irren)”, M. Heidegger, Dell’essenza della verità, in: Segnavia, tr. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 151. 8 Heidegger chiama questa “disponibilità” anche “libertà”: “la libertà […] si scopre come il lasciar essere l’ente”, M. Heidegger, Dell’essenza della verità, in: Segnavia, cit., p. 143.
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un oggetto che sta “di fronte” – un Gegen-stand –, perché in questo caso il cosiddetto oggetto, anziché stare “davanti” rispetto alla coscienza pensante, in realtà le sta, per così dire, da sempre “di dietro”, ovvero, fuori metafora, lo ricomprende da sempre dentro di sé, giacché porre il Tutto e porre la coscienza che lo pensa fuori di esso significa semplicemente porre l’assurdo (logico). Nel pensare il Tutto, il dualismo soggetto-oggetto si dissolve e, al suo posto subentra l’unità onnicomprensiva del Tutto stesso.9 Per chi volesse “di-mostrare” ciò che è “evidente”, possono valere le seguenti parole di Heidegger: “si potrebbe far osservare a coloro che esigono e tentano simili dimostrazioni che essi non vedono ciò che già vedono, che non hanno occhio per ciò che è loro già in vista”.10 Infatti, precisato che i termini di “essere” e di physis sono usati da Heidegger come sinonimi, ancora egli precisa: “l’essere physis e la physis come essere restano indimostrabili, perché la physis non ha bisogno di prove. Non ne ha bisogno perché ovunque l’ente che proviene dalla physis sta nell’aperto, la physis stessa si è già mostrata ed è in vista” (ivi). Certamente, è difficile mantenersi nella prospettiva della physis: “I ciechi dell’essere passano addirittura per gli unici che ci vedono veramente. D’altra parte è evidente che questo riferimento dell’uomo a ciò che fin dall’inizio si mostra da sé, è difficile da mantenere nella sua originarietà e verità” (ivi, p. 219). Perciò, per acquisire il giusto sguardo sulla realtà è necessario un mutamento di prospettiva, una riflessione, che metta a fuoco quella visione: “per non lasciarci sfuggire questo qualcosa di vicinissimo, eppure lontanissimo, occorre riflettere su ciò che è a portata di mano, sui ‘dati di fatto’” (ivi, p. 218). In questo modo, l’uomo realizza pienamente la sua vocazione o il suo destino: “Grazie a questa capacità ‘critica’ di distinzione [...] l’uomo è sottratto al mero stordimento di ciò che l’angustia e lo occupa, ed è esposto nel riferimento all’essere, allora egli diventa veramente e-sistente (ex-sistent), cioè esiste invece di limitarsi a ‘vivere’ e cercare di accaparrarsi la ‘realtà’ nell’‘attaccamento alla vita’, che non è altro che il rifugio di una fuga dall’essere che dura già da tempo” (ivi, p. 218s.). In sintesi, ricorrere alle metafore di Apertura e Aperto, vuol dire prendere atto che l’essere è, per così dire, già da sempre lì, squadernato o “non nasco-
9 “L’Aperto, che è la condizione fondamentale perché l’ente appaia come tale, non è (…) costituito certamente dall’ente (dal momento che ne consente il sorgere), ma non è neppure costituito dalla rappresentazione, poiché è soltanto entro questo Aperto che è possibile instaurare una relazione con l’ente, rapportarsi ad esso”, M. Zarader, Heidegger e le parole dell'origine, cit., p. 66. 10 Sull'essenza e sul concetto della physis. Aristotele, Fisica B 1, in M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 217.
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sto” davanti agli occhi e che il Tutto va cercato “a partire da” questo inaggirabile ed evidente “dato” originario.11 In questo modo, la filosofia, prima che l’idea del Tutto problematizzi l’intero dell’esperienza, si potrebbe anche connotare come ontologia fenomenologica, ovvero come un sapere dell’essere, a partire dal dato “evidente” del suo “apparire” (del suo phainesthai).12
A. La metafisica greca della physis “La physis è lo stesso essere, in forza del quale soltanto l’essente diventa osservabile e tale rimane [...]. I greci chiamavano l’essente come tale nella sua totalità physis”.13 Eccoci introdotti nel cuore del nostro primo tema. I 11 Anche se bisogna riconoscere che il Tutto “rimane sempre l’indeterminato e l’indeterminabile”, perché “l’evidenza dell’ente nella sua totalità non coincide con la somma degli enti di fatto conosciuti”, M. Heidegger, Dell’essenza della verità, cit., p. 148. 12 È questo, forse, il contributo teorico più rilevante della fenomenologia di Husserl e dell’ontologia di Heidegger: una prospettiva ripresa, ad esempio, da J.P. Sartre, che, nel sottotitolo del suo L’essere e il nulla, mise la dizione Saggio di ontologia fenomenologica. 13 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, tr. it. G. Masi, Mursia, Milano 1972: le due citazioni si trovano rispettivamente a p. 26 e a p. 27. Seguo, nella ricostruzione del concetto di physis, quanto su di esso viene detto nel Primo capitolo della Introduzione alla metafisica cit., p. 24-29. Tuttavia, il saggio più analitico a cui farò ripetuti riferimenti è quello già citato alla nota 10: Sull’essenza e sul concetto della physis. Aristotele, Fisica B 1 – ma su questo medesimo tema Heidegger è ritornato nel corso del semestre estivo del 1943 intitolato: Der Anfang des abendländischen Denkens, riportato nel vol. 55 della Gesamtausgabe. Su questa “parola dell’origine” e sulle altre del primigenio pensiero filosofico greco, è molto utile il già citato M. Zarader, Heidegger e le parole dell’origine, dove, ad esempio, troviamo scritto che la parola physis essendo “la parola-guida del pensiero iniziale, non può che nominare anche l’essenza dell’essere, nella sua impronta più aurorale”, p. 41. Una precisazione: non mi interessa, in questa sede, accertare la fedeltà filologica e storica del commento heideggeriano ai testi aristotelici, anche se tengo presente l’avvertimento di Gadamer a proposito del modo con cui Heidegger si accosta ad essi oltre che ai testi greci primordiali: “Senza dubbio l’esordio del pensiero greco è avvolto nell’oscurità. Quello che Heidegger riconosceva in Anassimandro, in Eraclito, in Parmenide era certamente se stesso [...] Quello che in questo modo egli tentava di accatastare per la costruzione del proprio edificio erano frammenti continuamente rivoltati e ricomposti secondo la propria idea costruttiva” [Gadamer, I sentieri di Heidegger, tr. it. R. Cristin, Marietti, Genova 1987, p. 128]. Né si vuole discutere l’evoluzione della posizione di Heidegger nei confronti dei primi pensatori greci. Si vuole solo sottolineare come i commenti heideggeriani, fedeli o meno che siano sul piano filologico, contengono comunque indicazioni stimolanti sulla struttura concettuale dell'antico concetto di physis. Lo stesso Gadamer, nel testo sopra citato, a proposito del saggio sul concetto aristotelico di physis, annota: “il saggio sviluppa la nozione aristotelica di physis proprio alla luce degli esordi del pensiero greco, contrapponendola alla posteriore trasformazione del concetto di natura nel pensiero latino e moderno” [ivi, p. 127]. Si può certamente dissentire dalla interpretazione heideggeriana secondo cui, dopo il folgorante momento aurorale dei primissimi filosofi, subito la stessa filosofia greca avrebbe smarrito la strada della verità dell’Essere, così come può essere discutibile il giudizio, contenuto nel saggio raccolto in Segnavia, per cui Aristotele avrebbe alterato l’originario concetto della physis, avendola ridotta ad un “ge-
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due asserti di Heidegger, a dire il vero, ricalcano la tesi di Aristotele, nella nota ricostruzione della storia del pensiero filosofico a lui precedente, contenuta nel primo libro (A) della Metafisica, secondo cui questa nozione ha costituito il concetto portante degli inizi sfolgoranti della filosofia greca. È perciò il caso di riportare subito il decisivo testo aristotelico a cui ci si riferisce: La maggior parte di coloro che per primi si dedicarono alla filosofia ritennero che i principi di tutte le cose fossero di tipo materiale. Infatti, ciò da cui tutte le cose sono e da cui prendono origine e in cui dissolvendosi si distruggono, mentre l’essere sottostante permane a differenza degli aspetti accidentali che invece mutano, questo lo chiamano elemento costitutivo e principio degli esseri. Per questo motivo, essi pensano che niente veramente né nasca né muoia, dal momento che tale principio originante resta sempre salvo. [...] Infatti, c’è sempre un principio originante, sia esso uno solo oppure più di uno, da cui tutte le cose prendono origine mentre esso resta salvo. 14
Come si vede, il termine physis, che qui compare due volte, viene utilizzato da Aristotele per indicare l’“Intero”, come l’ambito in cui tutto nasce ed in cui tutto si distrugge. Dunque la prima tesi, filosoficamente rilevante, che i primi filosofi – i Fisiologi, i filosofi della physis – hanno guadagnato, secondo la ricostruzione aristotelica, è che la physis, nonostante la vicissitudine ontologica del nascere e del morire delle cose che la costituiscono, è un principio che permane [ousia] e che perciò resta sempre “salvo” [sozomene]. Il nostro discorso sulla metafisica greca non può che partire da qui, da questo impianto filosofico originario, che apre tutta la riflessione filosofica greca successiva. Heidegger, come già detto, rimprovera ad Aristotele di aver alterato e degradato il significato originario della physis, perché l’avrebbe intesa in modo “naturalistico”, come se essa fosse solo un “genere” (una parte, quella “naturale” appunto) dell’essere. Per questo motivo, egli sostiene, la physis aristotelica “è un’“eco” del grande inizio della filosofia greca e del primo avvio della filosofia occidentale. In questo inizio l’essere è pensato come physis in modo tale che la physis della cui essenza Aristotele determina il concetto non può essere altro che un derivato della physis originaria. Un’eco debolissima e quasi irriconoscibile di quella physis, inizialmente progettata come essere dell’ente”.15 nere” dell’essere. Ribadisco che le analisi di Heidegger, opportunamente trascelte, mi servono solo come spunti utili per ricostruire il concetto greco di physis, così come mi sembra sia stato originariamente elaborato e come può essere quindi storicamente determinato. 14 Metafisica A 983b 6-14, 17-18 (traduzione mia: pur tenendo presenti le autorevoli traduzioni italiane del testo aristotelico, ho preferito proporre una mia versione, comunque rispettosa del dettato originario, che mi permette di argomentare meglio il discorso). 15 Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della physis, cit. p. 254.
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E invece la physis originaria, come si ricava dalle ultime parole della citazione heideggeriana, era l’essere dell’ente e quindi l’Intero.16 Per la filosofia delle origini, infatti, non esiste altro al di fuori e al di là della physis: essa “abbraccia” e “avvolge” – periechei è il termine filosoficamente preciso usato da Aristotele per connotare la funzione svolta dall’ apeiron di Anassimandro17 - tutto ciò che esiste. Non solo, ma per esistere, la physis non ha bisogno di altro e quindi ha l’arche di se stessa all’interno di se stessa: in altri termini, ovvero in termini moderni, essa è “causa sui” e, in quanto tale, essa può essere qualificata anche come il “Divino” (to theion).18 Ma come accedere all’ “essere” della physis o alla physis come “essere”? La coscienza, nella sua immediata apertura, non ci presenta nessun Intero, bensì, in quanto coscienza sensibile, ci mette davanti agli occhi solo una parte – infinitesima – di quell’intero. Il “fatto” è – ovvero anche qui siamo di fronte ad un “dato” – che la coscienza sensibile non è l’unica modalità di apertura, giacché la coscienza possiede anche una apertura differente che i greci chiamavano logos e che, a questo punto del mio discorso, si può anche tradurre con coscienza razionale, grazie alla quale essa “sa” che, oltre le sue limitate aperture “sensibili”, si dà l’Intero, ovvero il tutto dell’Aperto. Dunque, la coscienza sa che si dà il Tutto di ciò che è, così come sa che essa stessa è ricompresa all’ interno di esso. Physis, etimologicamente, significa “ciò che nasce” – anzi, in termini ancora più originari, ciò che “viene alla luce”, perché la radice del termine physis è phos, ovvero luce.19 Perciò, quanto nasce, nasce “all’interno” della 16 “L’ente nella sua totalità si scopre come physis, “natura”, che qui non significa ancora un ambito particolare dell’ente, ma l’ente come tale nella sua totalità, e precisamente nel senso di un venire alla presenza che si schiude”, M. Heidegger, Dell’essenza della verità in: Segnavia, cit., p. 145. E ancora: “All'inizio della sua storia l’essere si apre nella radura come schiudimento (physis) e svelamento (aletheia). Di qui giunge nella forma della presenza e della stabilità nel senso della permanenza (ousia). Con ciò si inizia la metafisica vera e propria”, in: Nietzsche, La metafisica come storia dell’essere, tr. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 866. Sempre in quest’ultimo testo, Heidegger ribadisce: “l’Uno unificante […] resta determinato a partire dalla physis e dal logos, cioè dal lasciar schiudersi che raccoglie”, ivi p. 870. 17 “Perciò (...) di esso [l’Infinito ovvero la physis] non c’è origine, bensì risulta che esso stesso è principio delle altre cose e che tutte le avvolge e tutte le governa”, Aristotele, Fisica III 203b 10-12 (tr. mia). 18 ivi, 203b 13-15. Sulla connotazione “teologica” della physis, è ancora validissimo il classico studio di W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, tr. it. E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1967. Ritengo che questa concezione del Dno, di certo ancora generica, costituisca la radice e il fondamento di tutta la successiva riflessione su questo tema, fino a quella decisiva versione che, a mio parere, è costituita dalla formula di “id quo maius cogitari nequit” nel Proslogion di Anselmo d’Aosta. 19 Heidegger spiega questa etimologia – physis da phaos/phos – in Eraclito, tr. it. F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 66.
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physis, in forza della “energia” che essa autonomamente possiede e sprigiona. Lasciamo la parola a Heidegger: Che cosa significa la parola physis? Essa indica ciò che si schiude da se stesso (come ad esempio lo sbocciare di una rosa), l’aprentesi dispiegarsi e in tale dispiegamento l’entrare nell’ apparire e il rimanere e il mantenersi in esso; in breve, lo schiudersi-permanente imporsi.20
Il termine physis è stato, non a caso, tradotto in latino con “natura” termine che, letteralmente, significa “tutte le cose che stanno per nascere”, quasi a sottolinearne la potenzialità illimitata, benché poi esso, nei linguaggi occidentali posteriori, abbia assunto significati polivalenti, che lo hanno allontanato da quello originario – si pensi solo alla accezione comune di “natura” come insieme di quanto è esterno all’uomo oppure a quella vigente nel linguaggio scientifico o a quella assunta nella cultura romantica, fino alla sua trasposizione nel linguaggio delle scienze umane.21 Se attribuiamo, nella scia di Heidegger – pur senza seguirlo in tutte le sue posizioni teoriche – valore fondativo alle parole originarie dei primi filosofi greci, è possibile far risalire già al primo (un poco leggendario) di loro, Talete di Mileto, due aforismi che contribuiscono, fin da subito, ad illuminare la nozione originaria di physis sopra illustrata:
“il cosmo è uno”22
Anche la Zarader: “il phyein diceva anzitutto questo: l’irrompere luminoso al cuore della presenza”, Heidegger e le parole dell’origine, cit., p. 42. 21 Con il termine latino natura “viene già eliminato l'originario contenuto della parola greca physis: l'autentica forza evocativa filosofica della parola greca risulta distrutta”, Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 25. A sostegno di questa lettura di Heidegger, si può riportare la seguente affermazione di un grande “filologo” come W. Jäger, che dice: “Che debba essere sbagliata [la lettura naturalistica] risulta per il filologo, anche senza le testimonianze, dalla semplice riflessione che tradurre physis col nostro concetto di “natura” e physikos con “filosofo della natura” è un errore che non tiene conto del significato greco”, La teologia dei primi pensatori greci, cit. p. 32. Effettivamente, si tratta di capire se la traduzione in latino di physis con “natura” – che, grammaticalmente, è contrazione del participio futuro “nascitura”, traducibile, come si è visto, con: “tutte le cose che stanno per nascere” – possieda una valenza trascendentale, cioè si riferisca alla sfera dell’Intero, oppure una di tipo naturalistico, cioè venga assunta, a priori, come la totalità delle cose sensibili. Sarebbe interessante verificare questo quesito, ad esempio, nel poema De rerum natura di Lucrezio, dove il termine “natura” appare sin dallo stesso titolo. Il fatto poi che sia l’accezione trascendentale sia quella naturalistica di “natura” possano convergere nella tesi finale – il Tutto è l’insieme delle cose sensibili o mondane – non infirma il quadro teorico differente da cui provengono. Come si vedrà più avanti, la nozione di “natura”, trasferita in ambito biblico, dovrà subire una torsione semantica, sdoppiandosi in natura naturans e natura naturata. 22 I Presocratici, c/ di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, Talete, Dottrina 13b, p. 168. Dice Heidegger, sviluppando appieno il senso di questo aforisma originario elementare in 20
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“il Dio è la mente del cosmo e il tutto è animato e anche pieno di dei”.23.
Il primo asserto sostiene che “tutto ciò che esiste” va pensato come una “unità” e quindi va considerato come un “Uno-Tutto”, al di là della molteplicità illimitata degli essenti con cui appare nella esperienza – e questo è un primo passo decisivo per accedere al concetto di Intero. Il secondo asserto, diffalcati alcuni indubbi accenti animistici in esso presenti, qualifica l’UnoTutto come “divino”. È questa, nella storia del pensiero, la prima definizione concettuale e non mitologica del Divino, che viene a coincidere, appunto, con “tutto ciò che è”.24 Più tardi, Parmenide chiarirà che il vero “miracolo” della physis consiste nel fatto che essa, con tutte le cose che vi sono immanenti, “sia” o “esista” e quindi respinga da sempre il “nulla”.25 Resta ora da precisare una dimensione della physis – ormai coincidente con l’ “Intero divino” – a cui sopra si è solo accennato, ovvero il fatto che la physis, come si può constatare nell’esperienza, è kinesis (movimento: ma Heidegger, con finezza, traduce: “motilità”26). Essa, in quanto sorgente originaria e autonoma di movimento, è ousia to kinomenou kath’auto, sostanzafondamento di ciò che è mosso da se stesso. Non esistendo nessun “al di là” ontologico e quindi nessuna “trascendenza” rispetto alla physis, tutte le singole cose o i singoli finiti, che via via si presentano o “vengono alla luce”, sono “manifestazioni” immanenti di essa. Così Heidegger delinea questo aspetto della physis nel suo tipico linguaggio: “La physis […] è il presentarsi Dell’essenza della verità: “l’essenza della verità non è la vuota ‘generalità’ di una universalità ‘astratta’, ma quell’Unico che si nasconde nella storia, a sua volta unica, dello svelamento del ‘senso’ di ciò che noi chiamiamo essere, e che da lungo tempo siamo abituati a pensare solo come l’ente nella sua totalità”, Segnavia, cit., p. 155. 23 ivi, p. 174. Abbiamo sostituito il termine “mondo” con “cosmo” per uniformare la traduzione con la citazione precedente. Annota W. Jäger: “Gli dei di Talete non abitano in qualche luogo remoto e inaccessibile, ma tutto ciò che è, tutto il mondo familiare e circostante che il nostro intelletto contempla pacatamente è pieno di ‘dei’ e di effetti della loro forza”, La teologia dei primi pensatori greci, cit. p. 34. 24 Sempre Jäger annota: “l’ardita identificazione di to theion con e physis [è una] caratteristica del pensiero presocratico”, La teologia dei primi pensatori greci, cit. p. 59 nota 44. E sempre nella medesima lunga nota, dedicata al tema del “divino” nella filosofia greca, Jäger continua così: “il predicato ‘dio’, o meglio ‘divino’, [viene] trasferito dalle divinità tradizionali al primo principio dell’essere (al quale erano arrivati attraverso l’indagine razionale), e precisamente perché gli attributi dati comunemente agli dei di Omero e di Esiodo possono essere ascritti a questo principio in misura superiore o con maggiore certezza”, ivi, p. 60. 25 Heidegger, per esprimere questa permanente e “intramontabile” presenza dell’“essere” (della physis), ricorre alla formula del frammento 16 di Eraclito: to me dunon pote (ciò che non tramonta mai). Al commento di questo frammento eracliteo, è dedicato il saggio Aletheia. (Eraclito, Frammento 16) contenuto in Saggi e discorsi, tr. it. G. Vattimo, Mursia, Milano 1980, p. 176-192. 26 Heidegger, Segnavia, cit. p. 202: gli essenti “sono nel movimento, essi non sono solo in movimento, ma sono nella motilità”.
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dell’assentarsi di se stessa, in cammino da se stessa a se stessa. In quanto è un tale assentarsi, essa resta un ri-andare-in-sé, andare che però è soltanto il cammino di uno schiudersi”.27 Il “movimento-motilità” che la attraversa consiste, in ultima istanza, in un incessante “presentarsi” e “assentarsi” delle cose, che via via si espongono alla “luce” dell’essere e poi ritornano nello spazio di invisibilità da cui sono emerse.28 Ebbene, questo processo di manifestazione nel tempo segnala, a mio avviso, un’aporia che nessun sguardo, per quanto teoricamente disinteressato, può trascurare o nascondere. L’alternarsi di presenza e di assenza – di apparire e di sparire – delle cose nella physis non possiede, infatti, un carattere di innocenza, bensì porta alla luce anche un lato “tragico” ovvero quel “negativo” che è immanente nel nascere e nel morire. Esso è stato ben rilevato – ovviamente – sia dalla tragedia sia dalla filosofia greche: la successione degli essenti nella motilità inesauribile della physis fa apparire, accanto alla nascita di nuovi essenti, anche la presenza devastante del “negativo”. Molto chiaramente lo sottolinea S. Natoli: E che cos’è la vita? La vita è la generazione e la corruzione, il ciclo delle stagioni è appunto questo succedersi di nascite e morti. La linea delle esistenze, della vita, è appunto un sorgere, crescere, morire. Alla determinazione compete, in quanto entità finita, la dissoluzione. Questo è lo statuto della natura: nel ciclo abbiamo appunto un nascere e un perire; [perciò:] rispetto all’infinità del ciclo della physis, che cos’è l’individuo che muore?29
Questa dimensione inquietante della physis, già avvistata dai Greci, è stata rilevata anche da Heidegger, che però la spiega con l’atteggiamento tipico dei primi di fronte alla componente distruttiva del phainesthai: la capacità di reggere e sopportare il negativo, perché esso è elemento costitutivo e inaggirabile della physis stessa. Questa interpretazione viene sostenuta facendo ricorso al notissimo fr. 123 di Eraclito: la physis ama nascondersi. Così egli infatti lo commenta:
27 ivi, p. 253. Anche S. Natoli precisa: “la nozione stessa di natura è collegata a quella di potenza e crescita, perché physis è proprio phyo, è crescere” in: S. Natoli, I nuovi pagani, il Saggiatore, Milano 1995, p. 23. Questo saggio, pur non dedicato esplicitamente alla filosofia della physis, bensì con una prospettiva rivolta alla contemporaneità, sembra muoversi in un orizzonte di pensiero centrato proprio sul concetto greco di physis. 28 In Dell’essenza della verità di Heidegger, la nota figura della Lichtung è così tratteggiata: “Verità significa quel velarsi diradante (lichtendes Bergen) che è il tratto fondamentale dell’essere (Seyn). […] Poiché all’essere (Seyn) appartiene un velarsi diradante, esso appare inizialmente alla luce di un sottrarsi che vela. Il nome di questa radura (Lichtung) è aletheia”, Segnavia, cit., p. 156. 29 S. Natoli, I nuovi pagani , cit. p. 22. La seconda citazione si trova a p. 26.
