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EDITORIALE
UN MANIFESTO
PERCHÉ NON SBATTEREMO MAI “IL MOSTRO” IN PRIMA PAGINA Dario De Lisi
A dire la verità non ci abbiamo messo molto a prendere questa decisione. Abbiamo scelto di parlare con le persone, di intervistarle, di raccontare le storie dei personaggi che vivono, lavorano e partecipano allo sviluppo del nostro mondo. Andremo a scovare chi si nasconde dietro le quinte e chi quelle quinte le ha pensate e immaginate, chi passa il tempo tra gantt, piani produzione e tavole rotonde. Non ci preoccuperemo del numero dei loro follower, né di quello delle pubblicazioni e uscite stampa che li hanno visti protagonisti. Ci interesseremo alle loro idee, ai contenuti di ciò che progettano e realizzano. Rimarremo affascinati da spot, campagne, eventi, dal loro modo di comunicare sé stessi e il proprio lavoro. Cercheremo di capire cosa li rende dei punti di riferimento o più semplicemente degni di essere ascoltati. Non gli riserveremo una cover, no, faremo molto di più: gli dedicheremo il nostro tempo, le nostre attenzioni e il cuore stesso del nostro magazine con approfondimenti, interviste, reportage o uno scatto fotografico. Quello giusto però, quello che merita di essere capito e compreso, quello che su una copertina potrebbe rappresentare “solo una foto”, ma che per noi invece sarà il punto di incontro di due realtà. Due realtà che si confronteranno in un luogo, in un preciso istante divenuto somma di tutte le sfide e intuizioni realizzate fino ad allora. Non nasconderemo le rughe con Photoshop né punteremo ai like su Facebook, sarebbe troppo facile percorrere questa strada; sarebbe troppo facile giocare ai “15 minuti di celebrità” di Warhol, rincorrendo l’uomo copertina di quel momento. Proveremo ad andare controcorrente convinti che per essere “influencer” bisogna saper influenzare davvero il pensiero di chi ti legge o chi ti ascolta, perché solo in questo modo si può andare oltre la capacità di stimolare ataviche pulsioni umane, riuscendo a dar vita a domande e risposte nuove, quelle di cui tutti noi abbiamo bisogno.
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SOMMARIO
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EDITORIALE Un manifesto
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SOTTO LA LENTE Alla ricerca del filo d’Arianna
MILLENNIALS Verso uno shopping sempre più “multicanale”
inoltre
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Dietro le quinte dell’e-commerce
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formazione Retail coaching
food
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Alla conquista del consumatore 3.0
art
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Visual merchandising d’impatto
TECH
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Amazon street o Main street?
VOCE ALLE AZIENDE
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Social network e brand reputation
extra
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Le nuove frontiere del retail
m.i.c.e. Tu chiamale se vuoi emozioni
controcorrente 49
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M’ama, non m’ama?
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SOTTO LA LENTE
ALLA RICERCA DEL FILO D’ARIANNA
TRA CENTRI COMMERCIALI FANTASMA, L’INCUBO AMAZON E TENDENZE CHE NON T’ASPETTI Francesca Passoni
Da grande utilizzatrice di Amazon, leggo sempre con molto interesse le notizie sui nuovi servizi che il buon Jeff mette a disposizione di noi aficionados dell’e-commerce. Perché per quanto si possa essere imparziali, il grande elephant in the room – come dicono gli americani - quando si parla di vendite online è proprio lui. A riprova di ciò, se ce ne fosse bisogno, qualche settimana fa l’azienda di Seattle ha lanciato Amazon Key: il servizio di consegna a domicilio riservato ai clienti Prime che permette al corriere di lasciare il pacco dentro casa. Il progetto, in fase di test in alcune città americane, nasce per rispondere ad uno dei problemi più comuni negli Stati Uniti, ovvero il furto dei pacchi. Questi infatti vengono spesso lasciati all’ingresso delle abitazioni e da un’indagine di insuranceQuotes.com è risultato che nel 2015 ben 23 milioni di americani hanno denunciato il furto del proprio acquisto.
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Amazon Key - nerdmovieproductions.it
Il sistema, in vendita a 249$, comprende: una serratura smart, la webcam di sicurezza Cloud Cam e le istruzioni per l’installazione (ma qualora non ci riusciste da soli, non temete, un addetto potrà venire a casa vostra e farlo per voi, gratuitamente). Una volta installato il tutto, basterà fare il proprio acquisto e il corriere, una volta giunto a destinazione, effettuerà una scansione del codice a barre sul pacco ed invierà la richiesta di apertura alla Cloud Cam che comincerà a registrare il video. Tramite la app sul proprio dispositivo, il corriere avrà accesso all’abitazione e dopo aver depositato il pacco all’ingresso, sempre trascinando il dito sullo schermo, chiuderà la porta alle sue spalle. L’utente riceverà una notifica con la prova video a confermare l’avvenuta consegna. E l’offerta non finisce qui: con Amazon Key gli utenti potranno scegliere ulteriori servizi integrati della nuova divisione Amazon Home Services, come quello di pulizie a domicilio, dog sitter, idraulico, elettricista etc. La domanda sorge spontanea: accetteremmo questo modello di vendita in Italia? Saremmo disposti a cambiare serratura e a fare un investimento importante per ricevere questo tipo di servizio? E soprattutto, in quanti affiderebbero la propria sicurezza – e quella del-
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la loro casa – ad Amazon? La novità di Key non è altro che un trampolino che potrà permettere a questa azienda di gestire la vita quotidiana di numerosissimi clienti, inserendosi sempre più nella loro routine. Con questo servizio, Amazon comunica al mondo intero la sua volontà di abbandonare la precedente realtà di e-commerce per puntare ad essere l’unico riferimento per tutti i consumatori su una vastissima gamma di prodotti e servizi. È indubbio che Amazon Key sia strategico per l’evoluzione dell’azienda, che grazie ad esso crea collegamenti con ulteriori servizi (vedi Amazon Home Services) che step by step spianano la strada verso una sfera più ampia di prestazioni che vedrà gli utenti utilizzare l’assistente vocale Alexa per qualsiasi esigenza. Senza troppe difficoltà potremmo immaginare una vita di casa targata Amazon: per gli acquisti ci sarebbe Amazon Prime, Amazon Music per ascoltare la musica, Amazon Video per film e serie tv… In una più ampia considerazione, il continuo rimando alla Grande A può influire negativamente su brand deboli e poco competitivi che rischiano di sparire in un mare di generalizzazione e de-brandizzazione del prodotto. I grandi marchi temono Amazon? Indubbiamente questa insicurezza impatta sul mercato del retail. In un’intervista a Bloomberg, Barry Sternlicht – fondatore, presidente e CEO di Starwood Capital Group – ha affermato che i grandi retailer
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non sanno come comportarsi in questo nuovo ambiente, molti vanno nel panico e chiudono i propri negozi per poi procedere ad ulteriori tagli per rimanere in bilancio, finendo in una “death spiral”. Per Sternlicht Amazon è nemico del retail come AirBnb lo è per il mondo degli alberghi secondo lui i grandi marchi devono assicurarsi di avere un forte storytelling e soprattutto che questo arrivi al target giusto nel momento giusto, anche attraverso l’online.
Un altro pensiero, sempre statunitense, è quello di Forbes che denuncia l’affollamento di centri commerciali sul territorio, affermando che il loro abbandono da parte dei consumatori è il naturale epilogo di uno sfruttamento massivo del format “mall”. Secondo la rivista, le boutique di dimensioni più contenute avranno più possibilità di superare la crisi del retail, ma suggerisce anche a tutti I grandi negozi di portare il proprio brand online per massimizzare il suo potenziale.
“Oggi siamo over-retailed - dice Sternlich - perderemo sicuramente metri quadri di negozi e centri commerciali, ma questo permetterà ai più bravi di rafforzarsi e riproporsi vincenti al mercato”.
Uno dei vantaggi principali che il digitale offre alle aziende è quello di poter fare affidamento sui dati, sul monitoraggio dei comportamenti, sui codici binari che descrivono un’abitudine di consumo. Queste informazioni però non sono
legge di Darwin dell’economia, dove chi saprà adattarsi sopravviverà con un modello di business innovativo
Una sorta di
Una sorta di legge di Darwin dell’economia, dove chi saprà adattarsi ai nuovi equilibri potrà sopravvivere e portare avanti un modello di business innovativo e affermato, che trova le sue basi nel passato ma guarda al futuro appoggiandosi alle nuove tecnologie.
limitate al mondo di Internet, motivo per cui i grandi brand dovrebbero migliorare l’aspetto tecnologico dei negozi e monitorare le vendite in modo accurato, preoccupandosi sì della gestione dell’e-commerce, ma anche dell’esperienza d’acquisto fatta all’interno del punto vendita.
Le cause che alimentano la crisi del retail, insieme al successo di Amazon, sono varie. Tra le teorie più accreditate, recentemente è emersa quella di Brendan Witcher, analista del gruppo Forrester e fondatore dell’istituto di ricerche di marketing Brand Keys. Secondo Witcher, i centri commerciali e i negozi hanno perso – o non hanno mai trovato – il loro tratto distintivo, la USP che li facesse emergere dal mercato.
Non sempre trasferire un intero business online è la scelta più giusta e lo dicono anche i dati, come quelli pubblicati dal Census Bureau degli Stati Uniti lo scorso maggio. Il centro ha confermato che le vendite online negli States non raggiungono nemmeno un decimo delle vendite totali del Paese, nonostante l’e-commerce sia cresciuto notevolmente negli scorsi cinque anni. Mentre secondo l’indagine di Salesforce dello
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scorso ottobre presentata al convegno Shopper First, l’innovazione digitale porterà ad un’esperienza di acquisto migliore all’interno dei negozi, che non verranno spazzati via dai grandi colossi del web. Dalle 6000 risposte al sondaggio è emerso che il 59% delle persone tra i 18 e i 24 anni preferisce fare shopping in un punto vendita fisico, mentre il 54% sceglie la formula del click and collect (il ritiro in negozio dell’acquisto effettuato online). Promozioni e offerte personalizzate sono considerate fondamentali dal 70% degli intervistati, ma importanti sono anche gli eventi social (60%), prodotti in edizione limitata o esperienze sul prodotto in store (59%). Lo smartphone avrà un peso sempre più rilevante, questo viene infatti non solo utilizzato per acquistare online ma anche per confrontare i prezzi (48%) e cercare informazioni sul prodotto (41%). I social network? Anche questi importantissimi con un 67% di shopper tra i 18 e 24 anni che ha utilizzato i social media negli ultimi 30 giorni per cercare un prodotto o un servizio. Nuove strategie, customer engagement, experience. Temi di cui parliamo da tempo e che trovano applicazione non solo in America, ma anche in altre parti del mondo, addirittura anche in Italia, da poco colonia dell’impero Steve Jobs.
mazione per i più giovani ed incontri con importanti artisti, designer, fotografi e musicisti di tutto il mondo. Apple definisce il suo store come un “luogo di ispirazione aperto a tutti” e proprio grazie alla collaborazione con la sfera pubblica di Milano, il brand ha agito nel totale rispetto del territorio e in sintonia con le peculiarità locali; integrandosi con l’ambiente e con le realtà che lavorano e che vivono la città. Oltre ad agire in modo sostenibile, alcune realtà commerciali stanno stringendo alleanze con altri business per differenziarsi. Un esempio è quello della catena d’abbigliamento inglese Topshop, che recentemente ha creato una collezione in edizione limitata a tema Stranger Things, una delle serie tv targata Netflix, più seguita del momento. In occasione del lancio della seconda stagione, dal 27 ottobre lo stile anni Ottanta della serie ha raggiunto il mondo della moda londinese. Con una piattaforma e-commerce “sottosopra”, Topshop ha trasformato alcuni dei suoi punti vendita nei luoghi cult di Stranger Things; mentre per l’evento conclusivo della campagna, ha convertito una parte del suo flagship store
Apple è arrivata a Milano senza fare rumore con un cantiere chiuso e circondato da specchi per dare visibilità ai negozi adiacenti - eppure ogni giorno attira numerosissimi cittadini e turisti incuriositi dal “cubo bianco” che non mostra alcun dettaglio di ciò che accade al suo interno. Per inaugurare il proprio store il colosso di Cupertino ha preso accordi con le Pubbliche Amministrazioni milanesi e si è incaricato di dare un nuovo volto a Piazza Liberty, trasformandola in un vero e proprio punto di incontro. L’aspetto commerciale ovviamente c’è, ma non si vede. Il negozio infatti sarà situato sotto la piazza e ospiterà numerosi eventi, programmi di forStranger Things sulla passerella di Louis Vuitton - wmagazine.com
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di Londra in una sala cinematografica, dando la possibilità ad alcuni fortunati clienti di fare binge watching dell’intera seconda stagione. Indubbiamente un’operazione vincente per Topshop che ha creato una capsule edition andata sold-out in poche settimane, aumentato la propria redemption e brand awareness, raggiungendo una fetta più ampia di consumatori. Anche Target, altra catena americana apparentemente in crisi, ha voluto cavalcare l’onda del fenomeno Stranger Things per creare una sua collezione d’abbigliamento e accessori esclusiva. L’Executive Vice President della catena, Mark Tritton, ha commentato: “Realtà come Netfilx stanno entrando sempre più a far parte della nostra quotidianità e cultura. Stiamo iniziando con Stranger Things, ma vogliamo esplorare ancora di più questo settore”. Aprendo una breve parentesi sulla potenza mediatica del prodotto Stranger Things e su quanto stia influenzando il mercato della moda, basti pensare che durante la settimana della moda di Parigi dello scorso ottobre, Louis Vuitton ha presentato in passerella una t-shirt con la locandina cinematografica della serie.
ce legate alla forza di quei brand che provano a ribaltare il risultato. Possiamo auspicare ad un futuro equilibrio dove i negozi saranno altamente tecnologici in termini di monitoraggio, cura e anticipazione dei bisogni del cliente; possiamo immaginare degli spazi che perdono la definizione di “punto vendita” per diventare luoghi di incontro, di engagement ed esperienza. Possiamo sperare in una integrazione tra digitale e fisicità, come la migliore soluzione. Sternlicht l’ha predetto qualche giorno fa: tra cinque anni avremo un retail diverso, più maturo, che avrà colto il giusto bilanciamento tra presenza online e offline, esperienza e qualità del servizio, offrendo spazi più piccoli ma più “sani” per l’economia e per i consumatori. Non resta che chiederci: a chi vogliamo dare la nostra fiducia di consumatori? E a quale costo?
