Wsa 2015- 2016 "Armi e bagagli. Guerre, conflitti e diritto alla pace."

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Una questione di risorse

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Costruttori di pace

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Parto dal fondo, questa volta

vita trentina

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Settimanale diocesano di informazione del Trentino

Un dito puntato, arrogante, viene intercettato da un indice delicato, gentile, che lo respinge; non c’è forza, né violenza nell’atto dell’opposizione: è un gesto però irriverente, convinto, sfidante. La scena si svolge su uno scenario che porta in sé la profondità cromatica del suolo, della terra che ci accomuna. La guerra non è mai una risposta, neppure quando animata dalla volontà di portare pace. Tra le opzioni si vis pace, para bellum e si vis pacem, para pacem, solo quest’ultima ha senso per l’umanità. In essa tutti e tutte possiamo diventare, come diceva Alexander Langer, “facitori di pace”, anzi, di paci: il plurale ricorda che non c’è soluzione che possa andare bene universalmente, per ogni luogo; il percorso di pace è sempre difficile e mai conosciuto in anticipo. DOSSIER A CURA DELLA

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Parto dalla guerra, tutta la guerra, ovunque sia, come effetto e non solo causa di disgrazie. Credo si debba imparare a cambiare prospettiva, a guardare gli eventi del Pianeta dalla cima della montagna e non dal fondo valle. Delle 33 guerre in corso in questo momento, pochissime hanno un profilo – come dire – classico. Tutte si combattono fuori dagli schemi. Gli eserciti sono quasi sempre irregolari. Le armi che si usano sono sì sofisticate, ma usate in modo primitivo. A scontrarsi sono quasi sempre bande che vogliono conquistare potere e ricchezza, quasi mai Stati che si fronteggiano per il controllo di un territorio. Insomma, lo schema del gioco è cambiato, i giocatori sono cambiati. Le vittime no, quelle sono sempre le stesse, ma è un’altra storia. Se questo è vero, parlare di guerra limitandosi a quello che militarmente accade o ai disegni della geopolitica non basta più, così come non basta analizzarne le

INSERTO al n. 16 17 aprile 2016

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di Raffaele Crocco*

DOSSIER a cura della

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Guerra e pace

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Se verrà la guerra...

REALIZZATO GRAZIE AL CONTRIBUTO DI

L’immagine adottata come sintesi del programma della World Social Agenda 2015-2017

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Testi e cura redazionale: Miriam Rossi, Sara Bin, Jacopo Tomasi


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GUERRE E DIRITTO ALLA PACE

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vita trentina

COSA SIGNIFICA PER LA WORLD SOCIAL AGENDA

Fare armi e bagagli are armi e bagagli” è un’espressione che fa parte del linguaggio colloquiale. Quando per diversi motivi, lavoro, amicizia, vacanza, lasciamo un luogo o una situazione portiamo con noi gli oggetti più cari, quelli più utili, quelli che ci piacciono di più ed anche i sentimenti; perché i nostri bagagli sono fatti con la testa, ma anche con il cuore. L’espressione ci ricorda che qualcosa è terminato e che qualcosa di nuovo, inedito ci attende. Quando l’abbiamo adottata come sintesi del programma della World Social Agenda (2015-2017) ci pareva riassumesse in modo emblematico, anche se ambiguo, il momento storico che stiamo vivendo alla scala globale. L’espressione, dopo quasi un anno di lavoro, ci convince sempre più. Le armi, strumenti di guerra che aborriamo, e i bagagli, strumenti del viaggio a noi cari, sono simboli forti che raccontano le vicende della

“F

pacifismo L’immagine delle due dita è il simbolo del percorso

NON TUTTI SANNO CHE

nostra umanità. Il primo anno del programma, quello in corso, è concentrato sulle guerre e sul diritto alla pace, mentre il secondo, che inizierà con l’anno scolastico 2016-17, sarà focalizzato sulle migrazioni. Al centro c’è la convinzione che la guerra sia solo una delle soluzioni possibili, che diventi inevitabile solo quando scoppia, che ci siano altre strade da perseguire per prevenirla, per contrastarla, per contenerla, che quest’ultima sia una storia di pace in cui l’umanità si allena per riconoscere e trasformare un conflitto. È solo in questa accezione che riconosciamo un valore positivo al conflitto: essa prevede la necessità di far convivere pacificamente le differenze, non di annientarle. Sara Bin

il termine “pacifismo” fu usato per la prima volta nel 1901 da Émile Arnaud, avvocato francese e presidente della “Ligue internationale et permanente de la paix” (Lega internazionale e permanente della pace). Il neologismo, che intendeva opporre a “bellicista” il termine “pacifista”, appariva linguisticamente più convincente del termine “pacigerante”, antitesi di “belligerante”, già utilizzato in quegli anni in alcune conferenze sul tema.

Pace, democrazia e tutela dei diritti umani sono aspetti strettamente legati l’uno all’altro

Partecipa al convegno

LA LEGITTIMITÀ DEI CONFLITTI E L’AFFERMARSI DEL DIRITTO ALLA PACE

Se verrà la guerra... di Miriam Rossi legittimo fare guerra? Sì e no: sì per legittima difesa e no come strumento di politica internazionale. Una risposta lapidaria quanto densa che poco coglie la complessità di un dibattito attivo da tanti decenni, che spesso fa dei distinguo giuridici e della comunicazione di massa abili stratagemmi per superare i limiti imposti all’uso della guerra. Una cosa è certa, il concetto di pace nasce come contrapposizione a quello di guerra: se c’è l’una non c’è l’altra. Per questa ragione è solamente attraverso la progressiva erosione del diritto degli Stati alla guerra che nasce e si rafforza il diritto degli individui alla pace. Un processo ancora in fieri e soggetto a cadute e ripensamenti delle strategie di attuazione, ma nondimeno di possibile realizzazione. La guerra come male necessario, inevitabile e giustificabile, tende ancora oggi a restare nell’immaginario e nel linguaggio politico. Tanto più lo era alla metà del XIX secolo, laddove il ricorso alla guerra era un “naturale”, in quanto abituale, strumento dello Stato per dirimere controversie, per acquisire potere e ricchezze. Furono le preoccupazioni innescate dalle guerre moderne, combattute con armi sempre più tecnologiche e offensive, e

È

di Raffaele Crocco

attraversò il mondo tra il 1914 e il 1918 che si formulò un accordo con cui per la prima volta nella storia dell’umanità gli Stati rinunciavano a far valere i loro interessi e cedevano il privilegio che era stato loro riconosciuto dall’antichità. La guerra, considerata fino a quel momento la prerogativa per eccellenza del principio di sovranità degli Stati, veniva ad essere spogliata proprio di questa sua caratteristica, della sua liceità. Il Patto Briand-Kellog del luglio 1928 impegnava le parti contraenti a “condannare il ricorso alla guerra per la risoluzione delle divergenze internazionali e a rinunziare a farvi ricorso come strumento di politica nazionale nelle relazioni reciproche”; per la risoluzione di divergenze

occorreva ricorrere ai soli mezzi pacifici. Nonostante la numerosa adesione di Stati, il Patto non trovò mai applicazione come i tragici eventi della seconda guerra mondiale avrebbero platealmente dimostrato. Fu sempre la paura a indurre le Nazioni Unite, vincitrici della coalizione nazista, a costituirsi in un’Organizzazione multilaterale che si propose di perseguire la pace e mise ufficialmente al bando la guerra “quale strumento di risoluzione delle controversie”. L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) nacque ufficialmente nell’ottobre 1945, sulle ceneri della devastazione della guerra, degli orrori della Shoah e dello scoppio delle prime bombe atomiche che rasero al suolo Hiroshima e

Nagasaki. Proprio quest’ultimo atto impresse il timore diffuso di un rischio per la sopravvivenza del genere umano nel caso di una nuova conflagrazione mondiale. Fu dunque “per salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità” che la pace varcò la stanza dei bottoni della politica globale. La liceità della guerra sarebbe da allora stata o meno riconosciuta, e dunque autorizzata, dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il solo organo incaricato di esaminare le azioni che minano la pace e la sicurezza internazionali. La tutela dei diritti umani e, più recentemente, la formulazione del diritto alla pace, costituiscono concreti impegni dei governi e non possono essere più relegati a buoni propositi programmatici. Pace, democrazia e tutela dei diritti umani emersero come aspetti strettamente legati l’uno all’altro. Come ricorda Norberto Bobbio, “senza diritti dell’uomo riconosciuti o protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti. Con altre parole, la democrazia è la società dei cittadini, e i sudditi diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti alcuni diritti fondamentali; ci sarà pace stabile, una pace che non ha la guerra come alternativa, solo quando vi saranno cittadini non più di questo o quello Stato, ma del mondo”. l

