monografia
Un cambiamento radicale Architetture Rivelate
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Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% CB-NO/TORINO n째 2 Anno 2012
TAO n.13/2012 www.taomag.it ISSN 2038-0860 DIRETTORE RESPONSABILE
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Riccardo Bedrone
Riccardo Bedrone, presidente Maria Rosa Cena, vicepresidente Giorgio Giani, segretario Felice De Luca, tesoriere
DIRETTORE SCIENTIFICO
Liana Pastorin l.pastorin@awn.it REDAZIONE
Raffaella Bucci Emilia Garda Liana Pastorin Via Giolitti, 1 - 10123 Torino T +39 0115360513/4 F +39 011537447 www.taomag.it redazione@taomag.it COMITATO SCIENTIFICO
Marcello Cini Mario Cucinella Philippe Potié Cyrille Simonnet
CONSIGLIERI
Marco Giovanni Aimetti Roberto Albano Sergio Cavallo Pier Massimo Cinquetti Franco Francone Gabriella Gedda Elisabetta Mazzola Gennaro Napoli Carlo Novarino Giovanni Tobia Oggioni Marta Santolin DIRETTORE OAT
Laura Rizzi CONSIGLIO FONDAZIONE OAT
ART DIRECTOR
Fabio Sorano IN COPERTINA
GRAFICA
Pietro Derossi, L’altro Mondo Club, Rimini, 1967
Lorem
Periodico di informazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torino Registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51 del 9 ottobre 2009 Iscritto al ROC con il n. 20341 del 2010
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Le informazioni e gli articoli contenuti in TAO riflettono esclusivamente le opinioni, i giudizi e le elaborazioni degli autori e non impegnano la redazione di TAO né l’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Torino né la Fondazione OAT Tiratura 3.000 copie
Simona Castagnotti
Carlo Novarino, presidente Sergio Cavallo, vicepresidente CONSIGLIERI
Riccardo Bedrone Mario Carducci Giancarlo Faletti Emilia Garda Ivano Pomero
FOTOGRAFIE
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Eleonora Gerbotto
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Un ringraziamento particolare a Emanuele Piccardo curatore di questo numero di TAO oltre che della mostra Radical City realizzata a luglio 2012 all’Archivio di Stato di Torino
TAO 13 – INDICE 2 Contributors 4 Redazionale 6 L’utopia radicale è la città EMANUELE PICCARDO 8 Architettura Radicale e rivoluzione LAPO BINAZZI 10 Tarzan contro Superman nel paese delle meraviglie (ovvero Pour en finir avec le ’68) BRUNO ORLANDONI 13 Collezionare libri e riviste GIORGIO MAFFEI 14 Consumare MASSIMO ILARDI 6 Il potere quotidiano UGO LA PIETRA 1 18 Verso la liberazione dalle Archimanie CRISTIANO TORALDO DI FRANCIA 0 Radical City A CURA DI EMANUELE PICCARDO 2 6 Radical City Selezione critica di testi 3 inerenti l’architettura radicale A CURA DI EMANUELE PICCARDO Divertimentifici TOMMASO TRINI – DOMUS 458/1968 Breve storia dello stile yéyé PIERRE RESTANY – DOMUS 446/1967 2 I gruppi 4 6 Roundabout 4
CONTRIBUTORS LAPO BINAZZI
UGO LA PIETRA
MASSIMO ILARDI
GIORGIO MAFFEI
Nel 1967 fonda gli UFO (con Foresi, Maschietto, Bachi e Cammeo), gruppo con il quale partecipa a numerose mostre internazionali come la XIV Triennale di Milano (1968), la Biennale di Parigi (1971), Contemporanea a Roma (1974), la Biennale di Venezia (1978). Dopo l’esperienza con gli UFO, Binazzi continua l’attività di architetto-artista-designer partecipando a numerose mostre come Alchimia a Firenze (1981), Documenta 8 a Kassel (1987) e Il Dolce Stil Novo della Casa a Firenze (1991).
Vive a Roma e insegna Sociologia urbana nella Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, Università di Camerino. È direttore della rivista Outlet. Per una critica dell’ideologia italiana. Da anni si occupa del rapporto tra nuovi spazi urbani e dell’influenza sulla socialità e sulla vita delle persone. Tra le sue pubblicazioni si segnalano L’individuo in rivolta. Una riflessione sulla miseria della cittadinanza (1995), Negli spazi vuoti della metropoli (1999) e In nome della strada. Libertà e violenza (2002). Ha curato Una strana rivista. Gomorra 1998-2007 (2007).
Nel 1959-60 inizia una ricerca segnica rivolta al ‘minimo sperimentale simbolico’, illustrata nella mostra La ricerca morfologica (1963, con Alberto Seassaro). Dal 1967, con il Sistema disequilibrante, interviene sullo spazio fisico con azioni simboliche, mentre con Gradi di libertà mira al recupero di alcuni spazi urbani ancora fruibili e modificabili. Ha diretto dal 1972 le riviste In, In più e Fascicolo, e dal 1979 è stato redattore di Domus per il settore design.
Si occupa del rapporto tra arte ed editoria. Ha pubblicato saggi sul libro d’artista, sulle riviste d’avanguardia e sull’opera editoriale dell’Arte Povera e del Movimento Arte Concreta e lavori bibliografici su Alighiero Boetti, Bruno Munari, Gastone Novelli, Sol LeWitt, Allan Kaprow, John Cage, Ettore Sottsass. Scrive su quotidiani nazionali e riviste specializzate. Ha organizzato mostre su questi temi in musei europei, americani e giapponesi. È fondatore dello Studio Bibliografico Giorgio Maffei.
BRUNO ORLANDONI
All’attività di docente affianca quella di ricercatore in storia dell’architettura e dell’arte. Ha pubblicato i volumi Architettura radicale (1974) per la collana Documenti di Casabella e Dalla città al cucchiaio (1978). Ha curato l’ordinamento del Museo del tesoro della Cattedrale di Aosta (1984) e collaborato alle riviste Casabella (1975), Spettacoli e società (1976), Il Diaframma fotografia italiana (1977), Modo (1977-79) e all’organizzazione di mostre a Torino (1975, 1981, 1983), Bologna (1975), Genova (1992).
EMANUELE PICCARDO
Architetto, fotografo e filmmaker, fonda nel 2002, insieme a Luca Mori, archphoto.it, e nel 2011 la versione on paper archphoto2.0. Fonda nel 2003 l’associazione culturale plug_in (con Luisa Siotto e Alessandro Lanzetta), con l’obiettivo di diffondere l’architettura e le arti visive nella società. Le sue opere fotografiche sono conservate al MAXXI e alla Bibliothèque Nationale de France. Il documentario Lettera22, su Adriano Olivetti, vince il XXIX Asolo Art Film Festival.
CRISTIANO TORALDO DI FRANCIA
Fondatore nel 1966 del gruppo Superstudio assieme a Adolfo Natalini, a partire dal 1980 segue un percorso individuale occupandosi con il suo studio di diversi settori della progettazione, dal disegno industriale all’architettura, ispirandosi soprattutto al linguaggio dell’architettura toscana del Cinquecento. Ha lavorato per committenti privati (come Poltronova, Anonima Castelli, Zanotta) e pubblici (tra cui i comuni di Roma, Firenze, Livorno). È professore associato della Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno.
Redazionale Tao sospende la sua pubblicazione con questo numero dedicato all’architettura radicale italiana, messa in mostra da Emanuele Piccardo a Torino in occasione del festival Architettura in città 2012. Forse – lo speriamo – anche l’attività della rivista ha apportato ‘un cambiamento radicale’ nel modo di fare comunicazione da parte di un Ordine professionale che, attraverso la programmazione culturale della sua Fondazione, si è rivolto a un pubblico sensibile ai temi della città, cercando di analizzarne e descriverne le strategie, le contraddizioni, le trasformazioni e le sfide per il futuro. Tao, acronimo di Trasmitting Architecture Organ per proseguire l’eredità lasciata dal fortunato congresso mondiale degli architetti ospitato a Torino nel 2008; Tao allo specchio, per diventare Oat, Ordine Architetti Torino; Tao come il flusso vitale delle idee e dei progetti che emergevano dagli articoli e dalle immagini che molti autori hanno donato alla nostra causa e al piacere dei nostri lettori. Le 13 monografie realizzate hanno risposto a due grandi categorie tematiche Architetture Rivelate o Trasmettere la Città Sostenibile, a sottolineare i nostri campi di interesse. E soprattutto i temi della sostenibilità urbana e ambientale ci hanno spinto a chiedere a Marcello Cini, lucido paladino della laicità e dell’autonomia del pensiero, scomparso il 22 ottobre di quest’anno, di presiedere il comitato scientifico di Tao. Con Cini facevano parte del comitato scientifico Mario Cucinella, Philippe Potié e Cyrille Simmonet. La rivista ha ospitato tante firme illustri. Ma anche gli autori meno noti che si sono avvicendati sui diversi titoli hanno offerto un prezioso contributo specialistico attraverso parole, fotografie o graphic novel.
Un lungo elenco per ringraziarli: Fabrizio Accatino, Cristina Accornero, Rohit T. Aggarwala, Matteo Agnoletto, Roberto Albano, Enzo Argante, Francesca Bagliani, Davide Banfo, Fabrizio Barbaso, Pier Giovanni Bardelli, Lorena Bari, Piero Bassetti, Luca Beatrice, Riccardo Bedrone, Paolo Bertaccini Bonoli, Stefania Bertola, Guido Bertorelli, Enrico Bettini, Bruna Biamino, Gabriella Bianciardi, Piero Bianucci, Enzo Biffi Gentili, Lapo Binazzi, Luigi Bobbio, Silvio Boccalatte, Paola Boffo, Gian Piero Bona, Giuseppe Borgogno, Raffaele Bracalenti, Paola Brambilla, Giovanni Brino, Raffaella Bucci, Francesco Burrelli, Cristiana Cabodi, Andrea Cammelli, Mimmo Candito, Laura Cantarella, Antoni Casamor I Maldonado, Gian Carlo Caselli, Claudia Cassatella, Daniel Gustavo Chain, Cristiana Chiorino, Gayle Chong Kwan, Marcello Cini, Comitato Quartiere Vanchiglia, Claudia Conforti, Gilberto Corbellino, Gianluca Cosmacini, Rocco Curto, Dark0, Luca Davico, Steve Della Casa, Erminia Dell’Oro, Alvise Del Pra’, Pasquale De Angelis, Michele D’Ottavio, Dario Di Vico, Ferruccio Doglione, Francesco Erbani, Giancarlo Faletti, Gianni Farinetti, Gian Luca Favetto, Roberta Ferrazza, Fotobook, Leopoldo Freyrie, Giorgio Gallesio, Bruno Gambarotta, Aldo Garbarini, Emilia Garda, Francesco Gatti, Giorgio Giani, Sisto Giriodi, Mauro Giudice, Gianluca Gobbi, Ezio Godoli, Mauro Guglielminotti, Allegra Hicks, Sandi Hilal, ID-LAB, Massimo Ilardi, Carlo Infante, Loredana Ionita, Joachim Jobi, Guido Laganà, Ugo La Pietra, Andrea Laprovitera, Raffaella Lecchi, Giulio Machetti, Giorgio Maffei, Carlotta Maitland Smith, Domenico Mangone, Mauro Marras, Ruggero Martines, Bernard Mauplot, Walid Mawed, Claudio Mellana, Pier Luigi Meneghello, Laura Milan, Fabio Minucci, Stefano Mirti, Guido Montanari, Francesco Moschini, Antonio Mura, Stefano Musso, Marco Navarra,
Carlo Novarino, Giovanni Oggioni, Manuela Olagnero, Don Fredo Olivero, Carlo Olmo, Bruno Orlandoni, Marco Orofino, Lucy + Jorge Orta, Peppino Ortoleva, Daniela Palma, Lionel Papagalli Alfred, Antonella Parigi, Liana Pastorin, Ezio Pelizzetti, Matteo Pericoli, Paolo Peris, Massimo Persotti, Alessandro Petti, Emanuele Piccardo, Michelangelo Pistoletto, Anna Maria Poggi, Luigi Prestinenza Puglisi, Marco Preve, Francesco Profumo, Simone Quadri, Bruno Quaranta, Norma Rangeri, Andreja Restek, Gianni Rogliatti, Giuseppe Roma, Edgardo Salamano, Ferruccio Sansa, Marta Barbara Santolin, Teresa Sapey, Cristiano Seganfreddo, Andrea Segrè, Massimo Settis, Andrea Silvuni, Marina Sozzi, Franco Stefanoni, Niccolò Storai, Jasmina Tešanovic, Giovanni Tesio, Maddalena Tirabassi, Paolo Tombesi, Cristiano Toraldo di Francia, Piergiorgio Tosoni, Pier Giorgio Turi, Juraj Valcuha, Roman Vlad, Umberto Veronesi, Rosalia Marilia Vesco, Guido Viale, Mario Virano, Ai Weiwei, Eyal Weizman, Giorgia Wurth, Gustavo Zagrebelsky, Alex Zanardi, Edoardo Zanchini, Cino Zucchi. Tao nel formato cartaceo potrà riprendere ad uscire in tempi finanziariamente migliori, ma i 13 numeri continueranno ad essere sfogliabili dal sito www.taomag.it, il blog che rimarrà tenacemente a presidiare i temi che riguardano il vivere e l’abitare. In questo spazio settimanalmente si discute e si scambiano opinioni su questioni che hanno a che fare con il diritto alla casa, alla città, alla salute, alla sicurezza, all’istruzione, alla partecipazione, alle decisioni politiche, con riferimento alla sostenibilità ambientale, alla cultura del progetto, alla qualità delle trasformazioni della città e del costruito. Interpretiamo il blog, che ne rappresenta la continuità, come un laboratorio culturale attivo, che, partendo anche dalla cronaca, si apre e si arricchisce dei commenti dei lettori.
