TAO 5 Regola senza regola

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monografia

Regola senza regola Architetture Rivelate

05 2010


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Indice Colophon Sregolatezza senza genio editoriale di riccardo Bedrone 4 Contributors 5 Le regole nell'obiettivo 2 3

Ragione 10 12 14 16 8

Che cosa unisce legalità, giustizia e uguaglianza gian carlo caselli Frutta in città stefania bertola Errori ed eccezioni nel grande cinema steve della casa La parola e la sua orma giovanni tesio Architettura città paesaggio guido montanari

Interpretazione Le interpretazioni e le contraddizioni del Moderno emilia garda Gruppo Rionale Fascista Giovanni Porcù del Nunzio 25 Isolato Sant’Emanuele. Torre Littoria 2 6 Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso 27 Casa di via Vico 8 Villa Colli 2 9 100 scatti inediti per 50 anni d’architettura 2 30 La cura del Moderno pier giovanni bardelli

20

24

(Re)Azione 6 3 8 3 0 4 2 4 44

Pena di morte non è un sostantivo femminile MASSIMO PErsotti Anche il coraggio ha le sue regole intervista aD alex zanardi Quando la realtà è ingabbiata intervista a norma rangeri Lu.Po. La ludoteca popolare Comitatoquartierevanchiglia Un’illuminazione DARK0

Roundabout

47


TAO n.5/2010 www.taomag.it ISSN 2038-0860 Direttore Responsabile

Consiglio OAT

Riccardo Bedrone

Riccardo Bedrone, presidente Maria Rosa Cena, vicepresidente Giorgio Giani, segretario Felice De Luca, tesoriere

Coordinatore Redazionale

Liana Pastorin l.pastorin@awn.it Tel. +39 0115360513 Redazione

Via Giolitti, 1 - 10123 Torino Tel. +39 0115360514 Fax +39 011537447 www.to.archiworld.it redazione@taomag.it Raffaella Bucci Emilia Garda Raffaella Lecchi Comitato scientifico

Marcello Cini Mario Cucinella Philippe Potié Cyrille Simonnet Foto di copertina

Icaro Alato, Jardins des Tuileries, Parigi, Francia, ottobre 2004 Mauro Guglielminotti Periodico di informazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torino Registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51 del 9 ottobre 2009 Le informazioni e gli articoli contenuti in TAO riflettono esclusivamente le opinioni, i giudizi e le elaborazioni degli autori e non impegnano la redazione di TAO né l’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Torino né la Fondazione OAT Tiratura 10.000 copie

Art Director

Fabio Sorano - Lorem impaginazione

Davide Musmeci - Lorem FOTOGRAFIE

I materiali iconografici e le fotografie provengono dagli autori, salvo dove diversamente specificato. La Fondazione OAT è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche e fotografiche non identificate e si scusa per eventuali involontarie inesattezze e omissioni STAMPA

Unoprint Borgata Tetti Piatti, 2 - 10024 Moncalieri (TO) Pubblicità

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Marco Giovanni Aimetti Roberto Albano Sergio Cavallo Pier Massimo Cinquetti Franco Francone Gabriella Gedda Maria Adriana Giusti Elisabetta Mazzola Gennaro Napoli Carlo Novarino Marta Santolin Direttore OAT

Laura Rizzi Consiglio Fondazione OAT

Carlo Novarino, presidente Sergio Cavallo, vicepresidente Consiglieri

Riccardo Bedrone Mario Carducci Giancarlo Faletti Emilia Garda Ivano Pomero Direttore Fondazione OAT

Eleonora Gerbotto Si ringraziano Roberto Albano per le fotografie sull’architettura moderna La Scuola Holden per la selezione del graphic novelist Dark0


Sregolatezza senza genio Editoriale di Riccardo Bedrone

Occuparsi del Movimento Moderno per illustrarlo con una mostra di architettura sulle sue eredità torinesi ad un pubblico ‘popolare’ – questo lo spunto attorno a cui si sono sviluppate le riflessioni e le digressioni tematiche contenute in questo numero – ha condotto inevitabilmente a ragionare su ciò che lo rende individuabile immediatamente e lo differenzia dall’odierna produzione ‘edilizia’: la percepibilità di regole, la riconoscibilità di una scuola (di un insieme di principi tra loro coerenti) cui, in modi spesso estremamente diversi, si sono rifatti tutti i suoi rappresentanti, grandi o misconosciuti. Poco importa se va inteso come approccio metodologico o codice stilistico, come fenomeno congiunturale o linea di tendenza i cui effetti si dilatino fino ad oggi, come sollecita opportunamente a valutare Emilia Garda. Ciò che colpisce, e che si vorrebbe comunicare ad un’opinione pubblica priva di strumenti di giudizio perché mal orientata nei suoi gusti dalla imperante cultura televisiva, è la disciplina che ne informa le concezioni progettuali, in tutte le loro manifestazioni, e che lo rende tutt’altra cosa dalle produzioni-degenerazioni concettuali ed esecutive dell’architettura contemporanea. Una cultura che assimila gli imbrattamenti murali alla pittura, il recitativo (anche di chi non sa cantare o suonare) alla musica e le capriole e le mossette al balletto… Come se tutto ciò che è spontaneo e non disciplinato avesse un valore. L’esigenza di una verifica panoramica su alcune manifestazioni diverse della società contemporanea è stata la conseguenza di queste prime osservazioni orientate a indagare, appunto, il Moderno. Con la constatazione, segnalata da tutti gli autori, che l’assenza di regole, per ignoranza e non per trasgressione, sono ormai una scoraggiante costante. L’architettura e il territorio, in primo luogo, diventati il palcoscenico dell’esibizionismo più sfrenato e incontrollato e della deregulation più incosciente, auspice il nefasto decennio dell’‘edonismo’ reaganiano e dell’abbandono del primato del pubblico perseguito dalla Thatcher. Urbanistica ‘debole’, marketing urbano e architetture grottesche, indifferenti al contesto

e spesso neppure tecnicamente ben risolte, in primis dalle archistar, tristemente scopiazzate da incolti emulatori, sono segnalati da Guido Montanari come i travisamenti del Moderno rivelatori della confusione dei nostri tempi. In perfetta sintonia, offende il linguaggio sgrammaticato usato in tutti i contesti, sinonimo di ignoranza esibita, camuffata da spontaneismo. Piero Citati, in un recente convegno del FAI , ha descritto bene questa ‘sotto-lingua’: “[…] detesta la precisione, sostituisce i segni alle parole, pullula di forme gergali, non riesce ad esprimere concetti e sentimenti, balza da un errore di ortografia ad uno di sintassi […]”. “A preoccupare è la generalizzata violenza che si dà quando i confini cadono del tutto, quando tutto si converte in caos, quando il disordine sprigiona la sua aggressività senza destino […]” precisa Giovanni Tesio “[…] dove tutto è trasgressione, nulla è trasgressivo. Dove tutto è ‘sregolato’, niente è più ‘sregolato’.” Certo, sottolinea Steve Della Casa, la trasgressione delle regole è un continuo riferimento per chi si occupa di cinema. Ma è trasgressione cosciente, compiuta da chi le conosce bene e poi razionalmente le disattende. È l’evoluzione continua che anima l’opera dell’uomo, essere pensante che si contraddice per superarsi, non per disimpegnarsi da ciò che impone rigore, studio, applicazione. E come non richiamare infine, tra i tanti incalzanti interventi qui raccolti sul tema delle regole e del loro crescente allentamento, quanto ci sottolinea drammaticamente Gian Carlo Caselli, parlando di legalità e giustizia, ossia di ciò che dovrebbe essere l’alimento quotidiano di una società civile e democratica? “C’è uno scenario di fondo […] che tende a far apparire come poco moderno chi si ostina a parlare di legalità e di osservanza delle regole […] ma se l’Italia delle regole soccombe […] potremmo ritrovarci […]” sotto il cumulo delle sue macerie. Ridiamo dunque al Movimento Moderno il valore e il significato che ebbe da chi lo battezzò e lo fece crescere, affidandocene fiduciosamente il lascito.


Contributors

PIER GIOVANNI BARDELLI

DARK0

MASSIMO PERSOTTI

STEFANIA BERTOLA

STEVE DELLA CASA

NORMA RANGERI

GIAN CARLO CASELLI

EMILIA GARDA

GIOVANNI TESIO

ComitatoQuartiereVanchiglia

GUIDO MONTANARI

ALEx ZANARDI

Ingegnere, già professore ordinario di Progettazione integrale e docente di Recupero e conservazione degli edifici presso la I Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino. Autore di pubblicazioni e progetti in tema di restauro e recupero di edifici storici e moderni; è sostenitore delle attività di Do.Co.Mo.Mo. International, presidente di Do.Co.Mo.Mo. Italia Sezione Piemonte e presidente nazionale Ar.Tec. Associazione Scientifica per la Promozione dei Rapporti fra Architettura e Tecniche per l’Edilizia.

È nata a Torino e vive a San Mauro, in compagnia di altre persone e gatti. Ha pubblicato cinque romanzi per l’editore Salani, l’ultimo è La soavissima discordia dell’amore, e prossimamente uscirà una sua raccolta di racconti per Einaudi: Il primo miracolo di George Harrison. È traduttrice costante, sceneggiatrice fluida e in passato ha condotto trasmissioni per Radio Rai, peccato non farlo più. Considera la casa come la pietra angolare della vita, e non ha alcuna tendenza al nomadismo.

Giudice Istruttore Penale presso il Tribunale di Torino, negli anni ’70 e ’80 ha trattato complessi procedimenti per droga e istruttorie penali per reati di terrorismo (Brigate Rosse e Prima Linea); componente del Consiglio Superiore della Magistratura, nel 1991 è stato nominato magistrato di Cassazione e Presidente della Prima Sezione della Corte di Assise di Torino. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo dal 1993, dal 1998 ricopre la carica di Procuratore Capo della Repubblica di Torino.

Un gruppo di persone nato per promuovere la socializzazione dei bisogni e delle esperienze. Ha preso forza con le proteste in difesa della scuola pubblica e ora è attivo su vari fronti nel popolare quartiere di Vanchiglia, a Torino. Un quartiere in movimento, un movimento di quartiere. Corsi e laboratori con i bambini, una ludoteca, una biblioteca, mostre e performance artistiche, un gruppo di acquisto, un giornale sono alcuni dei progetti portati avanti.

Giuseppe Franco si fa chiamare Dark0 da quando era adolescente e portava le scarpe slacciate. Scrive, disegna, suona e si emoziona da sempre. Laureato in Ingegneria edile ha vissuto a Cosenza per trent’anni, ora vive a Torino. Diplomato in Tecniche della narrazione alla Scuola Holden di Alessandro Baricco. Caporedattore del magazine torinonotte. net, ha pubblicato racconti per varie case editrici e attualmente è online il primo romanzo a puntate da lui illustrato: Uomini & Pecore (Trasciatti).

Docente all’Università di Torino, è tra i fondatori dello storico cineclub Movie Club nel 1974 e dell’Hiroshima Mon Amour, di cui sarà presidente fino al 1993. Membro di Torino Film Festival dal 1984, ne sarà direttore dal 1999 al 2002. Dal 1994 conduce Hollywood Party su Rai – Radio3. Dal 2006 è presidente della Film Commission Torino Piemonte e dal 2008 è direttore del RomaFictionFest. Ha lavorato con Tele+, Sky, Raisatcinema, La7; è autore di libri e di retrospettive per la Mostra di Venezia e per il Centre Pompidou.

Architetto, specialista presso l’Institut Français d’Architecture (Parigi, 1991), specialista in Tecnologia per i PVS (Torino, 1993), dottore di ricerca in Ingegneria edile (Torino, 1999), ricercatore in Architettura tecnica presso la I Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino. Le sue pubblicazioni riguardano i materiali e la loro conservazione con particolare attenzione alle opere del Movimento Moderno. È consigliere della Fondazione OAT e presidente A.I.D.I.A. Piemonte.

Architetto, dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica, insegna Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Torino ed è presidente della Commissione locale del paesaggio di Torino. Tra le sue pubblicazioni: (con A. Bruno) Architettura e città del Novecento. I movimenti e i protagonisti, Roma 2009; (con C. Roggero, E. Dellapiana), Il patrimonio architettonico e ambientale, Torino, 2007; Amedeo Albertini. Fantasia e tecnica nell’architettura, Milano 2007.

Entra in Amnesty International nel 1991 quando, come obiettore di coscienza, svolge il servizio civile presso la sede nazionale dell’associazione. Diventa responsabile nazionale del Coordinamento obiezione di coscienza e dal 1999 al 2005 è dirigente nazionale dell’associazione con delega alla comunicazione e raccolta fondi. È stato anche vice tesoriere nazionale e presidente della Fondazione Amnesty International. Attualmente è Coordinatore pena di morte.

Giornalista e critica televisiva. Autrice di saggi sulla tv (Lo schermo baby-sitter, Il bello addormentato della televisione, Il lavoro nella tv, Politica e internet), nel 2007 pubblica Chi l’ha vista? Tutto il peggio della tv da Berlusconi a Prodi e viceversa. Nel 1992 diventa curatrice di una rubrica intitolata Vespri su Il Manifesto sulla televisione italiana, tema al centro delle pagine culturali domenicali de Il Tirreno che cura dal 1998 per alcuni anni. Da maggio 2010 è direttore de Il Manifesto.

Ordinario di Letteratura italiana all’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro (sede di Vercelli), ha pubblicato alcuni volumi di saggi (l’ultimo, Oltre il confine. Percorsi e studi di letteratura piemontese, nel 2007), antologie, monografie; ha curato testi, tra cui la scelta dall’epistolario editoriale di Italo Calvino, I libri degli altri (Einaudi). Da più di trent’anni collabora a La Stampa e a Tuttolibri. È condirettore della collana Biblioteca del Piemonte Orientale e della rivista Letteratura e dialetti.