Parto dal fondo, questa volta

conseguenze, i danni. Meglio lavorare sulle cause e ragionare su quelle. La guerra nasce tendenzialmente laddove l’equilibrio nella distribuzione delle risorse e delle ricchezze viene meno. Ad esempio: sul Pianeta siamo 7 miliardi e 200 milioni, più o meno. Tanti, siamo in tanti, eppure appena 126 milioni di individui - cioè solo l’uno e settantacinque per cento - si mette in tasca il 56 per cento del reddito mondiale. Un po’ squilibrato. Uno squilibrio che si ripete poi in ogni singolo Paese, se è vero che in Italia 5mila famiglie controllano l’80 per cento del patrimonio totale. Il divario fra poveri e ricchi del Pianeta cresce e crea fratture sempre più insanabili. Anche perché il povero moderno – a differenza di un tempo – sa benissimo di essere povero e conosce a grandi linee la situazione dei luoghi più ricchi. Così, tenta la fuga, la inevitabile fuga. O se volete, cerca di conquistare spazio vitale, quello che la povertà gli nega. Il risultato è che dobbiamo allenarci ad immaginare milioni di esseri umani in movimento. Le agenzie dell’ONU dicono che i profughi saranno 250 milioni – cioè metà della popolazione dell’Unione Europea – entro il 2050. Dobbiamo immaginarli mentre lasciano città bombardate o campagne rese sterili, aride oppure cedute alle multinazionali. Se li state immaginando, avete una visione netta del futuro. La loro fuga – lo dicono sempre le statistiche – sarà determinata solo in parte dalle guerre. Mancanza di cibo, di diritti, di libertà faranno il resto. Così i civili in fuga aumenteranno, ogni anno, per decine di ragioni. Nel 2015 erano 60 milioni. Ne sono arrivati 1 milione e 100mila in Europa, quasi 200mila in Italia. Un individuo ogni

122, nel mondo, oggi è profugo. Vuol dire che, statisticamente, tutti ne dovremmo conoscere almeno uno. In Europa arrivano soprattutto da cinque Paesi, tutti colpiti da conflitti: la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, la Somalia e il Sudan. Negli ultimi anni ci sono stati flussi importanti anche da Mali e Repubblica Democratica del Congo. In Trentino, ad esempio, sono arrivati soprattutto da Mali, Ghana, Gambia, Nigeria e Bangladesh. Molti luoghi, numeri allarmanti: sottolineano che ingiustizie, eccessivo consumo delle risorse, cattiva gestione della terra, diritti umani calpestati creano sempre più disperazione. Di fatto ogni 4 secondi una persona nel mondo diventa rifugiato o sfollato. Quasi la metà sono minori. Attorno a questo, prosperano le guerre, si alimentano. Tutto questo accade davanti ai nostri occhi. Capire cosa sta accadendo, significa avere gli strumenti per conoscere le ragioni del fenomeno e comprendere i motivi degli individui: in 40 Paesi africani su 53, la speranza di vita è inferiore ai 40 anni. In Italia è superiore agli 84. La guerra vive di tutto questo, si nutre nel nostro non capire o nella nostra indifferenza rispetto ai problemi. Le guerre – questo è il punto – non sono inevitabili, così come non lo sono fame, ingiustizie e disuguaglianze. Quello che sta accadendo in Siria o in Iraq, con il massacro di donne, uomini e bambini, la distruzione di luoghi e città, non è il normale dipanarsi della violenta storia umana. Il massacro di 500mila esseri umani solo perché yazidi – è accaduto due anni fa – c’è stato semplicemente perché lo abbiamo permesso, perché non ci siamo ribellati alla catena di av-

venimenti che ha portato a quell’eccidio. L’Isis, il grande nemico del momento, di questo momento, ha occupato lentamente l’Iraq che avevamo occupato, poi la Siria che abbiamo abbandonato a se stessa. Lo ha fatto arrivando a monopolizzare l’attenzione di tutto e di tutti. Così non ricordiamo che la guerra è anche in Mali, Centrafrica, Nigeria. Rispondete ad una domanda: sono tornate a casa le ragazze rapite da Boko Haram due estati fa? Ne sapete qualcosa? Soprattutto, però, continuiamo a non ricordare le ragioni che hanno portato a queste guerre. Dimentichiamo che i diritti umani sono calpestati, che 800 milioni di persone rischiano la morte per fame, che 200 milioni non hanno alcun accesso all’istruzione, che 2 miliardi di vite sono in pericolo perché non hanno acqua. Nulla è separato, questo ci risulta evidente se guardiamo il mondo dalla cima della montagna. Tutto è collegato, connesso, interdipendente. Una “non scelta” qui, porta ad una guerra là. È sempre stato così. La differenza è che oggi abbiamo gli strumenti per saperlo. Abbiamo l’informazione che ci gira tra le mani alla velocità del pensiero. L’altra differenza è che ora abbiamo gli strumenti per dire cosa è bene e cosa è male. La Dichiarazione Universale dei Diritti della Persona ha tracciato questo confine, lo ha reso chiaro, visibile, vicino. È una specie di libretto di istruzioni: seguirle significa evitare guai. * giornalista RAI e direttore dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo

EDITORIALE

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poi ancora con il coinvolgimento loro malgrado della popolazione civile, anziché solo degli uomini al fronte, ad attivare una riflessione sulla guerra e, parimenti, a dare voce ai primi movimenti pacifisti. Se la messa al bando della guerra non era ancora una possibilità, la sua umanizzazione, per quanto possibile e razionalmente illogico, appariva però una necessità. Con le Conferenze dell’Aja del 1899 e 1907, i leader degli Stati europei misero al bando alcuni tipi di armi, di proiettili e di gas dalle conseguenze non solo chiaramente letali, ma raggiunte attraverso atroci sofferenze, e formalizzarono un primo corpo di norme per i tempi di guerra che avrebbero consentito di giudicare i comportamenti degli eserciti durante le guerre del Novecento. La promozione dell’arbitrato internazionale come mezzo pacifico di regolamento dei conflitti, l’assegnazione dei primi Premi Nobel per la Pace e la nascita di organizzazioni internazionali (o meglio europee) pacifiste alimentarono una letteratura e un messaggio politico che si infransero però contro i nazionalismi imperanti e gli interessi economici e geopolitici che condussero allo scoppio della prima guerra mondiale. Fu solo dopo il bagno di sangue che

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GUERRE E DIRITTO ALLA PACE

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vita trentina

La World Social Agenda nelle scuole trentine 1622 alunni degli Istituti superiori del Trentino coinvolti, 76 classi partecipanti ai percorsi, 8 scuole coinvolte, 65 docenti coinvolti, 90 percorsi attivati, 71 incontri effettuati, 8 percorsi tra cui le classi potevano scegliere di declinare il tema:

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“L’ARTE DELLA GUERRA”. Il rapporto tra arte e guerra include da un lato lo stretto legame tra le forme d’arte e le operazioni belliche (opere celebrative, monumenti alla memoria, manifestazioni di contestazione), dall’altro lato il significato e gli esiti emozionali della protezione o della distruzione del patrimonio culturale dei popoli durante i conflitti.

ä “CONFLITTI VICINI E DIMENTICATI”.

Il valore della testimonianza e del dialogo per raccontare situazioni di conflitto messo alla prova da conflitti recenti e ancora in bilico sull’incertezza delle conseguenze.

ä “ARMI, DISARMO E FINANZA…ETICA”.

L’import/export di armi, oltre a fornirci un quadro poco confortante sulle connivenze esistenti tra politica e multinazionali, ci permette di riconsiderare il peso delle nostre decisioni sui conflitti mondiali, i quali ci appaiono distanti o vicini a seconda della lente di lettura che utilizziamo.

ä “NOT(T)E DI PACE”. La musica in contesti

di guerra e promotrice di esperienze di pace trasversali alle culture e di respiro internazionale.