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Non si tratta di superare il kryptesthai della physis e di strapparglielo, ma qualcosa di ben più arduo ci è assegnato: lasciare alla physis in tutta la purezza della sua essenza, il kryptesthai come appartenente ad essa. Essere è lo svelarsi che si vela – physis nel senso iniziale. Svelarsi è venir fuori nella svelatezza, e ciò significa salvare la svelatezza come tale nella sua essenza.30
Dunque, l’Aperto - tutto ciò che esiste: la physis – non è tutto da sempre svelato, ma, via via nel tempo, “porta alla luce” altri essenti rimasti “nascosti” e “invisibili” - si pensi al “futuro” ora del tutto “nascosto”, ma che diverrà “svelato” e “aperto”, o viceversa a tutto ciò che il “passato” ha inghiottito e quindi “velato”. La physis è infatti il “venire alla ‘presenza’ (Anwesung) nel senso del venir fuori nello svelato e mettersi nell’aperto” (ivi, p. 227). La dialettica di presenza [Anwesenheit] e di assenza [Abwesenheit] è costitutivo dell’essere della physis, segnata com’è dal fenomeno della steresis (termine tradotto da Heidegger con “assentarsi”): in quanto assentarsi, la steresis non è semplicemente assenza, ma un presentarsi, e precisamente quel presentarsi in cui si presenta l’“assentarsi” – e non già l’assente. [..] Nella steresis, infatti, si nasconde l’essenza della physis. (ivi, p. 251)
Ecco perché, sempre Heidegger può qualificare la physis con il termine fondamentale e decisivo di aletheia (“ciò che non è nascosto”): è costitutivo, infatti, della sua “natura” l’essere articolata in ciò che è “presente” e quindi appare, e in ciò che è “assente” e quindi non appare (più o ancora)31. Di fronte a questa struttura ontologica, l’uomo greco non si abbandona, in generale, alla “indifferenza, per così dire “cinica”, di ciò che è comunque
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Heidegger, Segnavia, cit., p. 255 “Lo svelamento dell’ente come tale è in sé ad un tempo il velamento dell’ente nella sua totalità”, M. Heidegger, Dell’essenza della verità, cit. p. 153. Sulla “parola dell’origine” aletheia si può vedere il notevole capitolo intitolato ‘Aletheia’ o l’essenza iniziale della verità in: M. Zarader, Heidegger e le parole dell’origine cit. p. 59-103: l’“aletheia nomina, come condizione della conoscenza dell’ente, la physis stessa nella sua prima determinazione: lo schiudersi stesso dell’ente nel suo essere”, ivi, p. 76; ma il vero “enigma” – il termine è heideggeriano – dell’aletheia a cui dare una spiegazione è “il gioco della velatezza “e” della svelatezza, e in tal modo, l’unità misteriosa e mobile di entrambi”, ivi, p. 78, come se la “svelatezza” avesse bisogno della “riserva” – e la parola è ancora di Heidegger – della “velatezza” per potersi manifestare. Alla fine, sembra che Heidegger approdi alla formula “il nonnascondimento ‘del’ nascondersi” che non significa tanto che il “nascondersi” è la condizione di possibilità del “non-nascondimento”, bensì che l’aletheia è la manifestazione proprio del “nascondersi” stesso (ivi, p. 80). La pregnante metafora della Lichtung (radura) serve ad Heidegger, come si sa, per dare risalto plastico alla sua concezione dell’essere dell’ente, sino alla seguente affermazione un poco sconcertante: “esperito e pensato è solo ciò che l’aletheia come ‘Lichtung concede’, non ciò che essa ‘è’ come tale” (riportata da M. Zarader, cit, p. 85), proprio perché “l’aletheia mentre produce il non-essere nascosto dell’ente, instaura l’essere-nascosto dell’ essere” (ivi, p. 85s.) 31
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immodificabile, bensì prende atto che così è la configurazione o conformazione della physis e non gli resta che adeguarsi ad essa con “coraggio” – e non a caso, la virtù dell’“andreia” è una delle più studiate e valorizzate dalla filosofia e dalla morale greca.32 Si può, a questo punto, tracciare una sintesi provvisoria di questo impianto della ‘metafisica’ greca, mediante i seguenti asserti:
il Tutto è da sempre aperto (dato) ovvero lì “squadernato” davanti agli occhi – è l’Aperto o physis il Tutto è arche a se stesso o causa sui e quindi ontologicamente autosufficiente’ il Tutto avvolge – periechei – in se stesso tutte le cose il Tutto è kinesis ovvero principio di automovimento il Tutto è, perciò, il Divino (to theion).
Si deve riconoscere che questo quadro concettuale costituisce la prima tesi “metafisica”, come sopra si è già sottolineato, a cui il pensiero filosofico greco perviene e, a mio parere, la prima tesi -ma non certo l’ultima- a cui accede il pensiero filosofico e il pensiero umano in generale, espressa dalla formula tradizionale, anche se generica, del linguaggio filosofico, nata non a caso solo all’inizio del sec. XVIII, di “pan-teismo”.33 Posta questa nozione di physis, infatti, non si impone più, ad esempio, la necessità di dimostrare l’esistenza di Dio, per usare una formula e un’esigenza nata all’interno della tradizione cristiana europea posteriore: giacché il Divino è già da sempre presente e dato e coincide con “tutto ciò che esiste”. L’uomo greco, quindi, non può nutrire speranze ultraterrene, giacché sa che, “oltre” l’essere della physis, non si dà altro essere, e perciò egli deve 32 Vedi ad esempio il dialogo Lachete di Platone oppure l’attenzione che tale virtù riceve nell’etica di Aristotele. Dice ancora Natoli: lo spirito greco possiede “da un lato una dimensione agonistica, dove vivere vuol dire stare nella lotta, vivere vuol dire combattere; e dall' altro lato il trovare in questo elemento di lotta una dimensione di mantenimento, di misura, di forma, di saggezza” [I nuovi pagani , cit. p. 27]. 33 Se pensare filosoficamente significa far ricorso alla categoria della totalità, in prima istanza quest’ultima non può che essere applicata alla sfera della esperienza o del mondo: si tratta cioè di considerare tutto ciò che è dato nella esperienza – attuale o possibile – come una unità e porne la assolutezza. Dunque, la metafisica della physis, così come la stiamo delineando, è un passaggio inevitabile del pensare umano. L’eventuale apertura alla nozione metafisica della trascendenza non può che apparire in seconda istanza: come si vedrà più avanti, di fronte alle contraddizioni dell'essere mondano – la sua finitezza, il suo divenire, le negatività che lo attraversano – si può imporre al pensiero l’esigenza di trascendere questa sfera d’essere per affermare un’altra sfera che sia sottratta a quelle contraddizioni. La transizione verso una possibile differenza ontologica è certamente innescata dalla rilevazione di queste ultime, ma la sua posizione può essere legittimata solo se si afferma, preventivamente ovvero a priori, che il Tutto deve possedere le connotazioni della assolutezza e della infinità.
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cercare di vivere in pienezza l’essere che gli è dato. Heidegger illustra, con una metafora (già hegeliana, a dire il vero), questo atteggiamento di accettazione della motilità della physis: “Quando il fiore ‘si schiude’ (phyei) cadono le squame della gemma; il frutto fa la sua comparsa con la scomparsa del fiore”34; e sviluppando ulteriormente la metafora: nell’essenziale “essere-in-cammino”, però, un rispettivo prodotto (non già un artefatto) viene messo-via, come ad esempio il fiore dal frutto. Ma in questo metter-via, l’installazione nell’aspetto, la physis, non viene meno a se stessa; al contrario, come frutto, l’ente naturale ritorna nel suo seme, che, in base alla sua essenza, non è altro che uno schiudersi nell’aspetto, odos physeos eis physin. Col venire alla vita, ogni vivente incomincia già anche a morire e viceversa: il morire è ancora un vivere, perché solo il vivente può morire; anzi, il morire può essere l’“atto” supremo del vivere.35
Si può chiudere ora, questo schizzo della metafisica della physis, riassumendola nello schema seguente:
la physis è l’Uno-Tutto. Il concetto di physis fa la sua apparizione quando la coscienza umana si pone di fronte alla realtà in modo nuovo rispetto all’atteggiamento quotidiano comune: precisamente, quando, anziché limitarsi all’ ambito limitato e ristretto della coscienza immediata, essa si apre al punto di vista del Tutto. La coscienza infatti non si interroga solo sul senso di ciò che la circonda in “questo” luogo e in “questo” momento del tempo, bensì ha la capacità di abbracciare l’intero di ciò che è e di domandare quale sia il suo senso. Con questo mutamento dello sguardo, la coscienza attinge il livello più universale a cui può mirare e trascende, con una specie di “salto” – sia pure logicamente sorvegliato – l’interezza della sfera mondana. Collocarsi in questo punto di vista, vuol dire considerare la realtà come un Uno-Tutto ovvero: “tutto”, perché si vuole abbracciare tutto quanto esiste; “uno”, perché il “tutto” non può che essere “uno”, essendo contraddittorio il darsi di due totalità. La filosofia, infatti, è nata quando si è imposto il seguente interrogativo: qual è la arché o l’origine del Tutto? Acquisire questo punto di vista è il punctum stantis aut cadentis della filosofia stessa: senza di esso non si ha nessuna filosofia, in quanto sapere specifico ed autonomo. Si può certamente discutere sulla possibilità per la coscienza umana di collocarsi a questa altezza del sapere: e infatti, sofisti, scettici,
Heidegger, Dell’essenza della verità, cit. p. 251. ivi, p. 252. Sempre nell’Essenza della verità, Heidegger afferma che “la velatezza dell’ente nella sua totalità, l’autentica non-verità, è più antica di ogni evidenza di questo o quell’ente. Essa è più antica anche dello stesso lasciar-essere, che, mentre svela, già tiene velato e in rapporto al velamento si comporta”, p. 149. 34 35
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empiristi, kantiani, postmodernisti ecc. ritengono che questa apertura della coscienza sia illegittima, anzi impossibile e quindi illusoria. In questo caso, si deve allora prendere atto che l’uomo resta consegnato definitivamente al motto agnostico di ignoramus et ignorabimus – una condizione che non è sempre facile sostenere sul piano del vissuto. la physis è schiudimento sorgivo. Questa formula esprime la prima connotazione ontologica dell’Uno-Tutto: ovvero il fatto che esso si impone come ciò che sorge e si dischiude davanti alla coscienza, senza che la coscienza abbia la possibilità di influire su di esso. L’Uno-Tutto – o la physis – è ciò che nasce da sé e si rende visibile e presente, come ciò che fin dall’origine è “lì”, così come una rosa che spunta e si dischiude al mattino, senza che nessuno l’abbia costretta a venire alla luce – in questo senso, l’Uno-Tutto è veramente un nascere o uno spuntare fuori (dal nulla?)36. la physis è l’Uno che raccoglie la molteplicità. L’Uno-Tutto che si mostra alla coscienza è certamente una molteplicità di enti o cose, ma questa non è una molteplicità caotica e disordinata, bensì fin dall’ origine è una molteplicità che possiede una sua unità e un suo ordine, se non altro perché appartiene al medesimo orizzonte onnicomprensivo -esso è, in linguaggio eracliteo, un Logos. la physis è automovimento. Poste le connotazioni precedenti, la physis o Uno-Tutto si presenta come ciò che ha in se la forza di muovere se stessa, senza che abbia bisogno di ‘altro’ fuori di sé. Questo Uno-Tutto è una forza ontologica autosufficiente, proprio perché non ha altro fuori di sé e trae da sé l’energia per esistere la physis è una dialettica di presenza-assenza. Questo Uno-Tutto – per lo meno all’ uomo – non si presenta come già tutto dato, bensì in una ininterrotta alternanza di presenze e di assenze. Ciò significa che esso è soggetto al tempo, che porta alla luce aspetti e volti dell’essere sempre nuovi e che affonda e fa sparire essenti prima presenti.
Mi rendo conto di aver costruito, in questo modo, una specie di idealtipo della filosofia greca.37 Ci si deve perciò domandare se questo dispositivo 36 È forse il caso di richiamare, a questo proposito, quella che secondo Leibniz, ripreso da Heidegger, è la domanda fondamentale del sapere umano in generale, e non solo della filosofia: “perché c’è l’essere e non il nulla?” 37 La lettura da me proposta di quello che si può chiamare il filo rosso della filosofia greca possiede molte analogie, come si vede, con l’interpretazione del concetto di physis da parte di Heidegger. Sembra invece che la mia lettura non sia allineata con quella offerta da molti studi strettamente filologici e storici, che, spesso in polemica con Heidegger, tendono ad interpretare, soprattutto la filosofia dei cosiddetti Fisiologi, in termini naturalistici. Nel rispetto ovvio delle argomentazioni di tipo filologico e storico, vorrei però far notare che tale lettura
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teorico sia in grado di comprendere in sé l’intera parabola di quella storia filosofica. In particolare, non si può evitare di chiedere se tre grandi figure come quelle di Platone, Aristotele e Plotino possano essere collocate dentro quel paradigma storico-concettuale. Infatti, quello che ho chiamato la metafisica della physis sembra che possa essere legittimata solo dalla lettura della storia del pensiero filosofico greco inaugurata da Nietzsche e poi sviluppata da Heidegger. Per Nietzsche, infatti, la fase socratico-platonica segna una involuzione rispetto a quella inaugurata dai primi filosofi che invece sono stati gli originari scopritori dello spirito dionisiaco, essenza autentica della grecità; per Heidegger, a sua volta, solo i primi pensatori greci costituiscono l’aurora o il mattino del pensiero dell’essere, anche se un “mattino” subito declinato verso l’“oblio” della verità ontologica. Pertanto, come collocare i tre grandi pensatori della grecità sopra ricordati nel paradigma della metafisica della physis? È ovvio che, a questo punto, si apre una discussione di tale portata – teorica e storica – che, com’è ovvio, non può che sfuggire alle possibilità e alla prospettiva del presente lavoro. Mi limiterò, perciò, solo ad indicare come, a mio avviso, i tre pensatori suddetti possono essere messi in relazione con il paradigma della “metafisica della physis”. La filosofia di Platone sembra essere quella che oppone la maggiore resistenza ad essere inquadrata in questo schema storico-teorico: eppure, si possono avanzare alcune indicazioni capaci di mostrare che questa estraneità non è del tutto giustificata. Anzitutto, è indubitabile che anch’essa abbia avuto come punto di avvio, se stiamo a quanto è scritto nel Fedone, una ricerca sulla physis,38 che la colloca, almeno nella sua genealogia, all’ interno di questo paradigma. È pur vero che, nella medesima sezione del Fedone, Platone ricorre alla metafora della “seconda navigazione”, per indicare che la sua ricerca è andata oltre la dimensione della physis ed è sboccata nella filosofia delle Idee, sfera ontologica che, tradizionalmente, viene interpretata come altra o differente dal mondo sensibile, generando così un dualismo tra quest’ultimo e l’essere immutabile ed eterno ‘ideale’. E ancora, Platone spiega questo dualismo come la conseguenza di una “derivazione” per “degradazione” del “mondo sensibile” dalla sfera delle “Idee”, indice di una differenza ontologica tra i due ambiti: il platonismo quindi sembra essere in conflitto con il paradigma della physis e, quindi, presentarsi come “naturalistica” dei primi pensatori greci può essere legittimata solo sulla base del tacito presupposto che, oltre a quello appunto “naturale”, si possa dare anche “altro” essere. Ma questa non era la prospettiva dei primi filosofi, i quali consideravano invece la cosiddetta “natura” – la physis – come il Tutto e quindi si ponevano fuori dal naturalismo quale viene loro attribuito: in altri termini la lettura naturalistica sembra sia spiegabile solo a partire da una prospettiva estrinseca a quella dei cosiddetti Presocratici. 38 Fedone 96a 8. È vero che questa espressione è messa sulla bocca di Socrate, ma è verosimile che anche Platone abbia seguito il medesimo percorso formativo di ricerca.
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una smentita di esso.39 A questo proposito, però si devono fare almeno due precisazioni: la filosofia delle Idee nasce dal confronto-scontro con la filosofia della physis, che viene trascesa per la necessità di individuare i modelliesemplari delle realtà sensibili – tanto che qualche interprete ha negato che l’esemplarismo platonico sia una forma di trascendenza ontologica (come ad esempio Natorp, che lo intende come un apparato di leggi logiche); secondariamente, la storiografia platonica ha messo in evidenza che, sia nella filosofia cosiddetta “non scritta” – recentemente riscoperta e ristudiata – sia nella fase più tarda del platonismo (quello delle Leggi), la metafisica della trascendenza del periodo propriamente “idealistico” ha subito un forte ridimensionamento.40 Quanto ad Aristotele, nessuno può negare che sia stato, come sopra si è visto, colui a cui dobbiamo le più estese testimonianze sulla filosofia della physis e che abbia, pure lui, sviluppato il suo pensiero muovendo da quella linea concettuale. Ponendo però al vertice dell’essere, il Dio dell’Atto puro e del Pensiero di pensiero – introdotto per la necessità di spiegare, in altro modo rispetto ai Fisiologi, la motilità della physis – anche Aristotele sembra sia andato oltre l’orizzonte della filosofia greca iniziale, inaugurando quella che Heidegger ha chiamato la “ontoteologia”.41 Tuttavia, anche in questo caso, si devono rimarcare alcuni dati non conflittuali con la lettura qui proposta: la sua vicinanza alla filosofia della physis è testimoniata dal fatto che concepisce l’essere diveniente mondano – anche per lui la physis – come una realtà eterna e quindi non derivata da Dio: questo Dio non “produce” né tanto meno ‘crea’ il mondo, bensì costituisce solo il suo telos.42 L’essere mondano aristotelico è un essere che possiede una sua autonomia ontologica rispetto alla sfera del Divino, tanto che Aristotele, nella sua enciclopedia filosofica, traduce questa autonomia con la costruzione della prima Fisica della storia occidentale – anche se, proprio per questo, come sostiene Heidegger, la physis viene degradata a “natura” ovvero ad un genere dell’essere,
39 Non è un caso che Nietzsche abbia qualificato il cristianesimo, comunque si valuti questa nota e perentoria formula, come una forma di platonismo per il popolo, ovvero come l’espressione “popolare” e fideistica di una concezione dualistica della realtà [Al di là del bene e del male, Prefazione, tr. it. F. Masini, Adelphi, Milano 1977, p. 4]. 40 La questione è fortemente dibattuta e non può certo essere affrontata in questa sede. Come si sa, su questo punto, restano fondamentali i contributi delle cosiddette “scuola di Tubinga” e “scuola di Milano”: un testo basilare di questa linea di lettura resta, ad esempio, G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1989. 41 Comunque, si tratterebbe di indagare, sul piano storico e teorico, il nesso tra il nous del “fisiologo” Anassagora e il “pensiero di pensiero” di Aristotele. 42 Dio non è causa efficiente, bensì solo causa finale del cosmo: “Dunque il primo motore muove come oggetto di amore, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse”, Metafisica XII 7 3.
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e privata della valenza trascendentale che essa possiede presso i Fisiologi presocratici. Per quanto riguarda la filosofia di Plotino, si deve anzitutto dire che in essa, da una parte, confluisce l’intero patrimonio teorico della precedente filosofia greca, e quindi la filosofia della physis; dall’altra, essa è il vertice del neoplatonismo dei primi secoli dell’era cristiana, che, pur fedele alla tradizione filosofica greca, si sviluppa però in un clima del tutto differente, perché contraddistinto dalla diffusione di fedi religiose di matrice orientale, tra cui anche la religione ebraico-cristiana43. Le due categorie portanti della concezione metafisica plotiniana, ovvero l’“unità” e la “molteplicità”, non sono che la radicalizzazione delle medesime categorie che hanno reso possibile la filosofia della physis, il cui principio fondante è costituito dalla formula della “unificazione (arche) del molteplice”. Si tratterebbe di individuare perciò – compito che è qui impossibile – quale sia l’effettivo rapporto tra l’“Uno” e la “molteplicità” mondana, giacché la tradizione storiografica ha sempre distinto il concetto biblico di creazione da quello plotiniano di emanazione. Se nella filosofia di Plotino non si è in grado di mostrare una effettiva differenza ontologica tra l’Uno e il Molteplice mondano, allora non è impossibile collocare pienamente tale filosofia, pur con tutte le riserve critiche inevitabili, nel paradigma della physis44. In sintesi, data l’importanza storica e teorica della tesi qui sostenuta, può essere utile chiudere il discorso con il seguente schema riassuntivo:
la concezione platonica delle Idee introduce sì un “dualismo” nell’ orizzonte della “metafisica della physis”, distinguendo tra la sfera dell’essere “ideale” eterno e quello mutevole del “mondo sensibile”, ma le Idee sono pur sempre i “paradigmi” delle cose di questo mondo sensibile; la concezione aristotelica del “Divino” come “Motore immobile” riprende sì e conferma, per altre vie, il “dualismo” platonico, ma essa è pur sempre una spiegazione, anche se differente, di quel “movimento”,
43 Si potrebbe richiamare, ad esempio, che la nozione di “Logos”, identificata nel Vangelo di Giovanni con lo stesso “Dio” – “Theos en o logos [il Logos era Dio]” [Gv. 1,1c] – è presente pure in Plotino e attribuita all’“Uno” – “arche oun logos kai panta logos [dunque la ragione è principio ed è tutto]” [Enneadi III, 2,15,14]; “kata logon de to pan [il Tutto è secondo logos]” [ivi, III, 16, tr. mia]. Ma già gli Stoici avevano sostenuto che il “Logos” è il principio ordinatore del “cosmo”, anche se, nella filosofia greca, il primo a far ricorso a questa nozione è stato Eraclito 44 Non è necessario soffermarsi sulla filosofia della “natura” dello stoicismo, giacché la persistenza e lo sviluppo del paradigma della physis in esso sono più che evidenti. Merita di essere segnalata, infine, la posizione di un filosofo del XX secolo come K. Löwith che, reagendo allo storicismo e al relativismo della filosofia moderna, propone una ripresa dell’“eterno ritorno” dell’antica filosofia della physis greca
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che la metafisica della physis ritiene invece essere un fattore immanente in questa; la concezione plotiniana si presta, più che non le prime due, ad essere posta su una linea di continuità con la metafisica della physis, proprio perché assume il concetto di “unità” del Tutto e lo sviluppa con rigorosa consequenzialità; si deve però riconoscere che sia la filosofia platonica sia quella aristotelica, apportando elementi teorici nuovi, si muovono verso una fuoriuscita dalla metafisica della physis, aprendo la strada alla nozione di “trascendenza”, che, di per sé, risulta estranea alla prospettiva strettamente “ontofenomenologica” su cui il concetto di physis è fondato.
Concludendo, se è necessario prendere atto delle rilevanti “novità” teoriche che sono presenti nelle filosofie di Platone e di Aristotele, è pure legittimo sottolineare che l’orizzonte originario e costitutivo della “metafisica della physis” soggiace allo sviluppo dell’intera filosofia greca.
B. La metafisica biblica della “creazione” Anzitutto e in via preliminare, è lecito parlare di “metafisica biblica”? Non sono accostati, in questo sintagma, due nozioni che sono fra di loro incompatibili? Se la “metafisica” è un sapere “greco” costruito mediante la “razionalità”, come è possibile metterla in sequenza con la religione “biblica” che invece è fondata sulla “fede”? Le domande poste sono senz’altro legittime, ma è indubbio che il “dato storico” ci presenti la realtà di un Occidente che affonda le sue radici, oltre che nella grecità, anche nella tradizione “biblica”, e quindi nell’ ebraismo e nel cristianesimo. Annota, giustamente, M. Zarader: far risalire la nostra permanenza al solo cominciamento greco implica il fatto che la componente biblica (...) della storia occidentale non venga considerata significativa e che non sia possibile riconoscerle lo statuto di cominciamento.45
45 M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l'eredità ebraica, tr. it. M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 9. E ancora: “la filosofia è greca, come pure la metafisica tutta intera. Ma (...) la metafisica non costituisce la totalità del pensiero”, ivi, p. 226 – dove però il termine “metafisica”, in questo contesto, possiede una valenza differente (quella strettamente ontologica) da quella che qui propongo. La Zarader ha mostrato quale sia il legame, rimasto, a suo dire, volutamente “impensato”, tra la filosofia di Heidegger e la tradizione ebraica. Ma il discorso si potrebbe allargare anche al rapporto di Heidegger con la tradizione cristiana e quindi implicare l'intera tradizione “biblica” – discorso che però fuoriesce dall’ambito del mio lavoro.