Pilota automobilistico, nato a Bologna nel 1966, ha iniziato a gareggiare con i kart a 14 anni per esordire nel 1988 nel Campionato di Formula 3; ha partecipato a 41 Gran premi di Formula Uno e ha gareggiato negli Usa in Formula CART per 5 stagioni, conquistando due titoli, nel 1997 e nel 1998. Nel 2001 a causa di un incidente in gara perde entrambe le gambe, ma torna alle competizioni nel 2003 e sale nuovamente sul podio nel 2005 vincendo il Campionato Italiano Superturismo.


Le regole nell’obiettivo Le fotografie di Mauro Guglielminotti

Prosegue il dialogo per immagini avviato nel quarto numero di TAO. In questo numero, dedicato al tema Regola senza regola, è stato coinvolto Mauro Guglielminotti. Il fotografo, che vive in Francia ed è attivo tra Torino e Parigi, si occupa prevalentemente di fotogiornalismo e di reportage sociale e di viaggio; è cofondatore e photo-editor della rivista di fotogiornalismo Il reportage, diretta da Riccardo De Gennaro, trimestrale di scrittura, giornalismo e fotografia. Nella ricerca di un continuo scambio e completamento tra il linguaggio delle parole e quello delle immagini, TAO intende descrivere le regole (o le non regole), che sono al centro di questo numero, non solo attraverso i contributi testuali degli autori chiamati ad intervenire, ma anche attraverso alcuni scatti di Guglielminotti. Con questa finalità sono state scelte: Icaro Alato, Jardins des Tuileries, Francia, per la copertina Manifestazione studentesca alla Sorbona (notte tra il 10 e l'11 marzo 2006), Francia, per la sezione Ragione Gardone Riviera Il Vittoriale di D'Annunzio. La stanza della Nike, Italia, per la sezione Interpretazione, che tratta espressamente dell’architettura del Movimento Moderno Favelas intorno a Bogotà, barrio la Cristalina, Colombia, per la sezione (Re)Azione Mauro Guglielminotti, nato a Torino il 2 febbraio 1956, dopo un percorso formativo di tipo tradizionale, conseguendo la maturità classica al Liceo Cavour di Torino e successivamente laureandosi in Ingegneria nucleare presso il Politecnico di Torino, si avvicina alla fotografia già nel 1983, quando inizia a frequentare stage con Franco Fontana, Klaus Zaugg, Frederic Brenner, Mario De Biasi. Dal 1997 ha pubblicato da solo o con altri fotografi numerosi libri tra i quali La Manifattura Tabacchi di Torino per la Provincia di Torino, Le cattedrali del lavoro per conto dell'editore Allemandi a cura della Fondazione Italiana per la Fotografia, La spesa un'avventura da nuovo millennio, antropologia cittadina per l'azienda Carrefour, A tutto campo edito dalla casa editrice Loescher e recentemente ha contribuito al libro Europa domani. Conversazioni con Tariq Ramadan a cura di Orsola Casagrande con l’editore Jouvence. Ha esposto in diversi contesti, tra cui la Biennale Internazionale di Fotografia di Torino nella sezione Giovani Autori, il Palais de l'Unesco a Parigi, la Maison d'Italie a Parigi, alcune gallerie d'arte torinesi, la Fondazione Italiana per la Fotografia, l'Università di Losanna, il castello Sforzesco a Milano per la Fondazione Nava in occasione della Giornata Mondiale Internazionale sui Diritti dell'Infanzia e lo scorso anno alla Biennale di Venezia nel Padiglione curdo. Sue fotografie sono conservate presso la Fondazione Italiana per la Fotografia di Torino e presso la GAM. Nel 2008 ha ricevuto una menzione d'onore per il Reportage di approfondimento nel Premio della Qualità Creativa in Fotografia Professionale, organizzato da Tau Visual, ottenendo analoga menzione come autore segnalato nell'edizione 2009. Oltre che con Organizzazioni Non Governative, ha collaborato con l'agenzia fotografica Grazia Neri e attualmente con Farabola Foto di Milano e Leemage di Parigi. Pubblica su riviste e giornali nazionali e internazionali. www.guglielminotti.it


Le regole del gioco

Ragione Come evitare il caos in una società che non sopporta più le regole? Giustizia, scrittura, cinema, urbanistica... Ci sono regole per tutto, anche il gioco ha le sue, e tutti devono rispettarle. A meno di non cambiare gioco

Gian Carlo Caselli

Che cosa unisce legalità, giustizia e uguaglianza Esiste un codice imposto dallo Stato che stabilisce cosa è lecito e cosa no; il rispetto di queste regole garantisce la legalità. Eppure chi ne parla in Italia appare fuori moda


Steve Della Casa

Errori ed eccezioni nel grande cinema La settima arte: azioni, prassi e metodi da seguire (o violare) per dare vita ad un film di successo

Giovanni Tesio

La parola e la sua orma Eccezioni, deroghe, sregolatezze: il confine tra licenza poetica ed errore nella scrittura

Stefania Bertola

Frutta in città

Guido Montanari

Architettura città paesaggio L’urbanistica della modernità si trova di fronte al bivio tra la firma dell’archistar e la valorizzazione del genius loci

Ph © Mauro Guglielminotti - Manifestazione studentesca alla Sorbona (notte tra il 10 e l'11 marzo 2006), Francia

La città costruita con le regole dei bambini, senza scuole, con molti giardini, mettendo vicine tutte le case delle persone che si vogliono bene


8 — Ragione

Che cosa unisce legalità, giustizia e uguaglianza Se l’Italia delle regole soccombe, cresce l’Italia dei furbi e degli impuniti, di coloro che le regole le violano quotidianamente Gian Carlo Caselli

Lo scenario è cupo: uno scempio quotidiano di diritti e legalità; un processo farraginoso ed incomprensibile, con costi e tempi che generano sfiducia e insicurezza; martellanti campagne secondo cui la giustizia è ridotta a campo di battaglia dove consumare vendette e scontri politici; personalismi e polemiche che accompagnano ogni vicenda giudiziaria di rilievo; rischio di derive illiberali e disgreganti che passano attraverso il crescente rifiuto della giurisdizione, che perciò fatica sempre più ad assolvere la sua funzione di garante dei diritti dei cittadini e delle regole di convivenza, nonché di equilibrio del sistema istituzionale. In questo quadro, parlare di legalità e giustizia (parlarne in termini credibili, senza vuote enunciazioni retoriche o peggio strumentali distorsioni) non è facile. Tanto più in presenza di cattivi esempi o modelli negativi che vanno consolidandosi e che si ispirano a ‘filosofie’ del tipo “così fan tutti, perchè scaldarsi, non vale la pena…”. ‘Filosofie’ che si intrecciano con la constatazione che nel nostro Paese chi sbaglia non paga,

soprattutto se conta o ci sa fare. Grazie anche alla diffusione (nel recente passato) di indulti e condoni persino tombali o di leggi mirate su specifici, particolari interessi personali. C’è uno scenario di fondo, in buona sostanza, che tende a far apparire come poco moderno, poco al passo coi tempi, chi si ostina a parlare di legalità e di osservanza delle regole. C’è un clima che favorisce la rassegnazione e il disimpegno. Ma i fattori che lo compongono sono altrettante rampe di lancio – potenti rampe di lancio – per le tante furbizie, illegalità ed ingiustizie che infestano il nostro Paese. A fare da contrappunto a questa situazione, ecco i ‘messaggi’ che fiction e spettacoli televisivi diffondono quotidianamente nelle nostre case, condizionando pesantemente i comportamenti di ciascuno: non importa quel che si è, che si creda in qualcosa, che si abbiano o si cerchino punti di riferimento (non uso la parola ‘valori’ perché temo che se ne sia addirittura dimenticato il significato); interessa apparire, e apparire sempre in un certo modo: un apparire vuoto, privo

di talento e di studio; uno stolido sorriso perennemente stampato sulla faccia; corpi siliconati e palestrati; abiti e accessori griffati; immagini di felicità a prescindere… E pur di apparire, gli altri vanno scavalcati senza troppi riguardi, se necessario sgomitando o scalciando (con la complicità di chi trasforma in star coloro che esagerano…). Di qui una ‘scuola’ di arroganza, prepotenza e violenza che è antitetica ad ogni cultura della legalità e delle regole. Ecco allora che sul piano privato, non meno che sul versante pubblico, vanno diffondendosi modelli di comportamento che privilegiano la tendenza ad essere severi (se non spietati o addirittura feroci) con gli altri, soprattutto se considerati ‘diversi’; per poter nello stesso tempo invocare o pretendere – per noi stessi – comprensione o indulgenza. Tendenza di cui è interfaccia la prevalenza degli interessi individuali (egoistici) su quelli di carattere generale. Ma così stenta a crescere l’Italia delle regole, di coloro che vorrebbero che l’osservanza delle regole fosse non soltanto proclamazione


Ragione — 9

‘pneumatica’ (flatus vocis…), ma effettiva prassi. E se l’Italia delle regole fatica, si aprono sempre più spazi all’Italia dei furbi, di coloro che le regole – a partire dal pagamento dei tributi – fan di tutto per dribblarle lasciando ai ‘fessi’ di crederci; o all’Italia degli affaristi, che le regole le considerano un fastidioso ostacolo al pieno dispiegarsi delle loro attività; o all’Italia degli impuniti, che le regole le violano programmaticamente e poi pretendono che mai nessuno osi chiederne loro conto e ragione. Ma attenzione: se l’Italia delle regole soccombe, si innesca una spirale perversa che inesorabilmente porta a strappi profondi che possono fare a brandelli lo stesso senso morale della nostra comunità. E alla fine potremmo ritrovarci tutti sotto un cumulo di macerie, perché senza regole prima o poi si va a sbattere. Tutti: le conseguenze nefaste non risparmierebbero chi si riconosce in questo o quell’orientamento politico-culturale, ma riguarderebbero l’intera comunità. Dunque, legalità e giustizia non attraversano un buon momento, nel nostro Paese. Crisi e sofferenza, malessere e problemi inestricabilmente si intrecciano. E tuttavia, proprio per questi motivi è necessario che di legalità si continui a discutere, senza concedersi il lusso del silenzio. Perché è del tutto evidente che senza giustizia deperisce la qualità della convivenza. Per usare una metafora sportiva, senza regole non c’è partita o la partita è truccata. E a vincere sono sempre i ‘soliti’, i più forti: quelli che, se le regole restano inosservate, meglio conservano e potenziano i loro privilegi, con grave pregiudizio

per l’uguaglianza e per i diritti degli altri. Naturalmente, nel nostro sistema, legalità e osservanza delle regole sono categorie che vanno parametrate in base alla Costituzione. Con particolare riferimento all’art. 3 della Carta fondamentale, secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge” ed “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Parole che ci portano a riflettere sui rapporti fra giustizia e legalità, termini che spesso consideriamo come sinonimi, mentre in realtà sono concetti diversi: nel

quotidiana, capace di consegnare a ciascuno quello che gli appartiene, quello che gli serve per vivere decorosamente. Un compito che ha bisogno della legalità, ma deve anche coinvolgere la responsabilità personale, lo sforzo, l’impegno di ciascuno di noi. Questo è il significato profondo della ‘proposta’ contenuta nell’art. 3 della Costituzione. Una proposta che funziona come provocazione, perché la nostra giustizia, nel rispetto – sempre necessario – della legge scritta, sappia interpretarla ed applicarla andando oltre. Così che possa diventare diritto (se si vuole un diritto debole, ancora insufficiente: ma al tempo stesso un traguardo preciso, esistente e possibile) ciò che in antico si legÈ necessario che di legalità geva nel salmo: “Sino a quando o giudici si continui a discutere, starete dalla parte dei malvagi? Rendete senza concedersi giustizia alla vedova; all’orfano, al misero il lusso del silenzio e all’indigente fate ragione”. Con l’obiettivo ‘laico’ di realizzare una democrazia senso che senza legalità non può esserci emancipante, nella quale il compiuto ricogiustizia, ma la legalità da sola non può noscimento dei diritti di libertà è integrato garantire piena giustizia. L’osservanza dalla solenne affermazione del principio di delle norme scritte è indispensabile, uguaglianza in senso sostanziale, assunto inderogabile, ma la sola osservanza delle non come semplice aspirazione o obietnorme non ha la forza di superare le disu- tivo ma come dato normativo fondamenguaglianze tra i cittadini. I poveri, gli emar- tale. Una democrazia nella quale – come ginati, gli esclusi, i deboli, non cessano è stato detto – la cittadinanza è diventata di essere tali per il solo fatto che tutte le uno status di cui fanno parte, oltre al diritto leggi scritte siano osservate. Certo, molti elettorale, un reddito decoroso e il diritto a dei loro diritti, disattesi o negati, pos- condurre una vita civile, anche quando si sono essere meglio riconosciuti grazie è ammalati, o vecchi o disoccupati o straal rispetto di alcune regole fondamentali, nieri onesti; i principi di giustizia distribuma non sarebbe ancora sufficiente. Ci tiva sono diventati diritti e le politiche per vuole qualcosa di più. Questo qualcosa realizzarli atti dovuti, sottratti una volta per di più è fare della giustizia una pratica tutte alla negoziazione politica.


