monografia
Guardare lontano Architetture rivelate
10 2011
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TAO n.10/2011 www.taomag.it ISSN 2038-0860 DIRETTORE RESPONSABILE
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Riccardo Bedrone
Riccardo Bedrone, presidente Maria Rosa Cena, vicepresidente Giorgio Giani, segretario Felice De Luca, tesoriere
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Graydon Carter, editore Matteo Pericoli Periodico di informazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torino Registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51 del 9 ottobre 2009 Iscritto al ROC con il n. 20341 del 2010 Le informazioni e gli articoli contenuti in TAO riflettono esclusivamente le opinioni, i giudizi e le elaborazioni degli autori e non impegnano la redazione di TAO né l’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Torino né la Fondazione OAT Tiratura 3.000 copie
Marcello Cini Mario Cucinella Philippe Potié Cyrille Simonnet
CONSIGLIERI
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ART DIRECTOR
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CONSIGLIERI
Riccardo Bedrone Mario Carducci Giancarlo Faletti Emilia Garda Ivano Pomero DIRETTORE FONDAZIONE OAT
Eleonora Gerbotto
TAO 10 – INDICE 2 4 5
8 15 20 22 24 26 34 36
Contributors Redazionale Troppi architetti: studente avvisato… EDITORIALE DI RICCARDO BEDRONE Le difficili condizioni degli architetti più giovani LUCA DAVICO Il mercato professionale: criticità e proposte CRISTIANA CABODI I giovani architetti tra il dire e il fare MARTA SANTOLIN e LAURA MILAN Dal progetto una spinta per uscire dalla stagnazione GIUSEPPE ROMA I giovani architetti, la trasformazione, la crisi ANTONIO MURA Dalla finestra MATTEO PERICOLI Se il titolo di studio è carta straccia ANNA MARIA POGGI Architetti alla finestra FRANCESCO PROFUMO con contributi di PATRIZIA LOMBARDI e MARCO TRISCIUOGLIO
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Ripensare la formazione in tempo di crisi ROCCO CURTO I laureati alla prova del lavoro ANDREA CAMMELLI Giovani + pianificatori = qualità del territorio ROBERTO ALBANO
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Roundabout
38 40
CONTRIBUTORS
ROBERTO ALBANO
ROCCO CURTO
ANTONIO MURA
CRISTIANA CABODI
LUCA DAVICO
MATTEO PERICOLI
ANDREA CAMMELLI
LAURA MILAN
ANNA MARIA POGGI
29 anni, torinese. Laureato nel 2006 presso la Facoltà di Architettura di Torino, consegue il dottorato di ricerca in Pianificazione territoriale e sviluppo locale nel 2011. È collaboratore alla didattica per il corso di Progettazione urbanistica e svolge attività di ricerca presso la Fondazione Fitzcarraldo. Svolge la libera professione; è appassionato di fotografia: tra i suoi recenti lavori, le fotografie per la mostra L’eredità del Moderno, 2010. È consigliere OAT e coordinatore del Focus Group Professione Creativa.
Laureata in Architettura, dottore di ricerca in Pianificazione territoriale e Mercato immobiliare. Ha preso parte a numerose ricerche, nazionali e internazionali. Ha svolto attività didattica presso la II Facoltà di Architettura per i corsi di Sviluppo locale e Analisi delle risorse territoriali. Ha fondato nel 2010 Officina Territorio con Alberta De Luca e Alessia Toldo. Si occupa, in particolare, di piani e strumenti per lo sviluppo del territorio, nodi infrastrutturali e logistica, riqualificazione e rigenerazione urbana. È fra i promotori del network 4t.
È dal 1980 professore di Statistica sociale presso l’Università di Bologna, direttore del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea e direttore dell’Osservatorio statistico dell’Università di Bologna. Ha svolto la propria attività di ricerca dedicandosi particolarmente all’analisi di lungo periodo dei processi formativi. Ha fatto parte della Commissione per le rilevazioni statistiche presso l’Unesco a Parigi, ed è stato membro delle Commissioni Diritto allo studio e Rapporti internazionali del Ministero dell’Università.
Preside della II Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, docente di Estimo presso il Dipartimento Casa Città. Ha partecipato a numerosi progetti di ricerca tra cui la redazione del master plan del progetto Città della salute e della scienza di Torino per il quale ha fornito il supporto scientifico. Il 15 Dicembre 2009 è stato eletto presidente della Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Architettura per il biennio 2010-2011.
Sociologo, ricercatore al Politecnico di Torino, dove insegna dal 1994 Sociologia dell’ambiente e Sociologia urbana. Autore di numerose indagini e sondaggi sui temi: città e funzioni metropolitane, trasformazioni urbane, sviluppo sostenibile, sistemi dell’istruzione e del welfare, eventi e turismo. Consulente negli anni per numerosi istituti di ricerca, enti locali, dipartimenti e centri universitari, agenzie di sviluppo locale, ASL. Coordina il Rapporto annuale su Torino del Comitato Giorgio Rota dalla prima edizione. È fra i promotori del network 4t.
Architetto, dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica (Politecnico di Torino). Libero professionista, è redattore del mensile Il Giornale dell’architettura e svolge attività di ricerca e divulgazione dell’architettura. Ha partecipato alla cura scientifica della mostra Carlo Mollino Architetto (Archivio di Stato di Torino, 2006) e collaborato alla mostra Carlo Mollino. Maniera moderna (Haus der Kunst, Monaco di Baviera, fino all’8 gennaio 2012), in qualità di assistant curator dell’archivio di Carlo Mollino e research assistant.
Laureato in Fisica teorica con lode all’Università di Bologna, dopo un master in Matematica finanziaria ed Econometria, ha frequentato il dottorato in Fisica matematica. È autore di diversi contributi nel campo dell’analisi stocastica, dell’econometria e della fisica statistica. Dal 2004 tiene corsi di Statistica computazionale all’Università di Bologna. Ha collaborato con società come Prometeia e dal 2007 è entrato in Cresme Ricerche S.p.A. come ricercatore senior ed è responsabile del settore professioni e lavoro.
Laureato al Politecnico di Milano, nel ’95 si è trasferito a New York dove ha lavorato come architetto, illustratore, giornalista, insegnante. I suoi disegni sono stati pubblicati tra gli altri su The New York Times, The New Yorker, The Observer e collabora regolarmente con La Stampa, Gardenia e Bell’Italia. Attualmente vive a Torino, dove insegna Architettura alla scuola Holden. È stato recentemente pubblicato il suo London Unfurled, un libro con due disegni di quasi 12 metri ciascuno dei profili di Londra visti dal Tamigi.
Laureata in Giurisprudenza presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Torino, è professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso la medesima università, dove insegna dal 1992. Dal 2003 al 2009 è stata preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli studi di Torino; dal 2007 è vice rettore con delega ai rapporti istituzionali e con gli enti territoriali. Dal 2009 è presidente della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo.
FRANCESCO PROFUMO
Ingegnere, ha iniziato la carriera nel 1978 nella Ricerca e Sviluppo in Ansaldo a Genova; nel 1995 diviene professore ordinario di Macchine ed azionamenti elettrici presso il Politecnico di Torino. Dal 2003 al 2005 assume la carica di preside della Prima Facoltà di Ingegneria nello stesso Ateneo e dal 1° ottobre 2005 assume la carica di rettore. Il 12 aprile 2011 è stato nominato membro del Consiglio di Amministrazione di Telecom Italia e dal 13 agosto 2011 è presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
GIUSEPPE ROMA
Laureato in architettura e specializzato in Pianificazione territoriale applicata alle aree metropolitane, ha conseguito un master in Economia regionale. Consulente professionale dal 1975, dal 1981 è ricercatore presso il Censis, di cui è direttore generale dal 1993. Docente di Gestione urbana alla facoltà d’architettura di Roma Tre dal 1998, ha inoltre tenuto corsi per la Columbia University di New York ed è stato visiting fellow presso il Politecnico di Delft (Olanda). È direttore del periodico Censis – Note e commenti.
MARTA BARBARA SANTOLIN
Architetto, libero professionista. Dal 2001 si occupa di valorizzazione di Beni culturali per la Regione Piemonte, nell’ambito del progetto La Venaria Reale e Residenze Sabaude. Svolge attività professionale in prevalenza legata a interventi di restauro, per committenze pubbliche e private. Dal 2006 è presidente dell’Associazione Giovani Architetti del Canavese ed è consigliere in carica per l’Ordine degli Architetti della Provincia di Torino.
REDAZIONALE
Negli ultimi venti anni le facoltà di architettura hanno subito cambiamenti radicali che hanno visto moltiplicare le loro sedi, aumentare vertiginosamente il numero di laureati – fintanto che non è stato introdotto uno sbarramento – e di conseguenza gli iscritti agli ordini professionali. Tutto ciò in assenza di prospettive di lavoro. In un periodo di profonda crisi, come questo che stiamo attraversando, di tutto si sente il bisogno tranne che di architetti, che appartengono a una di quelle categorie che non possono neppure scioperare per far valere i loro diritti. Ve l’immaginate i 6.800 iscritti all’Ordine provinciale di Torino che incrociano le braccia manifestando in centro città? Quale disagio comporterebbero alla società? Farebbero forse innervosire solo i loro clienti per i probabili ritardi nella consegna dei progetti (sempre che ne abbiano). E chi ha notizie di Daria Cini, il presidente dell’Ordine di Aosta che si è da poco dimessa per protestare contro i ribassi dell’85% chiesti dalla pubblica amministrazione? Ha avuto proseliti? Eppure, nonostante la sofferenza per una certa immobilità della situazione formativa e professionale, che riguarda soprattutto chi ha scelto l’architettura come percorso di studio e come attività lavorativa, il mestiere conserva ancora fascino e attrattiva e scopre nuovi campi di interesse e di applicazione, impensabili fino a pochi anni fa. Oltre che verso i più tradizionali settori della progettazione nell’edilizia pubblica o privata di nuova realizzazione o di riqualificazione, nella pianificazione, nell’interior design, nel restauro, nell’architettura del paesaggio, i professionisti orientano i loro interessi su altri settori quali il disegno industriale, la grafica su carta e web. Particolare attenzione è ora riservata anche al tema ampio della sostenibilità, a dimostrazione della capacità di cogliere l’urgenza del cambiamento imposto dai nuovi bisogni della nostra epoca. Che cosa manca allora agli architetti per esercitare dignitosamente la professione?
Il network 4T ha condotto per l’Ordine di Torino un’indagine sui giovani iscritti under 40 e l’interpretazione dei dati di Luca Davico e Cristiana Cabodi è stata completata dal focus group OAT ‘Professione Creativa’ con i contributi di Roberto Albano, Marta Santolin e Laura Milan, nonché dalle riflessioni di esperti della formazione e del mercato: Francesco Profumo per il Politecnico, Rocco Curto presidente della Conferenza dei presidi delle facoltà di architettura, Anna Maria Poggi per la Fondazione scuola della Compagnia di San Paolo, Giuseppe Roma per il Cresme, Antonio Mura per il Censis e Andrea Cammelli per AlmaLaurea. Il campione significativo di under 40 ha risposto in merito ai guadagni, alla soddisfazione personale, al valore del percorso di studi. Ne è emerso un quadro di incertezza per un futuro che non sembra promettere nulla di buono. Scarseggiano, per gli architetti di ogni età, gli incarichi sia dal pubblico che dal privato, i ribassi e gli sconti imposti sono umilianti, e i concorsi di progettazione – significativi soprattutto per i più giovani per misurarsi con il progetto e avere occasione di esprimere qualità – sono rarissimi. In attesa della tanto agognata riforma delle professioni – l’ordinamento degli architetti ha 88 anni – si fa un gran parlare di giovani e della necessità di valorizzarli e di riservare loro un futuro professionale; eppure, mentre, grazie ai loro versamenti contributivi, la cassa di previdenza pagherà certamente gli architetti prossimi alla pensione, nulla può essere garantito per la loro vecchiaia. Questo numero monografico, arricchito dalle finestre di Matteo Pericoli, si intitola Guardare lontano e desidera essere di buon auspicio per i giovani architetti, perché le loro prospettive non siano bloccate e le loro speranze disattese, perché non rinuncino alla formazione continua, perché abbiano accesso al credito per iniziare e per far progredire la loro attività, perché sappiano affrontare la crisi unendo le forze e non isolandosi.
Troppi architetti: studente avvisato… Editoriale di Riccardo Bedrone
Anni di riforme, di sperimentazioni, di tentativi parziali, spesso frettolosi, non sono serviti a dare un assetto definitivo e coerente all’università italiana. Certo, non si può generalizzare: molte facoltà probabilmente funzionano bene. Ma le professioni tecniche sembrano invece tanto, troppo sofferenti. Ci sono stati, di partenza, due errori concettuali. Il primo, di concedere maggior autonomia agli atenei, un onorevole proposito che si è scontrato con insane ambizioni accademiche e localismi fuori da ogni seria programmazione. Il secondo, di credere che lo sviluppo socio-economico si misuri dal numero dei laureati e non dalla loro qualità, unitamente ad un dimensionamento opportunamente relazionato a sbocchi professionali reali e misurati. Ora, i rimedi escogitati dal Governo, insieme con i tagli previsti dalle manovre finanziarie, si sono rivelati peggiori del male. Perché ci si è limitati a bloccare il flusso delle risorse dello Stato verso l’università, con il risultato di ridurre la spesa pubblica senza intervenire sui presupposti del modello formativo. E se questo significherà la scomparsa di facoltà e corsi di laurea improvvisati, con bilanci in rosso, disseminati in tutta Italia senza discernimento e con pochissimi studenti iscritti, poco male. Il vero danno lo avranno gli atenei seri, prestigiosi, effettivi creatori di cervelli capaci di misurarsi con un mercato esigente e spietato. Solo l’Italia si trova infatti a disporre di quasi 150.000 architetti, 220.000 ingegneri (di cui oltre la metà civili-ambientali) e 120.000 geometri: una densità di ‘tecnici’ (cui vanno aggiunti periti civili ed edili, geologi, agronomi) che non ha eguali in nessun Paese. E continuano a crescere senza sosta, pur con un rallentamento avvertito da soli due anni. Certo, è un male comune a molte altre professioni: basta pensare all’esuberanza di avvocati (oltre 230.000 in Italia) o di medici, per comprendere come il nostro difetto nazionale sia di non guardare ai bisogni o alle opportunità, preferendo improvvisare.
