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Il mio lockdown

Tutto è iniziato mentre mi trovavo in Val Ridanna per qualche giorno di vacanza con la mia famiglia. I notiziari parlavano di una possibile chiusura delle scuole a causa di un nuovo virus, il Covid19. Di colpo, quello che sembrava essere un problema tutto cinese, lontanissimo da noi, è diventato purtroppo realtà.

Inizialmente non trovavo motivo per preoccuparmi dato che, per noi studenti, la chiusura temporanea delle scuole rappresentava al massimo un prolungamento delle vacanze di Carnevale e nessuno immaginava che la cosa si sarebbe protratta fino alla fine dell’anno scolastico. Terminati gli ultimi giorni di svago, tutti noi studenti siamo rientrati a scuola ma per pochissimi giorni. Troppo poco, pensavo allora.

A distanza di pochi giorni, l’aumento considerevole dei contagi e dei ricoveri nelle terapie intensive di gran parte del nord Italia, ha indotto il governo a proclamare lo stato di emergenza e ad ordinare la chiusura di tutte le attività e quindi anche della scuola. Le uniche eccezioni sono state per i settori fondamentali come ad esempio i trasporti, la produzione e vendita di alimentari, di medicinali ecc.. Tutti siamo stati costretti a rimanere in casa, limitando il più possibile i contatti e la vita sociale al di fuori del nucleo familiare.

Per me è stata veramente dura rinunciare ad incontrare parenti ed amici, seguire le lezioni a distanza, trovarsi a casa i genitori nervosi perché obbligati all’isolamento. A Pasqua, poi, a casa mia ci troviamo sempre per il pranzo con tutti gli zii, nonni e cugini, ma quest’anno ci siamo dovuti fare gli auguri via Skype. È stato strano dover affrontare queste nuove situazioni anche se qualcuno ha detto che i nostri nonni sono dovuti andare in guerra al freddo e senza mezzi, mentre noi, la nostra “guerra” l’abbiamo combattuta comodamente seduti sul divano. Non tutto il male però è venuto per nuo- cere: qualcuno come me ha avuto molto tempo da dedicare ai lavori in campagna, in condizioni quasi irreali, con i vicini di campo che ti parlano da lontano tanto per dirsi qualcosa, anche solo barzellette o le solite previsioni meteo. Sembrava che tutto potesse essere un pretesto per dirsi qualcosa, anche se di sciocco e urlato a distanza. Lavorare in campagna è stato bello e gratificante, il tempo è sempre stato bello ma, ripensandoci ora, forse avrei fatto meglio ad impiegare diversamente il mio tempo: avrei infatti potuto studiare di più. Il fatto è che non mi sembrava vero di avere tanto tempo libero ed ho finito per gestirlo male: videolezioni, dispense riguardanti argomenti non ancora affrontati in classe, l’assegnazione di compiti di difficile comprensione, connessioni scadenti, tutto era un pretesto per annoiarsi, distrarsi e pensare ad altro. Per me la didattica a distanza non è paragonabile alle lezioni in classe e la mia attenzione è andata sempre più calando. Non pensavo di doverlo ammettere, ma è stato difficile non poter finire l’anno scolastico in classe. In generale, come credo per la gran parte delle persone, per me è stata dura, ma il lockdown andava fatto per il bene di tutti, soprattutto per quella parte della nostra comunità che ci sembra forte, saggia e orgogliosa, ma che, in questa occasione, si è rivelata la più fragile ed esposta al rischio. Lo abbiamo fatto per i nostri anziani, che sono quelli che hanno costruito il nostro benessere con il loro duro lavoro negli anni in cui, per realizzare qualcosa, bisognava lavorare duro. Sono quelli che hanno costruito dal nulla le nostre stalle, hanno piantato vigne e meleti, hanno fondato le nostre cooperative agricole, caseifici e magazzini frutta, lasciandoci un patrimonio di beni e di conoscenze di cui oggi possiamo godere. Sono loro che abbiamo protetto con il lockdown e se la situazione dovesse precipitare di nuovo, lo rifaremo.

FILIPPO STANCHER Studente

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