10 — Ragione

Frutta in città Stefania Bertola

Gli unici edifici grandi che avessero a disposizione erano due palazzi fatti con i cartoni di latte da un litro. In origine erano due casette per il presepe, e nel Presepe della scuola avevano fatto la loro figura, si armonizzavano con il resto della metropoli costruita attorno alla capanna. Per qualche motivo, il Presepe del loro asilo aveva una prepotenza urbana che spezzava il cuore, e la capanna stessa era più simile a un motel che all’estremo rifugio di due polverosi palestinesi. Ma quando le avevano portate a casa e messe nel presepe della mamma, quei mastodonti verniciati d’argento e con le tegole di pasta (reginelle spezzettate) erano subito sembrati fuori posto, e relegati ai margini estremi, palazzoni di periferia e nulla più. Quando giocavano alla città, però, gli smisurati erano quello che ci voleva per Carlo. Stiamo parlando di tre bambini, una sorella, un fratello e un altro fratello più piccolo che voleva qualcosa da distruggere. A lui interessava un diverso tipo di onnipotenza: non costruire la città perfetta, ma abbattere qualcosa che facesse scalpore. In poche parole a

Carlo piaceva giocare all’11 settembre. A questo scopo i palazzi del latte andavano benissimo: li mettevano di lato, e mentre loro due edificavano, Carlo si accaniva a schiantarli con i suoi aerei terroristi. Il resto del materiale erano le casette di cartone della mamma quando era piccola, quelle di Lego, certe scatole di latta sempre fornite dalla mamma, più altre ville improvvisate con cubetti, pacchetti dei dadi Knorr, e perfino tre o quattro mini teiere a forma di cottage prese con i punti al supermercato. Negozi di pongo, motociclette, Puffi, carrozzine dei Cicciolotti con dentro Cicciolotti, e altri innumerevoli esemplari di edilizia friabile contenuta nelle Uova Kinder costituivano il resto del tessuto urbano. Radunato tutto, potevano finalmente farsi una città come piaceva a loro. Si partiva sempre dallo stesso inizio: “Qui c’è casa nostra”. Al centro. Eccola lì, la riproduzione di cartone di un villino provenzale, che nella loro nordica città sarebbe risultata azzardata perfino per un architetto neomelodico. Accanto, ci mettevano la casa dei nonni, la casa dell’altra nonna, quelle degli zii, degli

amici, e della signora Marina che veniva a fare le pulizie una volta la settimana, e che in verità abitava lontanissima per cui arrivava sempre in ritardo. La mamma diceva sempre che sarebbe stato bello se la casa di Marina fosse stata dall’altra parte della strada, ed ecco fatto. Grazie a questa accorta disposizione, erano eliminati per sempre i tediosi tragitti in macchina per andare a trovare la gente. Come a Paperopoli, il loro modello di riferimento, le persone care erano tutte raggiungibili fischiettando e girando l’angolo. Sempre nelle immediate vicinanze di casa loro, sistemavano l’ufficio di papà, quello della mamma, e La Giraffa, il loro negozio di giocattoli preferito, che costruivano mettendo uno sull’altro alcuni Lego e piazzando sul tetto una giraffina del sacchetto Animali del Safari acquistato dal giornalaio. “Questa è l’insegna”, spiegava la sorella. Ora la città era molto comoda, e i fratelli sospiravano soddisfatti. Aggiungevano qualche cinema, un McDonald’s, una banca per andare a prendere i soldi


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Ragione — 11

nel bancomat, e un Supermercato per fare la spesa. Dopodiché, entrava in massa la vegetazione. Oltre a tutti gli alberi reperibili nella scatola del presepe (ed ecco perché la loro città strabordava di palme) i fratelli recuperavano altre forme di verde da altri giochi, con l’intesa però che indipendentemente dall’apparenza gli alberi fossero in realtà ciliegi, meli, banani, albicocchi, peschi. Questa idea semplice e geniale era venuta al fratello un pomeriggio, elaborando la felice esperienza di quando domenica avevano raccolto le ciliegie direttamente dall’albero a casa di una prozia. “Aspetta un attimo!” aveva detto mentre sistemavano i quattro parchi cittadini. “Facciamo che sono alberi da frutta! Invece di tutti quegli alberi che hanno soltanto le foglie, mettiamo meli e roba del genere così tutti possono andarsi a prendere la frutta gratis!” Nella loro città, dunque, tutti potevano andare a prendere la frutta gratis, e anche chi non aveva niente da mangiare se la sfangava. “Ma le banane crescono, da noi?” si preoccupava la sorella. “Perché le banane sono più nutrienti. Anche per i bambini degli zingari, tipo, vanno meglio le banane.” “Boh, credo di sì.” Il fratello era così, aveva buone idee, ma era irrimediabilmente cialtrone. Oltre a dare una bella botta risolutiva al problema dell’alimentazione degli indigenti, gli alberi erano molto utili anche per i cani. Nella loro città, infatti, la prima regola era che i cani potevano fare pipì e popò ovunque gli paresse, e che a pulire

ci avrebbero pensato gli Spazzacacche, un reparto speciale del Comune che si sarebbe dedicato esclusivamente a quel compito. Gli Spazzacacche avevano sacchi verdi, paletta, guanti e, aveva pensato il fratello, gli Ipod, così mentre facevano il loro sporco lavoro si potevano distrarre ascoltando la loro musica preferita. Oltre a quelle dei cani, gli Spazzacacche dovevano pulire anche quelle dei cavalli, uno dei mezzi di trasporto abituali nella loro città. Le strade erano attrezzate: accanto alla parte centrale asfaltata liscia, c’erano sempre due larghi bordi erbosi, dove poter trotterellare in santa pace con Apache, Rupied, Tuki e altri cavalli amati. Le carrozze, le biciclette, i pattini a rotelle, gli skateboard e i monopattini viaggiavano al centro. Le macchine potevano circolare anche loro, nessuno aveva niente contro le macchine, semplicemente, nella loro città non piacevano molto. Ce n’erano, per carità. Soprattutto, c’erano furgoncini, camion dei pompieri e una grossa, invadente betoniera gialla, ma giracchiavano soltanto in caso di fretta estrema o necessità. In compenso, quello che mancava vistosamente nella città dei fratelli Aghemo erano i vigili. Nessuno dava o prendeva multe. La multa, questa sconosciuta. Chiunque poteva parcheggiare ovunque, per tutto il tempo che voleva, e di conseguenza i padri di Pongo e le madri Playmobil erano sempre di ottimo umore. In generale, era una città in cui il tempo era una prerogativa individuale: i negozi aprivano e chiudevano quando volevano, a scuola si entrava sempre, e si usciva appena non se ne poteva più, e nessuno era mai in ritardo,

nessuno era mai in anticipo, non c’era la fretta e neanche il traffico, si entrava si andava si usciva si tornava trotterellando sull’erba o biciclettando in santa pace, peccato solo per quei continui, incessanti, fastidiosi attacchi terroristici. Ogni tanto, mentre erano impegnati in pacifiche attività cittadine, ad esempio portare i Minipony al Supermercato o lanciarsi in forma di Diabolik piccolo nero di plastica dal tetto di casa della nonna, sorella e fratello venivano rasi al suolo dai grattacieli del Latte, vittime dell’ennesimo attacco dei Terroristi di Marte. “Tanto per cominciare,” puntualizzava la sorella rialzandosi a fatica da sotto le macerie, “i terroristi non sono marziani. Sono terrestri.” “E poi te l’ho detto di disintegrare i grattacieli da un’altra parte. Se me li fai crollare addosso ancora una volta ti spacco le gambe,” diceva il fratello, molto minaccioso. Carlo mugugnava qualcosa a proposito della mamma, e si ritirava in periferia. Ma un giorno, questo giorno di cui stiamo parlando, Carlo si stufa dei limiti imposti al suo essere terrorista, e urlando “Io sono un terrorista marzianooo!!!” bombarda tutto, ma tutto: non soltanto le casette del latte, ma anche gli alberi da frutta, la casa di Marina, la Giraffa e i pigri ex vigili trasformati in molli pensionati sulle panchine dei quattro parchi. Fratello e sorella lo menano, e mentre lui corre dalla mamma, loro guardano l’ora. Sette e mezza, fra pochissimo si cena, la ricostruzione è rimandata a domani. Degli appalti, discuteranno lungo la minestrina.


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Errori ed eccezioni nel grande cinema Inquadrare un passante, montare senza rispettare la consecutio temporum, utilizzare pellicole scadute… alcune ‘regole’ che hanno portato al successo Steve Della Casa

Per fortuna il prontuario del film corretto non è mai stato scritto. O meglio, ci hanno provato in molti ma tutti i tentativi si sono risolti in un buco nell’acqua, a volte ridicolo. Se vogliamo dare a questo una spiegazione teorica, diremo che il cinema è l’arte del XX secolo (“l’arte delle arti”, come la definisce Giuseppe Bertolucci) e che quindi, nutrendosi di contemporaneità, si evolve in continuazione. Se invece ci accontentiamo di una spiegazione più empirica noteremo che il gusto del pubblico si evolve in continuazione e che la trasgressione delle regole è un continuo punto di riferimento per chi si occupa di narrazione cinematografica. A volte questa trasgressione si manifesta per precisa scelta teorica. Tutti hanno visto o conoscono Fino all’ultimo respiro, il film di Jean-Luc Godard che segna l’affacciarsi sulla scena cinematografica e culturale della Nouvelle Vague. La Nouvelle Vague è sinonimo di nuovo cinema, i registi che si battono in quel movimento (oltre a Godard ci sono Truffaut, Chabrol, Rohmer, Rivette…) sono fortemente stanchi del “cinema di papà”

con i suoi calligrafismi e la sua bella scrittura per immagini. Detestano le “sceneggiature di ferro”, odiano le “belle immagini”, aborriscono il “racconto lineare”. E cioè tutte le componenti che tradizionalmente erano insegnate nelle scuole di cinema. Fino al punto che lo stesso Godard, nel film sopraccitato, gira diversi ciak di ogni scena ma quasi regolarmente monta il primo, quello che di solito viene scartato, perché così il regista può indicare agli attori delle correzioni del loro lavoro. Invece lui preferisce il primo perché è più naturale. E poco importa se a causa di questo molto spesso a fianco di Jean-Paul Belmondo e di Jean Seberg si vedono distintamente i passanti degli Champs Elysées che guardano verso la macchina da presa. Questo è l’errore che chi gira all’aperto cerca di solito di evitare: lo sguardo curioso di un passante che vede che stanno girando un film. Per Godard questo non è un errore: l’errore sarebbe rinunciare per questo motivo alla naturalezza che gli attori hanno quando girano una scena la prima volta.

A volte una trasgressione diventa un elemento costitutivo del racconto. Quando i ragazzi degli anni ‘60 decretarono in tutto il mondo il grande successo di Easy Rider non lo facevano soltanto perchè in quel film c’era molta musica, si parlava di droga e gli hippies la facevano da protagonisti. In quei film le connessioni tra le varie scene sono realizzate come mai si era osato prima. Quando finisce una sequenza iniziano ad apparire brevissimi incisi di un’altra scena, che scopriremo poi essere quella successiva, quasi un anticipo sognato di quello che sta per avvenire nella storia del film. L’effetto ricercato era quello psichedelico: allora si pensava che certe droghe di sintesi potessero fornire una coscienza più espansa e quindi rendere più chiari i meccanismi di quanto ci sta succedendo. Oggi sappiamo che le teorie di Timothy Leary e degli altri guru dell’LSD sono delle solenni baggianate, ma resta il fatto che quel montaggio in cui gli elementi narrativi si sovrappongono senza rispettare la consecutio temporum è diventato a sua volta un modo di narrare che tutto il cinema adopera a piene mani.


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A volte la trasgressione può avere origini puramente materiali. Una delle prime cose che si insegnano a chi fa il direttore della fotografia è che con la pellicola scaduta non si deve mai girare perché la nitidezza dell’immagine si riduce di un buon 70%. Il più grande regista del cinema italiano di sempre, Roberto Rossellini, ha però girato un film quasi interamente con la pellicola scaduta. Eravamo nel 1944, la guerra era ancora in corso e, nell’Italia distrutta nei mezzi e nel morale dall’avventura di Mussolini, reperire della pellicola vergine era impossibile. Ma Rossellini aveva ansia di raccontare la sua città violentata dall’occupazione nazista. Ecco perché, contro il parere di tutti, girò Roma città aperta

con avanzi di pellicola trovati nei pochi magazzini che si erano salvati dai bombardamenti degli americani e dalle razzie che i nazisti avevano compiuto prima di abbandonare Roma. Quel film segna l’inizio della rinascita morale dell’Italia. Ma ci dice anche che la fotografia nitida non è un valore, e che quando si racconta l’orrore della guerra è molto meglio rinunciare all’estetica flou e lavorare con immagini stanche, opache come erano le vite di chi stava vivendo quel periodo. Tre esempi per dire come le regole, nel cinema, sembrano scritte apposta per essere prontamente sovvertite. La bella narrazione, la bella fotografia, la recitazione classica datano in modo

irrimediabile il prodotto, gli conferiscono una patina di vecchiaia proprio mentre vorrebbero essere lo stimolo per rendere immortale il prodotto stesso. Come tutti sanno esiste un forte dibattito che discute se il cinema è morto o no, se le nuove tecnologie lo stanno o no modificando in modo irreversibile. Ognuno può pensarla come vuole. La mia sensazione è che il cinema rimarrà un corpo vivo fino a quando sarà costituzionalmente refrattario alle regole scritte, ai canoni. Fino a quando qualcuno avrà il coraggio di gettare a mare gli insegnamenti e le scuole di cinema per dire: io devo narrare qualcosa che si può narrare solo se si fa l’esatto contrario di quanto mi è stato insegnato.


