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CRISI IDRICA E CLIMATICA NELLE DOLOMITI

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LE DOLOMITI IN TV

LE DOLOMITI IN TV

Corriere delle Alpi | 1 agosto 2022

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Fedaia sempre più secco “Prelievi per irrigare”

Francesco Dal Mas BELLUNO Riecco l'isola in mezzo al lago di Fedaia. Di solito è coperta dall'acqua. Ma quando la diga si svuota - ad oggi di circa 16 metri ricompare quell'atollo. Sul versante del Trentino, piuttosto che del Veneto. Il prosciugamento dipende dal pericolo che si stacchi una parete di ghiaccio dalla Marmolada? La paura si era palesata qualche giorno fa, quando le massime persistevano oltre i 10 gradi e lo zero termico rimaneva sopra i 4 mila metri, cioè circa un migliaio più dell'altitudine della montagna. Adesso fa freddo, soprattutto di notte. E l'Enel conferma: «A partire da inizio giugno, l'acqua del lago di Fedaia viene impiegata per alimentare il sistema idrico del Veneto a fini irrigui, alla luce dello straordinario periodo siccitoso».Un mese fa, come mercoledì prossimo, la tragedia della Marmolada, con 11 morti. Dopo una prima ordinanza di chiusura del ghiacciaio, il sindaco di Canazei, Giovanni Bernard, ha rinnovato questa disposizione, ampliandola. A seguito dell'individuazione di un crepaccio poco sotto le cresce, lungo 200 metri, con uno spessore tra i 25 e i 35 centimetri, il sindaco ha fatto chiudere due rifugi, il Ghiacciaio e il Cima 11 (oltre capanna Punta Penia, disattivata in precedenza) ed ha sbarrato la strada a valle della diga. Il timore era che da quel cratere potesse staccarsi una calotta di circa 3 milioni di metri cubi e che finisse nel lago. Anche per questo motivo - così afferma, ad esempio, Aurelio Soraruf, gestore dell'Albergo Castiglioni - si è accelerato il deflusso dal lago. «Tutti a temere un "effetto Vajont", ma io che vivo e lavoro quassù, non ho nessun timore di questo tipo perché - spiega ancora Soraruf - può contenere la massa ipotizzata. Ma di più: non siamo più nelle condizioni di collasso da temperature come una decina di giorni fa». Ed in effetti anche il sindaco di Canazei ha assicurato: «Nessun rischio per la sicurezza di cittadini ed ospiti». Il "guardiano delle dighe", Attilio Bressan, che abita a Malga Ciapela, conferma che da sempre l'Enel utilizza l'acqua del Fedaia, in gran parte sul territorio di Trento, per dissetare la pianura veneta. Solo un rigagnolo finisce sull'Avisio, ovvero il deflusso minimo vitale. La diga conteneva 17 milioni di metri cubi d'acqua, con l'inghiaiamento scende sotto i 16 milioni.È avventuroso il percorso delle acque della Marmolada che arrivano al Trevigiano e vanno oltre. Partono dal Fedaia e percorrono una galleria di 4 chilometri, poi scendono in picchiata per 700 metri, quindi intubate, nella centrale di Malga Ciapela. Qui non vengono dirottate lungo il rio Pettorina ma obbligate in una condotta che si abbassa fino a raggiungere la centrale di Saviner di Laste. Lasciate libere, raggiungono il lago di Alleghe. Altra centrale e altra condotta fino all'impianto idroelettrico di Cencenighe. Raccolto l'apporto del torrente Biois, il deflusso si fionda sulla centrale di Agordo. Le acque, di nuovo in condotta, proseguono la discesa sino all'impianto di Stanga. Di nuovo in condotta, attraversano in sotterranea il Cordevole, e finiscono nel lago del Mise, alimentando quest'altra centrale. Da qui alla struttura di produzione idroelettriche di Busche il passo è breve. Altra condotta fino a Quero, per dare acqua ad un nuovo impianto di energia. Intanto il Piave vive sul deflusso minimo vitale. Arriviamo all'altezza del Montello e a questo punto iniziano le captazioni dei Consorzi di bonifica. Parlando del lago o della diga di Fedaia, resta da precisare che si tratta in realtà di due bacini, uno artificiale e uno naturale. Nel 1956 furono separati da una diga gestita dall'Enel che - come ricorda Bressan - solitamente viene svuotata tra l'autunno e la primavera, mentre in estate viene riempita dall'acqua dello scioglimento delle nevi di copertura del ghiacciaio. Quest'estate, però, è stata pesante l'ablazione dello stesso ghiacciaio, come ammette uno dei più accreditati studiosi di questa montagna, Mauro Valt dell'Arpa di Arabba. --© RIPRODUZIONE RISERVATA

Corriere delle Alpi | 3 agosto 2022

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La Regione: «Più acqua per il Piave» Al via i prelievi dai laghi del Bellunese