Non sempre trasferire un intero
business online è la scelta più giusta
Ah Netflix… altro grande colosso dei servizi on demand che fa tremare la televisione tradizionale. Per il 2018 ha già pronto un capitale di investimento di 8 miliardi di dollari, ma questa è un’altra storia… Siamo davanti a un bivio: da una parte troviamo il valore del marchio, la possibile àncora di salvezza delle grandi realtà retail; dall’altra viviamo un processo di de-brandizzazione in crescita, attuato in primis da Amazon. Nel marasma di questa situazione, assistiamo sia ai successi dell’e-commerce che alla nascita di best practi-
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E-COMMERCE E MILLENNIALS: VERSO UNO SHOPPING SEMPRE PIÙ “MULTICANALE” Antonio Carnevale e Sara D’Agati
Riportare le persone nei negozi. È questo l’obiettivo (ambizioso), di una giovane startup italiana che ha realizzato un’app di grande successo. Si chiama CheckBonus, ma è stata soprannominata il PokemonGo dello shopping. In pratica il servizio funziona come uno strumento di proximity marketing: sfruttando la localizzazione, ci premia quando entriamo nel punto vendita e interagiamo con determinati prodotti. “L’idea è portare le persone fisicamente all’interno dei negozi per ottenere sconti e buoni utilizzabili sul momento o in momenti successivi”, spiega il founder Pierluigi Casolari. Ma perché questa necessità? Per spiegarlo, come sempre, meglio affidarsi ai numeri. E ce ne sono alcuni davvero rilevanti. Primi tra tutti, quelli che riguardano Jeff Bezos, il papà di Amazon per capirci, diventato quest’anno - seppur solo per qualche ora - l’uomo più ricco del mondo. L’app Amazon Shopping è la più utilizzata per gli acquisti negli Stati Uniti e in diversi paesi europei. E solo dagli acquisti effettuati dall’utenza Prime, Bezos ha ricavato quest’anno 6 miliardi e mezzo di dollari. In America poi i millennials sono ormai, di fatto, la forza trainante del mercato e la nota piattaforma di vendite online gli ha dedicato anche una sezione apposita, Amazon Teens, dove poter fare acquisti in maniera autonoma. Ma se passiamo ad un altro gigante hi-tech come PayPal, scopriamo che la tendenza non cambia: 218 milioni di utenti con un volume totale di pagamenti, nell’anno in corso, di quasi 115 miliardi. Un terzo dei quali generato da operazioni su dispositivi mobili.
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MILLENNIALS
Insomma, inutile girarci troppo intorno. Sono due i fattori principali che caratterizzano le moderne abitudini di acquisto, proprie dei millennials: il rapido sviluppo dell’e-commerce e la presenza costante dello smartphone. Un trend in crescita in Europa, dove fa da capolista l’Inghilterra con l’83% di utilizzo dei servizi e-commerce. Anche in Italia, patria dell’artigianato, le vendite in rete continuano a crescere. Complici la crisi economica, gli orari lavorativi sempre più lunghi, e la crescente digitalizzazione, sono sempre di più gli italiani che in pausa pranzo, o nei tragitti per andare e tornare dal lavoro, in autobus o in treno, ne approfittano per fare qualche acquisto on-line. Secondo l’Osservatorio eCommerce B2c della School of Management del Politecnico di Milano, nel 2017 il valore degli acquisti online ha sfiorato i 24 miliardi di euro, il 17% in più dell’anno precedente. I web shopper italiani, cioè i consumatori che hanno effettuato almeno un acquisto online nell’anno, sono 22 milioni. E, neanche a dirlo, la stragrande maggioranza (54%) sono millennials. Sono proprio i ragazzi tra i 20 e i 35 anni a usare di più internet per fare acquisti. Viaggi su tutti, ma anche informatica, elettronica di consumo e abbigliamento. Insomma, se devono fare shopping preferiscono farlo online.
due fattori caratterizzano le abitudini di acquisto dei millennials: il rapido sviluppo dell’e-commerce e la presenza costante dello smartphone Tra i motivi, sicuramente c’è la possibilità di risparmiare, la comodità dello shopping e la forte componente di personalizzazione dell’acquisto. Prendendo in esame la branca del retail di abbigliamento, che è da sempre un settore di punta in Italia, appare evidente come questo stia subendo una vera e propria rivoluzione. Prima del digitale, a travolgere i piccoli negozi d’abbigliamento, generando uno scollamento del rapporto diretto, e spesso consolidato, tra venditore ed acquirente, è stato l’arrivo in Italia di colossi del Fast Fashion come Zara nel 2001 o H&M nel 2003. Questi hanno fatto da ponte, sfruttando quasi subito le possibilità offerte dall’e-commerce e predisponendo prima degli altri piattaforme d’acquisto on-line. Esempi sono il Click & Collect di Zara, in cui si compra sul sito e si ritira la merce in negozio.
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Per quel che riguarda i brand italiani, un dato da tenere presente, è la notevole discrepanza tra la crescente disponibilità degli utenti, in particolar modo millennials, ad acquistare on-line, e le scelte strategiche dei retailer. Basti pensare che i top retailer italiani, inclusi brand noti come Calzedonia e Alcott, investono meno dell’1% del fatturato nel digitale e solo un terzo di loro ha già progettato una strategia online, mentre il settore dell’abbigliamento sta sempre più convergendo su piattaforme on-line come la tedesca Zalando e l’inglese Asos. Un settore, quello dell’abbigliamento, che si avvia sempre di più verso la multicanalità, dove digitale e reale si integrano per migliorare l’esperienza di acquisto del cliente. Il 24% compra più spesso online, il 35% indifferentemente acquista sul web e in-store, mentre il 38% è un fedele frequentatore del negozio. “In futuro non si parlerà più di commercio online, ma solamente di commercio”, ha spiegato il Presidente di Netcomm Roberto Liscia, in
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MILLENNIALS
occasione del Netcomm forum che si è tenuto a Milano il 18 maggio scorso, “Il mondo fisico ha e avrà un ruolo importante. Siamo nel paradigma del retail always connected: l’acquisto è un processo e non più un atto, in cui sta venendo meno la differenza fra B2B e B2C”. E ad amplificare ulteriormente tale processo, come detto, c’è la centralità dello smartphone. Secondo il Total Retail Survey 2017 di Pwc, cresce la percentuale di consumatori italiani che acquistano tramite smartphone almeno una volta a settimana (il 20%, contro un 30% che acquista ancora tramite PC). Crescono quindi gli acquisti online: sono 5,8 miliardi gli euro spesi online attraverso dispositivi mobili nel 2017, un balzo del 65% rispetto all’anno precedente. Anche qui nulla di nuovo verrebbe da dire, ma c’è un dettaglio in più. Come si legge da dati ExportUSA, il 70% dei millennials e addirittura il 100% della Generazione Z entra nei negozi con lo smartphone in mano. Non per comprare però, ma per informarsi, fare ricerche e confrontare online i prezzi, verificare le caratteristiche dei prodotti o semplicemente scattare delle foto da condividere con i propri amici.
discrepanza tra la crescente disponibilità ad acquistare online e le scelte strategiche dei retailer è notevole la
E qui entrano in ballo i social network. Tra i millennials italiani infatti, il 42% trova ispirazione per gli acquisti proprio sulle pagine dei social più comuni, prima di visitare, eventualmente, siti di confronto prezzi o multi-brand. Una vetrina fondamentale ormai per cercare informazioni e richiedere consigli utili a persone fidate e (spesso) più preparate degli stessi addetti vendita presenti in negozio. Insomma, presto non metteremo più piede in un negozio fisico? Certo che no. Continueremo a farlo e, anzi, potremo magari pagare direttamente col nostro smartphone (ancora lui!) tramite Apple Pay e vivere un’esperienza di acquisto nuova, più “condivisa” e soddisfacente. E, al contempo, lo faremo on-line (conto in banca permettendo), in modo semplice, rapido e sempre più personale. Del resto, c’è qualcosa di più gratificante dello shopping? Chiedete ai millennials, vi risponderanno di no.
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DIETRO LE QUINTE DELL’E-COMMERCE ONLINE E OFFLINE PER UNA COMPLETA ESPERIENZA D’ACQUISTO Francesca Passoni
Gli acquisti su piattaforme e-commerce sono in crescita in tutto il mondo e molti colossi del retail sembrano voler approcciare l’universo digitale per rimanere competitivi. Cosa significa però portare un business online?
Partiamo subito dalle piattaforme e-commerce: qual è il processo che porta alla loro creazione? Quali gli elementi essenziali da considerare nei vari step di progettazione?
Ne abbiamo parlato con Alessio Barbati, responsabile dello Strategic & Business Development e co-founder di Triboo Digitale, una delle realtà di eccellenza del mondo e-commerce e della comunicazione online.
Ogni e-commerce è diverso dall’altro perché sono diverse le esigenze, gli obiettivi e i contesti aziendali che lo portano alla luce. La prima cosa da fare è quindi stabilire il ruolo del negozio online all’interno della strategia di impresa che si sta portando avanti. In questo è fondamentale il supporto consulenziale di una realtà competente ed è il motivo per cui, come Triboo, non ci presentiamo sul mercato come semplici fornitori di tecnologia, ma come partner consulenziali e di servizio. Una volta definiti gli obiettivi, si tratta di attivare un meccanismo complesso di cui il sito è solo la punta dell’iceberg, e che deve tenere conto del modello
Dalla sua esperienza ventennale nel settore, emergono alcune delle strategie di successo e una riflessione su come il retail possa giovare degli strumenti e delle opportunità offerti dal digitale.
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di logistica e magazzino più efficienti, del rapporto con gli spedizionieri, dei sistemi di pagamento e sicurezza, degli investimenti e dei canali pubblicitari. Senza contare le interazioni – oggi sempre più necessarie – che devono essere previste tra l’ambiente online e il negozio fisico. Tutte attività che nella pratica richiedono integrazione di software ma a monte implicano sempre una guida strategica, perché ogni parte è connessa all’altra e tra il click sul sito e la consegna del bene non devono esserci intoppi. Gli elementi essenziali di un e-commerce sono quindi: una chiara strategia marketing, a cui rispondono il design e i contenuti, la user experience sul sito, uno sviluppo solido e reattivo, la pianificazione media, le attività social, un’integrazione tra sistemi gestionali a 360° e flessibile, per incorporare rapidamente l’innovazione.