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La parola e la sua orma La letteratura si nutre di eccezioni, ma non bisogna perdere la cura della parola Giovanni Tesio

La regola impone la deroga. Le grammatiche inducono alle trasgressioni, a quello che un occhio sterile chiamerebbe ‘errori’ e che possono (devono) diventare sparigli, decisivi per le sorti della partita. Due le facce: da un lato il rispetto, dall’altro lo sgambetto, o scambietto, come un tempo si diceva. Ho sempre pensato che non tutti i mali sono di per sé nocivi. Pro bono malum, eterogenesi dei fini, modi di dire la cui unica sostanza è questa: che lo scarto e il guizzo convertono l’inevitabilità in salvezza. Vale per la parola, ma vale per tutto. Conosco professoresse offese dal punto fermo prima dell’avversativa. Conosco professori scandalizzati dalla virgola intrusa tra soggetto e predicato. Poi però prendo un sonetto di Alfieri (amante della lingua italiana se ce n’è stato uno) e trovo: “Poeta, è nome che diverso suona” e gioisco. La virgola in luogo critico è perfetta, perfettamente sregolata, eslege, e proprio per questo tanto più sapida, energetica. Perché isola la parola ‘Poeta’ in una sorta di solitudine sublime. Isolamento che si fa monumento.

Spero di non essere equivocato. Sono grato ai maestri occhiuti, che continuano a vigilare sul corretto uso delle parole. Ma proprio perché la trasgressione non è atto comune, occorrerà comprendere come nella scrittura la regola sia un patto in deroga, una variante di passo. Come il sistema letterario di questo si nutra e viva. Non c’è scrittore vero che non abbia percorso la sua strada sghemba, non abbia preso scorciatoie, non abbia fatto vibrare le corde di una chitarra scordata. Tutto il petrarchismo, ad esempio, è fenomeno che non include soltanto la disciplina formalistica, la modesta ripetizione del ‘modello’, ma anche – dal Della Casa a Michelangelo – un’audace impresa di devianza e differenza. Facendo un salto quantico, leggo uno scrittore (giurista) come Franco Cordero e resto abbagliato dalla sua scrittura totalmente – consapevolmente – ‘anacronistica’. Scatti, metafore, idee, emozioni, imbrigliate in una cassa di risonanza di logica e di etica ineccepibili. Proprio nel tempo in cui l’una e l’altra vengono meno. Tutti i più fervidi amanti della lingua

nostra hanno pizzicato, hanno acceso i loro altarini al dio dell’eccezione. Tra lombardismi residui e correzioni strenue, lo stesso Manzoni ha mantenuto più di una macchia ai suoi risciacqui. E non parliamo dei ‘macaronici’ più slogati: la famosa e continiana ‘funzione Gadda’. C’è, insomma, un’ottusità da cui dobbiamo dissentire. Ma c’è anche una carità che dobbiamo riconoscere. O, volendola prendere più bassa, una funzione, un ruolo, che è bene continuare a interpretare. Le regole sono necessarie, e dunque le grammatiche siano benedette. Ma proprio perché sono loro a dirci e a darci il senso dello scarto. Ogni espressionismo, ogni colorismo, ogni carnevalesco comportano la frattura o la contrattura della norma. Ma sempre si tratta di sregolatezze regolate perché in arte (o letteratura) niente è mai casuale, nemmeno il caso. A preoccupare è invece la generalizzata violenza (vera e propria violenza) che si dà quando i confini cadono del tutto, quando tutto si converte in caos, quando il disordine sprigiona la sua aggressività senza destino. Questa no,


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questa non è più la calibrata sommossa del testo in cerca della sua preda. Questa è barbarie. O meglio, è imbarbarimento. Perché la grammatica (della parola in quanto nucleo di condensazione del pensiero, ma anche come libera circolazione di bellezza) “è una condizione necessaria della legge morale fondamentale”. Lo dice George

Steiner desumendolo da Lévi-Strauss. Ecco ciò che manca alla sensibilità del nostro tempo: la cura della parola che significa. Dove tutto è trasgressione, nulla è trasgressivo. Dove tutto è ‘sregolato’, niente è più ‘sregolato’. Dove tutto s’abbuia, ingrigiscono le sagome, si occulta ogni senso del limite e del confine. È il nostro punto. La violenza che si

esercita sulla parola è disprezzo per la parola. Quanto più la chiacchiera infinita – il chiacchiericcio – s’espande, tanto più la comunicazione diventa borbottio, borborigmo, balbuzie, barbuglio. Oppure rumore, fracasso, frastuono. Non c’è vera civiltà senza regola, non vera parola senza l’orma del suo eccesso, della dismisura che la necessita e l’imprime.


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Architettura città paesaggio Il disegno del paesaggio urbano deve essere condiviso dai cittadini e basato su un’architettura a ‘km 0’ Guido Montanari

Regola e non regola, razionalità e caos, apollineo e dionisiaco si alternano da sempre nelle varie espressioni della cultura umana. Esaminando gli spostamenti del pensiero su questi temi, dalla classicità greca agli scritti di Nietzsche e di Freud, è abbastanza agevole collocare su una sinusoide i momenti di maggiore prevalenza delle regole e quelli di maggior forza della loro negazione, tuttavia negli ultimi decenni, immersi nelle visioni della ‘post’ e della ‘sur’ modernità, percepiamo che i confini tra regola e non regola appaiono più sfumati, le opposizioni si ibridano e il tentativo della loro individuazione si rivela difficile, sullo sfondo di un orizzonte culturale confuso. Finite le certezze dei “grands récits”, messa in dubbio la prospettiva delle “magnifiche sorti e progressive” della società, ma verificata anche l’impossibilità di una sua conservazione tout court, appare arduo analizzare i fenomeni sociali, culturali e politici della contemporaneità con strumenti asettici e proposte sicure. Il dibattito sull’architettura, intesa come l’insieme di tutte le opere realizzate dall’uomo

per le sue necessità (William Morris, 1881), non sfugge a questa difficoltà. Inoltre la rapida trasformazione dei contesti del nostro tempo impone una riflessione urgente sulla loro qualità determinante non solo per il benessere dell’individuo, ma anche per la crescita di ogni comunità civile. Dunque porsi il problema di capire la trasformazione dell’architettura, tentare di partecipare alla sua definizione e alla sua gestione, cioè, in altri termini, ri/conoscerne o dis/conoscerne le regole, non è per nulla astratto o cervellotico, ma è al contrario molto concreto, impellente. Nel nostro Paese, a partire dagli anni del secondo dopoguerra e soprattutto dal ‘boom economico’, la mancanza di regole in merito alla pianificazione e al controllo del territorio provoca la nascita delle sterminate periferie urbane, la perdita di naturalità di vallate alpine e di coste marine, la distruzione di tessuti agrari e la pesante compromissione dei centri storico artistici. Negli anni ‘70, anche in seguito alle prime avvisaglie delle conseguenze negative in termini ambientali e sociali di questo ‘sviluppo’, si avvia una stagione di

riflessione e di interventi legislativi volti alla limitazione dei diritti edificatori, in funzione della tutela culturale ambientale e delle esigenze sociali. La spinta riformista di quella stagione si esaurisce nel corso degli anni ‘80, con lo svuotamento delle leggi di salvaguardia dell’interesse pubblico e con la ripresa dell’aggressione nei confronti dell’ambiente naturale e costruito. Negli ultimi anni la ripresa impetuosa dell’attività edilizia legata alla criticità dei mercati finanziari internazionali e alle dismissioni di ampie aree industriali seguite ai profondi processi di crisi e di ristrutturazione della grande industria, portano a trasformazioni radicali dei paesaggi urbani e non urbani cui si accompagna spesso la perdita dei loro caratteri di qualità. Gli esiti sono noti: incontrollato consumo del suolo (negli ultimi due decenni a fronte di un aumento demografico di circa il dieci per cento l’incremento del consumo di suolo è aumentato di più di dieci volte), sprawl urbano, impatto di architetture autoreferenziali nei paesaggi storici, scarsa qualità delle nuove edificazioni, grandi opere infrastrutturali indifferenti all’ambiente e


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alle esigenze locali, degrado idrogeologico del territorio, con immani costi umani ed economici che ricadono sulla collettività. Si tratta della trasformazione territoriale più significativa, almeno da un punto di vista quantitativo, mai avvenuta nella storia. Sorprendentemente, nonostante permanga un’ampia fascia di abusivismo e di non rispetto delle leggi urbanistiche ed edilizie, la gran parte della trasformazione di cui stiamo parlando, si svolge nel rispetto formale delle regole, attraverso processi decisionali di numerosi organi deliberativi e strumenti di controllo di una pletora di istituzioni e di commissioni. Un processo di rimozione e una inspiegabile afasia sembrano cogliere il mondo della cultura e della progettazione di fronte al progressivo degrado del territorio e al dispiegarsi di un’urbanistica ‘debole’, lasciata nelle mani dei promotori immobiliari e dei grandi costruttori. Decisori e amministratori di fronte all’aggravarsi della crisi e ai tagli dei bilanci, spesso scelgono di vendere le proprietà comuni e di ‘mettere a reddito’ il territorio con piani regolatori e varianti che stimolano le rendite invece di controllarle. Le regole sembrano fatte apposta perché l’iniziativa del privato possa dispiegarsi liberamente, indipendentemente dall’interesse pubblico. Si afferma dunque la regola del più forte: vince il marketing urbano, dove la grande firma, l’opera dell’archistar, spesso non in sintonia con i luoghi e identica a tante altre in giro per il mondo, permette di far lievitare il valore delle aree e renderle appetibili sul mercato. Non mancano esempi di ricadute positive dei processi di riqualificazione, come il Museo Guggenheim di Bilbao, le opere per le celebrazioni di Barcellona, oppure quelle olimpiche di Pechino. Tuttavia se l’architettura perde il suo rapporto con il genius loci, con i modi costruttivi radicati, con la memoria collettiva e con la socialità specifica, tende ad uniformarsi a livello internazionale, rischia di diventare una ‘non architettura’, oppure deve cercare di colpire, scioccare, con scelte progettuali che rasentano il grottesco, per la loro completa indifferenza al contesto. È il caso del grattacielo ‘storto’ del complesso di Milano CityLife, oppure di quello dell’importante istituto bancario

ai margini del centro storico di Torino o, ancora, di quello a spirale sulla scogliera di Savona, fortunatamente bloccato per ragioni naturalistiche. La città storica europea e italiana, culla di civiltà (dal latino civis, cittadino, appunto), prezioso insieme di spazi a misura di uomo, è il frutto di regole consolidate e tramandate nel tempo che ne fanno un luogo di straordinaria vivibilità, di intensi scambi sociali e culturali. Il suo disegno, talvolta razionale e geometrico per interpretare la volontà del principe, talaltra sinuoso e articolato per seguire l’andamento orografico, la sua densità fatta di mixité di funzioni e di attività, i suoi rapporti studiati tra altezza delle case e larghezza delle strade (non fatte per le automobili), con slarghi e piazze per il mercato e per l’incontro (non pensate per il parcheggio), con i suoi scorci verso il paesaggio naturale, con i suoi punti di vista e di filtro tra costruito

I confini tra regola e non regola appaiono più sfumati, le opposizioni si ibridano e il tentativo della loro individuazione si rivela difficile e non costruito, non potrebbero essere ancora oggi fonti preziose per elaborare le regole di uno sviluppo e di una trasformazione urbana in sintonia con le necessità della vita attuale? L’urbanistica della modernità ha guardato generalmente con fastidio, se non con odio, alle sedimentazioni della città storica: dopo averle denunciate come esempi di insalubrità e di scarso decoro, ne ha proposto l’abolizione con il progetto della nuova città della luce, del sole e dei grandi spazi, propagandato nella Carta di Atene. Alla prova dei fatti il sogno lecorbusiano, pur basato su un moderato ridimensionamento del ruolo della proprietà privata, si infrange nelle realizzazioni di Chandigarh e di Brasilia, dove spazi affascinanti e monumentali sono però agghiaccianti nelle loro misure esagerate definite dalle esigenze delle automobili e dove le zone residenziali, pur dotate di tutti i servizi, sono luoghi di segregazione della popolazione. Non mancano tentativi di rendere più

‘amichevole’ il disegno urbano del Movimento Moderno, per esempio con i nuovi quartieri di edilizia popolare del nord Europa, i cui modelli sono importati in Italia nelle più riuscite realizzazioni dell’Ina-Casa, oppure in alcune sistemazioni urbane seguite alle distruzioni della guerra, come quelle di Rotterdam e di Stoccarda, che restano però esempi isolati e poco influenti sull’espansione quantitativa delle città. Anche l’attenzione alla tradizione sollecitata dal Postmoderno non affronta a scala territoriale il problema del disegno urbano, limitandosi nel migliore dai casi, a citazioni storiciste per singoli quartieri, come nei casi del Südliches Tiergartenviertel di Léon Krier a Berlino, dei logements sociaux di Christian de Portzamparc a Parigi XIII o del Gallaratese di Aldo Rossi a Milano. Il recente movimento per il New urbanism, promosso dal Principe Carlo di Inghilterra propone la pedonalizzazione degli spazi urbani, la ricerca di un miglior contatto con la natura, elaborando quartieri ‘in stile’ che si rivelano risposte stucchevoli e poco funzionali alla sentita esigenza dei cittadini di abitare in luoghi più confortevoli e sicuri, rispetto alle città congestionate dalle auto. La difficoltà nell’elaborare nuovi modelli di progetto e di gestione della città e del territorio che permettano di ritrovare l’equilibrio tra natura e costruito, tra privato e pubblico, tra residenza, lavoro e svago, con attenzione alla sostenibilità sociale ed ambientale, non può dunque trovare soluzione né adottando regole confuse e contraddittorie, né permettendo il laissez faire di stampo liberista. La consapevolezza che si sta sviluppando intorno alla valorizzazione dei prodotti e delle attività locali può essere uno stimolo utile per proporre un’architettura a ‘km 0’, in grado di qualificare i caratteri paesaggistici del luogo. È necessario però tornare all’etica della responsabilità collettiva per elaborare un disegno del territorio condiviso dai cittadini, attraverso forme di partecipazione democratica effettiva, dove le regole siano il frutto di una cultura diffusa dell’abitare e del vivere, aperta al dialogo internazionale, ma non succube di modelli imposti dall’esterno. È nostro compito contribuire a costruire questa cultura.