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L’utopia radicale è la città Le riflessioni sulla città degli anni Cinquanta e Sessanta propongono nuovi modelli di sviluppo urbano e relazioni di ibridazione tra natura e architettura, anziché di contrapposizione Emanuele Piccardo
‘Radicale’ è un’espressione che ben sintetizza un atteggiamento che assunsero i giovani nei primi anni Sessanta, tra occupazioni, cortei e sperimentazioni artistiche, in un’Italia che dopo il boom andava ripensata nei suoi gangli e nelle sue forme di sviluppo. Questo atteggiamento, che prima di tutto era politico, si è concentrato a Milano, Firenze e Torino. L’esperienza dei quartieri Ina Casa si era appena conclusa, l’International Style aveva mostrato i suoi limiti, prefigurando scenari da architettura omologata, globale e uguale in tutto il mondo così come accadde successivamente. Gli anni Cinquanta, con la fine del Movimento Moderno, avevano messo in crisi la professione dell’architetto, spaesato e senza guida. Infatti, non fu un caso che esplose nelle Università, prima il fenomeno Wright e poi Le Corbusier. Al maestro svizzero guardarono il gruppo del Team X (Giancarlo De Carlo, Jaap Bakema, Alison e Peter Smithson, Georges Candilis, Aldo van Eyck, Shadrach Woods), contestatori dei CIAM, soprattutto nell’introdurre il tema delle megastrutture nella pratica architettonica. Tema ripreso
nelle tesi di laurea dei giovani architetti fiorentini. In alternativa alla dimensione corbusieriana si poneva Constant con la sua New Babylon (1959-74). Una città utopica anticapitalista abitata dall’homo ludens, sulla base dell’omonimo libro dello storico Johan Huizinga. “L’urbanistica per come viene concepita oggi – scrive Constant – è ridotta allo studio pratico degli alloggi e della circolazione come problemi isolati. La mancanza totale di soluzioni ludiche nell’organizzazione della vita sociale impedisce all’urbanistica di levarsi al livello della creazione, e l’aspetto squallido e sterile di molti quartieri ne è l’atroce testimonianza”. In contemporanea Yona Friedman nel progetto dell’Architecture Mobile (1958) ripensava la città attraverso una megastruttura non stanziale e pesante ma nomade, tecnologica e leggera. Un’utopia tecnologica “nell’ambito di una reazione contro il razionalismo – scrive la storica Lara Vinca Masini – […] Il tema generale, al quale i tecnologi utopisti applicavano le loro ricerche, è quello della città del futuro, che si propone come soluzione integrale della vita dell’uomo, di fronte ai problemi di un
mondo sempre più massificato e alienato”. Il tema della città del futuro viene sviluppato anche dall’architetto torinese, Paolo Soleri, quando inizia a sperimentare i primi progetti di città come Mesa City e poi, verso la fine dei sixties, mettendo in pratica la teoria con i due esperimenti, in parte riusciti, di Cosanti, nei sobborghi di Phoenix, e Arcosanti nel deserto, a un centinaio di miglia dalla capitale federale. “Arrivati a Cosanti si potrebbe anche essere davanti a un complesso industriale dismesso – scrive lo storico Reyner Banham durante il suo viaggio nei deserti americani (1982) – le prime cose che si vedono dalla strada sembrano due scaldabagni [...]. Ma se ci si inoltra nella macchia (di alberi e ulivi), il grigiore e l’indifferenza dell’esterno cede il posto a una completa e totale estetica dell’ambiente, per la quale l’unica parola credo sia: incantevole”. Nel confronto tra i due esperimenti Banham ne esalta sì l’abilità artigianale ma evidenziando quanto “Arcosanti vuole essere tutto quello che Cosanti non è”. Anche ad Arcosanti il primo approccio non è dei migliori, però l’architettura si ri-
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scatta con la sua qualità degli spazi che si scoprono lentamente. Infatti può essere descritta come “una combinazione dell’esperienza spaziale delle terme di Caracalla con quella del Club Méditerranée, un’affermazione sarcastica in cui però c’è più di un briciolo di verità”. Di tutte le megastrutture pensate nel decennio Cinquanta-Sessanta Arcosanti rappresenta un esempio, seppur flebile e poco incisivo sul piano territoriale, di città realizzata. Pur non appartenendo all’architettura radicale, Soleri è radicale perché questa definizione si potrebbe dire che appartiene a quel periodo storico e a quel contesto politico-culturale. Dall’altra parte del mondo a Oriente, proprio sullo stesso tema delle macrostrutture, agivano, nel 1960, un gruppo di architetti giapponesi, guidati da Kenzo Tange, che elaborarono il libro-manifesto Metabolism 1960: The proposals for a New Urbanism, alla cui redazione parteciparono Kiyonori Kikutake, Fumihiko Maki, Masato Otaka, Kisho Kurokawa e Kiyoshi Awazu. Quindi riflettere sulla città a grande scala
significava proporre nuovi modelli di sviluppo urbano. Come a Firenze dove alla fine degli anni Sessanta i Superstudio progettano il Monumento Continuo e gli Archizoom la No Stop City. Nel progetto del Monumento Continuo, afferma Cristiano Toraldo di Francia, “attraverso le immagini dell’Utopia negativa (critica) di Superstudio si porta al limite la concezione classica del rapporto tra natura e architettura, tra città e campagna. La figura retorica della dimostrazione per assurdo smaschera attraverso i fotomontaggi l’immagine pubblica di una nuova relazione, che non sarà più di contrapposizione ma di ibridazione e alleanza. Il Monumento Continuo porta al limite la distinzione del moderno tra naturale e artificiale per aprire il passaggio ad un nuovo pensiero ibrido di ricostruzione delle relazioni tra architettura e natura, destinate a fondersi in un unico progetto”. Mentre “la No Stop City, – secondo Andrea Branzi – introducendo su scala urbana il principio della luce e dell’areazione artificiale, evitava il continuo spezzettamento immobiliare tipico della morfologia urbana tradizionale: la città diventava una strut-
tura residenziale continua, priva di vuoti e quindi priva di immagini architettoniche”. Ma il tema dell’utopia ritorna, in chiave tecnologica, nei progetti dei 9999 che esplorano le teorie di Marshall McLuhan, quando afferma in Understanding Media: The Extension of Man (1967) “che il contenuto di un medium è sempre un altro medium [...] perché il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi che introduce nei rapporti umani”. Ciò avviene sia nella Casa Orto (che vince nel ’72 il concorso indetto dalla mostra Italy: A new domestic landscape, curata da Emilio Ambasz) “un luogo abitabile e consumabile in accordo con i principi delle risorse riciclabili; volutamente fa uso di elementi molto semplici: orto, acqua e un letto d’aria”, sia nella discoteca Space Electronic (1969) a Firenze, dove la sperimentazione dei linguaggi è totale proprio con la tecnologia, il cui uso è mediato dall’uomo creando così un coinvolgimento sensoriale totale. Così, tra teoria e progetto, l’avventura radicale ha nella città le radici della sua utopia.
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Architettura Radicale e rivoluzione Discontinuità, happening e rigore nell’analisi concettuale sono le parole chiave per descrivere il portato innovativo del movimento culturale e della sua metodologia Lapo Binazzi (UFO)
In cosa consiste la rivoluzione operata dall’architettura radicale, nel contesto in cui si è mossa? E in cosa ancora oggi è riconoscibile? A queste semplici domande si può dare una risposta solo in considerazione del molto tempo trascorso dalla metà degli anni ’60, in cui è nata. Indubbiamente il portato della generazione del dopoguerra detta anche generazione della speranza, è stato fondamentale e si può sintetizzare nello slogan: Immagination au pouvoir. Dopo gli anni allora recenti della guerra, della ricostruzione e del boom economico, la società italiana cerca di concedersi il piacere del libertinaggio intellettuale, affrancandosi dallo stato di necessità. L’immaginazione in questo senso simboleggia una funzione superiore dell’intelletto che finalmente privilegia il significante sul significato. Il terreno è preparato nella cultura dalle avventure del Gruppo ’63 con personalità come Umberto Eco e Alberto Arbasino, dal cinema di Fellini e Antonioni con film come Fellini 8 e ½ e Blow up. Il risveglio culturale si accompagna con l’incapacità della politica di adeguarsi alla nuova situazione.
I parlamentini universitari perdono l’aggancio con la realtà di una generazione che identifica la storia con i propri bisogni morali e materiali. Le sperimentazioni degli esami di gruppo come palingenesi di un nuovo modo di apprendere e fare didattica, spostano l’accento sul collettivo come sinergia ed esaltazione dei contenuti individuali. Importante è lo sbarco alla Biennale di Venezia nel ’64 della Pop Art. L’arte e la cultura mitteleuropea perdono la sacralità intellettuale, in favore delle esigenze di una quotidianità di comportamenti e consumi, che la Pop si incarica di mettere in evidenza, con una notevole ironia. Nel design, la fiducia nelle magnifiche sorti progressive della tecnologia e le nuove abitudini della società degli anni ’50 e ’60 hanno prodotto il felice e leggero minimalismo del made in Italy con personaggi del calibro di Ponti, Colombo, Castiglioni, Zanuso e tanti altri. Ma di fronte ad una crisi sempre più evidente del Modernismo, tendenzialmente svuotato dei forti contenuti degli inizi del Bauhaus, per una adesione ad un International Style acriticamente socialdemocratico, la fidu-
cia si incrina e non regge alla spinta delle generazioni giovani e alla voglia di cambiamento. Lo spontaneismo dei comportamenti alternativi precederà la politica a ritmi incalzanti, diventando immediatamente egemonia artistica e culturale. Il movimento studentesco produrrà occupazioni di facoltà universitarie, assemblee legiferanti, cortei, gettando i semi dei gruppi extraparlamentari, che si troveranno la strada spianata per contendere l’egemonia e trasformarla in progetto politico. Fin qui quasi tutto bene. L’Architettura Radicale, specialmente a Firenze e dopo una devastante alluvione nel ’66, dà vita a invenzioni strane e ironiche. I primi mobili e lampade diverse dal solito panorama domestico, come i Gazebi e i Teatrini degli Archizoom, sono stanze nelle stanze delle case borghesi, dove per entrare bisogna adottare travestimenti, da giochi di ‘ruolo’. In definitiva, adottare nuovi comportamenti. Anche i modellini dei letti pop, sempre dello stesso gruppo di giovani architetti, recepiscono in tempo reale le nuove possibilità di codici estetici indotte dalla Pop Art. Gli oggetti come la lampada San
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Remo, o la poltrona Mies saranno dichiaratamente delle vere e proprie bombe ad orologeria nel salotto di casa. Il Monumento Continuo di Superstudio rappresenta a livello dell’architettura planetaria la stessa cesura. Architettura e natura si troveranno giustapposte e integrate in un contrasto fortissimo tra tecnologia avanzata e stato di natura. I negozi, le discoteche, le boutique e i ristoranti degli UFO, saranno il set di azioni autonome, a fissione semantica e semiosi illimitata, elevando la parodia a ironia sui codici retorici di massa. Di queste intenzioni valgano per tutte la Lampada Dollaro, la Lampada Paramount e la Lampada MGM. Per non parlare degli Urboeffimeri, giganteschi oggetti-architettura gonfiabili degli UFO in scala 1:1, che verranno calati nel centro storico di Firenze in diretta competizione con i monumenti, sotto forma di happening, fino ad arrivare a vere e proprie architetture gonfiabili come la Casa ANAS. La No stop city degli Archizoom, Le dodici città ideali di Superstudio e Il Giro d’Italia degli UFO, insieme alla tesi degli UFO per l’Università di Firenze, saranno i mo-
menti di una ‘urbanistica concettuale’ che rappresenta il punto più alto delle intenzioni di utopia di questi gruppi. Ma anche le Architetture Inconsce di Pettena, L’anarchitetto, o le visioni preecologiche dei 9999, insieme al Sistema Disequilibrante di Ugo La Pietra, sono coerentemente ‘rivoluzionarie’ e costituiscono parte integrante del movimento radicale, insieme a moltissime altre opere e protagonisti che non posso citare per ragioni di spazio, ma che sono altrettanto importanti e che hanno continuato a dare frutti anche nel presente. Se dovessi scegliere in questo mondo variegato e piacevolmente affollato, quali sono le caratteristiche più rivoluzionarie dell’Architettura Radicale, punterei sul concetto di ‘discontinuità’, tra vecchi e nuovi comportamenti. Punterei ancora sull’happening, come dimostrazione pratica dell’immediatezza dell’improvvisazione artistica, capace di traghettarci nel terzo millennio, inducendo nel pubblico sorpresa e stupore ma anche stimoli per porsi domande e proporsi nuovi problemi. Punterei sul rigore dell’analisi concettuale come metodologia artistica.
