Magazzino di Filosofia n. 20/2012: B7/SEGMENTI

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magazzino di filosofia quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia n° 20, anno VII, 2011/12 (B7): s e g m e n t i (peer review)

P.E.M.


M a g a z z i n o

d i

F i l o s o f i a

Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia *Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia) *Redazione: Cristina Boracchi (Gallarate), Gianvito Brindisi (Napoli), Riccardo Lazzari (Milano), Simone L. Maestrone (Bonn), Alfredo Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Alessandra Rauti Gennaro (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Roberto Valentini (Milano), Fabio A. Volontè (Varese), Alessandra Zambelli (Parigi), Luca Biolcati (Milano). *Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano), Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Santino Maletta (Cosenza), Carlo Montaleone (Milano),. *Comitato scientifico: Davide Bigalli (Milano), Laura Boella (Milano), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina (Lexington, Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Gugliemino Cajani (Pavia), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello (Milano), Klaus Held (Wuppertal), Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Renato Pettoello (Milano), Giovanni Piana (Cosenza), Stefano Poggi (Firenze), Giacomo Rinaldi (Urbino), Frithjof Rodi (Bochum), Gianni Scalia (Bologna), Franz-Anton Schwarz (Friburgo i. Br.), Guy van Kerckhoven (De Haan, Belgio), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti (Milano), Marcello Zanatta (Arcavacata, CS). *Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Jan Bednarich (Gorizia), Simona Bertolini (Bologna), Fiorenza Bevilacqua (Milano), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝(Pavia), Alfredo Civita (Milano), Andrea Cudin (Trieste), Davide D’Alessandro (Urbino), Carmine Di Martino (Milano), Miriam Franchella (Milano), Lorenzo Giacomini (Milano), Andrea Gilardoni (Milano), Lorenzo Leone (Varese), Walter Minella (Pavia), Luca Oliva (Chestnut Hill, Ma.), Fabrizio Palombi (Roma), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Corrado Sinigaglia (Milano), Erasmo S. Storace (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano), Paolo Volontè (Milano). *Recapiti: Associazione P.E.M, via Emilia 24, I-27100 Pavia (PV), tel/ fax: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini” <eawqmbis@gmail.com>, “Riccardo Lazzari” <rlazzari@tin.it>, “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Rubrica “Aggiornamenti”, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@tin.it>/ o: Cristina Boracchi <tondino_baby@libero.it> / o: Erasmo S. Storace <erasmo.storace@alice.it>. * Per leggere i numeri correnti del MAG vai sul sito www.filosofiacontemporanea.it e clicca sull’icona della copertina. * Per leggere i numeri passati del MAG, dal n. 1 al n. 18, vai sul sito www.francoangeli.it (clicca sul bottone “Riviste”, o telefona all’Ufficio Riviste, tel. 02 2837141); * Per avere una o più copie cartacee dei numeri correnti servirsi del print on demand di youcanprint: tel.: 0833.772652; email: servizioclienti@youcanprint.it * Per avere arretrati cartacei anni 2001/10 (nn. 1-18): richiedere con email a: “Alfredo Marini” <eawqmbis@gmail.com>. Autorizz. del Tribunale di Pavia n. 508 del 14.04.2000. II° quadrimestre 2011-12 – Finito di comporre nell’settembre 2012.


verum ipsum factum

Sommario Eugen Fink, Eremitaggio (Aforismi da un diario di guerra 1940-1944)

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Eugen Fink, Elementi di una critica a Husserl (primavera 1940)

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Riccardo Lazzari, Sull’inedito finkiano “Elementi di una critica a Husserl”

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Simona Bertolini, Mondo, a priori e cosalità nelle prime Vorlesungen di Eugen Fink

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INTERSEZIONI Guy van Kerckhoven, Riccardo Lazzari: Eugen Fink e le Interpretazioni fenomenologiche di Kant

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Riccardo Lazzari, Guy van Kerckhoven, cura di: Eugen Fink, Epilegomena zu Immanuel Kants ‘Kritik der reinen Vernunft’

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CONTAMINAZIONI Massimo Mezzanzanica, Dimensioni del simbolo in Cassirer e Jung. Dalla configurazione dell’esperienza all’esperienza della trasformazione

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FILOSOFIA & DIRITTO Gianvito Brindisi, Considerazioni sull’espansione globale del potere giudiziario alla luce delle analisi di Michel Foucault

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Gaetano Carlizzi, Il procedimento quale forma generale del pensiero razionale. Un’introduzione filosofica allo studio del rito

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Vincenzo Rapone, L’al di là del solipsismo: la difficile ricerca della dimensione intersoggettiva nell’esistenzialismo francese

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FILOSOFIA & TEOLOGIA Luigi Ceccarini, Fede e teologia.

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Chiuso in redazione il 18.10.2012 Alfredo Marini & Riccardo Lazzari


Rivista finanziata dalla

Fondazione Banca del Monte di Lombardia ISBN: 978-1497365964 ISSN: 1592–5919

Questa rivista prodotta in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, è espressione della ASSOCIAZIONE P.E.M. ñ MEDICINA ANTICA & SCIENZE UMANE (Pavia) Alfredo Marini, v. Emilia 24, 27100 PV, tel. 0382.475098, cell. 328.3208089


Eugen Fink, Eremitaggio (Aforismi da un diario di guerra 19401944)* 1. Eremita è chi vive a proprio rischio e pericolo. 2. Lo stupore di Rilke quando si chiede: “Come è possibile vivere, se gli elementi di questa vita ci sono del tutto inconcepibili?” – esprime l’essenziale insicurezza, il rischio dell’umana esistenza. La comunanza dei costumi, della morale, della religione, del commercio con le cose, degli atteggiamenti verso amore, dolore, sesso e morte è toglimento del rischio vitale per mezzo della pubblicità. In prima istanza l’uomo non sta mai direttamente di fronte alla vita, essa gli è velata e resa accettabile tramite l’interpretazione pubblica della vita. La quale è un insieme di esperienze del genere umano vecchie di secoli e risale fino ai santi giorni primevi in cui gli dèi insegnavano agli uomini il focolare, l’aratro, il diritto; essa conserva gli ordinamenti, le leggi, che i saggi legislatori dei tempi primitivi hanno imposto ai loro popoli; essa contiene altresì le molteplici variazioni che l’uomo, nella sua lunga storia, ha apportato alla propria spiegazione pubblica della vita. La comune concezione della vita è un’antica saga, una lunga storia in perpetua trasformazione e un presente fatto di tante “ovvietà”. E intanto questo piccolo presente, con le sue spiegazioni pubbliche della vita, è molto più urgente e capace di velare la vita stessa, delle antichissime massime di saggezza contenute nella tradizione. Ogni secolo ha la sua pubblicità che viene gestita con le potenze della pubblicità (stato, chiesa, ceto ecc.) tramite il conio istituzionale degli schemi, dei “ruoli” vitali. Di fronte alla vita, ognuno si sente per prima cosa, immerso in un “ruolo”, per es., professione, confessione, ideologia politica, protetto in una spiegazione pubblica della propria vita. Strapparsi da questo manto protettivo, nel quale il senso della vita è qualcosa di definitivo, andarsi a riprendere dalla pubblicità che ricopre la vita stessa, esporsi all’insicurezza e all’assillante incertezza di una esperienza di vita solitaria – questa è l’essenza dell’eremitaggio. 3. Eremitaggio non è però una sezione della pubblicità della vita, una parte di essa, ma propriamente un approccio: alle cose, ancora prima di un loro possibile “uso”, al vento, alla nube, alla stella, alla bestia e all’uomo mio simile, al maschio, alla donna, al bambino, ai demòni, agli angeli e a Dio; in questo senso si tratta di un vero ritorno, un ritorno alla vita sana e incontaminata. A partire dalla vita sana sarà poi forse possibile criticare, rinnovare e approfondire la tradizione pubblica. 4. Ritorno alla vita sana non è “fuga dal mondo”. Eremitaggio – benché si costituisca proprio nell’abbandono della dimensione pubblica del vivere – non significa negare la pubblicità, negare il costume, la chiesa, lo stato ecc., e neppure

* Ringraziamo la sig.ra Susanne Fink per averci concesso di tradurre il principale manoscritto sul concetto di “Eremitie” contenuto nel “Nachlass Eugen Fink” (Bestand E 015), Über das Wesen der Eremitie. Aphorismen aus einem Kriegstagebuch (Signatur 103). (A.M.)

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scartarli o spregiarli, bensì esaminarli: è l’esame delle forme di vita contaminata a partire dalla vita incontaminata. 5. Eremitaggio in rapporto allo stato è apoliticità. Non quella dell’indifferenza politica, del mero rifiuto dello stato, ma quella che sottopone lo stato – questa costruzione umana, che per lo più divora l’uomo che la costruisce – a un esame critico a partire della sua origine vitale. 6. Eremitaggio, in rapporto alla chiesa, è cercare Dio. Non quell’atteggiamento anticlericale dei “cercatori di Dio”, ma quello che sta attento alla voce dal roveto ardente. 7. Il “presente”, la prima metà del XX sec., è una conseguenza della moderna mutilazione della vita, del tarlo antropocentrico, della terribile sdivinizzazione, dell’abbandono dell’essere e di Dio. E quanto è ancora lontana l’orgogliosa antropolatria del presente dal tragico sapere di Nietzsche “Chi sa, come io so, cosa sia Arianna?”, quell’Arianna che Dioniso abbandonò, e da quel grido tormentoso nel crepuscolo del Golgotha “Mio Dio, perché mi hai abbandonato?” – chi può saperlo? Eccetto Dio? 8. La desertificazone della vita umana sta nell’aver troncato le relazioni vitali portanti e avvolgenti dell’uomo all’ente: alla cosa, al mondo, a Dio.

L’ente vale come una costruzione dell’uomo, Dio come una copia onirica dell’uomo. Le eterne stelle polari della vita, le pietre angolari della superiore umanità: il vero, il bene, il santo appaiono all’uomo moderno come mobili “scotomi” della vista. La morale viene concepita come strumento di lotta della vita. Come essenza della realtà effettuale viene posta la lotta, intesa sia come concorrenza economica o lotta tra i sessi, sia come lotta di classi, popoli, razze. La cultura vale come ornamento della vita pubblica (la cultura come compito dello stato). Secondo una visione pragmatica dei residui tradizionali di un’umanità superiore, per es.: la chiesa, come istituzione mondana di potere. L’uomo non supera più se stesso; l’uomo declina. La civilizzazione tecnica diventa una potenza vampiresca. L’uomo non trova più la pace e quindi se stesso. Un chiasso incessante ingoia ogni tranquillità. La religione – nell’età creativa dell’Europa, la potenza determinante che dava senso alla vita – diventa “cosa privata” e, con ciò, viene bandita dalla dimensione pubblica. L’ideologia del lavoro (preparata dai movimenti sociali proletari della fine del XIX sec. e diretta all’attacco della vita oziosa) include ora l’“ozio creativo” e lo inserisce nel processo lavorativo pubblico. Il creativo come incaricato della pubblicità. La felicità sociale consiste nell’auto, nel cinema, nella radio e nel circo Barnum dello sport.

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9. Il concetto di Europa: filosofia antica e religione cristiana. Europea è la libertà dello spirito; l’esser aperto dell’uomo a quanto sta al di là dei meri bisogni vitali e al di là del mero potere. Europeo è sempre anche l’ordine stesso della libertà che, fuori dalle faccende connesse alle necessità vitali, rende l’uomo disponibile all’eterno splendore delle cose, alla chiarezza del concetto e al soffio della santità. 10. L’Europa muore per l’abuso della libertà: la liberazione dell’individuo (il Rinascimento) si rovescia e si smentisce nello sradicamento e nel collettivismo; l’emancipazione dell’uomo dallo strapotere della natura (la tecnica) si rovescia e si smentisce nella prigionia dell’uomo dentro un mondo tecnico; la scoperta della posizione metafisica dell’uomo (la filosofia moderna) si rovescia e si smentisce in un antropocentrismo narcisistico, che abbassa Dio e l’ente a creature dell’uomo; la liberazione da una spiegazione sacrale della vita come vincolo universale (Illuminismo) si rovescia e si smentisce in una generale profanazione della vita stessa. L’uomo moderno è privo di ogni consacrazione e di ogni mistero, senza le benedizioni della terra e degli dei celesti. L’Europa muore per l’abuso della sua libertà.

Ma la possibilità dell’abuso non è un’objezione contro la libertà stessa, che resta l’idea più alta dell’uomo razionale. 11. L’idea europea della libertà è un vangelo per le élites. In quanto “ludico cercatore del vero ente, del bello e del divino”, l’uomo europeo è la suprema possibilità dell’uomo. Elevato sopra la sfera dei bisogni necessità, egli esiste a immagine e somiglianza di Dio, valoroso nel conoscere, pieno di venerazione per il mistero, “fedele alla terra”, fisso lo sguardo alla tacita notte stellata, la “grande nostalgia” nel cuore: la homoiōsis theō! 12. L’antagonismo tra religione e filosofia (scienza) è un agone interno all’umanità superiore. Il comune nemico è il “profanum vulgus”. 13. Il nemico interno dell’uomo superiore è la superbia; è l’elemento “luciferino” in lui, l’ipostasi della libertà, la sua autoassolutizzazione in un “possesso”; l’autoesaltazione dell’uomo per la sua propria grandezza. Superbia è immediatamente perdita del contatto ontico con la cosa, il mondo, Dio. Superbia è la vuota autoriflessione della libertà. 14. Basta romanticismo! No alla restaurazione della vita sana con la fuga nel passato, negando e calunniando la storia! E quindi no anche alla calunnia dell’audacia dell’uomo moderno, che si concepisce come misura di tutte le cose! Misura non è fondamento. L’uomo come misura della cose è il “mediatore”, non il “creatore”.

In questa audacia, in questa insurrezione dell’uomo che si colloca nella sua propria esistenza metafisica di mediatore, i “conservatori”, i protettori e custodi, vedono solo la sciagurata (e foriera di sciagure) “emancipazione” moderna, le cui conseguenze nel XX sec., non lasciano nulla a desiderare 7


quanto a terribile chiarezza. Perché spesso i protettori non vedono altro che la perdita delle cose che contano nella vita umana, lamentano la fine del Medioevo (di quel tempo, in cui l’uomo europeo aveva posto tutta la sua vita sotto la sovranità e la grazia di Dio), ma spesso non vedono – solo oscurata e deformata da questa degenerazione dell’“emancipazione” –, la vera essenza della libertà umana: quello stare allo scoperto, quell’esser esposti nel tutto dell’ente, in cui propriamente si fonda la possibilità del sapere finito. Stare al coperto, esser protetti ed “esser-tutt’uno con ciò che è vivo”: questa è l’essenza del vivente, che permane nell’“essere-in sé”. 15. L’élite (per es., la filosofia moderna) ha, nella sfera dello spirito, prefigurato ciò che oggi la massa, divenuta ormai la base della vita pubblica, raffigura nel suo àmbito vitale: la riduzione delle relazioni umane alla mera relazione cosale; là come problema della possibilità dell’esperienza (scientifica) della cosa fisica a prescindere da ogni questione circa Dio e il senso della vita – qua come orientazione della vita sulla mera utilità delle cose (civiltà della tecnica). 16. Fare di Dio una copia conforme dell’uomo, è uno “scandalo della filosofia e della ragione in generale” peggiore che fare della cose copie conformi dell’uomo. 17. L’idea dell’essere, l’idea di Dio, l’idea del mondo, l’idea di verità – queste “idee trascendentali” innate della ragione umana non sono un possesso pacifico e fisso, ma eterni oggetti della nostalgia. L’uomo è l’ente che cerca; e cerca ciò che è veramente-essente, il mondo, Dio, la verità, il bello.

L’uomo è di origine divina; la sua nostalgia è “nostalgia del ritorno”, nostalgia di casa. 18. L’uomo in quanto cercatore dell’essere, di Dio, della bellezza come trasfigurazione ideale: il saggio, il santo, l’artista.

Queste tre supreme possibilità dell’uomo si fondano sullo spavento1.

1 Entsetzen (spavento). È una criptocitazione dell’esperienza dell’anima nell’innamoramento descritta da Platone (Fedro): ogni anima, trasvolando nell’iperuranio (248ce) al seguito di un dio, ha visto nei millenni la verità ideale secondo la potenza di quello specifico dio (Zeus, Ares, Estia ecc., 249c) ma reagendo, in ogni caso, alla bellezza che è comune a tutti (250d). Tale iniziazione permane nella struttura complessa di ogni anima (nella metafora, composta da due cavalli: quello docile, e quello violento, guidati dall’auriga). Quando l’anima “scorge qualche volto o forma corporea che ben riproduca la bellezza originaria (reminiscenza) subito rabbrividisce e lo colgono gli stessi smarrimenti di allora” (251a). Ne è attratta e lo segue in una drammatica dialettica interiore in cui il cavallo docile frena e quello violento spinge. In particolare, giunto davanti all’amato, l’“altro cavallo”, quello violento – domato dall’azione congiunta del cavallo docile e dell’auriga – “muore dallo spavento” (254e). A parte la fantasiosa meccanica del Fedro, questo spavento, connesso all’innamoramento concepito come una reminiscenza di qualcosa che è collocata in un “altro mondo” è solo una variante del concetto platonico-aristotelico del “meravigliarsi” (thaumazein). La

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19. La ricerca dell’ente (filosofia) rende possibile la scienza. Questa è “utile” benché in essa, se genuina, il motivo teoretico resti essenziale. La ricerca di Dio rende possibile una “religione positiva” e, con ciò un ordine della vita a partire da Dio, una consacrazione di ciò che è terreno! Origine sacrale degli ordini della vita. L’arte, o la ricerca del bello, rende possibile l’ornamento della vita, lo sfarzo degli edifici sacri o non sacri.

Le sfere del vero, del bello, del santo sono al di là di ogni cultura, di ogni umana costruzione. Nel rapporto ad esse, l’uomo conquista un contatto con l’essere che lo avvolge, col Dio la cui potenza lo circonda e con lo splendore che ovunque traluce. Per contro, la scienza positiva, la religione positiva e l’arte bella sono occupazioni culturali dell’uomo. 20. Come filosofo, l’uomo compie l’“esperienza ontologica”, come homo religiosus sta di fronte al roveto ardente, come artista “festeggia e glorifica” il “proprio” e il prossimo concreto”.2 Ma l’uomo non vive essenzialmente né conferisce grandezza alla propria esistenza solo come filosofo, homo religiosus e artista; anche il capo, l’amante, il sacrificante, il benedicente stanno nel cuore del mondo. 21. L’uomo buono (“buono” inteso non nel senso morale della parola), l’uomo che è buono grazie alla considerazione di ciò che è veramente essente, esiste nell’armonia cosmica (“tao”). L’armonia cosmica non è soltanto, o anche solo prevalentemente, una consonanza di elementi dell’anima, ma una consonanza dell’anima con l’ente, l’uno, il vero, il bene, con gli dei oscuri della natura e con quelli luminosi e con Dio. 22. L’umanità superiore è determinata dal carattere della consacrazione. L’iniziazione al segreto del vero, del santo, del bello sta nella scelta esistenziale (o, in senso mitico, pre-esitente), nella decisione del sé che si manifesta dall’interno come necessità.

Sacerdozio (in senso lato) è cosa che riguarda anche l’artista e il filosofo. L’uomo creativo è un iniziato di Apollo. 23. Ogni nobilitazione dell’uomo accade in vista dell’eterno e dell’essenziale. Nella misura in cui un’anima umana partecipa dell’eterno e dell’essenziale, reca in sé nobiltà.

Non una comunità è il fine dell’educazione, ma vera umanità, che di per sé comporta una comunanza di relazioni genuine. Non si tratta dunque di sollevare le anime giovanili ai “beni culturali” (perché questi sono sempre esposti alla pubblica violenza di un’interpretazione ufficiale), bensì a quelle meraviglia è essenzialmente un effetto di de-contestualizzazione. Che Martin Heidegger analizza nel § 16 di Sein und Zeit come un “disturbo del rimando” (Störung der Verweisung). 2 Das “Hiesige” (Hölderlin)

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dimensioni stesse in contratto con le quali gli spiriti creativi hanno creato quei beni culturali. L’idea pedagogica di Platone è di risvegliare in noi l’origine divina tramite il rimando al veramente essente; con la considerazione delle “idee” e del “bene” l’anima stessa diventa buona. Esser buoni significa propriamente essere essenti tramite la partecipazione a ciò che propriamente-è. 24. Ogni “singolo” ha un significato infinito; non è terra e strame per il grande uomo, la “bestia bionda”, potenza come dispotismo umano, come violenza, non è nulla di “grande”, ma qualcosa di enorme, un mostro. 25. Il “sé”, l’elemento attivo nell’uomo essenziale, è vissuto come la necessità più interna e più propria e ha così – considerato in astrazione formale – una somiglianza con le eruzioni dell’“inconscio” (quel fondo arcaico-collettivo dell’anima che C.G. Jung chiama “archetipico”), benché il “sé” sia proprio il contropotere della vita: il principio di individuazione.

La profondità arcaica dell’anima collettiva e l’interiorità del “sé” sono l’opposto dell’“io” (e del suo àmbito di libero arbitrio), sono vissuti come un “esso”3, come una forza estranea all’io. Dioniso, in Nietzsche, è il simbolo bifronte del Chaos materno della natura naturans e del dio che gioca: la riluttante unità di Demetra e di Apollo. 26. L’ateismo di Nietzsche, non è affatto soltanto l’espressione della sua situazione storica, e cioè la proclamazione del “superuomo”, che sopporta la “morte di Dio” senza colare a picco. Al di là di questa situazione storico-culturale del nichilismo insorgente, il nichilismo di Nietzsche è una posizione di principio non relativa ad alcuna situazione: e cioè come la henōsis di segno inverso. Filosofare come teologia, alla maniera di Aristotele e di Hegel, solo con l’inversione del rapporto Dio-uomo! Dioniso è in Nietzsche una concezione filosofica.

L’ateismo di Nietzsche non è dunque così terribile come quello che Dostojevski nei Fratelli Karamazov attribuisce a Ivan: costui sa cos’è Dio, e gli si nega! 27. Il magico “selvaggio” è un uomo molto più importante dell’uomo-massa del XX secolo, senza-dio, senza-morte, senza-destino, senza-sé. 28. La profezia di Nietzsche circa il “nichilismo” non sì è adempiuta nel senso in cui era intesa. Nietzsche vide in anticipo la perdita dell’autosuperamento dell’uomo (la perdita della forza di porre ideali), la grande stanchezza nel gioco dell’uomo di fronte all’essere, al vero, al bello e al divino e il lutto disperato per la 3

“Es” (Freud)

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morte di Dio. Ma il concetto nietzscheano del “nichilismo” era rivolto all’èlite, agli uomini della “grande nostalgia”; per lui, il nichilismo è la grande catastrofe dell’uomo essenziale; la percezione raccapricciante dell’insensatezza del vivere, che solo le più forti nature tragiche vinceranno; il nichilismo è per lui è la terribile tragedia dell’anima di “singoli”.

Da questo emergente purgatorio dell’uomo moderno egli si attendeva il grande rovescio, il risanamento della vita nel nuovo progetto creativo di ideali (“rovesciamento di tutti i valori”), l’inizio del grande gioco nel segno del dio Dioniso. Ma questo nichilismo e il suo superamento non è il contenuto della vita pubblica europea nel XX secolo. Forse il vaticinio di Nietzsche si è compiuto al di là della cultura pubblica, nella chiusa (verschlossen) intimità delle anime. Forse la discussione col nichilismo è l’apocrifo, ma l’unico essenziale, accadere della contemporaneità. Senonché l’accadere pubblico è l’avvento di un collettivismo conformista (jasagend) per il quale non c’è alcun problema del “nichilismo”: ciò che viene a galla è l’uomo senza dio, senza destino, senza vita propria, senza rispetto per il mistero dell’ente, senza problemi, l’uomo come schiavo della tecnica, che rifiuta l’ozio in base a un’ideologia del “lavoro” e conserva, come senso della vita, solo l’autoaffermazione nella lotta. 29. Del fenomeno del collettivismo fanno parte: la es-propriazione della vita propria del singolo (l’autoabdicazione nel sentimento della propria piccolezza, nullità e insignificanza, e la riconquista di una qualche importanza e di un senso della vita grazie a un ruolo collettivo); il tentativo di scaricare il peso dell’esistenza nell’anonimia di un’interpretazione collettiva della vita; e l’inflazione del destino. 30. L’intolleranza del collettivismo rispetto al “singolo”, e per metterlo al bando, si serve della caricatura. Il singolo diventa l’“egoista”, l’“outsider”, che vuole sottrarsi ai pubblici doveri.

Nessun singolo ha il diritto di negarsi ai doveri del cittadino, di opporre al sacrificio per la comunità in cui è cresciuto un sordo rifiuto. Solo chi adempie ai suoi doveri nei confronti della patria ha diritto davanti a Dio alla sua vita propria. Il singolo non può vivere a spese di altri; deve dare allo stato ciò che è dello stato. Deve anche obbedire al richiamo del proprio demone, superare la mera vita nello slancio verso il santo, il vero e il bello. Solo in questo superamento l’uomo è veramente libero, libero dai bisogni della vita corporale, libero dalle pretese della socialità e dello stato, libero verso se stesso nel votarsi alla verità alla bellezza, a Dio. Libertà è essenzialmente un aprirsi dell’uomo di fronte al superumano: all’ente. Libertà non è né l’arbitrio del singolo, né l’arbitrio dei popoli, non è un “atteggiamento” umano; libertà è nell’(antica) “teoria”, nella “poesia” (nel progetto artistico) e nella “preghiera”. 11


31. Dio nazionale e dèi nazionali:

in primo luogo, espressione della concezione teocratica di un popolo, che si progetta completamente nel senso della santità e alla santità si affida; in secondo luogo, espressione della più terribile blasfemia (“Dio”, come strumento del profano nazionalismo!). Il più alto ordine del vivere umano, l’ordine che parte dalla santità, reca in sé anche la possibilità della peggior degenerazione. L’estrema elevazione è costantemente minacciata dal più profondo precipizio. La teocrazia è una forma di vita che solo gli angeli sopportano. Il crollo dell’uomo dalla teocrazia nel feticismo nazionalistico si compie grazie al rovesciamento del senso che domina nel rapporto dell’uomo con Dio. Se nella vera teocrazia c’è un popolo che si consegna in proprietà a Dio, nel crollo questa dedizione a Dio si rovescia, nell’arroganza di volersi appropriare di Dio facendone una proprietà nazionale. Quanto è boriosa la vuota autoriflessione della libertà, altrettanto è sacrilega quell’inversione dell’irreversibile rapporto dell’uomo a Dio, che è la riflessione della teocrazia: l’antropocentrismo religioso. 32. Il narcisismo dell’uomo moderno, il suo fondamentale antropocentrismo, è un dogmatismo della riflessione. Nella riflessione l’uomo ritorna dalle sue passive relazioni alle cose, alla natura, agli dei, in se stesso e scopre se stesso. Egli si fissa e resta fissato in se stesso senza tornare di nuovo a cosa, natura, Dio. Egli ha così superato il dogmatismo dell’objettività per cadere nel dogmatismo della soggettività. 33. L’uomo creativo non va glorificato in quanto tale. Il culto del genio che idolatra l’uomo, è una bestemmia contro Dio. L’uomo di genio è un “sé” creativo guidato da Dio, dallo Psicopompo.

Il culto del genio trasforma in merito dell’uomo quella che è la benedizione di Apollo. Ma il dio può benedire solo colui che nella sua scelta del non vitale si è deciso per il dio. 34. L’uomo creativo, il “giocatore” (se l’essenza della libertà creativa dell’uomo è il gioco) non è a disposizione dei suoi contemporanei. Come questi non sono “humus” per lui, così lui non ne è funzionario, promotore culturale. Già la concezione di promozione culturale si riferisce, secondo il suo senso, a un’umanità autoreferenziale che è sradicata dal suo mondo di relazioni e gira su se stessa: “cultura” assolutizzata come costruzione umana riflessa in sé. 35. Quanto al vero senso della propria vita, ciascun uomo è solo. Anche l’amante, anche il sacrificante, anche il benedicente. L’essenza dell’essere umano è la solitudine. L’essenza della solitudine non è abbandono ma indipendenza in

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mezzo all’ente, sul fondo delle cose, nella vastità della natura che lo circonda, al cospetto di Dio. 36. La solitudine della morte, il ritrarsi dell’uomo da tutti i “ruoli” e dalla loro rispettiva importanza non è cosa che colpisca solo il morente; anzi è quella la vera e propria solitudine della vita umana come tale, anche se resta per lo più velata. 37. Sull’interpretazione di Nietzsche: la sua retro-interpretazione (interpretazion e smascheratrice), per es., della religione, della filosofia – come movimento negativo –, della chiesa, della morale ecc., è sempre una metodica petitio principii; irretitito (Verfangenheit) nel suo pregiudiziale antropocentrismo, egli procede sempre assumendo per valido ciò che vuole dimostrare: se Dio è solo una coperta idealizzazione dell’uomo, o magari un inganno pretesco, allora la chiesa non è altro che una struttura mondana troppo mondana, con astuti piani. 38. Una tesi importante: Nietzsche tenta in parte di produrre il concetto di “innocenza del divenire” tramite materializzazione [Entgeistigung], ossia, ponendo fuori azione il “contegno-al-proprio-essere”4. Questa felicità di natura, questo piacere naturale della “bestia bionda” non è affatto il senso filosoficamente essenziale dell’innocenza del divenire. Ristoro in seno alla natura, custodia della libertà entro la necessità naturale, sono per lui un desideratum della libertà liberata a nulla (dunque, proprio l’immagine stessa della decadenza in Nietzsche), mentre la sua filosofia positiva svela proprio la libertà positiva come gioco, come attività metafisica dell’arte. Non certo la salute animale risprofondata nel fondo naturale e ad esso vincolata è il suo vero modello d’esistenza, bensì quella dell’artista immerso nella terribile tensione delle forze creative, il giocatore delle Muse, che trasforma il caos in immagine e forma. 39. La religiosità greca non è il superamento di una religione chthonia, barbarica da parte dei luminosi dèi dell’Olimpo – ma la tensione dei due momenti; essi vivono nell’arco di questa battaglia di dèi, nel contrasto tra natura e libertà. I luminosi Olimpii sono solo sullo sfondo oscuro della natura, non sono dei vincitori, ma dei vincenti. Nella loro vittoria è compresa la presenza costante dei vinti, dei perdenti.

Le potenze terrestri soccombenti, Demetra, Hades, e i Titani (compreso Dionysos), portano gli Olimpii vincenti, ne sono lo hypokeimenon e, in un senso profondo, la sostanza, l’essere-in-sé. Gli dèi chthonii come le potenze terrestri: l’esser-in-sé della physis, la sua santità, il segreto da proteggere, il mistero che solo per segni si annuncia, mentre il dio di Delphi esce dal segreto velato e parla. Ma, anche allora, il suo dire accade nei sacri effluvii della Pizia.

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Formula di Heidegger in Essere e tempo (das Sich-zu-seinem-Sein-Verhalten).

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40. Origine della religione: 1. l’origine mitica nella rivelazione originaria, nel tempo della natura protettrice e dell’amicizia con gli dèi (età d’oro – terminata con la rivolta degli uomini; nella Bibbia: paradiso e cacciata).

2. l’origine entusiastica nell’incontro del singolo con Dio. 41. Mito e libertà: non è un rapporto antitetico. Un tale rapporto interviene solo tra il mito e il movimento negativo della libertà, nella rivolta dell’uomo. L’essenza della libertà positiva è sempre il legame entusiastico, una passione, una sorta di risveglio della rivelazione mitica originaria. Anche la più rivoluzionaria mutazione nel progetto del concetto di essere (per es. in filosofia) riaccende l'antichissimo splendore dell’IDEA dell’ENTE. Tutto ciò che è veramente nuovo è qualcosa di antichissimo, qualcosa di ETERNO. 42. Come la vita desta si rafforza nel sonno, così la spiritualità storica acutamente consapevole nello Stige della naturalità. 43. L’entusiasmo è l’estollersi della libertà al livello del superumano, l’autovincolarsi della libertà nell’elevazione catartica sopra il troppo umano, la riproposizione dell’esistenza storicamente libera nell’ambito divino dell’assoluta sovrapotenza. 44. La storia è intessuta da forze solo-umane e irruzioni mitico-entusiastiche nella storia.

Storia come evento rovinoso dovuto alle forze mitiche ed entusiastiche irrompenti thyrathen. 45. Nobiltà della malinconia: solo nell’anima malinconica, cioè in quella già per natura determinata da PRESENTIMENTO, MANCANZA, NOSTALGIA, si sveglia la filosofia. 46. L’essere dell’uomo: 1. Come libertà (libertà negativa e positiva); 2. Come gioco; come mancanza e nostalgia; come intermediazione (il mediatore5). 47. La nostalgia dell’IDEA come trascendenza dell’esserci umano in religione, filosofia, arte. 48. Solo perché l’uomo ha l’idea di un essere più essente e addirittura dell’essere massimamente essente può fare l’esperienza di della propria nullità, inautenticità, fugacità e, insomma, provvisorietà. Il concetto della caducità nessun animale lo può avere. Il sapere della mancanza, nell’uomo, è il luogo metafisico del postulato ontologico dell’ens realissimum, come pure della possibilità della filosofia come ricerca del <comparativamente> più essente. 5

Vedi af. N. 4.

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49. L’uomo come essere medio tra la natura e la libertà, tra l’animale e Dio, tra il nulla e l’essere (povertà e pienezza), tra vicinanza e lontananza da Dio, tra ascesa e caduta. (entusiasmo e spirito di gravità6) 50. La semplicità del credo ecclesiastico può essere un modo della protezione di Dio, come l’avevano ai vecchi tempi, quando Dio ancora parlava7 – ma può anche essere una ingenuità, una minimizzazione di Dio, appunto l’illusione di possedere quello che l’uomo intuisce fulmineamente solo nello slancio dell’entusiasmo. 51. Il conferimento di senso entusiastico dell’esserci, come contegno-al-tuttodell’essere al suo aprirsi, è la fondazione dell’apertura dell’esserci, la base e l’orientamentazione della vita umana nel parlare con gli dèi (Mosè sul Sinai)! 52. Il contegno all’essere di se stessi e all’essere di tutto l’ente è una costituzione storica dell'essere dell'uomo, che prende origine dalle posizioni fondamentali dell'uomo, che sono le grandi fondazioni della verità; queste fondazioni possono

a. avere un’origine divina e cioè: 1. in quanto accadute nel crepuscolo preistorico, in quanto protraentisi nei giorni aurorali della storia giungendo fino al presente come venerabili tradizioni, 2. come fondazioni storiche (e tradizioni storicamente vive) come appunto quelle dei grandi fondatori religiosi, filosofici e artistici; b. avere un’origine soltanto-umana, cioè nella quotidianità o negli imbarazzi umani, o in quella sfera del soltanto-umano che si pone in prometeico conflitto contro gli dèi. Entrambe queste forme creano una quantità di varianti deformate o miste (per es. la forma secolarizzata di un idealismo culturale che convoglia spezzoni di un originario idealismo culturale teocratico ed elementi prometidei). 53. L’uomo – un esistente rapporto del finito all’infnito, del condizionato all’incondizionato, del nullo [nichtiges] all’essente.

Cinque rapporti fondamentali essenziali: 1. la SEMPLICITÀ, nessuna tensione del fin ito all’infinito; 2. l’ULTIMO UOMO, l’arco dell’esserci è diventato piatto, piacere del finito, nessun ideale; 3. la TRASCENDENZA CREATIVA come grande salute della vita nella grazia degli dèi, apprezzamento anche del finito, croce circondata di rose; 4. la TRASCENDENZA INFELICE, la distanza tra finitezza e infinità è infinita, ribaltarsi della nostalgia su se stessa, disperazione, criticare la finitezza adducendo criteri infiniti (tipo Kierkegaard); 5. la TRASCENDENZA IN STRUTTURE FATTE DALL’UOMO, la forza di porre ideali c’è ancora, ma narcisisticamente irretita (verfangen) nel soltanto-umano. 6 7

Vedi Nietzsche, Zarathustra, discorso “Il sogno e l’enigma”. Vedi af. N.6.

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(Ad 1. = paradiso, la vita semplice in trasparenza sull’eterno, Filemone e Bauci; ad 2. = l’immagine deformata della semplicità; ad 3. = libertà nella grazia; 4. = esistenza dis-graziata; 5. = hybris e irretimento (Verfängnis) in sé. 54. Sulla concezione jerofantica del poeta, cf. Platone, Jone. 55. Proprio la concezione che l’umanità superiore è una grazia degli dèi e non un merito si presta a impedire che quello che è che un privilegio degli uomini creativi, degeneri in un’esterna posizione sociale di potenza. Essi sono i perseguitati [die Gejagten] dagli dèi. E tuttavia una riforma della vita moderna si può sperare solo con la guida [Führung] dell’élite, e quindi con un privilegiamento dell’élite. 56. Lo storicismo radicale, una forma del moderno nichilismo, non è solo la tesi della mutazione storica delle verità, ossia del loro esser-per-noi (che resta pur sempre riferito a un esser-in-sé, forse mai del tutto conoscibile), ma è la negazione dell’eterno essere stesso; esso attribuisce così alla mutazione storica una libera forza creatrice (implicite = l’essere è storia, la natura è una componente storica!).

Questa posizione è una forma della filosofia di riflessione, nella misura in cui l’esser-per-sé viene pensato senza l’esser-in-sé, è la libertà negativa dell’uomo moderno, irretito in se stesso, strappato da tutti i vincoli mitici ed entusiastici che lo legavano all’essere sovra-umano degli dèi e delle potenze terrestri. 57. La domanda di Nietzsche sull’uomo non riguardava un soggetto di coscienza, ma era rivolta all’uomo nel modo di esistenza della grandezza, quella che era stata dei tipi umani più alti (saggi, santi, artisti). 58. Descrivere l’irretimento, il nichilismo, l’autodeificazione, la hybris come possibilità essenziali – ecco un compito della nuova antropologia. 59. L’idea di Dio come l’ente massimamente essente è ciò che vivifica la vita dello spirito. 60. Interpretare l’uomo a partire dalla possibilità della grandezza umana e indicare i pericoli, che gli sono propri, della hybris, dell’autidolatria, dell’irretimento, del nichilismo come appartenenti al suo essere, è un compito importante della nuova antropologia. 61. La potenza dell’idea trascendentale dell’ente, che come in vista di cui (Woraufzu) e in grazia di cui (Worumwillen) attraversa il fenomeno è anche là dove l’uomo sembra sottrarsi a questo tratto; la mancanza di nostalgia e di presentimento dell’esserci che scade al fenomeno è un modo della nostalgia che tradisce se stessa col fare resistere all’attrazione potente dell’idea, proprio nella fissazione. L’uomo

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quasi si aggrappa al nullo essere del fenomeno. Altrimenti l’animale non illuminato dalla natgura del pensiero. Cfr. in proposito l’osservazione di Hegel che gli animali lasciano nella sua nullità il nullo essere del mondo sensibile divorandolo. 62. Non il concetto di Dio, offerto da una religione come base per la costituzione del concetto dell’ente massimamente essente! Questa è teologia cristiana. Ma a rovescio: l’idea filosofica dell’entissimum come base per il concetto di Dio. 63. In che rapporto sta l’esistenza creativa, entusiastica = cara a Dio e da Dio prodotta del giocatore delle Muse, con l’ethos moderno del lavoro? Ideale d’élite e ideale di massa? La grazia di Dio come stato delle Muse non è un modello sociale. 64. La domanda di Nietzsche sull’uomo non puntava direttamente al suo essere, bensì all’uomo nel modo d’esistenza della GRANDEZZA, cioè su quelli che finora sono stati i tipi più alti del saggio, del santo e dell’artista. 65. L’essere dell’uomo come libertà, come nostalgia, come gioco, come mediazione – questo è il mio àmbito di problemi. 66. Ideologia del lavoro? Contro il pathos aristocratico? L’esistenza creativa non si lascia formare come un premeditato atteggiamento verso la vita, alla fin fine per via istituzionale, né costituire secondo lo stile voluto. Involontariamente ciò accade nei popoli di grande vocazione – come i Greci; ma questo è un grande pericolo: non appena la passione creativa che fiorisce sotto la benedizione divina vince, decade il popolo. (Il Greco diventa il Levantino). 67. Rapporto con la tradizione: è la venerazione, che la comprende come insieme di costituzioni della vita, quelle che pur passate continuano ad avere efficacia e restano immagini dell’eterna essenza dell’uomo. 68. Lo scetticismo come atteggiamento di una negatività fissata, parimenti la rivoluzione permanente, la negazione nichilistica, il cercare Dio senza volerlo trovare. Cfr. l’intuizione di Hegel, che le forme dello spirito che si atteggiano a radicali siano in realtà negatività fissate, che non conoscono il movimento del nulla, la tremenda forza del negativo. 69. L’uomo: un ente che non è ma comprende il proprio essere come nullo nella premonizione di un ente più essente, reso inquieto dal pensiero e tormentato da questo comparativo, – che è essere-per-sé ma comprende il proprio essere nell’orizzonte del nulla e dell’ente massimamente essente, – un ente, dunque, che nel suo essere si rapporta ed è attratto da un summum ens cercato e da cercare, – che nella sua nostalgica mancanza vuol tornare a casa in seno al tutto dell’essere. 70. La premonizione dell’idea dell’entissimum è la luce originaria della ragione.

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71. Sulla situazione spirituale dell’epoca presente: annuncio di una prossima nuova religione terrena, che ha una voce essenzialmente rivolta alla riunificazione di tutti gli dei; Schelling, Bachofen, Hölderlin, Nietzsche, Rilke come profeti di questa RISORGIMENTO DELLA TERRA.

L’unificazione di tutti gli dèi = l’integrazione degli dèi nella divinità. Storicamente parlando, la unificazione di dèiè sempre stata un nuovo grado della fusione e della diffusione delle culture. Ci attende il compito di una cultura globale e di una religione globale. Il pericolo specifico è l’alessandrinismo, la sommatoria eclettica di elementi culturali eterogenei senza la forza dell’integrazione. 72. La filosofia della diffidenza, cfr. Nietzsche, Nachlaß, innocenza del divenire 1246. 73. La filosofia di Nietzsche? Non la sua psicologia del sospetto e dell’abisso, non la sua passione progettante ideali, non la sua critica dei tradizionali valori supremi e la sua lotta contro le idee moderne, non il suo nichilismo e il suo superamento di esso, non il suo ideale eroico, e neppure la sua ora sublime della più solitaria gioia, – no, solo la sua metafisica del gioco. 74. La lotta di Nietzsche contro il “mondo vero”, contro Platone, non è un sacrificio dell’anamnēsis, come non lo è la sua filosofia senza trascendenza, – ma ciò che egli vuole è proclamare l’apparenza vero essere, egli è sensibile al problema dell’essere; egli non ha la mancanza di problematicità dell’esistenza non turbata dalla trascendenza. Nietzsche è un idealista anti-idealista, così come è un immoralista moralista, un anticristo cristiano. 75. Eticità, diritto, stato e altre costruzioni dello spirito objettivo, si possono capire solo in base al modo d’essere della libertà. Un animale, non può avere per oggetto dei rapporti in quanto tali, non può avere istituzioni (come matrimonio, stato, onore ecc.). 76. Là dove le due potenze del mito e dell’enthousiasmos vengono concepite comel’essenza della vita, il sacerdozio è destinato ad esserne il tipo rappresentativo: il prete come mediatore del popolo nei confronti dei suoi dèi – nella religione, nell’arte e nella filosofia. 77. La coscienza [Gewissen] dell’homo religiosus nello stato della commozione entusiastica è immediatamente con Dio – ma non semplicemente come coscienza, bensì come coscienza dell’uomo che immediatamente con Dio, cioè dell’uomo entusiasta. La tesi di Lutero dell’immediatezza della coscienza a Dio era vera – per lui, ma non per chiunque.

Parimenti la tesi del protestantismo, ognuno è sacerdote, non eleva chiunque al sacerdozio, ma piuttosto abbassa il sacerdozio all’uomo 18


qualunque. Il protestantismo pone forse la libertà del sé di fronte a Dio?? Sì, nella forma della grande eccezione costituita dall’uomo creativoreligioso, di fatto però è una forma di hybris o addirittura una profanazione della religione. 78. Una radice dell’esistenza spirituale di Nietzsche era il protestantismo. 79. Il protestantismo ha smarrito l’origine mitica della religione e preteso un’immediatezza a Dio da parte del singolo che sussiste a buon diritto solo per chi nell’entusiasmo è chiamato da Dio. Se esso pone la coscienza come una costante chiamata di Dio all’uomo, suppone una costante relazione diretta con Dio. Quella che per ogni singolo è la suprema possibilità dell’entusiasmo, viene così falsata in uno stabile possesso dell’uomo.

Chi parla con Dio, non ha bisogno di alcuna tradizione e di alcun mediatore; ma ciò accade nell’esaltazione dell’entusiasmo: sul monte circondato di lampi, davanti al roveto ardente, o nell’ora più calma e assorta, questo accade ai profeti e agli alunni delle Muse. L’uomo eletto dagli dèi non è però la norma e non sta nella media. Ma proprio questa sorta di sottinteso è la tara del protestantismo; esso scioglie l’uomo dalla tradizione religiosa e gli assegna la sua sorda e cieca coscienza come regola e criterio della propria religiosità, quasi che parlare con Dio fosse come chiacchierare col vicino di casa. 80. Protestantismo come perversione della religione, come autoeliminazione del cristianismo! 81. Il protestantismo della teologia dialettica significa una rinuncia alle tendenze autodistruttive dell’uomo religioso nel protestantismo, un ritorno al principio della tradizione (ortodossia biblica), all’autorità della Scrittura, che è quasi il farsi-libro del sacerdote come mediatore tra l’uomo singolo e Dio. 82. Il cattolicismo, che a sua volta contiene diversi momenti della religione verace, quali sacerdozio, consacrazione, magia e simbolismo è bensì superiore al protestantismo nella sostanza mitica, ma inferiore ad esso in quanto non lascia libero alcuno spazio alla nuova irruzione di un incontro entusiastico con Dio nell’ordine costituito della sua fede. La rivelazione è conclusa. 83. La fine del Cristianesimo non deve essere la scomparsa di questa religione dell’amore, ma il rimpatrio di tutti gli dèi, la loro integrazione nell’“unico” che con ciò, come “fratello di Eracle”, reca sul volto eterno dell’uomo i tratti di Osiride e di Apollo. 84. La distinzione, spacciata dalla teologia critiana come fondamentale, tra politeismo e monoteismo non è filosoficamente così importante come i teologi

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vorrebbero pensare: nella molteplicità degli dèi è inclusa anche l’unità di Dio e nell’unità di Dio una molteplicità del divino. Dio è l’assolutamente-santo in unitaria molteplicità e molteplice unità. La relazione Dio e dèi va concepita come un rapporto di essenza e fenomeno. Il modello ontologico dell’ousia come forza vale soprattutto per l’ousia massimamente essente. Cf. in proposito il mistero cristiano dell “trinità del Dio uno”.

Il politeismo, che non si integra nell’unità di tutto il divino, e non riassume la forze divine nel loro fondo essenzialmente unitario, è un irrigidimento della religione vivente, una fissazione del “fenomeno” che non intende il fenomeno come l’apparizione scaturita dall’unità. La singola figura divina che non è più ebbra della vita della divinità si irrigidisce nell’idolo. Il monoteismo: come rigida fissazione dell’essenza, dell’unità, è un’astrazione che defrauda l’essenza della sua “essenza” (in senso verbale8); un essenza che non essenzia è il non senso di un assoluto senza forza. L’essenza dell’essenziare è il suo diventare fenomeno, il suo apparire; ecco il gioco vivente della forza, dell’uscire da sé dell’essenza nel suo opposto e della forza nella sua esternazione [Äußerung]. 85. L’astoricità dei tempi nei quali dominano posizioni assolute, per es. nel Medioevo, una forza o una debolezza della vita? In un certo senso è una integrità non incrinata, una sicurezza della vita, un radicamento in un terreno [Bodenständigkeit], – ma anche una carenza di problematizzazione, quindi, filosoficamente una immobilità, una mancanza di tensione; la differenza tra idea e concetto non affiora alla coscienza, il concetto sembra essere immediatamente l’idea, non c’è “vita dello spirito”, la vita sembra sana.

Eppure ha in sé il rapporto al sovrumano anche se nell’ingenuità di una fede nell’immediata vicinanza agli dèi, nel loro esser-presso di noi; questa elevazione nella vicinanza del divino, è ancora un esser-al-sicuro [Geborgenheit], quindi è ancora essenzialmente illibertà. La libertà liberata al proprio nulla, dell’uomo moderno, in sé irretito, è il contrappasso dell’esistenza sana, ma vincolata, epperò certa della vicinanza degli dèi. La totale insicurezza, come irretimento (Verfangensein) in se stessi di un essere che trascende se stesso, come prigioniero (Gefangensein) di se stesso, anzi delle proprie costruzioni, delle opere uscite dalle sue mani, come inquietudine, nostalgia senza meta, come trascendenza che si ribalta su se stessa (cf. Nietzsche la “grande nostalgia”); l’uomo deve diventare schiavo delle sue costruzioni, deve adorare i propri manufatti, quando non vuole più tollerare la sgnoria degli dèi; adora il vitello d’oro, quando nella sua superbia nega la preghiera agli dèi; l’uomo cade al sotto di sé quando non è più in grado di superare se stesso; egli è necessariamente un moto in ascesa al di sopra di se stesso o in caduta sotto di sé; è un essere senza un 8

= del suo essenziare.

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medio in quiete in cui possa riposare; non può restare in sé, l’inquietudine del concetto gli è imposta; “…il pensiero scaccia la spensieratezza…” (Hegel). Tra le due possibilità d’esistenza della trascendenza immota (unbewegt), aperta a Dio, ma ingenuamente priva di tensione, e la trascendenza in sé irretita, della libertà riflessa in sé, sta l’esistenza della nostalgia, l’esistenza dei concetti che intenzionano l’idea, l’autoaffermazione della libertà, come libertà-di-vincolarsi, come “mediazione”, come progetto, mirante all’esserautentico, l’esistenza nel pensiero dell’origine [Heimweh] e del ritorno a casa [Heimkehr], nella ricerca della patria [Heimsuchung]. La libertà, la più interna essenza e il sommo bene dell’uomo, la sua suprema possibilità di essere, è anche il suo più grande pericolo: il suo essere a somiglianza di Dio, può essere un tendere a Dio, ma anche ribaltarsi nell’autodivinizzazione. 86. La fissante assolutizzazione del “fenomeno” non sempre è quell’impotenza dello spirito a elevarsi alla coscienza [Bewusstsein] della propria vita profonda, può anche essere un moto negativistico del concetto, un tentativo di fronteggiare l’idea, un esplicito rifiuto dell’essere eterno, un’apologia dell’apparenza fuggevole, una tesi della nullità dell’ente nella consunzone del tempo; cf. l’antiplatonismo di Nietzsche (“Come il mondo vero è divenuto favola”). 87. Il moderno antropocentrismo e la scoperta della “storia” come tema filosofico? Che rapporto c’è tra loro? La forma moderna della coscienza storica è forse antropocentrica (nel senso della tendenza all’autoirretimento), e se – come tendo a pensare – questa fosse di per sé una necessità? È la coscienza storica a condurci all’irretimento antropocentrico, o viceversa, il narcisismo è eo ipso coscienza storica? Il narcisismo è pensabile senza storicismo, e così pure la coscienza storica senza barriere contro il sovrumano! Storicità e apertura all’eterno sono compossibili, anzi sono proprio le ore della vera grandezza umana, quelle in cui l’accadere storico si produce nell’apertura all’eterno, veraci ore stellari dell’umanità. Irruzione degli dei nello spazio umano: le epoche che misero in moto la storia con le grandi religioni, le arti e la filosofia, le fondazioni dei “mondi” dei popoli che aspiravano all’eternità.

Le culture nate dall’entusiasmo sono sempre interpretazioini della vita umana a partire dal sovrumano, esse hanno un “origine divina” che, nella decadenza, dimenticano. L’origine entusiastica di una cultura non è mai un possesso, non dura ma, come tutto ciò che è eterno, è solo un lampo nel tempo. L’essenza del tempo è scadimento; negatività (cf. la formula di Hegel: negatività della negatività). La commozione entusiastica non è un “soggiorno”, non dura, e non solo perché l’uomo non sa essere sempre “in elevazione”, ma soprattutto perché gli dèi sono sempre solo di passaggio e di passata concedono all’uomo l’eternità del loro sorriso. La grazia non è uno “stato”. 21


88. La questione oggigiorno tanto amata circa la “storia” è per lo più connotata da un concetto storico di storia, che gronda del narcisismo dell’anima moderna; un relativismo storico (dei circoli culturali, della razze, dei popoli, delle epoche, dei ceti, ecc.), una scepsi soggettivistica su verità che parlano dell’essere eterno.

Questa scepsi istorica è toto coelo altra da un qualche sia pur modesto tipo di sapere filosofico, per quanto possa presentarsi come “non-ingenuo”, “critico” ecc.; qui non si tratta affatto di un’intuizione della fondamentale storicità del progetto dei luminosi concetti originari (l’“ente”, la “verità”) che sorreggono ogni vita; perché questa scepsi riposa sul terreno immobile di un concetto ingenuo di ente (sostanza) e di verità, annulla il senso di quei concetti in quanto li abbassa a mere posizioni umane cancellandone così l’immanente orientazione verso l’idea. Le posizioni originarie, i “principi” dei concetti fondamentali, se sono filosofici, sono tendenziosamente e polemicamente rivolti all’idea del veramente-essente: questa idea è l’agens nella vita del concetto. In generale, una “storia senza un fine”, senza un’orientazione immanente, non è altro che un fenomeno naturale. Esigo la restituzione del concetto escatologico di storia. La storia è un fatto escatologico, altrimenti cessa di essere storia, cioè storia della libertà; solo nella trascendenza dell’uomo, nel vero trascendente autosuperamento dell’uomo, o nella trascendenza irretita in sé – sta l’ambito della storia. 89. Appartiene alla storicità dell’esistenza umana l’“oscurità” del futuro, che il futuro non sia fissato in anticipo, se deve essere possibile la libertà? O questo contraddice al concetto di escatologia? 90. Religione come tradizione mitica, come rivelazione originaria dai tempi sacri dell’amicizia con gli dèi, dall’oscurità arcaica che è nella coscienza di tutti i popoli come “paradiso perduto”, la sostanza delle grandi religioni positive: tutti i fondatori di religioni non hanno fatto che risvegliare, rivivificare la rivelazione originaria – sia pure in un entusiastico incontro con gli dèi. Questa mitica rivelazione originaria, la sacra tradizione (cf. il libro di L. Ziegler, Tradizione), è ciò che resta in tutti mutamenti e le battaglie degli dèi.

In una religione il mito non muore mai, non solo come “storia sacra”, ma come un sapere circa gli dèi che fluisce dai tempi più antichi: nell’àmbito del mito accade, nell’entusiastico incontro con gli dèi, si compie la “fondazione” di una religione. I fondatori di religioni non fondano la religione, ma forme storiche di religione – nel colloquio entusiastico con Dio nel monte circondato di lampi, davanti al roveto ardente. La religone c’e sempre già stata, ma non come la coscienza di Dio psicologicamente constatabile della “psicologia della religione”, quella impresa semplicistica di voler rischiarare la trascendenza

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dell’uomo dall’uomo, ma nel senso che la religione esiste già come tradizione mitica di una rivelazione originaria data dagli dèi stessi all’uomo. Il mito non è solo uno stadio preliminare della libertà, che svanirebbe quando l’uomo, uscendo dal tempo della magica protezione della natura, entrerebbe nella natura estraneata che caratterizza la sua libera esistenza; il mito non appartiene solo alla preistoria, ma impregna sia la preistoria che la storia, sia pure im modo diverso. 91. L’arte come necessità nazionale di un popolo, non è un ornamento dell’esistenza di un popolo, ma un esser aperto all’eterno – in mezzo alla lotta della sua storia. Nella sua grande arte un popolo ha il legame con quelle eterne potenze, che sono anche padrone del suo destino e quindi della sua storia. 92. La bellezza è la visibilità dell’idea – la sua esistenza nella diversità della natura che diventa il segno del pensiero. 93. La religione dell’arte: arte come servizio divino di un popolo, l’artista come mediatore tra gli dèi e il suo popolo, l’opera d’arte come ad-essenza del Dio – tutto questo è tanto antico quanto profondamente tedesco9.

Per il concetto dell’opera d’arte cf. Hegel, Encyclopädie, p. 304. 94. Un’opera d’arte è qualcosa di più del suo autore, ha un essere più forte di quello dell’autore: egli l’ha ricevuta dalla mano di Dio. 95. L’opera d’arte: apparenza [Schein] terrena dell’esistenza dell’ideale e, quindi, il fenomeno [Erscheinung] come lo “splendere dell’idea”. 96. Nessuna opera d’arte richiede l’interprete – è essa stessa il linguaggio più potente, che ci sia sulla terra. Il linguaggio dell’arte è la rivelazione del segreto e commuove l’anima come il mito. 97. L’opera d’arte non scaturisce dal vissuto artistico – come conseguenza ed espressione di esso (come vorrebbe dimostrare una teoria antropo-narcisistica dell’arte) ma precede il vissuto come un fondamento d’essere e una causa-prima

9 Per questa affinità profonda tra il greco-antico e il tedesco, vedi le ultime parole del testo (af. 108). Dopo la scoperta (anglosassone) dell’affinità tra il sanscrito e le principali lingue europee Hölderlin, Nietzsche, Heidegger e altri hanno più o meno sistematicamente difeso questa tesi. Chi protesta che, invece di “indogermanico” bisognerebbe dire “indoeuropeo”, non solo intende che della bella famiglia i primi membri sono oltre al greco antico e moderno, il latino e le lingue neolatine, ma sottintende altresì che le lingue cosiddette “germaniche” (nei due modelli inglese e tedesco) storicamente acculturate da Roma e quelle slave (acculturate da Bisanzio) emergono però comunque dalla koinē ellenistica (cioè dall’humus imperiale greco-romana). Difficile negare l’affinità tra la lingua greca e quella latina.

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che lo rende possibile. Non è il vissuto artistico dell’artista a rendere possibile l’opera d’arte, ma qui tutto si rovescia.

La vera intenzione artistica non mira mai al vissuto: non a quello dell’artista come riflesso della sua impresa, e neppure al proprio godimento, quasi che l’opera d’arte fosse un “bene di consumo”. Anche nella concezione dell’artista all’opera, non è il “vissuto” la prima cosa, ma la concezione creativa è un’anticipazione dell’opera e l’incanto attinge alla sua futura magnificanza. La produzione artistica non è in primo luogo una mera pianificazione soggettiva, ma l’opera possibile attira e seduce l’artista a fare della propria esistenza un tramite per essa. L’opera d’arte ha una pre-esistenza e quindi un segreto potere sulle anime più aperte, gli artisti. 98. L’arte è una possibilità riservata soltanto all’uomo; non l’animale, non Dio può produrre opere d’arte, cioè fare di sé il tramite di una magnificanza che entri n ell’esistenza. L’arte è un creare finito e, come tale, qualitativamente diverso da una creazione infinita. 99. L’opera d’arte come espressione del Dio – cioè esposizione dell’ente che ha la massima potenza d’essere, ma nel mondo del fenomeno. 100. È un’enorme errore, pensare che l’artista voglia comunicare i suoi vissuti, i suoi stati d’animo, le sue emozioni. Questo errore domina l’estetica moderna in una misura fatale. L’artista non vuole né comunicare se stesso, né in generale comunicare alcunché. Egli non degrada l’opera a “mezzo di comunicazione”. Egli vuole soltanto produrre una liberazione [Offenbarkeit] dell’ente10, del veramente essente, del divino, dell’essere bello, e porlo in opera. 101. L’operare artistico è un affaccendarsi, non si propone un contenuto emozionale, che per es. debba essere espresso in pietra e diventare una statua, ma il lavoro creativo si esercita di scalpello sulla pietra per conquistarsi la liberazione dell’eterno ed ecco là la statua riuscita.

10 Offenbarkeit, Offenbarung/ offenbarend hanno chiaramente lo stesso significato radicale, ma noi traduciamo la prima con liberazione, la seconda e la terza con rivelazione/ rivelare. Sia rivelazione che liberazione alludono a qualcosa che non è soggettivo, a una realtà che c’è già (l’essere, il vero, il bello, il divino) e va soltanto liberata dal suo velo, svelata, rivelata. Rivelazione (termine più conveniente al senso religioso) è infatti liberazione (termine più conveniente al senso artistico) dal velo (che può essere quello del peccato, ma anche solo quello dell’abitudine, il quotidiano). Fink insiste in modo particolare nel sottolineare il rapporto tra la divinità e l’arte, al punto da trasformare l’artista in un vero e proprio sacerdote o vate (il mediatore del divino al popolo). Il che concorda con il suo rifiuto apparentemente solo “cattolico” del sacerdozio universale luterano (dico “apparentemente” perché non mi pare che Fink consideri, grossolanamente, cattolico sinonimo di “quotidiano” e luterano sinonimo di “eroico”!).

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La gioia dell’artista non è un empito dell’interiorità che debba comunicarsi, ma la sua gioia sta nel vedere la sua opera, davanti alla quale si inginocchia e che ammira. 102. L’antica definizione dell’arte come mimesis è giusta – ma l’opera d’arte non ritrae la realtà effettuale del fenomeno, bensì l’idea. La raffigurazione dell’idea non è però tradurre in immagine una preesistente liberazione dell’idea, ma la produzione di quella liberazione dell’idea che, nella costruzione dell’immagine, accade. Nell’immagine, non in se stessa – come nel pensiero filosofico – si libera l’idea. L’opera d’arte dunque, non è l’espressione, bensì la produzione di una liberazione. L’opera d’arte è in quanto tale rivelante [offenbarend]. 103. La dotta spiegazione di un’opera d’arte con riferimento alla sua data di nascita, ai costumi e alla concezione della vita allora in auge, se pretende di essere davvero una spiegazione essenziale, è sbagliata in radice. Essa fa dipendere l’opera d’arte dal suo tempo, quasi fosse una rispecchiamento après coup di quel tempo, immagine ed espressione della sua epoca ecc. – invece di far dipendere la sua epoca essenzialmente anche dalla sua arte, cioè dalla forze e dalle verità che in un’epoca proprio grazie alla sua grande arte si aprono.

Le pitture di Michelangelo non sono immagini del Rinascimento (nel suo passaggio verso il barocco), bensì esse contribuiscono essenzialmente a “fondare” quell’epoca. La suddetta dotta spiegazione, nella spiegazione dell’arte, parte da quello che è un effetto dell’opera d’arte – dunque un controsenso di principio che fraintende l’arte come mimesis dell’esistente. 104. Ogni interpretazione di un’opera d’arte è superflua; non c’è spiegazione migliore di quella che l’opera offre da sé. Con ciò non si intende però rifiutare ogni interpretazione. Essa è possibile anche se non è necessaria. Ma se l’opera d’arte non abbisogna di un’interpretazione, non vuol dire che essa sia comprensibile da chiunque senza sforzo e senza modificare la propria abituale esistenza. Anzi, l’opera d’arte richiede all’uomo prevenuto nella sua quotidianità una modificazione esistenziale, una catarsi dell’anima, come un rendersi disponibile per l’eterno, e da parte sua l’opera d’arte, con la sua rivelazione [Offenbarung], produce un approfondimento di tale modificazione esistenziale. 105. L’arte non è mai il merito di uomini geniali, ma sempre la grazia degli eterni dèi che per bocca del mediatore parlano al popolo; è sempre il Dio che apre la bocca al poeta. 106. Nell’arte accade, da nessun bisogno sollecitata, la libera rivelazione dell’esistenza [freie Daseinsoffenbarung] di un popolo, il suo gioco – davanti a Dio.

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107. Arte vicina al popolo! Questo non deve voler dire abbassare l’arte al livello della massa, bensì, per opera dell’arte, trasformare la massa (– l’odierno uomo senza Dio è massa –) in un popolo. Le opere d’arte che penetrano in mezzo al popolo lo elevano e sciolgono le forze mitiche assopite, ben visibili marciano allora gli dei nella cerchia di un popolo, e i tempi dell’amicizia, custoditi nella saga, ritornano11. Nell’arte un popolo lascia entrare l’eterno nel giorno della sua storia e lascia tornare il mito nello spazio della sua libertà. Nell’arte, un popolo spinge in avanti la sua esistenza nazionale sotto l’eterno cielo. 108. Un popolo artistico non pone opere d’arte a testimonianza della sua esistenza – ché allora non sarebbe necessario fare opere d’arte; la sua potenza storico-terrena, quindi umana, esso la può documentare in modo monumentale in costrutti propriamente umani. Ma le opere d’arte sono monumenti del collegamento di un popolo con gli dèi durante la sua lotta per l’autoaffermazione sulla Terra… 109. Arte è creazione finita – e come tale nella sua essenza diversa dalla creazione infinita, nella quale il Creatore è sempre nel suo esserci più forte della sua creatura: Dio non ha fatto il mondo come un artista la sua opera.

L’arte come creazione finita è però anche diversa dal finito produrre costrutti, dei quali l’uomo resta padrone, la cui produzione egli padroneggia in una “tecnica” acquisita. Il manufatto sottostà all’uomo; il quale produce solo opere fatte con le sue mani, che hanno uno statuto d’essere inferiore a quello dell’uomo che le produce: strumenti che gli servono, che sono ontologicamente determinati in base a questa utilità per l’uomo. La precisione artigianale è una condizione della riuscita dell’opera d’arte, che dipende dall’uomo; ma appunto una condizione affinché l’uomo possa essere un tramite adatto all’opera d’arte che proviene dagli dèi. 110. “… Tu non ti farai alcuna immagine intagliata per adorarla…” – questo è l’imperativo di una religiosità che nega l’origine divina dell’opera d’arte. Questa negazione è segno di forza spirituale o dell'incapacità di elevarsi dalla sensibilità al pensiero? Tutto ciò che sin dall’antichità – cioè nell’arco teso tra potenza terrena e spirito – sta di fronte all’esistenza, sente la distanza dell’arte dalla religione come insana frattura dell’esserci.

11 Fink dice: che gli dèi treten in (entrano) e le forze mitiche ritornano. Ma la sua idea che le forze mitiche si risveglino suona come una profezia (e che profezia coraggiosa, dati i miti di massa – anzi, di guerra di masse – di quegli anni!). Perciò io traduco con “marciano” perché penso a un altro profeta, Satchmo, quando canta when the saints go marching in.

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Annotazioni Religione dell’arte e “metafisica dell’artista”: sono tratti profondamente affini, nell’essenziare greco-antico e in quello tedesco. La filosofia è per Fink un’esperienza precoce, adolescenziale (Kant e Bruno, la critica e gli eroici furori, erano stati i suoi modelli adolescenziali, e rimasero sempre nel suo cuore – tenace e fedele –, anche negli anni in cui visse fino al limite nel modo più rischioso e diretto il rapporto con la filosofia più arida e astratta del ’900: la fenomenologia, e con il filosofo più passionale, visionario e rigoroso del ’900: Edmund Husserl). Gli aforismi di questa singolare silloge, in cui Platone e Nietzsche sono sempre presenti, si mantengono tuttavia al livello più umile di appunti per una meditazione a venire (come l’opera dei successivi vent’anni dimostrerà). L’“eremita” vi si muove tra due poli: da un lato una personale posizione di solitudine e di rischio, dall’altro il problema dello spirito nelle forme classico-romantiche della triade religione, arte, filosofia. L’entusiasmo separa l’artista dal popolo, il sacerdote dal popolo, il filosofo dal popolo. Ma la filosofia, che qui scopre e celebra la fondamentale funzione del mito, cerca il suo spazio in rapporto alla religione e all’arte: infatti, mentre queste ultime sembrano assistite da Dio o dagli dèi (i quali, a loro volta, possono essere iperuranii, ma anche chthonii: come l’es di Freud o gli archetipi di Jung) alla filosofia sembra riservato un eigenes Risiko. La tesi neocriticista di Ernst Cassirer (Filosofia delle forme simboliche 192329), che la funzione mitica sia una componente strutturale e permanente della “ragione” umana (e non una curiosità di archeologia della cultura) passa, grazie forse soprattutto a Friedrich Nietzsche e alla scuola di Wilhelm Dilthey, in tutta l’antropologia filosofica del ’900, – ma ha in Italia la sua fondazione filosofica nella possente rivisitazione della Scienza Nuova di Vico, da parte di Benedetto Croce. Una rivisitazione che va ben oltre il magro bilancio che lo stesso Croce sembra trarne nella schematica conclusione del suo grande libro del 1911 La filosofia di Giovan Battista Vico. Nel saggio vichiano di Enzo Paci, Ingens Sylva (1949) una posizione centrale è assunta dalla problematica dell’immaginazione e del mito, mentre la tesi fondamentale di Cassirer risuona anche in quella grande recensionericapitolazione dell’antropologia contemporanea che Remo Cantoni inizia con la sua tesi su Il pensiero dei primitivi (1941). Negli stessi anni di questa Eremitie, maturavano da noi le ricerche di Raffaele Pettazzoni sulla cui rivista, Studi e materiali di storia delle religioni, già scrive Ernesto De Martino che, fonderà a Torino, con Cesare Pavese una collana di Studi religiosi ed etnologici. Quando nel 1961, con una raccomandazione di Enzo Paci, andai a studiare con Fink i manoscritti di Husserl a Friburgo, il milanese Giorgio Guzzoni, lettore d’italiano in quell’Ateneo, avendo saputo che avevo fatto un esame a Pavia con Lanfranco Caretti su Cesare Pavese mi invitò a parlargliene perché Fink aveva annunciato a Friburgo un seminario sul libro di Pavese Dialoghi con Leucò (1947). Parlai con Guzzoni per un pomeriggio intiero, finché mi accorsi che non voleva sapere nulla di quel poeta italiano ma, heideggerianamente, afferrare l’essenza di un suo eventuale, improbabile “pensiero” da accostare a quello di Heidegger (del quale fino a quel momento, avevo una conoscenza assai superficiale). Non mi risulta che quel seminario sia poi stato effettivamente tenuto negli anni successivi. Nel 1971

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tuttavia – mentre l’aggravarsi della malattia costringeva Fink a sospendere il proprio insegnamento – apparve il volume Epiloge zur Dichtung che si chiudeva con un seminario “Existenz und Natur (im Ausgang von Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò)” tenuto da lui stesso nel semestre invernale precedente e protocollato dal dr. Hans Ebeling (perché dall’anno precedente il dr. F.W. v. Herrmann, aveva cessato di essere l’assistente di Fink per dedicarsi integralmente alla Gesamtausgabe di M. Heidegger). A. M.

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Eugen Fink, Elementi di una critica a Husserl (primavera 1940)* <1> Appunti del periodo della stesura del “Trattato sulla ricerca fenomenologica” (primavera 1940 – Il manoscritto, compilato fino a metà, è andato perduto in seguito agli eventi bellici!). 1) In Husserl la coscienza dell’uomo non è vista nella sua differenza specifica dalla coscienza animale e ulteriore (per esempio dalla coscienza di puri spiriti o di Dio); la sua essenza non è cioè l’essere-diretta, il riferimento intenzionale, poiché quest’ultimo c’è in ogni forma di coscienza; la coscienza umana è il contegno di un sé, cioè un tenersi in rapporto al suo essere presso l’ente, vale anche a dire un tenersi espressamente in rapporto all’essere degli oggetti intenzionali. 2) Le pretese fatte di sobrietà e di pathos della fenomenologia husserliana: un “lavoro realmente applicativo”, un “reale disbrigo dei problemi con studi faticosi” ecc. – tutto ciò non deve valere filosoficamente più di un fico secco. Il sudore del lavoro non è ancora un argomento. Il pathos husserliano del lavoro è solo un lato dello stile antispeculativo del suo pensiero. 3) Il reinserimento della ricerca fenomenologica nella filosofia (la mia esigenza!), l’antagonismo tra speculazione e analisi può dar frutti solo quando il concetto speculativo apre la condizione di possibilità del comprendere analitico. 4) La concezione husserliana dello stile descrittivo-analitico è determinata dal suo pregiudizio nei confronti della tradizione speculativa della filosofia (speculativo = formale = astratto = primato del concetto = lontananza dall’intuizione!). <2> 5) Il “milieu” spirituale di Husserl: positivismo, psicologismo, scienza della natura. Dal positivismo Husserl ha tratto l’atteggiamento antimetafisico, antispeculativo e l’idolo della datità, dallo psicologismo il concetto dell’intenzionalità, dal culto delle scienze naturali la formale idea-guida di una filosofia come scienza rigorosa. È il milieu della fine del XIX secolo (intuizione scientifico-naturale del mondo senza metafisica, psicologia dei fatti di coscienza, culto positivisico dei fatti); tre nomi: Mach – Brentano – Weierstrass! 6) La descrizione come atteggiamento è lo stare aperti per l’ente nella sua pienezza; questo stare aperti deve però provenire da un aprirsi, da un’autoobbligazione della libertà umana – e non, come in Husserl, in quanto vincolo che non discende da un progetto, ma vincolo rispetto a una data rappresentazione del “dato”. * Elemente einer Husserl-Kritik (Frühjahr 1940), Unitätsarchiv Freiburg, E 15 – 441. Ringraziamo la Sig.a Susanne Fink per avere autorizzato la pubblicazione, in traduzione italiana, del testo inedito del marito, che apparirà, nell’originale tedesco, nel vol. 3/4 (c/ di R. Bruzina) della Eugen Fink Gesamtausgabe, Alber, Freiburg/ München.

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7) Il metodo di Husserl è anzitutto, con riguardo all’ente, “descrizione”, con determinati pregiudizi sulla natura del concetto e del linguaggio nella rappresentazione di una descrizione immediata; dal lato del sapere è “analisi”: differenziazione infinitesimale e dispiegamento del sapere dell’ente dato.

Una descrizione senza progetto, senza posizione del concetto del dato, è positivismo cieco al concetto; l’analisi senza relazione al pensiero speculativo, dunque l’analisi che dispiega all’infinito solo un sapere dato, è chiacchiera. 8) La fenomenologia di Husserl è lontana dall’arte; non è un caso che Husserl non pose mai all’arte delle domande filosofiche. <3> 9) Disposizione per il “Trattato sulla ricerca fenomenologica”:

a. Descrizione e analisi. b. Ideazione e conoscenza d’essenza. c. Intuizione e concetto. d. Oggetto ed ente. 10) La filosofia vuole porre in questione le “ovvietà”. Ma c’è una sicurezza che tutte le ovvietà siano state “poste” come tali [in questione]? O non sono spesso attive e oltremodo efficaci delle potenti ovvietà proprio nel modo (nel metodo) di cercare e di mettere in questione le ovvietà? Un compito: esaminare i presupposti dei metodi che cercano di raggiungere l’“assenza di presupposti”, per esempio della riduzione fenomenologica. La forma di Husserl: determinate ovvietà vengono fissate in una metodica che non è trasparente a se stessa quanto ai pregiudizi e ai presupposti che la guidano.

Una forma più radicalizzata della riduzione come desideratum: esame delle posizioni che si attuano nei concetti originariamente illuminanti [urlichtende Begriffe]. 11) Il metodo della epochē, dell’astensione dalla credenza nell’essere, è forse giusto e importante solo se siamo noi stessi l’ente più essente? Se questo presupposto non è giusto, se il nostro essere è quello della relazione all’ente più essente (della nostalgica relazione alla mancanza), allora l’epochē sarebbe alla fine perfino la chiusura alla prossimità dell’ente in senso autentico, lo smarrimento in noi stessi. 12) Il concetto di “ricerca fenomenologica” è usato spesso in modo vago nella letteratura contemporanea. È necessario distinguerlo nettamente da questi concetti vaghi:

a. dall’equiparazione con <4> il coglimento descrittivo e la riproduzione del dato in generale; b. dall’atteggiamento morfologico delle scienze descrittive della natura; c. dal ritegno del comprendere (dell’afferrare un dato in quanto...); 30


d. dall’“atteggiamento prescientifico verso la ricchezza fenomenale del mondo della vita”; e. dalla concezione che la ricerca fenomenologica sarebbe neutrale nei confronti dei punti di vista filosofici, che dal canto loro sarebbero interpretazioni d’un materiale reperito in modo puramente objettivo [sachlich] e controllabile intersoggettivamente (cf. Nic. Hartmann); dall’interpretazione della ricerca fenomenologica come una propedeutica pre-filosofica alla filosofia; f. dall’interpretazione per cui la ricerca fenomenologica sarebbe un metodo separabile da ogni filosofare condizionato individualmente, una specie di strumento intersoggettivo di ricerca. 13) L’essere aperti per la “cosa (stessa)” [Sache], la dedizione alle cose [Sachlichkeit], propria della fenomenologia, è in senso forte la liberazione catartica dall’“irretimento”, il superamento dell’“interesse” umano per le cose fisiche [Dinge]. Il pericolo specifico di questo atteggiamento: il perdersi nella cosa data, cioè la paralisi del progetto catartico, l’irrigidimento nel dogmatismo della “objettività” [“Sachlichkeit”]. Solo la posizione della objettività delle cose stesse, il progetto di un modello ontologico di objettività, rende possibile un atteggiamento puramente dedito alla cosa stessa come atteggiamento filosofico. 14) Nel “Trattato...” la fenomenologia di Husserl deve essere criticata nel suo astorico impostare di nuovo, nella sua mancanza di riferimento all’antichità, nel suo rifiuto della speculazione, nel suo tralasciare un progetto preliminare dell’idea di filosofia, <5> nel suo progetto dogmatico d’un metodo, nella sua idea conduttrice di una scienza rigorosa, nella sua autoinibizione per via delle sue pretese programmatiche. 15) Descrizione e analisi! Chi mena la danza? È la descrizione che richiede l’analisi o viceversa? La descrizione è anzitutto = al coglimento di ciò che sta dinanzi senza interpretazione, senza una precezione [Vorgriff] comprendente, senza pregiudizio: ritegno di fronte a ogni tendenza interpretativa ed esplicativa! L’analisi è = alla disamina di ciò che sta dinanzi, dunque equivale a non prenderlo così come si dà, nella ricchezza con cui si dà, ma a penetrare e dispiegare una ricchezza implicita e nascosta; il sapere della cosa viene riconvertito nel processo della conoscenza, che deve essere al tempo stesso tenuto desto nella molteplicità delle sue differenze e fasi; è dunque una contromossa contro la tendenza naturale della vita alla semplificazione e all’oblio, un infinito sbrogliamento della coscienza.

