monografia
Riformati e riformatori Architetture Rivelate
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Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% CB-NO/TORINO n째 1 Anno 2012
TAO n.12/2012 www.taomag.it ISSN 2038-0860 DIRETTORE RESPONSABILE
CONSIGLIO OAT
Riccardo Bedrone
Riccardo Bedrone, presidente Maria Rosa Cena, vicepresidente Giorgio Giani, segretario Felice De Luca, tesoriere
DIRETTORE SCIENTIFICO
Liana Pastorin l.pastorin@awn.it REDAZIONE
Raffaella Bucci Emilia Garda Liana Pastorin Via Giolitti, 1 - 10123 Torino T +39 0115360513/4 F +39 011537447 www.taomag.it redazione@taomag.it COMITATO SCIENTIFICO
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CONSIGLIERI
Marco Giovanni Aimetti Roberto Albano Sergio Cavallo Pier Massimo Cinquetti Franco Francone Gabriella Gedda Elisabetta Mazzola Gennaro Napoli Carlo Novarino Giovanni Tobia Oggioni Marta Santolin DIRETTORE OAT
Laura Rizzi CONSIGLIO FONDAZIONE OAT
ART DIRECTOR
Fabio Sorano
Carlo Novarino, presidente Sergio Cavallo, vicepresidente CONSIGLIERI
IN COPERTINA
GRAFICA
Coloured Vases, 2010 31 Han Dynasty vases and industrial paint Ai Weiwei Courtesy the artist and Lisson Gallery
Lorem
Periodico di informazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torino Registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51 del 9 ottobre 2009 Iscritto al ROC con il n. 20341 del 2010
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Simona Castagnotti
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Riccardo Bedrone Mario Carducci Giancarlo Faletti Emilia Garda Ivano Pomero
TAO 12 – INDICE 2 Contributors 4 Redazionale 5 Chi si accontenta [non] gode EDITORIALE DI RICCARDO BEDRONE 8 L’associazionismo professionale CRISTINA ACCORNERO 0 Diversamente partita IVA DARIO DI VICO 1 12 Ordini europei 13 Kammer der Architekten JOACHIM JOBI 15 El Colegio de Arquitectos ANTONI CASAMOR I MALDONADO 7 L’architetto tra ARB e RIBA PAOLA BOFFO 1 21 L’Ordre des Architectes BERNARD MAUPLOT 4 Coloured Vases AI WEIWEI 2 0 La riforma delle professioni LEOPOLDO FREYRIE 3 4 L’Agenzia regionale delle professioni tecniche GIANCARLO FALETTI 3 38 Le professioni intellettuali SILVIO BOCCALATTE 42 Il modello dell’Authority: opportunità e criticità MARCO OROFINO 46 Una liberalizzazione così così FRANCO STEFANONI 8 Roundabout 4
CONTRIBUTORS
CRISTINA ACCORNERO
ANTONI CASAMOR I MALDONADO
SILVIO BOCCALATTE
DARIO DI VICO
PAOLA BOFFO
GIANCARLO FALETTI
Laureata in Architettura al Politecnico di Torino, è dottore di ricerca in Storia (EHESS, Paris). Svolge attività di ricerca e di collaborazione didattica presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino ed è nel comitato di redazione della rivista Historia Magistra. Ha pubblicato numerosi saggi su temi di storia urbana in età contemporanea, di storia delle istituzioni scientifiche e municipali e di welfare e recentemente il volume Il governo del territorio. Istituzioni, comunità e pratiche sociali a Torino (1861-1926), Torino, Trauben, 2011.
È avvocato e fellow dell’Istituto Bruno Leoni e dottore di ricerca in Metodi e tecniche della formazione e della valutazione delle leggi presso l’Università di Genova, dove è collaboratore alle cattedre di Diritto Costituzionale e Diritto Costituzionale Comparato. Per l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato La proprietà e la legge. Esproprio e tutela della proprietà nell’ordinamento giuridico italiano, Rubbettino, 2004; è il curatore dei capitoli relativi alla liberalizzazione delle professioni intellettuali nell’annuale Indice delle Liberalizzazioni.
È RIBA London Region Chair dal 2010 e North West London RIBA Chair dal 2009, fa parte del consiglio di RIBA Nations & Regions e del gruppo di lavoro per i ‘local branches’ dal 2010. Rappresenta circa 12000 iscritti e 1000 studi che hanno indirizzo a Londra. È un Chartered Architect con esperienza acquisita principalmente nel settore residenziale e scolastico e momentaneamente impegnata allo sviluppo di un masterplan per la rigenerazione di una delle zone di Londra che è stata teatro delle rivolte dell’estate 2011.
Dalla fondazione con David Baena dello studio BCQ di architettura, paesaggio e sviluppo urbano nel 1991, concilia l’attività di progettazione con l’insegnamento nelle principali scuole di architettura in Spagna e all’estero. È Presidente della Demarcació de Barcelona del COAC dal 2010. Tra i suoi lavori, il Pavelló Esportiu Municipal d’Olot (2010) e l’Oficina Integral de la Seguretat Social a Barcellona (2011). Ha ricevuto numerosi premi e i suoi lavori sono stati pubblicati nel libro Reflejos/Reflections (ACTAR-Pro).
Lavora a Il Corriere della Sera dal 1989 ed è editorialista e inviato. Del giornale di via Solferino è stato in passato vice-direttore con le direzioni Folli e Mieli. Laureato in sociologia a Roma ha scritto Industrializzazione senza sviluppo, Profondo Italia, Piccoli, La pancia del Paese, Milano-Nord Est, la troppa distanza. Ha vinto il Premiolino e il Mario Talamona.
Avvocato in Torino. Esercita dal 1977 occupandosi (anche) di professioni e professionisti (specie medici ed architetti). Dal 1980 è consulente dell’Ordine degli Architetti di Torino; dal 1979 è consulente nazionale di Organizzazioni Sindacali della dirigenza medica. Ha pubblicato qualche libro e scritto molti più articoli, note o commenti. Ha partecipato alla stesura di contratti collettivi di lavoro. Da un anno circa, è nonno ed è una bella soddisfazione.
LEOPOLDO FREYRIE
MARCO OROFINO
JOACHIM JOBI
FRANCO STEFANONI
BERNARD MAUPLOT
AI WEIWEI
Consigliere del CNAPPC dal 1997, nel 2000 è tra i fondatori del Forum Europeo per le Politiche Architettoniche. Nel 2004 è Presidente del Consiglio degli Architetti d’Europa ed è insignito dell’American Institute of Architects Presidential Medal. Nel 2007 è designato dal Ministro dei Beni Culturali membro del Consiglio Italiano del Design. È stato Relatore Generale del XXIII Congresso Mondiale degli Architetti a Torino nel 2008 e ed è presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti da marzo 2011.
Nato in Romania, ha studiato a Saarbrucken e Nantes. Si è specializzato in diritto comunitario negli studi post-laurea presso l’Università di Saarland, Saarbrucken, e in diritto d’autore durante il dottorato di ricerca. È stato assistente e docente presso l’Università di Potsdam, consulente legale del Ministero della scienza, della ricerca e della cultura di Brandeburgo, assistente parlamentare di Siegfried Kauder, deputato del Parlamento federale tedesco, senior Associate; da dicembre 2007 è responsabile dell’EU Liaison Office a Bruxelles della Bundesarchitektenkammer.
È architetto associato dal 1998 dello studio Babel Architecture a Parigi. Laureato in Architettura, ha ottenuto una seconda laurea presso il CERCOL, centro di studi e ricerche sulla costruzione e sull’abitare dell’Università di Diritto, Economia e Scienze Sociali a Parigi. Impegnato da più di 10 anni nell’associazione Mouvement des Architectes, è stato eletto nel 2007 consigliere de l’Ordre des Architectes d’Île de France, dove ha esercitato le funzioni di vice presidente incaricato degli affari giuridici fino al 2010, anno nel quale è stato eletto presidente.
È ricercatore in diritto costituzionale presso il Dipartimento Giuridico-Politico dell’Università degli Studi di Milano. Presso la medesima Università è professore aggregato di Informazione e Costituzione e – nell’ambito di un progetto Jean Monnet della Commissione Europea – di Diritto delle comunicazioni elettroniche. È autore di due monografie nonché di numerosi articoli e saggi in materia di autorità indipendenti, di regolazione dei mercati, di diritto regionale e dei beni culturali.
Giornalista de Il Mondo, da anni si occupa di liberi professionisti e ordini professionali, raccontandone fatti e misfatti. È autore, a riguardo, de I veri intoccabili (Chiarelettere, 2011). In precedenza ha pubblicato anche Finanza in crac (Editori Riuniti, 2004), Il codice del potere (2007), Il finanziere di Dio. Il caso Roveraro (2008), Mafia a Milano (con Mario Portanova e Giampiero Rossi, nuova edizione 2011) tutti pubblicati da Melampo.
Ampiamente considerato come una delle figure culturali più significative della sua generazione in Cina e a livello internazionale, Ai Weiwei occupa con successo ruoli multipli come artista concettuale, architetto, curatore, designer, film maker, editore e attivista. Utilizzando una varietà di linguaggi formali con metodi tradizionali e innovativi di produzione, Ai Weiwei collega il passato con il presente ed esplora le realtà geopolitiche, economiche e culturali che affliggono il mondo, con humour e compassione.
REDAZIONALE
Grande clamore, entusiasmo, incredulità, disappunto. Vari e altalenanti i sentimenti suscitati dall’annuncio (finalmente) di una riforma per le professioni, che, invece, ha deluso i più perché troppo rivolta a ridimensionare gli Ordini anziché a rinnovarli, deludendo soprattutto quelle tecniche, che non sembrano neppure più tanto libere. Eppure qualche cosa da salvare c’è, pur nel timore o nella speranza che ogni cambiamento induce in noi: la cultura del progetto e la tutela della professione – quella con pregnanza etica e sociale – dell’architetto. Per aiutarci a capire, questo numero di TAO parte dal passato, con una ricostruzione storica dell’associazionismo professionale in Italia a cura di Cristina Accornero e rivolge lo sguardo all’Europa indagando e confrontando il funzionamento e l’organizzazione degli Ordini professionali degli architetti stranieri: la Kammer der Architekten in Germania con Joachim Jobi, il Colegio de Arquitectos in Spagna con Antoni Casamor i Maldonado, l’ARB e il RIBA in Gran Bretagna con Paola Boffo e l’Ordre des Architectes in Francia con Bernard Mauplot. La ricognizione prosegue attraverso l’analisi dello stato dell’arte sulla riforma degli ordinamenti professionali con Leopoldo Freyrie e la presentazione di ipotesi alternative di strutturazione degli Ordini: il modello camerale con Giancarlo Faletti, il modello associativo con Silvio Boccalatte e il modello dell’Authority con Marco Orofino.
Completano il quadro le interviste a due giornalisti: Dario Di Vico sui limiti della riforma ed in particolare sulle conseguenze per i possessori di partita IVA e Franco Stefanoni sulle difficoltà di un rinnovamento di Ordini arroccati sulla protezione dello status quo. Abbiamo voluto rappresentare questo approfondimento attraverso un’unica quanto significativa opera dell’artista architetto cinese Ai Weiwei, perché lo sguardo, la mente e la volontà si concentrino su obiettivi di valore, salvaguardando, pur nell’azione, la migliore eredità. L’invito che ne scaturisce è a non lasciarsi distrarre, a prendersi il tempo per capire, a non farsi imprigionare da questi momenti difficili e ad aggiungere colore, passione, creatività alla nostra vita, a cominciare da quella professionale. Perché, che si tratti di tradizioni culturali o di professionalità, ‘riformare’ non può essere sinonimo di ‘cancellare’. Così la pensa anche Ai Weiwei, consulente artistico degli architetti svizzeri Herzog & de Meuron per lo Stadio Nazionale di Pechino per le Olimpiadi del 2008, il quale ha assunto una posizione apertamente critica delle azioni del governo cinese in tema di democrazia, di diritti umani e di rapporto con la tradizione e con il passato. Con Coloured Vases l’artista ripropone i vasi della Dinastia Han, immergendoli in modo irriverente in secchi di vernice industriale, lasciando tuttavia traccia della decorazione della superficie originale e quindi della loro età.
Chi si accontenta [non] gode Editoriale di Riccardo Bedrone
L’Unione Europea, nel riconoscere che l’attività dei professionisti è assimilabile a quella dell’impresa, ha sollecitato più volte l’Italia – ancor da poco con la raccomandazione del 7 giugno 2011 – ad assumere provvedimenti per accrescere la funzione e l’esercizio della concorrenza, liberandola dai vincoli derivanti sia da comportamenti intrinseci (il ruolo dei professionisti e dei rispettivi Ordini) che da norme e regolamenti generali, promuovendo in alternativa i servizi di supporto alla professioni. L’assunzione di questi indirizzi da parte del Governo è avvenuta con i recenti provvedimenti per il rilancio del sistema economico, che producono un quadro fortemente integrato con il modello regolamentare europeo: infatti il tema complesso delle riforme di struttura è inteso come uno dei fattori fondamentali per uscire dalla crisi profonda in cui versa oggi il nostro Paese. Le professioni intellettuali sono chiamate quindi a partecipare ad un impegno a tutto campo, per contribuire a definire un profilo nuovo e diverso dell’assetto delle loro rappresentanze, che parta dalla constatazione della debolezza funzionale ed organizzativa che attualmente lo contrassegna rispetto ad altri settori dell’Unione Europea. L’organizzazione delle professioni ‘libere’ si presenta oggi in forme tanto articolate da far ritenere opportuno, a questi fini, ricondurre i ragionamenti alle specificità delle singole prestazioni intellettuali: nel caso degli architetti, quindi, alle professioni tecniche, ignorando le pur legittime esigenze di altre attività liberali che però hanno, in realtà, campi di applicazione ed esigenze diversi. I primi passi della riforma hanno ‘espunto’ dalle competenze ordinistiche la deontologia e hanno introdotto la formazione continua permanente (obbligo sanzionato disciplinarmente), stabilito il libero accesso (facendo salvo l’esame di Stato), indicato il tirocinio come strumento preparatorio di ingresso nella professione, annullato le tariffe minime (per adottare, forse, nuovi parametri che dovranno essere utilizzati ‘quasi clandestinamente’ come semplice riferimento), rafforzato l’obbligo della assicurazione a tutela del cliente (paradossalmente anche senza avere clienti) e liberalizzata la pubblicità informativa; sono inoltre previste le società anche di capitale (e non di soli professionisti). È un disegno non ancora concluso, che tuttavia delinea un forte depotenziamento dell’attuale sistema ordinistico: delle competenze originarie rimane la sola tenuta dell’Albo a cui si aggiunge
– una novità parziale – la validazione dei percorsi formativi individuali obbligatori. Poco per mantenere in piedi una struttura simile all’attuale, esito di una riforma timida e insoddisfacente che suggerisce non accettazione sconfortata, ma urgente riflessione, per tentare di far compiere – a questo o a un altro Governo – ulteriori e più ragionevoli passi in avanti. Ciò che si richiede è di riflettere sulle opportunità che un sistema dinamico ed aperto può offrire al alle professioni tecniche ed agli architetti in particolare, accettandone le sfide e sapendo correre i rischi che la novità comporta, piuttosto che chiudersi in una logica volta a difendere quanto rimane in capo al sistema originario, con il rischio di reinserirlo in una spirale involutiva. Il mondo delle professioni intellettuali deve invece essere partecipe di un processo di rinnovamento dell’intero sistema economico e culturale, all’interno del quale prestano la loro attività quotidiana, senza nostalgie conservatrici e anzi farsi promotore di un reale processo di ‘ammodernamento’ e di ‘riforme’. E in particolare gli architetti, che della modernizzazione dei processi produttivi fanno le spese, devono essere tra coloro che richiedono consapevolmente una radicale revisione dell’intero impianto normativo che oggi regola l’esercizio della loro professione: nessuna inutile difesa dello status quo e nessun tentativo di restare ancorati alla tutela di presunti privilegi. Perché non si sentono “intoccabili” e vogliono, al contrario e a larga maggioranza, cambiare profondamente le cose, restando però nei limiti di un processo riformatore, anche profondo, ma senza entrare nel campo della deregulation tanto auspicata da chi la ritiene, sconsideratamente, una specie di ‘formula magica’. C’è da sperare quindi che la riforma non si concluda con i provvedimenti annunciati – ovvero l’emanazione del DPR che aprirà la strada alla Regolamentazione specifica delle professioni – ma faccia crescere l’esigenza di incidere in profondità e non superficialmente, in tutti i sensi, sulla strada di una ben differente semplificazione e di una maggiore efficienza complessiva. Certo, i passi necessari saranno ancora molti e complessi. Ma è opportuno delineare una ipotesi di ristrutturazione ordinistica più razionale, costruita attorno ad un organismo deputato alla conservazione ed all’aggiornamento del registro degli iscritti (compito in qualche misura ‘di routine’) ma con competenze nuove, più