Francesco Dal Mas BELLUNO Ha rischiato davvero un brutto quarto d'ora la comunità di Auronzo. Il rischio era di dover fare i conti con un lago svuotato proprio a ferragosto. Lo aveva annunciato, ieri pomeriggio, l'unità di crisi della Regione Veneto, per dare acqua al Piave. Dopo un'ora è stata ritirata quella che era stata anticipata come una richiesta ad Enel Green Power. Salvo, dunque, il lago di Santa Caterina, mai interessato dai grandi svuotamenti estivi. In compenso saranno maggiormente svuotati il bacino di Centro Cadore, il lago di Santa

Croce e quello del Mis, già vicino ai minimi storici. Via ai prelievi«Dopo aver messo in sicurezza il problema drammatico della risalita del cuneo salino lungo il Po e il Livenza, abbiamo deciso di mettere in atto delle azioni per aumentare la portata del fiume Piave e tutelarne il sistema idrico complessivo», fa sapere il presidente del Veneto, Luca Zaia. «Siamo in un momento importante anche per il mondo agricolo, in cui le coltivazioni maturano e siamo vicini alla raccolta autunnale. Nel caso del Piave si tratta di tutelare da un lato i vigneti e dall'altro tutte le coltivazioni di cereali».Zaia, come si sa, è Commissario delegato per gli interventi urgenti per gestione della crisi idrica. L'Unità di crisi, riunitasi ieri, si è concentrata sull'affrontare la diminuzione della portata del Piave che ha ripercussioni su un ampio sistema idrico a livello regionale. Il soggetto attuatore per il coordinamento Nicola Dell'Acqua aveva chiesto ad Enel Green Power di predisporre un decreto per favorire un maggiore rilascio dal lago di Santa Cristina di Auronzo per tutelare il sistema idrico legato al fiume sacro. Dopo qualche decina di minuti è arrivata una errata corrige, con la cancellazione di questa ipotesi. Non è dato sapere se il colpo di spugna è stato dato dopo una protesta di Auronzo. Appare più probabile che dall'Enel stessa sia arrivata l'indicazione che non si sarebbe potuto procedere, salvo la sollevazione popolare.Abbiamo interpellato l'assessore regionale alla protezione civile, ma Gianpaolo Bottacin ha precisato di non saperne nulla, in quanto non è stato chiamato a far parte dell'Unità di crisi (idrica). La Regione ha fatto, dunque, un passo indietro. Ha comunque sollecitato Enel Green Power ad aumentare le portate delle acque degli altri bacini.Sono già state avviate le relative operazioni a Sospirolo che hanno portato ad un aumento alla centrale di Quero. A Sospirolo arrivano, in condotta, le acque della Marmolada, raccolte nel lago-diga di Fedaia. Lunedì sera sul ghiacciaio ha tempestato e di pioggia ne è arrivata parecchia. I numeri di ArpavIn luglio - come da dati Arpav - è proseguito il calo "fisiologico" del volume nei principali serbatoi del Piave, con un rallentamento solo negli ultimi giorni: a domenica scorsa il volume totale invasato era di 102,2 milioni di metri cubi (36,6 in meno rispetto alla fine di giugno), pari al 61% del volume massimo contenibile dei bacini di Pieve di Cadore, Santa Croce e Mis. Con un calo piuttosto discontinuo per il Centro Cadore, sceso dal 99% di riempimento di fine giugno all'83% di fine luglio. Un calo pressochè costante per Santa Croce, sceso dal 79% di riempimento a fine giugno al 58% del 31 luglio, ora poco sotto la media storica (-24% ovvero meno 16 milioni di metri cubi). Un andamento analogo per il Mis, in calo molto accentuato già da metà giugno, passato dal 72% al 40% del volume massimo invasabile e ora sotto la media del periodo (-44% ovvero -11.2 Mm3). Più che soddisfatti, ovviamente, i Consorzi di bonifica della Marca Trevigiana. In forte sofferenza sono non solo i seminativi, ma anche i vigneti di Prosecco. Lo stress della siccità, infatti, sta provocando una resa (alla prossima vendemmia) inferiore del 10, se non addirittura del 15%, in vigneti già colpiti dalla flavescenza idrica. Le precipitazioni di questi giorni sono state insignificanti, in pianura. Considerato il deficit pluviometrico già accumulato dall'inizio dell'anno idrologico, quindi ad ottobre (-376 mm), in questo mese sarebbero necessari circa 477 mm ossia quasi cinque volte la precipitazione media di agosto (pari a 101 mm, serie 1994-2021). Anche guardando l'anno solare 2022 le piogge fin qui cadute (301 mm, valore medio) appaiono decisamente scarse, risultando solo la metà del valore atteso (585 mm): -49%. Mancano, insomma, ben 284 mm. --© RIPRODUZIONE RISERVATA

Corriere delle Alpi | 6 agosto 2022

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Senza pioggia e con i serbatoi ridotti In Veneto è l'estate della grande sete