L’analisi è sì possibile solo in maniera descrittiva, cioè in concetti per principio successivi. Ma la descrizione non è necessariamente analisi, poiché la descrizione potrebbe essere anche il riprendere un reperto in modo del tutto ingenuo, dunque rimanendo sul terreno della comprensione abituale. 31


16) Presupposti taciti della teoria husserliana del mondo della scienza come un mondo di “simboli e di formule sostitutive”: a. le formule e i simboli sarebbero retroriferiti, nell’impiego e nel punto di partenza, al mondo della vita, sarebbero riferiti a cose sensoriali, che sono le cose della vera realtà effettuale, mentre i costrutti metrico-matematici sarebbero solo abbreviazioni per processi conoscitivi intorno appunto a queste cose sensoriali. In questa tesi di Husserl <6> si fa un uso dilettantesco di distinzioni concettuali: in primo luogo il rapporto di “meramente pensato” e “effettuale” non è determinato al di là della mancanza di pensiero propria del senso comune; in secondo luogo il rapporto tra “esperienza vissuta” e “realtà effettuale” è visto in modo del tutto volgare, nella misura in cui all’aspetto sensibile, evidente ai sensi, vengono accordati valori d’esperienza vissuta più forti che agli oggetti accessibili solo nel pensiero. Forse che il pensiero non è un’esperienza vissuta? E inoltre l’esperienza vissuta, anche nella sfera cogitativamente pigra del senso comune, si limita all’esperienza del mero sensibile? O non è la realtà effettuale, vissuta immediatamente senza la fatica del pensiero, una realtà riempita di significatività storiche, dunque un mondo che mostra, al di là dell’aspetto sensibile, un patrimonio di caratteri magici, mitici, religiosi, etici ecc., che è ogni volta diverso, secondo la determinata situazione storica, ed è poi ancora diverso come mondo quotidiano d’un popolo o come mondo della sua emotività, delle sue grandi ore storiche, del suo mondo poetico, del mondo della prossimità o della lontananza degli dei? 17) La metodica della ricerca fenomenologica [può essere considerata come] derivata anzitutto dal ragionamento [Räsonnement] del “sano intelletto umano” al cospetto del grande numero di filosofemi, e dunque come un inizio di quella condotta prefilosofica di vita, che si ritiene ingenuamente in diritto di riformare la filosofia. Husserl in lotta continua, per tutta la vita, contro questa sua ingenuità; la ricerca fenomenologica forma i suoi principi anzitutto in una situazione che è senza riferimenti alla filosofia antica e moderna; essa ha perciò anzitutto un terreno <7> indurito da pregiudizi non filosofici, se non anti-filosofici. L’effettivo filosofare di Husserl dovette attuarsi sempre contro l’ostacolo, approntato da lui stesso, del metodo concepito in anticipo – in una continua e radicalizzante trasformazione e in un rovesciamento interpretativo del senso del programma metodico. Lo scopo di una “scienza rigorosa”, che consisteva inizialmente nell’assunzione del modello metodico della matematica, nel corso dello sviluppo filosofico di Husserl viene sempre più rivoltato fino a mettere in questione lo stile metodico delle maniere di conoscenza matematico-logico-fisicalistiche. 18) La noiosa descrizione di tutto ciò che via via affiora alla bocca ciarliera o alla penna corriva di uno “psicologo della coscienza”, – vendere per filosofia questi esercizi di stile si poteva tentare solo in un tempo in cui il senso della vera essenza della filosofia era come scomparso. 19) Perviene Husserl in modo descrittivo-analitico a una scoperta di “presupposti” e “pregiudizi” – oppure ogni conoscenza del genere è in linea di principio, tutt’altro che un’analisi descrittiva (alla fine persino un movimento di

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concetti, una “esperienza” nel senso di Hegel)? Non significa questo, rispetto a pregiudizi facilmente riconoscibili, una radicalizzazione del concetto di “pregiudizio”, se questo può essere conosciuto solo nell’abbandono, nel sottrarsi al suo potere, nel rifiuto di lasciarvisi catturare [Befangenheit]. 20) È possibile in generale descrivere, in modo attendibile e valido, fintantoché non è fissato il modello ontologico dell’ente come oggetto della descrizione? <8> 21) L’esigenza d’uno stile analitico per la filosofia è l’esigenza di una coscienza di simultaneità infinitesimale, di una sorta di onniscienza finita, d’una attualità permanente del conoscere, di un primato della conoscenza sul sapere. Analisi = il sapere in statu nascendi, la continua presentazione [Präsentation] (antispeculativa e anticoncettuale).

Il ruolo della “sfumatura” [come] fondamentale nell’analisi! È questa una sensibilità per il rigore del concetto o proprio il contrario? Impronta specificamente husserliana: analisi come analisi di senso, cioè come elaborazione e messa in luce di ciò che è co-inteso, dunque come analisi intenzionale. La decisione di Husserl per l’analisi è decisione per un’estensione aconcettuale di descrizioni: ciò che altrimenti è vissuto come flusso deve ora essere vissuto in modo da fissarsi espressamente in un’interiorizzazione introspettiva della vita con un senso per le più sottili differenze. 22) Solo la più piatta povertà di pensiero può opporre l’atteggiamento teoretico come contemplazione alla vita attiva! È la teoria una indifferenza esistenziale o una azione della libertà umana, in cui l’uomo si vincola all’ente stesso? 23) È l’analisi fenomenologica più di una “chiarificazione” analitica, e dunque solo un’evidenza della chiarezza? 24) È una ingenuità quella di credere che basterebbe essere tranquilli, rivolgersi a se stessi, stare solo in ascolto e guardare, non fare proprio nulla, per pervenire all’atteggiamento teoretico; piuttosto, è un’azione della libertà quella di rendersi liberi per <9> la tacita ed eterna facciata delle cose, per il loro essere infinitamente semplice. Comunemente noi siamo sempre storditi dal rumore che facciamo e in cui siamo immersi, vediamo con gli occhi avidi dell’utilità, nell’urgenza dei nostri bisogni e interessi che distorcono la visione. “Essere disinteressati” è solo un distacco dagli interessi comuni-abituali; la teoria è però infinitamente di più, persino già come pura descrizione!! 25) La pretesa programmatica di Husserl d’una scienza rigorosa è un postulato extrafilosofico, ed è anche esterna alla sua vera e propria filosofia.

L’aspetto singolare dell’impostazione della fenomenologia è che essa comincia con dei pesanti pregiudizi sulla natura della filosofia e, nel 33


tentativo di realizzare il suo programma, deve diventare infedele a esso. Per esempio la a-sistematica “filosofia come lavoro”, che Husserl pretende programmaticamente, diventa nel corso del tempo sempre più un “sistema” costruito, oppure la proclamazione dell’istanza del dato viene revocata nella concezione di una “fenomenologia genetica”, che lavora in modo straordinariamente intenso con delle costruzioni. 26) La fenomenologia di Husserl non attua mai una discussione con la tradizione filosofica (fatta eccezione per la sua interpretazione di Descartes e degli empiristi inglesi); sua “interpretazione” della filosofia antica come un aver di mira la “scienza” (nel senso moderno a-metafisico) (per esempio le idee di Platone come principio di un essere-in-sé fisico-matematico delle cose). Dunque una interpretazione manifestamente errata.

La fenomenologia di Husserl non ha alcuna relazione propria con la <10> metafisica e con la storia della metafisica (cioè non con la metafisica nel senso del “progetto ontologico”); essa non è però solo un rifiuto della metafisica, ma un fraintendimento. 27) Bisogna stare esplicitamente attenti a come nelle modificazioni delle sue idee conduttrici Husserl non proceda secondo l’idea conduttrice da lui inizialmente dichiarata, ma la modifichi nell’approfondire il suo filosofare. In queste modificazioni risiedono gli autentici inizi e i veri principi della fenomenologia husserliana, in esse risiede l’inespressa contraddizione di Husserl, trascinato dal suo filosofare, contro il “programma” da lui stesso proposto. Così per esempio l’idea di una rigorosa assenza di pregiudizi non implica ancora la tesi dell’“essere del mondo” come un “pregiudizio”. È decisiva qui, dunque, la scoperta dei pregiudizi, il riconoscerli come tali, prima che siano rimessi al metodo della epochē. È proprio un atto fondamentale della filosofia rendere vistosa l’ovvietà dell’ovvio; infatti come è ovvio, l’ovvio è sottratto dalla sua stessa ovvietà a ogni interrogazione.

In quanto Husserl pone come “presupposto” ciò che altrimenti non vale come presupposto o come pregiudizio, egli modifica proprio il concetto corrente di assenza di presupposti e di pregiudizi. In altre parole, assumendo già ora il pregiudizio e il presupposto in un senso filosofico, Husserl radicalizza in un senso inusitato l’idea conduttrice. Dunque non è dal senso noto di pregiudizio o di assenza di pregiudizi, che si deve procedere per comprendere il procedimento di Husserl <11> per es. a partire dalle richieste esplicite del suo metodo, ma proprio al contrario: la posizione di Husserl di qualcosa come pregiudizio è l’elemento decisivo, che solo conferisce al metodo dell’assenza di presupposti il suo senso filosofico. La questione è solo: in quale metodo il pregiudizio (in senso filosofico) è trovato, è scoperto e riconosciuto come tale? Questo metodo di scoperta è anch’esso una “descrizione senza pregiudizi”? Evidentemente no. Inoltre, quali sono i taciti presupposti del metodo da Husserl non-tematicamente usato per la scoperta filosofica di “pregiudizi”? 34


Bisogna dunque distinguere: a. il metodo dichiarato di Husserl prima della filosofia, b. la trasformazione filosofica di Husserl del metodo dichiarato (attraverso un metodo non tematico, non messo metodologicamente in risalto, della scoperta di qualcosa come d’un pregiudizio che non risiede nell’orizzonte abituale di possibili pregiudizi), c. i presupposti impliciti e silenziosi del metodo husserliano, ora anche radicalizzato, della epochē relativa ai pregiudizi, per esempio la concezione di una “autodazione” originaria. Forse l’idea di un’assoluta assenza di pregiudizi è un pregiudizio!! 28) L’atteggiamento filosofico è altrettanto lontano da una credenza dogmatica che da una scepsi paga della sua negatività. 29) Husserl non supera l’apparizione, ma cerca piuttosto il ritorno alla “immediatezza” e la sua riabilitazione. <12> 30) La tendenza di Husserl all’immediatezza della vita, al superamento del predominio dell’essere cosale, alla risoluzione dell’essere stabile nella formazione vivente, dunque la tendenza contro il “naturalismo”: con ciò tuttavia l’elemento soggettivo è impostato non come libertà, ma come “costituzione intenzionale del mondo”!! La tendenza alla vita come tendenza al coglimento della vita vivente-fluente, che in generale è il presupposto ontico dell’avere cose. 31) Husserl assolutizza l’apparizione, ma la fissa come assoluta, cancella l’ente in sé, cancella la trascendenza di ciò che è oltre-umano (del theion) e pone assolutamente la soggettività finita. 32) La filosofia di Husserl non conosce una metaphysica generalis, cioè una teoria dei concetti originariamente illuminanti. La filosofia di Husserl appartiene alla tendenza moderna a espellere l’ente autentico dall’ambito del domandare umano, appartiene alla situazione dell’orgoglio di sé dell’uomo come “autonomo soggetto di cultura”. 33) Domanda di fondo: Husserl analizza una evidenza dell’ente, o cerca prima l’ente autentico? La fenomenologia è filosofia proprio nella misura in cui in essa è viva una ricerca, per quanto nascosta ne sia la forma. 34) È più facile discutere i “metodi” espliciti di una filosofia, che gli atteggiamenti per così dire ancora sospesi, non ancora condensati in metodi espressamente rilevati, che costituiscono per così dire l’atmosfera di un filosofema, quell’intero quasi inafferrabile di presupposti taciti. 35) Riguardo all’atteggiamento della fenomenologia verso le cose stesse: <13> è sbagliato essere “objettivi” [sachlich], senza porre che cosa sia la cosalità

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[Sachheit] della cosa, come lo è giudicare del conoscere, prima che esso si sia accostato alla cosa. 36) L’atteggiamento antispeculativo di Husserl come fuga dal concetto, dall’universale verso la più differenziata “concretezza”. Ma la contrapposizione universale-particolare non è qualcosa di veramente corrispondente a quella di speculativo e analitico. 37) Preoccupandosi di rimanere fedele al proprio dichiarato “programma metodico” posto preliminarmente, la fenomenologia di Husserl si mantiene sotto il suo vero livello filosofico. 38) In Husserl, il posto lasciato vuoto della metafisica tradizionale è occupato dalla logica come “ontologia formale” (che però in verità non è neppure una ontologia, ma una teoria formale dell’oggetto). 39) Nella sua interpretazione Husserl snatura la filosofia antica nella “scienza”, l’idea platonica nella “idealizzazione”. 40) Perché Husserl nelle sue Idee invece di iniziare con l’atteggiamento naturale e la riduzione, vi premette un capitolo su fatto ed essenza? Per motivi sistematici, che non mette in rilievo: all’interno dell’atteggiamento naturale e del fondamentale objettivismo che lo contraddistingue, noi abbiamo anzitutto l’objettivismo delle scienze, come egli documenta esemplarmente in matematica e in logica (nelle scienze d’essenza in generale). 41) L’atteggiamento dell’immediatezza non sa del suo essere-immediato, ma si ritiene assoluto; è un compito <14> fondamentale della filosofia conoscere e determinare l’immediatezza come tale e con questo trarre fuori da essa l’esserci che vi è irretito, facendolo riflettere in se stesso. L’atteggiamento mondano [Welthaltung] immediato è (valutato filosoficamente) la comprensione ristagnante dell’essere, un ristagno dell’“esperienza ontologica”. 42) Il filosofare di Husserl comincia come critica dello psicologismo (Brentano), del positivismo (Mach, Avenarius) e dello scientismo (Weierstrass) (come a. accentuazione della correlazione intenzionale nella logica, b. allargamento del concetto d’intuizione a ogni modo fondamentale di evidenza, c. opposizione all’essere indiretto, alla mediatezza, all’abbreviazione algoritmica). Ma proprio in questa critica, Husserl rimane vincolato ancora a ciò che è criticato; egli non si svincola mai da questi avversari; essi determinano, in quanto sono combattuti, la sfera del suo filosofare. Husserl non riesce a liberarsi più dal “problema delle scienze”: la fondazione delle scienze è un fondamentale interesse del suo filosofare; ma nel perseguimento di questo scopo egli scopre la sfera “prescientifica” e infine, domandando ulteriormente in modo retrospettivo, scopre

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la “coscienza assoluta” – cosa che sbocca in una teoria “trascendentale” della scienza, che contiene tutte le scienze mondane [mundan]. 43) La “ricerca fenomenologica”, irrigidita metodicamente = l’ingenuità dell’assenza di concetti, che si riflette in una massima [sott. “alle cose stesse!”], una sorda avversione al concetto. L’essenza del concetto è il coglimento, la posizione del progetto originariamente rischiarante. <15> 44) In che misura la tesi (di Hegel), che la filosofia è anzitutto il “dare i suoi concetti”, è (detto in riferimento alla fenomenologia di Husserl) qualcosa di completamente diverso dall’esigenza di una critica preliminare della conoscenza, ma anche da una specie di metodo cartesiano del dubbio, e anche da un’analisi fenomenologica dell’origine dei “concetti”?

Il dare i concetti è la posizione del concetto dell’ente, e precisamente non come di una rappresentazione soggettiva dell’ente, che non riguarda per nulla l’ente in se stesso, ma è il progetto dei concetti ontologici fondamentali, che sono già alla base di ogni distinzione dell’ente in sé e della sua rappresentazione soggettiva. Il dubitare, quando aumenta, può costituire una reale disperazione del concetto, ma troppo spesso esso perviene solo a una critica della sensibilità, in una reiterazione della scepsi antica (senza peraltro il suo atteggiamento ontologico di fondo). 45) L’apertura della filosofia husserliana è altrettanto un difetto che un pregio: è indice di un’incapacità sistematica o un carattere di libera disponibilità per il sistema delle cose? 46) Con riguardo alla pretesa di voler riformare la filosofia attraverso i metodi fenomenologici d’indagine, non si deve prima operare una riforma dell’indagine filosofica mediante la filosofia? 47) Idoli dell’“indagine fenomenologica”: l’idolo dell’assenza di presupposti, l’idolo dell’assenza di pregiudizi, l’idolo della datità immediata, l’idolo del metodo dell’epochē, l’idolo della <16> precedenza dell’immanenza, l’idolo della fondazione ultima. 48) Un crasso pregiudizio della descrizione fenomenologica è la rappresentazione di una semplice datità, soprattutto di giudizi cogitativi come di fondamenti antepredicativi di giudizi espliciti. 49) La fenomenologia di Husserl è nel suo atteggiamento fondamentale un rifiuto della storia, un’inettitudine al concetto, una rinuncia all’autoformulazione della filosofia.

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50) In Husserl non c’è nessun progetto di filosofia come triplice autoformulazione (con riguardo al problema, alla maniera di sapere, all’atteggiamento esistenziale), e tuttavia c’è una “critica” della miseria filosofica dei nostri giorni, che scade talvolta fino all’objezione corrente contro la molteplicità discorde dei sistemi. 51) La mancanza di presupposti in Husserl è un’idea formale, che egli realizza poi come ritorno alla fatticità originaria dell’“ego cogito”, nella credenza di aver trovato un presupposto non più aggirabile di tutto l’ente. 52) L’atteggiamento negativo di Husserl verso l’idea del sistema della filosofia ha il suo fondamento nella sua concezione del “concetto” come un elemento derivato, fondato, riferito all’intuizione. 53) La fenomenologia di Husserl cominciò con una battaglia contro il primato del metodo (per esempio della scuola di Marburgo), comunque nella posizione di un metodo che rinuncia alle argomentazioni metodologiche e alle intricate questioni di teoria della conoscenza, in quanto presunto <17> coglimento immediato della pienezza data della realtà effettuale. La polemica di Husserl contro il metodologismo è di un senso del tutto diverso da quella di Hegel: per Hegel l’objezione di Husserl sarebbe ancora molto ingenua: obbjettività [Sachlichkeit] senza il concetto della cosa [Sache]. 54) La vaga forma generale della ricerca fenomenologica: nessuna metodica come atteggiamento conoscitivo preparato artificialmente, ma un guardare imparziale, non prevenuto, ma realmente contemplante le cose, un dare la prima e l’ultima parola alla cosa stessa, un cercare e percorrere un accesso libero e non falsato alle cose [Dinge], una descrizione priva di pregiudizi delle cose [Sachen], così come si mostrano direttamente in se stesse in questo guardare, senza omissioni e aggiunte, senza interpretazione e spiegazione, puramente nell’importo della loro effettualità.

Alle cose stesse!: potrebbe essere un imperativo della metafisica, se inteso come ricerca di ciò che è autenticamente e veramente. Ma in Husserl il logos della fenomenologia non esprime un rivolgersi all’ente, ma solo all’oggetto nella sua data datità; dunque una rinuncia alla metafisica, che si interpreta come fame di realtà effettuale, di pienezza di realità [Realitätsfülle]. Quale figura dello spirito è questa posizione della coscienza? La visione illusoria di un’immediatezza, di un puro e semplice registrare un ente che sta semplicemente lì, una cosa già pronta per noi. La cosalità delle cose non viene né discussa né compresa. Si dice all’incirca: i concetti hanno essi stessi il loro modo <18> di datità immediata e schietta, sono una regione di oggetti di “modo ideale di essere”, sono fondati ecc.

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55) In Logica formale e logica trascendentale di Husserl è stato perfezionato l’incrocio caratteristico di due motivi particolarmente chiari: 1. la domanda che fa ritorno riflessivamente dall’atteggiamento diretto alla vita soggettiva; 2. la domanda che ritorna dal mondo della scienza al mondo della vita e da lì alla costituzione trascendentale. Questi due motivi stanno nel rapporto per cui il secondo è la ripetizione radicalizzata del primo.

Un primo grado della fenomenologia è l’ordinamento di tutte le evidenze; distacco dall’ideale normativo tradizionale dell’evidenza logicomatematica. Ritorno dunque alla coscienza dell’oggetto, correlativa a esso; la “anonimia della vita soggettiva” = un modo attenzionale negativo; coglibilità (percettibilità) riflessiva e immediata della vita soggettiva = fenomenologia statica. Il secondo grado: la veduta nell’ordinamento occultato delle evidenze, facendo ritorno alla storia sedimentata e dimenticata della formazione di senso, che è alla base dell’essere oggettuale degli oggetti di senso logicomatematici = “fenomenologia genetica”. La fenomenologia genetica di Husserl va distinta nettamente, nella sua posizione di problema, dal problema prediletto nello psicologismo: “origine della rappresentazione di spazio”, della “rappresentazione di cosa”, della “rappresentazione di tempo” e cose analoghe; infatti l’empirista <19> psicologistico presuppone sempre, come già essente, ciò di cui vuole indagare l’origine psicologica. Husserl interrompe metodicamente questo “presupporre come essente” e supera (in una metafisica fantastica della soggettività) da un lato il problema psicologistico, ma dall’altro rimane impigliato in esso in una forma sublimata. 56) Nelle esposizioni su Husserl viene per lo più ripreso solo uno dei tre momenti di milieu, che riposizionano il suo punto di partenza a-storico (nel senso della storia della filosofia), ma condizionato storicamente, per esempio l’intenzionalità o il ritorno al dato o la visione di essenze o lo stile scientistico. Ma è proprio la reciproca influenza di positivismo, psicologismo e scientismo che costituisce l’habitus pre-filosofico della fenomenologia; così per esempio Husserl ha una teoria positivistica dell’intenzionalità (perfino con forti motivi sensistici), una interpretazione intenzionalistica della “datità”, una teoria scientistica della intenzionalità. Tutti i tre momenti, tuttavia, in una costante trasformazione e rimaneggiamento! L’idea della dazione nell’originale si trasforma nella “coscienza originaria”, poi nella costituzione originaria; l’idea della scienza pervade il rovesciamento dell’idea oggettivistica in un’idea soggettivistica della scienza; l’idea dell’intenzionalità si trasforma nella costituzione. Ricadute nelle posizioni iniziali e nei corrispettivi ragionamenti ricorrono sempre di nuovo in Husserl come “ricadute”.

(trad. Riccardo Lazzari) 39


Riccardo Lazzari, Sull’inedito finkiano “Elementi di una critica a Husserl” Il testo inedito di Fink che abbiamo qui sopra pubblicato, recante nell’originale il titolo Elemente einer Husserl-Kritik1, risale alla primavera del 1940, stando alla datazione riportata nel dattiloscritto contenuto nel Nachlass finkiano depositato presso l’Università di Friburgo i.B. (con la sigla E 15 – 441). Insieme con gli aforismi del periodo di guerra che compongono Eremitie (E 15 – 103), qui pure pubblicati in apertura del presente volume, questi appunti saranno editi all’interno del tomo quarto del volume terzo della Eugen Fink Gesamtausgabe presso l’editore Alber (Freiburg/ München). Il terzo volume delle Opere complete, di cui finora sono apparsi i primi due tomi2 (mentre è annunciata l’uscita del terzo entro l’anno), non è solo importante per ricostruire la genesi del pensiero di Eugen Fink – vale a dire dell’ultimo e più giovane allievo e collaboratore di Edmund Husserl, che aveva preso il posto di Heidegger, dopo la “defezione” di questi dagli sviluppi in senso trascendentale della fenomenologia, nel ruolo di indispensabile interlocutore nell’esercizio di un “Mitphilosophieren” fra maestro e allievo –, ma anche per illuminare una pagina fondamentale dell’intera vicenda della “fenomenologia friburghese”. Grazie al paziente lavoro di trascrizione dei manoscritti finkiani e alla cura editoriale di Ronald Bruzina, questo volume complessivo della Gesamtausgabe raccoglie sotto il titolo Phänomenologische Werkstatt (ossia “laboratorio fenomenologico”) le annotazioni e i progetti inediti3 stesi da Fink negli anni di assistentato con Husserl e oltre, i quali testimoniano non solo i primi passi del suo pensiero, a partire dalle domande che egli si poneva già alla fine degli anni Venti, al tempo della tesi di dottorato, ma anche le discussioni che si svolsero pressoché quotidianamente nel corso di un decennio (dal 1928 al 1938) fra il giovane assistente e l’anziano fondatore della fenomenologia, fino alla scomparsa di questi nell’aprile del 1938. Noi cercheremo qui di delineare per sommi capi il contesto biograficointellettuale in cui presero forma gli appunti critici della primavera del 1940, alcuni dei quali erano già stati pubblicati da Guy van Kerckhoven nel suo 1 Desidero qui ringraziare Alfredo Marini per i preziosi suggerimenti e per l’aiuto generoso nella traduzione del testo degli Elementi di una critica a Husserl. 2 Eugen Fink Gesamtausgabe, Bd. 3, Phänomenologische Werkstatt, Teilbände 1-2, hg. v. R. Bruzina, Karl Alber, Freiburg/ München 2006-2008. 3 Ad eccezione del testo della VI. Cartesianische Meditation, già pubblicato nel 1988 in due voll. nell’ambito di “Husserliana – Dokumente”. Cf. il testo del primo vol. in tr. it.: E. Fink, VIª Meditazione Cartesiana, ediz. it. c/ di A. Marini (con tr. parziali di A. Marini, R. Lazzari, M. Mezzanzanica, A. Gilardoni, S. Marchesoni), Franco Angeli, Milano 2009. Una riedizione della Sesta meditazione è prevista come Bd. 2, c/ di G. v. Kerckhoven, all’interno della Eugen Fink Gesamtausgabe.

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libro Mondanizzazione e individuazione. La posta in gioco nella Sesta Meditazione cartesiana di Husserl e Fink4. Essi furono scritti da Fink nello stesso periodo in cui concepiva un Trattato sulla ricerca fenomenologica, del quale è conservato nel suo lascito solo un abbozzo dattiloscritto di pochi fogli, mentre il manoscritto originale (che peraltro rimaneva incompiuto) è andato perduto a causa degli eventi bellici. Dal marzo del 1939 Fink era emigrato a Lovanio in Belgio, dove grazie al contributo suo e di Ludwig Landgrebe, ma grazie soprattutto all’iniziativa del padre francescano Herman Leo Van Breda, era stato trasportato dalla Germania nazista e posto in salvo l’imponente lascito dei manoscritti husserliani. Nell’anno di permanenza a Lovanio Fink è impegnato non solo a tenere per la prima volta lezioni e conferenze presso la locale Università5 – cosa che fino allora gli era rimasta preclusa a Friburgo per via della sua prossimità all’“ebreo” Husserl –, ma anche a impostare, insieme con Landgrebe, la trascrizione dei manoscritti di lavoro di Husserl. L’attività di Fink a Lovanio ha un brusco termine con l’interruzione della “drôle de guerre”: in seguito all’invasione tedesca del Belgio, nel maggio del ’40 egli venne arrestato dalle autorità belghe e deportato nel sud della Francia. La sua detenzione in un campo di prigionia vicino a St. Cyprian dura fino alla capitolazione della Francia e all’armistizio con la Germania (22 giugno). Dopo un breve ritorno a Lovanio in luglio, nell’ottobre Fink è costretto a rientrare in Germania e ad arruolarsi nella Wehrmacht; è quindi assegnato alla contraerea come soldato semplice – rifiuta infatti la carriera di ufficiale in cambio di una sua “riabilitazione” –, e svolge i suoi compiti di avvistamento per lo più nei pressi di Friburgo, fino alla fine della guerra. Sono per Fink anni di isolamento e solitudine rispetto a ogni forma di vita culturale, ma non di sospensione del pensiero filosofico, come ci testimoniano le intense meditazioni aforistiche raccolte in Eremitie. È all’Università di Friburgo che Fink, finita la guerra, consegue finalmente nel 1946 la venia legendi e può iniziare la sua attività di docente, ottenendo due anni dopo la cattedra di filosofia e scienza dell’educazione. Il testo che egli presenta per conseguire l’abilitazione è quella Sesta meditazione cartesiana, che era stata da lui scritta nel 1932, vale a dire nel momento più intenso e significativo della discussione del giovane assistente con Husserl, ma che non gli era servita l’anno successivo – nel contesto politico ostile nei confronti di Husserl, determinatosi a seguito della 4

Ediz. it. c/ di M. Mezzanzanica, Il melangolo, Genova 1998, p. 50 e p. 89s. Cf. ivi, p. 79, dove in una nota Kerckhoven ci informa sui temi su cui lavorò Fink nell’ambito di un seminario speciale sulla filosofia tedesca contemporanea. Cf. anche R. Bruzina, Edmund Husserl & Eugen Fink. Beginning and Ends in Phenomenology 1928-1938, New Haven and London 2004, p. 525. Vd. in generale la “Biografia di Fink”, scritta dalla vedova Susanne Fink, nella tr. it. di L. Bisin in: A. Ardovino (c/ di), Eugen Fink. Interpretazioni fenomenologiche, NEU, Roma 2011, p. 165-75. 5

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“rivoluzione” nazista – per ottenere la libera docenza.6 “La mia abilitazione – commenterà Fink la situazione finalmente favorevole per lui creatasi nel 1946 – fu proposta dal senato accademico come un caso di ‘riparazione politica’ e fu concepita come la reintegrazione della tradizione di Husserl”7. Presentando il testo della Sesta meditazione cartesiana (peraltro destinato a rimanere inedito fino al 1988), Fink sembrava dunque porre la sua abilitazione sotto l’egida di una “continuazione creativa” del pensiero di Husserl e degli impulsi intellettuali da lui ricevuti8. Del resto, chi più di lui aveva maturato una profonda conoscenza di tutta l’immensa mole dei manoscritti inediti di Husserl, e al tempo stesso poteva vantare un rapporto creativo, non di dipendenza passiva, con il suo pensiero? Scriveva Fink nel 1945, in una testimonianza autobiografica connessa al conseguimento dell’abilitazione, relativa agli anni della sua collaborazione con il maestro: Husserl ha riconosciuto la mia autonomia spirituale proprio per il fatto di cercare sempre la mia opposizione produttiva e la mia critica, di cui egli aveva bisogno come stimolo per l’oggettivazione delle sue idee creative. Così ebbero origine in questi […] anni i più importanti manoscritti di ricerca. In quel tempo, in cui Husserl cercava di mettere al sicuro il raccolto della sua lunga vita di ricercatore, io ho agito per lui, per così dire, come catalizzatore spirituale.9

Ciò nondimeno già nella sua prima Vorlesung del 1946, dal titolo Introduzione alla filosofia, Fink avrebbe dato il segno di una discontinuità rispetto tanto al pensiero di Husserl, quanto alle sue stesse precedenti ricerche dell’anteguerra fino allora pubblicate, e manifestato un orientamento di pensiero in larga misura autonomo da quello del fondatore della fenomenologia, nel senso di promuovere ora un’originale ripresa del problema cosmologico e di pervenire a una riformulazione in chiave 6

Vedi. le testimonianze di Fink riportate nel libro sopracitato di Bruzina, p. 36s. Vedi. la lettera di Fink a Van Breda del 26 ottobre 1946, cit. da R. Bruzina nella “Translator’s Introduction” a Fink, Sixth Cartesian Meditation, Indiana University Press, Bloomington, Indianapolis 1995, p. XXXIV. 8 Vd. la lettera di Fink a Gerhart Husserl (figlio del filosofo) del 25 ottobre 1946, cit. da R. Bruzina in Edmund Husserl & Eugen Fink, cit., p. 530. Non si trascuri la circostanza per cui Husserl, nella Prefazione a un saggio dell’allievo pubblicato nel 1933 nelle “Kant-Studien” (“Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik”), aveva scritto che “in esso non c’è nessuna frase che non farei completamente mia, che non potrei riconoscere esplicitamente come una mia convinzione personale”, presentando Fink come l’interprete fedele e “autorizzato” del suo pensiero. Il Vorwort di Husserl è ripubblicato in E. Fink, Studien zur Phänomenologie, Nijhoff, Den Haag 1966, p. VIIs.; cf. la tr. it. c/ di N. Zippel, Studi di fenomenologia, Lithos, Roma 2010, p. 45s. 9 Questo passo è tratto dalla memoria finkiana del giugno 1945, tuttora inedita, intitolata “Politische Geschichte meiner wissenschaftlichen Laufbahn”, ed è cit. da R. Bruzina in: “Unterwegs zur letzten Meditation”, in: F. Graf (c/ di), Eugen-Fink-Symposion Freiburg 1985, “Schriftenreihe der Pädagogischen Hochschule Freiburg”, Bd. 2, Freiburg i.B. 1987, p. 73. 7

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cosmologica della Seinsfrage impostata da Heidegger. Si trattava beninteso di una discontinuità pur nella continuità del problema di fondo che motivava il filosofare finkiano e il suo rapporto con la fenomenologia trascendentale. Noi sappiamo infatti che all’inizio Fink aveva cercato in questa la possibilità di un autentico rinnovamento del problema più antico della filosofia, identificando “la domanda fondamentale della fenomenologia” con la “domanda sull’origine del mondo”, com’egli scriveva nel celebre saggio del 1933, pubblicato nelle “Kant-Studien”, sulla Filosofia fenomenologica di Edmund Husserl nella critica contemporanea10; ora invece, nel dopoguerra, Fink esplicita quella che gli sembra proprio una lacuna di fondo della fenomenologia – “a monte” di ogni possibile ritorno, attraverso la riduzione, a una soggettività trascendentale-costitutiva –, e la ravvisa in una insufficiente problematizzazione di quel fenomeno del mondo che, se non può essere pensato nella modalità semplicemente objettiva dell’atteggiamento naturale, non può nemmeno essere concepito come la formazione di una soggettività universale nel suo fungere ultimo – e che soprattutto non può valere soltanto come l’orizzonte degli atti di una soggettività umana comunque concepita, da esplorare a partire dall’atto di percezione. Nella prima Vorlesung del 1946 Fink afferma che il mondo, “nell’interpretazione di Husserl dell’atteggiamento naturale, appare al margine, e precisamente come l’orizzonte della nostra vita mondana naturale, smarrita nelle cose”, e in questa maniera esso “viene sì scorto come fenomeno, ma al tempo stesso di nuovo allontanato” (come questione di fondo della filosofia). Pertanto, se Husserl abbandona tale questione, “noi – afferma Fink programmaticamente – la riprendiamo espressamente”: “noi poniamo il problema del mondo”11. Senza negare il debito che lo legava alla fenomenologia husserliana, Fink lasciava così intendere che egli ormai guardava a essa da una certa distanza critica. A segnare questa distanza è quella linea di confine che era stata tracciata negli appunti inediti del 1940.12 Ma torniamo al periodo precedente la guerra. Dopo la morte di Husserl è verosimile che Fink cercasse in primo luogo di tracciare un bilancio dell’esperienza maturata a fianco del maestro lungo anni di intense discussioni e di progetti comuni lasciati in sospeso, pervenendo a un punto fermo riguardo al concetto di fenomenologia e d’indagine fenomenologica. 10

E. Fink, Studi di fenomenologia, tr. it. cit., p. 172. E. Fink, Einleitung in die Philosophie, Königshausen und Neumann, Würzburg 1985, p. 34 (cf. la tr. it. di A. Lossi, Introduzione alla filosofia, ETS, Pisa 2011, p. 52). 12 Le annotazioni che compongono gli Elemente einer Husserl-Kritik vanno peraltro considerate in relazione alle altre annotazioni finkiane del periodo di Lovanio fra il 1939 e il 1940 (vd. nella fattispecie le annotazioni raccolte nelle cartelle da Z-XXVI a Z-XXX, secondo la catalogazione di R. Bruzina per lo Eugen-Fink-Archiv di Friburgo), che saranno pubblicate nel vol. 3/4 della Gesamtausgabe finkiana. Ampie anticipazioni sono date da Bruzina nel cap. 10 del suo Edmund Husserl & Eugen Fink, cit., in partic. p. 533s. 11

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Tale compito tuttavia, nella misura in cui imponeva di ripensare la filosofia di Husserl fino ai suoi presupposti, e di ripensarla da una distanza critica rimasta fino allora problematica, presentava più di una difficoltà, dato il carattere di un pensiero – quello husserliano – che era stato sempre in sviluppo e che in nessuna delle sue fasi, nemmeno nell’ultima, sembrava offrire una “dimora in cui poter sistemarsi comodamente”13. Non si poteva anzitutto far riferimento a un testo di Husserl in cui la sua fenomenologia avesse trovato una esposizione compiuta, in qualche modo definitiva. Quasi tutte le opere di Husserl pubblicate in vita – rimarcava Fink nel ’38 in un necrologio del maestro14 – rimanevano solo “introduzioni”, “ponti” che dovevano condurre con pensieri generali fin là dove cominciava il lavoro analitico, ossia alla dimensione dell’autentico lavoro fenomenologico, che non è mai disponibile come un terreno di senso già dato. Nei suoi scritti – affermava Fink – Husserl aveva soltanto voluto preparare la possibilità di una comprensione di questo lavoro analitico, il quale restava consegnato essenzialmente ai manoscritti inediti di ricerca (cf. ivi, p. 94). Scriverà più tardi Fink, in uno sguardo retrospettivo del 1959 sull’ultima fase di ricerca di Husserl, che in fondo egli ambiva a trasformare in veri problemi di lavoro le domande della metafisica: “la trasformazione di ‘tesi’ in lavoro, di problemi in estesissime analisi divenne il motivo conduttore del suo pensiero”15. Mutati alcuni termini della questione, si tratta di un giudizio simile a quello che Fink aveva esposto in un breve, denso bilancio del 1939 dello svolgimento della fenomenologia husserliana, secondo cui Husserl, nella fase friburghese della sua ricerca, era convinto di “adempiere alle intenzioni dei grandi trascendentalisti su dei percorsi analitici”16. Per questa comprensione della fenomenologia, che ci sembra attraversare l’intero arco della riflessione finkiana, essa andava intrinsecamente commisurata a un’esigenza che, in ultimo, la fenomenologia condivideva con la speculazione filosofica (pur nel riconoscimento che “il suo abito teoretico non è affatto ‘speculativo’”)17, e si giustificava la possibilità di progettare

13 L’espressione ricorre nel testo della conferenza di Fink del 1959 “Die Späthphilosophie Husserls in der Freiburger Zeit”, ora pubblicato nella raccolta di scritti finkiani sulla fenomenologia intitolata Nähe und Distanz, c/ di F.-A. Schwarz, Alber, Freiburg/München 1976, p. 205s., in partic. p. 225. 14 Il Nachruf inedito dedicato a Edmund Husserl, del luglio 1938, è stato pubblicato in Nähe und Distanz, cit., alle p. 75-97; vd. in partic. p. 93s. 15 Cf. Fink, “Die Späthphilosophie Husserls in der Freiburger Zeit” (1959), in Nähe und Distanz, cit., p. 207. 16 Si tratta della “Vorbemerkung des Herausgebers” alla pubblicazione dell’inedito husserliano Entwurf einer “Vorrede” zu den “Logischen Untersuchungen” (1913), uscito in: “Tijdschrift voor Filosofie” 1939, 1, p. 106-8. 17 Così Fink nel saggio del 1933 apparso nelle “Kant-Studien” (cf. Studi di fenomenologia, cit., p. 174).

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una fenomenologica “scienza assoluta”18, con tutti gli importi non solo terminologici di ordine speculativo che questa sembrava richiedere, per es. nella tendenza finale della Sesta meditazione ad esprimere il movimento intrinseco alla vita trascendentale come un pervenire-a-se-stessa, un passare dall’essere-in-sé e dall’essere-fuori-di-sé all’essere-per-sé. Ne derivava pure una tendenza ulteriore – inedita nella fenomenologia di Husserl – a cercare un’intima affinità fra l’idealismo trascendentale della fenomenologia con le forme di “idealismo mondano”, e in particolare con la filosofia di Hegel19, la quale acquisterà più tardi uno specifico rilievo nella “dialettica” onto-cosmologica della fase più matura del pensiero di Fink. Si può dire che sin dall’inizio del suo dialogo filosofico con Husserl Fink aveva cercato di piegare la fenomenologia ad una finalità di tipo sistematico, per la quale passava in primo piano – rispetto alla vocazione di Husserl per una filosofia come analisi intenzionale, come infinita esperienza intuitiva della coscienza che costituisce il mondo – l’esigenza di offrire il quadro di insieme, la “totalità” in cui ogni singola analisi trovava la sua collocazione. Già nell’Introduzione alla tesi di dottorato del ’30 dal titolo Presentificazione e immagine – certamente il lavoro di Fink più sostanziato da ampie analisi e descrizioni fenomenologiche, concepite nel genuino spirito di quell’indagine che Husserl esigeva dai suoi allievi – Fink scriveva che “nessuna singola analisi esiste per virtù propria”, ma “ciascuna tende alla totalità del sistema”, essendo essa guidata e mossa da una “domanda fondamentale”20. Da qui nasceva la tendenza finkiana a far valere nella fenomenologia il principio per cui la descrizione e l’analisi non possono prescindere dalla forza costruttiva del pensiero, nel senso del progetto preliminare che le orienta, e a cercare conferma di questo principio nello “slancio critico-speculativo” che Heidegger aveva conferito alla fenomenologia21. Da qui nasceva anche la propensione dell’indagine finkiana a muoversi prevalentemente sul piano della totalità dei fenomeni, a progettare una fenomenologia costruttivo-speculativa, che non teme di interrogarsi su strutture di totalità per principio non-date22. Si può dire che la nozione – variamente declinata da Fink – del “non-dato” (così come quella, ricorrente solo nelle note di lavoro, del “meontico”) diventa costitutiva della modalità in cui egli pensa il concetto di fenomenologia: 18

Cf. il § 11c della VIa Meditazione cartesiana, cit., p. 133-51. Ciò si giustificava alla luce di una sorta di epoche dell’interpretazione abituale di Hegel, che sospendeva l’“applicazione dei concetti mondani e logici a ciò che Hegel dice”, come Fink specificava nel colloquio con Dorion Cairns del 23.9.1932: cf. D. Cairns, Conversation with Husserl and Fink, Nijhoff, The Hague 1976, p. 97. 20 E. Fink, Studi di fenomenologia, tr. it. cit., p. 50. 21 Cf. la nota finkiana (databile intorno al 1930) Z-VII XIV/3a, pubblicata in Phänomenologische Werkstatt (Gesamtausgabe 3/2), cit., p. 22. 22 Cf. soprattutto il § 7 della Sesta meditazione, in partic. p. 72 della tr. it. cit. 19

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tendenzialmente come una fenomenologia della non-datità, che si riferisce a fenomeni non tematizzabili a partire da una presenza in senso ontico, ma che esigono in qualche misura di essere “costruiti” a partire da una radicalizzazione ulteriore dei problemi della fenomenologia genetica (come nel caso della propria nascita e della morte, dei problemi generativi in generale, dell’origine delle rappresentazioni dello spazio e del tempo; e, ancora, dello stato di veglia come originale apertura al mondo, o del sonno come stato di chiusura). Anche omettendo qui di considerare più da vicino questi e altri risvolti della concezione finkiana di una fenomenologia costruttiva e dell’apertura di questa fenomenologia al pensiero speculativo (come per es. nell’indicazione programmatica di una “metafisica fenomenologica”23), possiamo fissare questo: per Fink l’analisi intenzionale non doveva chiudersi nel suo perimetro (il limite che in ultimo egli rimproverava a Husserl, ritrovandosi in ciò implicitamente in sintonia con Heidegger), ma doveva mirare a un risultato complessivo, per il quale ogni singola questione si integra in un intero, che viene in ultimo assicurato attraverso un’autocritica trascendentale della fenomenologia medesima. Questo motivo teorico – che noi ritroviamo alla base del progetto finkiano di una “fenomenologia della fenomenologia” al centro della Sesta meditazione cartesiana – si era incontrato nei primi anni Trenta con un’analoga esigenza maturata nel pensiero di Husserl nella fase finale della sua attività: quella di arrivare a una visione d’insieme dell’impresa della fenomenologia, se non di conferire ad essa una forma sistematica. Che a ciò facessero seguito solo dei progetti incompiuti, e che la diffidenza di Husserl per ogni scorciatoia “costruttiva” prendesse sempre il sopravvento sul tentativo di pervenire a qualcosa che assomigliasse a un “sistema” della filosofia fenomenologica, è quanto può documentare la vicenda di una riscrittura comune di Husserl e Fink delle Meditazioni cartesiane e della stesura di una nuova Sesta meditazione, che rimase senza un esito editoriale. Se ora, dopo l’aprile del ’38, si era interrotto il filo di un dialogo diretto e quotidiano con il maestro, si faceva però urgente per Fink l’esigenza di una rimeditazione di ciò che ne era scaturito per un decennio, nella prospettiva di una ricomprensione globale del significato della fenomenologia per la filosofia come tale. Né a questo punto si giustificavano più altre remore, come la fedeltà personale a Husserl dopo il ’33 (nel momento in cui questi scontava un crescente isolamento nel suo paese e viveva quasi come un “fuoriuscito interno”), che trattenessero ancora Fink dall’esplicitare un disagio profondo per lo “stile antispeculativo” del pensiero husserliano. 23 Cf. Fink, VI. Cartesianische Meditation, Teil 2, Ergänzungsband, hg. v. G.v. Kerckhoven, in: “Husserliana–Dokumente”, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht-Boston-London 1988, p. 8.

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Troviamo così che nei primi mesi dopo la morte di Husserl e durante la permanenza a Lovanio Fink cerca, per lo meno in due riprese, di tracciare un bilancio del pensiero del fondatore della fenomenologia. Il primo è costituito dal progetto di un saggio sul Problema della fenomenologia di Edmund Husserl, che appariva nel 1939, solo nella parte iniziale, sulla “Revue internationale de philosophie”24 e che riprendeva l’abbozzo inedito, risalente al 1937, di uno scritto sullo Sviluppo della fenomenologia di Edmund Husserl25. Il secondo tentativo è costituito da quel Trattato sulla ricerca fenomenologica a cui abbiamo già fatto cenno, in previsione del quale (o comunque in relazione al quale) sono scritti gli Elementi di una critica a Husserl. Ciò che Fink si proponeva con questi lavori – dal taglio più interpretativo il primo, più esplicitamente critico il secondo26 – era un “reinserimento della ricerca fenomenologica nella filosofia” (com’egli scrive negli Elementi). Ma la filosofia come tale domanda sempre in direzione della totalità (“Philosophie aber frägt immer ins Ganze”)27, e ciò non può non ripercuotersi su una teoresi, come quella husserliana, che voleva essere essenzialmente Arbeitsphilosophie, nel senso di una “filosofia al lavoro” che ha davanti a sé “un’infinità di lavoro analitico, un orizzonte aperto all’infinito di indagini concrete”28 – una teoresi che si fondava sul dinamismo dell’intuizione, senza passare subito al concetto. È intorno a questo motivo, principalmente, che si giocano le osservazioni critiche di Fink della primavera del ’40 nei riguardi della fenomenologia di Husserl. Il fatto che entrambi i lavori progettati da Fink fra il 1939 e il 1940 non siano ripresi nel dopoguerra, e che egli sembri rinunciare al disegno di un’esposizione complessiva della fenomenologia husserliana29, non è solo 24 Tit. orig.: “Das Problem der Phänomenologie Edmund Husserls”. Nella stessa forma incompleta sarà riedito da Fink nel 1966 in: Studien zur Phänomenologie 1930-1939: vd. ora l’ed. it. cit., Studi di fenomenologia, p. 267-318. 25 Tit. orig.: “Die Entwicklung der Phänomenologie Edmund Husserls”, ora in Nähe und Distanz, cit., p. 45s. 26 In un’annotazione successiva ad una conversazione con Landgrebe della primavera del 1940, Fink chiariva, in relazione ai due lavori, che “là [nell’articolo del ’39] il tema è un’interpretazione della filosofia nella ‘fenomenologia di Husserl’; qui è questione del pericolo specifico della fenomenologia, ovvero della svolta che distorce i motivi originalmente filosofici in un metodo, dogmatico e afilosofico, di ‘ricerca fenomenologica’”. L’annotazione è cit. da Bruzina in Edmund Husserl & Eugen Fink, cit., p. 535. 27 L’espressione, ricorrente in Fink, è qui tratta dalla Vorlesung del sem. inv. 1946/47, intitolata Philosophie des Geistes, edita c/ di F.A.-Schwarz, Königshausen & Neumann, Würzburg 1994, p. 11. Sul significato di questo ciclo di lezioni, all’inizio dell’insegnamento di Fink a Friburgo, vd. lo studio di S. Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo, Mimesis, Milano 2012, p. 111s. 28 Cf. il saggio finkiano del 1934 “Was will die Phänomenologie Edmund Husserls?”, ora in: Fink, Studi di fenomenologia, tr. it. cit., p. 265. 29 Sul fatto che Husserl rimane per Fink sostanzialmente un “problema aperto” si sofferma convincentemente S. Bancalari nel suo studio “Fenomenologia del non-originario. Fink interprete di Husserl”, in: A. Ardovino (c/ di), Eugen Fink, cit., p. 11-33.

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l’effetto dell’interruzione, imposta dagli eventi bellici, del percorso iniziato a Lovanio, ma costituisce per così dire la ratifica della difficoltà di venire a capo, restando sul terreno della fenomenologia, del problema di una “sotterranea tensione”, se non di un “antagonismo latente”30, tra indagine fenomenologica e filosofia: tra un paziente e incessante lavoro di analisi delle formazioni di senso dei fenomeni, svolto in un atteggiamento intuitivo e al tempo stesso riflessivo, e il momento genuinamente filosofico, consistente nel progettare i concetti fondamentali che formano la struttura del mondo. Tocchiamo qui per Fink i limiti della fenomenologia. Si prenda per prima cosa in esame il saggio incompiuto del 1939: tutta l’argomentazione finkiana sembra convergere sul tentativo di venire a capo del problema della portata intrinsecamente ontologica della fenomenologia. Sin dall’inizio Fink distingue fra il tema esplicito della fenomenologia di Husserl (la coscienza intenzionale) e il problema che la motiva nel profondo: il problema dell’essere come il problema filosofico che nasce dallo stupore dinanzi al tutto dell’ente. In questo senso la tendenza della fenomenologia all’originarietà, il pathos che la distingue (“c’è ancora da scoprire tutto l’essenziale”!)31, il progetto di un sapere originario, non compromesso da convinzioni dogmatiche, attestano per Fink la volontà di pervenire a una genuina “prossimità all’essere”, libera dal peso della storia e della tradizione. Questa esigenza di colmare la distanza dell’uomo dall’essere, che Husserl caratterizza come “oblio delle esperienze dell’essere fondanti la tradizione” e “perdita dell’originarietà e dell’immediatezza dell’essente in ‘consuetudini’ irrisolte” (ivi, p. 285), motiva la svolta “alle cose stesse”, che Fink intende come una radicale svolta retrospettiva del pensiero filosofico, per cui la domanda universale sull’essere diventa il problema dell’esser-dato in se stesso dell’ente, e questo problema esige a sua volta di svolgersi attraverso un’analitica intenzionale della coscienza. In definitiva l’ipotesi di fondo della fenomenologia husserliana risiede – secondo la lettura di Fink – nella posizione della “coscienza originaria, pensata come intenzionale, in quanto autentico accesso all’essere”: “il problema dell’essere assume così le forme di un’analitica intenzionale, e la fenomenologia diventa scienza della coscienza”(ivi, p. 293). Si noti che in questo modo Fink inscriveva la fenomenologia di Husserl all’interno del problema “trascendentale” (in un’accezione del termine che precede la filosofia kantiana) della relazione

30 Cf. l’abbozzo dattiloscritto del Traktat über “phänomenologische Forschung” (Universitätsarchiv Freiburg, E 15 / 162). 31 Cf. Fink, Studi di fenomenologia, cit., p. 288.

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di ens e verum, di cui la moderna relazione di soggetto e oggetto è solo una estenuazione in chiave gnoseologica32. Il saggio del ’39 si interrompe con una questione lasciata aperta. Nella modalità di un’interpretazione immanente della fenomenologia, Fink lascia presagire una riserva critica intorno a un motivo irrisolto. Scriveva Fink che nel mancato chiarimento dell’essere dell’intenzionalità l’analitica intenzionale […] ha il problema che rende inquieti e spinge oltre l’inizio fin qui tratteggiato della domanda fenomenologica fondamentale.33

Al posto di una prosecuzione del saggio, che ne svolgesse le parti previste (la prima delle quali intitolata “la riflessione radicale” (ivi p. 276) – al posto cioè della prosecuzione della domanda sull’inizio –, Fink si sarebbe orientato su una riconsiderazione critica della fenomenologia, che doveva trovare la sua esposizione nel Traktat andato perduto e alla quale erano destinate le note che componevano gli Elemente einer Husserl-Kritik scritti nella primavera del ’4034. L’attenzione di Fink è impegnata d’ora in poi a mettere a fuoco quell’elemento “presupposizionale” che Husserl riteneva di poter “disattivare” metodicamente, ma che condiziona la stessa analisi intenzionale della fenomenologia e che – come “pre-supposizione” dei concetti ontologici fondamentali – è inscindibile dal filosofare. Vale a dire che la filosofia è essenzialmente viva come “progetto ontologico”, “contrasto di movimento e ristagno”35, tensione a rimettere in questione l’“ontologia pre-data” nel nostro mondo della vita – “il letto di lava solidificato e stabile di un passato progetto metafisico”36 – e a contrastare

32 Sono da tenere presenti le considerazioni che Fink svolgeva precedentemente nella conferenza del 1935 Die Idee der Transcendentalphilosophie bei Kant und in der Phänomenologie, ora in Nähe und Distanz, in partic. alla p. 32 e 40. In una nota di lavoro dello stesso periodo Fink chiariva come solo con la riduzione la filosofia fenomenologica entrasse nella problematica propriamente trascendentale, relativa alla relazione (ontologica) di ens e verum, superando lo stadio di una considerazione soltanto “correlativistica”: “il rapporto di correlazione di soggetto e oggetto diventa come tale problema. E con ciò diventano problematiche l’oggettività degli oggetti che s’incontrano mondanamente e la soggettività del soggetto che fonda in senso mondano. Cioè: l’ente (ens) è compreso come ‘formazione della costituzione soggettiva’ (verum), facendo ritorno non alla correlativa soggettività fungente, di cui è semplice operazione di senso, ma a una soggettività più profonda.” (OH-V 42, in corso di pubblicazione nel vol. 3/3 della Eugen-Fink-Gesamtausgabe). 33 Fink, Studi di fenomenologia, cit., p. 318. 34 D’ora in avanti cit. nel testo con la sigla Elementi, seguita dal numero dell’annotazione critica. 35 Fink, Nähe und Distanz, cit., p. 134: citiamo dal testo della conferenza del 1949 di Mendoza (Argentina) dal titolo “Zum Problem der ontologischen Erfahrung”. 36 La cit. è dalla Antrittsvorlesung di Fink del 26.7.1946, intitolata “Die Voraussetzung der Philosophie”, ed è riportata da Bruzina in Edmund Husserl & Eugen Fink, cit., p. 537.

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“l’inerte assenza di movimentazione (Unbewegtheit) dei pensieri ontologici”37 come “ristagno dell’esperienza ontologica” (Elementi, n. 41). A questo punto la filosofia di Husserl non andava più compresa “a partire dalle sue definizioni ed esigenze programmatiche, né da ciò che essa dichiara come suo scopo”, ma andava vista, “come filosofare, precisamente nel contromovimento rispetto al suo proprio programma”38. L’interruzione del saggio del ’39, proprio nel punto in cui si sarebbe dovuto dare risposta alla “domanda sull’essere dell’intenzionalità” attraverso una “riflessione radicale”, appare allora spiegarsi alla luce di quello che Fink individua come un limite di fondo della fenomenologia husserliana: la mancanza di una “spekulative Besinnung”39, vale a dire di una riflessione che non sia autoosservazione – ripiegamento del soggetto conoscente su di sé, ancorché nel senso della più differenziata analisi fenomenologica della coscienza –, ma una “riflessione ontologica”, cioè un “coglimento pensante dei pensieri dell’essere che altrimenti ci dominano con la potenza dell’ovvio”40. Sono critiche che Fink avrebbe esplicitato un decennio più tardi rispetto al periodo qui considerato, ma la cui gestazione risale al biennio di Lovanio, tra il 1939 e il 1940, in cui già matura la concezione per cui la dimensione filosofica primaria è quella dell’esperienza ontologica (secondo un concetto di “esperienza” che Fink trae dalla Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, filtrata attraverso la particolare interpretazione che ne aveva dato Heidegger41), come della relazione fondamentale di essere e uomo. A ben considerare, i rilievi critici che Fink sviluppava nei confronti della fenomenologia di Husserl nella primavera del ’40, e che espliciterà nel dopoguerra nei termini di una presa di distanza da Husserl attraverso alcuni

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Fink, Nähe und Distanz, cit., p. 134. Così scriveva Fink in una nota di lavoro (Z-XXVII 67a) riportata da Bruzina in Edmund Husserl & Eugen Fink, cit., p. 536. 39 L’espressione ricorre in una nota di lavoro di Fink (Z-XXIX 239a) riportata da Bruzina in Edmund Husserl & Eugen Fink, cit., p. 539. 40 Fink, Nähe und Distanz, cit., p. 132: si tratta ancora del testo intitolato “Zum Problem der ontologischen Erfahrung”. 41 Cf. il saggio di Heidegger, Hegels Begriff der Erfahrung, risalente a un seminario degli anni Trenta, pubblicato in: Holzwege (cf. Heidegger, Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 103-90). Sulla interpretazione di Fink del concetto hegeliano di esperienza – non collimante con quella di Heidegger – vd. Fink, Sein und Mensch. Vom Wesen der ontologischen Erfahrung (c/ di E. Schütz e F.A.-Schwarz, Alber, Freiburg/München 2004), risalente a una Vorlesung del 1950-1951, in partic. i cap. 9 e 10 (per i riferimenti critici a Heidegger). Sul concetto di “esperienza ontologica” sono da vedere pure (oltre al testo della conferenza di Mendoza del 1949, cit.) le prime Vorlesungen di Fink del dopoguerra, e in primis Philosophie des Geistes (1946/47), cit., e l’ancora inedita Die Philosophie Hegels (1948/49), la cui pubblicazione è prevista nel vol. 14 della Eugen-FinkGesamtausgabe. 38

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importanti articoli e conferenze42, vertono su dei motivi già problematizzati nel saggio del ’39 (con una crescente attenzione in seguito, da parte di Fink, a illuminare soprattutto i risvolti “operativi” sottintesi alla definizione tematica del programma fenomenologico43). La domanda della fenomenologia – affermava Fink nel saggio del ’39 – è una “domanda metafisica”44, in quanto interroga l’ente a partire dall’orizzonte dell’esservero: ma proprio per questo – per via del suo inscriversi nella problematica trascendentale della relazione di ens e verum – essa non può prescindere dal “progetto dei concetti ontologici fondamentali” (Elementi, n. 44) e deve dunque farsi “speculativa”. La tendenza della fenomenologia all’originarietà, come “produzione di un’immediatezza”45 non può legittimare “l’idea di una semplice datità prima di ogni giudicare pensante” (Elementi, n. 48), secondo una posizione della coscienza che Fink definisce “la visione illusoria di un’immediatezza, di un puro e semplice registrare un ente che sta semplicemente lì” (Elemente, n. 54), e secondo un’idea di “datità” che Husserl finiva per riprendere dal suo “milieu” spirituale, condizionato essenzialmente dal positivismo (cf. Elementi, n. 5). Nel tentativo fenomenologico di una ricostituzione del “livello originario dell’autentica prossimità all’essere”46, distinguendo nella vita della coscienza un “originario” da un “derivato”, risiedono dei presupposti speculativi non chiariti, come per es. l’assunzione del modello della “percezione del vicino oggetto sensibile, immediatamente dato, presente”47. La stessa parola d’ordine della fenomenologia – “alle cose stesse!” – è vista da Fink nascondere “non un rivolgersi all’ente, ma solo all’oggetto nella sua data datità” (Elementi, n. 54), senza che sia peraltro riconosciuto come un atteggiamento puramente dedito alla cosa stessa sia possibile solo sulla base di un progetto ontologico (cf. Elementi, n. 13). È chiara la propensione di Fink a fare affiorare i presupposti latenti che guidano la fenomenologia husserliana – al di là della pretesa di questa di pervenire a una radicale assenza di pregiudizi – e a indicare gli “idoli” dell’indagine fenomenologica, così come i suoi “pregiudizi non filosofici, se non anti-filosofici” (Elementi, n. 17): il rifiuto della tradizione filosofica (specialmente della filosofia 42 Mi riferisco anzitutto agli articoli e conferenze: “Philosophie als Überwindung der ‘Naivität’” (1948), a “Zum Problem der ontologischen Erfahrung” (1949) e “Die intentionale Analyse und das Problem des spekulativen Denkens” (1951), compresi ora in Nähe und Distanz, cit. Di un “distanziarci decisivo da Husserl” Fink parlava nella Antrittsvorlesung del 1946, cit. da Bruzina in Edmund Husserl & Eugen Fink, cit., p. 538 43 Mi riallaccio qui a una distinzione tra “concetti operativi” e “concetti tematici” che Fink svolgeva in un saggio del 1957, “Operative Begriffe in Husserls Phänomenologie”, ora ripubblicato in Nähe und Distanz, cit., p. 180-204. 44 Fink, Studi di fenomenologia, cit., p. 293. 45 Ivi, p. 284. 46 Ivi, p. 288. 47 Cf. Fink, Nähe und Distanz, cit., p. 153.

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antica), il “rifiuto della storia” (Elementi, n. 49), la “sorda avversione al concetto” (Elementi, n. 43). In particolare, nel considerare il concetto come un elemento derivato, fondato nell’intuizione, Husserl finisce, secondo Fink, per precludersi una relazione al pensiero speculativo: ma è solo il concetto speculativo, annota Fink, che “apre la condizione di possibilità del comprendere analitico” (Elementi, n. 3). Sono note le obiezioni che Fink, in un articolo risalente a una conferenza del 195148, avrebbe sollevato nei riguardi della pretesa astensione della fenomenologia da ogni speculazione. Qui conta sottolineare come queste obiezioni siano prefigurate negli Elementi del 1940, e specialmente nei passaggi in cui è al centro il problema del rapporto fra analisi e speculazione, descrizione e progetto. Quanto alla valenza “speculativa” che assume, da lì in poi, la ricerca finkiana, mi limito a ribadire quanto avevo già avuto modo di scrivere in proposito, ossia che occorre guardarsi dal rischio di attribuire al concetto di “speculazione” utilizzato da Fink un significato che esso non ha o di travisare il senso dell’apertura finkiana della fenomenologia al pensiero speculativo, come si trattasse di un ripudio tout-court dell’analisi intenzionale; ovvero dal rischio di interpretare i lavori finkiani del dopoguerra come scaturenti da un intento sommariamente anti-husserliano, in larga parte legato a un recupero di temi hegeliani e segnato dall’influsso determinante del pensiero di Heidegger, perdendo di vista come tutti i diversi progetti di Fink, tesi a una comprensione ontologica del mondo e dell’uomo come Weltwesen, contengano molteplici analisi di tipo fenomenologico, sebbene in una forma indubbiamente nuova rispetto allo stile husserliano49. Con questo si vuol dire che non si deve attribuire agli Elementi di una critica di Husserl, della primavera del 1940, un intento sommariamente demolitore nei riguardi della filosofia di Husserl (tanto più che per Fink la critica è sempre connaturata alla fenomenologia, che vive in un atteggiamento di costante riesame e di rifondazione di se stessa). Queste note critiche – oltretutto – vanno lette, come ci avverte Bruzina50, non come un testo a se stante, ma come finalizzate a un Trattato che è andato perduto o – forse – che è rimasto soltanto allo stato progettuale. Una loro corretta comprensione, pertanto, esige qualcosa di più di quello che in queste pagine abbiamo abbozzato – esige uno sforzo interpretativo che da un lato recuperi tutta la dimensione del materiale “carsico” (fatto di abbozzi, annotazioni, appunti) delle indagini finkiane dell’anteguerra, dall’altro rilegga i testi e le 48 Cf. Fink, “Die intentionale Analyse und das Problem des spekulativen Denkens”, in Nähe und Distanz, cit., in partic. p.143s. 49 Rinvio qui al mio libro Eugen Fink e le interpretazioni fenomenologiche di Kant, Franco Angeli, Milano 2009, p. 89. 50 Bruzina, Edmund Husserl & Eugen Fink, cit., p. 540 e 542.

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lezioni di Fink del dopoguerra, per cercarvi modalità “operative” di pensiero tratte dalla fenomenologia, proprio lì dove l’indagine finkiana affronta i temi “speculativi” di un pensiero onto-cosmologico.

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Simona Bertolini, Mondo, a priori e cosalità nelle prime Vorlesungen di Eugen Fink Introduzione Come abbiamo già avuto modo di argomentare in altre sedi, la “filosofia del mondo” di Eugen Fink, sviluppata dall’autore dopo la morte del maestro Husserl e la fine della seconda guerra mondiale, può essere interpretata quale peculiare rilettura su un terreno cosmologico-ontologico dell’intento già husserliano di fondare l’atteggiamento naturale tramite riduzione1. “Cosmologico” perché frutto di una ridefinizione del fenomenologizzare alla luce della priorità costitutiva della totalità mondana e della sua predatità2; “ontologico” perché ispirato dall’ontologia heideggeriana, nel contesto di un confronto post-metafisico con le questioni centrali della metafisica tradizionale. La nozione finkiana di mondo, detto altrimenti, può essere sinteticamente intesa come risposta a una duplice esigenza: da un lato al quesito classico intorno all’essere e al suo fondamento, dall’altro alla richiesta fenomenologica – da Fink rimessa al carattere originario della Vorgegebenheit mondana – di ripercorrere il movimento costitutivo a monte dell’umana esperienza e dello strutturarsi del mondo-della-vita. Ne 1 A tal riguardo ci permettiamo di rimandare a S. Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo: tra ontologia, idealismo e fenomenologia, Mimesis, Milano 2012; Id., Quale struttura del mondo? Una chiave di lettura dell’ontologia cosmologica di Eugen Fink, in “Trópos” IV, 2, 2011, p. 135-151. 2 Questa ridefinizione è già attuata da Fink nel periodo prebellico, negli anni di assistentato al fianco di Husserl. Testimonianze preziose a questo proposito, insieme ai rimandi contenuti nel paragrafo 7 della VI. Cartesianische Meditation e nell’Ergänzungsband ad essa associato, si trovano negli appunti privati scritti dall’autore nello stesso periodo, in parte già pubblicati all’interno della Gesamtausgabe, per la cura di R. Bruzina. Cf. E. Fink, VI. Cartesianische Meditation. Teil I: Die Idee einer transzendentalen Methodenlehre (in: “Husserliana-Dokumente” II/1), c/ di H. Ebeling, J. Holl, G. van Kerckhoven, Kluwer, DordrechtBoston-London 1988 (tr. it. c/ di A. Marini, VIª Meditazione cartesiana. L’idea di una dottrina trascendentale del metodo (parte I), Franco Angeli, Milano 2009); Id., VI. Cartesianische Meditation. Teil II: Ergänzungsband (in: “Husserliana-Dokumente” II/2), c/ di G. van Kerckhoven, Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1988; Id., Die Doktorarbeit und erste Assistenzjahre bei Husserl, c/ di R. Bruzina, in: Gesamtausgabe, Abt. 1, Bd. 3, Teilbd. 1, Alber, Freiburg i. Br.-München 2006; Id., Die Bernauer Zeitmanuskripte, Cartesianische Meditationen und System der phänomenologischen Philosophie, c/ di R. Bruzina, in Gesamtausgabe, Abt. 1, Bd. 3, Teilbd. 2, Alber, Freiburg i. Br.-München 2008. Sull’argomento rimandiamo a R. Bruzina, La structure phénoménologique du monde, une révision, in “Les cahiers de philosophie” 15/16, 1992, p. 89-110; Id., Redoing the Phenomenology of the World in the Freiburg Workshop, 1930-1934, in “Alter” 6, 1998, p. 39-118; Id., Edmund Husserl and Eugen Fink. Beginnings and Ends in Phenomenology, 1928-1938, Yale University Press, New Haven-London 2004, cap. 4; D. Chaberty, Le problème du monde chez le jeune Fink, in: “Alter” 15, 2007, p. 373-92.

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consegue che la conformazione di quest’ultimo, come nel caso della Lebenswelt husserliana, può essere pensata nel ruolo di guida silenziosa dell’intera impostazione cosmologica, nella misura in cui è proprio tale conformazione a rappresentare il punto di partenza della discesa fondativa messa in atto dai diversi gradi di approfondimento del pensiero finkiano. Ne consegue altresì che la medesima conformazione, anche in questo caso coerentemente con il dettame di Husserl, deve essere considerata quale compagine stabile, invariata e precedente a qualsivoglia variazione di cultura, essendo una simile evidenza consegnata in sede di atteggiamento naturale, dove mai metteremmo in dubbio l’unicità spazio-temporale dello “stile” con cui il mondo si presenta. Il riferimento può essere ancora ritrovato in dichiarazioni husserliane come quelle che seguono: […] il mondo-della-vita, malgrado la sua relatività, ha una propria struttura generale. Questa struttura generale, a cui è legato tutto ciò che è relativo, non è a sua volta relativa.3 Ogni tipica particolare, quella dei reali particolari (e delle costellazioni di reali), è però circondata dalla tipica della totalità, che appartiene all’intero orizzonte del mondo come orizzonte infinito. Lungo il corso dell’esperienza mondana, dell’eventuale coscienza piena e concreta del mondo, il senso d’essere del mondo resta invariante e perciò resta invariante l’edificio strutturale di questo senso, costituito dai tipi invarianti delle realtà individuali.4

Posta la sicurezza con cui l’uomo presuppone sempre e senza alcun dubbio una struttura del mondo uguale a quella del suo ritaglio esperienziale, la fenomenologia, in quanto volta a fondare e ripercorrere il darsi dell’ovvietà naturale, non potrà mai discostarsi dal punto fermo rappresentato da una tale evidenza, pena il tradimento del suo intento originario. Ciò vale sia per Husserl, sia per Fink, nonostante la filosofia matura dell’allievo, rispetto all’iniziale proposta del maestro, si componga di elementi teorici che rischiano di celare in più modi questa componente prioritaria. Un posto d’onore in tal senso, come abbiamo già discusso anche altrove5, spetta sicuramente ai primi corsi tenuti dall’autore all’Università di Friburgo, primo fra tutti il ciclo di lezioni dal titolo Philosophie des Geistes

3 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die Transzendentale Phänomenologie, in: “Husserliana” VI, c/ di W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1959; tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1987, p. 167. 4 Husserl, Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik, c/ di L. Landgrebe, Meiner, Hamburg 1972; tr. it. di F. Costa e L. Samonà, Esperienza e giudizio. Ricerche sulla genealogia della logica, Bompiani, Milano 2007, p. 77. 5 Cf. S. Bertolini, Quale struttura del mondo?, cit., p. 142s.

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(semestre invernale 1946/47)6, in cui sembra invece prevalere una concezione del mondo di matrice storicistico-relativistica. Ad essere qui tematizzata non è ancora la nozione di Welt intesa come risposta complessa al quesito intorno all’essere7, bensì un ritaglio di tale nozione, circoscritto con riferimento alla questione specifica del rapporto essere (mondo)-uomo. Riprendendo concetti heideggeriani come quello di “trascendenza”, di “essere-nel-mondo” e di “progetto”, ma innestandoli in un sostrato razionale di derivazione hegeliana8, Fink illustra qui una visione della struttura ontologica umana, e della zona a priori ad essa connessa, che pare non ammettere criteri definitivi in nome di un’estrema relativizzazione storicotemporale. La descrizione delle condizioni di possibilità dell’esperienza sembra allora tradire quanto suggerito all’uomo dall’esperienza stessa, contraddicendo così quell’istanza fenomenologica che abbiamo preliminarmente indicato a monte dell’intera filosofia finkiana (e che a rigor di logica dovremmo pertanto ritrovare anche in questi primi corsi propedeutici). Poste simili premesse, per il cui approfondimento rimandiamo ai contributi menzionati, il presente saggio si propone di mostrare come già nella relazione uomo-essere presentata da Fink fra il 1946 e il 1947 sia ravvisabile fra le righe l’indicazione di una compagine unitaria e immutabile del mondo, a conferma della nostra tesi iniziale; più specificamente: come la delineazione finkiana della sfera dell’a priori, se sottoposta a un’analisi attenta e a dispetto delle apparenze, si confermi coerente con la volontà fenomenologica di fondare e giustificare la manifestazione di quell’“unico e medesimo mondo, […] il mondo in quanto orizzonte universale, comune a tutti gli uomini, delle cose realmente essenti”9.

1. Filosofia e progetti del mondo: i primi corsi friburghesi Per riuscire in questo tentativo è dapprima necessario fornire una rapida panoramica sui contenuti fondamentali emergenti dai corsi citati. A rivestire in essi un ruolo di primo piano è anzitutto la definizione di filosofia, intesa da Fink sulla scorta della tradizione metafisica, quale interrogativo sull’essere dell’ente. In entrambe le Vorlesungen con cui il 6 Fink, Philosophie des Geistes, c/ di F.-A. Schwarz, Königshausen & Neumann, Würzburg 1994. 7 Per questo bisognerà attendere il corso universitario del semestre estivo 1949: Fink, Welt und Endlichkeit, c/ di F.-A. Schwarz, Königshausen & Neumann, Würzburg 1990. 8 Il debito finkiano nei confronti di Hegel è espresso in: Fink, Sein und Mensch. Vom Wesen der ontologischen Erfahrung, c/ di E. Schütz e F.-A. Schwarz, Alber, Freiburg i. Br.München 2004. 9 Husserl, La crisi delle scienze europee…, cit., p. 191.

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pensatore esordisce all’Università di Friburgo, Einleitung in die Philosophie10 e Philosophie des Geistes, il punto di partenza è individuabile nella domanda: in cosa consiste l’autentico filosofare? La risposta si articola nell’intreccio fra problema dell’a priori, questione dell’essere e interpretazione della metafisica occidentale, sulla base di una peculiare rielaborazione del concetto heideggeriano di Dasein. Premessa imprescindibile è infatti una concezione dell’uomo che lo vede anzitutto come “trascendenza” e apertura progettante per l’essere e la totalità del mondo, “progetto ontologico” (ontologischer Entwurf)11 teso anticipatamente alla delineazione della struttura mondana: Quel che l’uomo è propriamente non è determinato dall’antropologia. Nella misura in cui tutta la ricerca antropologica, sia essa in una prospettiva biologica o psicologica, già sul nascere assume l’uomo come un ente, essa si trova sul terreno di un progetto preliminare dell’essere-ente in quanto tale, progetto che essa assume come certo, pur essendole sconosciuto. Ma questo progetto accade nell’uomo. L’uomo è così un essere ambiguo, che non si può facilmente definire. Egli appare come un ente nel mondo, come una cosa fra le cose, – e dall’altro lato è il luogo del progetto di tutti i concetti ontologici in cui l’essere delle cose viene pensato preliminarmente prima di ogni esperienza (ivi, p. 141).

Alle spalle di ogni relazione ontica è da Fink pensata un’originaria concettualità a cui il comprendere umano è già sempre aperto e da cui il vivere naturale è preliminarmente orientato12. L’uomo è descritto come il luogo di mediazione e “progettazione” delle condizioni dell’incontro

10 Fink, Einleitung in die Philosophie, c/ di F.-A. Schwarz, Königshausen & Neumann, Würzburg 1985. 11 Cf. Fink, Philosophie des Geistes, cit., p. 136 e 186s. 12 In questa centralità del concetto è afferrabile un elemento di distanza da Heidegger, nonché un passo in direzione di Hegel. Si può affermare che la struttura del Dasein qui proposta da Fink sia il risultato di una sorta di messa in dialogo dei due filosofi, di cui troviamo una preziosa testimonianza nell’interpretazione della Fenomenologia dello spirito contenuta in Fink, Hegel. Phänomenologische Interpretationen der “Phänomenologie des Geistes”, Klostermann, Frankfurt a. M. 2007.

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dell’ente, di un a priori ontologico-formale13 derivante dall’“esperienza”14 dell’essere stesso. Il “come” del darsi delle cose, la forma della loro Seinsweise, è vincolato a “concetti ontologici” aventi la sede del proprio palesarsi in quell’ente “ambiguo” che è l’essere umano. Il ruolo chiave della filosofia in questo contesto va gradatamente emergendo nel corso delle due Vorlesungen. Per prima cosa, leggiamo in Einleitung in die Philosophie, il vero filosofare è guidato dalla domanda sull’“ovvietà dell’ente”, rivolgendosi a quella razionalità a priori del mondo che l’uomo atteggiato naturalmente, concentrato sulle singole cose, non riesce a cogliere. La filosofia è dunque l’atteggiamento privilegiato che va oltre l’ingenuità e si interroga sulle sue condizioni, volgendo lo sguardo al campo della progettualità umana. E non solo: come viene specificato in Philosophie des Geistes, essa non si limita ad essere il luogo d’interrogazione dell’a priori, ma anche la sede in cui questo viene deciso, la sede del progettare ontologico in quanto tale. Il filosofare, là dove dispiega le sue piene potenzialità, è il pensiero aprente, l’es-cogitazione (Erdenken), da cui è schiusa la rete di concetti che andrà a condizionare l’esperienza del mondo. Nel guardare al di là della molteplicità ontica, in direzione della sua forma, il filosofo scruta e, nel contempo, rimette in movimento i limiti di questa, attua su di essa una verifica (Prüfung) che ne ridefinisce i confini. La filosofia è per così dire la chiave di volta dell’impostazione trascendentale esposta da Fink in questi anni, il punto di incontro privilegiato fra la capacità progettante del soggetto e lo strutturarsi del suo ambiente; essa è la sede in cui l’a priori trova la propria definizione storica, quella stessa definizione che, insinuandosi gradualmente fra le maglie del legame ingenuo col campo oggettuale, ne va a scardinare e ricostituire le premesse, da cui saranno inconsapevolmente condizionati i secoli a venire. La razionalità filosofica, nel suo carattere più originario e genuino, è indicata come il varco in cui si compie il trascendere 13 Lo strutturarsi del “progetto ontologico” può essere anche interpretato come l’esito di una rilettura dell’a priori kantiano alla luce della problematica ontologica inaugurata dalla filosofia heideggeriana, sulla base di un percorso ermeneutico non dissimile da quello intrapreso dallo stesso Heidegger e testimoniato nel suo Kantbuch, sebbene condotto a partire da presupposti differenti, in cui il primato del concetto (erede dell’Analitica trascendentale) si accompagna alla tacita presenza del sostrato cosmologico che verrà teorizzato quale sfondo dell’ontologischer Entwurf (il che spiega l’inclusione nella concettualità a priori, come vedremo a breve, di questioni tematizzate in sede di Dialettica trascendentale, quali il problema del mondo e il problema di Dio). Lo sviluppo del confronto di Fink con l’opera kantiana, con riferimento alle letture di Kant condotte rispettivamente da Husserl e Heidegger, è ripercorso in R. Lazzari, Eugen Fink e le interpretazioni fenomenologiche di Kant, Franco Angeli, Milano 2009. 14 Sulla co-implicazione reciproca pensata da Fink fra il concetto di progetto e quello di esperienza, cf. per esempio Fink, Grundfragen der antiken Philosophie, c/ di F.-A. Schwarz, Königshausen & Neumann, Würzburg 1985, p. 75. La pubblicazione della traduzione italiana di quest’opera è prevista nel 2012 per la cura di Adriano Ardovino, presso l’editore Donzelli.

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propriamente detto15, la cui forza schiudente è altrimenti celata e il cui terreno è in genere “trivializzato”16 e reiterato in modo passivo. Il compito di una filosofia dello spirito è la scoperta di quel pensiero dell’essere che precede tutto il contegno umano verso l’ente e che in esso è presupposto, sebbene implicitamente. La filosofia dello spirito si caratterizza quindi come uno stadio preliminare rispetto alla metafisica. La metafisica è ontologia, pensiero dell’essere, progetto della sua unità e della molteplicità della sua interna articolazione strutturale. La filosofia dello spirito è la scoperta del pensiero metafisico; precisamente la scoperta in un senso duplice: da un lato come il portare-all’apparizione qualcosa di velato, dall’altro come lo sfrenamento di qualcosa di vincolato. Il progetto metafisico che sorregge il nostro esserci, in quanto tale, deve essere spinto alla coscienza soltanto in una meraviglia estrema, per essere poi portato di nuovo in movimento rispetto al modo tramandato, quel modo che possiamo definire inattivo e stagnante (ivi, p.185).

L’intelaiatura concettuale pre-condizionante la percezione e la conoscenza degli enti non è dunque stabile, ma, in quanto decisa in ambito filosofico, è riconducibile al mutare dei fondamenti della stessa storia della filosofia (il riferimento è mantenuto alla filosofia occidentale): “Questo mondo prescientifico non è sempre e in tutti i tempi uguale, non è un’invariante nel cambiamento della storia, una costante. […] I pregiudizi segreti e ovvi che nutriamo sull’ente, pregiudizi che non attirano l’attenzione proprio in virtù di questa ovvietà, nell’antichità erano differenti rispetto al Medioevo e di nuovo differenti rispetto alla modernità” (ivi, p. 195-96). Al di sotto dello sviluppo storico e dell’avvicendarsi delle singole posizioni di pensiero, corrispondendo al lento evolvere delle tradizioni teoretiche, si dà 15 Ancora una volta si rivela qui la distanza da Heidegger. In Philosophie des Geistes, a tal proposito, vengono mosse critiche esplicite sia alla posizione di Husserl, sia a quella heideggeriana, in quanto entrambe continuerebbero a basarsi sul pregiudizio per cui l’esperienza pre-concettuale precede quella concettuale e predicativa, la prima con la convinzione che “il concetto sia fondato in intuizioni”, la seconda mediante la dottrina delle Stimmungen. Con tale dottrina Heidegger resterebbe infatti ancora fortemente condizionato dalla fenomenologia husserliana, secondo la quale “il concetto dimora solo nel parlare (Rede), dunque nel pensare dichiarante su… Questo presuppone sempre una manifestatività data preliminarmente di ciò su cui il parlare verte” (Fink, Philosophie des Geistes, cit., p. 198). Nella concezione heideggeriana, allo stesso modo, “gli enunciati ontologici, con la loro concettualità, appaiono fondati in un’originaria esperienza pre-concettuale, nell’apertura intonata emotivamente” (ibid.). Non dimentichiamo che Fink doveva la sua dimestichezza con la problematica heideggeriana delle “tonalità emotive” non solo alla lettura di Sein und Zeit o all’ascolto della prolusione Was ist Metaphysik?, ma anche al corso universitario frequentato nel semestre invernale 1929/30 sul tema Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, ora in: M. Heidegger, Gesamtausgabe, Bd. 29/30, c/ di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a. M. 1992; tr. it. c/ di C. Angelino, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, Il Melangolo, Genova 1999. 16 Cf. per esempio Fink, Philosophie des Geistes, cit., p. 126.