Ma è un difetto che costa troppo, intanto alla società. A che serve infatti sprecare risorse per creare figure tecnico-professionali in eccedenza e in conflitto acerrimo tra loro, per disputarsi briciole di un mercato della progettazione che si affida sempre più a studiimpresa ingigantiti e spesso provenienti dall’estero? E quante illusioni si creano – e quanti risparmi familiari si bruciano – tra coloro che, dopo aver studiato 3-5 anni per imparare a progettare, senza che nessuno li abbia sconsigliati dall’insistere su questo sogno, si ritrovano a occuparsi di pratiche edilizie, visure catastali o certificazioni energetiche? Attività, queste, che non consentono, se non in pochissimi casi, di tirare avanti decentemente e, che, soprattutto, non richiedono certo una formazione universitaria o l’appartenenza ad un ordine professionale per essere esercitate. Ed ecco aggiungersi un altro errore. Introdurre il mai troppo deprecato 3 + 2 come rimedio alla suppostamente bassa percentuale di laureati quinquennali. Far diventare ‘mezzi architetti’ coloro che non ce la facevano a giungere alla fine degli studi tradizionali. Un costo enorme per la collettività, necessario ad approntare piani di studio dedicati alle lauree brevi, in termini di aule, corsi, docenti, attrezzature, collaborazioni, e tanto altro. E il risultato è ridicolo. Negli albi professionali degli architetti i laureati iunior – a dieci anni dalla loro comparsa – sono spesso inferiori all’1% degli iscritti (a Torino 69 su 6.834, in Italia meno di 2.000). Perché quasi nessuno, capita l’antifona, si è voluto accontentare di un diploma sottovalutato e addirittura non riconosciuto all’estero. A complicare le cose, la dissennatezza di un legislatore (anzi, di tanti succedutisi nel tempo) che ha lasciato insoluta la questione delle competenze, senza tracciare confini e definire attribuzioni coerenti con i percorsi formativi della varie figure tecniche che si confrontano nei settori della progettazione. Forse, anche se obtorto collo, questa poteva diventare l’occasione per razionalizzare la formazione degli architetti, partendo
da buone pratiche locali di risparmio e di revisione degli ordinamenti didattici. Ma non pare proprio che sia avvenuto così, in tutta Italia. Il Politecnico di Torino ha dato il buon esempio, partendo dalla constatazione che ci sono corsi di laurea deficitari di iscritti e risorse e corsi di laurea in rosso (certo, non con l’estensione e la drammaticità di tante altre sedi universitarie italiane). Ma in realtà le due facoltà di Architettura torinesi si sono mutate in due Dipartimenti, sperando che il cambiamento non sia solo terminologico. E le matricole ammesse ad entrare sono ancora 630 e in Italia 8.760 (l’anno scorso erano rispettivamente 700 e 9.140), contro ogni ragionevole speranza di assorbimento del mercato. Con una ulteriore contraddizione: mentre sono iniziati ‘piani di rientro’ dal 3 + 2, si sono moltiplicate le ‘specializzazioni improprie’ del biennio magistrale. Ma a cosa serviranno tanti corsi di laurea (per non parlare delle troppe sedi…) che, al di là delle denominazioni (per la sostenibilità, per il progetto, per il patrimonio, …) daranno a tutti lo stesso titolo di architetto? E cosa faranno quei laureati specialistici che, per affrontare una preparazione più mirata nei campi di specifico approfondimento, dovranno rinunciare al completamento di quella formazione ‘generalista’ ma tuttora necessaria per prepararsi alla vera e utile specializzazione post lauream, ovvero al terzo livello formativo? Spesso le facoltà di architettura non hanno ritenuto utile neppure coinvolgere, nelle decisioni sulla modifica dei piani di studio, gli Ordini professionali, cui competerebbe per legge il loro esame, attraverso una specifica consultazione volta ad ottenerne il parere, indicativo ma certo non vincolante. Ma allora è inutile parlare di collaborazione tra formatori e esperti del mercato! Su tutto incombe la conseguenza di un mancato ricambio generazionale dei docenti, mediamente vecchi oltre ogni limite accettabile e senza la disponibilità di coloro (i ricercatori) che una dissennata politica di contenimento delle assunzioni (e quindi
dei concorsi) ha impedito di promuovere. In più, il decreto Brunetta, disinvoltamente usato dalle amministrazioni dello Stato e dell’università, ha falcidiato i docenti con maggior anzianità contributiva (ma non certo d’età, visto che molti hanno meno dei fatidici 65 anni). E sono i più esperti e preparati. Forse l’unica conseguenza buona sarà che il taglio delle risorse comporterà l’abolizione dell’incarico esterno a professionisti spesso poco qualificati o improvvisati, che si sono adattati a insegnare a costo zero (per la gratificazione di farsi chiamare professori). E adesso? Di fronte alle grida di allarme che con meritevole frequenza sono state lanciate negli ultimi anni dal Consiglio nazionale degli Architetti, dal Cresme e spesso – con un impegno finanziario gravoso – dagli stessi ordini professionali1, con numerose e approfondite ricerche di mercato, si comincerà finalmente a pensare seriamente a dimensionare l’offerta formativa non sulla base di accademiche manie di incerta grandezza, ma sulla valutazione delle risorse umane (i docenti effettivi) e materiali (aule, laboratori, mezzi finanziari per attività didattiche) realmente disponibili? E, soprattutto, guardando ai preoccupanti avvertimenti che il mercato lancia agli aspiranti architetti? Perché questo è il senso della ricerca voluta e lanciata lo scorso anno dall’Ordine di Torino e di cui qui si rende conto. Per cercare di capire le ragioni della costante attrazione, presso i giovani, di una laurea in architettura (e derivati) e metterle a confronto con il soddisfacimento materiale che procura a chi l’ha conseguita. E quindi, visti i risultati, per non alimentare false speranze, almeno a breve termine, come invece non si peritano di fare quei tanti giornali che riportano improbabili statistiche sul facile inserimento nel mercato dei giovani architetti. L’anno scorso una testata nazionale riportò addirittura il dato del 90% di inserimento stabile dei neolaureati, dimenticando di precisare che il prendere la partita IVA, per un architetto, è quasi un obbligo, ma ciò comporta solo l’appartenenza alla categoria dei
lavoratori autonomi, non il conseguimento di un reddito certo, continuativo e soddisfacente. Come si vedrà, emerge innanzitutto lo squilibrio reddituale tra giovani e meno giovani e tra maschi e femmine, costantemente peggiorato dall’inasprimento delle condizioni del mercato del lavoro negli ultimi anni. Una iniquità generazionale e di genere, conseguente ad un sistema che non investe sul suo capitale umano e non può quindi pretendere di crescere e confrontarsi con le sfide di un futuro sempre più complesso e competitivo. Ma ciò significa anche, per gli architetti, che non si può più spostare alla laurea il momento di una scelta e di un salto di scala. I giovani, per non restare eternamente insoddisfatti, una volta accettato di fare l’architetto e resi consapevoli di ciò che li attende, oggi devono darsi una strategia operativa. Come dice il Cresme, “… scegliere la strada da percorrere sulla base di una nuova segmentazione…: il mercato tradizionale, che pur riducendosi continuerà ad esistere; il mercato low-cost, che deve soddisfare una fascia di domanda sempre più ampia; il mercato estero, dominato dall’avvento delle economie emergenti; e proprio il mercato dell’innovazione, nei nuovi materiali, nei nuovi modelli di integrazione tra impianti e edificio e della filiera delle costruzioni…”.
È utile, per fare di questo numero della rivista un riferimento – per i giovani che si apprestano a diventare architetti e per coloro che dovrebbero indirizzarli o formarli – segnalare anche gli altri studi che possono opportunamente allargare l’orizzonte delle conoscenze e che in questi anni, con poche variazioni, hanno evidenziato gioie e dolori del ‘secondo mestiere più vecchio del mondo’. A livello nazionale, B. Loera, Gli italiani e l’architettura, L’Architetto nn. 169-170, 2003; CNAPPC-CRESME, Il mercato della progettazione architettonica in Italia, Il Sole 24 Ore, 2008; M. Fornari, C. Pascucci, Il profilo e gli scenari della professione di architetto, Prospettive edizioni, 2010; CNAPPCCRESME, Lo stato della professione dell’architetto in Italia, 2011. A livello locale D. Rei, L. Davico, Indagine sulla professione di architetto negli anni novanta: primo rapporto di ricerca, Ordine degli Architetti di Torino, 1994; L. Davico, Verso la professione. Giovani architetti tra laurea e mercato del lavoro, Quaderni DINSE n.16, 1997.
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Le difficili condizioni degli architetti più giovani Il campione della ricerca condotta sugli iscritti under 40 all’Ordine di Torino: le attività svolte, il grado di soddisfazione e il reddito Luca Davico
Per capire le dinamiche professionali che caratterizzano oggi gli architetti under 40, nella primavera del 2011 è stata realizzata un’indagine tramite interviste telefoniche a un campione statisticamente rappresentativo di 374 iscritti all’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della provincia di Torino. La ricerca, in collaborazione con 4T – Think Tank Torino Territori e cofinanziata dalla Compagnia di San Paolo, è stata realizzata da un gruppo di ricerca composto – oltre che dal sottoscritto – da Cristiana Cabodi, Silvia Crivello, Alberta de Luca, Alessia Toldo, Francesco Tamburello e Roberta Novascone. Gli architetti indagati sono ancora giovani, attivi sul mercato professionale dai cinque ai quindici anni, prevalentemente autonomi: in oltre un terzo dei casi titolari o contitolari di uno studio professionale, in molti altri casi liberi professionisti consulenti o collaboratori. Quasi un terzo degli architetti intervistati lavora invece come dipendente, soprattutto in studi professionali, ma anche presso aziende, enti pubblici, scuole. Confrontando questi dati con quelli di un’indagine svolta
svolge una professione unica; meno del 10% ha anche una seconda attività, ad esempio dipendente in uno studio con consulenze saltuarie per altri studi. Quasi quattro su cinque posseggono la partita IVA, il 14,5% lavora come dipendente con contratto a tempo indeterminato, mentre le diverse posizioni atipiche e precarie interessano il 5,6% dei giovani architetti. Nei primi anni successivi alla laurea il numero di partite Iva aumenta, per poi ridimensionarsi tra gli architetti con oltre dieci anni di anzianità professionale. Presumibilmente molti aprono la partita IVA per poter fatturare a propri clienti e agli studi con cui collaborano, poi un certo numero di loro viene assunto e quindi la chiude. Quasi nove giovani architetti su dieci lavorano attualmente con un impegno a tempo pieno, ossia mediamente per più di 30 ore settimanali. Oltre un terzo ha un carico di lavoro decisamente più gravoso, superiore a 45 ore settimanali, condizione che riguarda più i maschi delle femmine (24,3%). Tra i diversi settori di impegno professioFigura 1 nale, l’edilizia residenziale prevale nettaLa gran maggioranza dei giovani architetti mente: vi lavora il 38,5% degli intervistati.
dall’Ordine una quindicina di anni fa, risultano in sensibile aumento (dal 22% al 35%) i titolari di studi, stabili i consulenti e i dipendenti, in netto calo gli insegnanti (dal 7% a poco più dell’attuale 1%). Tra gli architetti maschi la propensione al lavoro autonomo si mantiene più marcata che tra le femmine, le quali in maggioranza lavorano alle dipendenze. Anche l’anzianità di laurea incide sulla posizione professionale: la maggior parte degli architetti laureati da meno di sei anni (37,5%) svolge un lavoro dipendente o collabora con uno studio e solo il 31,6% è titolare/contitolare di uno studio (cifra che sale al 78,3% tra i laureati da oltre dieci anni). Si rileva anche una certa ‘ereditarietà’ professionale: i giovani titolari di studio sono infatti particolarmente numerosi tra coloro che hanno un padre che svolge (o svolgeva) questa stessa professione. In termini più generali, provenire dalla famiglia di un libero professionista o di un lavoratore autonomo invoglia maggiormente i giovani architetti a intraprendere una carriera autonoma.
Guardare lontano — 9
Altri settori di un certo rilievo sono quelli delle ristrutturazioni e manutenzioni straordinarie (11,8%) e dell’edilizia pubblica (11,8%). È interessante rilevare come per i giovani architetti il mercato sia rimasto pressoché invariato: rispetto a quanto emerso dall’indagine svolta dall’Ordine quindici anni fa, per quasi tutti i settori si registra oggi un’analoga quota di coinvolgimento professionale; fanno eccezione unicamente i progetti di edilizia pubblica (cresciuti dal 6% all’11,8%), i progetti di edifici produttivi (dal 4% all’8%) e la grafica computerizzata, che all’epoca (essendo una specializzazione quasi esclusivamente giovanile) impegnava l’11% degli architetti under 40, contro l’attuale 3,2%. A proposito dei settori prevalenti di lavoro, non emergono particolari differenze tra architetti di sesso maschile e femminile, mentre chi lavora a Torino città risulta impegnato più della media nel campo dell’edilizia pubblica e meno in progetti di edilizia residenziale, nella progettazione di elementi d’arredo e nelle direzioni lavori. Il 55% dei giovani architetti opera in un solo settore professionale, il 45% in più settori (soprattutto i maschi). Il crescere
dell’anzianità professionale si accompagna a una progressiva specializzazione: tra i laureati da meno di sei anni solo il 46,4% opera in un settore unico, contro il 55,3% dei laureati da 6 a 10 anni e il 62,2% dei laureati da oltre un decennio. La maggior parte dei giovani architetti (38,2%) lavora per singoli privati o per nuclei familiari; altri committenti rilevanti sono gli studi professionali (18,2%) e le pubbliche amministrazioni (15,8%). Il 56,1% dei giovani architetti lavora in modo esclusivo per un solo tipo di clientela, il 38,8% per due tipologie di clienti, il 5,1% per tre tipologie. Tabella
A proposito dei contenuti del proprio lavoro, la stragrande maggioranza (82,2%) dei giovani professionisti si dice sufficientemente soddisfatta, circa la metà si esprime in termini nettamente positivi. Valutazioni un po’ più critiche vengono espresse a proposito dei rapporti con i clienti (solo un terzo dei giovani architetti li reputa decisamente positivi), preferendo in genere lavorare per imprese edili e immobiliari, mentre gli studi professionali di altri architetti sono ritenuti i clienti peggiori.
Ma le criticità maggiori emergono a proposito del reddito: il 48,5% dei giovani architetti lo reputa insufficiente, il 26,3% appena sufficiente, solo il 7,1% pensa che sia pienamente soddisfacente. I livelli di soddisfazione crescono con il crescere dell’anzianità professionale e, quindi, con la progressiva stabilizzazione della propria condizione. Chi ha redditi bassi risulta mediamente molto più critico anche riguardo ai contenuti del proprio lavoro e ai rapporti con la clientela. In questi casi, dunque, i diversi fattori di malcontento si stratificano, generando un’insoddisfazione diffusa, che si esplicita contemporaneamente su più fronti dell’attività professionale. Ciò nonostante, un’ampia quota – pari a circa due terzi – dei giovani architetti non cambierebbe la propria condizione professionale. Del restante terzo, il 12,3% vorrebbe passare da un lavoro autonomo a uno dipendente, l’11,8% – all’opposto – vorrebbe aprire un proprio studio, transitando da lavoratore dipendente ad autonomo. Il malcontento di molti giovani architetti per i propri livelli di reddito risulta comprensibile, se si pensa che oltre il 60% di essi guadagna oggi meno di 1.500 euro
10 — Figura 1 Posizione professionale prevalente dei giovani architetti trentenni iscritti all’OAT, per posizione professionale del padre. Infografica: Lorem | Fonte: indagine OAT
con padre architetto con padre libero professionista con padre lavoratore autonomo con padre dirigente / manager con padre lavoratore dipendente
53% 47% 37% 32% 33%
Titolare di studio
21% 31% 31% 22% 27%
Libero professionista
21% 13% 14% 24% 19%
Dipendente di studio
0%
7%
6%
7%
6%
Dipendente di azienda
5%
2%
12% 15% 15%
Dipendente pubblico
Guardare lontano — 11 Figura 2 Fasce di reddito medio mensile netto dei giovani architetti trentenni iscritti all’OAT, per posizione professionale. Infografica: Lorem | Fonte: indagine OAT
Titolare di uno studio con un dipendente/collaboratore/consulente Titolare di uno studio singolo Contitolare di uno studio Libero professionista consulente Collaboratore Dipendente Collaboratore stabile in uno studio
15% 23% 20% 26% 31%
25% 32% 40% 52% 43%
20% 26% 23% 12% 21%
fino a 1.000 euro
1.001−1.500 euro
1.501−2.000 euro
15% 11%
6%
5%
2.001−2.500 euro
5%
25%
8%
11%
5%
oltre 2.500 euro
0%
12 —
mensili, il 20% addirittura meno di 1.000; solo il 7,5% del campione dichiara un reddito superiore ai 2.500 euro al mese. Tra i giovani architetti maschi si rilevano livelli di reddito mediamente superiori rispetto alle colleghe: tra le giovani architette, quasi nessuna (1,3%) supera i 2.500 euro mensili, mentre il 73,1% guadagna meno di 1.500 euro al mese. Tra i giovani architetti over 35 e con anzianità professionale superiore a dieci anni il reddito risulta mediamente più elevato, mentre tra i più giovani ben il 25,5% percepisce meno di 1.000 euro al mese. I livelli di retribuzione maggiori (in particolare superiori a 2.000 euro mensili) interessano soprattutto i titolari di studio; consulenti, dipendenti e collaboratori di studi, invece, sono particolarmente presenti nelle fasce di reddito più basse. Figura 2
Guadagnano meglio i giovani architetti impegnati principalmente nella progettazione di edifici produttivi, in direzioni lavori e nel restauro di monumenti; i clienti più redditizi risultano imprese edili, pubbliche amministrazioni e industrie. Al contrario, non vanno oltre livelli di reddito modesti
coloro che si occupano di ristrutturazioni, manutenzioni straordinarie, progetti di edilizia residenziale e che lavorano per privati, famiglie e, soprattutto, per altri studi professionali. È confortante rilevare come vi sia una certa relazione tra qualità professionale e livelli di reddito. In particolare, i giovani architetti che hanno ricevuto premi o vinto concorsi (pari al 19%) guadagnano mediamente più di chi non ha mai avuto tali riconoscimenti; tra i pluripremiati, i livelli elevati di reddito risultano decisamente superiori alla media. Va tenuto conto che la relazione tra reddito e premi non risulta legata all’anzianità di carriera (essendo quest’ultima indipendente dall’aver ricevuto premi) né dalla posizione professionale (i titolari di studio hanno infatti ricevuto premi più o meno nella stessa misura di liberi professionisti, consulenti e collaboratori). Considerati i livelli di reddito mediamente piuttosto bassi dei giovani architetti, non deve stupire il fatto che oltre il 40% dichiari di riuscire a fatica a far quadrare il proprio bilancio, nonostante molti possano integrare il reddito con quello del partner e/o aiuti dei genitori. Oltre un terzo dei giovani
architetti è quindi costretto a prelevare dai risparmi o a contrarre debiti. Ovviamente, sussiste una relazione moto forte tra livelli di reddito e capacità di risparmio: tra chi guadagna meno di 1.000 euro al mese solo il 5% riesce a risparmiare qualcosa, contro il 58,5% di chi ha un reddito superiore ai 2.000 euro medi mensili. Tirando le somme, per i giovani architetti il problema oggi non è la disoccupazione – che riguarda solo lo 0,5% degli intervistati – bensì le condizioni di estrema precarietà che, specie nei primi anni di carriera, gravano in particolare su chi opera presso studi professionali altrui. Dopo qualche anno parecchi aprono una partita IVA, un po’ per propria iniziativa (perché cominciano ad avere qualche cliente) un po’ su richiesta dello studio con cui collaborano. Così, molti diventano un ‘ibrido’, a metà strada tra un libero professionista e un dipendente, finendo spesso per patire gli svantaggi dell’una e dell’altra categoria: la precaria incertezza che caratterizza strutturalmente ogni lavoratore autonomo e la scarsa autonomia dei dipendenti nel poter gestire contenuti, modalità, tempistiche e relazioni di lavoro. La gran parte dei
Guardare lontano — 13
Tabella Principali settori di attività e clienti dei giovani architetti trentenni iscritti all’OAT (dati in percentuale).
