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VENDITE AUTO NELL’ERA DEGLI HUB

VENDITE AUTO NELL’ERA DEGLI HUB

Il mercato. Il processo di concentrazione delle concessionarie ha aumentato la redditività ma anche le rimanenze e i debiti. L’ipotesi della trasformazione in grossisti per soggetti più piccoli.

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La concessionaria media italiana ha prodotto lo scorso anno un fatturato di 38,6 milioni di euro, cifra mai vista prima e superiore dell’80% alla media del periodo 2004/2013, incluso il 2007, quel famoso “livello pre-crisi” che qualcuno ricorda nelle serate invernali davanti al camino (e pure in quelle estive) come l’età dell’oro. Secondo l’Osservatorio Bilanci Dekra di oro, a vendere macchine, non ce n’è mai stato tanto come adesso, come fatturato e ancor più come redditività (EBT), da pochi anni stabilmente intorno a 1,3%: non alta, certo, ma da valutare nel suo contesto.

Dove c’è oro, c’è una corsa all’oro. Le Case automobilistiche, che governano le concessionarie, hanno subito trovato il modo di impiegare la ricchezza prodotta, gonfiandole di stock di prodotto. Tra il 2014 e il 2018 le rimanenze e i debiti verso fornitori sono più che raddoppiati, arrivando a 9,2 e 7,6 milioni, rispettivamente. Nello stesso periodo, anche i debiti verso le banche sono aumentati di oltre il 50%, a 2,4 milioni. Questo stock è molto più conosciuto col suo nome commerciale: km0. Secondo il Market Report di Agos sulle auto usate (che tali sono le km0) nel periodo in questione sono raddoppiate arrivando a oltre 200.000 unità e sfiorando l’11% rispetto alle vendite di auto nuove. Ora, in un’economia di mercato, uno con i suoi soldi ci fa ciò che vuole, anche le km0. Meglio analizzare come ha fatto questo settore ad aumentare così tanto, in pochi anni, la sua capacità di creare ricchezza. Una

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parola: concentrazione. I 3.450 dealer del 2004 sono diventati 1.428 nel 2018: nel giro di 14 anni quasi sei concessionarie su dieci non ci sono più. Chi pensasse che ora il sistema è in equilibrio, che si può riprendere a lavorare secondo gli schemi soliti, rischierebbe di essere tra i prossimi a uscire di scena. La trasformazione non ha solo espulso i più deboli. Ha pure consentito ai più forti di crescere ancora. Nel 2014 le concessionarie sopra 100 milioni di fatturato erano 26 (1,5% del totale) con un giro d’affari medio di 142 milioni e una ricchezza totale prodotta pari a 13 milioni. Lo scorso anno erano 77 (il 5,4%) con fatturato medio a 175 milioni e ricchezza totale pari a 156 milioni. C’è in Italia un processo di formazione di grandi gruppi della distribuzione automobilistica, che potremmo definire mega-dealer. Sono aziende moderne, gestite da manager professionisti, che dialogano alla pari con le Case mandanti, a livello nazionale come a livello europeo. Hanno capacità finanziarie e le competenze per governarle e impiegarle, servendo le loro finalità e pure quelle delle Case, se e quando coincidono. Poi hanno una forza di attrazione dei clienti che sovente eccede quella delle altre concessionarie della rete. Insomma, si materializzano dentro il network distributivo come un corpo diverso, mai visto prima. Un’ipotesi non remota è che a queste imprese venga chiesto di operare non solo come rivenditori diretti ma anche come grossisti, intermediari verso alcuni concessionari minori. Una sorta di dealer hub, con la funzione di tenere in armonia sul territorio l’offerta e la presenza di una piccola rete di operatori, che singolarmente farebbero fatica. È probabile che nei prossimi anni assisteremo a un rimodellamento della struttura distributiva, anche in coincidenza con la diffusione delle relazioni digitali col cliente, che affiancheranno sempre più il contatto fisico nel punto vendita. Cose che già oggi sono realtà nella grande concessionaria Mercedes a L’Aia o nel format Smart Lab di Ford, partito da Torino e già replicato in tutti i continenti.

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I driver di queste evoluzioni sono da un lato il cliente, con le sue nuove abitudini, e dall’altro la necessità delle Case di ridurre il peso economico della distribuzione, per far fronte agli ingenti investimenti che stanno sostenendo.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 26 novembre 2019

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