marcate e definite. Queste ultime dovrebbero essere finalizzate a: ´´ valorizzare la professione, l’attività ed il ruolo dei professionisti; ´´ sostenere e potenziare le forme di organizzazione delle “imprese della professione” (le cui dimensioni medie sono oggi incredibilmente basse) e quindi rafforzarle in rapporto al mercato europeo; ´´ aiutare a costruire ed alimentare reti di collaborazione tra studi e con altre attività economiche di settori produttivi diversi; ´´ promuovere iniziative di apertura verso l’estero e sostenere concretamente la necessaria internazionalizzazione delle “imprese della professione” locali; ´´ favorire il ricorso a incentivi di sostegno economico; ´´ aprire e intrattenere rapporti effettivi di collaborazione con il mondo dell’università. La prima riflessione è relativa alla opportunità di ragionare in termini di “professioni tecniche” che, pur nel rispetto del profilo di ciascuna (in attesa di una ridefinizione delle competenze formative ed operative), hanno tuttavia molto in comune nei termini di sbocco sul mercato e di sostegno-supporto a tanti settori della produzione. Nel novero delle professioni tecniche si intendono incluse quelle dell’architetto, dell’ingegnere, del geologo, dell’agronomo, del geometra (quest’ultima mai come oggi necessitevole di rifasature, rispetto proprio alla proliferazione della domanda di prestazioni): professioni che singolarmente dovrebbero presidiare singole parti del mercato ma che, complessivamente, spesso si sovrappongono, pur se sono riconducibili a forme omologhe di rappresentanza anche economica. La formazione professionale continua, in secondo luogo, assume non soltanto il ruolo strategico di certificazione e valorizzazione della qualità della prestazione, ma diventa altresì il percorso ordinario per conseguire l’aggiornamento operativo, ai fini del loro posizionamento nella competizione nazionale ed internazionale, delle “imprese professionali”. Le esperienze più interessanti sono state maturate – anche da lungo tempo – soprattutto dagli Ordini (per ragioni di bilancio, in particolar modo quelli maggiori) autonomamente o attraverso società o Fondazioni direttamente costituite: si tratta di un patrimonio straordinario di esperimenti e di conoscenze che va valorizzato, divulgato ed esteso, non certo marginalizzato per far posto ad una improbabile concorrenza di improvvisati soggetti educatori. I percorsi di aggiornamento professionale devono di conseguenza essere elaborati su base locale, con un opportuno coordinamento nazionale, in un regime di forte cooperazione tra Ordini, con il sistema universitario e con gli organismi preposti alla promozione delle altre attività economiche (le Camere di Commercio in primo luogo). È probabile tuttavia che tale novità comporti una inversione di tendenza nella impressionante corsa alle iscrizioni all’Albo: gli
impegni, economici in primo luogo, che ne derivano possono avere un effetto scoraggiante nei confronti delle iscrizioni routinarie. Proprio per questo l’Albo professionale non può che diventare un registro che raccoglie i profili e le specializzazioni di ciascun iscritto, ne testimonia il livello professionale e garantisce (annotando le sanzioni eventuali in cui il singolo sia incorso) il profilo deontologico individuale: un elenco aperto, consultabile da chiunque. Si potrebbe così delineare un ruolo dei nuovi organismi più caratterizzato da forme attive di tutela e valorizzazione della professione e delle sue forme societarie, chiamate a cooperare con altri soggetti di natura economica a matrice pubblica (le Camere di Commercio, appunto, le articolazioni dell’ICE, le associazioni imprenditoriali, le rappresentanze delle categorie economiche, ecc.), tanto da far ritenere opportuna, se non indispensabile, una loro collocazione nell’area di competenza di un Ministero economico, abbandonando, almeno per gli architetti e le professioni tecniche, la dipendenza dal Ministero della Giustizia. Naturalmente in un quadro così innovativo, il tema della ‘equipotenzialità’ dei nuovi organismi si pone con tutta evidenza: occorre superare la frammentazione e la disomogeneità che oggi caratterizza gli Ordini degli architetti e che ne connota la stessa attività. Diventando essi strumenti di organizzazione ed offerta di servizi ai propri aderenti, è necessario che dispongano di quegli strumenti di natura economica, scientifica e strumentale, che solo ad un sufficiente livello di scala sono disponibili. Appare quindi inevitabile organizzarli, poco a poco, a livello regionale, affinché possano raggiungere dimensioni sufficienti ed idonee ai nuovi compiti, definendo delle forme di rappresentanza che garantiscano le espressioni delle singole aree provinciali. Il problema nasce dalla grande variabilità dimensionale degli attuali Ordini, rispetto ai compiti dei futuri “organismi” rappresentativi: se sono accettabili oggi, per numero di iscritti e disponibilità di risorse, quelli che fanno riferimento alle grandi città metropolitane – ma sono sei in tutta l’Italia (Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze e Palermo), gli altri non raggiungono una massa tale da renderli operativi ed efficienti, come la riforma parrebbe richiedere. D’altra parte, si tratta di una base territoriale, quella regionale, che presenta una larga diffusione in Europa. Una tal soluzione, oltre ad essere coerente con il disegno del Governo teso a ridurre la portata ed i compiti delle attuali Province, costituisce uno snellimento del sistema delle rappresentanze, assicura un maggiore equilibrio nella qualità delle prestazioni offerte e semplifica il rapporto con gli iscritti. Consente inoltre di individuare con grande facilità un equilibrato rapporto con i nuovi Istituti deputati a vigilare sul rispetto della deontologia. Per questi il livello regionale sembra quello più opportuno: la tutela del rispetto del codice deontologico potrebbe essere compito
che tali organismi svolgono per ambiti di professioni analoghe (come appunto le professioni tecniche) a garantire interpretazioni e trattamenti omogenei. In presenza di un quadro di riorganizzazione del sistema ordinistico su base funzionale, come illustrato, ed organizzativa (su base regionale) si pone il problema di un analogo razionale ripensamento del Consiglio Nazionale, delle sue modalità di funzionamento e della portata della sua rappresentanza: che deve caratterizzarsi prioritariamente per funzioni di coordinamento, di indirizzo e, laddove necessario, di sussidiarietà, gestendo compiti di rappresentatività istituzionale della professione in forme e modalità aperte rispetto alla probabile nuova assemblea degli Ordini. Anche per il CNA si avverte dunque l’esigenza di un radicale alleggerimento, delle funzioni, delle mansioni, delle dimensioni e dei costi in armonia con un rinnovato sistema ordinistico locale. Del resto, i sostenitori più accesi di un ripensamento profondo del sistema delle rappresentanze professionali sono proprio gli iscritti agli Albi, quella massa sterminata che accomuna indistintamente grandi e piccoli studi, lavoratori autonomi e dipendenti, progettisti reali e laureati semplici ‘cultori’ (quanti insegnanti e quanti istruttori di pratiche edilizie vi si raccolgono!) che vede in alcuni settori, come quello degli architetti, un sovradimensionamento senza uguali in Europa. Da costoro, negli ultimi tempi in vario modo interrogati dai Consigli degli Ordini più avvertiti dell’esigenza di coglierne gli umori e di rendere noto il processo di avanzamento di una riforma da troppi anni attesa da tutti, sono giunte chiare e forti le manifestazioni di insofferenza verso l’insufficiente capacità attuale dei Consigli (provinciali e nazionale) di rappresentarli e sostenerli come vorrebbero. Certo, all’origine di tanti lamenti c’è una crisi mai avvertita in maniera così lacerante negli anni passati, come pure una diffusa ignoranza della ragione d’essere degli Ordini, così come si sono storicamente formati, che porta i tanti insoddisfatti a ritenerli sindacati incompleti ed irresoluti, oppure erogatori di servizi non da tutti richiesti e quindi considerati un inutile aggravio delle quote di iscrizione, quando invece fino ad oggi era loro imposto, nell’ordinamento vigente, di essere semplicemente dei tribunali minori, dediti alla sorveglianza e alla repressione dei comportamenti deontologicamente riprovevoli. In ogni caso, le risultanze dei sondaggi compiuti rivelano forti analogie di giudizio tra le varie sedi che li hanno condotti: in particolare, l’ipotesi di una liberalizzazione completa delle professioni con l’abolizione degli organi rappresentativi (e il corollario della scomparsa degli esami di abilitazione) risulta largamente minoritaria, soprattutto perché non sono mai stati percepiti come un ostacolo all’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani, quanto piuttosto come strumenti inefficaci
nel tutelare sia gli interessi generali che quelli professionali. A Torino ha preso parte all’indagine, condotta on line attraverso un breve questionario per la durata di un mese, quasi il 10% degli iscritti, di cui l’87% di professionisti. Che per il 76% si dicono contrari ad una liberalizzazione ‘spinta’, per il 79% non vogliono abolire gli Ordini – ma anzi potenziarli – e per il 72% ritengono opportuno accorparli. Pochissimi (il 13%) li svuoterebbero, lasciando loro solo compiti burocratici. Meno convinta l’adesione all’introduzione della formazione continua sanzionabile (il 57% dei pareri è positivo), largamente contraria è invece la loro posizione rispetto all’introduzione delle società professionali di capitale (due terzi non la vogliono). La stessa apertura alla pubblicità informativa, che molti osservatori vedono come un forte incentivo alla concorrenza e quindi un aiuto al consumatore, è vista con molta sufficienza e ben la metà degli iscritti non la desidera. Mentre, infine, è largamente maggioritaria (pari all’83%) l’opinione di coloro che vorrebbero passare sotto la tutela di un Ministero economico, visto che la dipendenza dal Ministero di Giustizia poco ha avuto a che vedere con il ruolo, la collocazione e le attitudini professionali degli architetti. Ma è soprattutto dai commenti che hanno integrato le risposte che si colgono le vere esigenze degli architetti, peraltro in gran parte professionisti attivi con continuità e non occasionali. Molti si lamentano che ciò che sanno (o possono) offrire gli Ordini oggi è troppo (o troppo poco) rispetto a quanto si aspettano: per certi versi non servirebbe, per altri ha un costo ingiustificato. Molti altri aggiungono però che li vorrebbero potenziati, per farli diventare vere parti sociali, interlocutori forti del mondo economico, e per assicurare ai professionisti quella tutela di cui godono nelle fabbriche e negli uffici i lavoratori dipendenti: insomma li vorrebbero come sindacati veri. E poi ci sono le posizioni, velleitarie e demagogiche, certo, ma anche sintomatiche del desiderio di cambiamento, dell’aspirazione a migliorarsi e, insieme, del timore di non farcela, bene espresse dall’accettazione condizionata di sottoporsi all’aggiornamento professionale ed al suo accreditamento: va bene, ma senza costi ... Perché una cosa sta diventando chiara a tutti: qualsiasi possa essere l’esito di una riforma dell’ordinamento professionale, la caduta delle (supposte) protezioni e l’introduzione di nuovi obblighi segnerà definitivamente la fine delle “professioni di massa”. Chi per mancanza di lavoro, chi per esiguità del reddito, che per un disinteresse esplicito a prolungare senza limiti il proprio periodo formativo, molti saranno tentati, se non costretti, a chiedere la cancellazione dagli Albi. E questo bisognerà evitarlo: non è facendo strage di progettisti che si terrà alto il valore di una buona architettura, di cui gli architetti sono, indipendentemente dalla collocazione professionale, i primi sostenitori.
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L’associazionismo professionale L’evoluzione del sistema formativo e delle organizzazioni collettive dall’Unità al fascismo che ha portato alle origini degli Ordini degli Architetti e alla definizione della figura moderna dell’architetto Cristina Accornero
Nell’Italia postunitaria l’associazionismo professionale è strettamente connesso con la questione del riassetto del mondo scolastico e accademico. Si avvia, infatti, un processo di riordinamento degli studi universitari che coinvolge la composizione dei collegi degli ingegneri e degli architetti. La legge Casati del 1859, che costituisce l’ossatura portante della successiva legislazione dello Stato unitario in materia di istruzione, incentiva la fondazione di scuole per ingegneri – a Torino la Scuola di applicazione e a Milano l’Istituto tecnico superiore – cui si aggiunge qualche anno più tardi una sezione dedicata agli architetti, che assegna il diploma di architetto civile accanto a quello di ingegnere civile. Tuttavia, il sorgere di accademie e di istituti d’arte evidenzia una contraddizione nel sistema della formazione dei tecnici. Queste istituzioni rilasciano il diploma di professore di disegno, promuovendo una figura di ‘architetto irregolare’ che tra Otto e Novecento è molto presente nei concorsi d’architettura e negli ambienti accademici. Questa condizione ambigua dipende anche dal modello didattico: accademie e scuole d’ingegneria
hanno programmi e insegnamenti diversi e, di conseguenza, mirano entrambe ad una figura di architetto che si differenzia sul piano culturale. I professori di disegno, infatti, sono collocati sullo stesso piano degli ingegneri e degli architetti civili, nonostante il loro bagaglio formativo abbia concetti e linguaggi non coincidenti con l’idea di modernità di un ingegnere o di un architetto diplomati in una scuola di applicazione. In questo contesto è evidente come l’organizzazione della professione stenti a decollare. I numerosi tentativi di riformare la didattica e la tutela professionale incontrano difficoltà a causa dei conflitti tra professionisti e professori di disegno, tra le diverse scuole d’applicazione per ingegneri e le accademie, tra le stesse città che aspirano ad essere le capofila di tali riforme. Nel 1872 il primo congresso nazionale degli ingegneri e degli architetti (e quelli che seguiranno nei decenni successivi) affronta la tutela, la legittimazione dell’azione professionale e la valorizzazione della categoria promuovendo il dibattito sulla regolamentazione della professione
a livello nazionale e incentivando lo sviluppo di sodalizi a livello locale. È in tale contesto che l’associazionismo attiva una serie di interventi volti a tentare di risolvere le contraddizioni tra scolarizzazione e professionalizzazione. In assenza di una legislazione di tutela sorgono collegi di ingegneri e architetti in numerose città italiane, in particolare al nord, a Roma e Napoli, per controllare l’esercizio della professione. A Torino nel 1883 si costituisce il Collegio degli Architetti, che ambisce a sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica le problematiche della cultura architettonica dell’epoca. Il sodalizio è promosso da un esiguo nucleo di iscritti alla Società degli Ingegneri e Industriali, che successivamente si inserisce nel Circolo degli Artisti come sezione di Architettura. A seguito di questa scissione la Società riformula il suo statuto e nel 1888 si trasforma in Società degli Ingegneri e Architetti con “lo scopo precipuo di promuovere l’incremento scientifico artistico e tecnico dell’ingegneria e dell’architettura e tutelare il decoro e gli interessi degli ingegneri e degli architetti”. A Roma nel 1871 si co-
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stituisce il Circolo Tecnico degli Ingegneri e Architetti che si trasforma nel 1875 in Collegio degli Ingegneri e Architetti. Nel 1885 quest’ultimo si modifica in Società degli Ingegneri e degli Architetti Italiani con scopi istituzionali del tutto inediti come la promozione e l’incremento della tecnologia, del progresso e degli studi, la tutela degli interessi professionali e la costituzione di un fondo assistenza per i professionisti. All’inizio del Novecento, dunque, comincia a evidenziarsi la necessità di creare un organismo centrale rappresentativo della professione a livello nazionale. Nel 1908 questa esigenza trova una prima attuazione con la formazione della Federazione fra i sodalizi degli Ingegneri ed Architetti Italiani che si pone come obbiettivo lo stretto collegamento tra i vari collegi locali. Tuttavia la svolta avviene nel primo dopoguerra quando si costituisce un’unica associazione che riunisce tutte le componenti tecniche nazionali. Nel 1919 un comitato promotore milanese costituisce l’Associazione Nazionale Ingegneri Italiani con lo scopo di garantire la difesa della categoria professionale e di sostenere lo sviluppo della scienza e dell’e-
conomia nazionale. Nel 1922 entra a far parte dell’Associazione la categoria degli architetti e l’istituzione assume la denominazione Associazione Nazionale degli Ingegneri e degli Architetti Italiani (ANIAI) ed elabora un nuovo statuto. Nel 1923, all’epoca della costituzione del Sindacato fascista, gli architetti sono rappresentati da due associazioni nazionali: l’ANIAI, i cui iscritti sono i laureati nelle sezioni di architettura delle scuole di ingegneria e la Federazione architetti italiani che raccoglie i diplomati delle accademie d’arte. L’atto conclusivo della lunga e complessa querelle, avviatasi in epoca postunitaria, coincide con il riconoscimento giuridico della professione di architetto e ingegnere nel giugno del 1923 tramite l’approvazione di una legge che tutela il titolo e la professione. Nonostante nel 1927 avvenga la separazione tra l’Ordine degli architetti e quello degli ingegneri, tale regolamentazione non permette l’individuazione delle competenze specifiche dell’architetto, la cui figura professionale non è completamente definita poiché spesso entra in conflitto con gli ingegneri per una non chiara delimitazione di competenze rela-
tive alle opere di “rilevante carattere artistico” e all’edilizia civile. Con la svolta autoritaria del fascismo, nel 1925 si avvia la fascistizzazione delle associazioni professionali e progressivamente accresce il potere del Sindacato che intreccia politica e professione, tratteggiando un nuovo profilo dell’architetto, tecnico e intellettuale, al servizio del regime.