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Sia pure a modo di esempio (tra i moltissimi possibili!), si può richiamare, volendo mostrare che un intreccio storico effettivamente si è venuto a instaurare tra ascendenze greche e tradizione biblica, l’opera di un filosofo “cristiano” medioevale del IX secolo come G. Scoto Eriugena46. Infatti, nel suo scritto più noto, De divisione Naturae, già il titolo è fortemente allusivo, perché in esso si può vedere ancora operante il concetto greco di physis, tradotto in lingua latina con “Natura”47. È però anche evidente che, dovendosi ripensare questo concetto all’ interno di un orizzonte “biblico”, il filosofo medioevale concepisce il “Tutto-Natura”, non in modo “monistico” come nella filosofia greca della physis, che tutto unifica mediante il concetto portante di arche, bensì in uno stato di “divisione” – una “differenza ontologica”, si sarebbe tentati di dire – che lo articola e lo diversifica al proprio interno. Come si sa, secondo Scoto Eriugena, la Natura – ma si potrebbe anche dire l’Intero – viene così “divisa”: la Natura che crea e non è creata (Dio); la Natura che è creata e che crea (il Logos), la Natura che è creata e non crea (il Mondo), la Natura che non è creata e non crea (Dio come fine ultimo). Perché Scoto Eriugena, da pensatore cristiano, sia stato costretto a introdurre questa divisione nel concetto di “Natura”, non è un discorso che sia possibile qui sviluppare in modo dettagliato: mi basti solo aver segnalato, come detto a modo di esempio, un autore – immerso in pieno clima medioevale – in cui si dà la documentazione teorica della permanenza e insieme della metamorfosi che il concetto greco di physis subisce quando esso trapassa all’interno del contesto ebraico-cristiano.48
46 La scelta di questo riferimento medioevale non è casuale, perché, oltre ai motivi enunciati nel testo, l’età medioevale è quella in cui si intrecciano gli apporti delle culture greca, di quella ebraica e di quella cristiana – ma si dovrebbe dire anche di quella araba. 47 La mia notazione risulta ancora più legittimata se si tiene presente che l’attuale titolo dell’opera risale all’edizione di T. Gale del 1681, ma quello originario era, con traslitterazione dal greco, Periphyseon ovvero Sulle nature – titolo in cui è da rilevare la vicinanza ancora maggiore alla metafisica greca della physis (si veda la Introduzione di N. Gorlani a Giovanni Scoto Eriugena, Divisione della Natura, Bompiani, Milano 2013, p. 53). 48 Sarebbe però possibile anche mostrare, per così dire, il contrario ovvero il “ritorno” del pensiero europeo-occidentale, a partire dal sec. XVI, alla originaria filosofia greca della physis. Due nomi del secondo ‘500 sono sufficienti a documentare questo movimento di risalita storica: B. Telesio con il De rerum natura iuxta propria principia (1565/1586) – ma il titolo originario, ancora una volta significativamente, era De natura; l’intera produzione di G. Bruno, in particolare De la causa principio et uno (1584). A modo di esempio, si veda questo testo di Telesio collocato fin dalle prime pagine della sua opera: “la natura che permane è tutta unica e identica, non respinge né odia alcuna natura agente, ma è ugualmente propria di tutte e comune a tutte, e di buon grado con tutte ugualmente si unisce e a tutte conviene, e tutte riceve e conserva, divenendo per così dire la loro dimora e la loro sede. Da essa, dunque, pur essendo unica e identica, sono costituiti diversissimi enti poiché è disposta e informata da tutte quelle diversissime nature”, B. Telesio, La natura secondo i suoi principi, tr. it. R. Bondì, Bompiani, Milano 2009, p. 19. Infine trovo, in modo sorpren-
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Per riprendere il filo principale del discorso, anzitutto, ci si deve chiedere come sia pervenuta, sul piano storico, la coscienza ebraica (e sulla sua scia quella cristiana) a concepire il “Tutto” in modo differente dalla filosofia greca della physis. Non è possibile, di nuovo, in questa sede, ricostruire in modo analitico il complesso processo storico e religioso che ha condotto la coscienza ebraica ad una diversa concezione del “Divino”: resta però necessario individuare, sia pure in termini schematici, la possibile “genealogia” del paradigma “metafisico” ebraico. Dice giustamente la Zarader, a proposito della “fede metafisica” ebraica49: [la conoscenza di Dio] non viene mai presentata come un atto cognitivo che prenderebbe Dio come oggetto; essa risiede piuttosto in una “esperienza”, sotto forma di simpatia ricettiva: conoscerlo significa ascoltarlo, fidarsi di lui. 50
Ciò significa che è del tutto estranea alla mentalità ebraica e biblica in generale la necessità di argomentare “razionalmente” l’esistenza di Dio, perché a questa si accede mediante l’esperienza vissuta dell’uomo, sostenuta da quell’atteggiamento fondamentale che si chiama “fede”. Per spiegare questa “metafisica”, avanzo la seguente ipotesi genealogica: all’origine del paradigma “teologico” ebraico, si deve collocare una forte vena “messianica”, che, tradotta in linguaggio filosofico, si può determinare come un’irresistibile esigenza di “negazione del negativo”. Certamente, anche la cultura greca – e la filosofia in particolare – aveva rilevato, come si è visto, la presenza sempre incombente del “negativo” nella realtà di cui l’uomo fa esperienza. Che cos’è la “tragedia” greca, se non la rappresentazione drammaturgica delle forze “negative” che sconvolgono, incontrollabili, la vita umana? A sua volta, la filosofia, fin dall’ inizio, ha sottolineato che le forze oppositive – ovvero i contrari – segnano in modo “ontologico” la realtà nella sua intera estensione. Infatti, il primo effettivo frammento della filosofia occidentale – l’unico testo di Anassimandro a noi noto – si esprime così: “da ciò da cui per gli essenti c’è la genesi, nel mede-
dente, la ripresa dell’“ilozoismo” greco e poi rinascimentale nella recente opera di V. Mancuso – Il principio passione, Garzanti, Milano 2013- sia pure conciliato con l’impianto teologico di fondo: “Quest’ultima posizione [l’ilozoismo] è la mia, (…) professata dai grandi pensatori del rinascimento italiano, Pico della Mirandola, Bernardino Telesio, Giordano Bruno, Tommaso Campanella” [p. 406s.]! 49 Mi rendo conto della arditezza di questo sintagma: la “fede” ebraica è, certamente, una “fede” e una “fede religiosa”, ma è innegabile che essa trascini con sé una “metafisica” (una concezione dell’Intero) 50 Zarader, Il debito impensato, cit., p. 88. Un’ulteriore precisazione: “in un universo in cui l'uomo viene subito ordinato ad un appello e si definisce attraverso l'ascolto (che è anche obbedienza), conoscere non significa impadronirsi di…, ma piuttosto ricevere, accogliere”, ibid.
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simo avviene la distruzione secondo necessità”, dove compare subito la suprema coppia di contrari di “nascita-morte”. Sulla sua scia, Eraclito addirittura innalza la contrarietà a legge suprema dell’Intero, anche se in essa mostra la presenza paradossale di una “armonia nascosta”. In Parmenide, il conflitto dei contrari assurge allo scontro assoluto tra l’“essere” e il “nulla”, mentre negli altri Presocratici la realtà dei contrari continua ad esercitare un ruolo fondamentale. La persistenza di questo fattore ontologico in Platone e in Aristotele è indiscutibile e, per quanto il “forte” animo greco sia disposto a vedere in esso, come già in Eraclito, un aspetto armonico della realtà, non è possibile nascondere che, nella coppia dei contrari, c’è sempre una componente di “negatività”, che costituisce l’elemento di rottura nell’ unità del reale.51 Ebbene, se per il greco l’“apollysthai” – che non è solo la sparizione di ciò che è presente, bensì anche la distruzione di esso, come nel caso della “morte” - è un dato inesorabile e invincibile e quindi impone di attrezzarsi per affrontarlo finché è nelle possibilità dell’uomo, l’ebreo e il cristiano (che del primo è figlio diretto) non accettano e non si rassegnano alle negatività “aggressive” presenti nell’essere mondano (nella physis) e cercano una alternativa e una possibilità di riscatto da esse52. Gli studi biblici, infatti, hanno messo in evidenza che il “Dio” di Israele, più che un Dio riconoscibile nella “natura” – dove tutto si ripete immutabile – è una Realtà di cui si fa esperienza nella “storia”, la quale si costruisce sia mediante la “memoria” di quanto avvenuto nel passato sia mediante lo slancio “profetico” rivolto al futuro: l’uomo biblico, perciò, trova la sua identità, prima che nella “natura”, 51 Un testo platonico, tra i molti, dove è possibile reperire questa concezione apparentemente “serena” di fronte al “negativo” è il seguente: “ciascuna cosa desidera il suo contrario e non il suo simile: il secco l’umido, il freddo il caldo, l’amaro il dolce, l’acuto l’ottuso, il vuoto il pieno, e il pieno il vuoto, e così tutto il resto secondo il medesimo principio. Infatti, un contrario è nutrimento per il contrario mentre il simile non è vantaggioso per il simile [...]. Diremo allora che il contrario è sommamente amico del suo contrario?”, Platone, Tutti gli scritti, cit., Liside 215e. 52 Su questa contrapposizione tra la concezione “greca” dell’esistenza e quella “cristiana”, così come emerge, ad esempio, nella interpretazione di Nietzsche, che su di essa, com’è noto, ha scritto ampiamente, si può vedere il saggio di S. Natoli, Nietzsche e i greci: il problema del tragico contenuto ne I nuovi pagani, sopra citato. A tale proposito, Natoli scrive: “La presunzione di un mondo senza sofferenza produce necessariamente una svalutazione del mondo presente a vantaggio di quello venturo e, a seguito dei processi di spiritualizzazione, dell'altro mondo. L’idea di beatitudine allontana dalla terra, ma soprattutto indebolisce gli uomini, li rende incapaci di reggere al dolore e di dominarlo. Nella concezione tragica il dolore è qualcosa che deve essere in primo luogo affrontato e, caso mai, in seconda istanza imputato. Ma più di ogni cosa, nel tragico, il dolore è ciò con cui bisogna abitualmente coesistere, non ciò da cui ci si possa definitivamente liberare” (p. 70s.). E in un'altra pagina: “nell’uomo greco anche in mezzo al dolore c’era sempre l’amore per la terra. Nel cristianesimo si sviluppa questo germe profondo di disamoramento. La vita etica non può sciogliersi dalla malinconia”, p. 38.
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anzitutto nella “storia”, dove affiora una tensione “messianica” in modo incontenibile53. Non è difficile documentare la presenza di questo atteggiamento di fondo, prima nella cultura religiosa ebraica e poi in quella cristiana: è sufficiente richiamare alcuni testi centrali della Bibbia. Un documento ebraico molto eloquente, ad esempio, è il seguente: Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi unse, mi inviò a evangelizzare gli umili, a fasciare quelli dal cuore spezzato e proclamare la libertà ai deportati, la liberazione ai prigionieri, a proclamare un anno di grazia da parte del Signore, un giorno di vendetta da parte del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti.54
A dimostrazione della continuità di questo filone “messianico”, è sufficiente richiamarsi al testo “cristiano” di Luca dove Gesù di Nazareth sintetizza il senso della sua missione proprio riprendendo il brano di Isaia citato (Lc. 4, 18-19) Ma, ancora più eloquenti sono i versetti finali dell’Apocalisse cristiana, il libro che chiude, significativamente, l’intero testo biblico: Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il ‘Dio-con-loro’. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. (Apocalisse 21,1-4)
L’uomo ebreo (e cristiano) – più di quanto non avvenga per l’uomo greco – possiede insomma una coscienza drammatica delle dimensioni negative che l’essere “mondano” presenta: un essere che non sa resistere nell’essere, ma inesorabilmente “finisce” nel nulla – almeno, a quanto sembra immediatamente, ad occhi umani. Ma questo medesimo essere “finito” e “mortale”, finché rimane nella presenza dispiegata dell’“Aperto”, si accompagna ad una gamma variegata di altre distruttive “negatività”: il male, il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia, l’insensatezza, l’assurdo, ecc. Il libro di Giobbe è il testo più impressionante sulla coscienza ebraica del dolore e della sofferenza innocenti, così come il libro di Qohelet è quello che, con spietato realismo, registra l’”assurdo” che è immanente nella realtà di cui l’uomo fa 53 “La storia non è semplicemente dietro di me come un insieme di fatti compiuti: essa m'accompagna in ogni momento del presente e, almeno dopo i Profeti, mi aspetta ancora nel futuro”, Zarader, Il debito impensato, cit. p. 90 54 Isaia 61,1-2. Cito dalla traduzione della Cei.
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esperienza55. Ebbene, l’uomo “biblico”, consapevole della condizione esposta in cui si trova, non ritiene di possedere, da solo, le forze per combattere e resistere e, ricorrendo ad una differente idea dell’Intero, crea le condizioni per nutrire una “speranza” di “redenzione” definitiva e totale56. Ma in che modo l’uomo “biblico” perviene a fondare la “speranza” in questa possibile “salvezza”? Non certo ricorrendo ad un processo argomentativo mediante il logos come presso i filosofi greci, bensì grazie, come già si è visto, a quell’atteggiamento umano, complesso e articolato, che viene chiamato “fede”57. La “fede” implica certamente una componente “razionale”, ma segue una propria “logica” che non è riducibile a quella della “ragione”, perché chiama in causa altri fattori, quali il “desiderio”, la “volontà” e persino l’“immaginazione”, non in quanto arbitraria invenzione di ciò che sfugge alla esperienza, bensì in quanto capacità “simbolica” che rinvia oltre la realtà empirica data. Non si tratta qui, di nuovo, di indagare il rapporto che si può instaurare tra la “ragione” e la “fede”, su cui due millenni di storia cristiana si sono soffermati con ampie, profonde e tormentate riflessioni, qui neanche riassumibili. Si vuole però sottolineare che questo atteggiamento, tipico dell’uomo biblico, non è estraneo alla cultura greca, come dimostra, ad esempio, un noto passaggio del Fedone platonico, che così recita a proposito della immortalità dell’anima: “questo mi pare che si convenga e che metta conto arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello”58. Né si tratta qui di stabilire se il messaggio biblico sia una “rivelazione” – e quindi comunicazione diretta del Divino all’uomo – oppure sia semplicemente espres-
Per non parlare del Cristianesimo, in cui la coscienza del “negativo” – morale anzitutto, secondo una certa lettura tradizionale, ma non solo – è così drammaticamente percepita, che, per “redimerlo”, si afferma che lo stesso “Dio” si è “fatto uomo” in Gesù di Nazareth! 56 Anche: “il greco ha il terrore dinanzi alla contingenza, dinanzi all'esposizione: [...] la malattia, le insidie della natura, le avversità dell'ambiente, le aporie”: tuttavia “non riuscire qui e ora significa semplicemente fallire”, S. Natoli, I nuovi pagani, cit. p. 30. 57 È il caso di richiamare la nota definizione della “fede” che si trova in Ebrei 11,1: “la fede è fondamento delle cose sperate e prova delle cose invisibili” (traduzione dal greco mia), dove sono da sottolineare i due temi della “speranza” e della “invisibilità”. La Zarader precisa: “[l’universo ebraico] ha uno stile e un ritmo propri che non possono essere paragonati a quelli che, a partire dai Greci, regolano la razionalità occidentale”, Il debito impensato, cit. p. 94. 58 Fedone 114d – seguiamo la traduzione di G. Reale in Platone Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991. Ma in un altro noto passaggio del medesimo dialogo, Platone aveva ipotizzato persino la possibilità di una “parola divina” ovvero di una “rivelazione”: “accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e meno rischioso su più solida nave, cioè una parola divina” [ivi. 85c] – la formula “parola divina” traduce letteralmente il testo greco, mentre Reale ricorre a questa perifrasi interpretativa: “affidandosi a una rivelazione divina”. 55
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sione di una cultura fortemente segnata dalla religiosità. Ci basti aver richiamato il differente terreno su cui nasce la concezione biblica del Divino, ovvero la pistis, come la “fede” viene chiamata nella lingua greca del Nuovo Testamento. Orbene, la condizione di possibilità inderogabile della posizione “messianica” (come negazione del negativo) è costituita dal differente concetto del “Divino” rispetto alla grecità e dal conseguente concetto di “creazione”59. La novità consiste nell’affermare che l’essere di ciò che i greci chiamavano physis, proprio a causa del negativo che l’attraversa, non può essere ritenuto come l’“unico” essere (per di più “divino”), bensì deve essere depotenziato a “derivazione” o “prodotto” - precisamente a “creazione” - da parte di un “altro” essere più “originario”. Il vero “Tutto” è “differente” dall’essere della physis e quest’ultima è ridotta a “manifestazione” di esso. La grande “objezione” ebraico-cristiana al concetto greco di physis conduce, quindi, alla tesi della “trascendenza” – già affiorante, come visto, in Platone e in Aristotele – ovvero alla tesi per cui il “Divino” non può essere identificato con “tutto ciò che esiste” nella datità della esperienza mondana, bensì con una sfera d’essere “altra” o “differente” da quest’ultima60. Questa posizione, del tutto dirompente nei confronti di quella greca, è originariamente fondata e radicata nella “fede”61, anche se, nel momento del rapporto storico con la cultura filosofica greca, essa pure è forzata a sottoporsi al confronto dell’argomentazione “razionale”, con la conseguente nascita di una “teologia” ebraico-cristiana – non si dimentichi che il termine 59 Va precisato che sia la concezione “monoteistica” di “Dio”, sia il concetto di “creazione” non sono stati un possesso della religiosità ebraica fin dalle origini: al contrario, essi sono stati acquisizioni graduali e tormentate, nate dal confronto e dallo scontro con le culture religiose circostanti. Un solo esempio, ma riferito ad un testo cruciale, può essere illuminante. Nel capitolo 1 della Genesi, dove viene descritto lo scenario della creazione, il versetto 2 recita: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” [traduzione Bibbia Cei], dove sembra preesistere alla “creazione” vera e propria – che inizia solo al v. 3 – una specie di “materia informe” o “caos”, che Dio debba limitarsi a modellare -anche se è pur vero che questo versetto è preceduto dal versetto 1 che dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra”, in cui la fede creazionistica è espressa perentoriamente. V. Mancuso, ad esempio, propone la seguente, più letterale, traduzione del v. 2: “la terra era deserto, vuoto, tenebra sopra l’abisso, e una violenta tempesta spazzava la superficie delle acque” [V. Mancuso, Il principio passione, cit. p. 67] 60 È noto che il “greco” Nietzsche dà una lettura differente della genesi della “trascendenza” del Dio ebraico: “Per poter dire no a tutto quanto rappresenta il movimento ‘ascendente’ della vita, la natura ben riuscita, la potenza, la bellezza, l’autoaffermazione terrena, da parte dell’istinto del ‘ressentiment’ divenuto genio, si dovette, a questo punto, inventare un ‘altro’ mondo, secondo cui quella ‘affermazione della vita’ appariva come il male, come il riprovevole in sé” [L’Anticristo, tr. it. F. Masini, Mondadori, Milano 1975, p. 153]. 61 “Per la fede, noi comprendiamo che i mondi furono formati per una parola di Dio, di modo che da cose non visibili è derivato ciò che si vede” [Ebrei, 11,3]
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“teologia” è proprio di matrice greca, essendo stato coniato da Platone (Repubblica 379a 5-6). Dunque, il “dispositivo” teorico che è stato elaborato dalla teologia ebraico-cristiana, dopo che fu innervata sulla filosofia greca, si può riassumere nella seguente argomentazione:
è indiscutibile che il “Tutto” esista: in quanto tale, esso deve essere “assoluto” e “perfetto”; l’“essere” di cui si fa esperienza (la greca physis) è però segnato dalle “negatività” della contingenza, della imperfezione e della mortalità; “dunque”, il “Tutto assoluto” deve essere “differente” dall’essere “mondano”, perché deve essere preservato da ogni forma di “negatività”.
Questa posizione sembra risolvere, in prima istanza, l’aporia intrinseca alla filosofia della physis, ma genera, immediatamente, un “dualismo” altrettanto aporetico: se il “Tutto” è “altro” dall’essere “mondano”, come si deve concepire il “rapporto” tra queste due sfere d’essere? Ecco uno schema della complessa aporia che il concetto di “creazione” porta con sè:
l’essere della physis - per la fede biblica, la sfera dell’essere mondano - deve essere concepito come radicalmente “interno” – immanente - al “Tutto assoluto” e perciò come una produzione-derivazione da quest’ultimo;62 si tratta però di comprendere “perché” il “Tutto assoluto” abbia “prodotto”, “dentro” di sé, questo “altro” da sé: l’esistenza dell’essere “finito” è un “fatto”, ma “perché” esso si dia, resta da stabilire;63 nasce infatti una contraddizione: il “Tutto senza mondo” è già in se stesso il “Tutto” assoluto che non “abbisogna” del mondo; eppure il “Tutto con (+) il mondo” non può essere qualcosa “di più” del “Tutto” senza (-) il “mondo”;64
62 Questa tesi fondamentale sembra adombrata in una nota “profezia” di Paolo di Tarso, anche se la sua formulazione possiede una intonazione storico-escatologica: tutta la storia è vista come un processo “affinché Dio sia tutto in tutti” [1 Cor. 15,28]; ancora più esplicita l'affermazione in Atti 17,28: “In lui [Dio] infatti viviamo, ci muoviamo e siamo”. 63 “Il mondo avrebbe potuto tranquillamente non esistere senza che per Dio in sé nulla mutasse. Sorge però inevitabile la domanda: perché allora Dio l’ha creato? Che cosa voleva? Che cosa vuole? Qual è l’obiettivo di tale immane processo che si chiama mondo?”, V. Mancuso, Il principio passione, cit., pp. 385-386 64 La difficoltà è stata avvistata anche all'interno della originaria tradizione ebraica, che ha tentato di individuare una via d’uscita mediante la teoria dello “zim-zum” elaborata nel sec. XVI dal cabbalista J. Lurja: la “creazione” è come una “sottrazione” di Dio a se stesso, che, in questo modo, lascia spazio all’“altro” da sé. Spiega la Zarader: “In origine, Dio era sì ovunque, ma, per rendere il mondo possibile, è stato necessario che si contraesse, che si ritirasse per così dire in se stesso. È un modo radicalmente nuovo di interpretare l’“eclissi”
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posta comunque la “creazione”, ne segue che l’essere del mondo si configura come radicalmente “contingente” rispetto al “Tutto assoluto”, perché, in quanto “derivato” ovvero “creato”, avrebbe potuto anche “non essere”;65 in questo modo, l’essere di cui l’uomo fa esperienza e di cui l’uomo stesso è parte, è deprivato di qualsiasi consistenza ed autonomia ontologica, perché “dipendente” totalmente dalla “volontà” del “Tutto” originario - che è da identificarsi con “Dio”66.