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In negozio il consumatore viene ingaggiato tramite la stimolazione dei sensi, l’esperienza “fisica” del brand e le attenzioni di un personale di vendita sempre più competente. In una realtà che tende al digitale, come fare per ingaggiare i consumatori online? L’esperienza digitale deve avere un impatto emozionale tanto quanto quella in un negozio fisico, ma utilizzando gli strumenti e i codici del digitale. Non può essere una fotocopia né può scimmiottare soluzioni che funzionano nel fisico ma non sullo schermo di uno smartphone. Per questo è fondamentale il lavoro di direzione creativa, di design, di user experience e in generale il coordinamento di una intera filiera di valore. È necessario assemblare un pool di competenze misto, perché non è solo questione di vedere sul display un negozio, ma di attraversarlo ed esplorarlo nel contesto digital. Per questo, ad esempio, i professionisti che lavorano in Triboo devono confrontarsi regolarmente con il team di sviluppo e di Quality & Innovation dedicato allo scouting e alle implementazioni di nuove soluzioni tecnologiche, oltre che con lo store manager che conosce meglio di tutti il prodotto e il cliente. Inoltre l’esperienza online del brand non si limita alla navigazione sul negozio: per questo consideriamo tutto l’ambiente digitale,
ovvero la comunicazione sui social, gli strumenti e i contenuti dell’advertising. Per ottenere un risultato di valore sul negozio online, ogni punto di contatto digitale deve essere curato e coordinato: nulla deve essere lasciato al caso. E dato che l’orizzonte digital è sempre più largo e articolato, è fondamentale che il partner del brand sia in grado di coordinare in modo sinergico tutti questi elementi. Triboo Digitale ha da poco confermato l’ultima di una serie di partnership vincenti, creando il sito e-commerce di Yamamay. Cosa rende una piattaforma di vendita online davvero efficace? Ogni nostro negozio nasce per rispondere ad un’esigenza strategica dell’azienda, per questo
merce nasce da una serie di elementi da sviluppare in modo organico e omogeneo con l’obiettivo di costruire percorsi – non necessariamente solo online – che portano il potenziale cliente a interessarsi all’offerta, a esplorarla e ad attivare la transazione. Ma anche qui, è solo il primo passo. Nella maggior parte dei casi puntiamo alla continuità di acquisto, al valore non del singolo carrello ma del customer lifetime value. In questo sono determinanti le implementazioni di marketing automation che sui grandi numeri ottimizzano la nostra capacità di erogare input e contenuti a clienti specifici e in base a determinate condizioni. Una delle applicazioni più semplici è contattare via email o altri canali chi ha iniziato un
ogni parte è connessa all’altra: tra il click sul sito e la consegna non devono esserci intoppi l’efficacia passa innanzitutto dal comprendere la reale potenzialità del brand e della sua offerta online. Stock limitati impongono scelte differenti da chi può movimentare più stagioni e interi cataloghi. Il valore si costruisce a partire da queste analisi preliminari, che comprendono l’elemento fisico e la rilevazione dell’interesse online per il prodotto. Smarcati questi punti, il successo dell’e-com-
acquisto ma ha poi abbandonato il carrello. Recuperando questi acquisti interrotti e invogliando il cliente a completarli generiamo valore economico immediato. Quindi possiamo dire che l’efficacia nasce sempre all’intersezione tra la strategia marketing, il valore della comunicazione e la reattività della soluzione tecnologica.
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Oggi si parla di crisi del retail. Gli analisti americani lo chiamano “The Amazon Effect”, mentre il Financial Times avverte che il successo dell’e-commerce potrebbe generare una crisi economica addirittura più pesante di quella dei sub prime.
Come commenti questa tendenza? L’e-commerce porrà fine al retail, sostituendolo, o andrà a supportarlo? Il retail è stato colpito duramente da una serie di fattori. Il modello di presidio spaziale e il rapporto tra metratura e venduto non
ALESSIO BARBATI PROFESSIONE Co-founder Triboo (Strategy & Business Development)
FORMAZIONE Laureato in Business and Computer Engineering, ha maturato una profonda esperienza nel settore IT. Ha lavorato nella divisione e-Business di SMC Computers nel ruolo di Sales Manager e come Chief Operating Officer di Kelyan. Dal 2009, Barbati è responsabile di tutte le attività della divisione “Digitale” (e-commerce, comunicazione digitale e performance media marketing) del Gruppo Triboo.
CURIOSITÀ Amante dello sport, Barbati è uno dei più assidui frequentatori della palestra a disposizione di tutti i dipendenti nel quartier general milanese di Triboo.
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sono più una certezza: l’acquisto si è diluito e oggi molti retailer in tutto il mondo per mantenere le marginalità di 10 anni fa dovrebbero chiudere decine di negozi, se non sono già oltre un punto di non ritorno come l’americana Toys R Us. Tuttavia non pensiamo che questo segni la fine del retail fisico. Ci sono differenze tra settori merceologici, ma il passaggio in negozio fisico è fondamentale per il 70% dei consumatori. L’interazione fisica non viene meno oggi e non scomparirà domani: proprio come avviene nelle relazioni personali e lavorative, Facebook, Instagram, LinkedIn hanno creato un ambiente fluido che è difficile definire esclusivamente online. Sicuramente questi trend hanno cambiato alcune cose, ma non hanno generato una frattura a danno dei due mondi: il nostro cliente è digitale, e questo vuol dire muoversi fluidamente tra canali fisici e canali online, in base ad interessi, esigenze e obiettivi che dobbiamo essere sempre più bravi a comprendere. La prospettiva omni-channel è quindi fondamentale per il nostro settore. Sappiamo che il nostro cliente passerà da un negozio fisico, ma guarderà anche lo store online. Tramite Facebook si iscriverà ad un evento fisico del brand e lo condividerà via Instagram con i suoi contatti. La sfida qui è trovare una nuova dimensione per il retail, sapendo che le persone vogliono entrare in un negozio ma anche che il 56% di loro si aspetta anche che in qual-
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che modo il brand le riconosca come clienti, indipendentemente dall’aver acquistato online o offline. È un’esigenza davvero molto specifica, ma che è sentita da un cliente su due. Se la sfida dell’e-commerce è costruire un rapporto privilegiato, funzionale ed emotivo, la sfida del retail non è diversa: il cliente si aspetta un’unica esperienza del brand, del prodotto e dell’acquisto che può avvenire senza soluzione di continuità sullo schermo di uno smartphone, negli spazi del negozio fisico e spesso in contemporanea. In ultimo, come si evolverà il mondo dell’e-commerce? Si integrerà con altri strumenti? Quali sono gli scenari tecnologici ed i progetti che Triboo ha in cantiere per il futuro prossimo? Al di là di come costruire un’esperienza omni-channel integrata ed efficace, che è in sostanza il risultato a cui vogliamo tendere in ogni progetto e più che un trend direi che oggi è un vero e proprio must-have, il nostro focus è sul fronte chiave del dato e in modo più preciso sulla capacità di agire sulla scorta del dato raccolto. Non serve solo avere una conoscenza dettagliata del proprio cliente, è necessario impostare protocolli di azione che mettano a frutto queste informazioni. Con la creazione di un team dedicato espressamente a Data Analytics e l’implementazione di strumenti proprietari, Triboo sta
incrementando la propria capacità di lettura del dato del cliente a tutto campo, non solo con le informazioni raccolte sullo store ma anche con un matching a più ampio spettro che ci permette di comprendere interessi e caratteri socio-demografici cruciali per creare esperienze su misura. Il secondo passaggio è quindi erogare queste esperienze tailor made su canali di advertising ma anche all’interno del sito stesso. Stiamo implementando soluzioni di contenuto personalizzato in base alle caratteristiche del visitatore, sia in termini di creatività differenti che di organizzazione e presentazione dei prodotti e dell’offerta. Ma anche in questo caso, non è solo questione di adottare una piattaforma o uno strumento specifico: la differenza viene fatta ancora una volta dal pensiero a livello di strategia marketing.
comunicazione, delle piattaforme, della tecnologia, dell’innovazione. Un sistema di valore integrato, sviluppato tutto attorno al cliente: questa è la mission che come Triboo ci siamo dati e che stiamo portando avanti con sempre maggior riscontro da parte dei clienti. Interpretare l’identità, il target e i bisogni dell’azienda è fondamentale per portare un brand online e per dare vita a un sito efficiente che faciliti la relazione con il consumatore. Le numerose opportunità del digitale quali immediatezza, sicurezza dei dati e infallibilità dei processi, se messe al servizio delle risorse negli store fisici potranno migliorare l’esperienza di acquisto dei clienti che potranno vivere il meglio del mondo offline e online.
L’esperienza digitale
deve avere un impatto emozionale tanto quanto quella in un negozio fisico Senza questo aspetto di natura consulenziale e direttiva, ogni implementazione tecnologica, ogni soluzione “smart” non fa altro che accumulare sulla scrivania dei manager quantità di dati che, alla fine dei conti, rischiano di non essere agibili. Per questo l’evoluzione dell’e-commerce non può che passare da una presenza consulenziale e strategica che deve immediatamente tradursi in azioni grazie al supporto della
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RETAIL COACHING
EMOZIONI E STORYTELLING VS INNOVAZIONE TECNOLOGICA Francesca Passoni
Ho maturato nel tempo la scelta di occuparmi di formazione. Essa nasce dal desiderio di contribuire alla crescita delle persone, facilitandole a scoprire le potenzialità che hanno e svilupparle al meglio per raggiungere ciò che desiderano. Per questo ho scelto di diventare Coach. Il periodo di innovazione tecnologica che stiamo cavalcando da qualche tempo ci ha trasportati in un nuovo ecosistema commerciale che oggi, forse, facciamo ancora fatica ad affrontare. Le vendite online continuano ad aumentare e il mercato prova a stare al passo con le nuove richieste e bisogni dei consumatori, ponendo il retail al centro dell’interesse economico di tutto il mondo. Cambiano le abitudini di consumo e gli strumenti, la tecnologia è giunta anche nel settore delle vendite al dettaglio ed impone alle persone che vi lavorano di adeguarsi a una nuova realtà.
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In passato non ho avuto la fortuna di avere qualcuno che mi seguisse e formasse professionalmente. Spesso, nei vari ruoli che ho ricoperto, non veniva nemmeno specificato quali fossero le mansioni richieste e tanto meno le modalità di applicazione. Sono poche le aziende che fanno formazione interna e spesso si appoggiano a consulenti esterni senza competenze di settore che risultano poco efficaci. Io ho imparato autonomamente con molta fatica, leggendo, studiando, formandomi privatamente ed emulando chi era più bravo, cercando di imparare i “trucchi del mestiere”.
Cosa viene chiesto oggi agli addetti vendita e come si stanno adeguando le grandi catene di distribuzione alla convivenza con la vendita online? Ne abbiamo parlato con Elena Rubboli, Skill Coach e Trainer in ambito retail.
Mi sono sempre chiesta come potessi apprendere più facilmente, cosa mi servisse e cosa mi mancasse quando non riuscivo in qualcosa. Senza rendermene conto, ho iniziato ad allenare la mente a porsi domande strategiche che mi avrebbero portato a trovare risposte intelligenti. Ancora oggi queste domande sono la base della mia crescita costante.
Elena, da diversi anni ti occupi di Formazione, cosa ti ha portato a fare questa scelta? Quali sono le soddisfazioni più grandi che ottieni dal tuo lavoro e quali le sfide più impegnative?
La più grande soddisfazione nel mio lavoro è vedere il risveglio della speranza e della passione negli occhi delle persone che agiscono in modo attivo per il proprio miglioramento grazie anche al mio contributo. Mi piace aiutarle a scoprire e sviluppare i propri talenti.
FORMAZIONE
Le sfide più impegnative sono sicuramente: - far capire che l’aspetto mentale è alla base di ogni risultato professionale e personale; - far superare i limiti e le resistenze che le persone hanno a causa della paura del cambiamento; - sensibilizzare alla costanza e all’impegno da dedicare alle azioni al fine del raggiungimento degli obiettivi. C’è una frase che racchiude tutto questo: “La vita non è come dovrebbe essere, è quella che è. E’ il modo in cui l’affronti che fa la differenza!” (V. Satir). Secondo “Total Retail 2017” - la nuova edizione della ricerca di PwC - il 51% dei consumatori italiani si fidelizza al negozio e lo visita almeno una volta alla settimana per fare acquisti. Chiede che il personale di vendita sia preparato e che lo aiuti a trovare il prodotto di cui ha bisogno, anche secondo le disponibilità online. Si tratta quindi di offrire un servizio di consulenza, oltre che di vendita. Come valuti questa tendenza?
Oggi i clienti hanno esigenza di entrare in contatto fisico con il prodotto e con il personale di vendita che, se ben formato, sa creare un link importante con il brand. Il fattore umano è sempre in grado di fare la differenza, giocando un ruolo fondamentale e determinante per il processo decisionale d’acquisto. L’e-commerce, in lenta crescita in Italia e più rapida negli altri paesi europei, è uno strumento che permette al prodotto di arrivare nelle case in modo capillare e tecnologico. Nonostante molte aziende e imprenditori valutino ciò come una criticità, dal mio punto di vista è una grande opportunità. Il prodotto viene ben proposto anche online e, attraverso strategie di marketing, viene attivato il desiderio d’acquisto. Questo, però, non basta. Manca il fattore umano che porta la maggior parte delle persone a decidere di vivere l’esperienza negli store. Il personale deve essere preparato e informato sul prodotto, deve avere conoscenze trasversali e abilità comunicative per offrire al cliente un servizio di consulenza completo.