Storia d’Italia, Annali 10. I professionisti, a cura di Maria Malatesta, Torino, Einaudi, 1996, p. 781 Paolo Nicoloso, Gli architetti di Mussolini. Scuole e sindacato, architetti e massoni, professori e politici negli anni del regime, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 239 Alberto Gabba, Renata Demartini, L’Associazione Nazionale degli Ingegneri e degli Architetti (A.N.I.A.I.) nel secolo XX (1919-1999), Como, Edizioni New Press, 2003, p. 105, s.i.p
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Diversamente partita IVA Intervista di Liana Pastorin a Dario Di Vico
DOMANDA Nel 2009 lei scriveva di un allarme per gli studi professionali – soprattutto di avvocati e di architetti – in grave crisi e prossimi alla chiusura. Una stima di 300mila professionisti a rischio “nel silenzio e disattenzione generale”. Che cosa è successo nel frattempo? RISPOSTA Non siamo ancora usciti da una fase recessiva che speravamo fosse più breve. Invece l’iniziale crisi finanziaria ha creato una crisi economica reale che poi è diventata crisi dei debiti sovrani. Il contesto è quindi di fatto peggiorato. Il limite del dibattito nel mondo professionale è dato dall’incapacità di riconoscere i fenomeni di integrazione delle attività indotti dal prevalere della sfera economica. Troppo spesso quella dell’economia è considerata erroneamente una contaminazione negativa, invece è una dimensione fondamentale con la quale si deve necessariamente fare i conti. Mentre in Italia esiste un sistema manifatturiero con la sua storia e la sua cultura, non è ancora chiaro che cosa sia il nostro terziario. Ciò che è certo è che non è strutturato né robusto, e questo perché abbiamo perso alcune battaglie impor-
tanti negli anni Ottanta e dopo l’ingresso nell’euro. Il terziario italiano è a bassa intensità e bassa qualità e non rappresenta una piattaforma sufficientemente competitiva in campo internazionale, senza questo sostegno le competenze che pure esistono in grande quantità nelle professioni rischiano di rimanere annegate. Un vero peccato considerando che i professionisti italiani possono vantare storia e cultura. D Ci sono responsabilità della stampa nel presentare i liberi professionisti all’opinione pubblica? Non tutti sono facoltose archistar, neppure evasori o collusi con soggetti ricchi e potenti grazie ad attività illecite in campo edilizio… R La stampa ha le sue colpe nell’aver dedicato poco spazio e attenzione al professionalismo. Non ha capito come in un’economia moderna le competenze facciano la differenza. Decidere di essere un professionista ‘libero’ esprime una forma di mobilitazione individuale e rappresenta un valore potenziale. Un’economia nervosa e competitiva come la nostra ha bisogno di valore aggiunto e lo può trovare in un mondo delle profes-
sioni che sappia aprirsi e rinnovarsi. Dobbiamo però considerare anche il fatto che la politica ha finora guardato ai professionisti più come bacino elettorale che come soggetto per garantire lo sviluppo del Paese, ma, neppure con il voto contratto, è stata mantenuta la promessa di una maggiore attenzione al professionalismo, lasciando alla libera iniziativa individuale la ricerca di improbabili soluzioni. I professionisti, anche con riconosciuta e solida esperienza, devono poi provvedere ad un aggiornamento continuo (digital divide, ma anche conoscenza delle lingue straniere) che comporta un esborso economico; questo, forse, potrebbe essere limitato per esempio tramite incentivi fiscali. Per tornare alle archistar, credo che, con il loro portato di valore aggiunto eccezionale, svolgano una funzione positiva, per la stampa che ne può parlare e, di riflesso per la categoria degli architetti e direttamente sul territorio in cui la loro opera insiste. Un caso noto a tutti è il museo Guggenheim di Frank Gehry a Bilbao, che ha risvegliato una città che declinava. D Recentemente ha scritto un appello al Ministro Elsa Fornero perché la riforma
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del mercato del lavoro riconosca anche quella parte di possessori di vere partite IVA, di professionisti che hanno scelto di essere liberi e flessibili e che rischiano di essere fagocitati in un sistema di dipendenza al lavoro che non desiderano o penalizzati da tasse e contributi suppletivi. Che cosa si aspetta dal Governo? R Il giuslavorismo prevalente è quello del lavoro dipendente. Pochi studiano il lavoro autonomo, tanto da far credere che gli italiani siano tutti lavoratori dipendenti a Mirafiori, mentre Fiat non è neppure più la più grande fabbrica d’Italia! Non si considerano i problemi del lavoro autonomo sovente ammiccando ad una sua equivalenza con l’evasione fiscale: uno scambio perverso che non può essere accettato. Il Ministro Fornero ha riconosciuto que-
sto aspetto come degno di considerazione confermando anche un deficit di conoscenza sul lavoro autonomo che si è impegnata a colmare. Aspettiamo con fiducia gli sviluppi futuri. Rimane, è vero, il fenomeno delle finte partite IVA, ma ci sono persone che hanno scelto consapevolmente un lavoro autonomo, stabilendo una relazione più professionalizzata con il mercato e dimostrando un gusto del rischio personale, che manca a un lavoratore dipendente. D I liberi professionisti iscritti agli Ordini sovente lamentano di non essere tutelati; ma questa non è, oggi, la funzione dell’Ordine. Quale pensa debba essere il suo ruolo verso gli iscritti e verso la società? Una riforma non sarebbe più corretta se sapesse riconoscere le peculiarità
dei vari Ordini rispetto alle professionalità che rappresentano? Gli architetti non sono avvocati né ostetriche... R Gli Ordini dovrebbero avere poche competenze da svolgere nel migliore dei modi e non occuparsi dell’aspetto sindacale. Bisognerebbe lavorare, magari con programma pluriennale, sulla proposta di un welfare più moderno riducendo, per esempio, la quota di rischio assunta dal libero professionista. Tra le proposte espresse dai presidenti degli Ordini italiani al Professional Day del 1 marzo, solo quella portata dagli architetti italiani ha espresso la riflessione più meritoria, ovvero che lo sviluppo della professione dell’architetto sia strettamente legato al Progetto Paese, condividendone le ragioni e gli obiettivi.
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Ordini europei La professione di architetto negli ultimi anni si è trasformata radicalmente, nonostante la legge di istituzione degli Ordini risalga al 1921. Il cammino lento e faticoso di una riforma organica delle professioni si è incagliato più volte, rimanendo incompiuto, fino alla recente accelerazione impressa dal governo per un rapido adeguamento a standard europei. Ma qual è la situazione negli altri Paesi? Come opera l’architetto in Francia? E come funzionano le Kammern in Germania? In Gran Bretagna le associazioni di categoria operano a sostegno della figura dell’architetto? In Spagna ci sono tariffe minime? Per rispondere a queste domande l’Ordine degli Architetti di Torino, in collaborazione con l’Ordine di Roma e l’Ordine di Firenze, ha promosso un confronto dal titolo “L’architetto in Europa. Confronti e proposte per il futuro degli Ordini” tra i rappresentanti di alcuni Ordini europei in cui si è discusso di valore del titolo di studio, tirocinio, accesso alla professione, tariffe, obbligo di assicurazione, modalità di associazione, ruolo e le competenze dell’Ordine tra costi e numeri.
Sono intervenuti al convegno del 30 marzo 2012 L’architetto in Europa. Confronti e proposte per il futuro degli Ordini Fabio Barluzzi Presidente OAPPC Firenze Riccardo Bedrone Presidente OAPCC Torino Silvio Boccalatte Istituto Bruno Leoni Paola Boffo RIBA London Council Chair Antoni Casamor i Maldonado President de la Demarcació de Barcelona del Col-legi d’Arquitectes de Catalunya Giancarlo Faletti Avvocato in Torino Joachim Jobi Bundesarchitektenkammer, Head of EU-Liaison Office Bernard Mauplot Presidente Ordre des Architectes en Île-de-France Paola Muratorio Presidente INARCASSA Marco Orofino Università degli Studi Milano Amedeo Schiattarella Presidente OAPPC Roma
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Kammer der Architekten L’organizzazione, le funzioni, le competenze e le attività delle 16 Camere regionali e della Camera federale che gestiscono la professione dell’architetto in Germania Joachim Jobi La professione di architetto in Germania è disciplinata a livello regionale, cioè a livello delle 16 Länder che compongono lo Stato federale. Di conseguenza, gli architetti sono generalmente iscritti alla Kammer, nella cui giurisdizione lavorano o si sono stabiliti. Nel caso in cui il professionista interessato abbia uffici in diverse giurisdizioni, sono possibili iscrizioni a più Kammern che gli consentono di acquisire il diritto di firmare progetti sul territorio del Land in cui l’architetto è registrato. Lo stesso regime giuridico vale per architetti paesaggisti, architetti d’interni e urbanisti, che in genere sono anche membri delle citate Kammern, pur avendo un Albo specifico per ciascuna professione. Al fine di essere iscritti presso una delle Kammern regionali, l’architetto deve qualificarsi attraverso almeno quattro anni di
formazione accademica a tempo pieno, dine di diverse attività che esercitano in conforme ai requisiti fissati dalla Direttiva nome e al servizio della professione: sulle Qualifiche Professionali (2005/36/ CE) secondo il curriculum minimo previ- ´´ Protezione della Baukultur, sviluppo urbano e tutela del paesaggio sto dalla art. 46 della Direttiva. In aggiunta a questo titolo di studio il richiedente deve ´´ Supervisione degli obblighi deontologici dei soci dimostrare di aver effettuato almeno altri due anni di esperienza pratica professio- ´´ Promozione della formazione professionale continua (CPD), nale, ricoprendo tutte le tipologie di lamentre alcune Kammern hanno voro che un architetto esegue in genere istituito propri corsi per questo motivo – dalle prime fasi di redazione e progettazione alla direzione lavori in cantiere. Nel ´´ Fornitura di soluzioni per la Risoluzione Alternativa caso in cui i richiedenti soddisfino questi delle Dispute (ADR) per i soci requisiti e dimostrino di avere inoltre l’ase per i conflitti tra i soci e clienti sicurazione professionale obbligatoria per la responsabilità civile, possono essere ´´ Consulenza per i membri e i loro clienti iscritti nell’Albo degli architetti. In questo modo, i praticanti acquisiscono ´´ Nomina pubblica e convocazione di esperti il diritto di usare il titolo di architetto, che è protetto dalla legge e riservato ai profes- ´´ Promozione di concorsi di architettura sionisti che sono membri di una delle 16 ´´ Promozione della cooperazione con le altre Kammern der Architekten Kammern der Architekten. Le denominaa livello nazionale ed europeo zioni / titoli di ‘Architetto del paesaggio’, ‘Architetto d’interni’ e ‘Urbanista’ sono ´´ Definizione dei regimi pensionistici per i soci protetti allo stesso modo da norme e regolamenti delle Kammern der Architekten. ´´ Assunzione di azioni in qualità di Autorità Competenti all’interno A parte il funzionamento degli Albi di cui dei compiti previsti dal diritto sopra, alle Kammern – essendo soggetti comunitario, vale a dire di diritto pubblico – sono legalmente asla Direttiva sulle Qualifiche segnati dalle autorità pubbliche, vale a Professionali e la Direttiva sui Servizi dire dalla rispettiva Länder, una moltitu-
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La Camera federale degli architetti tedeschi (Bundesarchitektenkammer, BAK) di Berlino è l’organizzazione ombrello delle Kammern der Architekten dei 16 Länder tedeschi. A differenza di queste, la Bundesarchitektenkammer non è un ente di diritto pubblico, ma un’associazione di diritto civile ed è finanziato dalle 16 Kammern. Il BAK è stata fondata nel giugno 1969 e rappresenta a livello nazionale, a livello dell’UE e a livello internazionale gli interessi di più di 124.600 architetti (al 1° gennaio 2011). Tra loro l’87% lavora come architetto edile, il 6% lavora come architetto del paesaggio, il 4% è registrato come interior designer e il 3% come urbanista. I temi principali e i compiti del BAK sono i seguenti: rafforzare la coscienza della cultura architettonica e dell’ambiente costruito; promuovere la tutela dei consumatori nel settore; agire per mantenere e migliorare le condizioni economiche e giuridiche di formazione professionale; promuovere la cooperazione e lo scambio regolare di esperienze con le Kammern der Architekten dei Länder. Ogni architetto iscritto riceve il Deutsches Architektenblatt (DAB), il periodico mensile ufficiale del BAK. Il BAK è anche il patrono del premio tedesco di architettura che viene rilasciato ogni anno. Avendo istituito un proprio ufficio di col-
legamento con l’Unione Europea a Bruxelles, il BAK è, a livello europeo, un membro attivo del Consiglio degli Architetti d’Europa (ACE), la federazione delle organizzazioni degli architetti per gli Stati membri dell’Unione Europea, che si trova a Bruxelles. A livello internazionale, il BAK rappresenta gli interessi degli architetti tedeschi nella sezione tedesca dell’Unione Internazionale degli Architetti (UIA). “L’ambiente costruito è il quadro di riferimento per l’attività umana e per l’interazione, è del tutto pervasivo, noi gli diamo forma ed esso ci forma”, è quanto affermano le Linee Guida per l’educazione all’ambiente costruito (BEE – Built Environment Education) dell’Unione Internazionale degli Architetti (UIA) nel 2002. Anche se l’architettura influenza la nostra vita quotidiana più della musica, delle arti figurative o della letteratura, non è ancora parte integrante dell’educazione scolastica. Per influire su questo aspetto, le Kammern der Architekten dei Länder, nonché il BAK, hanno lanciato diverse iniziative sul tema Architettura e bambini. Numerose sono le attività delle Kammern der Architekten dei Länder che variano da progetti scolastici con gli architetti fino alla messa a punto di materiale didattico, il lancio di iniziative politiche e programmi di forma-
zione per gli insegnanti. Il BAK sta incoraggiando questo argomento attraverso una regolare attività di lobbying politica così come con eventi nazionali ed internazionali in Germania e all’estero. Le Kammern der Architekten dei Länder, così come il BAK, vorrebbero che tutti avessero la possibilità di imparare a comprendere l’ambiente costruito, divenendo così non solo clienti e cittadini qualificati, ma anche decisori competenti nella politica e nell’amministrazione. Inoltre, occuparsi di ambiente costruito richiede anche capacità umane fondamentali. Allena i sensi, favorisce l’interdisciplinarietà e il lavoro di squadra e aiuta a sviluppare una consapevolezza storica ed ecologica. Il BAK ha anche fondato nel 2002 la Rete per lo scambio in architettura (NAX – Netzwerk Architekturexport) non solo per promuovere le attività degli architetti tedeschi all’estero, ma anche per aiutare gli investitori operanti a livello internazionale, nella ricerca di architetti e urbanisti adeguati. NAX fa parte delle attività di lobbying del BAK a livello europeo e internazionale. Lo scopo di NAX è quello di rendere lo scambio internazionale di servizi di pianificazione più facile e di promuovere la mobilità professionale di architetti e urbanisti.
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El Colegio de Arquitectos
Colegio de arquitectos ebbe un ruolo fondamentale in Catalogna nella salvaguardia dei valori democratici e civici e nella rivendicazione della cultura catalana. Va tenuto presente che negli anni della ditL’evoluzione storica del Colegio e tatura era stata vietata qualsiasi forma di delle sue funzioni. La sfida di una nuova associazione. identità da costruire come antidoto alla I decani del COAC furono, all’epoca, arcrisi economica. La realtà di Barcellona chitetti di grande prestigio che godevano Antoni Casamor i Maldonado di forte autorità morale e professionale. Busquets e Solá Morales (padre) ne sono L’origine dei Colegios de Arquitectos in alcuni esempi. A quei tempi non esisteva Spagna risale al 1929, a partire dalla So- praticamente nessun altro soggetto attivo ciedad General de Arquitectos. A seguito che si interessasse dell’architettura in Cadi una serie di crolli di edifici a Madrid, agli talogna, a parte la scuola di architettura di architetti venne imposto l’obbligo di cre- Barcellona che, dal canto suo, era l’unica are un Ordine per l’esercizio della profes- istituzione accademica esistente in Spasione. Il Colegio avente come capoluogo gna oltre alla scuola di Madrid. Barcellona comprendeva Catalogna, Ara- La maggior parte della struttura orgagona, Rioja e Baleari. L’ultima scissione nizzativa, finanziaria e gestionale dell’ordel Colegio originario avvenne nel 1976, ganizzazione del COAC venne costituita quando le Baleari si resero indipendenti e a quei tempi. I Colegios de Arquitectos venne costituito il COAC: il Col•legi d’Ar- erano basati economicamente sui diritti di quitectes di Catalogna. intervento (analoghi al servizio di validaIl COAC è organizzato attraverso enti ter- zione), ossia sul diritto di partecipazione ritoriali (Barcellona, Girona, Tarragona, ad una parte della transazione economica Ebre e Lleida), distretti, enti tematici e fra l’architetto ed il cliente. All’epoca, i raggruppamenti (periti, patrimonio, urba- Colegios de Arquitectos negoziavano, nistica, sostenibilità, ...). direttamente con l’amministrazione, il paNel corso degli anni Cinquanta e Ses- gamento delle imposte degli architetti, santa, ed all’inizio degli anni Settanta, il organizzavano l’assicurazione sanitaria
dei loro membri in base al principio della fratellanza, assicuravano i lavori, disponevano dei risparmi dei loro membri ed iniziarono addirittura a fornire materiale per ufficio agli studi di architettura. Naturalmente, col tempo, tali servizi finirono per specializzarsi e suddividersi in istituzioni differenti. Comparvero la Caixa d’Arquitectos (una banca), la Germandat d’Arquitectos (un’assicurazione sanitaria), la Cooperativa d’Arquitectos (un negozio per la vendita di materiale ed articoli da libreria) ed Asemas iniziò a prestare servizi come principale compagnia assicurativa del lavoro degli architetti. Tutte le suddette sono, attualmente, enti completamente separati dal COAC. Il Colegio mantenne i diritti di intervento, il che gli ha garantito, sino alla data odierna, una situazione economica privilegiata e la capacità di essere un attore rilevante a livello culturale nella città. Col tempo il COAC ha finito per perdere il proprio tenore di ente di prestigio morale, malgrado mantenga un certo peso e capacità di interlocuzione fra le istituzioni pubbliche catalane. Il panorama culturale ed accademico si è moltiplicato in modo esponenziale. Esistono decine di istituzioni che lavorano a livello culturale con l’architettura (FAD,
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Musei d’arte, Associazioni professionali, centri di progettazione, la Fondazione Mies van der Rohe, ...). Solo in Catalogna esistono attualmente sette scuole di architettura (circa 40 in tutta la Spagna). Sussistono un’infinità di istituzioni ed iniziative volte ad interloquire con gli architetti, appartenenti al settore dell’urbanistica, alla sfera politica, al campo economico (Camere di commercio), professionale (altri Colegios) e sociale. I diritti di intervento hanno smesso di esistere recentemente per trasformarsi in un servizio di validazione, ossia un controllo normativo e tecnico obbligatorio che stabilisce determinate garanzie sull’architetto e sul progetto, e che i Colegios devono percepire economicamente in modo proporzionale al costo del servizio. In definitiva, ciò significa un cambiamento del paradigma assoluto nella struttura finanziaria dell’istituzione. La fortissima crisi del settore delle costruzioni in Spagna, che è passato dal rappresentare oltre il 20% dell’economia del Paese a costituire attualmente meno del 2% dell’economia, ha fatto piombare il sistema finanziario del COAC in una situazione molto delicata. L’attività del Colegio ora è incentrata su tre ambiti, che sono suddivisi tra i distretti:
Servizi Scuola SERT Consulenza tecnica Informatica Pagina web Segreteria Consulenza giuridica Coordinamento del visto Ufficio concorsi
Comunicazione e promozione dell’architettura Cultura Esposizioni / Conferenze / Dibattiti Biblioteca Quaderns / Archivio Fiere Construmat / BCN meetint point
Mostre Premi di architettura Comunicazione Promozione internazionale
Nuovi progetti per il finanziamento del COAC Programma di patrocinio Ottimizzazione patrimonio immobiliare Modalità di adesione al COAC Ampliamento del numero dei soci con apertura ad architetti non iscritti all’ordine e a non architetti
Scuola SERT Architettura e cittadinanza / Corsi per stranieri
Programma di reperimento di aiuti e sovvenzioni
Per cui, si può desumere che il Colegio debba fare uno sforzo per ricapitalizzarsi affinché le proprie finanze non dipendano (o nel minimo possibile) dalle entrate provenienti dalla comunità degli architetti. D’altro canto, il Colegio de Arquitectos, che si era sempre basato sugli architetti che avevano lavoro, ora deve orientarsi soprattutto verso una stragrande maggioranza di architetti che non hanno incarichi di progettazione, o un posto di lavoro fisso. Da questo nasce l’interesse per i nuovi progetti di promozione dell’architettura. Il Colegio sta passando dall’essere un’istituzione che salvaguarda l’architetto ad un’istituzione che promuove l’architettura (l’architettura intesa come tutto ciò che fanno o che possono fare gli architetti), ponendo particolare enfasi sui vincoli sociali. Dobbiamo riconoscere che negli ultimi anni l’attività degli architetti si è diversificata moltissimo, con diverse specializzazioni (calcolo strutturale, urbanistica, progettazione, stima economica, architetti al servizio dell’amministrazione, architetti che lavorano in ingegneria, architetti che lavorano per altri architetti, architetti docenti, architetti che offrono consulenze ad aziende private, architetti che progettano materiali o soluzioni costruttive, project manager, facility manager,
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oltre agli architetti che progettano edifici). In questo periodo è difficile trovare architetti che abbiano molti interessi comuni e, tuttavia, comprendiamo bene tutti l’esigenza, per l’architettura in generale, di mantenere un organo grande, potente ed influente che ci rappresenti e che possa promuovere il nostro lavoro, qualunque esso sia. È meglio non impostare un’organizzazione professionale di questo genere cercando di trovare ciò su cui tutti gli architetti concordano, o ciò che può riguardare tutti (negli anni Cinquanta a Barcellona tutti gli architetti si dedicavano alla progettazione e praticamente ciascuno di essi aveva un proprio piccolo studio professionale). Attualmente è meglio per un architetto poter operare in situazioni culturali e professionali diverse e il Colegio deve lavorare su molteplici fronti e orientamenti. Il Colegio lavora anche per offrire opportunità agli architetti. Naturalmente non per affidare loro degli incarichi, bensì per procurare delle opportunità per ricollocarsi sul mercato del lavoro, per poter trovare lavoro al di fuori dal proprio Paese, o per investire in innovazione e migliorare il lavoro che già stanno facendo. Infine, il Colegio opera per riuscire ad influire su alcuni settori della società: le aziende e l’amministrazione, affinché l’elaborazione delle leggi che regolamentano il lavoro de-
gli architetti sia ragionevole e commisurata ai mezzi disponibili, affinché i concorsi di architettura abbiano l’obiettivo di ottenere il migliore progetto ed il migliore team per il cliente ed affinché l’architettura e gli architetti vengano correttamente compresi e valorizzati dalla società. Attualmente, il fatturato degli studi di architettura sta attraversando una crisi storica (considerata come il crollo di un settore produttivo da molti analisti). La forte riduzione degli incarichi ha presupposto, già attualmente, la scomparsa o l’inattività di circa la metà degli studi professionali e la perdita di posti di lavoro presso studi o aziende (comprese le aziende pubbliche dell’amministrazione) per circa il 60% dei professionisti. Alcuni architetti hanno difficoltà ad interpretare le cause di questa situazione. Altri architetti comprendono la situazione, ma non hanno gli strumenti per affrontare i cambiamenti (studi piccoli, con un processo di informatizzazione non perfettamente implementato, o con una struttura imprenditoriale molto debole, rendono difficile la ripresa). Solo un ulteriore terzo gruppo comprende la situazione e dispone dei meccanismi per affrontarla. Dinanzi a questa situazione risulta difficile non cadere nello sconforto o non pensare che noi, come architetti, abbiamo in parte la colpa di quanto sta accadendo.