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Tarzan contro Superman nel paese delle meraviglie (ovvero Pour en finir avec le ’68 ) Dalla crisi del modello tecnocratico, razionale all’emergere di una controcultura che si esprime con i movimenti giovanili, la politicizzazione, le arti, l’ideologia, l’adozione di nuovi costumi Bruno Orlandoni
La tecnologia è morta. Viva la tecnologia. Come per un effetto tardivo degli shock da Hiroshima e da Auschwitz, la razionalità occidentale, nel cuore degli anni ’60, entra in crisi. Al modello dominante, tecnocratico, industriale, eterogestito, se ne viene accostando uno nuovo, artigianale, autogestito, apparentemente irrazionale, relegato in origine nel limbo dei modelli sperimentali, sottoculturali, in prova, ma in apparenza destinato ad acquistare peso e credibilità. Dalla metà degli anni ’50, il modello è concimato dal fiorire della cultura beat e angry angloamericana. Da un lato, su un piano progressivo, Ginsberg, e Corso, e Kerouac; i grandi viaggi on the road attraverso gli Stati Uniti sulle highway 61 e 66 e poi oltre; Burroughs e Leary e la teorizzazione degli allucinogeni; Watts e la riscoperta delle filosofie orientali; Mekas, Markopulos, Anger, Brackage e la reinvenzione di nuovi linguaggi; Rauschenberg, Kaprow, Oldenburg e i primi happening. Da un altro lato, quasi come ultimi palpiti regressivi dell’avanguardia storica e di una cultura bohémienne morente, le sbornie
suicide di un Pollock, di un Hemingway, di un Charlie Parker, che in tutto questo sono immersi fino al collo, anche se sembra che non c’entrino proprio niente. Soprattutto, come prodotti di questo cocktail, Chuck Berry, Little Richard ed Elvis Presley col loro rock and roll. E, al di sopra, cristallino come tutti i simboli morti bambini – per loro fortuna – lui, il modello, James Dean: stranamente deculturalizzato rispetto a tutto ciò che gli sta bollendo intorno, ma da tutto questo creato, orientato, partorito; senza tutto questo assolutamente impossibile. Poi, via via, negli anni ’60, i movimenti giovanili e il loro ritorno ad una più precisa autocoscienza con il rifiuto più o meno apparente della civiltà dei consumi e il loro lavoro underground di distruzione e scardinamento di vecchi miti e valori: da Berkeley ad Amsterdam, da Amsterdam a Strasburgo, da Strasburgo a Parigi, Roma, Londra, Berlino. Mario Savio e il Free Speech Movement durante la rivolta di Berkeley; i Provo con le loro biciclette bianche; i situazionisti di Strasburgo e la loro miseria nell’ambiente studentesco e la scoperta che lo
studente è un prodotto della società moderna come Godard e la Coca Cola; la battaglia di Valle Giulia e gli Uccelli che allevano pecore nelle aule della facoltà di architettura e dipingono elefanti tra le fiamme occupando il cestino di Borromini in cima alla Sapienza; i cortei contro la guerra nel Vietnam; Dutschke e la Freie Universität di Berlino; il maggio francese e i muri della Sorbona che diventano pagine bianche di quaderni della nostra infanzia; il potere all’immaginazione per qualche giorno, qualche ora. I Teddy Boy degli anni ’50, dopo essere divenuti hells angels, si politicizzano. E contemporaneamente, altra faccia del peccato, o della luna, avvolti da nuvolette di hashish e di marijuana, i Beatles e Dylan: Mr. Tambourine man e Lucy in the sky with diamonds. Dietro, tutti gli altri: Rolling, Fuggs, Who, Cream, Doors, MC5. A zonzo per il mondo con le chitarre. Viaggi spesso senza ritorno a Katmandu. Le giornate divise tra le serali scenate isteriche ai primi festival pop e i pestaggi mattutini con la polizia di mezzo mondo ai cortei o alle occupazioni. Poi, dopo le prime batoste, la fuga nei
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campi, nei deserti, nelle praterie a fondare Drop City, e Lama, e la comune su barche di Sausalito Bay, o anche soltanto la comune di Ovada. Gli Stati Uniti si riempiono di Giovannini Semidimela, di Robinson e di Robin Hood, e i primi prototipi del genere cominciano ad apparire anche in Europa, solo un po’ più stipati per la mancanza di spazio. Sotto il segno dello Scorpione, Scorpio rising, gli Hells Angels trapungono di margherite i loro giacconi di pelle e vanno a fare le crocerossine ai grandi festival pop. Anche la moda si evolve e con essa il costume. Connie Stevens con i suoi paradisi erotici, più lasciati all’immaginazione che realmente mostrati, o Sandra Dee con il suo Scandalo al sole non scandalizzano più nessuno; così come Elvis, con il suo tubo di gomma nascosto nei calzoni per mimare chissà quali miracolose erezioni. L’evoluzione, che porta alle pubbliche masturbazioni di Jimi Hendrix, agli orgasmi cosmici di Janis Joplin o alle groupies succhiatrici e collezioniste di cazzi famosi, è la stessa evoluzione che porta dalle scarpe basse di vernice bianca, ai primi timidi ca-
stigatissimi bikini, dai giacconi di pelle con qualche scritta, ai topless o ai bottomless midcult, alla minigonna, al nudismo integrale, sereno e forse un po’ gonzo, delle comuni hippie o del parco Lambro. Improvvisamente si riscoprono cose dimenticate da secoli. Che l’odore di uomo o di donna è molto meno peggio di tutte le puzze artificiali prodotte dalle varie industrie della bellezza; che l’amore lo si può fare anche in posizioni diverse dalla tradizionale posizione del missionario benedetta da Santa Madre, che le donne brutte e gli uomini brutti possono sembrare anche meravigliosi. I Troy Donahue, che hanno tappezzato le stanze delle teenager trecciute degli anni ’50 e dei primi ’60, cadono in disgrazia e vengono riarrotolati ed esiliati sulle pagine delle riviste rosa di cronaca coronata e scandalistica. Insieme ai brutti, tutte le altre minoranze oppresse riscoprono una loro identità. Le donne, prima di tutti, e con una particolare virulenza. Poi i neri, con Smith e Carlos e i loro pugni guantati sul podio insanguinato di Mexico. Poi ancora gli omosessuali. Il travestitismo e l’androginia diventano
modelli diffusi anche sulla spinta pubblicitaria di divi pop come Mick Jagger, David Bowie, Lou Reed, Eno e i Roxy Music, Holly Woodlawn. Quando si arriva alle Divine si è ormai alla parodia. Come per i maestri e per i grandi esempi del passato – i vari Semidimela, Crusoe, Tarzan, appunto – così per i discepoli l’ideologia è spesso polivalente, si potrebbe anche dire proprio confusa. Watts, Leary, Ginsberg, Dylan, Neville, Rubin ne sono ad un tempo i teorici e i poeti. Ma anche Manson, in fondo, è uno del giro. Quanto meno per i modi di vita concreti – stragi a parte – che adotta; per ciò che la sua comune produce: la sua giacca, tessuta e ricamata amorevolmente dalle donne del suo harem-clanfamiglia è un autentico capolavoro della cultura hippie. Le esperienze culturali apparentemente più disparate si trovano a convergere in un unico campo di relazioni reciproche. Le distanze che separano Fluxus dal Play power, lo Human Be-In dall’occupazione dell’Odeon, Mr. Freedom dai fumetti di Crumb, sono differenze non di modelli ma di moduli all’interno di un unico modello e,
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in questo caso, anche di un unico livello culturale. Ant Farm, Uccelli, UFO, San Francisco Mime Troupe, Fuggs, sono tutti tentativi racchiusi in un unico orizzonte creativo e propositivo. Nella fase della sua massima espansione e virulenza, sul finire degli anni ’60, la cultura underground comincia ad integrare e sostituire i propri simboli. Lo scontro tra Tarzan e Superman si allarga a legioni di outsider. Mr. Freedom viene sconfitto non solo dal Super Maomao degli Evenstructures ma anche da Mr. Natural, dal gatto Fritz o dai Freak Brothers. Ci si può chiedere quando tutto questo sia finito. La risposta “is blowing in the wind”, come i tumbleweeds e, come tutte le cose portate dal vento, è inafferrabile. Se si può immaginare che tutto sia cominciato da qualche parte tra Auschwitz e Hiroshima, sembra che tutto sia poi stato spazzato via da Ronny Belladonna nella sua ultima interpretazione di Rambo/ Rimba, dall’Iron Lady e da Gianpaolo secondo, con le loro legioni di yuppie e di neo-docenti universitari armati di computer portatili e di Timberland, adoratori talebani di liberi mercati. Quando viviamo in momenti di afflizione come questi bisogna solo aspettare Mother Mary che venga a dirci parole di saggezza. Let it be.
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Collezionare libri e riviste Intervista a Giorgio Maffei di Liana Pastorin
Giorgio Maffei si definisce un ex architetto e pure pentito. Una professione fatta per anni con convinzione, ma che ha dovuto cedere il posto ad una passione per l’arte e per il libro che, coltivata in tempi lunghi ma con costanza inesorabile, ha preso il sopravvento. DOMANDA Come è iniziato il suo desiderio di collezionare libri e riviste? RISPOSTA Tutto ha avuto inizio con il mio interesse verso l’arte, che ritengo domini le nostre vite e le nostre scelte più importanti. Avrei voluto collezionare oggetti d’arte, ma è un’attività molto costosa. Ho riversato quindi attenzione e sensibilità sul libro che si incrocia con la storia dell’arte figurativa e che consente di avvicinarsi al mondo dell’arte senza dover disporre di grandi risorse economiche. Il mio lavoro consiste nel raccogliere libri d’artista – oggetto frequentemente presente nelle mostre e nei musei internazionali e invece rarissimo in Italia – ma anche di pubblicare saggi sul rapporto tra arte figurativa ed editoria con particolare riferimento alle avanguardie storiche: futuristi, dadaisti, astrattisti, surrealisti fino agli artisti dell’arte povera e contemporanei. L’editoria costituisce una imprescindibile lente per leggere e interpretare le varie discipline artistiche che sovente si incontrano nel libro d’artista, nel catalogo di una mostra o nelle riviste. D Sfogliando le pagine del sito dello Studio
bibliografico Giorgio Maffei si scoprono alcuni libri rari sulle arti del Novecento, materiale prezioso per chi si occupa di architettura e design: La casa all’italiana di Gio Ponti (Ed. Domus, 1933), Quand les cathédrales étaient blanches di Le Corbusier (Librairie Plon, Paris, 1952), Trattato di architettura tipografica di Carlo Frassinelli (Torino, 1941), Architettura “radicale” di Paola Navone e Bruno Orlandoni, Ed. Casabella, 1974). Da che cosa scaturisce l’interesse per l’avanguardia? R Gli artisti pensano in modo non convenzionale e questo è l’aspetto che più mi incuriosisce. Ho cominciato da giovane, raccogliendo il materiale dei miei anni, ovvero gli anni Sessanta e Settanta, quando l’arte era avanguardia. Vivevo a Torino dove ho avuto l’occasione di conoscere artisti dell’arte povera. Ma erano le gallerie (Sperone, Tucci Russo, GAM) con le loro esposizioni che proponevano mostre sconvolgenti e mai viste prima, che ponevano il visitatore a un bivio: rifiutare quell’espressione artistica o innamorarsene. Me ne sono innamorato. D Quale attenzione c’era per le riviste allora e qual è il loro mercato oggi? R L’avvicinamento all’arte di quegli anni necessita di una preparazione specifica, che ha bisogno di un substrato teorico che è ben rappresentato dalla rivista, come veicolo di trasmissione di idee e per avvicinare il pubblico agli artisti. Questo
era ben chiaro ai creativi radicali. È invece molto diverso ciò che accade oggi con riviste di tutt’altra portata e un approccio di tipo personale o esclusivamente di mercato. Allora le riviste erano la storia del pensiero; erano in vendita e molto diffuse. Mi riferisco per esempio a Marcatré, rivista di arte contemporanea, letteratura, architettura e musica, fondata a Genova da Eugenio Battisti nel 1963 (fino al 1970) e legata al Gruppo 63. Hanno fatto parte del comitato direttivo Gillo Dorfles, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Paolo Portoghesi, Vittorio Gregotti e vi hanno scritto, tra gli altri, Germano Celant e Jannis Kounellis. Il fatto nuovo era che gli articoli non erano solo a firma dei critici, ma anche degli artisti, che avevano così la possibilità di spiegare le loro opere. Marcatré offre due motivi per essere considerata una delle riviste capitali della storia del pensiero del Novecento: si organizza attraverso una redazione con persone che sono la punta avanzata del pensiero in ciascuna delle discipline che rappresentano e si struttura come strumento multidisciplinare. Il mercato delle riviste, a differenza dei libri che si conservavano, si acquistavano, si leggevano e si buttavano. Per il collezionista si tratta quindi di un oggetto non costoso ma raro, difficile da intercettare poiché purtroppo anche i musei e le istituzioni pubbliche hanno perso l’occasione di collezionare queste riviste.
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Consumare Gli individui non avranno futuro perché le loro relazioni sono consumate nel rapporto tra mercato e politica Massimo Ilardi
C’è un mistero da risolvere: non si capisce perché quando si pensa al lavoro vengono giustamente in mente lo sfruttamento e la precarietà e quando invece si pensa al consumo si staglia immediatamente davanti la figura di un Briatore. Voi direte: perché costui è la rappresentazione massima di cosa vuol dire consumare. È vero ma solo in parte, perché l’agire consumistico non si esaurisce nel consumare una quantità di oggetti, riguarda anche il desiderio che produce questa spinta. E il desiderio esiste che ci siano o no le condizioni per soddisfarlo. Allora nessuno può negare che il desiderio di un precario non solo è potente quanto quello di un Briatore ma è ben più pericoloso perché non ha alcuna possibilità di essere appagato. Naviga come una mina pronta ad esplodere alla prima occasione: legale o illegale poco importa, come poco importa se quel desiderio sia spontaneo o indotto dalla pubblicità. Quello che importa sono le conseguenze che produce sul territorio: dal conflitto alla devianza con in mezzo tutta una gamma di comportamenti e di figure antisociali per eccellenza.
Ma che vuol dire consumare? Vuol dire solo fare shopping in Via Condotti o in Via Monte Napoleone, come si seguita ad affermare rispolverando i luoghi comuni più triti? O è qualcosa di più: uno stato di necessità, ad esempio, che attraversa indistintamente tutti gli strati sociali? Cerchiamo di dare una definizione: il consumo è l’atto distruttivo fine a se stesso, fuori cioè da pastoie funzionali o giustificative, attraverso il quale una moltitudine di individui dissolve quotidianamente e incessantemente non solo oggetti ed eventi, ma affettività, valori, relazioni, emozioni; è l’ambito dove esplode il desiderio che scatena i conflitti che ridefiniscono la libertà materiale dell’individuo e il governo del territorio; è il passaggio determinante che traghetta una società dallo spazio omogeneo e privo di differenze (lo spazio dei ‘non luoghi’), governato dal mercato, al territorio striato, perennemente conflittuale, enclavizzato della metropoli contemporanea dove le istituzioni hanno davanti non più una generica società disegnata dal mercato ma una società frantumata in minoranze di massa evocate appunto dal consumo.