Le classi 4B e 4C del Liceo A. Rosmini di Rovereto con i rappresentanti di istituzioni finanziarie

ä “TERRA NOSTRA”. Qual è la relazione tra ä “IO, CON TE O SENZA DI TE”. L’acquisizioland grabbing(accaparramento delle terre) e popoli minacciati, che sulle terre rubate hanno costruito negli anni non solo case e attività commerciali, ma anche aspettative, cultura e tradizioni?

ä “CONSUMO DUNQUE SONO… RESPON-

SABILE”. Le materie prime più comuni (e insanguinate), usate nel nostro quotidiano, inducono ad acquisire un’adeguata consapevolezza delle conseguenze che provoca il loro utilizzo.

ne di strumenti utili per leggere la contemporaneità è rivolta in particolare al significato di “fare la guerra all’altro” inteso come “il diverso da sé”.

APPROFONDIRE

GUERRE, CONFLITTI E DIRITTO ALLA PACE

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ä QUADERNI ETICI. Con il coinvolgimento dell’Istituto d’Arte - Liceo Artistico “A. Vittoria” di Trento e in collaborazione con Docenti Senza Frontiere onlus, gli elaborati su guerre, conflitti e diritto alla pace mediante l’utilizzo di varie tecniche artistiche saranno l’immagine e lo slogan della copertina del “quaderno etico” 2016 dell’associazione.

PENSIERI PER UNA RIFLESSIONE

Guerra e pace di Sara Bin speciali. Iniziare a raccontarle, può ra guerra e pace è la prima a dominare la nostra cultura secondo la quale portare le armi per essere difesi e difendersi è un diritto-dovere di ogni cittadino. Così le guerre sono entrate a far parte del nostro campo visivo. Dove sono le guerre di oggi? Cosa significa guerre umanitarie, preventive, internazionali, civili (se può mai esistere una “guerra civile”)? La pace, invece, sembra un’utopia inavvicinabile, soprattutto se la si considera non come la fine di una guerra, bensì come fondamento di ogni società. Nella guerra e nella pace ci sono le persone e le storie; quelle di guerra sono sicuramente tra le più raccontate. Esse esaltano gli eroi, i sopravvissuti, attraverso simboli di virilità e di forza, ma anche il potere dei vincitori, avvolti dallo spettacolo cha anima i trionfi. Quelle di pace, invece, sono storie troppo poco raccontate, perché timide, silenziose, spesso prive di effetti

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Attacco alla comunità musulmana in Sri Lanka foto flickr, Vikalpa

Tonino Bello

Anna Bravo

vescovo e presidente della sezione italiana del movimento internazionale Pax Christi

professoressa associata di Storia sociale all’Università di Torino

Dobbiamo impegnarci in scelte di percorso, in tabelle di marcia: non possiamo parlare di pace indicando le tappe ultime e saltando le intermedie! Se non siamo capaci di piccoli perdoni quotidiani fra individuo e individuo, tra familiari, tra comunità e comunità…è tutto inutile! La pace non è soltanto un pio sospiro, un gemito favoloso, un pensiero romantico… è, soprattutto, prassi.

C’è bisogno di tenere da conto ogni forma di attivismo per smontare l’idea malsana che quando c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no, o non a pieno titolo - come se la pace fosse un dono della fortuna o un vuoto tra una guerra e l’altra, mentre è il frutto di un lavorio umano, è quel lavorio stesso.

Don Tonino Bello, Pace. Quanto resta della notte?, Ed. Messaggero Padova, 2006

Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Ed. Laterza, 2013

Alexander Langer politico, scrittore e giornalista pacifista Non potrà sfuggire un altro segno importantissimo dei tempi (…): il moltiplicarsi degli sforzi di pace. È infatti chiaro che oggi tutti i valori, dai più grandi ai più piccoli, dipendono dalla pace e sono quindi più a rischio di quanto non siano mai stati in passato. Anche valori apparentemente inconciliabili (come ad esempio la giustizia e la sicurezza) dipendono dalla pace. La costruzione della pace, a tutti i livelli e in tutte le aree (…), è dunque un compito urgente.

Alexander Langer, Pacifismo concreto. La guerra in ex Jugoslavia e i conflitti etnici, Ed. dell’Asino, 2010

di influenzamento che mi convince che non potrebbe essere diversamente che così: io profondamente buono, corretto, lui profondamente cattivo, sbagliato. Anche dall’altra parte agisce lo stesso meccanismo persuasivo. Anch’io posso essere “nemico” per qualcun altro: quindi, entrambi ugualmente persone, anche se differenti. Come non lasciarsi interrogare dalla costruzione di una categoria? Come percorrere lo spazio del rispetto dell’altra persona, la comprensione, la volontà di conoscere e conoscersi per creare le premesse del dialogo tra le parti? Nel costruire i nemici i media giocano un ruolo importante come pure nel far esistere o cancellare una guerra e i suoi protagonisti, vincitori o vinti che siano. Alla ricerca di effetti bellici da spettacolarizzare, spesso i media ne tralasciano la disarmante quotidianità in cui la brutalità è consuetudine del vivere, abita i luoghi e il tempo, e quindi le persone. I contenuti sul tema delle guerre e del diritto alla pace sono stati raccolti nel sito www.worldsocialagenda.org. l

Cecilia Strada presidente dell’organizzazione umanitaria italiana Emergency L’idea di “guerra giusta” è pericolosissima perché, dopo che hai definito la tua causa come nobile e giusta (e magari lo è davvero), il nobile fine rischia di mangiarsi via i mezzi, e tutto diventa accettabile, anche l’uso degli strumenti più orrendi, tutto diventa giustificabile in nome della causa. Ma se per combattere uno spregevole nemico inizio ad utilizzare i suoi spregevoli strumenti, che cosa resta di me? Che cosa resta della mia differenza e della mia nobile causa? Cecilia Strada, Sulla nostra pelle. Le missioni di pace uccidono. Anche quelle italiane, Ed. Rizzoli, 2012

IPSE DIXIT

don

aiutarci non solo a mettere ordine nella memoria, ma anche a dare un altro senso alla storia, nobilitando quanto in silenzio viene fatto per evitare che ogni divergenza diventi un conflitto bellico. Attraverso la narrazione si può costruire una realtà differente, quindi le sue immagini e gli immaginari che la compongono. Chi finanzia le guerre? Cosa sono le spese militari? Quanto il commercio di armi vive di conflitti? Basta guardare una carta delle guerre per capire che si tratta di un mercato fiorente; il perdurare di situazioni belliche è garanzia della sua sopravvivenza. Da un lato molte banche si fanno garanti (ed investitrici) di un settore la cui regolamentazione però è ancora scarna e scarsamente rispettata. Dall’altro, tra chi lotta per il disarmo, c’è chi cerca la legge e il suo rispetto per “un’altra difesa possibile” e c’è chi rifiuta totalmente ogni forma di “difesa” perché ritenuta prerogativa di un conflitto, come pure il mantenimento di un’idea di nemico. Chi è costui? Lui non è forse te? Il nemico è l’altro che costruisco per opposizione al mio sé grazie ad un’opera


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GUERRE E DIRITTO ALLA PACE

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vita trentina

IL PERCORSO 2015-2016

il simbolo

DA SEMPRE UNO STRUMENTO DI DENUNCIA SOCIALE

Guerra e diritto alla pace

Musica e...

uest’anno la World Social Agenda, un percorso culturale di educaQ zione, sensibilizzazione e informazio-

di Miriam Rossi

ne che Fondazione Fontana svolge con cadenza annuale, su temi di carattere sociale e internazionale, ha coinvolto:

...pace a musica è da sempre anche uno strumento di denuncia sociale, specialmente di ingiustizie e dolori e, a maggior ragione, delle guerre. Non è un caso che nelle ore che seguirono agli attentati alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 le televisioni e le radio di tutto il mondo continuassero a trasmettere le note e le parole di Imagine di John Lennon, forse l’inno pacifista più noto nella storia della musica composto nel 1971. Quel brano musicale fu individuato quale un simbolo di cordoglio e di unità dell’umanità, “immaginando che tutti vivano la loro vita in pace”. Quasi 10 anni prima, nel 1962, Bob Dylan si era domandato “Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?”. La sua Blowing in the wind fu considerata il manifesto della generazione dei giovani statunitensi disillusi dalla politica portata avanti dagli Stati Uniti negli anni ’50 e ’60 con la guerra fredda e poi soprattutto con l’intervento in Vietnam. Una riflessione sull’assurdità della guerra di Claudio Baglioni riprende

È UN PROGETTO DI

L

I MILLE PAPAVERI ROSSI CHE CANTANO LA GUERRA “Dormi sepolto in un campo di grano/non è la rosa non è il tulipano/che ti fan veglia dall’ombra dei fossi/ma sono mille papaveri rossi” cantava Fabrizio De Andrè con la sua Guerra di Piero nel 1964. La relazione tra i papaveri e la memoria della guerra deriva dalla poesia “Nei campi di Fiandra” dell’ufficiale medico canadese John McCrae: il papavero fu allora assurto a emblema dello spargimento di sangue della prima guerra mondiale perché quei fiori sbocciavano in alcuni dei più cruenti campi di battaglia delle Fiandre e il colore rosso risultava il simbolo più appropriato del tributo di sangue versato nel conflitto. Ancora oggi in diversi Paesi del mondo i papaveri sono distribuiti in occasione delle manifestazioni di commemorazione delle guerre. Mi.Ro.