Riccardo Sandre VENEZIA Lo stato delle acque in Veneto va sempre peggio: secondo i dati del mese di luglio pubblicati da Arpav, l'Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto, in media in regione sono caduti 54 mm di pioggia, quasi la metà rispetto a una media 1994-2021 di 90 mm. Nel periodo poi gli apporti legati alle piogge sono inferiori del 41% rispetto alle medie. In pratica si tratta di circa 400 milioni di metri cubi di acqua in meno caduti sul suolo Veneto in un solo mese. Una situazione per nulla confortante e che trova paragoni solo in due casi negli ultimi 28 anni: nel 2013, quando gli apporti mensili sono stati di 52 mm e nel 2015 con 48 mm. Secondo i dati dell'Arpav per recuperare il gap con la media del periodo ad agosto sarebbero necessari circa 477 mm di pioggia, ossia quasi cinque volte la precipitazione media che caratterizza il periodo. Anche guardando l'anno solare 2022 le piogge fin qui cadute (301 mm, valore medio sul Veneto) appaiono decisamente scarse, risultando solo la metà del valore atteso. Un dato tanto più allarmante se si guarda assieme ad un altro, e significativo: quello cioè relativo alle riserve di acqua contenute nei ghiacciai di montagna. In questo caso i dati sulle temperature in quota sono stati i peggiori, dopo il 2015, dal 1988. Si tratta di condizioni di scarse precipitazioni nei mesi fredde seguite da valori sopra lo zero anche in alta montagna che si annoverano nella categoria degli eventi rari, anche se sembrano verificarsi con frequenza sempre maggiore negli ultimi anni. Condizioni per le quali la neve in quota è pressoché scomparsa anche nelle zone glaciali. Nel contempo i livelli dei principali serbatoi di acqua della regione non sono mai stati così bassi da molti anni: nel Garda il calo dell'acqua è stato costante per tutto il mese di luglio, salvo arrestarsi negli ultimi 4 giorni, portando il livello medio del mese tra i peggiori in assoluto dal 1950. Ma si riduce anche il volume della risorsa idrica nei principali serbatoi del Piave, con un totale invasato ridotto al 61% di quanto potrebbero contenere. Se il lago di Pieve di Cadore alla fine di luglio si attesta su un valore molto vicino alla media storica del periodo e Santa Croce è sotto "solo" del 24%, il lago del Mis vede un 44% in meno della portata

d'acqua mentre il serbatoio del Corlo (sul Brenta) è a meno 37%. L'assenza di precipitazioni significative incide pesantemente anche su di un altro grande bacino di acque disponibili, quelle di falda. «Quasi tutte le stazioni monitorate» si legge in una nota di Arpav «mostrano andamenti e livelli in genere inferiori a luglio 2017 anno in cui, per la maggior parte delle stazioni, si sono raggiunti i livelli minimi degli ultimi 20 anni». A livello territoriale la situazione forse peggiore è quella dell'alta pianura vicentina e padovana. Il pozzo di Dueville è andato in asciutta il 26 luglio con circa un mese di anticipo rispetto a quanto avvenuto nel 2003 e il pozzo di Schiavon ha ancora poco margine prima che la falda arrivi a fondo pozzo, cosa avvenuta solo nel 2003 e a fine estate. Anche Cittadella è prossimo all'asciutta, che in questa stazione non è mai avvenuta né nel 2003 (quando i valori a luglio erano di circa un metro superiori) né nel 2017, quando dopo il minimo di fine aprile (poco superiore ai livelli attuali) c'era stata una robusta ricarica. Nell'alta pianura trevigiana tutte le stazioni sono inferiori ai minimi stagionali mai registrati (in genere 2017). La stazione di Castelfranco è in lieve ripresa ma comunque rimane prossima al valore minimo assoluto di fine giugno e ben inferiore ai livelli di luglio 2017, mentre Castagnole ha esaurito la ricarica a metà mese. Le cose vanno un po' meglio nel Veronese, che presenta comunque livelli che sono inferiori a quelli di luglio 2017 e poco superiori ai minimi assoluti per il periodo. Nell'area di media e bassa pianura, pur nella variabilità della risposta delle singole stazioni, l'emergenza è un po' meno grave che nell'area centrale del Veneto: qui a luglio si registrano in genere ulteriori cali. E non ci sono piogge "serie" in vista. --© RIPRODUZIONE RISERVATA

Corriere delle Alpi | 11 agosto 2022

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«La crisi idrica era ampiamente prevista ma ci ha colti tragicamente impreparati»