Autonomia del ‘sociale’ vuol dire proprio autonomia delle minoranze sociali dall’interesse generale, dalla mediazione politica e dalle sue forme di rappresentanza. Ci troviamo così di fronte a una microconflittualità esasperata che attraversa tutti gli ambiti dell’esistenza e che produce corpi separati. Ma non c’è nulla di nuovo in tutto questo. È nella tradizione italiana far nascere sul terreno del conflitto interno e dello scontro violento tra fazioni non solo la passività delle sue istituzioni ma anche il dinamismo creativo della sua cultura. La ‘differenza italiana’ sta proprio qui: nella difesa e nella esaltazione dell’interesse di gruppo che in alcuni momenti ha funzionato come elemento di immobilismo, ma in molti altri come motore potente di trasformazione in maniere assolutamente originali. Dipendeva dalla forza del particulare nel riuscire a tradurre in forme politiche il conflitto sociale. La novità rispetto al passato è semmai un’altra: e cioè che a livello sociale non sono più la politica e il potere a scatenare il particulare – il grado di consenso che riescono a raggiungere oggi nella società è davvero scarso – ma
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il consumo o, meglio, la radicalità dello scarto tra il desiderio illimitato e le possibilità sempre insufficienti per esaudirlo. Dunque, cultura del consumo + sfrenati e atavici egoismi: una miscela esplosiva tutta italiana. Allora non è la passività dello shopping che qui interessa ma proprio l’emergere di questo ‘scarto’ che nell’agire consumistico produce nuovi conflitti e nuove forme di libertà sul territorio. Interessano le rivolte metropolitane per l’appropriazione di beni materiali e non le rivoluzioni del pensiero che favoleggiano sull’uguaglianza e sulla possibilità di nuovi mondi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma è almeno da trent’anni che il tempo futuro è stato cancellato dalla vita degli individui oltre che dalle grammatiche di tutto il mondo. Affermare questo vuol dire resa incondizionata al mercato, come qualcuno ha accusato? Esattamente il contrario: vuol dire prendere atto che il rapporto fondamentale oggi non è più quello tra mercato e lavoro o tra mercato e politica ma tra consumo, mercato e politica. Misurarsi con le culture e le pratiche del consumo
diventa essenziale per la costruzione di un agire politico che riesca a trovare forme nuove per governare la violenza dei rapporti sociali. Se è così, allora la questione, anche per i più incalliti moralisti, è proprio questa: dove si situa e in quali forme il passaggio alla politica non in una generica società dell’iperconsumo ma in una società, come ad esempio quella italiana, dove la parte è sempre stata considerata più importante del tutto. Ma bisogna oltrepassare la linea tracciata dall’infezione buonista e dal politicamente corretto. Bisogna intanto cominciare a dire che, in una società dell’iperconsumo, l’unità politica e la coesione sociale ricercate a tutti i costi non sono beni assoluti e buoni per tutte le stagioni: sono strumenti della tattica da innescare nei momenti dello scontro (elettorale o sociale); che il lavoro rappresenta sempre meno il dispositivo di comando che investe ogni ambito dell’esistenza; e che il consumo non è più un momento interno all’attività produttiva. Se le stesse tonalità emotive, affettività, comportamenti e gli stessi ‘talenti anarchici’ che vengono poi messi in produ-
zione provengono dal mondo della strada e del consumo, allora è importante ai fini della nascita di una nuova soggettività riflettere con la dovuta attenzione al nesso tra rapporti sociali e agire consumistico. A questo punto quella supposta egemonia della produzione viene meno a favore di una più complessa interpretazione del ruolo che ha oggi l’agire consumistico anche rispetto all’emergere di possibili nuovi strumenti di governo. Se quello che conta è come rompere le regole del gioco che il mercato vuole imporre, allora occorre rendersi conto che una di queste regole è costringere il consumo a rimanere una semplice appendice della produzione, è chiudere il rapporto individuo-merce dentro quella ‘coscienza’ e ‘dignità’ del produttore per tentare di controllare i demoni dell’insubordinazione, dell’edonismo, del materialismo e di tutti quei comportamenti antisociali che rischiano alla fine di destabilizzarlo perché distruggono quei valori morali (sottomissione alle regole, fare società, produzione di futuro) che fin dal suo nascere gli hanno garantito quella stabilità sociale necessaria per il suo sviluppo.
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Il potere quotidiano Le città sono pensate dal potere per isolare gli individui, ma sono innanzitutto il prodotto dei comportamenti, delle scelte quotidiane e del rapporto con l’ambiente di chi le abita Ugo La Pietra
“La città, regolata da strutture decisionali ed operative, è ormai organizzata attraverso una serie di sistemi all’interno dei quali le relazioni tra i livelli decisionali di intervento politico-economico ed il contesto sociale di base si esprimono mediante meccanismi di coartazione dei bisogni e delle aspirazioni reali dei gruppi sociali. Giorno per giorno perdiamo sempre di più la capacità di recuperare i significati e i valori all’interno della scena urbana, nella quale il nostro occhio non vede altro che segnali a cui uniformiamo automaticamente il nostro comportamento. La particolare autorità morale che la società del consumo riesce ad esercitare sulla popolazione, mediante gli strumenti di informazione e attrazione verso l’imposizione di una fisicità urbana che non lascia nessun grado di libertà e di intervento per la partecipazione alla definizione e trasformazione della stessa, ci costringono ad una attività nella quale viene a mancare qualsiasi comportamento creativo (individuale o collettivo)”. Con queste parole introducevo negli anni Settanta uno dei capitoli del libro Istruzioni
per l’uso della città (Ed. Plana, Milano) e cercavo di affrontare questi condizionamenti con i miei strumenti ‘concettuali’. Strumenti basati non tanto sull’intervento all’interno delle strutture fisiche (possibilità che andiamo perdendo di giorno in giorno) quanto sulla possibilità di un atteggiamento creativo in relazione agli ambiti comportamentistici e mentali. E così ancora oggi mi sembra di poter citare e aggiornare alcune istruzioni che proponevo per “scoprire la forma e l’uso della città”, e che rappresentano il modo migliore per contrastare il ‘potere’ che quotidianamente ci condiziona: ´´ “per ogni individuo la realtà della città può esistere solo come modello mentale che viene modificato continuamente dall’esperienza” ´´ l’idea che un architetto si fa della città è falsata da tanti pregiudizi e vizi mentali quanti se ne possono trovare nella testa di un colonnello delle forze armate, di un ‘supervenditore’ della pubblicità, di un burocrate dell’amministrazione ´´ i tecnici urbani come gli architetti pensano di costruire case più grandi e sem-
pre più alte (grattacieli) dove collocare una sempre maggiore quantità di individui dimenticando che detti individui prima o poi dovranno uscire e… ´´ “la città non è fatta solo di case, la città è fatta dei nostri comportamenti, dalle nostre scelte quotidiane, da come impostiamo il nostro rapporto con l’ambiente che ci circonda” ´´ “abitare è essere ovunque a casa propria: si abita il nostro appartamento, si usa la camera d’albergo”. Il potere preferisce tenerci chiusi nelle nostre case e non fa nulla per consentire di espandere la personalità e l’identità dei gruppi sociali nello spazio urbano. Lo scopo fondamentale del potere (attraverso l’urbanistica) è quello di isolare gli individui nella cellula abitativa familiare, di ridurre le loro possibilità di scelta all’interno di un ridotto numero di comportamenti preordinati, di integrarli in pseudo collettività che come le megacase o il villaggio di vacanza consentono il loro controllo e la loro manipolazione. Il potere politico è complice del sistema commerciale: come il quartiere Sarpi a
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Milano dove la moltitudine dei grossisti cinesi ha trasformato un pezzo di città nel luogo di rifornimento di negozianti e ambulanti al dettaglio di tutta Italia. La città è dove il potere alleato al sistema commerciale ha fatto sì che qualsiasi servizio sia a pagamento. “La società burocratica, espressione del potere politico tende ormai da tempo a prendere possesso dello spazio in modo esclusivo: l’urbanistica si pone come il mezzo per questa appropriazione”. Ad un’analisi anche superficiale delle città in cui viviamo scopriremo che il momento “del ritrovarsi”, la possibilità cioè di creare degli scambi tra gli individui, non si realizza perché non esistono strutture e situazioni atte a favorire l’incontro e il dialogo tra i cittadini. In pratica la città è suddivisa in tre grandi parti, tutte indispensabili: la prima ai processi produttivi, la seconda allo sviluppo dell’organizzazione familiare, la terza alle forme di evasione. Questi tre momenti della vita del singolo cittadino sono uniti da un tessuto capillare che permette il passaggio da un
momento all’altro senza sottostare alla minima alterazione che possa provocare reazioni utili all’acquisizione di una maggiore consapevolezza della quotidianità. Del resto, per qualche motivo, un individuo dovrebbe sentire la necessità di trovare ‘nell’estraneo’ una fonte di arricchimento della propria conoscenza? Soprattutto quando esiste un sistema impegnato a rendere il più possibile uniformi e ripetitivi gli eventi che si presentano all’esperienza del cittadino! Solo l’eccezione, l’imprevisto è in grado di modificare l’abitudine all’isolamento. Nella nostra società il potere impedisce qualsiasi miglioramento dell’ambiente! A Milano da cinquant’anni la grande kermesse del Salone del Mobile (e del Fuori Salone) concentra un’altissima qualità e quantità di creatività legata al mondo del design. Nessuna ricaduta! Dopo i cinque giorni di spettacolarizzazione del design nazionale e internazionale, proprio come dopo la festa del ‘Santo del Paese’ (finita la festa, spente le luminarie, smontate le giostre) non ri-
mane nulla per qualificare, connotare, dare identità e significato all’ambiente urbano: in poche parole migliorare l’ambiente e renderlo più abitabile, aiutando a sviluppare anche azioni collettive, tendenti a liberare gli individui da una condizione di passività creativa, o semplicemente creando ‘luoghi di decompressione’ rispetto ai vari ‘eccessi della città’ (troppo inquinamento, troppo rumore, troppe auto, troppi segnali, troppo cemento). Così l’architettura, asservita al potere, non trova un ruolo capace di aiutare gli individui urbanizzati ‘arredando’ (dando significato al valore dell’ambiente) e si concentra sulla realizzazione di elementi monumentali e spettacolari, esaltando con queste opere la propria autonomia disciplinare credendo così di poter esprimere il proprio impegno attraverso la ‘forma che rappresenta’ dimenticando il suo vero ruolo che è quello di ‘forma che serve’. Anche la rappresentazione può servire, ma solo quando è l’espressione di tutti e non il risultato di aspirazioni e necessità di pochi.
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Verso la liberazione dalle Archimanie Da un’architettura di materiali pesanti e permanenti a spazi organizzati con la leggerezza di azioni temporanee, attraverso luci, colori e suoni. Da disciplina a ‘disciplina-incrocio’ Cristiano Toraldo di Francia
La constatazione del passaggio dall’ideologia della produzione, che aveva fornito la base culturale all’operato del Movimento Moderno, all’ideologia del consumo o, come si diceva allora riferendoci ad un modello distributivo, dalla fabbrica al supermercato, ci aveva spinto ad una forma di realismo (parallela a quella che in quegli stessi anni animava le azioni della Pop Art americana), che prendendo atto del cambiamento, tentava di portarne al limite le modalità, con l’intento di renderne palesi le contraddizioni e quindi innescare reazioni critiche verso il sistema. Già nel 1964 un gruppo di studenti del terzo anno della Facoltà di Architettura di Firenze (Branzi, Corretti, Morozzi, Navai, Pastorini, Spagna, Toraldo di Francia) aveva convinto alcuni professori (Cardini, Detti, Ricci, Savioli) ad accettare l’idea di condensare in un unico progetto di esame l’esito dei quattro differenti corsi: Composizione, Arte dei giardini, Interni, Urbanistica. Il progetto che si intitolava Città estrusa ed era corredato dal sottotitolo “…è l’ippogrifo un grande e strano augello…”, testimoniando della capacità dell’architettura come linguaggio di rappresentare la situazione politico-antropologica dello stato della crescita urbana e del sistema industriale, allo stesso tempo ne esaltava le possibilità critiche attraverso la poetica di una retorica dell’assurdo.
L’esame finale si svolse in un’aula-teatro piena di studenti, come un grande happening, che rompendo i confini della disciplina, ne metteva in crisi la struttura accademica di sicura fede razional-funzionalista, aprendo la didattica a nuovi incroci e contaminazioni con le altre discipline del progetto e non solo. Alcuni membri del gruppo, che passavano con lo stesso entusiasmo dall’impegno politico delle riunioni, pubblicazioni e occupazioni, allo studio e ascolto delle nuove forme transdisciplinari della musica rock, si riunirono qualche mese più tardi per trasformare, con il sistema dell’autoproduzione, un anonimo capannone della periferia fiorentina in uno ‘spazio di coinvolgimento’: il Piper fiorentino. Con questo progetto si iniziava un processo di destrutturazione della concezione di una architettura costruita con materiali pesanti e permanenti, per organizzare lo spazio con la leggerezza di azioni temporanee attraverso l’uso di tecniche e materiali soft come luce, colore e suoni. Riflettendo su una conversazione di qualche mese fa con Andrea Branzi che mi ricordava di come fossimo stati una ‘generazione esagerata’, penso all’influenza delle esaltate visioni transnazionali di Giorgio La Pira, o l’azione premonitrice di Danilo Dolci, ma anche all’impegno politico della Lega Studenti architetti, alla militanza
culturale di Don Milani e quella proletaria del prete operaio Don Mazzi della comunità dell’Isolotto, ma allo stesso tempo ai Quaderni Rossi e alle accese assemblee durante le occupazioni della Facoltà. La vita tendeva sempre più a coincidere con un’azione politica-artistica che richiedeva la messa in giuoco quotidiana del pensiero critico ma anche dell’azione creativa diretta con il proprio corpo. Le occupazioni della Facoltà, che dal 1963 sono state l’occasione per studi-seminari autogestiti, azioni politiche, assemblee, terminarono in ambito accademico con le nostre tesi di laurea, che ancora una volta presentavano la consueta distesa di disegni tecnici che però progressivamente si contaminavano di grafiche colorate e eccessive, modelli sonori, registrazioni, programmi di proiezioni di diapositive, trasformando la discussione di laurea in un evento, nella convinzione che l’architettura non fosse solo un’attività di problem solving ma uno strumento di critica e presa di coscienza, per mettere a nudo le contraddizioni del sistema e indurre nuovi comportamenti nell’uso degli oggetti e della città. Io stesso rivoluzionai la modalità consueta di presentazione, mettendo i professori della Commissione di laurea, che indossavano la toga, a sedere (con sentite proteste di alcuni) e dopo aver spento
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le luci illustrando il progetto di Una macchina per vacanze sulla costa calabra con la proiezione di immagini di riferimento e dei disegni di progetto con due carousel di diapositive 6x6, precedendo di quaranta anni quanto si sarebbe fatto con le presentazioni assistite dai programmi power point. Agivamo con entusiasmo, come un novello gruppo di Bloomsbury o come la contemporanea Factory, coagulando intorno a noi diverse competenze artistiche e scientifiche, per azioni collettive, che in seguito si sarebbero distinte nelle strategie dei vari gruppi, animati da una formidabile competizione culturale, pronti però ad improvvise alleanze per azioni comuni inaspettate e dirompenti all’interno dei canali ufficiali del conformismo culturale di regime. Così nacque il gruppo Superstudio nella convinzione che il fare architettura fosse un compito multidisciplinare, da disciplina-incrocio, oggi si direbbe azione da common ground, che richiedeva molteplici competenze, anche al di fuori dello stretto ambito della costruzione (Frassinelli antropologo, Magris tecnico-meccanico, Natalini pittore, Toraldo di Francia fotografo, ecc.), ma soprattutto il rifiuto di quella figura eroico-romantica dell’Architetto sognatore, per una più realistica visione di una professione che si organizzava come una Impresa dotata di un
suo Marchio riconoscibile per garantire l’efficacia di un’azione in un mercato artificiale, oramai orientato dai sistemi di comunicazione, che già intuivamo sarebbe presto diventata globale e elettronica. Fino dalla prima operazione, che consisteva nell’occupare una galleria d’arte con una mostra di oggetti autocostruiti (Superarchitettura, dicembre 1966) di ambigua destinazione tra l’arredo, il modello di architettura e la scultura, dichiaravamo l’intenzione di mettere in crisi l’equazione form follows function, per introdurre il valore della funzione simbolica e della esperienza sensoriale degli oggetti d’uso, che venivano destrutturati per provocare quella percezione destabilizzata in grado di esaltarne usi alternativi e creativi. Allo stesso tempo ai disegni tecnici si accostavano i fotomontaggi, come advertisment images, che trasportando la comunicazione in uno spazio ambiguo tra la rappresentazione scientifica e l’evocazione di scenari alternativi, con l’oscillare tra l’esattezza del fotorealismo e l’artigianalità materica del disegno, trasformavano la rappresentazione in un oggetto materiale a più strati. Il disegno non era più solo un mezzo per fornire istruzioni per la costruzione, ma forniva stimoli per la mente in vista di un uso critico degli oggetti e dell’architettura, vivendo di un’esistenza parallela e
sostituendo sempre più spesso l’oggetto costruito. Gli Istogrammi di Architettura, Il Monumento Continuo, Le dodici città ideali, La Supersuperficie, sono stati altrettanti progetti di utopie negative, che agivano criticamente per l’eliminazione della disciplina architettonica attraverso l’uso di immagini, film e racconti letterari. Nel 1977, sciolto oramai il gruppo, così se ne riassumeva la strategia: “Architettura, design, arte, comunicazione, … ed anche comportamento, animazione, critica, filosofia, politica sono stati i vari modi di essere. La negazione della disciplina e la distruzione della sua specificità sono state le tecniche liberatorie. L’ironia, la provocazione, il paradosso, il falso sillogismo e l’estrapolazione logica, il terrorismo, il misticismo, l’umanesimo, la riduzione e il patetico sono state le categorie del fare di volta in volta usate. Lo spostamento continuo, la discontinuità, il superamento dialettico e ‘la mossa del cavallo’ (Menna) sono state le componenti motorie. Ora per il Superstudio i metodi dell’analisi e dell’azione si sono modificati. L’antropologia culturale, la ricerca sull’uomo e le sue produzioni mentali e materiali, i tentativi di modificazione cosciente dell’ambiente e di noi stessi sono tutte parti di un processo di educazione permanente che ci coinvolge completamente”.