In questo senso, il COAC ha anche una responsabilità collettiva. Dobbiamo offrire il massimo delle opportunità ai nostri architetti e dobbiamo fare in modo che tale aiuto sia il più tangibile ed efficace possibile. Ma dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che la crisi che stiamo vivendo è una crisi di fatturato delle singole unità imprenditoriali, non dell’architettura in se stessa. Superata questa situazione di crisi, gli architetti e l’architettura continueranno ad esistere. Le capacità degli architetti sono, se così le si può intendere, quasi magiche. Siamo in grado di vedere nell’oscurità. Progettiamo guardando al futuro e risolviamo i problemi della società. Siamo in grado di vedere delle opportunità dove gli altri vedono solo degli inconvenienti. Possiamo disegnare strategie, destinare e quantificare risorse, siamo in grado di visualizzare i nostri obiettivi, ci facciamo coinvolgere personalmente dal nostro lavoro, possiamo gestire dei team ed avere interlocutori estremamente diversi. E tali capacità non sono in crisi. Dobbiamo impegnarci a riconoscere le nostre più intime capacità e dobbiamo essere consapevoli del fatto che queste sono state estremamente utili alla società in passato, ma che saranno ancora più utili e valorizzate in futuro.
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L’architetto tra ARB e RIBA
Works, che si trova dettagliatamente descritto nell’Architect’s Job Book. La differenza fra ‘a’rchitect ed ‘A’rchitect è nella protezione del titolo e non nella funzione come, invece, è in Italia. ChiunChartered Architect in UK: regole, que, in Gran Bretagna, può fare un ‘planfunzioni, idee e valori di un Istituto ning application’, ovvero presentare un che può influenzare la società progetto al Comune di una città o di un Paola Boffo paese. Così, tutti quei piccoli lavori di ampliamento e ristrutturazione delle abitaCome esercitare la professione di ar- zioni, molto spesso, non sono né dominio chitetto nel Regno Unito? Dipende dal né pertinenza degli Architetti. Da ciò si evisettore in cui si vuol operare, dai tipi di denzia che un’ingente parte del mercato progetto da eseguire, dal committente, delle costruzioni in Gran Bretagna non è ma in primo luogo, è importante sapere affidata ai Chartered Architects o tanto che per lavorare come architetto non è meno agli Architects. Negli ultimi anni, sonecessario essere iscritto a un Ordine. prattutto, da quando sono stati introdotti Chi scrive è un ARB, RIBA Architect, lau- regolamenti più restrittivi a livello sia di piareata in Italia, ma esercitante la profes- nificazione urbana che di normative tecnisione in Gran Bretagna (GB), da quindici che, è diventato però molto difficile per chi anni come Architect, e da dodici come non ha le competenze necessarie, il knowChartered Architect. Qual è il significato how, avere accesso alla possibilità di eserdelle sigle e dei titoli? In Gran Bretagna, citare, intesa come il fare-architettura, a il titolo di ‘Architect’ è protetto da ARB, questi livelli. È invece compito e attività dei Achitects Registration Board. RIBA, Royal Chartered Architects avere accesso a proInstitute of British Architects, attribuisce il getti di edilizia pubblica per i quali bisogna titolo di ‘Chartered Member’, ovvero di dimostrare di essere iscritti al RIBA. professionista. Chi è iscritto al RIBA è ri- Per chi risiede in Gran Bretagna è neconosciuto come colui che sa gestire un cessario avere la doppia membership, progetto attraverso tutte le fasi di lavoro ARB e RIBA, che però non è richiesta che RIBA ha riassunto nell’Outline Plan of per chi è già iscritto ad un Albo di un al-
tro Paese. Per esempio: un Architetto italiano iscritto ad un Ordine italiano può iscriversi al RIBA dimostrando di avere conseguito una laurea in un istituto universitario riconosciuto dalle direttive europee EC/2005/36 ed avere completato cinque anni di esperienza. Cosa sono realmente ARB e RIBA? ARB è l’Ordine che regola e monitora la professione degli Architects nel Regno Unito. Istituito dal Parlamento nel 1997, ma originariamente costituito nel 1931 come ARCUK, Architects’ Registration Council of the United Kingdom, era nato con lo scopo di mantenere un registro degli Architetti, inteso come tutto ciò che ruota attorno alla professione dell’Architetto. ARB è un organismo indipendente con la funzione di riconoscere le qualifiche necessarie per diventare architetto, monitorare il comportamento e la competenza dei suoi iscritti, in tal senso svolge lo stesso ruolo degli Ordini professionali italiani. RIBA, invece, è un’istituzione storica, fondata nel 1834, con il proposito di far avanzare l’architettura civile, promuovere ed aiutare la conoscenza delle varie arti e scienze connesse ad essa. RIBA, a tutt’oggi, ha il proposito, attraverso i suoi iscritti, di proteggere, promuovere e migliorare l’Architettura, le comunità che si
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creano in conseguenza a nuove costruzioni, a innovative progettazioni architettoniche e all’ambiente nel quale tale sviluppo urbano e non si inserisce. RIBA fornisce standard di formazione e sostegno per i suoi iscritti – nel Regno Unito e all’estero – e collabora a livello governativo a leggi e riforme per migliorare la qualità del design, delle abitazioni e delle comunità. L’istituto, che ha sede al 66 di Portland Place a Londra, è situato in una sede storica con una vasta collezione di disegni di Architettura e fotografie. Qui vi è anche collocata la biblioteca di Architettura più grande al mondo. Dal punto di vista della composizione, il consiglio di ARB è costituito da quindici membri, sette dei quali, architetti, ed i restanti otto membri, liberi cittadini, mentre il consiglio di RIBA è costituito da sessanta iscritti, principalmente Chartered Architects. Il consiglio di RIBA è responsabile della conduzione culturale e organizzativa, come anche dello sviluppo dell’Istituto. Sotto la direzione di questo consiglio operano gruppi tecnici e consigli regionali. RIBA e ARB hanno da sempre considerato la possibilità di essere unificati in un unico Ordine. Al momento RIBA sta considerando di assorbire totalmente ARB. Il corso di studi completo degli studenti di
un curriculum RIBA comprende tre parti: Part 1, 2 e 3, dove Part 1 e 2 sono corsi biennali che danno accesso al diploma di laurea, mentre con Part 3 si ottiene il titolo di Architetto. È necessario puntualizzare che fra il primo e il secondo biennio lo studente deve svolgere almeno un anno di tirocinio, e fra Part 2 e Part 3 lo studente deve esercitare un altro anno di tirocinio e deve essere in grado di dimostrare di avere acquistato la totale conoscenza del management di un progetto in tutte le fasi dei RIBA work stages. Part 3 è solitamente un corso di 6/9 mesi part time, con un test finale molto simile all’esame di stato italiano. Indipendentemente dalle regole per avere il titolo di studio riconosciuto, un Architect nel Regno Unito fa solo Architettura, non interior design, o architettura dei giardini, tantomeno estimo, pianificazione o urbanistica. Per tutte queste professioni esistono altrettanti Royal Institutes che, a loro volta, attribuiscono il titolo di Chartered member. A tali istituti è possibile accedere solamente dopo il conseguimento di adeguati e necessari diplomi di laurea. In Gran Bretagna ci sono altre associazioni di architetti come ad esempio ACA, The Association of Consultant Architects, ma hanno il solo scopo di raggrup-
pare Architetti e Studi di Architettura, non hanno il fine di impegnarsi per la promozione della professione. RIBA è il solo Istituto, nel Regno Unito, capace di essere riconosciuto da tutti gli organismi che hanno interesse alla progettazione, alla pianificazione, alla organizzazione come anche alla diffusione culturale di nuovi modi di fare architettura, a livello nazionale e internazionale. RIBA è una fondazione le cui iscrizioni contribuiscono al 40% delle sue entrate. Con eventi, seminari, workshop, premi e sponsorizzazioni riesce a mantenere uno staff di circa 400 persone. Ci sono vari tipi di membership, dagli studenti a chi ormai è in pensione, ma che desidera continuare ad essere attivo nella professione. Coloro che decidono di dare supporto a RIBA, sia a livello di consiglio sia di gruppi studio, hanno la possibilità di essere a contatto diretto con ciò che accade all’interno dell’Istituto e di influenzare il lavoro stesso di RIBA, mentre, coloro che decidono di non contribuire, solitamente si lamentano che RIBA non garantisce alcun privilegio, escluso quello di ricevere gratis il RIBA Journal (la rivista mensile di RIBA). Oggi RIBA cerca principalmente di promuovere gli Architetti, di trovare altri modi di lavorare e di cercare nuove commit-
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tenze. RIBA si rivolge ai diversi mercati internazionali ed è capace di fornire informazioni su come lavorare all’estero. RIBA svolge il ruolo particolare, ma riconosciuto, di fare lobbying e favorisce soprattutto la costruzione di networking fra le varie professioni. Attraverso il RIBA Enterprise (una società di RIBA che ha lo scopo di controllare tutto ciò che può essere commercializzato), RIBA è conosciuto anche come editore. Qual è la verità su RIBA, espressa da chi la rappresenta nel distretto londinese? RIBA vuol dire principalmente business se pensiamo a tutte le attività alle quali è collegata, dando modo agli iscritti di interagire con altre professioni, svolgere un ruolo di pressione a livello governativo, e influenzare il campo delle costruzioni. A livello internazionale, RIBA gode di stima in tutto il mondo, grazie a un patrimonio di promozione professionale ormai consolidato e diffuso. Purtroppo tale ruolo non è riconosciuto dalla maggior parte degli iscritti che non è interessata a promuovere l’Architettura, ma solo ad avere il titolo di Chartered Member. Gli iscritti di RIBA in Gran Bretagna sono molto spesso indignati per quello che ottengono dalla loro sottoscrizione al costo di £370.00, circa €440 alla data di questo
articolo, l’anno (per chi non risiede in Gran Bretagna l’iscrizione è di £296.00, circa €353): dopo tutto, se un iscritto non risiede a Londra, sede principale di RIBA, o non partecipa attivamente alle attività e al lavoro di RIBA, non ha modo di comprendere e assorbire il ruolo e la funzione, come anche la diffusione dei valori e delle idee, di RIBA. Talvolta RIBA è percepito solo come un’organizzazione per eventi e mostre, come il proprietario dell’edificio di 66 Portland Place, e non come l’Istituto che promuove effettivamente la professione. Per chi scrive, RIBA dovrebbe essere percepito e promosso più come un’Accademia per lo sviluppo della professione e per tutto ciò che ruota attorno a questa. RIBA non dovrebbe essere considerato come un’organizzazione di marketing che promuove i suoi iscritti, ma piuttosto, come il mezzo per far maturare nuovi modelli di business per gli Architetti o fare ricerca, ad esempio nel campo del sostenibile, ma anche come il luogo per sviluppare nuovi modi di pensare le applicazioni in Architettura. Un Ordine di professionisti, oggi, non dovrebbe porsi solo il problema della condotta professionale, dimensione implicita del ruolo dell’Ordine, ma dovrebbe invece fare attenzione a come generare nuove commissioni, nuovo lavoro, nuove oc-
casioni di innovazione e trasferimento di conoscenze per continuare a fare Architettura in un mercato che sta cambiando e sta sviluppando approcci più orientati al benessere ambientale e sociale che alla capitalizzazione finaziaria ed economica. Le nuove leggi, in particolare il Localism Act, che stanno per essere attuate nel Regno Unito, metteranno in moto nuovi meccanismi che vedranno la partecipazione dei cittadini alla pianificazione della città e del territorio dove risiedono. È questo il modello della Big Society, un modello sviluppato per rispondere alle necessità politiche ed economiche di un mondo in cambiamento e trasformazione, forse radicale, ma soprattutto un modello necessario alla società per progredire e costruire un futuro più intelligente e dimensionato sulle effettive necessità di noi tutti. Da alcuni anni RIBA contribuisce in modo positivo allo sviluppo della Big Society contrattando e costruendo nuove collaborazioni con altri istituti professionali che possono influenzare il modo di fare Architettura. RIBA, con i suoi 175 anni di lavoro assiduo per promuovere la professione, è definitivamente un modello d’istituto professionale esemplare, ma allo stesso tempo paradigma della complessità su cui oggi deve fondarsi la professione di Architetto.
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L’Ordre des Architectes
far ricorso al servizio di un architetto. Garantisce, in cambio di tale obbligo, che tali professionisti abbiano una formazione adeguata, che siano assicurati, che siano assoggettati ad una deontologia profesLa strutturazione degli studi di sionale. Si tratta pertanto di una profesarchitettura, la retribuzione in base sione tutelata e regolamentata. L’Ordre ai costi, la formazione continua. des Architectes, garante della qualità arL’Ordre d’Île de France, garante dell’interesse pubblico dell’architettura chitettonica, si è visto conferire un mandato di servizio pubblico, per accertarsi Bernard Mauplot del rispetto della legge, tutelare il pubblico ed organizzare i diritti ed i doveri deGli albori dell’Ordre des Architectes, con gli architetti. ciò che questo implica in termini di deon- Tuttavia, nel corso di questi ultimi tologia e di tutela del titolo, risalgono in trent’anni, la professione dell’architetto e Francia alla fine degli anni ’30, accompa- la società in cui essa viene svolta hanno gnati dall’obbligo di far ricorso ad un ar- subito una profonda evoluzione. In un conchitetto, seppure con alcune eccezioni di testo europeo in cui, come ben sappiamo, rilievo. L’ultima riforma del funzionamento non è il momento di tutelare il principio dell’Ordre risale al 1977, data in cui la del ricorso imposto ad una professione, la legge ha proclamato che “l’architettura, sfida consiste, per la professione di archiespressione della cultura, è di interesse tetto in Francia, nel riappropriarsi di tutto il pubblico”. proprio spazio, riuscire a valorizzare il proQuesta proclamazione, nell’intestazione prio ruolo, convincere della propria utilità della legge, sottolinea la volontà del le- e della necessità del proprio contributo gislatore di tutelare e di promuovere la per rispondere alle nuove sfide sociali ed qualità architettonica. Si tratta del fonda- ambientali della nostra società. Le azioni mento dell’esistenza e del funzionamento da intraprendere a tale scopo sono nudell’Ordre des Architectes. Nell’ambito merose; fra tutte, crediamo fermamente dell’interesse pubblico, lo Stato obbliga nella necessità di rafforzare la rappresenchiunque desideri costruire un edificio a tanza professionale degli architetti ed i
legami fra gli architetti che esercitano le loro mansioni in settori diversi, nell’ambito o meno del processo costruttivo. È intorno ai valori espressi dalla legge che l’Ordre des Architectes d’Île de France si impegna per riunire sotto lo stesso ideale tutti gli architetti, qualunque sia il loro ambito di intervento, attorno ad una formazione e ad una cultura comuni, per la promozione della qualità architettonica e della loro responsabilità nella società. Attualmente, il 7% degli architetti iscritti all’Albo dell’Ordre d’Île de France non si occupano direttamente del processo costruttivo. Tale percentuale è decisamente inferiore al numero di laureati che lavorano con il committente, per le istituzioni, nelle associazioni, e che svolgono un ruolo fondamentale nell’implementazione della qualità dell’architettura in tutte le fasi dell’attività del costruire. L’iscrizione all’Ordre non è obbligatoria per gli architetti che non sono a capo del progetto, sempre più numerosi nella società. Una delle nostre sfide consiste nel saperli convincere del loro interesse nell’aderire all’Ordre, per la promozione dell’architettura e la valorizzazione della professione in tutta la sua diversità. Ciò si attua attraverso la definizione di un ambito più adeguato in cui accoglierli, in particolare per
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quanto riguarda gli obblighi deontologici che devono tenere conto delle realtà dei diversi tipi di esercizio della professione. Per garantire la forza di una professione ed il fatto che essa venga intesa, è anche necessario che i suoi interlocutori vengano sensibilizzati alle sue problematiche e possano interagire con essa in base ad un linguaggio comune. Il 74% dei francesi ritengono che l’architettura sia utile, ed il 65% ritiene che la professione contribuisca a migliorare lo sviluppo sostenibile; tuttavia, quando si tratta di far costruire la propria casa, sono decisamente poco numerosi i francesi che fanno spontaneamente ricorso ad un architetto. In tale contraddizione è insita l’espressione di un sintomo francese: un deficit di cultura architettonica nella popolazione, ed una scarsa conoscenza del ruolo dell’architetto. È proprio per far evolvere questo modo di pensare che l’Ordre des Architectes d’Île de France ha sviluppato azioni di sensibilizzazione presso la popolazione, tramite mostre, dibattiti, organizzando la presenza di architetti per fornire pareri in occasioni pubbliche, e svolgendo azioni in ambito scolastico, con l’intervento di architetti nelle scuole, non per promuovere una struttura professionale, bensì per parlare di architettura e preparare gli alunni a diventare dei cittadini attenti alle loro condizioni
di vita. Mentre ci si prepara all’architettura del futuro, risulta anche indispensabile saper rispondere alle preoccupazioni attuali della professione. Proprio come dovunque in Europa, gli architetti francesi si trovano a doversi confrontare con esigenze regolamentari sempre più numerose e complesse, che richiedono grandi capacità e/o tecniche di coordinazione di un gran numero di soggetti in collaborazione fra loro; devono far fronte alla sofisticazione di procedure aventi come obiettivo centrale la gestione dei costi e delle scadenze prestabilite, a discapito dell’implementazione della qualità architettonica e delle implicazioni nei termini di qualità della vita di cui è promotrice; devono inoltre far fronte ad una pressione sugli onorari che non permette loro di esercitare la professione in condizioni corrette e durature. Come agire a fronte di tali realtà? Ricordare senza sosta alle pubbliche autorità, a coloro che hanno potere decisionale, a tutti gli attori dell’attività di costruzione, quali sono i rischi assunti oggi à discapito del futuro dei nostri territori che si assumono mettendo da parte la qualità architettonica per costruire più in fretta ed a minor prezzo? Senza dubbio, questo va fatto, e siamo impegnati in tal senso soprattutto in questo periodo di elezioni nazionali. Ma è anche necessario che la
professione riesca ad organizzarsi per essere più forte e per restare idonea a reagire alle nuove richieste del sociale. Ciò non implica certo di dover rinunciare alla propria indipendenza, né alla propria deontologia, ed è il motivo per cui siamo estremamente legati all’idea che le società di architettura rimangano delle società di servizi, e non delle società commerciali. Ciò implica, quindi, che gli studi di architettura siano più strutturati e che i professionisti siano meglio organizzati, in rete o riuniti in società, piuttosto che avere un’attività individuale. È importante che gli architetti mettano insieme le loro competenze, si organizzino in società per essere più solidi finanziariamente, maggiormente reattivi, più in grado di reagire alle diverse esigenze della committenza ed alle nuove tipologie di incarichi. Tale raggruppamento ha già avuto inizio, e constatiamo una netta tendenza, fra i giovani architetti, a costituirsi in società piuttosto che restare in modalità di libera professione, malgrado gli architetti iscritti nell’Île de France in qualità di membri di società di architettura rappresentino ancora solo il 36% degli iscritti. Questo movimento deve anche essere accompagnato da una capacità degli architetti di tutelare e valorizzare gli onorari, in base ai costi di funzionamento della struttura.