Progetti di edilizia residenziale
R istrutturazione e manutenz. straordinaria
Progetti di edilizia pubblica
Progetti di edifici produttivi
Arredamento d’interni
Perizie valutazioni, stime, relazioni
Computergrafica, rendering, fotografia
Piani/progetti urbanistici e/o Piani esecutivi
Progetti di restauro di monumenti
Direzione lavori
Progetti e design di elementi di arredo
Altri settori
Privati singoli e famiglie
21,6
7,3
0,5
0,5
1,6
0,5
0,5
-
0,3
0,3
0,3
5,1
38,5
Altri studi professionali
9,2
2,7
0,3
0,8
0,5
1,1
0,5
0,3
0,8
0,5
-
1,6
18,3
Pubbliche amministrazioni
3,5
0,3
5,4
0,3
0,5
0,3
-
1,6
0,3
0,3
-
3,5
15,9
Imprese edili, immobiliari
1,3
1,6
0,3
0,3
-
-
0,8
-
0,3
0,3
-
1,6
6,5
Imprese industriali
1,3
-
0,3
1,1
0,5
0,8
0,3
-
-
-
0,5
1,3
6,2
Banche, finanziarie
0,3
-
0,3
1,3
0,3
-
0,3
-
-
0,3
-
0,3
3,0
Altro terziario
0,3
-
0,3
0,5
0,3
0,3
-
-
-
-
-
1,1
2,7
Enti morali o relig.
0,0
-
0,3
-
-
-
-
-
0,3
-
-
0,3
0,8
Altri clienti
1,3
-
0,5
0,5
-
0,3
0,3
0,3
-
0,3
-
4,6
8,1
11,9
8,1
5,4
3,8
3,2
2,7
2,2
1,9
1,9
0,8
19,4
100,0
TOT
Clienti
Settori
TOT
38,8
Infografica: Lorem | Fonte: indagine OAT
14 —
giovani architetti finisce per lavorare con orari a tempo pieno (o super pieno), ma raramente superando livelli di reddito decisamente bassi, anche dopo parecchi anni di carriera. Non a caso, quindi, un’ampia quota di giovani architetti si dice decisamente insoddisfatta, specialmente le giovani, con redditi più bassi sin dall’indomani della laurea e una quota di precariato che rimane elevata nel tempo, penalizzando le loro prospettive di carriera e di vita. Il problema, come noto, non riguarda oggi i soli architetti: in Italia esiste da anni un’‘emergenza giovani’, di cui con crescente urgenza non solo la classe dirigente ma l’intera collettività nazionale
dovrebbe farsi carico, rispondendo adeguatamente alle aspettative di una generazione che, negli anni, ha progressivamente perso occupazione, tutele sociali, reddito, impoverendo di continuo le proprie aspettative e opportunità. Nel caso specifico dei giovani architetti, la situazione risulta però particolarmente grave (anche per confronto con i laureati di altre facoltà): costretti per anni a barcamenarsi in un mondo professionale di ‘lavoretti’, pochi riescono a valorizzare adeguatamente – anche sul piano retributivo – le competenze acquisite in tanti anni di studio: la maggioranza patisce una situazione di perdurante e diffusa precarietà.
Guardare lontano — 15
Il mercato professionale: criticità e proposte Le principali difficoltà della professione e le aspettative riposte dai giovani architetti torinesi nei confronti dell’operato dell’Ordine di appartenenza Cristiana Cabodi
cintura (64%) o in provincia (61,8%). Si evidenziano anche marcate differenze di opinione tra giovani architetti con diverse anzianità di laurea o fasce di reddito. Il 30,7% degli architetti con un’anzianità di laurea tra i sei e i dieci anni e il 45,6% di quelli laureati da più di dieci anni – in buona parte titolari di studi – ritengono la situazione molto critica; invece solo il 20,3% dei meno esperti, con un’anzianità di laurea inferiore ai sei anni, si esprime così criticamente. Chi oggi guadagna meglio, come c’era da attendersi, tende a dare valutazioni più ottimistiche sulla condizione degli architetti, con l’eccezione però dei giovani architetti nella fascia di reddito più alta – oltre i 2.500 euro mensili – che valutano l’attuale situazione molto negativa con percentuali analoghe a chi si colloca nelle fasce di reddito più basse.
critiche – le valutazioni dei giovani architetti sul mercato professionale, altrettanto chiare sono le loro opinioni sulle ragioni di queste difficoltà e quindi sui principali problemi della categoria. Quote molto consistenti – attorno al 30% degli intervistati – hanno infatti indicato come questioni particolarmente gravi il ritardo nei pagamenti e la concorrenza di altri professionisti. Altre questioni problematiche (segnalate da circa un quinto dei giovani architetti) riguardano gli eccessivi adempimenti burocratici, la scarsa importanza sociale della categoria, le tariffe e i redditi troppo bassi, l’abolizione dei minimi tariffari. Molte delle richieste degli architetti sono più o meno le stesse che emergevano da un’altra ricerca dell’Ordine, realizzata una Figura 1 quindicina di anni fa: necessità di snelliIl giudizio negativo sulla situazione del Figura 2 mento burocratico, affidamento degli incamercato professionale è diffuso, sostan- Tra coloro che esprimono valutazioni richi pubblici con concorso o a rotazione, zialmente identico nelle valutazioni di critiche vi è un’ampia rappresentanza di riduzione delle tasse, netta separazione uomini e donne, mentre i giovani profes- liberi professionisti consulenti e collabo- delle competenze rispetto alle professionasionisti che operano a Torino risultano me- ratori, mentre le valutazioni dei titolari di lità concorrenti, una facoltà meno autorefediamente più critici (il 74,4% ritiene molto studi sono tendenzialmente migliori e più renziale, più collegata al mondo del lavoro o abbastanza critica l’attuale condizione ottimistiche. e con gli aspetti pratici della professione. degli architetti), rispetto a chi lavora nella Così come sono nette – e generalmente La nuova indagine svolta nel 2011 mette
L’indagine I giovani architetti, la professione e la crisi, condotta nella scorsa primavera, ha permesso di far luce sulle opinioni dei giovani architetti circa l’attuale situazione del mercato professionale e, in particolare, sulle criticità più sentite. Sulla situazione della professione i giovani architetti hanno pochi dubbi (Figura 1): quasi il 70% propende per una visione negativa e, di questi, quasi un terzo ritiene la situazione attuale molto critica. Un quarto degli intervistati tende invece a operare dei distinguo: per alcuni architetti le cose vanno bene – soprattutto per quelli con studi professionali avviati da anni – per altri male – i più giovani. Significativo che solo il 3,7% giudichi complessivamente positiva la situazione degli architetti e che nessuno la ritenga molto positiva.
16 — Figura 1 Giudizio dei giovani architetti trentenni iscritti all’OAT sull’attuale mercato professionale. Infografica: Lorem | Fonte: indagine OAT
però in luce anche due nuove criticità: le basse tariffe professionali e la concorrenza di altre figure professionali, in particolare degli architetti con laurea triennale, di cui non risultano ben chiare le competenze, ma che spesso si pongono in concorrenza diretta con chi possiede un titolo quinquennale. A seconda dell’anzianità professionale, i giovani architetti sentono con maggiore urgenza alcuni problemi: per quelli con minore anzianità professionale la concorrenza – sia con altre figure sia con i colleghi – e l’abolizione dei minimi tariffari costituiscono i principali nodi critici mentre, per gli architetti trentenni, con maggiore esperienza professionale, le questioni più problematiche sono la scarsa importanza sociale della categoria e il ritardo nei pagamenti. Quest’ultima criticità – unitamente al livello troppo basso di tariffe e redditi professionali – è la più sentita anche tra gli architetti che lavorano fuori Torino. I giovani architetti, interrogati sui provvedimenti necessari per migliorare la loro situazione professionale, indicano in primo luogo questioni legate all’avere maggiori
opportunità, per poter competere con gli architetti più anziani – anche attraverso concorsi trasparenti – a una maggiore tutela degli architetti tirocinanti e collaboratori precari presso studi professionali. Tabella
Altre questioni molto sentite dai giovani architetti, come già sottolineato, sono quella delle tariffe (molti ritengono vadano meglio regolamentate e vorrebbero ripristinare i minimi tariffari), della separazione di competenze tra categorie affini, dello snellimento burocratico. Emerge anche la richiesta di migliorare le capacità di lobbying e di tutela professionale da parte dell’Ordine, rispetto al quale molti sono convinti che andrebbero ridotte le possibilità di accesso; la stessa questione – regolare il numero di accessi – viene posta da molti intervistati anche rispetto alla Facoltà, di cui chiedono altresì una maggiore caratterizzazione tecnica e un più stretto legame con il mondo del lavoro e della professione. Altri problemi indicati dai giovani architetti sono il recupero dei crediti (indicato dal 2,4% degli intervistati), la crisi economica (2,1%), le difficoltà ad
inserirsi professionalmente per i giovani se non si hanno conoscenze (2,1%), i ribassi d’asta (1,6%), l’eccessivo numero di architetti (1,3%), lo strapotere lobbistico dei grandi studi (1,1%), la scarsa professionalità di molti architetti (0,8%), le amministrazioni poco sensibili ai giovani (0,5%). È significativo rilevare che, se da un lato la maggior parte degli intervistati auspica un ruolo più attivo dell’Ordine, dall’altro l’indagine mette in luce relazioni complessivamente piuttosto deboli con esso: il 47,3% degli intervistati dichiara di non mantenere con l’Ordine alcun tipo di rapporto. Tra chi frequenta l’Ordine – almeno ogni tanto – il principale motivo è la partecipazione a incontri, corsi, commissioni: il 4,3% degli intervistati li frequenta spesso, il 34% talvolta. Un certo numero di giovani architetti si rivolge all’Ordine anche per consulenze legali, fiscali, previdenziali: l’1,1% spesso, il 19% talvolta. Decisamente scarsa, invece, risulta la frequentazione per la vidimazione di parcelle o per consulenze di carattere deontologico. I corsi, gli incontri, le commissioni, ma anche le consulenze vedono una maggiore
Guardare lontano — 17 Figura 2 Giudizio dei giovani architetti trentenni iscritti all’OAT sull’attuale mercato professionale, per fasce di reddito. Infografica: Lorem | Fonte: indagine OAT
< 1.000 euro 1.000−1.500 euro 1.501−2.000 euro 2.001−2.500 euro > 2.500 euro
3,8% 3,3%
4%
3,8% 4,7%
abbastanza positiva
12,8% 12,7% 8%
7,7% 14%
positiva per alncuni, non per altri
15,4% 16,7% 17,3% 15,4% 2,3%
critica per alcuni, non per altri
25,6% 37,3% 44% 46,2% 37,2%
abbastanza critica
41% 30% 25,3% 23,1% 41,9%
molto critica
18 —
frequenza da parte delle architette più giovani, mentre i maschi con una maggiore esperienza professionale sono i meno assidui. Proprio i giovani e le donne, nel corso delle interviste hanno espresso il desiderio e l’interesse potenziale a frequentare con più assiduità i corsi offerti dall’Ordine, lamentando però eccessivi costi di iscrizione e/o orari spesso difficili da conciliare con impegni lavorativi e domestici. Tra i servizi offerti dall’Ordine quello più ampiamente utilizzato è senz’altro il sito web: vi naviga l’84% dei giovani architetti e la quasi totalità (il 94,3% degli utilizzatori) ne dà una valutazione positiva, con un generalizzato apprezzamento soprattutto per la completezza del sito e la facilità di consultazione. Raccoglie un ampio gradimento anche la newsletter inviata agli iscritti, considerata ricca di informazioni e di notizie utili. Un altro servizio piuttosto utilizzato (dal 41,4% dei giovani architetti) è la gestione dell’albo professionale, per cui esprime apprezzamento l’87,7% degli utilizzatori. Decisamente più critico risulta invece il quadro a proposito degli altri servizi
offerti dall’Ordine: le consulenze legali, fiscali e previdenziali vengono utilizzate meno (23,5%) e raccolgono valutazioni più critiche, da quasi un terzo degli utilizzatori. I rilievi si concentrano principalmente sulla lentezza di risposta (secondo il 5,7% degli utenti) e sullo scarso livello qualitativo di consulenze ritenute spesso insoddisfacenti e improvvisate (4,5%). Particolari criticità emergono a proposito delle consulenze legali: il 12,5% degli utenti dichiara di non aver ricevuto alcun tipo di risposta alla propria richiesta di consulenza legale, il 2,3% ha ricevuto una risposta errata, l’1,1% lamenta la lentezza della risposta, un altro 1,1% non ha apprezzato il fatto di essere dirottato su un consulente esterno a pagamento [ndr: nella scheda non veniva precisato che OAT rimanda a consulenze esterne problematiche di tipo personale]. Minori problemi si segnalano per le consulenze deontologiche (solo l’1,1% cita delle criticità) e finanziarie (un altro 1,1%), entrambe peraltro sono scarsamente utilizzate. I giovani architetti individuano anche con una certa chiarezza i temi prioritari su cui
attendono risposte o un maggiore coinvolgimento da parte dell’Ordine. Quasi un quarto (23%) ritengono in particolare che l’Ordine debba soprattutto promuovere la categoria, oggi socialmente poco considerata e insidiata da altre professioni. Un altro tema centrale nell’agenda dell’Ordine è quello deontologico, prioritario per il 16,4% dei giovani architetti. Molti ritengono che, a causa dell’abolizione dei minimi tariffari, l’attuale corsa al ribasso per accaparrarsi i pochi lavori abbia generato un mercato distorto, che penalizza la qualità professionale e, in particolar modo, gli architetti più giovani. L’aggiornamento professionale è certamente un’altra questione molto sentita (prioritaria secondo l’11,2% degli intervistati); a questo proposito, i giovani architetti sollecitano l’Ordine a compiere uno sforzo per organizzare un maggior numero di corsi e, soprattutto, per ridurre i costi di iscrizione ai corsi. Altre questioni per le quali gli architetti trentenni chiedono all’Ordine un impegno maggiore riguardano la formazione universitaria e il tirocinio dei giovani. In particolare, gli intervistati ritengono
Guardare lontano — 19
Tabella Principali problemi della categoria secondo i giovani architetti trentenni iscritti all’OAT, per sesso, anzianità di laurea e luogo di lavoro (risposte multiple). Infografica: Lorem | Fonte: indagine OAT
fondamentale stabilire un raccordo più Sesso Anzianità laurea Luogo di lavoro stretto con l’università, sia per migliorare la preparazione professionale dei M F <6 a 6-10 >10 TO Amt Prov neo-laureati sia per istituire un periodo di tirocinio strutturato e istituzionalizzato Concorrenza tra architetti 24,4 32,4 33,3 27,4 25,6 28,1 32,6 23,6 che semplifichi l’inserimento nel mondo Concorrenza altre professioni 31,3 26,0 37,7 27,4 25,6 31,2 20,9 31,5 del lavoro. I risultati di questa indagine restituiscono la Tariffe e redditi bassi 17,4 19,1 14,5 20,0 16,7 15,1 23,3 20,2 fotografia di giovani architetti in difficoltà a causa di una situazione di mercato molto Amministrazioni poco sensibili 4,0 5,8 8,7 5,1 2,2 4,5 2,3 7,9 critica. I giovani professionisti intervistati concordano nell’indicare alcuni problemi Difficoltà finanziarie 3,5 2,3 1,4 2,3 4,4 2,5 2,3 4,5 come particolarmente urgenti per risponPartecipaz. a lavori pubblici 6,5 2,3 4,3 4,7 4,4 4,0 10,1 dere adeguatamente alle loro aspettative professionali e di vita. In particolare i Aggiornamento e formazione 3,0 2,3 1,4 1,9 5,6 2,5 5,8 giovani professionisti chiedono al proprio Ordine professionale di svolgere un ruolo Abolizione minimi tariffari 17,9 15,6 20,3 16,7 14,4 19,1 14,0 14,6 più attivo nella promozione della categoria e dei giovani, facendosi carico di alcuni Scarsa importanza sociale 20,4 19,1 7,2 23,3 21,1 24,6 16,3 12,4 dei problemi che affliggono la categoria: la questione della liberalizzazione al ribasso Burocrazia eccessiva 18,4 22,0 24,6 18,1 21,1 18,1 29,1 15,7 delle tariffe, la maggiore definizione delle Pagamenti in ritardo 27,9 33,5 27,5 30,2 33,3 24,1 38,4 37,1 competenze degli architetti rispetto ad altre professioni – per evitare continue invaAltri problemi 17,9 17,9 13,0 17,7 22,2 17,1 22,1 15,7 sioni di campo – la revisione delle norme per l’accesso a concorsi e incarichi pubNon so 1,0 0,5 1,1 1,0 blici, ritenute oggi fortemente penalizzanti I risultati completi della ricerca I giovani architetti, la professione, la crisi su www.to.archiworld.it. per i giovani architetti meno strutturati.