Radical City Una pagina mai scritta della storia dell’architettura italiana, progetti teorici e realizzazioni concrete tra il 1963 e il 1973. Lo spazio pubblico diventa luogo di performance, happening e installazioni. Lo spazio privato è lo spazio del coinvolgimento: la discoteca sostituisce la balera. Sullo sfondo le rivolte studentesche, gli scioperi degli operai, il movimento pacifista, la rivoluzione sessuale,‌ A cura di Emanuele Piccardo
Ugo La Pietra, Il Commutatore, Milano, 1970
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9999, Happening sul Ponte Vecchio, Firenze, 1968
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9999, Happening sul Ponte Vecchio, Firenze, 1968
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Pietro Derossi, L’Altro Mondo Club, Rimini, 1967
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Pietro Derossi, Piper Pluri Club, Torino, 1966
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Pietro Derossi, Giorgio Ceretti, Riccardo Rosso, Teatro della XIV Triennale di Milano, Milano, 1968
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9999, Space Electronic, Firenze, 1969
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Pietro Derossi, Piper Pluri Club, Torino, 1966
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Pietro Derossi, Piper Pluri Club, Torino, 1966 (Nella fotografia gli artisti dell’Arte Povera, sullo sfondo il tappeto natura di Piero Gilardi)
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UFO, Urboeffimero n. 5, Firenze, 1968
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UFO, Urboeffimero n. 5, Firenze, 1968
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Superstudio, Story board per il film sul Monumento Continuo, pubblicato in Casabella n.358/1971
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Radical City Selezione critica di testi inerenti l’architettura radicale A cura di Emanuele Piccardo
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Tommaso Trini
Divertimentifici Domus 458 / 1968
Il Piper Pluriclub di Torino e L’altro Mondo Club di Rimini (Pietro Derossi, Giorgio Ceretti architetti; collaboratore Riccardo Rosso, architetto, consulenza grafica Clino Castelli) Anche l’architettura dunque s’adopra a modificare il ruolo del corpo umano. Elettricamente esteso, pare, ma di sicuro psicovestito in perfetta letizia, e sempre più desideroso di raccogliersi nella stereoestasi dell’alta fedeltà musicale, questo nostro corpo (circuito) umano viene liberandosi proprio dappertutto. Adesso, può partecipare direttamente a definire il senso del ‘posto’ che occupa, come presenza fisica motrice, come corpo in grado di adattare l’ambiente su se stesso, e non più tanto viceversa. Se l’allegria necessita la disponibilità del nostro corpo questo è il momento di divertirsi. Né il Piper Pluriclub di Torino né L’altro Mondo di Rimini sono veramente degli ambienti, cioè strutture rigide che impongono il loro stile, l’atmosfera tipica e la clientela fissa, oltre alla loro funzione di macchine sonore; sono piuttosto enormi contenitori muniti degli opportuni attrezzi per costruire di volta in volta un ambiente, come quelle scatole piene di pezzi da comporre e con cui giocavamo a fare l’architetto. Solo che oggi il gioco si è complicato: non solo la gente è ‘swinging’ in un andirivieni di appuntamenti e locali alla moda divorati l’uno dopo l’altro, ma è anche golosa di metamorfosi. L’architettura ‘swinging’ ideata, progettata e realizzata nei due locali di Torino e Rimini, ha previsto queste rapide trasformazioni, dal beat all’hippie (e poi ancora), e ha predisposto un piano di adattabilità sul principio della componibilità. Nel Piper Pluriclub (“È la fine del mondo”) si è cominciato a disporre la struttura principale, piuttosto fissa, al pluriuso, con l’incantevole Mini-Midinette che balla e Cathy-from-Carmel che canta, e la mostra – piovuta dall’alto – di Marisa Merz, e il tempestivo passaggio del Living Theatre – che qui ha compiuto ancora una volta i suoi mysteries – così che sotto il segno di questa unica arte popolare che è la musica folk (sia pure di mero consumo, e che canta la droga più di quanto le metafore facciano annusare) entrano in maggior contatto con la vita anche l’arte visiva e di rappresentazione. Ma il locale che ha fatto seguito è già L’altro Mondo: mezzo hangar del divertimento acrobatico e mezzo catena di montaggio dei circuiti psichici, si pone in equilibrio con la presenza dell’uomo.
Che lo metta al centro di una nuova sacra area proprio non direi: semplicemente, lo distribuisce tra gli oggetti funzionali posati e scorrevoli nel grande contenitore: all’uomo, trovare il suo proprio centro di gravità. Con sedili, pannelli e torri, il tutto allogato su ruote, il locale adatta e rinnova i suoi spazi; il significato stesso dello spazio è definito in termini d’uso. E sarà l’uso sincronico nella molteplicità delle funzioni, sala da ballo, da teatro, da esposizione; ma soprattutto, diacronicamente, sarà l’uso che ne faranno i gruppi sociali emergenti l’uno di seguito all’altro. Cose dell’altro mondo: adesso che la musica non sostiene più necessariamente la danza e la danza non riconosce più alcuna regola, dobbiamo inventarci di volta in volta il posto che sostiene il nostro corpo. Il che, in altre parole, forse, ci impedirà di scivolare, almeno non come oggi, negli ambienti-di-forza, integrati fino al collo. Oppure questa storia del nostro corpo che si libera, che si crea attorno nuovi bozzoli di sensibilità e si rigenera in presa quasi diretta con l’energia elettro-musicale, conquistando la nuova frontiera del nudo, è tutta un’illusione. Per ora, manca un’immagine dell’uomo che corrisponda all’architettura realizzata ne L’altro Mondo. Giacometti per l’allora esiguo spazio delle ‘caves’, Rodin per il night-club (ancora adesso al Crazy Horse) e niente per i pluriclub di Torino e Rimini (le ‘nanas’ di Niki?). Le mostre succedutesi al Piper di Torino hanno messo, come si dice, il sale sulla coda dell’occhio: gli artisti sono ghiotti e questi spazi in alluminio e nichel, ma l’ingegnere li inibisce tanto più quanto più mette a nudo i suoi congegni. Non che si possa fare a meno della loro collaborazione (la macchina luminosa del Piper è di Bruno Munari, e la scala musicale di Sergio Liberovici), ma c’è veramente bisogno che s’impadroniscano di strumenti più efficaci. È quel che ha fatto Mario Schifano, recentemente, con le sue Stelle: un complesso orchestrale di una bravura da levare il fiato per tre quarti d’ora filati, con Jerry Malanga quella sera che ballava la danza della torcia, e Schifano che li eccitava – le Stelle e il pubblico – con scariche di diapositive, film e lampade stroboscopiche. Certo che lo spettacolo era aggressivo, di conseguenza la secrezione di enzima da divertimento fu abbondante; la nuova immagine dell’uomo era forse quella, presente, reale e fissata per un attimo nell’intermittenza tra due lampi.
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Pierre Restany
Breve storia dello stile yéyé Domus 446 / 1967
È molto di più di una moda, di una musica, di una infatuazione stagionale. È una esplosione, una marca, un nuovo stile di vita. All’inizio si pensava che non sarebbe durato più di una estate, invece resiste da sei anni: il fenomeno yéyé. Tutto è cominciato con una importazione dall’America: il rock and roll, miscuglio di jazz e di pop song, danza ritmica che mima i gesti della sessualità primaria. Elvis Presley, il rocker USA n. l è una specie di James Dean della canzone. Un duro, un egoista. Celebre l’uniforme: maglione nero, pantaloni di cuoio attillati. Il rock è nello stesso tempo espressione di rivolta e anelito di libertà: una gioventù trionfante, libera dai tabù sessuali e sociali. Nei quartieri popolari e cosmopoliti, dove razze diverse coesistono senza mescolarsi né comprendersi, la realtà americana è dura, spesso sordida. La violenza della legge, l’egoismo fanatico è di rigore. Ognuno per sé. Questo senso di solitudine e di aggressività protestataria era il senso della vita ai margini della società americana. Il rock and roll è il canto dei beatniks. Non potremmo spiegarci Elvis Presley se prima non ci fosse stata la grande apertura di Kérouac. Tra James Dean e Jack Kérouac entra in campo il ritmo. Meno fisici di Presley ma rappresentativi di questa ideologia protestataria, i personaggi laterali del rock condividono la filosofia del loro pubblico: Eddie Cochrane, il tossicomane di genio, morto per abuso di droga; Bob Dylan, il poeta della cattiva coscienza, il rimorso vivente dei benpensanti. I dischi di Elvis Presley ebbero un effetto positivo e salutare; risparmiarono a milioni di teenager americani pré-beats l’esperienza del grande salto e della fuga, dell’avventura, della delinquenza. Il rock, che permetteva lo scatenamento at home, fu adottato dalle migliori famiglie dell’aristocrazia del denaro. Unica concessione alla violenza, i grandi meeting in occasione delle tournée degli idoli. Durante questi negro-spiritual all’inverso, si fa a pezzi qualche poltrona, si spoglia qualche ragazza isterica e se si minaccia di spingersi oltre arrivano i colpi di randello della polizia. Il grido di adunata, immancabilmente ripreso al ritornello di ogni tube, poco importano le parole, tutto è contenuto nel ritmo, è un sì prolungato alla yankee e modulato in mille modi: Yeah, Yeeaaah!!!