L'INTERVISTA FRANCESCO JORI «È il Covid dell'acqua». Per inquadrare la devastante crisi idrica di quest'estate, ricorre a un'immagine forte Francesco Vallerani, padovano, docente di Geografia all'università veneziana di Ca' Foscari, dov'è anche titolare della cattedra Unesco sullo sviluppo sostenibile. E spiega: «Come per il Covid, è la prima volta che ci capita un evento del genere. E come per il Covid, ci stiamo dimostrando tragicamente impreparati ad affrontarla». Ma c'erano segnali, o è una calamità che ci è piombata tra capo e collo all'improvviso? «C'erano, e come, già da altri Paesi prima ancora che da noi, proprio come con il Covid. Basti pensare alla progressiva estinzione dei ghiacciai in tutto il pianeta, legata ai cambiamenti climatici. Era qualcosa di assolutamente prevedibile». Veniamo in casa nostra. In un Veneto da sempre terra ricca d'acqua, come si spiega questa siccità estrema?«Anche qui parliamo di un fenomeno che viene da lontano. Molti fiumi della nostra regione da tempo non possono più contare sul deflusso minimo vitale; si registrano grandi morìe di pesci per mancanza di ossigeno nell'acqua; c'è un eccesso di nutrienti impiegati in agricoltura, che alimenta una proliferazione della flora di alghe e piante a ridosso delle sponde. Ma la siccità rivela altre piaghe...».Di che tipo? «Faccio un esempio eloquente. La secca del Tronco Maestro a Padova ha portato alla luce una serie di scarichi abusivi. Paradossalmente, grazie alla siccità si può fare un censimento di chi non è collegato agli impianti di smaltimento ...».Ma dobbiamo prendercela solo con le estati anomale, o abbiamo anche peccati in opere e omissioni? «Ne abbiamo, e come. Esiste fin dal 2000 una direttiva europea sull'acqua, che stabiliva dei valori ecologici definiti, e dava tempo fino al 2015 per adeguarvisi. Una misura che assegnava tra l'altro un valore anche economico alla risorsa acqua, e che si basava sul principio che chi inquina paga. Purtroppo anche qui, come in altre materie, l'Italia risulta in ritardo, figurando oltretutto tra i pochi Paesi europei negligenti, assieme alla Bulgaria».All'interno di questo quadro, anche il Veneto ha le sue colpe? «Certamente. Pensiamo al capitolo critico dell'inquinamento delle falde acquifere, sulle quali è sostanzialmente mancata una politica di controllo sul piano industriale e su quello ambientale, anzi incoraggiando senza tanti scrupoli l'iniziativa privata. Con il risultato di dare vita ad esternalità negative non contabilizzate attraverso l'economia, che si riversano sulla società intera».Ma oggi, in questa estate che sta battendo ogni record negativo, la situazione è davvero critica? «Diciamo che alla luce del passato recente c'era da aspettarsi un'emergenza, ma non a questi livelli. Stiamo rotolando ad una velocità incredibile verso una pesantissima perdita di acque dolci. Mai si era assistito in Veneto a un razionamento; in particolare è allarmante la situazione dell'agricoltura, dove ormai c'è acqua disponibile soltanto per pochi giorni». Alla luce dei dati disponibili, può trattarsi di un fenomeno transitorio limitato a quest'anno, o ci sono da aspettarsi repliche? «Le variazioni in atto, e soprattutto l'accelerazione che stanno conoscendo in questa estate, ci devono far capire che ormai non si può più parlare di un'anomalia. È un fenomeno generale: da una decina d'anni non possiamo più contare sull'anticiclone delle Azzorre, che riusciva a garantire temperature più miti e schiudeva la porta all'ingresso delle perturbazioni atlantiche. Purtroppo, un'estate come quella che stiamo vivendo si ripeterà in futuro».Ma in attesa di misure planetarie, che comunque tardano, c'è qualcosa che possiamo fare almeno per mitigare il fenomeno, e per risparmiare acqua in vista delle crisi? «Sicuramente. Penso ad esempio a vari sistemi di ingegneria idraulica per riuscire a trattenere le acque dei fiumi durante le piene; o alla realizzazione di traverse fluviali, come pure agli interventi per dragare gli alvei a partire già dai piccoli fossi. Poi ci sono dei rimedi di fondo: come smettere di cementificare il territorio, vizio nel quale il Veneto è ai primi posti in Italia». Ci sono delle inadempienze pubbliche al riguardo?«C'è, tra le altre, una forte carenza del Genio Civile, che pure è l'odierno depositario di una straordinaria cultura millenaria del Veneto della Serenissima. Purtroppo non c'è dialogo ...». La siccità è figlia conclamata di cambiamenti climatici ormai incontestabili,

eppure il contrasto rimane debole. Siamo condannati? «Gli accordi globali su questo tema sono chiaramente della massima importanza. Ma nel frattempo, è importante adottare decisioni a livello di microcosmo, con interventi mirati sia sul verde che sul blu, per tutelare gli ecosistemi che la Natura ci ha dato gratis. Su questo terreno, esistono possibilità fornite da una branca specifica dell'ingegneria, quella sulla riabilitazione degli ecosistemi». Ma anche su questo terreno non pare si registri un gran che...«In effetti c'è una politica ambientale inadeguata ad affrontare l'emergenza. Ricordo qui in Veneto, dopo la disastrosa alluvione del 2010, chi parlava di tolleranza zero... Passato l'allarme, non si è fatto nulla; eppure ci sarebbero interventi possibili, come quello legato all'idrovia Padova-Venezia, che pure rappresenterebbe un importante bacino cui attingere in caso di crisi idrica, oltre che svolgere un'attività specifica come scolmatore di piene». Dopo quello che sta succedendo, non sarebbe tempo di darsi una regolata? «In effetti, mai come ora c'è bisogno di una politica territoriale coscienziosa e previdente, in grado di fronteggiare la gravità ambientale e gli esiti deprimenti di un cambio climatico che sta accelerando i tempi di declino generale. Ondate di calore senza fine stanno evidenziando l'insipiente gestione del verde pubblico, dimostrando la scarsa consapevolezza del concetto di "isola di calore urbana"; il persistente inquinamento di ampi settori delle falde sotterranee regionali, le colture di mais in grandi estensioni dei suoli permeabili dell'alta pianura, quindi con forti prelievi di acqua per l'irrigazione, la mancata manutenzione degli alvei della rete idrografica nella bassa pianura, a partire dagli articolati sistemi di fossi, sono solo alcuni tra i più evidenti problemi da affrontare». --