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In una realtà sempre più tecnologica e digitale, che cosa chiedono le grandi aziende retail alle proprie risorse? È cambiato il percorso di formazione? Quali sono le skills più ricercate oggi rispetto a qualche anno fa? Penso che le grandi aziende retail non abbiano ancora messo in atto il vero cambiamento. Hanno avuto poca o nessuna evoluzione riguardo l’aspetto digitale e tecnologico e per questo c’è stato un continuo e progressivo calo di visitatori e grosse difficoltà a mantenere i fatturati, in molti casi imputati erroneamente a fattori esterni. A livello formativo si continua a lavorare sulla conoscenza tecnica del prodotto, sulle strategie di visual merchandising e su specifici metodi di vendita che si orientano all’ABC del benvenuto e della relazione. Un importante passaggio da compiere è quello di trasformarlo in una vera relazione di dialogo con il cliente. La grande sfida sarà quella di riuscire a creare store innovativi, evolutivi e tecnologici che diano origine ad una vera experience grazie al contatto con il personale e con il prodotto. Lo scopo è instaurare una relazione di crescita e familiarità che sia anche appagante a livello emotivo, un aspetto con cui la tecnologia da sola non può competere. Un’azienda che applica questo connubio in ambito retail è Apple. Oltre alla formazione degli addetti sul tecnicismo del prodotto, negli store sono stati creati ambienti accoglienti dove i clienti socializzano e vengono formati attraverso momenti di confronto che generano un senso di appartenenza al brand. Alcune aziende del mondo retail stanno iniziando a sviluppare progetti di Retail Coaching, dove le persone vengono allenate a sviluppare soft skills fondamentali, come ad esempio l’intelligenza sociale ed emotiva che si uniscono all’abilità di comunicare, alle conoscenze e competenze specifiche di ogni settore. L’obiettivo è formare e guidare le risorse in questo cambiamento importante. L’innovazione tecnologica può trasformare radicalmente l’estetica di un negozio. Schermi led, specchi interattivi, esposizione di cataloghi online coinvolgono il cliente e lo tengono occu-
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pato. Qual è il ruolo dell’addetto vendita oggi? C’è bisogno di formarlo su come utilizzare al meglio le nuove tecnologie che lo circondano anche sul posto di lavoro? Oggi l’addetto vendita ha un ruolo marginale, il suo compito è quello di guidare un cliente molto informato e spesso “self-service”. Le mansioni che svolge sono: riassortire l’esposizione, sistemare i camerini, dare informazioni riguardo le giacenze e le varianti degli articoli, indicare dove si trovano i reparti e fare operatività di cassa. In pochissimi casi si occupa di vendita vera e propria, si potrebbe definire quindi “Informatore e Porgitore” più che venditore. Il ruolo dell’addetto vendita è in evoluzione e sarà sempre più quello di imparare a fare storytelling attraverso una comunicazione assertiva efficace ed emozionale. Devono essere comunicati i valori, la filosofia e l’aspetto sociale dell’azienda per rendere il cliente partecipe al processo evolutivo aziendale. Chi fa formazione deve, quindi, lavorare su questo, facendo da trait d’union tra il sistema tecnologico e la parte emozionale dell’esperienza d’acquisto. É assolutamente fondamentale che il personale sia formato, qualificato, costantemente aggiornato e attento. Gli italiani comprano sempre di più online: dall’abbigliamento ai viaggi, dal cibo ai prodotti altamente tecnologici, i consumatori che si affidano all’e-commerce sono in crescita. Questo cambio di paradigma influenza le attività di vendita dei negozi “offline”? Secondo te si stanno organizzando per contrastare questa tendenza digitale? Certo che sì, questo cambio di paradigma influenza le attività dei negozi “offline”. Le aziende hanno talmente paura del cambiamento da bloccarne l’evoluzione interna; molte di esse, infatti, continuano a rimanere radicate ai sistemi funzionali del passato nonostante gli attuali risultati negativi. Alcuni retailer hanno iniziato a reagire inserendo il servizio di e-commerce, dall’altra parte le aziende tecnologiche si stanno adoperando per contrastarli.
FORMAZIONE
Un esempio è Amazon. La multinazionale si è resa conto che avere solo il brand virtuale è limitante - visto che i clienti hanno necessità di contatto con il personale e con il prodotto - quindi ha deciso di acquistare catene di negozi per aprire degli store fisici. Amazon Go e Amazon Fresh sono i test di Seattle che hanno l’obiettivo di portare i clienti online a fare una real shopping experience e viceversa; di invitare i clienti “offline” a iniziare una virtual shopping experience, passando da un canale all’altro (web, pc, mobile, negozio). Il risultato è duplice: abbracciare l’utenza ancora restia ad affidarsi solo alla rete e dare al contempo una vetrina tangibile al brand Amazon. In ultimo, secondo te i negozi fisici sono in via d’estinzione? Oppure sapranno coniugare tecnologia e competenze per contribuire al meglio alla shopping experience dei consumatori? Assolutamente. Ci sarà una riduzione dei negozi fisici, dei centri e delle vie commerciali perché c’è stato un proliferare che è andato ben oltre quelle che sono le esigenze delle persone. É già in atto una selezione, infatti in futuro rimarranno gli store di coloro che riusciranno a creare un connubio tra digital e shopping experience, raggiungendo i posizionamenti migliori. Inoltre per le aziende la sostenibilità sarà d’obbligo; gli strumenti e gli assetti organizzativi e gestionali per ridurre l’impatto sull’ecosistema saranno maggiormente collegati al successo di un’impresa. Per affrontare il mercato dell’e-commerce gli addetti ai lavori dovranno impegnarsi sempre di più nella gestione del cliente. Il customer care come comunemente inteso dovrà evolversi e specializzarsi, gli addetti vendita nei negozi dovranno saper accogliere, ingaggiare e fidelizzare il cliente, offrendogli una vera e propria esperienza d’acquisto. Per gli Skill Coach come Elena, la sfida si fa più impegnativa e assume dimensioni tali da influenzare l’esito globale della battaglia tra online e offline che, chissà, forse vedrà il suo epilogo in un ritorno alle origini, quando la migliore soluzione per l’acquisto risiedeva nel contatto umano e nello storytelling dietro al prodotto.
ELENA RUBBOLI Skill Coach Life Business e Trainer. Facilita le persone nel raggiungimento dei loro obiettivi.
FORMAZIONE Diploma superiore Dirigente di Comunità. Licensed NLP Coach e Licensed Master of Neuro Linguistic Programming (Richard Bandler), Master in analisi scientifica del comportamento non verbale e micro espressioni (Neuro Com Science). Con un’esperienza di 20 anni in ambito Retail ha ricoperto numerosi ruoli all’interno di diverse organizzazioni. Ha iniziato come Store Manager per poi diventare District Manager, Area Traning Manager e HR e Trainer nei settori abbigliamento, cosmesi e intimo.
CURIOSITÀ È appassionata di comunicazione in tutte le suo forme. Ritiene che le persone siano una meraviglia da scoprire. Individuare i talenti di ognuno e valorizzarli è la sua Mission, “Live your life with passion!” è la sua filosofia di vita.
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FOOD
IL MONDO DEL FOOD
ALLA CONQUISTA DEL CONSUMATORE 3.0 Deborah Nania
Ha dai 35 ai 50 anni, vive in un grande centro urbano e fa acquisti in media 2 volte al mese: chi acquista on line in Italia viene definito consumatore “assiduo”. I dati raccolti dall’Osservatorio eCommerce B2c - che attestano ad un +18% la crescita del fenomeno dal 2015 - sembrano avallare questa teoria. Nonostante i valori in crescita, il divario tra l’Italia e un colosso come gli Stati Uniti, dove l’acquisto on line è una consuetudine del consumatore, è tuttavia ancora molto ampio. Questa crescita graduale è misurabile in tutti i settori commerciali ed è visibile anche nel segmento food che ha subìto negli ultimi anni molti cambiamenti e anche qualche vera e propria “rivoluzione”.
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Avere a che fare con un’utenza sempre connessa e a caccia di novità ha stravolto la nozione di “cibo” che è passato dall’essere semplicemente il mezzo attraverso cui sfamarsi, ad un tassello fondamentale a cui legare il concetto di “esperienza” per aprire nuove opportunità di business. Se è vero che agli e-commerce va riconosciuto il merito di aver - anche in questo campo - accorciato le distanze e permesso ai consumatori di scoprire e acquistare cibo proveniente da tutto il mondo, la vera novità dell’ultimo decennio in Italia è da considerarsi il food delivery. Nelle grandi città ormai è la normalità, ma l’invasione di realtà come Deliveroo, Foodora, JustEat e UberEats sembra inarrestabile e destinata ad espandersi in modo capillare in tutto il paese. Un servizio nato per soddisfare un bisogno ben preciso – non ho tempo/voglia di cucinare e in 30 minuti mi consegnano la cena a casa – ma che ben presto è riuscito, forse anche inaspettatamente, a modificare le abitudini alimentari e il modo stesso di fruire dei pasti. Certo, la comodità della consegna a casa resta un punto di forza ma a questo sempre più si sta affiancando l’aspetto esperienziale della scoperta: provare una o più cucine differenti nella stessa sera, magari condividendo un momento conviviale con gli amici.
a nomi accattivanti nascondono solo dei ristoranti senza coperti che preparano piatti esclusivamente per il delivery. I primi a portare questo format in Italia sono stati i canguri di Deliveroo con le loro “edition”: menu pensati da chef e ristoranti per la consegna a casa e non disponibili à la carte nei locali. Una trovata interessante che va a porre nuovamente l’accento su quanto sia fondamentale far vivere al consumatore un’esperienza, in questo caso inedita, legata a qualcosa che può assaggiare solo utilizzando quel servizio. Un win-win ma soprattutto una grande opportunità per i ristoranti che - complice la ri-popolarizzazione del cibo dopo una fase di mitizzazione della cucina - devono coltivare il rapporto con la propria clientela. Come? Iniziando a presidiare i nuovi strumenti con cui le persone cercano le informazioni: fino a pochi anni fa era raro trovare ristoranti con siti internet e canali social aggiornati, mentre adesso sta diventando sempre più comune e necessaria l’interazione attraverso questi mezzi. Non solo i ristoranti ma anche le grandi catene di distribuzione hanno capito che devono andare verso schemi meno classici e disegnare nuovi modelli distributivi capaci di competere nel nuovo mercato che si sta delineando. Ecco quindi che ogni catena di supermercati offre un servizio di consegna a casa e non solo: aperture 24 ore su 24 e servizi di “click and collect” che permettono di fare la spesa online e passare a ritirarla senza scendere dall’auto in meno di 5 minuti, rappresentano la naturale evoluzione del supermercato.
punti di forza: comodità della consegna a casa e l’aspetto esperienziale della scoperta Sulla stessa onda si sono sviluppati recentemente format simili che puntano a rendere l’esperienza del pasto ancora più originale e coinvolgente per l’utente, ma più sostenibile in termini di costi per l’azienda. È il caso dei “virtual restaurant” o delle “dark kitchen” che dietro
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Questa evoluzione passa anche attraverso la scelta di prodotti innovativi da proporre tra le corsie; numerose catene offrono meal kit con ingredienti già dosati e pronti per essere cucinati. Un modo sicuramente originale per arricchire l’esperienza della spesa che piace molto all’estero e che sta arrivando anche in Italia.
FOOD
L’esasperazione estrema di flessibilità è rappresentata da servizi come quelli offerti da Amazon Prime Now o Glovo che, su Milano, nel giro di un’ora consegnano a casa qualsiasi cosa: dal gelato al vino, al dvd per la serata, il tutto senza mettere piede fuori casa. E se la parola chiave è diventata “esperienza”, è sempre più vero che parallelamente anche i brand del food si stanno muovendo per regalarne di nuove e appassionanti ai propri clienti, sperando intanto di attrarne di nuovi. Temporary store e restaurant sono già realtà molto diffuse e rappresentano il modo in cui l’azienda propone un concentrato di sè, mostrando qualcosa che solitamente non traspare dalle corsie di un supermercato. È il caso di Algida che con i suoi Magnum pleasure store ha offerto alle persone l’esperienza innovativa di scoprire come viene realizzato uno dei suoi gelati più amati, coinvolgendole
e dando loro la possibilità di personalizzare il proprio al momento. Un’iniziativa tanto fortunata che da temporary è diventata stabile in molte città italiane. E se il cliente non viene da te, sei tu ad andare da lui: la promozione di prodotti portati a spasso per le città con food truck o ape car brandizzate ormai non ci stupisce più così tanto, ma anche questa è stata a suo tempo una trovata che ha destato curiosità; così tanta che ha trovato anche una propria declinazione in festival organizzati “ad hoc” con furgoncini provenienti da tutta Italia e capaci di offrire all’avventore un’esperienza non solo gastronomica ma anche sociale.
I trend degli ultimi anni hanno evidenziato che nel food c’è ancora tanto spazio per innovare e che il consumatore 3.0 è sicuramente meno tradizionalista e più disposto a sperimentare di quanto lo fosse un tempo. Infine, anche se i consumi fuori casa sono in crescita, la propria abitazione sembra comunque rimanere, anche per le generazioni “web”, la vera indiscussa destinazione del cibo. Che il giudizio finale sia positivo o negativo, la novità ha di per sé sempre un grande impatto sull’essere umano; la curiosità fa parte di noi e la voglia di fare nuove esperienze ci accompagna per tutta la vita.
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VISUAL MERCHANDISING D’IMPATTO
UNA NUOVA SFUMATURA DELL’ARTE Monica De Vivo
Arte e commercio, cultura e mercato. Sono tanti gli artisti che nel corso della storia sono entrati in contatto con il mondo del retail. C’è chi ha lavorato a campagne pubblicitarie, chi ha messo il proprio talento a servizio di un brand, chi è riuscito solo con un tratto a rendere iconico un prodotto. Il rapporto tra arte e retail si è consolidato e negli ultimi tempi, con l’online che pare conquistare un target sempre maggiore, l’industria del lusso ha cominciato a sfruttare alcuni meccanismi e tecniche artistiche per rivoluzionare le vetrine delle boutique; un elemento che oggi assume un’importanza molto rilevante nella comunicazione di un brand e per cui oggi il settore luxury sperimenta nuove leve per coinvolgere i consumatori in un’esperienza d’acquisto completa e immersiva. Ad accoglierci nel territorio del Visual merchandising c’è Manfredi Benavides, Visual Creative Manager per un noto marchio di moda.