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l’altrettanto lenta evoluzione della matrice del mondo, schiusa concettualmente dal pensare metafisico. Questo, nelle sue torsioni epocali, ha il potere di re-istituire e far di nuovo “scorrere” il logos del reale, di modificare i criteri in base a cui l’uomo può definire qualcosa come essente. Per quanto riguarda poi la caratterizzazione di tale logos, già in Einleitung in die Philosophie leggiamo che “il problema dell’essere, il problema del mondo, il problema della verità e il problema di Dio costituiscono sempre l’intero della filosofia stessa e in nessun modo parti di essa nel senso di discipline isolate”17. In Philosophie des Geistes si chiarisce inoltre che: Il pensiero dell’essere è prima di tutto un pensiero del concetto dell’ente, del concetto del mondo, del concetto di Dio e del concetto della verità. Essi costituiscono insieme l’originario schiarimento (Helligkeit) della ragione umana e formano la traiettoria (Bahn) sulla quale si compie il progetto ontologico18.

Il progettare concettuale della filosofia non si sviluppa “alla cieca”, ma si mantiene sempre sui binari di quattro questioni fondamentali: la questione dell’ente, del mondo (inteso come totalità ontica), della verità (sull’ente) e di Dio o del sommamente essente (nel senso di un livello ontologico superiore rispetto al piano fenomenico). Queste Grundfragen, costitutive per Fink dell’articolazione unitaria del problema dell’essere, rappresentano sia le coordinate intorno a cui si organizza l’impalcatura ontologica del mondo, sia, per conseguenza, le direzioni necessariamente seguite dal pensiero progettante che della stessa impalcatura configura la costituzione. La prensione di oggetti (non importa se oggetti esterni o vissuti interni) presuppone sempre una pre-decisione relativa a cos’è un ente, cos’è l’intero mondano, cosa si intende per verità e quale rapporto intercorre fra la regione umana e un’eventuale sfera assoluta. Affinché l’uomo possa dire “è” riferendosi a qualcosa, è richiesta la collocazione dell’oggetto interessato in un sistema ontologico di riferimento in cui ognuno dei suddetti interrogativi ha già trovato una risposta. Di queste traiettorie di domanda sottese all’esperienza del mondo l’uomo possiede già sempre un “presentimento” (Ahnung)19, che il progetto ontologico vero e proprio va ad interpretare e a definire nel pensiero, convertendone e specificandone l’indeterminatezza – che ipotizziamo caratterizzare un’epoca del mondo pre-filosofica – nel rigore del concetto. Ogni filosofia che meriti il nome di “ontologischer Entwurf” coinciderà pertanto con una risposta particolare fornita ai quesiti sollevati dalle quattro 17

Fink, Einleitung in die Philosophie, cit., p. 69. Fink, Philosophie des Geistes, cit., p. 190-1. 19 Cf. ivi, p. 196. 18

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Ahnungen, rimessi in discussione nella loro globalità o singolarmente, sulla base di un terreno pregresso parzialmente presupposto, avente a sua volta alle spalle l’Erdenken del filosofare passato. La concezione dell’ente propria dell’uomo contemporaneo, per fare un chiaro esempio, avrebbe ancora per Fink le proprie radici nel concetto di sostanza risalente al pensiero greco20, al cui mantenimento nella storia si sarebbe però accompagnata una parallela riformulazione delle altre Grundfragen21. Dai primi corsi friburghesi di Fink si delinea quindi una prospettiva trascendentale retta su un duplice piano a priori, schiuso da una sorta di stratificazione propria dell’umano “essere-nel-mondo”: l’uomo trascende costitutivamente se stesso, in direzione di una comprensione anticipatrice della totalità del campo ontico, sia perché mosso da “presentimenti trascendentali” (ivi), sia perché teso a (pre)gettare al di sopra di questi una rete di concetti, la cui configurazione e modificazione storica costituisce lo sviluppo dei fondamenti dello spirito occidentale.

2. Per una “struttura generale” del mondo Il quadro emerso grazie all’esposizione dei primi due corsi finkiani ci porta ad affermare quanto segue: la natürliche Einstellung, di cui, come già voleva Husserl, l’autentica filosofia tenterebbe una spiegazione e una giustificazione, non può essere intesa alla stregua di un terreno fisso e stabile 20 “[…] noi siamo gli eredi dei Greci, anche quando questo non ci riguarda affatto. Ad esempio il compendio della cosa (der Grundriß des Dinges), che noi comprendiamo come sostanza con proprietà, e conformemente al quale ci rapportiamo alle cose e a noi stessi, questo pensiero a priori, il quale solamente rende possibile le esperienze di cose determinate, nella misura in cui possiamo riferire la varietà delle indicazioni date a un portatore sostanziale di determinazioni, – questo pensiero ontologico è un’eredità” (Fink, Zur ontologischen Frühgeschichte von Raum-Zeit-Bewegung, Nijhoff, Den Haag 1957, p. 18); “Nella nostra quotidianità è ancora all’opera il lavoro del pensiero dei Greci e di tutti i pensatori dopo di loro; in ogni tavolo e in ogni lampadina si annida la sostanza, intorno al cui compendio ruota il lavoro millenario del pensiero” (Fink, Sein und Mensch, cit., p. 142). 21 Kant, per fare un esempio, avrebbe mantenuto la nozione di sostanza tramandata dal passato antico, ripensando la concezione della verità, del mondo e di Dio (cf. Fink, Welt und Endlichkeit, cit., p. 104). L’unico pensatore della tradizione occidentale che avrebbe per Fink riformulato l’organizzazione dell’essere nella sua globalità è Hegel, la portata del cui pensiero sarebbe però ancora in attesa di ascolto e di un’effettiva ricaduta sul piano dell’atteggiamento naturale: “Tutti i motivi del pensiero antico, così come le nuove domande conseguite dalla modernità, si congiungono nel progetto sistematico di Hegel, il quale comprende tutti i rapporti trascendentali (quello di on e hen, di on e agathon e di on e alethes) e rappresenta la forma più universale del pensiero occidentale” (Fink, Philosophie des Geistes, cit., p. 121122); “È una situazione grottesca che la gigantesca costruzione del sistema hegeliano si trovi ancora priva di appropriazione come un blocco erratico e perso nel paesaggio spirituale dell’Occidente, che circoli ancora la favola del fallimento della sua filosofia. Il confronto con Hegel è il compito più essenziale della situazione filosofica attuale, in quanto con lui è stato osato l’ultimo grande progetto filosofico dell’essenza dell’essere” (ivi, p. 197).

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che il filosofare si limiterebbe a chiarire nei suoi presupposti, mostrandosi quale sostrato in movimento che proprio il pensiero filosofico fluidificherebbe e metterebbe in moto all’interno di una relazione di influenza circolare dispiegata nel tempo. A differenza di Husserl, che parlava di una “struttura generale” del mondo-della-vita “accessibile una volta per tutte”, Fink introduce una relazione di condizionamento vicendevole fra vita naturale e pensiero filosofico, tale per cui la prima continuerebbe a influire sul secondo, impossibilitato a elevarsi in toto al di sopra della tradizione (ontologica) in cui si trova, mentre il secondo, a partire da tale situazione di partenza, andrebbe ad incidere sullo strutturarsi della prima. Siamo dunque in presenza di una radicale relativizzazione del mondo? È un’affinità solo nominale quella che lega l’atteggiamento naturale di Husserl, chiamato esplicitamente in causa in Einleitung in die Philosophie22, e il modo in cui lo stesso termine sembra essere assunto da Fink, nell’accezione ben poco husserliana per cui esso non ricondurrebbe più ad alcuna struttura stabile? A queste domande rispondiamo negativamente. Per farlo non basta però fermarsi alle dichiarazioni dell’autore, ma è necessario attingere ciò che è sotteso alla sua esposizione senza essere esplicitamente tematizzato. La soluzione si trova a ben vedere nei quattro presentimenti delle domande metafisiche su essere, mondo, verità e Dio. Da un lato è infatti vero che il motore di costruzione dell’impalcatura dell’esperienza si dispiega per Fink a livello storico, nel lento avvicendarsi di “epoche del mondo” e quindi nel contesto di un cambiamento e di una trasformazione del retaggio in cui le cose ci vengono incontro; dall’altro, tuttavia, i sentieri di domanda rappresentati dalle quattro Grundfragen incarnano – questa una tesi che vorremmo sostenere – una sorta di limite arginante il rischio di anarchia interpretativa. Se anche volessimo provare a pensare a uno svolgersi infinito dello sviluppo temporale della progettualità ontologica, non avremmo comunque il diritto di ipotizzare mondi totalmente altri rispetto a quello attualmente esperito, muovendosi l’ontologischer Entwurf, la forza costruttiva del pensiero filosofante, sempre all’interno dei solchi tracciati dalle quattro questioni di Sein, Welt, Wahrheit e Gott, fungenti in tal senso da segnavia e confini oltre i quali non è concesso andare. Se alla fine del paragrafo precedente abbiamo accennato all’esistenza di due livelli in cui situare l’a priori, potremmo ora completare lo schema precisando che mentre un livello – quello corrispondente alla compagine mondana instaurata filosoficamente – è da comprendersi in modo dinamico e come susseguirsi storico – seppur lento e sedimentato – di differenti visioni ontologiche del 22

Cf. Fink, Einleitung in die Philosophie, cit., p. 16s.

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reale, l’altro, coincidente con le quattro traiettorie di cui si è detto, garantisce una “struttura generale” sulla quale soltanto può articolarsi l’alternanza dei Weltentwürfe. È come se il peculiare gioco di es-cogitazione di pensieri dell’essere, quel gioco di creazione e distruzione che vede il sorgere di nuovi mondi a scapito di altri, trovasse delle regole non soltanto identificabili con il condizionamento orizzontale della tradizione passata (limite ammesso anche dalla filosofia ermeneutica propriamente detta), ma, prima di tutto, con l’influenza, in questo caso verticale, di una sorta di macro-struttura oltre la quale la costruzione progettante non può spingersi. Quel che abbiamo asserito chiede di essere motivato. Se ci si ferma infatti alla semplice enunciazione delle quattro domande fondamentali, non traspare ancora il potere condizionante che queste detengono nell’organizzazione globale del discorso finkiano. Tuttavia, guardando con attenzione ai testi, è possibile trovare indizi relativi al significato più specifico che l’autore sembra attribuire a tali domande, laddove questo, seppur in maniera tacita e non tematica, interviene a precludere anticipatamente la legittimità di posizioni filosofiche radicali, che giungerebbero a mettere in discussione una certa struttura-limite a cui il filosofo pare non voler rinunciare.

3. La prima domanda fondamentale: ente e cosa Quanto appena detto si mostra chiaramente in relazione alla prima Grundfrage: cos’è un ente? Domanda che Fink esprime anche così: cos’è una cosa?23 Si tratta di verificare se in tali domande le parole “ente” e “cosa” contengano già una pre-delineazione silenziosa dei confini entro cui il filosofare può muoversi. Confrontiamo alcune citazioni. Abbiamo già accennato al fatto che in più luoghi testuali Fink associa la concezione corrente della cosa alla nozione di sostanza, le cui origini sono individuate nella filosofia antica. In tal senso “non è certo che sempre ed eternamente l’ente debba essere pensato così”24: l’identificazione della compagine cosale con la forma sostanziale pare essere un fattore passeggero, coerentemente con le sue origini storiche. 23 Fink utilizza il termine Ding in senso lato, in virtù di una certa affinità ontologica presupposta fra le cose materiali e l’ente in quanto tale: “Col termine ‘cosa’ chiamiamo qui principalmente ciò che è; dunque, assolutamente, non solo cose materiali, materialità, bensì anche ciò che è reperibile nell’esperienza interiore come vissuto, atto, persona, facoltà, abilità e via dicendo. Le cose sono reperibili, sono ciò che in generale è chiamato solitamente l’ente, l’ontico. Le cose, però, interiori come esteriori, oggettive come soggettive, atti di pensiero, opinioni e rappresentazioni così come case e alberi, sono, sono essenti, hanno sempre il loro essere” (Fink, Philosophie des Geistes, cit., p. 142-43). 24 Fink, Zur ontologischen Frühgeschichte…, cit., p. 18.

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Accanto a simili indicazioni troviamo però anche affermazioni più equivoche, che lasciano invece pensare a un rapporto di coincidenza fra la struttura della sostanza e lo stesso presentimento dell’ente all’origine della sua determinazione concettuale: Il pensiero delle determinazioni categoriali costituisce una parte essenziale del progetto ontologico, a partire dalla quale si schiude e sta aperto per noi il tutto dell’ente.25 I nascosti pensieri-guida sull’essere, l’essere-in-sé, l’essere-oggetto, l’universale e il singolare, l’essenza, la categoria, l’essentia, l’existentia, l’essere-reale e l’essere-possibile, e via dicendo, – dunque tutti i pensieri nei quali siamo irretiti (befangen) quando abbiamo a che fare con le cose, […] tutti questi pensieri devono essere di nuovo pensati e progettati in un dialogo originario dell’anima con se stessa (ivi, p. 185).

Inoltre: Nel pensiero greco del V secolo a. C. si verificò l’irruzione di una meraviglia il cui interrogare verificò nuovamente tutto ciò che l’ente è – cosa è una cosa, cos’è la sua essenza, cos’è una sostanza e cos’è una proprietà, – e che con ciò, sul terreno della lingua greca e nondimeno contro di essa, ottenne esplicitamente un nuovo progetto concettuale che prese in custodia l’esserci umano per due millenni.26

Parlando del “progetto ontologico”, Fink, fra le questioni che richiedono di essere messe in movimento e progettate, quindi fra i sentieri indeterminati su cui la concettualità filosofica istituisce i propri percorsi di costruzione, annovera “il pensiero delle determinazioni categoriali”, “l’essenza, la categoria, l’essentia, l’existentia…”, nonché il problema relativo a “cos’è una sostanza e cos’è una proprietà”: tutti concetti che ci riportano chiaramente alla definizione dell’ente di derivazione aristotelica. L’elenco di tali problematiche non indica qui, come ci si potrebbe attendere, l’apparato concettuale posto in essere da un determinato progetto, bensì un insieme di questioni condizionante il domandare filosofico alla sorgente, prima che esso si configuri in un concreto e determinato Entwurf. Anche dove si parla del pensiero antico, non ci viene detto che esso affermò l’ente come essenza e come sostanza con proprietà, ma che i Greci attuarono una nuova Prüfung relativamente a “ciò che l’ente è – cosa è una cosa, cos’è la sua essenza, cos’è una sostanza e cos’è una proprietà”. Il significato che ne emerge è ben differente: essenza, sostanza e proprietà, invece di incarnare il risultato dell’interrogare greco-antico, invece di rappresentare gli 25 26

Fink, Philosophie des Geistes, cit., p. 177, corsivo nostro. Ivi, p. 187, corsivo nostro.

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indicatori della sua peculiare strutturazione del mondo, sono qui additate come domande più universali da cui l’antichità fu interpellata e a cui si limitò a dare specifiche risposte. Suddette nozioni non sembrano coincidere con la sentenza specifica della filosofia greca, ma sembrano piuttosto venire introiettate nel gradino a priori precedente, in quello dei binari che, in modo ancora indeterminato e solo presentito, mostrano alla filosofia il sentiero di domanda da seguire. Quasi che quella filosofica sia sempre una risposta al quesito: “cos’è un ente in quanto determinato dalle dieci categorie elencate da Aristotele (prima fra tutte la categoria di sostanza)27 e in quanto sussumibile sotto un eidos che esso condivide con altri enti?”. Una conferma in proposito ci viene dai paragrafi centrali della seconda parte di Philosophie des Geistes, in cui l’autore apre un’ampia parentesi sul tema “essenza e categoria”, entrambi concetti strettamente connessi a quello di ousia relativamente alla caratterizzazione del was (dell’essentia) e del dass (dell’existentia) del polo cosale e sostanziale28: 27 Non è probabilmente casuale il fatto che Fink mantenga l’elenco delle categorie proposto da Aristotele senza mai prendere in considerazione la sua risistemazione da parte di Kant. Si può infatti presumere che a rappresentare un elemento di esubero nella tavola kantiana fossero agli occhi del filosofo le categorie della modalità, inerenti all’essere dell’oggetto e non più direttamente alla sua conformazione, e in quanto tali precludenti la possibilità di sviluppare un pensiero ontologico – questo era lo scopo finale a cui Fink guardava – svincolato dal diretto vincolo cosale. Un’interessante problematizzazione della questione delle Seinsmodalitäten a partire dalla prima Critica kantiana è sviluppata nella Vorlesung del semestre estivo 1958 dal titolo Alles und Nichts, a cui R. Lazzari ha dedicato il sesto capitolo del suo volume già citato su Eugen Fink e le interpretazioni fenomenologiche di Kant, dove l’autore non manca inoltre di mostrare la relazione fra l’argomentazione finkiana e il tema fenomenologico-husserliano delle “modificazioni intenzionali delle modalità dossiche e delle correlative modalità noematiche dell’essere”. Se Kant – sostiene Fink in questo corso –, riconducendo le modalità d’essere alle condizioni di possibilità soggettive dell’esperienza, ha il merito di averle svincolate da una tradizione che le riduceva a proprietà e a predicati reali delle cose, resterebbe però legato a questa tradizione in quanto le contrassegnerebbe “ancora in un riferimento retrospettivo alle cose” (Fink, Alles und Nichts. Ein Umweg zur Philosophie, Nijhoff, Den Haag 1959, p. 175). “La ‘realtà’ è in qualche modo aderente alla cosa, deve essere pensata a partire dalla cosa e riferita ad essa” (ivi, p. 174): nonostante esistenza, possibilità e necessità vengano rimesse alla relazione conoscitiva e non all’ente, esse, in quanto categorie, restano del pari orientate alla sostanza; “Kant tiene fermo l’essenziale orientamento delle modalità alla sostanza, nonostante critichi una classificazione in proprietà” (ivi, p. 175). Nel contesto di un progetto filosofico volto a guadagnare uno sguardo sull’essere non facente più leva sull’autonomia delle singole cose, si rivelava sicuramente più consona la tavola delle categorie aristotelica, la quale, nel suo configurare l’ente, non ne riconduceva per necessità l’esistenza (insieme alle sue modificazioni) all’ordine categoriale. 28 Fink definisce così l’essenza: “Il mondo si articola in modo piuttosto appariscente in ambiti, in regioni di cose simili, le quali hanno un aspetto comune, una sembianza visibile comune, un’intrinseca affinità a partire da un’origine comune, un genos. Le cose sono in quanto pietre, in quanto piante, in quanto animali, in quanto uomini, in quanto creazione umana e via dicendo. L’essere-che-cosa (Was-sein) si essenzializza nelle cose e le determina come configurate così e così. Non ci sono cose senza-un-che-cosa (was-losen Dinge), ma esse, se del resto devono essere, devono essere sempre cose determinate-da-un-che-cosa

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Questi due concetti [essenza e categoria] costituiscono il fondamento dell’interpretazione del mondo occidentale, per così dire l’impalcatura fondamentale del progetto ontologico che iniziò nel pensiero dei Greci e che in molteplici trasformazioni ci è stato tramandato e sostiene ancora il nostro esserci. […]Ad essere per noi decisivo è dunque riuscire a giungere nella distanza della meraviglia a partire da cui queste due strutture fondamentali dell’ente possono essere riconosciute nella loro incertezza. Essenza e categoria possono diventare problema solo in un ritorno nel pensiero dell’essere, in una ripresa e in una verifica del progetto ontologico da cui esse hanno origine (ivi, p. 158)

Nelle prime righe riscontriamo di nuovo il riferimento al progetto ontologico degli antichi e al suo condizionamento dell’intera storia dell’ontologia occidentale. Stando alle prime dichiarazioni riportate, Wesen e Kategorie, come prima la compagine sostanziale dell’ente, sembrano riferirsi esclusivamente alla progettualità filosofica del pensiero greco, nell’ambito di un’architettura del mondo che, possiamo dire ripetendo le parole finkiane, “non è certo che sempre ed eternamente debba essere pensata così”. Al termine della citazione è inoltre nominato il “progetto ontologico da cui esse hanno origine”, mentre poche righe dopo leggiamo a tal proposito che “quella battaglia di giganti, combattuta per l’essere a partire da Parmenide sino ad Aristotele, è l’unica sede dove il pensiero di essenza e categoria accadde originariamente e in cui ebbe luogo l’istituzione del nostro mondo” (ivi). Se questo è quanto ci suggerisce una lettura immediata della citazione, occorre chiedersi se un contrappeso e nuove direzioni del problema non emergano eventualmente dal proposito espresso nella sua parte centrale, da quel tentativo di “giungere nella distanza della meraviglia a partire da cui queste due strutture fondamentali dell’ente possono essere riconosciute nella (was-bestimmte), appartenenti a una specie. L’ente può essere soltanto nell’appartenenza a questo o a quel genere. Un’esistenza neutrale, contraria ad ogni determinatezza di genere, non è pensabile” (Fink, Philosophie des Geistes, cit., p. 176). E per quanto riguarda la definizione di categoria: “Come non può esserci un mondo di cose senza-un-che-cosa, così non può esserci un regno graduale di attinenze a un che-cosa (ein Stufenreich von Washaftigkeiten) in cui queste non siano unite nell’unità dell’essere-cosa (in dem einen Dingsein). Questo essere-cosa di tutte le cose viene però pensato nelle categorie. Categoria è la determinazione in cui è pensato l’‘essere-un-ente’. Delle molte cose che si differenziano per genere e specie, noi possiamo tener conto di ciò che è loro ‘comune’, di ciò che appartiene loro in modo ancora ‘più universale’ dell’aspetto uguale, della sembianza visibile uguale, in cui si mostra un’affinità, una comune origine. Le cose più dissimili e meno affini che si possano pensare, uno splendente dio greco e un misero verme nella polvere, si accordano nel fatto di essere un ente. […] Nelle categorie viene asserito che cos’è questo carattere ‘universale’. L’espressione ha origine da Aristotele. […] In Aristotele categoria rimanda talvolta a un indebolimento a livello di predicato. Primariamente, tuttavia, essa allude a quel che sempre deve essere detto sull’ente, nella misura in cui vi viene espressa la struttura dell’essere (Seinsstruktur), l’ordinamento (Bau) dell’ente come tale” (ivi, p. 173).

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loro incertezza”. L’interrogativo che si insinua è sempre lo stesso: su quale livello a priori si sta muovendo Fink? Tornare alla Verwunderung che vide il nascere delle due nozioni esaminate comporta semplicemente il tornare allo stupore del progetto greco? Le righe che seguono, tratte dalle sezioni successive dell’opera, sembrano non lasciare dubbi: La cosa non “ha” in sé la differenza fra che e che-cosa, ma essere-che (Daβ-sein) ed essere-che-cosa (Was-sein), essere-cosa (Dingsein), essere-individuale (Einzelnes-sein) ed essere-universale (Allgemeines-sein) vanno concepiti in relazione alla natura dell’essere. Una tale indagine verificante, che non fa rilievi sull’ente, ma che vuole afferrare col pensiero l’essere stesso, precisamente nel suo peculiare moto dell’incresparsi e del biforcarsi, è ontologia filosofica. Com’è la natura dell’essere, tale per cui esso “è” per così dire irrigidito nella fissità e nella consistenza dell’ente, per cui esso “è” dotato di singolarità e universalità? […]. Si tratta per così dire di due diversi livelli, di due diversi piani problematici, se noi stiamo sul terreno della differenziazione fra la singola cosa e l’universale, oppure se interroghiamo e pensiamo retrospettivamente la natura dell’essere stesso, stupendoci del fatto che in generale ci sia la differenza fra essere-universale ed essere-singolare.29 La speculazione su essenza e categoria inizia con la meraviglia per il fatto appariscente e straordinario che tutto ciò che è sotto il cielo sia caratterizzato attraverso l’essere-che-cosa (Was-sein) e l’essere-cosa (Ding-sein) (ivi, p. 176).

A sostegno della nostra tesi troviamo qui molteplici indizi. Anzitutto ci viene esplicitamente detto che si sta parlando dell’“ontologia filosofica” (in generale), dal che possiamo ipotizzare che l’interrogazione in esame sull’essere-che-cosa (in relazione a un’essenza) e sull’essere-che (secondo le determinazioni categoriali), sull’essere-universale e sull’essereindividuale, appartenga al domandare ontologico nella sua generalità e non solo a un singolo momento del suo sviluppo, non importa quanto esteso nel tempo. Secondariamente, in evidente analogia con le precedenti citazioni, vediamo come le distinzioni relative alla definizione di Wesen e Kategorie siano indicate quale punto di partenza della Prüfung filosofica e non quale suo punto di arrivo. “Stupendoci del fatto che in generale ci sia la differenza fra essere-universale ed essere-singolare”; “la speculazione su essenza e categoria inizia con la meraviglia per il fatto appariscente e straordinario che tutto ciò che è sotto il cielo sia caratterizzato attraverso l’essere-che-cosa e l’essere-cosa”: l’assunto per cui le cose sono riconducibili a un’essenza comune e sono individuate nella loro singolarità viene posto prima rispetto al progetto ontologico, come suo movente e non come suo risultato, come causa della meraviglia da cui la filosofia ha inizio e non come suo effetto. Se è vero che una precisa delimitazione concettuale di una simile struttura si 29

Ivi, p. 170-1 (corsivo nostro).

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ha solo in sede di philosophischer Entwurf – e la fissazione dei concetti di essenza e categoria, nel modo in cui li conosciamo e in cui condizionano la nostra esperienza, c’è stata per la prima volta solo con il progetto schiuso dalla filosofia platonica e aristotelica –, è altrettanto vero che alla base di tale delimitazione pare esserci già, per quanto indeterminata, una conoscenza anticipatrice degli enti del mondo, che impone di concepirli nel riferimento a un eidos e come enti sussistenti autonomamente. Fink sembra così volerci dire che la cosa, comunque la si voglia pensare e comunque si voglia stravolgere la progettazione della sua struttura, resta per necessità un selbstständiges Ding che condivide con altre cose tratti essenziali che ne determinano la forma sostanziale (posizione per nulla scontata, basti solo pensare alla distruzione del concetto di sostanza da parte di Hume o del prospettivismo nietzscheano). Ogni incedere filosofico che si ponga la domanda sull’essere dell’ente, la prima fra le quattro domande fondamentali della filosofia, non può evitare di rimanere entro i limiti dettati da questi criteri; e poiché è in relazione al potere fondante del filosofare che si istituisce l’atteggiamento naturale, ciò implicherà che anche quest’ultimo non possa mai andare al di là di tali limiti e che la relazione umana al mondo, per quanto dinamica e condizionata storicamente nel suo costituirsi, non possa di fatto esulare dall’esperire le cose in questo determinato modo. Nelle stesse citazioni, infine, è scorgibile un chiaro segnale di ordine terminologico. La parola Ding, coincidente per Fink con la nozione di ente tout court, è qui spontaneamente utilizzata con riferimento all’individuazione sostanziale, che siamo pertanto autorizzati a leggere alla base della prima Grundfrage: l’espressione “Ding-sein” è usata col significato di “cosa individuata”, ancora una volta di “sostanza” (lo si vede ad esempio dove è affiancata a “Was-sein”), ragion per cui, se chiedere dell’ente equivale a chiedere della cosa, chiedere della cosa, ora sappiamo, equivale sempre a chiedere di un ente singolarizzato e strutturato secondo quell’ordinamento che Aristotele ha cercato di concettualizzare con le sue categorie. Alla domanda “was ist ein Ding?” il filosofo risponde così: L’ousia viene pensata come ciò che permane (das Bleibende), ciò che è persistente (Beharrliche), costante (Ständige), presente (Gegenwärtige), come la cosa indipendente (das selbstständige Ding) che ha anzitutto un’essenza conforme a una specie, che ha proprietà, e via dicendo. L’ordinamento della cosa, l’essere-sostanza, l’avere-proprietà, stare in relazione all’altra cosa, avere una posizione spazio-temporale, avere una forma, poter sortire ed esperire effetti, ecc…, – tutto questo, […] viene già compreso e pensato prima di trovare le cose singole e reali (ivi, p. 177).

Questa, in sintesi, è l’immagine dell’essente da cui la nostra esperienza è per Fink sempre determinata. E del fatto che si tratti di un condizionamento 68


posto anteriormente rispetto al concetto filosofico segue quella che ai nostri occhi rappresenta l’ennesima dimostrazione: subito dopo compare infatti l’affermazione già incontrata per cui “il pensiero delle determinazioni categoriali costituisce una parte essenziale del progetto ontologico” (del progetto ontologico in generale, non solo di quello dei Greci), unitamente alla precisazione per cui “il compimento delle visioni categoriali è dunque originario della metafisica. Cosa è una cosa, è una domanda metafisica” (ivi); parole, queste, che possono essere traslate sostenendo che la metafisica, per Fink l’autentica filosofia nella sua storia secolare, ha tra i suoi oggetti die Frage nach dem Ding, la quale, come l’autore ha appena chiarito, coincide con il problema delle “visioni categoriali”30. Sostenere questo, tuttavia, significa confermare che il connubio Ding-ousia non rimanda alla definizione di un progetto, ma all’indicazione di quella macroproblematica dell’ente a cui da sempre la storia del pensiero cercherebbe di dare una risposta, della problematica che viene prima di ogni progetto. Il presentimento relativo alla prima fra le quattro Grundfragen indicate da Fink suggerirebbe in tal senso un progetto della cosità della cosa che per necessità, trasversalmente rispetto a qualsivoglia cambiamento storico, deve mantenersi entro i criteri ontologici suggeriti dalla nozione di Substanz e da quelle che ad essa vengono tradizionalmente connesse (quali essenza e proprietà). Al di là dello specifico progetto filosofico-concettuale, rispondere alla questione relativa all’on he on non può che dar luogo a una particolare interpretazione del concetto di sostanza. “Come intendere la struttura sostanziale dell’ente?”: è questo, a nostro parere, il vero interrogativo a cui Fink pensa.

4. Sostanza, sostanze In forza delle citazioni riportate ci sembra dunque lecito concludere che l’autore pone alla base della fluidità delle visioni ontologiche del mondo una compagine-limite inerente al modo di pensare ed esperire la Seiendheit des Seienden, compagine che attraversa obliquamente, guidandolo e limitandolo 30 Occorre tuttavia evidenziare che sottesa alla dichiarazione appena citata è altresì ravvisabile un’allusione critica, scorgibile alla luce del pensiero del mondo che Fink articolerà negli anni immediatamente successivi. L’affermazione secondo cui la metafisica si sarebbe sempre interrogata sulla cosa (intesa nel modo descritto), che noi leggiamo quale spia di una struttura cosale stabile pensata a monte della storia della filosofia, può essere contemporaneamente letta come denuncia di un limite del pensare metafisico, il quale si sarebbe fermato a una tale interrogazione, non calandola nella prospettiva più ampia offerta da un’impostazione cosmologica. L’ente, detto altrimenti, sarebbe rimasto il punto di riferimento ultimo della tradizione occidentale precedente, dimentica del mondo (dell’essere) e di quella che Fink, sulla scorta della terminologia heideggeriana, chiama “differenza cosmologica”. Cf. Fink, Welt und Endlichkeit, cit., p. 19 e 190.

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nei suoi confini, il rapporto circolare fra l’Erdenken filosofico e l’atteggiamento naturale. Ma come possiamo coniugare tali affermazioni con quelle che paiono affermare l’esatto contrario? Com’è possibile che da un lato si identifichi il compendio sostanziale della cosa con la stessa pre-delineazione della domanda filosofica e dall’altro si riporti il medesimo compendio alla specificità di un singolo progetto (quello greco)? Possiamo avanzare un tentativo di risposta sottolineando preliminarmente che il concetto di “sostanza”, anche se assunto nel suo significato tradizionale, non è univoco. Nell’assetto struttivo dell’atteggiamento naturale il binomio Ding-ousia ci sembra poter assumere un senso duplice: secondo un’accezione più stretta e letterale, esso rimanda a un’assoluta ipostatizzazione e chiusura della conformazione cosale (ed è in questo senso che lo ritroviamo per Fink nell’organizzazione della nostra esperienza, sulla scia del condizionamento di una storia plurimillenaria); in senso più lato può invece rimandare a una disposizione dei confini intramondani che non esclude una loro parallela apertura e collocazione in orizzonti più estesi. Mentre nell’ultimo caso possiamo parlare di sostanza alludendo al fatto che le cose sono in un certo modo, tale per cui ogni cosa si mostra nella sua separazione rispetto alle altre e nel suo sussistere al di sotto dei molteplici cambiamenti accidentali, nel primo caso, stringendo il cerchio, l’espressione sottintende una visione secondo cui esse sono solo in questo modo e la sostanzialità esaurisce la definizione del loro essere, secondo cui i loro confini non si limiterebbero a rappresentare termini ammessi nella formazione della molteplicità ontica, ma di tale formazione deterrebbero anche l’ultima parola; ogni ente, in una simile prospettiva, è autonomo, in sé autosufficiente, ripiegato nella sua indipendenza ontologica. Si tratta di una sfumatura tutt’altro che irrilevante. Avere le cose separate le une dalle altre non significa ancora che esse siano in sé chiuse e che incarnino il luogo metafisico in cui pensare concentrato il loro essere. Così come è possibile pensare a una prospettiva teorica che “depotenzia” la sostanzialità interpretandola dialetticamente o indicandola come risultato di processi fondativi che la eccedono31, allo stesso modo si può pensare a un mondo in cui gli onta, pur rimanendo tali, rimettono la loro Seinsweise al di fuori della propria sussistenza, un mondo in cui l’uomo, pur continuando a percepire cose autonome, non si fossilizza su tale autonomia, ma la cala in dinamiche che ne superano i confini percettivi. 31 È quanto Fink ravvisa ad esempio in Hegel e nella sua Fenomenologia dello spirito, specificamente nel passaggio dalla seconda (“La percezione o la cosa e l’illusione”) alla terza figura (“Forza e intelletto, fenomeno e mondo ultrasensibile”) della “Coscienza” (cf. Fink, Hegel, cit., p. 111s.), ma si pensi anche alla riduzione husserliana o alla relazione Zuhandenheit-Vorhandenheit in: Sein und Zeit.

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Tenendo presente questo duplice livello di traduzione del problema è possibile sciogliere l’antinomia in cui siamo incorsi, sorta dal fatto di aver incontrato l’identificazione cosa-sostanza sia quale risultato dell’antico progetto ontologico che ancora ci domina – e quindi come Weltstil che un altro progetto potrebbe potenzialmente scalzare –, sia quale motore di ogni progetto sull’ente – e pertanto come elemento di un’architettura mondana che Fink penserebbe in modo stabile e sovra-storico. Benché ad essere presupposta in entrambi i casi sia la forma del mondo suggerita dalla nozione aristotelica di ousia, non è detto che ad essere intesa sia sempre la sostanzialità nel suo senso più stretto. Dove l’autore afferma che il Grundriss des Dinges come sostanza è per noi un’eredità derivante da un progetto di pensiero contestualizzato storicamente, il riferimento è all’accezione di Substanz intesa quale radicale ipostatizzazione della cosa, vale a dire a una concezione per cui l’essere dell’ente altro non è che l’essere del singolo ente, del tode ti; l’articolazione ontologica del mondo, in questa prospettiva, prevede una molteplicità di cose ontologicamente conchiuse e fra loro connesse in virtù di relazioni “accidentali”, cose il cui essere è ousia, nulla più. Parlare di sostanza, a questo livello, significa parlare di una delimitazione ben precisa della cosalità e della sostanzialità, ad opera di un progetto ontologico (quello aristotelico) il cui riverbero in sede naturale si traduce in un’assolutizzazione dei contorni cosali. Lo stile mondano fondato da un’interpretazione filosofica che identifica l’essere della cosa con l’essere della cosa non può che essere uno stile in cui i singoli enti vengono esperiti nella loro separazione e nella loro indipendenza assoluta. Laddove invece Fink sostiene che “il pensiero delle determinazioni categoriali costituisce una parte essenziale del progetto ontologico” (comunque lo si voglia intendere e in qualunque epoca lo si voglia situare), ponendo quindi la distinzione sostanza-accidente come un comune denominatore di qualsiasi visione del mondo, il riferimento non è più a un’assolutizzazione della struttura cosale eretta tramite le categorie, bensì a una forma a priori più “generica” e suscettibile di sviluppi differenti: così come essa può dar adito a un’interpretazione concettuale che si limita a ripetere i suoi contorni e a conferir loro l’ultima parola sul piano d’essere (è quanto è accaduto nel progetto antico), allo stesso modo può costituire il punto di partenza per un pensiero che ne spinge i confini oltre, su un terreno dove la forma in questione, nel suo dover essere motivata e spiegata, viene fatta per così dire saltare quanto a valore assoluto (è ad esempio il caso di Hegel). L’iniziale presentimento delle determinazioni categoriali, ove si traduca in progetto di pensiero, può dar vita a una rigida traslazione teorica della sua conformazione (mediante una completa ipostatizzazione della configurazione indicata da tali determinazioni), ma può anche limitare il suo 71


ruolo a semplice traccia anticipata dei contorni dell’esperienza; traccia che il pensiero filosofico non deve per forza in toto ricalcare. Ove questo succeda, ove cioè l’essere delle determinazioni categoriali venga spiegato andando oltre la stessa dimensione categoriale, non significa che i confini fra cose vengano trascinati via e rinnegati come coordinate per l’orientamento esperienziale, ma soltanto che essi, mantenuti saldi in tale ruolo, ricevono una fondazione che li supera e li inserisce in relazioni d’essere ulteriori, aprendo in loro varchi da cui ne risultano de-assolutizzati proprio in quanto confini32. Guardando poi al riverberarsi di tale dinamica a priori sull’atteggiamento naturale, essa si tradurrà in una tipologia d’esperienza affine a quella poc’anzi ipotizzata, tipologia in cui l’uomo, mentre non si ferma all’isolamento cosale, continua tuttavia a percepire l’ente secondo i dettami suggeriti dalla nozione classica di sostanza, ai quali resta per necessità vincolato in forza dell’iniziale presagio da cui il progetto non può mai allontanarsi33. Possiamo pertanto asserire che l’utilizzo della parola “Substanz” in riferimento ai binari di domanda precedenti al concetto filosofico non allude a una concezione definitiva circa l’essere dell’ente, ma a un sentiero che si limita a garantire che le cose siano anche sostanze e che come tali vengano incontrate sul piano della natürliche Einstellung. Sono solo i “requisiti minimi” dell’esperienza ad essere forniti a tale livello trascendentale, le maglie più larghe della costituzione del mondo e il “disegno preparatorio” 32 Una direzione risolutiva affine circa il problema della cosa sarà percorsa dalla stessa cosmologia finkiana, volta a divaricare l’apertura progettante sino a ricongiungerla con i suoi presupposti (appunto la struttura ontologica che Fink chiama “mondo”, che dobbiamo considerare alle spalle dei presentimenti trascendentali descritti in Philosophie des Geistes). Dove Fink si confronta direttamente con questo problema, pochi anni dopo, ne emerge infatti una concezione ambigua, secondo la quale, da un lato, la cosa è sostanza (cf. Fink, Sein und Mensch, cit., p. 304-5), dall’altro non può che rimettere i propri confini al di là di sé, in direzione della totalità mondana: “Il mondo è per noi familiare in modo molto più profondo e molto più originario di ogni a priori oggettuale. Noi sappiamo di esso prima di sapere per così dire a priori dell’essere-che, dell’essere-che-cosa e dell’essere-vero dell’ente; il sapere del mondo è l’a priori originario; il sapere del mondo e dell’essere è la più intima luce del nostro comprendere” (Fink, Welt und Endlichkeit, cit., p. 195). Sull’argomento cf. I. Blecha, Das Weltganze und die Endlichkeit der menschlichen Existenz. Zur Dialektik des kosmologischen Denkens bei Eugen Fink, in: A. Böhmer (c/ di), Eugen Fink. Sozialphilosophie, Anthropologie, Kosmologie, Pädagogik, Methodik, Königshausen & Neumann, Würzburg 2006, p. 173s. Ci permettiamo inoltre di rimandare nuovamente a S. Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo, cit., p. 191s. 33 Non è un caso che Fink si dedichi in più occasioni al tema del mito, pensiamo per esempio alle note riflessioni sul rapporto mito-gioco contenute in Spiel als Weltsymbol (c/ di C. Nielsen e H. R. Sepp, in Gesamtausgabe, Abt. 2, Bd. 7, Alber, Freiburg i. Br.-München 2010, p. 127s.; tr. it. Il gioco come simbolo del mondo, Hopefulmonster, Firenze 1991, p. 109s.). Sul tema cf. inoltre Fink, Epiloge zur Dichtung, Klostermann, Frankfurt a. M. 1971; Id., Sein und Mensch, cit., p. 222s.

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dello stile a priori in virtù del quale l’uomo incontrerà gli enti. Se poi un tale disegno già contenga i tratti dell’immagine definitiva, oppure se debba essere ampliato per dar vita a un’immagine costruita per così dire “su più strati” (nel caso in cui il permanere delle indicazioni categoriali si sposi con un contemporaneo rifiuto di una loro assolutizzazione), questo è solo l’ontologischer Entwurf a poterlo decidere, traducendo concettualmente quanto suggerito dall’iniziale presagio oppure spingendo il concetto oltre e ponendo così le basi per una relazione naturale con il mondo più complessa e stratificata, in cui la cosa rimane sostanza relativamente alla sua configurazione, ma non per quel che attiene all’ultima parola circa il suo essere. È dunque solo in tal senso che Fink ammette una disposizione stabile in rapporto all’essere-cosa della cosa: nella misura in cui egli prevede quale sfondo irrinunciabile per la costituzione del mondo il fatto che le cose vengano recepite nei loro confini e nella loro stabilità, il fatto che esse, possiamo dire, siano sempre anche sostanze. Nonostante la fluidificazione e la relativizzazione dell’ordinamento mondano messe in campo dalle tesi esposte in Philosophie des Geistes, l’autore, trattenendo certi criteri per la Weltkonstruktion in un livello a priori precedente a quello concettuale istituito dal filosofare, garantisce indirettamente la persistenza di un’intelaiatura salda dell’esperienza, non lasciando così la formazione del reale in balia di illimitate possibilità interpretative, rese potenzialmente legittime dalla dinamicità del progetto ontologico. Che la sostanzialità della cosa venga assolutizzata oppure no, è sempre essa a dover essere comunque filosoficamente interpretata, e ciò nella misura in cui è sempre in virtù di questa sostanzialità che il mondo deve poter essere esperito.

Conclusione Alla domanda se Fink, con la sua “filosofia dello spirito” e con la sua dottrina del progetto ontologico, rimetta infine lo stile del mondo a un’imprevedibile mutevolezza interpretativo-costitutiva, possiamo infine rispondere che il filosofo, nonostante la mobilità ontologica introdotta con tali tesi, continua ad ammettere una struttura unitaria al di sotto della fluidità delle variazioni storico-temporali. L’indagine circa l’essere dell’ente, condotta a titolo esemplificativo34, ci ha infine indotti a riconoscere

34 Un percorso argomentativo parallelo poteva essere seguito anche a proposito del problema della verità, corrispondentemente alla pre-definizione della regola che porta i singoli rapporti veritativi ad essere considerati tali. Anche in questo caso sorge il dubbio: la relazione veritativa uomo-ente risponde a criteri di tipo storico o detiene in ultima istanza una componente di invariabilità? Nonostante la teorizzazione della storicità del progetto ontolo-

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l’esistenza di una struttura esperienziale unitaria da cui il filosofare è interpellato e da cui non gli è dato discostarsi. Se è vero che alle grandi costruzioni filosofiche della storia della metafisica corrispondono nella prospettiva finkiana differenti modi di incontrare naturalmente il mondo, è anche vero che la differenza fra suddetti modi non può mai essere tale da mettere in discussione una certa Weltstruktur di base che il pensatore sempre presuppone. Anche per Fink, dunque, può essere fatta valere la seguente affermazione husserliana: “il mondo è questo: un altro mondo non ha per noi alcun senso”35; anche in questo caso è consentito dire che “il mondodella-vita, malgrado la sua relatività, ha una propria struttura generale”, “a cui è legato tutto ciò che è relativo”, ma che “non è a sua volta relativa” (ivi, p. 167). Benché la relatività in questione, nel caso di Fink, non detenga solo un significato culturale, ma possa essere estesa alla stessa decisione progettante l’essere dell’ente, essa indica comunque solo uno strato, per quanto determinante, della costituzione ontologica del reale, strato a sua volta poggiato su quello che con Husserl possiamo con buone ragioni definire l’unico mondo “accessibile una volta per tutte e da parte di tutti”36. gico e la conseguente riconduzione del nostro rapporto con l’ente al binomio moderno soggetto-oggetto (cf. Fink, Zur ontologischen Frühgeschichte…, cit., p. 34), nei testi sono rintracciabili indizi di un sostrato fisso che il filosofare troverebbe già sempre innanzi a sé. In Einleitung in die Philosophie, per esempio, quando Fink elenca e commenta le quattro domande metafisiche, vediamo come egli offra anticipatamente un’esatta delimitazione del significato del termine Wahrheit, sostenendo che esso “vale per noi” come “la corrispondenza del sapere umano con l’ente (die Übereinstimmung des menschlichen Wissens mit dem Seienden)” (Fink, Einleitung in die Philosophie, cit., p. 74); dal che possiamo desumere che la domanda metafisica corrispondente non pone il problema della verità in generale, ma, più specificamente, della verità come Übereinstimmung, come adaequatio rei et intellectus. Anche in questo caso ci sembra dunque che a monte del progetto ontologico sia già ammesso un vincolo a cui il progetto deve sottostare, ovvero il presupposto per cui tra l’ente e il soggetto conoscente, ontologicamente autonomi, è possibile un accordo, per cui l’umano conoscere è in grado di riprodurre l’oggetto che gli è esterno: “così come tra un originale e una riproduzione può aver luogo una corrispondenza, cosicché la riproduzione appare simile all’originale, allo stesso modo una frase e una conoscenza possono corrispondere a uno stato di cose” (ivi, p. 129). 35 Husserl, La crisi delle scienze europee…, cit., p. 274. 36 Ibid. Concordiamo dunque con Guy van Kerckhoven, che interpretando il senso della svolta ontologica nel pensiero finkiano ci dice: “Questo campo non è per questo totalmente avulso dalla fenomenologia trascendentale, poiché Fink ritiene che l’universo dei ‘concetti a priori dell’essere’ apra precisamente le condizioni di possibilità alla comprensione analitica della fenomenologia trascendentale. […] Far fronte a Husserl, […] proseguendone il cammino fino ai problemi di più alto grado della ‘storicità trascendentale’ e della ‘soggettività assoluta’; poi, dover cambiare fondo, ricollocarsi sul terreno di un’ontologia fondamentale dei concetti a priori dell’essere, dei concetti illuminanti originari, che escludono il campo stesso di ciò che potrebbe offrirsi come fenomeno alla fenomenologia trascendentale: ecco tutta la complessità della situazione filosofica di Fink, in quella svolta in cui egli doveva riprendere, per se stesso, la filosofia di Husserl” (G. van Kerckhoven, Fenomenologia e riduzione tematica dell’idea di essere, in: A. Marini (c/ di), La VIª Meditazione Cartesiana di E.

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Se rispetto al fondatore della fenomenologia si può parlare di un diverso orientamento del processo fondativo, di cambiamento non si può tuttavia parlare a proposito di quel terreno stabile a cui la fondazione in questione si rivolge, a proposito di quella persistenza del mondo che ogni indagine fenomenologica, se fedele ai propri intenti originari, deve necessariamente presupporre.

Fink e E. Husserl, Atti del seminario di Gargnano 18-21 Aprile 1999, in “Magazzino di Filosofia�, 5/2001, p. 27).

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INTERSEZIONI In questa rubrica pubblichiamo due testi la cui natura è essenzialmente quella della recensione. Come tali essi troverebbero la propria collocazione più naturale nel vol. C (Strumenti) del Magazzinodifilosofia. Ma abbiamo ritenuto di riportarli in questo volume, ampiamente dedicato a Fink, per una ragione di sostanza. Si tratta infatti dei testi di due studiosi, Guy van Kerckhoven e Riccardo Lazzari, che per strade autonome si sono incontrati su un tema critico: la funzione centrale che un dialogo interpretativo con l’autore della Critica della ragion pura svolge nel pensiero di Eugen Fink (sia che si guardi al versante fenomenologico di questo pensiero, proprio soprattutto del decennio precedente la guerra, sia a quello di una filosofia ontocosmologica, propria dei lavori finkiani del secondo dopoguerra). Guy van Kerckhoven presenta il recente lavoro di Lazzari dedicato a Eugen Fink e le interpretazioni fenomenologiche di Kant (ed. FrancoAngeli, “Magazzino di Filosofia XI”, Milano 2009); dal canto suo Riccardo Lazzari presenta il Seminario kantiano di Fink 1962-71 Epilegomena zu Immanuel Kants Kritik der reinen Vernunft c/ di Guy van Kerckhoven (Verlag Karl Alber, “Eugen Fink Gesamtausgabe” vol. 13/ 1-3, Freiburg München 2011).

Riccardo Lazzari, Eugen Fink e le Interpretazioni fenomenologiche di Kant. Quaderni del Magazzino di Filosofia n. XI. Franco Angeli, Milano 2009, p. 280. Il y a des livres qui patiemment attendent leur heure. Ils mûrissent à l’ombre de recherches qui les entourent et de diverses lumières illuminent leur champ. Ce n’est qu’à partir d’un heureux accord de toutes les circonstances, qu’ils déploient leur force interprétative et, trouvant le juste milieu entre le détail et la vue d’ensemble, parviennent au plus haut degré de compréhension des tendances les plus intimes et des motifs les plus vifs qui animent leur sujet. Le présent livre de R. Lazzari a jailli de deux conférences, l’une tenue en octobre 2002 à Gargnano del Garda, l’autre organisée à l’occasion du centenaire de la naissance de Fink à Fribourg en décembre 2005. A deux reprises, elles marquaient de leur intérêt les relations à la fois complexes et tendues que la phénoménologie a entretenues avec la philosophie de Kant. Car il n’y point de doute que la phénoménologie a profondément transformé l’idée de la philosophie transcendantale, à la fois en faisant sauter les verroux d’une exégèse fidèle au texte de la critique kantienne et en outrepassant le cadre stricte, auquel on a voulu restreindre son action révolutionnaire 77


“copernicienne”. Si Husserl avait prudemment placé le rapport interne de sa phénoménologie avec la philosophie de Kant sous le signe d’une “histoire critique des idées”, Heidegger en avait décidé autrement: en posant fermement dans l’axe focal de ses adresses plus violantes, “le problème de la métaphysique”. La philosophie première de la phénoménologie semblait ainsi vouloir se positionner elle-même par rapport aux deux versants “positifs” et “négatifs” de l’entreprise critique kantienne. Dans l’histoire critique des idées, c’était en vérité l’idée d’une phénoménologie “pure”, qui se frayait son propre chemin: celle d’une analyse des actes de la conscience intentionnelle – et non pas des jugements synthétiques apriori. Dans la destruction de l’ontologie heideggerienne, ce ne fut pas pour autant le déploiement “dialectique” de l’antinomie de la raison pure, mais d’emblée l’exposition de l’unité de l’aperception transcendantale au temps, la radicalisation “ekstatique” au sein d’une phénoménologie du Dasein, qui “faisait problème”. Qu’en était-il de la pensée phénomenologique de Fink, qui non seulement avait pris part au dernier élan de l’oeuvre phénoménologique tardive de son fondateur, mais aussi assisté de près aux débats les plus vifs, engendrés par la poussée inexorable de l’ontologie existentiale, et aux déchirements inéluctables qu’elle avait provoqués au sein même du mouvement phénoménologique? Pris dans l’oeil du cyclone, qui fut le fatum de la phénoménologie, ce n’était que par la vertu centrifuge de la “Weltfrage”, que Fink tenait debout. Et c’est dans les profondeurs abyssales de cette question que se tissait pour lui un autre rapport “architectonique” avec la pensée kantienne. Le livre présent de R. Lazzari est tout-à-fait remarquable, puisque pour la première fois il décrit la courbe pleine de ce pivot et prend la juste mesure des forces qui le tenaient sur son aiguille. Jusqu’à présent, il n’y avait, dans l’oeuvre publiée par Fink lui-même, que deux points de référence, témoignant – certes – d’une rencontre renouvellée avec la pensée critique de Kant, mais sans pour autant dévoiler déjà toute l’assiduité de l’interprétation phénoménologique, mise sur chantier par Fink. En premier lieu, le “fameux” article rédigé pour les Kantstudien (1933), préfacé par Husserl, n’avait guère échappé à l’attention de la phénoménologie “fribourgeoise” – celle d’E. Stein, d’A. Schütz, de F. Kaufmann ou de D. Cairns – ni à celle de la jeune phénoménologie française – de G. Berger et de M. MerleauPonty. Mais cet écrit du jeune Fink , révélateur non pas d’une quelconque orthodoxie eu égard à la pensée de Husserl, mais plutôt d’une radicalisation implicite – ou illicite – de la phénoménologie transcendantale, semblait devoir rester sans suite, l’idée furtivement esquissée d’une “metaphysique ontogonique de la subjectivité absolue” n’ayant depuis pas été relayée par d’autres textes plus explicatifs. Par rapport à ce “péché de jeunesse” tant admiré, le livre publié en 1959: “Tout ou Rien. Un détour vers la 78


philosophie” paraissait marquer un contrepoint à toute aventure trop “spéculative” de la phénoménologique, écartant d’elle les figures de pensée “onto-théologiques” – la phénoménologie n’assistant en rien à une quelconque “théogonie” mais à l’événement de l’apparaître-même et comme tel. Des maillons essentiels du développement interne de la pensée phénoménologique faisaient défaut, qui auraient pu expliquer à la fois sa riposte aux objections néokantianisantes (de R. Zocher et de F. Kries) des années trente – dont certains, comme E. Stein, avaient ouvertement contesté les formulations trop “hégelianisantes” – et les raison de son intérêt particulier, mais tardif, pour la dialectique transcendantale kantienne et notamment pour le chapitre dédié à l’idéal transcendantal. L’horizon de la “Weltfrage” avait en effet subi des changements profonds, à la fois en dépassant l’analyse de la constitution husserlienne dite “classique” et en transformant du dedans la pensée historiale de l’être inaugurée par Heidegger. Car pour Fink, la question du monde fut “explosive”. Entré depuis 1980 dans le programme de recherche de la philosophie allemande contemporaine, conduit avec une vigueur et perspicacité singulière par A. Marini à Milan, R. Lazzari a assisté de près et participé activement à des avancées importantes de la recherche phénoménologique, qui, restituant le filigrane-même de l’ouvrage phénoménologique fribourgeois dans son ensemble, ont produit des changements de perspective et donné lieu à une refonte radicale de la phénoménologie, dont à ce jour seule l’oeuvre de M. Richir fait preuve. Par ses traductions de textes – finement choisis – de E. Cassirer et de Heidegger, notamment la recension du Kantbuch et les documents de la dispute sur l’héritage kantien de Davos, puis par son livre, paru en 2002 sur ‘L’ontologie de la facticité du jeune Heidegger (Husserl, Dilthey, Natorp, Lask)”, enfin par sa participation à la rédaction de la Festschrift pour A. Marini en 2008, R. Lazzari a acquis une connaissance intime de plusieres prémisses essentielles – non pas du retour à Kant, mais du “détour par Kant”, qu’avait pris la phénoménologie, pour aboutir à une articulation plus précise de ses propres “problèmes fondamentaux”. La publication du Kantbuch de 1929 et les discussions de Davos avaient sonné l’heure des premiers travaux phénoménologiques de Fink et des premières rencontres avec E. Lévinas et O.F. Bollnow. La publication en 2009 par les soins de A. Marini de la traduction italienne de la Sixième Méditation cartésienne (1932), conçue par Fink sur la trame de la Methodenlehre kantienne, ouvrait une “fenêtre” sur les transformations profondes qu’avaient subies les filières “cartésiennes” de la phénoménologie husserlienne dans les années d’avantguerre. Elle fut rejointe par la publication en cours dans les Oeuvres complètes de Fink des volumes, consacrés au “laboratoire phénoménologique” fribourgeois. Dans le sillage des notes de travaux, des esquisses et des pro79


jets de Fink, non seulement l’édition tant attendue des “Manuscrits de Bernau” sur le temps, auxquels Fink avait contribué par des recherches personnelles, mais aussi la publication antérieure dans “Proximité et Distance” de la conférence tenue par Fink à Dessau et Bernsburg: “L’idée de la philosophie transcendantale chez Kant et dans la phénoménologie” (1935) prenaient un relief particulier. Car elles faisaient partie de la réplique, nourrie au sein de l’oeuvre tardive de Husserl, à envoyer à la phénoménologie existentiale: l’élaboration d’une oeuvre “systématique” de la philosophie phénoménologique transcendantale. Les “Eléments d’une critique de Husserl” de 1940, puis l’Antrittsvorlesung de 1946: “Les présuppositions de la philosophie”, mettaient fin à ces efforts menés auprès de Husserl. La contribution de Fink au congrès tenu à Mendoza: “De l’essence de l’expérience ontologique” (1949) fut le signe prémonitoire du nouvel engagement – d’une puissance “kathartique” – de sa pensée, longuement méditée pendant les années de la guerre. La publication par les soins de F.A. Schwarz du premier cours tenu par Fink à Fribourg: “Introduction à la philosophie” (1946), ainsi que des cours tenus en 1949 et en 1966 “Monde et Finitude”, furent d’une importance capitale pour saisir le sens de sa lecture phénoménologique de la critique kantienne. Enfin, la publication imminente du “Séminaire sur Kant” dans les Oeuvres complètes, par lequel Fink lui-même avait mené jusqu’au terme – et à son apogée – son enseignement universitaire à Fribourg, sous le titre choisi par Fink d’ “Epilégomènes à la critique de la raison pure de I. Kant”, dont R. Lazzari a pas à pas suivi la préparation pour l’édition, scelle son interprétation phénoménologique de la première critique kantienne du cachet d’une pensée parvenue à sa maturité et sa pleine liberté. Devant la largeur panoramique de ce nouveau paysage, R. Lazzari a agi avec justesse, répondant avec d’adroits ménagements à la question fondamentale, à laquelle son livre tout entier reste suspendu: celle du fil conducteur de la lecture et de l’interprétation phénoménologique finkienne de Kant: la question du monde. Son action s’engage au moment-même, auquel en 1925 se produit pour Fink la rencontre décisive avec Husserl. C’est en effet à partir de la conférence commémorative de 1924, tenue par Husserl sur “Kant et l’idée de la philosophie transcendantale”, puis des explications fournies dans une lettre de 1925 adressée à Cassirer, enfin des éclaircissements que Husserl a apportés lors de son cours de 1927 – dont Fink avait soigneusement pris note – et pendant la préparation de la rédaction de Krisis, que R. Lazzari rend le jugement de Husserl, oscillant entre une convergence de sa phénoménologie transcendantale avec la philosophie de Kant et une distance critique à l’égard de la méthode de la critique kantienne. Avec P. Ricoeur, on pourrait dire que Husserl a voulu porter à la lumière du jour “la phénoménologie implicite”, cachée derrière l’écran de l’épistémologie kantienne – l’eidétique intuitive et concrète ne trouvant, dans les constructions 80


kantiennes, point de contrepartie directe. Plus incisive, et plus violante, est l’interprétation de la première critique, proposée par Heidegger, à laquelle R. Lazzari consacre un deuxième chapitre. Une nouvelle fois, l’auteur restreint le skopus de son exposé à l’épisode, pendant lequel Heidegger exerça sur le jeune assistant de Husserl une influence réelle, en analysant d’abord le cours de Marbourg de l’hiver 1927/28, puis le fameux Kantbuch de 1929 et la dispute avec Cassirer à Davos. Particulièrement intéressante est la distinction faite par Heidegger entre syndosis, synopsis et synthesis. Par rapport au rôle, attribué par Heidegger à l’Einbildungskraft et aux synthèses imaginatives, il faudrait conclure que l’analyse ultérieure, menée par Fink en 1928-1929 lors de l’élaboration de l’écrit couronné: “Noesis” comme dissertation: “Représentation et image. I” reste dans une large mesure dans le cadre formel d’une phénoménologie d’acte intentionnel – hormis l’analyse des déprésentations, constitutives de la formation des horizons temporels et celle dédiée aux représentations transfinites vides (O. Becker), importante pour l’approfondissement de la dynamique de la réduction proprement transcendantale. En revanche, le lien intrinsèque établi par Heidegger entre schématisation des catégories de l’entendement et temporalisation trouvera, dans le commentaire épilégoménique de l’analytique kantienne par Fink, un écho tardif. Dans son ensemble, la lecture proposée par Heidegger de la première critique reste, à la fin de son enseignement à Marbourg et lors de sa rentrée fracassante à Fribourg, essentiellement braquée sur l’esthétique et le début de l’analytique kantienne. La démarche de Fink sera différente, puis que d’emblée elle misera très haut. En effet, elle prendra son envol dans la théorie de la méthode transcendantale, pour revenir par après à une lecture poussée de la dialectique, notamment de l’antinomie et de l’idéal de la raison pure. Ce n’est qu’au bout de ce chemin parcouru, pendant lequel Fink reviendra encore à la dissertation de 1770, qu’il entamera finalement un commentaire de l’esthétique et de l’analytique kantienne. Au centre de gravité du présent livre de R. Lazzari se trouve donc cette nouvelle prise en compte de l’héritage kantien sur le sol même de la phénoménologie – qui pour Fink ne fut ni “constitué” par une conscience noétique, ni “pris” dans l’ekstatique de la temporalité originaire, mais troué, ne s’organisant qu’en creux sur de l’insaisissable et de l’inimaginable: le phénomène “en blanc” du monde, doublement “différé” des entia rationis et des entia imaginaria. Au coeur du livre de R. Lazzari se trouvent quatre chapitres (III à VI), déployés de façon symétrique. Les deux premiers (III et IV) dessinent le profil d’une “métacritique” profonde et conséquente, concédée par Husserl lui-même, de sa “première phénoménologie” en vue d’une oeuvre systématique, ouvrant pour Fink sur une “méontique” de la subjectivité absolue. C’est la figure kantienne de l’idée d’une doctrine de la méthode 81


transcendantale qui servait de fil de guide à ce qui pour Husserl devrait aboutir dans une révision radicale des méditations “cartésiennes” de sa phénoménologie – à ce qui amènera Fink à envisager une phénoménologie “constructive”. En effet, par le biais d’une phénoménologie de la phénoménologie, Fink a posé en premier la question inquiétante de l’origine du monde, à la fois en abîme sur la prédonation intentionnele comme limite de toute approche phénoménologique régressive (“Rückfrage”) et formant le tremplin pour un dépassement de la forme égologique, puis monadologique, qu’avait pris l’analyse constitutive tardive de Husserl. Le livre de R. Lazzari rejoint ainsi d’importantes analyses, dédiées à la Sixième Méditation, inscrite dans la marge des Méditations cartésiennes, notamment celles de S. Luft, M. Scherbel et plus récente de A. Schnell – en n’oubliant évidemment pas les travaux éditoriaux et interprétatifs, qui ont en premier fait la lumière sur l’action menée par Fink auprès de Husserl dans l’ultime phase de sa phénoménologie, pendant laquelle celui-ci s’apprêtait à se frayer un autre chemin vers la “dimension” transcendantale à partir de la Lebenswelt. Le mérite du présent livre n’est pas pour autant circonscrit par l’approfondissement conséquent de l’analogie opératoire entre l’architectonique kantienne et phénoménologique. Il consiste aussi dans un traitement très détaillé de la conférence tenue à la Kantgesellschaft de Dessau par Fink. Car celle-ci porte déjà quelques traits de la lecture plus poussée de la critique kantienne, dans laquelle Fink s’engagera après la guerre. En effet, la question de fond de Kant ne fut – selon Fink – pas celle de la possibilité des jugements synthétiques apriori, mais celle, exposée avec netteté dans les Prolégomènes, de la métaphysique comme science. Et l’idée de la philosophie transcendantale se détachait elle-même sur le fond, oblitéré chez Kant, des transcendantaux. Si avant la guerre, l’engagement phénoménologique de Fink fut habité par l’idée d’une “réduction thématique” de l’idée de l’être mondain, celui de l’après-guerre fut placé sous le signe d’un “renouveau de l’expérience ontologique”. Les trois chapitres concluants du livre (V-VII) de R. Lazzari prennent donc la voie d’une nouvelle rencontre avec la pensée de Kant, qui au-delà des analogies opératoires d’une doctrine de la méthode kantienne et phénoménologique aboutira dans un commentaire phénoménologique de grande envergure de la première critique. A nouveau R. Lazzari fait preuve d’une rigueur exemplaire, en dégageant avec précision les deux étapes essentielles de cette nouvelle confrontation: en premier celle d’une analyse de l’antinomie cosmologique dans la dialectique kantienne, précédée d’un retour à la dissertation de 1770, documentée par le cours “Monde et Finitude”, puis celle d’une analyse de l’idéal transcendantal, suivie d’un retour à l’analyse des catégories de modalité au terme de l’analytique – et qui constitue la trame du livre “Tout ou Rien”. Ce n’est donc plus depuis la 82


“cosmogonie constitutive” de la phénoménologie transcendantale, ni à partir de la question du statut “ontologique” de la subjectivité absolue, au coeur d’une “métaphysique” préconisée par Husserl lui-même au terme de sa monadologie intersubjective transcendantale, que ce nouvel engagement a pris son envol, mais bel et bien à partir de “la différence cosmologique”, exposée en premier pendant le cours de 1946: entre “l’intramondain” et “le monde même”, le dernier étant réduit par Kant à une idée subjective, le premier défini par lui comme “l’Inbegriff der Erscheinungen”. Plaque tournante est la distinction fameuse kantienne entre phaenomena et noumena, à laquelle Fink ne cessera de revenir. C’est l’articulation-même de la différence cosmologique, comme l’a vu juste R. Lazzari, qui conduit Fink finalement à renouer avec son dialogue timide d’avant-guerre avec Heidegger, en introduisant cette fois la distinction entre le concept existentiel et cosmique du monde, se démarquant ainsi de celle entre l’existentiel et l’existential. En effet, Fink redéploie sur la structure de l’“Überwurf” la question de l’apriori kantien, considérant que la phénoménologie existentiale n’echappe finalement pas aux avatars du subjectivisme. Le concept cosmique du monde prend à cet égard des allures de plus en plus distantes de toute forme d’anthropologie philosophique, considérant que les “phénomènes de fond” du Dasein humain sont a-subjectives. Ce n’est que dans cette perspective que Fink scrute avec minutie à la fois l’antinomie et l’idéal de la raison pure, s’attardant à sa résolution resp. sa dissolution chez Kant. La contrapartie de cette démarche particulière n’est plus constituée par une phénoménologie de “l’absolument originaire”, mais par une phénoménologie de “l’élémentaire”. On a souvent reproché à Fink d’avoir réintroduit, dans la tradition antispéculative de la phénoménologie, des motifs qui trouvent leur origine dans l’idéalisme allemand. En vérité, la force explosive de la “Weltfrage” ne rentre, chez Fink, dans aucune dialectique de type “synthétique”. Il est néanmoins vrai, que la pensée de Fink s’inscrit “en négatif” dans l’ empreinte-même de la phénoménologie fribourgeoise. Comme R. Lazzari conclut avec beaucoup de lucidité, le monde n’a pour Fink rien d’“horizonal”, ni de “lumineux”. C’est encore Husserl, qui, voulant un jour conjurer le problème que constituait pour lui le phénomène “en blanc” du monde, disait “pourchasser ce sphinx jusque dans ses retranchements abyssaux ultimes”. Le livre remarquable de R. Lazzari, écrit sur la pointe de la recherche phénoménologique actuelle, sera bientôt rejoint par l’édition critique, préparée par ses soins pour les Oeuvres complètes de Fink, du texte des cours sur “Monde et Finitude” (1949/1966) et sur “L’essence de la liberté humaine” (1947). Guy van Kerckhoven 83


Eugen Fink, Epilegomena zu Immanuel Kants “Kritik der reinen Vernunft”. Ein phänomenologischer Kommentar (1962-1971). Aufgrund der autorisierten Protokolle von Friedrich-Wilhelm von Herrmann und der handschriftlichen Seminarvorbereitungen Eugen Finks. Mit einem Vorwort von Fr.-W. von Herrmann, hg. von Guy van Kerckhoven, in: Eugen Fink Gesamtausgabe, Abt. III, Bd. 13, 1-2-3 Teilbände, Karl Alber, Freiburg/ München 2011.1 Nell’ambito dell’edizione delle Opere complete di Eugen Fink (avviata presso l’editore Karl Alber sotto la direzione di S. Grätzel, C. Nielsen e H.R. Sepp e con la collaborazione di A. Hilt e F.A. Schwarz) è stato pubblicato nel corso del 2011 il volume 13, che ha per titolo Epilegomena zu Kants “Kritik der reinen Vernunft”. Secondo un’efficace metafora del Curatore, Guy van Kerckhoven, questo volume si erge come una “poderosa fortezza” (“Nachwort”, p. 2023) al centro della sezione della Gesamtausgabe finkiana dedicata alla “Storia filosofica delle idee”, che comprende i testi della ricerca di Fink che sono più orientati in senso storico-interpretativo, spaziando dalle Domande fondamentali della filosofia antica (così il titolo di una Vorlesung pubblicata postuma nel 1985) alla Filosofia di Nietzsche (testo pubblicato da Fink nel 1960). La monumentalità di questa “fortezza” emerge già dal semplice aspetto quantitativo, per il quale il volume sulla Critica di Kant consiste in tre tomi per un numero complessivo di oltre duemila pagine. Anche solo considerato sotto il profilo dell’impresa editoriale, il testo qui pubblicato appare quasi unico nel suo genere, non solo per via della sua estensione, per cui esso si affianca ai maggiori commentari della tradizione esegetica della Critica della ragion pura (e in primis a quello di Heimsoeth sulla Dialettica trascendentale, del 1966-1971, ricordato da Fink), ma anche perché, ben prima di essere concepito come “testo scritto”, nasceva dalla prassi dell’insegnamento universitario e dalla viva voce di un filosofo che era stato allievo e collaboratore di Husserl (oltreché allievo e interlocutore di Heidegger), e non nasconde la circostanza di rivolgersi a un pubblico di studenti prima che di studiosi, senza per questo rinunciare al rigore espositivo e alla sorveglianza critica nella spiegazione dell’opera kantiana. La riuscita editoriale di questa edizione si deve sia alla competente e tenace opera del Curatore, Guy van Kerckhoven, sia al lontano lavoro di FriedrichWilhelm von Herrmann, che fu assistente di Fink dal 1961 al 1970 e artefice della stesura completa dei protocolli, autorizzati dall’autore, dei seminari 1 D’ora in poi cit. nel testo con l’abbreviazione Epileg.; “Nachwort” sta per la Nota del curatore (G. v. Kerckhoven), alle p. 2023-2050; “Vorwort” sta per la Premessa di F.-W. v. Herrmann, alle p. 13-19. Per gli altri riferimenti nel testo vd. l’elenco degli autori e delle opere citate alla fine della presente recensione.