Sono questi i rilievi critici opponibili al “dualismo” metafisico e che investono anche il “creazionismo” che sta alla sua origine. Ma il concetto di “creazione” è stato sottoposto ad una critica ancora più frontale, espressa dalla formula dell’“antropomorfismo”: la nozione di “creazione” non sarebbe altro che la proiezione sul “Tutto” dell’atteggiamento umano del “produrre” o del “creare” gli oggetti; la conseguenza è che il concetto di “creazione” – assolutamente necessario per ogni monoteismo autentico – assume una connotazione “mitologica” e quindi, alla fine, viene respinto come razionalmente ingenuo e infondato67. In sintesi, sia la razionalità “teologica” ebraico-cristiana sia la razionalità “filosofica” greca identificano il “Divino” con il “Tutto” assoluto, ma ambedue si imbattono nella questione della relazione tra il “Tutto” e la realtà fattuale degli essenti finiti. Alla fine entrambe le risposte, sia quella greca sia quella biblica, restano aporetiche: la prima riconosce la “divinità” di tutto ciò che è, ma si scontra con il “negativo” che lo attraversa e che non sa “redimere”; la seconda tenta di ovviare a queste “negatività”, ma si imbatte di Dio: Dio non è affatto nascosto nel mondo, ma ripiegato su di sé, letteralmente “inabissato” – e questo ‘perché’ il mondo sia”, Zarader, Il debito impensato, cit., p. 156. 65 “Il cristianesimo ha inoculato il germe della salvezza assoluta da un lato, ma anche della vanità di questo mondo dall'altro”, S. Natoli, I nuovi pagani, cit. p. 37. Si potrebbe richiamare, a questo proposito, la posizione di E. Severino, la cui “ontologia” sostiene l’eternità di tutto ciò che è, perché essa è la connotazione dell’essere in quanto tale: ne consegue che, in questa filosofia, non c’è spazio per nessun “Dio” né per il concetto di “creazione”, essendo “eterno” ogni essente, anche il più fugace e insignificante. A mio parere, l’'“ontologia” severiniana presenta indubbie ascendenze e analogie con la filosofia greca della physis quale viene delineata in questo contributo. 66 Il dualismo che si genera può essere delucidato così: “il mondo ‘altro’ è [...] l’‘altro mondo’ o, come direbbe Nietzsche, il ‘dietro mondo’. Ma il ‘dietro mondo’, proprio perché è imperituro e indefettibile, è il ‘vero’ mondo e il mondo del divenire è il mondo ‘apparente’ e come tale il ‘falso mondo’”, S. Natoli, I nuovi pagani, cit. p. 83. Al contrario, il pensiero greco della physis può essere inteso come una forma di “monismo”, su cui può essere utile la seguente precisazione di W. Jäger: “il pensiero filosofico che subentrerà a quello di Esiodo cercherà, in contrasto con la teologia sorta dalla Genesi, il divino nel mondo, non al di là di esso”, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 20. 67 Come vedremo più avanti, filosofi “moderni” come Spinoza o Hegel – per non parlare di Nietzsche – rigettano, proprio per questo motivo, l’idea di “creazione”.
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nel nodo inestricabile del “dualismo” ontologico - perché “Dio” (il “Tutto”) ha “prodotto” in sé l’“altro” da sé? e se l’essente mondano è “creato”, non è forse, così, privo di ogni autonomia ontologica? Il fatto che il Divino “trascendente” della religiosità biblica sia un “al di là” rispetto all’essere finito della physis greca impone all’uomo la necessità di “cercarlo”, giacché resta “invisibile” e inesperibile all’uomo, per quanto accessibile mediante la “fede”. Alla fine, sia la tradizione ebraica sia quella cristiana devono confessare che la “trascendenza” divina resta impenetrabile per la “ragione”. Bastino questi due testi, uno ebraico e uno cristiano: Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d’ Israele, salvatore 68; [Dio] abita una luce inaccessibile, che nessun uomo mai vide né potrà vedere 69.
Proprio per questo motivo, si susseguiranno ininterrotti nel corso dei secoli dell’età cristiana tentativi di “dimostrare l’esistenza di Dio” (del Dio “personale”, si intende). Ma, a ben vedere, essi non sono stati altro che una mossa apologetica della teologia cristiana contro l’objezione “razionalistica” della indimostrabilità o della non esistenza di Dio70. Kant, nella Dialettica trascendentale della Critica della ragione pura riterrà di trarre un bilancio conclusivo su questi tentativi del “razionalismo” teologico, affermando che non esiste nessuna possibilità per la ragione, anche per quella “pura”, di argomentare in modo “oggettivo” questa esistenza71. Il Cristianesimo ritiene di essere l’unica e vera risposta a questa costitutiva “ignoranza” dell’uomo intorno al Dio “trascendente”. Radicalizzando la tensione “messianica” presente nell’ebraismo, esso apporta un fattore nuovo e, per così dire, sconcertante: il “Dio” che è “differente” dal mondo
Isaia 45,15. Si sa che il motivo del “Deus absconditus” si trova sviluppato anche nei Pensieri di Pascal – vedi ad esempio il “pensiero” n. 598 (edizione Chevalier) in Pascal, Pensieri, tr. it. A. Bausola, Rusconi, Milano 1993. 691 Timoteo, 6,16. Ma anche al termine dell’inno con cui si apre il vangelo di Giovanni si legge: “Dio nessuno l’ha visto mai” [1,18]. Già la Bibbia ebraica però aveva sostenuto la insuperabile “invisibilità” di Dio: “Non puoi vedere il mio volto, perché l'uomo non può vedermi e vivere” [Es. 33,20]. 70 L’asserto già citato del v. 18 contenuto nel Prologo del vangelo di Giovanni rinvia alla “fede” in Gesù come “Logos” la conoscibilità di Dio: “Proprio il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” [1,18]. 71 Le classiche “cinque vie” di Tommaso d'Aquino verrebbero qualificate, nella prospettiva di Kant, come prove o “cosmologiche” e “fisico-teologiche”: ma, a loro volta, queste sono da riportare, sempre per Kant, a quella cosiddetta “ontologica”. Concordo sulla priorità assegnata da Kant a quest'ultima argomentazione –formulata, per la prima volta, come si sa, da Anselmo d'Aosta– ma non sulla tesi della sua invalidità. 68
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si è, letteralmente, “fatto uomo” nell’uomo ebreo Gesù di Nazareth72. È inevitabile che una tale affermazione sia da collocare sotto le categorie dello “scandalo” e del “paradosso”, come ha ben compreso Kierkegaard: giacché tale “verità”, che il Cristianesimo chiama “evangelo” ovvero “buon annuncio”, può essere affermata solo mediante la “fede”, non esistendo nessun possibile sostegno “razionale”. Ma, con questa tesi detta della “incarnazione” - dell’Infinito che si fa finito – si è abbandonato completamente la nozione ontologica greca di physis e ci si è posti sul terreno, estraneo alla “metafisica” greca, della “storia” ovvero dei “fenomeni” umani nel tempo. A dire il vero, il Prologo del vangelo di Giovanni sembra cercare una mediazione con la concezione greca del Divino ricorrendo alla nozione di “Logos”: l’“uomo” Gesù di Nazareth è il “Logos” divino che, non solo “si fece carne”, ma anche grazie al quale “tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv. 1,3). Ma, l’“umanizzazione” del “Divino” – che è forse l’affermazione più ardita che mai sia stata fatta nella storia dell’uomo – resta, inevitabilmente, consegnata alla decisione della “fede”.
C. La metafisica moderna del “mondo” Ognuno può constatare quanto lontana sia la concezione greca – qualcuno direbbe anche “pagana”73 – della vita da quella che si è affermata in Occidente, dopo la svolta determinata dalla diffusione del cristianesimo e del sottostante ebraismo. Eppure, anche la “metafisica” di matrice greca non è rimasta confinata nei depositi della storia, perché ha segnato definitivamente il pensare filosofico in questa parte del Pianeta ed ha continuato a fermentare per l’intero corso del suo sviluppo. La filosofia dell’età cosiddetta “moderna”, infatti, vede – almeno in alcuni suoi filoni principali – il riaffiorare dell’impianto “metafisico” della filosofia della physis, sia pure declinato in modalità nuove, perché essa non poteva non risentire dei lunghi secoli di filosofia “cristiana” che l’hanno preceduta74. La potente radice della metafisica della physis, infatti, ritorna sotto la forma di filosofie che si suole qua-
Il cruciale v. 14 di Gv. 1 afferma: “E il Verbo (Logos) si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. 73 Vedi, ad esempio, il saggio di S. Natoli, I nuovi pagani, da me spesso utilizzato. Il termine “paganesimo”, anche per l’accezione spregiativa che gli è stato conferito nel linguaggio cristiano, non ci sembra, a dire il vero, molto felice: noi preferiremmo la dizione, storicamente più precisa, di “grecità” e di “romanità”. 74 “La grecità in un certo senso è durata anche nei secoli cristiani: c’è stata la paganità latente”, S. Natoli, ivi, p. 36. 72
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lificare come “immanentistiche” ovvero filosofie che attribuiscono la valenza di “Assoluto” alla sfera della “mondanità”: e che cos’è il “mondo”, in queste filosofie, se non la nuova dizione dell’antico termine di physis?75 Non è possibile, ribadisco, ricostruire questo complesso processo storico nei limiti di un contributo come l’attuale. Si impone, perciò, la necessità di compiere delle scelte, purché siano, da un lato, emblematiche della ripresa della filosofia della physis e, dall’altro, della transizione realizzatesi nei secoli della “modernità” in senso stretto, ovvero dal XVII al XIX secolo. Mi è sembrato perciò non arbitrario isolare una linea di pensiero che va da Spinoza (XVII secolo) a Diderot (XVIIII secolo) a Hegel (XIX secolo) a Nietzsche (avanguardia del XX secolo). Si potrebbe objettare che, ad esempio, nel sec. XVII a Spinoza si oppone, più che la figura di Descartes, quella di Pascal76; nel sec. XVIII, Diderot può avere il suo contraltare, almeno sul piano etico, in Kant77; nel secolo successivo, Hegel trova il suo avversario in Kierkegaard78; infine, si può rilevare che, dopo la “morte di Dio” proclamata da Nietzsche, fin dai primi anni del sec. XX, il teologo K. Barth rilancia la fede cristiana, apertamente dileggiata dal primo79. Come si vede, il panorama della “modernità” è molto più variegato e frastagliato di quanto possa far sospettare l’isolamento del filone che ho indicato. Tuttavia, è indubbio che quest’ultimo costituisca un elemento centrale della filosofia moderna, tale da caratterizzarla come “epoca” ben definita e differenziata rispetto ai secoli precedenti. Si cercherà, ora, di documentare e illustrare questa posizione con dei profili dei filosofi suddetti, senza squilibrare il presente lavoro in impossibili saggi su di loro.
75 “Quando il mondo diventa Dio si ha da un lato la mondanizzazione dell’infinito, dall’altro l’infinitizzazione del mondo: ecco Giordano Bruno”, ivi, p. 46. Effettivamente, il “cosmo” bruniano è il primo e clamoroso esempio “moderno” della ripresa, in un contesto storico mutato, dell'antica physis greca. 76 Mentre Spinoza “razionalizza” filosoficamente il concetto di “Dio”, Pascal, nel celebre “Memoriale”, riafferma vigorosamente il Dio della “fede”: “’Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe’, non dei filosofi e dei dotti”, in: B. Pascal, Pensieri, tr. it. P. Serini, Einaudi, Torino 1962, p. 421. 77 Kant, pur accettando la concezione meccanicistica newtoniana della “natura”, ritiene, a differenza di Diderot – vedi l'etica estetizzante delineata da quest’ultimo ne Le neveu de Rameau – che la sfera etica apra un ambito di realtà del tutto differente dalla “natura” e debba possedere, sia pure in termini postulatori, uno sbocco “teistico”. 78 Si sa che Kierkegaard contrappose alla Scienza della Logica di Hegel le più “modeste” Briciole di filosofia, dove la polemica contro Hegel è frontale e senza nessun sconto. 79 K. Barth, nella Lettera ai Romani (1919), ripensa il concetto di “Dio” addirittura in versione “dialettica” ovvero oppositiva e negativa della sfera “mondana”, assumendo una posizione “teologica”, che era stata proprio il bersaglio preferito di Nietzsche.
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1. Spinoza La prima osservazione che si potrebbe avanzare è che la filosofia “moderna” inizia con la figura di R. Descartes, considerato, in modo pressoché unanime, il “padre” di essa: perché, allora, cominciare con Spinoza? Se si traguarda la filosofia dei secoli moderni dal punto di vista della tematica del “soggetto” e della gnoseologia, è indubbio che si debba iniziarne l’analisi con la filosofia cartesiana, che ha posto al centro del filosofare il principio del “cogito”. Ma, essendo la nostra finalità un’altra, come si è detto, si deve ammettere che la “metafisica” cartesiana, pur con tutto il “razionalismo” che la attraversa, rimane ancora, dato lo sbocco “teologico”, all’interno del “dualismo” di matrice biblica e quindi fuoriesce dalla linea da noi individuata. Invece, la filosofia spinoziana, nonostante i suoi legami con quella cartesiana, segna un netto distacco dalla tradizione biblica e quindi deve essere la prima che merita la nostra attenzione in questa sede. A dire il vero, il primo dato da richiamare, di tipo biografico, riguarda l’educazione alla fede ebraica ricevuta da Spinoza nella sinagoga di Amsterdam. Non è un fattore secondario e ininfluente, perché anche questo filosofo tipicamente “moderno” affonda le sue radici nella tradizione religiosa che, sul piano teorico-teologico, si può qualificare, come abbiamo visto, “metafisica biblica”. Senonché, il filosofo olandese venne espulso dalla sinagoga nel 1656 – ad appena 24 anni – perché ritenuto “eretico” rispetto alla “fede” dell’ebraismo. Come tutti i giovani ebrei, infatti, egli era stato avviato allo studio della Bibbia, ma, influenzato dalla filosofia neoplatonica rinascimentale, da quella cartesiana e dal nascente pensiero scientifico, oltre che dalla tradizione cabalistica, nel 1670 scrive quel Trattato teologico-politico che può essere ritenuto l’incunabolo del moderno “razionalismo” religioso80. In esso, Spinoza esclude che possa darsi una “rivelazione” diretta ed esplicita di Dio, giacché quanto contenuto nella Bibbia può essere scoperto anche dal “lume naturale” della ragione: la religiosità consiste solamente nel riconoscimento e nella obbedienza a “Dio”81. Sono perciò rifiutati i dogmi proposti
Lo scopo che Spinoza si propone in questa opera è “un nuovo, completo e libero esame della Scrittura”, Trattato teologico-politico, tr. it. Droetto-Giancotti Boscherini, Einaudi, Torino 1972, p. 6. L’opera può essere ritenuta anche il primo esempio moderno di esegesi storico-critica 81 Così Spinoza, sin dal primo capitolo del Trattato, interpreta, ad esempio, il fenomeno della “profezia”: “avendo dunque i profeti percepito la rivelazione divina con l’aiuto dell’immaginazione, non v'è dubbio che essi abbiano potuto percepire molte cose che eccedono i limiti dell’intelletto; giacché dalle parole e dalle immagini si possono ricavare per composizione assai più idee che dai soli principi e dalle nozioni sulle quali si basa tutta la nostra conoscenza naturale”, Trattato, cit., p. 33. 80
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dalle religioni istituzionalizzate e si sostiene il principio della libertà di pensiero, che ogni potere politico e religioso deve rispettare in modo inderogabile. Queste però sono solo le premesse della sua opera filosofica maggiore – l’Ethica more geometrica demonstrata (1677) – in cui egli costruisce una “metafisica” di impianto, per così dire, “moderno” e all’interno della quale, però, è possibile reperire il filo, nascosto e tuttavia operante, della antica metafisica della physis. Principio portante di essa è il concetto di “Sostanza”, una nozione proveniente, non a caso, dalla filosofia greca, anche se Spinoza la declina in modo del tutto nuovo: “ogni sostanza è necessariamente infinita”82. Egli ne deduce, quindi, che esiste un’“unica” Sostanza, che è “causa sui” e che si identifica con “Dio”83: tutte le altre realtà sono necessari “attributi” di essa, i quali, a loro volta, si autolimitano in “modi” altrettanto necessari (e i “modi” non sono altro che le cose finite). Come si vede, nella metafisica di Spinoza è del tutto assente il concetto di “creazione”, sostituito dalla “unicità” della Sostanza infinita che, in modo necessario, si esplica anche nelle cose finite (nei “modi”): le cose non hanno potuto essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera né in nessun altro ordine se non nella maniera e nell’ordine in cui sono state prodotte. (Proposizione XXXIII, ibid., p. 75)
Il rifiuto di quel concetto, costitutivo per la metafisica “biblica”, si spiega, per Spinoza, come già indicato, con l’“antropomorfismo” che tende ad attribuire a Dio il medesimo modo di pensare e di agire dell’uomo – così come “antropomorfico” sarebbe pure il “finalismo”, che viene attribuito ai fenomeni della “natura”84. Una sintesi nota di questa metafisica è costituita dall’aforisma “Deus sive Natura”: anche se Spinoza distingue una “Natura naturans” (Dio) e una “Natura naturata” (il mondo), in verità non c’è nessuna “differenza ontologica” tra di esse, in quanto sono due “facce” distinte dell’unica e medesima Sostanza85. Ora, la nozione spinoziana di “Natura” non ha nessuna valenza 82
Spinoza, Ethica, tr. it. G. Durante, Sansoni, Firenze1984: proposizione VIII, p. 15. “Intendo per Dio un essere assolutamente infinito, cioè, una sostanza costituita da un'infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita”, definizione VI, ibid. p. 5. 84 Questa critica al concetto “antropomorfico” di “creazione” si trova espressa, ad esempio, nella lunga Appendice che conclude la Prima Parte dell’Etica, dove troviamo scritto: “se Dio agisce per un fine, egli allora necessariamente appetisce qualche cosa che gli manca. (...) Tuttavia (...) Dio ha fatto tutto per se stesso e non per le cose da creare; giacché, prima della creazione, (...) [non si può], oltre Dio, assegnare alcuna cosa in vista della quale Dio avrebbe agito”, ibid. p. 93. 85 “Per Natura naturante dobbiamo intendere ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia quegli attributi della sostanza che esprimono un'essenza eterna ed infinita, (...) Dio in quanto 83
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“naturalistica” ovvero limitata ad una “parte” del “Tutto” perché è il “Tutto” stesso: essa non è né la “natura” del sapere scientifico né quella del linguaggio comune, perché si identifica con l’“Intero” e quindi con “Dio”86. Si può allora sostenere che questo concetto basilare dello spinozismo possiede un legame con la nozione greca di physis, pur scontando tutte le inevitabili differenze storiche e culturali. Hegel, che deve molti principi del suo pensiero a quello spinoziano, a dire il vero, ha obiettato, contro coloro che accusavano Spinoza di essere “ateo” proprio per il suo presunto “naturalismo”, che la filosofia di quest’ultimo può addirittura essere considerata una forma di “acosmismo”, perché, per il filosofo olandese, ciò che veramente esiste è “solo” Dio87. Comunque si giudichi questa interpretazione hegeliana, mi sembra che rimanga valida la lettura qui sostenuta, per cui nella “Sostanza” spinoziana si ha la riproposizione, in linguaggio moderno, dell’antica physis greca. Su un ultimo punto è il caso di soffermarci in questo brevissimo schizzo della filosofia di Spinoza: la sostituzione della “speranza” ebraico-cristiana con l’“amor Dei intellectualis”. Stabilito che l’uomo è, nella sua essenza, un “conatus” e quindi “cupiditas existendi”, Spinoza nel terzo libro dell’Ethica procede ad una rigorosa “deduzione” di tutti gli “affetti”, a partire da quelli fondamentali della “letizia” e della “tristezza”. Uno di questi “affetti” è appunto la “speranza” che viene -si direbbe prosaicamente, rispetto, si intende, alla valenza che essa assume nel messianismo biblico- così definita: una letizia incostante, nata dall’idea d’una cosa futura o passata, del cui esito dubitiamo in qualche misura. (Ethica, cit. p. 373)
La “speranza” messianica viene in questo modo come depotenziata a semplice “affetto” tra molti altri. E si comprende il motivo: se esiste solo il è considerato causa libera. E per Natura naturata intendo tutto ciò che segue dalla necessità della natura di Dio, o di ciascuno degli attributi di Dio, cioè tutti i modi degli attributi di Dio, in quanto sono considerati come cose che sono in Dio e che senza Dio non possono né essere né essere concepite”, Scolio alla Proposizione XXIX, ibid. p. 69. Queste formule sono passate nel linguaggio spinoziano dopo essere state coniate dal pensiero scolastico medioevale – e il linguaggio di Scoto Eriugena è tutt’altro che estraneo ad esse! – e riprese anche da G. Bruno nel sec. XVI. 86 Dice la proposizione XI: “Dio, ossia la Sostanza costituita da un’infinità di attributi, esiste necessariamente” ivi, p. 23. Tra questi infiniti attributi, due solamente sono conosciuti dall'uomo: l’“estensione” e la “coscienza”, quelli che costituiscono la “Natura” visibile. 87 “Nel sistema spinoziano è piuttosto il mondo a essere definito soltanto come un fenomeno cui non perviene nessuna vera realtà, e (...) questo sistema va considerato piuttosto come “acosmismo”. Non si dovrebbe tacitare di ateismo una filosofia che afferma che Dio e “soltanto” Dio è”, Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, tr. it. V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 177.
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“Dio-Sostanza” che si identifica con la “Natura”, non c’è più nessuna salvezza da “sperare”, bensì solo un “amor Dei intellectualis” da praticare ovvero l’immedesimarsi dell’“intelletto” con la “Sostanza” infinita ed eterna, di cui l’uomo è solo uno degli infiniti “modi”88. 2. Diderot Le figure rilevanti dell’Illuminismo francese sono indubbiamente innumerevoli: perciò, trascegliere, nella ricca schiera dei “philosophes”, quella di Diderot, può apparire una forzatura immotivata. Tuttavia, questa impressione di arbitrarietà si dissolve, appena si consideri che questo “philosophe” presenta due connotazioni decisive per il nostro discorso: primo, egli ha ricevuto una formazione cristiano-cattolica in un collegio dei gesuiti e quindi ha, pure lui, un legame diretto con la tradizione biblica; secondo, l’interesse per la filosofia della “natura” è in lui prevalente e ripetuto, come traspare dalle numerose opere ad essa dedicate. Queste due condizioni ci permettono di assumerlo come un esponente rappresentativo della “metafisica” moderna, nonostante le forti riserve, per non dire l’aperto diniego, che quest’ultima ha subito da parte della filosofia illuministica. Pertanto, benché egli sia stato uno dei protagonisti della grande stagione dell’IIluminismo francese del sec. XVIII – basti pensare a quell’operazione culturale gigantesca che è stata l’Encyclopédie, di cui fu il massimo protagonista – ci interessa solo il Diderot, nel senso che verrà spiegato, “metafisico”. Nella mole dei suoi scritti, dove si trovano, com’è noto, anche testi di carattere prettamente letterario, isolerò quelli che sono dedicati a questa tematica, a partire da quelle Pensées philosophiques, uscite anonime nel 1746, che segnano in modo inconfondibile il suo esordio di sostenitore del “deismo”, a cui perviene con una critica spregiudicata della tradizione cattolica di provenienza89. Già nelle Lettres sur les aveugles (1749), però, la posi-
88 “L'Amore intellettuale della Mente [l’amor Dei intellectualis della Proposizione XXXIII] verso Dio è l’Amore stesso di Dio, col quale Dio ama se stesso, non in quanto egli è infinito, ma in quanto può essere spiegato mediante l'essenza della mente umana, considerata sotto la specie dell' eternità; cioè l'Amore intellettuale della mente verso Dio è una parte dell'Amore infinito con cui Dio ama se stesso”, Quinta Parte, Proposizione XXXVI, ivi, p. 635. 89 Un assaggio dello stile di pensiero che attraversa lo scritto: “ Ci parlano troppo presto di Dio; altro difetto: non si insiste a sufficienza sulla sua presenza. Gli uomini hanno bandito la Divinità da loro stessi; l’hanno relegata in un santuario: le mura di un tempio delimitano la sua vista, essa non esiste affatto al di là. Insensati che siete: distruggete questi recinti che restringono le vostre idee; allargate Dio, vedetelo dovunque egli è, oppure dite che egli non esiste affatto”, Oeuvres philosophiques, Pensées philosophiques, Garnier, Paris 1964, p. 25s. (sono mie le traduzioni dei brani delle opere di Diderot cit.). In traduzione italiana esiste la raccolta Opere filosofiche, c/ di P. Rossi, Feltrinelli, Milano 1963.