20 —
I giovani architetti tra il dire e il fare Le interviste condotte dal focus group OAT Professione Creativa ad architetti con uno studio avviato e strutturato e un’attività progettuale riconosciuta Marta Santolin e Laura Milan
Il focus group dell’Ordine degli Architetti di Torino ‘Professione Creativa’ ha incentrato il suo lavoro sulla discussione e sull’indagine delle nuove, possibili e creative, declinazioni di una professione che si presenta di difficile esercizio soprattutto per i giovani. Fin dalle prime discussioni, è emerso come il modo migliore per conoscere i tratti di questo quadro, in continua evoluzione, fosse coinvolgere direttamente coloro i quali sono, per natura o necessità acuita anche dall’attuale crisi, più portati di altri a pensare di reinventare la propria professionalità, aprendo anche nuove possibilità di collocazione: i giovani architetti. I mezzi più adatti a restituire questo scenario sono risultati da subito il sondaggio e l’intervista, insieme. Il primo, di tipo quantitativo, elaborato istituzionalmente su un campione di architetti ‘giovani’ e il secondo, qualitativo, da svilupparsi coinvolgendo giovani professionisti da selezionare attraverso chiari parametri iniziali: un campione di otto-dieci soggetti, attivi in provincia di Torino, under 40, con uno studio avviato e strutturato, e un’attività progettuale riconosciuta dalla pubblicazione su riviste di settore di livello
nazionale e dalla vittoria, o piazzamento, in concorsi di progettazione di qualità. L’applicazione di queste condizioni si è dimostrata difficile da perseguire, tanto da indurre la modifica dell’unico parametro suscettibile di variazione, l’età massima spostata di 8/10 anni. Nonostante la premessa, questo allargamento non è stato falsante: ha, anzi, consentito di ottenere informazioni inizialmente non previste ma utili per una migliore determinazione del campione che, costituito alla fine per metà di studi under 40 e per metà under 50, ha usufruito del confronto tra generazioni di architetti diverse, giovani entrambe ma una successiva all’altra. La traccia delle videointerviste (la cui agilità di divulgazione e comprensione ha fatto sì che fossero al centro di un evento all’interno della prima edizione del Festival di Architettura promosso dall’Ordine di Torino) ha tratto spunto dai contenuti dell’indagine quantitativa, sviluppandoli per tematiche: la formazione, l’avvio dell’attività autonoma, le sue caratteristiche e le prospettive e gli auspici per il futuro professionale. All’interno di queste, sono stati approfonditi alcuni ambiti
d’interesse. Rispetto alla formazione e all’attività svolta, soprattutto i rapporti e le sinergie con l’estero (negli studi, nel lavoro successivo alla laurea, e attuali e passate commesse), il peso della professionalità acquisita e delle relazioni personali. Scendendo più nel dettaglio dell’attività, quanto il suo svolgimento soddisfa personalmente ed economicamente e quali sviluppi futuri si intravedono o si auspicano (riassunti nelle domande: “Come vedi il tuo studio nel 2030? Di cosa si occuperà e quanto guadagnerà?”). Fin da subito, le risposte date, anche se su un campione ridotto, restituito senza pretese di scientificità fin dalle premesse, offrono uno spaccato della professione ricco di spunti e, se letto insieme ai risultati dell’indagine, contribuiscono a rivelare alcune delle sfaccettature per certi versi ‘privilegiate’ della molteplicità della giovane professione. In generale, gli architetti si sono laureati in Italia, Paese in cui hanno deciso di avviare la loro attività. Le esperienze all’estero, di studio soprattutto ma anche di lavoro dopo la laurea, rappresentano un elemento che sembra caratterizzare
Guardare lontano — 21
maggiormente i più giovani: cresciuti all’interno di facoltà che hanno messo loro a disposizione le possibilità offerte dai programmi Erasmus (che consentono di trascorrere periodi di studio riconosciuti in Università straniere), hanno spesso studiato all’estero, e, dopo la laurea in Italia, alcuni di loro hanno lavorato, più o meno lungamente, in Paesi stranieri. Per quasi tutti, l’attività autonoma, esercitata in forme che privilegiano la presenza singola o lo studio associato di dimensioni medio-piccole che nel tempo non ha subito grandi modifiche nei numeri, ha avuto avvio partendo dalla piccola dimensione che si è poi consolidata gradualmente nel tempo. I contatti e le conoscenze personali ne sono stati il motore principale, che è stato rafforzato dalle capacità professionali e alimentato da una buona dose di “passione, energia, tenacia, coraggio” e, non in ultimo, “fortuna”. È un’attività che in questo momento si svolge quasi totalmente in Italia (pur con qualche puntuale rammarico) e si identifica sempre meno con la progettazione, il cui esercizio tradizionalmente identifica la figura dell’architetto: per tutti, il tempo
che è possibile dedicarle è infatti ridotto rispetto alle incombenze oggi richieste e paradossalmente tende a diminuire con il passare del tempo e il crescere delle dimensioni dello studio. Affrontando commesse variegate per tipologia e dimensioni, che dalla scala edilizia arrivano spesso all’intervento d’interni, al progetto di grafica e di oggetti di design, sono accomunati dall’insoddisfazione espressa verso l’aspetto economico dell’attività che svolgono. Particolarmente deludente è il rapporto tra le energie investite e il reddito prodotto, definito da tutti insoddisfacente. E sicuramente acuito dalla crisi economica che si somma a una crisi di categoria professionale di più lunga data. Anche questi aspetti emergono dalle parole degli intervistati, tra chi sostiene, più ottimisticamente, che la crisi sia comunque portatrice di un’accelerazione delle decisioni e dei cambiamenti e chi, spostandosi più nello specifico della professione, vede come parte principale del problema il numero eccessivo di architetti (tra cui tuttavia può emergere chi ha i numeri per farlo). Le prospettive per il futuro, al traguardo
del 2030, dividono parzialmente gli intervistati (evidenziando in alcuni casi la differenza generazionale, con i più consolidati che, per ragioni puramente anagrafiche, saranno più vicini al ritiro). La visione, passando anche per chi non fa previsioni a così lunga scadenza, oscilla tra chi non vede sostanzialmente mutata la composizione dello studio (anche se auspica maggiori introiti) e chi, in un’ottica forse più ‘europea’, auspica un aumento numerico degli associati e una specializzazione interna che li renderebbe autonomi e in grado di affrontare tipologie sempre maggiori di commesse. In tutto ciò, qual è il consiglio che si ricava, da dare a chi intende aprire oggi uno studio di architettura? In cammino verso una figura professionale che dovrà coniugare sempre meglio la sua anima creativa con un ruolo tecnico e di coordinamento di competenze diverse, il panorama, seppur piccolo, si sfilaccia, tra chi suggerisce di lasciare perdere, chi di farlo ma non in Italia, chi di iniziare prima da altri studi e color che, con buon senso, consigliano invece lungimiranza e attenzione a un futuro difficile da prevedere.
22 —
Dal progetto una spinta per uscire dalla stagnazione Mobilità urbana, uso del suolo pubblico, consumi energetici, case low cost sono alcune delle sfide con cui i giovani architetti possono affrontare la crisi Giuseppe Roma
Tanti architetti per nulla? In altri termini le nostre università laureano molti architetti, ma esercitare la professione diviene un’attività sempre più complicata. E in più, l’influenza della progettazione di qualità non è ancora la regola ordinaria per trasformare le nostre città e il territorio. Intanto, bisogna affermare che l’architettura in tutte le sue possibili varianti piace ai giovani per la pluralità di stimoli che offre e l’ampio ventaglio di interessi riconducibili a quel tipo di formazione. Ci si può occupare di case, città, ambiente, beni culturali con un approccio progettuale, valutativo, critico, operativo. Tuttavia è opportuno riflettere a cosa servano gli architetti nell’attuale fase critica per l’incertezze dell’economia, ma soprattutto per le difficoltà di una transizione generazionale che vede i giovani in una condizione di rallentato inserimento nella vita attiva. Verrebbe da chiedersi se in Italia esista una domanda sociale di architettura e soprattutto come possano fare i giovani professionisti a coglierla. Siamo in un cambio di ciclo che riguarda le trasformazioni del territorio e quindi è necessario che vi sia un’adeguata elaborazione di idee progettuali più che di competenze puramente esecutive. Gli ultimi dieci anni sono noti come quelli della globalizzazione e in tutti i Paesi sviluppati
l’impatto della ‘iper-competizione’ ha portato una enorme trasformazione del territorio in senso nuovamente estensivo e grandemente non pianificato. Due grandi processi dell’ultimo decennio hanno fatto da raccordo fra integrazione dell’economia mondiale e territorio. Prima dello shock della finanza internazionale, le famiglie si sono cautelate dalle incertezze globali attraverso la patrimonializzazione, che ha voluto dire un’elevata pressione per accedere alla casa in proprietà. Un mercato immobiliare incandescente fino al 2007, scambiava ogni anno circa l’8-9% del Pil, 130-140 miliardi di euro per la compravendita di circa 800mila abitazioni annue di cui solo una piccola parte di nuova costruzione, ma con una forte domanda di ristrutturazione, ecc. Questo ciclo si è in parte fermato, anche se ha ancora dimensioni importanti dato che, pur in anni di crisi come il 2011, in Italia si manterrà un volume di vendite vicine alle 600.000 unità abitative. L’altro grande fenomeno è l’enorme successo delle città con accentramento di funzioni produttive e lavorative e diffusione di quelle residenziali. Evidentemente l’espansione urbana ha alla base tante ragioni di carattere pratico: le economie di agglomerazione come i differenziali di valore per le abitazioni che spingono sempre più lontano gli abitanti alla ricerca dei prezzi
più bassi. Tuttavia c’è dietro una logica che non è puramente di interessi, razionalità, economia: le città in tutto il mondo, e in Italia in particolare, crescono per la necessità di intensificare le relazioni, i legami. Dopo il primato dell’Italia di provincia dei distretti industriali e del made in Italy, ora siamo tornati a essere un Paese che vive fondamentalmente nelle grandi metropoli. Il 61% degli italiani vive in quelle che abbiamo definito i metro tank, cioè i contenitori territoriali, insieme piuttosto disordinato composto da una grande metropoli, da piccoli comuni, da città medie, da poli commerciali, da grandi infrastrutture, dove giornalmente si muovono decine o centinaia di migliaia di persone. Abbiamo generato un tessuto urbano che non è più fatto solo di luoghi, ma di movimento. Coprirsi dalle paure attraverso il patrimonio immobiliare e cercare l’inclusione attraverso l’appartenenza a un contenitore metropolitano sono stati i fenomeni socialmente più rilevanti alla base della potenziale domanda di architetti. Gli effetti ambientali di tali cambiamenti sono fortissimi. Se solo consideriamo ad esempio il trasporto, dobbiamo constatare che nel 1961 l’auto era posseduta in Italia da appena il 18% della popolazione e ne circolavano solo 2,5 milioni. Oggi ne abbiamo 36 milioni su 23 milioni di famiglie.
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E ancora, negli ultimi 10 anni abbiamo urbanizzato, solo per l’edilizia residenziale, in media ogni giorno 53 ettari. Vuol dire 194 Km2 l’anno, poco meno della superficie dell’Isola d’Elba. Negli ultimi anni c’è stato un calo legato alla crisi, ma ad un tasso del genere significa consumare in soli 17 anni la superficie della Valle d’Aosta. Possiamo pensare di continuare ad avere architetti disoccupati, e ancor più sotto occupati, e cittadini disperati per il cattivo funzionamento della loro vita urbana? Ecco perché credo ci sia un forte bisogno sociale di progetti e di progetto architettonico in particolare. Se c’è una costante attrattività delle facoltà di architettura vuol dire che i giovani sentono un forte bisogno di progettualità, per un Paese che non deve solo tagliare i costi della politica, ridurre la spesa pubblica improduttiva, ma prestare maggiore attenzione al proprio territorio, all’efficienza dei servizi ad esso collegati, alla bellezza dell’ambiente costruito come dei paesaggi naturali o artificiali. C’è un problema di ricambio generazionale che penalizza i giovani, in Italia più che altrove. Se gli avvocati quarantenni newyorkesi – simbolo del rampantismo professionale – sono in agitazione perché i partner anziani dei grandi studi fanno resistenza ad associarli, mantenendoli nel limbo delle
collaborazioni, vuol dire che la fluidità di molti circuiti sta venendo meno. E in un Paese come l’Italia, statico e senza crescita, la riduzione delle opportunità si scarica principalmente sui giovani professionisti, in maniera decisamente insopportabile. Tuttavia competenza, professionalità e iniziativa di tipo imprenditoriale sono la risposta più pragmatica per giocare una partita difficilissima, ma che può aver successo. Innanzitutto mantenere alto il profilo delle specifiche competenze e la prima abilità dell’architetto è di saper coordinare più saperi. E quindi di avere un orientamento più multi tasking che specialistico. Non perdere quella radice condivisa dalla denominazione di tante altre professioni che è la radice AR, il suffisso che vuol dire “perizia ed invenzione nel fabbricare” comune ad architetti, artigiani, artieri. Moltissime sono le sfide per i giovani architetti. Nell’abitare c’è oggi la necessità di un abitare low cost: per una domanda con risorse limitate, che non vuole solo acquistare, ma anche affittare, che richiede una casa per la sua autonomia, per la sua mobilità, che ha semplicemente necessità di un alloggio e un basso reddito. Inoltre se la città è segnata dal movimento delle persone, come si integra lo spazio domestico con quello pubblico? E qual è lo spazio pubblico? Quello che sta vicino
alla tua casa, o dove lavori? Evidentemente il concetto stesso di abitare va ridefinito, ed anche questa è una nuova sfida. C’è soprattutto la sfida ambientale, dato che il 45% dei consumi energetici derivano dagli edifici e il 95% del nostro patrimonio abitativo consuma 200 Kwh al m2/anno e dovremo ridurlo a meno di un quinto dell’attuale. Altro problema gigantesco su cui lavorare. Ancora, la mobilità urbana. Passiamo 500 ore del nostro anno, cioè praticamente 40 giornate di attività nel traffico urbano: è più di un mese e mezzo, è una dimensione alla quale pensano poco gli architetti e persino gli urbanisti. È chiaro che se il professionismo in Italia non avrà una dimensione, non dico industriale, ma almeno imprenditoriale, i nostri laureati saranno costretti ad affermarsi altrove e non si troverà il modo di inserirli adeguatamente nella piena attività di ideazione e governo del territorio. Condivido lo sforzo di tutti coloro che si adoperano per agire al fine di superare il senso di scoraggiamento, di disagio, di difficoltà che è la cifra del momento che stiamo attraversando. Per le giovani generazioni è ora la prova dell’autonoma iniziativa, della solidarietà di gruppo, della fiducia volontaristica nel futuro. Per le generazioni mature della trasparenza, dell’apertura, della generosità.