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sulla Critica della ragion pura, lungo quattordici semestri. Il titolo di questa edizione, Epilegomena zu Kants “Kritik der reinen Vernunft” (quasi a suggerire il significato tanto di “complementi”, quanto di “meditazioni” ulteriori sull’opera kantiana), deriva da un’indicazione dello stesso Fink. Gli Epilegomena consistono nella trascrizione – nata più precisamente come Mitschrift, cioè scrittura simultanea al dettato – di un imponente “Seminario kantiano” che Fink aveva condotto dal semestre invernale 1962/63 fino all’inizio degli anni Settanta (con l’unica interruzione del semestre estivo 1969) presso la Biblioteca dell’Istituto di filosofia e scienza dell’educazione dell’Università di Friburgo. (Le circostanze in cui questo Seminario si dipanò nell’ultimo decennio dell’insegnamento di Fink sono rievocate con puntualità nella Premessa al volume scritta da v. Herrmann: “Vorwort”, p. 13-19). Per quattordici semestri Fink aveva affrontato il compito d’una interpretazione fenomenologica della Critica della ragion pura, seguendo passo per passo le diverse partizioni del testo kantiano, dall’Estetica trascendentale fino alla discussione delle antinomie cosmologiche nella Dialettica trascendentale. Come rileva il Curatore nella sua Nota conclusiva, la lettura finkiana della Critica della ragion pura non prevedeva “nessuna cesura, nessuna interruzione” (“Nachwort”, p. 2023); al contrario, quanto più essa procede e si avvicina alla trattazione del capitolo sulle antinomie cosmologiche (l’autentico centro sistematico di tutta la Critica, secondo Fink), tanto più approfondita ed estesa si fa l’analisi e l’interpretazione dell’opera di Kant. Il Seminario kantiano rimase interrotto a questa altezza dell’interpretazione della Critica kantiana, ossia a metà del capitolo secondo della Dialettica trascendentale, per via del ritiro di Fink dall’insegnamento, nel 1971, in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Di un XV seminario (quello del semestre invernale 1970-71, che proseguiva e completava la trattazione dell’Antinomia della ragion pura, entrando nel merito della “soluzione” critica della dialettica cosmologica) disponiamo solo degli appunti preparatori scritti a mano da Fink (pubblicati ora nell’apposita sezione del volume 13/3, in cui il Curatore ha raccolto i quaderni autografi di Fink di preparazione a ciascuna sessione del KantSeminar: Epileg., p. 1805-2021). Era chiaro a Fink, fin dall’inizio del progetto di un seminario sull’intera Critica della ragion pura, che la sua lettura dell’opera di Kant avrebbe richiesto una “serie di semestri” (così nella Seminarvorbereitung del 1962-63: Epileg., p. 1810; poi ancora in seguito: “anche venti semestri non basterebbero a presentare la Critica della ragion pura” – Epileg., p. 723). Tuttavia nell’esecuzione effettiva del KantSeminar l’articolazione in semestri non avrebbe comportato interruzioni di rilievo nel filo della trattazione: ciascuna esercitazione proseguiva quella precedente, ma non la presupponeva – come Fink dice una volta (Epileg., p. 133); ogni ciclo d’incontri cominciava infatti ripercorrendo 85


sinteticamente i passaggi compiuti, muovendo dall’altezza del problema che era stato trattato l’ultima volta, e ciò conferiva una fisionomia coerente e unitaria al tutto. Lo stesso Fink aveva progettato, negli ultimi anni della sua vita, la pubblicazione di questo Seminario kantiano, avviando contatti con l’editore Klostermann. Vi era indubbiamente un’attesa diffusa, fra allievi e studiosi, per la loro pubblicazione. Anche Herman Leo Van Breda, fondatore e direttore dell’Archivio Husserl a Lovanio, aveva pubblicamente auspicato – nella sua “Laudatio für Ludwig Landgrebe und Eugen Fink”, tenuta il 2 aprile 1971 presso l’Università Cattolica di Lovanio – che “in un prossimo futuro” potesse apparire nella collana “Phaenomenologica” (che già comprendeva due opere finkiane) “il commentario, costruito monumentalmente, sulla Critica della ragion pura di Kant”, che Fink (“il più grande metafisico della generazione successiva a Martin Heidegger”) aveva elaborato per i suoi “seminari friburghesi” (v. Breda 1972, p. 11). Dopo la scomparsa del filosofo (nel 1975) il materiale delle trascrizioni dattiloscritte, ordinato in quattordici volumi, è rimasto per anni conservato presso lo “Eugen-Fink-Archiv” di Friburgo, ed è tornato a essere discusso pubblicamente in occasione di un Seminario internazionale di Studi del 2002 a Gargnano del Garda, cui parteciparono Guy van Kerckhoven e FriedrichWilhelm von Herrmann (vd. v. Kerckhoven/v. Herrmann 2003, p. 121-137). Guy van Kerckhoven è stato allievo di H. L. van Breda e ha lavorato presso l’Archivio-Husserl di Lovanio; ha curato la pubblicazione (nella serie “Husserliana Dokumente”) dei testi di Fink, risalenti agli anni 19301932, relativi al progetto di una riscrittura delle Meditazioni cartesiane di Husserl e della stesura di una Sesta Meditazione (vd. Fink 1988). Al pensiero di Fink egli ha dedicato numerosi saggi, e anzitutto un amplissimo studio sulla “posta in gioco” nella vicenda della collaborazione fra Husserl e Fink (questo lavoro è apparso dapprima in Italia nel 1998, con il titolo Mondanizzazione e individuazione, nell’attenta traduzione dal francese di Massimo Mezzanzanica, poi in edizione tedesca nel 2003). Proprio per il suo sguardo incline a scandagliare le origini fenomenologiche del pensiero finkiano, van Kerckhoven è stato capace di ricostruire con puntualità, nella sua Nota conclusiva, le motivazioni teoriche profonde del Seminario degli anni Sessanta, così come di ridisegnare le “vie traverse” per le quali Fink – dopo aver a più riprese svolto nelle sue Vorlesungen universitarie (a cominciare da quella inaugurale del 1946 intitolata Einleitung in die Philosophie) un confronto filosofico con Kant come l’“autentico scopritore del problema del mondo” (Fink 1985, p. 112) – giungeva infine al progetto di un’integrale interpretazione fenomenologica della Critica della ragion pura. 86


Noi ci domandiamo qui perché Fink avvertisse ancora il bisogno, negli anni Sessanta, di presentare il suo Seminario sulla Critica della ragion pura come un’interpretazione fenomenologica, e più precisamente una “interpretazione critico-fenomenologica dei problemi kantiani” (così come scriveva nella Nota preliminare alla progettata edizione degli Epilegomena: p. 21), dopo che si era congedato da lungo tempo – pubblicamente dall’inizio della sua attività d’insegnamento all’Università di Friburgo nel 1946 – dai temi tipici di una fenomenologia della coscienza pura, e una netta “cesura”, come scrive v. Kerckhoven, lo separava ormai dal periodo trascorso, nell’anteguerra, nel “laboratorio fenomenologico di Husserl” (“Nachwort”, p. 2024). Qual è il senso di questo richiamo persistente di Fink alla fenomenologia, per il quale si tratta ora di sottoporre la Critica kantiana a una “penetrante spiegazione fenomenologica” (Epileg., p. 1003)? Per rispondere a queste domande occorre considerare che l’allontanamento di Fink dall’impostazione trascendentale della fenomenologia husserliana e la sua crescente insofferenza per l’opera di una “gigantesca vivisezione della coscienza” (Fink 1976, p. 219), testimoniata già dagli appunti inediti del 1940 sugli Elemente einer Husserl-Kritik, non gli avrebbero mai impedito anche in seguito, dopo l’inizio di un suo percorso autonomo rispetto a quello condiviso con Husserl nel decennio dal 1928 al 1938, di avvalersi delle risorse della concreta analisi intenzionale. Lo testimonia proprio questo Seminario sulla Critica, in cui Fink ricorre più volte, nelle sue spiegazioni del testo kantiano, a esemplificazioni e spesso a dettagliate analisi di carattere fenomenologico-descrittivo, facendo leva su una ricchezza pressoché inesauribile di “osservazioni fenomenologiche” per variare continuamente i problemi e le soluzioni kantiane. Già all’inizio del Seminario Fink oppone a Kant il rimprovero di non effettuare il “tentativo di una di-mostrazione fenomenologica” (Epileg., p. 31) delle strutture aprioriche da lui asserite, di non distinguere, già a proposito dell’intuizione, fra l’atto intenzionale e l’oggetto intenzionale, e – a un livello più elementare – di presupporre semplicemente il “molteplice delle sensazioni”, per passare con un brusco salto da lì alle forme pure in cui i dati sono ordinati, senza percorrere descrittivamente le ricche differenziazioni e implicazioni interne ai campi sensoriali. Si ponga altresì attenzione a come Fink, interpretando la critica kantiana dell’idea psicologica (nell’esercitazione del semestre estivo 1968), recuperi tutta una dimensione fenomenologica di problemi egologici, con cui passa al vaglio le argomentazioni di Kant relative all’impossibilità di oggettivare l’“io penso” (quale “presupposto funzionale per tutti gli oggetti, ma non esso stesso un oggetto”: Epileg., p. 1441). Assumono così rilievo, nella lettura di Fink, le oscillazioni concettuali e le ambiguità dell’analisi kantiana: quelle ambiguità per le quali con il giudizio “io penso” si può intendere ora 87


l’enunciazione immediata dell’atto di pensare, ora un enunciato riflessivo sull’atto medesimo, ora l’io individuale e fattizio, ora una struttura generale per cui tutte le rappresentazioni si incentrano in un polo-io. La trattazione della problematica kantiana è per Fink anche l’occasione per puntualizzare la questione fenomenologica della differenza e dell’unità dell’io riflettente e dell’io colto nella riflessione, ai diversi gradi di iterabilità della riflessione medesima. Nelle ambiguità e oscillazioni kantiane, relative al problema della riflessione sull’io, Fink vede affiorare quello che a suo avviso resta soltanto “un desideratum dell’intera Critica della ragion pura”: un chiarimento delle condizioni dell’autoriflessione in cui essa si attua; infatti “l’autocoglimento riflessivo, in cui si svolge la Critica della ragion pura e in cui essa compie la sua autoanalisi trascendentale, non è dal canto suo svelato nel suo carattere intuitivo e di datità”, e “la struttura dell’autoconoscenza della ragione […] rimane nel buio” (Epileg., p. 1449). Ecco allora ritornare nel Seminario di Fink degli anni Sessanta, seppure come un cenno, quell’istanza fenomenologica d’una riflessione sulla riflessione, che tanta parte aveva svolto trent’anni prima nel progetto di una Sesta Meditazione cartesiana. Va aggiunto a ciò che tutto il Seminario kantiano di Fink è disseminato di puntualizzazioni, rielaborazioni e anche di originali “invenzioni fenomenologiche” appartenenti ai campi problematici tipici dell’indagine finkiana. Acquistano così rilievo, nelle “variazioni” che Fink conduce sul testo kantiano, i motivi tipici di una fenomenologia che antepone all’esperienza di oggetti le strutture di campo e d’orizzonte, le “circostanze” cosali e i fenomeni inappariscenti – quei fenomeni che appartengono ai “margini” dell’esperienza fenomenologica, alle zone di confine fra datità e non-datità, fra prossimità e distanza. Tali considerazioni mirano soprattutto a oltrepassare la teoria kantiana dello spazio e del tempo – il “soggettivismo cosmologico” della Critica – e a ricondurre la stessa alternativa tra “soggettivo” e “oggettivo”, come ogni altra opposizione intramondana, allo spazio-tempo del mondo, che è alla base di ogni apparire. Vi è dunque in atto, nell’approccio finkiano al testo della Critica, tutta una “fenomenologia operativa”, di cui Fink si serve per lo più implicitamente e che nasceva dall’esperienza da lui trascorsa con Husserl nel segno di una “cooperazione produttiva indipendente” e di una “simbiosi intellettuale unica” (vd. Fink, “Politische Geschichte meiner wissenschaftlichen Laufbahn”, cit. in Bruzina 2004, p. 52). Ma al di là di questa fenomenologia di più netta ascendenza husserliana, che Fink non avrebbe mai cessato di mettere in gioco nei percorsi filosofici del dopoguerra, prioritariamente orientati in senso ontologico-cosmologico, occorre qui soprattutto cogliere il significato di fondo che Fink attribuiva a una interpretazione fenomenologica di un testo e di un autore. Tale 88


espressione risale, com’è noto, al giovane Heidegger, il quale la impiegava sistematicamente nei suoi corsi di lezioni universitarie degli anni Venti (e più sporadicamente anche in seguito), per designare un tipo di approccio radicale alle filosofie dei pensatori cruciali della storia della metafisica, in primo luogo Aristotele e Kant. Prescindendo qui dalle più interne implicazioni “ermeneutiche” del pensiero di Heidegger e del suo modo di riformulare il concetto di fenomenologia, si può dire che tale approccio consisteva per lui anzitutto nel tentativo di far valere, nella spiegazione del pensiero e dei testi di un determinato filosofo, il principio di andare alle “cose stesse”, che sono da intendere sia nel senso dei “fenomeni” essenziali, sia dei “problemi” cui l’interpretazione si riferisce. L’idea che un’interpretazione debba lasciarsi guidare dal movimento interno del problema da cui scaturisce viene esplicitata anche da Fink in opposizione a un procedere puramente “dossografico” nel rapporto con gli autori e i testi, che finisce inevitabilmente per reificare un determinato pensiero in una “dottrina” fissata una volta per tutte (“nero su bianco”) e irrigidita in un “cadavere esanime”, da cui è volato via lo “spirito”, ovvero il “problema” in cui propriamente consiste l’essenza di una filosofia (Fink 1976, p. 52, 59). Fink precisa ricorrentemente nel suo Seminario kantiano (con particolare insistenza man mano che s’inoltra nei meandri della Dialettica trascendentale) di non avere affatto di mira una “comprensione immanente del testo” (Epileg., p. 1984), nel senso dell’“ermeneutica d’una delle grandi opere della letteratura filosofica” oppure di una “esegesi storico-filosofica” (Epileg., p. 603), che considererebbe la Critica della ragion pura semplicemente come un reperto “istorico”; bensì di avere per scopo quello d’“inoltrarsi attraverso il testo kantiano fino alle cose [Sachen] che erano manifeste a Kant” (ibid.). Più precisamente, si tratta per Fink di cercare, “nel ripensare i percorsi ideali di Kant”, di “mettere alla prova un modo di pensare fenomenologico-speculativo” (Epileg., p. 1421). Ma – ci chiediamo di nuovo – perché Fink fa ora parola, nel Seminario degli anni Sessanta, di una “fenomenologia speculativa”, e lo fa proprio in relazione a un’interpretazione dell’opera di Kant? Noi sappiamo che l’apertura della fenomenologia al pensiero speculativo era un tratto peculiare della riflessione di Fink nel periodo della stesura di una Sesta Meditazione cartesiana. Un ampliamento dell’indagine costitutiva della fenomenologia esigeva per lui il ricorso a un metodo “costruttivo”, capace di avvicinare quei problemi di “totalità” che eccedono il dato trascendentale intuitivo e si sottraggono a uno sguardo fenomenologico diretto. Ma vi è dell’altro: tutto l’iniziale progetto finkiano di una “fenomenologia della fenomenologia”, al centro della Sesta Meditazione (concepita come una riflessione della fenomenologia su stessa, sulle proprie possibilità e limiti), era costruito attraverso una serie di “analogie strutturali” (cf. v. Kerckhoven 1998, p. 312) 89


con la kantiana Critica della ragion pura e con le sue partizioni “architettoniche” di fondo, a partire dalla distinzione tra una Dottrina trascendentale degli elementi e una Dottrina trascendentale del metodo. (L’attenzione di Fink per questa seconda parte dell’opera, solitamente meno studiata della Dottrina trascendentale degli elementi, traspare anche dal Seminario, che prende inizio dal terzo capitolo della Transzendentale Methodenlehre, ossia dall’esposizione del concetto di un’Architettonica della ragion pura). Fra queste partizioni trovava collocazione – accanto all’estetica e all’analitica fenomenologica (“fenomenologia regressiva”) – una dialettica fenomenologica, ossia una “fenomenologia costruttiva” in cui “ci si interroga su strutture di totalità per principio non-date”, corrispondentemente alla Dialettica trascendentale kantiana (Fink 2009, p. 72). Il rivolgersi di Fink alla Critica di Kant ha dunque radici lontane e motivazioni profonde, risalenti all’idea stessa di una fenomenologia declinata in senso speculativo (“costruttivo”) e capace di rapportarsi al problema di un non-dato che, paradossalmente, ci è sempre dato: al mondo come fatto più originario del rapporto soggetto-oggetto, cui resta legata l’analisi intenzionale della fenomenologia husserliana. L’incontro con il pensiero di Kant avviene dunque in Fink, ben più che nel segno d’una problematica originariamente riflessiva (come in Husserl) o di una svolta ontologica del problema della metafisica (come in Heidegger), nel segno di una rivoluzione cosmologica del problema dell’essere dell’ente. Kant ha mostrato, secondo Fink, che ogni ente, in quanto è fenomeno, apparizione [Erscheinung], rientra nell’orizzonte del mondo inteso come lo spaziotempo dell’apparire; al di là della radicale soggettivazione, per la quale spazio e tempo valgono ora come forme dell’intuizione del soggetto e il mondo diventa un’idea della ragione, il senso profondo della rivoluzione copernicana consiste in una svolta dall’elemento “intramondano” al mondo. Si tratta pertanto di rileggere la Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura per cercarvi la scoperta fondamentale di Kant: la scoperta della differenza cosmologica, per la quale “il mondo non è un ente, non è una cosa” (Fink 1985, p. 81). Nella trattazione “negativa” che Kant conduce del problema del mondo nel capitolo sulle antinomie cosmologiche – nella dimostrazione dell’inadeguatezza di ogni proiezione sul mondo di determinazioni tratte dalla conoscenza degli enti, ben più che nel “soggettivismo cosmologico” alla base della loro soluzione critica – consiste per Fink quel valore imperituro dell’indagine kantiana, per cui essa costituisce il momento più alto della domanda filosofica sul mondo in tutta la tradizione della metafisica occidentale: quel valore per cui tale indagine costituisce il passaggio obbligato di una radicale “verifica” e di un 90


“superamento” cosmologici dei concetti fondamentali della metafisica (Fink 1990, p. 190). Quanto detto sopra può desumersi essenzialmente da un ciclo di Lezioni universitarie di Fink del dopoguerra, a partire dalla Einleitung in die Philosophie, del 1946, attraverso Vom Wesen der menschlichen Freinheit (1947) e Welt und Endlichkeit (1949), fino a Alles und Nichts (1958, pubblicata come testo autonomo nel 1959). Lo scopo del Seminario kantiano degli anni Sessanta era quello di effettuare una verifica complessiva di quella “tesi interpretativa” che fino allora “fungeva da ipotesi” (come ancora Fink ne scriveva in un appunto per la quindicesima sessione seminariale: Epileg., p. 2005; cf. “Nachwort”, p. 2027) – e di effettuare questa verifica attraverso una lettura integrale e sistematica della Critica della ragion pura: una lettura che seguiva ora una via “dal basso”, dall’Estetica e dall’Analitica dei concetti, anziché cercare subito di portarsi al centro della Dialettica trascendentale. Sotto questo profilo, si ha però l’impressione di un’incompiutezza del Seminario kantiano: non solo perché lo scopo ultimo del Seminario stesso – di “approdare, con Kant e attraverso di lui, al problema del mondo” (Epileg., p. 1677) – non è pienamente raggiunto per via della sua interruzione proprio a metà della trattazione dell’Antinomia della ragion pura; ma soprattutto perché la passione di Fink per un’analisi fenomenologica dei singoli temi kantiani tende a prevalere sul disegno complessivo e sull’esigenza di una sintesi interpretativa. Nel suo procedimento effettivo, l’interpretazione fenomenologica che Fink mette in opera è prima di tutto – coerentemente con la sua idea di una concettualizzazione fenomenologica che distingue fra “concetti tematici” e “concetti operativi” (vd. Fink 1976, p. 180-204) – una ricerca tesa ad esplicitare i presupposti latenti, gli schemi intellettuali e i modelli speculativi che sono impiegati nella Critica e che tuttavia non vi vengono tematizzati, vale a dire quei concetti e quelle forme di pensiero mediali di cui Kant si serviva e che costituiscono l’“ombra” della sua filosofia, per via del loro statuto solo implicito. In questo senso – originalmente fenomenologico, secondo la tipica modalità finkiana di estendere la fenomenologia ad un’analisi di modelli di pensiero – il Seminario kantiano consiste in un estesissimo “commentario immanente” (“Vorwort”, p. 18) del testo kantiano, la cui ricchezza di singole vedute e di soluzioni interpretative consente al lettore – grazie anche alla puntuale esplicitazione dei rimandi al testo kantiano per opera del Curatore – una “navigazione” attraverso la Critica della ragion pura profondamente innovativa rispetto ad altre letture novecentesche. Riccardo Lazzari

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Riferimenti bibliografici v. Breda, H. L. (1972), “Laudatio für Ludwig Landgrebe und Eugen Fink”, in: W. Biemel (Hrsg.), Phänomenologie heute. Festschrift für Ludwig Landgrebe, Den Haag, S. 1-13. Bruzina, R. (2004), Edmund Husserl & Eugen Fink. Beginnings and Ends in Phenomenology 1928-1938, New Haven & London. Fink, E. (1976), Nähe und Distanz. Phänomenologische Vorträge und Aufsätze, hrsg. v. F.-A. Schwarz, Freiburg/ München 1976. Fink, E. (1985): Einleitung in die Philosophie, hrsg. v. F.-A. Schwarz, Würzburg. Fink, E. (1988), VI. Cartesianische Meditation, Teil 1, Die Idee einer transzendentalen Methodenlehre, hg. v. H. Ebeling, J. Holl, G. v. Kerckhoven; Teil 2, Ergänzungsband, hg. v. G. v. Kerckhoven, in: “Husserliana-Dokumente”, Bd. II (1-2), Dordrecht/ Boston/ London. Fink , E. (1990), Welt und Endlichkeit, hrsg. v. F.-A. Schwarz, Würzburg. Kerckhoven, G. v. (1998), Mondanizzazione e individuazione. La posta in gioco nella Sesta meditazione cartesiana di Husserl e Fink 1995 – edizione italiana a cura di Massimo Mezzanzanica –, il melangolo, Genova Kerckhoven, G. v. (2003), Mundanisierung und Individuation bei Edmund Husserl und Eugen Finks: die sechste Cartesianische Meditation und ihr “Einsatz”, Würzburg. Kerckhoven, G. v./ Herrmann, Fr.-W. v. (2003), “Sull’edizione dei Seminari Kantiani di Eugen Fink”, in: Marini A./ Lazzari, R., Letture di Kant e Seminari Kantiani di Fink, “Seminario internazionale di studio. Gargnano del Garda, 16-18 ottobre 2002”, in: “Magazzino di Filosofia”, 11, S. 121-37. Fink, E. (2009), VIa Meditazione cartesiana, ediz. it. c/ di A. Marini, FrancoAngeli, Milano.

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CONTAMINAZIONI

Massimo Mezzanzanica, Dimensioni del simbolo in Cassirer e Jung. Dalla configurazione dell’esperienza all’esperienza della trasformazione Nella storia della riflessione sul concetto di simbolo le teorie di Ernst Cassirer e Carl Gustav Jung occupano una posizione di primo piano1. Con il suo progetto di una Filosofia delle forme simboliche Cassirer ha considerato, in una prospettiva neokantiana, ma allargando l’orizzonte della critica kantiana della ragione nella direzione di una critica della cultura, il simbolo come dimensione basilare dell’attività formatrice che a suo avviso costituisce la caratteristica peculiare del soggetto umano. Nella diversa prospettiva della propria psicologia analitica, Jung ha riconosciuto nel simbolo un aspetto centrale della vita psichica dell’uomo, vedendo in esso una modalità originaria di espressione degli strati profondi e inconsci della personalità e un elemento essenziale del processo di individuazione. L’intento del presente contributo è di confrontare alcuni aspetti delle concezioni del simbolo in Cassirer e Jung per comprenderne il significato antropologico e filosofico e per individuarne l’importanza nella prospettiva di una teoria filosofica del simbolo ovvero di quella “logica del simbolo” che, secondo Mircea Eliade, al di là del piano descrittivo su cui si muove la storia delle religioni, deve porre il problema della coerenza e della sistematicità propria dei simboli 2.

1. Tra Kant e Goethe Un aspetto che va tenuto presente nel confrontare Cassirer e Jung è l’importanza di Kant per il pensiero di entrambi. Questo tratto – del tutto evidente e ovvio per chi conosca Cassirer – è rilevante anche in Jung, che nella sua autobiografia indica in Kant uno degli autori determinanti per la sua formazione3. Questo versante “kantiano” del pensiero di Jung si 1 Sulla storia delle teorie del simbolo cf. T. Todorov, Teorie del simbolo, tr. it.Milano 2008. 2 Cf. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, tr. it.Torino 1976, p. 471. 3 Cf. C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, tr. it.Milano 1994, p. 101.

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manifesta in modo significativo nella sua costante attenzione agli aspetti metodologici ed epistemologici della ricerca psicologica e nell’interesse per le relazioni tra psicologia e fisica4. E d’altra parte, la nozione stessa di archetipo, nella misura in cui indica una dimensione strutturante e un a priori dell’esperienza, sembra costituire un elemento indicativo di un’analogia con la prospettiva kantiana, anche se non va trascurato che, diversamente dall’a priori di Kant, gli archetipi sono strettamente connessi alla realtà corporea, alle componenti pulsionali della personalità e all’esperienza quotidiana: essi non vanno intesi come sostanze immobili o pure forme trascendentali identiche a se stesse, ma come schemi generatori dei simboli e delle immagini che si trasformano e si avvicendano nella storia umana e nel contesto delle diverse culture5. 4 Sull’importanza degli aspetti metodologici nella riflessione di Jung cf. U. Galimberti, Jung e i problemi di metodo nel sapere psicologico, in: “aut aut”, n. 229-30, 1989, p. 3145. L’interesse di Jung per il rapporto tra psicologia analitica e fisica contemporanea è documentato tra l’altro dalla sua collaborazione con il fisico Wolfgang Pauli, che fu anche in analisi con Jung. Da tale collaborazione nacquero un carteggio (cf. Il carteggio Pauli-Jung, tr. it. Roma 1999) e il volume Naturerklärung und Psyche (Zurigo 1952), che comprende lo studio di Jung La sincronicità come principio di nessi acausali (tr. it.Torino 1980) e il saggio di Pauli L’influsso delle rappresentazioni archetipiche sulla formazione delle teorie scientifiche in Keplero. Sull’interesse di Jung per la fisica contemporanea cf. la Conclusione di M.L. von Franz, dedicata al tema La scienza e l’inconscio, in: C.G. Jung, M.– L. von Franz, J.L. Henderson, J. Jacobi, A. Jaffé, L’uomo e i suoi simboli, tr. it.Milano 1991, p. 305-18. Su alcuni parallelismi tra la concezione junghiana del processo di individuazione e la fisica moderna, in part. le teorie del caos e dell’autorganizzazione, cf. C. Risé, Diventa te stesso, Novara 1995, p. 12-18. 5 Sulle analogie tra la nozione junghiana di archetipo e quella kantiana di a priori cf. A. Samuels, Jung e i neo-junghiani, tr. it. Roma 1989, p. 47-48. Per un’interpretazione degli archetipi alla luce della nozione di forma simbolica cf. P. Pietikainen, Archetipes as Symbolic Forms, in: “The Journal of Analytical Psychology”, 3, 1998, p. 325-43. Attraverso il riferimento a Cassirer, l’autore di questo testo intende porre fuori gioco quelle concezioni che vedono negli archetipi qualcosa di ereditario, per metterne invece in luce il carattere di forme determinate culturalmente. Circa la nozione di archetipo, nell’ambito delle tendenze che si richiamano alla prospettiva di Jung si possono indicare due posizioni per molti aspetti contrapposte: quella di Mario Trevi, che vede nella dottrina degli archetipi (e dell’inconscio collettivo) le parti più caduche dell’eredità di Jung, e quella di James Hillman, che ha fatto della nozione di archetipo l’elemento centrale della sua rilettura della psicologia analitica junghiana, denominando “psicologia archetipica” la propria proposta teorica e terapeutica. Per un confronto critico tra queste due posizioni cf. la lettera di M. Trevi e M. Innamorati, Contra psychologiam archetipalem, e la risposta di Hillman, entrambe pubblicate in: R. Mondo-L. Turinese (c/ di), Caro Hillman… Venticinque scambi epistolari con James Hillman, Torino 2004. Se Trevi e Innamorati ritengono che gli archetipi e l’inconscio collettivo siano “tutt’al più utilizzabili come modelli o ipotesi di lavoro per un’interpretazione di aspetti della vita psichica non ancora sufficientemente illuminati da una paziente e severa ricerca scientifica” (ivi, p. 178), Hillman vede in tale concezione il risultato di un’interpretazione “empirica” e “positivistica” del metodo junghiano, che porterebbe a una “letteralizzazione” e “ipostatizzazione” degli archetipi. Egli ne propone invece una concezione metaforica, intendendo l’archetipo “soltanto come un avverbio e un aggettivo per qualificare eventi” e non come una “cosa in sé” su cui sarebbe possibile fare affermazioni. Hillman interpreta qui in

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Un altro aspetto comune a Cassirer e Jung è la presenza di tratti goethiani nel loro pensiero. Analogie con i costrutti morfologici della scienza goethiana della natura sono individuabili tanto nei concetti cassireriani di forma e formazione6, quanto nelle nozioni junghiane di simbolo e archetipo7. Indichiamo solo due esempi possibili tra i tanti riferimenti espliciti a Goethe presenti nell’opera dei due autori. Nel progettato, e solo in parte realizzato, quarto volume della Filosofia delle forme simboliche, là dove parla dei “fenomeni di base”, “nei quali ci si dischiude e si apre originariamente tutto ciò che chiamiamo ‘realtà’” (il “fenomeno dell’io”, il “fenomeno dell’agire” e il “fenomeno dell’opera”), Cassirer si richiama alla concezione goethiana dei “fenomeni originari”8. Nella Introduzione ai Tipi psicologici Jung riferisce la nozione dell’esistenza di due tipi psicologici fondamentali, l’introverso e l’estroverso, all’intuizione goethiana dei principi della sistole e della diastole come struttura di fondo del vivente9. E anche l’idea junghiana di una intrinseca dualità della psiche, che si armonizza nel processo di individuazione, sembra rimandare alla concezione goethiana della polarità come legge dinamica dei fenomeni naturali10. Prima di passare a un’analisi più dettagliata delle rispettive nozioni di simbolo, indichiamo, in senso generale, alcune analogie e differenze tra senso fenomenologico il metodo caratterizzato da Jung come empirico: “quando Jung usa la parola ‘empirico’ […] sarebbe stato meglio se avesse usato la parola ‘fenomenologico’, lasciando che i fenomeni parlassero di se stessi, da sé, mettendo tra parentesi altre considerazioni (epoché). Ma l’avversione di Jung per Heidegger bloccò il suo percorso verso Husserl” (ivi, p. 182). Per un’articolata esposizione della concezione di Trevi, che individua come specificità metodologica della psicologia analitica l’atteggiamento ermeneutico (su una linea di pensiero che va da Schleiermacher a Dilthey, da Heidegger a Gadamer e a Emilio Betti) cf. M. Trevi, Per uno junghismo critico, Milano 1987. Sulla dimensione metaforica degli archetipi, e sulla natura poietica e immaginativa della mente cf. J. Hillman, Le storie che curano. Freud, Jung, Adler, tr. it. Milano 1984. 6 Per quanto riguarda l’influsso delle idee goethiane di “forma “vivente” e di “metamorfosi” sulla concezione cassireriana di una “morfologia” dell’attività spirituale nelle sue diverse estrinsecazioni cf. E. Paci, Idee per una enciclopedia fenomenologica, Milano 1973, p. 456-64. 7 Va segnalata, in particolare, l’affinità tra la nozione junghiana di archetipo e il concetto di “fenomeno originario” (Urphänomen), che svolge una funzione centrale nelle ricerche goethiane di scienza della natura, dove indica un tipo originario, accessibile all’intuizione, una sorta di essenza fenomenologica “che non esiste, in quanto tale, in natura, e tuttavia illumina e rende comprensibile la struttura intima dell’esistente e delle relazioni reciproche che sussistono tra le sue singole parti” (E. Cassirer, Idee und Gestalt, Darmstadt 1981, p. 48-49). Sull’analogia tra archetipo e Urphänomen attira l’attenzione R. Pezzella, La discesa e il ritorno. Simbolo junghiano e riflessione. Sul mito nella cultura tedesca dell’inizio Novecento, in: “aut aut”, 229-30, p. 147. 8 E. Cassirer, Metafisica d. forme simboliche, tr. it. Milano 2003, p. 168, 173-74, 175. 9 C.G. Jung, Tipi psicologici, tr. it. Torino 1977, p. 10. 10 Cf. J.W. Goethe, Werke. Hamburger Ausgabe, Bd. 13, p. 572. Sulla nozione goethiana di polarità cf. per es. G. Simmel, Polarität und Gleichgewicht bei Goethe, in: Id., Gesamtausgabe, Bd. 12, c/ di O. Rammstedt, Francoforte s. M. 2001, p. 362-68.

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Cassirer e Jung relativamente a tale nozione. Il primo aspetto comune ai due autori è la centralità della funzione del simbolo per la formazione e la comprensione dell’esperienza umana; il secondo aspetto consiste nella natura “energetica” del simbolo, nel fatto che il simbolo esprime e dà forma a energie dello spirito e della psiche umana; il terzo aspetto risiede nel significato fondamentale che entrambi gli autori attribuiscono al mito, in quanto forma culturale strettamente legata a quella del simbolico, e in genere a modalità dell’esperienza umana che vanno al di là dell’ambito strettamente cognitivo. Dopo le analogie, vanno indicate le differenze: Cassirer sembra ridurre il simbolo al segno, in quanto lo considera alla luce della struttura significante-significato che ne costituisce un connotato parziale, Jung, che pure attribuisce al simbolo caratteristiche proprie del segno, lo vede, secondo l’etimologia greca, come entità unitaria per eccellenza, irriducibile alla distinzione tra significante e significato; Cassirer considera il simbolo in rapporto alla coscienza e ne evidenzia la funzione conoscitiva e di strutturazione dell’esperienza, Jung lo pone in relazione all’inconscio e gli attribuisce la capacità di produrre trasformazione e individuazione; Cassirer gli conferisce un significato referenziale e oggettuale, Jung lo considera come qualcosa di inesauribile che compare dove il pensiero concettuale manifesta i suoi limiti. Facendo riferimento a un’opposizione stabilita da Gilbert Durand, si può insomma dire che mentre la concezione del simbolo di Jung rientra, insieme a quelle di Bachelard e di Ricoeur, nel novero delle ermeneutiche “instaurative”, che riconoscono la distinzione tra simbolo e segno e considerano il mondo simbolico nella sua specificità e varietà, l’approccio di Cassirer, per quanto innovativo, si colloca a metà strada tra queste ultime e le ermeneutiche “riduttive”, che con Freud, Dumézil e LéviStrauss, si caratterizzano per un approccio intellettualistico che tende a ridurre il simbolo al segno11.

2. Il significato antropologico del simbolo Cassirer attribuisce al simbolo un significato antropologico in quanto, al di là di una visione riduttivamente razionalistica, lo considera lo strumento privilegiato della conoscenza dell’uomo, da lui definito come un “animal symbolicum”. A fronte della varietà di prospettive e della molteplicità di dati empirici di cui l’età contemporanea dispone per la conoscenza dell’uomo, il simbolo rappresenta il “filo d’Arianna” che consente di conferire unità ideale alla conoscenza della cultura umana, superando al contempo una visione unilateralmente razionalistica dell’uomo:

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G. Durand, L’imagination symbolique, Parigi 1964.

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La ragione è un termine poco adeguato se si vuole abbracciare in tutta la loro ricchezza e varietà le forme della vita culturale dell’uomo. Queste forme sono essenzialmente forme simboliche. Invece di definire l’uomo come un animal rationale si dovrebbe dunque definirlo come un animal symbolicum. In tal guisa si indicherà ciò che veamente lo caratterizza e che lo differenzia rispetto a tutte le altre specie e si potrà capire la speciale via che l’uomo ha preso: la via verso la civiltà12.

La funzione simbolica definisce in Cassirer la specificità dell’essere umano rispetto alle altre specie animali e costituisce il fattore decisivo per distinguere la natura dalla cultura. Questa “nuova dimensione” in cui vive l’essere umano rappresenta una forma specifica di adattamento all’ambiente, che si colloca fra il “sistema ricettivo” e quello “reattivo”, che si trovano in tutte le specie animali: “nell’uomo vi è un terzo sistema, che si può chiamare simbolico, l’apparizione del quale trasforma tutta la sua situazione esistenziale”13. Nella dimensione del simbolico ha dunque luogo un “rovesciamento dell’ordine naurale” che fa emergere quella che, con espressioni di Plessner e Gehlen, si può chiamare l’“artificialità naturale”14 o la “natura artificiale”15 dell’uomo: l’uomo “non vive più in un universo soltanto fisico, ma in un universo simbolico”, formato dal mito e dall’arte, dal linguaggio e dalla religione, che sono i “fili” che costituiscono l’“aggrovigliata trama dell’umana esperienza”16, e questo fa sì che l’essere umano possa avere con la realtà solo un rapporto mediato da questa rete di simboli. In un passo che riprende la concezione hegeliana della mediazione e prelude al tempo stesso alla distinzione di Lacan tra il simbolico e il reale, Cassirer afferma: L’uomo non si trova più direttamente di fronte alla realtà; per così dire, egli non può più vederla faccia a faccia. La realtà fisica sembra retrocedere via via che l’attività simbolica dell’uomo avanza. Invece di avere a che fare con le cose stesse, in un certo senso l’uomo è continuamente a colloquio con se medesimo. 12 Cf. E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia della cultura umana, tr. it. Roma 1972, p. 81. 13 Ivi, p. 79. Il riferimento alla dimensione simbolica come “terzo sistema” sembra avvicinare Cassirer alle diverse posizioni ascrivibili all’ambito dello strutturalismo, che si caratterizzano secondo Gilles Deleuze per la scoperta e la ricognizione di un “terzo regno” al di là della parola, del concetto e dell’immagine: quello del simbolico, inteso come “oggetto strutturale”. Per questo aspetto, e per un’intepretazione che avvcina la concezione cassireriana delle forme simboliche al pensiero strutturalistico cf. S.G. Lofts, Ernst Cassirer. A “Repetition” of Modernity, Albany, NY 2000. Per l’interpretazione deleuziana dello strutturalismo cf. G. Deleuze, Lo strutturalismo, tr. it. Milano 2004. 14 Cf. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, tr. it.c/ di V. Rasini, Torino 2006, p. 332-43. 15 Cf. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, tr. it. Milano 1984, p. 13. 16 E. Cassirer, Saggio sull’uomo, cit., p. 80.

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Si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi a tal segno da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione17.

In Cassirer la nozione di forma simbolica ha due radici: quella dell’arte e dell’estetica e quella della scienza18. Nel saggio in cui compare per la prima volta il concetto di forma simbolica Cassirer esplicita le radici artistiche ed estetiche del concetto di simbolo. Nato nella sfera religiosa, il simbolo viene trapiantato nell’età moderna sul terreno dell’estetica. Qui esso svolge un ruolo centrale anzitutto in Goethe e poi, attraverso Schelling e Hegel, nella teoria estetica di Friedrich Theodor Vischer. È da quest’ultimo, autore del saggio Das Symbol (1887), che Cassirer dichiara di aver derivato il concetto di forma simbolica, che peraltro non si trova in forma esplicita in Vischer. Cassirer afferma che il proprio intento è quello di dare al concetto di forma simbolica un senso più ampio, tale da coprire tutte le forme dello spirito umano: non solo l’arte, ma anche il linguaggio e il mondo del mito e della religione19. Circa l’origine scientifica del concetto di simbolo, nel primo volume della Filosofia delle forme simboliche Cassirer parla dei concetti scientifici come simboli, ricollegandosi a questo proposito ai fisici Hertz e Helmholtz. Sottolineando la natura simbolica dei concetti con cui opera la scienza, egli vuole contrapporsi a quelle dottrine gnoseologiche che vedono nella conoscenza un mero rispecchiamento della realtà. A suo avviso sono stati i 17 Ibid. Esula dai limiti del presente articolo un’analisi del rapporto tra le concezioni del simbolico di Cassirer e Lacan. Se l’elemento fondamentale che accomuna i due autori è la concezione del simbolico come ordine che pervade di sé l’intera esperienza umana, la principale differenza risiede nel fatto che in Lacan il simbolico è strettamente connesso alla dimensione dell’inconscio. Su questo tema rinviamo a H. Lang, Die Sprache und das Unbewußte. Jacques Lacans Grundlegung der Psychoanalyse, Francoforte s. M. 1986, p. 166-203 e F.G. Lofts, L’ordre symbolique de Jacques Lacan à la lumière du symbolique d’Ernst Cassirer, in: F.G. Lofts-P. Moyaert (c/ di), La pensée de Jacques Lacan. Questions historiques – Problèmes théoriques, Louvain-la-Neuve-Lovanio/Parigi 1994, p. 83-105. Il passaggio dall’immaginario al simbolico costituisce per Lacan la condizione dell’ingresso del soggetto nella dimensione intersoggettiva. Fondamentale per tale passaggio, nello sviluppo dell’individuo, è la figura paterna, caratterizzata da Lacan come il significante “Nomedel-Padre”. Va però sottolineato che in Lacan l’immaginario è comunque strettamente intrecciato al simbolico. La triade simbolico-immaginario-reale, che rappresenta un aspetto centrale della teoria e della pratica analitica di Lacan, viene presentata per la prima volta nella conferenza del 1953 Il simbolico, l’immaginario e il reale (tr. it. c/ di A. Di Ciaccia, in: J. Lacan, Dei Nomi-del-Padre. Il trionfo della religione, Torino 2006). Qui il simbolico viene caratterizzato come “ciò in cui il soggetto si impegna in una relazione propriamente umana” (p. 20). 18 Cf. su questo aspetto l’Introduzione di D. Ph. Verene a E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, tr. it. Roma-Bari 1985, p. 29-32. 19 Cf. E. Cassirer, Il concetto di forma simbolica nella costruzione delle scienze dello spirito, tr. it. in: Id., Mito e concetto, c/ di R. Lazzari, Firenze 1992, p. 101-02.

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fisici moderni a maturare la consapevolezza del carattere simbolico e formativo dei concetti scientifici, indicando nell’immagine non più una semplice somiglianza di contenuto con la cosa, ma una condizione a cui devono soddisfare i concetti della scienza fisica. “L’oggetto – scrive Cassirer – non si può porre come un mero ‘in sé’, indipendentemente dalle categorie essenziali della conoscenza scientifica, ma può rappresentarsi soltanto in queste categorie che appunto ne costituiscono la forma specifica”20. Inteso in questo senso, il simbolo non è un mero rivestimento esteriore e accidentale di un pensiero da esso indipendente, ma “il suo organo necessario ed essenziale”; non è solo un mezzo che serve a comunicare un contenuto concettuale già fatto, ma “lo strumento in virtù del quale si costituisce questo stesso contenuto e in virtù del quale esso acquista la sua determinatezza”(ivi, p. 20). La funzione simbolica va assunta per Cassirer nella sua accezione più ampia, come “l’espressione di qualcosa di ‘spirituale’ mediante ‘segni’ e ‘immagini’ sensibili”21. Cassirer intende dunque il simbolico come una modalità attraverso cui lo spirito umano dà forma alla realtà, come l’espressione fondamentale del carattere formativo, e non semplicemente riproduttivo, dello spirito e della cultura. Secondo Cassirer ogni autentica funzione spirituale “non esprime in maniera meramente passiva un’entità esistente, ma racchiude in sé un’energia autonoma dello spirito attraverso la quale la semplice esistenza dei fenomeni acquista un ‘significato’ determinato, un peculiare valore ideale”22. Questa attività formatrice e sintetica non si esprime solo nella conoscenza, ma anche nel linguaggio, nell’arte, nel mito e nella religione, che altro non sono che forme di objettivazione, cioè “mezzi per conferire a una entità individuale un valore di universalità” (ivi, p. 9). Lo spirito che si estrinseca nelle forme simboliche è dunque energia, come risulta dalla seguente definizione cassireriana del concetto di forma simbolica: “ogni energia dello spirito mediante la quale un contenuto significativo spirituale è collegato ad un concreto segno sensibile e intimamente annesso a tale segno” (ivi, p. 102). In questa prospettiva la critica kantiana della ragione diventa “critica della cultura” (ivi, p. 12), la critica della conoscenza si trasforma in una critica delle forme di espressione dello spirito umano, e acquista centralità l’analisi delle condizioni della simbolizzazione, delle forme strutturanti l’esperienza e del conferimento di senso23. Da questo punto di vista Cassirer 20

E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I: Il linguaggio, tr. it. Firenze 1961,

p. 7.

21 E. Cassirer, Il concetto di forma simbolica nella costruzione delle scienze dello spirito, cit., p. 101. 22 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, cit., p. 10. 23 A questa esigenza di ampliare i confini del criticismo kantiano è legato uno spostamento dell’interesse dalla Critica della ragion pura alla Critica della facoltà di giudizio, che

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sviluppa e amplia la concezione kantiana secondo cui le forme dello spirito umano (scienza, arte, morale) non sono solo letture analitiche del mondo, ma costituiscono in forma sintetica un universo di valori: il concetto non è solo rispecchiamento del dato, ma dimensione di strutturazione del reale; e la sintesi concettuale in cui si costituisce il mondo si forma in virtù di uno schematismo trascendentale al cui centro si trova l’immaginazione24. Questa analisi delle forme del conferimento di senso riveste per Cassirer un significato antropologico, in quanto il passaggio dalla configurazione mitica del mondo a quella che avviene attraverso il linguaggio e da questa alla conoscenza costituisce un processo di umanizzazione dell’uomo, un’antropogonia. Con ciò Cassirer afferma l’importante principio per cui lo spirito può conoscere se stesso solo attraverso l’espressione, dunque attraverso il simbolo che ne costituisce il veicolo: “Il contenuto dello spirito si dischiude solo nella sua estrinsecazione; la forma ideale si riconosce solo dal complesso e nel complesso dei simboli di cui essa si serve per la sua espressione”25.

3. Senso, sensibile, fantasia, linguaggio L’analisi cassireriana del simbolo mette in luce l’importanza del sensibile in quanto elemento dell’espressione del senso, stabilendo un rapporto tra il sensibile e lo spirituale che si configura in modo diverso rispetto alla tradizione idealistica. Questa tradizione ha sempre contrapposto al “mundus sensibilis” il “mundus intelligibilis”, tracciando così una netta delimitazione tra questi due mondi, dove il primo veniva identificato con l’attività e la spontaneità, il secondo con la passività. La filosofia delle forme simboliche supera invece il dualismo metafisico tra il sensibile e lo spirituale in quanto per Cassirer costituisce il luogo di mediazione tra ragione teoretica e ragione pratica, natura e libertà, particolare e universale. Cf. E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, tr. it. Firenze 1977, p. 324. 24 Cf. G. Durand, L’imagination symbolique, cit., p. 59. Circa la posizione e la funzione dell’immaginazione nel pensiero kantiano, in Kant e il problema della metafisica, Heidegger ha rimproverato a Kant di essersi arrestato timoroso di fronte alla propria scoperta dell’immaginazione come forza istitutiva del reale. Per Heidegger il concetto di “immaginazione trascendentale” rappresenta la sintesi originaria che permette di cogliere l’unità di “intuizione pura (tempo) e pensiero puro (appercezione)”. In quanto tale, essa costituisce il “fondamento sul quale si edificano, insieme, la possibilità intrinseca della conoscenza ontologica e quella della metaphysica generalis”. Cf. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr. it. Roma-Bari 1981, p. 114s. Commentando queste considerazioni heideggeriane, Cornelius Castoriadis ha osservato che anche Heidegger ripete per la terza volta (dopo Aristotele e Kant) questa movenza del pensiero, consistente nello scoprire la dimensione istituente dell’immaginazione per poi di nuovo trascurarla od occultarla (cf. C. Castoriadis, Figures du pensable. Les carrefours du labyrinthe VI, Parigi 1999, p. 93-94). 25 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, cit., p. 21.

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mostra “che proprio la pura funzione dello spirito deve necessariamente cercare nel campo del sensibile la sua completa attuazione e che in definitiva solamente qui può trovarla” (ivi, p. 22). Il sensibile appare ora fondamentale per la realizzazione dello spirito, per il divenire umano dell’uomo in quanto essere capace di senso. Con un’espressione mutuata da Goethe, Cassirer parla di una “fantasia sensibile”, di un’attività formatrice del sensibile che si manifesta nei diversi campi della creatività spirituale producendo un mondo di immagini: In tutti questi campi si appalesa in effetti come vero mezzo del loro immanente progresso il fatto che essi fanno sorgere accanto al mondo della percezione e al di sopra di esso uno specifico libero mondo di immagini: un mondo che per la sua natura immediata porta tuttavia in sé il colore del sensibile, ma che rappresenta una sensibilità già formata e quindi dominata dallo spirito. Qui non si tratta di un sensibile semplicemente dato e trovato, ma di un sistema di molteplicità sensibili prodotte in una qualche forma del libero immaginare (ibid.).

Come per Vico, che secondo Hillman è uno dei precursori della psicologia archetipica di matrice junghiana26, anche per Cassirer la fantasia non è qualcosa di esteriore e secondario rispetto alla capacità razionale della mente, ma svolge un ruolo essenziale nella creazione di forme ideali o di analogie e immagini sintetiche del reale27. E come Vico, anche Cassirer vuole salvaguardare l’autonomia della fantasia in quanto facoltà conoscitiva, evidenziandone la funzione formatrice: “Anche la fantasia mitica, per quanto fortemente radicata nel mondo della sensibilità, è purtuttavia al di sopra della mera passività del fatto sensibile. […] Il mondo del mito non è un mero prodotto dell’estro e del caso, esso ha invece le sue proprie leggi fondamentali che ne regolano l’attività formatrice e influiscono su tutte le sue particolari manifestazioni”28. Questo ruolo costitutivo e formativo del sensibile appare in modo particolarmente pregnante nell’arte e nella sua capacità di produrre immagini. A questo riguardo Cassirer evidenzia come l’oggettività si formi 26 Su Vico come precursore della psicologia archetipica cf. J. Hillman, Plotino, Ficino e Vico precursori della psicologia archetipica, in: Id., L’anima del mondo e il pensiero del cuore, tr. it. Milano 2002, p. 33-39. In particolare Hillman mette in luce l’esistenza di un’analogia tra gli universali fantastici di Vico e gli archetipi di Jung, e questo nel quadro della centralità che entrambi attribuoscono alla dimensione metaforica del pensiero: Vico “merita l’attenzione di quanti si interessano di Jung soprattutto per la sua elaborazione del pensiero metaforico. Per Vico il pensiero metaforico è primario, esattamente come per Jung il pensiero per immagini è primario” (ivi, p. 35). 27 Sul rapporto tra Cassirer e Vico cf. G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, in: Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Messina 2005, p. 85-104. 28 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, cit., p. 23.

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non solo attraverso il “potere della denominazione” che caratterizza il linguaggio, ma anche tramite quello della “formazione delle immagini” tipico dell’arte, che costituisce “la seconda radice fortemente propulsiva dell’intuizione oggettiva in generale”29. Egli sottolinea qui ancora una volta la natura poietica, e non meramente riproduttiva, delle funzioni spirituali, in questo caso di quella artistica: “L’uomo perviene all’intuizione della forma delle cose non deducendola semplicemente da esse, come una determinazione ad esse aderente, ma delineando in sé la loro immagine e traendo da sé questo progetto formativo” (ibid.). Richiamandosi ancora una volta a Goethe, Cassirer sottolinea il significato “teoretico” della funzione “estetica”, la portata conoscitiva di ogni “configurazione artistica di immagini”, in quanto la “rappresentazione del mondo” che ogni opera d’arte include in sé costituisce una vera e propria “scoperta del mondo” (ivi, p. 98). Ne deriva che le creazioni della fantasia artistica non hanno carattere soggettivo, arbitrario e casuale, ma esprimono una “legalità della forma”, sono “essenze” o “forme essenziali” che vengono “poste” dall’occhio dell’artista (ibid.). L’analisi cassireriana dello sviluppo e della struttura delle forme simboliche si svolge alla luce del concetto di “forma interna”, ripreso dalla linguistica di Wilhelm von Humboldt. Grazie a tale concetto è possibile porre in luce una legalità costitutiva di ciascuna forma simbolica, in cui emergono i tre livelli, tra loro connessi, dell’espressione, della rappresentazione/ rappresentanza (Darstellung/ Repräsentation) e del significato. Questa distinzione di livelli trova il proprio modello nell’analisi cassireriana del rapporto tra parola e cosa nello sviluppo del linguaggio: se nel primo livello, quello dell’espressione mimica (gesto o suono), parola e cosa restano ancora indistinte, nel secondo livello (col passaggio dal suono onomatopeico al suono articolato) si sviluppa un rapporto analogico tra parola e cosa che prelude all’ingresso nel terzo livello della “pura” funzione significativa. Partendo da questa articolazione dell’espressione si può comprendere in che senso la funzione espressiva costituisca per Cassirer il modello di una relazione “puramente simbolica”30. Se al livello del mito immagine e cosa, signficante e significato tendono ancora a confondersi, sul piano del linguaggio si acquisisce consapevolezza della loro separazione: il “contenuto sensorialmente intuitivo” qui non viene còlto solo nel suo 29

E. Cassirer, Metafisica delle forme simboliche, cit., p. 97. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. III: Fenomenologia della conoscenza, tr. it. Firenze 1966, p. 134. Cassirer si riferisce qui a una formulazione di Klages (in Vom Wesen des Bewußtsein, Lipsia 1921, p. 26s.), che rifiuta la separazione tra anima e corpo: “Noi accettiamo questa significativa formulazione, giacché con essa ci troviamo di nuovo al centro del nostro proprio problema sistematico. Il rapporto dell’anima col corpo rappresenta il primo esempio e il primo modello di una relazione puramente simbolica, che non si lascia convertire dal pensiero né in un rapporto di cose né in un rapporto causale”. 30

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“presente”, nella sua “semplice ‘presenza’” (Gegenwart, einfache ‘Präsenz’), ma come “rappresentazione” o “rappresentanza” (Darstellung, Repräsentanz) di “un altro”, e con ciò è raggiunto “un livello della coscienza del tutto nuovo”31. Grazie alla funzione espressiva dei nomi, gli oggetti vengono posti a una distanza in cui possono venire “intuiti” e “presentificati” (vergegenwärtigt), e questo è legato al fatto che, dal flusso indifferenziato delle immagini, viene isolato un singolo elemento, che diventa così “sostituto” (Vertreter) o “rappresentante” (Repräsentant) del tutto a cui appartiene32. Questa caratterizzazione del simbolo attraverso la sua funzione rappresentativa (che verrà messa in luce anche da Gadamer33) evidenzia al tempo stesso una differenza e una analogia rispetto a Jung. La definizione del simbolo in rapporto al momento della rappresentanza esprime l’aspetto segnico del simbolo, il suo rinviare a qualcos’altro (l’“aliquid stat pro aliquo”), che però non ne esaurisce l’essenza: con questa caratterizzazione Cassirer sembra così “rimanere nello spazio semiotico del simbolo”34. D’altra parte, la funzione rappresentativa del simbolo si radica nel rapporto di quest’ultimo con l’“immaginazione produttiva”. L’immagine infatti, afferma Cassirer contro la teoria “realistica” delle immagini di Klages, per poter essere compresa non solo nel suo “presente” (Gegenwart) e nella sua “‘presenza’ nello spirito”, ma anche nel suo essere “atto di rappresentanza” e “funzione di presentificazione”, richiede la “partecipazione vivente dell’io”, e questa partecipazione è resa possibile dall’immaginazione: L’immagine, secondo la sua essenza, secondo il suo costitutivo contenuto di senso, rinvia sempre all’“immaginazione” e questa, se ritorniamo alla sua vera radice, non si rivela mai come una funzione semplicemente riproduttiva, ma come una funzione produttiva. Non occorre qui esporlo e dimostrarlo nei dettagli: è proprio la funzione dell’“immaginazione produttiva” che ci si fa

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Ivi, p. 148 (tr. modificata). Ivi, p. 150 (tr. modificata). 33 Secondo Gadamer il simbolo si distingue dal segno in quanto la sua essenza è “la pura rappresentanza (das reine Vertreten), lo stare in luogo di”, mentre l’essenza del segno è “il puro rimando”: “La funzione rappresentativa del simbolo non è il puro e semplice rimando a qualcosa di non presente. Il simbolo, piuttosto, fa apparire come presente qualcosa che fondamentalmente è sempre presente”. (cf. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. Milano 1986, p. 188, 191). Questo risulta già dal significato originario della parola: in quanto mezzo di riconoscimento di un ospite o dei membri di una comunità religiosa, il symbolon è un segno che non solo “indica” un legame comune, ma “lo documenta e lo rappresenta visibilmente” (ivi, p. 190). 34 M. Trevi, Metafore del simbolo. Ricerche sulla funzione simbolica nella psicologia complessa, Milano 1986, p. 56. 32

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incontro dappertutto nella costruzione di ogni singolo mondo di forme e che è, per così dire, il filo ideale che si stringe intorno ai mondi di forme35.

All’immaginazione è essenzialmente legato anche il simbolo nell’accezione junghiana. Secondo Jung, infatti, “il processo simbolico è un’esperienza nell’immagine e dell’immagine”36. Esso non solo si esprime attraverso immagini, ma è anche il prodotto di quell’attività immaginativa e creativa della psiche che si traduce nella dimensione chiamata da Jung “archetipo”.

4. Archetipo, simbolo, inconscio L’enfasi posta sul ruolo delle forme simboliche in rapporto alla costituzione dell’oggettività segna una prima differenza tra la prospettiva di Cassirer e quella di Jung. In Jung infatti, che pure non esclude l’importanza del simbolo e dell’immagine al fine della formazione della coscienza e dell’oggettività, la tematizzazione del simbolo avviene in rapporto all’inconscio collettivo e dei suoi archetipi, e questo al fine di mettere in luce la funzione del simbolo nel processo di individuazione. Gli archetipi vengono caratterizzati dapprima da Jung, nell’opera Trasformazioni e simboli della libido (1911, ripubblicata nel 1952 con il titolo Simboli della trasformazione), attraverso il concetto di “immagini primordiali” (dal tedesco “Urbild”, “urtümliches Bild”, una nozione che Jung riprende dallo storico Jakob Burckhardt). Queste immagini, dotate di capacità autogenerativa, percepibili nella coscienza e provenienti da una matrice inconscia comune a tutti i popoli, sono l’espressione di un’energia psichica in 35 E. Cassirer, Metafisica delle forme simboliche, tr. it.cit. (da noi modificata in alcuni punti), p. 36. 36 C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, tr. it. Torino 1972, p. 64. Sull’importanza dell’immaginario nella psicologia di Jung cf. M. Trevi, Per una valutazione critica dell’opera di C.G. Jung, in: “aut-aut”, 229-30, 1989, p. 22-24. Anche Jung, come Cassirer, distingue un’immaginazione “riproduttiva” da un’immaginazione “creativa” (cf. Tipi psicologici, cit., p. 482: “L’immaginazione è l’attività riproduttiva o creativa dello spirito”). Su un versante non lontano, almeno per alcuni aspetti, da quello junghiano, Plessner e Gehlen hanno messo in luce la centralità antropologica dell’immaginazione e della creatività, legate rispettivamente alle “leggi” della “posizionalità eccentrica” e del “luogo utopico”, che rendono l’essere umano costitutivamente aperto e privo di patria (cf. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 334, 339, 344-45, 363) e alla sua natura di “essere carente”, che ne condiziona l’essenziale incompiutezza (cf. A, Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. Milano 2010, p. 379-91). In un diverso contesto, Castoriadis ha individuato nell’immaginazione creativa, da lui chiamata anche immaginazione “radicale”, un carattere essenziale della psiche. La concezione dell’immaginazione di Castoriadis, che si sviluppa anche attraverso una discussione critica dell’opera di Freud, è priva di qualsiasi riferimento agli archetipi e all’inconscio collettivo, così come di un’elaborazione del concetto di simbolo, di cui pure il filosofo greco-francese sottolinea l’importanza in quanto modalità di espressione dell’immaginario. Cf. C. Castoriadis, L’institution imaginaire de la societé, Parigi 1975.

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senso lato che si differenzia dalla libido connotata sessualmente di cui parlava Freud. A questo proposito, va ricordato che per energia psichica o “libido” Jung intende “l’intensità del processo psichico, il suo valore psicologico”, e che a questo termine egli non attribuisce un valore di carattere morale, estetico o intellettuale, ma semplicemente quello di una “forza determinante la quale si estrinseca in determinati effetti (‘prestazioni’) psichici”37. Il termine archetipo compare in foma esplicita nel saggio Istinto e inconscio (1919), dove designa al tempo stesso gli istinti e gli impulsi inconsci e le forme a priori, ovvero congenite, dell’intuizione. Esso viene qui ripreso dallo Pseudo Dionigi Areopagita, il mistico greco autore di un Corpus dionysianum dai tratti gnostici, e dal Corpus hermeticum, una raccolta di testi dal carattere gnostico e misterico. Successivamente, nei Tipi psicologici (1921) il concetto entra a far parte stabilmente della concezione junghiana della psiche, indicando una forma intesa come substrato impersonale e autogenetico (non derivante cioè dall’esperienza), che concentra in sé nuclei di energia psichica percepibili attraverso le rappresentazioni simboliche e che, al di là degli atteggiamenti coscienti, svolge un ruolo determinante nell’esistenza individuale. In generale, Jung sottolinea la natura formale dell’archetipo, che rappresenta una quantità di energia psichica allo stato potenziale, di per sé priva di forma e non determinata da un contenuto particolare, suscettibile di realizzarsi, o “costellarsi” in modalità diverse secondo i diversi individui e le diverse situazioni storiche. A questo riguardo, egli paragona la forma del’archetipo al sistema assiale di un cristallo, il quale per così dire preforma la struttura del cristallo stesso nell’acqua madre, senza possedere un’esistenza materiale sua propria. Questa si esprime soltanto nel modo in cui si cristallizzano joni e molecole. L’archetipo in sé è un elemento vuoto, formale, nient’altro che una facultas praeformandi, una possibilità data a priori della forma di rappresentazione38.

In questo modo Jung intende evidenziare il carattere strutturante dell’archetipo o “immagine primordiale”, che da un lato si riferisce a “determinati processi naturali” della vita individuale e dall’altro a “determinate disposizioni interiori della vita spirituale e della vita in genere”. Esso collega l’esterno e l’interno, la natura e lo spirito, e consente il passaggio dalla pulsione al significato:

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C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 509. C.G. Jung, Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, tr. it.in: Opere, vol. 9/1, tr. it. Torino 1982, p. 81-82. 38

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L’immagine primordiale è dunque un’espressione cha abbraccia tutto il processo vitale. Essa dà alle impressioni sensoriali e a quelle mentali interiori, le quali compaiono a tutta prima disordinate e sconnesse, un significato che conferisce loro un ordine e una connessione, liberando così l’energia psichica dal legame con la mera e incompresa percezione. L’immagine primordiale collega però anche le energie, liberate dalla percezione degli stimoli, a un determinato significato il quale indirizza l’azione secondo le vie che ad esso convengono. Essa libera l’energia accumulata e inutilizzabile, restituendo lo spirito alla natura e tramutando il mero istinto naturale in forme spirituali39.

Per mettere in luce il carattere di trascendenza dell’archetipo rispetto alla coscienza, Jung parla della natura “psicoide” dell’archetipo40. Da ciò risulta sia l’impossibilità di portare alla coscienza l’archetipo, sia la sua inesauribilità per l’interpretazione, come si legge nel saggio sulla Psicologia dell’archetipo del Fanciullo: “Non dobbiamo cedere nemmeno per un momento all’illusione di poter una volta finalmente spiegare, e con ciò liquidare, un archetipo. Nemmeno il migliore tentativo di interpretazione è altro che una traduzione più o meno riuscita in un altro linguaggio figurato”41. I diversi archetipi si esprimono nei simboli presenti nei sogni degli individui e nelle produzioni culturali dell’umanità, in particolare nel mito. Queste sono a loro volta espressione di una matrice comune caratterizzabile come inconscio collettivo, uno “strato più profondo” su cui poggia l’inconscio “personale” freudiano e consistente di immagini e motivi mitologici: Questo strato più profondo è il cosiddetto “inconscio collettivo”. Ho scelto l’espressione “collettivo” perché questo inconscio non è di natura individuale, ma “collettiva” e cioè, al contrario della psiche personale, ha contenti e comportamenti che (cum grano salis) sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui. In altre parole, è identico per tutti gli uomini e costituisce un substrato psichico comune di natura soprapersonale presente in ciascuno42.

Nella conferenza del 1936 su Il concetto di inconscio collettivo, Jung caratterizza gli archetipi attraverso il riferimento a concetti provenienti dall’ambito dell’etnologia, come le “rappresentazioni collettive” di LévyBruhl, le “categorie dell’immaginazione” di Hubert e Mauss e i “pensieri elementari” o “primordiali” di Adolf Bastian, e sottolinea ancora una volta

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C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 493. Cf. C.G. Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in: Opere, vol. 8, tr. it. Torino 1994, p. 230. 41 C.G. Jung, Psicologia dell’archetipo del Fanciullo, in: C.G. Jung – K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, tr. it. Torino 1972, p. 121. 42 C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, cit., p. 16. 40

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il legame tra gli archetipi e l’inconscio collettivo, enunciando la seguente tesi: Oltre alla nostra coscienza immediata, che è di natura del tutto personale e che riteniamo essere l’unica psiche solo empirica (anche se vi aggiungiamo l’inconscio personale come appendice), esiste un secondo sistema psichico di natura collettiva, universale e impersonale, che è identico in tutti gli individui. Quest’inconscio collettivo non si sviluppa individualmente, ma è ereditato. Esso consiste di forme preesistenti, gli archetipi, che possono diventare consci solo in un secondo momento e danno una forma determinata a certi contenuti psichici43.

Nel saggio Introduzione all’inconscio, Jung caratterizza gli archetipi attraverso il loro rapporto con le emozioni, e afferma che “si può parlare di archetipi solo quando questi due aspetti si manifestano simultaneamente”. Questa connotazione emozionale, che conferisce alle immagini un carattere “numinoso”, ovvero “un’energia psichica”, fa sì che gli archetipi non siano “né nomi puri e semplici, né concetti filosofici”, ma appartengano “alla vita stessa”. Per questo, in sede di analisi, “è impossibile dare una spiegazione arbitraria (o universale) degli archetipi. Essi devono essere spiegati nel modo indicato dall’intera situazione esistenziale dei singoli individui particolari cui rispettivamente si riferiscono”44. In virtù del rapporto che esso intrattiene con gli archetipi, e dunque con l’energia psichica, Jung ha definito il simbolo come una “analogia della libido”. Esso è infatti una rappresentazione in grado di esprimere la libido trasponendola in una forma diversa da quella originale. In questo senso si può dire, con le parole di Jolande Jacobi, che le immagini psichiche siano “l’essenza e la figurazione dell’energia psichica”45. In questa prospettiva “energetica” la prima peculiarità del simbolo è la sua differenza rispetto al segno. Questo costituisce un altro punto di divergenza di Jung rispetto a Cassirer. Mentre Cassirer non sembra tener conto delle differenze tra simbolo e segno46 e riduce in certo modo il primo al secondo, soprattutto in quanto pensa il simbolo in base al modello del linguaggio e dell’oggettivazione che in esso si realizza, Jung sottolinea la radicale differenza del simbolo sia rispetto al segno sia in rapporto all’allegoria47. Nel segno l’espressione indica qualcosa di noto. Nel simbolo invece essa è 43 C.G. Jung, Il concetto d’inconscio collettivo, in: Gli archetipi dell’inconscio collettivo, cit., p. 70. 44 C.G. Jung, Introduzione all’inconscio, in: L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 79. 45 J. Jacobi, La psicologia di Jung, tr. it. Torino 1973, p 120. 46 Nella Filosofia delle forme simboliche, vol. I, cit., p. 20, richiamandosi alla concezione del simbolo di Hertz, Cassirer afferma che “ogni pensiero veramente rigoroso ed esatto trova il suo punto fermo solo nella simbolica, nella semiotica, sulla quale poggia”. 47 C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, cit., p. 63-64; Id., Tipi psicologici, cit., p. 525s. Cf. J. Jacobi, op. cit., p. 122-24.

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“la migliore indicazione e formulazione possibile di un fatto relativamente sconosciuto” e non può essere ridotto a un significato univoco. Ogni concezione che definisce l’espressione simbolica come analogia o come denominazione abbreviata di una cosa nota è semeiotica. Una concezione che definisce l’espressione simbolica come la migliore possibile , e quindi come la formulazione più chiara e caratteristica che si possa enunciare per il momento di una cosa relativamente sconosciuta, è simbolica. Una concezione che definisce l’espressione simbolica come intenzionale circonlocuzione o modificazione di una cosa conosciuta è allegorica48.

Ciò che rende tale un simbolo è la sua ambiguità, la sua natura inesauribile, che è legata all’ambiguità e inesauribilità dell’archetipo49. Una parola o un’immagine può infatti essere caratterizzata come simbolica solo quando implica qualcosa che va al di là del suo significato ovvio e immediato e ha un aspetto più ampio che non può essere definito con precisione o spiegato completamente. Così, il simbolo porta la mente umana “a contatto con idee che stanno al di là delle capacità razionali”50. Jung considera simboli anche le teorie scientifiche, in quanto contengono ipotesi che designano in anticipo un dato di fatto ancora sconosciuto. Ma simboli sono anche i fenomeni psicologici, nella misura in cui esprimono

48 C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 525. La distinzione tra segno e simbolo si trova già in Hegel, che nel § 458 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche definisce il segno “una qualche intuizione immediata, che rappresenta un contenuto completamente diverso da quello che ha per se stessa”; al contrario il simbolo è una intuizione, “la cui determinatezza propria, quanto all’essenza e al concetto, coincide più o meno con il contenuto che essa esprime in quanto simbolo”. Cf. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, parte III: Filosofia dello spirito, tr. it. Torino 2000, p. 320. 49 Cf. C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, cit., Torino 1977, p. 63-64, dove si afferma che i principi basilari dell’inconscio, le archai, “sono indescrivibili per la loro ricchezza di riferimenti”; si caratterizzano per “il loro plurisignificato, la loro quasi incalcolabile pienezza di riferimenti che rende impossibile ogni univoca formulazione”. E anche Id., Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 435-36, dove Jung mette in relazione il carattere plurivoco e polisignificante dei concetti della propria psiconalisi con la natura “ambigua” della psiche in quanto “complexio oppositorum”: “La lingua che parlo dev’essere ambigua, ossia a doppio senso, per adeguarsi alla natura psichica col suo duplice aspetto. Io aspiro coscientemente e intenzionalmente alla espressione anfibologica, perché questa è superiore all’univocità e corrisponde alla natura dell’essere. […] Nell’esperienza tutto cade in preda all’ambiguità della psiche. […] Perciò preferisco il linguaggio equivoco, perché rende giustizia in ugual misura alla soggettività delle rappresentazioni archetipiche e all’autonomia dell’archetipo”. 50 C.G. Jung, Introduzione all’inconscio, in: L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 5. M. Trevi (Metafore del simbolo, cit., p. 4) ha sottolineato l’origine romantica di questa concezione del simbolo: per i romantici, da Novalis a Hölderlin, da F. Schlegel a Schelling “il simbolo diviene il motore di un pensare dell’uomo che si oppone alla ragione cartesiana, talvolta la integra, talvolta persino la ingloba come una categoria secondaria”.

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una realtà ancora in parte ignota51. Simbolo è, insomma, tutto ciò che significa qualcosa di più e di diverso rispetto a ciò che già conosciamo, che apre nuove vie all’esperienza e alla conoscenza. Si può dunque parlare a proposito del simbolo di un’eccedenza del “significato” rispetto all’espressione che lo veicola52. C’è simbolo là dove “vi è una coscienza orientata verso ulteriori possibili significati delle cose”53. Va però ricordato, come ha fatto Mario Trevi, che nel simbolo junghiano è presente un “residuo semeiotico”. Questo residuo emerge là dove Jung, per caratterizzare il simbolo, usa termini come “indicazione”, “formulazione”, “affermare”, “significare”, i quali sono “sussumibili sotto il genere del semeion, dell’operazione semeiotica, del rimando puntuale dal veicolo segnico al designatum” 54. Ciò rinvia, secondo Trevi, oltre che alla “assenza di semantica storica” (cf. ivi, p. 52-54) nella definizione del simbolo data da Jung nei Tipi psicologici (Jung non tiene qui conto della polisemia del termine simbolo), a una lacuna relativa alla “distinzione di ordine logico tra segno e simbolo”. Come il segno, il simbolo è caratterizzato da una struttura di rimando, ma, diversamente dal segno, che si riferisce a un designatum circoscritto e definito, il simbolo rinvia a un designatum “di carattere affatto particolare, nebuloso, indistinto, indecifrabile, soprattutto germinale, produttivo, pragmatico e pregnante” (ivi, p. 55). Esso dunque non “significa”, se per significato si intende il riferimento a un elemento di carattere oggettuale, definibile con precisione ed esauribile dal pensiero in tutti i suoi aspetti, ma ha carattere asemantico, sintetico e di esplorazione progettuale55.

51

C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 526s. In questo senso il simbolo ha molto in comune con le “espressioni evocative” di cui parla Georg Misch nei suoi corsi di “logica ermeneutica”: diversamente dalle “constatazioni puramente discorsive”, le espressioni evocative sono caratterizzate da un’eccedenza del senso rispetto al contenuto oggettuale della parola. Cf. G. Misch, Der Aufbau der Logik auf dem Boden der Philosophie des Lebens. Göttinger Vorlesungen über Logik und Einleitung in die Theorie des Wissens, c/ di G. Kühne-Bertram e F. Rodi, Freiburg i. Br.– München 1994, p. 518. 53 C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 527. 54 M. Trevi, Metafore del simbolo, cit., p. 54-55. 55 Cf. M. Trevi, Per una valutazione critica dell’opera di C. G. Jung, cit., p. 24. Per ulteriori caratteristiche del simbolo junghiano cf. M. Trevi, Metafore del simbolo, cit., p. 41, dove, oltre alla struttura di rinvio, si sottolinea che il simbolo “evoca una connessione reale, non convenzionale” con ciò a cui rinvia e inoltre che la totalità che esso evoca non è “data”, ma è “una totalità in continua costituzione e si identifica con la totalità progressiva degli infiniti rinvii del simbolo”. In questo senso il simbolo può essere caratterizzato come una “parte rinviante ambiguamente al tutto” (ivi, p. 40). 52

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5. Pregnanza simbolica e simbolo vivo Nel tentativo di superare la concezione kantiana del dato come separato rispetto al senso, Cassirer sviluppa il concetto della “pregnanza simbolica”. Con questa espressione, che indica l’immanenza del senso rispetto al sensibile e alla percezione, egli intende “la maniera in cui un vissuto (Erlebnis) della percezione, in quanto vissuto ‘sensibile’ (‘sinnliches’ Erlebnis), racchiude in sé un determinato ‘senso’ non intuitivo e lo porta a una immediata e concreta rappresentazione (Darstellung)” 56. Un concetto simile si trova anche in Jung, là dove egli afferma che un simbolo è vivo finché è “pregno di significato”, cioè finché esprime una vissuta esperienza di significatività57. In Jung però la pregnanza del simbolo non indica solo l’immanenza del senso rispetto alla vita, ovvero al sensibile, ma anche l’impossibilità di creare un simbolo vivo a partire da qualcosa di già noto, perché in questo caso il simbolo conterrebbe solo ciò che in esso è stato posto dal suo creatore. Va sottolineato che tanto Cassirer quanto Jung, per descrivere questo aspetto del simbolo, usano una metafora, quella della pregnanza. Facciamo nostra, a questo proposito, una considerazione di Mario Trevi, secondo cui: Tale metafora va presa sul serio: evoca il ventre di una gestante nel quale è racchiuso qualcosa che certamente esiste ma che non possiamo conoscere. La “pregnanza” del simbolo va presa nel suo senso letterale proprio perché scatti la potenza della metafora. È pregnante ciò che reca qualcosa in fieri e ancora totalmente nascosto. […] Paradossalmente ma coerentemente, in Jung il simbolo “muore” quando il suo significato “nasce” (si rende visibile e intelligibile). Il simbolo è vivo solo finché è pregnante, vale a dire finché porta nel suo grembo un significato inespresso. Muore quando questo significato è dato alla luce”58.

Se è vero che il fatto che un oggetto sia percepito o meno come simbolo dipende talvolta dall’atteggiamento del soggetto che lo osserva, altrettanto vero è che un simbolo vivo è un oggetto che produce di per sé, 56 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. III, cit., p. 270 (tr. modificata). Ancora una volta va sottolineata la parentela della dimensione simbolica nella caratterizzazione che ne dà Jung con la funzione dell’evocazione come viene descritta da Misch: anch’essa esprime infatti un elemento di significatività (Bedeutsamkeit) còlto nell’esperienza vitale. Misch si riferisce a Dilthey, che nella significatività aveva visto una delle categorie reali o vitali con cui operano le scienze dello spirito, uno dei “concetti di energia (Energiebegriffe) del mondo storico”, che rappresentano non forme statiche, ma “decorso temporale”,”agire”, “energia”, “accadere” (cf. G. Misch, Der Aufbau der Logik auf dem Boden der Philosophie des Lebens, cit., p. 70). 57 C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 526. 58 M. Trevi, Metafore del simbolo, cit., p. 65.

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indipendentemente dall’atteggiamento soggettivo, un’influenza sull’individuo. È questo per esempio il caso di un triangolo che racchiude un occhio: si tratta di una figura che non avrebbe senso se non avesse un significato simbolico e che dunque impone immediatamente un’interpretazione simbolica59. Perché un simbolo sia vivo non basta però che esso mostri la sua natura simbolica in modo appariscente, dato che in questo caso esso potrebbe agire solo in senso intellettualistico o estetico. Un simbolo vivo deve coinvolgere il soggetto, diventando per lui “l’espressione migliore e più alta possibile di qualcosa di presentito e non ancora conosciuto”; solo attraverso la “partecipazione inconscia” che provoca in questo modo, esso potrà giungere a “generare e promuovere la vita” (ivi, p. 528-29). Ne deriva che il simbolo vivo è l’espressione di un aspetto essenziale dell’inconscio. Tanto più questo aspetto è diffuso, tanto più universale sarà l’azione del simbolo. Jung descrive qui le caratteristiche di quello che chiama un simbolo “sociale” vivo: da una parte esso deve esprimere ciò che di più differenziato e complicato vi è nell’atmosfera spirituale di un’epoca; dall’altra esso deve esprimere ciò che è comune alla maggior parte degli individui, e questo non sarà ciò che vi è di più raffinato e difficilmente accessibile, ma “qualcosa di ancora talmente primitivo che la sua onnipresenza sia al di là di ogni dubbio” (ivi). Tuttavia è la coscienza che decide dell’autenticità di un simbolo: “Che una cosa sia un simbolo o no dipende anzitutto dall’atteggiamento della coscienza che osserva” (ivi, p. 527). In questo senso il simbolo ha la funzione di unificare il “basso” e l’“elevato”, l’istintuale e l’intellettuale, la vita e lo spirito, le forze ctonie e la ragione, il mondo delle immagini arcaiche e quello della cultura. A questo riguardo la concezione di Jung si differenzia da quella di Klages60 per avvicinarsi a quella di Cassirer. Anche in Cassirer la funzione simbolica unifica la vita e lo spirito, il divenire e le forme. Le forme simboliche rappresentano infatti qualcosa che appartiene al “processo vivente e continuamente rinnovato della coscienza” e al tempo stesso dei punti fermi e stabili che vengono conquistati in questo processo. “Quindi in essi la coscienza mantiene il carattere di perpetuo fluire: ma tuttavia non trascorre nell’indeterminato, ma si articola, essa stessa, intorno a centri ben fermi relativi alla forma e al significato”61. Per quanto riguarda i simboli individuali, come possono essere quelli che compaiono nei sogni o nei sintomi, Jung sottolinea che essi hanno per l’individuo un’importanza pari a quella che riveste il simbolo sociale per i gruppi più ampi. La loro origine non è mai esclusivamente cosciente né 59

Ivi, p. 527. Cf. J. Jacobi, op. cit., p. 123. Sulle differenze Jung – Klages cf. R. Pezzella, La discesa e il ritorno, cit., p. 135-36. 61 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, cit., p. 54. 60

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esclusivamente inconscia, ma dipende dalla cooperazione e dall’equilibrio di entrambi i fattori. Sia a livello sociale sia a livello individuale, il simbolo è qualcosa di complesso, in quanto si compone in base ai dati di tutte le funzioni psichiche: la sua natura non è né razionale né irrazionale, poiché a un lato conciliabile con la ragione esso aggiunge un lato inaccessibile alla ragione. Questa caratteristica è stata esemplificata da Jolande Jacobi attraverso l’analisi dell’etimologia della parola tedesca Sinnbild, composta dalle parole senso (Sinn) e immagine (Bild). Se, conformemente a questa etimologia, il simbolo è “immagine di senso”, l’elemento del senso rinvia alla componente cosciente e razionale, e quello dell’immagine richiama la componente inconscia e irrazionale62. Il simbolo inoltre si rivolge a tutte le facoltà che compongono la coscienza dell’uomo: “La ricchezza di presentimenti e la densità di significati del simbolo s’indirizzano tanto al pensare quanto al sentire e la sua peculiare capacità d’immagini, qualora possa tradursi in una forma plasticamente accessibile, stimola tanto la sensazione quanto l’intuizione”63. Il simbolo si caratterizza dunque per la sua capacità di unificare gli opposti, di fare incontrare le immagini primordiali e i mitologemi con lo spirito e la cultura. In esso lo spirito entra in contatto con una dimensione immaginale e mitologica che lo eccede e al tempo stesso lo costituisce. Nella sua paradossalità e inesauribilità per le categorie della ragione, esso mostra che l’alterità è una componente costitutiva del Sé.

6. Simbolo, individuazione, mito Per Jung i simboli hanno un carattere al tempo stesso “espressivo” e “impressivo”64. Da un lato essi esprimono attraverso immagini i processi psichici, e dall’altro imprimono il loro senso a tali processi. È proprio esprimendo un processo che un simbolo aiuta al tempo stesso a prenderne coscienza e a trasformarlo. I simboli hanno dunque potenzialità trasformatrici e svolgono un ruolo fondamentale nel processo di individuazione, cioè in quel processo che porta il singolo a sviluppare la propria psicologia individuale, a realizzare il proprio Sé differenziandosi dalla psicologia collettiva65. Jung parla a questo proposito di una “simbolica 62

J. Jacobi, op. cit., p. 123. C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 113. 64 Cf. J. Jacobi, op. cit., p. 120. 65 Cf. C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 501. Jung sottolinea qui che, benché l’individuazione sia “sempre più o meno in contrasto con le norme collettive”, dal punto di vista educativo essa ha come presupposto “l’adattamento al minimo di norme collettive necessario per l’esistenza”; d’altra parte, egli precisa che tale processo non porta all’isolamento dell’individuo (la cui esistenza presuppone la dimensione della collettività), ma “a una coesione collettiva più intensa e più generale” (ivi, p. 502). 63

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dell’individuazione”66. Da questo punto di vista diventa importante il rapporto tra i simboli e il Sé, in quanto archetipo che esprime il centro che unifica le diverse tendenze della personalità, la “complexio oppositorum” cui tende il processo individuativo67. In questo senso il Sé è “un’unione dei contrari kat’ exochen”68. In quanto ingloba l’io (la parte cosciente della personalità69), esso non può essere conosciuto in modo razionale; è però possibile farne esperienza attraverso i simboli. Quando l’intelligenza si trova in una situazione di crisi e non può far fronte a una situazione interna o esterna, la psiche produce spontaneamente dei simboli che possono aiutarla a uscire dalla situazione di difficoltà. In questo contesto il simbolo è al tempo stesso l’espressione di un conflitto e la via che può portare alla sua soluzione; esso viene così ad avere una funzione risanatrice, quella di superare la scissione tra diversi aspetti della psiche che per Jung costituisce la nevrosi. A questo proposito Jung distingue due tipi di simboli: quelli che alludono al Sé in quanto tale e quelli che simboleggiano soprattutto la sua natura di agente ordinatore. Uno stesso simbolo può tuttavia far parte di entrambe le categorie, come per esempio, nel caso di una persona “troppo adulta”, l’immagine del bambino può fungere sia da simbolo del Sé (il bambino come totalità, integrazione, potenzialità), sia da simbolo compensativo, che spinge l’individuo al contatto con parti di sé che aveva rimosso70. Particolarmente importante, da questo punto di vista, è quel tipo di simbolo chiamato da Jung “simbolo unificatore”, che trova la sua esemplificazione più adeguata nel mandala71. Questa parola sanscrita significa “cerchio magico” e indica una figura geometrica (con suddivisioni al suo interno, quattro o multipli di quattro), che secondo Jung rappresenta la totalità irradiante da un centro, la “quadratura del cerchio” e in questo senso esprime la totalità del Sé, “la compiutezza del fondamento psichico” o, “in termini mitici”, “la divinità incarnata nell’uomo”72. I simboli del Sé – ed è questa la loro caratteristica peculiare e decisiva – non si limitano ad esprimere l’integrazione o l’ordine potenziale della personalità, ma contribuiscono a provocarli e ad arricchire le capacità 66

C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Torino 1972, p. 45. Cf. C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 518: “In quanto concetto empirico denomino il Sé come il volume complessivo di tutti i fenomeni psichici nell’uomo. Esso rappresenta l’unità e la totalità della personalità considerata nel suo insieme”. 68 C.G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., p. 24. 69 Cf. C.G. Jung, Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé, in: Opere, vol. 9/2, tr. it. Torino 1997, p. 3. 70 Cf. A. Samuels, op. cit., p. 161-62. 71 Sui simboli mandala cf. C.G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., p. 97-222. Cf. anche J. Jacobi, op. cit., p. 167-73. 72 C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 393. 67

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autoterapeutiche della psiche. Questo può avvenire perché questi simboli sono portatori della “funzione trascendente”73, cioè della capacità di integrare le diverse coppie di contrari della psiche in una sintesi armonica, consentendo il passaggio da un atteggiamento all’altro e diventando così un fattore fondamentale della trasformazione psichica e dell’individuazione. Jung sottolinea il legame di questa funzione risanatrice del simbolo, che facendo da “terzo sopraordinato” può unificare le metà separate della psiche, con la dimensione del numinoso: “In quanto il simbolo proviene sia dalla coscienza sia dall’inconscio, esso può unirli entrambi, riconciliando il loro antagonismo concettuale grazie alla sua forma, e il loro antagonismo grazie alla sua numinosità”74. Se per Cassirer la funzione simbolica, nella sua capacità configurante e formatrice, che trova il suo nucleo originario nell’operazione di “rappresentazione” e “rappresentanza” dell’esperienza effettuata dal linguaggio, richiede una partecipazione vissuta del soggetto, per Jung ciò che caratterizza il simbolo sono le sue virtualità trasformatrici. Un'altra differenza tra i due autori emerge se si considera il loro atteggiamento nei confronti del mito. Per quanto riguarda Cassirer si può parlare a questo riguardo di una ambivalenza o duplicità. Cassirer vede nel mito il terreno da cui si sono sviluppate tutte le forme della cultura, che sono originariamente legate alla coscienza mitico-religiosa e appaiono come travestite e avvolte in una qualche raffigurazione del mito75. Per lui il mito sembra essere, da una parte, in una prospettiva teorica, una tra le diverse forme simboliche, cooriginaria e dotata di uguale valore rispetto alle altre: in questo senso si potrebbe legittimamente parlare di una presenza del mito nella cultura umana al di là delle sue forme arcaiche. D’altro canto, in una prospettiva di filosofia della storia, il mito sembra essere qualcosa di arcaico, che è stato superato dallo sviluppo della cultura e che apparterrebbe irrimediabilmente al passato76. Il concetto di una presenza o attualità del 73 In Simboli della trasformazione. Analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia (in: Opere, vol. 5, tr. it. Torino 1970, p. 32) Jung descrive questa funzione come capace di integrare due forme del pensare: il “sognare” o “fantasticare”, tendente alla raffigurazione estetica, e il “pensare indirizzato”, rivolto alla comprensione del significato. Nel saggio su La funzione trascendente (in: C. G. Jung, La dimensione psichica, Torino 1972) parla di “due strade” che si integrano nella funzione trascendente: quella in cui prevale il “principio della raffigurazione” e quella in cui prevale il “principio della comprensione” (p. 111-12). 74 C.G. Jung, Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé, cit., p. 169. Cf. anche Tipi psicologici, cit., p. 19. Sul numinoso come qualità fondamentale del sacro cf. R. Otto, Il sacro, tr. it. Milano 2009. 75 Cf. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. II: Il pensiero mitico, tr. it. Firenze 1964, p. xi. 76 Per questa ambivalenza di Cassirer nei confronti del mito cf. B. Recki, Kultur als Praxis. Eine Einführung in Ernst Cassirers Philosophie der symbolischen Formen, Berlin 2004, p. 85-86, 99-102.