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MANFREDI BENAVIDES Ha lavorato per grandi marchi come Yves Saint Laurent, Miu Miu, Prada e TOD’s dove si è occupato della Visual Coordination del brand FAY. Oggi è il Visual Creative Manager per un noto marchio di moda.
Da oltre 15 anni lavori come Visual Merchandiser per aziende leader nel mondo della moda, da cosa è nata questa passione? La passione/amore per il visual merchandising nasce quasi per caso. Anzi credo possa definirsi qualcosa di innato e che viene coltivato spontaneamente senza alcuna forzatura! Il primo contatto avviene durante la mia esperienza da YSL. Allora lavoravo come Sales Assistant e mi fu proposto dalla Store Manager di occuparmi del Visual del negozio di Milano che al tempo era uno dei più grandi d’Europa per metratura, se non ricordo male circa 1200mq.
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La proposta è arrivata dopo che la persona che se ne occupava all’epoca era andata via, ovviamente colsi l’occasione al volo e senza esitare, accettai! Immaginate cosa può significare per un ragazzo di 22 anni occuparsi dell’in-store Visual di un negozio così importante, di un marchio così famoso… da non crederci; poter lavorare con il prodotto di Tom Ford da questo punto di vista è stato pazzesco! Come è cambiata la concezione di “negozio” negli ultimi dieci anni? La concezione di negozio è cambiata soprattutto grazie all’avvento del web, tutto è diventato molto più rapido e immediato; oggi c’è l’ossessione di consumare tutto immediatamente, senza coltivare il desiderio dell’attesa che invece dieci anni fa alimentava la voglia di possedere un capo firmato. Dobbiamo però aggiungere che negli ultimi anni le aziende leader nel settore lusso hanno lavorato fortemente per creare un link tra il web e gli store: se vedi un prodotto su Instagram e dopo fai un giro nel quadrilatero della Moda a Milano, in teoria dovresti poterlo trovare esposto nelle vetrine. Credo che il negozio così come lo conosciamo abbia subìto un mutamento considerevole dettato da due punti essenziali: la velocità da parte del cliente nell’assimilare le informazioni e la voglia smisurata di possedere un oggetto.
Quanto pesa oggi la ricerca di multicanalità (vetrine, installazioni e store) rispetto all’esclusività del marchio? E in un modo sempre più tecnologico, quanto può essere vincente comunicare un brand sfruttando le opportunità del digitale? La ricerca rimane fondamentale perché rappresenta il punto di innovazione e di strategia che crea un nesso con il brand. Il digitale è diventato essenziale per tutte le aziende che vogliono tenersi aggiornate e in contatto con i consumatori e che diversamente perderebbero l’opportunità di incrementare il fatturato. Inoltre il digitale offre alle aziende del lusso la possibilità di raggiungere le fasce di clienti più giovani che, come ben sappiamo, vivono quotidianamente il mondo dell’online (vedi social network). Basti poi pensare alle nuove figure di influencer emerse negli ultimi anni sul web che possono condizionare il successo di un prodotto, o il suo fallimento. In ultimo, credo che il digital possa essere considerato un vero e proprio nuovo modello di vetrina che necessita di nuove strategie di visual merchandising. Cosa rappresenta la vetrina per un’azienda luxury? Indubbiamente rappresenta il primo biglietto da visita per il cliente. È la materializzazione dell’opportunità di vedere, toccare, provare e poi comprare
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vetrina è l’esperienza visiva legata al sogno che il lusso ispira, il desiderio del capriccio che si trasforma in necessità La
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un prodotto. Rappresenta inoltre l’esperienza visiva legata al sogno che il lusso ispira, il desiderio del capriccio che si trasforma in necessità. Da qui deriva la forza di comunicazione del brand. Qual è il processo strategico, creativo e di comunicazione che porta all’allestimento di una boutique? Nel processo creativo dell’allestimento di una boutique ci sono molti fattori che condizionano la creatività quali il DNA del brand, il buying e la città dove sorge lo store. Il processo creativo inizia con la consegna del brief dall’azienda, solitamente si prendono in considerazione le diverse strategie del brand come ADV, tema della collezione, ispirazioni. Una volta stabilito il mood si lavora alle diverse proposte, le quali verranno concretizzate, valutate creativamente e costificate. In questa fase entra in gioco la figura del direttore creativo che, con una visione globale, riesce a individuare tra le varie opzioni la proposta più efficace. Il negozio è ancora importante per le vendite? Come reagire al successo dell’e-commerce? Sì, il negozio è ancora fondamentale per il rapporto brand/cliente, per le aziende rappresenta l’opportunità di approcciare e avvicinare al marchio il bacino di utenti che non acquistano sui siti e-commerce e al tempo stesso, di dare l’opportunità a chi acquista
online di poter vivere l’esperienza dello store. Ricordiamoci che la brand experience e il rapporto umano sono tutt’oggi il valore numero uno! Credo che le boutique possano reagire al successo dell’e-commerce utilizzandolo come alleato– inteso come mezzo di comunicazione a loro vantaggio - in modo da stabilire un approccio immediato tra cliente e brand. Come fare per ingaggiare maggiormente il consumatore? Quali sono le ultime tendenze in questo campo? Attualmente il brand crea delle vetrine di forte impatto, spesso collabora con il mondo dell’arte, della musica, del cinema, traendo idee che mantengano vivo il sogno e il desiderio del cliente. In più, mentre in passato c’era la tendenza ad allestire le vetrine con prodotti non ancora disponibili in negozio, oggi questi sono acquistabili subito, o addirittura immediatamente dopo la sfilata (vedi la nuova tendenza del see now, buy now). In generale troviamo nuovi trend come l’utilizzo di materiali eco-friendly e del mannequin grouping [gruppi di manichini posti in modo che interagiscano tra loro N.d.R.], si cerca di creare del movimento, dando dinamicità alla vetrina. Il Visual merchandising può prendere ispirazione dall’arte? Se sì, come sfruttarla per valorizzare il brand? Assolutamente sì. Poiché parliamo di estetica credo che questi due mondi andranno sempre mano nella mano. Ovviamente nel visual merchandising l’arte viene utilizzata in modo funzionale, meno poetica rispetto al suo normale utilizzo – se di utilizzo possiamo parlare in quanto arte. Vedi ad esempio la collaborazione tra Louis Vuitton e Jeff Koons: qui troviamo la perfetta sintesi di quanto detto prima, cioè l’utilizzo dell’arte che si presta ai fini commerciali e che non si sofferma alla semplice installazione di vetrine, ma entra in profondità del business creando una capsule di accessori che aumenta la redditività del brand.
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AMAZON STREET O MAIN STREET? L’EVOLUZIONE DIGITALE NEL RETAIL Matteo Testori
Nella scorsa primavera giornali, blog, siti, riportavano con grande enfasi l’apertura a Seattle del primo negozio automatizzato senza pagamento alla barriera casse: Amazon Go. A distanza di qualche mese la promessa - ancora aperta - non ha trovato una conclusione. Il negozio è ancora un work in progress, aperto solo ai dipendenti e si mormora di una possibile chiusura. La storia di Amazon Go è paradigmatica della deriva digitale del retail. Il negozio, attraverso l’uso di tecnologie di face detection e scanning degli scaffali, promette una spesa totalmente automatizzata, senza il bisogno di fermarsi alle casse per il pagamento. In pratica, il cliente/shopper viene “riconosciuto” all’ingresso del punto vendita; il suo smartphone è tracciato e davanti allo scaffale si seguono i suoi movimenti: afferra un prodotto, lo ripone sullo scaffale, lo acquista. Poi via a casa, senza code alle casse e con addebito della spesa direttamente sul conto. Un concentrato di tecnologia: ma a quale scopo? A vantaggio di chi?
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Cerchiamo di fare un po’ di luce. Innanzitutto consideriamo, come sempre si dovrebbe fare nella buona pratica di marketing, il vantaggio per il cliente. La spesa diventa più semplice e veloce, questo è ovvio. Ma oltre a ciò? Tracciando il comportamento di acquisto di più di 13 milioni di shopper attraverso le tecnologie di Dialogica (del tutto simili a quelle usate da Amazon) e con le ricerche condotte da Doxa - nostra partner - abbiamo avuto modo di verificare che i consumatori hanno esigenze molto articolate, in funzione della loro condizione socioeconomica, culturale, del reddito disponibile e dedicato al consumo. I consumatori sono preparati, selettivi, cercano qualità al giusto prezzo, certamente le offerte ma anche semplicità nel processo di acquisto. L’eccesso di offerta e di stimoli (pensiamo a categorie affollatissime, come yogurt, caffè, tinture per capelli, shampoo...) disorienta. Troppi prodotti sullo scaffale creano confusione e rischiano di deprimere le vendite complessive della categoria. Si chiama Brand Choice overload, ovvero eccesso di offerta, meccanismo ben noto ai ricercatori e agli accademici. In pratica, troppi stimoli creano confusione e barriere all’acquisto. Una recente ricerca pubblicata da Silvia Bellini, Maria Grazia Carnevale e Benedetta Grandi dell’Università di Parma riporta che il 38% dei
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consumatori prepara una lista della spesa, il 15% consulta un volantino cartaceo, l’8% quello on-line, il 21% confronta volantini di diverse insegne, il 6,5% usa aggregatori on-line per il confronto fra offerte. Rispetto a questo scenario, che descrive un processo pre spesa articolato e attento alle offerte, la soluzione Amazon Go non offre particolari vantaggi. Allora, chi si avvantaggia della tecnologia? Chi analizza il comportamento degli shopper, ovvero industrie e distributori? Può avvantaggiarsene anche il consumatore? Diciamo subito che i dati attualmente usati dagli operatori - tipicamente quelli di scontrini e di carte fedeltà - presentano un notevole limite: raccontano ciò che succede all’uscita di un supermercato ma non dicono nulla su ciò che accade all’interno, quando lo shopper (dopo aver programmato la sua spesa) entra nel negozio, si muove fra scaffali e isole promozionali, guarda i prodotti, li sceglie. È una situazione paradossale. I retailer sanno quello che accade alla fine, ma non conoscono nulla di ciò che succede dentro casa loro: è un po’ come leggere un thriller che ha solo le ultime righe scritte, dove compare il nome dell’assassino. Chi leggerebbe un libro simile? Dove sono il piacere della storia, l’intreccio, i personaggi? Eppure è esattamente quello che accade oggi.
MATTEO TESTORI Laureato in economia e commercio, post lauream presso la Harvard Business school: fonda Dialogica dopo 15 anni di esperienza nel marketing, nella comunicazione, nelle vendite di Mondadori, American Greetings, CocaCola, Campari. Dal 2005 è docente di Brand Management e comunicazione al master in marketing management dell’Università Cattolica di Milano.
Facciamo qualche esempio: una esposizione promozionale al di fuori dello scaffale quanto rende in termini di vendita? Che ROI ha? Nebbia totale! Il prodotto X è contemporaneamente in promozione e in fuori banco: costi notevolissimi fra sconti e contributi al trade per l’esposizione al di fuori dello scaffale; vale la pena avere in contemporanea esposizione e taglio prezzo? Nebbia assoluta (e costosa). L’azienda effettua 1000 giornate di promozione con hostess e fuori banco: rendono o sono solo un costo?
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Che effetto producono sulla percezione della marca e sul sell-out? Nebbia. Eppure le aziende - non importa se produttive o distributive - dovrebbero essere enti economici, quindi votati alla ottimizzazione degli investimenti. Dai pochi esempi sopra riportati, la foschia che ammanta le attività in negozio sembra suggerire il contrario.
con un intervento
La ricerca citata riporta la sovrapposizione di on-line e off-line: il 15% circa dei consumatori confronta i prezzi on-line, contro il 21% off-line. è possibile La quota dell’on-line è decisamente alta. , il tutto grazie a un Amazon street ucciconoscenza dello shopper derà Main street? Ovvero nell’ alimentare e nei prodotti di largo consumo la vendita on-line ucciderà i negozi tradizionali?
banale produrre ottimi risultati processo raffinato di
La domanda è lecita, ma per il momento resta un grande “buco nero” ancora inesplorato: cosa succede dentro il negozio quando uno shopper si trova davanti ai prodotti e deve fare la sua scelta? Come si comporta, che cosa lo influenza? Proviamo ad analizzare i metodi e le tecnologie per far luce sul vero momento della verità. Alcune nuove tecnologie ci aiutano, in particolare i Video Analytics, ovvero sistemi ottici che permettono di contare gli shopper in ingresso, seguirli nel loro percorso di acquisto, segmentarli per genere e fasce d’età, in tempo reale e in modo continuativo. Una precisazione importante: i dati rilevati sono del tutto compliant con la legge sulla privacy (Dialogica è stata la prima società, nel 2012, ad essere formalmente autorizzata dalla autorità per la tutela dei dati personali), cosa che per altri sistemi di tracciamento è dubbia - anche in vista della nuova normativa europea che entrerà in vigore nel maggio 2018. I dati sullo shopper sono associati ad altri output provenienti da sensori installati sugli scaffali che misurano le interazioni, ovvero
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quale prodotto viene toccato, quale acquistato o riposto nuovamente sullo scaffale. L’insieme dei dati è trattato attraverso sistemi di intelligenza artificiale/machine learning per clusterizzare gli shopper, individuare i fattori che determinano gli acquisti o prevedere quelli futuri. Si viene così a conoscere in modo preciso chi compra cosa, i fattori che influenzano un certo cluster di shopper e cosa si può fare per migliorarli. Ciò comporta un vantaggio sia per lo shopper, che può meglio scegliere i prodotti grazie ad una esposizione più semplice, ad un’offerta più “pensata” per retailer e industrie che possono tarare l’assortimento, i piani promozionali, gli spazi a scaffale in un’ottica orientata allo shopper. Facciamo un esempio nel mondo dei prodotti per la pulizia della casa. Normalmente ci aspetteremmo una profilazione dello shopper molto spostata sul target femminile e invece scopriamo che davanti allo scaffale arriva un 49% di uomini e un 51% di donne; praticamente i due segmenti sono equivalenti. Il comportamento però non è lo stesso. Osserviamo una prima rilevante differenza nei tempi di permanenza (ovvero quanto mediamente gli shopper sostano di fronte allo scaffale, senza necessariamente prestare attenzione ad esso) e poi in quelli di attenzione. Ecco i risultati di un periodo di rilevazione su un panel di 4 ipermercati: il tempo di attenzione maschile è superiore del 40% (3,1 sec) rispetto a quello femminile (2,2 sec). Per le donne il tempo di permanenza (2,3 sec) coincide sostanzialmente con il tempo di attenzione. Che cosa ci racconta il fenomeno? Da che cosa dipende il maggiore tempo degli uomini? Per guadagnare una migliore comprensione, integriamo al dato un altro indicatore: la Rilevanza (indice sviluppato da Dialogica) cioè il livello di Interesse suscitato da un prodotto o una categoria, la sua capacità di catturare e mantenere l’attenzione del. Ovviamente, più il livello di questo indice è alto, meglio è.