La guerra dei media L’

Parteceipgano al conv

...guerra La musica è al contempo un’eredità della guerra. Da sempre infatti la musica ha fatto parte della vita dei soldati tanto nei campi di battaglia quanto nelle retrovie per aumentare il senso di appartenenza ad un gruppo, per sollevare gli animi oppure per esorcizzare la paura della morte. Molte canzoni di guerra narrano di amori lontani, di speranze, di lontananza dalla casa e dall’affetto materno o glorificano le

gesta eroiche dei soldati, esaltandone il coraggio e il sacrificio. Alcune composizioni nate durante una guerra furono considerate talmente importanti e significative da essere utilizzate come inni nazionali di uno Stato. È il caso di Fratelli d’Italia, scritto da Goffredo Mameli nel 1847 e cantato durante le guerre risorgimentali, o anche della Marsigliese, l’inno nazionale francese intonato nel 1792 durante la Rivoluzione. l

le giornate 1 GENNAIO Giornata mondiale della pace Da quando fu istituita su indicazione di Papa Paolo VI nel 1968, la ricorrenza celebrata dalla Chiesa cattolica intende dedicare il primo giorno dell’anno alla riflessione e alla preghiera per la pace. Ogni anno il Pontefice in quest’occasione invia ai capi di Stato e a tutti gli uomini di buona volontà un messaggio che invita alla pace.

21 SETTEMBRE Giornata internazionale della pace Nel 1981 anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) decise di celebrare una giornata dedicata alla pace e alla non-violenza, e rivolse un invito a tutte le nazioni e alle persone a cessare le ostilità durante quella giornata e a commemorarla in maniera appropriata.

30 GENNAIO Giornata scolastica della non violenza e della pace Istituita in Spagna, nel 1964, dal poeta, pedagogo e pacifista maiorchino Llorenç Vidal Vidal, si pratica in occasione dell’anniversario della morte del Mahatma Gandhi, punto di partenza per una educazione pacificatrice e nonviolenta a carattere permanente. Diffusa a livello internazionale, è praticata in molti Paesi e anche in numerose scuole italiane.

Conflitti Il termine “conflitto” indica di per sé un contrasto che può assumere diverse accezioni (personale, sociale ecc.) senza implicare necessariamente uno scontro violento mentre molti conflitti possono essere risolti senza il ricorso alla forza oppure rimanere latenti per molti anni. Ormai, però, il termine viene sempre più spesso interpretato nella sua accezione di “conflitto armato”, per cui è divenuto nell’uso corrente un sinonimo della parola “guerra”. La fine dell’equilibrio bipolare, l’ascesa di nuovi attori non politici, il rafforzamento del terrorismo internazionale, le nuove conquiste tecnologiche in campo militare sono tutti elementi che impongono di ripensare nuovamente e profondamente il tema della guerra e del conflitto. Un ripensamento che può aprire la strada a soluzioni pacifiche senza ricorrere alla violenza.

Pace La fine della Guerra Fredda non ha comportato l’inizio di una nuova era di pace. Anzi gli equilibri già fragili nel bipolarismo, nel mondo “unipolare” sembrano dissolversi definitivamente aprendo la via a una fase assai più turbolenta delle

relazioni internazionali. L’ascesa di attori non tradizionali, primo tra tutti il terrorismo globale, ha determinato un cambiamento nella concezione di conflitto estremizzando il senso di “guerra di difesa” attraverso la “guerra preventiva”. Ma nell’ultimo decennio si sta assistendo anche all’emergere dei movimenti globali, che si accostano e quasi si sovrappongono ai movimenti pacifisti adottandone le forme di lotta e i modelli organizzativi basati su reti transnazionali, propri del pacifismo stesso.

Guerre dimenticate Ci sono guerre meritevoli di essere riportate sulle prime pagine dei giornali. Guadagnano l’apertura dei notiziari televisivi, monopolizzano il dibattito pubblico e rimangono per sempre stampate sui libri di storia. E ci sono guerre altrettanto cruente e sconvolgenti, gravi e durature, destinate a cadere nel dimenticatoio, assieme al grido di dolore di milioni d’ individui per i quali la guerra è pane quotidiano. Conflitti di serie A e di serie B, promossi e retrocessi in un campionato mediatico in grado d’ influire pesantemente sulle coscienze collettive. Ma ciò che non ci colpisce, non ci riguarda?

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CONSULTABILI ON LINE

informazione è potere, un potere straordinario per la formazione dell’opinione pubblica ma che suscita talvolta timori e dubbi sulla sua indipendenza. Si è ormai lontani da quando nel XVIII secolo Edmund Burke elogiava la stampa quale “quarto potere”, strumento di controllo dei potenti. Dinanzi a censure, alterazioni delle notizie, lettura parziale o con precipui obiettivi, oggi risulta evidente la mitizzazione dell’indipendenza della stampa specialmente quando i media trattano notizie dall’ampia valenza politica. Parlare di “conflitto armato”, di “operazione di pace”, di “guerra agli Stati canaglia” risulta foriero di messaggi differenti. Al pari di denunciare come “danni collaterali” la morte di civili nel corso di una operazione di peacekeeping. Non è dunque solo fondamentale la garanzia della libertà di stampa ma anche di una pluralità di fonti di informazione, laddove il controllo delle fonti e il taglio della notizia appaiono essenziali, ma anche la terminologia usata, il confronto con gli esperti e gli inviati, la frequenza e lo spazio dato all’informazione; solo in questo modo i mass media offrono al cittadino la possibilità di costruirsi da sé un’opinione al riguardo. Oggi come mai, dinanzi alla straordinaria moltiplicazione delle fonti di informazione e alla possibilità di una rapida propagazione di notizie false o distorte, si ha l’esigenza che il giornalismo faccia il suo lavoro certosino di controllo, rielaborazione e diffusione delle informazioni, ben cosciente del rischio di scadere in azioni di propaganda a favore tanto della politica quanto di capitali importanti o di interessi di parte. Sono trascorsi 100 anni dalla prima guerra mondiale. Allora i giornalisti venivano ricompensati e nominati cavalieri per il loro silenzio e omertà. Alle nostre orecchie, le parole confidate dal primo ministro britannico David Lloyd George al direttore del Manchester Guardian nel momento peggiore del massacro fanno rabbrividire: “Se la gente sapesse realmente (la verità), la guerra si fermerebbe domani, ma naturalmente non lo sanno e non possono saperlo.” L’informazione è appunto potere. Allora ag.VIII come oggi. Miriam Rossi - vedi p

nella Ninna nanna della guerra il testo di una poesia pacifista di Trilussa dell’ottobre 1914: un canto sulle scellerate scelte di guerra, “solo un gran giro de quatrini”, intraprese dai sovrani che ricadono inesorabilmente sulla povera gente, carne da macello e sciocco uditore delle promesse di pace e di lavoro. Più recentemente, nel 1999 in occasione dell’intervento militare in Kosovo, Luciano Ligabue, Jovanotti e Piero Pelù hanno lanciato Il mio nome è mai più, un singolo il cui ricavato è stato devoluto in beneficenza ai progetti umanitari di Emergency, per segnalare a gran voce l’inesistenza di una ragione valida per alcuna guerra. La canzone fu la più venduta in Italia nell’anno, un buon auspicio per il millennio che si avviava a iniziare.