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zione di Diderot evolve verso una forma di immanentismo con venature materialistiche. La prova teologica più diffusa e convincente – quella che si basa sull’“ordine” del mondo (ma che non può che restare inaccessibile a quei “ciechi” di cui tratta l’opera) – comincia a vacillare, perché in realtà l’“ordine” cosmico viene ritenuto uno stadio provvisorio della trasformazione ininterrotta della materia dell’universo90. Si arriva così ad una tesi ormai lontana dal deismo: Che cos’è questo mondo? [...] Una realtà soggetta a delle trasformazioni, le quali tutte indicano una tendenza continua alla distruzione; una successione rapida di esseri che si susseguono l’un l’altro, spuntano e spariscono: una simmetria passeggera, un ordine momentaneo.91
Non è difficile avvertire, anche qui, l’“eco” lontana, per usare la metafora di Heidegger sopra citata, dell’antica physis greca, giacché, come questa, è “una successione rapida di esseri che si susseguono l’un l’altro”, i quali, dopo un apparire “passeggero e momentaneo”, vanno alla fine soggetti alla “distruzione”. Non interessa tanto sottolineare la declinazione “materialistica” dell’universo di Diderot, quanto rilevare che la sua “metafisica” si costruisce a partire dal medesimo presupposto della metafisica della physis, ovvero che il “Tutto” coincide con la totalità di quanto si presenta nella esperienza “mondana”92. Diderot si tiene accuratamente informato e approfondisce gli studi di biologia e di fisiologia del suo tempo, ed è grazie ad essi che si afferma in lui, in termini sempre più chiari, l’idea di un universo costituito solo da materia “vivente” dotata di “sensibilità”, in sintonia con altri “philosophes”, in particolare Maupertuis e Buffon. L’opera in cui questa concezione filosofica 90 Diderot ormai affaccia, in modo esplicito, le ipotesi più lontane dalla visione “biblica” della realtà. Ad esempio, così descrive la possibile evoluzione subita dall'universo: “Quanti mondi difettosi, mancati si sono dissolti, si riformano e si dissipano forse a ogni istante negli spazi lontani [...] dove il movimento continua e continuerà a combinare ammassi di materia, fino a che essi abbiano ottenuto qualche disposizione nella quale possano perseverare?”, Diderot, Oeuvres philosophiques cit., Lettre sur les aveugles, p. 122. 91 ibid. p. 123. Come si sa, queste considerazioni di carattere “metafisico” vengono attribuite da Diderot all'“aveugle” inglese N. Saunderson, professore di matematica a Cambridge, durante un colloquio tra quest'ultimo morente e il prete G. Holmes. In realtà, questo è solo un espediente letterario per trascrivere quelle che sono le idee dello stesso Diderot. A dire il vero, nel successivo scritto intitolato De l'interprétation de la nature troviamo ancora affermazioni di questo tenore: “la questione: 'perchè esiste qualcosa', è la più imbarazzante che la filosofia possa proporsi; e non c'è che la rivelazione che possa rispondervi” (Oeuvres philosophiques cit., De l'inteprétation de la nature, p. 242). Ma è da dubitare che Diderot sia sinceramente consenziente con questa affermazione! 92 P. Casini annota giustamente: “in seguito ad una più approfondita critica del dualismo metafisico condotta su una falsariga ‘spinoziana’, Diderot giungerà alla conclusione che l’‘universo è Dio’”, P. Casini, Diderot “philosophe”, Laterza, Bari 1962, p. 108.
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viene ulteriormente sviluppata è L’interprétation de la nature (1753). Già il termine “nature” potrebbe avvisarci della affinità che esso ha con il termine greco di physis, ma questa annotazione sarebbe semplicemente superficiale, se non si precisasse il senso di questo accostamento. Il punto di vista, infatti, con cui Diderot affronta il tema della “natura” è chiaramente filosofico – per non dire “metafisico”: l’indipendenza assoluta di un solo fatto è incompatibile con l’idea di tutto: e senza l’idea di tutto, non c’è filosofia; 93 se i fenomeni non sono concatenati gli uni con gli altri, non c’è affatto filosofia. 94
Non è qui il luogo per ricostruire l’epistemologia di Diderot, con la distinzione tra “fisica sperimentale”, “fisica razionale” e “filosofia” (distinta essa pure in “sperimentale” e “razionale”) oppure tra “osservazione”, “riflessione” ed “esperienza”: ciò che però mette conto sottolineare è la prospettiva “unitaria” che il “philosophe” assume nello studio della “natura” e che lo colloca pienamente – comunque si valutino i risultati da lui ottenuti – nell’ambito di una “metafisica” della natura95. Diderot, in quest’opera, ripropone e sviluppa il concetto di “natura” che aveva già introdotta nelle Lettres sur les aveugles, ovvero quello di una “natura” dinamica, capace di trasformarsi e di evolvere sulla base delle forze che le sono immanenti:
De l’inteprétation de la nature cit., p. 186. ivi, p. 240. In Le rêve de D'Alembert troviamo questi altri asserti assimilabili ai due ora ricordati: “tutto cambia, tutto passa, non c’è che il tutto che resta”, Oeuvres philosophiques cit., p. 299s.; “non c’è che un solo grande individuo, il tutto”, ivi, p. 312. Ma già nel 1745, in una nota (I, 26) dell' Essai sur le mérite, che è la traduzione compiuta da Diderot di un’opera di Shaftesbury con il medesimo titolo, egli aveva scritto: “nell’universo tutto è unito. Questa verità fu uno dei primi passi della filosofia, e fu un passo da gigante” (in: P. Casini, op. cit. p. 101). Giustamente ancora Casini annota: “l’assioma dell’unità della natura è (...) il punto di partenza sia della philosophie naturelle di Diderot, sia dell’ideale scientifico dell''Encyclopédie'”, ivi, p. 102 95 Il termine “metafisica” da me utilizzato, com’è chiaro, possiede una accezione che non è quella di Diderot, anche se quest’ultimo, in modo contraddittorio, poi di fatto la pratica. Così, ad esempio, rivolge la sua critica al sapere “metafisico”: “le grandi astrazioni non comportano che un chiarore oscuro. L’atto della generalizzazione tende a spogliare i concetti da tutto ciò che essi hanno di sensibile. A misura che questo atto avanza, gli spettri materiali si fanno evanescenti; le nozioni si ritirano a poco a poco dall'immaginazione verso l’intelletto; e le idee diventano puramente intellettuali. Allora il filosofo speculativo assomiglia a colui che guarda dall'alto di quelle montagne le cui sommità si perdono nelle nubi: gli oggetti della pianura sono scomparsi davanti a lui; non gli resta che lo spettacolo dei suoi pensieri e la coscienza dell'altezza alla quale si è elevato e dove forse non è dato a tutti di seguirlo e di respirare”, De l’inteprétation de la nature, op. cit. p. 216s. Un’ulteriore precisazione al n. 50: “l’atto del generalizzare è per le ipotesi del metafisico ciò che le osservazioni e le esperienze ripetute sono per le congetture del fisico”, ivi, p. 229s. 93 94
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io chiamerò dunque “elementi” le differenti materie eterogenee necessarie per la produzione generale dei fenomeni della natura; chiamerò “la natura” il risultato generale attuale o i risultati generali successivi della combinazione degli elementi.96
Gli ultimi testi su cui è il caso di soffermarsi in questa breve ricostruzione del concetto di “natura” in Diderot sono L’entretien entre D’Alembert et Diderot, Le rêve de D’Alembert e Suite de l’entretien (1769)97. L’espediente retorico dell’alternativa con cui si apre l’Entretien esprime chiaramente l’evoluzione del pensiero di Diderot e la posizione a cui è definitivamente pervenuto: Confesso che un essere che esiste in ogni parte e che non corrisponde a nessun punto dello spazio; un essere che è inesteso e che occupa ciò che è esteso; che si differenzia essenzialmente dalla materia e che le è unito; che la segue e che la muove senza muoversi; che agisce su di essa e che ne subisce tutte le vicissitudini; un essere di cui io non ho alcuna idea; un essere d’una natura così contraddittoria è difficile da ammettere. Ma altrettante oscurità attendono colui che lo nega; perché infine se è una qualità generale e essenziale della materia, questa sensibilità che voi gli sostituite, bisogna che la pietra abbia una sensibilità. 98
In realtà, la tesi di una “natura” costituita totalmente ed esclusivamente di “materia vivente e sensibile” è stata ormai abbracciata da Diderot, di contro alle esitazioni “deistiche” di altri “philosophes” come Voltaire, Maupertuis e lo stesso D’Alembert99. Per concludere questa rapida incursione nella filosofia di Diderot, ripetiamo che non ci interessa tanto sottolineare il concetto di “materialismo sensista”100 che è la sigla finale del suo pensiero, quanto rilevare che la sua nozione di “Natura”, come già richiamato, costituisce uno dei nodi, nella 96 ivi, p. 239. L’importanza del dinamismo temporale nella “materia” conduce Diderot alle seguenti conclusioni: “se la condizione degli esseri è in una vicissitudine perpetua; se la natura è ancora all' opera, malgrado la catena che lega i fenomeni, non ci può essere affatto filosofia. Tutta la nostra scienza naturale diviene transitoria come le parole”, ivi, p. 240s. 97 I tre scritti costituiscono un unico blocco letterario steso nel 1769, ma pubblicato per la prima volta solo nel 1830. 98 Oeuvres philosophiques, cit., Entretien entre D'Alembert e Diderot, p. 257s. 99 Il radicalismo di Diderot giunge sino alla seguente concezione dell'uomo: “Chi sa a quale istante della successione di queste generazioni animali noi siamo nati? Chi sa se questo bipede deformato, che non ha che quattro piedi di altezza, che si chiama ancora uomo nelle vicinanze del polo, e che non tarderebbe a perdere questo nome deformandosi un po’ di più, non sia l’immagine di una specie che passa? Chi sa se non sia così per tutte le specie animali?”, Oeuvres philosphiques, cit., Le rêve de D’Alembert, p. 302. Come si vede, egli giunge sino alle soglie del concetto di “evoluzione”: “se tutto è in un flusso generale, come lo spettacolo dell'universo me lo mostra dappertutto, che cosa non produrranno mai, qui e altrove, la durata e le vicissitudini di alcuni milioni di secoli?”, ivi, p. 308. 100 “Non c’è che una sostanza nell’universo, nell’uomo, nell’animale”, ivi, p. 278.
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filosofia del XVIII secolo, intorno a cui continua ad avvolgersi il filo rosso che accomuna l’antico concetto di physis con le espressioni più rilevanti del pensiero della “modernità”. 3. Hegel È superfluo giustificare la scelta della filosofia di Hegel, come rappresentativa della “modernità”: la sua penetrante capacità di lettura del clima e della cultura di quest’epoca e l’imponenza della costruzione filosofica sono incontestabili e quindi non resta che tracciarne un rapido profilo101. Anche Hegel ha ricevuto un’educazione di impronta biblica, avendo addirittura studiato teologia cristiana nel Seminario di Tubinga: anzi, al termine dei suoi studi, avrebbe dovuto intraprendere l’attività di pastore protestante. Nietzsche ha ironizzato pesantemente su questa provenienza del filosofo di Stoccarda, come si può notare da questo noto passaggio dell’ Anticristo: tra i Tedeschi mi si comprende subito quando dico che la filosofia è corrotta dal sangue dei teologi. Il pastore protestante è nonno della filosofia tedesca. [...] Basta pronunciare la parola ‘seminario di Tubingen’, per capire ‘che cos’è’ in fondo la filosofia tedesca -una ‘scaltrita’ teologia… (F. Nietzsche, Anticristo, cit. p. 140, n. 10).
Ma al di là del giudizio sferzante e, di certo, sbrigativo di Nietzsche, resta il fatto che i primi scritti di Hegel sono dedicati a tematiche religiose e trovano il loro compimento ne Lo spirito del cristianesimo e il suo destino102. Il “giovane Hegel” elabora le sue prime ricerche sotto l’influsso della cultura illuministica, anche se, più avanti, egli si accosterà alla prospettiva romantica, diventandone il maggior interprete sul piano filosofico. Nello scritto sopra citato, ad esempio, nel primo capitolo, Hegel sviluppa una specie di genealogia dell’idea ebraica di “Dio”, in cui contrappone il “Dio” dell’ebraismo alla concezione greca del “Divino”. Nella interpretazione hegeliana, quest’ultima scopre il “Divino” nella “natura” e nella “storia” e quindi in tutto ciò che è dato nella esperienza, con cui l’uomo greco si trova pienamente conciliato. Invece l’ebraismo nasce dal rifiuto, emerso già da subito con Abramo, di armonizzarsi con quanto è offerto da questa esperienza del 101 Si potrebbe richiamare anche un’altra grande figura della cultura, filosofica e letteraria, tedesca “moderna” come Goethe. Infatti, la sua filosofia della “Natura” è indubbiamente da collocarsi nella linea della filosofia greca della physis: l’Uno-Tutto ovvero la Natura è il Divino che abbraccia tutte le cose. Per un confronto tra queste due figure della cultura tedesca vissute nel medesimo arco temporale si può vedere l'Introduzione dedicata appunto a Goethe e Hegel nel testo di K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1971. 102 Come si sa, queste prime prove di Hegel vennero pubblicate solo nel 1907 da H. Nohl con il titolo Theologische Jugendschriften, di cui esiste una traduzione italiana di VaccaroMirri, Hegel, Scritti teologici giovanili, Guida, Napoli 1972.
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mondo, perché il “Divino” è identificato con ciò che sta “oltre” e “fuori”, anzi contrapposto ad esso103. Quindi, la civiltà greca, secondo Hegel, è contrassegnata da uno spirito di pacificazione e di serena adesione a quanto il “mondo” presenta, mentre la spiritualità ebraica, essendo rivolta ad un “Divino” che è oltre e fuori da esso, è connotata da un atteggiamento di divisione e di conflitto, perché il mondo è considerato una minaccia per il culto del Dio “trascendente”. Muovendo da queste premesse, anche dopo la svolta romantica dei primi anni dell’’800, Hegel delinea così, nella Prefazione della Fenomenologia dello Spirito l’uscita dell’uomo europeo dalla concezione medioevale e l’approdo alla “modernità”: Un tempo essi [gli uomini] avevano un cielo fatto di vasti tesori di pensieri e di immagini. Il significato di tutto ciò che è, stava nel filo di luce che tutto al cielo teneva attaccato; una volta rifugiatosi in cielo lo sguardo, anziché soffermarsi sulla presenzialità ‘di questo mondo’, vi scivolava su verso l’essenza divina, verso, se così si possa dire, una presenza fuori del mondo. L’occhio dello spirito dovette a forza venir rivolto al terreno, e qui venir trattenuto; e c’è voluto tempo assai prima di introdurre, nell’ottusità e nello smarrimento in cui si trovava il senso dell’al di qua, quella chiarezza che solo il sovraterreno possedeva, prima di riconsacrare all’ interessamento umano quell’attenzione a ciò che è presente, la quale vien detta “esperienza”.104
Si potrebbe chiamare questo processo storico, così efficacemente tratteggiato da Hegel, con il termine di “secolarizzazione” o anche di “mondanizzazione”, a significare che la “trascendenza” del Divino, intrinsecamente essenziale alla fede biblica, è ormai sottoposta, nei secoli moderni, ad un ripensamento critico radicale, sino a pervenire al suo definitivo superamento. Hegel è stato, in elementi portanti della sua filosofia, uno spinoziano, tanto da sostenere che la condizione necessaria per poter fare filosofia consiste, anzitutto, nell’“essere spinoziani”105 ovvero nel riconoscere che il 103 È significativo questo brano con cui si dà avvio alla ricostruzione della figura di Abramo: “Il primo atto con cui Abramo diviene capostipite di una nazione è una separazione che rompe i legami della convivenza e dell'amore, la totalità delle relazioni in cui egli ha vissuto finora con gli uomini e con la natura. Egli scaccia da sé queste belle relazioni della sua gioventù”, Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino, in Hegel, Scritti teologici giovanili, cit. p. 355104 Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di V. Cicero, Milano, Rusconi 1997, Prefazione, pp. 6-7. Natoli, però, giustamente avverte: “Si torna spaesati alla terra perché si è caduti dal cielo: i l cristianesimo ha reso impossibile il paganesimo anche nel ritorno alla terra”, I nuovi pagani, cit. p. 45. 105 “Il pensiero non poteva non porsi dal punto di vista dello spinozismo: essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare”, Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, tr. it. Codignola-Sanna, la Nuova Italia, Firenze 1973, vol. III p. 110.
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primo passo della filosofia è costituito dalla tesi secondo cui esiste un UnoTutto all’interno del quale va collocato tutto ciò che esiste. Per il “metafisico” Hegel, questo è il punto di partenza del sapere filosofico, senza il quale non esiste nessuna filosofia e quindi, ancora meno, la filosofia hegeliana. Merita, a questo proposito, di essere ricordata questa definitiva acquisizione teorica hegeliana, così come viene tratteggiata nello scritto ancora giovanile della Differenza tra il sistema di Fichte e di Schelling: Perduto nelle parti, l’assoluto spinge l’intelletto a svilupparsi infinitamente nella molteplicità; ma l’ intelletto, mentre anela ad estendersi fino all’assoluto, produce tuttavia senza fine solo se stesso, e si prende gioco di sé. La ragione perviene all’assoluto solo uscendo da questa molteplicità delle parti. Quanto più solido e splendido è l’edificio dell’intelletto, tanto più inquieto diviene lo sforzo della vita, racchiusa nell’ intelletto come parte, per strapparsi da esso e giungere alla libertà. Ed in quanto come ragione se ne allontana, la totalità delle limitazioni è ad un tempo annientata, riferita in questo annientare all’assoluto e con ciò è posta e compresa come puro fenomeno. La scissione tra l’assoluto e la totalità delle limitazioni è scomparsa.106
Installatasi saldamente in questa prospettiva, che implica l’accettazione del principio spinoziano della “Sostanza” infinita, la filosofia hegeliana lo declina però mediante il concetto di “Spirito” (Soggetto), secondo il noto asserto della Prefazione della Fenomenologia dello Spirito: tutto dipende dal concepire ed esprimere il vero non tanto come “sostanza” [in senso spinoziano], bensì propriamente come “soggetto” [in senso idealistico]. (Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione, cit. p. 67)
D’altronde, il titolo stesso di questa prima grande opera di Hegel, Fenomenologia dello Spirito, è una formula che esprime il concetto per cui lo “Spirito” – l’Assoluto – si manifesta totalmente nei “fenomeni” della “natura” e della “storia”. Ancora una volta, senza forzare accostamenti, teoricamente e storicamente indebiti, è da rilevare che questa “metafisica” hegeliana presenta analogie con l’antica metafisica della physis: anche per Hegel, infatti, non esiste “trascendenza” – e quindi “creazione” – in senso biblico, ma tutta la realtà si esaurisce nella molteplicità dei “fenomeni” storici e naturali – ovvero nel “mondo” – considerati come manifestazione di un Assoluto, che non esiste “al di là” di essi, ma che in essi totalmente si esprime. Pertanto, il noto “rovesciamento” della dialettica hegeliana operato, in seguito, da Marx è tale solo sino ad un certo punto: giacché, quest’ultimo recide sì la fondazione, come avviene in Hegel, della sfera mondana nell’Assoluto, ma, come per Hegel, la realtà è, solamente e unicamente, ciò che si manifesta 106
Hegel, Primi scritti critici, tr. it. R. Bodei, Mursia, Milano 1971, p. 13s.
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nella esperienza “mondana”. L’intero “sistema” hegeliano si sviluppa ben oltre le scarne indicazioni offerte sopra, perché introduce principi come: la razionalità del reale, la dialetticità e la triadicità dell’Assoluto ecc. Qui basti aver richiamato quanto “spirito” greco sia reperibile nella filosofia hegeliana, per quanto costruita più di due millenni dopo la nascita del sapere filosofico. Un’ultima conferma di questa affermazione può essere offerta da quanto dice lo stesso Hegel a proposito di una filosofia tipicamente “greca” come quella di Eraclito: “qui vediamo finalmente terra: non v’è proposizione d’Eraclito ch’io non abbia accolto nella mia ‘Logica’”107: è indubbio, infatti, che le premesse della concezione hegeliana della “dialettica” siano già presenti nella filosofia eraclitea, così come la conosciamo attraverso i frammenti che ci sono arrivati.108 4. Nietzsche Nonostante la insistita ironia sulla provenienza culturale di Hegel, anche Nietzsche ha dei legami biografici con la “teologia” cristiana, essendo egli figlio di un pastore protestante, per quanto questo dato non sia di per sé determinante – almeno a livello strettamente filosofico – per la valutazione del suo pensiero, di cui vanno analizzati solo gli effettivi contenuti quali sono presenti nelle sue opere. La filosofia di Nietzsche, dalla Nascita della tragedia sino agli ultimi frammenti scritti prima del tracollo finale, può essere ritenuta una ripresa dello “spirito” della grecità nella prospettiva della tarda modernità. Già nel saggio giovanile sulla Filosofia nell’età tragica dei Greci, ricostruisce con puntualità, non solo filologica, l’apporto decisivo dei primi filosofi greci, che costituiscono per lui le figure paradigmatiche dell’intero corso successivo del pensiero occidentale109. La “grecità” del pensiero di Nietzsche appare però, in tutta la sua evidenza, nella prima opera “filosofica” – La nascita della tragedia (1872) – in cui il progetto iniziale di tipo storico-filologico si trasforma nella adesione filosofica alla concezione “dionisiaca” della vita 107 Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, tr. it. Codignola-Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1964, vol. I, p. 307. 108 Avrei potuto illustrare la posizione filosofica di Hegel, anziché con una procedura di tipo storico, restando su un terreno solamente teorico. Infatti, il principio portante dell’“idealismo” – l’“intrascendibilità della coscienza” – conduce, come suo inevitabile risvolto, ad una concezione “immanentistica” della realtà. Se parto dall’assunto che è “vero” solo tutto ciò che è “idea” ovvero “contenuto di coscienza”, ne segue che la sfera “mondana” viene “assolutizzata”, perché solo essa possiede i requisiti di quell’assunto. 109 “Essi [i Greci] scoprirono infatti le menti filosofiche tipiche, e tutta quanta la posterità non ha più saputo scoprire null' altro di essenziale”, in: F. Nietzsche, La filosofia nell' epoca tragica dei Greci, tr. it. G. Colli, Adelphi, Milano 1980, p. 272. Annoto che, in questo modo, Nietzsche apre la strada alla concezione heideggeriana dei pensatori “aurorali” della filosofia occidentale.
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propria dei greci antichi, prima che il “socratismo” la alterasse con il suo “razionalismo”. Il “dionisismo”, più che un’etica, è una “metafisica”, giacchè implica che la realtà non sia una struttura ordinata e armoniosa, quale il “razionalismo” socratico e postsocratico hanno sostenuto. Al contrario, la realtà è una totalità irrazionale e imprevedibile, misteriosa e inaccessibile, che fluisce nel fondo della natura e della coscienza umana e impedisce di organizzare una vita “apollinea” e quindi “razionale” – ed proprio questo il “tragico” tipico della “grecità”. A questo punto, si deve spiegare il motivo della violenta polemica nietzscheana contro la filosofia di Platone, visto che greco quest’ultimo certamente era. E infatti la polemica frontale con il platonismo – e, al suo seguito, contro il cristianesimo – si radica proprio, in ultima istanza, nella concezione “metafisica” di Nietzsche, quella secondo la quale, al di là della “totalità di ciò che esiste” – noi diremmo della physis – non si dà “altro” essere e quindi una “trascendenza” in senso “metafisico”: abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente?... Ma no! “col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!”