Il Moderno e le sue regole

Interpretazione Scuola o stile? Sospeso tra rigore metodologico della forma e sforzo interpretativo della tecnica costruttiva e di nuovi materiali, il Movimento Moderno locale propone le sue regole - la sua fragilità? - e il suo destino a una lettura tutta contemporanea

Emilia Garda

Le interpretazioni e le contraddizioni del Moderno

Le schede Gruppo Rionale Fascista Giovanni Porcù del Nunzio

Rigore intransigente e sfumature più cordiali: le indicazioni metodologiche ancora insuperate

Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso Torre Littoria Villa Colli Casa di via Vico


Pier Giovanni Bardelli

La cura del Moderno

Tra innovazione e tradizione, come si attua un recupero responsabile

Ph Š Mauro Guglielminotti - Gardone Riviera Il Vittoriale di D'Annunzio. La stanza della Nike, Italiardone Riviera Il Vittoriale di D'Annunzio. La stanza della Nike, Italia

100 scatti inediti per 50 anni d’architettura

50 opere in mostra


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Le interpretazioni e le contraddizioni del Moderno Il ruolo di ‘manifesto’ dei materiali, la decorazione e la componente ideologica nelle architetture

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Emilia Garda


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Ma questa seconda interpretazione comporta una grave omissione. Il ricondurre infatti il Movimento Moderno a semplice codice stile implica la riduzione del suo significato primigenio ovvero la riduzione del più generale programma socio-culturale che prese l’avvio dall’Illuminismo e che tanta parte ebbe nella formulazione delle teorie del Movimento Moderno stesso. Non pochi sono gli interrogativi che emergono di fronte all’eredità materiale di questa stagione di pensiero così ricca di significato e di contraddizioni. Come intervenire su questi edifici così difficili da interpretare, sospesi fra passato e presente, ancora pulsanti di vita ma spesso già dimenticati? Quali sono i limiti inevitabilmente sottesi alla volontà di conservazione? Quali gli opportuni criteri di selezione? Che fare di quegli arredi studiati in maniera imprescindibile dagli ambienti per i quali sono stati concepiti? Come orientarsi di fronte a soluzioni tecnologiche non più praticate o di fronte a materiali non più in produzione né producibili? Ne scaturisce inevitabilmente una riflessione

sul tema della tecnica. Dall’analisi delle fonti emerge un discorso che è al tempo stesso scientifico, intellettuale, metaforico. Ciò che unifica le diverse posizioni è una fiducia da tutti condivisa in un progresso in grado di imporre la sua legge. Si tratta palesemente di un equivoco: l’equivoco tecnicista. In molti scritti infatti il riferimento alla tecnica è puramente testuale, risiede nell’allegoria del progresso e della civiltà. Così l’innovazione tecnologica ha riguardato spesso questioni costruttive di superficie, di finitura, la risoluzione di problemi formali l’uso di certi materiali considerati per eccellenza moderni, materiali sintetici, prodotti industrialmente e surrogati di quelli tradizionali, mentre la parte strutturale dell’edificio, la sua ossatura hanno continuato ad essere quelle di sempre: il prodotto di tecniche e procedimenti sostanzialmente tradizionali ed arretrati. La centralità della tecnica nel Movimento Moderno resta un assunto ancora da verificare. Molto si conosce sulle influenze di tipo formale, poco o niente sugli aspetti di tipo costruttivo.

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Che cos’è il Movimento Moderno? Un fenomeno storico o storiografico, un movimento di cultura, un’ideologia, un sistema logico con una sua metodologia, un codice stile? Si tratta di un fenomeno storico temporalmente circoscritto o di una linea di tendenza, di un approccio metodologico che guida ancora oggi la cultura del fare architettonico? A favore dell’interpretazione del Movimento Moderno come metodo si espressero Gropius, Le Corbusier, i CIAM e tutti i razionalisti europei mentre per una sua interpretazione in chiave di ‘codice stile’ si espressero fra i primi Hitchcock & Johnson nel 1932 con il libro dal titolo emblematico The International Style nel quale appunto il Movimento Moderno veniva letto in chiave di codice stile, uno stile moderno da affiancare a quelli del passato. Recentemente l’interpretazione di questa espressione si è notevolmente arricchita e complessificata, tanto che Portoghesi parla di due tipi di ‘modernismo’: “quello rigoroso e intransigente del Movimento Moderno” e quello “più sfumato e cordiale dello stile moderno”.


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messi a punto o maggiormente pubblicizzati in quegli anni. Se gli elementi di finitura esterni: l’alluminio, l’Anticorodal, le tesserine di Klinker, gli intonaci cementili policromi e premiscelati, i rivestimenti lapidei, costituiscono la consistenza materica sulla quale interrogarsi a livello di intervento sull’esistente, sono soprattutto i materiali di finitura interna: il Linoleum, il Buxus, la Lincustra, la Bachelite, nonché il vetro in tutte le sue più moderne e sofisticate varianti, a testimoniare il contenuto innovativo della ricerca architettonica. Spesso i materiali utilizzati erano gli stessi, profondamente differenti invece erano le intenzioni e le ragioni per le quali questi materiali venivano scelti ed utilizzati all’interno ed all’esterno degli edifici. Se per gli esterni si cercavano materiali “capaci di sfidare lo scorrere del tempo”, materiali “eterni” come spesso venivano definiti negli scritti dell’epoca, la vita dei materiali all’interno dell’abitazione era invece volutamente contrassegnata da un ruolo effimero, per far fronte alle mutate e incessantemente

mutevoli esigenze del vivere moderno. Enrico Griffini nel suo Dizionario dei nuovi materiali per l’edilizia ne elenca più di mille anche se la maggior parte risulta di provenienza straniera – spesso tedesca o americana – e molte delle proposte italiane risultano essere realizzate su concessione di brevetti internazionali. A questi materiali definiti “eterni”, “incorruttibili”, “razionali” era affidato il potere innovativo e quasi catartico dell’architettura di quegli anni; alla loro “drammatica incapacità di invecchiare” facevano appello i detrattori dell’architettura moderna per decretarne il definitivo fallimento, e c’è anche chi ha parlato di “tradimento dei materiali”. Non sarebbe irrilevante soffermarsi, infine, a considerare la possibilità che quel genitivo ‘dei’ anziché soggettivo non sia piuttosto oggettivo. Dai materiali di finitura esterna a quelli per interni fino ai componenti di arredo, denominatore comune era la natura artificiale, quasi che la materia elaborata dall’uomo fosse garanzia di perfezione e di durabilità.

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Non è casuale che la Torre di Mendelsohn a Potsdam, edificio in muratura, venga citata nella tradizione storiografica del Movimento Moderno come edificio in cemento armato o che la Casa Schröder a Utrecht, spesso presentata come una ‘icona’ dell’architettura in cemento armato, presenti gli elementi esterni di chiusura verticale intonacati ma con struttura metallica e tamponamento in laterizio. Forse nessuno stile – se alla parola stile vogliamo dare l’accezione di ‘interpretazione dello spirito di un’epoca’ è stato così chiaramente caratterizzato dall’uso di materiali e tecniche costruttive nuove, o perlomeno che come tali venivano narrate. Più che al ferro e al vetro – entrati ormai negli anni ’20 e ’30 nella pratica edilizia corrente anche se, almeno all’inizio, non sfruttati appieno nelle loro immense potenzialità per l’incapacità della cultura progettuale coeva di aderire sinceramente al linguaggio architettonico moderno – il riferimento è a tutto il repertorio di materiali di finitura


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in particolare di quelli di nuova produzione, a tradire il pensiero dell’architettura. Anche il tema della decorazione si può ricondurre, in un certo senso, alla questione dei materiali. Per quanto in quegli anni si fosse lottato per un’architettura basata esclusivamente su esigenze di tipo funzionale, il concetto di decorazione non è stato mai eliminato, al contrario è ricomparso di continuo, anche se sotto diverse spoglie. Non più come sovrastruttura aggiunta, ma come elemento sincronico e consustanziale all’atto progettuale. In altre parole è al materiale stesso cui, nella maggior parte dei casi, è stato affidato il compito decorativo; per questo motivo si sono ricercati materiali lucidi, specchianti che con la loro perfezione e nitidezza valorizzassero la geometria delle forme. È stato soprattutto nei rivestimenti interni realizzati sia con materiali pregiati come il marmo o i cristalli specchianti, sia con materiali poveri come il Linoleum, o la Lincustra che è stato celato sotto considerazioni di tipo igienico un intento decorativo, ottenuto molto spesso sfruttando

in questo senso le valenze cromatiche dei materiali naturali e i colori intensi puri decisi dei materiali artificiali. Un’ulteriore contraddizione non risolta si manifesta nel fatto che se da un lato la scelta è caduta su materiali poveri in obbedienza a un’istanza ideologico-sociale che prevedeva, anche attraverso il ricorso alla costruzione in serie, la possibilità di realizzazioni a basso costo e alla portata di tutti, gli oggetti e gli ambienti creati hanno avuto per committenti gli esponenti di una borghesia colta e progressista. Così quei materiali, nati poveri per un programma sociale, hanno finito per diventare – loro malgrado – materiali di lusso. Probabilmente queste contraddizioni sono scaturite dalla maggiore importanza attribuita all’aspetto ideologico rispetto al dato puramente tecnico. Al di là di questi condizionamenti, tuttavia, si può riconoscere nei tentativi e negli esperimenti di quegli anni un interesse notevole, da ricercarsi forse non tanto negli esiti formali quanto nelle ancora attuali e spesso insuperate indicazioni di tipo metodologico.

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Modernità, igiene, rapidità di messa in opera e di sostituzione erano invece i requisiti richiesti e proclamati per quei materiali “nuovi”, “lucidi” ed “asettici” pensati per un’abitazione che negli intenti dei progettisti dell’epoca doveva essere “semplice e rispecchiante attraverso la sua veste esterna lo spirito di necessità da cui è nata”. Da quanto sopraccennato appare evidente il ruolo quasi di ‘manifesto’ affidato ai materiali stessi. In particolare al loro uso spesso più analogicoevocativo che strettamente tecnico si possono ricondurre alcune delle contraddizioni che hanno caratterizzato la sperimentazione razionalista. In primo luogo il sogno dei costruttori si è rivelato un’utopia e il mito del materiale eterno non è stato realizzato in concreto. Se da un lato infatti l’estrema semplificazione e geometrizzazione delle forme ha richiesto come contropartita l’uso di materiali il cui requisito principale fosse quello della perfezione, dall’altro è stata proprio la rapida obsolescenza dei materiali, ed


Ph © Roberto Albano

24 — Interpretazione

Gruppo Rionale Fascista Giovanni Porcù del Nunzio La “bellezza essenziale” del Gruppo Rionale Fascista Porcù del Nunzio, dall’inserimento nel contesto alla limpidezza della pianta, all’armonia degli alzati, è con ogni evidenza il risultato di una elaborazione fondata sullo studio e sulla conoscenza profonda e profondamente introiettata della storia della città, rielaborata qui a partire dal tipo del palazzo piemontese (la configurazione della pianta, la pacata successione di androne, atrio, cortile, la posizione delle scale), evocata nell’impiego di elementi architettonici e costruttivi tradizionali (lo zoccolo, le cortine murarie laterizie faccia a vista, le cornici delle finestre, l’uso degli archi, la scelta della copertura a falde), assunta infine soprattutto nei

‘modi’ e resa quindi viva e operante nella capacità di rispondere in modo convincente alla soluzione di un problema concreto e specifico, legato alle condizioni del sito, al rapporto con la committenza, al rispetto delle condizioni produttive locali e di quelle imposte dal regime (dalle istanze celebrative ai condizionamenti della politica autarchica). La tipologia costruttiva dell’edificio è di tipo tradizionale: la struttura portante verticale è in muratura, quella degli orizzontamenti e della copertura in legno. Le quattro falde del tetto, originariamente ricoperte da lastre di Eternit, generano un particolare assetto ad impluvium di classicheggiante memoria.

Corso Giambone 2 – Torino Progetto Mario Passanti Paolo Perona Anno di progetto e di costruzione 1938 Impresa costruttrice Ing. Oreste Caldera (Direzione Tecnica Ufficio Costruzioni FIAT)


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Interpretazione — 25

Isolato Sant’Emanuele. Torre Littoria “Grattacielo con germoglio di grattacielo” tale appare la Torre Littoria, che domina con i suoi diciannove piani l’isolato Sant’Emanuele, ancora incontrastata. All’inizio degli anni ’30 l’isolato viene totalmente ricostruito nell’ambito dell’intervento di risanamento previsto per via Roma. I prospetti prospicienti la via e piazza Castello seguono l’impostazione stilistica di facciata dettata dal progetto generale, mentre la Torre e in particolar modo il corpo di fabbrica su via Viotti sono risolti – secondo i canoni dell’architettura moderna – a larghe fasce orizzontali avvolgenti. L’innovativa concezione tecnico-tipologica e le aggiornate scelte compositive, dalla chiara eco mendelsohniana, rivelano la perfetta

conoscenza del dibattito internazionale da parte dei progettisti. L’intervento costituisce uno dei primi esempi di architettura civile con struttura metallica in acciaio saldato. Visibile solo in corrispondenza delle scale, l’ossatura metallica è interamente occultata da un paramento esterno in lastre di travertino e mattonelle di litoceramica al quale si sovrappone la singolare soluzione d’angolo costituita dagli sporti in vetrocemento. La Torre, spesso liquidata frettolosamente dalla critica come imbarazzante “eredità del littorio” risulta oggi per i suoi caratteri come un’irrinunciabile testimonianza della cultura progettuale e costruttiva del Movimento Moderno.