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Tale logica, applicabile nella quasi totalità degli altri tipi di aziende, sembra ancora ben poco utilizzata nella pratica della nostra professione. Il criterio di calcolo storico di retribuzione in percentuale, ancora estremamente radicato nella professione dell’architetto, non tiene conto della molteplicità delle nuove responsabilità e competenze imposte alla professione e dei servizi che da essa ci si aspetta. Una simile evoluzione risulta pertanto indispensabile per garantire la salvaguardia economica degli studi di architettura. Per aiutare gli architetti in questa evoluzione, l’Ordre d’Île de France organizza dei seminari gratuiti sull’organizzazione dello studio professionale. L’Ordre des Architectes lavora anche con gli altri attori della costruzione, allo scopo di definire chiaramente il contenuto degli incarichi di ciascuno di essi e, su tali basi, di rendere ognuno in grado di comunicare con i direttori dei lavori in merito ad una giusta retribuzione, adeguata ai costi sostenuti dallo studio professionale. L’altra sfida cui la professione deve far fronte è quella della formazione continua post laurea. Si tratta di una vera e propria sfida in un periodo economico difficile, in cui molti concentrano le priorità altrove; tuttavia, trattasi proprio del giusto obbiettivo per l’avvenire della nostra
professione, qualora si volesse trovare il modo per essere in grado di soddisfare le aspettative della società, aprirsi a nuovi mercati e diversificare i propri ambiti di intervento. Gli architetti francesi, e ancor più quelli nell’Île de France, non ricevono formazione a sufficienza. Ciò è in gran parte connesso con problemi di finanziamento della formazione continua, in parte conseguenza dell’insufficiente strutturazione in società degli architetti. Ma è anche una questione di scelta delle priorità, ed è necessario che queste ultime evolvano per dare il giusto spazio alla formazione continua. È proprio scommettendo su questo che l’Ordre des Architectes d’Île de France ha creato nel 2009 il Pôle de formation Environnement, Ville et Architecture, che ambisce a proporre agli architetti delle diverse formazioni maggiormente idonee, più pertinenti, per consentire di avere i giusti strumenti a fronte della crescente complessità dell’ambiente in cui operano. L’Ordre des Architectes d’Île de France si impegna quotidianamente nell’accompagnare la professione nella sua evoluzione e ad essere la forza motrice delle riforme necessarie affinché l’architetto possa portare a termine i propri incarichi con tutta l’indipendenza finanziaria ed intellettuale richiesta per riuscire a svolgere
il proprio ruolo di fautore dell’interesse pubblico dell’architettura. L’architettura è una scelta che riguarda la società, la sua tutela si concretizza attraverso il riconoscimento del ruolo dell’architetto, il rispetto della sua indipendenza e della sua deontologia, il rafforzamento degli strumenti destinati alla sua formazione. Affinché questa scelta rimanga una scelta per il futuro, è necessario che venga condivisa tra le diverse categorie sociali. È a livello europeo che ora deve essere messo in pratica. L’armonizzazione europea offre agli architetti la stessa libertà di esercizio della professione e di luogo di insediamento. Ai nostri occhi, si tratta di un passo positivo. Ma noi difendiamo l’idea che tale apertura debba essere inserita nell’ambito di un progetto di società comune a tutto lo spazio europeo, fondato sulla tutela dell’interesse pubblico, e non sull’interesse commerciale. È nell’ambito di questo obiettivo che difendiamo l’idea di una Dichiarazione europea dell’interesse pubblico della creazione architettonica. A partire da tale base comune, sarà successivamente possibile che i Paesi dell’Unione Europea adottino delle modalità e degli strumenti convergenti per garantire il suddetto interesse pubblico. È la riforma in cui riponiamo le nostre speranze.
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Coloured Vases Non tutto ciò che proviene dal passato e dalla tradizione deve essere cancellato. La modernità nasce dalla rielaborazione di ciò che è stato. Come i preziosi vasi della Dinastia Han che sono deturpati in modo solo apparentemente innocente da una pittura industriale che riproducendo i colori dell’arcobaleno aggiunge nuovi significati Ai Weiwei
Ai Weiwei - Coloured Vases, 2010 31 Han Dynasty vases and industrial paint Courtesy the artist and Lisson Gallery
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La riforma delle professioni Vera solo attraverso un cambiamento di mentalità e un nuovo approccio culturale Leopoldo Freyrie
Il Consiglio Nazionale Architetti PPC ha dovuto affrontare sin dal suo insediamento nel marzo dello scorso anno una situazione molto difficile per la professione, a causa della crisi economica e del dibattito sulla riforma delle professioni, allora in atto anche in forme molto critiche nei confronti degli Ordini, tanto da prospettare l’ipotesi dell’abolizione di alcuni di essi. La crisi ha duramente colpito, negli ultimi tre anni, il comparto dell’edilizia e ha provocato una forte contrazione delle opportunità di lavoro per gli architetti, con una conseguente diminuzione del 30% dei loro fatturati, a danno soprattutto delle fasce più deboli dei circa 150.000 iscritti, ovvero dei più giovani, di coloro che lavorano nelle zone depresse del Paese, dei professionisti che hanno studi meno strutturati o più dipendenti dalle commesse pubbliche. Proprio queste ultime sono ulteriormente diminuite di numero, mentre la riforma di alcune regole ha ancora di più selezionato le possibilità di accesso su parametri di organizzazione e di ‘censo’ piuttosto che
di merito, riducendo al lumicino i concorsi di architettura. Insomma, una situazione oggettivamente molto difficile, alla quale si aggiunge come elemento di ulteriore criticità il continuo flusso di accesso di nuovi iscritti alle Facoltà di Architettura (circa 7.000 all’anno). La conseguenza è che il mercato potenziale degli architetti nelle costruzioni − intendendo la quota degli investimenti in costruzioni facente riferimento ai servizi di progettazione − si stima sia calato del 28% tra il 2006 e il 2010, un calo che, considerando la rapida crescita del numero di architetti iscritti all’Albo, arriva quasi al 40% se si considera la quota di mercato potenziale per singolo professionista (Elaborazione CRESME 2011). Sempre dall’indagine che il CNAPPC ha commissionato al CRESME emerge poi la drammatica condizione del credito per gli architetti, che sono mediamente pagati (dai privati!) a 180 giorni, mentre le banche, quando va bene, scontano le parcelle a 90 giorni. È da questi dati che bisogna partire, per non fare mera filosofia, ma per capire come e con quali modalità gli organismi di categoria
possano contribuire a risolvere una condizione di progressiva ‘proletarizzazione’ degli architetti italiani, caratterizzata da tassi elevati di disoccupazione, di emarginazione dei giovani e delle donne, e dall’aumento della forbice per quanto riguarda il lavoro e il reddito tra gli architetti iscritti agli Ordini del nord rispetto a quelli del sud. Parallelamente, prima con il Governo Berlusconi e poi con il Governo Monti, si è proceduto – senza un progetto sintetico e mirato – alla riforma delle professioni regolamentate, sullo stimolo delle risposte ‘politiche’ che il nostro Paese ha dovuto dare sulle liberalizzazioni richieste dall’Unione Europea, dalla BCE, dall’OCSE in cambio delle aperture di credito finanziario al Paese. Per questa ragione la riforma non è stata discussa, né pensata per mettere le libere professioni a sistema con l’economia del Paese e a garanzia del bene pubblico, bensì nella sua articolazione sono stati semplicemente declinati i principi già da anni affermati dalla Unione Europea sulle tariffe professionali, sul tirocinio, sulla formazione permanente, sull’assicurazione
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obbligatoria, sulla pubblicità, sugli organismi terzi di disciplina, ecc. Questo è lo ‘stato di fatto’ con cui il CNAPPC e gli Ordini si sono dovuti misurare: con quali proposte e ottenendo quali risposte? Avremmo tutti voluto partecipare attivamente al progetto di riforma delle professioni, sul quale, all’interno della nostra comunità, ci sono pareri discordanti, tutti legittimi, sul modello più adatto al nostro mestiere: c’è chi preferisce quello basato sull’associazionismo anglosassone, regolato da una authority esterna rispetto a quello modulato su organizzazioni regionali, come avviene in Germania, con un mero coordinamento federale; c’è anche chi, tra i colleghi, è favorevole ad un sistema ordinistico fondato sulla separazione tra libera professione e attività dipendenti. In realtà la discussione è ormai puramente accademica, perché la scelta definitiva dei Governi che hanno affrontato il tema delle professioni è stata quella di inserire nuovi principi regolatori all’interno degli ordinamenti esistenti: in sostanza, fatto salvo il principio di autonomia della
professioni intellettuali, si riformano le professioni su quelle che vengono considerate limitazioni al libero mercato. Ci piaccia o no è quello che è già stato deciso e l’iter in corso serve solo a legiferare in termini definitivi; il nostro intervento non poteva cambiare il ‘modello’, ma ha potuto efficacemente modificare alcune pericolose storture (come la possibilità dei soci di capitale di imporre le loro scelte ai soci architetti o l’uso di parametri economici da parte dei giudici in caso di contenzioso) e inserire alcuni significativi elementi di novità (come la possibilità di accesso ai Confidi, per rispondere ai problemi del credito). Da qui in poi, dando per scontata l’approvazione in Parlamento del decreto Liberalizzazioni e l’emissione a breve del DPR sugli ordinamenti da parte del Governo, è nostro compito e responsabilità, insieme con gli Ordini provinciali, attuare la riforma adeguando le norme deontologiche e regolamentando i tirocini, la formazione continua permanente e i nuovi collegi disciplinari: un compito importante se vogliamo evitare che i nuovi principi siano un
mero aggravio burocratico o di costo per gli iscritti, invece che rappresentare una nuova opportunità di crescita. Allora gli Ordini professionali non cambiano? In realtà avranno molti e nuovi compiti, spesso difficili e impegnativi. Ma la vera riforma si può fare senza che la legge ce la imponga: essa, infatti, si realizza attraverso un cambiamento di mentalità e con un nuovo approccio culturale che, a partire dalle norme deontologiche, faccia sì che l’Ordine diventi, come già in parte accade in alcune realtà, un vero punto di riferimento sociale e culturale, non solo per gli iscritti ma anche per i cittadini. I nuovi collegi disciplinari finalmente garantiranno, anche formalmente, giudizi certamente ‘terzi’: ovvero colpiranno anche severamente chi, tra noi, non si comporta correttamente nei confronti del cliente o dell’interesse pubblico. Sarà quindi importante una ri-scrittura complessiva delle norme etiche perché siano più rivolte a garantire il cittadino piuttosto che a regolare i rapporti tra iscritti e siano capaci di assicurare che gli architetti italiani operino sempre nel rispetto dei va-
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lori costituzionali di salvaguardia dell’ambiente, della sicurezza e del paesaggio. Ma sono molti altri i servizi che gli Ordini possono svolgere: diventare presidi di legalità, erogare un’attività di informazione e di orientamento degli iscritti sul lavoro. Se, ad esempio, vogliamo affrontare seriamente il problema dell’eccessivo numero di architetti, rispetto alle possibilità del mercato, possiamo e dobbiamo fare attività di informazione agli studenti prima che si iscrivano alle Facoltà di Architettura, affinché abbiano consapevolezza di cosa sia davvero questa nostra bella e difficile professione, quali reali opportunità di lavoro ci riservi e quali corsi di laurea permettano poi di circolare liberamente in Europa. E naturalmente, invece di discussioni teoriche sul valore legale del titolo di studio, occorre promuovere la programmazione, ormai necessaria, del numero dei laureati rispetto alla realtà del mercato del lavoro, per evitare di illudere e di condannare poi tanti giovani alla disoccupazione intellettuale. Noi non possiamo creare ‘lavoro’ per gli iscritti agli Albi, ma è nostro dovere creare le condizioni perché si affermi il merito
e perché il contesto apra opportunità per i bravi architetti. In questo senso le tre principali iniziative avviate dal CNAPPC sono: 1) la creazione di un database nazionale degli architetti, a breve disponibile, che in futuro diventerà un vero e proprio social network, rivolto ai potenziali clienti così che possano scegliere, mediante chiavi di ricerca, un professionista sulla base di curriculum e di immagini delle opere: un tentativo, questo, per superare le barriere reali del mercato rappresentate da opportunità solo per chi è parente di qualcuno o per chi conosce l’assessore o da altri veicoli familistici tipicamente italiani; 2) l’impegno e la nostra battaglia senza sosta per modificare le ‘stupide’ regole per gli incarichi pubblici, che ormai selezionano solo poche grandi società di ingegneria; anche per questo motivo sosteniamo la Legge sull’Architettura e abbiamo avviato il progetto per la pubblicazione, in accordo con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, dei Quaderni della giovane architettura, finalizzati a promuovere i giovani talenti che, senza curriculum, non hanno, di fatto, possibi-
lità alcuna di accedere ai progetti pubblici; 3) l’avvio del programma sulla Rigenerazione Urbana Sostenibile (RI.U.SO), sul quale abbiamo lavorato molto creando una forte alleanza con l’Associazione nazionale dei Costruttori Edili e con Legambiente. Si tratta di un programma serio ed economicamente realizzabile, per rigenerare il patrimonio edilizio italiano e le città, basato su una analisi scientifica del problema per offrire soluzioni non utopistiche. La nostra missione è farlo entrare nell’agenda governativa, per questo se ne dibatterà pubblicamente il 20 e 21 aprile, all’Auditorium della Fiera di Milano-Rho, nel corso dei Saloni 2012. Non è un caso se il lettore non abbia finora trovato gli argomenti sui quali tanto dibattiamo e che, così spesso, proponiamo all’opinione pubblica, ossia quelli della qualità dell’architettura, della centralità del progetto, del ruolo sociale dell’architetto. Non ci sono non perché non siamo fondamentali, tutt’altro, ma perché a furia di parlarne se ne è perso il significato con il risultato che gli architetti sono stati progressivamente emarginati dall’e-
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conomia e dalla vita sociale del Paese, per diventare oggetto di notizie giornalistiche solo in veste di archistar o per alimentare le macchiette di Maurizio Crozza. Forse in passato abbiamo praticato fin troppo una retorica che non sempre corrispondeva alla realtà o abbiamo affrontato la politica come se la nostra comunità fosse rappresentata da una élite culturale di poche migliaia di intellettuali, ma i risultati, ahimè, sono stati modesti! L’affermazione dell’importanza del ruolo dell’architettura in Italia dipende senz’altro da fattori culturali generali, ma sta a noi cambiare lo status quo. Se la nostra comunità, nel suo insieme, riuscirà ad affermarsi proponendo idee per un habitat sostenibile, dimostrando competenza e correttezza nei rapporti professionali, mettendosi in gioco in prima persona nella salvaguardia dell’ambiente e della sicurezza nell’abitare, il giudizio dell’opinione pubblica cambierà. Per questo motivo parti della riforma, così come le iniziative del CNAPPC e degli Ordini sono importanti quando il loro fine è quello di innovare i modi e gli approcci
quotidiani attraverso i quali si realizza la nostra professione che tutti noi amiamo così tanto e che, tutti noi, vogliamo salvare e rilanciare nel ruolo intellettuale che le è proprio. Con quali strumenti? Facendo rete e integrando le competenze: a questo proposito le nuove forme societarie interprofessionali saranno utili perché “l’unione fa la forza”; imparando a gestire gli studi con maggior competenza gestionale ed economica: su questo aspetto avvieremo presto un programma ad hoc; mostrandoci capaci di produrre ricerca e innovazione. Ripeto, la formazione continua permanente è una opportunità, se saremo in grado di non farla diventare un onere solo economico e burocratico. Soprattutto continuando a produrre e a diffondere tra i cittadini la cultura della buona architettura, così come stiamo facendo ora con i numerosi accordi che stiamo sottoscrivendo con le maggiori istituzioni culturali architettoniche italiane, come, ad esempio, Festarch, iniziativa alla quale vi aspettiamo numerosi dal 7 al 10 giugno, a Perugia.