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Si nota che, pur avendo i tempi di attenzione più alti, gli uomini risultano un po’ meno ingaggiati dalla categoria. Abbiamo quindi formulato una spiegazione: le donne, abituate all’acquisto, passano e comprano direttamente, in modo veloce, sapendo che cosa vogliono. Gli uomini, meno assuefatti alla categoria, risultano spaesati (per questo sostano a lungo di fronte allo scaffale) e la scarsa leggibilità di quest’ultimo può solo contribuire ad aumentare la loro confusione. Si è intervenuto sullo scaffale, rendendolo più semplice, più leggibile, eliminando alcune referenze/doppioni, inserendo cartelli sulla funzione d’uso. I risultati: il tempo di permanenza e di attenzione degli uomini, dopo la semplificazione, si allinea a quello delle donne. Le vendite crescono del 6%. Un intervento semplice che produce vantaggi per lo shopper, il retailer, l’industria. Un uso adeguato e rispettoso della tecnologia per migliorare il servizio (e le vendite). L’esempio descrive come un intervento tutto sommato banale produce ottimi risultati. La banalità del risultato è però l’effetto di un processo di conoscenza dello shopper molto raffinato: in pratica, attraverso la tecnologia, si inizia ad esplorare il buco nero nel momento della verità, cioè quando (e come) il cliente acquista un prodotto, producendo vantaggi per tutta la filiera, consumatore, retailer, industria. La domanda iniziale, se e come il commercio digitale nel futuro fagociterà i negozi fisici, è quindi piuttosto capziosa: se ci riferiamo alla crescita dell’e-commerce, anche nei prodotti di largo consumo, la marea sembra montare e promette di erodere quote importanti ai retailer tradizionali. Però, cosa hanno fatto finora i distributori per fronteggiare i nuovi comportamenti di consumo delle nuove generazioni digitali? Ovviamente se il commercio on-line cresce è perché risponde ad un bisogno non soddisfatto (in tutto o in parte) da parte dei commercianti tradizionali.
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Amazon e i suoi adepti conoscono perfettamente i clienti, i loro bisogni, i comportamenti, sono proattivi nel suggerire soluzioni e servizi dedotti da cluster precisi di shopper segmentati secondo caratteristiche e comportamenti di acquisto, usano massicciamente la intelligenza artificiale e il machine learning per studiare e prevedere i trend emergenti. Possiamo dire altrettanto dei retailer “fisici”? Davvero crediamo che il dato di vendita e i dati delle loyalty cards (ripetiamo, raccolti all’uscita, quindi dopo la spesa) siano sufficienti a rappresentare la complessità del processo di acquisto? Nel 1987 negli Stati Uniti visitai un magazzino alimentare in Ohio: nessuna marca, prodotti offerti direttamente dai cartoni; insomma, un hard discount. Ho pensato: “Se arrivasse in Italia… che dramma per marche e distributori!”. Nel 1992 apre il primo Lidl ad Arcole (Verona). Oggi gli Hard Discount detengono una quota del 16% delle vendite del largo consumo sottratta ai retailer tradizionali. Come abbiamo visto l’e-commerce vale lo 0,5% dei consumi grocery: e se nei prossimi anni raggiungesse, diciamo, il 10% delle vendite? Che ne sarebbe dei margini dei retailer e, in parte, dei marchi? Se la conoscenza dei clienti è uno dei principali vantaggi competitivi (altrimenti perché investire nel CRM?) a disposizione di industria e distribuzione, perché non investire nel lungo periodo? Nel 2013 Jeff Bezos scriveva agli azionisti: “We are internally driven to improve our services, adding benefits and features, before we have to. We lower prices and increase value for customers before we have to. We invent before we have to. These investments are motivated by customer focus rather than by reaction to competition. We think this approach earns more trust with customers and drives rapid improvements in customer experience - importantly - even in those areas where we are already - the leader”. Per sopravvivere e, auspicabilmente, prosperare c’è molto da fare e, prima ancora, da pensare.
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SOCIAL NETWORK E BRAND REPUTATION IL PONTE CHE UNISCE L’ESPERIENZA ONLINE A QUELLA IN STORE Monica De Vivo
A soli quattro anni dall’esordio, Cover Store è diventato un brand solido e riconoscibile, amato e utilizzato da migliaia di millennials italiani (e non solo). Andrea Bosetti, co-founder dell’azienda, ci ha raccontato come il sogno di cinque amici sia diventato realtà, con tutti gli impegni e le sfide che un mercato giovane – in tutti i sensi – può presentare.
ANDREA BOSETTI Formazione scientifica, laureato in economia e commercio indirizzo marketing, è oggi il Direttore Marketing & Founder di Cover Store.
CURIOSITÀ Social addicted, con 3 telefoni alla mano e i principali social network tatuati sulla gamba, la comunicazione digitale è una vera passione.
Cinque amici, una grande idea: Cover Store è nata nel 2013 e in pochissimo tempo ha attirato l’attenzione mediatica e l’interesse del mercato. In Italia si contano cento negozi, e presto ne verranno inaugurati altrettanti in Spagna. Come commentate questo successo e cosa è cambiato rispetto a quattro anni fa? Il primo Cover Store è stato aperto nel 2013 a Brescia: un negozio di venti metri quadrati affittati a 400 euro al mese con un arredo fatto in casa con bancali di legno sbiancati e chiodati dove venivano appese le cover dei cellulari. A distanza di 4 anni i negozi sono diventati 100 (dei quali la metà in franchising) ed è iniziata la conquista dell’Europa con i primi punti vendita all’estero. Oggi puntiamo ad avere 350 negozi entro il 2020. Siamo riusciti a conquistare una nicchia di mercato sull’onda dei social e della comunicazione emozionale e da una start-up iniziale abbiamo creato una vera e propria azienda. Cosa vi ha spinto a portare Cover Store all’estero? Come stanno reagendo i consumatori spagnoli a questa novità e come credete impatterà sul vostro modello di business? La similitudine del mercato ci ha portati a guardare verso il contesto spagnolo, secondo noi ideale per poterci espandere all’estero. Siamo solo all’inizio di un percorso tutto da scoprire. In questa fase iniziale stiamo cercando di capire quali saranno le similitudini e quali le differenze per poi puntare su quegli aspetti che anche all’estero possono renderci unici.
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VOCE ALLE AZIENDE
Una delle scelte che ha caratterizzato fin dall’inizio il vostro business, è stata quella di istituire dei negozi sul territorio. Allo stesso tempo però, sul sito è possibile creare cover personalizzate. Come gestite la coesistenza di store online e “offline”? La presenza degli store sul territorio è fondamentale per noi ma la personalizzazione è lo strumento più importante ed efficace in termini di comunicazione 3.0. Cerchiamo di far convivere le due realtà anche attraverso un utilizzo quotidiano e attivo dei social network che comunicano al nostro target sia le iniziative presenti nei negozi che quelle sul sito. I nostri canali oggi contano oltre 3 milioni di utenti e sono veicolo per noi di indagine e non solo di pubblicità e vendita. Parlando di punti vendita, come avete scelto le città da presenziare con il vostro brand? Avete fatto qualche analisi specifica o vi siete affidati a qualche professionista esterno? La scelta dei punti vendita è interna, il nostro team si occupa di ricercare le vie delle principali città con più alta visibilità e con posizioni strategiche che ci permettono di comunicare al massimo l’immagine del nostro brand e di poter arrivare in modo capillare su tutto il territorio con l’obiettivo di riuscire ad avere un “presidio” diretto. Ovviamente la pedonabilità è uno degli aspetti principali che viene tenuto in considerazione ma anche il posizionamento e il target delle vie sono elementi di analisi. Perché investire sui negozi? Avete notato delle dinamiche di vendita differenti da quelle “spersonalizzate” del mondo online, che reputate particolarmente vincenti? Sicuramente la presenza di un negozio fisico aiuta molto il brand, non solo a livelli di fatturato, ma anche di immagine. I ragazzi, formati dalla nostra accademia interna, hanno un ruolo attivo in negozio e attraverso una modalità di vendita push portano il cliente nel mondo Cover Store in tutto e per tutto, veicolando i valori del brand – parte integrante del processo di vendita. Come i nostri collaboratori, anche la parte di layout è molto importante poiché evoca tutta la fre-
schezza e la vivacità del brand e aiuta ad identificarci nella mente del consumatore finale. Dietro la creazione delle vostre cover c’è uno studio approfondito del target e dei trend del momento, come riuscite ad analizzare le varie tendenze di mercato e sfruttarle al meglio per organizzare la produzione e vendite in modo così vincente? La nostra forza è dare voce alle mode del momento. Una delle nostre leve di successo infatti, è data dalla velocità: a differenza del mondo della moda, non ragioniamo per stagionalità, ma seguiamo i trend del momento legati a un particolare evento sociale o culturale e siamo in grado di cavalcarli all’istante proponendo highlights e capsule collection che stimolano in continuazione il consumatore finale. Cosa c’è in programma nel 2018 di Cover Store? Vedremo ulteriori collaborazioni con grandi marchi? Durante il suo percorso di crescita l’azienda ha acquisito licenze importanti come quella per l’utilizzo delle le immagini di Warner Bros, Juventus, Chupa- Chups e molte altre. Queste operazioni ci consentono di accrescere il nostro appeal sul pubblico trasmettendo un ricco insieme di valori positivi e rassicuranti. L’ultima collaborazione che abbiamo lanciato, e sulla quale crediamo molto, è con La Gazzetta dello Sport e in futuro ne abbiamo in programma un’altra molto importante con Disney. Per noi le partnership sono solo il primo passo verso quella che speriamo possa essere una solida attività di alleanza con aziende “vicine” a Cover Store per valori e immagine trasmessa, che ci poterà a creare ulteriori punti di accesso per presentarci a mercati e target nuovi. A fine 2016 il fondo Red-Fish Kapital ha rilevato il 25% del capitale del gruppo, permettendogli di fare un ulteriore salto in avanti nel mondo imprenditoriale. Con questo supporto l’azienda lascia l’idea di startup e prosegue con ancor più sicurezza e determinazione verso il proprio obiettivo in un segmento di mercato che oggi può considerare definitivamente conquistato.
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LE NUOVE FRONTIERE DEL RETAIL DAL PUNTO VENDITA ALL’E-COMMERCE E I SOCIAL NETWORK Francesca Cagliani
Occupandomi di moda da molti anni mi sono trovata spesso a chiedermi quali fossero i dettami del retail e come fossero cambiati nel tempo. Risposta pressoché impossibile da ottenere perché i dati mutano alla velocità della luce ed è davvero complicato trovare risposte assolute a quesiti che presuppongano un’analisi così approfondita. Tempo di farla e le cose sono già cambiate. Ma proviamo ad andare per gradi. Io che appartengo alla generazione dei Millennials ho visto come negli anni la moda fosse fortemente legata al punto vendita. Negozi di ogni tipo e per ogni budget, con esposti nelle vetrine capi pensati e realizzati per vestire davvero chiunque. Sono poi nate pian piano le grandi catene di fast fashion, dove acquistare prodotti alla moda ad un prezzo accessibile. Dopodiché la grande novità, che ormai da diversi anni a questa parte è entrata a gamba tesa nel mer-
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cato della moda, prendendo una fetta di consumatori caratterizzata da numeri stratosferici: l’e-commerce. Chi come me vive in una grande città, sa bene cosa voglia dire avere poco tempo e rare occasioni per potersi godere una passeggiata per guardare le vetrine e, perché no, fare acquisti. Tutto corre alla velocità della luce. Le app sullo smartphone si sono quindi moltiplicate e il servizio a domicilio è diventato il vero lusso. Hai bisogno di fare la spesa? Ci pensa Amazon, che con l’abbonamento Prime Now consegna tutto direttamente a casa, al piano, anche in un’ora. Devi prenotare servizi estetici? C’è solo l’imbarazzo della scelta. E così potremmo continuare all’infinito. Ma torniamo alla moda: se dovessimo contare tutti i siti e-commerce che propongono capi online forse non ci basterebbe un’intera giornata. Ma come cambia quindi la prospettiva di acquisto rispetto a quella tradizio-
nale che si svolge nel punto vendita? Moltissimo. I capi non si toccano, non si vedono dal vivo, non si possono scorrere le dita sulle relle per sentire la differenza fra un materiale e l’altro. Non si vive più quella user experience studiata nel minimo dettaglio da ogni bravo commerciante. Però, c’è un però. Si può fare acquisti seduti comodamente sul divano, scorrendo le dita non più sui capi ma sullo schermo dello smartphone, per trovare ogni tipo di informazione: taglia, colore e disponibilità e in pochi secondi acquistare con un semplice click. L’e-commerce di abbigliamento e accessori continua a crescere in tutto il mondo e questo è un dato innegabile. Anche perché si provi solo a pensare quanto questa forma di commercio alternativo abbia risolto questioni complesse a tutti coloro che abitano in piccoli paesi, dove le catene di fast fashion - e tanti altri brand - sono solo un sogno.