Piazza Castello, via Roma, via Monte di Pietà, via Viotti – Torino Progetto Armando Melis De Villa Giovanni Bernocco Anni di costruzione 1933 – 1935 Impresa costruttrice Ing. Luigi Raineri


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26 — Interpretazione

Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso “... il Mercato di Torino nel suo insieme, ha uno splendore costruttivo che… non fa pensare ad un palazzo di Giustizia o all’abitazione di un governatore, ma ricorda immediatamente il suo scopo e la sua ragione d’essere…”. Con queste parole Fillia commenta su Natura il nuovo Mercato Ortofrutticolo di Umberto Cuzzi, ribadendo uno dei postulati dell’architettura razionale di matrice neofuturista, ovvero l’identità fra valore estetico e perfezione tecnica, spesso più facilmente individuabile nel campo delle costruzioni industriali e degli edifici di pubblica utilità che nell’edilizia civile di abitazione. Articolato compositivamente intorno ai segni forti della torre dell’orologio e dell’aeroplano

– elemento ricorrente nella poetica futurista – il complesso, realizzato interamente in cemento armato, si snoda in un sistema di gallerie parallele ad archi parabolici e shed verticali, nella ricerca di una sempre più stretta aderenza della spazialità architettonica alle necessità d’uso. Nell’ambito della costruzione torinese dell’epoca quest’opera assurge senz’altro ad un respiro internazionale soprattutto per l’ardita soluzione dei paraboloidi, sapiente rivisitazione della struttura del salone della Royal Horticultural Society di Londra ed ora amplificati dal grande arco di colore rosso che scavalca la passerella e si connotata come forte segnale di identificazione a scala urbana.

Via Giordano Bruno 181 – Torino Progetto Umberto Cuzzi Anni di costruzione 1931 – 1933 Impresa costruttrice Ing. Del Duca & Miccone


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Interpretazione — 27

Casa di via Vico Esempio di tipologia residenziale di prestigio, l’edificio – nel quale era prevista anche la residenza dell’architetto – appare disegnato fino al minimo dettaglio: dalle raffinate ringhiere dei balconi alla sofisticata concezione dell’ingresso poligonale e della fontana – che chiude come quinta prospettica la visuale sul cortile – fino alle pavimentazioni di alcuni alloggi. Se l’idea del disegno globale ha corrisposto talvolta per i razionalisti al desiderio di incidere sulle modalità abitative e di fornire, anche attraverso l’arredo, un possibile modello comportamentale, quest’istanza è del tutto estranea alla casa di via Vico e alla progettazione di Morelli più in generale che nei confronti del Movimento

Razionalista, dopo l’entusiastica adesione iniziale, ha sempre conservato un certo distacco critico. In questa rivisitazione del Razionalismo Morelli attua alcune – se pur contenutissime – concessioni alla decorazione: le teste di caprone in ceramica Lenci e le teste di leone in pietra artificiale (opere entrambe di Felice Tosalli) che, posizionate sui balconi più bassi e sul cornicione di coronamento, paiono scandire il ritmo geometrico della facciata, il cui andamento orizzontale risulta sottolineato anche dai colori contrastanti dei materiali di rivestimento: intonaco Terranova per la parte superiore e marmo Verde Roja con zoccolo Nero Vallone per il basamento inferiore.

Via Vico 8 – Torino Progetto Domenico Morelli Anni di costruzione 1929-1931 Impresa costruttrice Bianco – Torino Strutture in cemento armato ing. Negri di Sanfront Fabbro Torretta – Torino


Pansy Hillel, Villa Colli, Olio su tela, 2001

28 — Interpretazione

Villa Colli Tra gli edifici della provincia torinese Villa Colli merita un posto particolare per la singolarità del suo iter. Nata come residenza privata diventa ben presto edificio dimenticato – e dunque a rischio – e poi edificio pubblico, luogo di incontro e di scambi culturali. Costruita nel 1929 per la famiglia Colli, nel 1999 viene acquistata dai coniugi Chiono che – moderni mecenati – ne eseguono un accurato restauro filologico esteso al recupero dei colori originari, delle lampade e dei complicati meccanismi di movimentazione dei serramenti, di quasi tutto quindi, tranne che degli arredi in Buxus che, al momento dell’acquisto, non facevano più parte della villa. Nel 2004 viene aperta al pubblico con

la fondazione dell’associazione storicoculturale Extensa ratio e della Biblioteca di Architettura Moderna dedicata a Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini. Questo piccolo gioiello dell’architettura razionale costituisce una declinazione regionale del Movimento Moderno che, attraverso l’uso sapiente di forme e materiali tradizionali (impostazione classica della villa italiana con soggiorno centrale su cui si affaccia il ballatoio del piano superiore; ringhiere in legno e pavimento in pietra come nella tradizione contadina anche se rivisitate nei colori dell’arancio e del nero) riconnette le ricerche dell’avanguardia architettonica al genius loci e alle radici dell’architettura rurale.

Via Forno 3 – Rivara Canavese (To) Progetto Giuseppe Pagano Pogatschnig Gino Levi Montalcini Anni di costruzione 1928-1929


Interpretazione — 29

100 scatti inediti per 50 anni d’architettura Dal primo luglio a Torino una mostra in piazza sul Moderno e sulla sua contradditoria eredità

La mostra si inserisce nel filone del progetto Architetture Rivelate dell’Ordine degli Architetti di Torino e ne riprende il significato perseguendo un duplice scopo: da un lato diffondere la conoscenza del vasto patrimonio architettonico presente nella città, dall’altro innescare un dibattito sulla necessità della cura e della conservazione di queste opere. La selezione proposta intende soffermarsi sulla città di Torino che, insieme con Roma e Milano, è stata uno dei luoghi di incubazione e di diffusione del Razionalismo italiano, come prima tappa per un confronto successivo sulle declinazioni del Movimento Moderno, estesa in modo capillare sul territorio piemontese. La scelta di un ampio arco cronologico permette di rintracciare le origini della modernità, come stagione di pensiero fertile dal punto di vista della sperimentazione architettonica, ed esaminarne gli sviluppi dopo la seconda guerra mondiale, fino alla soglia della rivoluzione culturale degli anni ’60. Infatti molte elaborazioni progettuali del Ventennio trovano la loro realizzazione e la loro ragione costruttiva solo nel

secondo dopoguerra, periodo che, spesso letto come momento di decadenza formale e tipologica, contiene in realtà elementi di qualità e di buona pratica costruttiva. La campagna di documentazione fotografica, tutta realizzata ad hoc, vuole evidenziare gli aspetti inesplorati di queste architetture e il loro attuale stato di conservazione. La mostra in sintesi Sono raccontate cinquanta opere. Dal 1918 alla guerra: Lingotto, Palazzo della Vittoria, Villaggio Snia, Vespasiani, Uffici Gualino e SAET, Impianti sportivi, “Torri Rivella”, Case Bocca Comoglio, Casa del Balilla, Galileo Ferraris, MOI, Torre Littoria, Via Roma, Ufficio d’Igiene, Case Assicurazioni Torino, Casa Tabusso, Cinema Ideal, Gruppo rionale Maramotti, Torino Esposizioni. Del periodo compreso tra il dopoguerra e il 1968: Politecnico, Falchera, Borsa Valori, Bottega di Erasmo, Uffici RIV, Sipra e RAI, chiese SS. Redentore e S. Teresina, Uffici Tecnici, Casa Mastroianni, Palazzo del lavoro, Palazzetto dello sport, Palazzo Nuovo, Camera di commercio, Teatro Regio e alcuni edifici residenziali.

Iniziativa di Fondazione dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Torino con Do.Co.Mo.Mo. Italia - Sezione Piemonte in collaborazione con Politecnico di Torino Dipartimento Casa-Città Dipartimento di Ingegneria dei Sistemi Edilizi e Territoriali A Cura di Emilia Garda Guido Montanari fotografie di Roberto Albano patrocinio di Città di Torino sostegno di Zumaglini & Gallina S.p.A.


30 — Interpretazione

La cura del Moderno L’indagine delle intenzioni originarie dei progettisti e delle soluzioni tecniche. Il conflitto tra presente e passato nella salvaguardia del progetto Pier Giovanni Bardelli

Oggi, a più di mezzo secolo dalla conclusione di quel periodo così denso e ricco di spinte innovative e di contraddizioni che ha costituito la declinazione italiana del Movimento Moderno, ci troviamo di fronte a un cospicuo numero di interventi di restauro e di recupero sull’eredità materiale di questa stagione di pensiero tale da poter tentare un bilancio e una riflessione critica circa i criteri, i modi di progettare e i tipi di analisi che devono sostenere il progetto stesso. Molte delle difficoltà a intervenire non risultano solo legate alle scelte e al comportamento dei materiali – come l’enfasi data a questo tema dai protagonisti di quel periodo farebbe presupporre – ma spesso sono riconducibili a istanze, sempre progettuali, che riguardano l’impianto generale dell’edificio, soluzioni di tipo distributivo esasperate, conformazioni di manufatti e proposte di tipo compositivo che mal si adeguano alla conoscenza dei materiali e delle tecnologie del momento. Peraltro, questa stagione di pensiero è testimone di un fare architettura che

rimanda a tecniche e modi estremamente complessi e articolati. Alcuni oggetti appaiono ancora costruiti con stretti legami alla tradizione, altri contengono proposte per diversi aspetti innovative, anche se, nella maggior parte dei casi, sono caratterizzati da una forte commistione di tradizione e innovazione. In molti di questi edifici permane, anche se latente, un valore di altissimo artigianato, una notevole abilità manifatturiera, un’impronta di forte sapienza costruttiva. È spesso proprio questa compresenza, talvolta anche contraddittoria, di abilità costruttive tradizionali e di proposte innovative, a delineare una peculiarità del ‘nostro moderno’ rispetto ad altri contesti. È innegabile però una ‘fragilità intrinseca’ di questi edifici spesso inevitabilmente connessa al loro contenuto innovativo. Fragilità legata a proposte architettoniche non sempre comprese, fragilità legata a scelte tecnologiche raramente sperimentate e che ora, ma talvolta fin dall’origine, sono e sono state causa di degrado diffuso e precoce. Per questo tipo di architetture vittime,

forse più delle altre, di decadimento tecnologico e materico diventa fondamentale il riconoscimento dell’individualità del manufatto, del dettaglio, del materiale originario come mezzo ineludibile per ricomporre semanticamente l’oggetto o perlomeno la sua immagine. Diventa quindi fondamentale sul piano metodologico salvaguardare la sequenza ormai consolidata per gli edifici che seguono la tradizione – e che conduce dal rilievo dello stato di decadimento, attraverso la documentazione della patologia e al più vasto processo di anamnesi, alle proposte di terapia possibile, alla verifica dell’efficacia di questa su campioni, fino all’individuazione della terapia definitiva da tradurre in un vero e proprio progetto di intervento di terapia nel senso più ampio e quindi a una gestione susseguente – ricalibrata opportunamente per gli edifici propri del Moderno. Le istanze secondo le quali impostare i programmi di indagine a sostegno del progetto possono essere riconducibili a due categorie. Una prima riguarda essenzialmente la cultura del progetto, la formazione


dei progettisti, i modi e i metodi di progettare, le intenzioni e gli intendimenti originari, la conoscenza delle vicissitudini del cantiere e della storia dell’edificio. Una seconda riguarda la definizione delle prove e delle analisi finalizzate ad affrontare correttamente l’intervento sulle soluzioni tecniche in atto. Questa seconda istanza appare particolarmente delicata anche in considerazione del clima economico e politico che ha caratterizzato il periodo. In questo momento, infatti, sotto la spinta autarchica, sono comparsi una molteplicità di materiali e manufatti nuovi, materiali ‘sperimentali ma non sperimentati’ la cui prova in servizio spesso veniva demandata alla realizzazione vera e propria. Così, fra temerarie anticipazioni e inevitabili incertezze, gli edifici del Moderno diventano essi stessi esperimenti, ‘provini’ di un superiore laboratorio costituito dalla continua evoluzione delle sollecitazioni dell’ambiente e dalla inarrestabile mutazione del clima socio-culturale al contorno. Anche se già a partire dal 1937 si auspica l’istituzione di un centro studi che regolamenti la produzione edilizia, si dovrà aspettare fino al 1960 perché vengano avviate prove di tipo prestazionale, forse la più credibile alternativa alla “buona regola dell’arte” che viene tralasciata. Così questi edifici, concepiti con un ‘nuovo modo’ di fare architettura diventano oggetto di un ‘nuovo modo’ di concepire il restauro e le relative tecniche. Infatti, nei confronti di edifici piuttosto recenti, ma più in generale per gli edifici dell’architettura moderna, i nostri interventi sia di restauro, che di manutenzione o di riparazione si situano – almeno per taluni aspetti – in modo differente che non rispetto all’edificio antico e molte volte entrano a far parte di una certa continuità di vita dell’edificio stesso. Nell’edificio antico può essere facilmente intuita la grande e variegata avventura percorsa nel tempo e questa dimensione può divenire un momento di estremo fascino: ciò nonostante non sempre è facile concepire la nostra presenza, la nostra opera, solo come una delle tante fasi della storia dell’edificio, storia che necessariamente e inevitabilmente continuerà oltre a noi.