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I giovani architetti, la trasformazione, la crisi Un sistema che non valorizza il proprio capitale umano è un sistema che invecchia e che non può competere con le sfide del futuro Antonio Mura
Il problema principale che gli architetti oggi sono chiamati ad affrontare non è solo quello di comprendere, descrivere, capire la crisi (e per questo ben vengano le indagini conoscitive, specialmente quando miranti a individuare le dinamiche professionali sul territorio per orientare le azioni di categoria), ma anche quello di definire delle strategie per affrontare al meglio un nuovo ciclo edilizio. Un ciclo edilizio che avrà come base di partenza da un lato il ridimensionamento dei potenziali di mercato e dall’altro un importante processo di riconfigurazione della domanda e dell’offerta. La convinzione è che sia ormai arrivato il momento per un salto di scala nel know how, nella conoscenza e nell’uso delle tecnologie. In questo contesto il professionista architetto deve darsi una strategia operativa e deve scegliere la strada che vuole percorrere sulla base di una nuova segmentazione del mercato: il mercato tradizionale, che pur riducendosi continuerà ad esistere; il mercato low cost, che deve soddisfare una fascia di domanda sempre più ampia; il mercato estero, sempre più caratterizzato dall’avvento delle economie emergenti; il mercato dell’innovazione, innovazione nei nuovi materiali, nelle tecniche di progettazione, nell’informatica, nei nuovi modelli di
integrazione tra impianti e edificio, nell’integrazione della filiera delle costruzioni con quella dei servizi, nelle nuove forme di finanziamento misto pubblico e private. Ed è proprio questo processo generale d’innovazione, assieme alle questioni della sostenibilità energetica e dell’ambiente, che offrirà la risposta alla crisi del vecchio modello di produzione edilizia. Attraverso ricerca e innovazione lo scenario delle costruzioni sta cambiando radicalmente, un’occasione che il professionista architetto deve saper cogliere rapidamente. Ed in questo scenario è evidente il ruolo strategico riservato ai più giovani. Investire su di essi, nella loro formazione, favorirne l’inserimento nella professione, assecondando la loro naturale predisposizione all’innovazione e all’uso delle nuove tecnologie, rappresenta la chiave per avere successo in un mercato sempre più competitivo e specializzato. Ma quando si parla di giovani non possiamo non pensare al grave squilibrio professionale che essi vivono nel nostro Paese. Uno squilibrio legato ad un mercato del lavoro duale che trasferisce su di loro tutto il rischio occupazionale, in termini di stabilità, minori possibilità di accesso al welfare, minori capacità reddituali. E per i giovani professionisti le cose non sono diverse.
Specialmente in tempi di crisi, quando aumentano le difficoltà d’inserimento occupazionale (come evidente, ad esempio, dalle statistiche AlmaLaurea), aumenta la frequenza di contratti atipici (contratti di collaborazione, contratti a progetto, formazione lavoro, ecc.), cresce il fenomeno delle finte partite IVA, si riducono i redditi medi e aumentano le situazioni irregolari. E in questo scenario il sistema universitario non aiuta, è spesso inadeguato, considerato autoreferenziale e assolutamente inefficace nel preparare i giovani al primo impatto con il mercato. In termini economici, soprattutto nel confronto con gli altri Paesi europei, è evidente quanto, nel nostro Paese, lo squilibrio reddituale tra le diverse generazioni sia accentuato. Rapportando i volumi d’affari medi per classe di età con la media complessiva si osserva, infatti, come in Italia, secondo i dati di Inarcassa, gli architetti con meno di trent’anni registrino un fatturato medio inferiore del 71% rispetto alla media, questo mentre in Europa la discrepanza (secondo le indagini del Consiglio Europeo degli Architetti) sarebbe intorno al 43%. Per gli architetti con un’età compresa tra 30 e 34 anni i fatturati sono mediamente inferiori del 52% in Italia e di appena il 3% in Europa. Ma già nella classe successiva,
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87,6
60-64
23,2 82,4
55-59
28,4 63,9
50-54
24,7 34,1
45-49
16,9 5,2
40-44
14
2
-100%
Infografica: Lorem | Fonte: Elaborazione Cresme su dati Inarcassa e ACE
-52,4
30-34
< 30
Figura 1 Differenza percentuale del volume d’affari per classe di età rispetto alla media (2008).
-27,9
35-39
-14,1 -70,9
-75%
-50%
mentre in Italia i giovani pagano una differenza rispetto alla media ancora intorno al 30%, in Europa i loro volumi d’affari sono addirittura più alti del 15%. Figura 1
Ma quando parliamo di giovani professionisti parliamo soprattutto di giovani donne. Negli ultimi anni il mondo delle professioni sta letteralmente vivendo un processo di femminilizzazione. Certamente le donne sono ancora in netta minoranza tra i professionisti di area tecnica, sono appena il 2-7% tra i periti (industriali e agrari) e il 9% tra i geometri, tra il 13 e il 18% tra agrotecnici, geologi e agronomi e il 34% tra i chimici, ma tra questi numeri spicca proprio il dato degli architetti. Nel 2010 la quota di architetti donna è arrivata a superare il 40%, una quota che è andata rapidamente aumentando negli ultimi anni (basti pensare che nel 1998 si attestava appena al 31%). Questo fenomeno comporta, per i dirigenti, la necessità di attente riflessioni. È naturale chiedersi, ad esempio, perché le donne guadagnino, in media, meno degli uomini. Una circostanza legata indissolubilmente al problema della tenuta dei sistemi previdenziali. Ad esempio, secondo AlmaLaurea, il guadagno mensile netto dei giovani laureati in architettura dopo 5 anni dal conseguimento del titolo è mediamente
Europa
Italia
-40,9 -25%
0%
25%
circa un quarto maggiore per i maschi (il 23% su base annua). Una discrasia che con il passare degli anni di attività tende anche ad accentuarsi. Basti dire che per la cassa previdenziale, nel 2008, la differenza tra reddito professionale medio di uomini e donne arriva all’80% in favore dei primi. Forse per una donna professionista è più difficile crearsi un nome sul mercato, specialmente in alcuni territori, con grandi difficoltà legate al processo di fidelizzazione del rapporto professionale. Esiste quindi la priorità di politiche specifiche che permettano la conciliazione dei tempi di lavoro con quelli della famiglia oltre ad un riallineamento reddituale. È necessario elaborare un sistema che permetta alle donne di lavorare e guadagnare di più e meglio. Per non parlare, poi, dell’aspetto legato all’impegno delle donne in categoria, sia nei consigli provinciali degli ordini così come a livello nazionale. La rappresentanza delle donne nei consigli degli ordini provinciali degli architetti, ad esempio, è pari al 27% tra i consiglieri, e su 104 ordini, soltanto 10 donne ricoprono la carica di presidente. Il Consiglio Nazionale appena rinnovato conta una sola presenza femminile su 15 membri. Una rappresentanza assolutamente inadeguata per una categoria professionale che nell’ultimo decennio ha
50%
75%
100%
assistito ad una costante crescita della componente femminile. È chiaro come la categoria (tutte le categorie) non possano permettersi di escludere ancora a lungo le donne dagli organi dirigenziali pena, fra 10 anni, l’assenza di ricambio ai vertici. Un contesto preoccupante, insomma, che impone l’esigenza prioritaria di politiche adeguate ed efficaci. Politiche che siano in grado di superare le contraddizioni di un sistema economico e di un mercato del lavoro che trasferisce sui più giovani (e ancor di più sulle giovani donne) tutti i rischi, in termini di precarietà, bassi salari, scarsa tutela, difficoltà occupazionale. Inibendone la volontà di investire sulla propria cultura, sulla conoscenza, e limitando le spinte innovative più naturali (vale anche per il mondo delle imprese, poco incentivato ad investire sui giovani appena assunti, ovvero i primi a pagare nei momenti di difficoltà economica). Ma un sistema che non valorizza il proprio capitale umano, che anzi lo impoverisce, è un sistema che invecchia (anche letteralmente), che non può competere con le sfide del futuro. È un sistema che non può pretendere di crescere. Perché è fondamentale capire che non si tratta solo di un problema di equità generazionale o di genere ma di un vero e proprio freno allo sviluppo.
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Dalla finestra Nel 2004 mi stavo per trasferire da una casa a New York dove avevo passato sette anni a lavorare guardando, senza saperlo, fuori dalla finestra per centinaia di ore. Dopo aver disegnato la mia vista, ho cercato per anni finestre di altri newyorchesi (noti e non) per raccontare la cittĂ piĂš vera. Nel 2009 esce The City Out My Window: 63 Views on New York, Simon & Schuster. Matteo Pericoli
Nick Ghiz artista Bruce McCall illustratore e umorista Daniel Libeskind architetto Philip Glass compositore Nico Muhly compositore Richard Meier architetto Tony Kushner drammaturgo
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Se il titolo di studio è carta straccia L’immobilismo nella regolamentazione delle professioni danneggia in prima istanza i professionisti e il valore del loro titolo di studio Anna Maria Poggi
Di riforma organica delle professioni si fa un gran parlare in Italia da molti anni. Più se ne parla e più, tuttavia, pare divenire più evanescente tale prospettiva. Paradossalmente: più aumentano i problemi da affrontare e più si dissolve la prospettiva unitaria di una loro soluzione. La riforma Bersani (L. 248/2006), infatti, pur spinta dal lodevole intento di mettere in asse la situazione italiana con quella europea ha finito per aggravare ulteriormente i problemi. Pur introducendo innovazioni assai significative (abroga le disposizioni legislative e regolamentari che fissano obbligatoriamente i minimi tariffari; fa venire meno il divieto di pubblicizzare titoli e specializzazioni professionali, nonché prezzi e costi complessivi delle prestazioni; abolisce il divieto all’esercizio professionale in forma di impresa) non ha tuttavia affrontato la questione di fondo posta dall’Unione Europea: il transito dal concetto di professione ‘protetta’ al concetto di professione ‘regolamentata’. Va precisato che è definibile come ‘professione regolamentata’ ai sensi dell’art. 3 della direttiva n. 2005/36/CE l’attività o insieme di attività professionali, l’accesso alle quali e il cui esercizio, o una delle modalità di esercizio, sono subordinati direttamente o indirettamente, in forza di norme legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di determi-
nate qualifiche professionali. In altri termini sono professioni regolamentate quelle a cui possono accedere i lavoratori autonomi che per esercitare la loro professione devono essere iscritti agli albi professionali delle rispettive categorie di appartenenza. Per iscriversi ad un albo è necessario innanzitutto conseguire l’abilitazione professionale che consente l’esercizio dell’attività, previo conseguimento del titolo di studio richiesto (diploma di media superiore o laurea). Viceversa i liberi professionisti possono esercitare la loro professione attraverso contratti di prestazione d’opera intellettuale (regolati dall’art. 2229 del Codice Civile e successivi). Si tratta di professioni che producono reddito di lavoro autonomo e non quindi di impresa, anche quando sono organizzate prevalentemente con beni strumentali e lavoro dipendente. Questo perché la struttura organizzativa è meramente strumentale all’espletamento dell’attività intellettuale. Perché è rilevante nel nostro ordinamento affrontare la questione della ‘regolamentazione delle professioni’? Perché esso inizia oramai a soffrire di una situazione schizofrenica, sedimentatasi negli anni, per cui esistono: ´ professioni riconosciute e regolamentate attraverso l’inserimento in albi tenuti da ordini e collegi professionali;
professioni riconosciute e regolamentate attraverso l’iscrizione in albi non tenuti da ordini e collegi professionali; ´ professioni non riconosciute e non regolamentate, costituite in associazioni professionali private. Le prime due sono assoggettate ad una disciplina pubblicistica non di carattere generale (non essendovi ad oggi un provvedimento organico in materia) che si differenzia notevolmente a seconda del tipo di professione, del livello di riconoscimento e, dunque, di protezione statale accordata alla professione medesima, che va dal massimo dell’istituzione dell’ordine o del collegio professionale alla condizione minima di riconoscimento operata attraverso la costituzione di un albo. Ordini e collegi, infatti, costituiscono organizzazioni professionali ad appartenenza obbligatoria che esercitano un controllo preventivo e in itinere circa la permanenza dei requisiti deontologici, spesso sono altresì dotati di potestà normative e giurisdizionali sugli iscritti, nonché di un potere di auto organizzazione la cui punta massima di espressione consiste nella determinazione delle tariffe. Il terzo tipo di professioni non sono assoggettate ad una disciplina pubblicistica ed a loro si applicano le regole desumibili dal codice civile sulle associazioni private ed, eventualmente, normative di carattere generale. ´
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Il rapporto tra tali tipologie sta diventando un problema reale, almeno dal punto di vista dei numeri. Il totale degli iscritti ad ordini e collegi (che all’ultimo Rapporto CNEL risultano 28), nell’anno 2003, è pari a circa 1.600.000 professionisti. Secondo i dati provenienti dalle dichiarazioni delle associazioni non regolamentate, il Cnel in passato ha stimato che gli esercenti – da intendersi svolgenti la professione in forma autonoma – risultassero circa 700.000 nel 1995-1996; circa un milione nel 1998; circa 2 milioni e 700 mila nel 1999. Tali dati coinciderebbero con quelli contenuti nel Primo Rapporto sulle Associazioni professionali del Censis (2004) che stimava al 2003 un totale di 3.892.856 aderenti ad associazioni professionali. Nell’ultimo Rapporto CNEL, tuttavia, e secondo stime più prudenti effettuate dallo stesso Cnel mettendo in relazione i numeri contenuti nella banca dati, le dichiarazioni delle associazioni e la stima degli operatori dei vari settori, si è pervenuti ad un ridimensionamento del numero dei professionisti ‘non regolamentati’ a circa 1.600.000. Questi numeri ci dicono sostanzialmente che ormai si equivalgono numericamente i professionisti regolamentati e quelli non regolamentati. Quali che siano le motivazioni di un tale stato di cose è evidente. Tuttavia tale
frenetico immobilismo non può che produrre la peggiore delle situazioni e cioè mantenere in vita un sistema ormai divenuto ibrido, senza trasparenza e identificazione giuridica e, prima ancora, sociale. I primi ad essere danneggiati da tale stato di cose sono gli stessi professionisti e con essi il valore del titolo di studio che consente la stessa professione. In realtà l’interesse statale alla regolazione protetta delle professioni si è, nel tempo, dimostrato convergente con l’interesse delle professioni alla protezione statale. Né va dimenticato che tale convergenza è stata un potente fattore di democrazia, che ha impedito la sindacalizzazione e la politicizzazione dei più importanti corpi professionali. Si tratta, tuttavia, di una fase ormai superata, nel senso che è diventato ‘inattuale’ l’accordo su cui ordini e collegi ‘sono nati e vissuti’, mentre, per rispondere alle questioni inerenti il rapporto tra ordini e collegi e associazioni professionali, i mutamenti interni concernenti soprattutto la revisione del Titolo V e i mutamenti esterni, cioè le spinte derivanti dall’Unione per l’applicazione dei principi di libera concorrenza, libertà di stabilimento e libera circolazione di persone su tutto il territorio dell’Unione, occorre affrontare seriamente quella che giustamente è stata definita la “decostruzione della forma ordine” e cioè il fatto secondo cui non c’è più rispondenza tra la funzione
originaria e la loro attuale conformazione. Le funzioni originarie o si sono perse (promozione e valorizzazione della professione, formazione permanente,...) oppure si sono tramutate in un ingessamento del mercato (la tutela del prestigio e del decoro). In questa prospettiva la riforma degli ordini e dei collegi è davvero ineludibile, mentre sarebbe assai dannoso continuare ad assecondare la linea politica degli ultimi dieci anni per cui, da un lato non si giunge alla riforma degli ordini e dei collegi e, dall’altro, non si affronta il problema delle associazioni professionali non regolamentate. Questo stato di cose produce, tra i tanti, due effetti particolarmente negativi. Il primo è che ordini e collegi non hanno incentivi a migliorare i propri standard morali e professionali, poiché non è da ciò che traggono la loro ragione di essere, ma dal mero riconoscimento formale della protezione statale. Per ciò sono per primi gli iscritti agli ordini a non essere soddisfatti dell’azione degli stessi, poiché percepiscono una sorta di divaricazione tra i loro reali bisogni e la logica con cui procedono gli organi direttivi degli ordini. Il secondo è che le associazioni professionali accentueranno le spinte, già ampiamente in atto, per il riconoscimento a ordini. Se ciò accadrà non solo non avremo risolto un problema, ma avremo invece posto le premesse affinché esso non venga affrontato. Tranne che l’Europa ci obblighi a farlo.
