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La leggenda Pogorelich continua
La straordinaria carriera di uno dei pianisti più apprezzati del nostro tempo, solista ospite della Stagione della Filarmonica e del Salotto Toscanini
«La tecnica è suono, è l’origine del suono»: questa frase, che mi disse Ivo Pogorelich qualche anno fa, dice molto sul grande pianista di Belgrado.
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Le interpretazioni di Pogorelich sono spesso state definite dalla critica eccentriche, eccessive per lentezza o rapidità, arbitrarie dal punto di vista del rapporto col testo, eppure il pubblico ha continuato a rimanere preda del magnetismo di questa leggenda vivente.
Il motivo è proprio il suono, il grande elefante nell’armadio nell’universo pianistico: quanti pianisti riescono ad avere oggi una propria inimitabile “identità sonora”, che vada al di là del suonare rapidamente e correttamente?
Se Pogorelich è già una leggenda, ciò è dovuto a un suono di straordinaria ricchezza e complessità, di cui, certamente, si accorse Martha Argerich quando lasciò per protesta la giuria del Concorso “Chopin” di Varsavia nel 1980, affermando che un genio era stato ingiustamente eliminato. Agogiche o fraseggi diversi da quelli a cui siamo abituati sono in Pogorelich il risultato di una ricerca sui modi di produrre il suono nata dai suoi studi con Aliza Kezeradze, discendente dall’albero genealogico Siloti-Liszt-Czerny-Beethoven: è per questo che il pianoforte di Pogorelich richiama spesso una dimensione orchestrale, una rara multidimensionalità sonora.
Questa unicità del colore pianistico è evidente se ripercorriamo alcuni cardini della sua discografia: le Sonate di Scarlatti, gli Studi Sinfonici di Schumann, il Secondo Concerto di Chopin inciso con Claudio Abbado, Gaspard de la nuit di Ravel, la Sesta Sonata di Prokof’ev o i Quadri di un’esposizione di Musorgskij. In quei dischi c’è anche l’edonismo degli anni Ottanta e l’ossessione per la perfezione, tipica dell’era d’oro del cd.
Dopo una fase di crisi, oggi Pogorelich – senza disconoscere una ricerca che è frutto di un’etica del lavoro priva di indulgenze – sembra cercare una nuova autenticità, lontana dai divismi. Quando il pubblico entra in sala, è già sul palco a scaldarsi, come a desacralizzare il rito del concerto. In questa nostra caotica era, Ivo il Divo è divenuto un compagno di strada, il cui pianoforte reclama un’inestinguibile voglia di arte e di vita.