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Nel corso degli ultimi anni le aziende hanno quindi investito cifre da capogiro per studiare e strutturare queste piattaforme, sempre più sofisticate e ricche di servizi aggiuntivi. L’esperienza di acquisto diventa il fulcro centrale, assumendo un ruolo anche più importante del prodotto stesso. Gli e-commerce e le app dedicate si stanno sempre di più “affinando” per portare il cliente ad immergersi in un’esperienza unica, tailor made, fatta di spunti, consigli e servizi aggiuntivi in grado di soddisfare le esigenze anche dei più scettici. Come? Ad esempio con l’introduzione dello storytelling, l’arte del raccontare impiegata come strategia di comunicazione persuasiva. Se l’obiettivo è quello di vendere un abito, la strategia vincente sarà quella di accompagnare il cliente durante l’acquisto attraverso un percorso coinvolgente e unico, fatto di ispirazioni, consigli e sugge-
rimenti. Sei indeciso se comprare o meno quell’abito? Ti suggerisco abbinamenti, lo contestualizzo, ti do indicazioni sul lavaggio e magari ti mostro anche gli influencer che l’hanno indossato. Risultato? L’abito in pochi istanti sarà nel tuo “carrello virtuale”. Più l’esperienza è completa, maggiore sarà il tasso di conversione degli acquisti. Un aspetto di grande rilevanza su cui vale la pena spendere qualche parola è la lead generation, ossia un’azione di marketing che permette di realizzare una lista di potenziali clienti interessati ai prodotti o servizi proposti. Banalmente una mailing list di persone attentamente profilate. In questo modo il messaggio di vendita viene veicolato in modo specifico ad alcuni consumatori, ossia i potenziali clienti, a cui offrire poi servizi dedicati, sconti, inviti esclusivi, ecc. Un altro aspetto fondamentale da analizzare e su cui ragionare, che va di pari passo
alla vendita online, è l’attività social. Ormai gli strumenti di condivisione sono per molti dei veri e propri mezzi di comunicazione, tramite i quali far sapere dove siamo, cosa facciamo, cosa mangiamo e quali sono le nostre abitudini. Negli ultimi anni sono nate da questi mezzi delle nuove figure che, volente o nolente, influenzano in modo massivo le scelte degli utenti. Di chi parliamo? Dei blogger e degli influencer appunto, che attraverso un capillare e meticoloso lavoro di tagging e di storytelling guidano i “follower” a scegliere un prodotto piuttosto che un altro. Ed è per questo motivo che le aziende hanno iniziato ad investire considerevolmente in questo tipo di attività. I social network diventano potentissimi mezzi di comunicazione utilizzati sia da queste nuove figure professionali sia dalle aziende stesse. Le strade sono fondamentalmente due (in realtà
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FRANCESCA CAGLIANI FORMAZIONE Dopo una laurea in Architettura, un master in New Entertainment Design e una gavetta di anni e anni in diversi showroom di moda, decide di dedicarsi alla sua vera passione: il giornalismo. La prima esperienza nella redazione di Ambiente Cucina, del gruppo Il Sole 24 Ore; poi collabora con Condé Nast per 6 anni, occupandosi principalmente di moda e bellezza. Oggi è Co-Founder di LikeMi e Likemimagazine e del blog Healthy Melty, dedicandosi a: branded content, eventi, fotografia, graphic design, social network, redazione di testi e copyright e diverse produzioni legate al mondo della comunicazione.
CURIOSITÀ “Gli armadi non mi bastano mai! Se dovessi contare il numero di scarpe e borse che ho ci vorrebbe una settimana intera. Anche per il make-up ho una vera e propria malattia. Non mi trucco ma possiedo talmente tanti prodotti che potrei rifornire una profumeria. Il mio sogno? Un guardaroba alla Sex&The City.”
sono infinite ma mettiamo un focus sull’attività social): un’azienda può utilizzare blogger e influencer per promuovere il proprio prodotto, oppure costruire una diversa strategia social ben pianificata e studiata per diffondere un messaggio e raggiungere nuovi clienti o fidelizzare quelli già acquisiti. Ma in che modo può un social network influenzare così tanto l’acquisto di un prodotto? Sui social si possono raccontare delle storie, si possono condividere attività e coinvolgere i followers in modo costante. Sono una finestra alquanto invasiva, ma cosciente, sulla vita privata. Vediamo un paio di case history. Il primo esempio è senza dubbio un caso di perfetta unione fra vita privata e business, che risponde al nome di Marcelo Burlon. Classe 1976, è nato in Patagonia da mamma libanese e papà italiano. Nel ‘90 arriva in Italia e nel ‘98 a Milano, dove in pochissimo tempo finisce nel “giro
giusto” grazie ad un abile lavoro di pubbliche relazioni nelle discoteche frequentate da nomi altisonanti della moda italiana (e non). Diventa organizzatore di eventi, Dj e soprattutto PR. Nel 2012 nasce il suo brand, County of Milan, e qui succede la magia: non veste blogger, non fa alcuna pubblicità ma in breve tempo l’azienda passa da zero ad un fatturato da capogiro (si vociferano oltre venti milioni di euro). Com’è possibile? Grazie alla sua innata capacità di essere, allo stesso tempo, un bravo imprenditore e un massimo esperto di comunicazione, e non solamente un creativo con idee innovative. Marcelo è un personaggio famoso e influente, tutti sono affascinati dai suoi prodotti perché diventano simbolo di appartenenza ad una chiara rete sociale. Le t-shirt e i capi delle varie collezioni, frutto di ispirazioni raccolte durante i viaggi - con sempre un rimando alle sue origini - sono tanto belle quanto costose. Oltre trecento euro per la maglietta di un “new talent” (se così lo possiamo definire). Eppure tutti le comprano e tutti le vogliono e in poco tempo i punti vendita diventano oltre 400 in tutto il mondo. Oggi Marcelo, diventato anche personaggio tv grazie a Pechino Express, è in continua evoluzione creativa, al-
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ternandosi fra la sua linea di moda, la vita mondana e il successo ormai assicurato.
unconventional che, però, ha mostrato in breve tempo frutti inaspettati.
Secondo caso, altrettanto rilevante: Candice Galek, che con un e-commerce creato con shopify ha guadagnato milioni di followers (e clienti) in pochissimo tempo. Come si dice: minima spesa massima resa. Si chiama bikiniluxe. com il suo store online che vende, appunto, costumi da bagno. Qual è il suo segreto? Il sito, oltre che ad essere una vetrina, è un contenitore ricchissimo di contenuti davvero ben fatti. Ovviamente non si parla solo di bikini, bensì di moda, beauty, fitness e molto altro. Senza dubbio lo storytelling qui è un’arma vincente. Ma il segreto del suo successo, nella fase di avvio, è davvero singolare.
Ultima, ma prima secondo Forbes, è l’influencer tutta italiana più famosa del mondo: Chiara Ferragni. Un perfetto esempio di come la comunicazione e i Social Network possano trasformare una sconosciuta ragazza di provincia in un’azienda da milioni di euro. Con il suo The Blond Salad Chiara di strada ne ha fatta moltissima (a dire il vero non solo lei, ma tutta TBS).
È iniziato tutto su una piattaforma studiata per tutt’altro tipo di attività: LinkedIn. Un social network dedicato ai professionisti, “usato” per promuovere un’attività commerciale di bikini?
Ma attenzione! Il negozio arriva dopo anni di e-commerce sul sito ufficiale, tra l’altro arricchito da collaborazioni con i più grandi stilisti che hanno realizzato delle capsule collection esclusive proprio per TBS. Che dire, di casi ce ne sarebbero a decine (forse a centinaia); in un mondo in continua evoluzione assisteremo a cambiamenti tanto veloci quanto affascinanti, che se da una parte distruggono le sicurezze acquisite nel tempo, dall’altro spalancano nuove frontiere di retail e comunicazione.
Oggi è il sogno proibito di ogni azienda, una pubblicità vivente che attraverso i suoi scatti, i post e le Instagram stories fa breccia nel cuore di tutti i suoi followers. È di poche settimane fa la notizia dell’apertura del suo primo monomarca a Milano ma Chiara ha già annunciato che nei prossimi mesi sono previste decine e decine di aperture in tutto il mondo.
Candice ha fiutato le “opportunità collaterali” di LinkedIn, intercettando con un capillare lavoro di ricerca, partner, fornitori, media e influencer. Un viaggio complicato quello di Candice, che durante il percorso ha dovuto affrontare varie problematiche (tra cui anche la chiusura del suo account). Una strategia decisamente Sopra: migliaia di fan per Chiara Ferragni - milano.corriere.it Sotto: sito web di Marcelo Burlon - marceloburlon.eu
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TU CHIAMALE SE VUOI EMOZIONI EFFETTI WOW NEL M.I.C.E. Mario Saccenti
Quante volte vi siete emozionati voi, sì proprio voi, professionisti del mondo M.I.C.E., nel vedere gli occhi dei partecipanti pieni di piacere, stupore e meraviglia nell’ammirare estasiasti, perfino increduli, un avvenimento pensato e organizzato da voi durante un viaggio o un evento? Bello e appagante vedere l’espressione di quel viso come quello di un bambino davanti a un arcobaleno, a una coppa di gelato, a un pacco sotto l’albero di Natale. Quando si creano queste emozioni così forti si raggiunge veramente l’apice del nostro lavoro. “Tu chiamale se vuoi … emozioni”. Impossibile non aver ascoltato, almeno una volta nella vita, questa canzone di Lucio Battisti e riflettuto sulle sue parole. “E di notte passare con lo sguardo
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la collina per scoprire dove il sole va a dormire” e ancora… ”e ricoprir di terra una piantina verde sperando possa nascere un giorno una rosa rossa”. Battisti, come molti altri musicisti, scrittori, poeti, è stato un maestro nel far riaffiorare pensieri, memorie e una serie di emozioni legate ad essi. Più una canzone riesce ad emozionare il suo pubblico per il perfetto mix tra parole e musica e più avrà successo. È così per una poesia che riflette uno stato d’animo, o un romanzo, una storia, un giallo, una fiaba. Allo stesso modo, più si riescono a trovare nel mondo situazioni e location che possano colpire la fantasia e il cuore dei partecipanti di un evento più si lavorerà con soddisfazione e orgoglio, ripagati dalla fiducia del cliente nel tempo.
Non è sempre necessario stupire con effetti speciali, talvolta basta una piccola cosa, che sia allineata e sintonizzata al profilo e alla storia degli ospiti. Nel mondo M.I.C.E. siamo sempre alla ricerca di location, venues, hotel, strumenti, destinazioni che possano aiutare a creare questo effetto wow, quindi ve ne presentiamo alcuni di grande valore.
Hotel ME London Al centro del West End di Londra, circondato da teatri, boutique e locali notturni, arte, musica e design si fondono subito nella lobby, dove si viene avvolti da musica soave e mille luci soffuse distribuite sapientemente sulle pareti altissime con ondulazioni periodiche, fino a far sembrare che, dietro al banco d’accoglienza
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personalizzata, ci sia una cascata. Siamo al ME London, progettato dagli architetti più famosi al mondo: Foster and Partners. 157 camere, ristorante braceria newyorchese STK, lounge cocktail di classe e poi si tocca il cielo con un dito al Radio Rooftop Bar dove le vedute panoramiche dei palazzi e dei quartieri più emblematici di Londra vengono serviti insieme a cocktail e tapas originali. Insomma, ME diventa TE, anche con Aura: il servizio di concierge per assistere gli ospiti su ogni piccolo dettaglio del soggiorno, dentro e fuori l’hotel.