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Architetti alla finestra Non esiste una sola figura di architetto e la formazione universitaria deve essere in grado di rispecchiarsi in questa specificità, senza cedere a una dispersione di modelli Francesco Profumo con contributi di Patrizia Lombardi e Marco Trisciuoglio
L’indagine sulle condizioni in cui si svolge l’attività professionale dei giovani architetti della Provincia di Torino restituisce un clima di sofferenza, legata da un lato alla congiuntura economica e dall’altro lato all’involuzione di alcune forme del ‘mestiere’, aspetti dai quali non può però non considerarsi estranea la questione della formazione. Benché i tassi di occupazione dei neolaureati (sia maschi sia femmine) siano superiori alla media, gli sbocchi professionali dei giovani architetti non risultano ‘qualificanti’: abbondano forme di consulenza e di collaborazioni saltuarie, di occupazioni a termine, interinali, con retribuzioni medie molto basse. Gli intervistati puntano anche il dito sulla formazione universitaria e sulle necessità di tirocinio: ritengono fondamentale stabilire un raccordo più stretto con l’università, sia per migliorare la preparazione professionale dei neo-laureati sia per evitare – attraverso un periodo di tirocinio strutturato e istituzionalizzato – molte delle sussistenti difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro. Il Politecnico di Torino, che è stato impe-
gnato in questi mesi nell’importante progetto del proprio riordinamento, ha dato forza anche a iniziative di coinvolgimento degli ex allievi, mentre da tempo si occupa dell’orientamento in uscita dei propri studenti, attraverso le forme di base dello Stage & Job Placement o attraverso quelle molto promettenti e molto sofisticate dello Start Up. Nell’ambito dello Stage & Job Placement, un apposito ufficio del Politecnico fornisce un servizio di supporto alle aziende e agli studenti/laureati al fine di favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, costruendo servizi personalizzati e caratterizzati dalla più ampia flessibilità. I servizi al mercato del lavoro comprendono non solo l’incrocio tra domanda e offerta, ma una consulenza qualificata per l’analisi della domanda stessa, il recruiting dei candidati in possesso dei profili professionali richiesti, il supporto e la consulenza nelle strategie di promozione del brand aziendale, nonché lo sviluppo di percorsi formativi personalizzati di orientamento al lavoro e ovviamente la gestione delle procedure di attivazione dei tirocini. L’Incubatore di Imprese Innovative del
Politecnico (I3P) è invece la società senza scopo di lucro finalizzata a favorire la creazione di nuova imprenditoria attraverso la promozione all’interno dei corsi istituzionali del Politecnico della cultura imprenditoriale, ma anche attività di formazione mirata alla creazione di nuova imprenditoria, addirittura con la creazione di un ambiente fisico presso il quale i neo imprenditori possono collocarsi, con la disponibilità di servizi di base, tra i quali vi è la gestione in collaborazione con il Politecnico di brevetti emersi dall’attività di ricerca. Si è poi ritenuto opportuno valorizzare nel modo più efficace, in ragione delle specifiche competenze maturate in una esperienza ormai pluriennale, l’attività di supporto che può essere fornita dall’Incubatore nella fase di definizione e pianificazione del progetto di creazione degli spin off (in particolare nel business planning) e nella fase di valutazione preliminare all’approvazione della qualifica di spin off da parte degli organi dell’Ateneo. Inoltre, ancora oggi esiste una realtà, l’Associazione Alumni (“ex-allievi Ingegneri e Architetti”) del Politecnico di Torino, che già dal lontano 1908 si propone di
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mettere a frutto le radici comuni della formazione politecnica, gli interessi tecnicoscientifici coltivati anche dopo la laurea, le relazioni interpersonali e professionali dei suoi iscritti. Organizza eventi ed iniziative e ogni anno mette a disposizione dei suoi iscritti un supporto per la preparazione dell’esame di Stato per l’ammissione agli ordini professionali. Da circa un anno il Politecnico, proseguendo il proprio cammino verso una maggiore esposizione e affermazione internazionale, è impegnato a coltivare quella che è una straordinaria potenzialità di questa Associazione: diventare una forza propositiva in seno alla società, e uno stimolo per il networking fra gli ex allievi considerati come un vero e proprio patrimonio. L’idea è quella di raccogliere e creare un portafoglio di contatti significativo, non solo a scopo sociale, ma – riflettendo su quelle che sono le possibilità offerte dai nostri colleghi ormai integrati nelle realtà americana, europea, asiatica, etc. – anche e soprattutto come supporto per il business. Quel portafoglio di contatti creerà una rete numerosa ed estesa di persone che hanno condiviso passioni, impegno, interessi ed esperienze di studio e di lavoro e che porteranno nuova linfa e nuove idee. Soprattutto, nel giro di un anno il Politecnico riordinerà il proprio assetto di didattica e di ricerca. Nel settembre del 2012 scompariranno le facoltà (lasciando il campo della offerta formativa a corsi di studio incardinati nei dipartimenti, così come esige la nuova legge), mentre già dall’ottobre del 2011 si comporrà in maniera diversa, più semplificata e più razionale, la geografia dei dipartimenti, ‘nuovi’ poiché non più luogo esclusivo della ricerca, ma sede insieme di organizzazione della ricerca e della didattica. L’apposita commissione che si è occupata della messa a punto di questa mappa, ha individuato per l’area ICAR dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura innanzitutto due dipartimenti (Ingegneria
Civile e Ambientale da una parte e Architettura & Design dall’altra), destinati a presidiare i due storici saperi/pratiche presenti nella nostra scuola politecnica. In più è stata promossa la costituzione di un terzo dipartimento, di interfaccia tra i precedenti due e di confine tra il Politecnico e l’Università di Torino che, posto a cavallo tra le discipline dell’architettura e quelle dell’ingegneria, sia allo stesso tempo preposto a costruire nuovi legami con saperi altri come la geografia, la sociologia, l’economia, le scienze politiche, l’agraria e le scienze della terra. Se i primi due dipartimenti sono – per così dire – istituzionali (l’Ingegneria nel suo senso più classico e l’Architettura/ Design), questo nuovo dipartimento è invece ‘strategico’ e nasce per occuparsi dei temi del territorio (scienze, progetto, politiche), esattamente come, nel quadro dei futuri dipartimenti dell’Ateneo, è stato proposto un altro dipartimento di confine, anch’esso altamente strategico, dedicato ai temi della vita e della salute, da costruire sempre in un rapporto di interconnessione con l’Università. La costruzione del territorio è tema di interesse vitale della nostra società, mai come in questo momento consapevole della necessità di operare in termini di qualità e sostenibilità (anche urbana, anche architettonica, anche costruttiva) e tuttavia non sempre in grado di individuare le più utili competenze. Si tratta insieme di una opportunità (di sperimentazione anche di nuove forme didattiche) e di una attesa, da ascriversi – prima ancora che al mercato del lavoro – alla società, considerata anche come intreccio di sogni e prospettive, cioè di quegli aspetti che più frequentemente tendono a dare forma e carattere al territorio medesimo. L’attuale realtà professionale nel campo dell’architettura ci dice che non esiste una sola figura di architetto, ma che invece esistono molteplici figure che si differenziano sia per le competenze relative alla diversa collocazione rispetto ai processi
progettuali, sia per la maggiore o minore complessità di questi stessi processi. La scommessa è quella di dimostrare come la formazione universitaria nel campo dell’architettura e dell’ingegneria della città e del territorio sia fondamentale per la società. Malgrado il persistere di credibilità a livello internazionale, la formazione degli architetti in Italia vive oggi di una grande dispersione di modelli. La sperimentazione svolta ex DL 509 presso le due facoltà di architettura torinesi ha prodotto una differenziazione dell’offerta che deve costituire il necessario punto di partenza per un bilancio serio, in grado di evidenziare gli elementi di qualità e le problematiche irrisolte. Eppure la specificità dell’architettura rispetto ad altre professioni deve rispecchiarsi nei modelli formativi. Manca ad oggi, nel Politecnico di Torino, un luogo di formazione di architetti e ingegneri che incentri i propri insegnamenti nella costruzione – attraverso l’architettura e l’ingegneria – del territorio, un luogo che sia di apprendimento delle tecniche per operare (come è nella tradizione degli studi politecnici), ma allo stesso tempo di addestramento allo sguardo critico sul territorio (come è nella tradizione delle scienze umane). Proprio la questione della tecnica, della sua assenza o della sua auspicabile maggiore presenza, è stata invocata dagli intervistati che hanno risposto all’indagine sui giovani architetti. Tutte le azioni descritte, i modi e gli strumenti con i quali il nostro Ateneo può rispondere alle sollecitazioni che provengono dai giovani architetti, sono improntati alla massima attenzione alle condizioni attuali del mondo del lavoro, ma puntano anche a guardare al futuro e ad ampliare il più possibile l’orizzonte di riflessione, per provare a comprendere insieme (docenti, studenti, ex studenti ormai entrati nel mondo del lavoro) quali prospettive ci aspettano e soprattutto quali opportunità possiamo contribuire a creare.
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Ripensare la formazione in tempo di crisi I dati sulla crisi della professione dell’architetto ci confermano l’esistenza di un mercato professionale legato alla progettazione, che si sta evolvendo e trasformando Rocco Curto
I dati sui giovani architetti vanno considerati non solo come la crisi di una categoria professionale, ma all’interno della crisi economica generale, che colpisce per la vastità e per le ricadute gravi destinate a perdurare nel futuro e a ricadere sulle nuove generazioni. La crisi ha una portata globale e generazionale, riguarda le economie occidentali, investe l’Europa, è particolarmente acuta nel nostro Paese. Iniziata sotto forma di ‘bolla immobiliare’, come conseguenza dei mutui sub prime e dall’intreccio perverso tra finanza e real estate, si sta sempre più concretizzando in termini reali, di debito pubblico, di disoccupati e precari e di perdita di competitività sui mercati internazionali. Occorre premettere che alla crisi del Paese non si può fare fronte contraendo la formazione universitaria, come di fatto sta avvenendo. L’Italia è già agli ultimi posti dei Paesi Ocse per numero di studenti, quando invece la competitività si gioca – anche se non solo – attraverso l’innovazione tecnologica, che a sua volta tutti sappiamo dipende dalla ricerca e dalla formazione. L’università italiana è sottoposta da anni a un quadro di assoluta precarietà, ha subito la contrazione continua delle risorse finanziarie e umane, è stata sottoposta all’incertezza prodotta dal susseguirsi di proposte di norme. Un piano di rilancio dell’università, basato sul merito, deve comunque poter contare
su maggiori risorse umane e finanziarie e poggiarsi su un sistema di valutazione in grado di garantire l’efficienza e l’efficacia del sistema. È accaduto invece assolutamente il contrario. La legge voluta dal Ministro Gelmini e altri provvedimenti ministeriali collegati hanno portato a contrarre il numero degli studenti universitari, compresi quelli in architettura, in modo assolutamente indifferenziato. Le stesse facoltà di architettura negli ultimi anni hanno progressivamente ridotto i corsi di studi e i numeri programmati degli studenti. A partire da questo anno accademico hanno introdotto nei test di ammissione una soglia minima di accesso che va considerato come l’avvio di un processo di maggiore selettività. Il problema del numero degli studenti in architettura è certamente anomalo rispetto a quello degli altri Paesi, ma soprattutto il sistema formativo sembra prevalentemente concentrato – come del resto gli ordini stessi ci rimandano – sulla figura professionale dell’architetto libero professionista, quando invece progetto e costruzione implicano la collaborazione tra competenze sempre più diversificate e specialistiche, se si pensa, anche solo a titolo esemplificativo, alla sostenibilità (ambientale, economica e finanziaria). La professione viene identificata con l’architetto che progetta in forma autonoma, con propria partita IVA, in un mercato del
lavoro legato alle costruzioni che si sta contraendo a causa della crisi, oltretutto non privo di contraddizioni, se pensiamo alle norme che regolano i concorsi di progettazione oppure al fatto che nel nostro Paese, ma forse non solo, dal Ministero dell’Università dipende la formazione mentre le professioni sono regolate da quello di Grazia e Giustizia. La formazione data dagli studi in architettura costituisce invece la base culturale e tecnica importante di una varietà di profili professionali che vanno ricercati nell’intero processo di ideazione, progettazione, costruzione e gestione, visto dal lato pubblico e privato. I dati sui giovani architetti, se associati a quelli degli architetti trentenni, possono essere considerati come un segnale di criticità della professione o, se si vuole, anche come la conferma dell’esistenza di un mercato professionale legato alla progettazione, che si sta evolvendo e trasformando. Se ne possono infatti intravedere alcune potenzialità, se consideriamo lo spettro delle ricadute implicite nella concezione della sostenibilità intesa nella sua accezione più ampia, che sta inducendo e indurrà criteri di innovazione di processo e di prodotto (green building, smart building, smart city, etc.). È inoltre necessario segnalare che una parte consistente della domanda potenziale destinata agli architetti progettisti è sottratta da altre categorie professionali, geometri e ingegneri, oppure
Guardare lontano — 39
non si esprime in quanto tale, come domanda, se si pensa al mercato indotto da manutenzioni, ristrutturazioni edilizie, anche alla scala di singole unità abitative o a livello di interior design. Ancora una volta, si pone la necessità di comunicare la rilevanza pubblica e sociale della professione dell’architetto, la natura del suo lavoro, indispensabile per assicurare la qualità del vivere. L’architetto può essere progettista e project manager, ossia colui che ha le capacità di fare interloquire professionalità diverse oppure può offrire una miriade di competenze specialistiche, che possono essere rintracciate nel settore privato e in quello pubblico, nelle diverse fasi del processo che va dall’ideazione, alla progettazione, all’esecuzione fino a comprendere la gestione delle opere realizzate. I dati ci dicono che i giovani laureati in architettura trovano lavoro ma sono sottopagati, una condizione questa in qualche misura compensata dal fatto che gli architetti trentenni svolgono in prevalenza attività professionale autonoma. I dati dunque confermano l’esistenza di un mercato professionale privato, sia pure in crisi, ma che ha nel contempo potenzialità che possono essere sviluppate con le azioni necessarie, in un possibile patto intorno a equità, qualità e sviluppo cui dovrebbero aderire le università, gli ordini professionali, le imprese e gli enti territoriali. Il dato però più evidente, che non pone problemi di interpretazione, è la
percentuale di trentenni impiegati in enti pubblici. Sono, infatti, solo circa il 6%, una percentuale assolutamente insignificante, se si considera la rilevanza dei servizi territoriali e ambientali e il ruolo che comuni, province, regioni e soprintendenze svolgono nella tutela e governo del territorio. È del tutto assente il mercato ‘dell’architetto pubblico’, una figura alla quale non è possibile rinunciare, se si vuole preservare la qualità del vivere e dell’abitare. Nell’architettura e nel design si sta invece assistendo a un processo continuo di trasferimento tecnologico e di innovazione a tutto campo, che investe i modi di progettare – si pensi all’advanced architecture, i modi di costruire, in cui è evidente l’innovazione del settore energetico e dei materiali, i modi stessi di fruire del territorio e dell’architettura, tra cui vanno richiamati il ricorso all’ICT, dalla domotica sino all’impiego delle nuove tecnologie interattive, oggi sempre più utilizzate negli allestimenti e nei musei virtuali. Il territorio è sempre più oggetto di trasferimento tecnologico, dalla sua qualità dipende anche la competitività delle imprese, esso stesso rappresenta una risorsa da valorizzare anche sul piano economico. La ricerca e la formazione, dunque, nei campi dell’architettura, dei beni culturali e del design possono contribuire allo sviluppo, come ad esempio: sollecitare le imprese di costruzioni a innovazioni di processo e di prodotto; aiutare
le pubbliche amministrazioni, che hanno competenze di governo nel territorio, ad avviare quei processi di razionalizzazione e riforma a partire dalle pratiche amministrative legate al processo del progetto; supportare la valorizzazione delle risorse storiche, architettoniche e ambientali; aiutare le politiche indirizzate alla sostenibilità ambientale, di cui quella energetica rappresenta oggi la più evidente ma non la sola, se si pensa alla ricerca sui nuovi materiali o se si pensa alla sostenibilità nella sua dimensione anche sociale, oggi ben rappresentata dal social housing. La Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Architettura intende dare un contributo allo sviluppo, affrontando il nodo cruciale tra formazione e sbocchi professionali a partire dalla verifica del DM 270 in modo aperto, non autoreferenziale, ossia coinvolgendo il Consiglio Nazionale degli Architetti, l’Ance, l’Associazione di Formazione Manageriale, la Pubblica Amministrazione oltre al Consiglio Universitario Nazionale e al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, anche al fine di fare conoscere, promuovere e valorizzare una figura professionale che non può essere relegata e identificata con le cosiddette ‘star delle architetture spettacolarizzanti’. Da queste pagine lancio l’invito a Città di Torino, Ance regionale e Ordine degli Architetti della provincia di Torino per una riflessione e un’alleanza locale su questi temi.