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mito acquisisce una connotazione negativa nell’opera sul Mito dello stato. Qui Cassirer interpreta le vicende politiche del periodo tra le due guerre mondiali, e in particolare l’ascesa e il dominio del nazionalsocialismo, come derivante da una irruzione di potenze mitiche sulla scena della storia, ovvero come il risultato di una manipolazione delle masse attraverso il mito politico. In questa prospettiva, è il ritorno del mito, in quanto strato arcaico e profondo soggiacente alla scienza e alla poesia, all’arte e alla religione, ad avere conseguenze distruttive sul piano politico, ritorcendosi contro le forme della razionalizzazione77. Diversa, su questo punto, la posizione di Jung. La società moderna è caratterizzata a suo avviso da una perdita dell’esperienza del simbolo (egli parla a questo riguardo di “un crescente impoverimento di simboli”78) e di quella, a essa legata, del mito. Jung considera distruttivo non il ritorno del mito, ma la sua rimozione, in quanto col mito va perduta, sia sul piano dell’esistenza individuale sia su quello della vita collettiva, la dimensione della significatività79. La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita, ed è pertanto equivalente alla malattia. Il significato rende molte cose sopportabili, forse tutto. Nessuna scienza sostituirà mai il mito. Non “Dio” è un mito, ma il mito è la rivelazione di una vita divina nell’uomo. Non siamo noi a inventare il mito, ma esso parla a noi come “verbo di Dio”80.

In questa prospettiva è l’impoverimento mitico-simbolico della civiltà occidentale, legato al processo di razionalizzazione e secolarizzazione, ad avere effetti regressivi, in quanto separa la ragione dalle emozioni e produce un vuoto che porta al riemergere in forma violenta dei contenuti mitici rimossi81. 77

Cf. E. Cassirer, Il mito dello stato, tr. it. Milano 2007, p. 315-16. C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, cit., p. 30. 79 Anche Hans Blumenberg, richiamandosi criticamente alla concezione cassireriana delle forme simboliche, mette in relazione il mito con la dimensione della significatività. Legata alla finitezza umana, la categoria della significatività è ciò che rende attrattivo il mito, ponendolo in condizione di competere con la scienza, il dogma e la mistica. Cf. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, tr. it. Bologna 1951, p. 96-97. Sul rapporto tra Blumenberg e Cassirer cf. M. Gehring, Mythos und Bedeutsamkeit.Cassirer und Blumenberg über den Mythos als symbolische Form, in: U. Büttner, M. Gehring. M. Gotterbarm, L. Herzog, M. Hoch (c/ di), Potentiale der symbolischen Formen. Eine interdisziplinäre Einführung in Ernst Cassirers Denken, Würzburg 2011, p. 53-61. 80 C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., 399. 81 Esemplare, a questo riguardo, l’analisi junghiana del ritorno della figura mitica di Wotan, l’“antico dio della tempesta e dell’ebbrezza”, negli anni del dominio nazionalsocialista sulla Germania, un ritorno descritto da Jung nei termini di una “Ergriffenheit”, di una possibilità di essere “afferrato” o “posseduto” da dei che sono la personificazione di forze psichiche di natura inconscia. Cf. C.G. Jung, Wotan, tr. it.in: La dimensione psichica, cit., p. 199, 204-05. Cf. anche C.G. Jung, Introduzione all’inconscio, cit., p. 75-76: “L’uomo moderno 78

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non si rende conto di quanto il suo ‘razionalismo’ (che ha distrutto le sue capacità di rispondere ai simboli e alle idee soprannaturali) lo abbia posto alla merce’ del mondo sotterraneo della psiche. Egli si è liberato (o crede di essersi liberato) dalla ‘superstizione’, ma in questo processo egli è venuto perdendo i suoi valori spirituali in misura profondamente pericolosa. La sua tradizione morale e spirituale si è disintegrata, e ora egli paga lo scotto di questo suo naufragio nel disorientamento e nella dissociazione generali”.

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FILOSOFIA & DIRITTO c/ di Gianvito Brindisi e Gaetano Carlizzi

Gianvito Brindisi, Considerazioni sull’espansione globale del potere giudiziario alla luce delle analisi di Michel Foucault 1. Strategie, tecnologie e codici morali. Da La verità e le forme giuridiche (1973) fino a Mal faire, dire vrai. Fonctions de l’aveu en justice1 (1981), è ferma convinzione di Michel Foucault l’impossibilità di tracciare una storia della verità e della soggettività in Occidente senza aver analizzato la relazione esistente tra direvrai e juger nel processo penale2. Nel corso degli anni tale convinzione si è concretizzata nell’elaborazione di una serie di analisi in cui crediamo sia ravvisabile un nucleo metodologico costante in grado di farci comprendere l’importanza del diritto per la costituzione delle nostre forme di esperienza3, permettendoci soprattutto di analizzare la storia morale e quella del diritto in un campo in cui giocano elementi tecnologici, strategici e bellicosi, nonché procedure di oggettivazione e di soggettivazione che relazionandosi ai codici (giuridici o morali) producono effetti drammatici sulla costituzione della soggettività4. Fine del presente contributo sarà perciò in primo luogo delineare sinteticamente alcuni tratti del nucleo metodologico di cui sopra, e quindi misurare la potenza ermeneutica del dispositivo concettuale di Foucault applicandolo a un fenomeno, quello della globalizzazione giudiziaria, da più parti riconosciuto come manifestazione di una fondamentale trasformazione delle forme di razionalità giuridica. 1 Si tratta di un ciclo di conferenze tenuto da Foucault nel 1981 all’Université Catholique de Louvain, attualmente conservato presso gli archivi dell’I.M.E.C., a Caen. 2 Cf. ivi, conferenza introduttiva, p. 17. 3 Al riguardo rinvio a G. Brindisi, Potere e giudizio. Giurisdizione e veridizione nella genealogia di Michel Foucault, Editoriale Scientifica, Napoli 2010. 4 Id., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), tr. it. e c/ di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009, p. 66-77.

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Innanzitutto, è doveroso ricordare come le pratiche giudiziarie siano sempre pensate da Foucault nel quadro concettuale delle cosiddette tecnologie morali (concetto plurale che racchiude in sé la tecnologia politica del corpo, le tecnologie di verità, la tecnologia politica degli individui, e infine le tecnologie del sé), i cui caratteri peculiari risiedono nel loro essere matrici di ragion pratica5 e nel valore non ontologico, bensì genealogico e strategico, di cui sono dotate: esse, infatti, sono oggetto di spostamenti e di riutilizzazioni che conferiscono loro una portata ogni volta differente all’interno dei sistemi in cui sono utilizzate. Le condizioni che in un dato momento storico rendono tale o tal altra pratica socialmente accettabile, legittima, costituiscono per Foucault un campo autonomo di ricerca in virtù della loro regolarità, della loro “ragione”, termine che nell’accezione foucaultiana non equivale al fondamento intemporale di un fenomeno, ma per l’appunto alla strategia, la quale deve essere intesa come ragion d’essere dei mutamenti fenomenici. In secondo luogo, le pratiche giudiziarie sono sempre pensate a partire dalla distinzione tra tecnologie morali e codici morali, sviluppata in particolar modo nell’insieme della genealogia dell’etica elaborata da Foucault, ma che crediamo possa farsi risalire sino alla griglia analitica messa a punto in Sorvegliare e punire in relazione al rapporto tra codici, tecnologie e oggetti di giudizio. È certo in L’uso dei piaceri che Foucault, in linea con le analisi condotte nei seminari precedenti al Collège de France, ha modo di specificare la differenza sostanziale che corre tra i valori e le regole prescrittive, i comportamenti reali degli individui, e il modo in cui l’individuo è chiamato a costituire se stesso “come soggetto morale che agisce in relazione agli elementi prescrittivi che formano il codice”6. I codici, i valori non dicono nulla dei modi in cui devono essere praticati, elaborati o realizzati, e il soggetto morale si costituisce in quanto tale a partire dagli atteggiamenti in base ai quali si obbliga rispetto a essi. L’integrazione dei codici e delle proibizioni all’interno di un rapporto con se stessi è infatti sempre differente, poiché, quando pure il codice resti il medesimo, sono sempre articolati in modo differente gli elementi che costituiscono il come dell’esperienza morale, vale a dire le sostanze etiche, i modi di assoggettamento, le tecniche e infine i teloi. A uno sguardo attento, però, nella misura in cui in Sorvegliare e punire, accanto al soggetto di diritto, Foucault individua una serie di oggetti o di materie soggettive punibili che vengono a costituire nel giudizio un doppio 5 Cf. Id., Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé, c/ di L. H. Martin, H. Gutman, P. H. Hutton, tr. it. di S. Marchignoli, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 13. 6 Id., L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2 (1984), tr. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 31.

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psicologico-morale operante al di sotto del codice, non si farà difficoltà a riconoscervi un principio di metodo assai affine a quello adoperato in L’uso dei piaceri. In relazione ai cambiamenti prodottisi nel sistema penale alla fine del XVIII secolo, Foucault ha sottolineato che, al di là delle piccole modifiche apportate ad alcuni elementi del codice, la trasformazione più importante è stata quella prodottasi al livello dell’oggetto del giudizio penale con la creazione di una nuova oggettività7. A mutare non è stata la definizione formale dell’elemento punibile, ma la sua qualità, la sua sostanza: sotto il nome di reato si è cominciato a giudicare non più solo un oggetto definito dal codice, bensì tutta una serie di anomalie, perversioni, disadattamenti, oggetti non qualificabili giuridicamente, ma conoscibili scientificamente. Risultando insufficiente l’invocazione del solo elemento legale del codice, e divenendo invece necessario giustificare la decisione con il rinvio alla discorsività psichiatrica, il giudizio ha visto allora trasformata la sua soglia di razionalità, poiché ha inserito nel suo dispositivo apprezzamenti appartenenti non al campo giuridico, ma a quell’individualità descrivibile (e perciò punibile e correggibile) propria del sistema disciplinare. Si registra qui la costituzione di quella che Foucault definisce “l’anima moderna”, cui si accompagna una modificazione delle forme dell’esperienza giuridica, le quali possono essere portate alla luce dall’analisi del modo in cui i codici vengono fatti funzionare attraverso le procedure di oggettivazione del soggetto. Insomma, la genealogia dell’etica presuppone che l’identità del codice morale non implichi l’identità dei modi in cui ci si può costituire come agenti morali, mentre la genealogia del diritto presuppone che l’identità del codice penale non implichi l’identità dei modi in cui un soggetto può ricadere nell’ambito di un’azione penale ed essere giudicato e punito. Il diritto non è riducibile esclusivamente alla legalità e alla sanzione che deve seguire alla trasgressione, perché possiede un elemento dinamico costituito dalle modalità in cui entrano in gioco le materie punibili. Oltre alla materia soggettiva in cui un soggetto è scisso a partire dai discorsi e dalle pratiche che gli permettono di modificare il rapporto con se stesso (confessione del crimine o confessione di chi si è), vi è quindi da tener presente il modo di assoggettamento, vale a dire il complesso di ragioni che spingono un soggetto a riconoscere i suoi obblighi morali o giuridici. Quanto alle tecniche attraverso le quali possiamo trasformare noi stessi allo scopo di divenire soggetti etici, esse hanno il loro corrispettivo nelle tecniche che permettono di oggettivare il soggetto e di farne l’oggetto di una conoscenza e di un comportamento possibili. Infine vi è il quarto elemento, il telos, il 7 Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1993, p. 19-26.

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fine verso cui si tende in un comportamento morale, che trova la sua corrispondenza nel fine sotteso alla punizione di un soggetto.

2. Le ridefinizioni del “giudicabile” e la globalizzazione giudiziaria. Se si volesse individuare la specificità delle analisi foucaultiane all’interno del campo molteplice della filosofia del diritto, essa, crediamo, consisterebbe nell’analizzare ciò che può definirsi la continua produzione e ridefinizione del giudicabile come dimensione propria del diritto8, prendendo in esame le ridefinizioni storiche degli oggetti di giudizio e dei soggetti di conoscenza, e dunque il divenire delle forme del giudizio nel campo più generale dell’economia delle relazioni di potere. Il giudizio è costituito da una componente epistemologica e da una componente di potere, binomio irriducibile all’alternativa positivista tra conoscenza e valutazione. Se per Foucault, di certo, l’applicazione della regola, giuridica o morale, non è mai meccanica, e la sua analisi non si esaurisce nella messa in evidenza del cambiamento subito dai codici, necessario è analizzare le modalità attraverso le quali i giudizi si articolano e si giustificano, valutare la confluenza di elementi eterogenei nell’‘unità’ giudicante, e scomporre quest’ultima al fine di far emergere i conflitti che la agitano, le posizioni di valore che ne sono alla base. Una simile analisi ci dirà qual è l’orizzonte di razionalità dei giudizi, la loro provenienza, la ragione per cui crediamo che siano in qualche maniera giustificati. Ora, com’è noto, i fenomeni dell’internazionalizzazione e della giurisdizionalizzazione del diritto hanno determinato una nuova problematizzazione del giudizio rispetto a quella inaugurata nella modernità dalle riflessioni di Montesquieu e Beccaria. Il concetto di globalizzazione giudiziaria, in questione da circa un ventennio, racchiude molteplici fenomeni tra i quali l’accresciuto ruolo dei giudici all’interno delle democrazie contemporanee, la creazione di Corti Internazionali e Sovranazionali, e infine il dialogo tra le Corti di diversi paesi senza che vi sia per esse alcun obbligo al riguardo. Solitamente il primo ordine di fenomeni viene spiegato richiamando l’accresciuta importanza dei diritti fondamentali, la cattiva qualità delle legislazioni, la possibilità data ai giudici dalle Costituzioni di giudicare la legge, e infine la corruzione e l’inefficienza delle classi politiche, mentre il secondo e il terzo vengono spesso iscritti nell’orizzonte del cosmopolitismo

8 Cf. Id., La ridefinizione del giudiziabile, tr. it. di A.L. Carbone e A. Inzerillo, in: Id., La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, c/ di S. Vaccaro, Duepunti Edizioni, Palermo 2009, p. 37-50.

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giudiziario, o al contrario condannati per il fatto di essere i portabandiera dell’imperialismo occidentale. Sebbene ognuna di queste spiegazioni abbia una sua giustificazione, crediamo che alla luce delle analisi foucaultiane si possa tentare non solo di illustrare un’altra genesi del fenomeno, ma di ampliare il raggio dei problemi che solleva. Si tratta infatti di una serie di qustioni su cui Foucault aveva cominciato a riflettere nella seconda metà degli anni Settanta, prendendo in esame la disseminazione delle funzioni giudiziarie lungo tutto il corpo sociale alla luce di un sempre crescente interesse per il processo di governamentalizzazione degli Stati contemporanei. In effetti, secondo Foucault l’espansione del potere normativo dei giudici non ha dovuto attendere la crisi della legge come forza regolativa: come mostrato in Sorvegliare e punire, proprio nel processo penale, dove maggiori sono le difficoltà di allontanarsi dal principio di legalità, giudicare non equivale, infatti, ad applicare la legge. È fin dal XIX secolo che il diritto si è aperto al riconoscimento di concetti nati al di fuori del suo campo, come quello di ‘pericolosità sociale’, concetto che non ha una natura né giuridica né medica, e che esercita una funzione sostanzialistica e individualizzante nel giudizio. Alle funzioni di questa giustizia disciplinare, nel corso del XX secolo se ne sono aggiunte delle altre di notevole importanza esaminate da Foucault in un fondamentale intervento del 1977 in occasione di un convegno del Syndicat de la Magistrature sul testo collettivo Liberté libertés9. Cercando di rintracciare la genesi storica dell’amplificazione delle funzioni giudiziarie, Foucault comincia col richiamare la razionalità governamentale nata nel Settecento dalle riflessioni sui costi dell’esercizio del potere seguite alle violente repressioni delle rivolte contadine del secolo precedente, e consistente nel nesso libertà-legge: autolimitazione del potere per il tramite della legge, e funzione di garanzia di quest’ultima della libertà e della sicurezza dei cittadini10. Le trasformazioni ottocentesche delle relazioni di potere, e innanzitutto la comparsa all’interno dello Stato di contropoteri come la stampa o i sindacati, hanno mostrato i limiti di questa razionalità conducendo al problema odierno: non più cercare di far funzionare la legge come economia dei rapporti di potere, ma elaborare un sistema di potere coerente che contenga al suo interno una pluralità di poteri differenti tra loro e rispetto al potere centrale. L’emergenza del pluralismo, 9 Cf. R. Badinter (c/ di), Liberté, libertés, Gallimard, Paris 1977. Poiché secondo Foucault questo volume era il sintomo di quanto stava effettivamente accadendo nel funzionamento delle tecnologie di potere nella società contemporanea a livello globale, e poiché effettivamente alcuni problemi sollevati da Foucault sono ancora i nostri, si possono estendere le sue analisi al funzionamento degli Stati occidentali contemporanei. 10 M. Foucault, La ridefinizione del giudiziabile, cit., p. 37-40.

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lo Stato sociale ecc., hanno costretto lo Stato di diritto a modificarsi rispetto alla sua razionalità. Il fatto che l’Ottocento sia l’età dei codici, e che il Novecento abbia visto un’ipertrofia della legge, non significa che essa continui a costituire il principio di economia delle relazioni di potere: segno ne è il particolarismo della legge. Fondamento della nuova economia delle relazioni di potere diviene il giudiziario. Oltre a richiamare le nuove funzioni che gli vengono attribuite, tra cui quella di consentire al giudice di trasmettere a una Corte Suprema le eccezioni di incostituzionalità, Foucault richiama la presenza di magistrati in nuovi organi non propriamente giudiziari che vedono moltiplicarsi le loro funzioni di controllo in ambiti precedentemente riservati ad altri poteri, quali quello politico o economico. Si pensi alle Authorities, istituzioni tra l’amministrativo e il giudiziario aventi il ruolo di controllare l’informazione, la privacy, il consumo, i rapporti fra amministrati e amministrazione, ecc. La nascita di nuovi campi di intervento per l’ambito giudiziario determina una trasformazione della sua razionalità perché, oltre a definire una partizione tra lecito e illecito a partire dalla legge, spetterà a esso operare ulteriori partizioni, come quella tra il vero e il falso, tra il fisiologicamente buono e il fisiologicamente nocivo, ecc., in assenza di un codice di riferimento. L’elemento caratterizzante la decisione giudiziaria diventa lo stabilimento di un optimum di sicurezza e di libertà funzionale per un corpo sociale. E l’obiettivo dello stabilimento di questo optimum è far funzionare dei meccanismi di protezione che circoscrivano i comportamenti vulnerabili della popolazione, per la sua sicurezza. A partire da questa ossessione securitaria il giudice non è più chiamato a dire la legge, ma a tutelare la popolazione da distorsioni patologiche del sistema complesso in cui viviamo. L’oggetto di questo nuovo soggetto di conoscenza è quella popolazione nata dalle pratiche governamentali settecentesche, che l’hanno progressivamente dotata di una naturalità e hanno installato dei meccanismi di sicurezza intorno a quanto di aleatorio gravava su di essa. È dunque vero che Foucault non ha mai dedicato troppa attenzione all’autolimitazione del potere per il tramite della legge, credendo che fosse invece l’autolimitazione delle pratiche di governo nate dal quadro dell’economia politica del Settecento a descrivere la nuova razionalità di potere moderna. Ma è anche vero che la governamentalità liberale, che si autolimita in relazione alla naturalità dei fenomeni (popolazione, mercato) che pretende di conoscere11, ha progressivamente richiesto che fosse la sfera giudiziaria a porre limiti all’esercizio del potere e a garantire un efficace esercizio del governo. Il giudice figura infatti sia come detentore di un certo numero di verità sull’optimum di libertà e di sicurezza per la salute della popolazione, sia 11 Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de france (1978-1979), tr. it. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005, p. 22-25.

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come custode di diritti da opporre all’esercizio del potere, sia infine come un servizio pubblico per arbitrare i conflitti in una società di mercato. Per questo Foucault ha iscritto il funzionamento della magistratura in quel correlato psicologico e culturale del liberalismo12 che è il pericolo, e per questo il giudiziario è uno degli elementi fondanti il nesso libertà-sicurezza proprio della governamentalità liberale: non è più dalla bontà delle leggi, come voleva Montesquieu, che dipende la libertà e la sicurezza del cittadino e delle popolazioni, ma da un intervento regolatore diffuso affidato sì alle dinamiche del mercato, ma anche al giudiziario, il quale esercita una funzione regolativa intervenendo nei processi sociali e nel comportamento degli individui ovunque ci sia pericolo, cioè rischio (dal rischio biologico al rischio ambientale). Il giudice esercita un’arte di governo enunciando l’optimum delle relazioni sociali a partire dall’attività legislatrice che altri saperi esercitano al suo interno, ciò che invalida il paradigma kelseniano della qualificazione dei fatti e segna l’appartenenza del giudizio giuridico più alla sfera dell’essere che a quella del dovere, in un’inversione dei rapporti tra prescrizione e realtà13. Questa mutazione del giudicabile modifica la razionalità dello Stato di diritto fondata sul nesso libertà-legge, e costituisce un nuovo patto tra Stato e cittadini: non più garanzia di pace all’interno delle frontiere nazionali, ma protezione da tutto ciò che può costituire un fattore di incertezza e di rischio. Lo dimostrava l’attualità di Foucault, e lo dimostra la nostra, entrambe caratterizzate dalla minaccia terroristica e dal fatto che la sicurezza costituisce un’eccezione permanente rispetto alle leggi14. In altri termini, il XIX e il XX secolo hanno visto l’affermarsi in Occidente di un’economia delle relazioni di potere fondata non sulla costruzione di un’architettura giuridica, ma su una meccanica dell’ordine15 che affida al giudice un compito infinito di enunciazione delle norme sociali. Rientra in questa logica la due process revolution, vale a dire l’ingresso dell’attività giudicante dello Stato in ambiti che prima si autoregolavano16. 12 Ivi, p. 67-68. In questo modo Foucault conferisce al giudiziario una dimensione globale, perché iscrivere il giudiziario nella governamentalità liberale vuol dire anche iscriverlo in una riflessione, come quella dei fisiocrati o di Adam Smith, che ha promosso una concorrenza fra Stati e un’Europa come soggetto economico collettivo in un’ottica di mercatizzazione e di giuridicizzazione del mondo, nel momento in cui il problema giuridico era quello dell’equilibrio europeo e internazionale fra gli Stati. Cf. ivi, p. 54-63. 13 Cf. S. Chignola, In the shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in: G. Fiaschi (c/ di), Governance: oltre lo Stato?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 117-141. 14 Su tutto ciò cf. M. Foucault, La sicurezza e lo stato, tr. it. in Id., La strategia dell’accerchiamento, cit., p. 67-76. 15 Cf. Id., Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé, cit., p. 153. 16 Cf. A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 39-43.

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Per cui, se oggi si parla a livello internazionale di ordine globale, è perché all’interno dei sistemi statali i giudici non sono più stati chiamati ad applicare la legge, ma a produrre ordine sociale. A questa idea di ordine ha concorso non solo lo Stato di sicurezza, ma anche lo Stato costituzionale17. Infatti la cosiddetta rinascita del diritto naturale nel secondo dopoguerra e la positivizzazione dei valori nelle Costituzioni europee ha determinato il problema dell’applicazione diretta dei principi costituzionali, la giustizializzazione della politica, nonché nuova produzione discorsiva che ha finito per colonizzare il discorso politico18. Si tratta del passaggio dallo Stato di diritto allo Stato costituzionale, di cui Carl Schmitt, nonché Ernst Forsthoff e Ernst-Wolfgang Böckenförde, sottolinearono le criticità in relazione alla logica bellicosa dei valori, al rapporto tra legge e diritto, e al conflitto Stato giurisdizionale e democrazia. Attraverso l’attestarsi di una giustizia disciplinare, di una giustizia di difesa sociale avente il compito di individuare, prima dell’infrazione codicistica, un indeterminato pericolo reale, e in ultimo dell’informal justice, si afferma progressivamente sì un giudice creatore di diritto avente anche un’attitudine promozionale, ma soprattutto si trasformano le nostre forme di esperienza, il nostro ritenerci lesi o responsabili, oggi potenzialmente estendibile ad ogni cosa. Ora, un difetto delle riflessioni che attribuiscono ai giudici un ruolo di saturazione rispetto alle carenze dei sistemi politici, consiste nel loro assumere come soluzione ciò che costituisce il problema. È possibile infatti affermare che è un insieme di processi positivi interni ed esterni al potere giudiziario ad aver determinato l’amplificazione delle sue funzioni. La perdita di capacità regolativa della legge, la domanda di sicurezza e di norme, la supplenza nei confronti del politico, sono effetto, non causa, dell’aumento dell’offerta giudiziaria, cioè della ‘decisione’ dell’Occidente di governare il pluralismo attraverso una rifunzionalizzazione del giudiziario. Sebbene sia poi vero che il desiderio di norme, di sicurezza e di Stato rilanci a sua volta l’offerta, e lo stesso valga per il vuoto di rappresentanza politica. A partire dalla modernità il giudiziario si è trovato a godere di determinate condizioni di accettabilità e di credenza, ha trovato posto in una logica che ne ha consentito una diffusione imitativa, come avrebbe detto Gabriel Tarde, fino a un livello globale che ha determinato a sua volta la trasformazione della logica stessa. E il luogo che ha presieduto a questo rilancio è stato il nesso sicurezza/ diritti.

17

Cf. al riguardo V. Omaggio, Il diritto nello Stato costituzionale, Giappichelli, Torino

2011.

18 Cf. C.N. Tate, T. Vallinder (c/ di), The Global Expansion of Judicial Power, New York University Press, New York and London 1995, p. 27-37 e 515-528.

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3. Le trasformazioni del diritto internazionale. I problemi sopra esposti, crediamo, hanno assunto un rilievo tale da modificare gli orizzonti della razionalità internazionale: se c’è un’espansione globale del potere giudiziario è perché questo potere non ha cessato di crescere all’interno dei sistemi statali. È dunque probabile che il rapporto tra giurisdizione internazionale e ordine globale ripeta in forma differenziata il rapporto tra potere giudiziario e democrazia, nonché tra giudice e diritto, all’interno dei sistemi statali. Non solo la rilevanza di entità non statali nei rapporti internazionali, e dunque la crisi dei rapporti internazionali formalizzati intorno alla figura degli Stati, ripete l’emergenza delle forze e delle contraddizioni che hanno determinato la trasformazione della razionalità dello Stato moderno, e dunque della crisi della sovranità giuridificata. Infatti, come il giudiziario rientra nelle forme di governo della pluralità all’interno dei sistemi statali, così rientra anche nella governance globale, insieme di dispositivi politici, economici, scientifici, ecc., che investono il governo delle condotte al di là della logica della rappresentanza e della legittimità politica. Inoltre, il deterioramento della legalità internazionale e l’assenza di prevedibilità delle decisioni dovuti alla prevalenza della giurisdizione internazionale nell’elaborazione della stessa norma penale da interpretare (come avviene nei Tribunali ad hoc) ripetono il deterioramento del principio di legalità nei sistemi statali. C’è poi una ragione ulteriore, molto elementare: non solo i processi di governamentalizzazione giudiziaria dei sistemi nazionali avevano già un’espansione transnazionale, ma è la stessa governamentalità fondata sul rischio a richiedere il superamento delle frontiere. D’altronde, se le trasformazioni dei rapporti di produzione e i nuovi rapporti commerciali nell’Ottocento contribuiscono a far apparire, tra l’altro, il vagabondaggio come fenomeno contro cui si costituisce l’apparato penale, nel diritto internazionale un ruolo simile è svolto dalla pirateria ai primi del Novecento. Si sbaglierebbe dunque a pensare che le analisi di Foucault funzionino solo all’interno della cornice hobbesiana degli Stati moderni: la costituzione della classe contadina, quella di una classe pericolosa, della società disciplinare, sono fenomeni che vanno già al di là dei confini statali, così come oggi hanno un valore transnazionale la minaccia terrorista, la criminalità transfrontaliera, le pratiche commerciali o il lessico dei diritti. Lo Stato sociale, lo Stato costituzionale, il processo di integrazione comunitaria e la governance globale hanno creato un disordine giudiziario funzionale al rafforzamento della stessa logica giudiziaria. Quello che è stato definito international legal pluralism, cioè, è in realtà un disordine globale funzionale al perpetuarsi del tentativo di porre ordine attraverso il giudiziario stesso sul piano del diritto sovranazionale, del diritto 125


transnazionale, della governance della sicurezza, e del diritto interno degli Stati. Il giudiziario è infatti attore principale del diritto sovranazionale: l’architettura istituzionale dell’Unione europea si è in gran parte costituita attraverso una modalità giudiziaria di creazione delle regole19, come attesta il protagonismo della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Lo è, altresì, del diritto transnazionale: si pensi al ruolo di legislatori assunto dai giudici internazionali per supplire all’assenza di norme che regolino lo stato attuale, ormai estremamente complesso, delle relazioni internazionali20; i giudici internazionali hanno inoltre costituito una nuova categoria di crimini (i crimini contro la pace, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità creati dal Tribunale di Norimberga), e giocano oggi un ruolo di law makers nell’elaborazione della stessa norma penale21, ciò che destina il diritto internazionale a essere da essi perennemente creato e precisato, con il forte rischio di una confusione normativa anche in riferimento alla definizione, assente, della funzione della pena22. Lo è, ancora, del diritto interno: si pensi ai cittadini che chiamano in causa i loro governi di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e al conseguente ruolo aggiustatore delle Corti, anche a partire dal loro dialogo con le Corti straniere. Lo è, infine, della governance securitaria: è infatti in relazione alle pratiche e ai discorsi sulla sicurezza che il giudiziario si è rilanciato a livello europeo e globale come fronte di governo della sicurezza. D’altronde la rete giudiziaria europea si sta costituendo solo a seguito di quella poliziesca23, e anche a livello globale si sta attuando una rete di collaborazione mondiale in vista della sicurezza contro il terrorismo, senza che, in entrambi i casi, esista un diritto penale europeo o un diritto penale globale24. 19 Cf. A. Stone Sweet, Judicialization and the Construction of governance, in: M. Shapiro, A. Stone Sweet (c/ di), On Law, Politics and Judicialization, Oxford University Press, Oxford 2002, p. 55. 20 Rientra in questo quadro la creazione ex nihilo da parte della Corte Internazionale di Giustizia di diritto nuovo, ad esempio nel caso del diritto marittimo. 21 Si pensi alla continua ridefinizione, a seconda dei casi, e per il medesimo reato, sia del bene giuridico da proteggere che degli elementi costitutivi dell’infrazione, come è avvenuto nel lavoro dei Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia – ITCY – o per il Ruanda – ITCR. Cf. A. Esposito, La définition des crimes et le röle du droit comparé: comment les juges comblent les lacunes normatives, in : E. Fronza, S. Manacorda, La justice pénale dans les decision des tribunaux ad hoc, Dalloz-Giuffrè, Milano 2003. 22 Cf. R. Henham, The Philosophical Foundations of International Sentencing, in: “Journal of International Criminal Justice”, 1 (2003), p. 64-85. 23 È sulla minaccia terrorista che si cercò di istituire nel 1977 la prima vera cooperazione giudiziaria europea in materia penale, ed è dopo l’11 settembre 2001 che questa si è costituita più o meno definitivamente (Eurojust), mentre è negli anni Novanta che si è organizzata a partire dalla criminalità transfrontaliera. 24 Foucault sosteneva che il problema della sicurezza non era riducibile al quadro europeo, ma investiva la costituzione di “una specie di mercato mondiale della giustizia politica inteso a ridurre le franchigie costituite dall’asilo politico che in generale erano una garanzia per il dissenso politico” (Ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi, tr. it. in Id., La strategia

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Pur riconoscendo proprio nel terrorismo il problema dello Stato di sicurezza, Foucault temeva però che stessimo entrando in un regime in cui paura e sicurezza si rilanciano reciprocamente. E oggi, come nel XIX secolo, anche a seguito dei fatti dell’11 settembre, il criminale è equiparato al nemico in guerra contro la società, e si produce paura in relazione al terrorismo affinché le popolazioni accettino il patto di sicurezza. Un patto che ha appunto degli effetti di ritorno nel governo degli individui, di quella popolazione globale di consumatori, lettori, imprenditori ecc. che deve essere protetta, e che usa sì i diritti come strumento di rivendicazione, ma che accetta anche senza troppi scrupoli la costituzione dello scarto: classi pericolose, Stati canaglia, clandestini. Difatti il versante interno della lotta al terrorismo si converte in una giustizia penale selettiva, in guerra all’immigrazione: il maggiore interesse biopolitico per la vita della popolazione vulnerabile si ripercuote su un interesse tanatopolitico di esclusione del pericolo, ciò di cui è segno l’attuale criminalizzazione internazionale dell’immigrazione clandestina25. Ad ogni modo, i processi di cui si è detto hanno prodotto di riflesso nei sistemi nazionali una deterritorializzazione del diritto, che non ha più l’obbligo di corrispondere al territorio statale26, ma anche una modificazione della partizione fra pubblico e privato, diritto interno e diritto internazionale, sicurezza nazionale e ordine pubblico (e dunque nemico e criminale). Queste inedite partizioni inaugurano un nuovo spazio politico che ha bisogno di un’istanza di partage, tra cui i giudici, che all’interno dei sistemi nazionali non solo vengono ulteriormente confermati nel ruolo di gestori dell’optimum di sicurezza e di diritti per la popolazione, ma erodono il potere legislativo, e guadagnano un ampliamento globale della loro giurisdizione per i crimini internazionali (“giurisdizione penale universale”, ad esempio della giurisdizione belga o spagnola). Ma bisogna essere attenti a non esagerare la sua portata: da un lato, come è stato sottolineato, il giudiziario a livello internazionale è anche un campo di manovra per le strategie di difesa dei propri interessi da parte degli Stati, che tendono a far sì che casi rilevanti vengano risolti presso i propri tribunali, nonché a promuovere la diffusione in altri paesi di forme processuali simili

dell’accerchiamento, cit., p. 63-64). Si pensi oggi al Mandato di arresto europeo, che abolisce i controlli politici legati all’estradizione, e alla sentenza del Bundesverfassungsgericht tedesco del 18 luglio 2005 che ne ha dichiarato l’incostituzionalità. 25 Un progetto di legge del 2009 sulla sicurezza in Italia ad esempio imponeva ai medici di denunciare all’autorità giudiziaria i clandestini che si fossero recati da loro per cure mediche. 26 M.R. Ferrarese, Globalizzazione, in: U. Pomarici (c/ di), Filosofia del diritto. Concetti fondamentali, Giappichelli, Torino 2007, p. 349-63.

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alla proprie27; da un altro resta uno dei tanti attori del pluralismo internazionale, talvolta passivo rispetto all’avanzamento di espertocrazie mercenarie e avvocatesche che sfruttano le opportunità della litigation society28.

4. Il giudizio sulla legittimità della politica e della storia. Come anticipato, tanto l’ordine interno quanto quello internazionale hanno bisogno, per prodursi, di produrre disordine, cioè nemici sociali. Quando Foucault affermava, criticando l’equiparazione hobbesiana di guerra civile e guerra di tutti contro tutti, che non c’è guerra civile se non all’interno del potere politico costituito, non intendeva soltanto all’interno del monopolio statale della violenza, ma anche all’interno di apparati (istituzionali e non) che trascendono i confini statali. Le trasformazioni della guerra nel corso del XX secolo ne hanno fatto una guerra civile globale tra una o più sovranità coalizzate contro un non meglio precisato nemico riconosciuto di volta in volta come responsabile di crimini internazionali. Questa trasformazione ha prodotto una criminalizzazione del nemico, e contemporaneamente il giudiziario ha assunto, a partire da Norimberga, il compito di promuovere la legittimità dei regimi politici sul piano internazionale. Rifacendoci alla critica foucaultiana a Hobbes, mai come nel campo internazionale le trasformazioni dell’apparato giudiziario internazionale costituiscono una prosecuzione della guerra con altri mezzi. Com’è noto, la punizione dei criminali di guerra nei giudizi di Norimberga e di Tokio fu una continuazione delle ostilità in forma giuridica. Una simile politicità esiste nell’ITCY: si tratta infatti di un tribunale dipendente dal Consiglio di sicurezza, e avente come sua forza di polizia la NATO, la quale ha fatto uso di un esercizio illegale della forza senza alcuna conseguenza giuridica. Danilo Zolo ha mostrato come il profilo giurisdizionale dei tribunali internazionali sia sempre stato offuscato o dalla sovrapposizione della logica militare, o da un’identificazione ideologica dei loro membri giudicanti e requirenti con i valori e le aspettative delle potenze occidentali, e ha riconosciuto in ciò una giustizia politica nella quale il processo penale svolge funzioni extra-giudiziarie come la stigmatizzazione del nemico o il sacrificio

27 A. Garapon, C. Guarnieri, La globalizzazione giudiziaria, in: “Il Mulino”, 1 (2005), p. 169-170. 28 P. P. Portinaro, Oltre lo stato di diritto. Tirannia dei giudici o anarchia degli avvocati?, in: P. Costa, D. Zolo (c/ di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano 2006, p. 397-400.

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espiatorio29. I Tribunali ad hoc non rappresentano altro che un tentativo di porre legittimità a quelle che vorrebbero essere azioni di legalità internazionale di Stati sovrani, e c’è da dubitare della loro funzione pacificatrice (probabilmente meglio assolta da organismi non giudiziari come la Commissione per la Verità e la Riconciliazione del Sudafrica). Sono queste le ragioni per cui crediamo di poter rovesciare nuovamente con Foucault, restando però sul piano internazionale, la formula di Clausewitz, e affermare che i tribunali internazionali sono la continuazione della guerra civile globale con altri mezzi. Il nuovo ruolo della verità giudiziaria implica una tribunalizzazione non solo della politica ma della stessa storia. È nuovamente a partire da Norimberga, con la nascita della categoria dei crimini contro l’umanità, che, tra l’altro, si è preso a giudicare la storia: è il caso di quei cittadini che chiamano in causa gli autori dei mali loro inflitti storicamente (nella Sho’ah, nella colonizzazione, nello sterminio degli indiani d’America)30. Vero è che in questo modo dei soggetti possono ottenere un riconoscimento, al prezzo però anche di una giurisdizionalizzazione della politica, che si risolve nel diritto civile dei risarcimenti. Sicuramente Foucault ammetteva – lo fece in occasione dei processi sommari seguiti alla rivoluzione iraniana – il dovere dei governi di riconoscere il maggior numero di mezzi di difesa e di diritti a coloro che venivano processati, nonché il dovere della sovranità di rendere conto, di essere sottoposta al giudizio potenziale dei suoi cittadini e del mondo, ma non ha mai invocato un tribunale internazionale, facendo sempre appello al giudizio potenziale dei governati e all’opinione pubblica globale. Ciò non esclude, certo, che avrebbe potuto rintracciare un’utilità nella forma tribunale. Probabilmente, però, Foucault, per il quale saperi storici e lotta politica vanno di pari passo, avrebbe preferito alla decisione di un tribunale rapporti di potere più contingenti, come la reazione dei governati. È per salvare la contingenza dell’azione politica che preferiva alla dicitura di diritti umani quella di diritti dei governati31. Oggi, invece, il fatto che politica e storia si risolvano sovente in modo giudiziario, e l’essere diventato l’individuo soggetto di diritto internazionale, appaiono funzionali a una 29 Su tutto ciò cf. D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000. Zolo ha messo in luce anche che i Tribunali ad hoc non hanno inserito nel loro statuto la previsione di quello che il Tribunale di Norimberga definì “crimine internazionale supremo”, vale a dire il crimine di aggressione. L’International Criminal Court (ICC), invece, pur prevedendolo, si astiene dall’esercitarvi la propria giurisdizione fino a quando gli Stati non lo definiranno con una norma. Deriva da ciò un sistema dualistico di giustizia penale internazionale funzionale alla potenza occidentale. 30 Cf. A. Garapon, Chiudere i conti con la storia. Colonizzazione, schiavitù, Shoah, tr. it. e c/ di D. Bifulco, Cortina, Milano 2009. 31 Cf. M. Foucault, Claus Croissant sarà estradato?, tr. it. In : Id., La strategia dell’accerchiamento, cit., p. 53.

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governamentalità e a una moralizzazione globale, cioè alla creazione di soggettività politicamente docili la cui unica soluzione è contrattare o ricorrere al giudice, con una scarsa possibilità di formazione di soggetti collettivi di lotta.

5. Una comunità giudiziale globale? La globalizzazione giudiziaria mostra come il diritto sia diventato un oggetto che va al di là delle frontiere politiche nazionali. Come anticipato, nel passaggio dalla modernità alla contemporaneità è venuta meno l’operatività del concetto di legge, a favore o di una perpetua modulazione della legge, o di un agire in sua assenza. È quanto accade in quel dialogo che si svolge in assenza di un quadro normativo e attraverso pratiche più o meno informali, ossia nel dialogo tra le Corti Supreme di diversi paesi, che possono motivare le proprie sentenze al di là della parola del legislatore, con l’uso di argomenti o con la citazione di sentenze straniere. Questa rete giudiziaria globale priva di gerarchie che i giudici utilizzano per legittimare le proprie decisioni ha determinato non solo una riqualificazione del giudiziario, ma anche l’acuirsi della giurisdizionalizzazione del diritto, il rafforzamento dell’indipendenza dei giudici nazionali, e conseguentemente lo scontro tra il potere legislativo e quello giudiziario. Ora, benché la logica dei diritti umani sia pervasiva, i diritti, come i valori, non valgono in sé, ma in quanto perennemente rivalutati. Conseguentemente bisogna essere in grado di guardare alle pratiche di potere e alle tecnologie che costituiscono il sostrato della rivalutazione dei valori. Per questo, sebbene tale dialogo ponga problemi politici molto seri in relazione alla sovranità (si pensi alla pena di morte negli USA), proveremo a enunciare i problemi posti da una simile pratica in relazione al ruolo dei valori e ai saperi che intervengono sulla scena giudiziaria globale. Si parla infatti spesso della trasmigrazione dei valori al livello internazionale per il tramite dei giudici32, ma, come anticipato, una cosa è un valore, e un’altra è il modo di concretizzarlo. Uno stesso principio, uno stesso valore, finanche una stessa norma giuridica, non dicono nulla sulla loro concretizzazione, e possono essere investiti storicamente in modi diversi, in quanto vi sono forze che ne danno un’interpretazione e forme di soggettivazione che attraverso queste interpretazioni si strutturano. L’uomo dei diritti umani, la dignità della persona, o la vita familiare di oggi non sono l’uomo, la dignità o la vita familiare di sessant’anni fa. 32 Si veda al riguardo il lavoro di B. Markesinis, J. Fedtke (c/ di), Giudici e diritto straniero. La pratica del diritto comparato, tr. it. di A. Taruffo, Il Mulino, Bologna 2009.

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Il fatto che un giudice richiami i principi con cui è stato deciso un caso da parte di un giudice entro un altro contesto sociale non significa che i principi giuridici e i valori siano accettati per la loro intrinseca validità. Con ciò non si vuole significare solo che i valori sono destinati a scontrarsi con le differenti regole giuridiche degli Stati, ma anche che non è affatto detto che la concretizzazione di un valore trapiantato in un altro ordinamento si realizzi, per usare il vocabolario di Foucault, attraverso le stesse materie soggettive, gli stessi teloi e le stesse tecniche usate nel primo caso. È necessario vedere perciò come i valori vengono rivalutati, in relazione non solo alle tecniche interpretative dei giudici, ma anche al modo in cui i saperi entrano in gioco nella definizione degli oggetti di giudizio. Crediamo che Foucault si interrogherebbe su come certe tecnologie e certi saperi rivalutino determinati valori, o un senso di un valore e non un altro. È probabile che il dialogo tra le Corti possa esserci nella misura in cui c’è un orizzonte di razionalità governamentale che riguarda i saperi che concorrono alla definizione del giudizio. Se ad esempio recentemente in un caso di fine vita la Corte di Cassazione italiana (Cass. n. 21748/2007), in assenza di statuizioni da parte del legislatore, ha potuto richiamare la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la Supreme Court of the United States, la New Jersey Supreme Court, il Bundesverfassungsgericht, o l’House of Lords, è perché c’è un orizzonte del sapere medico cui è subordinata la decisione giudiziaria, quello del raggiungimento di una situazione irreversibile registrata secondo le attuali possibilità tecnologiche33. Ma si può insistere, su un orizzonte più generale, sull’esempio della bioetica: se oggi si tende a riconoscere la qualità di persona dell’embrione non è perché si è sviluppata una maggiore sensibilità collettiva, ma perché la dimensione biologica è divenuta determinante nell’essere persona. L’attuale governamentalità liberale è d’altronde caratterizzata da una preoccupazione costante per la gestione della vita e del capitale umano, trasformazione che ha investito gli stessi saperi della psiche. Come ha sottolineato Mauro Bertani, il numero delle entità psicopatologiche si è moltiplicato, arrivando a comprendere l’intero campo che va dalle forme psicotiche invalidanti fino alle condizioni di momentaneo malessere. Ogni comportamento associato a stati ansiosi è diventato potenzialmente a rischio, e ogni condotta antisociale, compulsiva o aggressiva è diventata prodromica di possibili evoluzioni psicopatologiche, e passibile di intervento terapeutico34. La partizione tra normale e patologico si è fatta perciò più 33 A seguito di questa sentenza il Parlamento italiano ha sollevato un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e il Consiglio dei ministri ha emanato un decreto legislativo per impedire l’esecuzione della sentenza. 34 M. Bertani, Postfazione, in M. Foucault, Discipline, poteri, verità, Marietti, GenovaMilano 2008, p. 258.

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incerta (continuo aggiornamento del DSM, promosso dall’American psychiatric association), e il mutamento in direzione di una maggiore fluidità delle discorsività medico-legali è probabilmente una delle ragioni per le quali la giurisprudenza italiana (Cass. n. 9163/2005 e n. 16574/2005, che richiama la giurisprudenza e la legislazione di Francia, Olanda, Portogallo, Slovenia e Spagna), ad esempio, si è uniformata recentemente a quella di altri paesi europei, riconoscendo i disturbi della personalità come cause di non imputabilità del soggetto agente. I disturbi della personalità, intesi come incapacità da parte del soggetto di gestire il proprio capitale, sono divenuti materie soggettive giudicabili in ambito penale, con la possibilità per la psichiatria di intervenire anche al livello delle più infinitesimali distorsioni del comportamento, e con la possibilità per il giudiziario di estendere la penalità a elementi che non rientrano in nessun codice penale. Se si pensa poi all’attuale passaggio dall’homo psichologicus all’homo neuronalis che stanno concretizzando le nuove tecniche sviluppate dalla medicina predittiva, in grado di attribuire la devianza a un deficit genetico o neuropsicologico, e se si pensa alla loro estensione al campo penale non si farà difficoltà a immaginare una temibile società di controllo che ridefinirà nuovamente i nostri criteri di giudizio. Il problema non è dunque il dialogo tra i giudici, l’attuazione dei valori o la normatività dei saperi, ma la convinzione che la loro articolazione non possa che avvenire in un solo modo, ritenuto giusto e vero, il quale non sarà più appunto, uno fra i tanti modi nella sfera dei possibili, ma una necessità. Per cui il gioco della rivalutazione dei valori è una possibilità delle nostre democrazie, ed è un gioco che non va lasciato al solo potere giudiziario35.

6. Conclusioni. Al di là di quanto si è detto in queste poche pagine, molto altro dovrebbe dirsi in relazione al tipo di discorso promosso dai Tribunali Internazionali, ai conflitti tra common law e civil law in seno a essi, al conflitto interno ai mestieri giuridici, ai nuovi modi in cui si ridefiniranno i saperi giuridici e morali. E ancora tanti sono i problemi sollevati dalle giurisdizioni internazionali: ad esempio, come si articolerà la qualificazione dei fatti, e come si determineranno le materie soggettive punibili, nonché il senso e la funzione della pena nella Corte Penale Internazionale? Problemi, questi, a cui solo una lunga ed elaborata indagine potrebbe rispondere. Si può oggi affermare che agli idealtipi weberiani si è affiancato un idealtipo giudiziario disciplinare e pastorale rappresentato dal giudice teso a 35 Sui rapporti tra potere giudiziario e democrazia cf. M. Troper, Le Pouvoir Judiciaire et la Démocratie, in: “European Journal of Legal Studies”, 2 (2007).

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promuovere la cura degli uomini in quanto popolazione vulnerabile a livello globale, con il forte rischio di dipendenza dalle determinazioni dei saperi e delle pratiche economiche (OMC), mediche, psicologiche, neurologiche (OMS, DSM), e in generale dalla deriva efficientistica che sta travolgendo la sfera pubblica. Il divenire indeterminabile dell’oggetto del giudizio, e il divenire pervasivo delle funzioni giudiziarie generano la possibilità di esprimere valutazioni che è impossibile controllare, e costituiscono il germe di un nuovo possibile arbitrio giudiziario cui si può reagire soltanto promuovendo una nuova questione giudiziaria come quella illuministica. Il fatto che i nostri sistemi giudiziari procedano verso una crescente individualizzazione dei giudizi e delle punizioni dovrebbe richiedere uno sforzo di elaborazione in grado di invertirne la rotta, o quantomeno di problematizzare ciò che è in procinto di consolidarsi in senso comune, vale a dire l’expertising e l’espertocrazia giudiziaria come esito della nostra storia morale. D’altronde, non sembra che su questo piano l’internazionalizzazione del giudizio abbia messo in discussione l’elaborazione del giudizio stesso per come è venuta determinandosi a partire dalla modernità, così come non ha messo in discussione il suo principale strumento punitivo, la prigione, che è in continua espansione. Proprio perché cosciente del fatto che lo spazio del processo è uno dei luoghi in cui si decide il gioco strategico che può preludere a una possibile riarticolazione di un regime di verità, e che può iscriversi, insomma, nei “giochi del vero e del falso attraverso i quali l’essere si costituisce storicamente come esperienza”36, Foucault ha spesso invocato un nuovo Beccaria, o la legge come forma di universalità contro l’ingombrante sapere criminologico. Ma non bisogna essere ingenui: il formalismo ci darà sempre una formula vuota della legge che sarà necessario riempire con giudizi di valore, ma un positivismo avvertito, l’ermeneutica giuridica o la teoria dell’argomentazione sono davvero in grado di controllare lo stato attuale delle forme del giudizio, o di mettere in questione l’attività legislatrice che i saperi tutelari esercitano nel campo giudiziario? Lungi da ogni condanna, la globalizzazione giudiziaria può avere certamente numerosi aspetti utili, a patto di definire spazi di libertà nel giudizio e allo stesso tempo altre forme o criteri di controllo delle decisioni, anche al di là del principio di legalità. Interrogarsi oggi sui nuovi fondamenti e sulle nuove forme di legittimità del diritto internazionale è perciò essenziale per il futuro delle nostre democrazie.

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M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 12.

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Gaetano Carlizzi, Il procedimento quale forma generale del pensiero razionale. Un’introduzione filosofica allo studio del rito Premessa Se il compito di elaborare una visione unitaria del procedimento giuridico è stato finora trascurato per la temuta irriducibile frammentarietà del suo oggetto1, si comprende a fortiori il tradizionale diffuso scetticismo circa l’opportunità di assumere addirittura il procedere umano in generale a tema di una speculazione filosofica. Nella presente sede sarebbe impossibile verificare a fondo la plausibilità di siffatte esitazioni. Nondimeno, chi scrive è giunto alla convinzione, da un lato, che sia miope ogni concezione del procedimento giuridico tecnicistica, ossia elaborata senza tener conto delle indicazioni ricavabili al riguardo dalla riflessione filosofica. Dall’altro e soprattutto, che i risultati incerti della stessa riflessione filosofica sul procedere umano siano dipesi dalla compressione della sua pienezza, logica e storica2, di volta in volta appiattita su uno soltanto dei due poli3. Cioè dalla rinuncia a una ricerca che, partendo da una precomprensione della figura legata alla sua fenomenologia attuale e risalendo il corso storico, miri a riscontrare se il senso provvisoriamente afferrato abbia corrispondenze nei momenti salienti di esso, e ad individuare l’eventuale permanenza, al di sotto delle molteplici somiglianze, di un movimento unitario di sviluppo dialettico. Le seguenti considerazioni propedeutiche allo studio del procedimento giuridico saranno condotte lungo l’itinerario descritto, che si cercherà di percorrere in modo fedele eppure inevitabilmente superficiale anche a causa dello spazio disponibile. Più in particolare, dopo aver sommariamente indicato i vari tipi di procedimento riscontrabili in ambito giuridico, ci si rivolgerà al più vasto ambito del rito, in modo da stabilire, secondo quanto 1 Cf. N. Luhmann, Legitimation durch Verfahren (1983), tr. it. S. Siragusa, Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Giuffrè, Milano 1995, p. 3. 2 Sul “doppio statuto”, “logico e storico”, di cui vive ogni concetto, v. le penetranti osservazioni di U. Pomarici, Un’arte divina. Il diritto fra natura e libertà nella filosofia pratica kantiana, I, Editoriale Scientifica, Napoli 2004, p. 12 ss., le quali fondano una lettura “attualizzante” delle riflessioni kantiane sul diritto. 3 In riferimento alla dimensione del rito, è appiattita sul polo storico la ricostruzione, per altri versi molto istruttiva, di J. Cazeneuve, Sociologie du rite (1971), tr. it. S. Veca, La sociologia del rito, il Saggiatore, Milano 1996. In particolare, tale A., nell’attribuire carattere teleologico ad ognuno dei riti dei popoli primitivi (finalizzati a guidare il rapporto dell’uomo col “numinoso”, con ciò che sfugge all’ordine umano: cf. part. p. 32 ss., 369 ss.), non si avvede della necessità logica (prima ancora che storicamente inverata) di configurare tipi di rito a-finalistici in quanto espressivi dell’atteggiamento immediato e irriflesso che – come si vedrà – impronta necessariamente il primo stadio della relativa esperienza.

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premesso, se e quali nessi dialettici intercorrano tra la figura del procedimento e le altre forme di rito. Il riscontro a livello storico del movimento così tracciato permetterà di formulare la tesi secondo cui il procedere umano in generale non è altro che il prodotto razionale e secolarizzato del percorso compiuto dall’uomo nella sua lunga eppure perdurante esperienza rituale. Solo allora sarà possibile tentare di fornire un contributo a una teoria unitaria del procedere umano. Tale contributo è volto ad attuare il progetto formulato in un precedente lavoro di chi scrive, nel quale ci si era limitati a un’analisi della struttura formale e della teleologia del procedimento giuridico, ossia ad un’analisi che ne dava per scontato il carattere razionale, lasciando sullo sfondo il problema – che ci accingiamo ad affrontare – del modo di costituirsi di tale razionalità4.

1. Procedimenti giuridici e procedere umano. Che il procedimento giuridico sia una delle figure fondamentali della vita del diritto, è testimoniato dal fatto che ogni ramo di qualsivoglia ordinamento giuridico disciplina vicende concordemente ritenute, quando non espressamente definite, “procedimentali”. Con specifico riguardo all’ordinamento giuridico italiano, si considerino – a titolo solo esemplificativo – le normative generali relative all’elezione, rispettivamente, al Senato della Repubblica e alla Camera dei deputati; alla formazione delle leggi; alla formazione degli atti amministrativi; alla conclusione del contratto, sia di diritto privato sia di diritto pubblico; al giudizio dinanzi alla Corte costituzionale; al processo amministrativo; al processo tributario; al processo penale; al processo civile; al processo 4 Più precisamente, il suddetto progetto così veniva espresso: “L’affermarsi della ragione quale centro nevralgico delle attività pratiche dell’uomo è un fatto ovvio, ma la cui genesi, forse proprio per ciò, non è stata ancora spiegata in modo definitivo (né forse lo sarà mai). Nel testo abbiamo approfittato di questa ovvietà e abbiamo fatto culminare la nostra argomentazione in un semplice interrogativo retorico. Siamo consapevoli che un pensiero rigoroso non si accontenta fondatamente di questo modo di procedere, ma lo spazio a disposizione e la destinazione del presente scritto non consentivano di compiere altro che semplici accenni. Peraltro, sulla base di studî che stiamo conducendo da qualche tempo, crediamo che una fondazione rigorosa del ruolo capitale che la ragione assolve nella pratica possa e debba essere ricercata inquadrando il procedimento, quale forma archetipica della razionalità pratica, nell’alveo della più ampia esperienza rituale dell’uomo. A nostro avviso, ciò potrebbe condurre a individuare nel procedimento il culmine del percorso logico-storico, dunque dialettico, compiuto dall’uomo attraverso quest’esperienza, e permetterebbe, soprattutto, di ricavare i principî generali della razionalità procedimentale. Speriamo di illustrare più compiutamente questa tesi in uno scritto in via di raffinamento” (v. G. Carlizzi, Procedimento, in: U. Pomarici (c/ di), Filosofia del diritto. Concetti fondamentali, Giappichelli, Torino 2007, p. 476 n. 61).

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matrimoniale canonico; al procedimento disciplinare a carico dei dipendenti pubblici, sia civili sia militari, nonché degli avvocati e dei notai; al procedimento di riscossione dei tributi. A qualche giurista geloso della pretesa autonomia della propria disciplina gli accostamenti contenuti nell’enumerazione compiuta appariranno forse stravaganti. Ma se la stravaganza, intesa fedelmente al suo etimo, è il movimento di un pensiero che mette in discussione gli schemi che sinora hanno organizzato il suo sapere, fino a fuoriuscirne e a riconsiderarlo in modo panoramico e dunque nuovo e più ricco, allora ben venga la stravaganza. Si tratta dunque di far tesoro delle conoscenze relative alle attività giuridiche procedimentali, con la consapevolezza della loro matrice pratica, al fine di individuarne il modo di realizzazione costante e di coglierne così la specifica ragion d’essere. Un approccio del genere, lungi dall’essere tacciabile di ingenuità epistemologica, costituisce l’unica risorsa di cui il giurista dispone per alleggerirsi delle sovrastrutture dogmatico-concettuali, per altri versi indispensabili, che condizionano e in certa misura sofisticano la sua comprensione del mondo in cui vive ed opera. Ora, se si osserva ciò che accade in ogni svolgimento delle attività enumerate, l’attenzione è subito attirata da due aspetti compenetrati: plurimi gesti vengono concatenati nella tensione a un medesimo risultato immediato (adozione di una legge, conclusione di un contratto ecc.), così attuando un modello che i detentori del potere reputano ottimale a tal fine. E se è vero – come meglio si chiarirà – che il senso autentico del procedimento giuridico non si esaurisce nell’ordinamento teleologico dei momenti che lo compongono, nondimeno è proprio a partire dall’elemento dell’ordine che è possibile intraprendere quella riflessione logico-storica necessaria per una più penetrante visione del procedere umano. Qui si compie il regresso ideale dal procedimento al rito.

2. Procedere umano e dinamica rituale. Lo stretto vincolo di dipendenza che – come mostra la radice vedica rta del termine latino ritus5 – sin dall’antichità unisce il rito alla ricerca umana di un assetto di vita disciplinato e dunque rassicurante non deve far perdere di vista il carattere vicario dell’intervento rituale. In origine, l’ordinamento 5 Per questo e ulteriori riferimenti etimologici, v. A. Colombo-S. Offelli, Rito (voce), Enciclopedia Filosofica, V, Sansoni, Firenze 19672, col. 817; D. Sabbatucci, Rito e sacrificio, in: M. Vegetti (c/ di), Introduzione alle culture antiche, III - L’esperienza religiosa antica, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 14 s.; É. Benveniste, Le vucabulaire des institution indo-europèennes, II - Pouvoir, droit, religion (1969), ediz. it. c/ di M. Liborio, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, p. 357 s.

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dell’esistenza individuale e comunitaria fu infatti realizzato dall’uomo adottando usi e costumi immediatamente satisfattorî delle proprie esigenze di vita (es. caccia, accoppiamento, armamento ecc.)6. Solo la successiva constatazione del verificarsi di eventi stra-ordinari, che sfuggivano cioè all’ordine tradizionale, mettendolo in discussione, fece comprendere all’uomo stesso l’insufficienza delle misure adottate e lo spinse a ricorrere a soluzioni diverse. E il paradosso di una sfida lanciata da ciò che per definizione giace fuori della portata umana fu superato plasmando simbolicamente le nuove misure7: credendo che lo stra-ordinario si celasse sotto le spoglie di oggetti esperibili, che materiandolo lo resero “maneggevole”8. Il rito viene coerentemente inteso come l’atteggiamento praticosimbolico che l’uomo, dopo aver fatto esperienza del “numinoso”9, assunse per sottoporlo al proprio controllo ed evitare l’angoscia che naturalmente gliene derivava10. Cristallizzando la situazione eccezionale figurata nel suo corso, il rito la radica nella sfera di azione dell’officiante e gli dà così l’impressione di potervi influire a proprio vantaggio. Metaforicamente lo si potrebbe rappresentare come un intervento anestetico, che solo ammansisce la belva feroce e consente di privarla dei suoi terrificanti artiglî11. In questo slancio simbolico, il rito finì per costituire uno dei principali strumenti di mediazione tra la realtà materiale in cui l’uomo vive e il sistema di valori costituente la sua cultura. Nell’atto stesso della ritualizzazione di certi gesti, se ne determina una precisa configurazione semantica e assiologica che “per contagio sociale” si propaga alla vita comune, ben oltre gli originarî confini rituali12.

6 L. Lèvy-Bruhl, La mentalité primitive (1922), tr. it. C. Cignetti, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1966. 7 Sull’esperienza mitico-religiosa in generale quale prodotto simbolicamente conformato dello Spirito, fondamentali restano le riflessioni di E. Cassirer, Philosophie der simbolischen Formen, II - Das mythische Denken (19532; 1925), tr. it. E. Arnaud, La filosofia delle forme simboliche. II - Il pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze 1988. 8 Per una diversa lettura della funzione del rito, secondo la quale esso servirebbe a “costruire l’esemplarità su cui poggia ogni norma esplicitamente formulata”, v. M. De Carolis, Natura umana e costruzione del mondo nel rituale, in: “Micromega” 1/2006, p. 124. 9 Il concetto di “numinoso” è invalso per la sua centralità nell’opera di R. Otto, Das Heilige Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen (1936), tr. it. E. Buonaiuti, Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano 1966, p. 17 s. 10 Questa concezione genealogica è particolarmente sviluppata da J. Cazeneuve, La sociologia del rito, cit., passim. 11 Ma per la possibile funzione auto-addomesticante dei riti di massa, v. le suggestive notazioni di E. Canetti, Masse und Macht (1960), tr. it. F. Jesi, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 25. 12 Si rinvia nuovamente a D. Sabbatucci, Rito e sacrificio, cit., p. 15 s.

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Se questa è la funzione del rito generalmente invalsa, essa può anche suddistinguersi e storicamente si è suddistinta in forme particolari. Per il momento tali forme saranno enucleate lungo un percorso dialetticoidealtipico, ossia – senza porsi ancora il problema del loro inveramento storico – attraverso due successivi rovesciamenti: della forma più elementare di rito e del suo stesso rovesciamento. I tre idealtipi, in ragione della loro genealogia, dovrebbero essere in grado di inquadrare l’intera serie delle forme storiche dell’esperienza rituale13. Poiché anche il rito è un prodotto dello spirito umano, proponiamo una suddistinzione fondata sul tipo di atteggiamento spirituale che anima il gesto partecipativo. In questo senso, ciò che conta non è né lo stato d’animo riscontrabile nel singolo partecipe, né quello ricavabile per astrazione dell’emozione ricorrente in ogni partecipe (angoscia, ardimento ecc.): in entrambi i casi si tratterebbe di dati psicologici particolari, come tali inidonei a fondare quel riscontro logico-storico che abbiamo giudicato essenziale in apertura14. Ai nostri fini rileva piuttosto mettere in luce gli atteggiamenti fondamentali dello spirito nell’esperienza rituale, ossia i possibili moventi universali del pensiero che in essa si realizza.

3. Dialettica delle forme rituali. La genesi della ritualità avviene nel segno della necessità assoluta. Le prime espressioni dell’esperienza rituale si presentano come gesti meramente adempitivi. Che questa sia la forma primigenia, è una verità non solo storica (come si vedrà), ma anche logica, sebbene certi approcci psicologistici possano indurre a disconoscerla. In effetti, nella sua immediatezza, la 13 Per una rapida ma ricca carrellata di altri sistemi classificatori, v. N. Turchi, Rito (voce), Enciclopedia Italiana, XXIX, 1936, p. 466 s. Per una tipologia incentrata sul dato – invero meramente estrinseco giacché legato al modus anziché alla ratio del gesto rituale – del tipo di reazione al numinoso che l’uomo inscena nel rito (di repulsione, di accettazione oppure di assunzione a fondamento della propria condizione), v. J. Cazeneuve, La sociologia del rito, cit., 49 ss., 177 ss., 261 ss. Il carattere estrinseco del principio classificatorio su cui si fonda quest’ultima ricostruzione comporta che la critica che se ne potrebbe trarre (cf. part. p. 254) alla sistematizzazione che qui sarà proposta non coglierebbe nel segno. Invero, a meno di non voler incorrere nell’errore di postulare – come fa Cazeneuve – il carattere necessariamente emozionale delle manifestazioni della sfera rituale, non ha senso dire che non vi rientrano gli atteggiamenti espressivi di sintesi razionali, poiché ciò che conta davvero è il riscontro, nell’atteggiamento di volta in volta considerato, di una funzione – questa, sì, archetipica nella dimensione rituale – di ordinamento simbolico della realtà umana. 14 Un certo psicologismo condiziona in generale anche l’analisi di Cazeneuve. Ciò è chiaramente evincibile dal passo in cui egli, premesso che i popoli primitivi giustificano le proprie pratiche rituali semplicemente richiamandosi a un dovere consudetudinario, si domanda “se il loro atteggiamento non abbia una ragione più profonda che è loro sconosciuta ma che nondimeno guida il loro comportamento. E questa ragione [non può che] risiedere nel bisogno che essi provano di fissarsi in una condizione umana (…)” (op. cit., p. 383).

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coscienza (quale disposizione generale del pensiero verso il mondo), lungi dall’anteporsi al proprio oggetto (ché per il momento neppure sa di essere coscienza), gli si rivolge immediatamente15. Sicché dapprima vi si rapporta in uno stato puramente recettivo, di passivo accollo delle sue richieste illusorie, che ora vengono assunte come imperativi categorici e dunque escludono quella possibilità di rifiuto presupposta da ogni scelta autenticamente libera. In questo stadio il rito riveste le sembianze della cerimonia: ripetizione di gesti tralatizî effettuata supinamente, senza interrogarsi sulla ragione che la sorregge, ed acriticamente vissuta quale adempimento di un dovere anch’esso tramandato. Dal punto di vista linguistico16, se ne ha riscontro non solo nella dimensione originaria del rito religioso (es. “riti sacrificali ciclici”), il quale in altre sue manifestazioni rientra peraltro negli alvei successivi, ma anche nella dimensione derivata del cerimoniale (es. “rito della parata militare”) e più in generale delle prassi laiche (es. “rito dell’aperitivo”). Nello stadio immediatamente successivo la ritualità è ispirata alla libertà assoluta. L’atteggiamento meramente adempitivo delle forme rituali precedenti è destinato a ribaltarsi nell’atteggiamento puramente pretensivo di più evolute forme. Anche di tale movimento abbiamo riscontri, prima che storici, logici: la coscienza, dopo aver familiarizzato col mondo dell’esperienza rituale, si ripiega baldanzosamente in sé (sicché la mediazione con l’oggetto è ancora di là da venire); ma tale ritorno comporta, al contempo, che la coscienza stessa apprezza soltanto da sé, dunque smisuratamente, le proprie possibilità di agire. A questo livello il rito, che inizia a rivelare una certa tensione teleologica, assume le sembianze dell’invocazione, nel senso lato, non strettamente religioso, di richiamo fiducioso di un evento estraneo. La libertà assoluta che anima i gesti rituali si coglie nel fatto che la distanza incommensurabile che li separa dal fine perseguito viene ignorata dalla volontà del loro autore. Se il carattere teleologico li differenzia da quelli dell’ordine precedente, il carattere agnostico li distingue da quelli (loro affini, invece, per l’elemento teleologico) dell’ordine successivo. Riti del genere sono rinvenibili nelle espressioni del misticismo religioso (segnatamente, in quelle che attendono la discesa in terra della divinità, l’en15 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807), tr. it. E. de Negri, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 81 ss. 16 L’importanza che, nella comprensione dell’evoluzione storica dei concetti, assume il riferimento alle varie locuzioni in cui i compaiono termini che li designano, si coglie appieno nelle analisi begriffsgeschichtliche di H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode (1960), tr. it. G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 1997 (es.: “Bildung”, p. 31 ss.; “sensus communis”, p. 42 ss.; “Urteil”, p. 54 ss.; “Erlebnis”, p. 91 ss., “Verstehen”, p. 308 ss.; “Vorurteil”, p. 371 ss.; ecc.).

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thou-siasmos: es. “riti di iniziazione”, “riti oracolari”, “riti di impetrazione”); in talune pratiche sociali artificiose (es. “riti magici”, attraverso i quali ci si illude di poter orientare l’occorrenza di eventi desiderati o indesiderati; “riti di affiliazione”, con la cui mera celebrazione si crede di costituire una disposizione, quella di fedeltà dell’adepto, che in realtà dipende dalla sola volontà di quest’ultimo; “riti giuspoietici”, che lasciano “trasp[arire] uno sfondo mistico (…), in quanto il gesto rituale produttivo di effetti giuridici non evoca un diritto fondato su fatti preesistenti, lo costituisce”17); nonché in certi contegni psicopatologici (es. “riti ossessivo-compulsivi”, i quali mirano, attraverso l’iterazione di certi gesti, a esorcizzare i desideri e le fobie che affliggono il paziente). Nello stadio finale del suo percorso evolutivo, la ritualità è ispirata alla libertà condizionata. Ora l’atteggiamento meramente adempitivo e quello meramente pretensivo che l’aveva soppiantato nell’evoluzione della logica rituale trovano composizione nella forma intermedia di un atteggiamento onerosamente pretensivo. La coscienza continua a credere nelle proprie capacità realizzative, ma adesso, anche perché memore dei fallimenti patiti nella fase della libertà assoluta, avverte che le proprie possibilità d’intervento devono essere commisurate ai limiti che l’affliggono di per sé e nei rapporti con la realtà su cui verte. In questa mediazione tra sé e il proprio oggetto la coscienza raggiunge l’apice del proprio sviluppo, presentando sembianze razionali. Il principio della mediazione coincide col senso dell’onerosità delle pretese della ragione: il suo uso non può che implicare un potere-dovere rispondente alla formula “se vuoi ottenere ciò di cui sei capace, devi agire in modo congruente”. Qui il rito si presenta finalmente in veste di rito razionale, di procedimento: in particolare di procedimento giuridico (di formazione di atti ovvero processuale), come si riscontra in sintagmi del tipo “rito del matrimonio concordatario”, “rito giudiziario” e così via. È importante osservare che la matrice razionale del presente stadio non crea una cesura rispetto ai due stadî precedenti, giacché – come si dirà – è tuttora intatto il carattere simbolico-ordinatorio che abbiamo visto contrassegnare ogni specie di rito. In definitiva, se il procedimento appartiene all’ambito del rito per la presa simbolica in cui avvince il proprio oggetto, in tale ambito esso si contraddistingue per la propria razionalità, la quale impone un’adeguata conoscenza-soluzione delle questioni poste dall’oggetto stesso. Ma se è così, è già configurabile un principio universale dell’attività procedimentale. Il potere dei soggetti che vi partecipano non può mai 17 Cf. F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 297, che in seguito (part. p. 298 ss., 427 ss.) stilizza icasticamente la linea evolutiva trifasica di tali riti, traendo alcuni esempi dall’esperienza giuridica romana.

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trovare riconoscimento in qualità di fine a sé stesso (cd. formalismo rituale), ma solo quale mezzo concorrente di realizzazione della tipica orientazione conoscitivo-solutoria del procedimento (che è particolarmente evidente nell’ambito del processo giudiziario, dove si tratta di ricostruire un conflitto intersoggettivo e di comporlo18). La notazione, apparentemente ovvia, acquista uno spessore più consistente se solo si pone attenzione alla deriva regressiva in cui è tuttora trascinato, tra gli altri, il processo penale italiano, sempre più irriconoscibile giacché pervaso dalla logica rituale arcaica della libertà assoluta, quando non addirittura da quella ancestrale dell’assoluta necessità.

4. Il procedere umano quale prodotto storico dell’esperienza rituale. Il carattere dialettico del proposto dispiegamento delle forme rituali già è stato presentato. Tuttavia, se esso fosse il prodotto di una ricostruzione integralmente ideale, se cioè il movimento genetico descritto fosse puramente genea-logico, allora le conclusioni raggiunte predeterminerebbero in realtà la propria stessa origine e sarebbero sostituibili con forme dispiegate in base ad altri principî. Diversamente stanno le cose se all’analisi logica si accompagna quella storica. Ma non nel senso debole di una ricognizione a casaccio del corso temporale, la quale si presenterebbe come aggiunta meramente estrinseca e quindi tale da mantenere la separazione tra le due analisi. Bensì in quello forte, illustrato in premessa, di una ricerca volta a verificare, non solo e non tanto se le forme ideali si siano storicamente succedute nell’ordine classificatorio esposto, ma soprattutto se la successione sia effettivamente avvenuta secondo il ritmo costituente trasversalmente quell’ordine. Una ricerca del genere dovrebbe essere estesa all’intera storia universale, ma lo spazio disponibile in questa sede impone una selezione. Tuttavia, se si considera che l’epoca prescelta, quella dell’antichità greca, non solo è una delle più luminose della civiltà umana, ma è anche – come si mostrerà – l’epoca del primigenio compimento dello sviluppo dialettico in esame, allora

18 Come si vedrà, ciò non significa affatto che il processo giudiziario deve tendere necessariamente alla ricerca della pura verità storica e/o normativa – ammesso che ciò sia possibile –, bensì che esso deve almeno proporsi finalità conoscitive di questo tipo. Nondimeno, è chiaro che quanto più ampio è lo scarto che per ragioni politiche si tollera tra verità storica e verità processuale, tanto più il processo si approssima al confine che separa la sfera della libertà condizionata, alla quale naturalmente appartiene, dalla sfera mistica della libertà assoluta.

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deve ammettersi che la selezione incide soltanto sulla profondità della verifica storica, ma non sulla sua capacità di convalida dell’ipotesi logica19. Ora, nell’antichità greca sono essenzialmente riscontrabili proprio tre forme di ritualità, nel senso lato di insieme di gesti simbolici ripetibili compiuti dall’uomo per esercitare un controllo sul mondo. Peraltro, la necessità di adeguamento reciproco tra tempo del logos e tempo della storia comporta che l’inveramento del primo nella seconda non è mai lineare, ma piuttosto discontinuo. Ne consegue che le periodizzazioni che seguono hanno un valore soltanto indicativo e non escludono che certi atteggiamenti rituali compaiano episodicamente in fasi anteriori a quella del loro pieno manifestarsi, oppure, all’opposto, che di esse lampeggino residui in fasi successive. Concentriamoci innanzitutto sulla fase mitica ancestrale (2300-800 a.C. ca.). Nella prima fase della civiltà greca antica il rito si presenta come reiterazione delle vicende narrate nei miti eziologici, relativi alle cause del mondo reale, come continua presentificazione delle potenze generatrici, alle quali ci si sente soprattutto legati da doveri di devozione religiosa20. Sicché l’eventuale supplica di benefici terreni, più o meno velatemente presente in ogni culto religioso, lungi dal rivelare un’intensità assorbente nella pratica cultuale e dunque dal porsi come un’aspettativa fondamentale, riveste piuttosto il senso di una testimonianza di fede: si supplica perché si ha completa fiducia nella potenza divina. E in questo senso costituisce soltanto una particolare declinazione dell’atteggiamento di passiva devozione tipico di questa fase21. Nel medio è situata la fase mitica arcaica (ca. 800-600 a.C.). In tale periodo, in modo particolarmente marcato a partire dall’avvento del culto dionisiaco (la datazione del quale è peraltro tuttora discussa), l’uomo greco inizia a credere che la devozione rituale non esprima semplicemente la doverosa riconoscenza verso la divinità, ma costituisca addirittura una forma di partecipazione alla sua particolare condizione22. L’efficacia benefica del

19 Ciò non toglie che la parzialità del campo storico di indagine lasci aperto lo sconcertante problema del rapporto tra il ciclo dell’epoca greca antica e la restante storia universale, e in particolare del se la seconda costituisca una spirale di cicli strutturalmente uguali al primo ma anche espressivi di una raffinatezza sempre più marcata, cioè di un autentico progresso. 20 Particolarmente significativo è il Certame di Omero e di Esiodo citato da W. Nestle, Griechische Religiosität (1930), tr. it. A.B. [sic!] Storia della religiosità greca, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 63, peraltro risalente al VI sec. a.C. e dunque interpretabile come residuo nel senso precedentemente illustrato. Ciò non toglie che quello dei rapporti tra mito e rito sia ben più complesso, come dimostra la mole di sistemazioni al riguardo proposte. 21 Sulle pratiche religiose della fase antica, cf. ancora Nestle, La religiosità greca, cit., part. p. 62-64. 22 L’idea di una profonda trasformazione nella religiosità greca a cavallo tra VII e VI sec. a.C. è professata da Nestle, La religiosità greca, cit., p. 73 ss., il quale, da un lato, la giustifica

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rito è concepita, talora, come agevolazione della condotta di vita mondana23, talaltra, come precostituzione della beatitudine ultraterrena24. La ritualità di questa fase occupa una posizione intermedia non solo dal punto di vista storico, ma anche logico: ora l’uomo greco è, sì, proteso verso un risultato (a differenza che nell’epoca anteriore) al quale si sente collegato, ma lo è in modo ancora essenzialmente mistico (a differenza che nell’epoca successiva), ossia ignaro dei nessi che materiano il collegamento. Questa situazione si spiega con la già illustrata assoluta incommensurabilità tra pratica e obiettivo, come si evince dal termine tipicamente impiegato per segnare il passaggio dall’una all’altro: l’ec-stasis è la fuoriuscita da sé che recide ogni legame con la dimensione donde proviene25. Significativa in tal senso è l’assoluta mutevolezza, varietà e rapsodicità di tali pratiche, le quali, pur riflettendo certamente il desiderio di trasfigurazione dei suoi artefici, con l’esigenza di far fronte allo stato di angoscia esistenziale provocato dai grandi cambiamenti politico-sociali dell’epoca (sui quali, v. p. 51 ss.). Dall’altro, la concepisce come passaggio dalla devozione cultuale a quella mistica, intendendo quest’ultima, in riferimento ai misteri eleusini, come “aspirazione del fedele all’unione con la divinità in uno stato di eccitazione e di elevazione spirituale, che però qui non raggiunge, come nell’orgiasmo dionisiaco, il grado dell’estasi vera e propria” (p. 76); e precisando che tale devozione mistica era generalmente mediata da personaggi dotati di particolari poteri – i Bakides –, la cui “peculiarità religiosa si manifestava nella vita ascetica, nell’estasi e nelle operazioni magiche” (p. 73). Si noti soltanto che c’è da dubitare della nettezza della distinzione tra culto eleusino e culto dionisiaco, se solo si segue l’insegnamento di G. Colli, La sapienza antica, I – Dioniso. Apollo. Eleusi. Orfeo. Museo. Iperborei. Enigma, Adelphi, Milano 1995, p. 29 s., secondo il quale dietro Eleusi v’è Dioniso, e si riconosce altresì la particolare intensità della condizione dell’epopteia eleusina. 23 Si pensi ai consigli ricavabili dagli oracoli, che servono di orientamento per le azioni future, e che peraltro si rinvengono anche nell’epoca anteriore, ma non in forma estatica, bensì semiotica (mantica mediante il lancio di dadi). 24 Si allude soprattutto all’epopteia eleusina, la cui efficacia è ben espressa nell’Inno omerico a Demetra. 25 Cf. la selezione di testimonianze e frammenti dionisiaci, apollinei, orfici ed eleusini reperibili in Colli, La sapienza antica, cit. (e v., in particolare, l’antitesi segnata da Aristotele tra iniziazione e insegnamento, ivi, p. 107). Che Dioniso sia la forma mitica culminante di questa “autosuggestione”, lo dimostra il fatto che le principali manifestazioni della ritualità di questo periodo (visione e proferimento estatici) sono tipiche del culto dedicato a lui. Sull’importanza dell’irruzione del culto dionisiaco e sull’estaticità delle sue forme espressive, v. le geniali intuizioni di F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie (1872), tr. it. S. Giametta, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 2002, nonché Colli, La sapienza antica, cit., p. 24. Si noti che Colli, pur dissentendo dalla negazione nietzscheana dell’arcaicità del culto dionisiaco, richiama la giusta opinione di Rohde secondo cui, con l’arrivo di Dioniso a Delfi e il suo subingresso ad Apollo, la mantica delfica subisce una profonda trasfigurazione, in chiave estatica. In ogni caso, sembra plausibile ritenere che la pratica oracolare delfica ha un’origine ben più remota del VII sec. a.C., e dunque una connotazione inizialmente non estatica: un’origine addirittura anteriore all’avvento colà del culto apollineo: M. Eliade, Histoire des croyances et des idées réligieuses (1975), tr. it. M.A. Massimello-G.Schiavoni, Storia della credenze e delle idee religiose. Dall’eta della pietra ai misteri eleusini, I, Sansoni, Firenze, 1996, p. 296.