Il grido-ritmo del rock and roll, Yeah-Yeah divenne in Europa yé-yé! L’alterazione fonetica è significativa. Il rock intiepidito, il rock alla francese. I promotori francesi, in particolare Johnny Stark, meditarono l’esempio americano e ‘forzarono’, fin dall’inizio, sul culto della personalità: crearono il Napoleone del rock europeo, Johnny Hallyday, il diciottenne di origine belga che, venuto dal niente, affascinò migliaia di giovani e li strappò miracolosamente alla noia domenicale. Johnny Hallyday, il rocker europeo, si impose immediatamente come archetipo. Senza ideali, senza cultura, Hallyday incarna la lotta istintiva, elementare, della gioventù delle grandi città e delle fabbriche contro la noia di vivere. Presley rappresentava il furore di vivere, Hallyday la corsa contro la noia e il vuoto. Ben presto sulla scia di Johnny appaiono dei nuovi idoli, primo di tutti Sylvie Vartan, il corrispondente femminile dell’idolo e il mito di Johnny assume in Francia delle proporzioni strabilianti, intorno al 1960, anno capitale, anno-svolta del dopoguerra, in cui lo yéyé incontra la sua generazione, i 15-20 anni. Johnny incarna un modo di vita. A contatto con lui, i 15-20enni prendono coscienza di sé in quanto classe d’età. A imitazione di Johnny e dei suoi amici (orchestra, segretario, manager) vogliono vivere tra di loro, trovarsi in compagnia. Escludono i ‘matusa’ (quelli che hanno più di 25 anni) i seri, i tristi, i responsabili. Il fenomeno yéyé sconvolge l’industria del disco. Tutti i record di vendita sono battuti. Per quattro anni, dal 1960 al 1964, la canzone yéyé domina e l’industria del disco yéyé, rappresentata soprattutto dai due colossi Philips e Vogue, raggiunge il culmine nel 1963-64. In quel periodo dei dischi di Johnny Hallyday si vendevano 500.000 copie. Alcuni yéyé più ‘raffinati’, tipo Daniel Gérard o soprattutto Richard Anthony, raggiungevano le 300.000. Poi, bruscamente, scoppiò la crisi. Nella euforia del successo, i sostenitori degli idoli non avevano previsto l’usura e l’imborghesimento del fenomeno yéyé. Furono presi alla sprovvista senza idoli di riserva. Richard Anthony, che aveva fatto una carriera strepitosa nello stile blouson doré, si lascia invischiare dal suo stesso gioco. Diventato borghese, gira in auto sportiva, parla del suo aereo privato e della sua casa di campagna: i giovani si allontanano da lui. Gli agenti capiscono allora che lo stile ribelle
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e bohèmien è il più redditizio. Ma fa paura. Inquieta i genitori, che si ricordano della folla scatenata in Place de la Nation nel 1963, mute urlanti di teppisti di periferia che sopraffecero il servizio d’ordine durante il festival gratuito all’aperto organizzato per Johnny. Gli yéyé devono rientrare nei ranghi. Ma nello stesso tempo gli yéyé comprano meno dischi. I creatori d’idoli urtano contro una nuova concorrenza che essi stessi hanno indirettamente provocato; coscienti del potere d’acquisto dei giovani, gli industriali e gli uomini d’affari aprono loro nuovi settori del mercato. Dapprima è la volta della letteratura specializzata, strettamente legata all’industria del disco. In Francia, Daniel Filipacchi, produttore della trasmissione hit parade su Europe 1, prende a prestito dal titolo di una canzone di Gilbert Bécaud la sigla per una rivista mensile yéyé, che raggiungerà il milione di copie: Salut les copains. È da qui che si leverà la seconda ventata yéyé, dopo la crisi del 1964. Al ritorno dal servizio militare Johnny Hallyday, sergente esemplare e marito modello, è superato dagli avvenimenti. Il pubblico lo abbandona. Egli non sopporta il colpo, i nervi cedono. Il suo suicidio va a monte, ma il rientro ha successo. Black is black il nero è nero, non c’è più nessuna speranza, il discomiracolo, è registrato la vigilia stessa del mancato suicidio. Il delirio ricomincia, Johnny ritrova i suoi fans. Ma, malgrado il trionfo del disco non si venderanno che 250.000 copie, cioè metà di prima del ’64. La seconda ventata yéyé è un fenomeno più complesso e più sottile rispetto alla prima esplosione del rock. Corrisponde ad una evoluzione ritmica e melodica, dominata dall’influenza della canzone popolare. Contrapposto alla bohéme hallidiana, si sviluppa in Francia uno stile ‘bravo ragazzo’, molto semplice, incarnato da Sheila, Claude François, Françoise Hardy. Il pubblico della nuova ondata va dai 4 ai 12 anni. Melodie semplici, ritornelli-slogan che esaltano l’amicizia e la gioia di vivere. Dall’America giunge uno strano usignolo languido Joan Baez, l’ossessa della non-violenza, la specialista della doccia melodica. D’altra parte, lo stile yéyé duro ha provocato una reazione interna. È apparso un anti Johnny in Francia, Antoine, l’intellettuale capellone, il giovane ingegnere diplomato all’École Centrale, per il quale l’espressione è prima di tutto un fenomeno umoristico. La
sua canzone-burla, con riferimenti a chiave, non può ambire alla popolarità hallidiana, ma afferma la presenza di una corrente di giovani che preferisce il gag al delirio collettivo. Con superiore indulgenza e simpatico disprezzo, Antoine ha messo l’idolo alle strette, lo ha obbligato a ridefinirsi, a riadeguarsi al proprio personaggio originale. Ma la seconda ventata yéyé non è nata solo da un rinnovamento della canzone. Si fonda su una serie di fenomeni collaterali, che toccano i settori più diversi, al di là di quelli del disco e della letteratura specializzata (fumetti e riviste), e che si configurano attorno ad un dato sociologico fondamentale: il genere di vita yéyé. Lo yéyé non compra solo certi dischi e giornali, ma si veste in un certo modo, colleziona certi oggetti, frequenta certi luoghi esclusivi; in una parola, si crea uno stile. E, qui, Londra supera Parigi. L’Inghilterra era stata subito sensibile al fenomeno yéyé, ma il rock inglese aveva assunto soprattutto un carattere collettivo (la trasposizione della gang, della banda di quartiere). Gli idoli britannici si esibiscono soprattutto in gruppi, ed è la personalità collettiva che crea il successo. Vedi il caso formidabile dei Beatles (organizzati dal manager Bryan Epstein in società anonima quotata in borsa e riconosciuti dalla Regina Elisabetta) e dei Rolling Stones. Il complesso costituisce fin dall’inizio una cellula sociale, un ambiente organico. Il complesso fa spettacolo da sé; e la formula yéyé collettiva pone il problema del locale, dello spazio ideale per la sua manifestazione. Il rock ricerca la saturazione fisica e uditiva, l’ambiente surriscaldato, gli effetti di luce e di ombra. La boite yéyé, così, esige un’architettura yéyé. L’esclusività del clan (il divieto di ingresso ai matusa praticato dal Club Drouet, che fu la prima Mecca parigina dello yéyé) non basta più: occorre creare lo spazio volumetrico per la trance collettiva. Il successo attuale dei piper club in Italia corrisponde a questa esigenza (accresciuta dal fatto che Milano e Roma sono stati meno toccati dalla seconda ondata: la generalizzazione del fenomeno data solo da due anni: urlatori e complessi fino a quel momento avevano avuto la vita dura, relativamente, e né Rita Pavone, né Bobby Solo, né Mina, né Milva, né i Giganti, né i New Dada possono ancora mettersi in concorrenza con i loro colleghi inglesi o francesi). Saint Tropez, il Vaticano estivo dello yéyé, è partito con il night-
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club Voom-Voom, disegnato dall’architetto Bertrand intorno alle strutture spazio-dinamiche di Nicolas Schoffer e alle riflessioni su pareti metalliche. In Italia, l’ultimo Piper, quello di Torino, impiega oggetti cinetici di Munari, specchi di Pistoletto, tappetinatura di Gilardi. Il Piper di Viareggio abbina il night al bowling alla boutique: decorazioni pop, mobili op. Una sintesi nuova. Poiché si può parlare veramente di sintesi. Gli yéyé hanno polarizzato, cristallizzato, tutta una serie di evoluzioni parallele alla canzone. Hanno fornito il pubblico di base per la nuova moda, minigonna, stile cosmonauta, come per la moda mecart di Paco Rabanne, stile meccanico di un’epoca meccanizzata (caschi con visiera, tessuti sintetici rigidi, manometri usati come gioielli lanciati questa primavera al Crazy Horse Saloon) o quella di Polly Magoo, e di Emmanuelle Khanh. In Francia gli idoli hanno aperto sartorie: Sheila, Sylvie Vartan, Françoise Hardy. Ma è a Londra, senza alcun dubbio, che batte il cuore della moda yéyé. Carnaby Street è stata la kermesse permanente delle cosce nude e dei capelli lunghi. Gli yéyé vi arrivavano in massa da tutta l’Europa, risparmiando i soldi sul viaggio per spenderli in acquisti. Ma Carnaby Street è già sorpassata. È altrove che appaiono i segni della sofisticazione yéyé: la rivoluzione, anche là, non è più nella moda, ma nell’arredamento, nel design. Dopo il pret-à-porter, il pret-à-habiter. Biba è il tempio n.1 della moda 1966: una vecchia drogheria di Kensington Church Street: facciata 1900, modern style riveduto e corretto dal pop dell’anno scorso. Lo Jugendstil non ha mai meglio meritato il suo nome! Riaffiora in pieno, nell’orgia di colori dell’op-art, nell’invasione del folklore cittadino. Rococo per beatnicks. La minigonna è di rigore, se ne vendono mille al giorno, a suon di musica, al ritmo dei Rolling Stones. Commesse e clienti, tutte fatte sullo stesso cliché, assomigliano tutte a Pattie Boyd, la moglie del Beatles George Harrison. Niente stock, niente programma, niente collezione. La direttrice-stilista di Biba Barbara Hulanicki, vive giorno per giorno, a seconda del ‘hit’ della sua ispirazione. Fatto signifìcativo, i fans di Biba non sono soltanto gli idoli e il loro pubblico, ma le vedette della fotografia e dello schermo: Brigitte Bardot, Julie Christie, Geraldine Chaplin.
In Tottenham Court Road si è appena aperto il secondo negozio di arredamento moderno yéyé, Habitat, fratello della famosa boutique di Sloane Avenue. Terence Conran, il proprietario di Habitat, è l’apostolo del total look grandi vetrate, pannelli bianchi laccati, schermi in acciaio. In questo spazio dégagé, Conran vi propone tutto quello che occorre per vivere alla yéyé, dall’elettrofono incorporato al mobile a basso prezzo, che si cambia come una camicia. Il suo grande successo: la cassa mille usi, che fa da sedia come da tavolo, da panca o da contenitore, e che si vende a mille esemplari al mese. L’ultimo successo yéyé in Francia è il frutto di una felice collaborazione franco-inglese. Didier Bernardin, figlio di Alain (“Monsieur strip-tease”), ha introdotto in Francia il “badget”, che fabbrica in Inghilterra. Derivato dal button-badge anglosassone, questo grande bottone metallico, colorato, che si fissa al risvolto della giacca o come spilla, sul petto, come un porta motto-slogan, anche pubblicitario, è prima di tutto il segno di riconoscimento del pensiero yéyé. Le formule sono create da un ragazzo di 12 anni. Ecco lo stile: “Je lis Le Monde”, “J’en peux plus”, “Je plane comme une fou”. I grandi magazzini, gli industriali, i night-club sono diventati i migliori clienti di “Monsieur badget”: dove gli yéyé vedono un mezzo per affermare la loro presenza nel mondo, gli uomini d’affari apprezzano l’efficienza ossessiva di uno slogan ben studiato. È sul simbolo del badge che si concluderà il nostro giro d’orizzonte. La seconda ventata yéyé ha allargato il suo pubblico, si è diffusa in tutti i settori della modernità e dello spirito giovane. Sorto nel punto di incontro delle sintesi stilistiche del nostro tempo, lo yéyé appare come una sorta di catalizzatore, come l’elemento di accelerazione di una evoluzione, il grano di pepe in un lievito in pieno fermento. Questo stile composito, disordinato, complesso, è in pieno sviluppo: emette antenne in tutti i sensi, si accaparra le scoperte più contraddittorie, risolve tutte le antinomie: la rivoluzione sessuale e la sentimentalità romantica; la legge della jungla e la morale dei copain; l’op, il pop e la mec-art in salsa liberty, il Prisunic e l’architettura del futuro. È un fenomeno sociale di scala poderosa, che risponde pienamente alla spinta demografica e al virage ottimistico della nostra civiltà.
I GRUPPI
9999
Archizoom
Nella seconda metà degli anni ’60 all’interno dell’ambiente vivace e creativo della Facoltà di Architettura di Firenze, Giorgio Birelli, Carlo Caldini, Fabrizio Fiumi e Paolo Galli fondano il 9999, un gruppo di studio e lavoro che realizza le sue prime esperienze tra il 1966 e il 1968. Nell’estate del 1968 il gruppo inaugura il proprio studio in campagna alla periferia sud di Firenze in cima alla collina di Marignolle. Il 25 settembre 1968 dalle ore 23 alle 24 avviene l’happening progettuale con proiezioni sul Ponte Vecchio di Firenze. Il 27 febbraio 1969 inaugura la discoteca Space Electronic. Tra Marignolle e lo Space Electronic matura l’esperienza del gruppo nella sua fase più avanzata. Da una parte gli olivi, le vigne, la natura con i suoi armoniosi suoni confusi con le voci dei contadini intenti al lavoro dei campi e dall’altra la musica, il teatro, gli esperimenti e gli incontri con il mondo allo Space Electronic. La natura con i suoi delicati equilibri e le sue armonie affascina e coinvolge sempre più il 9999 nelle sue quotidiane osservazioni, mentre il mondo sembra dominato dalla tecnologia come fosse una divinità che lo governa in una corsa frenetica che tutto travolge senza che nessuno si accorga dei danni irreparabili prodotti alla natura. Il 9999 lancia il proclama che esprime la sua filosofia “RILASSATEVI. Immensi cicli energetici sostengono la nostra vita in una sottilissima pellicola della terra”. L’uomo e il suo ambiente sono al centro della ricerca del gruppo 9999 che nei suoi progetti esprime l’ipotesi fondamentale di un equilibrio tra progresso scientifico e natura. Questo avviene grazie a una tecnologia altamente sofisticata, purificata da rifiuti e inquinamenti, che opera esclusivamente a servizio e protezione dell’uomo e del suo ambiente. Nei lavori prodotti vediamo San Francesco che predica agli uccelli e la sua immagine si ripete su un televisore collegato in diretta col mondo; Venezia soffocata da acque putride e maleodoranti ormai in punto di morte, viene salvata con prati e campi; una tecnologia di ultima generazione consente agli universitari di Firenze di studiare, lavorare e vivere all’interno di una foresta che sarà la nuova Università di Firenze. Ogni famiglia potrà abitare la ‘casa orto’ coltivare le proprie verdure e dormire nella camera progettata per il concorso del MOMA Italy the new domestic landscape, producibile industrialmente su larga scala. Col progetto Apollo si trasferiscono sulla luna i nostri oggetti più cari e quanto è importante per la nostra vita come l’acqua, l’aria e il verde. Con il progetto di Graz si intende salvare il mondo dal pericolo di una catastrofe nucleare organizzando l’incontro pacifico e sorridente di Mao e Nixon in una città di feste, colori e bandiere. L’attività del 9999 si chiude nel 1972 con la pubblicazione del libro Ricordi di Architettura.