– dove con il sintagma “mondo vero” ci si riferisce sia alle “Idee” di Platone sia al “Dio” del cristianesimo110. Quest’ultimo viene coinvolto, senza distinzioni, nella polemica antiplatonica, perché, secondo il perentorio giudizio nietzscheano, come già è stato ricordato, esso non è che “un platonismo per il popolo”111. Sia il platonismo sia il cristianesimo sono, dunque, bersaglio della medesima polemica, perché, ponendo una specie di “mondo dietro il mondo”112, ambedue hanno alterato quella che, secondo Nietzsche, è la vera struttura della realtà. Sono feroci le parole con cui egli denuncia questa “credenza” che ha attraversato la storia dell’Occidente: Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire! (ivi, p. 6)
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Così Nietzsche conclude ne Il crepuscolo degli idoli il capitolo significativamente intitolato Come il “mondo vero” finì per diventare favola, Il crepuscolo degli idoli, tr. it. F. Masini, Mondadori, Milano 1975, p. 64. 111 La citazione completa recita: “la lotta contro Platone o, per esprimerci in modo più accessibile e adatto al ‘popolo’, la lotta contro la secolare oppressione cristiano-ecclesiastica -giacchè il cristianesimo è un platonismo per il ‘popolo’ …”, Al di là del bene e del male, tr. it. F. Masini, Adelphi, Milano 1977, Prefazione, p. 4. 112 Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. it. M. Montanari, Adelphi, Milano 1976, p. 30.
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Era, quindi, inevitabile che Nietzsche pervenisse alla “radice” di questa “metafisica” “dualistica” e proclamasse la “morte di Dio”: “il pensiero vero e proprio di Nietzsche consiste in un sistema al cui principio sta la ‘morte di Dio’, nel mezzo il ‘nichilismo’ che da quella deriva, e alla fine l’autosuperamento del nichilismo verso l’‘eterno ritorno’”.113 Proviamo a seguire questa indicazione del percorso nietzscheano per completare il breve profilo qui tracciato. Scontata la conoscenza del noto frammento n. 125 della Gaia scienza, si può far ricorso ad alcune pagine di Così parlò Zarathustra, dove il tema viene ripreso e sviluppato in modo più approfondito. Se Hegel aveva ricostruito la “genealogia” del Dio ebraico, ora Nietzsche, in modo ancor più radicale, si rivolge a quella della nozione stessa di Dio in generale. La “metafisica” grecizzante nietzscheana non può che respingere, con toni esasperati e persino violenti, la “supposizione” dell’esistenza di “Dio”: Dio è un pensiero che rende storte tutte le cose dritte e fa girare tutto quanto è fermo. Come? Il tempo sarebbe abolito, e tutto ciò che è perituro solo una menzogna? [...] Io lo chiamo cattivo e ostile all’ uomo tutto questo insegnare l’Uno ed il Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro. Ogni Imperituro -non è che un simbolo! (...) Invece i migliori simboli debbono parlare del tempo e del divenire: una lode essi debbono essere e una giustificazione di tutto quanto è perituro! (Così parlò Zarathustra, cit. p. 101)
A questo punto, l’approdo al tema del “nichilismo” è inevitabile. Questa formula, ormai entrata persino nel linguaggio comune, non fa che registrare la situazione, teorica ed esistenziale, che si costituisce con la proclamazione della “morte di Dio”: se “Dio”, la massima “invenzione” della coscienza umana per conferire senso all’esistenza, viene, per così dire, diffalcato, allora anche tutti i “valori”, che su di esso sono stati fondati, vengono travolti in questo crollo veramente “metafisico”. Appaiono in tutta la loro tragica grandezza le parole del frammento 125 della Gaia scienza, che, a questo punto, meritano di essere citate: Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?114
113 114
K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, cit. p. 294. F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. F. Masini, Mondadori, Milano 1971, p. 125s.
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Nietzsche, però, non si arrende alla condizione drammatica in cui l’uomo viene trovarsi con l’eliminazione della realtà di “Dio” e il conseguente “nichilismo”: alla “teologia” ormai defunta contrappone una “ontologia” nuova, anzi antica e greca, quella dell’“eterno ritorno dell’eguale”. Il concetto appare per la prima volta nel frammento 321 della Gaia scienza, e viene espresso con lo stile suggestivo e metaforico tipico del filosofo: l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta [...]. Hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: ‘Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina?’ (...) Quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non ‘desiderare più’ alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello? (ivi, p. 192)
“Dio” viene sostituito dall’essere del “mondo”, l’unico e solo essere che l’uomo può sperimentare e vivere. All’obiezione “religiosa” che questo essere è perituro e mortale, Nietzsche risponde così: “imprimere” al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema “volontà di potenza”. (...) Che “tutto ritorni”, è l’estremo “avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione”. 115
Sostanza infinita, Materia vivente, Spirito assoluto, Eterno ritorno dell’uguale: quattro differenti “figure” per qualificare il medesimo orizzonte di realtà ovvero il “Tutto” come “totalità di ciò che è”, in quanto esperienza attuale o possibile. Se chiamiamo “mondo” questo orizzonte, possiamo concludere che la filosofia moderna – o almeno questo importante filone di essa – si presenta come una filosofia del “mondo” e, quindi, pur con tutte le differenze rilevate, si può collocare in linea di continuità con l’antico e primigenio concetto greco di physis116.
115
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, tr. it. S. Giametta, Adelphi, Milano 1975, vol. VIII tomo I, p. 297. S. Natoli ci fornisce una lettura illuminante di questo non facile concetto: “L’eterno che torna non è nulla di più che il rinvenire dell'accadere nell' accadimento che accade, qualunque sia l' accadimento. L’eterno ritorno resta indeterminato nel contenuto, ma rende possibile pensare la serie indeterminata e imponderabile degli accadimenti nella forma unica e perciò ritornante dell'accadere. Assumersi il peso del ritorno significa dire sì alla terra, inerire perfettamente a quel presente che è l'accadimento”, I nuovi pagani, cit. p. 79. 116 Si potrebbe obiettare che almeno un’altra figura filosofica avrebbe meritato di rappresentare la “modernità”, ovvero quella di M. Heidegger. A parte il fatto che ho già utilizzato ampiamente molte sue indicazioni in questo lavoro, ho delimitato la “modernità” ai secc. XVII-XIX, mentre si potrebbe argomentare che la filosofia di Heidegger – ma è egli stesso a rilevarlo nella critica del concetto “moderno” di “soggetto” – si pone “fuori” da quell’orizzonte storico e, se proprio non apre, certamente si colloca in una prospettiva che si può qualificare già “postmoderna”.
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Alcune considerazioni finali 1. Il mio tentativo, in questa ricerca, si proponeva di rintracciare un possibile “filo rosso” che – al di là delle differenze cronologiche e storiche, culturali e linguistiche, che sono ovvie e scontate – si snoda dalle origini greche della filosofia sino alla nostra “postmodernità”. Giacché, se si vuole continuare a parlare di “filosofia” come di “un” sapere determinato, nonostante le differenze che i due millenni e mezzo della sua storia hanno inevitabilmente comportato, bisogna pur che esistano dei fattori che “accomunano” la molteplicità delle sue espressioni nel tempo. A me sembra che il fattore “comune” sia costituito dalla problematica “metafisica”, che, in via preliminare, come detto fin dall’inizio, si può definire come il sapere che mira a cogliere, nelle forme e modalità umanamente possibili, il “senso del Tutto”. La “metafisica”, per quanto fortemente contrastata nella sua legittimità e nella sua possibilità, resta infatti una “struttura” del sapere umano inevitabile: la coscienza è, sempre e comunque, ne sia consapevole oppure no, “aperta” e coinvolta in un generale “conferimento di senso” al “Tutto”, giacchè tale capacità caratterizza l’“animale umano” – come già detto nella Premessa, la coscienza è “apertura” sulla realtà e questa “apertura” è, potenzialmente, apertura su “tutto ciò che è”117. Perciò, “fare metafisica” significa sviluppare questa “apertura”, sino a portarsi in vista del “Tutto”. Il momento iniziale del sapere è, certamente, quello della “fisica” – nel senso antico e greco del termine ovvero come “esperienza mondana” – che è sempre accessibile all’uomo, benché anche l’esplorazione di questa sfera di realtà sia impegnativa e faticosa, oltre che inesauribile. Ma il sapere si spinge necessariamente anche al livello espresso dal prefisso “metà”, ovvero verso quell’”oltre” che è poi il “Tutto”: il quale, per definizione, è inestricabilmente congiunto alla “esperienza” o “mondo”. Il “discorso di metafisica” si costituisce, perciò, come un percorso tra i due poli della “esperienza” e del “Tutto”. Si è iniziato il discorso con la “metafisica” della physis. Questo modo di procedere non è solo motivato da ragioni di carattere storico-cronologico, anche se si potrebbe far vedere che la “fede” ebraica si è costituita prima 117 Lo stesso Kant, che pure è stato forse il maggiore teorico della impossibilità per l’uomo di accedere al sapere metafisico, non può evitare di qualificare l’uomo come “animal metaphysicum”. Già nella Prefazione alla prima edizione della Critica della ragione pura, Kant affermava: “È difatti vano, il voler fingere indifferenza al riguardo di quelle indagini [metafisiche], il cui oggetto non può essere indifferente alla natura umana”, Critica della ragione pura tr. it. G. Colli, Adelphi, Milano 1976, p. 9. E Heidegger, a sua volta, precisa: “finché rimane ‘animal rationale’, l’uomo è ‘animal metaphysicum’. Finché l’uomo si considera un essere vivente dotato di ragione, la metafisica, come dice Kant, appartiene alla natura dell’uomo”, M. Heidegger, Segnavia, cit. p. 320.
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della nascita della filosofia greca nel VI secolo a.C. Questa priorità della metafisica della physis si spiega, a mio parere, anche con una motivazione strettamente teorica, ovvero con il fatto che, quando la coscienza umana si pone di fronte alla questione del “senso del Tutto”, compie la sua prima mossa proprio secondo questa modalità: la “ragione” si manifesta come la capacità di “unificare” il tutto di ciò che è dato nell’ esperienza e quindi identifica il “Tutto” con l’essere “mondano”. Alla “metafisica” biblica della “creazione”, la coscienza può approdare solo in seconda istanza, allorché vengono rilevate, come sopra è stato detto, le aporie che la “metafisica” originaria della physis trascina con sé. Ma il discorso non termina qui, perché le ulteriori aporie generate dal principio di “creazione” condurranno, almeno sul piano storico, alla “metafisica” moderna del “mondo”, una costruzione che può essere letta, come si è visto, come una ripresa della “metafisica” della physis. Infatti, alla fine, posti i due fattori costitutivi del sapere “metafisico” – l’essere mondano e il Tutto assoluto- il nodo cruciale consiste nel seguente quesito: il “Tutto” assoluto si identifica totalmente con l’essere “mondano” oppure no? Nel primo caso, le declinazioni del “Tutto” possono essere variegate, ma l’orizzonte teorico di fondo rimane il medesimo; nel secondo caso, si assiste ad un riequilibrio radicale dei due termini, perché il “Tutto” si pone come “differente” rispetto alla sfera “mondana” e quindi, necessariamente, come ciò che la “avvolge” (periechei!) nella sua interezza. Quindi, per quanto il secolo XX abbia tentato di liquidare definitivamente il “discorso metafisico”, come si è mostrato con i tre paradigmi sopra illustrati, l’apertura del sapere umano al “Tutto” resta inaggirabile. 2. Una seconda questione merita un’ulteriore precisazione ovvero l’accostamento tra il “logos” greco – a cui si può affiancare anche la “ragione” moderna – e la “fede” biblica. Non si collocano, queste figure, in ambiti “epistemologici” differenti? La filosofia greca e la filosofia moderna affidano la scoperta del “senso del Tutto” alle due “forze” umane della “esperienza” (del “mondo”) e del “logos” (o razionalità); la metafisica biblica fa ricorso invece alla “fede”, che è pure una “forza” presente nell’uomo, ma che si muove secondo una “logica” differente. Il “sapere”, infatti, procede per “evidenze” empiriche e argomentazioni della “ragione”; la “fede” si muove sotto la spinta anche di altri fattori, quali il “volere”, il “desiderio” e il “sentimento”. Nel corso della storia dell’Occidente queste due modalità di “apertura” al “senso del Tutto” si sono, sia scontrate ed escluse vicendevolmente, sia coordinate ed armonizzate. Dice icasticamente Derrida: “siamo Ebrei? Siamo Greci? Noi viviamo della differenza tra l’Ebreo e il Greco, che forse è l’unità di ciò che si chiama storia”118. Resta comunque 118
J. Derrida, La scrittura e la differenza, tr. it. G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, p. 197.
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insuperabile il dato della loro “differenza” essenziale: l’argomentazione “razionale” in un caso; lo slancio, in ultima istanza, “volontaristico” nell’altro. Per meglio precisare questi rapporti, riassumo, nei seguenti schemi, i tre percorsi della cultura occidentale. La metafisica greca:
si innalza, con uno splendido balzo, dalla molteplicità empirica del mondo alla “unità” della physis, generando così l’idea dell’Uno-Tutto ovvero la considerazione “unitaria” della realtà; guadagnato questo livello massimo, essa identifica la physis con il “Divino”: cosa può essere il “Dio”, razionalmente pensato, se non questo orizzonte supremo della realtà? non si dà nessuna “differenza ontologica” tra l’Uno-Tutto e il “mondo”, giacchè quest’ultimo è semplicemente il “volto” con cui il primo si manifesta: “Deus sive Natura”, ecco la formula della metafisica greca, essendo chiaro che il termine “natura” è qui preso in una accezione non “scientifica”.
La metafisica biblica:
si costruisce anzitutto a partire da radici o attingendo ad una sorgente differenti: la “fede”; l’essere “mondano” della esperienza non viene accettato nelle forme in cui si manifesta, perché presenta dimensioni “negative” che lo rendono minaccioso per la vita dell’uomo -a cominciare dalla “mortalità”; si afferma perciò una spinta potente verso la “trascendenza” ovvero verso un’ “altra” dimensione dell’essere, per quanto invisibile e inesperibile; questa “alterità” si identifica con il “Tutto” stesso, concepito come “differente” dall’essere mondano, perché sottratto alle negatività di quest’ultimo; si costituisce così un “dualismo” ontologico tra il “Tutto” (infinito e divino) e l’essere mondano (finito e mortale).
La metafisica moderna:
ha sottoposto a critica i concetti biblici di “trascendenza” e di “creazione”, pervenendo ad una filosofia della “mondanità” – e la prima figura, drammaticamente emblematica, di questa svolta è stata quella di G. Bruno con la sua tesi “panteistica” del cosmo “infinito”;
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grazie a questo nuovo scenario “metafisico”, si sono create le condizioni per sottoporre la sfera “mondana” ad uno studio analitico e “metodico” da parte della “scienza”, nata, non a caso, nei secoli moderni; l’esplorazione mondana ha svelato una struttura del “mondo” del tutto differente da quella solidale con la cultura greco-medioevale: si pensi alla “rivoluzione astronomica” (culminata nel XX secolo con la scoperta di galassie e pianeti extrasolari); la penetrazione nella struttura atomica e subatomica della materia e la conseguente produzione di energia atomica; la individuazione del genoma e la possibilità di manipolazione delle fonti stesse della vita; l’ipotesi dell’evoluzionismo con le ricadute sulla identità stessa dell’ uomo, ecc.; tali scoperte non sono “neutre” ma hanno inevitabilmente contraccolpi sulla stessa filosofia, sospinta e costretta a riaggiustare lo “sfondo metafisico” che ritiene di essere di sua competenza ovvero la costruzione di una “Weltanschauung” unitaria.
3. Il discorso che finora ho sviluppato può sembrare “astratto”, perché esso ha un risvolto “antropologico” e anche “esistenziale” immediato e inevitabile. Perciò ci si deve domandare: quali tipologie di “uomo” corrispondono a queste tipologie di “metafisica”? L’uomo greco
secondo la lettura hegeliana – che riflette il movimento del neoclassicismo tedesco del sec. XVIII, impersonato da figure come Goethe e Winc kelmann, o da poeti come Schiller e Hölderlin – l’uomo greco vive in un rapporto “conciliato” con l’essere – con la physis – perché non esiste altra realtà che quella data a livello di esperienza mondana. Perciò il “Divino” è già “qui”, nel “mondo”, e non va cercato in un “altrove” puramente immaginario;119 si dà certamente una grande eccezione costituita dal platonismo, il quale, al contrario, proietta l’uomo verso l’essere “trascendente” e “perfetto” delle “Idee”, sino al paradosso di desiderare la morte, perché solo nell’“al di là”, nella comunione con gli dei, è possibile all’uomo trovare la felicità;120
119 Ad esempio, nella nota poesia di Schiller, Gli dei della Grecia, si possono leggere questi versi inequivocabili: “Nel creato scorreva la ricchezza della vita,/ si provavano sentimenti ignoti,/ e l'incantata custodia della poesia,/ avvolgeva tenera la verità./ Massima nobiltà della natura/ era stringerla al petto d'amore,/tutto parlava allo sguardo iniziato,/tutto era traccia di un dio” (Poesie filosofiche, SE, Milano 1990, p. 13). 120 Un testo tra i molti: “Sembra verosimile che un uomo, che abbia passato, veramente, tutta la vita nella filosofia, debba avere fiducia, allorché si trovi sul punto di morire, e debba
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ma c’è anche una terza versione di uomo greco, quello che ci viene consegnato dalla lettura nietzscheana della grecità, secondo la quale l’uomo “apollineo” del neoclassicismo è solo una reazione tardiva (socraticoplatonica) alla originaria intuizione della cultura greca simboleggiata dallo spirito “dionisiaco”. L’uomo greco è consapevole del fondo misterioso e irrazionale della realtà: eppure, egli sa sopportare la pesantezza di questa condizione e cerca di vivere in sintonia con essa.
L’uomo biblico
anche l’uomo “biblico” (ebraico-cristiano) avverte il limite e la mortalità di ciò che viene vissuto e sperimentato nella condizione mondana, anzi ne soffre con maggiore acutezza di quanto non sappia fare l’uomo greco. E così il suo rapporto con il “mondo” è “tormentato”, perché, pur costretto a vivere in tale condizione, è alla ricerca di una realtà più “vera”, un’“altra” realtà ovvero “Dio”, un Dio che è essere “razionale” (persona), a cui poter rivolgersi nella “preghiera”; “Ogni uomo è come l’erba, e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura sempre. Veramente il popolo è come l’erba”; e ancora: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve. (…) Quelli che usano del mondo, [vivano] come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo”121. Ecco due citazioni eloquenti dello sguardo che l’uomo biblico getta sulla realtà: realismo o pessimismo? si comprende allora perché il medesimo Paolo di Tarso possa rivolgere il seguente ammonimento: “Se dunque siete risorti col Cristo, cercate le cose di lassù dove è il Cristo, assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”122. La “felicità” non è di questo mondo, bensì in un’”altra” vita a cui si accede mediante la “fede”.
L’uomo moderno
l’uomo “moderno” – almeno un certo uomo moderno – è quello che ha il suo fondamento nella “metafisica del mondo” e che ha trovato nella cultura dell’Illuminismo -e nella cultura “secolarizzata” e “scientifica” – il luogo della sua identità;
nutrire salda speranza che, una volta morto, riceverà nell' al di là beni grandissimi” [Fedone, tr. it. G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991, 63e-64a p. 76]. 121 Isaia 40,6-8; Paolo di Tarso, 1 Corinti 7,29,31. 122 Colossesi, 3,1-2.
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la mondanità e la storicità non sono più, o non sono solo, l’ambito della fragilità ontologica e della mortalità, ma sono il luogo della piena “umanizzazione”; si comprende allora perché l’ultimo “greco” dell’Occidente, Nietzsche, abbia usato parole roventi, contro l’uomo della tradizione biblica: “in Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell’‘al di qua’, di ogni menzogna dell’‘al di là’. In Dio è divinizzato il nulla, è consacrata la volontà del nulla!...”123.