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L’ Agenzia regionale delle professioni tecniche Gli Ordini professionali potranno trarre nuova linfa vitale e nuova ragion d’essere nella trasformazione in senso camerale Giancarlo Faletti
Nel momento in cui scrivo, il faticoso iter parlamentare del DL 1/2012 (c.d. decreto Cresci Italia o sulle liberalizzazioni) non si è ancora concluso con la sua conversione in legge. Il Senato, che ha già licenziato il testo, ha apportato modifiche non marginali all’art. 9 (“disposizioni sulle professioni regolamentate”) e, trattandosi di parte di un pacchetto di modifiche relative anche ad altre disposizioni del testo del decreto legge integranti un (ormai classico) maxiemendamento sul quale, a tempo debito, il Governo porrà la fiducia, è più che verosimile che il testo licenziato dal Senato sia, poi, quello della legge di conversione. Del resto, il termine per la conversione scade il 24 marzo e già si sente vociferare riguardo il fatto che, non appena sarà approvato questo testo di legge, si porrà mano ad altro decreto legge che conterrà quelle modifiche che non si è fatto in tempo ad introdurre nel primo decreto in sede di conversione (si pensi, al nodo delle commissioni bancarie abolite che ha determinato le dimissioni compatte ed immediate della Giunta Esecutiva ABI). Ebbene, se dall’altalena dei provvedimenti legislativi che, uno per mese – dall’agosto 2011 a tutto il gennaio 2012 –, hanno inte-
ressato latu sensu la ‘riforma delle professioni’ nella logica della loro liberalizzazione, il risultato prodotto sarà il disposto combinato del decreto di agosto 2011 (DL 138, convertito in L. 148/11) ed il testo (oggi disponibile) della legge di conversione del DL 1/2012, osservo come mi sia particolarmente difficile comprendere quale contributo alla crescita del Paese derivi da quelle disposizioni, quali oggettivi vantaggi esse apportino tanto ai professionisti quanto alla loro clientela, in che modo – così facendo e con le novità introdotte – le professioni ed i professionisti saranno nella condizione di competere in ambito sovranazionale con loro omologhi non italiani. Non mi interessa e, forse, non ne sarei neppure in grado, di intrufolarmi nella polemica – ormai datata – relativa al fatto che i professionisti siano ‘una casta’ e, come tali, godano di sostanziali ‘privilegi’, secondo un modo di pensare piuttosto radicato nel senso comune principalmente a riguardo della equazione ‘lavoro autonomo = evasione fiscale’: se tutto ciò ha a che fare con il fatto che le professioni sono regolamentate per legge e, per certi versi, si auto amministrano (assegnando a questa espressione un connotato di so-
lidarietà categoriale paramafiosa), chi li riassume nella ‘casta’ dice una parte di cose vere; ma tutto ciò non può smentire un dato difficilmente confutabile: la sostanziale assenza delle professioni dai tavoli dove si definiscono i destini del Paese, dove – cioè – il confronto o – per dirla con esperienze di altri tempi, la concertazione – detta i principi condivisi che i testi normativi dovranno tradurre in regole vincolanti. Cosicché, si tratta di una ‘casta’ che non incide, che non si sa fare sentire, che non conta. Il confronto sul lavoro si fa con i sindacati della dipendenza e delle imprese; il confronto sulle regole dell’economia si fa con i rappresentanti dei consumatori, delle banche e degli enti finanziari. Il confronto sulle professioni, semplicemente, non si fa. Anche in questa occasione, è avvenuto così. La riforma sui principi di cui all’art. 3 DL 138/11 è un atto del Governo; la sua conversione in legge è atto del Parlamento. Non vi è traccia di una pregressa discussione con le categorie professionali: si pensi, ad esempio, al clamoroso impatto della introduzione – senza originarie limitazioni – del socio di mero capitale nelle società tra professionisti ed ai
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condizionamenti che tutto ciò può comportare nell’esercizio delle professioni ‘liberali’ dove l’unica fedeltà riconosciuta – nell’insuperabile limite del rispetto della legge – è quella al cliente; la riscrittura delle norme sulle tariffe, sul tirocinio, sul preventivo, sulla disciplina e sulla deontologia, sulla formazione di cui all’art. 9 DL 1/12 è un atto del Governo: chi (tra i rappresentanti delle professioni) è riuscito a spiegare ai parlamentari alcuni macroscopici svarioni in essa contenuti potrà prendere positivo atto delle modifiche apportate ad alcune di quelle materie nel testo della legge di conversione (le tariffe sono abolite ma ci sarà un DM utile per le liquidazioni giudiziali; il tirocinio – che resta obbligatorio – durerà di meno e, in parte, sarà retribuito; il preventivo dei costi prestazionali non è più obbligatorio e sarà formalizzato, se richiesto, con tutte le doverose cautele concernenti gli imprevisti che possono interessare il percorso di una pratica professionale; la deontologia dovrà prendere atto che la pubblicità – dichiarativa – è ammessa e che l’elusione della formazione sarà sanzionata; la disciplina sarà amministrata da soggetti non coincidenti con i consiglieri dell’Ordine;
la formazione – secondo le direttive degli Ordini – sarà obbligatoria e permanente). Ma tutto ciò è quanto serve per poter rivitalizzare il mondo delle professioni? È un modo per poter ‘far competere’ le professioni in un mercato più ampio di quello nazionale o domestico o locale? È lo strumento per ridare fiato a chi è senza lavoro e senza risorse per procurarselo e non può, seriamente, combattere con studi organizzati a dimensione aziendale, assenza di finanziamenti, ristrettezza del credito, ritardi nei pagamenti (quando si matura il diritto ad essere pagati), ovvero con la partecipazione a gare truccate, il confronto con vincitori già designati, la formulazione di ribassi d’asta fuori da ogni logica imprenditoriale, l’approccio con la Pubblica Amministrazione disastrata o arrogante e proterva o, peggio, ammiccante? Per singolare (e sfortunata) coincidenza, una delle novità del decreto 1/12 consente ai professionisti di accedere ai Confidi in una situazione in cui anche questi Enti lamentano la carenza di liquidità e, dunque, la scarsa disponibilità ad erogare credito! La generale sensazione che si ricava dalla complessiva valutazione delle novità legislative è quella di un sensibile passo indie-
tro, di un arretramento sostanziale sul fatto di ‘contare’ di più nel Paese reale, di una limitazione di poteri e di rappresentatività per gli organismi ordinistici ed istituzionali senza che vi abbia fatto pendant alcuna altra positiva apertura sui temi di interesse delle professioni. A partire dall’offerta di lavoro, dalla qualità della prestazione, dalla adeguatezza della remunerazione, dalla garanzia della sana competizione. Quasi che degli Ordini e, peggio, delle professioni interessi poco, salvo averli individuati ab initio come una delle cause della contrazione della crescita del Paese. Non appartengo alla categoria dei disfattisti cronici (di chi è rassegnato a subire e si ritaglia spazi privati di ‘legittima difesa’) ma neppure a quella degli ottimisti per vocazione (di chi è convinto che nei regolamenti che occorrerà scrivere per dare gambe operative ai principi dettati dalla legge ci sarà spazio per scrittori ‘professionisti’ e per una attenta consultazione): con sano realismo, occorre prendere atto che – a valle di questa riforma – agli Ordini professionali residuano (i) il potere di tenuta dell’Albo professionale e (ii) il potere di dettare linee di indirizzo in materia di formazione obbligatoria
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e permanente nonché (iii) il potere di nominare (se sarà così, stante la vaghezza della norma al riguardo) la commissione di disciplina cui spetta, invece, l’istruzione e la decisione sui casi deontologicamente compromettenti. Dunque, una sostanziale restrizione dell’ambito d’intervento sugli iscritti che, a loro volta, subiranno – a mio giudizio – una sensibile riduzione qualora dovesse trovare conferma una tendenza che, per gli esercenti una professione regolamentata quali dipendenti pubblici o privati, non sia necessaria l’iscrizione all’Albo professionale (essendo, cioè, bastevole il titolo abilitativo conseguito con il superamento dell’esame di Stato). Ed allora, questo stato di cose legittima ancora la istituzione ordinistica, quantomeno nei termini in cui – ad oggi – siamo stati abituati a pensarla (perché così definita dalla legge vigente)? Io penso di sì ma a patto che si abbia il coraggio (e la forza) di pensare in altre prospettive, sia spazio/dimensionali, sia categoriali, sia di funzione. Tutte scelte (e questa, forse, è la novità più intrigante) a legislazione vigente. La riflessione ha tratto lo spunto dal fatto
che – secondo l’orientamento comunitario – i professionisti svolgono stabilmente, a titolo oneroso e in forma indipendente, attività economica ai sensi dei principi antitrust e, come tali e in quell’ambito, possono essere definiti ‘imprese’; al contempo, le loro associazioni (Ordini territoriali e nazionali), altro non sono che ‘associazioni di imprese’. Ed allora, se così è, l’orizzonte si è diretto alla disamina della disciplina degli organismi rappresentativi di queste ultime, di supporto e di promozione dei loro interessi generali, di svolgimento di funzioni amministrative ed economiche relative al sistema di appartenenza. A pensarci bene, il sistema generale delle ‘imprese’ è, per definizione, e, addirittura nella sua denominazione, intercategoriale: non a caso, mi sto riferendo a Camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura che si rivolgono a mondi imprenditoriali i cui interessi non sempre coincidono (ed anzi, alcune volte confliggono) ma che – in generale – hanno l’esigenza di una rappresentanza unitaria per garantire supporto, promozione e sviluppo ai propri rappresentati. Tra i compiti e le funzioni che la legge (n.
580/93 art. 2) assegna alle Camere di commercio, sono comprese a) la tenuta del registro delle imprese, del Repertorio economico amministrativo e degli altri registri ed Albi attribuiti alle Camere di commercio dalla legge; b) la promozione della semplificazione delle procedure per l’avvio e lo svolgimento di attività economiche; c) la promozione del territorio e delle economie locali al fine di accrescerne la competitività, favorendo l’accesso al credito per le PMI anche attraverso il supporto ai consorzi fidi; d) la realizzazione di osservatori dell’economia locale e diffusione di informazione economica; e) il supporto all’internazionalizzazione per la promozione del sistema italiano delle imprese all’estero, raccordandosi, tra l’altro, con i programmi del Ministero dello sviluppo economico; f) la promozione dell’innovazione e del trasferimento tecnologico per le imprese, anche attraverso la realizzazione di servizi e infrastrutture informatiche e telematiche; g) la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori e utenti; h) la cooperazione con le istituzioni scolastiche e universitarie, in materia di alter-
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nanza scuola-lavoro e per l’orientamento al lavoro e alle professioni. Alcuni di questi compiti riecheggiano quelli tipici degli Ordini (la tenuta dell’Albo; la materia della formazione); altri sono compiti di evidente carattere di tutela, di promozione, di sviluppo, di confronto internazionale, di crescita tecnologica e di qualità prestazionale, di risoluzione di controversie di cui il mondo professionale ha un’enorme necessità. Organismi di questo genere hanno un senso, però, se riescono a rappresentare interessi comuni numericamente diffusi su un territorio dimensionalmente interessante (penso ad un livello quantomeno sovra provinciale o addirittura regionale, per un bacino di iscritti superiore alle diecimila unità) ed a favore di professioni che, salvaguardandone la peculiare originalità e le rispettive competenze, esprimano un interesse comune (anche derivabile dalla formazione scolastica, immagino, ad esempio, le professioni tecniche) per le esigenze altre (rispetto a quelle istituzionalmente dovute). Naturalmente, i compiti e le funzioni altre non sono a numero chiuso ma indiscriminatamente disponibili a essere integrate con
quanto, nel quotidiano confronto, si rivelerà necessario. Un’operazione di questo genere non necessita di riforme legislative di sorta e prende spunto dallo stato dell’arte: gli Ordini restano tali e permangono le loro prerogative. Nulla e nessuno, però, vieta agli Ordini di unire le proprie forze in un organismo (che avrà i caratteri giuridici più convenienti), che mi piace pensare come una ‘Agenzia delle professioni’ (in ipotesi, tecniche). Ad essa, oltre i compiti istituzionali/amministrativi affidati per legge agli Ordini (l’iscrizione di un soggetto sarà sempre una decisione dell’Ordine, ma la pratica amministrativa può essere gestita da un organismo affidatario della funzione), siano assegnati i compiti e le funzioni altre quali sopra, esemplificativamente, illustrati. Saranno ancora gli Ordini ad individuare le rispettive commissioni di disciplina ma nulla e nessuno vieta che la commissione (che opera nell’ambito dell’Agenzia delle professioni) possa essere di volta in volta integrata da componenti appartenenti alla categoria del soggetto ‘incolpato’. Nulla e nessuno vieta, poi, che all’Agenzia possano iscriversi (o aderire) anche quei soggetti che
svolgono la professione in forme aggregative ‘nuove’ (o non tradizionali; penso alle società tra professionisti anche partecipate da soci – minoritari – di capitale, alle associazioni professionali, alle società professionali già codificate) dal momento che il dato aggregante è il far parte, nella forma ritenuta più adeguata, del mondo professionale. Insomma, immagino Ordini ‘essenziali’, specie dal punto di vista dell’organizzazione: penso alla difficoltà con cui Ordini provinciali di piccole dimensioni o di professioni tecniche non particolarmente diffuse possano riuscire a funzionare egregiamente ed a fornire ai propri iscritti quanto essi si attendano per svolgere serenamente la professione; penso, invece, ad una Agenzia regionale che, forte di qualche decina di migliaia di iscritti o aderenti, possa rappresentare la categoria economica dei professionisti in ogni sede e nei confronti di chiunque con essa si debba (doverosamente) confrontare. È richiesto uno sforzo di fantasia ed un po’ di coraggio; il vantaggio vero è che – in certa misura – si è un po’ artefici del proprio destino, invece di imprecare contro il destino confezionato da altri.
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Le professioni intellettuali Da un solo Ordine professionale a numerose associazioni per ciascuna professione tra cui i professionisti possono scegliere Silvio Boccalatte
Secondo il codice civile vigente, la professione intellettuale – ogni professione intellettuale – è una categoria riconducibile al genere del lavoro autonomo: questa cornice giuridica era probabilmente adeguata alla realtà italiana del 1942, data di promulgazione del ‘nuovo’ codice civile, ma adesso appare decisamente in crisi. La figura del professionista fissa nella mente del legislatore degli anni Quaranta era chiaramente quella dell’avvocato o dell’architetto che lavorava da solo, magari assistito da un praticante e una segretaria, o, in casi piuttosto rari, diffusi quasi esclusivamente nelle grandi realtà urbane, si associava con qualche collega. Nessuna organizzazione di tipo lato sensu ‘aziendale’, quindi, e prevalenza assolutamente preponderante delle proprie forze intellettuali su ogni altro fattore della produzione. Tale quadro normativo è rimasto del tutto identico nell’arco di settant’anni nei quali l’economia e la società non si sono solo evolute, ma hanno subito una vera e propria rivoluzione: l’unico cambiamento è stato l’aumento esponenziale degli Albi e degli Ordini professionali, cioè di enti di di-
ritto pubblico ai quali il singolo deve obbligatoriamente iscriversi per poter svolgere la propria attività lavorativa, pena l’esercizio abusivo della professione, fattispecie sanzionata penalmente. L’Ordine ha il compito di controllare le tariffe praticate dai singoli, nonché di vigilare sul rispetto delle norme di deontologia. Questo modello non sembra assolutamente in grado di affrontare le sfide con le quali sono chiamati a confrontarsi i professionisti contemporanei e appare addirittura un bizzarro anacronismo se rapportato alle prospettive del XXI secolo. In primo luogo, infatti, l’apertura dei più alti gradi dell’istruzione a fasce sempre più ampie di popolazione ha comportato il massiccio ingresso di nuovi iscritti pressoché in ogni categoria professionale; secondariamente, l’apertura dei mercati (quantomeno) europei e la globalizzazione hanno spalancato il mondo delle professioni italiane al confronto con i colleghi stranieri. Da questi due fattori sono scaturite due conseguenze fattuali decisamente rilevanti: la specializzazione del singolo professionista in sub-settori della propria materia e la progressiva margi-
nalizzazione dell’operatore che non sia organizzato (in modo più o meno strutturato) con colleghi. L’immagine del professionista fornita dal dettato legislativo – sia codicistico sia delle singole discipline professionali –, quindi, risulta completamente disallineata rispetto all’attuale situazione di fatto, per cui, ormai, l’esistenza stessa di un Ordine è:
Un ostacolo alla concorrenza Gli Ordini impediscono che gli iscritti possano realmente competere tra loro: indicano tariffe di riferimento (che, sino al 2006, erano addirittura obbligatorie e inderogabili), vietano le ‘prestazioni promozionali’ finalizzate ad acquisire clientela con mezzi diversi rispetto al tradizionale ‘passaparola’ e sottopongono a rigidissimo controllo ogni forma di pubblicità. Nelle giustificazioni addotte da parte dei sostenitori del sistema ordinistico, queste restrizioni alla concorrenza sarebbero necessarie allo scopo di tutelare la dignità della professione (ecco riemergere il tradizionale senso di superiorità rispetto alle attività vilmente ‘commerciali’),
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ma sarebbero finalizzate anche a difendere la qualità delle prestazioni, che, se non ‘giustamente’ remunerate, diverrebbero scadenti. Queste argomentazioni difensive non sono convincenti e, anzi, appaiono del tutto strumentali: il sistema ordinistico esiste (perlomeno in queste dimensioni) solo in Italia, eppure la qualità dei servizi professionali, purtroppo, è spesso più elevata all’estero. Nella realtà, il sistema ordinistico è creato allo scopo di difendere dalla concorrenza il professionista singolo, autonomo e separato da ogni rapporto strutturale con colleghi. Vista la presenza di notevole offerta, un mercato professionale concorrenziale tenderebbe a evolversi verso una più adeguata distribuzione dei prezzi in rapporto alla qualità richiesta dal cliente: un cliente con poche pretese, cioè, potrebbe ottenere servizi professionali a prezzi molto più bassi di quelli attualmente praticati, mentre un cliente particolarmente esigente troverebbe più facilmente un’offerta all’altezza delle sue necessità. È evidente, però, che il professionista isolato faticherebbe a resistere alla concorrenza e verrebbe
stranieri non ha spiegazione (solo) nella lunghezza del percorso scolastico, ma (anche) nella grave ingessatura in cui si dibatte il mercato del lavoro italiano. Nel settore delle professioni, i giovani sono Un ostacolo alla competitività dei costretti ad intraprendere lunghi periodi di professionisti italiani rispetto ai col- praticantato (in cui spesso vengono utileghi stranieri lizzati come segretari qualificati, piuttosto Come si è appena accennato, il sistema che come veri apprendisti) per poi affronordinistico attuale è disegnato sulla figura tare esami di Stato troppo spesso paradel libero professionista ‘unipersonale’ ed gonabili a vere e proprie lotterie. Quando è rigorosamente funzionale alla difesa di acquisiscono l’agognato titolo abilitativo, tale figura. Ciò ostacola la competitività infine, i giovani si trovano nell’impossibidei nostri professionisti – specificamente lità pratica di fare concorrenza ai colleghi dei professionisti che operano a livelli più più anziani perché sono costretti a ‘conelevati o in settori intrinsecamente ‘inter- quistare’ i clienti uno ad uno, tramite l’anazionali’ – i quali si trovano a competere tavico mezzo del ‘passaparola’. nel mercato globale con colleghi stranieri in grado di offrire servizi di stampo ‘im- Un ostacolo al miglioramento della prenditoriale’ (quindi, di solito: con tempi qualità dei servizi professionali più veloci e con qualità più elevata) perché Come si è visto, i professionisti italiani non sono liberi di organizzare il lavoro nelle subiscono la pressione della concorrenza perché il sistema ordinistico la ostacola e forme dell’impresa. la edulcora: essi quindi non sono sottoUn ostacolo all’ingresso dei giovani posti all’unico vero incentivo che li possa nel mercato del lavoro spingere verso un miglioramento della Che i nostri giovani entrino nel mondo qualità delle prestazioni. Ritenere che del lavoro ben più tardi dei loro coetanei un’elevata qualità dei servizi professionali
progressivamente sostituito da organizzazioni para-imprenditoriali (il che, peraltro, tra mille difficoltà, sta già accadendo da alcuni anni).