NH Collection Eurobuilding Madrid Immaginate di entrare in un salone con ai lati 2 schermi di 17 metri, sul soffitto uno schermo a volta LED da 300mq (il più grande schermo multimediale a volta d’Europa e il più grande display semitrasparente installato in un hotel del mondo), 16mila metri di profili d’alluminio, 4800 metri di circuito lineare RGB, 2 milioni e 250mila LED, 140mila Watt. È la lobby dell’Hotel NH Eurobuilding di Madrid chiamata “Dome”. Lo schermo a volta
si può animare con colori, loghi, video a piacere per conferenze, riunioni, sfilate o cene d’effetto. Si può usufruire della tecnologia della proiezione olografica full-size 3D che permette di raffigurare in più aree della struttura le immagini dei partecipanti a una conferenza/meeting in modo simultaneo, in tempo reale, creando un effetto wow difficile da dimenticare. Grazie all’intesa siglata da NH Hotel Group e Philips Lighting, l’NH Collection Eurobuilding sarà sempre di più un hotel proiettato nel futuro con le sue nuo-
Hotel ME London - uniqhotels.com
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ve “Mood Room”: consentono ai clienti di cambiare l’ambientazione in camera, con un solo pannello di controllo - “Philips RoomFlex” - per scegliere i colori, l’intensità della luce e la musica di sottofondo, oltre al riscaldamento, l’aria condizionata, le tende e i programmi software di prenotazione della camera. NH Eurobuilding Madrid è tra le scelte migliori a livello europeo per l’organizzazione di eventi:
412 camere, spazi per 7800 mq, suddivisi tra 27 sale, tutte con luce naturale, la più grande per 1000 persone.
Grattacielo Intesa SanPaolo In Corso d’Inghilterra 3 a Torino c’è un grattacielo che in due anni è diventato un punto di riferimento della città e un punto di forza per appuntamenti culturali, concerti, meeting di lavoro, con-
NH Collection Eurobuilding Madrid - infinityinner.com
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gressi, eventi conviviali, mostre e occasioni d’incontro professionale e sociale. Purezza di linee e modernità, sostenibilità ambientale, edilizia verticale si fondono in questo edificio diventato il nuovo simbolo della città. Progettato da Renzo Piano Building Workshop, ha ricevuto nel 2015 il prestigioso riconoscimento ‘Leed Platinum’ e il premio “Building of the Year” nel 2016. Il grattacielo, centro direzionale di Intesa SanPaolo, unisce alle aree per il lavoro strutture e spazi per attività aperte al pubblico. Dispone di un auditorium polifunzionale e flessibile che, grazie a un solaio mobile e a un’acustica perfetta, può ospitare concerti e spettacoli o trasformarsi in sala espositiva. Gli ultimi piani dell’edificio accolgono la serra bioclimatica disposta su tre livelli dove si trovano il ristorante con giardino, lo spazio eventi e il lounge bar. Le caratteristiche architettoniche e la vista spettacolare a 360° sulla città consentono un’esperienza culturale e gastronomica d’eccellenza. Recentemente il grattacielo Intesa SanPaolo di Torino è stato insignito dal BEA del primo premio assoluto dei Best Location Awards e primo premio nella tipologia ‘Spazio Polifunzionale’.
Skyway Monte Bianco Skyway Monte Bianco è una meraviglia tecnologica e ingegneristica, un vero orgoglio tutto italiano. Offre un’esperienza di viaggio indimenticabile in grado di coinvolgere tutti i sensi, elevandoli verso l’alto. Situate a Courmayeur, le
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Grattacielo Intesa SanPaolo, Torino - wac.6f93.edgecastcdn.net
nuove funivie sono infatti il modo più sensazionale di raggiungere il punto più alto del Monte Bianco. L’impianto, inaugurato a giugno 2015, consta di tre stazioni: Courmayeur (1300 m), il punto di partenza dove si trovano le biglietterie, i parcheggi e il bar; Pavillon du Mont Fréty (2200 m), la stazione intermedia che offre diverse attrazioni come una cantina ad alta quota, due ristoranti, una sala meeting da 150 posti e una speciale area di vendita di prodotti locali; Punta Helbronner (3466 m) dove ammirare il Monte Bianco in tutta la sua imponenza dalla me-
Skyway Monte Bianco - wac.6f93.edgecastcdn.net
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ravigliosa terrazza panoramica a 360°, trovare ristoro presso il bistrot e scoprire l’esposizione permanente di cristalli. Da poco è stato inaugurato “Skywow”: non una semplice veduta panoramica sul Monte Bianco, ma uno spazio unico che regala la straordinaria sensazione di librarsi nel vuoto osservando dall’alto il maestoso paesaggio delle nevi perenni e delle rocce a picco sul Monte. Da vertigini!
The Meeting Place, Celebrity Cruises Perfino le navi da crociera stanno pensando di sfruttare i loro immensi spazi per creare delle Venues per convegni, congressi ed eventi. Sarà inaugurato entro fine anno The Meeting Place, il progetto di Celebrity Cruises per ridefinire il concetto di “lavorare in remoto”. The Meeting Place è una business location all’avanguardia a bordo della magnifica Celebrity Edge. Progettato dallo studio Wilson Butler Architects, misura oltre 180 metri quadrati e si trova al centro della nave, con una vista maestosa. L’esclusiva location è caratterizzata da una tecnologia innovativa: pannelli divisori insonorizzati, funzionalità audiovisive avanzate con gli imponenti schermi LED da 98 e 75 pollici, varie opzioni di allestimento per i posti a sedere, uffici privati per gli event planner, bar mobili e una dispensa completamente attrezzata. Altri ambienti di Celebrity Edge sono disponibili per eventi
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e incontri privati o di business inclusi il grande giardino su tre piani Eden, il rivoluzionario Magic Carpet a sbalzo sull’oceano, il tranquillo Rooftop Garden e il tecnologico Destination Gateway.
Namibia Prende il nome da “Namib” che significa “vasta pianura asciutta” e in effetti il Sossusvlei è la più famosa striscia di sabbia della Namibia, nonché una delle principali attrazioni turistiche da segnalare e visitare quando si va in questo Paese. Non solo. Tra le cose da vedere assolutamente c’è l’alba dalle dune del deserto del Namib, una di quelle esperienze che non si può dimenticare per tutta la vita... La duna più alta di Sossusvlei si chiama Big Daddy, alta 390 metri. È possibile raggiungere la cima in circa un’ora, meglio la mattina presto; non è un’attività facilissima, quindi non troverete molta gente sul vostro cammino. Sulla sommità delle dune c’è sempre una piacevole brezza: fermatevi qui per qualche minuto in contemplazione dell’orizzonte sabbioso e poi guardate il sole che si alza pian piano, è un’altra delle meraviglie che vi porterete negli occhi e sognerete per molto tempo! Quando vi sentirete pronti, buttatevi giù di corsa dalla duna e magari urlate! Atterrerete nel pianeta surreale di Dalì: una base calcarea dove sorgono enormi acacie rinsecchite... un paesaggio unico.
In conclusione, se volete organizzare un evento o una qualsiasi iniziativa in cui coinvolgere il vostro target, ricordatevi di programmare un effetto wow. Qualcosa che i partecipanti non si aspettano, che attiri l’attenzione, che sorprenda e che faccia riflettere, con un riferimento al vostro prodotto/servizio e alla vostra azienda. L’effetto wow può essere anche qualcosa di semplice, un’accoglienza diversa dal solito o uno spazio allestito
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Big Daddy, la duna più alta a Sossuvlei in Namibia - alltheseplaces.net
in modo originale. Ricordate che l’effetto wow dev’essere breve: un istante e assolutamente da non ripetere. È come un arcobaleno: facciamo wow proprio perché raro! In ultimo: non esagerate! L’effetto wow tocca la sfera emozionale delle persone. Dà una scossa di adrenalina, di sorpresa, una sensazione più intensa rispetto al solito, ma non si deve abusare. Il troppo non fa mai bene.
Progetto di Celebrity Cruise: Celebrity Edge e The Meeting Place - multivu.com
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M’AMA, NON M’AMA?
IL DUBBIO AMLETICO DELL’ACQUISTO PONDERATO Davide Verdesca Da anni ormai ci sentiamo dire e diciamo: I negozi sono in crisi Il futuro sono i grandi centri commerciali Il negozio che avevo sotto casa era fantastico e peccato che abbia chiuso Io compro solo on-line perché costa la metà Sarà tutto vero? Oppure come al solito ci siamo abituati al “tutta colpa del governo ladro” e al “si stava meglio quando si stava peggio”? Possibile che anche in un momento come l’acquisto di un oggetto o di un servizio, riusciamo a far uscire il solito populismo e non riusciamo invece a goderci la sola esperienza o la gioia della scelta appena fatta o in procinto di essere fatta? Ma forse anche questo cattivo atteggiamento è figlio del “troppo”. Oggi possiamo comprare un piccolo oggetto e dopo qualche giorno dimenticarcelo nel cassetto. Possiamo mettere nel carrello delle prelibatezze che ci hanno conquistato per il bel packaging, per la furbizia del loro posizionamento sullo scaffale o per la pubblicità vista la sera prima in tv e poi invece le facciamo ammuffire in frigorifero. Possiamo addirittura comprare una macchina e dopo qualche mese convincerci che possiamo cambiarla, perché tanto è in leasing. Quando ero ragazzino ricordo bene il nonno che amava la sua auto, l’aveva fatta riverniciare affinché fosse uguale a quando l’aveva comprata una decina di anni prima. Ricordo la nonna e la sua lavagnetta in cucina con la lista delle cose che avrebbe comprato il sabato per la settimana a venire. Ricordo papà, che per cambiare l’auto o decidere il viaggio con la famiglia, si documentava per settimane se non mesi. Anche mamma per i vestiti di noi figli, per le nostre esigenze, per i nostri sport o per i nostri svaghi, voleva un dialogo e un confronto quasi in plenaria genitori-figli. Fortuna vuole che eravamo una classica e normalissima famiglia, non ricca ma serena e senza particolari problemi.
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Tutto era più ragionato. Si sceglieva sapendo e affrontando quel momento con consapevolezza e preparazione, conoscendo il prodotto o informandosi per tempo sul servizio scelto. Eravamo più oculati, meno superficiali. Non è quindi il solo modello di retail che fa la fortuna di un’azienda di oggi. È la capacità di intraprendere un dialogo con il suo target di riferimento, di avere con lui un’empatia che va oltre il momento della transazione economica. Significa avere un’eccezionale servizio di pre e post vendita, ma soprattutto significa avere dei Clienti e non solo dei consumatori. L’azienda deve mantenere ad ogni costo un legame con il cliente, con la sua famiglia, con i suoi figli. In passato la scelta d’acquisto del papà si rifletteva in quella del figlio e se il primo comprava Lancia anche il secondo avrebbe probabilmente fatto lo stesso. Oggi si diventa consumatori nell’esatto momento successivo all’acquisto, poi si torna ad essere dei dati nella mischia, in attesa di consumare il successivo.
forse abbiamo bisogno di tornare in showroom dove poter conoscere un prodotto, consigliati dal venditore che un tempo dedicava ore e ore al suo cliente Il vero dilemma è che più ci ragiono, più mi convinco che non esistono modelli retail perfetti e funzionali per noi consumatori di oggi. La verità è che siamo noi che dovremmo tornare ad essere Clienti, con la C maiuscola. Forse abbiamo bisogno di tornare a fare le nostre scelte all’interno di ambienti esperienziali, in showroom dove poter conoscere e provare un prodotto consigliato dal buon venditore che un tempo dedicava ore e ore al suo cliente. Le nuove tecnologie ci permettono di sapere quanto è stato già sperimentato e vissuto, quindi perché non usarle? L’azienda potrebbe seguire il proprio prodotto per l’intera durata della sua vita e crescere insieme al suo cliente. L’acquisto è solo l’attimo finale di un percorso più complesso, e perché no, può avvenire on-line; quello che ha davvero importanza è ciò che avviene prima e subito dopo questa scelta. Sono diverse le aziende che stanno riflettendo su modalità ibride. Anche FIAT, l’azienda italiana forse più nota, sta agendo in questa direzione e recentemente ha aperto il proprio Store su Amazon, dove ha cominciato a vendere le sue 500.
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CONTROCORRENTE
BMW invece vende le sue auto ibride solo on-line e il concessionario, per questo modello, è solo a disposizione per visionarle ed eventualmente ritirarle. Dobbiamo ricominciare a scegliere, o meglio, a scegliere pensando e valutando. L’acquisto deve avvenire nella piena consapevolezza che la scelta è fatta per escludere e non per aggiungere ulteriori elementi, doppioni inutili di qualcosa che già si possiede. Tutte le economie si basano sui consumi, ma è la qualità di questi che differenzia un paese dall’altro. Riflettendo sul nostro caso tutto italiano; com’è possibile che ogni anno un individuo spenda oltre mille euro per un cellulare che di fatto è identico al modello precedente? Come può un’azienda automobilistica produrre e sperare di vendere una terza auto per un nucleo famigliare che ne possiede già due? Credo che oggi dovremmo concentrarci non tanto su quanto è più verde l’erba del vicino, ma sulle numerose opportunità che il nostro Paese ha da offrirci e che spesso, in molte parti del mondo, non sono nemmeno pensabili. Allo stesso modo però, anche in Italia ci troviamo sempre più immersi in un’offerta di prodotti e servizi eccessiva che ci confonde; sta qui l’impegno di scegliere la qualità e di dare un valore reale a ciò che acquistiamo, beni o servizi che siano.
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ANNO 3 NUMERO 14 NOVEMBRE 2017
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