Ph © Augusto Pedrini

Interpretazione — 31


Ph © C. Ostorero

32 — Interpretazione

Si rischia facilmente di sentirsi protagonisti e di intervenire come tali, e non semplicemente considerarsi al servizio dell’opera architettonica nella sua storia. Quando ci troviamo ad operare sull’edificio moderno e ancor più quando ci troviamo ad operare sull’edifico recente, a mio avviso, e per fortuna, è forse più immediata la percezione di una permanenza di atti, di una continuità di azioni facenti parte della vita dell’edificio e che operano per conservare lo stesso ai posteri. Certamente in questi casi è più facile ritrovarsi nello spirito della cura permanente che non del restauro vero e proprio che trova un compimento in sé. In particolare poi per l’edificio antico, qualora per ipotesi si avesse l’opportunità di conoscere il progetto originale esecutivo, cosa quasi sempre da escludere, rimangono comunque poco note le scelte finali, il cantiere e il momento costruttivo e, al più, questi possono essere ipotizzati in base alla conoscenza dei magisteri storici e agli appunti dei costruttori, in base a situazioni analoghe tramandateci dalla storia e molte volte solo attraverso l’iconografia, anche questa frequentemente stereotipata. Dunque per l’edificio storico diviene oltremodo affascinante l’apertura del cantiere di restauro quale fonte di nuove scoperte, che può suscitare molte volte curiosità quasi da archeologo. Ed anzi, è principalmente dall’apertura di un cantiere sull’edificio storico che si può ipotizzare di ricostruire e documentare quelle che sono state le scelte progettuali e costruttive nella storia dell’edificio. Per il Moderno e per il recente invece, spesso è ancora viva la memoria del momento costruttivo e allora il cantiere di restauro può assumere un’importanza differente anche se sempre estremamente affascinante. In molti casi può esistere una gran messe di documentazione d’archivio anche delle fasi esecutive e costruttive, dall’apparenza estremamente rigorosa ma spesso ingannevole. Ed allora chi deve intervenire si trova sconcertato, privo di documentazione circa le modalità costruttive e circa i dettagli specifici e senza poter far riferimento a modi consolidati così


Ph © C. Ostorero

Interpretazione — 33

come avviene per l’edilizia storica. Diviene dunque ancora più importante un’indagine approfondita preliminare oltre che sugli archivi progettuali, sui capitolati, sui documenti della contabilità dei lavori, i cosiddetti ‘libretti di cantiere’ e sulle note di cantiere. Purtroppo molte volte, specialmente per il Moderno, rimane trascurata l’abitudine all’indispensabile ‘anamnesi’ anche per edifici che spesso rientrano nelle nostre conoscenze quotidiane e dei quali in effetti si riuscirebbe a conoscere molto. Nello specifico del restauro del Moderno però restano ancora aperti molti problemi interpretativi. Ci si chiede se in questi edifici sia corretto ricostruire l’oggetto originario nella sua individualità ricalcandone il progetto, ripristinando i manufatti, conservando le scelte iniziali anche se non soddisfacenti; oppure ci si può chiedere se sia più

corretto individuare l’iter e la metodologia progettuale originari e ripercorrerli o riapplicarli introducendo nuove soluzioni tecniche; oppure ancora se la via giusta sia riscoprire gli intendimenti, i valori di proposta, di innovazione, di modello, di simbolo e riproporli adottando soluzioni tecniche iniziali o introducendone di nuove correttamente sperimentate. Ci si chiede ancora se sia lecita l’operazione, a cui talvolta si è assistito, che prevede di definire nuove scelte progettuali e costruttive per ‘riottenere’ un originale, un equivalente dell’originale, che però abbia caratteristiche accertate di durabilità, di manutenibilità, in modo da essere conservabile e trasmissibile al futuro. È certo, peraltro, che l’esperienza porta a constatare che il progetto più coinvolgente, quello che evoca maggiori responsabilità culturali, per molti aspetti il più difficile da accettare ma che spesso

è l’unico che possa salvaguardare l’edificio, è proprio il progetto che prevede l’intervento globale, che coinvolge gli spazi interni, gli impianti, l’arredo fisso, le opere di finitura per adattarli a nuove funzioni, che coinvolge anche scelte circa materiali e prodotti ed in ultima analisi il restauro completo che viene così situandosi all’interno di una rivisitazione responsabile dell’edificio nella sua interezza e nella sua propria individualità architettonica. È proprio in questo tipo di operazione che si misura la capacità di salvaguardare comunque i valori del progetto primitivo e dell’oggetto costruito. Intervenire significa accettare il rischio dell’errore, nella convinzione però che dalla storia del fare, anche, al limite, dalla storia degli errori, purché criticamente rivisitati, può discendere un accrescimento della preparazione culturale e tecnica nostra e di quelli che ci seguiranno.


Conosco, quindi mi regolo

(Re)Azione Le regole esprimono i limiti individuali entro i quali è considerato corretto un comportamento. Quando non è possibile prescindere dalla regola che aiuta a convivere e a comprendere e quando la regola è invece un bluff, se non addirittura un delitto di Stato

Massimo Persotti

Pena di morte non è un sostantivo femminile Storie di chi lotta perché i diritti universali siano universalmente rispettati


Alex Zanardi

Anche il coraggio ha le sue regole Disciplina, calcolo e riti scaramantici sono tra gli ingredienti necessari per vincere

Norma Rangeri

Quando la realtà è ingabbiata Niente è più reale della finzione. Cosa trasmette la tv

ComitatoQuartiereVanchiglia

Lu.Po. La Ludoteca Popolare C’era una volta e c’è ancora un lupo buono. E non è una favola

Un’illuminazione Quando le regole aiutano a ritrovare la felicità

Ph © Mauro Guglielminotti - Favelas intorno a Bogotà, barrio la Cristalina, Colombia

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36 — (Re)Azione

Pena di morte non è un sostantivo femminile In quasi 100 Paesi è stata abolita. Ma dietro questo successo si nasconde la battaglia quotidiana di donne (e uomini) Massimo Persotti

Nell’isola di Taiwan la pena di morte non veniva applicata dal 2005. Fino allo scorso 30 aprile. Poche settimane prima, il Ministro della giustizia, la signora Wang Ching-feng, aveva dato le dimissioni non sopportando l’idea che uno dei 44 detenuti nel braccio della morte potesse essere ucciso. “Tutti cercano di spingermi a eseguire delle condanne a morte – aveva dichiarato – ma io semplicemente non posso. La migliore scelta per me è lasciare”. Il 30 aprile il boia si è rimesso in moto e quattro persone sono state messe a morte. Un’altra isola, poco distante da Taiwan, il Giappone, vede alla guida del Ministero della giustizia un’altra donna. Si chiama Keiko Chiba, è contraria alla pena di morte, è una storica sostenitrice di Amnesty International. In Giappone, una cortina di segretezza avvolge ogni esecuzione, neppure i familiari conoscono il destino del condannato e lo stesso prigioniero viene informato solo poche ore prima l’esecuzione. Chiba, in carica da pochi mesi, ha le idee chiare: “È necessario che tutti siano d’accordo sulla scelta

da fare, altrimenti non solo il sistema della giustizia, ma anche il governo non godrà più di credibilità. Il percorso è impervio, ma se si continua a ragionare in questo modo senza riflettere sul significato della pena di morte, le cose non cambieranno. È necessario riaprire attivamente il dialogo con la popolazione e creare vivaci dibattiti pubblici sul tema per sensibilizzare tutti su questo argomento”.

Non è un concetto astratto, la sua applicazione implica l'uccisione di un essere umano; è un problema etico Due donne, entrambe contrarie alla pena di morte, in due Paesi orientali, dove alto resta il favore dell’opinione pubblica verso la pena capitale. Una ha deciso di mollare pur di non mettere la sua firma sulle condanne a morte, l’altra è convinta tenacemente di riuscire a fermare il boia. Due donne coraggiose che testimoniano comunque il duro e impervio percorso che attende chi si oppone

alla pena di morte. La storia dell’abolizionismo nei tanti Paesi che nel corso di questi anni hanno abbandonato la pena capitale è segnata da uomini e donne come Ching-feng e Chiba. Oggi, la tendenza in tutto il mondo è verso l’abolizione della pena di morte. Pensare ad un mondo senza la pena capitale non è più un’utopia. Sono 95 i Paesi che l’hanno abbandonata e ci stiamo avvicinando ad un numero importante: non manca molto quando saranno 100 i Paesi che rifiutano l’uso di un pratica così crudele e disumana. Nel 2009, per la prima volta nel corso della storia moderna, nell’intera Europa e in tutti gli Stati dell’ex Unione Sovietica non sono state registrate esecuzioni. Una terza risoluzione per una moratoria sulle esecuzioni sarà discussa presso le Nazioni Unite alla fine del 2010, dopo che le due precedenti hanno ottenuto una larga maggioranza di voti a favore. Quando però nel 1977 Amnesty International organizzò la prima Conferenza mondiale sulla pena di morte, a Stoccolma, erano solo sedici i Paesi che


avevano abolito la pena capitale. Allora, combattere l’uso prevalente della condanna a morte ed una prassi consolidata rappresentava realmente una sfida, un atto rivoluzionario. Soprattutto per chi, come Amnesty, sostiene che i diritti umani valgono per i colpevoli come per gli innocenti. E opporsi alla pena di morte è una scelta incondizionata a prescindere dalla colpevolezza o meno di una persona. La storia ha demolito una serie di luoghi comuni: la pena di morte non è un deterrente, non riduce i reati, non rende più sicure le società, non è efficace nella lotta contro il terrorismo. Mentre è certo che la pena di morte rappresenti la più grave delle violazioni dei diritti umani perché toglie la vita, è discriminatoria perché colpisce soprattutto poveri o membri di minoranze (etniche, razziali e religiose), è irreversibile perché il rischio di mettere a morte un innocente è sempre molto elevato. È sempre sbagliata, inaccettabile, inutile. Eppure, mantengono in vigore la pena capitale ancora 58 Paesi e in diciotto nel 2009 sono state eseguite condanne a morte. In Cina, dove la pena capitale è prevista per circa 68 reati, non è dato di sapere quante esecuzioni avvengono e per protesta Amnesty International ha deciso quest’anno di non rendere pubblici gli scarsi dati in suo possesso. La pena di morte non si ferma neppure di fronte ai malati mentali e ai minorenni. Non è un concetto astratto, la sua applicazione implica l’uccisione di un essere umano, è un problema concreto per tante donne e uomini che ogni anno vengono uccisi Le loro storie sono l’obiettivo principale del lavoro quotidiano di Amnesty International, i loro casi diventano motivo di mobilitazione di migliaia e migliaia di soci e sostenitori in tutto il mondo. Quando nel 1989, l’organizzazione lanciò la sua prima campagna mondiale contro la pena di morte, venne pubblicato il rapporto Quando lo Stato uccide... la cui prima riga recitava: “È giunto il momento di abolire la pena di morte a livello mondiale”. A distanza di oltre vent’anni, quell’impegno resta il punto fermo dell’azione di Amnesty International. Oggi, però, a differenza di allora, quell’obiettivo sembra sempre più concreto.

© Amnesty International

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38 — (Re)Azione

Anche il coraggio ha le sue regole Intervista al pilota Alex Zanardi di Liana Pastorin

DOMANDA Lo sport può essere visto come regola, come insegnamento per imparare a gestire con metodo situazioni anche inaspettate. In certi sport, come l’automobilismo, è però particolarmente importante il coraggio; ma può il coraggio essere tale senza seguire le regole o rischia di essere solo azzardo? RISPOSTA Nel mio mondo sportivo coraggio e regola hanno un forte legame, che si sintetizza nel concetto per cui “per arrivare lontano bisogna nutrire delle ambizioni da pilotare con la passione”; questo è l’unico metodo che conosco per arrivare a destinazione. Certo è una strada in salita, che può però essere agevolata dall’osservazione del percorso che altri hanno fatto prima, e i comportamenti danno molte indicazioni utili, sono buoni consigli. Il coraggio subentra nel momento in cui – date per imparate le regole – si vogliono affrontare difficoltà che altri non hanno provato, come, per esempio, provare un sorpasso mai osato in una determinata curva: con il ragionamento e il calcolo si valuta la situazione e con

coraggio si prova, e, sovente, si riesce. C’è stato un tempo in cui si credeva che quello dei piloti fosse un mestiere da ‘uomini veri’, avventurieri della strada che si nutrivano di velocità e bella vita, magari anche un po’ dissoluta. Il mestiere del pilota, al contrario, è fatto di disciplina (anche alimentare), esperienza, capacità di leggere l’avversario e di prevederne le mosse. Coraggio e improvvisazione da soli non bastano. D Nelle regole della vita e dello sport trovano spazio anche dei riti scaramantici, delle manie, dei gesti ripetitivi. Quali sono quelli di Zanardi? R Ho i miei riti scaramantici anche se non sono un superstizioso. Un’azione meticolosa, quasi un rito maniacale, da vero rompiscatole, la riservo alla preparazione della vettura che tendo a modificare fino all’attimo prima dell’entrata in gara, per far conciliare al meglio tutti gli aspetti che intervengono nel corso della competizione, dalla variazione di peso dell’auto dovuta alla quantità di carburante nel serbatoio alle diverse prestazioni della vettura. Non ho riti palesemente tali, ‘aggiusta-

menti’ alla Valentino Rossi, per intenderci, ma seguo comunque uno specifico rituale nell’indossare i guanti: prima infilo ma solo parzialmente il destro, poi infilo il sinistro e per ultimo completamente il destro. Anche la salita sulla macchina monoposto è sempre da un lato, il sinistro. D L’incidente del 2001 sul circuito Lausitzring in Germania ha scompaginato le carte della sua vita. Quali regole ha dovuto imporre agli altri per poter ricominciare a vivere e a lavorare in condizioni adeguate? R Ancora in ospedale a Berlino, dove mi hanno salvato la vita e dove ho subito l’amputazione di entrambi gli arti inferiori sopra il ginocchio, cercavo di immaginarmi come sarebbe stata la mia quotidianità e cominciavo ad assicurarmi alcuni dispositivi che ritenevo necessari nella mia abitazione e nell’auto. Sebbene la mia casa abbia ambienti sufficientemente ampi da non aver richiesto interventi di adeguamento, all’inizio alcune manovre con la sedia a rotelle non erano semplici. Molto presto però le mie braccia si sono rinforzate e saltare dalla sedia a rotelle al water