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sia garantita dalla vigilanza esercitata da un Consiglio dell’Ordine è una palese finzione di cui hanno fatto conoscenza pressoché tutti coloro che hanno avuto un contenzioso con un professionista.
Un ostacolo alla tutela della deontologia professionale Al contrario di quanto sostengono i difensori del vigente sistema ordinistico, la deontologia si può difendere solo in un ambiente veramente concorrenziale: il professionista scorretto potrà trovare adeguata punizione non tanto nelle blande e inefficaci sanzioni irrogate dal Consiglio dell’Ordine, ma nella brutale perdita di clientela derivante dal crollo della sua reputazione. Alla luce delle riflessioni appena sintetizzate, appare del tutto evidente come la radicale riforma del sistema ordinistico attuale debba considerarsi una priorità assoluta per restituire vitalità a un settore che coinvolge milioni di lavoratori, che purtroppo sta diventando un triste parcheggio per giovani in attesa di un lavoro dignitosamente remunerativo e che, infine, sta patendo una grave mancanza di competitività sul piano internazionale. La prima risposta che si potrebbe offrire sarebbe quella costituita dalla pura e semplice abolizione di tutti gli Ordini professionali: sarebbe certamente una soluzione in grado di portare enormi miglioramenti rispetto al disastroso quadro vigente. Sarebbe però una soluzione di problematica
implementazione concreta, sia per i professionisti sia per i clienti, perché costituirebbe il totale e immediato annichilimento di quanto esiste da circa un secolo. Non si può sottovalutare, in particolare, il senso di smarrimento che, plausibilmente, si diffonderebbe in numerosi clienti, i quali si sentirebbero abbandonati a se stessi, alla mercé di persone dotate di competenze tecniche ben più elevate di loro e privi di mezzi per tutelarsi adeguatamente. I difensori del sistema ordinistico vigente sono abituati ad arroccarsi proprio su questa argomentazione, che viene formalizzata nel modo seguente: il campo dei servizi professionali si caratterizzerebbe per una notevole asimmetria informativa tra i prestatori d’opera e i clienti; gli Ordini professionali, quindi, avrebbero proprio lo scopo di impedire che i professionisti possano scorrettamente avvantaggiarsi di questa posizione di forza. Si tratta di un argomento debolissimo per almeno quattro diverse ragioni. In primo luogo, ogni operatore economico si trova in posizione di asimmetria informativa a lui favorevole nei confronti della clientela, anche se si tratta dell’attività di riparazione di un elettrodomestico o di vendita di prodotti ortofrutticoli; in secondo luogo, anche ammettendo l’esistenza di asimmetrie informative particolari, la nascita delle associazioni dei consumatori dimostra come nel mercato possano svilupparsi spontaneamente adeguati rimedi; in terzo luogo, l’esistenza di asimmetrie informative non prova che gli Ordini pro-
fessionali siano la corretta contromisura, o magari, al contrario, per certi versi, acuiscano la distanza tra professionisti e clienti, divenendo troppo spesso strumenti di difesa di interessi corporativi; in quarto luogo, infine, non si può non rilevare come la presenza di asimmetrie informative sia uno dei fattori che permette l’esistenza stessa di uno scambio di mercato: esemplificando, cioè, se un cliente non versasse in condizione di asimmetria informativa a lui sfavorevole rispetto a un avvocato, ragionevolmente, provvederebbe a difendersi in proprio. Nondimeno, il senso di smarrimento che coglierebbe la clientela non si può sottovalutare: con il sostegno di facili e superficiali campagne mediatiche basate su qualche truffa e su qualche raggiro, esso condurrebbe plausibilmente al naufragio della riforma e al ripristino degli Ordini, ripresentati quali presidî fondamentali e ineludibili a tutela della sicurezza dei cittadini in contrapposizione con la giungla del mercato. In alternativa alla mera abrogazione degli Ordini, si può immaginare e proporre una soluzione che permetterebbe di evitare le resistenze appena accennate, ma che costituirebbe comunque una rivoluzione liberale nel mondo delle professioni: lo statuto unico degli Ordini professionali in competizione. Su ogni professionista rimarrebbe l’obbligo di iscrizione ad un Ordine: la differenza sta nel fatto che esisterebbero più Ordini per ciascuna professione.
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Gli Ordini sarebbero, quindi, associazioni professionali obbligatorie accreditate dal Ministero della Giustizia (per gli avvocati) o dal Ministero dello Sviluppo Economico (per ogni altra categoria) sottoposti ad alcuni – chiari e pochi – requisiti minimi, fissati per legge, in materia di: serietà della struttura ordinistica (garantita mediante specifichi obblighi assicurativi e fideiussori), che dovrebbe comunque essere organizzata in modo verticistico, favorendo la chiara assunzione di responsabilità in capo a soggetti ben individuabili; ´´ rispetto del contraddittorio nel procedimento disciplinare; ´´ natura di provvedimento amministrativo delle sanzioni disciplinari, nonché di ogni principale provvedimento del Consiglio dell’Ordine, con relativa garanzia di tutela giurisdizionale; ´´ garanzia della terzietà dell’organo deputato a irrogare le sanzioni; ´´ riconoscimento reciproco delle sanzioni disciplinari dagli altri Ordini operanti nella stessa professione; ´´ tutela della clientela, anche con riferimento alle norme di deontologia; ´´ prove di ammissione per il rilascio dell’abilitazione all’esercizio della professione, avendo cura di escludere ogni valore legale del titolo di studio. ´´
Tutto il resto dovrebbe essere deciso dagli statuti e dai regolamenti dei singoli Ordini, che dovrebbero essere sottoposti ad
approvazione da parte del Ministro competente per la vigilanza sulla professione (Ministro della Giustizia per gli avvocati, Ministro dello Sviluppo Economico per tutti gli altri) al fine di verificare l’assenza di contrasti con i principi fondamentali desumibili dall’ordinamento della Repubblica. Ogni professionista, di conseguenza, avrebbe l’obbligo di iscriversi ad un Ordine, ma sarebbe libero di aderire all’Ordine di cui condivide l’equilibrio dei seguenti fattori (la cui determinazione dovrebbe quindi essere lasciata quasi integralmente alla determinazione da parte degli Ordini stessi): la politica tariffaria (con minimi inderogabili, controllata, con minimi e massimi indicativi, plasmata sul reddito del cliente, a prezzi liberi, …); ´´ la possibilità e la facilità di organizzare il proprio lavoro anche in modo associato o societario, oppure, al contrario, la difesa del lavoro libero-professionale ‘classico’; ´´ il prestigio derivante dagli elevatissimi standard di ammissione, oppure, al contrario, la facilità di ammissione; ´´ il rigore deontologico; ´´ l’impostazione ideologica; ´´ il rapporto complessivo nei confronti della clientela (si pensi, ad esempio, se un Ordine fissasse, a carico di ogni iscritto, l’obbligo di fornire periodicamente prestazioni gratuite a favore dei non abbienti). ´´
Prima ancora che tra i professionisti, dunque, la concorrenza si svilupperebbe tra
gli Ordini, i quali modulerebbero le proprie caratteristiche per individuare (quello che riterrebbero essere) il migliore equilibrio tra attrazione di nuovi iscritti e prestigio esterno a tutela della clientela. Con gli Ordini professionali in concorrenza si potrebbe ottenere una vera e propria quadratura del cerchio: verrebbero introdotti robusti elementi di libero mercato, facendo permanere una cornice pubblicistica a difesa della clientela, cui rimarrebbe sempre un organismo (l’attuale Consiglio dell’Ordine) cui rivolgersi, ed eventualmente la giustizia amministrativa cui ricorrere. Il sistema che ne scaturirebbe non sarebbe, in fondo, così distante da quello vigente (per la maggior parte delle professioni) in Gran Bretagna: l’unica vera differenza starebbe nell’iscrizione obbligatoria a un Ordine, vincolo cui i sudditi di Sua Maestà non sono soggetti (tranne che per gli avvocati, per gli assistenti sociali, e, in senso diverso, per gli architetti). Oltremanica, e specificamente in Inghilterra, infatti, ciascuno può liberamente decidere di aderire a una piuttosto che ad un’altra associazione professionale (i cui statuti sono spesso riconosciuti con Royal Charter): è una scelta individuale che, però, attribuisce al professionista una sorta di ‘certificazione’ della qualità del proprio operato, derivante dalle specifiche politiche poste in essere da ciascuna associazione in relazione all’ammissione di nuovi iscritti, in rapporto ai prezzi praticati, nonché per quanto riguarda l’applicazione delle norme deontologiche.
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Il modello dell’Authority: opportunità e criticità Ordini professionali come strutture decentrate indipendenti e pubbliche con uffici di collegamento su base regionale, arbitri imparziali dei nuovi mercati liberalizzati Marco Orofino
La riforma degli Ordini professionali è un tema che ciclicamente riaffiora nel dibattito politico italiano. Questo avviene, in particolar modo, in concomitanza con fasi recessive e di crisi politico-istituzionale. In questi frangenti, le modalità di accesso alle professioni e le limitazioni nell’esercizio delle medesime sono individuate come barriere che ostacolano la mobilità sociale, la concorrenza e, dunque, la crescita economica. Nonostante l’obiettivo di una riforma sia, quindi, stato spesso all’ordine del giorno della politica, le professioni sono ancora disciplinate, in larga parte, da leggi adottate durante il fascismo, la cui impronta corporativa è stata affievolita da ripetuti interventi parziali per adeguarle, prima, al nuovo ordinamento costituzionale e poi, in modo molto lento, ai radicali cambiamenti sociali ed economici che hanno profondamente trasformato l’Italia. Se si parte da queste due semplici considerazioni, non può quindi affatto stupire che, nell’ultimo biennio, il tema della riforma delle professioni sia tornato di grande attualità nel dibattito politico. Il momento attuale è ovviamente del tutto peculiare. La crisi economica che ha in-
vestito il Paese mostra non tanto i caratteri tipici di un ciclo economico negativo quanto piuttosto quelli di un mutamento economico complessivo, tale da spingere a mettere in discussione lo stesso modello di crescita sostenibile e di welfare incrementale che, pur con alterne fortune, ha caratterizzato l’Europa dopo il secondo conflitto mondiale. Molti, e diversi fra loro, sono i fattori che spingono gli economisti a ipotizzare questo complessivo cambiamento di sistema. Tra di essi uno appare particolarmente rilevante nell’economia di queste brevi riflessioni ed è la globalizzazione del mercato del lavoro e delle professioni. Questo mutamento, con cui i professionisti si trovano già a fare i conti nella loro attività quotidiana, impone, nel settore dell’architettura come in altri settori professionali, un ripensamento delle regole che disciplinano tali attività, anche in un’ottica di armonizzazione sovranazionale. Il fatto che la situazione possa essere finalmente matura per un intervento complessivo di riforma degli Ordini professionali sembra testimoniato concretamente dal fatto che ben tre atti legislativi – in pochi mesi – hanno confermato quest’obiettivo.
Innanzitutto, il decreto legge n. 138 del 2011 (convertito con la legge n. 148 del 2011), adottato dal Governo Berlusconi su iniziativa dell’allora Ministro dell’Economia On. Tremonti, ha previsto (art. 3 comma 5) che gli Ordini professionali dovranno entro un anno riformarsi. Il decreto legge ha dettato una serie di criteri cui dovrà ispirarsi la loro riforma. In secondo luogo, la legge n. 183 del 2011 (cd. Legge di stabilità 2012), approvata dal Parlamento nel momento di maggior crisi politica-economica del Paese e con il Governo Berlusconi sostanzialmente dimissionario, ha confermato il percorso riformatore chiarendo, inoltre, che la riforma dovrà avvenire con uno o più regolamenti del Governo entro il 31 dicembre 2012. Infine, il DL n. 1 del 2012, c.d. decreto Cresci Italia, convertito con modifiche dal Parlamento nella legge 24 marzo 2012, n. 27, è intervenuto in maniera consistente in materia senza però mutare l’obiettivo di procedere a una riforma degli Ordini in tempi brevi. Questa breve cronologia di interventi legislativi dimostra una volontà politica trasversale di addivenire a una riforma delle
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regole che disciplinano l’esercizio delle professioni e, specificamente, degli Ordini professionali. Se sull’an si registra un’ampia convergenza politica e, anche una disponibilità delle categorie professionali interessate, sul quomodo il dibattito è oltremodo aperto e ricco di ipotesi. La normativa oggi in vigore si limita a prevedere una riforma del sistema ordinistico senza mettere in dubbio tale modello. Tuttavia, la fluidità della situazione politica – testimoniata anche dai ripetuti interventi legislativi – consiglia di valutare anche ipotesi di trasformazione più profonde. Tra le diverse ipotesi in campo, in questo breve intervento, si prende in specifico esame la possibilità di un radicale rinnovamento dell’attuale sistema ordinistico attraverso l’istituzione di Autorità amministrative indipendenti. Questa ipotesi – già circolata nel dibattito e proposto dagli Ordini di Roma e di Firenze – sembra presentare alcuni possibili vantaggi nonché talune criticità. Per indagare appieno le possibilità di applicazione del modello occorre, innanzitutto, chiarirne l’origine e definirne alcune caratteristiche essenziali. Come è noto, le Autorità indipendenti
proliferano nell’ordinamento italiano negli anni Novanta. La rapida esplosione del modello è legata a due matrici. La prima matrice è esogena. La Comunità Europea persegue la liberalizzazione di alcuni mercati nazionali – tradizionalmente dominati da monopolisti pubblici – con l’obiettivo di completare il mercato unico europeo. Per questo impone agli Stati di istituire enti o autorità indipendenti dagli operatori (e dai Governi se vi sono operatori pubblici) ai quali affidare il controllo del processo di apertura dei mercati. Le Autorità indipendenti sono pensate, in questo contesto, come “arbitri imparziali” dei nuovi mercati liberalizzati. La seconda matrice è endogena ed è legata alla sfiducia che si diffonde in Italia negli anni Novanta – sulla scia di Tangentopoli – verso la capacità della politica in generale e, specificamente, degli apparati ministeriali di governare le complessità tecniche e tecnico-economiche che emergono all’orizzonte. Si fa strada così l’idea che sia possibile sottrarre alla scelta politica talune decisioni (che si presumono essere solo tecniche) ed affidarle alla regolazione delle Autorità indipendenti. Le Autorità indipendenti sono in quest’ot-
tica ‘amministrazioni tecniche e neutrali’. Le due spinte sembrano oggi riproporsi – con modalità diverse – ed interessare anche il mercato del lavoro e il mercato delle attività professionali. Ancora una volta c’è una spinta sovranazionale (non necessariamente europea) all’armonizzazione delle normative nazionali. Ancora una volta occorre fronteggiare una crisi della rappresentanza politica e degli interessi. Il che spiega chiaramente perché il modello dell’Autorità indipendente riemerga con forza in nuovi settori. Se si guarda alle Autorità indipendenti oggi esistenti si comprende subito di trovarsi di fronte ad uno scenario assolutamente eterogeneo nel quale è molto difficile definire un modello di riferimento. Peraltro una precisa classificazione appare anche non del tutto utile se si parte dal presupposto che ogni Autorità è stata pensata partendo dalle funzioni che avrebbe dovuto compiere e dal mercato in cui avrebbe dovuto operare. Detto questo però vi sono due intrinseche caratteristiche del modello che bisogna tener presente. La prima caratteristica intrinseca è già nel nome che identifica tali Autorità: l’indi-
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pendenza. Il requisito in questione è evidentemente di tipo relazionale definibile, quindi, non in astratto, ma in relazione a soggetti concreti. Il requisito dell’indipendenza, secondo la tradizione europea, è richiesto rispetto a coloro che operano sul mercato. Nel settore delle professioni regolamentate essi non possono che essere i professionisti abilitati (nel caso di specie, gli architetti), da un lato, e i committenti (privati cittadini e pubbliche amministrazioni), dall’altro. L’indipendenza (nel contesto nazionale) è, inoltre, declinata anche nei confronti del Governo. Questo significa che il modello richiede la ‘rottura’ dei legami funzionali con le amministrazioni ministeriali. Nel caso di specie, il superamento del potere di supervisione che oggi, ai sensi di legge, il Ministro della Giustizia svolge sugli Ordini professionali. Una volta individuati i soggetti verso cui affermare l’indipendenza occorre definire concretamente i meccanismi idonei a preservarla per evitare il fallimento del modello e cioè, da un lato, la cattura del regolatore da parte del regolato, e, dall’altro lato, la riproposizione della dialettica politica all’interno dell’Autorità. Per questo
bisogna ragionare su tre questioni: i meccanismi e i requisiti di nomina, le cause di incompatibilità e decadenza, l’autonomia funzionale dell’Autorità. Riguardo al primo punto, occorre, da un lato, definire i requisiti che garantiscano la professionalità dei componenti e, dall’altro, scegliere le modalità di nomina più adatte al tipo di funzioni. In proposito le varianti sono molteplici. Poiché non sembra all’ordine del giorno affidare in ipotesi a tali Autorità compiti di regolazione, sarebbe preferibile un sistema che garantisse nomine di garanzia piuttosto che di rappresentanza delle forze politiche. Riguardo al regime delle incompatibilità e delle decadenze, si tratta di un requisito che, se preso alla lettera e non adattato al caso concreto, potrebbe porre alcune difficoltà perché non consentirebbe al membro dell’Autorità – qualora egli fosse un professionista – di continuare a svolgere la sua attività professionale come avviene oggi per i consiglieri dell’Ordine. Infatti, componenti di un’Autorità indipendente devono – di norma – astenersi per tutta la durata del loro mandato dall’esercizio di qualsiasi altra attività a pena di decadenza dal ruolo. Riguardo all’autonomia
funzionale dell’Autorità, occorre considerare che il presupposto dell’autonomia sta non tanto nei divieti di ricevere o richiedere istruzioni, quanto piuttosto nella disponibilità di una propria struttura e adeguati finanziamenti. Qui occorre fare i conti con la clausola confermata nei tre atti legislativi su citati per cui dalla riforma degli Ordini non devono derivare maggiori oneri per lo Stato. Per cui occorre immaginare – come peraltro è già oggi per talune Autorità indipendenti – un meccanismo di finanziamento rimesso ai contributi degli operatori del settore (gli attuali iscritti all’Ordine). Questo è ovviamente un punto delicato perché si tratta di capire nel dettaglio quale può essere la richiesta contributiva e se è possibile, come accade in altri settori, definire la contribuzione rispetto al fatturato. La seconda caratteristica propria di ogni Autorità indipendente è quella di essere una amministrazione pubblica. Questa affermazione – per la verità scontata – serve a chiarire che ancorché le Autorità in questione siano indipendenti dall’amministrazione ministeriale sono, comunque, ‘pezzi’ di amministrazione pubblica.