Gazzettino | 6 agosto 2022

p. 3, edizione Belluno

«Basta con i prelievi la pianura si attrezzi»

PIEVE DI CADORE Il lago Centro Cadore è calato di quasi 4 metri, l'impressione che si ha è che, vista la condizione di grave carenza idrica, non sia poi così male. Ma ci sono occhi più attenti e nasi più fini; una delle ultime serate c'è stato chi ha fatto un giro in barca con amici arrivati appositamente per godere allo spettacolo, «purtroppo vicino alla riva l'odore era molto sgradevole». Certo non è come nel 2003 ma non è nemmeno come dovrebbe visto il periodo: al massimo dell'invaso.

«SACRIFICI PER TUTTI»

Per il momento non ci dovrebbero essere ulteriori rilasci, a beneficio della pianura assetata, ma non si può mai dire. Lo ha fatto capire il presidente del Veneto Luca Zaia dalla nuova base dell'elisoccorso, proprio con vista sul lago: «Mi scuso perché il lago sta un po' calando ma siamo in una situazione tragica, un po' di sacrificio lo chiediamo anche a questi territori perchè non abbiamo altra soluzione, l'acqua è vita - e rivolgendosi al vescovo - speriamo piova, conto sulla benedizione». «Con le necessità di irrigazione in pianura ci rimettiamo sempre noi bellunesi, ogni anno, non ogni tanto» sbotta il più attento conoscitore del lago cadorino.

ECONOMIA CHIAMATA TURISMO

Stefano Campi, già assessore in comune a Pieve e in Unione Montana, con deleghe specifiche in materia, invita i consorzi di bonifica «a rivedere l'uso che fanno dell'acqua che ci prendono, usandola con accortezza, fatevi gli accumuli di acqua nelle cave dismesse per usarli nei momenti di crisi, basta far solo la politica del prosecco o del mais sulle grave del Piave, anche in montagna abbiamo un'economia e si chiama turismo». Campi spera che, dopo le proteste di Auronzo, anche altri amministratori si mettano di traverso.

L'ACCORDO DEL 1943

«Ricordo che nel decreto del 1943 che diede il benestare alla creazione del lago Centro Cadore c'è scritto a chiare lettere la valenza turistica di questo bacino e che in estate si devono limitare gli svasi se non per improrogabili esigenze industriali». L'albergatore Luca Tonazzi, dell'hotel Ferrovia di Calalzo, non usa mezze parole, «se ci tolgono l'acqua, ci tolgono l'ossigeno» assicura. Ricorda le tante criticità affrontate negli anni durissimi della fine dell'occhialeria in Cadore, l'impegno per rinnovare l'azienda e renderla attrattiva per i vacanzieri e propone un dato: «Noi lavoriamo due mesi l'anno, quelli estivi; se ci tolgono l'acqua che è un grande richiamo per chi ci sceglie per le vacanze, è un disastro. Dico che è giusto dare una mano, ma che i sacrifici li devono fare tutti perchè paghiamo tutti le tasse e quindi perchè il nostro potrebbe essere lago sacrificabile mentre altri non lo sono?»

LA LAMINAZIONE

Un territorio per molti aspetti svantaggiato che non può subire altri attacchi, e il lago rappresenta la più grande risorsa. All'orizzonte c'è la laminazione, quella procedura, per farlo scendere così da poter usare l'invaso in caso di grandi precipitazioni, contestata ma fino ad oggi senza grandi risultati. Il livello deve calare di 16 metri entro metà settembre, a non più di 50 centimetri al giorno; per arrivare a tanto si inizia a rilasciare acqua dal 15 di agosto nel pieno della stagione. Di battaglie ne sono state fatte in grande quantità; era nato il Comitato in difesa del lago Centro Cadore, si erano spedite migliaia di cartoline di denuncia del problema all'autorità competente, non si contano i convegni e le azioni di protesta ma nulla di concreto si è ottenuto.

DENUNCIA IN PROCURA

Campi nelle scorse settimana si è rivolto con una documentata denuncia alla Procura della Repubblica, «è la nostra ultima speranza perchè noi volontari ci impegniamo molto ma non possiamo fare tutto e siamo stufi di pulire». L'ultimo problema, quello che ha fatto partire l'azione legale, è relativo al legname che, da Vaia in poi, è presente nell'acqua e che rappresenta un pericolo.