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I laureati alla prova del lavoro Per chi esce da architettura rimangono buone le prospettive occupazionali. Ma il lavoro è precario e i redditi sono bassi. I dati di AlmaLaurea Andrea Cammelli
La più recente documentazione AlmaLaurea restituisce un’analisi della condizione occupazionale dei laureati italiani che fa emergere il perdurare della crisi. Anche se il valore della laurea ‘tiene’. Almeno sino ad oggi, ci dicono Istat e Oecd, resta confermato che al crescere del livello di istruzione, cresce anche l’occupabilità e la retribuzione. La laurea, dunque, è un investimento sul futuro: una più elevata soglia educazionale è fondamentale in un mondo globale dove è sempre più necessaria una formazione che punti prima di tutto ad insegnare ad apprendere. Per dare gli strumenti di risposta al sempre più rapido processo di innovazione, alla progressiva riduzione del ciclo di vita delle tecnologie e delle industrie e all’accresciuta instabilità dell’economia mondiale. Questo non vuol dire nascondere le difficoltà che ci sono e vanno affrontate con urgenza. Complessivamente, tra i neolaureati del 2009, aumenta ulteriormente la disoccupazione (seppure in misura inferiore rispetto all’anno precedente): dal 15 al 16% per i triennali, dal 16 al 18% per gli specialistici e dal 14 al 16,5% per
gli specialistici a ciclo unico. Il tasso di occupazione per i neolaureati triennali del 2009, considerando solo quelli che non risultano iscritti ad un altro corso di laurea, è pari al 71%; è il 56% tra i colleghi di secondo livello e il 37% tra i laureati a ciclo unico. Ma ciò dipende dalla consistente quota di laureati di secondo livello impegnata in ulteriori attività formative, anche retribuite. Ad un anno dal titolo, diminuisce il lavoro stabile (riguarda il 46% dei laureati occupati di primo livello e il 35% dei laureati specialistici e di quelli a ciclo unico) e un campanello d’allarme è dato dalla crescita del lavoro nero tra i laureati dal 2007 a quelli del 2009 (raddoppia tra gli occupati specialistici biennali raggiungendo il 7%). Le retribuzioni ad un anno dalla laurea, già modeste (meno di 1.100 euro per i titoli magistrali), perdono ulteriormente potere d’acquisto. La situazione però migliora nel medio periodo. A tre anni dalla laurea è occupato il 75% dei laureati specialistici biennali; lievita sensibilmente la stabilità (più 22 punti percentuali). Le retribuzioni nominali superano, a tre anni, 1.300 euro mensili netti.
Cosa avviene per i laureati in architettura? Alla prova del lavoro mostrano buone performance. Anche se, soprattutto nei primi anni dopo la laurea, l’impiego è fortemente atipico e modesta è la retribuzione. L’analisi si concentra sui percorsi specialistici (biennali e a ciclo unico). I laureati specialistici biennali in architettura del 2009, intervistati nel 2010, rappresentano il collettivo più consistente (1.952 laureati): il 67,5% lavora contro il 56% del complesso dei laureati specialistici; un quarto cerca lavoro contro il 28,5%; il 7% risulta impegnato nella formazione. Il lavoro stabile riguarda solo il 34% dei laureati in architettura, come avviene nel complesso, e la busta paga raggiunge appena gli 882 euro mensili netti contro una media nazionale di 1.078 euro. A tre anni di distanza, la situazione lavorativa migliora in modo evidente: gli occupati salgono all’86% contro il 75% del complesso degli specialistici, con un 5,5% ancora in formazione. Esiti occupazionali fortemente condizionati dalla dinamicità del tessuto produttivo del territorio: il tasso di occupazione varia dal 76 al 90%, considerando due Atenei del
Guardare lontano — 41
Centro e del Nord con un analogo collettivo di laureati in architettura nel 2007. La stabilità sale al 66%, contro il 62% del complesso dei laureati a tre anni, ed è caratterizzata dal lavoro autonomo (45%). Nota dolente rimane il reddito: appena 1.145 euro netti al mese contro i 1.313 del complesso degli specialistici. Nel confronto tra uomini e donne – queste ultime sono la maggioranza del collettivo indagato a tre anni – il divario di genere si fa sentire. Se il tasso di occupazione è simile, le laureate in architettura occupate sono maggiormente precarie (8 punti percentuali in più) e guadagnano meno: 1.018 euro netti mensili contro 1.248 dei colleghi uomini. I laureati specialistici a ciclo unico in architettura – il collettivo preso in esame è di 1.513 giovani usciti dall’università nel 2009 e di 932 del 2007, intervistati a uno e a tre anni dalla laurea – presentano performance simili. A un anno lavora il 60%, con 11 laureati su cento che proseguono la formazione; a tre anni dalla laurea il tasso di occupazione sale all’81%. Il lavoro stabile cresce dal 29% a un anno dal titolo al 62%; sensibilmente basso il reddito (appena 794
euro mensili netti per i neolaureati; 1.111 dopo tre anni). A cinque anni dalla laurea, considerando i laureati pre-riforma in architettura, l’occupazione è all’89%; il lavoro, soprattutto di tipo autonomo, è stabile nell’81% dei casi; ma, di nuovo, il reddito non cresce quanto il complesso di laureati: è di 1.289 euro contro i 1.321. Lo stato della professione dell’architetto in Italia non si esaurisce ovviamente con l’andamento del mercato del lavoro per i laureati in architettura. Ma i numeri dell’indagine AlmaLaurea, disaggregati per ateneo sino al singolo corso di laurea (www. almalaurea.it), sono uno strumento affidabile, tempestivo, per orientare al meglio strategie comuni rispetto all’offerta formativa di più alto livello e all’inserimento professionale dei giovani. Non solo. Sempre più diffusa, e sostenuta dalle recenti assegnazioni del premio Nobel per l’Economia, è la consapevolezza che l’informazione gioca un ruolo fondamentale nel favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e di competenze. Una conferma della rilevanza delle banche dati come AlmaLaurea che possono rendere meno viscoso il processo
di ricerca del lavoro e di accoppiamento tra laureati e posti di lavoro. La banca dati AlmaLaurea ad oggi rende disponibili un milione e 550 mila curricula di laureati (anche con esperienza decennale), certificati dalle università, aggiornati dai laureati, anche in inglese. Un modello collaudato, apprezzato a livello internazionale: dal 1998 sono stati ceduti alle imprese e a studi professionali tre milioni e mezzo di curricula. Nella banca dati sono presenti oltre 77mila laureati in architettura, novemila con una conoscenza ottima dell’inglese (per altri 38mila il livello è buono); ma ci sono anche 2.700 laureati in architettura che parlano spagnolo, 150 che conoscono l’arabo, 96 il giapponese, 72 il cinese. Un capitale umano da conoscere e valorizzare. Sarebbe infatti un errore imperdonabile sottovalutare la questione giovanile o tardare ad affrontarla; non facendosi carico di quanti, anche al termine di lunghi, faticosi e costosi processi formativi, affrontano crescenti difficoltà ad affacciarsi sul mercato del lavoro, a conquistare la propria autonomia, a progettare il proprio futuro.
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Giovani + pianificatori = qualità del territorio I pianificatori: punti di forza e di debolezza, prospettive future e criticità di una nuova figura professionale Roberto Albano
Il pianificatore territoriale e l’urbanista sono figure professionali tardivamente affermate in Italia, che nascono in seguito a una formazione specifica, per aiutare a governare e gestire tutti i processi di trasformazione del territorio. Questo profilo professionale si forma ormai da tempo attraverso specifici corsi universitari in Pianificazione, con laurea triennale e poi magistrale. Purtroppo però, in questi ultimi anni, per fare fronte ai sistematici tagli al sistema universitario, si è avviato un processo che ha condotto alla chiusura progressiva di molti corsi, una ennesima prova di disinteresse per il governo del territorio. A Torino, il corso di laurea triennale in Pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistico-ambientale, appartenente all’offerta formativa del Politecnico di Torino, è attivo dal 2001, seguito dall’omonimo corso di laurea specialistica (oggi magistrale) dal 2004. Il corso di laurea torinese ha avuto in questi dieci anni un continuo incremento: gli iscritti alla laurea triennale sono aumentati costantemente passando dai 36 del 2001 ai 134 del 2010 e un simile incremento percentuale si è avuto anche per la laurea magistrale,
dove i numeri passano da 7 a 41. Diversi fattori, tra cui la chiusura delle sedi in altre città, l’immagine rinnovata e accattivante che la città di Torino è riuscita faticosamente ad ottenere negli ultimi anni, la riconoscibilità del ‘marchio’ Politecnico e la qualità degli insegnamenti del corso di studi, garantita anche a fronte di riduzioni significative del corpo docente, hanno condotto a incidenze di studenti provenienti dall’estero e da altre regioni sempre più elevate: nel 2004-2005 tutti gli iscritti alla laurea magistrale provenivano dal Piemonte, nel 2010-2011 la percentuale di studenti provenienti da altre regioni è pari al 40%, mentre quella di studenti stranieri si attesta intorno all’8%. È in questo panorama che si colloca l’indagine condotta sui 78 laureati specialisti finora usciti dal corso di studi di Torino, che consente di presentare con chiarezza le condizioni dei giovani professionisti. Infatti, sebbene per questa indagine non sia stata posta un’età massima, si osservano dati che riguardano un universo di giovanissimi architetti, specializzati, con un’età media pari a 28 anni, laureati da non più
di 5 anni e in cui gli under 30 rappresentano oltre il 90% degli intervistati. Da tale sondaggio, realizzato nell’ottobre 2011, su un campione di 65 laureati specialisti, rappresentanti l’83% del totale, emerge preoccupazione, ma anche soddisfazione per la condizione professionale faticosamente acquisita. Per alcuni aspetti, i risultati dell’indagine collocano i pianificatori territoriali in condizioni analoghe rispetto alla categoria degli architetti, condividendo con essa i dati relativi al reddito medio e alla condizione e alla soddisfazione professionale. Se si osservano, invece, le risposte ‘aperte’, si segnalano rischi della professione, necessità, competenze e carenze che sono diverse da quelle degli architetti. Un primo dato positivo si riscontra se si osserva la percentuale di occupati: l’85% lavora, il 15% frequenta un corso di formazione post lauream (prevalentemente rappresentato dal dottorato di ricerca), mentre meno del 10% dichiara di essere alla ricerca di un lavoro. A questi numeri fa da contraltare una bassa percentuale di iscritti all’albo professionale, con un valore incidentale pari al 20% del totale.
Guardare lontano — 43 Figura 1 Provenienza degli iscritti al I anno del Corso di Laurea (dati in percentuale). Infografica: Lorem
83,33
65,52
63,64 64,41 60,61
2001-02 59,57
2002-03
57,58
2006-07 2007-08 2008-09 2009-10 2010-11
24,14 19,7 20,34
19,19 15,96
11,11
16,67
15,15
12,12
20,21 19,7
15,25
10,34
8,08
5,56
Torino e provincia
Questo dato trova riscontro quando si osservano i dati relativi alla tipologia occupazionale prevalente: l’attività della libera professione è svolta solamente dal 38% del campione, mentre il 59% si dichiara dipendente, dottorando o lavoratore a progetto. Un secondo dato confortante riguarda i tempi di inserimento nel mondo del lavoro, da cui risulta che il 53% ha trovato occupazione entro i primi tre mesi dalla laurea; e tale valore cresce al 64% se si considera un periodo di sei mesi (il 25% del campione non ha risposto a questa domanda). Dettagliando maggiormente la situazione lavorativa emergono invece due dati che riflettono le tendenze nazionali relative ai laureati di alcune facoltà, prevalentemente umanistiche, e che risultano non proprio confortanti. Essi riguardano il reddito e la tipologia di contratto. Infatti, solamente una percentuale pari al 32% risulta assunta con contratto a tempo indeterminato, e si compone, presumibilmente, di tecnici che risultavano già in forza all’ente ancor prima di intraprendere il percorso di laurea. I dati relativi al reddito sono in linea con quanto è emerso dall’indagine sui
Fuori provincia
7,58 4.26
Fuori regione
giovani architetti: solamente il 13% degli intervistati ha un reddito che supera i 1.500 euro netti mensili, mentre il 37% ammette che la sua remunerazione netta non va oltre i 1.000 euro/mese, valore sotto la media della gran parte degli altri Paesi europei, decisamente troppo basso per laureati magistrali, con almeno cinque anni di studi alle spalle. Se si accantonano i dettagli relativi alla situazione occupazionale in senso stretto e si sviscera la componente emozionale e il grado di soddisfazione personale, fondamentale per sviluppare ed arricchire la propria professionalità, sembra che il percorso formativo e l’attività lavorativa, al contrario, soddisfino ampiamente i pianificatori del territorio, almeno tanto quanto risulta per i colleghi architetti. In un ambito che, per quanto di nicchia, vede tipologie di attività prevalenti molto differenziate – dove il 44% dichiara di occuparsi di urbanistica, il 34% di ambiente e paesaggio, il 26% di pianificazione di area vasta, il 26% di ricerca e insegnamento, il 23% di architettura e il 18% di rigenerazione urbana – emerge una sostanziale soddisfazione della formazione
Estero
ricevuta, dell’attività lavorativa svolta e della città, Torino, che li ha ospitati. Il 78% degli intervistati è soddisfatto, o molto soddisfatto, della formazione che gli è stata assicurata; questa incidenza percentuale scende al 69% se si valuta il grado di soddisfazione rispetto all’attività svolta ma sfiora il 90% (di cui il 59% molto soddisfatto) quando si chiede loro il gradimento rispetto alla città di Torino. Questi dati confermano la necessità e l’apprezzamento nei confronti del corso di studi, della materia e, soprattutto, danno valore alle numerose politiche urbane supportate per creare una città giovane, dinamica, culturalmente viva e accessibile. La soddisfazione per quello che è stato fatto e per il luogo in cui lo si è fatto è molta, ma moltissime sono anche le azioni che si possono (e che sarebbe necessario) compiere per migliorare sia il percorso formativo, sia la condizione lavorativa di questi laureati. La parte finale del questionario proposto serviva, infatti, a mettere in luce le competenze acquisite e le carenze del percorso formativo, i principali problemi che deve affrontare questa recente figura
44 — Figura 2 Soddisfazione per le attività lavorative (dati in percentuale). Infografica: Lorem
Insoddisfatto 23,08
Poco soddisfatto Soddisfatto
44,62
Molto soddisfatto Non risponde
professionale e i provvedimenti più importanti che dovrebbero essere intrapresi per migliorarne ruolo e competenze. Emergono una serie di valutazioni che forniscono spunti interessanti per le azioni future. Dal punto di vista della formazione è interessante mettere a confronto le principali competenze utili acquisite e riconosciute con le carenze riscontrate. Tra i punti di forza più spendibili che il pianificatore assume, durante il periodo di formazione, sono evidenti sia la conoscenza multidisciplinare, sia la capacità di lavorare in team, che lo pongono in grado di interagire con altre figure professionali, tra loro anche molto diverse, permettendogli, quindi, di incaricarsi del ruolo di coordinatore in alcuni tavoli e processi di pianificazione, in cui sociologi, geologi, geografi, paesaggisti, architetti, valutatori e amministratori sono costretti a trovare una soluzione comune. Dunque, l’interdisciplinarità è il pregio che viene sottolineato con maggiore frequenza, intesa sia come capacità di dialogo che come capacità di lettura e interpretazione di piani, strumenti e dinamiche socio-economiche e territoriali anche tra loro molto
24,62 7,69
diverse come tipologia e come scala. Un altro elemento molto apprezzato nel percorso formativo è lo spazio riservato alla conoscenza di nuove tecnologie relative ai Sistemi Informativi Territoriali, che hanno avuto grande diffusione in questi ultimi anni negli enti locali. Ancora nell’ambito della formazione, sono state individuate difficoltà che è possibile sintetizzare nell’incapacità di gestire alcuni processi che sono tipici della figura dell’architetto e nell’arduo passaggio, che riguarda ormai tutte le università, nel binomio professione/formazione. Le risposte lamentano una carenza formativa nella preparazione di tecnici che non sono a conoscenza di una serie di pratiche edilizie ed amministrative fondamentali per avviare un confronto costruttivo con alcuni uffici tecnici comunali. Andando oltre la bolla della formazione e osservando le risposte fornite ai quesiti posti sui principali problemi della categoria e su quali provvedimenti siano necessari per migliorarla, risaltano, in modo preponderante, due necessità, tra loro fortemente connesse, che riguardano in senso stretto la figura professionale e le sue competenze.