LE GUIDE DI

LO STRAORDINARIO POTERE DELL’INFORMAZIONE

Scopri altre canzoni di guerra e di pace sul Dossier online della World Social Agenda, www.worldsocialagenda.org/ wsa-2016-ascoltare


GUERRE E DIRITTO ALLA PACE DELLA WORLD SOCIAL AGENDA

vita trentina

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I POPOLI MINACCIATI: OLTRE 300 MILIONI DI PERSONE IN 70 PAESI

WSA & scuole Il percorso ha accompagnato gli insegnanti e gli studenti delle scuole superiori del Trentino nell’elaborazione del tema attraverso riflessioni, laboratori ed espressioni video-artistiche.

A rischio estinzione

WSA & cooperazione internazionale La Carta di Trento è un documento scritto a più mani da organizzazioni che a diverso titolo si occupano di cooperazione internazionale, in un tentativo di rilettura della stessa. Nel 2016 la Carta si arricchirà della sezione relativa al rapporto tra la cooperazione internazionale e gestione dei conflitti.

Emarginate e discriminate, queste comunità vedono calpestati i propri diritti e continuano a essere vittime di discriminazioni, povertà e conflitti

WSA & territorio Il progetto si rivolge alla cittadinanza con gli appuntamenti a Trento del 21 e 22 aprile dell’iniziativa “Partiti al mondo come soldati”. Approfondimenti su www.worldsocialagenda.org Seguici anche su facebook worldsocialagenda

I nostri progetti in Italia La WSA è un percorso culturale di educazione, sensibilizzazione e informazioni su temi di carattere sociale e internazionale. www.worldsocialagenda.org

on ci sono solo fiori, piante e animali a rischio di estinzione, ma anche popoli, culture, civiltà. I cosiddetti popoli indiBayaka nella Repubblica Centroafricageni o tribali corrispondono a oltre na, i Pigmei nel cuore dell’Africa o gli in300 milioni di persone che abitano digeni di Sarawak nel Borneo insieme a in 70 Paesi nel mondo e rappremolti popoli in Brasile, Cile ed Ecuador; lo sentano oltre 5.000 lingue e culsfruttamento petrolifero in Sudan è causa ture di tutti i continenti. Vittime dell’allontanamento dei Dinka; autostrade dell’espansione coloniale delle - vedi argentine attraversano i territori Wichì; potenze europee nel mondo e pag.V III l’avidità di oro condanna alla miseria i Mitalvolta di veri genocidi, hanno skito in Nicaragua, mentre le miniere d’uraperso quasi tutti i loro territori e sono nio inquinano i territori delle genti Dene e ridotti a vivere al margine di società a loro estranee. Da millenni in piena armonia e simbiosi con la natura in Cree. Per non parlare degli effetti negativi del turismo: qualsiasi ecosistema, dalle selve tropicali, ai geli artici, corruzione della cultura locale, sfruttamento dell’amdagli altipiani ai deserti, sono stati definiti anche “cu- biente, istigazione alla prostituzione e inflazione. Negli stodi della terra” da cui traggono sostentamento fisico, ultimi decenni si sono aggiunte anche le nuove sfide dei ma anche spirituale. Per la maggior parte di questi po- cambiamenti climatici. poli, la terra e la vita umana sono indissolubilmente La modernità esasperata, la globalizzazione selvaggia, connesse. Emarginate e discriminate, queste comunità e non ultima, la guerra minano la biodiversità umana vedono calpestati i propri diritti e continuano a essere per fare posto a coltivazioni di soia, pozzi petroliferi, rivittime di discriminazioni, povertà e conflitti. Sfruttate serve di legname. Il tutto giustificato in nome di un come manodopera a basso costo o ancora rinchiuse in maggior benessere dei più. In realtà per il profitto di poriserve, vengono obbligate a trasferirsi quando nel loro chi. (Tratto dalla guida “Diritti dei popoli indigeni” territorio si scoprono risorse e ricchezze. La lista delle di Francesca Naboni su www.unimondo.org) violazioni è fitta: il disboscamento illegale minaccia i

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Partec al sem ipa inario

la campagna NON BUTTIAMO IL CELLULARE! Da più di due anni in Vallagarina è stata avviata una collaborazione tra diverse associazioni di solidarietà internazionale che operano in Africa sub-sahariana, intesa come forma di dialogo, di scambio di esperienze e di crescita. È il cosiddetto Coordinamento di Associazioni della Vallagarina per l’Africa che riunisce insieme in modo informale: Comitato delle Associazioni per la Pace e i Diritti Umani di Rovereto, Comitato trentino NOPPAW (Ass. Amici di Casa Mihiri, Ass. Africa Tomorrow, Ass. Il Melograno, Ass. Bazzoni-Spagnolli, COOPI Trentino, Gruppo Autonomo Volontari per la Cooperazione e lo Sviluppo del Terzo Mondo), ACCRI, APIBIMI, Centro Missionario Diocesano, CODESSA Italy, Collettivo Studentesco Roveretano, Mandacarù, padri Comboniani Trento e TAM TAM per Korogocho. Il Coordinamento ha scelto di lavorare insieme per sensibilizzare la cittadinanza e gli enti locali sullo sfruttamento del coltan in Repubblica Democratica del Congo, un argomento potenzialmente ricco di contatti con le persone che vivono in Trentino, per annullare la distanza tra questa e quella terra e valorizzare i collegamenti che la globalizzazione rende sempre più evidenti. L’obiettivo è quello di creare consapevolezza e innestare inoltre un cambiamento culturale che parti dal basso e si riverberi poi nelle scelte politiche a livello territoriale, nazionale e internazionale: non cambiare cellulare ogni 6 mesi, prendersi cura delle cose che si hanno in modo che possano durare di più. Ci sono tre verbi molto importanti che si dovrebbero conoscere a menadito e applicare: riusare, riparare, riciclare. Dall’ottobre scorso il Coordinamento ha promosso la raccolta di cellulari usati e di suoi componenti (come le batterie e i caricabatterie) installando due contenitori presso il Centro per la Formazione alla Solidarietà Internazionale-CFSI (Vicolo San Marco, 1 - Trento), in adesione alla campagna “Aiuta l’ambiente, aiuta chi ha bisogno” promossa da Krio Hirundo Onlus. La campagna prevede lo smaltimento o il recupero di vecchi cellulari (funzionanti e non) attraverso la ditta milanese Cometox che provvederà poi a versare all’associazione Krio Hirundo Onlus un corrispettivo economico. La raccolta dei cellulari consente di preservare l’ambiente dall’inquinamento attraverso lo smaltimento controllato dei materiali e di raccogliere fondi destinati a una scuola primaria di 300 bambini rifugiati birmani nel nord della Thailandia. Miriam Rossi

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Raccolta di cellulari usati al Centro Formazione Solidarietà Internazionale di Trento apete cosa è il coltan? Il termine indica la lega di due minerali, la columbite e la tantalite, un materiale indispensabile per la tecnologia di oggi. Difatti dal coltan si estraggono il niobio, usato nell’industria metallurgica, e il pregiato tantalio, un ottimo conduttore con cui si realizzano micro-condensatori che aumentano la potenza riducendo il consumo di corrente elettrica per dispositivi quali cellulari, videogiochi, computer. E se il termine coltan sembra essere sinonimo di tecnologia, questa potenziale risorsa si è trasformata in una vera e propria maledizione per i congolesi. L’estrazione e il traffico illegali del coltan nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo, in Kivu, dove si trova l’80% delle riserve mondiali, hanno determinato l’invasione di eserciti stranieri, la formazione di milizie armate e incontrollate, la creazione di masse di profughi in fuga, l’orrore di stupri di massa, saccheggi e distruzioni di ogni genere, spesso compiuti da ragazzini armati. Proprio i bambini sono doppiamente vittime del conflitto, dalla parte dei carnefici all’interno delle milizie, o costretti dalla povertà estrema a lavorare nelle miniere di coltan a cielo aperto e senza alcun tipo di protezione. Il coltan si presenta come una sabbia nera, inalabile e soprattutto radiattiva. Le asfissie e gli incidenti legati al crollo delle gallerie sono all’ordine del giorno così come la realtà di centinaia di migliaia di ragazzi che muoiono di tumore o di

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Unimondo è una testata giornalistica online di informazione qualificata e pluralista su diritti umani, pace, democrazie e ambiente con News, Guide, Almanacco e Atlante. www.unimondo.org Impresa Solidale è una rete di solidarietà con il profit per promuovere una cultura di impresa orientata a un maggiore coinvolgimento sociale. www.impresasolidale.it

www.fondazionefontana.org info@fondazionefontana.org Trento - Via Herrsching, 24 Ravina tel. 0461.390092