Corriere delle Alpi | 10 agosto 2022

p. 3, segue dalla prima

«Alte temperature e gravità. Così il permafrost non tiene e i cedimenti si moltiplicano»

Francesco Dal Mas Tutta colpa dello "scongelamento" delle "crode" che stanno più in quota e che, pertanto, sono più esposte al sole, al riscaldamento? «Sì, il permafrost che non tiene o, quanto meno si alleggerisce, può essere una causa, ma solo in parte. In verità è la forza di gravità che lavora. E che non dorme mai. In primavera, col disgelo, è più attiva, ma si vivacizza anche quando piove». Luca Salti è un geologo. Opera nel Bellunese e da 35 anni sale e scende sui versanti, lungo i corpi di frana, scala le pareti rocciose che rilasciano sassi. Che cosa è successo sul Pelmo? Colpa del permafrost che, a causa delle persistenti temperature troppo alte, non fa più da collante?«Conosco bene quella parete del Pelmo. Ho compiuto una ricognizione a seguito della tragedia del 2011 quando una scarica di sassi fece precipitare due soccorritori. La parete ha importanti fessure. Le più pericolose sono quelle verticali. Quando la gravità forza, ecco che possono cedere i punti di appiglio, che in gergo tecnico si chiamano "punti di roccia". La gravità, si sa, è anche una questione di pesi».Quanto pesa un metro cubo di roccia? «Pesa 2 tonnellate e 700 chili».Perché i crolli sono così frequenti?«Ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Noi li percepiamo solo perché i media, i social li pubblicizzano in tempo reale». Quanti sono l'anno?«Ogni anno sulle montagne venete si sviluppano fra i 150 ed i 200 eventi franosi. La metà sono grossi come quelli del Pelmo, della Val Fiscalina, nei giorni scorsi, della Moiazza, un mese fa. Nulla di straordinario. Vi ricordate la frana del 9 ottobre dell'anno scorso nel gruppo del Sorapis? La nube di polvere generata ha raggiunto le aree abitate, a pochi chilometri da Cortina d'Ampezzo. È l'evoluzione morfologica e geologica delle nostre terre più alte. I punti di dissesto in Veneto sono 9500, 6 mila nella sola provincia di Belluno, gli altri nel Vicentino e sulle Prealpi trevigiane».Quali sono i distacchi più pericolosi?«Quelli improvvisi, provocati dal maltempo. I sassi che cadono da una parete rocciosa ad una velocità di 30, 40 metri al secondo. E poi le colate di detriti, come quelli di Fiames, a Cortina, o del Frison, a Santo Stefano di Cadore, o ancora a Sauris, per fermarsi agli ultimi episodi. Non hai il tempo di metterti in salvo, quindi è quanto meno incauto soffermarsi in questi siti quando immagini che arrivi una bomba d'acqua».Tra le frane meno recenti si ricordano la frana di Borca di Cadore che nel 2009 che causò due morti e quella di San Vito di Cadore, nel 2015, in cui si verificarono tre vittime. Si può dire che oggi è tutto più instabile a causa dei cambiamenti climatici?«È evidente. Ma stiamo attenti ad incolpare la mutazione del tempo per tutte le 400 frane nuove che si verificano nel territorio veneto ogni anno. Determinate situazioni sono provocate dall'incuria dell'uomo, che non ha provveduto alle opere di messa in sicurezza». Quali sono i territori più fragili?«Gli insediamenti costruiti sulle conoidi. Cancia a Borca di Cadore è uno di questi. Ce ne sono tanti altri, come il sito recente di Vigo di Cadore dove alcune baite sono state quasi sommerse dalle colate». Non si dovrebbe più costruire in queste zone?«Ci sono esperti, come il professor D'Alpaos, che lo dicono dai tempi addirittura della ricostruzione di Longarone, avvenuta in parte sul Piave». La montagna va chiusa nei territori di maggiore pericolo?«Come si fa. La montagna è libertà. Ci vuole, invece, più responsabilità nell'accesso». --© RIPRODUZIONE RISERVATA

Corriere delle Alpi | 10 agosto 2022

p. 3, segue dalla prima

«Altri crolli recenti lì è meglio non salire»

BELLUNO Di ritorno dal suo monte Rite, sabato pomeriggio, Reinhold Messner è salito per il passo Staulanza. «Mi sono fermato un istante ad ammirare il "mio" Pelmo e proprio sulla parete ovest - racconta - ho visto due chiazze bianche, due crolli che sono recenti. Quello di oggi (ieri, ndr) mi conferma nell'idea che mi sono fatto fino da giovane. E cioè che su quel pilastro è meglio non salire. Io avevo studiato una via nuova, ma non l'ho mai realizzata, perché temevo appunto i distacchi che all'epoca erano frequenti».Non ci sono dubbi, per Messner: la colpa è dei cambiamenti climatici. Che, a suo dire, sono più una conseguenza dell'azione dell'uomo che un evento naturale.«Girando per le strade delle Dolomiti, e compiendo ancora qualche camminata in quota, ho modo di osservare centina di crolli in tempi recenti».Crolli che magari si susseguono lungo la stessa parete, come è accaduto ieri sul Pelmo. «Le temperature eccessivamente calde e prolungate, fin dalla primavera, hanno ricadute pesanti sul permafrost, quel collante di ghiaccio che tiene unite le rocce - spiega Gianni Marigo, a capo dell'Arpa di Arabba -. Noi abbiamo un osservatorio sul Piz Boè, sopra Arabba, e ci risulta che questo collante si stia sciogliendo all'interno fino a una quota inferiore di 80 centimetri rispetto agli ultimi 10 anni di certificazioni. Gli esperti spiegano, in questo modo, anche la maggiore frequenza dei distacchi dei crolli». --fdm© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’Adige | 28 agosto 2022