Il problema maggiore, segnalato da più del 60% delle risposte, è la scarsa conoscenza che gli enti, le aziende e gli stessi architetti hanno di questa figura professionale competente e specifica. Ancora troppo spesso capita che i concorsi di selezione non includano il profilo del pianificatore tra quelli richiesti, sebbene si sia alla ricerca di figure molto congruenti con questa formazione. Il secondo problema indicato, e sentito quanto il precedente, è la mancanza di competenze esclusive per la categoria. A chi si è laureato in pianificazione è impedito di firmare qualsiasi tipo di progetto edilizio, o anche una semplice ristrutturazione, mentre ai nuovi laureati in architettura è concesso di operare liberamente nel campo della progettazione urbanistica e della valutazione ambientale e territoriale. Questo emerge dalle risposte come uno squilibrio di competenze che si somma alle difficoltà già citate. A questi due problemi, individuati dalla stragrande maggioranza come prioritari, se ne affiancano altri che ci introducono verso la conclusione di questo breve rapporto. Se si sommano alle difficoltà specifiche
Guardare lontano — 45
Lavori pubblici
1,54
Marketing territoriale
1,54
Figura 3 Di cosa si è occupato prevalentemente nell’ultimo anno? (fino a 3 risposte, dati in percentuale). Infografica: Lorem
Energia
4,62
Informatizzazione, gestione dati geografici
4,62
Sicurezza
4,62
Pratiche edilizie, catastali
6,15
Programmi/progetti europei
6,15
Altro non inerente la laurea
7,69
Ingegneria Ricerca Insegnamento Rigenerazione urbana Architettura Pianificazione di area vasta
10,77 12,31 13,85 18,46 23,08 26,15 33,85
Ambiente e paesaggio
44,62
Urbanistica
della categoria quelle disastrose del Paese in cui siamo tutti chiamati ad operare, dell’università e del settore pubblico, entrambi sempre più imbrigliati tra la mancanza di risorse e la difficoltà di doverle ripartire, si delinea una situazione che è complessa, ma dalla quale è possibile cercare di riemergere con alcuni accorgimenti. Prima di tutto è necessario agire dove è possibile, per ottenere una chiara definizione delle competenze e per avviare un forte marketing di categoria, composto da azioni diversificate che partano con attività prioritarie di comunicazione. È, però, necessario che tali azioni siano dirette tanto ad un parterre di enti pubblici quanto ad aziende private, perché troppo spesso ci si dimentica che molte di loro hanno interesse a sviluppare collaborazioni con figure come questa descritta. Nel settore privato, infatti, lavora il 40% dei dipendenti intervistati. Questa figura professionale ha delle responsabilità forti e vi è la necessità di continuare a formarla, tuttavia è fondamentale che, alla capacità di assorbimento del settore pubblico, ormai quasi
esaurita, continuino ad affiancarsi manifestazioni di interesse di un settore privato che opera in segmenti, come quello delle energie rinnovabili o dell’immobiliare, che possono costituire uno sbocco importante. È ora più che mai necessario ripensare i compiti di chi governa il territorio per evitare il collasso di un Paese che consuma due volte il suolo che viene urbanizzato in Germania e che utilizza gli oneri di urbanizzazione per le spese correnti dei bilanci comunali. Infine, i giovani: in un numero monografico che parla di giovani architetti, di giovani professionisti, sembra utile citare un ottimista, seppure inflazionato e da poco scomparso Steve Jobs, quando dichiara: “… Sono convinto che l’unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l’amore per quello che ho fatto. Dovete trovare quel che amate. E questo vale sia per il vostro lavoro che per i vostri affetti. Il vostro lavoro riempirà una buona parte della vostra vita, e l’unico modo per essere realmente soddisfatti è fare quello che riterrete un buon lavoro. E l’unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che fate …”.
Il focus group ‘Professione Creativa’ raggruppa giovani professionisti, che, su indicazione del Consiglio dell’Ordine Architetti di Torino, ragionano sulla tutela e la promozione della professione e sulle sue possibili e creative declinazioni nel difficile esercizio dell’attività soprattutto per i più giovani. Il focus, con Roberto Albano, Gabriele Iasi, Francesco La Trofa, Laura Milan, Diego Mori e Marta Santolin, ha collaborato alla definizione dell’indagine telefonica condotta su un campione di architetti under 40 iscritti all’OAT e realizzato un video di interviste ad alcuni giovani professionisti (riprese di Francesco TIDI Tagliavia). Fanno inoltre parte del focus ‘Professione Creativa’: Maria Angela Linguerri, Francesco Ferro Milone, Alberto Nada, Massimiliano De Rosa, Cristina Bardelli.
ROUNDABOUT Libri
Architects’ sketchbooks
Architettura Low Cost / Low Tech
L’architettura sbagliata
Editore L’Ippocampo, 2011 pp. 352 | € 29.90 - 500 illustrazioni a colori ISBN 9788896968314
Sassi Editore, 2010 pp. 208 | € 24.00 ISBN 9788896045152
Gangemi Editore, Architettura, Urbanistica, Ambiente pp. 160 | € 18.00 ISBN 9788849206302
I più grandi architetti del mondo ci aprono i loro quaderni di schizzi, offrendoci un insolito spaccato del modo in cui concepiscono e reinventano il nostro ambiente. Il volume ripercorre la genesi dei loro progetti più riusciti, documentando le varie tappe del processo creativo attraverso schizzi, plastici e un’intervista personale, che approfondisce l’approccio al disegno del singolo architetto. Risultato: ognuno concorda nel ritenere il processo che va dalla mente alla mano come quello fondamentale, anche chi opera con le tecnologie più avanzate.
Le difficoltà dell’economia mondiale hanno generato una condizione nuova: quando è necessario ridurre i costi la sobrietà diventa interessante e attraente, e le capacità di ricerca e sviluppo dei giovani architetti producono edifici di una nuova generazione. Oggi, si costruisce con budget limitati e si trasforma la ridotta disponibilità di denaro in energia creativa. Edifici meno costosi e più intelligenti, meno lussuosi ma più amichevoli e accoglienti. Questo volume mostra più di venti progetti, scelti dall’architetto e scrittore Alessandro Rocca, che delineano i diversi volti di una nuova avanguardia mettendo in luce le invenzioni, le opzioni e le strategie che danno forma e significato al mito della produzione sostenibile. La nuova architettura, low cost e low tech, risponde a una più attenta comprensione dell’ecologia umana e diventa simbolo di un profondo rinnovamento tecnico ed estetico che riguarda ogni aspetto della vita contemporanea.
L’architettura sbagliata è un’indagine intorno al fare bene in architettura. L’autore muove dalla diffusa realtà di un’architettura minore alla ricerca di temi e criteri, strumenti e categorie concettuali che possano guidare la disciplina verso un’architettura ben fatta, che orientino lo sguardo di studenti ed autori verso lo stile della buona architettura. La definizione di architettura sbagliata non è quindi da considerare in opposizione all’architettura ‘giusta’, secondo un giudizio etico di un’etica che l’architettura non conosce. L’architettura sbagliata indagata nel libro è quindi solo architettura incompiuta, è solo il frutto di un operare per difetto degli autori, di un’idea trascurata e parziale della composizione architettonica, necessaria e preliminare ad ogni opera. I sette capitoli dell’indagine vengono illustrati da circa 350 immagini di architetture da considerare come il supporto persuasivo, spesso divertente e ironico, delle analisi e delle tesi dell’autore intorno al fare bene dell’architettura.
di Will Jones
di Alessandro Rocca
Alessandro Rocca è architetto, giornalista e scrittore e collabora regolarmente con la rivista Interni e con altre riviste italiane e straniere. Insegna Progettazione e Teoria dell’architettura presso il Politecnico di Milano e la Clemson University (South Carolina). Tra i suoi libri più recenti, Modern Alternatives. Höller & Klotzner Architecture, Springer, 2008; Parchi e fiumi, Abitare Segesta - RCS, 2008; Gilles Clément. Nove giardini planetari, 22publishing, 2007; Architettura naturale, 22publishing, 2006. Vive e lavora a Milano.
di Francesco Andreani
L’apprendista architetto
Distruzione e progetto
La colonna danzante
Edizioni Unicopli, 2009 pp. 385 | € 22 ISBN 9788840013862
Christian Marinotti Editore, 2011 pp. 328 | € 29.00 ISBN 9788882731267
Libri Scheiwiller, 2010 pp. | 45.00 € ISBN 9788876446238
Il volume tende a configurare un percorso ideale di apprendimento, dalle questioni teoriche più generali ai temi di prammatica dell’apprendistato progettuale nonché a luoghi emblematici del fare architettura, particolarmente efficaci per un laboratorio progettuale; luoghi che instaurano una fenomenologia fondamentale dell’apprendere e portano a considerare il progetto un esperimento cruciale di un itinerario già configurato e di cui raccogliere il tragitto per innovarlo, come patrocinato dalla impostazione dei temi più generali. Al centro del libro una domanda: come attivare razionalmente l’immaginazione di un ideale allievo ovvero come sviluppare il talento progettuale attraverso tecniche discorsive e mosse consecutive elementari a partire dalla collezione e dalla sedimentazione di materiali oggettivi, senza appellarsi al talento innato dell’apprendista, all’accordo empatico tra maestri e allievo o alla seduzione dei vari mana auratici dell’opera artistica?
Associare ‘distruzione’ e ‘progetto’ suggerisce una condizione di radicale ambivalenza, segnata in profondità dalla perdita di luoghi e di senso. Come è potuto accadere che l’architettura, invece di contribuire a sostenere il buon vivere, si sia intrecciata con le forme che lo mortificano? Eppure non solo Aristotele e Vitruvio, ma anche autori moderni quali Freud e Marx, Gehlen e Guardini, e prima di loro già Bacone, avevano avvertito questa minaccia. Prudenza, misura, autocontrollo, responsabilità, solidarietà sono state le virtù via via indicate per orientare e incanalare la violenza implicita del fare e impedire così il suo capovolgersi nel contrario, in aggressione alla terra e alla natura. Oggi invece i contrari – il ‘progetto’ e la ‘distruzione’ – si congiungono e il mondo diviene sempre più ‘inabitabile’: dobbiamo allora arrenderci alla ‘volontà di potenza’ di un’epoca segnata dalla tecnica? E non è invece il momento di esercitare la critica delle insostenibili contraddizioni di un movimento storico-economico teso in modo unilaterale al profitto e alla crescita?
Una metafora antica quanto l’idea stessa di architettura stabilisce una corrispondenza tra colonne, edifici e corpo umano; dunque gli ordini classici che hanno dominato in occidente per tre millenni non sono quell’inerte successione formale (dorico, ionico, corinzio, etc.) imparata a scuola, bensì il frutto di un’immagine archetipica che abbraccia luoghi e tempi diversi: gli edifici dell’Asia Minore e l’estremo oriente, le antiche colonne egizie e il tempio greco. A suo agio tra le teorie di Hegel e Schopenhauer, di Adorno e Lukács, Joseph Rykwert passa da un’acuta analisi dell’avversione all’architettura di Georges Bataille al commento del significato del letto di Ulisse intagliato in un albero ‘Grosso come una colonna’; da Vitruvio a Leon Battista Alberti, fino alla modernità, l’idea di un ordine proporzionato al corpo si complica e arricchisce di elementi inattesi e sorprendenti: dalla teoria dei numeri allo zodiaco, dal canone astrologico e geometrico della figura umana ai simboli esoterici degli edifici, dall’identità di genere alla fisiognomica. Un testo imprescindibile, letto questo libro le costruzioni di Gaudì, Le Corbusier, Asplund, Loos, vi parleranno in un modo completamente nuovo.
di Giovanni Iacometti
Giovanni Iacometti è professore a contratto da vari anni nelle Facoltà di Architettura di Milano e di Parma e contitolare, dal 1977, dello studio COPRAT di Mantova. Ha progettato soprattutto case economiche nel Mantovano e nel Milanese, pubblicate su riviste come Controspazio, Lotus e Casabella, e ha svolto ricerche storiche sull’architettura mantovana, pubblicate ed esposte. Ha presentato progetti a varie mostre e ha vinto il Leone di Pietra a Venezia con un progetto per il Ponte dell’Accademia. Ha partecipato a numerosi concorsi di architettura anche in collaborazione con Aldo Rossi e Giorgio Grassi. Ha pubblicato progetti e ricerche storico-tipologiche su varie riviste e cataloghi.
di Nicola Emery
Nicola Emery è professore di Filosofia e di Estetica all’Accademia di architettura di Mendrisio, Università della Svizzera Italiana; insegna inoltre etica ed estetica del territorio presso la Scuola di Governo del territorio SUM-Università di Firenze ed è membro del Comitato di riferimento dei dottorati di ricerca in progettazione del Politecnico di Milano. È autore di numerose pubblicazioni e per la Christian Marinotti Edizioni ha pubblicato, nel 2007, L’architettura difficile: filosofia del costruire.
di Joseph Rykwert
Joseph Rykwert (Varsavia 1926), è uno dei maggiori storici dell’architettura e dell’arte e ha insegnato alle università di Essex, Cambridge, e presso l’università della Pennsylvania; tra le sue opere tradotte in Italia: L’idea di città: antropologia della forma urbana nel mondo antico (Adelphi, 2002); La seduzione del luogo: storia e futuro della città (Einaudi, 2008).
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L’indagine, realizzata per volontà dell’Ordine degli Architetti di Torino in collaborazione con il network 4t e cofinanziata dalla Compagnia di San Paolo, ha analizzato la condizione economico-professionale degli architetti under 40 iscritti all’albo. Condotta nella primavera del 2011 tramite interviste telefoniche a un campione statisticamente rappresentativo di 374 architetti, la presentazione dei risultati dell’indagine è stata l’occasione per una riflessione comune tra i soggetti coinvolti territorialmente e gli enti di ricerca, con la partecipazione di: Riccardo Bedrone, presidente dell’Ordine degli Architetti di Torino Rocco Curto, presidente Conferenza dei presidi delle Facoltà di Architettura Luca Davico e Cristiana Cabodi, coordinamento ricerca per il network 4t. think tank torino territori
Marco Gilli, pro rettore Politecnico di Torino Antonio Mura, senior researcher Cresme Ricerche S.p.A. Anna Maria Poggi, presidente Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo
Ferruccio Zorzi, preside Facoltà di Architettura 1 Politecnico di Torino Durante l’incontro è stato inoltre proiettato il video I giovani architetti tra il dire e il fare. Le interviste a chi è uscito dal gruppo, presentato da Roberto Albano e Marta Santolin, coordinatori del Focus Group OAT ‘Professione Creativa’ che ha realizzato le interviste video alcuni studi di giovani architetti torinesi. L’indagine è stata presentata il 16 novembre 2011. I risultati completi della ricerca su www.to.archiworld.it