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mostrano di repellere ogni assetto geometrico là dove si presentano come frenetico e talora disperato susseguirsi di tentativi di trascendere nel divino. L’ultimo stadio evolutivo dell’esperienza rituale è costituito dalla fase razionale (600 a.C.-200 d.C. ca.). Ora il versatile genio greco, pur continuando a provare sentimenti di devozione verso le potenze divine e di fiducia nell’estasi mistica26, matura l’idea che le vicende terrene possano essere in qualche misura afferrate e dominate dalla ragione. Ragione che esige un esercizio adeguato al suo modo di operare tipicamente discorsivo; in breve, un esercizio procedimentale: “L’uomo teoretico (…) gode e si appaga nel togliere il velo e trova il suo supremo fine e piacere nel processo di un disvelamento sempre felice, che riesca per forza propria”27. Siamo agli albori della rivoluzione filosofica, resa possibile dall’avvento della scrittura28. E se inizialmente il nuovo atteggiamento si traduce in pratiche ancora rudimentali per quanto contrassegnate da una certa scientificità (si pensi al fondamento vagamente induttivo delle conclusioni salienti della cosmologia ionica), con la “scoperta” socratica e il raffinamento – platonico prima, e aristotelico poi – dello strumento della dialettica nonché di quella sua filiazione che è la figura del concetto, l’esperienza procedimentale raggiunge il suo vertice, specificandosi infine nelle metodologie corrispondenti ai diversi ambiti del sapere scientifico. Tiriamo le fila del discorso. Se la ricostruzione logico-storica compiuta è fondata, trova conferma l’ipotesi iniziale: il procedimento va concepito come la forma archetipica di esercizio della razionalità, ma non dell’esperienza rituale in cui si inscrive29. In particolare, se si risale all’antichità greca e la si ripercorre in tutta la sua estensione, si può constatare che tale esperienza fu allora dominata da un movimento dialettico che ne segnò il passaggio dall’iniziale e ingenuo atteggiamento fideistico a quello più maturo e compiuto dell’epoca razionale. In questo senso, la nascita del procedimento corrisponde “soltanto” all’acme di quel cammino

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Cfr. in particolare il passo 71e-72a del Timeo platonico. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 100 [corsivo ns.]. 28 Secondo la nota tesi E.A. Havelock, Preface to Plato (1963), tr. it. M. Carpitella, Cultura orale e civilità della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari 2001, condivisa e sviluppata in Italia da C. Sini, Filosofia teoretica, Jaca Book, Milano 1992, p. 50 ss. 29 Alla figura del rito attribuisce un ruolo fondativo addirittura di ogni istituzione culturale la suggestiva opera di R. Girard, La Violence et le sacré (1972), tr. it. O. Fatica-E. Czerkl, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2003, p. 425. 27

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di affrancamento dal giogo mitico30, dunque di secolarizzazione31, coraggiosamente percorso dal genio greco. Cammino che muove da atteggiamenti di riverente devozione in esso ingenerati dal timore di una divinità sentita ancora distante. Prosegue con cieca fiducia nella possibilità di unirvisi, la quale non è altro che l’espressione parossistica del presentimento di una presa più salda sul reale32. Culmina – soprattutto a causa del nesso logico-storico di derivazione dallo stadio della libertà assoluta – nella scoperta di uno strumentario tanto formidabile quanto pervaso dai germi di un diffuso delirio di onnipotenza, come mostra il dibattito contemporaneo sulla degenerazione tecnocratica della ragione, per tanti versi estensibile anche alla ragione giuridica33.

5. Contributo a una teoria unitaria del procedere umano. Analisi del principio di ragione. La “scoperta” del procedere umano nell’antichità greca ha prodotto risultati riscontrabili nei più disparati settori della razionalità, le cui principali imprese, teoriche e pratiche, si presentano come serie di atti selezionati secondo una specifica qualità tipologica (es. atto di giudizio, volitivo, comunicativo, produttivo ecc.) nonché disposti secondo un ordine preciso, ritenuto idoneo a garantire il raggiungimento del risultato perseguito. Il procedere umano è dunque un prodotto dello spirito, e in particolare di quella sua forma evoluta di manifestazione che noi tutti chiamiamo ragione. 30 Ma l’idea di un passaggio netto vom Mythos zum Logos, per richiamare un’altra nota opera di Wilhelm Nestle, non si concilia con una lettura disincantata delle fonti filosofiche di questo periodo. Al riguardo, basti richiamare, tra i tanti dati, il peso che il mito riveste nell’economia della speculazione platonica nonché le evidenti ascendenze teologiche della metafisica aristotelica. Per un ricco quadro di insieme, cf. W. Jaeger, Die Theologie der frühen griechischen Denker (1953), tr. it. E. Pocar, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1982. 31 Con riguardo ai concetti dell’ambito politico-giuridico l’idea di una derivazione da corrispondenti concetti di matrice teologica risale a C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveranität (19342; 1922), tr. it. P. Schiera, ‘Teologia politica’. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in: Id. Le categorie del politico, il Mulino, Bologna, 1972, p. 61 ss. 32 Illuminante anche in tal senso è l’osservazione di W. Nestle, La religiosità greca, cit., p. 84, secondo cui la religione orfica – diffusasi al culmine di quella che abbiamo indicato come la seconda fase della storia della ritualità greca – prese piede in Grecia, nonostante la sua provenienza straniera, in quanto corrispose, con la propria carica di spiritualismo mistico, alle “speculazioni su dio, il mondo e l’anima, alle quali appunto in questo periodo lo spirito greco cominciava a dedicarsi” – cioè alle speculazioni maturate nella successiva fase filosofica –; come a dire che i germi della razionalità filosofica si annidarono e maturarono nelle pieghe del misticismo mitico arcaico. 33 Per una suggestiva sintesi dialogica, con particolare riguardo all’ambito giuridico, v. N. Irti-E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari 2001.

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Ma, d’altro canto, il procedere umano non costituisce certo l’archetipo del fenomeno generale della concatenazione di momenti sfociante in un evento terminale. Anzi, se si tiene conto del carattere originario dell’epifania naturale, del modo emulativo di determinarsi tipico dello spirito, dell’orientamento propriamente scientifico che il pensiero filosofico assunse alla sua nascita nonché della credenza degli antichi Greci in un ordine comune a tutti gli ambiti del cosmo – se si tiene conto di tutto ciò, è affatto ragionevole concludere che lo spirito abbia escogitato in modo mimetico il procedere umano. Può cioè sensatamente assumersi che il procedere umano, il quale – nell’ottica diacronica prima seguita – ha corrisposto al culmine razionale dell’esperienza rituale, in questo momento – da un punto di vista sincronico – si sia costituito rispecchiando le più complesse dinamiche dell’eziologia naturale. Il procedimento è dunque la figura che lo spirito, dopo aver ripetutamente constatato che ogni accadimento empirico scaturisce da una serie tipica di momenti, enuclea sulla base di due gesti correlati. Da un lato, intuendo l’esistenza di un nesso necessario tra tali momenti, che vale a costituirli come ordine eziologico; e dall’altro, estendendo tale intuizione alla propria attività, che viene così elevata a un piano autenticamente razionale. In sostanza, nell’antichità, a ciò che nell’epoca moderna sarebbe stata denominata legge naturale, la quale consente di spiegare e pronosticare la regolare successione tra cause ed eventi nel dominio della natura, l’uomo greco intuì corrispondente, nel proprio dominio, il principio di ragion sufficiente34, il quale si sarebbe poi rivelato così potente da sottendere persino la figura dalla cui intuizione era derivato e dunque da rivelare una portata universale, non limitata cioè a questo o quell’ambito della realtà. Secondo tale principio, nihil est sine ratione, nessun ente, ideale o reale che sia, si dà se manca un fondamento che ne giustifichi l’esistenza. In positivo questo significa che tutto ciò che è ha un fondamento (omne ens habet rationem)35. Ora, nonostante la portata universale del principio, il filosofo che più vi ha riflettuto nell’epoca contemporanea, Martin Heidegger, l’ha sottoposto a critica radicale. Come spiega ciò? Per rispondere alla domanda occorre 34 Cf. le illuminanti Lezioni tenute nel Semestre invernale 1955-1956 all’Università di Friburgo nonché la Conferenza tenuta nel 1956 dapprima a Brema e poi a Vienna, tutte raccolte in: M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957), tr. it. G. Giurisatti-F. Volpi, Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, part. p. 15, 18, 34, 47 s., 54 s., 75 s., 90 ss., 125, 130, 172, 176, 188, 200 ss. 35 La genealogia del procedimento proposta compatta manifestamente uno sviluppo spirituale ben più articolato. Per un formidabile quadro di insieme, v. G. Calogero, Logica (voce), Enciclopedia Italiana, XII, 1934, coll. 391 ss., il quale vede nell’opposizione dialettica tra il monismo dell’essere parmenideo e il pluralismo del divenire eracliteo, finalmente composta dall’idealismo platonico, il ritmo evolutivo dell’intero pensiero filosofico antico dalla sua nascita fino alla speculazione aristotelica.

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approfondire la critica. Secondo il filosofo di Meßkirch, il principio di ragione è propriamente la configurazione che assume nella modernità l’antica tesi del fondamento, la quale afferma la riconducibilità della realtà a una sola arché36, a un unico principio primo. La moderna configurazione della tesi avviene a partire da Leibniz37, il quale la formula come principium reddendae rationis, cioè come dettame che impone al soggetto di fondare motivatamente l'esistenza di ogni oggetto in quanto tale. Ma in tal modo, ossia incentrando il principio sulla “fornitura” del fondamento anziché sulla sua mera assunzione, si dimentica l’evidenza che tale fondamento aveva nel pensiero antico. E qui che si consolida la scissione cartesiana soggetto/oggetto e viene spianata la strada al metodo trascendentale kantiano, che ricollega l’esistenza dei fenomeni alle categorie della soggettività (definite significativamente “condizioni di possibilità” della realtà fenomenica) e rappresenta pertanto la summa della genealogia della modernità. La trasfigurazione della tesi del fondamento nel passaggio dall’antichità alla modernità non toglie – come Heidegger mostra – che in tutta la storia del pensiero occidentale la tesi abbia fatto sempre riferimento all'essere (ancorché – secondo lo stesso Heidegger – l'essere sia stato declinato in chiave ontica – come ente permanentemente presente=Sostanza oppure come ente sommo=Dio –, col conseguente annullamento della fondamentale “differenza ontologica”). Il costante riferimento all'essere, insito tesi del fondamento, è naturale per un motivo che si rivela nella coappartenenza di essere e fondamento. Semplificando: se il fondamento è fondamento dell'ente e se l'ente è propriamente “ciò che è”, allora il fondamento deve consistere in un orizzonte ontologico (l’essere, appunto) su cui quell’esistenza mostrata dall’“è” possa stagliarsi. Peraltro – come osserva lo stesso Heidegger –, il principio di ragione (quale versione moderna della tesi del fondamento) ha, soprattutto negli scritti di Leibniz, una portata controversa; infatti, all'interpretazione logica (il principio riguarda l'essere ma riflette una legge del pensiero) si contrappone quella ontologica (il principio riguarda l’essere e la sua necessità è radicata nell’essere stesso). L’alternativa logica è stata prospettata a causa del modo in cui Leibniz, in particolare nello scritto Le prime verità, tratta il principio di ragione, ossia del fatto che questo viene

36 Sul concetto di arché nel pensiero greco antico, v. le magistrali riflessioni di E. Severino, La Filosofia dai Greci al nostro tempo, Rizzoli, Milano 1996, p. 44 ss. 37 Per i vari loci in cui Leibniz tratta del principio, cf. M. Heidegger, Il principio di ragione, cit.

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dedotto dall’essenza della verità quale verità predicativa38. Secondo Leibniz, poiché la verità predicativa – il verum esse –, la quale certamente esiste, è il rapporto di inerenza – nel senso stretto dell’inesse – che lega il predicato al soggetto dell’enunciato; poiché tale inerenza consiste propriamente in una “stessità” – “Selbigkeit” –; e poiché tale “stessità”, in quanto non riducibile alla “vuota identità” di un ente a sé stesso, deve poggiare su qualcosa; ecco mostrata la necessità logica del fondamento; ed è ovvio che questo non può che radicarsi nell’essere copulativo, come si vede chiaramente – aggiungiamo qui – nelle proposizioni attributive – es. “l’uomo è razionale” – nonchè in quelle predicativo-verbali convenientemente riformulate – es. “l’uomo corre=l’uomo è corrente”. Ad ogni modo, nell’intera storia del pensiero occidentale il principio di ragione viene riferito all’essere quale fondamento; avvenga ciò nella forma “spuriamente ontologica” della tradizione metafisica (la quale fa riferimento a un rapporto tra un ente e il suo fondamento quale essere onticamente concepito), oppure nella forma “puramente ontologica” rivendicata da Heidegger (il quale afferma di accedere all'essere-fondamento nella sua purezza originaria).

6. (segue): Principio di ragione e dinamica procedimentale. Nella presente sede, pur senza mettere in discussione la correttezza del tradizionale riferimento all’essere insito nel principio di ragione, il rapporto di fondazione significato da tale principio verrà considerato in una prospettiva “radicalmente ontica”, ossia come rapporto tra due enti: l’ente fondato (es. l’obiettivo di un certo procedimento) e l’ente che in qualità di presupposto immediato e dunque non ultimo (come è invece l’essere) lo fonda (es. l’ultimo atto procedimentale previsto prima della realizzazione dell’obiettivo). Rapporto che permette poi – come si cercherà di mostrare oltre – di risalire via via, a due a due, tutti gli altri atti del procedimento, e così di delineare per l’avvenire l’intera serie necessaria al conseguimento dell’obiettivo che ha dato adito alla risalita. Che questa concezione – si noti – complementare e derivata del principio di ragione sia plausibile, si mostra se solo si riflette sulla genesi e lo sviluppo del pensiero filosofico occidentale quale pensiero ontologico. Quest’ultimo in tanto ha potuto costituirsi come tale, in quanto ha rifiutato di compiere d’un balzo, in modo propriamente mistico, il passaggio dalla molteplicità

38 G.W. Leibniz, Principia logico-metaphysica (1689), tr. it. Le prime verità (principi logico-metafisici), in: Id., Scritti filosofici - Scritti giovanili. Elaborazioni private. Il nuovo sistema, I, ediz. it. c/ di M. Mugnai-E. Pasini, Utet, Torino 2000, p. 412 s.

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degli enti all’unità dell’essere39, e ha preferito la più tortuosa ricerca dei passaggi intermedî dell’itinerario che da quelli conduce a questo. Ma se così è, se cioè, quanto meno dal punto di vista logico, il percorso che dagli enti risale al fondamento loro comune è necessariamente un passaggio attraverso gli enti, allora si può concludere nel senso della possibilità di configurare, a certe condizioni, un rapporto fondativo necessario persino tra gli enti stessi. A conforto di quest’assunto, notiamo soltanto che l’idea della concatenazione razionale quale cifra del cammino filosofico è espressa sin dall’inizio del Libro primo della Fisica aristotelica, considerato dallo stesso Heidegger “l’introduzione classica alla filosofia”40. Dice Aristotele: “È naturale che si proceda da quello che è più conoscibile e chiaro per noi verso quello che è più chiaro e conoscibile per natura (…). Perciò è necessario procedere in questo modo: da ciò che è meno chiaro per natura ma più chiaro per noi a ciò che è più chiaro e conoscibile per natura. A noi risultano dapprima chiare ed evidenti le cose nel loro insieme; e solo in un secondo momento l’analisi ci consente di individuarne gli elementi e i principi”41. Ebbene, se ci atteniamo all’accezione ontica “radicale” del principio di ragione, che è ormai penetrata nel nostro modo di pensare, affiora innanzitutto la sua forza prospettica: di ogni cosa si può dire che è (attualmente o potenzialmente) in quanto ve n’è un’altra che la fonda. Ma in verità il principio possiede anche una potenza meno appariscente eppure decisiva ai nostri fini, che si mostra nella duplicità del predicato esistenziale (è … è) racchiuso nella proposizione appena formulata; in questo senso, ora abbiamo a che fare con una potenza retrospettiva, che guarda all’essere non già della cosa fondata, bensì di quella fondante: ad ogni cosa che diciamo esistente deve corrispondere l’esistenza di un’altra cosa in qualità di fondamento. E se è vero che quest’ultima corrispondenza – in quanto esplicativa e dunque solo acclarativa – è opposta alla prima – che è implicativa e dunque costitutiva –, nondimeno è proprio nella sua configurabilità che riposa la potenza del procedimento. Infatti – come anticipato e come meglio si vedrà appresso –, se il principio di ragione consente di pensare gli enti a due a due secondo lo schema fondante-fondato, allora è possibile rappresentarsi un fine da perseguire e individuare in una ricognizione a ritroso tutti i passaggi-fondamenti intermedî che ne rendono possibile l’esistenza, cioè la realizzazione. Infine, sul piano storico, poiché l’effetto ordinatorio del principio di ragione ha un dispiegamento tipicamente discorsivo, dunque 39 Anche se poi l'intonazione ontologica della tesi del fondamento che Heidegger intende far risuonare a partire da Angelo Silesio è di questo tenore, tanto che Heidegger stesso vi scorge un “salto logico”. 40 Heidegger, Il principio di ragione, cit., p. 114. 41 Aristotele, Fisica, 184 a 18 ss. [corsivo di chi scrive].

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procedimentale, bisogna assumere che i modelli teorici e pratici sviluppati a partire da esso non poterono non seguire lo stesso corso. Si spiega così la centralità della figura del procedimento nell’esperienza umana, che è esperienza fondamentalmente razionale.

7. Fisionomia del procedimento. L’accostamento analogico tra eziologia naturale e procedere umano in precedenza compiuto consente di enucleare i lineamenti del fenomeno del procedere in generale, il quale, nella sua configurazione paradigmatica, si presenta come: – insieme di momenti (a differenza di ciò che avviene uno actu, come - ad es. - un’intuizione), – susseguentisi nel tempo (a differenza degli insiemi sincronici, come - ad es. - gli oggetti situati in un contenitore), – in un ordine che riflette uno o più principî unificatori a loro volta correlati (a differenza delle moltitudini caotiche, occasionali, come - ad es. - un assembramento di persone) – e la variabilità del quale incontra sempre, per necessità (soprattutto di tipo logico42) o per opportunità (soprattutto di tipo etico o politico), determinati limiti (a differenza dei gruppi ad assetto fungibile, come - ad es. - i gruppi matematici rispondenti alla regola secondo cui la posizione degli addendi non influisce sul risultato), – fino a un momento culminante (a differenza degli insiemi statici, di per sé improduttivi, come - ad es. - un insediamento abitativo), – che pone fine al procedere stesso (a differenza degli insiemi meramente potenziali, i quali pure hanno un inizio – altrimenti non sarebbero – ma attendono di terminare nel momento della loro attuazione, come - ad es.- un progetto di legge a disposizioni plurime ancora da approvare). I tratti tipici del procedere in generale consentono anche di comprendere le ragioni che hanno spinto lo spirito umano a emulare la natura nel dotarsi di un modo d’operare procedimentale. Esse risuonano spontaneamente nelle espressioni sopra allineate: quella di una molteplicità diacronica, unitaria, 42 Ma spesso tali limiti sono difficilmente distinguibili da (e rappresentano piuttosto il risvolto negativo de)i principi unificatori della serie procedimentale (ad es., non si può effettivamente volere ciò che non si conosce: nisi volitum nisi praecognitum).

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tipica, protensiva e realizzativa è l’immagine più efficace delle possibilità di dominio della complessità del reale che il procedere offre all’uomo. In effetti, posto che ad ogni problema deve corrispondere una risposta adeguata di segno contrario, è evidente che l’ordinata molteplicità del procedimento sembra costituire il modo ottimale per affrontare il disordine plurale della realtà. Se questa è la fisionomia di ogni procedere, l’autentico procedimento umano si contraddistingue almeno per due aspetti. Innanzitutto, per il carattere intrinsecamente razionale, e più precisamente teleologico, del suo principio unificatore: gli atti che lo compongono43, lungi dal susseguirsi macchinalmente sotto la spinta di una forza esterna che li dirige al momento terminale, si concatenano verso un fine che riflette il loro specifico assetto razionale. Ma poiché il procedimento appartiene al regno della libertà condizionata, si comprende anche come il teleologismo del procedere umano sia per certi versi affine al meccanicismo dell’eziologia naturale. In entrambi i casi la forza motrice del procedere, la volontà e, rispettivamente, l’energia cosmica, non volge senz’altro al suo obiettivo, ma solo nei limiti in cui glielo consente il principio unificatore dell’ambito in cui opera, ossia la ragione universale e, rispettivamente, la necessità naturale. Ad ogni modo, il teleologismo del procedere umano comporta che per aversi un vero e proprio procedimento non basta un insieme di atti volti ad un fine, né basta che il fine sia conseguito, ma è necessario che nel conseguimento di questo affiorino le tracce della tensione che ha animato quelli. Con la conseguenza che il carattere autenticamente procedimentale di ogni attività umana si riduce a misura che si attenua la dipendenza tra tipo di fine e tipo di assetto razionale. Inoltre, lo stretto rapporto che corre tra razionalità teleologica e procedere umano si coglie anche nel fatto che il valore che l’uomo assegna a quest’ultimo in un determinato momento storico dipende strettamente dalla concezione della ragione allora dominante: quanto più quest’ultima si indebolisce, tanto più il ruolo del procedere si svilisce. Anche questi rilievi di carattere generale si colorano in modo marcato con riguardo all’ambito del diritto, dove la crisi moderna della ragione, non disgiunta da un penoso opportunismo politico, induce spesso a modellare i procedimenti giuridici, e in particolare i processi giudiziarî, senza meditare adeguatamente sul fine che ciascuno di essi deve perseguire. Sicché il procedimento giuridico viene privato del fondamentale ruolo ordinatorio

43 Sul “carattere di azione” del procedere rituale e sulla sua importanza per l’indagine psicoanalitica, cf. il lavoro, di dichiarata ispirazione freudiana, di T. Reik, Il rito religioso, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 30 ss.

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assolto nella tradizione e degradato a spazio occasionale e tutto sommato ininfluente di svolgimento delle più disparate vicende giuridiche. Il secondo aspetto peculiare del procedere umano consiste nella sua natura simbolica, che si è rivelata comune a ogni specie di rito, ma che ora deve essere intesa in modo più ricco. In generale, il carattere simbolico del procedere umano deriva dalla sua necessaria linguisticità: dal fatto che gli oggetti sui quali tale procedere ricade non si identificano mai con i mezzi verbali di cui esso si avvale, ma ne costituiscono soltanto il significato, non di rado oscillante. In particolare, nei procedimenti delle principali sfere della vita pratica (politica, diritto ecc.), a quello linguistico si aggiunge un fattore ancora più potente di costituzione del carattere simbolico-ordinatorio del procedimento quale rito razionale. Esso è particolarmente evidente nella dimensione del processo giuridico: nell’impossibilità di prefissare una tantum l’equilibrata soluzione delle controversie intersoggettive, se ne prevede la ri-produzione, cioè la rappresentazione, a livello procedimentale. Ora la controversia non esibisce più le sembianze iniziali di una ferma e radicale contrapposizione tra diretti interessati, la quale precluderebbe ab imis ogni possibilità di composizione. Piuttosto, essa è impersonata da soggetti nuovi, coinvolti solo indirettamente (pubblico ministero e difensori) o addirittura per nulla (giudice) nel conflitto, investititi come tali di una funzione di decantazione della sua durezza originaria e chiamati a svolgere tale ruolo nei rigorosi limiti segnati dalle forme rituali prefissate. È soprattutto in quest’imponente allestimento scenografico che si mostra la funzione simbolica del processo giudiziario e l’influsso che essa esercita sulla configurazione del suo stesso tema44.

44 È proprio in questo senso che nell’ermeneutica giuridica recente si è sottolineato il carattere in parte “scenico” della comprensione (fattuale e normativa) che si attua in ambito processuale: cf. W. Hassemer. Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, C.H. Beck, München 19902, p. 122 ss.

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Vincenzo Rapone, L’al di là del solipsismo: la difficile ricerca della dimensione intersoggettiva nell’esistenzialismo francese Sartre avant Sartre: un lavoro dal titolo La Théorie de l’État dans la pensée moderne française1, segna, tra il 1926 ed il 1927, l’esordio di Jean Paul Sartre a 24 anni. Studioso promettente ma inquieto, risponde all’invito del suo condiscepolo dell’École normale supérieure, Daniel Lagache, pubblicando in inglese, sulla rivista “The New Ambassador”, un lavoro che, secondo quanto sostenuto da Michel Contat: “() Surtout dans sa premiére partie, a dû être écrit dans un argon peu clair et certainement peu élégant”, giudizio mitigato però dalla constatazione che: “() dans sa deuxième partie principalement, annonce bien des traits de Sartre tel que nous le connaissons aujourd’hui”2. Il punto di vista di Contat conferma in un certo senso quanto lo stesso Lagache aveva lasciato intendere in un’intervista del 1961, nel corso della quale sostenne che: “Rien laissait prévoir que Sartre deviendrait ‘Sartre’”3. Né si tratta di un parlare del tutto peregrino: Sartre, intellettuale intransigente e poco incline al compromesso, si dimostra, in questo scritto, effettivamente distante dal “padre” fondatore dell’esistenzialismo (absit injuria verbis), nel quale dimostra grande interesse, con uno stile contorto ma al tempo stesso con grande competenza, per la figura e l’opera di Léon Duguit, giurista e filosofo del diritto, esponente di quel positivismo dalle ambizioni scientiste di fine ‘800 – inizio ‘900, che intende emanciparsi dall’organicismo “ingenuo” di sociologi come Spencer e Comte. Il significante maître della riflessione del giuspubblicista di Bordeaux, oggetto dell’interesse del giovane Sartre, consiste nel conferire forma e senso normativo ad una categoria, come quella di solidarietà, elaborata in sede politica all’interno dell’esperienza del sindacalismo radicale, e, in sede scientifica, da pensatori provenienti da esperienze culturali assai diverse tra loro: Bouglé, Bourgeois, Durkheim, per citare solo tre dei teorici del sindacalismo, hanno assai poco in comune quanto alla loro formazione di partenza.

 A partire da Aniello Montano, Solitudine e solidarietà. Saggi su Sartre, Merleau-Ponty e Camus, Napoli 2007. 1 Cf. J.P. Sartre, La théorie de l’État dans la pensée moderne française, prima comparso in inglese sulla rivista “The New Ambassador”, 1/1927, p. 29-41, e poi riproposto in: Michel Contat e Michel Rybalka, Les écrits de Sartre. Chronologie. Bibliographie commentée, Paris 1970, p. 517-530. 2 Cf., sul punto, l’intervista rilasciata da Daniel Lagache nell’articolo di Claude Bonnefoy, Rien ne lassait prévior que Sartre deviendrait “Sartre”. Enquête sur la jeunesse du grand écrivain, in: “Arts”, 11-17 gennaio 1961. 3 M. Contat, Les écrits de Sartre. Chronologie. Bibliographie commentée, cit., p. 517.

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Il giovane Sartre, dopo aver discusso nei primi paragrafi de La Théorie de l’État dans la pensée moderne française lo sviluppo di quelle teorie giuridiche – l’istituzionalismo di Maurice Hauriou, innanzitutto, ma sono presenti riferimenti ad importanti giuristi francesi coevi di Duguit, come Gény, Davy, Jeze –, che tentano un superamento dell’ispirazione oggettivistica delle teorie di Duguit, gli riconosce comunque il merito di aver elaborato una teoria più coerente di coloro che intendevano emendarne l’ispirazione. Nella lettura che ne da Sartre, la teoria di Duguit, che in nome di un approccio empirico nega l’esistenza di nozioni come personalità giuridica dello Stato, sovranità statuale, persona fisica, soggetto di diritto, considerandole come supporti idealizzati, ipostatizzati al fine di legittimare e giustificare razionalmente situazioni di fatto, che andrebbero trattate con gli strumenti dell’empiria, risulterebbe, a conti fatti, comunque più rigorosa delle teorie ideal-realiste, o istituzionalistiche in generale. Ma è possibile davvero sostenere che questa riflessione iniziale, tutta interna al solidarismo, sia davvero estranea alla riflessione matura di Sartre, o non è vero forse che uno sfondo realista, un’autentica tensione verso l’intersoggettività, sia presente, in forme diverse, in tutta la riflessione esistenzialista? Se Sartre non diventerà uno studioso del realismo giuridico à la Duguit, è di certo perché ritiene la critica ad un certo realismo – ritenuto affetto da “illusione d’immanenza” – un obiettivo teorico degno d’essere perseguito, anche se non nelle modalità proprie di Davy e Hauriou. Così, il suo plauso all’opera del giuspubblicista bordolese non troverà alcun seguito negli sviluppi immediatamente successivi della sua opera: due scritti successivi hanno quale fulcro dell’interesse teorico non più la realtà nella sua pretesa oggettività, quanto invece la dimensione soggettiva, la coscienza individuale, centrando in senso intenzionale e relazionale la modalità in cui viene intesa la soggettività, negando esplicitamente ogni prospettiva realista. Attraverso un’originale rilettura del cogito cartesiano, gravida di implicazioni politiche, lo studioso francese evita ogni fissazione ipostatizzante della coscienza in uno dei due poli della realtà e dell’idea, dell’oggetto e del soggetto, ritenuti solo in apparenza opposti, ma lucidamente colti come coessenziali, entrambi strutturanti una concezione monista della realtà e del pensiero, esclusiva di ogni soggettività. In altri termini, la meccanica deduzione del soggetto dalla materia e del mondo dall’idea, sono considerate versioni di quella che un Sartre più maturo definirà “filosofia alimentare”, filosofia tesa cioè alla fagocitazione dell’alterità, di cui la filosofia di Hegel sarebbe un po’ l’archetipo concettuale. La nozione di intenzionalità, ripresa dalla riflessione fenomenologica, mediata dalle riflessioni di Brentano ed Husserl, serve a Sartre per evidenziare come al soggetto siano precluse le posizioni, di per sé estreme e impossibili da assumere nella loro integralità, dell’alienazione 154


nell’Altro e della separazione dall’Altro, ossia quella dell’implosione alienante del soggetto nell’oggetto, nonché quella, altrettanto estrema, propria di una rivendicazione, tautologica ed identitaria, dell’assoluta sovranità del soggetto sull’oggetto: in altri termini, attraverso la nozione di intenzionalità, Sartre è ormai orientato in una dimensione di pensiero secondo la quale al singolo, responsabile del proprio situarsi nel mondo, calato “in situazione”, è negato tanto il solipsismo radicale, esito dell’idealismo quanto di quelle filosofie che sopravvalutano l’elemento egologico-coscienziale, quanto la risoluzione della soggettività nelle maglie dell’impersonalità deresponsabilizzante del legame sociale, anomico ed uniformizzante, heideggerianamente caratterizzato dal man, sintomo dell’affacciarsi sulla scena della storia della moltitudine, la cui apparizione è congenita all’“uomo senza qualità”, per configurarsi come ribellione solo nel senso regressivo in cui la pensa Ortega y Gasset. Ritornando alle questioni poste a proposito de La Théorie de l’État dans la pensée moderne française, possiamo però dire che, per questo, le tematiche della solidarietà e del realismo siano obliate nella successiva produzione di Sartre? L’originalità di Solitudine e solidarietà di Aniello Montano, lavoro che vive nell’ambito di un ritorno al centro dell’attenzione della critica all’esistenzialismo in generale, nonché, in particolare, della figura e dell’opera di Sartre, consiste nel centrare la sua lettura dell’esistenzialismo, peraltro correttamente inteso alla stregua di una forma radicale di antiumanesimo, a partire dalla problematica costituzione del legame sociale, di un’intersoggettività travagliata e resa inquieta proprio dall’ineludibilità di nozioni quali soggettività, individualità, responsabilità: centrando la sua attenzione inizialmente su Sartre, ma perseguendo quale obiettivo di fondo l’intero bilancio dell’esistenzialismo ateo francese in tema di solidarietà, con riferimento anche a Camus e Merleau-Pony, Montano accetta e condivide la presupposizione iniziale dell’impossibilità, conoscitiva e prassica, che la pratica dell’intersoggettività e dell’alterità si fissino, univocamente, sul soggetto o sull’oggetto, sull’io o sul mondo, sullo spirito o sulla materia, derivando, rispettivamente, l’azione dall’uno o il soggetto agente dall’altro. Ora, per quanto, in questo senso, solitudine e solidarietà siano i momenti-limite in cui si fissa, seppur in senso ipotetico, l’esperire umano, che è considerato da Sartre intrinsecamente relazionale, rapporto ad altro, coscienza in-tenzionata verso l’alterità, è evidente come siffatta tensione viva, nell’ambito di tutta la riflessione esistenzialistica, di un’evoluzione significativa, che viene ricostruita con precisione filologica e con rigore critico, evoluzione che richiede però anche un bilancio critico su questo percorso. È a partire da una certa inflessione rinvenibile nell’attitudine esistenziale del giovane Sartre ma anche dei suoi scritti giovanili – è il caso del già citato 155


La trascendenza dell’ego –, che Montano scandisce le tappe di questa riflessione, evidenziando come la tensione verso l’intersoggettività, e quindi verso l’istituzione di un legame di solidarietà con l’altro, sia sempre più accentuata: prima in rapporto a quella “terzietà generalizzata” che è costituita dall’Altro in senso hegeliano rinvenibile ne L’essere e il nulla, essenziale nell’istituzione delle coscienze individuali, essa e colta sempre più in una modalità immanente nella fase successiva della riflessione sartriana, come accade a partire dai tomi della Critica della ragion dialettica. In questo senso, Montano ha tutte le ragioni per sostenere come la tensione verso una modalità sempre più immanente dell’essere-con, del Mit-dasein, costituisce il vero e proprio fil rouge del pensiero esistenzialista, e sartriano in particolare; per l’A. di Solitudine e solidarietà: “() Sartre tenterà in tutte le sue opere di rivenire un fondamento stabile e delle possibili figure concrete di questa fuoriuscita dalla solitudine e dall’approdo alla solidarietà” (ivi, p. 13). In Solitudine e solidarietà, l’analisi della costituzione e della pratica del legame intersoggettivo non avviene senza un preciso quanto polemico riferimento alle pretese ontologizzanti di certa filosofia della storia, tesa all’arbitraria elevazione del reale al livello del razionale, se non dell’ideale: non Hegel, ma il Kant che preconizza l’idealismo, il Kant, per intenderci, de Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico4, che funziona da paradigma dell’interpretazione dell’umano in quanto strutturato, da un lato, in quanto necessitato da leggi naturali, necessarie e generali, dall’altro, però, pensato come mosso da una razionalità immanente, da uno spirito sotteso, che è conferimento di valore e senso di quella stessa naturalità, prima meccanica, ora teleologica. Così: “La consapevolezza dello sviluppo regolare, necessario e progressivo della storia umana, seppure non affiora alla coscienza dei singoli uomini, si impone a quella dell’umanità, quando consideri la storia a ritroso, per individuare e sviluppare le tappe che ne hanno reso possibile lo sviluppo. Per Kant, nel corso degli eventi storici, opera, infatti, una sorta di ‘mano invisibile’, la stessa mano invocata da Adamo Smith per giustificare la contrapposizione finalistico-provvidenziale degli interessi economici contrapposti e concorrenziali dei singoli”5. Sulla scia di quest’interpretazione, riemerge quell’implicito teologico fondativo della cultura borghese, sostenuto da un atteggiamento fideistico, secondo il quale all’uomo è concesso l’agire egoistico, il meccanismo spietato della concorrenza solo nella misura in cui il perseguimento 4 Cf., I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in: weltbügerlicher Absicht, tr. it. e c/ di N. Merker, Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in: Id., Stato di diritto e società civile, Roma 1995, p. 99-112. 5 A. Montano, Solitudine e solidarietà, cit., p. 9-10.

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dell’interesse individuale è già da sempre mondato, redento, sublimato, in quanto coopera implicitamente alle “magnifiche sorti e progressive” dell’intera umanità: se il Cristianesimo ha redento i peccatori, l’opzione metafisica e l’ipostasi della trasformazione valoriale del reale, sottesi alla nascita della società borghese, nonché del borghese come “tipo umano”, hanno la pretesa di aver redento il peccato stesso, quella “cosa” che la religione finiva per “mancare” costitutivamente, rivolgendosi solo all’elemento coscienziale (è in questo senso che è possibile render ragione dell’apparente sentenza hegeliana, secondo la quale “il sepolcro di Cristo è sempre vuoto”). In Solitudine e solidarietà si evidenzia come, nell’esistenzialismo sartiano, si neghi ogni tautologico incedere proprio dell’idealismo, che ipotizza una struttura monistica, sottesa al pensiero ed alla realtà, struttura in grado di sostenere e rendere possibile lo strutturarsi concreto del reale, e ciò a favore della valorizzazione della singolarità, dell’esperienza-limite, dell’essere situazionale, opposti ad una ragione che si dice universale ma che, non supera il livello della generalità: nell’attualizzazione di tale critica, l’esistenzialismo francese trova un prezioso quanto significativo alleato in Kierkegaard, pensatore che iscrive l’esperienza religiosa nel registro dell’eccezione e della singolarità, sulla base di un aut-aut, nel cui ambito valore teologico e mondanità sono in opposizione reciproca. Si rompe l’asse natura-società: Dio o il mondo, l’esperienza religiosa o il matrimonio, al di là di ogni possibile mediazione di senso tra valore e istituzione: si tratta di un aut-aut che esclude di fatto la possibilità di legittimare la realtà a partire da una solo presunta struttura teleologico valoriale che ne supporterebbe l’incedere, conferendole valore. Per Montano, in questo senso: “Storia e natura si rivelano, perciò, legate da una relazione così stretta da autorizzare a pensare la prima come il luogo del necessario dispiegamento delle potenzialità e della piena realizzazione dei fini della seconda. La libertà umana, in tal caso, finisce per essere spinozianamente il combinato disposto della consapevolezza umana dei fini realizzati e dell’ignoranza della rete sottile e nascosta delle “spinte” e degli orientamenti, immanenti nella natura in generale, nella natura specifica dell’uomo e, quindi, nella storia. Era questo il paradigma teleologico, prodotto da un punto di vista esclusivamente teorico e, fatta salva la sostituzione della Natura con l’Idea, accolto anche da Hegel, contro cui si era battuto Kierkegaard” (ivi, p. 5). In questa prospettiva, se Sartre ritiene che le Tesi su Feuerbach costituiscano un momento ineludibile di una riflessione come quella di Marx, ritenuta ancora la “filosofia per eccellenza del proprio tempo”, capace di produrre attualità (cioè iscrizione nell’“attuosità” del fare) è perché, per il pensatore di Treviri, questa la posta in gioco, l’assunto di fondo del recupero esistenzialistico di Marx, la realtà è produzione sociale concreta, e non 157


sostenuta da un sostrato ontologico, né da un “mondo dietro al mondo”, che di fatto, invaliderebbero ogni esperienza concreta. In Marx, nella lettura che ne da Sartre, in un senso del tutto diverso dall’altro grande intellettuale francese che ha rinnovato la tradizione degli studi marxisti in Francia, Louis Althusser6, si assisterebbe al passaggio dalla ricerca di un fondamento ontologico della realtà e dell’agire morale, della ragion teorica e della ragion pratica, che vengono concepite unitariamente, ad un suo radicamento concreto, immanente: riferimento utopico al possibile e universale concreto atterrebbero entrambi ad un’“etica della situazione”, che rende problematica ogni ipostasi universalizzante del pensiero, interdicendola di fatto. In questo senso, una morale che avochi il tratto dell’autenticità come fondante, è tale da vivere e trovare il suo riscontro in sentimenti, emozioni, stati d’affezione, che devono avere come requisito l’essere effettivamente provati, ossia l’essere effettuali. La de-sostanzializzazione del reale, lo svuotamento della sua sostanza costitutiva, è operazione che si rivela produttiva ad una molteplicità di livelli: da un lato, il cambiamento, la con-versione, la “metanoia”, che ogni soggetto sperimenta su di sé, patendoli ma anche agendoli, sono possibili nella misura in cui il singolo opera una sospensione, un’epoché nei confronti del mondo come dato e del suo stesso destino di essere umano nella direzione dello svuotamento, della de-realizzazione, dell’“evacuazione” di ogni sostanza-sostrato, prima considerata fondante la sfera materiale; d’altro canto, ogni conversione attiene più agli effetti che alle “pie” intenzioni formali che la coscienza da a se stessa per giustificarsi e legittimarsi. Solo per il tramite di un preliminare lavoro di nientificazione delle strutture oggettive costitutive dell’apparente ordine oggettivo del mondo, si rende possibile un disporsi “altro” del soggetto nella sua relazione con l’alterità, laddove invece, ad un livello che non è più quello individuale e coscienziale, se non solipsistico, è il desiderio di una realizzazione “effettiva” a costituire il metro di un agire che voglia dirsi morale. Per Montano, con riferimento ancora ai Quaderni per una morale: “In questa ottica, la rappresentazione universalistica e oggettiva dei valori viene letta da Sartre ‘come segno dell’oppressione e dell’oppressione’. L’‘oggettività’, infatti, è ‘il mondo visto da un altro che tiene la chiave’ e i ‘valori’ ‘sono posti da una coscienza che non è la mia e che mi opprime’. Assumendo in proprio la tesi marxiana della filosofia come tensione a cambiare il mondo e non semplicemente a capirlo, Sartre è convinto che tale cambiamento, che egli indica con il termine ‘conversione’, ‘possibile in teoria’, ‘implicherà non solo un mio cambiamento interiore ma un cambiamento reale dell’altro.

6 Sulla collocazione di Sartre nell’ambito del pensiero marxista del ‘900, segnaliamo tra le ultime pubblicazioni, relativamente recenti, il volume collettivo, Sartre, Lukacs, Althusser: des marxistes en philosophie, c/ di E. Kouvélakis e V. Charbonnier, Paris 2005.

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In mancanza di questo cambiamento storico, non c’è conversione assoluta’”7. Ora, come Montano evidenzia con rigore, è proprio l’effettività dell’azione a costituirsi come il paradigma di riferimento di un agire morale “altro” non moralisticamente, ma moralmente inteso. Si tratta dei un punto di fondamentale importanza, che è bene puntualizzare, anche per differenziarsi da una vulgata, tesa ad associare esistenzialismo, ribellismo, nichilismo. L’esistenzialismo è assunzione di responsabilità e non azione semplicemente distruttiva, tesa all’affermazione nichilistica della mancanza di fondamento del mondo. Con grande profondità Solitudine e solidarietà, con costante riferimento al Sartre dei Quaderni per una morale, mette in evidenza come debba permanere quasi organicamente un nesso tra la sfera ideale, l’intenzione iniziale e, infine, la sua realizzazione, pena il fallimento anche dell’azione che risulta più riuscita dal punto di vista della semplice efficacia. In altri termini, il punto di vista della realizzazione di una qualsiasi intenzione non può essere considerato tautologicamente esaustivo: non ogni obiettivo, in se stesso, è degno di essere perseguito, se non sulla base della capacità di stringere organicamente il legame che unisce l’efficacia e la sfera ideale da cui l’agire ha tratto ispirazione. Innanzitutto, Montano evidenzia così come: “I soli valori autentici sono, per Sartre, quelli riconoscibili all’interno di sentimenti effettivamente provati. Questa affettività, intesa come la modalità psichica dell’uomo capace di orientarne la scelta, va, però, considerata avente quale punto di riferimento la natura e il carattere del soggetto stesso” (ivi, p. 56). Sentimenti effettivamente provati, aventi quali punti di riferimento “la natura e il carattere del soggetto”, ossia, diremmo noi, il suo radicamento concreto, immanente, situazionale, la preminenza di vissuti reali a vissuti puramente immaginari, in cui la dimensione dell’immaginazione esprime, negativamente, una fuga dalla cogenza della realtà, un misconoscimento del concreto. Il tema dell’effettività si pregna di un suo spessore concreto nella misura in cui: “La logica dell’azione effettiva, proprio per puntare alla realizzazione del nocciolo dell’idea vera che la sollecita, deve rapportarsi alla morale concreta e storica, che affondi le sue radici più profonde nella difesa della vita degli innocenti e nell’impegno a incrementare la libertà civile e politica di tutti gli uomini. Deve darsi essa stessa una misura, con l’obbligo di non oltrepassarla. Pur considerando le tesi di Camus rispondenti allo spirito della rivolta, intesa come testimonianza umana e non politica, a fronte delle sue, informate allo spirito della rivoluzione, e quindi, ancorate ad una maggiore attenzione all’oggettività della situazione e a più esplicita intenzionalità politica, Sartre, 7

A. Montano, Solitudine e solidarietà, cit., p. 54.

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nei testi ricordati, sembra proporre una morale, che, nata dall’uomo inteso come agente storico, trovi in se stessa, come quella dell’amico-rivale, il limite per sviluppare appieno tutta la sua efficacia” (ibid.). Montano ribadisce, in sintesi, come l’agire non debba situarsi in rapporto alla semplice efficacia, alla produzione di risultati concreti, utili per chi li compia, quanto alla sua dimensione effettuale, intendendo quest’ultima come area di intersezione tra efficacia e idealità: l’azione nasce sì dal fare, ma vi è l’obbligo che essa tragga la sua ratio più profonda dal rapporto con l’idea che l’ispira, a cui l’azione sempre deve restare subordinata. Sono parole che potrebbero fungere da monito non solo per una certa destra strutturalmente “efficientista”, poco attenta alla dimensione dell’agire soggettivo, mossa com’è da imperativi di modernizzazione, ma anche per la sinistra, istituzionale e non, di oggi e di ieri, i cui esponenti hanno ritenuto essere materialisti e realisti, in filosofia come in politica, anteponendo costantemente il raggiungimento dello “scopo concreto”, e cioè di un potere che non è espressione di egemonia culturale e sociale, ad ogni “finalità ideale”. La logica del “tutto è permesso”, garantita presuntuosamente da una superiorità culturale e morale tutta da dimostrare, presupposta perché essa stessa non effettuale, quella del “fine che giustifica i mezzi” e che si traduce nella costante interversione di mezzi e fini, non è materialista o realista in senso filosofico, come sostengono coloro che la perseguono, ma è materialista in senso aspecifico, se non grossolano. Se da un lato è vero, come ha sottolineato la Kristeva nel suo Sen set non sens de la révolte, che il rivoluzionario, così come, più in generale, il ribelle, colui che contesta la struttura presunta oggettiva della società, opera, autocraticamente, un “congelamento” della morale vigente, riducendola a puro formalismo e giungendo a considerare, in nome di una razionalità superiore, la sfera del diritto, nonché i diritti individuali, alla stregua di un semplice velo, di natura ideologica, teso a mistificare rapporti oggettivi di dominio, è anche vero che, nella riflessione esistenzialistica, e in particolare in Sartre, non tutto è concesso all’uomo in rivolta: ogni anelito rivoluzionario, ogni contestazione della fissità dell’ordine esistente, trovano, secondo Sartre, nell’effettività e non nell’efficacia una cornice alla loro azione. Quanto detto vale, dunque certamente per la cultura del rivoluzionario, e, più in generale, del ribelle: se l’uomo è costante edificazione di se stesso, fautore del suo proprio destino, è perché, se non naturalmente, di certo spontaneamente, è l’essere che, contrariamente all’animale, è capace di ribellione, qui intesa come modificazione dell’ordine presunto costituito e immutabile del mondo, essendo “da sempre” al di fuori di quell’ontologia fondamentale che, dopo aver idealmente ed ideologicamente celebrato i fasti dell’umanesimo, riduce poi l’uomo a ente calcolabile, se non, in definitiva ad un oggetto. Ma se, per un verso, l’esistenza è rivolta, ciò non vuol dire che tutto sia concesso; Sartre 160


evidenzia come esistenzialistica sia non l’esaltazione di un’immanenza sganciata da ogni idealità, quanto, più concretamente, quella processualità che è in grado di render ragione del proprio agire, del progetto originario del soggetto o del gruppo. In definitiva, la morale in Sartre diventa un fatto sempre più radicato nell’immanenza: “Nella complessiva rivoluzione ‘antisostanzialistica’ portata avanti da Sartre, anche il concetto di morale ha subito una mutazione assai significativa. Alla morale incentrata sull’essere e sui valori che lo connotano in maniera universale e imperativa si oppone una morale rapportata alla ‘situazione storica’, alle relazioni concrete tra gli uomini in un dato momento storico, una morale orientata verso il fare, e portatrice di obblighi precisi e circostanziati, miranti a realizzare fini specifici e particolari. Il che comporta, come già accennato, l’impossibilità di una ‘conversione’ assoluta, la mancata realizzazione della società assoluta e perfetta, in cui tutti abbiano realizzato la loro personale ‘conversione’” (ivi, p. 58; non per questo, però, risulta avulsa da un quadro ideale, da un progetto ideale di riferimento. Dopo aver enucleato a fondo la problematica del rapporto tra necessità di un agire intersoggettivamente connotato e moralità propria dell’agire, due capitoli “fuori serie” (dal titolo, rispettivamente, Jazz e musica seriale nella filosofia libertaria di Sartre e Sartre turista engagé in Italia) completano il discorso relativo all’intellettuale francese, presentandolo in una veste forse ancora poco conosciuta alla critica e al pubblico, ma non per questo meno interessante: musica jazz e turismo impegnato si costituiscono, nella lettura che ne offre Montano, quali momenti della costruzione di un possibile rapporto con l’alterità, di un possibile Mit-dasein, nell’ambito di un approccio sempre più vicino al materialismo, approccio eccedente ma comunque interno all’iniziale approccio di stampo fenomenologicoesistenziale, costituendone, al tempo stesso, un’originale declinazione. A partire da quest’assunto, a partire dalla messa in evidenza della polemica contro quel sostanzialismo che sostiene una certa idea di progresso, inteso qui come conferimento di senso e valore alla realtà, emerge progressivamente quella che è la tesi di fondo di Solitudine e solidarietà, ossia che il desiderio di superare il nichilismo implicito in certe filosofie della storia, incluso l’idealismo, in nome di una morale “concreta”, votata all’essere in situazione e all’intersoggettività, rimanga, in Sartre, incompiuto: il recupero delle dimensioni della corporeità e dell’alterità non sarebbe portato fino in fondo dall’intellettuale francese, permanendo una scissione tra le dimensioni della materialità e della soggettività, che avrebbe conseguenze sulla stessa azione, irrealizzandola. Tra dato e costruito, tra in sé e per sé, tra necessità e libertà permarrebbe, ne l’A. de L’essere e il nulla, una frattura che non si risolve in modo unitario: l’esistenzialismo sartriano 161


si iscriverebbe nell’ambito di un’irrisoluzione “tragica”, per cui il sentito bisogno di intersoggettività, di alterità, sempre più presente nell’opera di Sartre a partire dagli anni ’40 e rinvenibile pertanto soprattutto a partire dai suoi Quaderni per una morale (che tra l’altro Montano è stato il primo a tradurre, seppur parzialmente, in Italia, nel 1984, e a commentare in modo esaustivo in Note sartiane per una morale8) così come nei poderosi tomi de la Critica della ragion dialettica, avrebbe quale esito un solo parziale superamento della tensione egologica di partenza, tutto iscritto nell’orizzonte di possibilità delineabile a partire dallo scritto su La libertà cartesiana. Ora, nel caso della musica, l’amore di Sartre per il jazz testimonia ed esemplifica quella tensione creativa, poetica, che non può derivare da nessuna scrittura a-priori, da nessuna partitura; come ricorda Montano: “Sartre è il tipico intellettuale francese a tutto tondo. Si interessa di letteratura, di teatro, di arte, di filosofia, di musica. Il suo interesse per tutte queste forme di sapere non è mai superficiale, né si esprime soltanto nella semplice registrazione di quanto avviene in questi campi” (ivi, p. 64). È scandagliato, in particolare, il rapporto tra engagement artistico e musica, mettendo in evidenza come la posizione di Sartre sia critica tanto di una certa estetica realista (legata al realismo socialista tardo-lucaksiano), quanto dell’approccio formalista, autoreferenziale ed estetizzante, della musica cosiddetta d’avanguardia. In questo senso: “Il richiamo alla corporeità, alla materialità, ai metodi analitico e sintetico, la eventuale funzione emancipativa della musica sono tutti elementi indiziari che meglio fanno comprendere la struttura unitaria del pensiero sartiano, il suo irradiarsi in ogni settore della creatività umana, in ogni forma espressiva dello spirito. E dovunque si conferma l’inquietudine, la tensione della coscienza umana, protesa a realizzare la sintesi, l’unione di soggetto e mondo, di per-sé e insé , di individuo e società, tensione, però, destinata a non essere mai compiuatamente soddisfatta, se non proprio votata allo scacco” (ivi, p. 86). Schönberg, in particolare, è considerato un po’ l’esempio dell’artista elitario, che fonda, basandola sulla sua stessa persona, una pratica formalizzata, pura, avulsa da ogni riferimento alla materialità. Sartre entra nel dibattito sulla musica dodecafonica da musicista appassionato, senza però essere un esperto, e lo fa rispondendo ad un invito, quello di René Leibowitz, che lo invita a scrivere una Préface al suo testo L’artiste et sa conscience9. Nel complesso, il giudizio di Sartre sulla musica

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Cf. A. Montano, Note sartriane per una morale, Napoli 1984. Cf. R. Leibowitz, L’artiste et sa conscience, Paris 1950. Su questo testo, cf., in particolare, E. Matassi, René Leibowitz e Sartre, in: “Bollettino Studi Sartriani. Gruppo ricerca Sartre”, Anno I, 2005, p. 89-94. Sulle questioni relative all’estetica musicale in Sartre, ci 9

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d’avanguardia, e, in particolare sul percorso compiuto da Schönberg nel passaggio dall’atonalità alla dodecafonia non è privo di una venatura polemica, legata all’argomento secondo cui il musicista viennese avrebbe per lo più rielaborato forme pregresse, senza però riuscire a realizzare quel cambiamento pure preconizzato dalla sua ispirazione. A proposito di un’opera come il Pierrot Lunaire del 1912, ad esempio, l’accusa è di aver solo dato l’impressione di rendere elementi di materialità e di corporeità, giocando sull’equivoco di uno stadio intermedio tra voce parlata e cantata. In definitiva, per Sartre, la musica dodecafonica “mancherebbe” quell’impegno cui tanto anela, non riuscendo a farsi veicolo di una trasformazione stilistica in grado di rendere compiutamente le istanze emancipative del proprio tempo. Per quanto attiene l’opera di Schönberg, la sua interpretazione in chiave fenomenologia rende possibile una lettura in grado di articolare il passaggio tra la prima fase della sua opera, quella atonale ed espressionista, mossa da un’ispirazione legata al purismo, alla seconda, caratterizzata invece dalla codificazione dodecafonica. Nel complesso, Sartre rivela una certa diffidenza nei confronti della musica dodecafonica, evidenziando come essa strutturalmente “manchi” quella liberazione, estetica e politica, che pure si da come programma: le ragioni di tale “mancare” sarebbero da ricercare, questo il tenore della critica di Sartre al livello della Préface al testo di René Leibowitz, nell’assenza di ogni mediazione propria della sfera materiale: il musicista viennese riconoscerebbe tale mediazione solo su un piano intellettualistico, astratto, per poi negarla al livello di quel ben più complesso intreccio di materia e forma, costitutivo do ogni opera che avochi a sé l’aggettivo di artistica. Per Montano, giustamente: “La mancata rottura del canone ha come conseguenza il mancato rinnovamento anche del riferimento sociale e della funzione ‘politica’ della musica. Rimane musica ‘borghese’, per una borghesia che ama dirsi illuminata, ma che incapace di uscire da una situazione ‘alienata’ dei rapporti sociali” (ivi, p. 78). Nella linea associativa legata alla questione della materialità, acquista rilievo la scoperta sartriana della musica jazz, risalente agli anni venti, oggetto di una rivalutazione che distanzia radicalmente l’intellettuale francese dalle posizioni, ben più critiche sull’argomento, di Adorno, che condivide con Sartre la griglia teorica di partenza. Così: “Nel dancing l’Olympia, Sartre ascolta le prime musiche jazz. Su questa esperienza, scrive due testi, si tratta probabilmente di due frammenti. Nel primo, afferma che il jazz gli sembra una musica utile per conoscere ragazze. Nel permettiamo di rimandare a: S. Giacometi, V. Rapone, Spuren: materialità del segno e dimensione politica nelle riflessioni sartiane sulla musica, in: “Atti dell’Accademia Pontaniana”, vol. 53, 2004, p. 29-56.

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secondo, all’interno di questo tipo di musica segna delle differenze e afferma di amare molto alcune di queste musiche ‘très rare’, come Stumbling, When Buddha Smiles, il Fox Trot della nostalgia” (ivi, p. 66). Quella che normalmente passa per improvvisazione sembra a Sartre l’esemplificazione creativa della conversione all’effettualità cui si faceva cenno sopra, quale attualizzazione dell’in-tenzionalità, gesto perpetuamente creativo, in grado di ribaltare gerarchie consolidate e modalità di espressione dei singoli e dei gruppi, siano essi nella posizione di musicisti che di ascoltatori: non a caso, in Solitududine e solidarietà, si richiama all’importanza di un brano di musica jazz nell’economia complessiva del romanzo d’esordio di Sartre, La nausea. Some of these days funziona da “cornice attiva” della liberazione del protagonista del romanzo, Antonio Roquentin, da un impasto fusionale di ricordi opprimenti e pulsioni irrazionali, entrambi legati ad emozioni e vissuti, entrambi segnati da una ripetizione alienante. Così Merleau-Ponty sul punto: “Alla fine della Nausea un’aria musicale offriva finalmente qualcosa d’incontestabile. Ma non per caso Sartre aveva scelto Some of these days per questa elevazione finale. Rifiutava così in anticipo la religione dell’arte e le sue consolazioni. L’uomo può superare la sua contingenza in quello che crea, ma ogni espressione, allo stesso titolo della Grande Arte, è un atto di nascita dell’uomo. Il miracolo ha luogo dappertutto e raso terra, non nel cielo privilegiato delle belle arti. Il principio dell’ordine e quello del disordine, sono solo un principio, la contingenza delle cose e la nostra libertà che la domina sono fatte con la stessa stoffa”10. Il rapporto del musicista jazz con il proprio strumento, traduce bene l’idea che ha Sartre dell’intenzionalità, rapporto dialettico tra un soggetto ed un oggetto compenetratesi a vicenda in un rapporto non gerarchico, ma di trasformazione e mutazione reciproca, rapporto che è, a tutti gli effetti, di risignificazione continua, perpetua creazione di senso: i concerti, le esecuzioni improvvisate di musica jazz, incarnano per Sartre quel poliverso materialistico che muove le differenze contro la tautologia identitaria della musica seriale. Sono altrettanto suggestive, nonché di piacevole lettura, le pagine dedicate da Montano ai soggiorni di Sartre in Italia: Milano, Torino, Venezia, Roma, Napoli11, sono città oggetto di un’attenzione costante nella vita del filosofo, che teneva moltissimo all’Italia e che aveva in animo la scrittura di un testo mai portato a compimento, dal titolo La Reine Alberarle ou le dernier touriste, in cui avrebbe dovuto specificare la dimensione 10 M. Merleau-Ponty, Sen et non sens, Paris 1966, tr. it. P. Caruso, Senso e non senso. Percezione e significato della realtà, Milano 2004, p. 65. 11 Montano è stato, tra l’altro, traduttore e curatore dell’edizione italiana di una raccolta degli scritti di Sartre, Spaesamento. Napoli e Capri, Napoli 2000, resoconto del soggiorno dell’intellettuale francese nel Sud-Italia.

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materiale e corporea, sottratta al semplice rapporto con le cose e a quella dimensione introspettiva propria dell’approccio fenomenologicoesistenziale proprio de La nausea, per aprirsi ad una dimensione non più esclusivamente descrittiva, quella della storia, dell’intersoggettività, in grado di tenere conto della solidarietà tra umani e tra uomini e cose, ossia della costruzione della realtà come divenire, mediata e resa possibile dalla socialità e dal lavoro, intesi entrambi come processi dotati di intelligibilità. Non senza, però, una certa ripresa delle tematiche esistenzialistiche dell’Essere e il nulla, ripresa esemplificata dal giudizio sulla Roma Barocca, nel cui ambito, il vuoto caratterizzante quest’estetica non un sarebbe dato, originario ed ineffabile, quanto, il prodotto di una determinazione dell’essere e della pienezza stessa. Il vuoto, quindi, non si configura alla stregua di una dimensione originaria, quanto di una produzione artificiale, tesa al raggiungimento di un effetto artificiale; così: “I grandi spazi vuoti creati dal barocco – cortili come piazze d’armi, scaloni monumentali, lunga teoria di immensi saloni – nascono proprio dalla distruzione del pieno. Un palazzo barocco, come palazzo Altieri, più estende la sua pianta e crea sporgenze all’esterno più crea il vuoto all’interno. La distruzione del dedalo delle viuzze medievali e delle casupole della povera gente contribuisce a creare il vuoto anche all’esterno del palazzo. Il barocco, come espressione della modernità nella Roma dei papi, agli occhi di Sartre si presenta come furia distruttrice”12. La passione del fenomenologo inquieto consente a Sartre, questo è il suo innegabile merito, di “estrarre dalle sembianze esterne il carattere interno e profondo delle cose” (ivi, p. 106): in definitiva, Solitudine e solidarietà evidenzia come solo attraverso una morale che si strutturi nell’agire “in situazione”, ritrovi quella capacità dell’uomo di mettere in parentesi l’oggettività preconfezionata dei rapporti storici e sociali, che aveva costituito il nucleo della sua riflessione giovanile, a partire da scritti come La libertà cartesiana e Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, acuendo così la profondità della sua analisi. Se è rinvenibile un nesso di continuità, caratterizzante tutta l’opera dell’intellettuale francese, al tempo stesso, però, si dimostra come quella tensione ad un compiuto superamento del nichilismo, intrinseco al solipsismo iniziale, sarebbe, seppur parzialmente, inevasa, ossia non del tutto compiuta: pur recependo progressivamente le dimensioni della necessità, della corporeità, della materialità, il perenne movimento di nientificazione operato su di loro dalla coscienza sarebbe costante, al punto che una vera sintesi unitaria di soggetto ed oggetto, di io e mondo, non ci sarebbe, relegando Sartre proprio in quell’ambito solipsista da cui pure si 12

A. Montano, Solitudine e solidarietà, cit., p. 96.

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era voluto liberare a tutti i costi: in definitiva, la fuoriuscita, teoretica e prassica, dell’orizzonte scindente della prospettiva cartesiana, pur contrastata sin dall’inizio dallo stesso Sartre, non sarebbe del tutto riuscita. Il problema che si pone a questo punto Montano è quello di segnare un bilancio del tentativo sartiano di costituire “concretamente” l’intersoggettività: in questo senso, lo storico del diritto si dichiara ammiratore di uno stile di ricerca che si tenga equidistante dell’implosione della singolarità nell’universalità o nell’individualità, correndo il rischio in entrambi i casi di patire un esito nichilistico, ma non può non constatare come la filosofia sartriana non fuoriesca da un pessimismo di fondo, sulla scorta del quale resta segnata da un’irrisoluzione, da un happy end, assimilabile alla dimensione del tragico. Così: “La coscienza sartriana, pur agitata da continue e ricorrenti tensioni alla solidarietà e alla possibile costruzione di un paradigma intersoggettivo, significativo e duraturo, sembra destinato a registrare solo delusioni e sconfitte” (ivi, p. 13). Ecco la tesi che sostiene, fondamentalmente, questo lavoro. Benedetto Croce, della cui filosofia Montano è attento lettore, senza per questo considerarsi un suo epigono, avendo maturato un’attitudine al lavoro di storico della filosofia in gran parte indipendente dall’idealismo crociano13, dalle cui ombre parte del mondo universitario non è ancora riuscita ad emanciparsi, nelle sue Pagine sparse esprime il seguente giudizio nei confronti dell’intellettuale francese: “A me pare che egli, come altri pensatori del lignaggio al quale appartiene, tra i quali lo Husserl e lo Heidegger, siano indagatori spesso sottili delle operazioni dell’anima, ma storicamente, per così dire, ‘spaesati’. Per loro, la rivoluzione filosofica che, iniziata in Italia ai primi del Settecento, più intensamente si svolse dal Kant allo Hegel, è come se non fosse stata: essi riprendono quei problemi da capo, o magari, come fa il Sartre, riattaccandosi al solo Cartesio. () Ora qui non si dice che i sistemi di quei filosofi abbiano carattere definitivo () ma si vuol dare risalto alla verità che in essi la mente umana si avviò verso una spiritualità che unifica terra e cielo, ideale e reale nella concezione della storia, e che a tal fine venne tentando una nuova logica, che si chiamò dapprima la sintesi apriori kantiana e poi la dialettica hegeliana: tutte cose delle quali Cartesio non sapeva nulla”14. Ora, da un lato Montano mostra di condividere l’orientamento ed il tenore della critica crociata, differenziandosene però, nella misura in cui ritiene che ciò che in Sartre v’è di incompiuto sarebbe portato a compimento da Merleau-Ponty; il capitolo 13 La concezione metodologica sottesa al lavoro di storico della filosofia di Montano, avverso ad una concezione continuistica della storia del pensiero nonché assertore di un metodo che coniughi filologia e realismo, è rinvenibile nel suo Opsis idea. Figure e temi della filosofia europea da Hobbes a Croce, Napoli 2005. 14 B. Croce, Impressioni su Sartre, in: Id., Pagine sparse, Bari 1949, p. 167.

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dal titolo Sartre e Merleau-Ponty. Un incontro impossibile, costituisce l’esplicitazione di questa tesi. La posizione di Merleau-Ponty non può essere ridotta né all’idealismo, né al realismo: sul punto in questione, è possibile scorgere quel “filo rosso” che la lega indissolubilmente con quelle tensioni che caratterizzano l’opera di Sartre, sin dal suo esordio. Come sostiene Paci: “Egli pensa che l’idealismo e il realismo siano delle astrazioni. Tutta la sua opera è una continua rivendicazione di un ‘modo d’essere’, come egli dice, che non cade mai né in una posizione idealistica, né in una posizione realistica. Espresso in altro modo, ciò vuol dire che non si può porre un dualismo assoluto tra il soggetto e l’oggetto: soggetto e oggetto sono l’uno nell’altro e non è mai possibile separarli, come non è mai possibile separare l’anima dal corpo. Il soggetto non è un osservatore assoluto, distaccato dal mondo; l’oggetto non è una realtà trascendente, distaccata dal mondo con cui gli uomini lo percepiscono, anche se è vero che gli uomini, proprio attraverso la percezione, si rendono conto che c’è una realtà anche quando l’uomo non percepisce nulla. Ma di ciò, si noti, si rendono conto sempre e soltanto a partire dalla percezione”15. L’A. di Umanesimo e terrore sarebbe riuscito più di Sartre nel superamento di quell’orizzonte egolocico-coscienziale da cui il “padre” dell’esistenzialismo non si sarebbe mai del tutto emancipato, pensando al pre-categoriale, all’ante-predicativo, al mondo del vivente, al Lebenswelt, come le dimensioni del coappartenere di essere e alterità, in un’area che si situa al limite tra ciò che è dicibile e ciò che non lo è, tra ciò che è rappresentabile e ciò che non lo è. Per Merleau-Ponty, l’individuo non si costituisce come libero negando l’in sé, la sfera del dato che pretende di assorbire la libertà, assorbendola e de-finendola nella sua integrità: l’esistente, al contrario, si presenta come sfera di significati sedimentati e mediati, in grado di orientare preliminarmente l’azione del singolo e dei gruppi. Così, Merleau-Ponty realizzerebbe l’istanza, condivisa da Sartre (si pensi alle riflessioni di quest’ultimo sull’impossibilità di una totalizzazione definitiva, di una totalizzazione di tutte le totalizzazioni, impossibilità polemicamente ribadita contro la sintesi degli idealisti, e in particolare di Hegel) ad una conoscenza che si neghi a quella dimensione “pan-ottica”, onniprevidente, a quel sapere falsamente oggettivo, “a volo d’uccello”, proprio della filosofia come metafisica, portando però più compiutamente a fondo una sintesi di soggetto e oggetto, di io e mondo che sottrarrebbe l’esistenzialismo alla sua dimensione di irresoluzione “tragica”, entro i cui limiti sarebbe circoscritta da Sartre. La conoscenza, per Merleau-Ponty, è “evento figurativo”, attenendo ad una perenne “questione infantile”, e ciò nella misura in cui ciò che “ne va”, 15

E. Paci, Introduzione a M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, cit., p. 11.

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ciò che è “in gioco” è la dimensione del pre-linguistico, iscritta nella corporeità, che costruisce la stoffa essenziale della conoscenza, il luogo di un’insopprimibile mediazione che è, da un lato, negazione di ogni accesso originario, ma anche, come detto in precedenza, il luogo elettivo dell’unico possibile accesso all’intersoggettività, all’essere-con-altri. La peculiarità dell’approccio di Merleau-Ponty si rivela feconda proprio nell’ottica di una rilettura delle istanze sartiane; in questo senso: “In un articolo pubblicato qualche mese prima quelli raccolti in Humanisme et Terreur, Merleau-Ponty aveva già fornito la risposta alla domanda che Sartre si era posto in Matérialisme et révolution su come un materialismo potesse essere dialettico, vale a dire su come potesse contenere in sé un elemento attivo, in grado di innescare un movimento produttivo del nuovo. Merleau, con la sua lezione, lascia capire che l’impostazione dualistica di Sartre era di per se stessa ostacolo alla comprensione della dialettica. La ‘materia’ così come la ‘coscienza’ non può essere considerata a parte. Essa è parte coessenziale del sistema della coesistenza umana. Contribuisce a fondare una situazione comune a tutti gli individui e a rendere possibile una linea di sviluppo e un senso della storia” (ivi, p. 119). La libertà non è possibile fondarla sulla base della pura e semplice negazione della sfera del dato, dell’in sé; in questo modo, il pensiero permarrebbe fisso nelle spire di un’egologia mai trascesa definitivamente, nonostante gli sforzi in senso contrario. Un agire costruito sul costante conato alla nientificazione della datità, dell’in sé, non riuscirebbe a sottrarsi al nichilismo in modo compiuto: è nella dimensione sociale della significazione, nell’insieme di stratificazioni mediate dalla donazione e dal conferimento di senso e significato, che si configura il vissuto dell’attività di singoli e gruppi, nucleo di senso che risulta già “da sempre” al di là di ogni opposizione tra soggetto e mondo, tra essere e doveressere, tra ideale e reale, tra contingenza e libertà, tra in sé e per sé. Ed è in questa linea associativa che Montano evidenzia, con coerenza argomentativa e vigore critico, come il problema del conferimento di valore alla sfera dell’agire umano riguardi problematicamente anche la riflessione di Camus, rappresentante di un ateismo che solo superficialmente può esser associato ad una negazione nichilistica del valore intrinseco dell’agire, nichilismo che potrebbe essere supportato da un’interpretazione superficiale del tema dell’assurdo: all’A. de La Peste e de Il mito di Sisifo sono dedicati gli ultimi capitoli di Solitudine e solidarietà. In Camus, così come in Sartre, la riflessione sull’esistenza si configura come un questionare problematico nell’orizzonte costituito dalla perdita di quei riferimenti valoriali che, tradizionalmente, ne avevano strutturato l’azione; tra questi sistemi di riferimento culturali, alla religione spetta, di certo, un posto di assoluto rilievo. Da questo punto di vista, la posizione dell’intellettuale francese ha una sua precisa originalità: la sua prospettiva si collocherebbe tanto oltre 168


l’approccio umanistico al problema dell’assenza di Dio, del non-senso dell’esistenza, quanto la prospettiva solidaristica. Per approccio umanistico si intende qui l’accettazione virile, come la intende Croce, della mancanza di fondamento dell’esistere, mentre per prospettiva solidaristica, si intende qui la possibilità di costruire sul versante dell’intersoggettività un’alleanza tra uguali: entrambi, per Camus, non sarebbero altro che il simulacro di una nuova paternità, ossia il tentativo di restituire fondamento e senso a quell’agire che la “morte di Dio” come evento ha radicalmente questionato quanto al suo valore. Se da un lato, dunque, l’uomo elabora, reattivamente, sistemi metafisici e religiosi, quale rivolta nei confronti della sua condizione di essere finito, per acquisire uno statuto “altro” da quello dell’essere mortale che è, dall’altro, la felicità come esperienza filosofica si costituisce come scelta della propria finitudine, scelta inconcussa ed elitaria che, per una volta positivamente, separa l’umano dal divino. In questo senso, la filosofia dell’assurdo è anche filosofia critica di ogni ancoraggio sicuro, di ogni aspirazione trascendentalistica, di ogni teleologia, di ogni sistema culturale, e tra questi, al primo posto vi è il diritto, la cui funzione sarebbe di costituire per l’umano una rassicurante protesi di fronte a quel nulla che lo abita. Molto felicemente, Montano evidenzia come in Camus la presa di posizione a favore della finitudine sia a tal punto radicale che la differenza tra solitaire e solidaire diventa impercettibile: la via indicata in testi come Il mito di Sisifo, L’uomo in rivolta, Lo straniero, allora, è considerata una delle possibili strade del superamento di quel nichilismo, orizzonte insuperato dalla filosofia di Sartre. Nella lettura proposta in Solitudine e solidarietà, l’uomo camusiano non cessa di relazionarsi al mondo nemmeno per un attimo in una prospettiva che non sia quella dell’intransigente delusione, derivata da uno sguardo lucido e intransigente, che non può che constatare l’inesistenza di Dio, interrogando problematicamente lo scandalo relativo a tale mancanza. Siffatta delusione, però, è foriera della possibilità-potenzialità che l’uomo, nietzschianamente, voglia quella ripetizione dell’identico che lo segna come essere finito, quasi fosse prodotto della sua stessa volontà, atteggiamento sulla base del quale il mondo può schiudersi al singolo quale dimensione estatica di bellezza e di profonda solidarietà con il cosmo, che sarebbe rinvenibile al livello della raccolta giovanile di racconti che ha per titolo Nozze; cornice di quest’incontro – per l’appunto nuziale – tra l’uomo e la natura, è il Mediterraneo, luogo tanto di un felice quanto fecondo incontro tra l’uomo e la natura, quanto del reperimento di una regola aurea, di una misura immanente che è polemicamente liberatoria degli eccessi indotti dalla tensione totalizzante a una perfezione in-umana, che si traduce per i singoli solo in un movimento di interiorizzazione. Se Nietzsche vuole 169


redimere il vivente dai redentori, per Camus filosofo “mediterraneo”, questa tensione al radicamento, alla “fedeltà alla terra” può aver luogo solo in una cornice naturale che fa sì che l’esperienza ritrovi il suo pulsare gravitando in un centro e situandosi in una misura che è evento, da reperire volta per volta, e che non può essere oggetto di rilevazione quantitativa: da qui deriva quella che potremmo definire la sua impoliticità. Montano evidenzia come, mentre in Nietzsche, nonostante le dichiarazioni d’intento, l’eterno ritorno sarebbe segnato ancora da un desiderio redentivo, quello della trasvalutazione dell’esistente in nome di una volontà di potenza sovrana, in Camus, invece, questa tensione ancora religiosa verrebbe meno, e il compito dell’uomo sarebbe, invece, di “prendere sul serio” un’esistenza sottratta all’orizzonte tragico, per essere consegnata all’inemendabilità di un essere-in-situazione che, nella sua solidarietà alla contingenza e alle ragioni della finitudine e della temporalità, non cesserebbe di evidenziare il suo carattere “assurdo”: si evidenzia come il compito dell’uomo nella fase della sua emancipazione da ogni riferimento “paterno” il compito dell’umano emancipato, sia quello del reperimento di una misura che sia nelle cose stesse, simbolo vivente dell’unione dell’uomo con la natura, unione eventuale che non può essere garantita e legittimata da nessuna legge sovra-ordinata all’umano. Al tempo stesso, però, il reperimento di questa misura deve controbilanciare la tendenza, tutta narcisistica, dell’uomo che si equipara a Dio: l’umano non deve cedere alla tentazione di obliare l’assenza di Dio mitigando il proprio sguardo, attutendo l’asperità dell’ordine delle cose, cessando di cogliere lo “scandalo” che l’evento della “morte di Dio” produce nell’ordine mondano, mistificando la radicale insensatezza di quest’ultimo, obliata dalla fantasia, sottesa ed inconfessata, di essere lui stesso Dio. L’Appendice, dedicata al filosofo messicano José Gaos, completa felicemente un volume che ben si inscrive nell’attuale rinascita di interesse per l’esistenzialismo francese, e per l’opera di Sartre in particolare, interesse in cui solo limite è, agli occhi della ricerca impregnata di accademismo, di non costituirsi in quell’orizzonte rifondativo da un lato, ma collusivo e tranquillizzante dall’altro, con cui la filosofia come sapere della totalità cerca, a tutt’oggi, di costruire quadri sociali di conoscenza che possano, plausibilmente, mediare tra realtà e valore, al fine di garantire ciò che, agli occhi di una ragione critica, è inemendabile: la vita stessa. Solitudine e solidarietà costituisce, in definitiva, un momento di questo recente ritorno d’interesse: la riflessione critica torna a scrutare, con sguardo disilluso ma non accondiscendente, il non-senso del mondo, la sua ineffabile trama, costruendo un momento “altro” nell’ambito di una ricerca positiva del valore, non segnata da “nichilismo passivo”, valore inteso in rapporto ad un’ulteriorità di senso, potenzialmente fondativa di un legame “solidale” tra 170


l’uomo e il mondo, legame che sappia render conto della sua inemendabile e costitutiva finitudine, ma che, allo stesso tempo, non sia obbligante nel senso normativo del termine.

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FILOSOFIA E TEOLOGIA

Luigi Ceccarini, Fede e teologia Benedetto XVI nel suo discorso tenuto in occasione del “premio Ratzinger” ha affermato: La teologia è scienza della fede, ci dice la tradizione. Ma qui sorge subito la domanda: è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? Non cessa la fede di essere fede, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza quando è ordinata o addirittura subordinata alla fede?

Il Papa, per rispondere, si è rifatto a una distinzione di san Bonaventura, oggetto di molti studi da parte del giovane Ratzinger. Egli ha parlato di un duplice uso della ragione – di un uso che è inconciliabile con la natura della fede e di uno che invece appartiene proprio alla natura della fede. Esiste, così si dice, la violentia rationis, il dispotismo della ragione, che si fa giudice supremo e ultimo di tutto. Questo genere di uso della ragione è certamente impossibile nell’ambito della fede. (…) Esiste tuttavia un limite a tale uso della ragione. Dio non è un oggetto della sperimentazione umana. Egli è Soggetto e si manifesta soltanto nel rapporto da persona a persona: ciò fa parte dell’essenza della persona.

Ma esiste anche un uso della ragione proprio di chi ama e che vuole conoscere meglio l’amato. È l’uso della ragione che vale per l’ambito del “personale”, per le grandi questioni dello stesso essere uomini. L’amore vuole conoscere meglio colui che ama. L’amore, l’amore vero, non rende ciechi, ma vedenti. Di esso fa parte proprio la sete di conoscenza, di una vera conoscenza dell’altro1.