p. 17

Il report della commissione glaciologica della Sat Anche gli ultimi rilevamenti confermano una situazione drammatica

leonardo pontalti Tredici centimetri di ghiaccio persi in quattro giorni. E due metri in meno di un anno.Sono numeri devastanti, quelli che fotografano il ghiacciaio del Mandron, nel gruppo dell'Adamello.I dati sono quelli raccolti nei giorni scorsi dalla commissione glaciologica della Sat assieme alla Protezione civile del Trentino e al Servizio glaciologico lombardo.«Siamo saliti sabato scorso, il 20 agosto - ha spiegato il presidente della commissione glaciologica della Sat Cristian Ferrari - ed abbiamo potuto toccare con mano gli effetti di questa estate terribile per i ghiacciai. Le precipitazioni sono state molto scarse e, soprattutto, le temperature sono state per giorni e giorni elevatissime rispetto alle medie stagionali a quelle quote».Una situazione che si è presentata, per di più, dopo un inverno asciutto e avaro di precipitazioni nevose in quota. «Insomma - ha spiegato ancora Ferrari - non solo in pochi mesi la superficie dei ghiacciai si è consumata a ritmi impressionanti. Ma il calore, le temperature, l'estate ha "bruciato" un patrimonio di risorse che non era stato rinnovato e accresciuto dal precedente inverno».La somma di questi due fattori è stata impressionante, come ormai è noto a tutti. Tanto da lasciare sgomenti anche gli esperti stessi: «In tanti anni di attività in ghiacciaio non avevamo mai visto una cosa del genere.«Che i ghiacciai ovunque siano in sofferenza è ormai purtroppo un dato di fatto, ma abbiamo assistito - tra le rilevazioni del settembre scorso e quelle di questi ultimi giorni - a un consumo che abitualmente vedevamo in anni, non certo in pochi mesi. Parlando unicamente dell'Adamello, il ritmo con cui il ghiaccio si è sciolto quest'anno finora è doppio rispetto al solito. E l'estate non è finita: da qui all'autunno si arriverà, temiamo, a valori tripli».La commissione glaciologica della Sat monitora abitualmente dieci ghiacciai in Trentino, dal Mandron alla Marmolada, dal Careser al ghiacciaio d'Agola. Proprio quest'ultimo è stato oggetto dell'ultimo sopralluogo, mercoledì scorso: «Non è tra i ghiacciai principali dell'arco alpino ma è comunque il ghiacciaio più esteso del gruppo delle Dolomiti di Brenta. Purtroppo anche in questo caso l'estate 2022 lo ha intaccato in modo abbastanza incisivo», ha spiegato la commissione glaciologica sulla propria pagina Facebook: «La situazione di sofferenza di questo ghiacciaio è particolarmente preoccupante dato che, inserito com'è in un particolare circo glaciale tra le cime d'Ambiez e la cima d'Agola. la sua particolare esposizione a nord ovest in tanti anni ne ha permesso una sopravvivenza maggiore rispetto ad altri ghiacciai nelle Dolomiti di Brenta».Insomma, se anche i ghiacci e le nevi che per anni e anni hanno sempre coperto quella zona delle rocce del Brenta iniziano a soffrire, l'avvenire non promette nulla di buono.«Speriamo che la situazione che ha caratterizzato questa estate non si ripeta negli anni a venire. In caso contrario i" colpi" che verrebbero inferti ai ghiacciai sarebbero letali».

Gazzettino | 30 agosto 2022

p. 5, edizione Belluno

Installate quattro nuove stazioni nivometeorologiche

BELLUNO Quattro nuove stazioni nivometeorologiche saranno installate sulla montagna bellunese con l'obiettivo di garantire maggiore sicurezza per quelli che si trovano a frequentare vette e sentieri.

LA PREVENZIONE

Strumentazione che, dopo quanto accaduto sulle nostre montagne, ed in particolare sulla Marmolada, e i cambiamenti climatici in atto, diventano sempre più strategiche per tenere sotto stretta osservazione il territorio. «Si tratta di un investimento che abbiamo voluto fare sui temi della previsione e della prevenzione per la sicurezza delle persone e dei territori» afferma l'assessore regionale all'ambiente Gianpaolo Bottacin.

LA NUOVA STRUMENTAZIONE

«Con l'obiettivo di continuare a potenziare la sicurezza del territorio, proseguono gli importanti investimenti che mettiamo in campo in particolare in termini di previsione e prevenzione dei rischi. Tramite il nostro braccio operativo di ARPAV stiamo infatti in questi giorni provvedendo a installare cinque nuove stazioni nivometeorologiche per il monitoraggio delle condizioni del tempo e di innevamento in alta quota». Ad annunciarlo, l'assessore all'Ambiente della Regione Veneto, che spiega come «le stazioni integreranno l'attuale rete di monitoraggio, che consiste già di diciotto stazioni automatiche, e copriranno alcune zone strategiche della montagna veneta in rapporto al rischio valanghivo».