Nel 1966 Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Massimo Morozzi e Paolo Deganello fondano lo studio Archizoom, citazione esplicita degli Archigram inglesi. Il gruppo progetta con Adolfo Natalini una mostra collettiva d’architettura e design alla galleria Jolly 2 di Pistoia: la Superarchitettura che dal previsto 4 novembre slitta al 4 dicembre a causa dell’alluvione di Firenze. È l’esordio ufficiale degli Archizoom e del Superstudio di cui Natalini è allora membro unico. Alla mostra, visitata da Sergio Cammilli e Ettore Sottsass jr. per Poltronova di Agliana (Prato), seguirà la produzione da parte della stessa azienda della Superonda degli Archizoom e della Passiflora di Superstudio. Nel 1967 iniziano a lavorare stabilmente nel gruppo Lucia Morozzi e Dario Bartolini. Dal 1967 al 1970, mentre presso Poltronova escono il divano Safari, la poltrona Mies e la lampada San Remo, il gruppo divide le proprie risorse tra riflessione teorica e impegno professionale. Il metodo di lavoro non prevede divisioni di ruolo fra i membri dello studio ed è impostato sulla discussione collettiva del progetto, che è affidato poi alla gestione di uno o più membri del gruppo. Segue la revisione critica in corso d’opera. È un metodo dispendioso, ma efficace ai fini della qualità dei progetti e della formazione del gruppo. Tra il 1967 e il 1968 gli Archizoom, sulla falsariga dei Gran Tour dell’intellighenzia europea, scoprono e si appassionano alla cultura ed all’architettura islamica. Ne nasce una riflessione sullo spazio e sul progetto d’architettura raffigurato nelle allegorie dei Gazebi, pubblicati su Pianeta Fresco, rivista curata da Ettore Sottsass jr. e Allen Gisberg e realizzati nel 1968 alla Triennale di Milano e nel museo di Orsanmichele a Firenze. Gli oggetti di design, gli allestimenti e l’attività teorica dell’Archizoom, fra le quali emerge con impressionante attualità l’allegoria critica della No Stop City, hanno ampia eco nelle riviste italiane ed estere mentre l’architettura, dalla quale lo studio ricava il proprio reddito, rimane confinata in ambito locale. Nel 1972 gli Archizoom spostano il baricentro dell’attività a Milano, dove aprono uno studio e dividono un’abitazione in comune. Il design, dal progetto del colore per arrivare al progetto di moda, è l’attività principale, e tra i membri la specializzazione prevale sul lavoro collettivo. Cassina, Montefibre, Italsider, Lovable, Fiorucci, Marcatre, Planula sono i committenti più importanti. L’avanguardia radicale ha esaurito la propria carica propulsiva e gli Archizoom ne sono consapevoli. Nello stesso anno l’invito di Emilio Ambaz a partecipare all’Italy The New Domestic Landscape di New York è l’occasione per uscire di scena: allestiscono una grigia stanza vuota d’ogni oggetto, abitata solo da una voce di bambina.
Ugo La Pietra
Gianni Pettena
Nasce a Bussi sul Tirino (PE) nel 1938; si laurea in Architettura nel 1964 al Politecnico di Milano e, contemporaneamente, si dedica a ricerche nelle arti visive e nella musica. Artista, architetto, designer e ricercatore nella grande area dei sistemi di comunicazione, sviluppa dal 1962 un’attività tendente alla chiarificazione e definizione del rapporto ‘individuo-ambiente’. All’inizio di questo processo di lavoro realizza strumenti di conoscenza (modelli di comprensione) tendenti a trasformare il tradizionale rapporto ‘opera-spettatore’. Opera dentro e fuori le discipline dichiarandosi sempre “ricercatore nelle arti visive”. Ha attraversato diverse correnti artistiche (arte segnica, arte concettuale, arte ambientale, arte nel sociale, narrative art, cinema d’artista, nuova scrittura, extra media, neo-eclettismo, architettura e design radicale) dando vita con le sue ricerche al Sistema disequilibrante, un contributo originale e personale al design radicale europeo. Nel 1962 fonda con Agostino Ferrari, Ettore Sordini, Angelo Verga e Arturo Vermi il Gruppo del Cenobio, sviluppando un’attività con mostre orientate nell’area della pittura segnica e nel 1973 è tra i soci fondatori della Global Tools, laboratorio didattico per la creatività individuale e di massa, primo e unico raggruppamento di “Architetti, designer e artisti radicali”. Nel corso della sua carriera ha realizzato più di 900 mostre personali e collettive indagando attraverso disegni, quadri e oggetti, i temi della “Nuova territorialità”: genius loci, nazionalismo, pulizia etnica ed Europa unita, curando rassegne cinematografiche, dedicandosi alla ceramica e al mosaico, creando installazioni e realizzando progetti di architettura. Ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 1970, 1978, 1980, alla Triennale di Milano in numerosi edizioni dal 1968 al 2007; ha esposto nei principali musei e gallerie italiani e all’estero al Museo of Modern Art di New York, al Centro Pompidou di Parigi, al Museum of Contemporary Craft di New York, alla Neue Galerie di Graz, al Museé Departemental di Gap, al Museum Für Angewandre Kunst Colonia, al Museo Nordio Linz, al Royal College of Art di Londra, alla Biennale di Chaterauroux, al Frac Centre di Orléans. Ha diretto le riviste In, Progettare Inpiù, Brera Flash, Fascicolo, Area, Abitare con Arte; attualmente dirige la rivista Artigianato tra Arte e Design. È stato redattore di settore delle riviste Domus, D’ARS e AU. Vincitore del 1° premio al Festival del Cinema di Nancy nel 1975 e del Premio Compasso d’Oro nel 1979, del 2° Premio al Concorso per il Parco Urbano ex Manifattura Tabacchi a Bologna nel 1985 e selezionato per il 1° grado al Concorso per la ristrutturazione delle Colonne di S. Lorenzo a Milano.
Studente atipico di architettura all’Università di Firenze negli anni ’60, frequenta più le gallerie d’arte che le aule universitarie, convinto della necessità di ripensare il significato della disciplina architettonica operando da campi e settori paralleli. Inizia un percorso di ‘design alternativo’ e sperimentazioni: mobili per il suo studio fiorentino disegnati nella scala del luogo e non dell’uomo (Divano Rumble, 1967); installazioni come le parole-oggetto in cartone ondulato abbandonate all’usura degli agenti atmosferici (Carabinieri, Milite Ignoto, Grazia & Giustizia, 1968), o panni stesi ad asciugare su clotheslines che attraversano l’intera piazza del duomo (Laundry, 1969) mantenendo un costante rapporto con il campo della musica sperimentale. I lavori realizzati durante un soggiorno negli Stati Uniti come artist-in-residence all’inizio degli anni ’70, come gli edifici inglobati nel ghiaccio a Minneapolis (Ice n.1 e Ice n.2, 1971-1972) o il grattacielo di cespugli ‘liberati’ costruito nel centro della città (Tumbleweeds catcher, 1972), contengono oltre ad un intento polemico anche una diversa lettura del rapporto natura-architettura e della relazione con l’ambiente sociale e storico. Il Municipio di Canzei (1990-97, con O. Zoeggeler) è emblema di questo dialogo con il contesto anche urbano che caratterizzerà tutta l’attività di Pettena, tra salvaguardia delle preesistenze storiche e inserimento dell’opera d’arte contemporanea, fino alla destabilizzazione della percezione della città ‘utilizzando’ la natura come supporto e implicita critica all’architettura, di cui ne attenua le asprezze o ne maschera certi tratti. Partecipa attivamente al dibattito tra i ‘radicali’ e i ‘razionali’ (e riflette queste esperienze nella sua attività didattica), scrive su Domus, Casabella, In e In più, Modo e nel 1973 è tra i fondatori della Global Tools. Installazioni, performance, pezzi di design realizzati in forma di prototipo sono gli strumenti attraverso cui egli prevalentemente si esprime per comunicare concetti; la parola, l’oggetto artistico o architettonico vengono da lui usati per indagare lo spazio come ne L’Anarchitetto (Guaraldi, Firenze, 1972), saggio atipico in forma di racconto, di poesia visiva e di diario fotografico, che assumeva il significato di ‘opera’, in quanto testimonianza di come la forma letteraria possa diventare essa stessa architettura. È il primo architetto radicale a cui il Frac Centre di Orléans dedica una grande antologica (Gianni Pettena. Le métier de l’architect, 2002). Nel 2008 interrompe l’insegnamento di Storia dell’Architettura Contemporanea presso l’Università di Firenze, in polemica con l’attuale gestione degli atenei italiani, ma prosegue la collaborazione con le università statunitensi e la sua attività di critico con conferenze, interviste e interventi su riviste e quotidiani.
Superstudio 1966-1973
Zziggurat
Nel dicembre del 1966 nasce dal fango dell’alluvione di Firenze il Superstudio, per iniziativa di Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia (a cui si aggiungeranno fino al 1970 Roberto Magris, Piero Frassinelli, Alessandro Poli e Alessandro Magris) e viene allestita la prima mostra della Superarchitettura: l’architettura come mezzo per cambiare il mondo, i progetti come ipotesi di trasformazioni fisiche. Superstudio opera una critica del tentativo di unificazione culturale del sistema delle tecnologie dal design alla città sotto l’alibi della necessità razionale, logica che produce l’oggetto perfettamente riproducibile dall’industria e di conseguenza l’induzione di bisogni. Ne deriva il design d’invenzione e design d’evasione che si basa sulla separazione della funzione e dell’utile dalla ricerca spaziale, attraverso le tecniche compositive Dada e la commistione disciplinare, e alla fine degli anni ’60 gli Istogrammi d’architettura, un catalogo di diagrammi tridimensionali non-continui, con riferimento ad un reticolo trasportabile in aree o scale diverse per l’edificazione di una natura serena e immobile in cui finalmente riconoscersi. La riflessione si estende alla città con Il Monumento Continuo, che porta al limite la distinzione del moderno tra naturale e artificiale per aprire il passaggio ad un nuovo pensiero ibrido di ricostruzione delle relazioni tra architettura e natura, destinate a fondersi in un unico progetto, e con Le dodici città ideali, che portando al limite singoli aspetti della pianificazione contemporanea ne dimostrano l’insufficienza di fronte ai problemi della complessità della città in continua trasformazione. Le immagini dell’utopia critica della Supersuperficie si riferiscono all’idea che la terra sia collegata ai suoi pianeti attraverso un sistema di satelliti come una grande superficie fisica e cerebrale, sulla quale proiettarsi senza più confini ed alla quale essere collegati come in una infinita biblioteca smascherando la realtà non ancora accettata della fine della città, del pensiero dicotomico, per un nuovo e meticcio nomadismo fisico e mentale. Dal 1971 al 1973 sono state realizzate ricerche sugli atti fondamentali, incentrate sui rapporti tra l’architettura come formalizzazione cosciente del pianeta e la vita umana. I film prodotti costituiscono una propaganda di idee al di fuori dei canali tipici della disciplina architettonica. I cinque film sono vita, educazione, cerimonia, amore, morte. Quando nel 1973 Casabella esce con in copertina l’immagine di un Gorilla Beringei, che stringe una scritta “Architettura radicale”, storicizzando e bloccando un movimento che aveva fatto dell’ambiguità e della mossa del cavallo le proprie armi strategiche, al fine di evitare una facile identificazione culturale, Superstudio decide di terminare la propria esperienza.
Il gruppo nasce a Firenze, nel 1968, dalla collaborazione di Alberto Breschi e Roberto Pecchioli con Giuliano Fiorenzoli successivamente trasferitosi negli Stati Uniti. Il gruppo si occupa dell’architettura come ‘evento globale’, ossia come sistema di comunicazione e campo di espressione multimediale e pluridisciplinare, teso ad una continua sperimentazione contenutistica ed espressiva di tipo critico-innovativo, che lo ha collocato nel panorama dell’Architettura Radicale. Ne è emblema il progetto Città Lineare-proposta di corridoio urbano, che intende collegare fisicamente, tramite infrastrutture, spazi pubblici e nuove tipologie abitative, i quartieri periferici, ad alto sviluppo demografico, con la parte più abbiente e turistica del centro storico, esprimendo una posizione alternativa alla crescita urbana della città esistente come polo turistico nazionale. L’attività del gruppo, dopo esperienze di interventi e di performance, tra cui l’allestimento di uno spazio scenico a Fiesole con Luigi Nono nel 1970, gli environments allo Space Electronic nel 1971, la mostra a Fiesole nel 1973 sul tema Progettazione e archeologia, la presenza, sempre nel 1973, alla XV Triennale di Milano, ha visto la partecipazione, assieme agli altri gruppi radical, alla fondazione della Global Tools, sistema di laboratori per lo sviluppo delle attività creative, all’interno della quale cercarono di applicare una tecnica di indagine di tipo archeologico all’immaginazione del futuro. Rimane permanente nell’attività del gruppo un orientamento operativo che si formula nell’applicazione a temi di tipo didattico educativo, come nell’esperienza Gestaltung von Kindertagestatten, l’ambiente materiale come componente educativa, I.D.Z Berlino, 1976, nella partecipazione di Roberto Pecchioli alla costituzione della Cooperativa dei Ragazzi a Firenze o nell’attività didattica di Alberto Breschi nella Facoltà di architettura di Firenze. In occasione della partecipazione a concorsi di architettura nazionali e internazionali, nel costante trasferimento a livello di progetto o di metodo di progettazione delle esperienze dell’avanguardia, lo studio-laboratorio dello Zziggurat diventa un luogo disponibile in cui convergono gli apporti dei collaboratori abituali, sia nella didattica che nella professione, ma anche di altri docenti e professionisti e, non ultimi, di studenti e di neo-laureati. Citiamo, tra i più assidui, gli architetti: A. Bagnoli, P. Bellia, A. Bigi, G. Boccabella, G. Bigozzi, N. Cargiaghe, F. Ferrari, L. Gavini, F.M. Lorusso, T. Manco, G.R. Masud Ansari, M. Tozzi. Con la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1978, Utopia e crisi dell’antinatura, intenzioni architettoniche in Italia, con il progetto Archeologia del futuro cessa la sua attività.
Gruppo Strum
UFO
Nel 1972 si è svolta al Museo di Arte Moderna di New York la mostra Italy: The New Domestic Landscape per celebrare il design italiano. L’invito a partecipare a questa mostra è stato l’occasione per dare vita ad un gruppo di lavoro denominato Gruppo Strum abbreviazione di ‘architettura strumentale’, che, fondato nel 1971 a Torino da Giorgio Cerretti, Pietro Derossi, Carlo Gianmarco, Riccardo Rosso e Maurizio Vogliazzo, interpreta l’architettura come uno dei mezzi con cui partecipare alla vita sociale e alle proteste politiche di quegli anni. Compresa la banalità e l’impotenza della radicalità, il gruppo ha aderito ad una via di mediazione: né negazione totale della città esistente né sogni utopici di rinnovamenti globali, ma un lavoro parziale, modesto, delimitato nello spazio e nel tempo per costruire una città possibile, attraverso azioni di comunicazione e didattica volte ad analizzare la situazione progettuale in Italia. In un periodo di nichilismo rivoluzionario i tre fotoromanzi Utopia, Le lotte per la casa e La città intermedia rappresentano la speranza della creatività del progetto: strana simbiosi tra l’avventura illustrata e il catalogo informativo del grande magazzino, ciascuno dei tre fotoromanzi illustra un aspetto rilevante del design ed è in distribuzione gratuita al pubblico nell’area messa a disposizione dal MOMA. I giornali bianchi rappresentano il tema della lotta per la casa, quale via per affrancarsi dallo sfruttamento e riprendersi la città. I giornali verdi si occupano di utopia, quale atto di provocazione, desiderio di nuove forme di città. I giornali rossi esaminano la città intermedia, frutto del confronto tra gli abitanti della città per modificare i comportamenti individuali e collettivi rispetto agli schemi della città. Pietro Derossi, animatore del gruppo, nel 1969 insieme ad alcuni assistenti del Politecnico di Torino, tra i quali Giorgio Ceretti, Graziella Derossi, Adriana Ferroni, Aimaro Oreglia d’Isola, Riccardo Rosso ed Elena Tamagno, ha organizzato il convegno Utopia e/o Rivoluzione in cui tutti i principali protagonisti del dibattito architettonico e politico parteciparono. Tra gli invitati erano presenti Archigram, Utopie Group, Paolo Soleri, Architecture Principe, Yona Friedman, Archizoom, Vittorio Gregotti, Carlo Olmo. Contemporaneamente, sempre Derossi, in modo autonomo, ha continuato la sua attività politica all’interno del movimento radicale con opere di design come il divano Pratone, le poltrone Torneraj e Wimbledon, in collaborazione con l’azienda Gufram; in ambito architettonico, la realizzazione di edifici multifunzionali come le prime discoteche: il Piper di Torino (con Giorgio Ceretti) nel 1966, L’altro mondo di Rimini (con Giorgio Ceretti) nel 1967 e il Teatro della XIV Triennale di Milano (con Giorgio Ceretti e Riccardo Rosso) nel 1968.