4. Resta aperta un’ultima questione che, in questo lavoro, ho solo sfiorato lateralmente, cioè la questione del “postmoderno”. Giacché, dopo aver delineato lo scenario sopra esposto, si impone l’interrogativo sulla fondatezza e sulla legittimità di questa formula, che si può ritenere valida solo se si assume che la “modernità” si sia ormai esaurita. A me sembra che il dato decisivo, e insieme inquietante, che legittima la cesura tra “modernità” e “postmodernità”, sia costituito dalla figura del “nichilismo”, l’ultima parola con cui la filosofia si è congedata dal sec. XX. Ci si deve rassegnare al fatto che l’uomo “moderno”, partito orgogliosamente rivendicando l’“autonomia” della “ragione”124, sia alla fine approdato alla desertificazione nichilistica? È il caso perciò di far parlare il maggiore teorico del “nichilismo”, quel Nietzsche che l’ha introdotto nella filosofia del sec. XX. Il frammento postumo n. 351 (1887-1888) intitolato: Critica del nichilismo è un testo cruciale che merita di essere riportato: Si raggiunse il sentimento della ‘mancanza di valore’, quando si comprese che non è lecito interpretare il carattere generale dell’esistenza né col concetto di ‘fine’, né col concetto di ‘unità’, né col concetto di ‘verità’. Con ciò non si ottiene niente; nella molteplicità dell’accadere manca un’unità che permei tutto; il carattere dell’esistenza non è ‘vero’, è ‘falso’ …, non si ha assolutamente più ragione di favoleggiare un mondo vero… Insomma: le categorie ‘fine’, ‘unità’, ‘essere’, con cui avevamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono da noi nuovamente ‘estratte’ -e ora il mondo appare ‘privo di valore’… 125 L’Anticristo, cit., p. 147. Un altro testo che può essere ritenuto significativo ai fini di questo discorso può essere il seguente: “Se si trasferisce il centro di gravità della vita 'non' nella vita, ma nell’ ‘al di là’ – ‘nel nulla’ – si è tolto il centro di gravità alla vita in generale”, ivi, p. 173. 124 Si ricordi il notissimo attacco nel saggio kantiano Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo: “L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso...”, Kant, Antologia di scritti politici, c/ di G. Sasso, il Mulino, Bologna 1977, p. 51. 125 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, tr. it. S. Giametta, Adelphi, Milano 1979, p. 258. 123
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Il testo è già chiaro in se stesso, ma merita un ulteriore approfondimento, del resto offerto dallo stesso Nietzsche. Il brano citato, infatti, è solo la sintesi finale di un’argomentazione più ampia, in cui il filosofo espone in termini più analitici le parole che sono state riportate. Come si può notare dal testo, Nietzsche considera il “nichilismo” da tre prospettive: quella del “fine” dell’esistenza, quella della “unità” del tutto e quella della “verità” del mondo. Il “nichilismo” si affaccia, quando queste tre mete dell’uomo vengono frustrate e dichiarate impossibili. Il “fine” si rivela illusorio: “quando abbiamo cercato in tutto l’accadere un ‘senso’ che in esso non c’è, sicché alla fine a chi cerca viene a mancare il coraggio” (ivi, p. 256). Quanto alla ricerca dell’“unità”, così Nietzsche si esprime: “si è postulata una ‘totalità’, una ‘sistematizzazione’ e addirittura un’ ‘organizzazione’ in tutto l’accadere e alla sua base, sicché l’anima assetata di ammirazione e venerazione gozzoviglia nella rappresentazione generale di una suprema forma di governo e amministrazione”(ivi, p. 257). Infine, il fattore “verità”: constatato che non ci sono né un “fine” (dell’esistenza) né una “unità” (del reale), “non resta come “scappatoia” che condannare come illusione tutto questo mondo del divenire e inventare un mondo che sia al di là di esso, come mondo “vero”. Ma appena l’uomo si accorge che questo mondo è stato fabbricato solo in base a bisogni psicologici, e che in nessun modo egli ha diritto di far ciò, sorge l’ultima forma del nichilismo, che racchiude in sé l’“incredulità per un mondo metafisico” -che proibisce a se stessa di credere in un mondo “vero” (ivi, p. 257s.). Come si vede, con la pregnanza aforistica tipica del linguaggio nietzscheano, viene sostanzialmente “liquidata” l’intera tradizione più che bimillenaria della filosofia -e non solo essa. A dire il vero, Nietzsche, nella parte finale del frammento, coerente con il suo metodo “genealogico”, presenta le ragioni di questo disastro finale a cui la civiltà occidentale (di cui la sua filosofia vuole essere la spietata diagnosi) sarebbe pervenuta: tutti questi valori sono, considerati dal punto di vista psicologico, risultati di determinate prospettive di utilità per il mantenimento e il potenziamento di forme di dominio umane; e solo falsamente sono ‘proiettati’ nell’ essenza delle cose. Appartiene ancora all’ ‘iperbolica ingenuità’ dell’uomo [il porre] se stesso come senso e misura delle cose… (ivi, p. 259)
Tuttavia, la coerenza impietosa con cui Nietzsche ritiene di poter spiegare il traguardo “nichilistico” della civiltà occidentale non elimina il dato sconfortante e devastante -per quanto gli aggettivi siano connotati “psicologicamente” e quindi non esenti dalla critica nietzscheana – di una condizione umana lasciata senza “fine”, senza “unità” e senza “verità”. E’ questa la “postmodernità”, che la filosofia attualmente deve vivere e pensare, se si
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crede, con Hegel, che la filosofia sia “il proprio tempo appreso col pensiero”126? A questo punto – per gli uomini della postmodernità – mi sembra che non restino che tre vie di fuga, per così dire, dal “nichilismo”, posto che non ci si rassegni ad esso: a. prendere atto che le cose stanno veramente così – il cosiddetto nichilismo “passivo” di Nietzsche- e accettare di vivere nella “non verità” e nel “non senso” -ma è veramente possibile? b. con un eroico “amor fati” – il cosiddetto nichilismo “attivo” sempre di Nietzsche – aderire, amandola, alla condizione ontologica dell’”eterno ritorno dell’uguale” -di nuovo, è veramente possibile? c. impegnarsi, infine, in una “ripresa” – in senso kierkegaardiano, ma dall’altezza della nostra condizione postmoderna – della possente tradizione filosofico-religiosa occidentale ed esplorare la possibilità di rintracciarvi di nuovo un possibile “filo rosso” che ci possa condurre verso un “contenuto” della postmodernità “positivo” e non più solamente “negativo”. Sia chiaro, una simile operazione non può avere l’aspetto di una “reazione” all’età del “nichilismo”, bensì, come dice il termine stesso, quello di una “ripresa”, che è un “andare oltre”, ma “a partire da” quella condizione che è la nostra127. 5. Se è quest’ultimo l’arduo compito che ci attende, a me sembra che dei tre “paradigmi” metafisici individuati, ne restino “attivi”, sulla scena della nostra storia attuale, solo due: a. quello che possiamo chiamare greco-moderno b. quello costituito dalla “fede” biblica. Ho usato la formula: paradigma “greco-moderno”, perché mi sembra, come già affermato in questo lavoro, che la “modernità” abbia ripreso il modulo di fondo della “metafisica” greca, ovvero l’“assolutizzazione” della sfera mondana. Soprattutto nel secolo dell’“Illuminismo”, si è pienamente dispiegata quella che si può chiamare – con Hegel, come si è visto – la “riscoperta” del “mondo”. Weber, da sociologo, ha parlato di “disincanto del mondo” e quindi di sottrazione di quest’ultimo al dominio incontrollabile di forze estranee alla volontà e alla capacità di intervento umano sul “mondo”. La 126
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1974, p. 18. Sarebbe un discorso interessante approfondire l’indagine sul nesso esistente tra il “nichilismo” nietzscheano che ha segnato la filosofia europea della seconda metà del ‘900 e altre correnti di quella medesima fase storica quale il “decostruzionismo” (derridiano e non). Non potendo condurre qui un tale approfondimento, mi limito a segnalare che ambedue questi indirizzi di pensiero hanno contribuito in modo determinante alla genesi di quell’ orientamento che viene chiamato “morte della filosofia”, le cui conseguenze, non solo sul piano teorico ma anche su quello più latamente civile, si rivelano sempre più desolanti e preoccupanti. 127
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stessa teologia di matrice biblica è ricorsa al termine di “secolarizzazione”, per indicare come l’attenzione dell’uomo “moderno” si sia spostata sempre di più sul “saeculum” e quindi sul “mondo” ed ha interpretato questo fenomeno, paradossalmente, come un prodotto della stessa fede biblica “creazionistica”, che differenzia, appunto, “Dio” e il “mondo”. Ma, comunque si legga la storia dell’Occidente, resta in essa operante, oltre all’alternativa “metafisica” sopra delineata, anche un’alternativa “antropologica”, che genera un permanente “aut aut”: a. o si sostiene che la sfera dell’essere “mondano” possiede una sua “autonomia” e un suo “significato” intrinseco, perché senza di essa l’uomo non potrebbe divenire veramente tale, fino ad accedere alla sua “assolutizzazione” b. o si pone che questa sfera d’essere sia bisognosa di un “trascendimento”, pur senza aderire alle tesi “medioevali” esasperate della “fuga mundi” o del “contemptus mundi”, per quanto tale “superamento” del “mondo” esiga alla fine il “salto” della “fede”. Il “nichilismo”, che, nella sua formulazione ontologico-esistenziale, è ritenuto la parola-emblema del nostro tempo, può essere ridotto al seguente asserto finale: l’essere dell’uomo -insieme all’ essere mondano nella sua interezza- sta da sempre sotto la minaccia del “nulla”. Non si impone allora, come questione propria anche della “filosofia”, la questione della “salvezza” ovvero della possibile sottrazione al nulla, che non è dunque un’esclusiva delle fedi religiose, essendo essa inerente all’ essere umano finito in quanto tale?128. Le “metafisiche” dell’Occidente sono tutt’altro che costruzioni “astratte” ed evasive, perché si propongono di conferire un “senso” allo “stare al mondo” e quindi, in ultima istanza, di trovare una “via di fuga” possibile al “nichilismo” sempre incombente. Di fronte alla condizione ontologico-esistenziale dell’uomo, rimangono, in ultima istanza, due alternative radicali: o restare “fedeli alla terra” fino in fondo -per quanto essa sia segnata dalla finitezza e dalla mortalità; o “rischiare” la “fede” in una “salvezza” possibile, per quanto sia “oltre” la terra e fondata, appunto, su una “fede”. 128 Su questo tema, dice parole condivisibili, ad esempio, L. Ferry in Vivere con filosofia. Trattato di filosofia a uso delle nuove generazioni, tr. it. C. Spinoglio, Garzanti, Milano 2010. Il testo, nonostante il carattere divulgativo e nonostante io non ne condivida la posizione di fondo, merita di essere segnalato proprio per la tesi secondo cui la filosofia ha al centro della sua riflessione “il problema della salvezza”, che non è quindi un esclusivo monopolio delle religioni. L’assunto da cui si parte è costituito dalla “finitezza umana” e dalla “mortalità”, dati che impongono alla filosofia la questione, appunto, della “salvezza”. L’autore parla infatti delle “tre dimensioni della filosofia: la comprensione di ciò che è (theoria), la sete di giustizia (etica) e la ricerca di salvezza (saggezza)” (p. 21).
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IDEALISMO ANGLOSASSONE
Cristian Cristofoletti, La filosofia hegeliana della religione oggi° La filosofia della religione di Hegel rappresenta un pilastro fondamentale nello sviluppo delle diverse posizioni della cultura moderna, tanto che a lui si sono ispirati filosofi come Bruno Bauer e Marx per negare, seppur da posizioni opposte, l’attualità e il valore della religione, ma anche esistenzialisti come Heidegger, e persino teologi cristiani, che dalla lettura delle sue pagine hanno desunto plausibili argomenti per valorizzare il razionalismo del cristianesimo, oppure, al contrario, per sostenere la mistica indicibilità di Dio. È innegabile, perciò, la ricchezza di stimoli e di contributi che il filosofo tedesco ha saputo proporre — anzi, che continua a proporre ancora oggigiorno. Hegel è convinto che la religione sia la coscienza del rapporto dello spirito limitato dell’uomo con lo spirito assoluto di Dio, quindi, a tutti gli effetti, la religione è attività pensante. Sin dall’inizio della sua ricerca gioca perciò un ruolo decisivo la determinazione del rapporto che si instaura tra la religione e la filosofia, poiché entrambe hanno lo stesso denominatore comune, e cioè l’autocoscienza dello spirito assoluto, anche se la prima non può andar oltre la rappresentazione, mentre la seconda ha la capacità di elevarsi alla forma del concetto puro. Non è pensabile che un’opera ricca e complessa come quella di Hegel non lasci aperti dubbi e difficoltà interpretative. In questa occasione, si cercherà di dar conto della divergenza di alcune tra le più importanti interpretazioni svolte dagli studiosi e dai critici di Hegel. La posizione che si riscontra nella cosiddetta “Sinistra hegeliana”, e che viene sviluppata nella maniera più compiuta dalla teologia critica di Bruno Bauer, è quella di ritenere che lo spirito assoluto si costruisca su di un piano storico, e il punto più ° È il testo, riveduto e corretto, della relazione da me tenuta il 30 novembre 2010 presso l’Università degli Studi di Urbino in occasione del Simposio omonimo.
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alto della coscienza umana sia dato dall’unità etico–politica che un popolo riesce a raggiungere. In maniera analoga, per i commentatori hegeliani della tradizione marxista la morte di Dio è l’affrancamento e l’emancipazione ultima e definitiva dell’uomo dalla trascendenza teologica; la morte di Dio consegna finalmente nelle mani dell’uomo la natura e la storia; la religione rappresenta solo un momento negativo che dev’essere superato. In opposizione alle interpretazioni marxiste, gli esponenti della cosiddetta “Destra hegeliana” ribadiscono il ruolo essenziale della tradizione religiosa nella nascita e sviluppo dell’idealismo hegeliano. Secondo questi interpreti, Hegel sostiene che la filosofia debba terminare nella religione, che è il luogo proprio in cui si manifesta un contenuto soprasensibile che va oltre la possibilità di comprensione umana. In conclusione, se nella riflessione della Sinistra hegeliana la religione rappresenta solo un momento negativo che dev’essere superato, l’interpretazione proposta dalla Destra hegeliana rovescia i termini del discorso, evidenziando la centralità della tradizione religiosa nel pensiero hegeliano e insistendo sul fatto che lo spirito, nel momento in cui si innalza al concetto puro, presumendo di superare la rappresentazione religiosa, diventa in realtà uno spirito devitalizzato ed astratto. Al di là delle interpretazioni della filosofia della religione proposte dalle correnti filosofiche marxiste e cristiane, che assumono comunque posizioni ideologiche, in quanto tendono necessariamente a presupporre acriticamente la verità delle proprie premesse, un modo più corretto di leggere la filosofia della religione di Hegel consiste nel riferirsi direttamente ai suoi scritti, assumendo come verità solo ciò che è pienamente coerente col suo intero sistema filosofico. In questa prospettiva, che può essere genericamente definita “idealistica”, è evidente come Hegel sia fermamente convinto che l’uomo possa superare l’antinomia tra umano e divino solo nel sapere assoluto della filosofia. Il sapere assoluto della filosofia, infatti, ha la capacità di dare una forma razionale, Hegel direbbe scientifica, a ciò che la religione esprime in forma immediata ed intuitiva. Il sapere assoluto, pur essendo eterno, è un processo che si realizza nel tempo, e si realizza pienamente quando giunge ad eliminare la scissione tra concetto e realtà. Nelle Lezioni sulla filosofia della religione Hegel, affrontando il nodo cruciale del rapporto tra filosofia e religione, riafferma in particolare il primato del cristianesimo, poiché solo in esso l’oggetto della religione coincide in maniera non solo astratta e parziale (com’è invece il caso delle altre religioni) con lo stesso oggetto della filosofia, cioè la totalità concreta dello Spirito o dell’Idea assoluta. Nonostante ciò, per il limite proprio che lo contraddistingue, cioè per il fatto che la sua forma rimane l’inadeguata rappresentazione sensibile, anche il cristianesimo è destinato a dissolversi. Solo la filosofia, passando dalla rappresentazione al concetto, può dunque salvare la 222
tradizione spirituale del cristianesimo. Hegel, perciò, non esita a definire il cristianesimo la “religione assoluta”, e non si limita a cercare l’elemento di verità presente in ogni forma di religione che si è manifestata nella storia, ma vuole anche fondare razionalmente la verità più importante presente in tale religione. Hegel, sostenendo che la ragione è di necessità immanente nella religione, si oppone a gran parte del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo. Gli Illuministi, Feuerbach, Marx, Engels, per citare solo alcuni pensatori, hanno infatti negato alla religione l’accesso alla verità e l’hanno ridotta ad una proiezione immaginaria dei bisogni sensibili dell’uomo. Egli, al contrario, polemizzando, a questo proposito, con Kant, non accetta l’idea che Dio sia per l’uomo un concetto misterioso e irraggiungibile, perché Dio non è una persona oggettiva, bensì è la stessa ragione o spirito umano considerato nella sua unità concreta ed assoluta. Perciò egli non contrappone religione e ragione; nonostante la prima non raggiunga la conoscenza del concetto puro e si limiti alla rappresentazione dell’Assoluto e ricorra quindi alla immaginazione e al mito, entrambe si collocano in un percorso razionale. Di conseguenza, la religione, come spiega bene Rinaldi, non è solo un fatto psicologico, sociale o culturale contingente, bensì uno stadio evolutivo, una figura o una forma necessaria del processo, così fenomenologico che storico, di autoproduzione dello spirito umano1. Rimane, però, un limite invalicabile per la religione, la forma della rappresentazione — donde deriva la celebre affermazione hegeliana della sua ineluttabile “morte”. Le necessarie conseguenze dell’insuperabile antinomismo dello spirito religioso, in effetti, sono, sul piano gnoseologico–metafisico, l’impossibilità di continuare a scorgere in essa la forma suprema dello spirito umano, e, sul piano storico–culturale, la finale dissoluzione della comunità religiosa cristiana. La religione auspicata da Hegel è distinta sia da quella articolata dalla scrittura evangelica, sia da quella formulata dalla teologia dogmatica; è una religione dello spirito, fondata sui rapporti tra soggetti, all’interno di un’unica comunità spirituale, in cui Dio stesso è presente ed immanente. Anche il culto riveste una funzione di avvicinamento a Dio, nonostante in questa dimensione si rimanga nella sfera pratica dell’agire. Nel culto viene infatti superata la scissione tra umano e divino, perché è il luogo in cui Dio si manifesta come spirito e viene accolto dalla comunità. Così Hegel supera l’individualismo religioso per riscoprire il valore della autentica comunità. Nel medesimo spirito Tolstòj ha scritto:
1 Cfr. G. RINALDI, Ragione e Verità. Filosofia della religione e metafisica dell’essere, Roma, Aracne Editrice 2010, pp. 49–51, ecc.
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Ogni fede non fa che vantare se stessa. E così si ritrovano tutte ad annaspare, come cagnetti ciechi. Le fedi sono tante, ma lo spirito è uno. In te, in me, in lui. Vuol dire che ognuno deve credere nel suo spirito, e allora tutti si ritroveranno uniti. Che ognuno sia se stesso e tutti saranno una cosa sola. 2
Hegel, quindi, non rinuncia alla sfera pratica, anzi la considera un momento importante nello sviluppo dialettico della ricerca di Dio. Nella ricerca è previsto il momento negativo dell’opposizione, del dolore come componente essenziale del processo dialettico. Lo spirito, infatti, non è fuori dalla storia, ma partecipa del dramma di ogni avvenimento della storia, inclusa la “morte di Dio”. La morte di Dio costituisce indubbiamente la dottrina fondamentale della religione cristiana; in questa, infatti, il momento più alto del rapporto tra uomo e Dio è rappresentato dall’incarnazione di Cristo, e quindi dalla sua morte e resurrezione, perché solo a partire da questa morte, dall’esperienza dell’estrema finitezza umana, l’uomo può elevarsi alla coscienza della verità. Non si può non passare attraverso questa opposizione necessaria, che però dev’essere superata e allo stesso tempo, in termini dialettici, conservata. Non meno importante è il ruolo che questa tematica occupa all’interno del pensiero hegeliano. Per Hegel, infatti, la morte di Dio non è, in ultima istanza, altro che il simbolo della tragedia umana. La figura della Coscienza infelice rappresenta bene questa insoddisfazione tutta umana e la necessità per lo spirito di superare se stesso onde così procedere ad una coscienza più felice, o meglio riconciliata ed armoniosa. La morte di Dio diviene perciò il momento necessario che permette il superamento stesso della morte e l’elevazione della coscienza umana a Dio. Solo la morte di Gesù, infatti, conduce i membri della comunità religiosa a comprendere Dio come Spirito. Nella comunità lo Spirito è presente in ogni credente e tutti sono accomunati nello stesso Spirito. Questa esperienza viene poi rafforzata e resa visibile dal culto. Secondo Vittorio Hösle, il filosofo tedesco pensa che il cristianesimo abbia esaurito la propria funzione nel momento stesso in cui è stato fondato filosoficamente. Hegel, analizzando il suo tempo, riconosce che la dissoluzione del cristianesimo può essere superata dalla filosofia, e tuttavia egli è fin troppo realista per ignorare che solo pochi possono giungere a questa. Hösle considera quindi Hegel un profeta della fine del cristianesimo, e la conclusione non può che essere pessimistica: l’umanità è in crisi perché non
2 L. TOLSTOJ, Resurrezione, trad. it. di M.R. Leto e A.M. Raffo, Milano, Mondatori 1991, p. 549.
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sa più trovare valori assoluti, e l’esito di questa crisi, soprattutto oggi, è «una questione aperta, sulla quale Hegel ci ha lasciato soli»3. Anche Franco Bosio riconosce che la morte di Dio è stata interpretata, nella filosofia dopo Hegel, come la morte della religione. Egli, tuttavia, non crede che la morte di Dio sia definitiva; afferma infatti che «una morte vera, una morte reale, non può esserci se non nella più totale e completa cancellazione della storia»4. Per Alberto Caracciolo il richiamo hegeliano alla morte di Dio è un problema aperto. L’unica soluzione possibile consiste in un rimando ad ulteriori domande. Quindi non si presuma una risposta, bensì la si riconosca solo come domanda. In altri termini, Caracciolo invita Hegel a riconoscere i limiti dell’uomo e a non presumere troppo dalla ragione umana5. Stefania Achella si chiede: «in che modo nel mutato statuto epistemologico della religione, intesa ora come filosofia della religione, continua a permanere l’objettivo hegeliano», quello cioè di «istituire una religione sempre più purificata dagli elementi empirici, pur consapevole che la sua forma sia tale anche in virtù di essi»?6 E giustamente risponde: «Se […] la religione appartiene allo spirito, e segnatamente allo spirito assoluto, sarà necessario analizzare forme di conoscenza adatte a cogliere il grado più alto del suo sviluppo»7. L’uomo deve scoprire la sua matrice intersoggettiva e comunitaria, il livello del sentimento compromette la possibilità della comunità spirituale, poiché impedisce alla coscienza la vera elevazione a Dio. La soluzione, afferma la Achella, l’unità tra finito e infinito, non può essere la religione, bensì una comunità filosofica globale, un regno dello spirito, e, aggiungo io, nato dalle ceneri del cristianesimo. Ma chi farà parte di questo regno Hegel non ce lo dice. In definitiva, Hegel propone una comprensione razionale del cristianesimo, ma così facendo ne sancisce anche il superamento, e lo fa con una ricerca minuziosa e fondata. I suoi argomenti, sostiene Rinaldi, «appaiono, in generale, pienamente cogenti; la loro forma logica specifica risulta
3 V. HÖSLE, Il concetto di filosofia della religione in Hegel, Napoli, La scuola di Pitagora editrice 2006, p. 126. 4 F. BOSIO, La «morte di Dio» nella filosofia hegeliana della religione, «Il pensiero», vol. XV, 1970, pp. 70–91, qui p. 90. 5 Cfr. A. CARACCIOLO, La religione e il cristianesimo nell’interpretazione di Hegel, in AA.VV., L’opera e l’eredità di Hegel, Bari 1972, pp. 51–68. 6 S. ACHELLA, La filosofia hegeliana della religione, in AA.VV., Il pensiero di Hegel nell’età della globalizzazione, a cura di G. Rinaldi, Roma, Aracne editrice, in corso di pubblicazione. Sempre della Achella si possono utilmente leggere i volumi Tra storia e politica. La religione nel giovane Hegel, Napoli, Edizioni scientifiche 2006 e Rappresentazione e concetto. Religione e filosofia nel sistema hegeliano, Napoli, Edizioni «La Città del sole» 2010. 7 S. ACHELLA, La filosofia hegeliana, cit.
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senz’altro adeguata al contenuto determinato che essa è chiamata ad esprimere; ciascuno di essi, infine, appare pienamente consistente sia in rapporto agli altri che ai principi fondamentali del pensiero hegeliano»8. Chi invece assume posizioni critiche rispetto alla filosofia hegeliana della religione, sia egli collocato su posizioni religiose oppure su posizione atee, di fatto fraintende la posizione di Hegel, e non fa una lettura complessiva delle sue opere, ma si limita a coglierne alcuni aspetti parziali per giustificare posizioni che spesso sembrano già precostituite. Scrive ancora Rinaldi: Infine, un’ulteriore prova della vanità della polemica», che gli avversari della filosofia della religione hegeliana rivolgono, a volte con estrema virulenza, «contro di essa, può essere agevolmente desunta proprio dall’esame dei loro scritti, in cui troppo spesso si assiste al penoso spettacolo di veder “confutata” una concezione filosofica che essi, in realtà, provano ad oculos di non comprendere, o meglio di fraintendere radicalmente.9.
E il fatto che le interpretazioni teologico–confessionali o atee della filosofia hegeliana della religione abbiano maggiore diffusione, e quindi maggiore popolarità, di quelle più strettamente aderenti al suo intimo spirito non può essere ritenuto un buon argomento per sostenere la loro validità e la verità delle loro posizioni.
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G. RINALDI, Ragione e Verità, cit., Parte III, cap. 3, p. 526. Esiste anche una versione inglese di questo testo: “Religion” and “Absolute Knowing” in Hegel’s Phenomenlogy of spirit, in AA.VV., Anfänge bei Hegel, hrsg. von W. Schmied–Kowarzik, Kassel, Kassel University Press 2009, pp. 131–164, qui p. 163. 9 G. RINALDI, Ragione e Verità, cit., p. 526.