Un “discorso razionale” su Dio: il Papa usa con sicurezza il nome di “scienza”. Ma resta la domanda: come può un discorso su Dio essere 1

“Civiltà cattolica”, 3878, p. 181-82.

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“razionale”? Può Dio essere “oggetto” di un discorso e dunque di una mente? Non è un po’ “blasfemo” ritenersi in grado di discutere razionalmente sull’Autore della mente stessa e quindi del discorso? Vogliamo qui discutere sul senso che può assumere lo scrivere di teologia e vogliamo anche mostrare perché la teologia non può essere mai un discorso “razionale” (ma neppure irrazionale, come vedremo) sul divino né sulle motivazioni e sulle proposizioni che noi chiamiamo “teologia dogmatica”. È necessaria una elaborazione razionale che renda accettabile la proposizione di fede (dalla fides qua alla fides quod). Occorre distinguere la “fede” dalla elaborazione logica sulla fede (intellectus fidei) che noi chiamiamo “teologia”. Per “fede” intendo ciò che gli antichi chiamavano fides qua (creditur): l’atto con il quale noi ci affidiamo totalmente a Dio. Come il bambino, senza riflessione, si affida (in questo senso “crede” alla madre, certo che da lei potrà derivargli solo bene, e nulla teme, è certo) così il credente, senza bisogno di ragionamento si affida a Dio, certo che da Lui può venire solo il bene. In questo senso “fede” può essere tradotto formalmente con “io mi abbandono a…”. Quando il credente inizia a chiedersi ragione, tra sé e sé, del perché crede e in che cosa esattamente crede, in questo momento egli sta riflettendo criticamente sulla fede e sta facendo teologia. La fede è il vincolo d’unione tra tutti i credenti; la teologia può essere l’occasione di divisione tra di loro. La fede è assoluta; la teologia è l’opinione razionale che il teologo si è fatta. Il teologo è un uomo di fede e uno studioso che ha impiegato la sua vita nel riflettere e nello studiare il pensiero teologico del passato. Egli conosce vitalmente la fonte della Rivelazione (la Scrittura). Ma resta il fatto che il suo teologare resta una sua opinione, non può obbligare gli altri a concordare con lui. Ecco perché tutti i dogmi (tutta la dogmatica) non possono essere imposti, se non come guida ad una intellezione della fede più o meno condivisibile. La teologia può anche essere chiamata la fede quod creditur: la fede “che” noi crediamo, e non la fede ‘per mezzo’ della quale crediamo. Un concetto è fondamentale: il teologo deve essere un ‘credente’ che parla o scrive per i “credenti”. Non spetta al teologo dare dimostrazioni della verità della fede (la fides qua). La fede è il presupposto dell’attività teologica. Il teologo non deve neppure essere concepito come un “professore universitario” che dall’alto della sua conoscenza impartisce lezioni. Il teologo deve essere un credente, un uomo che vive in profondità un’esperienza di fede e che scrive riflettendo e dando ragione della sua esperienza vissuta. Il teologo è innanzi tutto un uomo di Dio la cui “missione” è quella di rendere esperibile la fede (la fides quod) alla generazione alla quale appartiene, perché ogni generazione ha suoi presupposti culturali che debbono esser tenuti presenti. Come scriveva Adolf von Harnack: “Essere uomo significa…essere situati…in un contesto 174


storico, a sua volta delimitato e limitato. Al di fuori di queste condizioni non si dà ‘uomo’ ”2. Il teologo perciò non cerca “prove” della verità della fede. Secondo Karl Popper una vera dimostrazione logica è possibile solo nel caso della matematica e della logica3. Evidentemente egli aveva della dimostrazione un concetto alquanto limitato e fideistico (esattamente come credeva di dover escludere tutto ciò che non fosse logico). Popper ci descrive però giustamente l’apporto greco alla soluzione dei problemi proprio come una soluzione ipotetica; una soluzione di questo tipo dunque, se vale per la scienza, potrà valere anche per la teologia (ma non evidentemente per la fede). Scrive: La tradizione scientifica si distingue da quella prescientifica perché ha due livelli. Come quest’ultima, essa trasmette le proprie teorie; ma trasmette anche un atteggiamento critico nei loro confronti. Le teorie vengono trasmesse, non come dogmi, ma piuttosto con la sfida a discuterle e a migliorarle. Questa tradizione è greca: può ricondursi a Talete, fondatore della prima scuola, (non intendo dire “della prima scuola filosofica”, ma semplicemente “della prima scuola”) che non aveva per scopo principale la conservazione di un dogma (ivi).

Esiste un altro discorso oltre al logos, un discorso antico e venerabile che si chiama “mito”. Il mito è un discorso che non rispetta la legge del terzo escluso, ma che ammette differenti interpretazioni, anche apparentemente contrastanti, e che pure ci dicono verità che non sono descrivibili con la logica normale. Tutte le nozioni di fede sono troppo difficilmente comprensibili per la ragione umana perché possiamo parlarne logicamente con la misura del vero e del falso. Il mito invece ci dice le cose che non sarebbe possibile razionalizzare (tutto il discorso teologico è di natura sua oltre il razionale; “oltre”, non contro). Dunque il discorso sarà di carattere mitico e tratterà non di Dio in sé, ma del rapporto umano con Dio, di Dio per noi (che sarebbe un oggetto più proporzionato alla mente umana). Ma torniamo alla questione del “discorso razionale”. Ogni scienza consiste anche in un discorso, cioè in una comunicazione. Posso comunicare le teorie sull’atomo; queste teorie non vogliono affermare nulla di metafisico. Nessuno pretende oggi di dire cos’è la materia “in sé”, ma solo il modo in cui ci appare sperimentalmente. Il linguaggio umano ci permette anche discorsi sulle nostre sensazioni, per quanto private; possiamo parlare e comunicare circa l’amore o l’amicizia, e ci comprendiamo. Donald Davidson, dopo A. Tarski, condensa le condizioni per comprendersi nella formula “principle of indulgency or charity”. Significa che l’interpretazione 2 3

von Harnack, L’essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1980, p. 72. Popper K., Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972, p. 91.

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è un’equivalenza tra le condizioni di verità dell’enunciato del parlante nella sua lingua e quelle dell’enunciato nella lingua dell’interprete. Con le nostre parole esprimiamo sempre anche le nostre credenze. Il mondo di chi parla non è mai lo stesso di quello di chi ascolta: dipende tutto dalla nostra storia, dalla cultura, dalla geografia, eccetera. Ma tutti abbiamo esperienze interiori comuni. Tutti sappiamo per esperienza diretta cos’è l’amore, anche se non è un oggetto dei sensi. Tutti o almeno moltissimi conoscono per esperienza diretta che significa dire che Dio è vivo nel mio intimo, che è più intimo di me stesso (Agostino ci insegna). Tutti quindi comprendono quando parlo di Dio che cosa intendo. La difficoltà consiste nel pensare che il discorso su Dio sia intelligibile, ma non corrisponda a nessun “oggetto” reale. L’amore rimanda a degli amanti, la fede a dei credenti. Ma i credenti potrebbero essere degli illusi. Che esista un certo numero di illusi che credono di essere ciò che non sono è vero, ma se gli illusi sono vari milioni di persone altrimenti razionali e di normale indole è piuttosto difficile definirli illusi e sciocchi. La cosa, come che sia, non interessa. Interessa che la fede e la teologia contribuiscano a rendere la vita degna d’essere vissuta e che renda felice chi l’accetta o ne fa una professione.

1. Discorso su Dio. Dio non può essere “oggetto” proporzionato dei nostri pensieri. Perché egli non è una “cosa”, non è un ente, o di fatto, o di ragione, e neppure è l’“essere” sussistente. Dio non “è”, nel senso che egli trascende anche l’essere; egli è al di sopra di ogni possibile categorizzazione umana, e per questo lo chiamiamo Dio. Essere, nel senso di esistere, significa infatti stare “fuori”. Nel nostro caso (uomini e cose) stiamo fuori da Dio, ma Dio non sta fuori da se stesso, e perciò non ha senso dire che Dio esiste. Al massimo forse potremmo dire che Dio è meglio descrivibile come “relazione”; Egli è il “tu” di ogni “io”. Esperibile come è esperibile l’amore, che è ugualmente relazione. Le cosiddette prove dell’esistenza di Dio sono discorsi poco convincenti su ciò che neppure riusciamo ad immaginare. L’esistenza di Dio è il “postulato” necessario (almeno per la nostra cultura) per parlare della nostra esistenza, perché lo poniamo come “causa”, come se Dio potesse essere categorizzato in una delle nostre categorie (come nelle categorie dell’essere o della causa). Egli non è la “causa” del mondo, ma è il “creatore” del mondo. “Causa” è un concetto umano che non si addice a Dio, come non si addice a Lui ogni nostra forma di pensiero. “Creatore” invece significa una realtà a noi totalmente sconosciuta, perciò più verosimile (non più “vera”) applicata al divino. 176


Dio non è conoscibile semplicemente con la ragione, né è visibile come le altre cose visibili (perché non è una cosa), né la sua esistenza (si perdoni l’uso necessariamente inconsistente di questo verbo) è dimostrabile con il ragionamento, ma solo tramite la parola rivelante (“fides ex audito”). Dio è come un “profumo”, o meglio una scia di profumo che è stata lasciata da qualcuno. Si sente il profumo, si intuisce che deve esserci stato qualcuno che profumava. Posso non vedere chi ha lasciato dietro di sé il profumo, ma essere certo anche non vedendolo che c’è stato. Così è di Dio, il cosmo profuma di Lui, dalla contemplazione emotiva, ma disinteressata, del mondo si sente la traccia di Dio. Egli non può essere dimostrato (non lo si può mostrare attraverso un’altra ostensione), ma può essere percepito come un sentimento di benessere e di pienezza. Certo non è “razionale” questa ostentazione. Ma la razionalità non è superiore alle emozioni, anzi, forse è il contrario. È l’emozione il fondamento certo di tutta la nostra vita, prima che diventi anche razionale. Il sentimento più importante per la vita umana è l’amore. L’amore è totalmente irrazionale, tanto che per i greci era una passività, era un essere colpiti da Eros. Se io amo un mio figlio, per esempio, lo amerò anche se divenisse del tutto non amabile per carattere, azioni, sentimenti: lo amo perché lo amo; non c’è motivo razionale dell’amore. In tutte le dimensioni nelle quali è possibile declinare il concetto dell’amore, sia che si parli dell’eros, sia dell’agape, da Platone a Benedetto XVI (vedi l’enciclica Deus caritas est) l’amore è un atto di sovrabbondanza e di dedizione così totale e indiscutibile che non è possibile razionalizzare né il sentimento che lo provoca, né l’effetto che ci travolge. La vita umana nasce da questo atto d’irrazionalità, non nasce da motivazioni razionali e limpide, pure, trasparenti. Esiste una dimensione razionale “pura”, cioè esente dal pregiudizio? Ed esente da ogni compromissione emotiva e sensitiva? In Verità e metodo Gadamer ha cercato di criticare la pretesa positivista di una scienza “pura”, priva di pregiudizi. Per Gadamer il pregiudizio è la condizione di possibilità del giudizio. Anche Habermas cerca una via per escludere che la conoscenza sia solo l’approssimazione all’oggetto, senza alcun coinvolgimento emotivo o affettivo del soggetto (del conoscente). La “scienza pura” che guida oggi la maggior parte del nostro sentire non può, a mio parere, dar conto delle cosiddette “scienze dello spirito”, tra le quali porrei anche la teologia (togliendo però la parola “scienze” che rende fuorviante e post positivista il tutto: non ogni conoscenza è scienza; anzi: la conoscenza scientifica è solo una minuscola parte della molto più ricca conoscenza umana). Nelle parole di Habermas:

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Il comprendere ermeneutico è diretto secondo la sua struttura a garantire all’interno di tradizioni culturali una possibile auto comprensione di individui e di gruppi in grado di orientare l’azione, e una reciproca etero-comprensione di altri individui e altri gruppi. Esso rende possibile la forma di un consenso privo di costrizione e il modo di soggettività rifratta dai quali dipende l’agire comunicativo. Esso elimina il pericolo di rotture della comunicazione in entrambe le direzioni: tanto in quella verticale della storia individuale della vita e della tradizione collettiva alla quale appartiene, come anche in quella orizzontale della mediazione fra tradizioni di diversi individui, gruppi e culture. Se questi flussi di comunicazione si interrompono e l’intersoggettività del comprendere si irrigidisce o si distrugge, viene distrutta una condizione della sopravvivenza elementare quanto la condizione complementare del successo dell’agire strumentale: ossia la possibilità dell’unione senza costrizione e del riconoscimento senza violenza. Poiché questo è il presupposto della prassi, chiamiamo “pratico” l’interesse guida della conoscenza delle scienze dello spirito. Esso si distingue dall’interesse tecnico della conoscenza per il fatto che non è diretto a cogliere una realtà oggettiva, ma a conservare l’intersoggettività di un comprendersi nel cui orizzonte soltanto la realtà può apparire come qualcosa4.

La teologia non può mirare alla conoscenza fredda e oggettiva della realtà divina, se non altro perché il presunto “oggetto” di questa conoscenza non può essere oggettivato, neppure è da noi visibile, intuibile, o comprensibile. La teologia, per usare il linguaggio di Habermas, è uno dei presupposti dell’agire comunicativo e della intersoggettività in una comunità di fede, in una comunità che vive e pensa e crede. Ne segue che il discorso deve coinvolgere “tutto” l’uomo, e non solo la sua razionalità. Anche l’emotività, anche la sensibilità (soprattutto noi siamo coinvolti attraverso la bellezza), anche il sentimento. A questo scopo forse è meglio usare il discorso mitico o mitologico (o forse poetico in senso largo) piuttosto che non il discorso logico o razionale, perché il discorso del mito lascia la “libertà” alla interpretazione totalizzante della narrazione senza razionalizzazioni di tipo scientista che invece è tipico del discorso razionale odierno. L’umanità intera ha sempre avuto la nozione di Dio (di un “divino” neutro, non maschile o femminile). Un “consenso” universale non è una prova di esistenza (si perdoni ancora l’uso del verbo esistere per il divino che non è esistente), ma è certo una prova della plausibilità della fede umana in Dio (qualunque sia il Nome che in differenti luoghi gli si dà). Sarebbe bene che le differenti fedi e le differenti teologie sottolineassero questa unità del genere umano, invece di dividerlo secondo i canoni di una dialettica per lo più tesa a difendere posizioni di “potere” più che verità e certezze.

4

Habermas J., Conoscenza e interesse, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 177.

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“Fede” non vuol dire certezza “logica”, ma certezza “religiosa”. “Credo se dubito, e dubito perché non so. Se non dubito, so, e quindi non ho bisogno di credere. È il dubbio il motivo e la sostanza della mia fede”5. Kant aveva parlato di Zweifelglaube, cioè di fede con dubbio. Noi che veniamo dopo Kant non possiamo escludere il dubbio da ogni tipo di proposizione di fede, anche se le chiese tutte (quale più, quale meno) cercano di escludere il fattore dubbio dalle loro affermazioni; nessuna chiesa può dare una dimostrazione “scientifica”, o razionale, o logica, o pura, delle sue credenze. Il credere “supera” la conoscenza razionale, non è inferiore, ma il dubbio è ciò che nobilita la fede; il credo quia absurdum non è un’affermazione sciocca e insensata. Le chiese tendono ad escludere il dubbio, ogni forma di dubbio, dalla fede; chiamano il dubbio una “tentazione” di fede. Ma senza il dubbio non esiste fede, ma solo scienza. Solo ciò che è “certo” (nel senso in cui può essere certo un concetto umano, cioè sempre includendo la possibilità di una migliore approssimazione) potrebbe escludere il dubbio. Ma solo un ingenuo può ostentare certezza sui dati delle scienze. Il dubbio e l’approssimazione appartiene all’essenza del metodo scientifico. Propriamente nel caso della fede non è un dubbio ma si tratta piuttosto di un’ignoranza, di una certezza assoluta che non riposa su un fatto “oggettivo” e controllabile, ma si basa su una certezza solo assoluta (nulla è più certo di una fede, anche se nulla è più senza prove logiche) dovuta alla nostra “volontà” basata su elementi emotivi (e perciò più certi di quelli razionali). Severino scrive: Ma nemmeno Kant si rende conto che, proprio perché la buona volontà è fede (buona fede) proprio per questo essa, come ogni fede, è dubbio; (…). La fede infatti, in quanto tale, è un assumere come vero un certo contenuto (come lo stesso Kant afferma); ma è quell’assumere come vero qualche cosa che d’altra parte, all’interno della fede, non può essere e non può apparire come verità, cioè non può avere quella verità incontrovertibile la cui manifestazione non può essere una semplice fede (e che la stessa episteme tenta invano di svelare). (…) La fede implica il dubbio – non può esistere senza di esso nemmeno per un istante – perché, affinché vi sia fede, è necessario che appaia il contenuto in cui si ha fede; e poiché questo contenuto appare nel suo (anche se non necessariamente come il suo) non essere una verità incontrovertibile, è necessario che il suo apparire sia il suo apparire come contenuto dubbio; sì che se il suo esser dubbio non apparisse – e l’apparire del suo esser dubbio è appunto il dubitare, il dubbio – non potrebbe esistere senza la fede in esso, cioè la convinzione che esso sia verità6.

5 6

Martelli M., Senza dogmi, Editori Riuniti, Roma 2007, p. 90. Severino E., La buona fede, Rizzoli, Milano 1999, p. 126.

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Citare il discorso di Severino sulla natura della fede (quindi della teologia), discorso sparso in molte delle sue opere, non ha una grande autorità teologica però la sostanza di questo discorso è ineliminabile. La fede comporta una impossibilità a constatare il fatto in cui si dice di credere. La fede infatti, di sua natura, precede ciò che viene in seguito (dopo l’atto di fede) considerato il fondamento della fede. Le scritture sacre vengono lette come documenti della fede solo dopo l’atto di fede necessario per giustificare quella fede (la fides quae credutur) ma non la fides qua. Questa impossibilità non esiste invece nel discorso mitico, perché il mito permette di adeguare l’interpretazione alle esigenze dell’interpretante. Nel mito, nella emotività e nelle emozioni (i sentimenti) trova la sua verità anche l’amore, che è la più mitica delle categorie, come dicemmo. Ci dice Paul Tillich: La conoscenza si basa su un’originaria unità e implica una separazione e una riunione del soggetto e dell’oggetto. Sotto questo aspetto la conoscenza è simile all’amore, come ben sapevano gli ultimi pensatori greci. La parola greca gnosis, ‘conoscenza’, aveva tre significati: amore sessuale, conoscenza delle essenze, unione mistica col divino. Conoscenza e amore sono forme di unione dei separati che si appartengono e vogliono riunirsi7.

Tutte le categorie sono infatti non di natura “ontologica”, come aveva creduto Aristotele, che pensava che noi classificassimo come sostanza, per esempio, proprio ciò che “mostrava” di avere nella sua natura il carattere della sostanza, ma non sono neppure, come pensava Kant, degli a priori che precedono il giudizio umano, perché condizioni di possibilità del nostro pensiero, della nostra ragione. Tutte le categorie con cui noi uomini organizziamo il “mondo” (il nostro esperire la fruibilità delle “cose”) sono di natura esclusivamente linguistica (come si può pensare con Thomas Kuhn, il quale parla di mutamento di “paradigmi” nella scienza, ma il cui discorso vale a fortiori per tutte le categorie umane). Non c’è un innatismo di nessun genere nella nostra mente, se non quello della “possibilità di” parlare e categorizzare, ammesso che siano presenti anche le condizioni sociali di fare questa azione (parlare è agire, parlare è fare); parlare è un fatto sociale e se non si dà una società che accolga e formi un uomo nella sua umanità, quell’uomo non diverrà mai “uomo”. Dio è sempre maggiore delle categorie linguistiche per mezzo delle quali Lo nominiamo e Lo definiamo. L’uomo è molto meno un animale “razionale” di quanto gli faccia piacere pensarsi. In realtà siamo animali come tutti gli altri. La differenza è un più o meno, non un fatto metafisico. 7

Tillich P., La mia ricerca degli assoluti, Ubaldini, Roma 1968, p. 46.

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Anche per noi, come per gli altri animali, la cosa più importante non è la razionalità (che del resto non tutti gli esseri umani hanno nella sua pienezza; occorre esercizio e fatica per svilupparla), ma l’emotività. Noi tutti non agiamo sempre perché abbiamo uno scopo razionale da raggiungere, ma perché l’emotività ci spinge in quella data direzione. L’emotività alcune volte la chiamiamo amore, altre volte paura, altre orgoglio, altre possessività, altre odio, altre soprattutto egocentrismo o egoismo, eccetera; nessuna di esse è di natura razionale. È l’istinto di “sopraffazione” (l’egocentrismo, l’io al di sopra di tutto) che di solito si mescola a tutti gli impulsi ad agire anche di natura intellettuale. Questa è la condizione peccatrice dell’uomo, e tutto quello che l’uomo fa, lo fa sempre frammisto all’egoismo (simul justus et peccator). Ma, come ci mostra Damasio, la dissoluzione del rapporto tra senso e pathos è mortifero per la ragione stessa, che, privata delle sue dinamiche passionali, si sfibra e manifesta turbe di ogni genere. Torniamo allora per un attimo alla definizione di significato che ci ha consegnato l’epoca contemporanea e che più abbiamo trovato convincente: il significato è un abito di risposta, scrive Peirce, è un esser pronti a fare, un uso, come si esprime Wittgenstein. Ma quest’uso, potremmo chiedere alla fine del nostro cammino, è neutro da un punto di vista passionale, emotivo? Peirce avrebbe risposto di no: logica ed etica per lui sono strettamente unite e sono i due pilastri delle scienze normative, com’egli le definiva. Dunque, l’esser pronti a fare, è un esser disposti a, desiderosi di, interessati con emozione a fare. Ogni prassi designa un interesse, un desiderio, in definitiva una passione in actu. Ma anche, reciprocamente, ogni passione è una pratica, cioè un significato agito: il pathos appartiene all’azione, all’azione svolta in conformità col mondo, e che è in grado di modificare il mondo (…). Queste prassi sono, propriamente, le nostre passioni più profonde, sono modi di essere nel mondo in una forma mai neutra, passioni che non possono essere estirpate perché sono congeneri al nostro abitare il mondo, al nostro sforzo costante di assegnargli un senso. 8

Non c’è mai in noi un impulso o una ragione del tutto scevri dalla emotività. Com’è per tutti gli altri animali c’è in noi un impulso che ci spinge all’azione, anche se non lo possiamo chiamare istinto perché è sempre (meglio sarebbe dire: può essere) sottoposto alla nostra razionalità/emotività intelligente (l’istinto funziona più come emozione, paura, terrore, attrazione, sesso, cibo, e così via che non come razionalità; la razionalità è o sembra molto scarsa negli animali inferiori). Anch’essi hanno dei modi di esprimersi (un linguaggio qualunque, diverso dal nostro, ma sempre un linguaggio); anch’essi hanno una mente che pensa e che vuole, altrimenti 8 Fabbrichesi R., Costruzione del significato e orbita delle passioni, Cuem, Milano 2006, p. 95-96.

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non potrebbero sopravvivere; la mente infatti non è costruita dal processo evolutivo per difficili ed astratti ragionamenti, per filosofare o per teologare, ma serve a compiere tutte quelle azioni che sono necessarie alla sopravvivenza della specie9. Scrive inoltre Cimatti: Il compito di “nominare le cose”, allora, sarebbe un compito che ci viene – appunto – non dall’esterno, da un altro mondo superiore rispetto al nostro; al contrario, sarebbe una domanda che sorge in noi proprio perché animali, perché siamo animali linguistici. Siamo al cuore del cerchio, altro paradosso, perché sul perimetro del cerchio non c’è un centro, un cuore: il compito di “nominare le cose” ci viene allora dalla natura stessa, e quindi – in fondo – da noi stessi, ma è come se provenisse da un altro luogo, che è altro ma insieme coincidente con noi. Nel cerchio le tautologie sembrano proliferare. Eppure non c’è altra possibilità. Se l’ontologia è circolare, allora la domanda che sembra provenire da Dio, e richiedere una risposta verso Dio, in realtà sorge dal cerchio stesso, dalla natura10.

Nel Bershit all’uomo appena creato viene dato da Dio l’ordine di parlare e nominare tutte le cose. Aggiunge la Scrittura che il nome che Adamo dette a tutte le cose fu il vero nome. A significare che il mondo in cui vive l’uomo non è il solo mondo delle cose ma soprattutto il mondo delle parole. La Parola di Dio innanzi tutto cui segue la parola dell’uomo. L’animale uomo qui non è considerato “razionale”, ma “semiotico” o linguistico, il cui compito essenziale è nel nominare le cose e così renderle disponibili. La semiosi è infinita perché semiosi e vita (e forse cosmo) sono coestensive. Le cose sono già dei segni che debbono essere letti, sono delle parole scritte in un alfabeto che richiede una vita (una mente) che interpreti. L’universo nel quale noi abitiamo è un universo linguistico-cosale. Non ci sono le cose e poi noi aggiungiamo i nomi delle cose, ma c’è un solo universo di cose-parole dal quale è impossibile uscire. Ogni animale ha una mente, come dicemmo, anzi potremmo dire che “è” una mente, ed ogni animale interpreta il mondo. Forse (chissà) non lo interpreta come facciamo noi, ma ne dà certamente una sua lettura. Ricordiamo il saggio di Thomas Nagel Che effetto fa essere un pipistrello? 11 (12>11), dove appunto ci si pone il problema dell’intrascendibilità delle differenti letture del mondo, che però sono “letture equivalenti” nessuna della quali è migliore o più esatta delle altre.

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Cf. Cimatti F., Mente e linguaggio negli animali, Carocci, Roma 2002. Cimatti F., Nel segno del cerchio, Manifesto libri, Roma 2000, p. 141. 11 Nagel Th., Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano 1986. 10

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Un linguaggio non razionale, ma emotivo, è più radicale e più significativo del linguaggio dominato dal concetto (pregiudizio) della verità. Tutte le cose che interessano gli umani principalmente, non sono né vere né false, sono semplicemente volute, desiderate perché amate, o perché necessarie, o perché comunque gratificanti. Quello della razionalità come specifico dell’uomo è un mito occidentale dalla lunghissima storia, ma dalla consistenza pressoché nulla. La verità è una proprietà del discorso razionale; nessuno chiederebbe se l’amore che posso provare (patire, passione, passività, freccia di Eros, mito del bello e del buono) sia vero o falso. Se sono innamorato lo sono e questo mi basta per agire, per sentire, per desiderare, e così via. Il discorso emotivo, che è la struttura portante anche del discorso così detto razionale, non è vero o falso. La questione della verità è dunque una questione razionale e secondaria, che non interessa tanto l’essere umano in sé, quanto interessa una razionalità del tutto ideologica. Se si prende la parola “verità” nel senso di corrispondenza tra la cosa esterna e il concetto interiore che ne possiamo avere, cogliere cioè la cosa com’essa è in sé, commetteremmo forse un errore, certo non potremo cogliere una corrispondenza reale. Scrive Rorty: Non sussiste alcuna possibilità di aggirare il nostro linguaggio descrittivo giungendo fino all’oggetto in sé. E questo non dipende solo dalla limitatezza delle nostre facoltà, ma dal fatto che la distinzione tra “per sé” e “in sé” è il relitto di un vocabolario descrittivo – ovvero del vocabolario della metafisica – che ha perso da tempo la propria utilità. Dovremmo interpretare la formulazione “comprendere un oggetto” come un modo, un po’ fuorviante, di caratterizzare la nostra capacità di connettere descrizioni antiche con descrizioni nuove. Questa caratterizzazione è un po’ fuorviante perché – non diversamente dalla teoria della verità come conformità – induce a credere che le parole possano essere esaminate sulla base di non-parole al fine di scoprire quali parole siano adeguate al mondo12.

Allora come pensare e soprattutto come parlare di Dio e di tutte le realtà divine e trascendenti? Se è impossibile parlare delle cose del mondo e della sensibilità, come poter parlare di ciò che non vediamo né sentiamo, e che ci supera radicalmente? Nella Rivelazione (fatta attraverso parole umane dei Profeti, che sono i veri autori dei testi scritturistici) Dio si presenta come un essere antropomorfo, perché non è possibile per noi concepire alcunché di superiore alla forma umana, ma spetta poi alla ragione demitizzare questa concezione antropomorfica di Dio per arrivare dapprima alla sua negazione e poi alla conclusione che non è possibile né concepirlo né parlare 12 Rorty R., “L’essere che può essere compreso è il linguaggio”. In: L’essere che può essere compreso è il linguaggio, il melangolo, Genova 2001, p. 50.

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adeguatamente di lui; e questo sia positivamente sia negativamente. La teologia deve quindi parlare di Dio come dell’assente, dell’inconoscibile, come del “tutto” che è anche il “nulla” (è il nulla di cose, il nulla di essere, il non-ente, il non “c’è”, il non racchiudibile in categorie che sono umane, neppure, si noti bene, nella categoria del “non è”). Spetta alla teologia interpretare esattamente il volto umano di Dio e trarne le conseguenze. Dio non è né l’Essente per essenza né l’Essere supremo. Dio non è parmenideo, non è nel mondo, non è sopra il mondo, non corrisponde a nessuna delle nostre categorie logiche. La teologia non dovrebbe parlare di Dio, ma solo di ciò che ci consta dai rapporti che Dio ha per sua bontà intrapreso con noi. In altre parole è possibile parlare di Dio solo in termini di “economia” e non di ontologia. Per economia intendiamo la storia dell’auto rivelazione di Dio e specialmente dei Suoi interventi nella storia dell’uomo. Tutta la storia è una teofania, una manifestazione del piano soprannaturale di salvazione. La teologia deve essere “intellectus fidei”, deve cioè rendere non già “vero” il discorso della fede, ma deve renderlo “comprensibile”, intelligibile a tutte le generazioni. Se io sono un teologo che vive nel XXI secolo dovrò (se voglio fare onestamente il lavoro di teologo) usare delle categorie culturali che siano compatibili con tutto il complesso e le reti di fedi (o di cultura) della mia epoca. Se mi limito a ripetere più o meno le categorie di un tempo passato non rendo un buon servizio alla religione perché non compio nessun intellectus fidei, e finisco per allontanare i miei contemporanei (naturalmente quelli che hanno la cultura sufficiente per leggere e giudicare di teologia) dalla loro religione. Ora, una forma di “intellectus” è, come dice la parola stessa, una forma di ragionamento umano, che si esprime in categorie linguistiche tipiche dell’essere umano. Esso non può quindi aspirare alla “verità” più di quanto vi aspiri un qualunque altro discorso, su qualsiasi altro argomento. Se neppure nelle scienze fisiche si può giungere alla verità della cosa, se parlare di verità è forse solo possibile nel campo della matematica, perché è di una struttura logica che parliamo, non si vede come sarebbe possibile avere la verità per un divino “oggetto” (che non è un “oggetto”, per una cosa che non è una “cosa”, per il “Creatore” dell’essere di tutte le cose, sia di quelle visibili che di quelle invisibili). Il principio di autorità (come per esempio il teologo celebre, il Concilio Ecumenico, il Papa che si ritiene infallibile, l’episcopato tutto, il consensus ecclesiae) non ha più valore qui che in altri campi dello scibile (sarebbe come dire che un congresso di scienziati non può votare e decidere a maggioranza la validità di una dottrina scientifica; la dottrina deve valere non per autorità “democratica” del voto, ma per coerenza interna e per ricadute, tecniche e dottrinali). Un Concilio, un Papa, la Chiesa intera non 184


possono decidere “ex novo” quale sia la verità. Esse dichiarano autorevolmente quella che è sempre stata la verità, come dovrebbe risultare dalle Scritture (da dove altrimenti? La tradizione è un fatto del tutto umano e nulla può decidere da sola, se non è chiaramente rivelata dalle Scritture). Essi hanno l’autorità di chi conosce le Scritture (specialmente in epoche in cui ben pochi avevano accesso all’alfabeto). Ma queste verità dovrebbero essere chiaramente espresse nella Rivelazione e non solo dette obiter et perpaucis. È chiaro che darò più facilmente il mio consenso piuttosto a chi reputo competente in materia di teologia o di religione, piuttosto che non all’incompetente. Anche in medicina, per esempio, crederò più ad un medico competente che a un incompetente. Crederò ad un medico mio contemporaneo piuttosto che ad un medico del rinascimento (per via del progresso scientifico, che spero e credo ci sia stato da allora). Ma mi guarderò bene dal credere che il medico, perché medico e quindi competente in medicina, sia infallibile e dica assolutamente tutta e solo la verità sull’argomento. Anche nel discorso su Dio crederò di più al teologo competente che non al parroco, per ipotesi, non competente. Ma nessuno può dire l’assoluta verità: perché se si sapesse la verità com’essa è non ci sarebbe bisogno di teologi né di vescovi, perché tutti conosceremmo già le cose come sono. Lì dove fosse la verità assoluta non occorrerebbero neppure interpretazioni; la necessità di “leggere” (e perciò di interpretare) un testo indica che esso necessita di comprensione; ma ciò che deve essere compreso sarà compreso solo nella modalità di chi comprende, secondo il detto tomista “quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur”. Non c’è discorso (umano) che sfugga alla legge del “qui ed ora”, cioè della storicità assunta come criterio storico-culturale. È stato vero che il sole girasse intorno alla terra, è stato vero che invece fosse la terra a girare intorno al sole, è stata poi vera la teoria della gravitazione universale, eccetera: la verità di tutte queste ipotesi dipende dal tempo e dalla cultura del luogo e del tempo in cui sono credute. È evidente che la terra e il sole sono come sono a prescindere dalle nostre letture; ma le interpretazioni sono ‘dentro’ il processo storico della cultura. È relativismo questo? Non credo, perché in tutti i campi della vita “io” giudico avendo inevitabilmente un “assoluto” che mi serve da metro di giudizio. L’assoluto consiste nel mio “io”; l’assoluto sono “io” in quanto condividerò tutti i vari pregiudizi e tutte le varie fedi della mia epoca (e mi crederò nel vero assoluto citando l’autorità del consenso universale); io come frutto e figlio della mia cultura; io, con la mente che la società nella quale vivo mi ha formato (perché la mente è un fatto sociale e collettivo o politico e non individuale). Giudicherò immorale chi si comporterà differentemente da come io penso che ci si debba comportare (in pratica da come io credo di comportarmi, quando mi 185


comporto “bene”). Giudicherò intelligente o idiota chi comprenderà meglio o peggio di me delle proposizioni che io considero complicate. Considererò vero tutto quello che io considero vero e buono tutto quello che io considero buono (è evidente che sia così: Dio pensa sempre come crediamo noi, dove “noi” sta per la religione che noi abbiamo introiettato. Infatti in nessuna religione si crede di pensare differentemente da come pensa Dio). Siamo tutti assolutisti: Papi (che sono “scientemente” assolutisti, perché si sono fatti dichiarare “infallibili”), scienziati, tecnocrati, politici, arbitri di calcio, filosofi, teologi, genitori, massaie, cuochi, esseri umani in genere. Tutti ci costituiamo “giudici” di tutto, con l’ignoranza crassa che Socrate ha svelato a suo tempo.

2. Oggetto di un discorso “razionale”. Qui vale il principio di non contraddizione; una cosa o è o non è, non è possibile dare un terzo tra questi due; quindi vale anche il principio del terzo escluso. Il principio del terzo escluso, se applicato a tutti i fenomeni, dà luogo ad equivoci, che sembrano comuni sia ai nichilisti che ai Pontefici (almeno ai Pontefici dei due o tre ultimi secoli). Nelle cosiddette mutazioni sostanziali (prendendo la parola “sostanza” nel suo uso volgare) forse il principio è valido: un essere umano o c’è o non c’è. Un uomo o è vivo o è morto; una terza possibilità sembra esclusa (questo non riguarda l’ipotesi della “potenza” che fu appunto il rimedio pensato dalla filosofia aristotelica per scongiurare “l’essere in divenire”, il mutamento di sostanza). Ma nelle sfumature della vita reale (vista non con occhi metafisici), nei piccoli mutamenti e nel divenire del breve periodo o accidentale (come l’ingrassare o il dimagrire, l’esser vestito, lo stare sveglio o il dormire, eccetera) il terzo escluso non vale affatto: il bianco della neve è diverso dal bianco del latte, che è differente dal bianco delle piume del cigno (bianco), che differisce dal bianco della spuma del mare, o dal bianco dell’intonaco bianco, e così via. Dunque il terzo escluso non vale nella maggior parte dei casi concreti se non lo si specifica meglio. I Pontefici ragionano (apparentemente) così: la verità “è” o non è. Ogni terza possibilità è esclusa. Ma siccome l’esperienza ci ha insegnato che una “verità” assoluta non c’è, in qualunque campo della vita concreta e teoretica, chi pensa che la verità “metafisica” (che esclude tutte le sfumature) non ci sia, è necessariamente un nichilista. Il sillogismo apparirebbe così: la verità o c’è in senso assoluto, o non c’è; ma la verità in senso assoluto non c’è; quindi non c’è verità. In realtà la conclusione vera dovrebbe essere: non c’è una verità assoluta, ma forse c’è una verità relativa (relativa al nostro tempo, relativa alla mia cultura, e così via). In realtà noi non siamo relativisti; solo 186


crediamo che non esista una verità assoluta, ma solo una verità parziale; una verità che potrebbe domani non essere più vera, ma che oggi vale assolutamente come se fosse vera. L’assolutismo delle chiese quindi (più o meno di tutte le chiese o denominazioni) è in realtà il più assoluto relativismo. Dobbiamo dare per acquisito che la verità è una meta verso la quale l’umanità è in cammino tra infinite difficoltà; non ultima difficoltà è la limitatezza e la storicità della nostra possibilità di conoscenza. Per i greci l’episteme o l’aletheia, erano il fondamento assoluto di ogni conoscenza, ma nonostante questo ogni filosofo proponeva una sua verità; ogni filosofo era convinto d’aver alzato il velo del nascosto e d’aver scoperto il fondamento ultimo di ogni cosa. Questo non impediva ai suoi stessi discepoli di sostenere un’altra soluzione del problema. Dunque l’aletheia o l’episteme non veniva considerata fideisticamente o metafisicamente come data una volta per tutte, ma i discepoli erano liberi di trovare un’altra forma di episteme. Se l’episteme viene considerata come condizionata dal principio del terzo escluso, ogni ulteriore ricerca viene esclusa prima ancora di iniziare. La filosofia e la teologia (e a fortiori le scienze) non sarebbero più una “scienza” (un logos) che ricerca, ma solo un tentativo di discorrere su una tematica già risolta e data per scontata e immutabile: quindi una non scienza. La filosofia, staccata dalla fede in Dio, per il cristiano, ha completamente abbandonato la verità, ha perduto ogni certezza. Se questo è vero cade ogni distinzione tra vero e falso (tra vero in senso metafisico, assoluto, e falso in senso parimenti metafisico). Il cardinal Ratzinger non aveva dubbi su questo punto fondamentale. Egli infatti scriveva: Occorre ritornare alla convinzione fondamentale della fede cristiana e della sua filosofia: In principio erat Verbum – al principio di tutte le cose c’è la forza creatrice della ragione. La fede cristiana è oggi come ieri l’opzione per la priorità della ragione e del razionale. Questo problema ultimo non può (…) essere risolto tramite argomenti tratti dalle scienze naturali, e il pensiero filosofico stesso qui giunge al suo limite. In questo senso non si può fornire alcuna prova ultima dell’opzione cristiana fondamentale. Ma la ragione può davvero, senza rinnegare se stessa, rinunciare alla priorità del razionale sull’irrazionale, al Logos come principio primo? (…) Una razionalità che si sbarazzi di questa opzione significherebbe per forza, contrariamente alle apparenze, non un’evoluzione, ma un’involuzione della razionalità13.

Secondo M. Martelli,

13

Ratzinger J., Fede, verità, tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, p. 52.

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L’argomentazione di Ratzinger, ampia e avvolgente e ricca di spunti storici e culturali (sarà ripresa dal neo-papa nella conferenza di Ratisbona del settembre 2006), è tuttavia viziata da due forme antiche di fallacia logica: a) la permutazione dei termini, per cui il Verbum, Logos o Ragione (divina, assoluta, infallibile) è scambiato con la ragione (umana, relativa, fallibile): dunque il cristianesimo non è l’opzione per la ragione, ma per la Ragione (che è l’ipostasi della prima); b) la petitio principii (petizione di principio, il diallele degli scettici), per cui si presuppone come già dimostrato (l’equivalente di) ciò che per l’appunto si vuole e si deve dimostrare; si afferma la razionalità del cristianesimo, della fede e della filosofia cristiana, presupponendo implicitamente dimostrata l’equivalenza logica e ontologica Dio-Ragione, che è ciò che appunto andrebbe dimostrato”.

Prosegue Martelli: La verità della religione, il cristianesimo, è Dio, che è la verità pure della vera filosofia, la filosofia cristiana. Come dire: se la filosofia è cristiana, tra filosofia e cristianesimo non può esserci antagonismo, perché Dio è la loro comune e unica verità. Ma possiamo chiederci, che cos’è la “verità di Dio” o “di Cristo” (espressione molto amata e ripetuta dall’attuale pontefice)? Se è la Verità rivelata, allora è verità di fede, non di ragione. Dunque al di là di ogni dimostrabilità da parte della filosofia, anche di quella cristiana. Crederci o non crederci è filosoficamente indifferente. Se invece è verità di ragione, bisogna dimostrarla con la ragione, non con la fede. Ma lo stesso Ratzinger ammette (sulla scia di Kant che però non è citato) che qui la stessa filosofia giunge “al suo limite”, e che non si può razionalmente fornire “una prova ultima” dell’opzione di fede cristiana. Oggi, dopo Kant e la sua critica delle pretese conoscitive della teologia come scienza, chi potrebbe illudersi di poter dimostrare ciò che è già stato dimostrato indimostrabile? Non dice Wittgenstein che “ciò di cui non si può parlare bisogna tacere”? E poi, l’accettare presupposti teologici indimostrabili (Dio-Logos, Incarnazione, Resurrezione, ecc.) non taglia alla radice la libertà, la spregiudicatezza, l’autonomia critica dell’indagine e della razionalità filosofica?14.

Non la taglia. Perché nell’accettare presupposti indimostrabili (indimostrabili non significa falsi) si gettano le basi per un infinito domandare circa le condizioni, i significati, le conseguenze di ciò che appare indimostrabile, ma necessario ed esperienziale.

3. Oggetto di un discorso “mitico”. In questo discorso non vale il principio di non contraddizione: una cosa può essere questo “e” anche quello. La verità non sta né nell’uno né nell’altro, 14

Martelli, M., op. cit., p. 30-31.

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ma tra i due. La vera descrizione di ciò che narriamo attraverso il racconto mitico è proprio la sua possibilità di ammettere molteplici interpretazioni ognuna delle quali ci dà un aspetto “vero” del fatto narrato. Il racconto del Genesi del peccato cosiddetto originale “originante”, ha una natura (naturalmente) mitica; esso significa che l’uomo si è percepito fin dalle origini come “buono” (Dio vede che tutto ciò che ha creato è “buono”) ma anche come “malvagio” (sente in sé, inspiegabilmente, l’avidità che lo determina al possesso e al dominio sugli altri, fino alla loro uccisione, come accadde con Caino). L’uomo si sente razionale, capace cioè di agire in base a motivazioni condivise dalla sua comunità, ma anche capace di agire in base a motivazioni inconffessabili, motivazioni di cui si vergognerebbe se venissero risapute e divulgate. È infatti il giudizio che dà la comunità (o, come vedremo, che dà l’agente stesso, e non la Legge, come ingenuamente crede Paolo, nella Lettera ai Romani) che accusa e rende consapevoli del male commesso. Ma io non ho conosciuto il peccato se non per mezzo della Legge. Difatti, non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: “Non desiderare” (Rm., 7, 7).

La descrizione che Paolo ci dà, nella stessa lettera, della condizione dell’uomo è stupendamente realistica e pone in tutta la sua urgenza la domanda: perché io sono soggetto sia alla legge del bene sia alla legge del male? Cosa è accaduto all’uomo che ha reso possibile questa dicotomia? La risposta è appunto nel mito della “caduta” dei progenitori. Ma questo non vuol dire che si debba intenderlo alla lettera (come se fosse una verità scientifica) e quindi “condannare” il poligenismo (come fece Pio XII nell’enciclica Humani generis), perché la Bibbia ci parla di “un” solo progenitore e da lui noi tutti discendiamo. Paolo scrive: Sappiamo infatti che la Legge è spirituale; ma io sono carneo, venduto in potere del peccato. Non so infatti quello che faccio, poiché non faccio quel che voglio ma faccio quello che odio. Or, se io faccio quello che non voglio, convengo con la Legge che è buona. Dunque non sono più io che agisco, ma il peccato che abita in me. Io so che il bene non abita in me, cioè nella mia carne, poiché il volere il bene mi sta davanti, ma il compierlo no. Infatti io non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Io riscontro dunque questa legge, che volendo io fare il bene, mi si presenta il male. Difatti mi compiaccio della Legge di Dio secondo l’uomo interiore; ma scorgo nelle mie membra un’altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Infelice che sono! Chi mi libererà da questo corpo della morte? Grazia a Dio, per Gesù Cristo, Signor nostro!

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Dunque, io stesso, con la mente sono servo della legge di Dio, ma con la carne a quella del peccato”. (Rm., 7, 14-20).

In realtà la natura dell’uomo non è schiava di nessuno, né di Dio né del peccato; Dio ci ha creato come esseri “razionali” (come esseri che riescono a decidere se stessi anche contro i loro desideri ed emozioni) ed è proprio della razionalità essere libera di scegliere (la legge della ragione); ma però siamo pur sempre degli animali (anche se più o meno ragionevoli) e dunque sentiamo dentro di noi la legge degli istinti che facciamo fatica a dominare. Ma l’istinto non è “peccato”; sarebbe peccato accondiscendere in “odio” a Dio e come ribellione alla sua Sovranità, ma la semplice accondiscendenza è solo una componente del nostro essere creati e dunque limitati. La visione paolina (che poi diventerà la visione cristiana, e che prima ancora era la visione ebraica), considera l’istinto e l’emotività come espressione del peccato; invece l’emotività e tutto ciò che ne consegue è forse la parte principale della personalità umana. Noi occidentali d’oggi (e quindi noi giudeo-cristiani) diamo la prevalenza alla razionalità perché siamo figli di una cultura prevalentemente razionalista, ma la componente irrazionale ed emotiva nell’uomo è ciò che permette una vita razionale; senza emotività non c’è neppure una razionalità umana. È il caso di riflettere sulla “natura” umana. Per lungo tempo noi occidentali abbiamo considerato le emozioni come qualcosa di irrazionale e perciò come qualcosa di non significativo sul piano della comprensione e dell’atteggiamento intellettuale. Oggi invece sappiamo che le emozioni si accompagnano ad ogni nostra attività e la rafforzano, la inscrivono nei nostri circuiti neurali e le danno un senso. Come scrive Oliverio, d’accordo con tutti gli altri scienziati: Le emozioni, perciò, lungi dall’essere ciechi meccanismi istintuali, sono come una cartina di tornasole che ci dà informazioni sul mondo che ci circonda: esse ci rivelano una realtà ricca di eventi che producono uno stato di discrepanza e l’interruzione delle nostre aspettative e ciò genera delle risposte viscerali che vengono lette in termini di emozioni diverse, a seconda delle interpretazioni cognitive15.

Se prendiamo sul serio i nostri sensi e diciamo di credere nei sensi, che (d’accordo con la ragione) ci indicano com’è fatto il mondo (sia che si sia realisti o che invece crediamo che il linguaggio costringa la realtà in determinate categorie, o che si sia idealisti) non si vede perché non dovremmo prendere sul serio anche le nostre emozioni. Ambedue sono date, ambedue derivano dal nostro codice genetico, ambedue ci dicono qualcosa 15

Oliverio A., Biologia e filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 72.

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d’essenziale sul mondo (comunque lo si intenda: linguistico o oggettivo), ambedue sono nostri strumenti “veritativi” (nel senso moderno di verità non assoluta, ma coerente con tutto l’insieme delle nostre varie fedi). Ora è prevalentemente l’emozione, la sensazione di piacere che ci dà l’essere non gettati nel mondo, ma qui presenti perché qui “messi” da un progetto d’amore, o l’emozione negativa di disperazione, che ci dà il crederci senza alcun senso e presenti sulla terra per un puro capriccio del caso e così del tutto insignificanti. Queste sensazioni sono uguali come importanza alle sensazioni di “rosso” quando vedo un fiore rosso, o alle sensazioni di “mare” quando mi trovo di fronte a una massa d’acqua che a me appare come immensa e azzurra. Se credo nelle informazioni che mi derivano dai miei strumenti cognitivi, non vedo perché non devo prendere in considerazione altri strumenti, parimenti cognitivi. Si noti che le sensazioni devono essere “interpretate” e lette da noi in base alla cultura, generalmente intesa, che ci siamo formati. Se nella nostra cultura è presente un’apertura non pregiudiziale all’inatteso, al bello, al mistero del bello e del buono, al mistero dello sbocciare e del fiorire della nuova vita, allora potrò leggere nel mondo la presenza di ciò che noi chiamiamo Dio e che non sappiamo definire né indicare, ma che è come un “profumo” che vaga nell’aria e che non sappiamo donde venga, ma che c’è.

4. La “rivelazione” all’interno del mito Il mito dice con chiarezza e in brevi parole ciò che interi trattati scientifici non sono in grado di dire con altrettanta pregnanza. Faccio un esempio: il mito della nascita verginale. Esso dice da solo e meglio di altre narrazioni che Gesù non fu un uomo normale, ma un uomo del tutto straordinario. Perché non è nato dalla carne o dal sangue come noi tutti, ma per volere di Dio. Dunque è vero che Maria è vergine, come dice temerariamente il dogma cattolico, prima del parto, durante il parto, e dopo il parto? No, forse biologicamente non è vero (che prova ci sarebbe oltre all’opinione, non scientifica, della Madonna stessa?). Però è chiarissimo che cosa ci vuole rivelare. Tutte le cristologie dalle più ebraiche a quelle più greche sono precontenute in questo mito. Luca è l’autore che riferisce il mito, che venne ripreso dal Matteo greco, ma è ignorato da Marco e da Giovanni; Giovanni ha un mito diverso ma dall’identico contenuto rivelatore, il prologo con il mito del Logos. Il messaggio è chiarissimo: Gesù è un vero uomo, della nostra stessa natura, ma non è un vero uomo esattamente come noi. Noi siamo veri uomini, perché siamo nati da un padre e da una madre; Gesù invece è nato da una madre, che è stata ed è rimasta sempre vergine. Questo mito non può 191


essere “vero” (nel senso di “storicamente” o “scientificamente” vero) a meno che si pensi che Dio ami compiere miracoli tanto per fare. La verginità di Maria potrebbe avere un senso di verità, forse, prima della nascita di Gesù; potrebbe avere qualche senso (anche se è difficile capire quale) dopo la nascita di Gesù (ovviamente intesa come “assenza” di rapporti sessuali, data la negatività supposta del sesso in genere nella cultura gnostico cristiana); ma è assolutamente folle il credere che abbia senso pensare che Gesù sia stato partorito attraversando, senza romperlo, l’imene. La cosa ripugnerebbe al buon senso e non avrebbe nessuna rilevanza salvifica: non è lecito teologizzare contro il senso comune e contro la scienza fisica se non per insegnare verità di salvazione. Dio può operare miracoli, ma li compie solo per uno scopo evidente, a nostro vantaggio. Non è possibile raccontare il mito con pensieri razionali, perché il mito è più ricco di ogni pensiero razionale. Mi riferisco al carteggio tra Rudolf Bultmann e Karl Jaspers, carteggio prezioso, raccolto oggi in un volume16. Scrive Jaspers: Nelle figure mitiche parlano simboli il cui carattere costitutivo è di non essere traducibili in altro linguaggio. Tali simboli sono accessibili solo nel mito stesso e sono insostituibili e ineliminabili. Non è possibile interpretarli razionalmente. Il mito si interpreta col mito. […] Il soprasensibile che parla del mito è presente solo nelle immagini stesse del mito che non si possono interpretare mostrandone il significato. Una traduzione del mito in puri pensieri ne fa dileguare il significato autentico17. Il mito non va interpretato razionalmente, perché il suo senso non risiede nell’interpretazione intellettuale (verständliche Interpretation), ma nell’assimilazione esistenziale (existentielle Aneingnung). Solo così la Trascendenza, di cui non è possibile farsi immagine e concetto alcuno (bildlose Transzendenz) parla all’uomo. (ivi)

Il tentativo bultmanniano è stato quello di demitizzare la rivelazione cristiana e di renderla accessibile all’uomo moderno traducendo tutti i miti sia ebraici sia greci (presenti soprattutto nel Nuovo Testamento) in un discorso non mitologico ma razionale; l’uomo moderno – così argomentava il Bultmann – è ormai dominato da un linguaggio veritativo logico (dove vale il principio di contraddizione) e non è possibile allora parlare di Dio in termini che non rispondono a questi criteri, pena l’incredulità. Karl Jaspers suggeriva invece una rilettura più semplice del mito, trasposto dalla fede religiosa a una fede filosofica. 16

Bultmann R., Jaspers K., Die Frage der Entmythologisierung, Piper, München 1954,

p. 19. 17

51.

Galimberti U., Introduzione a Jaspers K., La fede filosofica, Cortina, Milano 2005, p.

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Meglio sarebbe invece riconoscere che ogni discorso teologico è mitico e dal mito non si può uscire se non con altri miti; miti più contemporanei e più comprensibili ai contemporanei, ma pur sempre miti. Naturalmente le chiese dovrebbero nella loro catechesi dire chiaramente che le verità da loro insegnate sono espresse in linguaggio mitico, ma non per questo meno vere, anzi la verità è esprimibile solo così. La varie fedi che strutturano la nostra mente debbono essere del tutto coerenti tra di loro. Molte delle nostre fedi derivano da fedi materne o paterne. Moltissime derivano da fedi della comunità a cui apparteniamo, moltissime ci sono state trasmesse inconsciamente (sia da parte di chi ce le ha date, sia da parte nostra) attraverso il tramite del linguaggio, altre fedi ce le siamo costruite noi stessi, per mezzo di attività consce o inconsce. Abbiamo letto, conversato, ascoltato, dialogato, amato e detestato, incontrato, e ci siamo immersi totalmente in realtà che abbiamo emotivamente “condiviso” con tutto il nostro essere, e che perciò sono divenute parte di noi stessi. Tanto che rinnegare certe nostre fedi significherebbe rinnegare noi stessi. Una nuova fede non può dunque portarci facilmente a dimenticarne o a negarne altre. Sarebbe rinnegare se stessi. A meno che non si viva così superficialmente da accettare tutto e il suo contrario, ma questa è una situazione di solito deprecata e dunque cerchiamo di evitarla. Ogni credenza richiede infinite altre credenze, di solito non espresse e non dichiarate, perché troppo evidenti. Per fare una semplice azione devo crede in “tutte” le altre cose che formano la mia cultura. Una fede deve ammettere come vere tutte le condizioni di possibilità di ciò che sto constatando e operando nell’azione. Un determinato mito e la relativa interpretazione non può costringermi a negare nessuna delle mie fedi; tanto meno le fedi “fondanti”. È meglio (è più facile e più conveniente) rinunciare a credere in una cosa nuova (anche senza prove contro o a favore) che non smettere di credere in tutto il complesso di fedi che mi permette di vivere nel mondo. Se la fede religiosa che professo (e di cui sono teologo, cioè esperto perché credente) mi spinge a ritenere errata una qualunque delle fedi sopra dette, il mio compito teologico sarà quello di cercare di convincere il lettore che in realtà le due tesi, le due fedi, sono compossibili e non in contraddizione. Se questo non fosse possibile la mia fede è decisamente “non vera” (al di là di ogni definizione di verità). Questo non è opera solo della razionalità (anche della razionalità, certo) ma è anche opera della emotività, della sensibilità, di tutto ciò che sono “io”, con tutti gli “organi”, gli strumenti, che ho a disposizione. Io infatti non sono una razionalità incarnata, e neppure uno Spirito incarnato (come amava dire Karl Rahner) ma io sono un corpo che ha degli organi o degli strumenti 193


che mi permettono di conoscere; ma chi conosce sono io e gli organi mi possono fornire tutte le impressioni che ricevono, ma se non sono io che le accetto e le leggo, le impressioni scendono nell’inconscio e lì rimangono. Daniel Dennett scrive: Ora, per quanto complesse possano sembrarci le strategie e le capacità anticipatrici umane, non sono queste a renderci così diversi da una pianta o da animali meno evoluti, anch’essi dotati della capacità, sebbene automatica e non consapevole, di anticipare in una certa misura gli eventi esterni. Direi piuttosto che la differenza sostanziale è quella che passa tra il “sentire” e la mera sensibilità. La sensibilità non necessita di coscienza: l’indicatore del carburante di un’auto, le piante o la pellicola fotografica sono dotati di sensibilità, senza per questo definirsi oggetti consapevoli. Gli animali cosiddetti “superiori” – fra i quali annoveriamo l’uomo – sono invece capaci di una facoltà di sensibilità senziente, ovvero del “sentire”. Non è impresa facile definire il “sentire”: diciamo in termini per il momento piuttosto vaghi che esso è costituito dalla sensibilità più un misterioso fattore X, che ci permette di tradurre quello che è il mero messaggio organico-sensoriale in qualcosa di più o, in altre parole, che ci consente di acquisire consapevolezza del nostro essere sensibili. Dove e come localizzare questo fattore X è ben altra questione, ma personalmente propendo per una visione funzionalista della mente, ovvero rintracciare la natura della mente, non tanto in ciò di cui è fatta, ma in ciò che fa o che può fare (…). Eppure, credo che riusciremo a capire le funzioni del cervello solo quando smetteremo di considerarlo come il comandante della nave, funzione che peraltro ha cominciato ad assumere in epoca evolutivamente piuttosto recente, e riconosceremo anche al corpo parte di quella capacità anticipatrice che guida le nostre decisioni.18

Tra le sensazioni principali dell’uomo c’è il bisogno “psicologico” di un fine, di uno scopo nella vita. Non basta l’evoluzione o il caso o il nonsenso del tutto; ognuno di noi preferirebbe esser stato “messo” al mondo per uno scopo, per una finalità possibilmente buona, e non per caso, ma per scelta d’amore; chi di noi non preferirebbe d’essere amato piuttosto che ignorato? Dante insegna che essere ignorati è peggio che essere odiati: “Non ti curar di lor ma guarda e passa”. Di qui la necessità e la connaturalità della fede religiosa, che dà un perché, una spiegazione definitiva di tutto il nostro essere. La necessità dello “star bene”, essendo una necessità naturale che si è evoluta nel corso dell’evoluzione, deve essere di natura sua veritiera. È stato il processo evolutivo che ha fatto di noi degli esseri che aspirano a uno scopo, a un senso della vita, a una ragione che possiamo chiamare amore (essere amati, più che non amare). L’evoluzione non ha fatto nulla che non sia necessario al vivere e al ben vivere; e questo vale per tutti i viventi. 18

Dennett D., Dove nascono le idee, Di Renzo, Roma 2006, p. 51-52.

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5. Può la “prova” scientifica essere contro l’evidenza di fede? Evidentemente non può. Ma non perché esiste solo “una” verità, ed essa è assoluta: vera sempre e per sempre. Ma proprio perché né la scienza né la fede sono totalmente vere, o definitivamente vere. Questo la scienza oggi lo sa e lo accetta. La scienza contemporanea sa di essere ipotetico-deduttiva, storica, sperabilmente progressiva, ma non vera in senso assoluto. Per esempio: la discussione di Galileo con Roberto Bellarmino era in sé abbastanza originale (comprensibile, dati i tempi in cui si svolse). Ambedue credevano di dire “la” verità. L’uno credeva (non lo sapeva, ma lo credeva fermamente) che il sole girasse intorno alla terra; l’altro credeva (pensava di saperlo e di averlo constatato, sbagliando) che la terra girasse intorno al sole. Oggi crediamo che avessero torto tutti e due, perché se ammettiamo la teoria della gravitazione universale e dei campi magnetici nessuno gira intorno a qualcuno, ma la cosa è molto più complessa. Però noi sappiamo che neppure questo è definitivamente vero e aspettiamo che uno scienziato presto corregga e si avvicini ancor di più alla “realtà”. Le due opinioni, quella del Bellarmino e quella di Galileo, erano in effetti compossibili. Dipendeva la loro verità dal contesto in cui erano enunciate. In un’assemblea che tendesse a mettere in risalto l’azione divina a favore del popolo eletto era maggiormente vero dire che la terra e l’azione di Dio circa la terra era l’elemento essenziale del discorso. La terra è il vero centro dell’interesse e dell’attività divina. Non è né il sole, né il sistema solare. È la terra il luogo dell’Incarnazione e della redenzione, dunque è la terra il centro della cura di Dio. Detto invece in un’assemblea di astronomi di quel tempo era più vero dire che la terra gira intorno al sole e che esiste un complesso di pianeti che chiamiamo sistema solare. La terra è solo un piccolo pianeta, che gira intorno a un piccolo sole, che fa parte di una periferica galassia. Non è il centro di nulla. Solo che capita che “noi” viviamo qui; è questo fatto della nostra presenza che fa sì che per noi essa sia il centro dell’interesse.

6. Sono possibili le “due” verità? Esse sono possibili (ma lo sono nel senso ovvio che sono possibili due o più differenti “opinioni”, ciascuna delle quali pretenderebbe di essere considerata vera). Esaminiamo innanzi tutto cosa potrebbe significare la parola “verità”. La tradizione distingue tre tipi di verità: la verità come adaequatio intellectus et rei, la verità come adaequatio intellectus et verbum, e ultima, ma principale, la verità come adaequatio rei et intellectus (quest’ultima riguarda solamente Dio, come Colui che col suo Verbum dice le cose creandole). La verità come adeguazione intellectus et rei deve essere 195


intesa come adaequatio intellectus “humanus” et rei. Cioè non c’è una adequazione assoluta tra la cosa com’essa è in se stessa e il mio intelletto; ma l’adequazione è tra la cosa com’essa appare a me, uomo, dopo un’approfondita analisi razionale/ emotiva, e il mio intelletto. La verità è sempre detta in prima persona (cosa appare veramente a “me”) e non in terza persona (cosa appare veramente a tutti, compreso Dio: cosa è una cosa in se stessa, a prescindere da chi la osserva). Ne segue che possiamo parlare di verità solo nel senso ‘morale’ di dire quello che ho nella mia mente e che dico, e non di quello che una cosa è in sé (perché questo non posso saperlo). La verità perciò c’è (quella in prima persona), e non c’è (quella in terza persona). Alla verità assoluta noi tendiamo, ma ignoriamo ancora cosa significhi. Noi tutti sappiamo di dover “dire” la verità (e c’è anche un comandamento che ci obbliga a farlo in un processo: la testimonianza): ma sappiamo anche che questo significa solo dire come stanno davvero le cose “secondo ciò che ho visto, udito, o fatto” cioè come le cose sono andate secondo “me”, secondo una retta coscienza. Il che potrebbe essere l’esatto contrario della verità in sé. Lo scopo del comandamento è lo stesso del “Non uccidere” dato che nel mondo di allora la sentenza era facilmente una sentenza di morte e che bastavano due o tre testimonianze (maschili) per rendere l’accusato colpevole e dunque condannabile a morte. Ne consegue che il concetto di verità esiste ed è conforme alla fattualità delle situazioni, ma questo concetto riguarda cosa si è impresso nella mia mente “dopo” aver visto o ascoltato o fatto o variamente agito o subito dai miei sensi. Il tribunale mi può chiedere “cosa” ho visto “io” (in prima persona) ma non può pretendere che l’interpretazione che io ho dato (in buona fede, s’intende) del “fatto” sia l’interpretazione “giusta”. Tant’è vero che differenti testimoni dello stesso fatto narreranno diverse interpretazioni a seconda della loro precomprensione del fatto. Due verità sono possibili, e anzi questa è la norma, se esse vengono enunciate in luoghi differenti. Per esempio, se io dico che il sole tramonta tutte le sere e sorge tutte le mattine, questa è una frase vera se io sono a Milano, ma non sarebbe vera se io fossi nei pressi dei poli; allora tramonterebbe e sorgerebbe ogni sei mesi circa. Ma dipende anche da chi è il mio interlocutore. Se io parlo di religione con un teologo posso dire delle cose che scandalizzerebbero un semplice credente senza cultura religiosa. Quello che mi scandalizza non è la fede dei “semplici”, che (forse) in buona fede dicono d’aver visto e udito la Madonna (la fede popolare non è il cristianesimo genuino o evangelico, ma è un misto di superstizioni e di antiche credenze romane e giudaiche rivestite di termini cristiani), ma mi scandalizza chi non rinnega queste manifestazioni di credulità popolare, o non le attenua e le relativizza. Il teologo (in buona fede) sarebbe più o meno d’accordo con me, e troverebbe delle spiegazioni d’opportunità per 196


giustificare questo comportamento (perché applica una auto censura e perché mosso da inconsce motivazioni, quanto inconsce sono le mie). Parlando con un teologo o con un uomo di rilevante cultura religiosa posso dire tutto questo, che invece sarebbe uno scandalo per il semplice. La mia verità dipende anche dalla situazione in cui parlo. Se dico durante una celebrazione liturgica che io credo nella presenza reale nell’Eucarestia, la cosa è ovviamente vera per tutti i partecipanti, ma se lo dico a un fisico o a un chimico, dovrò stare il più possibile attento perché egli potrebbe facilmente provarmi che dico delle incongruenze. La presenza reale è vera nel contesto della fede cristiana nelle sue varie forme, ma se lo dico fuori da questo contesto forse può non essere vera (nel senso in cui si dice vera una verità scientifica, o fisicamente controllabile). Le due espressioni: “Cristo è veramente presente nell’ostia” e “Nell’ostia non c’è che pane” sono ambedue vere, nel senso che dicono una parziale verità, che solo se prese congiuntamente hanno un senso definito. Il fatto che la presenza reale sia vera solo per il fedele che partecipa all’eucarestia non sminuisce la sua verità (intesa nel senso della prima persona) e esprime due aspetti della stessa realtà. La realtà è infatti molto più complessa di quanto noi riusciamo a credere e a sperimentare. Le due verità apparentemente contraddittorie sono un segno della complessità del creato che non è possibile racchiudere in una sola singola verità (che è solo una verità parziale). Non due verità sono compossibili quindi, ma sono benvenute “infinite” verità, che tutte insieme dicano differenti aspetti della multiforme realtà dell’inconoscibile reale. È per questo motivo che il mito parla più del discorso razionale o scientifico. Il problema della esistenza, non della verità delle interpretazioni, ma della “verità” delle cose (adaequatio rei et intellectus) si pone però sul piano ontologico. Un gatto è davvero un gatto? Ne sappiamo interpretare esattamente la gattinità? Un ente (ente significa che c’è) c’è davvero o potremmo sbagliarci? Se vale il principio di contraddizione, come possiamo affermare che non vale il principio del terzo escluso? Una cosa o c’è o non c’è, e non si può, così sembra, ammettere una posizione intermedia. Il salto ontologico, com’è il salto dei quanti, il fatto che sembra che le mutazioni sostanziali avvengano con salti improvvisi e non gradualmente, mentre c’è gradualità nelle mutazioni accidentali, sembrano costringerci a due verità differenti, per la “sostanza” e per “l’accidente” (chi muore era lapalissianamente vivo un attimo prima, mentre chi ingrassa lo fa gradualmente). Il fatto è che le “cose” che presumibilmente ci sono, non sono delle essenze eterne e immutabili (platonicamente) che poi per accidens acquistano l’essere e che si individuano (cioè che fanno sì che “questo” gatto non sia “quel” gatto, per essendo ambedue ontologicamente di natura “gatti”) per mezzo della materia (materia signata quantitate, 197


secondo la scolastica). Quello che noi vediamo è un complesso di individui pressappoco simili, ma perfettamente diversi. Differenti per poco ma non identici. Non esiste nessuna essenza da replicare, non esiste né in un ipotetico iperuranio nè in una fantasiosa mente di Dio, né in un super io, né trascendentale, né trascendente. Il cosmo, quello che c’è e che a noi appare bello e ordinato (cosmo appunto), non è fatto di “oggetti” (noi compresi) che noi dobbiamo solo evocare con le parole. Le parole con cui rendiamo presenti cose anche assenti e con cui muoviamo cose anche presenti senza toccarle, hanno anche una funzione poietica. Noi facciamo le cose (la parola “cosa” è un fatto metafisico, in realtà la cosa qua cosa non esiste) con le parole. Non soltanto nel senso di John Austin, ma in un senso più ampio. Tutte le cose che nominiamo hanno una componente forse reale (il loro “esserci”) e una componente forse verbale (il loro “che cosa”). Le cose ci sono perciò sconosciute in sé e per sé, almeno nella loro quidditas (ammesso che la quidditas esista). Ne conosciamo solo l’aspetto che interessa noi: il loro uso, il loro poter essere manipolate e poter diventare utili all’uomo. Tutto il resto non ci interessa (e neppure lo sospettiamo, per così dire). L’universo non è né fisico, né verbale, ma è contemporaneamente l’uno “e” l’altro; questo fatto complica notevolmente il poter conoscere la verità. Sull’esserci delle cose possiamo perciò convenire che c’è una certa validità del principio di contraddizione (una certa cosa o c’è o non c’è, in un determinato istante e agli occhi di chi lo guarda qui e ora), ma sulla natura della cosa, che pur mi appare in una manifestazione non ingannevole (ma specifica, cioè appare così per la specie umana, non necessariamente per tutti gli esseri viventi, forse non per un pipistrello) vale il principio del più o meno. Applicando questo al caso di Galileo potremmo dire: certo sia Galileo sia il Bellarmino vedevano lo stesso fenomeno, ricevevano le stesse onde luminose, avevano occhi e cervelli molto simili, come tra due uomini, ma avevano una mente differente ed è la mente, cioè anche la cultura, lo spirito, l’ambito vitale, gli studi fatti, le esperienze: è solo la mente che “legge” e interpreta le onde luminose uguali in modi differenti. Le stesse onde non hanno lo stesso significato, come lo stesso libro non ha lo stesso significato, o lo stesso cibo non ha lo stesso gusto, lo stesso tempo non ha la stessa durata, la stessa musica non ha lo stesso suono, dalla cultura dipende il gusto della pittura, dipende il godimento di tutto quello che per me è godibile e per altri forse non lo è. Come scrive Carlo Tullio-Altan: In epoca storica, e precisamente in età greca, la filosofia si è fatta carico di una simile esigenza di sicurezza. E lo ha fatto con l’immagine poetico metafisica (destorificata!) del mondo: il to eon di Parmenide, cui corrisponde un sapere assoluto circa la sua natura, l’aletheia. Questi due elementi, binomio

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fondamentale di ogni forma metafisica successiva, attraverso l’influenza dell’ellenismo, confluiranno, auspice Paolo di Tarso, nella tradizione cristiana e nella teologia che le è propria, basata sui principi assoluti dell’Essere e della Verità, sottratti alle ingiurie del tempo.19

L’essere ha una natura poetica; tutto il parlare dell’uomo ha natura poetica. Poetica da poiesis, perché con la parola facciamo le verità che ci sono necessarie; il parlare è un’attività e per mezzo delle attività noi produciamo sempre qualcosa. Se il cosmo mostrava l’insicurezza del mutamento continuo, con l’invenzione dell’essere (e con le invenzioni parallele della sostanza e degli accidenti, della materia e della forma, del tempo dentro l’eternità, e così via) si cercò di trovare una base inamovibile e fonte di certezze metafisiche (cioè eterne). Il verbo “essere” (nel significato di esistere) non indica che la semplice presenza nell’oceano informe della nebulosa della vita di qualcosa, che sarà compito dell’uomo nominare attraverso il linguaggio. Ma l’essere è una forma esemplare di “poesia”, come il vero, come il “bello”, o il “buono” che tali sono per l’uomo e mai nell’in sé e nel per sé. I trascendentali medioevali sono la più bella poesia che il tempo di mezzo ci abbia dato. Sarebbe un errore nostro prendere una poesia in senso metafisico, o addirittura in senso scientifico. La teologia appartiene, con un suo proprio metodo e stile, alla letteratura, alla scrittura. Pochi sono gli argomenti su cui non è possibile scrivere senza regole stabili e ferme: tutti gli articoli del “credo” niceno costantinopolitano lasciano poca libertà interpretativa. Non si può essere liberi di fare affermazioni sulla unità trinitaria di Dio, sulla sua incarnazione, sulla esistenza della Chiesa con la sua cattolicità, sul valore redentivo e salvifico del battesimo, e sulla resurrezione della “carne” e la venuta del Regno di Dio, o la vita del mondo che verrà. Tutti questi temi sono appartenenti alla fede e non alla teologia. Nessun autore potrà infrangere queste verità. Esse sono assolute perché di fede non perché dimostrate da qualcuno. La dogmatica in se stessa (che non sia “storia” del dogma, ma elaborazione e delucidazione del dogma) appartiene alla letteratura. L’idea che il divino si possa considerare strettamente imparentato con il “bello” era diffusa e comune al tempo della grecità. Oggi siamo divenuti tutti più seriosi, ma se considerassimo l’idea di Dio e di tutto ciò che ne consegue, come consideriamo la musica o la poesia, o la danza, o il gioco, ciò che rende gratuitamente godibile la vita, le religioni stesse muterebbero totalmente la loro seriosità in gioia di vivere. Dio è fonte di gioia e così dovrebbe essere anche la teologia. Ma è “vera” la teologia?

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Tullio-Altan C., Le grandi religioni a confronto, Feltrinelli, Milano 2002, p. 27.

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È vera la musica? Cosa può significare questa domanda? Non è totalmente priva di senso? Il bello si converte con il vero, ma la bellezza non è necessariamente la verità. Per questo è priva di senso la domanda sulla verità del divino. Il divino, come la musica, come la poesia, è il senso stesso della vita; è gioia, è libertà. La religione è l’espressione e la tensione dell’uomo all’eternità dello spirito; è il fatto che rende l’uomo come la più alta manifestazione dell’esistenza e della poesia. Perciò è “relativamente” vera. O non è “solamente” vera. Gioco e danza sono perciò, purché quaggiù si realizzino autenticamente e seriamente, una anticipazione del cielo; nel gesto o nel suono o nella parola, un’anticipazione di quell’armonia tra anima e corpo rivolti a Dio, che noi chiamiamo cielo. L’eternità sarà dunque quel che fu il perduto paradiso: un divin gioco da fanciulli, una danza dello spirito, una realizzazione infinita ed eterna della corporizzazione dell’anima. Ecco perché il gioco nei suoi primordi fu anzitutto santo, sacro al Divino, e la danza fu un atto essenzialmente cultuale.20

Più avanti lo stesso Hugo Rahner, sviluppa la tematica biblica della danza gioiosa del Re Davide dinnanzi all’Arca dell’Alleanza: Il vero cristiano deve essere un danzatore regale come Davide davanti all’arca e nessuno deve disprezzarlo come Micol, la sposa, disprezzò il re danzante (…) Tutto quello che il devoto danzante accenna col gesto e la musica non è che segreta preparazione a ciò che egli desidera ardentemente, la danza della vita eterna. Ciò che l’uomo ha perduto all’origine, l’armonia del corpo e dell’anima, nella grazia egli dovrà riconquistarlo. Nessun’altra immagine, che non sia quella della danza celeste, potrà esprimere meglio la felicità di questa vita senza fine. (ivi, p. 72-80)

Mi si objetterà: tutto questo può essere bello per chi lo crede, ma qual è la prova, o almeno un indizio di prova, che la danza non sia solo un insensato gioco in una vita che finirà solo con la morte? La risposta è semplice e complessa: la verità è sempre maggiore di quanto ci farebbe comodo. Il teologo non è il “datore” della fede, né della saldezza della fede. Questa deve derivare dal “lume” della ragione, anche se illuminato e guidato dal fattore emotivo. La rivelazione facilita la comprensione ma non apporta elementi di novità, almeno rispetto alla fede in Dio. Dice il Concilio Vaticano I (DS 1806): “Si quis dixerit, Deum unum et verum, creatorem et Dominum nostrum, per ea, quae facta sunt, naturali rationis humanae lumine certo cognosci non posse: anathema sit”. È un atteggiamento spontaneo di ogni uomo che viene in questo mondo il conoscere che c’è un 20

Rahner H., L’homo ludens, Paideia, Brescia 1969, p. 13.

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Divino oltre le apparenze. La fede in Dio come la fede nella realtà del mondo o della presenza di altre menti, non è data da prove, ma è data dal comune sentire umano. Non è possibile dimostrare (mostrare attraverso altre cose) l’esistenza di qualsiasi ente; ogni esistente potrà essere mostrato (per mezzo dell’ostensione) ma mai dimostrato. Ogni bambino nascerà con certezze indimostrabili scientificamente. Sarà la cultura e lo studio che, pian piano, insinueranno il dubbio metafisico sull’esistenza di Dio (e sull’esistenza in genere). Così un bambino non nasce col dubbio metafisico sull’esistenza di altre menti, il solipsismo, ma le accetterà tranquillamente. Solo con lo studio e a fatica poi si accorgerà che è difficile dimostrare l’esistenza altrui. La nostra fede che è fondata sulla Rivelazione, non è la fede in Dio (la fede che esista un “divino”, persona o energia), ma è la nozione di Dio come Uno, come Dio personale, come Creatore del cielo e della terra, come Padre che ci parla perché ci “ama”; di un Dio che è anche legislatore, perché amandoci vuole che anche noi ci amiamo a vicenda, di un Dio che ci è “vicino” pur essendo assolutamente trascendente. Questa fede la dà la Rivelazione. L’Occidente vive nello scambio dialogico col trascendente; questo ci forma come persone individuali. Il teologo deve solo rendere più intelligibile quello che è di natura sua “misterioso” (nel senso di difficilmente conciliabile con le comuni nozioni fisiche e morali che formano la struttura della cultura umana). Il teologo può avanzare teorie sul come farà Dio, per esempio, ad essere presente nel mondo, senza confondersi col mondo. Il teologo deve descrivere con parole accattivanti il come e il perché la Scrittura ha detto questo, ma nulla egli può aggiungere al dato rivelato. Più il teologo scriverà “belle” meditazioni/interpretazioni più sarà un buon teologo, perché il compito del teologo è di rendere “convincente” e attuale il discorso di fede. La Divina Commedia di Dante e la Summa Theologica di Tommaso sono due modi diversi, ma identici, di descrivere la stessa teologia, o meglio, la stessa fede. È ovvio che la fantasia degli autori di opere teologiche non potrà essere del tutto libera. Essa sarà necessariamente vincolata dal depositum fidei, che è la premessa necessaria sia della Scrittura sia della tradizione, sia di ambedue prese simultaneamente come fonte della rivelazione. Il depositum fidei è infatti quel qualcosa non razionale, ma emotivo/ razionale (il complesso delle motivazioni che ci induce a credere e ad agire) che ha dato origine alla Scrittura (al Nuovo Testamento, per i cristiani) e alla tradizione. È il pregiudizio necessario per ogni giudizio di fede. La fede infatti “precede” la Scrittura. Non viceversa, come forse i più potrebbero credere.

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7. Conclusioni. Scrive il Tillich: L’asserzione che qualcosa ha carattere sacro ha significato solo per la fede asserente. Come giudizio teoretico rivendicante una validità generale è semplicemente una combinazione di parole senza significato. (…) Chi osservi dall’esterno può solo affermare che esiste un rapporto di fede tra colui che ha fede e l’oggetto sacramentale della sua fede. Ma non può negare o affermare la validità di questo rapporto. Se un protestante osserva un cattolico pregare davanti a un quadro della Vergine, rimane solo un osservatore incapace di affermare se la fede dell’osservato sia valida o no. Se è un cattolico potrà unirsi all’osservato nello stesso atto di fede. Al di fuori del rapporto di fede non c’è criterio con cui la fede possa essere giudicata21.