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Come tali esse sono vincolate nell’esercizio delle funzioni loro attribuite al pieno rispetto del principio di legalità. Questo fa sì che ad esse si applichino, laddove la norma istitutiva non preveda una disciplina pubblicistica ad hoc, le regole generali sul procedimento amministrativo, sulla trasparenza e sull’imparzialità dell’azione amministrativa. Questo fatto deve essere valutato con attenzione allorché si immagini di affidare il ‘governo’ di un settore professionale ad un’Autorità indipendente poiché questa scelta può determinare una significativa ‘pubblicizzazione’ delle attività e delle procedure ad essa affidate. Ora quindi se è vero che gli Ordini professionali sono già oggi concepiti come enti pubblici non economici e come tali appunto sottoposti ad alcune regole e a controlli di matrice pubblicistica; va detto che anche l’amministrazione indipendente è soggetta a vincoli di natura pubblicistica. Per cui va detto che se certamente con l’istituzione dell’Autorità indipendente si supera il controllo ministeriale, essa rimane però senz’altro sottoposta al controllo del giudice amministrativo. Dopo aver brevemente illustrato le ca-
ratteristiche intrinseche del modello occorre, infine, scendere più in dettaglio e chiedersi se il modello è adatto al tipo di funzioni che si immagina che un’Authority delle professioni debba svolgere. Qui il discorso diventa naturalmente complesso poiché ci si trova a dover distinguere tra le funzioni già riservate agli Ordini professionali, le funzioni su cui le leggi più recenti intervengono e le funzioni che de iure condendo potrebbero essere attribuite. Per quanto riguarda le attività oggi già almeno in parte svolte dagli Ordini professionali (vale a dire la tenuta degli Albi, la definizione del contributo annuale, la vigilanza sull’esercizio professionale abusivo, il rilascio di pareri in merito a controversie professionali, l’attività di formazione e i procedimenti disciplinari), occorre dire che nulla osta alla loro attribuzione a un’Autorità indipendente. Questo però a condizione che l’Autorità abbia una struttura decentrata e uffici di collegamento su base regionale. Il decentramento almeno regionale appare infatti un requisito irrinunciabile per il corretto svolgimento di queste funzioni. Per quanto riguarda l’attività disciplinare, la legge n. 148 del 2011 interviene su
questo punto in modo tale che il regolamento governativo di riforma dovrà prevedere l’istituzione di un organo nazionale di disciplina e di organi territoriali separati da quelli che svolgono funzioni amministrative per l’istruzione e la decisione delle questioni disciplinari. Questa competenza si presta bene ad essere svolta da un’Autorità che è per definizione indipendente dai regolati e che, quindi, risponde bene alla logica che sembra essere sottesa all’intervento legislativo Infine, per quanto riguarda possibili nuove funzioni attribuibili nel settore ad un’Autorità indipendente qualora essa fosse costituita occorre citarne, de iure condendo, due: la risoluzione delle controversie (oggi gli Ordini possono fornire a richiesta solo un parere) tra i professionisti e tra i professionisti e i clienti e la valutazione, sulla base della concreta situazione del mercato, dei criteri di accesso alla professione. Si tratta naturalmente di due ipotesi che al momento non trovano riscontro legislativo, ma per le quali – qualora si decidesse di procedere ad un riordino davvero complessivo delle professioni – il modello dell’Autorità indipendente potrebbe essere particolarmente indicato.
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Una liberalizzazione così così Intervista di Liana Pastorin a Franco Stefanoni
DOMANDA Le liberalizzazioni sul tema delle professioni previste dal governo Monti come possono essere valutate? RISPOSTA La riforma proposta dal governo Monti in materia di professioni ha trovato sbocco dopo che per trent’anni nessuno in Parlamento era mai riuscito a concludere nulla. Le lobby di Ordini e sindacati professionali avevano sempre respinto progetti ritenuti dannosi. Con l’eccezione delle cosiddette lenzuolate di Pier Luigi Bersani del 2006, il sistema ordinistico non è stato intaccato da riforme di qualche respiro complessivo. A dire il vero, anche con il governo Monti, facendo la tara tra testo iniziale del decreto e articoli approvati in Parlamento, si notano differenze in favore delle categorie professionali: i farmacisti limitano le novità ed evitano la libera vendita dei farmaci di fascia C, i notai se la cavano con 500 posti annui in più che tuttavia saranno concessi con concorsi che non brillano per velocità, efficienza e trasparenza, gli avvocati respingono l’obbligo del preventivo in favore del cliente. Non ci saranno più le tariffe, ma era già così da sei anni. Anche i tassisti, sia pure senza Albo, hanno ottenuto ciò che volevano: saranno i sindaci a
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decidere le eventuali licenze in più, a garanzia che in pratica se ne faranno ben poche. D Eppure il presidente del Consiglio rivendica la portata del decreto. R A vedere il bicchiere mezzo pieno, ciò che il governo Monti ha raccolto in termini di liberalizzazioni in materia professionale, rimane comunque un risultato altrimenti improbabile. Qualcosa, verrebbe da dire, non di rivoluzionario ma avvenuto in direzione riformista. Il governo pensa che una più libera concorrenza favorirà concorrenza e consumi, le categorie ritengono che la qualità dei servizi corre dei pericoli, a danno proprio dei cittadini-consumatori. Il tempo dirà chi ha ragione. Nonostante questo, per un’ampia parte delle rappresentanze professionali, ciò che è accaduto equivarrebbe quasi a un colpo di Stato. Gli avvocati, in particolare, poco inclini a essere toccati nel loro mondo, si sono ribellati senza freno. D Si parla di lobby, ma le professioni soffrono la crisi. Sono così intoccabili? R In generale, a difesa delle ragioni delle professioni, si tende a sovrapporre due questioni ben differenti: la realtà degli iscritti agli Albi (circa 2 milioni, viene detto, ma sono molti di meno i reali liberi professionisti), con i loro problemi, i giovani, i redditi in calo ecc, e la realtà degli Ordini. Sono questi ultimi il nodo da sciogliere, non nel senso di vederli necessariamente sparire, ma almeno di affrontare modifiche del loro funzionamento. Una questione di efficienza e trasparenza. Nati per tutelare i cittadini dai possibili abusi e irregolarità commessi dai detentori della conoscenza, sono invece spesso diventati protettori degli interessi degli iscritti agli Albi e di chi li gestisce. L’opinione pubblica è in larga parte confusa tra spinte iperliberiste cavalcate da parte della politica e dell’economia, e messaggi delle rappresentanze di categoria che gridano a pericoli e rischi di far west. Si prenda il Professional Day
organizzato l’1 marzo a Roma, dove la visuale è stata ribaltata: non sarebbero gli Ordini gli intoccabili dalle riforme, ma tutti gli altri, ovvero banche, grandi sindacati, politici. Beninteso, di intoccabili in Italia ce n’è una lunga schiera, e tra questi anche banche, grandi sindacati e politici. Solo che, mentre la letteratura prolifera su certe cosiddette caste, in certi casi, come appunto per gli Ordini, si è quasi sempre riusciti a sottacere tutto. Situazione che nel tempo è andata di pari passo con l’impossibilità di affrontare vere riforme di sistema nei meccanismi di accesso, vigilanza, disciplina, regole interne delle categorie protette. Hanno sempre vinto le lobby. D Certe categorie si sono sentite accerchiate, chi ha ragione? R Gli Ordini hanno detto: compattiamoci e respingiamo l’attacco del governo Monti. Questo, sostengono, non nel nome del sistema ordinistico in senso stretto (l’arcipelago dei 28 enti professionali e dei circa 20 mila consiglieri che li gestiscono), ma di quello, appunto, degli iscritti, dove spesso lavorano giovani ormai precarizzati e dai bassi redditi. Un tema, quest’ultimo, sottolineato da categorie come quella degli architetti alle prese con crisi di lavoro. La protesta dell’1 marzo ha puntato sul valore sociale dei professionisti e sul significato di sicurezza garantita da Ordini e loro iscritti. Delle inefficienze del sistema, ispirato da senso corporativista, nessuna traccia. La prospettiva è stata capovolta. D Secondo lei, si può o deve fare a meno degli Ordini? R Posto che ci sono buone ragioni per diffidare di forme di liberismo esasperato, caccia alle streghe e calcoli al futuro sui vantaggi economici strabilianti di certe aperture di mercato, gli Ordini hanno reagito e reagiscono dicendo in pratica no a qualunque tentativo di intervento deciso per una loro riforma: solo le loro proposte vanno bene. Ma le loro proposte, inevitabilmente, alla fine modificano poco e
proteggono lo status quo. La questione non è eliminare tutti gli Ordini, ma di migliorarne il funzionamento. Certo, alcune realtà credo restino importanti, mentre altre lo sono molto meno, visto che hanno perduto il senso storico della loro nascita. L’impressione di tanti cittadini e iscritti agli Albi è che troppe volte questi enti non svolgano quei compiti originari per i quali sono nati. Emerge un’ingessatura di sistema. Gli Ordini, insieme ad alcuni sindacati di categoria, non ne vogliono sapere nemmeno di non eclatanti novità riguardo tariffe, preventivi obbligatori, formazione continua, società di capitale. Gli Ordini dicono di essere accerchiati e ci sarebbe anche un mandante che trama contro le libere professioni: Confindustria, interessata a svalorizzare il sistema e poi entrare come concorrente. Qualche Ordine ha sollecitato i propri iscritti a non acquistare né leggere più Il Sole 24 Ore. D Come giudica il clima politico attuale in ambito professionale? R Dopo i proclami e i timori iniziali, è subentrata una fase più tattica. Dentro la quale, tuttavia, si fanno sentire spinte verso ulteriori arroccamenti. Su altri binari, infatti, le professioni cercano di portare a casa risultati opposti a quelli perseguiti dal governo Monti. Un esempio: gli avvocati invocano l’approvazione (per ora il sì è arrivato dal Senato) di una loro riforma dove tornano le tariffe, si allargano a tutto campo le esclusive professionali, si boccia il cosiddetto patto di quota lite introdotto ancor prima, nel 2006 da Bersani. Quest’ultimo è un punto delicato: con il patto di quota lite, avvocato e cliente si accordano per la divisione del risultato finale, come accade diffusamente negli Stati Uniti. Il professionista incassa solo se si vince. È un modo per disincentivare le cause perse e stimolare il perseguimento degli obiettivi. Ma, viene detto, mortifica la professionalità e brutalizza in logica imprenditoriale il lavoro intellettuale.
ROUNDABOUT Libri
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Professioni intellettuali✒
Impegno e potere
Collana del Centro di ricerca sulla storia delle professioni (CEPROF) dell’Università di Bologna
Le professioni italiane dall’Ottocento a oggi
Impegno e potere Le professioni italiane dall’Ottocento a oggi
Professioni intellettuali
a cura di Maria Malatesta
Le professioni hanno plasmato la cultura, la società, le istituzioni, le economie; hanno esercitato un impulso decisivo nei confronti delle istituzioni educative e dello sviluppo scientifico; hanno veicolato e tutelato i beni collettivi delle nazioni, li hanno rappresentati sul piano politico; hanno creato mercati e contribuito allo sviluppo economico. Questa collana si propone di sollecitare ricerche a carattere multidisciplinare sulle professioni, la loro storia e il ruolo da esse esercitato nelle società italiane ed europee, di ieri e di oggi.
Le ricerche di prima mano condotte dagli autori che hanno collaborato alla realizzazione di questo volume documentano quale sia stato nella storia italiana dal Risorgimento a oggi l’intreccio tra le professioni e la società. I dati raccolti mostrano in modo inequivocabile che esse hanno contribuito alla governance in politica e in economia, hanno combattuto per gli ideali nazionali, hanno utilizzato il loro sapere per cambiare la società e ampliare la sfera dei diritti, si sono infine misurate con la sfida più difficile, ossia il superamento della cultura maschilista e patriarcale che le caratterizzava da secoli.
ISBN 978-88-7395-626-6
www.buponline.com
€ 18,00
9 788873 956266
Bononia University Press
I veri intoccabili
Piccoli. La pancia del Paese
Impegno e potere
Chiarelettere, Principio attivo, 2011 pp. 240 | € 15.00 ISBN 9788861901056
Marsilio, I grilli, 2010 pp. 173 | € 15.00 ISBN 9788831799409
Bonomia University Press, 2011 pp. 270 | € 18,00 ISBN 9788873956266
La metà dei componenti del Parlamento italiano è iscritta a un Ordine professionale. Un gruppo trasversale: il partito dei professionisti. Stiamo parlando di più di due milioni di persone in Italia, divise in 28 categorie: avvocati, medici, notai, ingegneri, giornalisti, farmacisti, ... Hanno enti previdenziali propri, un patrimonio di circa 50 miliardi di euro investiti in beni immobili e titoli finanziari. Quello degli Ordini professionali è un mondo chiuso e ancora tutto da raccontare. Una macchina del privilegio, con meccanismi e regole scritte e non scritte. Questo libro lo racconta, attraversando inchieste e scandali, modalità di accesso non sempre trasparenti e sanzioni disciplinari che arrivano con incredibile ritardo. Nati con l’alibi di difendere il cittadino-consumatore, gli Ordini professionali proteggono solo se stessi, tramandandosi il potere in maniera quasi ereditaria. Ogni tentativo di riforma è bloccato. All’interno delle stesse professioni c’è chi prova a opporsi: invocano l’eliminazione degli Albi e un radicale cambiamento che metta in prima fila libertà e merito, abbattendo ogni privilegio. La loro battaglia è la battaglia di tutti i cittadini italiani.
Piccoli: quattro milioni di piccole aziende, otto milioni di partite IVA rappresentano per un Paese un patrimonio vitale. Ma se questi signori, da quando aprono bottega fino a sera, hanno la sensazione di lavorare ‘contro’, c’è qualcosa che non va. La crisi ha moltiplicato gli outsider, reso più corta la coperta e ha lasciato senza voce non solo precari e disoccupati, ma anche artigiani, piccoli commercianti, partite IVA e professionisti. E il silenzio deve preoccupare più di una protesta clamorosa. Nel silenzio i valori finiscono nel tritacarne, quelli tradizionali non reggono l’urto della secolarizzazione e quelli moderni sono considerati velleitari, buoni per le élite. I Piccoli credono nella libera impresa e nel lavoro autonomo, non disdegnano il mercato e lo considerano meglio della politica, odiano le tasse e la burocrazia, lo Stato-imprenditore e le oligarchie industriali. Sono la pancia del Paese, ne esprimono gli umori, le paure, gli slanci. Non hanno riti da onorare, linguaggi da tenere in vita, manifestazioni da propagandare, Pantheon da riempire. E anche per questo le élite e la cultura li escludono sistematicamente dalla rappresentazione del Paese. Per loro sono e restano degli Invisibili.
Le ricerche di prima mano condotte dagli autori che hanno collaborato alla realizzazione di questo volume documentano quale sia stato nella storia italiana dal Risorgimento a oggi l’intreccio tra le professioni e la società. I dati raccolti mostrano in modo inequivocabile che esse hanno contribuito alla governance in politica e in economia, hanno combattuto per gli ideali nazionali, hanno utilizzato il loro sapere per cambiare la società e ampliare la sfera dei diritti, si sono infine misurate con la sfida più difficile, ossia il superamento della cultura maschilista e patriarcale che le caratterizzava da secoli.
Franco Stefanoni è giornalista de Il Mondo. Da anni si occupa di liberi professionisti e Ordini professionali, raccontandone fatti e misfatti. È autore di Finanza in crac (Editori Riuniti, 2004), Il codice del potere (2007), Il finanziere di dio. Il caso roveraro (2008), Mafia a Milano (con Mario Portanova, Giampiero Rossi, nuova edizione 2011) tutti pubblicati da Melampo.
Dario Di Vico, inviato ed editorialista del Corriere della Sera, scrive di economia, lavoro e società. Ha pubblicato per Rizzoli Profondo Italia (2004) sulle ricadute sociali del cambio lira-euro, inchiesta per la quale gli è stato assegnato il Premiolino.
di Franco Stefanoni
Dario Di Vico
a cura di Maria Malatesta
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