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Facciamo proprio e riproduciamo:
Un appello per le scienze umane (da: "il Mulino" n. 6/13) di
R. Esposito, E. Galli d. Loggia, A. Asor Rosa
1. Forse non è inutile partire da una considerazione che riguarda gli autori di questo testo. Perché tre intellettuali di ambito diverso, di formazione e anche di ispirazione politica differente sentono il bisogno di intervenire congiuntamente su una questione che reputano di pubblico rilievo? Se ciò accade significa che qualcosa di fondo è cambiato nel rapporto tra cultura e politica del nostro Paese. Che le paratie ideologiche che lo hanno da tempo segnato, non reggono più. Anche ciò, seppure in maniera ancora problematica, fa pensare alla necessità di un nuovo nesso tra le culture politiche italiane. Non, di certo, nel senso di una semplice omologazione, di una qualche “larga intesa”, di una improvvisa cancellazione di confini. In tal caso non si darebbe neanche la possibilità del confronto. Ma piuttosto con l’intenzione di ridefinire l’orizzonte in cui esso viene a situarsi – costituito lungo assi diversi rispetto al passato. Ciò diventa particolarmente urgente quando si avverte da molti segni che siamo arrivati a un punto limite, che sta per essere superata una soglia oltre la quale non si profila soltanto il blocco, ma un vero collasso dei modelli socio-culturali che hanno fatto la storia del nostro Paese a partire dal dopoguerra. Già una prima volta, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, la mutazione sociale e, come avrebbe detto Pasolini, antropologica che ha investito l’Italia, ha trasformato profondamente il ruolo dei modelli di cui sopra, riducendone sensibilmente la funzione. Ma nell’ultimo trentennio tale ridimensionamento ha assunto una portata talmente vistosa da compromettere quella relazione tra cultura e società, tra passato e presente, senza la quale un Paese è condannato alla regressione. Ciò spiega il carattere di urgenza, e
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anche le forme inedite, di questo intervento a quattro mani, concepito dagli autori come una sorta di appello a ragionare su cose da cui dipende in modo vitale il futuro del Paese. Uno dei prodromi, e insieme degli esiti, della regressione che ci minaccia è la crisi verticale che investe l’intero retaggio culturale del paese di cui la tradizione umanistica è parte fondante. Gettando alle ortiche la quale è di fatto tutto il passato italiano che viene accompagnato alla porta. È qualcosa che si respira da tempo nei mass media, nelle mode da questi accreditate, nell’editoria di consumo, nel discorso pubblico, nell’atteggiarsi concreto dell’opinione. E che si manifesta nel modo più evidente nel campo della formazione delle giovani generazioni, dove da anni si sta affermando un secco ripudio, un radicale rigetto, di tutto quanto, in qualunque modo, abbia a che fare con l’ambito degli studi umanistici e, più in generale, con la prospettiva culturale che da quegli studi prende vita e che a sua volta quegli studi alimenta. Alla fine è lo stesso concetto di umanesimo che così si trova ad essere messo inevitabilmente fuori gioco. Vale a dire quella visione del mondo che per secoli ha formato la civiltà di questa parte del pianeta – e dell’Italia in modo particolarissimo –, affermando il carattere fondante di autonomi valori morali e politici. Il ripudio dell’umanesimo e della sua cultura è, lo ripetiamo, forse la principale forma che assume l’attacco al passato, la sua virtuale consegna all’irrilevanza, che caratterizza il nostro tempo. Ciò sta avvenendo dovunque, ma si capisce come noi italiani, radicati in un Paese la cui cultura per tanta parte s’identifica con il retaggio umanistico, siamo più esposti di altri agli effetti negativi di tale evento: e per i modi e la misura con cui il fenomeno si presenta e per l’indifferenza con cui ad esso assistono – ma si direbbe quasi senza vederlo, senza neppure accorgersene – le classi dirigenti della Penisola. Tra questi modi primeggia quello che ha per teatro l’ambito dell’istruzione scolastica: un ambito che da decenni sembra governato dalla classe politica sulla base di due sole direttive: evitare fastidi e risparmiare soldi. Ci sembra inaudito che da decenni manchi qualsiasi discussione pubblica appena impegnativa sulle forme, i contenuti e i fini che l’istruzione stessa dovrebbe avere. Dedicata a capire a che cosa essa debba veramente servire. In questo silenzio sulla sostanza della cosa si sono fatti strada una miriade di provvedimenti parziali, tutti mossi però da una medesima ispirazione: da una parte l’idea che il futuro dell’insegnamento – e del suo protagonista, l’insegnante – stia in una crescente tecnicizzazione (da cui la massiccia divulgazione di modellistica pedagogica, l’uso sempre più diffuso di test e quiz, e poi di computer, lavagne luminose, internet); dall’altro la tesi complementare che l’istruzione, sia primaria che secondaria, debba avere sempre di più un carattere scientifico-tecnologico opportunamente avvolto nell’involucro di un’informe, e non di rado retorica, pedagogia civica (educazione alla Costituzione, all’affettività, ecc., ecc.), a scapito dei contenuti “umanistici” tradizionali. Il cui declino è stato anche simbolicamente ratificato con l’omologazione nel comune nome di “liceo” dei più disparati percorsi d’istruzione superiore. Dai quali percorsi, come del resto dal liceo che ancora si chiama “classico”, sono stati eliminati, o variamente ridotti nell’orario, appunto gli insegnamenti di tipo umanistico. A cominciare dall’italiano, sicché, come è noto, oggi non è più dato incontrare quasi alcuno studente italiano che abbia
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letto per intero la Divina Commedia o i Promessi Sposi; per non parlare del latino, grembo linguistico nel quale più di metà della storia europea si inscrive. L’accusa che solitamente si muove a chi fa i discorsi che si stanno qui facendo è di abbracciare una prospettiva ‘passatista’. È vero l’esatto contrario: la rimozione del passato, infatti, si sposa quasi sempre con una crisi del futuro. Il riferimento al passato – anche in forma contrastiva – è fondamentale per ogni passaggio in avanti. Per dirne una, l’uso delle più nuove tecnologie nella conservazione e nel restauro del patrimonio artistico italiano è fondamentale, ma se manca una conoscenza approfondita di quest’ultimo essa è inutilizzabile. Allo stesso modo molte delle nuove professioni digitali e telematiche, come anche la gestione dei rapporti con il personale nelle imprese, richiedono operatori dotati di una conoscenza di base e di una creatività che solo alcune Facoltà umanistiche, opportunamente rinnovate, possono dare. Ora è proprio questa consapevolezza della portata innovativa del passato, del suo nesso costitutivo col futuro, in particolare per un Paese come l’Italia, ciò che ci manca. La conseguenza di tale assenza è palese, dal momento che tutto si tiene. Tra quanto fin qui detto e la rovina del patrimonio artistico o paesistico, per esempio, esiste un ovvio rapporto. Quando non ci sarà più nessuno a sapere chi sia mai stato Plinio o che cosa è mai stata la repubblica di Venezia, la sorte di Pompei e della Laguna saranno di fatto segnate: a quel punto non ci saranno interessi turistici o Mose che tengano. L’identità, ma anche la possibilità di affacciarsi sul nuovo, delle persone, come delle collettività, è data anche e proprio dal passato. Cioè dalla storia, dalla dimensione storica nelle sue tante articolazioni. Privi del passato e della storia, né l’Italia né alcun altro Paese sarà più in grado di acquisire una qualunque consapevolezza di sé e dunque di esistere di una esistenza sua propria. Gli studi umanistici sono per l’appunto gli unici che per la loro stessa natura assicurano il legame con la specificità della dimensione storica della vita e – cosa non meno importante in un’epoca di dilagante egemonia dell’immagine – con la parola scritta. Le discipline scientifiche, infatti, le matematiche o l’ingegneria elettronica, la biologia molecolare o la geologia, sono dovunque le medesime, dovunque eguali a se stesse, e non a caso tendono sempre di più a esprimersi dovunque in una medesima lingua: l’inglese. Che però si dà il caso che non sia la nostra lingua. Certo, quando serve, dobbiamo ben essere capaci di adoperarla. Tuttavia le nostre emozioni, le nostre gioie e le nostre paure più intime, più personali, avranno sempre bisogno, per esprimersi, delle parole di quell’idioma che abbiamo ascoltato fin dalla nascita. Ma che cosa e come riuscirà ancora a pensare e a dire chi magari a quel punto non avrà mai letto in vita sua un romanzo o una poesia scritta in italiano? C’è dell’altro, e di assai più generale. Mettere al bando nell’apparato scolastico il sapere umanistico – come anche da noi si sta facendo – per privilegiare il sapere fondato sulle scienze naturali, significa mettere al bando interi territori e dimensioni dello spirito e della conoscenza umani. Lo ha detto benissimo Isaiah Berlin: significa squalificare “lo specifico e l’unico di contro all’iterativo e all’universale, il concreto di contro all’astratto, il movimento perpetuo di contro alla quiete, l’interiore di contro
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all’esteriore, la qualità di contro alla quantità, ciò che è culturalmente condizionato di contro ai principi atemporali, la lotta mentale e l’autotrasformazione come una condizione permanente dell’uomo di contro alla possibilità (e desiderabilità) della pace, dell’ordine, di un’armonia finale e delle soddisfazioni di tutti i desideri umani razionali (…)”. Significa squalificare non lo spirito critico, che certamente può trovare terreno fertile anche in una formazione scientifica, ma la capacità di organizzare e strutturare tale spirito collegando ambiti diversi, di portarlo a visioni generali. Che umanità e che società saranno quelle in cui il primo termine delle bipolarità di cui sopra sarà virtualmente scomparso o patrimonio ormai di pochissimi? 2. Per quanto riguarda il mondo dell’Università e della ricerca, le cose, se possibile, vanno addirittura peggio. Chi ha insegnato in questi anni nelle Facoltà di Lettere, di Filosofia, di Scienze Politiche o di Scienze della Formazione, non ha potuto o non è stato minimamente capace di cambiare la situazione. Perlopiù con l’interessata complicità dei professori, infatti, il modulo del 3 + 2 è servito, specialmente in quelle Facoltà, a frantumare l’unitarietà delle discipline moltiplicandone assurdamente il numero, a ridurre il carico didattico a misure spesso ridicole, a rendere la stesura della tesi di laurea un’operazione nella maggior parte dei casi di pura facciata. Gli studi umanistici, insomma, hanno capitolato di fronte all’Università di massa come pochi altri. Si sono arresi all’aria dei tempi: per esempio introducendo senza batter ciglio la parola “scienza” nella dizione di un gran numero di discipline, sicché a un tratto pure nelle Facoltà umanistiche quasi ogni materia è divenuta una “scienza”. In questo senso sembrano solo una vera, ancorché beffarda, nemesi, gli innumerevoli decreti e disposizioni di vario genere voluti sia dal Ministero che dal Parlamento, che da anni, in tutti i criteri di valutazione, equiparano assurdamente le Facoltà umanistiche a quelle scientifiche. Adottando sempre parametri che, se hanno un senso per le seconde, si rivelano infallibilmente assurdi e oltremodo penalizzanti per le prime. Assurdi, se non ridicoli, nel lessico stesso: basti pensare a quel termine – “prodotto” – usato indistintamente per i brevetti dei professori di ingegneria elettronica e per i saggi di filologia semitica (se ancora c’è nelle nostre Università qualcuno che la insegna). Non è certo un caso, del resto, se da qualche tempo a questa parte i ministri dell’Istruzione e dell’Università, quando non sono dei politici, sono sempre dei docenti di materie scientifiche e se, come ha ricordato di recente Raffaele Simone, nella composizione dell’Anvur, l’agenzia di valutazione dell’Università, gli umanisti sono in assoluta minoranza. Le modalità con cui è stata concepita, e poi applicata, la valutazione merita qualche considerazione ulteriore. Certo, l’esigenza di partenza – quella di mettere fine alla situazione di caos e spesso di parzialità che per anni ha reso a dir poco opaco il sistema del reclutamento universitario – era più che giustificata. Ma bisognava calarla nella realtà con una sensibilità culturale proporzionale alla sua rilevanza. Bisognava rendersi conto che applicata a un ambito così particolare e multiforme la stessa categoria di valutazione (con l’elemento comparativo ad essa inerente) do-
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veva essere circondata da mille distinguo e cautele. Per valutare con presunta oggettività i numerosissimi candidati all’abilitazione, ad esempio, si sono adoperate delle ‘mediane’, corrispondenti alla media del numero dei titoli scientifici prodotti dai professori titolari nelle rispettive discipline. Il medesimo criterio – numero dei titoli e addirittura delle citazioni, buone o cattive, ricevute dai candidati – si è usato nella valutazione delle strutture dipartimentali, per definire la misura dei finanziamenti ad esse assegnati. Ma, come ha osservato Tullio Gregory, tale modello comparativo di tipo numerico ha portato da un lato a una frenetica corsa a pubblicare, ai titoli, prodotti a migliaia in occasione delle abilitazioni; dall’altro al loro smembramento: due libri valgono il doppio di uno anche se ottenuti attraverso la sua semplice scomposizione. Tutto ciò è indice di un inevitabile slittamento dal piano della qualità a quello della quantità che, nonostante le assicurazioni contrarie, costituisce il vero segno culturale del progetto. Il passaggio dal concetto classico di “giudizio” a quello, solo apparentemente neutrale, di “valutazione” ne costituisce la cifra anche semantica. Vocaboli come “prodotto”, “impatto”, “rendicontazione” sono estremamente indicativi della matrice produttivistica di una logica modellata su quella del mercato. Il riferimento dell’intero paradigma della valutazione è quello del marketing aziendale, appena filtrato dalla retorica del merito, naturalmente inteso come prestazione in vista di un utile. Come in simile dispositivo, ideologicamente orientato a interessi di natura privatistica [si vuol dire: commerciale], la prima vittima siano gli studi umanistici è appena il caso di sottolineare. Ma anche qui occorre aggiungere qualcosa che va aldilà del recinto dell’Accademia, per coinvolgere l’intero modello sociale. Il paradigma di valutazione, inteso come cifra generale del nostro tempo, più e prima che strumento di informazione e di selezione costituisce di fatto una modalità di denazionalizzazione della nostra cultura e di omologazione ai parametri globalizzati dell’attuale idolatria ideologica del mercato. Indici bibliometrici, nozione produttivistica di conoscenza, impostazione di fondo di tipo ingegneristico-statistico formano una costellazione integrata il cui esito non può che essere la disintegrazione dei saperi dell’uomo così come sono stati elaborati in secoli di storia italiana e non solo. Basti pensare a quanto avviene sul piano della lingua con l’assoluto predominio dell’inglese. L’idea che ha guidato tale dissennata omologazione è che il linguaggio sia un utensile neutro, una scatola vuota, riempibile da qualsiasi contenuto. Esso, cioè, non avrebbe rapporto né con il pensiero che veicola né con la storia e il contesto in cui si genera. I termini sarebbero equivalenti e immediatamente traducibili. Quanto ciò sia sbagliato è evidente per chiunque abbia un minimo di formazione classica. Immaginare, per esempio, di poter sovrapporre senza variazione di senso vocaboli come “spirito”, “esprit”, “Geist” e “mind” è l’esito dell’analfabetismo cui da tempo sono condannate le classi dirigenti europee. Con la differenza che se in Francia un funzionario di Stato si permettesse di esprimersi ufficialmente in lingua inglese, sarebbe cacciato con l’accusa di “attività antinazionale”, mentre in Italia si è arrivati al punto di ignominia di immettere professori stranieri nelle commissioni di abilitazione, col tacito presupposto che quelli italiani sono troppo ignoranti o corrotti per lasciarli fare da soli. Il fatto che a decidere gli idonei in discipline come Filologia
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dantesca o Storia del diritto romano debbano essere professori portoghesi o russi segna forse uno dei punti più bassi ai quali siamo arrivati. Alcuni studiosi di matrice umanistica, come Martha Nussbaum, hanno ricondotto tale tendenza al crescente primato dell’economia nelle nostre società. Le uniche forme di sapere che da qualche tempo vengono incoraggiate, potenziate, finanziate sono quelle che hanno un’immediata ricaduta nel mercato del lavoro e nel mondo produttivo. Il criterio prevalente, se non unico, per misurare l’utilità della cultura è quello della sua potenziale incidenza sulla crescita economica. Da qui la prevalenza sempre più accentuata dei saperi tecnici su quelli umanistici. Naturalmente il panorama non è omogeneo. Non tutti i Paesi vanno in tale direzione o procedono allo stesso ritmo. Ma la tendenza di fondo è questa. Ciò determina, secondo la Nussbaum, non solo un decadimento culturale che investe la società contemporanea nel suo insieme, ma anche un deficit di democrazia. Col ritiro del sapere umanistico, infatti, si affievolisce lo sguardo critico sulla realtà e dunque la capacità di confrontarsi in maniera aperta e inclusiva con le molteplici diversità che ci attorniano. Tutto ciò è vero, ma è lontano dall’esaurire il problema. Intanto, nonostante la tendenziale omologazione, resta la specificità di contesti, storie, mentalità differenti. Per quanto uniti da trasformazioni globali che investono tutti i Paesi e tutti i continenti, collegare in un unico sguardo la situazione italiana a quella nordamericana, o addirittura a quella della Cina e dell’India, è operazione spesso improduttiva sul piano dell’interpretazione. Ma anche il riferimento alla democrazia appare alla fine piuttosto generico e scontato. Il punto da mettere in risalto, almeno per quanto riguarda l’Italia, ci appare un altro. Si tratta di capire se e come il declino degli studi umanistici – a favore di quelli tecnico-economici – si rifletta su, e per certi versi contribuisca a determinare, quella crisi del “politico” che è oggi uno dei problemi più urgenti che abbiamo di fronte. 3. Veniamo così all’ultima, e forse più importante questione. Perché ciò accade? E in che senso il ripiegamento del sapere umanistico si accompagna a quello della politica? Proveremo a rispondere nel modo più sintetico e radicale possibile, salvo poi sfumare e chiarire quanto intendiamo dire. La crisi del sapere umanistico – in particolare letterario, filosofico, storico – si traduce nella crisi del politico, e quindi della politica in senso proprio, perché in Italia il politico è stato costituito alle sue radici proprio da quel sapere. Potremmo esprimerci ancora più nettamente: – perché, fino alla costituzione dello Stato unitario, la politica italiana non è stata altro che il luogo d’incrocio e di tensione tra questi linguaggi. Non ci riferiamo, affermando ciò, soltanto al timbro politico di opere e autori ascritti legittimamente agli ambiti della letteratura, della filosofia e della storia – si pensi ai casi, certo assai diversi tra loro, di Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella, Vico, Cuoco, Foscolo, Manzoni, Gentile. Al carattere mondano e terreno di un sapere filosofico lontano dal ripiegamento nella coscienza interiore o dalla vocazione metafisica di tanta parte della filosofia europea. Per non parlare dell’Umanesimo civile, della tradizione illuministica, della storiografia risorgimentale. L’elemento più intrinseco della cultura letteraria e filosofica italiana è costituito proprio da quest’anima politica. Non per nulla l’autore della Commedia è anche quello della
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Monarchia, così come chi ha composto Il Principe ha scritto anche la Mandragola. E del resto il saggio più penetrante sul carattere degli italiani non ci viene dal nostro più grande poeta? Ma il punto centrale non è ancora questo. Si tratta, piuttosto, del ruolo quasi di supplenza che la cultura storica, letteraria, filosofica, ha esercitato in Italia rispetto alla mancata unità politica. L’unico elemento di identità e di unificazione italiana tra il Trecento e l’Ottocento è costituito dalla lingua e dalle opere in essa scritte. Non solo gli appelli, a volte retorici, o le canzoni all’Italia, ma le opere nel loro insieme. Esse formano il pensiero vivente intorno al quale si è costruita, nel tempo, la coscienza del Paese, nell’unica forma allora possibile. Un filo tenace, certo sottile e discontinuo, ma mai spezzato, che da Dante arriva a Manzoni, sfociando nella stagione del Risorgimento. Nella sua grande Storia – il luogo forse di massima integrazione tra storia, filosofia e critica letteraria – De Sanctis insiste soprattutto sugli ostacoli, i ripiegamenti, le incompiutezze di questo percorso. Ma questo “non”, questo negativo, sviluppato da una linea interpretativa che arriva a Gramsci e per certi versi fino a noi, presuppone il “positivo” – quella comunità di intenti e di destino che del politico costituisce in Italia la rappresentazione più intensa. Anche coloro che hanno individuato nel grande affresco desanctisiano una movenza ideologica portata a imprigionare in un disegno organico la specificità di singole opere, hanno comunque dovuto fare i conti con un progetto politico-culturale di tale respiro ideale. Da un confronto con il quale hanno inoltre avuto origine in un modo o nell’altro, non a caso, tutte le culture politiche dell’Italia del Novecento. Se si scorrono i testi più significativi – dai Discorsi di Machiavelli alla Città del sole di Campanella, alla Scienza nuova di Vico, alla Storia della rivoluzione napoletana di Cuoco, alle Operette morali di Leopardi – si ritrovano tutte le differenti tonalità del politico, dal realismo all’utopia, dalla profezia al disincanto, dall’espansione al declino. Perfino la produzione intellettuale per molto tempo meno apprezzata, quella, cattolica e tridentina, della Controriforma, se misurata sul terreno del politico, manifesta una potente capacità di sintesi e di incidenza egemonica sulle strutture istituzionali e culturali del tempo. Certo, si può vedere in essa – come non si è mancato di fare – una forma di blocco rispetto alle potenzialità innovative del sapere e del potere. Ma anche in questo caso non si è potuto non riconoscerle un forte impulso politico, sia pure di tonalità conservatrice. Qui si radica la singolare drammaticità di una concezione della storia lontana dal progressismo della filosofia illuministica e romantica. La storiografia italiana fin dal suo inizio – da Guicciardini a Vico, a Cuoco, allo stesso De Sanctis – è consapevole della connessione costitutiva tra storia e crisi. La crisi non è solo un possibile contenuto, ma la forma stessa di una storia sempre attraversata dal proprio limite naturale. Quello che conferisce alla grande storiografia italiana tra il primo Cinquecento e il primo Ottocento il suo carattere più peculiare è l’individuazione del nesso necessario tra sviluppo e origine. E anche del doppio volto dell’origine – come fonte di energia potenziale e come ineliminabile grumo di violenza. Ciò che negli autori italiani si palesa è l’idea – poi sistemata da Nietzsche in termini di genealogia – che solo dall’angolo di visuale dell’origine il presente acquisisce piena visibilità. Quando Croce afferma che ogni
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storia è di per sé contemporanea, carica la contemporaneità di questa tensione interna. Se l’attualità non fosse abitata in modo problematico dall’origine, se aderisse senza scarto a se stessa, non potrebbe neanche riconoscersi – esercitare uno sguardo critico su di sé. La storia, la filosofia e la letteratura italiana esprimono, nella relazione drammatica tra origine e compimento, il principio stesso del politico – la precedenza del conflitto sull’ordine (Machiavelli), della crisi sullo sviluppo (Vico), della sconfitta sulla vittoria (Cuoco), del limite sul compimento (De Sanctis). Ma anche la dialettica tra potere e resistenza. Basta pensare al destino “politico” dei più grandi autori italiani – Dante e Machiavelli in esilio, Bruno bruciato, Campanella imprigionato, Gentile e Gramsci morti, ai lati opposti della stessa barricata, a difesa delle proprie idee, per riconoscere nel “politico” la chiave interpretativa della cultura italiana nel suo insieme. Si tratta, oggi, di ritrovarla. Dopo anni di recessione e di crisi siamo divenuti completamente avvezzi all’idea che l’alfa e l’omega della politica sia l’economia. La riscossa liberista di origine anglo-sassone degli anni ’80 si è innestata sul vecchio tronco marxista europeo-continentale accreditando questo che ormai, almeno a livello ufficiale, è un pensiero assolutamente dominante. Dominante ma non per ciò meno infondato, anche se proprio tale idea è valsa, nell’ultimo decennio, a mettere la politica nell’angolo, a renderla balbettante, incapace di visione come di azione. L’Europa della crisi economica è al tempo stesso l’Europa della crisi della politica. Una crisi nella quale si riflette – è impossibile non vederlo – il progressivo declino della cultura umanistica che tutto l’Occidente conosce da decenni. Come si è detto, in Italia molto più che altrove è evidente il legame di causa-effetto tra i due fenomeni. Le cultura politiche del Novecento italiano, infatti, hanno avuto tutte un legame fortissimo con la storia nazionale, non da ultimo perché hanno tutte preso le mosse da una critica più o meno giustificata nei suoi riguardi. Ma dalla formazione delle classi dirigenti della Penisola è progressivamente scomparsa la conoscenza di tale storia e del secolare dibattito intorno ai suoi aspetti, così come la conoscenza anche dei luoghi del proprio Paese. Alcuni anni fa quasi tutti gli allievi lombardo-veneti di uno degli autori di queste pagine non aveva mai visto Roma, e tanto meno si era mai spinto a sud di essa; quasi a inconsapevole declinazione personale della virtuale cancellazione dell’insegnamento a se stante della geografia dell’Italia e del mondo da tutti i curricula scolastici. È così scomparsa quella multiforme, complessa, identificazione, anche psicologica prima che genericamente culturale, nella vicenda nazionale che ha rappresentato una premessa indispensabile per un compiuto impegno politico. Come non collegare tutto ciò con l’abitudine di inviare regolarmente all’estero i propri figli per studiare, presa dalle classi dirigenti italiane da almeno due o tre decenni – naturalmente frequentando corsi che fanno largo spazio a discipline che con la cultura e la storia italiana hanno in genere ben poco che fare? Ma allora un’ulteriore domanda s’impone: che coesione culturale e sociale, che solidità, che politica sarà mai in grado di mettere in campo un Paese del genere? E che futuro può mai avere? E dunque, lo si capisca una buona volta: è di questo che si tratta quando si parla di retaggio umanistico, di quello che ci aspetta, non di rimpianti nostalgici da anime belle.
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