Si ha qui quello che potrebbe essere detto propriamente un fideismo. Cioè una non razionalità della fede, e soprattutto una inspiegabilità che renderebbe ogni fede uguale a ogni altra: il che sarebbe pernicioso. Ma si tratta di un fideismo necessario, in un primo momento. Qui dobbiamo risalire al pensiero di Sir Alfred Ayer il quale considerava impossibile dimostrare che quello che noi consideriamo un procedimento razionale sia effettivamente tale. Neppure possiamo dimostrare che la nostra concezione di ciò che rappresenta una buona prova sia giusta. Questo accade perché il criterio che noi adottiamo: Potrebbe risultare irrazionale solo se esistesse un criterio di razionalità con cui potesse essere confrontato e che non riuscisse a soddisfare, mentre è proprio esso (il metodo) che di fatto, stabilisce il criterio: le argomentazioni sono giudicate razionali o irrazionali solo in riferimento ad esso. […] Qualora si sia compreso che logicamente non può esservi alcuna corte di giurisdizione superiore, difficilmente ci si potrà preoccupare del fatto che il ragionamento induttivo dovrebbe essere lasciato agire, per così dire, come giudice della propria causa. Lo scettico ha il merito di obbligarci a riconoscere che non può essere che così22.

William Warren Bartley III scrive: L’impegno cristiano di molti protestanti dipende dal presupposto che esso non possa essere risolto. Questo argomento fornisce un pretesto razionale all’impegno irrazionale.

È l’argomento che l’Autore chiama del tu quoque e che cerca di dimostrare erroneo. 21 22

Tillich P., Dinamica della fede, Ubaldini, Roma 1967, p. 56-58. Ayer A., Il problema della conoscenza, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 78.

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In cosa consiste esattamente questo possente argomento del tu quoque? Esso sostiene che (1) in base a certe ragioni logiche la razionalità è così limitata che tutti dovrebbero assumere un impegno dogmatico irrazionale; (2) il cristiano, di conseguenza, ha diritto ad assumere qualsiasi impegno gli paia desiderabile; e (3) perciò nessuno ha il diritto di criticare lui (o qualcun altro) per aver assunto un tale impegno. La correttezza delle due conclusioni strettamente correlate dipende dalla tesi sui limiti della razionalità. Questa tesi – che sorge dalla necessità di evitare un regresso all’infinito e dal fatto che l’impegno dogmatico arbitrario sembra il solo modo per evitarlo – si fonda su un’analisi di quello che è considerato il modo razionale di difendere o giustificare le idee. Qualunque opinione venga avanzata, qualcuno potrà sempre metterla in dubbio ribattendo: “Come lo sai?”, “Dammene una ragione!” o “Dimostrala!”. Allorchè richieste del genere vengano soddisfatte presentando delle ragioni a favore delle tesi messe in discussione, tali ragioni possono a loro volta essere messe in dubbio. E così via all’infinito. […] La verità delle proprie convinzioni risiede in ultima analisi non nella loro auto evidenza o universalità, ma nel capriccio o nella credenza, poniamo, che Dio ha ordinato di accettare certe presupposizioni. Le presupposizioni di un uomo sono vere per lui per via del suo impegno soggettivo nei loro confronti. L’irrazionalista possiede così un pretesto per l’irrazionalismo soggettivo e un rifugio sicuro al riparo da ogni critica diretta al suo impegno soggettivo: egli dispone di un argomento tu quoque o boomerang. (…) Il fideista assume così deliberatamente un impegno finale, indiscutibile e soggettivo verso una qualche forma di vita, o verso una qualche presupposizione, o ancora verso una qualche autorità o tradizione che pretende di essere in possesso della competenza o del diritto di prendere tali decisioni in sua vece.”23

Questo argomento (che cercherò di confutare più avanti) è in pratica quello su cui si fonda una certa corrente di pensiero, anche di grandissimi teologi: L’unico argomento serio per l’impegno cristiano riguarda oggi il problema dei limiti della razionalità. È questo l’argomento su cui si fondavano sia Kierkegaard sia Barth. (ivi, p.111)

In effetti, il discorso della scommessa o della differenza abissale della fede dalla ragione pone la verifica del discorso solo a posteriori. Se scommetto su Dio, mi accorgerò (in futuro, quando morirò e mi accorgerò di “vivere” ancora) che in effetti quel discorso era vero. Anche Benedetto XVI spesso usa argomenti a posteriori per difendere la fede cristiana; egli sostiene che il cristianesimo ha prodotto così tanti santi e così tante grandi opere che è 23

Warren Bartley W., Ecologia della razionalità, Armando, Roma 1990, p. 111-14.

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impossibile dopo duemila anni di successi non prestare fede a questa dottrina. Ma cosa ne era duemila anni fa? Perché sarebbe stato allora razionale aderire al cristianesimo prima ancora dei numerosi santi e prima delle stupende cattedrali cristiane? Se si ammettono alcuni “primi principi” che non hanno bisogno di essere dimostrati perché sono in se stessi evidenti, il problema non si pone. Ma di fatto non tutti sono d’accordo nell’ammettere questo o quel principio primo o addirittura tutti. Mentre il discorso di “fede” (o di desiderio emotivamente determinato, per le più varie e più fondamentali esigenze umane) sarebbe assolutamente valido (ma solo e assolutamente per chi abbia le stesse esigenze emotive). Occorre stabilire il punto di partenza. Se parto dal fatto del mio esistere e del mio modo di esistere, questa fatticità dovrebbe essere il fondamento del principio di realtà indiscutibile e indimostrabile. L’altra possibilità di rendere il discorso non del tutto e solo irrazionale è quello di stabilire un principio di “coerenza”. È “razionale” tutto ciò che non contrasta con tutto quello che crediamo razionale, o fattuale, o emotivamente obbligatorio. Se tutta la cultura umana, in ogni società, è un’intricata rete di credenze (non obbligatoriamente di conoscenze vere in assoluto, ma sempre credute per vere; noi tendiamo ineluttabilmente a dare l’etichetta di verità a tutto ciò in cui crediamo), occorrerà che ogni altra credenza non costringa a rinnegare nessuna delle certezze comunque acquisite. Tutto ciò non rende più “razionale” o più “vero” un discorso, ma lo rende almeno più accettabile (il che, in pratica, è lo stesso: la verità è anche un consenso). Un punto di partenza elementare però dobbiamo accettarlo senza nessuna dimostrazione, ma solo per pura fede. Non l’esistenza di Dio che, come abbiamo già detto, è raggiungibile con le forze della ragione aiutate dalle forze non razionali ed emotive che dominano l’essere umano, ma occorre accettare per fede che Dio si “riveli” all’uomo. Nulla può convincere “razionalmente” che Dio parla con l’uomo, o che ha parlato nel corso della storia, e che in modo specifico ha parlato solo all’interno del popolo d’Israele. Ha parlato per mezzo di uomini, i Profeti, o per mezzo del Figlio suo, Gesù, ma sempre e solo nell’ebraismo. L’accettazione di questo fatto è un assoluto dato di fede: è la nostra fede, è la fede di cui io desidero essere teologo e che desidero rendere accettabile e veritiera. Questo è un dato di fede, è un “fatto” e i fatti si possono solo mostrare e non dimostrare. Mostrare questo “fatto” (come il problema di “mostrare” tutti i fatti del passato) non è possibile razionalmente. O c’è qualcosa che possiamo considerare una traccia credibile dei fatti passati o non c’è modo di provarlo. Che Cesare abbia passato il Rubicone e che abbia detto le parole “alea iacta est”, è forse provato dal fatto che se ne è scritto, ma questo non 204


basta; anche sulla guerra di Troia si è scritto e nonostante ciò non è sicuro che si sia svolta come si narra. Ma da questo assunto di fede e di solo fede e con l’ausilio della razionalità, e con il principio di coerenza si può giungere abbastanza facilmente a dimostrare tutto il complesso delle religioni. Parlo di religioni al plurale, perché non è che le religioni non cristiane siano del tutto irrazionali, mentre la nostra è del tutto razionale. Anche gli altri pensano e credono nello stesso modo in cui pensiamo noi, ed anche loro riescono a dimostrare “abbastanza” razionalmente i loro articoli di fede. Unico punto di partenza, lo ripeto, è che Dio abbia parlato e che abbia parlato a “noi”. Ognuno sostituirà a questo generico “noi” il nome del popolo a cui più o meno appartiene. Questo assunto non deriva dalla Rivelazione; ma al contrario è la Rivelazione che presuppone questa fede. Né si pensi che questo principio irrazionale (o almeno a-razionale) o di pura fede sia soltanto comprensibile in materia religiosa, perché tutta l’attività umana si basa su una fede “indimostrata” e indimostrabile, che noi usiamo inconsciamente, senza neppure rendercene conto: la scienza si basa sull’assunto che le “cose” che essa studia e le cui leggi ricerca siano “reali”, ci siano davvero. È una posizione di realismo estremo, ma è una posizione di fede, perché ancorché condivisa dalla maggior parte degli uomini, non è condivisa dalle varie correnti di pensiero “idealista”. Ancora la scienza fisica crede che ci sia un moto di cui studiare le leggi, e che esista un tempo formulabile presumibilmente in categorie certe: ma né lo spazio in cui ci sarebbe il movimento, né il tempo, che sarebbe la misura del movimento secondo il prima e il poi, sono un dato di dimostrazione, ma semplici postulati di fede. Infatti nel pensiero di tutti i parmenidei non esiste né il moto né tutte le condizioni che rendono possibile il moto. Il tempo poi è una realtà molto controversa e discutibile. Gli psichiatri e gli psicologi con gli psicanalisti studiano ciò che accade nella psiche, ma nessuno sa con certezza assoluta cosa sia e se ci sia una psiche, e nel caso che ci fosse che cosa fa esattamente e a che cosa serva precisamente. La sociologia studia l’attività umana nelle comunità, ma nessuno ha delle prove totalmente convincenti della esistenza delle menti altrui o della società. Cartesio pone il suo dubbio metodico, ma possibile, persino sulla esistenza del nostro corpo. Mentre saremmo sicuri dell’esistenza delle nostre menti, perché noi pensiamo, non possiamo essere sicuri d’avere un corpo. La medicina però dà questa nozione per scontata e da non dimostrare. La medicina si occupa infatti solo del benessere dei corpi creduti come reali ed esistenti. In oriente il mondo appare come una “Maya”, cioè come un’apparenza ingannevole, e tutti ammetterebbero di essere se stessi e tutte le cose contemporaneamente (come insegnano sia il Buddismo che l’Induismo). 205


Dov’è la verità oggettiva? Cosa rende razionale il discorso se la partenza di base è l’irrazionalità fideistica? È poi veramente necessario che l’attività umana sia basata su una verità “oggettiva”? Non è sufficiente una verità solo specifica? La tradizione scientifica deriva la propria capacità di auto rinnovamento dalla fiducia nella presenza di una realtà nascosta, di cui la scienza contemporanea costituisce soltanto un aspetto, mentre altri aspetti di questa tradizione sono destinati a esser rivelati dalle scoperte future. Questa intenzionalità deve esser posseduta da qualsiasi tradizione che alimenti il progresso del pensiero; si tratta per la tradizione di trasmettere le idee del momento quali tappe che conducono a verità ignote, le quali, una volta scoperte, potranno eventualmente divergere dalle molte teorie che le hanno generate. Una tale tradizione assicura l’autonomia dei suoi fautori con il trasmettere il convincimento che il pensiero possiede poteri intrinseci, destinati ad essere evocati nella mente degli uomini da intuizioni di verità nascoste. La tradizione rispetta nell’individuo la capacità di fornire una risposta, di esser capace cioè di vedere un problema invisibile agli altri e di esplorarlo assumendosene la responsabilità. Tali sono i fondamenti metafisici della vita intellettuale in una società libera e dinamica; tali sono i principi che cautelano in una società siffatta la vita intellettuale.24

Ma non rischiamo così l’arbitrarietà dei pregiudizi e dell’emotività indiscriminata del teologo o del semplice fedele che crede ciò che crede perché così gli piace, senza nessun riscontro di “verità” oggettiva (sia pure nel riconoscere che non posso oggettivare Dio)? No. Soprattutto perché nel conoscere un certo “obiectum” del mio linguaggio (come la parola Dio, o grazia, o peccato, eccetera) io parto da una precomprensione della realtà che mi ha preceduto storicamente e che mi ha formato. Lo scopo della teologia (come di tutte le scienze) non è tanto quello di “dire” la verità, quanto quello di cercarla, approssimandosi ad essa quanto più è possibile indefinitamente. Non c’è mai perciò una verità acquisita e resa patrimonio stabile e definitivo dell’umanità. Il mio essere interprete è dovuto a una precomprensione reale della cosa perché appartiene esistenzialmente a una storia costituita e condeterminata dalla cosa stessa che gli si dà da interpretare. […] Ciò che è costitutivo dell’uomo non è l’essere estraniato dal proprio passato storico, ma l’esser sempre collocato, nei suoi confronti, in una posizione media tra familiarità ed estraneità: questo fonda la centralità e l’universalità del problema ermeneutico25. Il superamento di tutti i pregiudizi, che è una specie di precetto generale dell’illuminismo, apparirà esso stesso come un pregiudizio, dalla cui revisione 24

Polanyi M., La conoscenza inespressa, Armando, Roma 1979, p. 98-99. Vattimo G., “Introduzione”, in: Gadamer H-G., Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. XIX. 25

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dipende la possibilità di una adeguata conoscenza della finitezza che costituisce non solo la nostra essenza di uomini, ma anche la nostra coscienza storica. […] Il contrario dell’accettare i pregiudizi ricade nel riconoscimento di un’autorità infallibile e obbligante. [...] Sulla base di un illuministico concetto di ragione e di libertà ha potuto infatti prender risalto nel concetto di autorità l’opposto puro e semplice della ragione e della libertà, la cieca sottomissione […]. Questo pervenire alla maturità non significa affatto che l’uomo diventi padrone di se stesso nel senso di divenire libero da ogni tradizione e da ogni legame col passato. La realtà dei costumi, per esempio, ha una validità in larga misura legata alla trasmissione e alla tradizione. […]. Noi stiamo invece costantemente dentro a delle tradizioni, e questo non è un atteggiamento oggettivante che si ponga di fronte a ciò che tali tradizioni dicono come a qualcosa di diverso da noi, di estraneo; è invece qualcosa che già sempre sentiamo come nostro, un modello positivo o negativo, un riconoscersi nel quale il successivo giudizio storico non vedrà una conoscenza, ma un libero appropriarsi della tradizione26.

Il metodo che propongo è conforme a ciò che disse Gadamer in un’intervista con Riccardo Dottori, pubblicata poi in volume e che si riferisce a ciò che Heidegger (che fu teologo e filosofo contemporaneamente) diceva. La tesi di Heidegger era comunque: c’è Dio, ma non c’è la teologia. In tutto questo ordine di problemi non c’è nulla di razionale, nulla di dimostrabile, nulla che vada in questa direzione.” (ivi)

Essendo un occidentale ritengo che basterebbe al singolo credente credere (con fede illuminata dalla ragione/ emotività) nell’esistenza di Dio e nella rivelazione ut iacet nella Bibbia (cioè credere nella rivelazione scritta, senza nessuna interpretazione ufficiale, perché questa spetta a ogni singolo credente) e nelle conseguenze morali derivanti dal comandamento assoluto dell’amore (come agape) del prossimo. Tutto il resto, tutta la teologia, sarebbe solo un interessante esercizio di abilità dialettica, utile esattamente quanto lo è la filosofia, e lo studio della letteratura, o la contemplazione dell’opera d’arte: tutte cose essenziali alla vita dell’uomo qua uomo, ma di nessun rilievo pratico o veritativo. L’aspetto scientifico è sempre nemico della verità artistica o letteraria o filosofica o religiosa. È lo scientismo il principale nemico delle fedi religiose. Naturalmente ogni scientismo è un pregiudizio ingannevole e del tutto negativo. Il fraintendimento ateistico è quello di voler leggere le parole della fede nello stesso modo (con la stessa ermeneutica) che regge la scienza fisica, o le scienze in genere. Naturalmente questo è impossibile e profondamente errato. Ogni scienza non potrebbe narrare di Dio, né del nostro rapporto con Lui.

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Gadamer H-G., La lezione filosofica del XX secolo, Reset, Milano 2000, p. 120.

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Credo che dovremmo dichiarare esplicitamente che la undicesima tesi marxiana su Feuerbach sia radicalmente erronea. Essa dichiara: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo”. Ora, la filosofia non deve né interpretare né trasformare il mondo. Il mondo non è una “cosa” data già bella e fatta, una cosa anonima e bruta a cui noi dovremmo solo applicare dei nomi, delle etichette per descriverlo o per interpretarlo (come se fosse un libro scritto forse nell’alfabeto della matematica): né lo possiamo trasformare semplicemente (questo caso mai è il compito della tecnica forse guidata dalla politica). Il mondo semplicemente come “cosa” separata dal nostro linguaggio non c’è. Esiste invece un mondo/ linguaggio che è un tutt’uno; se non abbiamo la parola per dire una cosa, quella cosa c’è, ma per noi è come se non ci fosse. Prima della scoperta del protone o del neutrone (ma anche della tubercolosi o della circolazione del sangue) queste “cose” non c’erano. La filosofia non può trasformare il mondo e non deve neppure semplicemente interpretarlo, lo deve rendere “abitabile” per noi uomini. Lo rende abitabile con il “dirlo”, con il renderlo a portata di mano attraverso il linguaggio, attraverso le narrazioni che possiamo intraprendere di esso. Noi siamo esseri dotati di linguaggio e siamo “gettati” in questo mondo. Essere gettati vuol dire anche “non” avere la possibilità di trasformare il mondo. Tutto quello che riusciamo a fare è il tradurre “in atto” ciò che era già “in potenza”. Noi non siamo creatori o trasformatori; noi siamo animali che parlando vogliono dare un “senso”, una finalità, uno scopo a tutto; uno scopo alla vita umana, e uno scopo a tutte le cose che ci interessano e che quindi nominiamo. Scopo della filosofia è “razionalizzare” il modo delle cose che non ha nulla di razionale; è umanizzare e rendere vivibile per noi (cioè il credere di poter comprendere anche le cose brute) il mondo nel quale siamo capitati. La teologia è la filosofia applicata al soprannaturale, quindi come tutto il resto della filosofia deve rendere vivibile (darci cioè l’impressione di comprendere) le cose del mondo superiore, di ciò che chiamiamo Dio e di tutta la sua sfera. La teologia perciò non ha come scopo la verità di un mondo di cui non abbiamo alcuna esperienza, ma ha lo scopo della comprensione umana (quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur), per rendere abitabile il mondo della religione. La narrazione teologica ha dunque il carattere della comunicazione di cose che non sono dicibili, non sono raggiungibili dal linguaggio umano, ma sono accennabili tramite discorsi mitologici. Sperabilmente dovrebbero essere discorsi mitologici “belli” perché hanno lo scopo di rendere gradevole e attraente il mondo del divino. Le chiese, tutte le chiese, dovrebbero cercare di vivere l’amore e non solo di predicarlo ai fedeli. Ciò che disse Papa Giovanni all’apertura del Concilio 208


Vaticano II (e che ricordo per avere udito personalmente) è: “Guardiamo (noi cristiani di tutte le confessioni) al tanto che ci unisce invece di guardare al poco che ci divide”. In effetti tutti i cristiani condividono la stessa fede in Dio e nel Figlio Suo Gesù, condividono gli stessi Libri sacri, condividono lo stesso battesimo e la stessa eucarestia (anche se qui vale il più e il meno delle interpretazioni), condividono lo stesso imperativo d’amore. È inutile e sembra solo una guerra di potere e di denaro quella che oppone papato e ortodossia, o papato e protestantesimo, o papato e protestantesimo insieme contro le antiche eresie cristologiche. La teologia e la tradizione che ne deriva (la fonte di rivelazione chiamata “tradizione”, anche se è del tutto umana e storica) è lo strumento che le chiese usano per scomunicarsi a vicenda con il risultato di uccidere quella fede e quell’amore che dovrebbero predicare. L’odio e non l’amore sembra guidarle (o il credere che Dio pensi sempre esattamente come penso io, chiunque sia questo io). La teologia è importante nella misura in cui “non” è essenziale. La teologia è oggetto di venerazione nella misura in cui è “fruizione” della bellezza di quell’opera d’arte che è la fede. La teologia non ha nulla a che vedere con la “verità” (ammettendo, per amor di polemica, che esista una cosa come le verità “oggettiva”). Per concludere: innanzi tutto occorrerà che il teologo sia cosciente di non avere esigenze rivelatorie. Egli dovrà avere la serietà comune a ogni intellettuale che voglia fare con coscienza il proprio lavoro e dovrà adottare tutte le necessarie misure, i necessari studi, le ricerche, e così via; parlerà coscienziosamente come un qualsiasi professionista nel suo campo di competenza; farà, come tutti, le necessarie abduzioni (o ipotesi) per trovare soluzioni ragionevoli (ragionevoli per noi, qui ed oggi) ai problemi di fede che cercherà di rendere attraverso discorsi (non discorsi del logos, ma del mito) accettabili e comprensibili dai suoi lettori. Per discorrere mitologicamente non dovrà dimenticarsi, o mettere tra parentesi, tutte le differenti fedi che formano il tessuto della cultura in cui si vuole inserire con le sue parole. Feyerabend non sarebbe d’accordo con quanto detto; egli sostiene che per ottenere dei risultati scientificamente apprezzabili è meglio andar contro (ipotizzare anche il contrario) a tutte le certezze già acquisite. Ma egli parla di scienza; la religione (e anche la fede) è, al contrario delle scienze, non il tentativo di scoprire nuove leggi o nuove conclusioni, ma è il tentativo di conservare intatto il “depositum fidei”, pur cercando di renderlo intelligibile a tutte le generazioni. Ogni variazione teologica è solo un’interpretazione, nulla è definivo o immutabile. Ogni tipo di spiegazione dovrà essere secundum naturam, secondo i fatti (secondo la natura delle cose, dove la parola “natura” significa, secondo il comune concetto che di quella cosa possiede la nostra cultura, comune e 209


anche specializzata) o praeter naturam (cioè com-possibile con i fatti, sebbene non derivante direttamente, e al di sopra di loro, ma non contro i fatti stessi). Mai dovrà dire cose contra naturam (cioè contro la natura delle cose, intendendo la parola “natura” nel senso di come le cose sono comunemente “credute” dalla cultura e dalle fedi dell’epoca e del luogo). È contro natura così: Da questo punto di vista – di sociologo, o, se si vuole, di filosofo della storia e della cultura – il discorso di Vahanian deve essere valutato, e da questo punto di vista è rilevante: il cristianesimo ha abbandonato la sua posizione di annuncio di salvezza escatologica, per divenire annuncio di salvezza terrestre: è entrato nella “cultura”, è divenuto ideologia. È entrato in concorrenza con le altre ideologie e su questo terreno è stato sconfitto ed è morto. Da “fede” (annuncio di salvezza escatologica) è diventato “religione” (ideologia: cultura, filosofia, politica, morale), cioè idolatria27.

Il teologo dovrà cercare di mettere in luce tutto ciò che forma la struttura delle fedi e dei desideri che sono stati elaborati dalla sua cultura, certo che queste saranno anche le fedi e i desideri della sua epoca e del suo luogo, dei suoi contemporanei, annunciando la fede e non la religione. E nell’intellectus fidei dovrà sempre usare il metodo del “sic et non”, mostrare cioè tutte le ragioni a favore di una tesi e contemporaneamente tutte le ragioni contrarie. Non per amore di objettività, ma perché tutte le tesi, sia quella del sì, che quella del no, meritano di essere prese in seria considerazione; se io propendo per la tesi del sì, è certamente perché ho molti motivi, consci e inconsci, razionali ed emotivi, per fare quella scelta che, dunque, se è motivata per me, non necessariamente è motivata per gli altri. Ma lo stesso discorso vale per la tesi contraria, che merita dunque lo stesso rispetto della mia. Così facendo la teologia recupererà l’atteggiamento del filosofo, del gioco filosofico, che consiste nel discutere circa la verosimiglianza delle cose, con teorie anche contrapposte ad altre teorie, e affidando la sopravvivenza della teoria proposta allo stile, al linguaggio, alla abilità retorica, al cogliere le esigenze dei contemporanei in materia di riflessioni sulla fede. Tutto il resto sarebbe retorica di parte, sarebbe difesa di posizioni di potere e di privilegio economico e politico, che non è degno di menzione. Teologia significa gioco, danza di idee, creazione di vita intellettuale, e soprattutto, esercizio di amore e di dedizione al Dio vivente, che sempre si rivela a noi per mezzo del Suo Spirito, nel suo Corpo che è la Chiesa. 27 Gentiloni, F., “Prefazione” a: Vahanian G., Non avrai altro Dio, Queriniana, Brescia 1970, p. 9.

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Un’ultima nota essenziale. Il teologo deve esporre la sua riflessione sul rapporto dell’uomo con il Dio vivente, soprattutto fortificando il fatto di fede che egli non sta scrivendo o predicando l’unica e definitiva verità. Scrive il p. Silvano Fausti sj: in campo teologico l’idolatria è difficile da estirpare: ognuno ritiene più o meno che le proprie opinioni su Dio siano divine. Divino invece è solo di Dio, nel suo agire per noi e in noi; ma ogni nostro interpretarlo resta parziale e umano – quindi falso e idolatrico, se non sa di esserlo. È importante non sostituire le proprie certezze con la verità di Dio (…). Certi teologi sono apprezzati perché ripetono ciò che hanno letto su libri giustamente accreditati, senza però mai aver pensato a ciò che hanno imparato. Sembrano corretti e ortodossi, ma sono sommamente inaffidabili e nocivi, soprattutto se hanno incarichi importanti, perché non sanno quello che dicono. Sono dei replicanti che scambiano la realtà con l’interpretazione dei grandi maestri, senza assolutamente pensare a ciò a cui essi hanno pensato.28

E poco dopo afferma: Per il cristiano solo il fatto salvifico è oggetto di fede, non il modo di narrarlo e tanto meno quello di interpretarlo o spiegarlo. (…). Certo che possiamo conoscere la verità, e che la verità è adaequatio intellectus et rei! Purchè non si presuma che la nostra conoscenza adegui totalmente la cosa: è solo “una certa” adaequatio, proporzionata a ciò che in quel momento e sotto quell’aspetto ricerchiamo, senza precluderci altre situazioni e altri aspetti che fanno capire altro, ampliando il nostro orizzonte.” (ivi)

Nel mondo delle confessioni cristiane si sta verificando un “errore” di non comprensione dell’importanza della teologia. Per citare un classico: invece di celebrare in pace e fraternità la “cena del Signore” o l’eucarestia si dà più importanza alla interpretazione teologica della cena che non alla Parola del Signore. Non viene ammesso a nutrirsi del Pane della vita chi non accetta alcune interpretazioni di alcuni teologi poi fatte proprie da alcuni concili. Così si subordina la vita sacramentale del credente alle opinioni “forse” corrette della teologia. Questo, mi pare, è una colpa che la chiese dovrebbero evitare. Gesù non ha dato altro che l’istituzione, non anche l’interpretazione che dovrebbe perciò restare libera. Temo che questo sia un peccato di orgoglio e di ricerca del potere, che potrebbe portare le chiese all’eresia e alla confusione. Il teologo esperisce Dio nel suo cuore, nella preghiera. Egli è un uomo di fede, e la sua fede deve essere nutrita dal tentativo di renderla comprensibile e giustificabile per la sua ragione. Il teologo sa per esperienza 28

Fausti S., L’Idiozia, Ancora, Milano 1999, p. 34.

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che il suo atto di fede, la sua preghiera, sono semplicissimi e non necessitano intermediazioni, e sa che il suo atto intellettuale dà luogo a ragionamenti complicatissimi. La fede è perciò di tutti e unisce i fedeli in un cuore solo; la teologia è solo di pochi ed è divisiva, perché ognuno esperisce l’azione di Dio in un modo incomunicabile. Teologare è l’arte (o il gioco) di discorrere con rigore logico di ciò che per definizione deriva da un “sapere” o un “conoscere” biblico che va molto oltre e sopra ogni logica. Del resto l’arte che più si fonda sul rigore logico, la filosofia, non riesce per sua natura a raggiungere mai la verità in sé. La teologia non è certo più razionale della filosofia; anzi, la teologia è solo quel ramo della filosofia che studia la relazione tra l’uomo e Dio; relazione che posso studiare in accordo con Agostino: entrare nell’intimo di me stesso, perché Dio è il mio intimo più intimo, il più conoscibile, su cui si fonda la mia auto comprensione. Ogni teologo, come ogni cristiano, esperisce in sé vividamente l’esperienza della presenza di Dio. Questa è una certezza come lo è l’esperienza che si può avere dell’amore o dell’amicizia. È una certezza non solo soggettiva perchè è condivisa da molti altri esseri umani, come lo è l’amore. Il teologo così colmo della presenza di Dio e colmo dell’amore di Dio è per vocazione costretto a rientrare in se stesso e a cercare di dare ragione, di rendersi conto a livello della razionalità del fatto di questa presenza, della sua bellezza, del suo scopo. Interrogandosi e cercando di intelligere compie di fatto un’opera di teologia. Se quest’opera risulterà comprensibile anche ai suoi contemporanei avrà fatto una buona operazione teologica. Altrimenti avrà solo cercato di pregare.

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c/ di Riccardo Lazzari, Fiorenza Bevilacqua, Simona Bertolini

Convegni Socratica III. A Conference on Socrates, the Socratics and the Ancient Socratic Literature. Trento, 23-25 febbraio 2012. Grazie al contributo del Dipartimento di Filosofia, Storia e Beni culturali dell’Università degli Studi di Trento, con il patrocinio del Comune di Trento, dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e sotto i benevoli auspici della International Plato Society, si è tenuto a Trento, nei giorni 23-25 febbraio 2012, Socratica III, un convegno che ha rappresentato un appuntamento di grande rilievo per chiunque si occupi di Socrate, dei Socratici, della letteratura socratica, nonché, in ultima analisi, anche della cosiddetta questione socratica. Bisogna per altro ricordare che Socratica III costituisce la tappa più recente di un percorso che viene da lontano: il primo impulso, se non l’atto di nascita, può infatti ritenersi il convegno su Senofonte e Socrate svoltosi nel 2003 ad Aix-en-Provence (vd. in proposito M. Narcy/A. Tordesillas, c/ di, Xénophon et Socrate. Actes du Colloque d’Aix-en-Provence. 6-9 novembre 2003, Paris 2008), a cui fecero appunto seguito i due convegni denominati Socratica 2005 e Socratica 2008, tenutisi rispettivamente a Senigallia e a Napoli (vd. L. Rossetti/A. Stavru, c /di, Socratica 2005. Studi sulla letteratura socratica antica presentati alle Giornate di studio di Senigallia, Bari 2008, e, sempre c/ di L. Rossetti/A. Stavru, Socratica 2008. Studies in Ancient Socratic Literature, Bari 2010), entrambi voluti e organizzati da Livio Rossetti e da Alessandro Stavru, ai quali si è aggiunta, in occasione di Socratica III, Fulvia De Luise. All’origine e alla base di tale percorso si collocava e si colloca un’esigenza fondamentale, quella di riesaminare tutta la letteratura socratica (o, per essere più precisi, quanto di essa rimane) con uno sguardo finalmente libero da una serie di incrostazioni e di pregiudizi interpretativi ereditati da una lunga e cospicua tradizione, ma non per questo meno fuorvianti e dannosi: ad es., la consolidata tendenza a considerare i Socratici della prima generazione, cioè i diretti discepoli di Socrate, quasi esclusivamente in rapporto alle cosiddette “scuole socratiche” che vengono fatte risalire a loro; ovvero l’altrettanto collaudata abitudine a considerare come “minori” rispetto a Platone tutti gli altri Socratici, Senofonte incluso; ovvero ancora la lunga e sistematica sottovalutazione della nascita e dello sviluppo di un nuovo genere letterario, quello dei logoi Sokratikoi, dotato di caratteristiche ben definite, che giocano un ruolo centrale per la comprensione non solo dei logoi Sokratikoi superstiti, vale a dire i dialoghi di Platone e quelli racchiusi nei

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Memorabili di Senofonte, ma anche, ovviamente, per quei logoi Sokratikoi di cui possediamo soltanto frammenti, più o meno copiosi, più o meno estesi. Se questa può ritenersi, in sintesi, la pars destruens di tale percorso, la pars construens da un lato consiste nell’impegno, certo gravoso e complesso, a ricostruire il contesto non solo filosofico ma anche letterario e culturale in cui operano sia Socrate sia la prima generazione di Socratici, autori di una vastissima produzione di logoi Sokratikoi; d’altro canto implica un serio lavoro volto ad analizzare, all’interno di tale produzione, una serie di tematiche che in essi si rinvengono, per cogliere analogie, differenze e le diverse linee di sviluppo. A queste esigenze si è proposto di rispondere Socratica III; non bisogna per altro dimenticare che alcuni contributi si sono occupati degli ulteriori sviluppi di tematiche socratiche (o, quanto meno, ritenute tali) in età ellenistica e nel periodo tardo antico, da Aristotele agli stoici, ai neoplatonici fino alla letteratura araba medievale (uno studioso di Teheran, Mostafa Younesie, ha infatti presentato un suo contributo relativo alla recezione degli insegnamenti politici di Socrate nella letteratura araba medievale, ricavati dai testi di Platone, Isocrate e Senofonte all’epoca disponibili). Il convegno si è articolato in tre giornate, dal pomeriggio del 23 febbraio fino alla mattina del 25: i lavori si sono svolti in sedute plenarie, fatta eccezione per larga parte della mattinata del 24 febbraio, in cui sono stati articolati in tre sessioni parallele: un gruppo intitolato “Isocratica-Xenophontea”, un altro “SophistiAeschines-Plato” e un terzo “Traditio”: un’articolazione resa forse inevitabile dall’ampia messe di contributi pervenuti, anche se penalizzante per chi fosse stato interessato ai diversi argomenti proposti in contemporanea. È inoltre necessario precisare che uno degli scopi del convegno è stato quello di presentare e di offrire a una prima discussione alcuni volumi di recente e recentissima pubblicazione: due edizioni dei Memorabili di Senofonte, curate rispettivamente dalla sottoscritta per i Classici Latini e Greci della Utet (Senofonte, Memorabili, c/ di F. Bevilacqua, Torino 2010), e da M. Bandini e da L.-A. Dorion per la collezione G. Budé de Les Belles Lettres (Xénophon, Mémorables, texte établi par M. Bandini et traduit et annoté par L.-A. Dorion, t. I, Paris 2000; t. II, Paris 2011); un importante saggio di V. Gray sulla tematica della leadership in Senofonte (V. J. Gray, Xenophon’s Mirror of Princes, Oxford 2011); un volume miscellaneo di contributi su Senofonte curato dalla medesima studiosa (V. J. Gray, c/ di, Xenophon, Oxford 2010); un altro volume miscellaneo, curato da D. Morrison, che raccoglie invece una serie di contributi su Socrate (D. Morrison, c/ di, The Cambridge Companion to Socrates, Cambridge 2011); infine il saggio, stimolante e innovatore, di G. Danzig sulle differenti strategie apologetiche di Platone e di Senofonte nei confronti di Socrate (G. Danzig, Apologizing for Socrates, Lanham MD 2010). L’edizione dei Memorabili curata da M. Bandini e da L.-A. Dorion è stata presentata da G. Danzig, che si è soffermato esclusivamente sul lavoro svolto da Dorion, che, oltre alla traduzione francese, ha curato un ampio e dottissimo commento nonché una ricca e corposa introduzione; ciò è senz’altro dipeso dal fatto che l’interesse sia del relatore sia della quasi totalità dei partecipanti era incentrato sul versante specificamente filosofico dell’opera, a scapito degli aspetti più propriamente letterari e, ancor più, dei problemi filologici inerenti al testo: diviene pertanto comprensibile che Danzig abbia passato del tutto sotto silenzio lo

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straordinario lavoro di M. Bandini, che ha approntato un’edizione critica assolutamente affidabile, che si avvale di papiri e manoscritti finora mai presi in considerazione e si fonda su una ricostruzione della storia del testo dei Memorabili che è frutto di lunghi anni di studio, di straordinario rigore scientifico e di quel pizzico di genialità che è proprio di tutti i grandi filologi (vd. M. Bandini, Histoire du texte, in M. Bandini-L.-A. Dorion, Mém., cit., t. I, pp. CCLIII-CCCII). La relazione di Danzig ha sottolineato, innanzi tutto, che Dorion, accantonata la questione socratica per l’asserita impossibilità di ricostruire il pensiero del Socrate storico, ha invece proposto un’analisi comparativa degli scritti dei Socratici, in particolare di Senofonte e di Platone: ed è a questo metodo che si è sistematicamente attenuto sia nel commento sia nell’introduzione ai Memorabili, con risultati importanti e significativi, resi possibili anche grazie alla sua profonda conoscenza di Platone, nonché dei frammenti degli altri Socratici. Per altro Danzig ha esposto, come contributo alla discussione, anche il suo dissenso nei confronti della posizione assunta da Dorion riguardo all’atteggiamento di Senofonte rispetto all’elenchos. Dorion, infatti, sostiene che Senofonte nutre una radicata diffidenza nei confronti dell’elenchos, ritenuto strumento inefficace per condurre alla virtù (vedi Mem. I, 4, 1) e pertanto utilizzato dal suo Socrate solo come mezzo utile a selezionare i discepoli (vedi il dialogo con Eutidemo in Mem. IV, 2), mentre soltanto le conversazioni di tipo didattico (in pratica tutte le conversazioni dei Memorabili, eccettuato appunto il dialogo con Eutidemo in IV, 2) risultano in grado di promuovere il miglioramento morale degli interlocutori. Danzig, invece, dissente dall’interpretazione data da Dorion a Mem. I, 4, 1 (che indubbiamente costituisce il passo cruciale riguardo all’elenchos, alla sua utilizzazione da parte di Socrate e alla sua efficacia educativa e morale), per focalizzare la sua attenzione su Mem. IV, 8, 11, dove, secondo l’interpretazione di Danzig, emergerebbe una valutazione positiva dell’elenchos, presentato come parte integrante ed essenziale della pratica educativa di Socrate; inoltre, mentre Dorion contrappone il “buon uso dell’elenchos”, cioè quello praticato da Socrate nei confronti di Eutidemo (Mem. IV, 2) al “cattivo uso dell’elenchos”, vale a dire quello praticato dal giovanissimo Alcibiade nei confronti di Pericle (Mem. I, 2, 40-46), Danzig sostiene invece che, in quest’ultima conversazione, Alcibiade viene presentato come un esempio positivo e convincente di quell’abilità dialettica che i giovani apprendevano dalla frequentazione di Socrate. Non è certo questa la sede per entrare nel merito delle questioni sollevate da Danzig: ma è indubbio che il problema dell’elenchos nei Memorabili costituisce un nodo centrale e che merita ulteriori approfondimenti, anche sulla base delle argomentazioni sviluppate proprio da Danzig. L’edizione da me curata per i Classici Utet si è avvalsa anch’essa del testo critico predisposto da M. Bandini, che lo ha messo a mia disposizione quando era ancora in bozze di stampa, dando prova di una generosità di cui desidero ringraziarlo anche in questa sede: io mi sono limitata, nella Nota critica, a indicare i pochi luoghi in cui mi sono discostata dal testo di Bandini ovvero quelli in cui ho seguito il suo testo con qualche perplessità; oltre alla traduzione e alle note di commento, il volume presenta un’ampia introduzione e una articolata Nota bibliografica. Il volume è stato presentato da A. Stavru, che si è soffermato sulla introduzione, articolata in diversi paragrafi: i primi due, che vertono sulla struttura, sulla composizione e sulla

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datazione dell’opera, insistono nel sottolineare la continuità tra le due sezioni in essa si articola, quella apologetica (Mem. I, 1-2) e la più ampia sezione apomnemoneutica (Mem. I, 3-IV, 8), accomunate da una finalità apologetica che si gioca soprattutto sul terreno politico, dato che il processo a Socrate fu un processo squisitamente politico, come è dimostrato in modo inequivocabile soprattutto dalla Kategoria di Policrate, a cui si indirizzano le repliche di Senofonte in Mem. I, 2, 9-61. Stavru ha poi rilevato come sia stato messo in luce il carattere organico dell’opera e in particolare della sezione apomnemoneutica, in cui, al di là dell’apparente disordine, si può agevolmente rintracciare un limpido piano generale e un nitido filo conduttore, costituito dal Leitmotiv dell’utilità di Socrate: in tal modo questa seconda sezione rappresenta una difesa indiretta e, quindi, particolarmente efficace dell’operato del maestro. Stavru ha quindi sottolineato l’ampio spazio accordato al problema delle varie fasi di composizione dell’opera per poi sostenere che, nell’affrontare la questione socratica e il valore degli scritti socratici di Senofonte (e dei Memorabili in particolare), la curatrice si sarebbe appiattita sulle posizioni di due studiosi quali G. Vlastos e G. Reale, che si sono occupati ben poco di Senofonte, utilizzando invece Platone come fonte privilegiata su Socrate, senza tenere conto di tutti i contributi recenti che rivalutano ampiamente Senofonte. Su questo punto si è ovviamente sviluppata una vivace discussione con la sottoscritta: mi sembrerebbe poco elegante dare eccessivo spazio, in questa sede, alla mia replica: mi limito a ricordare che ho insistito sul fatto che una doverosa rivalutazione del Senofonte delle opere socratiche non significa, per altro, chiedere a Senofonte ciò che non è in grado di dare, ciò che, non a caso, non si riscontra nei Memorabili: vale a dire una profondità speculativa, uno spessore teorico di cui gli scritti socratici di Senofonte rimangono comunque privi, mentre si rivelano senz’altro preziosi per quanto concerne l’aspetto politico e il pensiero politico; d’altro canto, se pure i Memorabili appaiono un’opera di modesto valore filosofico, risultano comunque importantissimi rispetto a Socrate: se non come “fonte” in senso stretto, data la libertà di invenzione tipica dei logoi Sokratikoi, certo come uno degli specchi (anzi il più importante degli specchi, insieme ai dialoghi giovanili di Platone) in cui si riflette l’immagine forse inafferabile, ma non per questo meno degna di essere indagata, del Socrate storico. Il saggio di V. Gray, Xenophon’s Mirror of Princes, è stato presentato da me e devo premettere che ho assolto questo incarico con grande gioia per la profonda stima che nutro nei confronti della studiosa e per l’affinità tra il campo dei suoi interessi e dei miei, ma, nel contempo, con una certa trepidazione, perché non è facile rendere conto a un pubblico costituito quasi esclusivamente da specialisti di filosofia della provvidenziale atipicità di una studiosa come la Gray, atipicità che emerge in questo suo ultimo lavoro in modo ancor più spiccato e più netto che nei suoi lavori precedenti. L’atipicità della Gray è data dal fatto che la studiosa si è occupata di tutta l’opera di Senofonte, che proprio per la sua estrema varietà ben raramente è stata analizzata e studiata nel suo complesso e nella sua complessità. D’altro canto ho voluto sottolineare come i lavori della studiosa e soprattutto quest’ultimo si inquadrino nell’ambito di una rinnovata attenzione per Senofonte e in particolare per il Senofonte degli scritti socratici, a partire dai noti contributi di L. Strauss. A questo proposito la studiosa accetta la sfida proposta dall’esegesi

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straussiana, che consiste nell’opporre a una lettura “innocente” una lettura ironica, “darker”, come la definisce con efficace metafora la stessa Gray. Attraverso una serie davvero impressionante di esempi la studiosa riesce a mostrare da un lato che le ironie presenti nelle varie opere di Senofonte sono sempre esplicite, sistematicamente segnalate al lettore, dall’altro che anche i giudizi di Senofonte sui vari personaggi risultano altrettanto espliciti, in particolare per quanto concerne le loro capacità di leadership. Rispetto alla questione della leadership la Gray ha incentrato il suo sguardo su quella che è sempre stata considerata l’opera cruciale, vale a dire la Ciropedia, tenendo comunque presenti anche altri scritti di Senofonte, in particolare la Costituzione degli Spartani, l’Anabasi, nonché gli stessi Memorabili: in opposizione a una lettura ironica della figura di Ciro come leader ideale, la Gray rileva a ragione che la leadership di Ciro viene costantemente presentata non solo come positiva, ma addirittura come esemplare; meno condivisibile, a mio avviso, la convinzione della Gray che la leadership di Ciro possa configurarsi come una leadership “democratica”: in effetti, sia che ci si riferisca alla democrazia degli antichi sia che si faccia riferimento a ciò che oggi intendiamo per democrazia, il sovrano che, come Ciro, si sottrae alla legge per sostituirsi alla legge stessa, divenendo “una legge dotata di vista”, il sovrano che grazie al suo carisma riesce a sedurre, a stregare il suo popolo, esercita una leadership manipolatoria di tipo populista: e il populismo, in tutte le sue varianti, antiche e moderne, è comunque espressione di una insopprimibile vocazione autoritaria. Ho dunque sottolineato come su questo specifico punto, cioè sulle valenze politiche e ideologiche della leadership di Ciro, sia opportuno un ulteriore approfondimento: ma anche a tale scopo il volume della Gray non potrà che rivelarsi prezioso. Oltre a Xenophon’s Mirror of Princes, ho avuto il piacere di presentare un altro volume curato dalla medesima studiosa, una miscellanea di saggi di vario genere e di diversa natura: a contributi che puntualizzano strategie e tecniche narrative di quelle opere in cui la narrazione gioca un ruolo fondamentale (vd., in particolare, P. Stadter, Fictional Narrative in Xenophon’s Cyropaedia, p. 367-400; M. Reichel, Xenophon’s Cyropaedia and the Hellenistic Novel, p. 418-38; P. Bradley, Irony and Narrator in Xenophon’s Anabasis, p. 520-52) si alternano contributi che vertono sulle posizioni politiche e ideologiche quali emergono in vari scritti di Senofonte (vd. S. Johnstone, Virtous Toil, Vicious Work: Xenophon on Aristocratic Style, p. 137-66; P. Carlier, The Idea of Imperial Monarchy in Xenophon’s Cyropaedia, p. 327-66: trovo particolarmente apprezzabile che la Gray abbia voluto includere nella sua silloge quest’ultimo contributo, che costituisce un chiaro esempio di quell’esegesi di tipo straussiano che la studiosa ha sistematicamente contestato e confutato, ma che ha voluto comunque proporre all’attenzione degli studiosi). Non potendo soffermarmi su tutti i saggi inclusi nella raccolta, ho scelto di prendere in esame, sia pure rapidamente, due contributi relativi ai Memorabili. Innanzi tutto quello di D. Morrison, Xenophon’s Socrates as a Teacher (ibid., p. 195-227), che prende in esame il percorso educativo di Eutidemo nel IV libro dei Memorabili per concludere che sono proprio i Memorabili a mettere in luce la figura di Socrate come maestro in campo morale, un aspetto che è presente anche nei dialoghi di Platone, anche se, come nota a ragione Morrison, non pochi studiosi tendono a ridurre la funzione educativa di Socrate alla sua attività dialettica, alla

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mera confutazione dei suoi interlocutori. Un altro importante aspetto analizzato da Morrison è il ruolo di Socrate come maestro di virtù: sia Platone sia Senofonte negano che Socrate lo sia stato, partendo però da due differenti punti di vista: Platone in quanto il suo Socrate nega di essere un maestro tout-court, Senofonte in quanto il suo Socrate, pur affermando più volte di insegnare ai suoi amici ciò che sa, non fa esplicito riferimento alla virtù. Tuttavia, a giudizio di Morrison, è comunque Senofonte a mostrarci un Socrate che si configura come maestro di virtù grazie al suo esempio, insistendo ripetutamente sul valore educativo dell’esempio stesso. In sostanza il pregio maggiore di questo saggio consiste nell’evidenziare che la figura di Socrate come maestro si arricchisce e si completa nelle sue valenze e nelle sue sfaccettature se, oltre al Socrate dei dialoghi di Platone, teniamo presente il Socrate che emerge, proprio come maestro più ancora che come filosofo, dai Memorabili di Senofonte. L’altro contributo che ho deciso di illustrare è un articolo di L.-A. Dorion del 2001, successivamente rivisto e ampliato: The Straussian Exegesis of Xenophon: The Paradigmatic Case of Memorabilia IV 4 (ibid., p. 283323): in esso lo studioso muove da una accurata disamina dell’esegesi straussiana di vari scritti di Senofonte, socratici e non, per metterne in luce il presupposto fondamentale, quello di un asserito, insanabile conflitto tra la polis e il filosofo, conflitto che indurrebbe quest’ultimo a esprimere il proprio messaggio in forma velata, criptica, in vista di tre fondamentali obiettivi: proteggere se stesso da possibili persecuzioni, rendere intellegibile il proprio pensiero solo agli happy few, evitare di diffondere idee suscettibili di creare tensioni e conflitti nella polis stessa. Prendendo come punto di partenza quanto sostenuto da Strauss nel suo saggio del 1939 sulla Costituzione degli Spartani (L. Strauss, The Spirit of Sparta and the Taste of Xenophon, “Social Research”, VI, 1939, p. 502-36), cioè che né Senofonte né Socrate potevano seriamente affermare che la giustizia coincide con l’obbedienza alle leggi (come potrebbe indurre a pensare una interpretazione “ingenua” del dialogo tra Socrate e Ippia di Mem. IV, 4), Dorion analizza e confuta le argomentazioni su cui si fonda la lettura ironica di Strauss; quindi procede a confutare le ulteriori argomentazione a sostegno della medesima tesi addotte da Strauss nel saggio sullo Ierone (L. Strauss, On Tyranny: an Interpretation of Xenophon’s Hiero, New York 1948) e in quello sul Socrate di Senofonte del 1972 (L. Strauss, Xenophon’s Socrates, Ithaca, N. Y. 1972), in cui viene ribadita l’interpretazione ironica del dialogo tra Socrate e Ippia. In conclusione Dorion afferma che, sebbene la rinnovata attenzione per Senofonte debba molto agli studi di Strauss, è vero però che, paradossalmente, sembra che Strauss finisca per allinearsi ai detrattori di Senofonte nella misura in cui ritiene che i suoi scritti appaiono interessanti solo se in essi si va a ricercare il non-detto, mentre ciò che viene detto risulterebbe banale, noioso, privo di interesse: a ragione Dorion asserisce che il compito di chi interpreta un testo non consiste nell’andare alla ricerca di uno sfuggente, arbitrario e illusorio non-detto, bensì nel cercare, con pazienza e umiltà, di comprendere ciò che il testo dice, tentando di coglierne e di metterne in luce le molteplici sfaccettature, le implicazioni, le complessità: e questo vale, anzi è di fondamentale importanza anche per gli scritti socratici di Senofonte. Il volume The Cambridge Companion to Socrates, una miscellanea di saggi curata da D. Morrison, è stato invece presentato da L. Rossetti, che ha puntato a

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sottolineare la natura eterogenea dei contributi raccolti in questo volume. In particolare Rossetti ha lamentato il fatto che alcuni di questi contributi siano “affetti da manifesta fragilità” e, quindi, pericolosi per un lettore frettoloso e poco avvertito, che potrebbe essere indotto ad accordare loro un immeritato credito. Si tratta, a giudizio di Rossetti, di alcuni saggi nei quali si avverte una importante traccia delle posizioni di G. Vlastos, nel senso che, ad es., Benson si dichiara convinto che i dialoghi elenctici di Platone ci mostrino quello che era il coerente e caratteristico metodo di indagine di Socrate, così come Griswold non esita a puntualizzare che, quando parla di Socrate, si riferisce al Socrate dei dialoghi di Platone. Rossetti si è pertanto meravigliato che Morrison, da sempre critico nei confronti di Vlastos, abbia accolto in questo volume contributi segnati da una simile impostazione e ha avanzato l’ipotesi che ciò sia dovuto al fatto che si tratta di un volume destinato soprattutto alle università anglo-americane, in cui una lunga tradizione accademica ha privilegiato i dialoghi di Platone e in particolare i dialoghi giovanili come fonte della presunta filosofia di Socrate, come riconosce lo stesso Morrison nella sua prefazione al volume (“most scholars who write about Socrates have in mind Plato’s Socrates, or the Socrates of one or more particular Platonic dialogues”: p. XIV). Rossetti ha per altro fatto presente che nel volume in questione sono compresi contributi di impostazione molto diversa, con particolare riferimento al saggio di Dorion, a cui viene ascritto il merito di accantonare definitivamente la questione socratica per concentrare l’impegno degli studiosi su ciò che i Socratici hanno scritto, in un sistematico lavoro di esegesi comparativa; tuttavia Rossetti, a questo proposito, ha voluto precisare che, se condivide la posizione di Dorion sull’impossibilità di ricostruire il pensiero filosofico di Socrate, ritiene però possibile ricostruire la sua personalità, i suoi modi di agire e di interagire, modi, secondo Rossetti, chiaramente riconoscibili e decisamente innovativi. Anche qui non è possibile entrare nel merito delle considerazioni di Rossetti, ma è opportuno sottolineare che esse rivestono comunque l’indiscutibile pregio di mantenere viva l’attenzione sulla questione socratica, un problema che è stato poi ripreso in alcuni interventi particolarmente significativi (vedi infra). Rossetti ha curato anche la presentazione di un volume, dal taglio decisamente innovativo, di G. Danzig, Apologizing for Socrates, che reca il significativo sottotitolo How Plato and Xenophon Created Our Socrates. In effetti il saggio di Danzig verte sull’atteggiamento di Socrate nel corso del processo (nonché durante la carcerazione) quale è stato presentato da Platone e da Senofonte e, più in generale, si sofferma sulle differenti strategie difensive messe in atto dall’uno e dall’altro per difendere il maestro dall’accusa di arroganza: nei primi tre capitoli vengono presi in esame alcuni testi cruciali al riguardo, in particolare l’Apologia di Platone, l’Apologia di Senofonte, il Critone, l’Eutifrone. Rossetti, pur rimarcando l’accurata analisi degli intenti apologetici presenti in tali opere, ha tuttavia obiettato che sarebbe riduttivo ricondurre alla sola finalità apologetica opere in realtà complesse e di grande spessore quali l’Apologia platonica, il Critone e l’Eutifrone: una critica senz’altro legittima, anzi in larga parte condivisibile, ma forse un po’ eccessiva, dal momento che, se è vero che Danzig ha nettamente privilegiato nella sua analisi gli elementi e le finalità apologetiche dei testi in questione, sottovalutando altre componenti altrettanto fondamentali, è anche vero che, quando si privilegia una

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specifica chiave di lettura, si finisce, quasi inevitabilmente, per perdere di vista la complessità dell’opera nella ricchezza delle sue componenti e nella molteplicità delle sue implicazioni e per appiattirsi sulla chiave di lettura prescelta. Lo stesso Rossetti d’altro canto non ha mancato di evidenziare come l’approccio scelto da Danzig possa portare a risultati originali e stimolanti, come l’inedita tesi che vede nel personaggio di Eutifrone una trasparente maschera di Meleto; inoltre, più in generale, Rossetti ha sostenuto che la contrapposizione istituita da Danzig tra componenti dottrinali e componenti apologetiche e la sua scelta di privilegiare queste ultime può risultare utile, anzi salutare, se intesa come opposizione all’abitudine di andare a ricercare ad ogni costo insegnamenti filosoficamente ben strutturati anche in dialoghi come il Critone e l’Eutifrone. Più marcate, invece, le perplessità espresse da Rossetti sui successivi capitoli del volume, il quarto e il quinto, in cui Danzig, muovendo da un’analisi dei numerosi testi in cui Platone, Senofonte e altri autori si soffermano sulla componente erotica della personalità di Socrate, giunge ad affermare che l’accusa processuale secondo cui Socrate corrompeva i giovani intendesse insinuare che Socrate intrattenesse relazioni sessuali con i suoi giovani amici: in effetti Rossetti ha notato, a ragione, che nell’analisi compiuta da Danzig delle relazioni tra Socrate e i suoi giovani discepoli manca qualsiasi distinzione tra la componente erotica di una relazione (intesa anche come empatia) e il suo tradursi in rapporti sessuali; ancora Rossetti ha poi rilevato come l’accusa di corrompere i giovani è probabile che vada invece intesa in senso politico-ideologico, come possiamo ricavare sia dalle risposte di Meleto in Ap. 24e25a, sia soprattutto dalle repliche di Senofonte alle accuse di Policrate (Mem. I, 2, 9-61). Oltre ai volumi citati, sono stati presentati e discussi, sia pure sommariamente per ineliminabili limiti di tempo, numerosi contributi: tutti meritevoli dell’attenzione che certo riceveranno quando verranno pubblicati gli atti del convegno, mentre in questa sede mi limiterò ad accennare a quelli che mi sono sembrati più significativi e/o innovativi. Tra questi rientra senza dubbio il prezioso contributo di S. Gastaldi, che ha analizzato i rapporti tra Isocrate e Platone, anzi tra la scuola di Isocrate e l’Accademia: come è noto, l’impostazione tradizionale ha posto l’accento sulla radicale diversità di impostazione e di orientamento delle due scuole e alla luce di questa contrapposizione ha letto il celebre elogio di Isocrate che Socrate pronuncia nelle ultime battute del Fedro (Phaedr. 278e-279a). Ora la studiosa ha sottolineato che, per intendere correttamente la portata e la valenza di tale elogio, bisogna tenere conto dell’anno di composizione del Fedro (per altro non determinabile con assoluta precisione), in quanto i rapporti tra Platone e Isocrate conobbero fasi diverse in relazione alle differenti situazioni politiche all’interno di Atene. Riprendendo un suggerimento di C. Bearzot, la Gastaldi ha ipotizzato che Platone e Isocrate avrebbero potuto essere accomunati da una sorta di alleanza strategica nel periodo che vede l’ascesa di Eubulo, in quanto uomo politico che mirava a una restaurazione all’interno della città: una testimonianza significativa in tal senso può essere costituita dal comune accordo sulla eccellenza della antica costituzione ateniese: è in questa ottica che si possono cogliere le analogie tra il modello della politeia palaia delineato da Platone nel III libro delle Leggi e l’immagine dell’antica Atene quale emerge dall’Aeropagitico di Isocrate. Per altro,

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ha chiarito la studiosa, le finalità perseguite dall’uno e dall’altro sono comunque differenti: mentre per Platone l’interesse prioritario rimane quello di definire le linee di un progetto di riforma globale della città, Isocrate si propone di dare voce ai cittadini ateniesi tradizionalisti, desiderosi di una revisione dell’assetto democratico della città a favore di un sistema di tipo censitario. In sostanza il contributo della studiosa ha il merito, non piccolo, di superare le facili semplificazioni con cui viene spesso presentato il rapporto tra Platone e Isocrate per proporne un’articolazione in fasi diverse, legate anche alle dinamiche poltiche interne ad Atene. Nell’ambito di una specifica attenzione al versante politico nonché ai rapporti tra Socrate e i Socratici da un lato e Isocrate dall’altro si colloca anche il contributo di una giovane e brillante studiosa quale L. Candiotto, che si è soffermata sulla cerchia dei discepoli di Socrate, prevalentemente giovani aristocratici e spesso personaggi destinati a giocare un ruolo di primo piano nella vita politica di Atene, come Alcibiade, Carmide e soprattutto Crizia, mentre i giovani a cui si rivolgeva Isocrate erano soprattutto i nuovi ricchi. La studiosa ha ribadito la necessità, da parte di Platone e di Senofonte, di negare la funzione educativa di Socrate nei confronti dei suoi giovani discepoli, al fine di evitare di presentarlo come il maestro di nemici della democrazia e, in particolare, di quel Crizia che diverrà l’indiscusso leader degli oligarchi. Inoltre la Candiotto, pur rilevando alcune tecniche retoriche comuni a Socrate e Isocrate, ha tenuto a precisare il significato del tutto differente che il termine philosophia assume per Isocrate e per Socrate. Un’altra giovane studiosa, Olga Chernyakhovskya, ha presentato un altro contributo di notevole interesse, relativo a una tematica del tutto diversa, quella dei piaceri a cui fa riferimento il Socrate dei Memorabili: partendo dall’analisi di uno dei dialoghi più controversi dell’intera opera, quello tra Socrate e Teodote, la studiosa ne ha proposto una interpretazione in chiave metaforica, in base alla quale se Socrate, al termine della conversazione, finisce per soggiogare completamente Teodote e asserisce di non poter dedicarsi a lei perché ha delle philai, delle amiche che giorno e notte non lo lasciano mai solo, ciò sta a indicare che Socrate preferisce a Teodote, che sta a rappresentare i piaceri del corpo, le sue amiche, vale i dire i piaceri che sono a lui propri, quelli che la studiosa chiama i piaceri “socratici”, consistenti nell’autoperfezionamento. All’ambito politico riconduce invece un interessantissimo contributo di A. Brancacci, relativo al pensiero politico di Antistene. Lo studioso ha esordito ricordando come già dal catalogo delle opere di Antistene vergato da Diogene Laerzio (VI, 15-18) emerga chiaramente lo spiccato interesse di Antistene per la politica, per poi soffermarsi in particolare su una orazione di Dione Crisostomo, in cui l’autore afferma che il discorso che si appresta a riferire non è suo, ma è un logos antico pronunciato da un certo Socrate (cf. Dione Crisostomo, Orat. XIII, 14): tale estratto oggi si ritiene che provenga non già dall’Archelao di Antistene, bensì dal Protreptico, che doveva avere la struttura di un dialogo. Nell’analizzare questo ampio frammento Brancacci ha messo in luce come un celebre passo dell’Apologia platonica (Ap. 29d6-30a2) sia palesemente una riformulazione dell’incipit del Protreptico di Antistene, il che mostra una diversa rielaborazione di comuni temi di ascendenza socratica; più in generale lo studioso afferma che in Antistene la riforma

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della politica dovrà essere sorretta sia da un’etica razionalmente fondata sia da una riforma della paideia, due principi che, in un contesto teorico del tutto diverso, si ritroveranno in Platone, confermando l’esistenza di un comune retroterra socratico per elaborazioni teoriche reciprocamente indipendenti. In un ambito specificamente letterario si è mosso invece il contributo di M. Segoloni, relativo ai logoi Sokratikoi e al genere serio-comico (spoudaiogeloion): lo studioso ha preso le mosse da quanto afferma il Socrate platonico alla fine del Simposio, cioè che “è proprio dello stesso poeta saper comporre tragedie e commedie, e chi per mezzo dell’arte è poeta tragico è anche poeta comico” (Symp. 223d3-6), un’affermazione palesemente in contrasto con una norma rigorosamente osservata nella drammaturgia attica: pertanto queste parole devono essere interpretate come una enunciazione della poetica platonica e, nel contempo, come una riflessione di Platone sulla natura della propria opera. Nei dialoghi di Platone, infatti, il serio è dato dalla riflessione filosofica, mentre il comico sta nel motivo dell’ignoranza di sé tipica di molti degli interlocutori di Socrate; inoltre, a quanto asserisce Alcibiade nel celebre elogio di Socrate, gli stessi discorsi di Socrate a prima vista suonano ridicoli e solo a chi vi penetra dentro rivelano la profondità di pensiero che in essi si cela (Symp. 221e-222a): pertanto lo studioso ha concluso mettendo in luce come, attraverso le parole di Alcibiade-Platone, riusciamo a comprendere che è Socrate stesso, con la sua personalità antinomica, archetipo e modello del serio-comico e che serio-comici non possono non essere i logoi Sokratikoi che dei logoi di Socrate sono mimesi. Di grande spessore il contributo di F. De Luise, relativo al problema di un Socrate teleologo: la studiosa analizza acutamente le due diverse immagini che ci offrono al riguardo Senofonte e Platone: da un lato il Socrate teleologo quale ci appare in due conversazioni dei Memorabili, quella con Aristodemo (Mem. I, 4) e quella con Eutidemo (Mem. IV, 3), dall’altro il Socrate del Fedone “naturalista pentito” e insoddisfatto della concezione anassagorea del Nous, pronto a intraprendere la “seconda navigazione”. Inoltre nella Repubblica emerge una concezione “laica” della giustizia che dovrà caratterizzare la città, anche se, avverte la De Luise, in questo dialogo “il personaggio Socrate enuncia ragionamenti sicuramente più complessi di quelli del Socrate storico”. Per altro già nell’Eutifrone si fa strada l’esigenza di separare le forme della cultura religiosa dalla riflessione etico-politica: per il Socrate dell’Eutifrone, infatti, già si apre la prospettiva di ricercare ciò che è caro agli dèi perché giusto in sé e per sé. Particolarmente interessante appare la conclusione offerta dalla studiosa che sottolinea come la dimensione religiosa di Socrate costituisca un importante luogo del contendere per i Socratici impegnati a difendere e a rielaborare la memoria del maestro: se l’intento apologetico accomuna Plato e Senofonte, si affermano nondimeno due opposte strategie interpretative, quella di chi, come Senofonte, cerca di inserire le convinzioni religiose di Socrate in un orizzonte di continuità rispetto alle credenze e ai riti della religione della polis e quella di chi, come Platone, mira invece a sottolineare la sua discontinuità rispetto al pensiero religioso tradizionale. Vorrei infine almeno accennare a un contributo che mi è sembrato particolarmente illuminante, quello di F. Trabattoni, che, occupandosi di un “Socrate conteso” (per usare le sue stesse parole) tra Platone e gli Stoici, ha trovato

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il modo di riprendere la vexata quaestio, da molti accantonata in quanto improponibile, di una possibile ricostruzione del pensiero del Socrate storico. In particolare lo studioso si è confrontato con quanto sostenuto da Dorion nell’ampia introduzione alla sua edizione dei Memorabili, cioè che la rinuncia a trovare una possibile soluzione alla questione socratica sia una delle condizioni che consentono una rivalutazione di Senofonte, troppo spesso considerato (a differenza del Platone dei dialoghi giovanili) una fonte inaffidabile per conoscere il pensiero del Socrate storico: tale rinuncia, infatti, permetterebbe finalmente di esaminare e di valutare la filosofia di Senofonte per quello che è e per quello che vale, indipendentemente dal suo rapporto con la presunta filosofia del suo maestro. A ciò Trabattoni ha obiettato che, messa da parte la questione socratica e quindi tolto qualsiasi valore agli scritti di Senofonte come fonte per il pensiero di Socrate, la riabilitazione di Senofonte contro i suoi detrattori può essere ammessa solo a condizione di rintracciare nella sua opera una filosofia che meriti di essere studiata, ipotesi a cui lo stesso Dorion pare poco propenso a credere e che non si impegna a dimostrare: pertanto, come ha affermato Trabattoni, la messa in mora della questione socratica non giova affatto alla riabilitazione di Senofonte sul piano filosofico, in quanto Senofonte “può suscitare un interesse più che modesto da parte dello storico della filosofia antica se e solo se è una delle fonti su Socrate”. Inoltre lo studioso si è dichiarato poco persuaso del fatto che la stessa questione socratica possa essere definitivamente accantonata: a tale proposito, dopo aver ricordato che secondo Rossetti esiste comunque un sostanziale accordo tra le nostre fonti riguardo ai modi di agire e di interagire di Socrate, Trabattoni ha però rilevato che i Socratici (e in particolare Platone e Senofonte) attribuiscono a Socrate anche dei “punti di dottrina”, delle precise posizioni teoriche ed è dubbio che ciò sia da ascriversi esclusivamente alla finzione letteraria. Lo studioso si è pertanto proposto di esaminare se sia possibile ricostruire come propria del Socrate storico una tesi suscettibile di potenziali sviluppi tali da dare luogo a due tesi diverse, anzi apparentemente contraddittorie, che ritroviamo, ad es., in Platone e in Senofonte; questo lavoro di ricostruzione retrospettiva, per così dire, avrebbe anche l’indiscutibile vantaggio di non dover fondare la ricostruzione del pensiero di Socrate esclusivamente sui dialoghi giovanili di Platone. Lo studioso ha pertanto fornito un caso esemplare in tal senso, prendendo in esame il rapporto tra felicità e virtù, così come si delinea nell’Eutidemo platonico e come viene invece a configurarsi nell’etica stoica: l’ipotesi della studioso è che tanto la concezione etica socratico-platonica quale emerge dall’Eutidemo, quanto l’etica socratico-stoica siano ascrivibili al Socrate storico: mentre Platone avrebbe enfatizzato il modello eudaimonistico, la tradizione socratico-cinica (da Antistene e Senofonte fino ad arrivare a Zenone) avrebbe privilegiato quello ascetico-rigoristico. A conclusione del suo intervento lo studioso ha poi illustrato un punto importante, cioè che tracce del Socrate rielaborato dalla tradizione cinico-stoica si rinvengono, sia pure in misura limitata, anche in Platone, in particolare nell’Apologia e nel Critone: in effetti in Crit. 47d-49b Socrate afferma senza mezzi termini che non si deve mai commettere ingiustizia, indipendentemente dalle conseguenze che possono derivarne, affermazione ribadita in Ap. 29b. Più in generale, è opportuno sottolineare come il contributo di Trabattoni abbia offerto una serie di importanti puntualizzazioni riguardo alla questione socratica e, nel

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contempo, abbia fornito, oltre a un valido esempio, anche preziose indicazioni per tentare di accettare la sfida di ricostruire, attraverso le diverse interpretazioni e rielaborazioni di quanti si richiamarono all’eredità socratica, il pensiero del Socrate storico, con tutti i suoi margini di possibile ambiguità e le sue non impossibili contraddizioni. A questa considerazione, che confida nello sviluppo di ricerche future, vorrei aggiungere, per concludere, una notazione relativa a Socratica III che mi pare induca a ben sperare per il futuro della ricerca: questo convegno ha visto una nutrita partecipazione di giovani studiose che, sia nei testi presentati sia negli interventi durante le fasi di discussione, hanno fornito contributi davvero preziosi e brillanti. In generale si può dunque affermare che Socratica III ha rappresentato un momento importante di incontro e di confronto tra posizioni e impostazioni spesso assai diverse, ma proprio per questo tanto più prezioso e fecondo. Fiorenza Bevilacqua

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Due convegni su Husserl e la filosofia classica tedesca (Parma, 12-15 marzo 2012) Dal 12 al 14 marzo 2012 si è tenuto a Parma, nella cornice dell’Aula Magna dell’Università, un convegno internazionale sul tema “Husserl und die klassische deutsche Philosophie”, organizzato da Faustino Fabbianelli (Università di Parma) e Sebastian Luft (Università di Milwaukee) con il sostegno finanziario della Fondazione Alexander von Humboldt. Il nascere dell’evento – come gli organizzatori hanno preliminarmente chiarito – è stato ispirato dal proposito di inaugurare un terreno di ricerca nei confronti della cui specificità è sinora mancato un interesse sistematico, nell’ambito sia italiano che internazionale. Se è infatti vero che vi sono stati studi storico-filosofici dedicati al confronto fra la fenomenologia husserliana e singoli esponenti della filosofia classica tedesca, non si può dire che le due tradizioni abbiano conosciuto un dialogo effettivo e cercato un linguaggio comune (discorso che vale a maggior ragione per la disposizione dei fenomenologi verso i predecessori) – in ciò complice anche la diffidenza che lo stesso fondatore della fenomenologia, com’è noto, esternava nei riguardi dell’idealismo assoluto. Il motore del convegno può essere allora identificato proprio con il tentativo di interpellare direttamente una tale diffidenza – del resto già in discussione nell’ultima fase di produzione husserliana – con una sorta di invito a cercare paradigmi condivisibili al di là delle divisioni di campo e delle stesse dichiarazioni (e consapevolezze) degli autori. Il che non toglie, come Faustino Fabbianelli non ha mancato di specificare nel suo discorso introduttivo, che una simile “sfida” sia “piena di insidie: decontestualizzazioni illecite, accostamenti impropri, illusorie proiezioni di problematiche valide in un ambiente che poi si rivelano false in un altro”. Emblematiche a questo proposito sono anche le parole con cui si è aperto l’intervento di Sebastian Luft, preambolo che possiamo pensare nel ruolo di implicito idealtipo, se non addirittura di ideale regolativo, per ogni intervento udito nel corso delle tre giornate: “Se si vogliono ripercorrere ed esplicitare sistematicamente i parallelismi fra Husserl e i suoi predecessori nella filosofia classica tedesca, si deve anzitutto portare alla luce il terreno comune (den gemeinsamen Boden) su cui essi possono essere di volta in volta collocati, poiché le diversità, le differenze e le difformità di opinione caratterizzanti le due ‘tradizioni’ sono incontestabili. Se si vuole pertanto sperare di poter confrontare questi due raggruppamenti in tutte le loro difformità […], essi devono essere interpretati sin dall’inizio in quanto collocati su questo terreno comune”. È dunque possibile ricostruire un “gemeinsamer Boden”, sullo sfondo del quale vedere le innegabili differenze fra le due tradizioni filosofiche? È cioè possibile parlare di un’unica tradizione? O il peso di tali differenze rischia di far sì che i punti di contatto non arrivino a costituire un sostrato per il quale risulti valevole l’espressione “terreno comune”? È nella tensione fra queste possibilità che si sono mosse le linee di lettura proposte nei singoli interventi, suddivisi per ambiti tematici: (auto-)coscienza (Alexander Schnell e Colin J. Hahn), intersoggettività (Tanja Stähler e Klaus E. Kaehler), oggetto (Faustino Fabbianelli e Christian Krijnen), tempo (Smail Rapic), autocomprensione della filosofia (Sebastian Luft e Andrea Staiti), filosofia pratica

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(Bernward Grünewald e Beatrice Centi), cultura e storia (David Carr) e concezione husserliana della filosofia classica tedesca (Julia Jansen e Massimo Ferrari), a cui si aggiungono il Festvortrag presentato in power point da Stefano Poggi (Husserl und die klassische deutsche Philosophie: eine Leidenschaft im reifen Alter?) e l’Abschlussvortrag tenuto infine da Rudolf Bernet (Was ist deutsche Philosophie?). Ogni ambito citato, in quanto indice di una singola compagine di problemi con cui entrambe le “tradizioni” si sono confrontate, può essere considerato come la circoscrizione di uno spazio di discussione parziale, appunto di uno “spazio comune”, in cui Husserl è stato posto in dialogo con gli esponenti della filosofia tedesca a lui precedente. La costruzione della mappa teorica su cui il confronto si è svolto è andata così scandendosi gradatamente, nel susseguirsi di oggetti di dibattito delimitati rispetto a cui le risposte husserliane sono state di volta in volta “messe in campo” e vagliate nella loro possibile traducibilità in paradigmi e schemi concettuali “classici”. Il quadro che ne è emerso è composito e non si presta a facili generalizzazioni (segnaliamo al lettore che la pubblicazione degli atti è prevista presso la casa editrice “Vandenhoeck & Ruprecht”). Partendo dalla prima sezione, mentre A. Schnell ha accostato Husserl e l’idealismo tedesco rispetto al compito di una fondazione dell’a priori e di uno sviluppo post-kantiano del trascendentalismo, C. J. Hahn ha mostrato come il concetto husserliano di personhood trovi le proprie radici e i propri inizi nelle lezioni su Fichte tenute nel 1917 e nel 1918. Con riferimento alla questione dell’intersoggettività, T. Stähler ha invece parlato di “elementi di hegelismo nella filosofia husserliana” (a partire dalla dialettica servo-padrone), laddove K. E. Kaehler ha insistito sulle differenze, piuttosto che sulle analogie, riscontrabili fra la fenomenologia e l’idealismo precedente per quel che concerne la struttura del soggetto e la sua relazione con l’alterità, il cui carattere “altro” rimarrebbe tale e non esauribile nel momento in cui la filosofia trascendentale venga appunto trasformata in una fenomenologia trascendentale. All’insegna delle differenze sono stati anche l’intervento di C. Krijnen, dedicato alla fondazione dell’oggetto – fondazione che in Husserl si baserebbe sul primato del versante noetico, a differenza del rapporto fondativo ravvisabile in Kant, Hegel e nel neokantismo –, e quello di F. Fabbianelli, che tramite la nozione di Ding an sich ha tracciato il confine fra l’indagine husserliana dell’oggettualità, incentrata su “modi di datità”, e quella peculiare dell’idealismo tedesco, indirizzata alla ricerca di “modi d’essere”; che per entrambi i relatori non si possa tuttavia parlare di un’opposizione in assoluto, bensì di una distinzione nella prossimità, lo mostra già l’utilizzo di una terminologia comune (il binomio noesi-noema in un caso, il concetto di cosa in sé nell’altro), insieme a dichiarazioni, espresse da entrambe le parti, volte a sfatare esplicitamente l’apparenza di facili contrasti. Se S. Rapic ha poi letto le considerazioni husserliane sulla costituzione temporale dell’io alla luce delle Zeittheorien di Kant e – soprattutto – Hegel, S. Luft ha dato un nome al gemeinsamer Boden del convegno indicandolo nel titolo “idealismo trascendentale”, definito come movimento moderno in direzione del soggetto e della sua inscindibile relazione col mondo; all’interno della stessa sezione, A. Staiti ha invece accostato Husserl e Hegel, utilizzando quest’ultimo per rivalutare il ruolo dell’ingenuità nella filosofia fenomenologica. Sia B. Grünewald, sia B. Centi, hanno scelto il riferimento a Kant

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per approfondire la tematica etica, il primo ripercorrendo la critica di Husserl alla filosofia morale kantiana, la seconda avvicinando i due autori a partire dal binomio sintetico-analitico e mostrando l’incidenza del formalismo di Kant sul dispiegamento dell’“a priori materiale” al centro delle riflessioni etiche husserliane. È seguito D. Carr, che ha tracciato l’evolversi della posizione di Husserl nei confronti del tema della storia, essenziale nella filosofia tedesca successiva a Hegel. Le sezioni del convegno si sono infine concluse con i due interventi di J. Jansen e M. Ferrari, volti rispettivamente a presentare l’istanza trascendentale kantianohusserliana quale istanza “anti-rappresentazionalista” (in polemica con letture erronee dei due filosofi, facenti capo alle critiche di Richard Rorty) e ad illustrare il confronto di Husserl con il neokantiano F. A. Lange. Alla domanda se le tre giornate di confronto siano riuscite a stabilire un linguaggio comune fra fenomenologia e filosofia classica tedesca, si può rispondere affermativamente. Componendo in un quadro unitario le otto sezioni menzionate, emerge un crocevia di relazioni e rimandi speculativi il cui intreccio, seppur giocato su più dimensioni conformemente a diversi orientamenti metodologici, può senz’altro essere definito come un territorio condiviso, nel senso di un campo teoretico e problematico entro cui le tradizioni dialoganti possono avvalersi di una lingua “di confine”, comprensibile per entrambe. Se è vero che nel contesto di un tale dialogo, come in ogni dialogo che si rispetti, le maglie dell’accordo possono essere più o meno larghe sino a sfociare nella divergenza vera e propria, resta però il fatto che una lingua con cui dialogare è stata trovata, e con essa uno sfondo di presupposti tacitamente partecipati. Una conclusione affine può essere tratta anche dalla “Nachwuchstagung” tenutasi a Parma il 15 marzo, durante la quale nove giovani studiosi si sono confrontati sullo stesso tema: Elvira Simfa (Riga), Michela Summa (Heidelberg), Jacob Rump (Atlanta), Thomas Arnold (Heidelberg), Evan Clarke (Boston), Danilo Manca (Pisa), Gemmo Iocco (Bologna), Simona Bertolini (Bologna), Georgy Chernavin (Toulouse/Wuppertal). Ad articolare il convegno, in questo caso, non è stata una selezione di problematiche, bensì una divisione per autori: a una prima parte dedicata alla coppia di nomi Husserl-Kant ne è seguita una seconda focalizzata prevalentemente sul raffronto Husserl-Hegel, conclusasi con un intervento sulla nozione husserliana di Erscheinung indagata a partire da due tesi di Herbart. Le questioni trattate, anche in questa giornata di studio, sono state molteplici. Nella prima sezione esse hanno spaziato dalla definizione di scienza rigorosa ai problemi dello spazio e della relazione fra estetica e analitica, dal rapporto di Kant e Husserl con il dibattito non-concettualista al tema dell’analiticità. Per quanto riguarda l’accostamento fra Husserl e Hegel, esso è stato invece letto attraverso i concetti di esperienza, di riflessione e logica, per essere infine affrontato nella sua rielaborazione all’interno delle interpretazioni di Eugen Fink e Ludwig Landgrebe. L’obiettivo, ancora una volta, è stato quello di condividere lo sforzo teorico e gli esiti delle proprie ricerche, al fine di ricreare insieme, per così dire per prove ed errori, quella zona filosofica in cui la fenomenologia husserliana e la filosofia classica tedesca si sono tese la mano; al fine di ripercorrere la polifonia di quel coro in cui, con parole di S. Luft, Husserl “ha già sempre cantato”: “Se Husserl è dunque invitato a cantare insieme agli altri nel coro, deve farsi chiaro che egli ha già sempre

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cantato con loro e, rimanendo nell’immagine, che la sua voce canta insieme agli altri in modo assolutamente armonico�. Simona Bertolini

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