DAL COLTAN DEL CONGO AI NOSTRI SMARTPHONE

Il lato oscuro della tecnologia malattie respiratorie. Nondimeno le colline verdeggianti del Kivu sono state scavate senza alcun ordine o accortezza, elemento che ha determinato il sicuro inquinamento delle falde acquifere. Il caos creatosi nel Paese favorisce un mercato nero in cui il coltan, venduto in Europa fino a 600 dollari al Chilo, è acquistato per appena 20 centesimi, a tutto vantaggio delle aziende di alta tecnologia, dei governi vicini alla Rep. Dem. Congo, delle milizie e dei mercenari stranieri sul territorio, nonché dei governanti locali spesso e volentieri complici di questa situazione. Cosa fare dinanzi al legame inne-

l’Atlante delle guerre La settima edizione dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo segna un punto di svolta. Dal 2009, anno della prima uscita, l’Atlante ha ogni anno aggiornato sullo stato di ogni singola guerra in corso sul Pianeta. Ora la visione diventa più globale. Per quest’anno, infatti, niente “schede conflitto” aggiornate, ma tante infografiche – cioè carte planetarie elaborate – che raccontano complessivamente le ragioni che portano a queste guerre. In questo modo, l’attenzione verrà maggiormente spostata sui diritti umani, sull’uso e sulla distribuzione di ricchezze e risorse, sul problema della terra, del clima, dell’acqua. In tutto saranno 22 carte, di grande formato. A completare l’opera, il contributo di chi da sempre coopera alla redazione: quindi ci saranno i rapporti di Amnesty International, dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (Unhcr), del Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali (Cdca) e il lavoro sui “tentativi di Pace” dei ragazzi del professor Giovanni Scotto dell’Università di Firenze. Infine, non mancheranno le foto del gruppo MeMo e i disegni di Kako, di Flora Graiff. Per maggiori informazioni: info@atlanteguerre.it, www.atlanteguerre.it

gabile tra la tecnologia di ultima generazione e la guerra alimentata in Congo per estrarre il coltan? La sensazione di avere tutti un pezzo di Congo in tasca, attraverso lo smartphone, o anche a casa, nelle tv e nelle macchine fotografiche, o ancora negli airbag delle auto, è reale: il coltan insanguinato è ovunque ed è l’inizio della presa di coscienza. Informare, sensibilizzare, raccontare questo messaggio: trasformarsi dunque in nuovi operatori di pace, anche attraverso i social network a disposizione. Non è infatti la tecnologia a essere diabolica ma la modalità in cui essa si realizza. Se il ritorno a una tecnologia ormai superata, ma che non necessitava del coltan, non appare una strada percorribile, la sola soluzione sta nella fruizione di una tecnologia etica e sostenibile. Proprio la battaglia per la tracciabilità del coltan, ossia l’indicazione del fornitore del materiale sul prodotto per controllare l’intera filiera, appare essere la misura fondamentale per arrestare il conflitto, acquistando il coltan a prezzo equo e dettando corrette condizioni di lavoro. Per questa ragione FOCSIV, la Federazione degli organismi di matrice cristiana, chiede una forte mobilitazione dell’opinione pubblica in vista del voto del Parlamento Europeo del 20 maggio su una regolamentazione obbligatoria del commercio dei minerali provenienti da aree di conflitto o ad alto rischio, coltan incluso chiaramente. Miriam Rossi


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GUERRE E DIRITTO ALLA PACE

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vita trentina

Le nuove guerre el 1832 Carl von Clausewitz definiva la guerra come “la continuazione della politica con altri mezzi”. In poche parole egli riassumeva la concezione moderna della guerra che si era sviluppata in Europa, parallelamente al rafforzamento delle istituzioni degli Stati, nel corso del Settecento. Si trattava di un fenomeno politico e razionale, che vedeva attori contrapposti – Stati sovrani – fronteggiarsi per imporre i propri contrastanti interessi. Nonostante le tante trasformazioni delle tecniche militari causate soprattutto dagli sviluppi tecnologici che hanno rivoluzionato armamenti, trasporti e comunicazioni, la definizione della guerra di Clausewitz è rimasta sostanzialmente valida per tutto l’Ottocento e per buona parte del Novecento finché, con la creazione del sistema di sicurezza dell’ONU, si è affermata l’idea che in generale la guerra sia uno strumento illegittimo, con pochissime eccezioni – la legittima difesa e l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. La definizione delle “nuove guerre” è stata coniata nel 1999 dalla studiosa britannica Mary Kaldor, - vedi pag VIII che trovava quella classica poco utile per spiegare le guerre che avevano caratterizzato gli anni Ottanta e Novanta. L’esempio paradigmatico è quello della guerra combattuta in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1995. Le nuove guerre differiscono dalle vecchie per i loro scopi, per i metodi di combattimento e per i modi di finanziamento. In primo luogo, prevale la politica dell’identità: identità apparentemente tradizionali servono a un certo gruppo per reclamare il potere – solitamente in uno Stato malfunzionante. In secondo luogo, il diritto di guerra non viene rispettato da uno o più parti in conflitto: i civili sono spesso utilizzati per esigenze strategiche, quando non diventano il target delle operazioni belliche; i monumenti o i luoghi protetti (scuole, ospedali) sono saccheggiati o distrutti, il terrorismo organizzato è la regola. Infine, le nuove guerre presentano un’economia di guerra globalizzata e i finanziamenti provengono da reti transnazionali – diaspore di emigrati, network criminali. Gli esempi non mancano: per limitarsi ai più recenti, i conflitti in corso in Ucraina e Nagorno Karabakh rientrano in questa categoria. Il caso del sedicente Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Isis), invece, risulta più difficile da inquadrare per l’impossibilità di definire precisamente il terreno delle operazioni belliche. Elisa Piras ricercatrice universitaria

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Le luci del mondo nella notte

Partecipa al convegno

foto Nasa, visible earth

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OCCORRE CAMBIARE IL NOSTRO MODO DI VIVERE

In guerra, contro l’umanità

di Michele Nardelli *

Se estendessimo al mondo intero i nostri livelli di consumo avremmo bisogno delle risorse di almeno tre pianeti

iamo in guerra. Ma, contrariamente a quel che in genere si pensa, non perché qualcuno ci ha dichiarato guerra o ci tiene sotto lo scacco del terrorismo, e nemmeno per effetto delle tante guerre locali dimenticate e diventate endemiche, quanto come risultato di un modello di sviluppo insostenibile e della nostra indisponibilità a mettere in discussione i propri stili di vita e di consumo. Da tempo viviamo nell’insostenibilità. Non solo perché cresce la diseguaglianza globale: nel 2014l’1% più ricco della popolazione mondiale possedeva il 48% dellaricchezza globale, lasciando appena il 52% da spartire tra il restante 99% di individui sul pianeta (senza dimenticare che quel 52% è posseduto da persone che rientrano nel 20% più ricco, lasciando quindi solo il 5,5% al restante 80% dipersone). Oltre al tema antico della redistribuzione, dovremmo prendere consapevolezza che se estendessimo al mondo intero i nostri livelli di consumo avremmo bisogno delle risorse di almeno tre pianeti. La nostra impronta ecologica (l’indice che ilGlobal Footprint Network ha elaborato per misurare l’insostenibilità a livello globale e nei singoli Paesi)ci dice che abbiamo oltrepassato nettamente la soglia delle sostenibilità. Tanto è vero che nel 2015 l’Earth overshoot day, il giorno del superamento ovvero il momento nel corso dell’anno in cui abbiamo esaurito quanto gli ecosistemi terrestri sono in grado di produrre, è stato il 13 agosto (per la cronaca in Italia è il 6 aprile e in Trentino il 6 giugno). Questo significa che da quel giorno consumiamo risorse che non sarebbero a nostra disposizione in quanto eticamente indisponibili.