Il gruppo UFO fu fondato nel 1967 da Lapo Binazzi, Riccardo Foresi, Titti Maschietto, Carlo Bachi, Patrizia Cammeo e fino al 1968 da Sandro Gioli, all’interno della Facoltà di Architettura di Firenze. Collaborarono per il 1968 Massimo Giovannini e Mario Spinella. Gli UFO, sodalizio storico della sperimentazione ‘radical’ italiana, con i loro ‘eventi di disturbo dei riti e dei miti socio-urbani e architettonici’, intendevano operare una spettacolarizzazione dell’architettura, nel tentativo di trasformarla in evento, in azione di guerriglia urbana e ambientale. Nascono così opere come gli Urboeffimeri (1968), grandi oggetti e architetture gonfiabili realizzati in scala reale e calati a sorpresa nel centro di Firenze, le Case ANAS (1970), un’analisi e una classificazione tipologica che diventano strumenti di contro informazione e di denuncia, oppure il Giro d’Italia (1971), una proposta di lettura critica dei codici dell’immaginario collettivo. Parallelamente a questa attività progettuale condotta con linguaggi del tutto estranei ai canoni della consueta comunicazione d’architettura, nel campo dell’arredamento e del design gli UFO propongono oggetti e ambienti il cui linguaggio pop rivela una evidente ironia nei confronti dell’immagine del design convenzionale. Nei loro arredamenti, ristorante Sherwood, boutique Mago di Oz, erboristeria Brunelleschi (1969), discoteca Bamba Issa (1970-71-72), boutique You Tartan me Jane (1974), che sono forse il primo esempio di ‘architettura narrativa’, allestimento effimero e arredo finiscono per identificarsi attraverso l’uso di materiali quali la cartapesta, il poliuretano, i gonfiabili. Attivi anche nel campo del design, la loro ricerca si incentra sul tentativo di far coincidere l’esperienza artistica con la sperimentazione. Tra i loro ‘oggetti’ più noti le lampade Paramount, MGM e Dollaro (1969) oggi presentate e collezionate nei maggiori musei del mondo, tra i quali Centre Pompidou e Triennale Design Museum. Negli anni ’70 partecipano a numerose mostre, spettacoli e concorsi e collaborano con i loro testi e con il loro lavoro di documentazione alle maggiori riviste di arte e di architettura come Marcatrè, Domus, Casabella, Modo. Nel 1973 sono tra i fondatori della Global Tools e partecipano insieme agli altri protagonisti del design radicale a questa esperienza importante di contro-scuola di design, da cui usciranno allievi come Michele de Lucchi. Nel 1974 partecipano alla mostra Contemporanea a Roma, nel 1975 aprono il Laboratorio di nuovo artigianato Casa ANAS a Firenze, nel 1978 sono alla Biennale di Venezia con una Casa ANAS portata in barca. Nel 1979 aderiscono alla fondazione della nuova Alchimia a Milano, che riprenderà le loro ricerche. Dal 1972 l’attività del gruppo è a cura di Lapo Binazzi.
ROUNDABOUT Libri
Abitare la città Ugo La Pietra
Allemandi, 2011 pp. 277 | € 28,00 ISBN 9788842219385
Abitare la città raccoglie esperienze di ricerca nell’ambiente urbano: un contributo originale e significativo all’arte concettuale e all’architettura radicale. Attraverso il superamento dei modelli tradizionali di comunicazione e la sperimentazione di molti mezzi espressivi, Ugo La Pietra sviluppa per diversi decenni una spregiudicata attività artistica, dentro e fuori le discipline, evidenziando le contraddizioni tra le necessità reali dei gruppi sociali e gli interventi delle strutture decisionali.
Architettura radicale. Adolfo Natalini e il Superstudio Testi tratti dall’archivio Natalini Edizioni dell’Arengario, 2011 pp. 92 | € 80,00
Erano giovani, avevano in tasca milioni ma solo di idee, colori, arcobaleni. Si chiamavano Ettore Sottsass, Superstudio, Archizoom, 9999, UFO, Pettena, La Pietra, Dalisi, Mendini, Gaetano Pesce, Strum... Erano architetti e designer ma delle case e dei casalinghi non importava loro nulla, “il più grande progetto”, dicevano, “è progettarsi una vita intera sotto il segno della ragione”. L’architettura radicale è stata una breve folgorante stagione fra gli anni Sessanta e Settanta in cui per un momento è sembrato possibile costruire rapporti nuovi e significativi col mondo, la natura, gli altri. Non hanno costruito case o molto poche, ma hanno prodotto libri, manifesti, volantini, le tracce visibili dei loro pensieri. Abbiamo cercato e raccolto questi documenti, abbiamo incontrato uno di loro, Adolfo Natalini del Superstudio, gli abbiamo portato via l’archivio con i bloc-notes che lui e i suoi amici riempivano di schizzi, disegni, scritte: il laboratorio dove si formavano le loro idee. Ne è venuto fuori questo catalogo che mescola immagini e soldi, che mette insieme momenti felici e conserva la memoria di “un grande futuro che ci siamo lasciati dietro le spalle” (Adolfo Natalini). Catalogo pubblicato in occasione di Artissima 2011 con una tiratura di 120 esemplari.
BDB di-segni
Brunetto De Batté plug_in, 2012 pp. 120 | € 10,00 ISBN 9788895459073
Un viaggio nei disegni che Brunetto De Batté, architetto e artista radicale, ha realizzato dagli anni Settanta a oggi. Il soggetto del libro sono case: case utopiche, case immaginarie e immaginate, case esili, mobili, temporanee, costruite su rocce, palafitte. Sono “pensieri a mano libera”, come li definisce nell’introduzione Sandro Lazier, architetto e critico, “espressi nel modo della poesia… essi rivelano la passione per l’architettura”. Sono case da abitare infatti “è stato bello sfogliare e arrivare alla casa che mi hai dedicato” scrive Maurizio Maggiani “e se non ti dispiace la cosa, ci vado a stare ogni tanto…” Brunetto De Batté, architetto, è docente di Scenografia ed Arte e paesaggio presso la Facoltà di Architettura di Genova. Allievo di Giancarlo De Carlo ha riversato la sua passione per l’architettura nell’educazione dell’architetto del futuro.
La casa calda
Clip, Stamp, Fold
Nei territori del consumo totale
Idea Books, 1984 pp. 156 | € 69.00 ISBN 8870170594
Actar, 2010 pp. 672 | € 45,00 ISBN 9788496954526
Derive Approdi, 2004 pp. 128 | € 10,50 ISBN 8888738371
Andrea Branzi è tra i principali protagonisti del nuovo design italiano, per la sua intensa attività di progettazione e di teorizzazione in numerose pubblicazioni: tra queste La Casa Calda. Esperienze del Nuovo Design italiano è certamente il più conosciuto e tradotto (M.I.T. Press negli USA, Thames and Hudson in Inghilterra e L’Equerre in Francia). Nel libro l’autore raccoglie due secoli di ricerche delle arti applicate e del design, in collaborazione o in polemica con l’architettura. Il tema centrale del libro, partendo dalle polemiche riformiste del XIX secolo e dai dibattiti sulle arti applicate del Movimento Moderno, attraverso Bauhaus, Futurismo, Razionalismo, si focalizza sul design radicale e sulle ricerche degli anni Settanta e degli inizi degli anni Ottanta, fino alla proposta di un Nuovo Design rivolto alla progettazione di una civiltà domestica, alla ricerca di una ‘casa calda’, cioè di un nuovo legame culturale e affettivo tra l’uomo e i suoi oggetti individuando valori quali il “valore emozionale, unico in grado di costituire un punto di riferimento all’interno dei nuovi consumi”.
Un’esplosione di piccole riviste di architettura negli anni Sessanta e Settanta ha promosso una trasformazione radicale della cultura architettonica, poiché le riviste hanno agito come luogo di innovazione e di dibattito. Clip, Stamp, Fold fa il punto su 70 piccole riviste di questo periodo. Il libro raccoglie una notevole gamma di documenti e di ricerche originali che il progetto ha prodotto nel corso dei suoi continui viaggi nel corso degli ultimi quattro anni a partire dalla mostra al Storefront nel novembre 2006. Il libro contiene le trascrizioni delle Small Talks, eventi in cui sono stati invitati editori e progettisti per discutere le loro riviste; un bilancio di oltre 100 questioni significative che tracciano il cambiamento nella densità e nella progressione del fenomeno della piccola rivista; trascrizioni di più di quaranta interviste con editori di riviste e designer di tutto il mondo; una selezione di riproduzioni di riviste; e un poster pieghevole che offre un’immagine mosaico di oltre 1.200 copertine esaminate nel corso della ricerca.
I territori del consumo totale sono quelli che ciascuno di noi percorre e abita quotidianamente. Se è stato il sistema di mercato a creare la società metropolitana e il suo spazio regolato intorno a flussi incessanti di informazione, di capitali, di tecnologie, di élite manageriali, ora – secondo Massimo Ilardi – è l’agire consumistico a porsi come principio organizzatore delle relazioni tra individui e tra individui e merci, e a disegnare il territorio in un modo nuovo e del tutto inedito. Ed è sulla cultura del consumo e i suoi valori, che non definiscono tanto i meccanismi di funzionamento di una società nuova quanto dissolvono quelli della società tradizionale, più che sulla nuda logica dei flussi e delle reti di mercato, che si dividono oggi le moltitudini del mondo Un libro utile per capire perché è sempre sul consumo, sui suoi oggetti e sulle sue pratiche, che si scatena il conflitto sulle strade metropolitane.
di Andrea Branzi
Beatriz Colomina, Craig Buckley
Massimo Ilardi
Dopo la rivoluzione
Radical Design
This is tomorrow
plug_in, 2009 pp. 32 | € 20,00 ISBN 97888954590305
Maschietto Editore, 2004 pp. 328 | € 24,00 ISBN 8888967168
Testo & Immagine, 1999 pp. 232 | € 14,46 ISBN 8886498756
La neo-avanguardia architettonica definita per le sue azioni e il suo pensiero radicale, ha caratterizzato il decennio 1963-73 in Italia e in particolare a Firenze, Torino, Milano. Per quarant’anni l’Architettura Radicale è rimasta nell’oblio a causa di una critica militante, zeviana o tafuriana non importa, che non l’ha considerata degna di apparire all’interno della storia ufficiale creando un buco nero, un’assenza. Questa ricerca svolta dal critico di architettura Emanuele Piccardo cerca di riempire un vuoto raccogliendo le testimonianze dirette dei protagonisti attivi in Italia, con l’obiettivo di contestualizzare le sperimentazioni teoriche negli spazi della città a partire dalla metà degli anni Sessanta fino ai primi anni Settanta. L’architettura radicale ha influenzato con il suo pensiero architetti, oggi star, come Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Renzo Piano, Zaha Hadid che hanno applicato nei decenni successivi le teorie dei radicali. Il progetto editoriale prevede un giornale al cui interno una mappa cognitiva colloca l’esperienza radicale, un testo critico sul movimento e le biografie degli architetti; in allegato il dvd. 11 video interviste monografiche realizzate a: Bruno Orlandoni, Brunetto De Batté, Archizoom/Andrea Branzi, Lucia e Dario Bartolini, Superstudio/Toraldo di Francia, UFO/Lapo Binazzi, Gianni Pettena, 9999/Carlo Caldini e Giorgio Birelli, Gruppo Strum/Pietro Derossi, Ugo La Pietra, Zziggurat/Alberto Breschi.
Il volume, pubblicato in occasione della mostra Radical design presso la Casa Masaccio a San Giovanni Valdarno, indaga gli anni di profonda revisione disciplinare che il campo del progetto registra sia sul piano concettuale sia logistico. Gianni Pettena, docente di Storia dell’Architettura contemporanea della Facoltà di Firenze e curatore di questo progetto, vuole sottolineare l’importanza e la rinascita propositiva che l’Architettura Radicale ha promosso sia in ambiente architettonico sia in quello del design.
Una nuova epoca è iniziata. È segnata dalla televisione, dal satellite, dal computer, dai telefoni cellulari. Il suo sviluppo non si è ancora concluso, anche se originali paradigmi e valori si sono delineati prepotentemente fra gli anni Sessanta e Settanta con la letteratura beat americana, le teorizzazioni di McLuhan, la decostruzione, le nuove filosofie della scienza, la protesta giovanile, la rivoluzione sessuale. Grazie all’opera di alcuni artisti d’avanguardia è nata in quegli anni un’architettura fondata sulla leggerezza, la trasparenza, lo scambio di informazioni con l’ambiente, un più coinvolgente rapporto fra il corpo e lo spazio. Metabolismo, situazionismo, architettura e design radicali, megastrutture, ecologismo, anarchitettura, disarchitettura, dearchitettura, hanno delineato strategie formative così complesse e importanti da dar vita a un vero processo di rinascita architettonica. Oggi, con opere quali il Museo Guggenheim a Bilbao di Frank O. Gehry, l’aeroporto a Kansai di Renzo Piano, la mediateca a Sendai di Toyo Ito, il Museo Ebraico a Berlino di Daniel Libeskind, la Kunsthal a Rotterdam di Rem Koolhaas, cominciamo ad apprezzarne i risultati.
Emanuele Piccardo
Gianni Pettena
Luigi Prestinenza Puglisi