I LUOGHI

Le nuove stazioni, per le quali sono stati investiti 130mila euro, che sono fra l'altro dotate di sensori di rilevamento di altezza e temperatura superficiale del manto nevoso, consentiranno un maggiore flusso di informazioni utili alla definizione dei bollettini di

pericolo valanghe e dei livelli di rischio valanghivo. «Negli scorsi giorni abbiamo installato quattro stazioni prosegue l'assessore -: una in Comune di Auronzo di Cadore, nella zona delle tre Cime di Lavaredo, una in Comune di Cibiana di Cadore sul Monte Rite, una in Comune di Taibon Agordino sull'altopiano delle Pale di San Martino e una in Comune di Chies d'Alpago in alta Val Salatis». La quinta stazione sarà installata la prossima settimana nel territorio del Comune di Asiago presso Cima Dodici. I dati delle stazioni, dopo le opportune verifiche di funzionamento, saranno messi online a partire dalla prossima stagione invernale.

LA SICUREZZA

«Ancora una volta guardiamo alla sicurezza dei cittadini conclude l'assessore - con iniziative di alto profilo nell'ambito di una programmazione puntuale che tiene conto di tutte le problematiche territoriali».

Corriere del Veneto | 30 agosto 2022

p. 10, edizione Treviso-Belluno

Marmolada, ghiacciaio a morte certa Gli esperti: «Lo scioglimento accelera»

Legambiente: peggiora, così altri 15 anni di vita. Bondesan: quello il trend, ma potrebbe arrivare al 2050

Antonio Andreotti rocca pietore Il ghiacciaio della Marmolada, il più grande delle Dolomiti e tra i maggiori di tutte le Alpi, sta scomparendo sotto i colpi del riscaldamento globale e il suo arretramento è in forte accelerazione. Resta da capire quanta vita ha ancora il ghiacciaio e qui le opinioni degli esperti, pur senza polemiche, divergono. Chi dice 15 anni, quindi fino al 2037, chi si spinge al massimo al 2050. Su un punto c’è comunque piena convergenza tra gli osservatori. L’accelerazione del ritiro della Marmolada appare inarrestabile e porta con sé, ad esempio, l’aumento della frequenza di fenomeni come quello, con esiti tragici, del 3 luglio scorso quando il distacco di un enorme blocco di ghiaccio (seracco) costò la vita a undici tra alpinisti ed escursionisti. Quella domenica mattina di inizio luglio sul ghiacciaio, a Punta Rocca (versante trentino) a circa 3.200 metri d’altitudine, a causa dell’improvviso crollo di un enorme massa di ghiaccio — 200 metri per 60 di altezza — persero la vita 11 persone. La velocità del seracco staccatosi dalla montagna venne calcolata in 300 chilometri orari dai tecnici del Soccorso Alpino. Per Legambiente, che in questi giorni sta facendo tappa sulla Marmolada con la sua «Carovana dei ghiacciai», l’orizzonte è a 15 anni. «Le condizioni della Marmolada sono peggiori del previsto» commenta la responsabile della «Carovana» di Legambiente, Vanda Bonardo, e quindi «le previsioni sulla sua scomparsa devono purtroppo essere ricalibrate in negativo. Se va avanti così, tra 15 anni il ghiacciaio non esisterà più». Conclude la Bonardo: «Per noi è un segnale emblematico di come la montagna e gli ecosistemi nel loro complesso stanno cambiando e della necessità di spostare il punto di vista nell’osservarli ma anche nel rapportarci con la montagna stessa». Più «ottimista», pur concordando sul trend assolutamente negativo sul futuro della Marmolada, è Aldino Bondesan, glaciologo dell’Università di Padova e responsabile del Comitato glaciologico italiano (Cgi) per il coordinamento della campagna glaciologica annuale nelle Alpi Orientali. Secondo Bondesan «la Marmolada potrebbe arrivare al massimo al 2050, ma non oltre. Basti un dato: dal 2010 a oggi nella Marmolada la quantità di ghiaccio fuso supera del doppio quella degli ultimi 120 anni. La causa è il riscaldamento globale, che ha portato all’aumento della temperatura minima invernale di 1,5 gradi negli ultimi 35 anni». Secondo il Cgi, nel corso dell’ultimo secolo il ghiacciaio della Marmolada si è ridotto di più del 70 per cento in superficie e di oltre il 90 per cento in volume. Oggi è grande circa un decimo rispetto a cento anni fa. Tornando a Legambiente, quella sulla Marmolada è la quarta tappa della carovana dei ghiacciai giunta alla terza edizione. La prima è stata sui ghiacciai del Monte Bianco del Miage e Pré de Bar (Valle D’Aosta). La seconda tappa sui ghiacciai del Monte Rosa di Indren (Piemonte). La terza ha riguardato il ghiacciaio dei Forni (Lombardia). Dopo la Marmolada, ultima tappa al ghiacciaio del Montasio (Friuli-Venezia Giulia) dal 1° al 3 settembre.

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