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la mostra/1 “Morire per Trento” è la mostra allestita fino al 22 maggio al Museo Storico della Guerra di Rovereto per illustrare i principali avvenimenti accaduti sul fronte trentino tra il 1915 e il 1918. Costruita attraverso le citazioni tratte da lettere, diari e memorie di dieci combattenti italiani e dieci austro-ungarici, la mostra racconta come i soldati dei due eserciti hanno combattuto su questo fronte, sorretti da ragioni differenti ma vivendo gli stessi pericoli, le stesse difficoltà di rapporto con le gerarchie militari, la stessa traumatica esperienza dell’uccidere e dell’essere esposti alla morte. Non c’è un punto di vista nazionale privilegiato: di volta in volta l’italiano o l’austroungarico ricoprono il ruolo di “altro”, di “nemico”.

Senza dimenticare che nel 2030 gli abitanti della Terra saranno 9 miliardi. Omologazione al rialzo dei consumi, surriscaldamento del pianeta e cambiamenti climatici dovrebbero indurci a riconsiderare i nostri consumi e invece si teorizza la divisione del pianeta fra inclusione ed esclusione, in altre parole la fine dell’umanesimo. Rifiutandoci di prendere coscienza del carattere limitato delle risorse e della necessità di cambiare il nostro modo di vivere, la guerra l’abbiamo dichiarata noi. Una guerra diversa da quelle tradizionali, che avviene fra chi ha accesso alle risorse e chi non ce l’ha. E considerato che la soglia fra inclusione ed esclusione è piuttosto indefinita, sarà la guerra di tutti contro tutti. Alimentata dalla paura e dall’insana idea dello “scontro di civiltà”, la guerra c’è già ed è fatta di armi e filo spinato.Consapevoli di questo viviamo il prossimo in sottrazione. Pronti a tirare fuori gli artigli se qualcuno ci insidia nei nostri stili di vita che consideriamo “non negoziabili”. Questa è la guerra in corso di cui parla Papa Francesco, inascoltato dai potenti e non preso sul serio dai governanti ossessionati dalla crescita e dalla ricerca di facile consenso. Questa è la vera partita del XXI secolo, la cultura del limite e la violenza nel proprio giardino. Possiamo ancora pensare che l’impegno per la pace sia altro dal trovare spazio per tutti, con un nuovo equilibrio negli stili di vita e nel rapporto con l’ambiente? La pace e i diritti umani hanno bisogno di nuovi pensieri e pratiche comunitarie, che devono irrompere nelle istituzioni, nella politica e nei comportamenti individuali. Prima che sia troppo tardi. * Esperto di tematiche della pace e dei diritti umani l

la mostra/2 Scatti d’autore di Giorgio Salomon, su testi di Franco Filippini e progetto espositivo di Manuela Baldracchi raccontano il dramma dell’emigrazione, la fuga dalle dittature, dalle persecuzioni religiose ed ideologiche, dalla fame e dalla miseria. Immagini e parole che suonano come un richiamo all’assunzione di una nuova responsabilità morale, alla presa di coscienza di una guerra che torna a riguardare anche noi, oggi come 100 anni fa. È stata inaugurata il 4 aprile a Palazzo Trentini la nuova iniziativa culturale dal titolo “Ombre di guerra e disperazione”. Un toccante raffronto visivo tra le sofferenze delle genti costrette oggi ad abbandonare la propria terra e l’epopea dei profughi trentini di 100 anni fa. L’esposizione sarà visitabile fino al 23 aprile a Palazzo Trentini.

L’APPROFONDIMENTO

IN COSA DIFFERISCONO DALLE VECCHIE

La crisi ucraina foto Afp/Sir

E tu cosa avresti fatto? o spettacolo di teatro civile “La scelta” di Marco Cortesi - oltre 350 Lrepliche in tutta Italia e numerose anche in Trentino – racconta la storia di uomini e di donne che hanno avuto il coraggio di rompere la catena dell’odio e della vendetta. Il contesto è quello della guerra nella ex Jugoslavia. Storie vere, raccolte da Svetlana Broz, nipote del generale Tito, durante l’assedio di Sarajevo. Serbi, croati, bo- “La scelta”: storie di uomini e di donne sniaci-musulmani, macedoni: tutti che hanno rotto la catena dell’odio vestono le parti delle vittime e dei carnefici nel corso dello spettacolo. L’intento? Fare memoria dell’ultima sanguinosa guerra nei Balcani indagando sulla soggettività di ogni individuo all’interno del conflitto. Ciascuna persona nel conflitto, così come ognuno degli spettatori, avrebbe potuto scegliere diversamente, perché “quando in gioco c’è la vita o la morte il dilemma tra ‘non voglio’ e ‘non posso’ diventa molto, molto più semplice” da sciogliere. E a questo punto che la scena in cui agiscono gli attori si allarga al di là del conflitto raccontato, e ci riporta alla quotidianità, a quel non poter agire sui meccanismi della corruzione, della discriminazione, della violenza, dello sfruttamento a cui spesso assistiamo come osservatori passivi, senza scegliere di essere se non per forza degli eroi, per lo meno cittadini coscienti e impegnati. Non possiamo o non vogliamo? Miriam Rossi


GUERRE E DIRITTO ALLA PACE

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TRE TESTIMONI DA TERRE DI CONFLITTI

Costruttori di pace di Jacopo Tomasi IN SUDAMERICA LA DIFESA DEI DIRITTI UMANI Sara Ballardini da anni opera in Sudamerica, impegnata in una difesa quotidiana dei diritti umani delle popolazioni. Le abbiamo chiesto come si costruisce la pace in questi territori. “Prima di tutto attraverso tanto ascolto, lettura, incontri, osservazione. Poi, sottovoce, comincia l’accompagnamento, quale strumento di protezione internazionale che mi ha portato in Colombia per oltre due anni, a camminare a fianco di donne e uomini colombiani: contadini e avvocati, giornalisti e ambientalisti. Insomma, a fianco di difensori di diritti umani, che, proprio per questo, vengono minacciati e attaccati con metodi violenti. Come accompagnante- prosegue Ballardini -ho condiviso con loro momenti duri, quando i viaggi, le riunioni, i momenti d’assemblea e le denunce provocavano (e provocano tutt’oggi) una reazione durissima da parte di chi detiene il potere con le armi. E, contemporaneamente, sono stata partecipe di grandi gioie nei momenti di riconoscimento del loro lavoro quando, proprio grazie alle loro denunce e azioni, alcuni spazi comunitari sono stati riscattati dalla violenza e alcuni carnefici sono stati riconosciuti e condannati”. Insieme ad altre volontarie e volontari di Peace Brigades International (PBI), Sara Ballardini è stata testimone di una “quotidiana forza esemplare nell’affrontare le varie difficoltà, in un contesto di guerra che, purtroppo, va avanti da oltre sessanta anni”. Anni durante i quali - racconta - la violenza ha provocato milioni di vittime e sfollati, decine di migliaia di desaparecidos e milioni di ettari di terra rubati per interessi economici. “In Colombia (così come in Honduras, Guatemala, Kenya e Messico) PBI accompagna per proteggere i difensori dei diritti umani. L’obiettivo è riassunto nel motto ‘aprire spazi per la pace’:dare la possibilità agli attivisti locali di portare avanti le proprie legittime attività in uno spazio reso più sicuro dalla presenza di occhi internazionali”.

IN BURUNDI PER SOSTENERE LO SVILUPPO Dalla Colombia al Burundi cambiamo continente, ma non muta di molto la situazione. Qui opera l’associazione il

L’esperienza di tre trentini che hanno portato avanti progetti in territori di conflitti: dalla Colombia al Kosovo passando per il Burundi Melograno, nata nei primi anni Duemila per sostenere progetti di cooperazione allo sviluppo. “Il contesto è molto delicato”, afferma il presidenteMauro Dossi. “Dal 2001 al 2005 c’è stata una situazione di conflitto accesa, poi c’è stato un periodo di convivenza che però è durato poco e attualmente non abbiamo a che fare con uno scenario tranquillo”. L’associazione il Melograno si è impegnata nella realizzazione di alcune opere importanti per la comunità - da un orfanotrofio che oggi ospita circa 80 bambini, a cooperative agricole o attività economiche - ma l’apporto più significativo è stato un altro. “Il nostro imperativo è quello di fare prendere le decisioni alla comunità locale e far lavorare assieme hutu e tutsi. Questo credo sia stato il nostrocontributo alla pace in questo luogo”, spiega Dossi.

Da sinistra in alto in senso orario: Mauro Dossi, Sara Ballardini e Marco Pipinato (secondo da sinistra) “Andando avanti la collaborazione è stata sempre più positiva e costruttiva. Ai progetti partecipano sia hutu che tutsi. Con spirito collaborativo. E i risultati si vedono. Su tutte le attività che siamo riusciti a sostenere credo che la più bella sia la cooperativa agricola formata da donne del posto. Quando siamo partiti

PADRE DALL’OGLIO, RAPITO IN SIRIA

Un pacifista tra uomini in guerra Dall’Oglio è stato rapito in Siria il 29 luglio 2013. Da allora sulla sua sorte circolano notizie incerte e contrastanti, dalla detenzione in un carcePre delloaolo stato islamico ad al-Tabqa, nella provincia nordorientale di Raqqa, alla sua uccisione. Da oltre 30 anni il gesuita romano viveva nel Paese adoperandosi per il dialogo islamico-cristiano, ma nel giugno 2012 era stato espulso dalla Siria per aver criticato la situazione di violenza e aver invitato le parti alla riconciliazione; dopo l’espulsione, Dall’Oglio era però riuscito a rientrare in Siria in diverse occasioni. Ecco un passo di un recente messaggio dello scrittore italo-siriano Shady Hamadi, pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 17 novembre 2015 e rivolto a padre Dall’Oglio: “Da quando sei sparito per noi, i tuoi allievi, la tua assenza è stato vuoto. Poi, abbiamo realizzato che i tuoi semi, le tue parole, erano in noi. Siamo frutto del tuo amore per il dialogo; del tuo rifiuto dell’ingiustizia e della tua caparbietà nell’arrivare alla meta. (…) Ma come dobbiamo fare a superare questo senso di impotenza che ci invade, ci assedia, quando osserviamo l’ingiustizia compiersi davanti a noi? Come fermare il fiume dell’ignoranza e delle generalizzazioni? Penso che ci avresti detto che la cultura, lo scrivere libri, è l’unico strumento che ci può aiutare a dare profondità alla superficialità che ci è imposta da una tecnologia del ‘tutto e subito’. Ci avresti spronati a continuare a incontrare le persone; a girare in lungo e in largo a parlare con tutti in nome della Siria e dell’umanità che lì si spegne”. Miriam Rossi

erano 9, adesso sono più di 70 e coltivano 30.000 metri quadrati di terra. Un’attività che permette alle loro famiglie di essere autosufficienti”. “Quest’esperienza conclude Dossi - mi ha fatto riflettere e mi ha dato grande speranza per il futuro: le donne africane sono una risorsa immensa, la risorsa più grande che ha questo continente per andare verso pace e sviluppo”.

NEI BALCANI L’ATTENZIONE ALLE MINORANZE Una storia ancora diversa, anche se con lo stesso comun denominatore, è quella diMarco Pipinato che, finite le superiori e prima di studiare Scienze politiche e relazioni internazionali, ha cercato motivazioni concrete. “Così racconta - mi sono trovato catapultato nei Balcani, senza valigia perché persa all’aeroporto di Tirana, senza la minima idea di cosa veramente avrei fatto nell’anno a venire. Ricordo che, prima della partenza per il Kosovo, venivo sommerso da una serie di interrogativi del tipo ‘Ci sono ancora i bombardamenti?’ o ‘Sei pronto a vedere la guerra?’. In realtà erano solo domande frutto della nonconoscenza”. Marco Pipinato è andato in Kosovo con Ipsia, l’Istituto di Pace Sviluppo e Innovazione delle Acli, un’organizzazione non governativa con

CORRADO PONTALTI, PARTIGIANO “PRUA”, RICORDA LA SUA ESPERIENZA

“La guerra si sconfigge con la conoscenza” inché avrò forza, giorno e notte sarò a disposizione di tutti i giovani che hanno voglia di sapere, che desiderano appro- Corrado Pontalti, partigiano “F fondire la storia, incontrare la Resistenza. Perché la guerra - ogni guerra - si sconfigge con la conoscenza”. Corrado Pontalti, 93 anni, è il partigiano “Prua”. Uno degli ultimi partigiani trentini. Che ha vissuto sulla sua pelle il secondo conflitto mondiale, facendo la Resistenza nei boschi e nei paesi della Valsugana. Un’esperienza drammatica che oggi, con entusiasmo ed enorme disponibilità, racconta ai giovani nelle scuole. “Andare in queste classi, vedere così tanti ragazzi che fanno domande e ti guardano con occhi sinceramente curiosi, è sempre un’emozione”, racconta sfogliando le lettere che insegnanti e studenti spesso e volentieri gli inviano per ringraziarlo dopo gli incontri. Che parole userebbe per spiegare come nasce una guerra? Direi che quando nei discorsi, nelle espressioni, non si parla di democrazia, di giustizia e di uguaglianza, allora è il momento di star su con le rece...La Resistenza deve continuare, altrimenti se si abbassa la guardia su questi aspetti si andrà inevitabilmente verso altri totalitarismi. Oggi, secondo lei, cosa minaccia la pace? La minaccia arriva da tutti quelli che non vogliono la democrazia e sono per le dittature. A questi bisogna stare attenti.

“Prua”, ricorda la sua esperienza e sottolinea l’importanza della memoria

Cosa racconta ai giovani quando va nelle scuole a parlare di conflitti e Resistenza? Racconto quello che ho provato e vissuto. Cerco di far capire la paura e la sofferenza che ho avuto quando ho deciso di disertare. Perché se uno disertava, metteva a rischio anche la propria famiglia. È stato un momento duro. Cosa ricorda della sua esperienza da partigiano? È stata un’esperienza breve, ma ho ricordi ancora vivi. Ad esempio, le difficoltà nel procurarci cibo. Oppure le operazioni di sabotaggio. Diciamo che la fine del conflitto è stata un’autentica liberazione. Un ritorno alla vita. Come mai il nome di partigiano Prua? Ero marinaio e ho scelto il nome Prua ispirandomi alla Rivoluzio-

sede anche a Prizren. “A quasi vent’anni dalla guerra - spiega Marco - questo rimane l’unico centro urbano che può vantare una mescolanza etnica tra albanesi e serbi, una pluralità di culture che si intrecciano, un patrimonio storico intatto. Una città accogliente, sicura e viva, dove la maggioranza della popolazione ha un’età inferiore ai 27 anni e questo la rende tutta sbilanciata verso il futuro, dimenticando il passato recente”. Un passato che però non si cancella. Ipsia opera in Kosovo dal 1999 attraverso progetti di sostegno alla ricostruzione post bellica, sviluppo di reti comunitarie, sostegno al lavoro e all’imprenditoria. “Un’attenzione trasversale a tutti gli interventi afferma Pipinato - è quella di coinvolgere le diverse comunità etniche, le donne e i giovani nel processo di sviluppo e integrazione europea del Paese. Per quanto riguarda la mia esperienza diretta, insieme ad altri due colleghi italiani, sono stato inserito all’interno di un progetto di sviluppo agricolo. Il nostro compito era la ricerca di fondi per finanziare il prosieguo del progetto stesso. Un lavoro a cui ero totalmente estraneo, ma che mi ha portato ad acquisire conoscenze che mai avrei appreso in un istituto universitario. Dopo questa esperienza posso dire che il Kosovo è strano: non ha niente di speciale, ma tutto ti colpisce. Ha una storia complicata alle spalle e delle ferite di guerra ancora aperte, difficili da cicatrizzare. Ma ha anche una sorprendente voglia di ripartire, di riprendersi da questo stallo soprattutto grazie alla spinta della nuova generazione”. l

Il partigiano “Prua” a Costabrunella a una commemorazione del battaglione “Gherlenda” nel settembre 2012 ne d’ottobre del 1917, quando venne attaccato il Palazzo d’Inverno sparando dai cannoni di prua dell’incrociatore Aurora. Tornando ai giorni nostri, si sente parlare di conflitti ognigiorno. Quale può essere un antidoto alle guerre? Per evitare la guerra si devono mettere d’accordo i grandi, i potenti. Purtroppo la guerra si fa in tante maniere e per questo dobbiamo cercare di contrastarla con la sola arma che abbiamo: la conoscenza. Bisogna far conoscere alla gioventù quali sono i valori per cui valga la pena vivere. Bisogna dire loro che uguaglianza e giustizia sono valori da difendere. Sempre. Chi è, a suo avviso, “partigiano” al giorno d’oggi? Chi non si lascia convincere dal pensiero comune e si batte per i valori che possono far sperare in una vita migliore. Jacopo Tomasi



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