Ph © www.alex-zanardi.com

(Re)Azione — 39

oggi riesco a farlo con un braccio solo. L’ambiente auto è stato più complicato da adattare al mio nuovo stato. Per legge i pedali di un’auto su strada non possono essere azionati da chi è portatore di protesi, così, quando mi fu chiesto di guidare un’auto, chiesi che fosse tutta azionabile con le dita (dal freno alla frizione, al tergicristalli), ma sarei stato costretto a guidare tenendo il volante con il solo palmo della mano. Insomma, mi mancava uno spolverino in bocca e avrei tolto anche la polvere dal cruscotto… Non poteva funzionare. L’unica alternativa era ‘infrangere’ la regola e dimostrare che anche con la protesi ero in condizione di applicare una pressione sufficiente (70-100 kg di carico) e azionare in sicurezza e con successo il pedale del freno. Ne ho dato prova ad un tecnico usando una bilancia pesa persone appoggiata a un

muro sulla quale ho spinto la protesi come per frenare. Anche la Federazione internazionale ha potuto verificare e si è convinta. D Un successo personale che porterà beneficio anche ad altre persone… R Il mio ottimismo ma anche le opportunità che ho avuto mi hanno consentito di cambiare le regole, ma non è così semplice. Innanzitutto il numero di potenziali piloti disabili che vogliono guidare è comunque nettamente inferiore rispetto a persone ‘comuni’. Inoltre ogni caso è particolare per cui non si possono adottare misure generalizzabili. Prevedo tempi molto lunghi per le auto su strada. Vero è che la legge può sembrare a volte insensata. Un esempio: oggi a un disabile non è permesso per legge guidare un auto con rimorchio perché non lo si considera abile a staccare il rimorchio dall’auto in caso di necessità; cosa che

so fare benissimo, ma, nonostante ciò, non posso portare la mia moto a quattro ruote sul carrello dell’auto. D Che cosa è stato accorgersi che edifici pubblici e molti luoghi della città sono inaccessibili ai disabili? R Le barriere architettoniche mi rallentano ma non mi fermano. Inoltre non sono di quelli che si infuriano perché non c’è la rampa davanti alla chiesa antica che vorrei visitare. Anzi, penso che la rampa rovinerebbe l’armonia, la bellezza dell’architettura, per cui preferisco l’aiuto di qualche amico corpulento. Purtroppo molte strutture anche di recente realizzazione sono figlie dell’ignoranza: come è possibile che il progettista non abbia pensato ad integrare nel suo disegno un montascala o una rampa, rendendola esteticamente gradevole? Eppure questo è un Paese per vecchi e siamo tutti potenziali disabili…


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Quando la realtà è ingabbiata Intervista a Norma Rangeri di Raffaella Bucci

DOMANDA Che cosa rappresentava la televisione per lei bambina e per i suoi famigliari: cultura, modernità, informazione? E allora, univa o frantumava il nucleo famigliare? RISPOSTA Un tempo la televisione guidava la vita famigliare: le regole della televisione scandivano gli appuntamenti della famiglia che la sera si riuniva per una visione collettiva. A questa si affiancava una visione pedagogica attraverso la Tv dei ragazzi, che costituiva uno strumento, per i più giovani, per avvicinarsi a nuovi mondi e realtà sconosciute. Attualmente il rapporto tra palinsesto televisivo e tempi della vita esterna è capovolto: non è più la televisione a dettare tempi e regole della sua fruizione, ma sono lo spettatore e gli appuntamenti esterni che guidano la formazione del palinsesto. La televisione era prodotta da intellettuali e aveva una forte impronta culturale. Si può discutere sui suoi contenuti, sul livello di creatività o conformismo, ma è indubbio il ruolo di agenzia culturale: un’agenzia che si è affiancata e talvolta anche sostituita alla scuola. Quando infatti si è diffusa nelle

case italiane, la popolazione, a differenza che in altri Paesi, era quasi analfabeta; questo le ha permesso di diventare il principale strumento di informazione, riducendo l’interesse nei confronti della lettura ed è tra le ragioni che hanno portato ad una scarsa diffusione dei giornali in Italia. D Lei è stata per molti anni critica televisiva de Il Manifesto. Quante ore dedicava nella sua giornata-tipo alla televisione? Ci sono danni collaterali dovuti all’eccessiva ‘esposizione’ ai programmi televisivi e si può quindi parlare di ‘malattia lavorativa’? R Fino a pochi mesi fa, prima di diventare direttore de Il Manifesto, guardavo la televisione fino a sei ore al giorno. Stare così tante ore davanti allo schermo significa chiudersi in una dimensione, ma anche essere nel presente, nella realtà che viene vista da tutti e che influenza tutto il Paese. Tuttavia, se da un lato la televisione è ipertrofica, dall’altro lato è asfittica, con scarsa libertà e creatività e decisamente poco pluralista. Chiudendosi nel mondo televisivo si perde tutto ciò che dalla televisione è escluso, che è interessante quanto ciò che ne è incluso.

D Il programma televisivo che tutti dovrebbero vedere? R La più grande sorpresa degli ultimi anni sono le nuove serie americane come Dottor House, Ally McBill, Sex and the City, oltre a tutte le serie militari. Questa narrativa offre un vero e proprio spaccato sulla società statunitense, oltre ad essere un prodotto di alta qualità. D Al giorno d’oggi l’idea dell’isola sperduta nell’immaginario collettivo rimanda all’Isola dei famosi piuttosto che a Robinson Crusoe. Come si concilia un format televisivo (che ha delle regole) con il tema dell’isola deserta (e quindi senza regole) e con la gestualità della vita quotidiana in una casa come quella del Grande Fratello? R Nei reality, le regole del format televisivo si impongono su quelle della vita spontanea extra televisiva; vi si può toccare con mano la finzione degli orari, dei vestiti e delle relazioni che si instaurano in essi. I partecipanti sono personaggi scelti attraverso un casting, che è una componente fondamentale del format. La location varia, in alcuni casi è in un luogo chiuso o all’aperto, per dare un’impressione di


Ph © Roberto Albano

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cambiamento e varietà, che è anch’essa una finzione. I reality sono solo una vetrina dove nulla è spontaneo, né la vita quotidiana della casa del Grande Fratello, né tantomeno la vita avventurosa de L’isola dei famosi. Un esempio dell’importanza che hanno i tempi televisivi nell’organizzazione della vita dei reality è evidente nell’assenza di libri nella casa del Grande Fratello: un’assenza che non è solo una dimenticanza, ma è intenzionale, per non correre il rischio di annoiare i telespettatori imponendo i ritmi della lettura incompatibili con quelli della fruizione televisiva. D Molti programmi televisivi (e non fa differenza l’argomento trattato: dalla politica allo sport, ecc.) mostrano solo il lato polemico – quando non quello aggressivo e volga-

re – senza lasciar spazio alla riflessione e alla discussione costruttiva. Quali regole imporrebbe se avesse il potere di farlo? R I talk show sono costruiti per creare rissa e attriti. I dibattiti, da quelli che accompagnano i reality a quelli politici, mirano a creare l’urlo e il litigio in modo da aumentare l’audience, giungendo anche a veri e propri scontri fisici. Questo tuttavia cancella il confronto e il talk show perde credibilità proprio perché non riesce a superare la ‘barriera’. Diverso è il caso di format televisivi che si basano sull’inchiesta, come nel caso di Anno Zero, Report e dei programmi di Riccardo Iacona, dove il principio dello scontro riesce a essere accantonato. Il talk show potrebbe avere la capacità di ridurre la

difficoltà di un programma-inchiesta, rendendolo appetibile per un pubblico più ampio, affiancando alla parte informativa la componente del commento; si potrebbe fornire un servizio a 360° allo spettatore, senza ricadere nello scontro frontale. Tuttavia la politica detta le regole, imponendo il principio della par condicio: il talk show risulta ingabbiato nella necessità di garantire uguale visibilità alle forze politiche, vincolando la scelta dei relatori che spesso non sono coloro che conoscono il tema che sono chiamati ad approfondire, ma piuttosto quelli che rappresentano la ‘giusta’ parte politica. La televisione costruisce lo scontro dunque, specchiando dinamiche che si ripetono in modo analogo in contesti diversi.


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Lu.Po. La ludoteca popolare Un’oasi autogestita da cui sono escluse relazioni di compravendita e gerarchie; uno spazio legittimo anche se per molti illegale ComitatoQuartiereVanchiglia

Una grande sala colorata. Così si presenta allo sguardo lo spazio che, dentro il centro sociale occupato e autogestito Askatasuna, a Torino, viene chiamato Lu.Po. Un nome un po’ insolito per un posto dedicato ai bambini. Lu.Po. sta per ‘Ludoteca Popolare’, abbreviazione che ha trovato subito grande consenso da parte di tutti gli attivissimi, giovani e meno giovani, che da circa due anni animano il ComitatoQuartiereVanchiglia. Il lupo è universalmente noto come il cattivo, l’antagonista di tutte le storie, l’intralcio al lieto fine, il nome è quindi un biglietto da visita calzante per un luogo, e un progetto, che vuole provare a immaginare un mondo alla rovescia, dove i piccoli sono giganti, gli orchi sono principi e le streghe bellissime principesse che fanno lavare i piatti ai loro mariti. Il progetto Lu.Po. – ci spiega Franca – nasce dal basso e si concretizza attorno alle esigenze di bambini e genitori del quartiere. In particolare, tenta di stimolare la partecipazione di genitori e bambini non come ‘fruitori’ o ‘utenti’ di servizi, ma come

inventori di contenuti, di forme dello ‘stare insieme’. Perché questo sia possibile – aggiunge Franca – è necessario escludere ogni logica commerciale, bandire l’idea del ‘pago e pretendo’ e mettersi in gioco in prima persona, per inventare mondi, per entrare in contatto con gli altri, per capire anche un po’ di più di sé stessi. È una sfida che invita a non accontentarsi di un’attività ludica o educativa preparata e confezionata da altri, a non assecondare l’automatismo di delegare ad altri quanto possiamo pensare e fare in prima persona. È anche questo un modo per sfuggire dai modelli di consumo acritico, che traggono proprio da questo automatismo il loro nutrimento. Lu.Po. – conclude Franca – va oltre lo spazio fisico della ludoteca nel centro sociale e prova ad infilarsi per le vie del quartiere, per farle vivere e caricarle di memoria, per tessere le reti di relazioni che rendono sicure le città, per stimolare adulti e bambini a svolgere un ruolo attivo nella creazione di un percorso di crescita condiviso.

Il Lu.Po. quindi ci ricorda la necessità di abbandonare gli schemi mentali che ci sono stati presentati come funzionali ad un ipotetico ‘benessere’; ci invita a cambiare prospettiva e svelare la nudità del re: siamo tristi e soli perché costretti a inseguire continuamente i mezzi che, ci hanno fatto credere, servono per comperare anche la felicità. E spesso funziona. Sandro ci racconta, ad esempio, la bella esperienza Lu.Po., che si ripeterà anche quest’anno, che ha visto i genitori organizzare attività e giochi per occuparsi dei figli in prima persona nella lunga vacanza estiva. Seguendo il modello della banca del tempo, ciascun genitore propone a turno un’attività a tutti i bambini del gruppo; in questo modo, poche ore di impegno settimanale da parte di ciascun adulto si traducono per i bimbi in assistenza e gioco per tutte le giornate della settimana. È faticoso – conclude Sandro – ma i bambini si rendono conto che in questo modo ci stiamo veramente prendendo cura di loro e questa grande gratificazione ci ripaga completamente.


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Lu.Po. è però solo uno dei molti progetti portati avanti dal ComitatoQuartiereVanchiglia, un gruppo trasversale per età ed estrazione sociale composto da persone che si sentono estranee alle logiche dominanti nella società attuale, e che si riconoscono invece in un’altra società in cui le relazioni non siano solo di compravendita, ma anche di conoscenza, scambio di esperienze, solidarietà ed autogestione. Un gruppo che nasce per ‘resistere alla crisi’ economica, ma anche, e maggiormente, sociale, culturale e politica, e coltiva una ‘resistenza’ che si concretizza attraverso vari progetti ed iniziative. Oltre a Lu.Po. citiamo il G.A.P. acronimo di Gruppo di Acquisto Popolare, ma giocato anche sul riferimento ai Gruppi di Azione Partigiana. Il gruppo di acquisto punta a contenere i costi per le famiglie e a stimolare l’attenzione verso la qualità dei prodotti, intesa anche come sostenibilità in termini sociali ed ambientali. Ci sono poi il progetto Ars-Ka, che porta nel quartiere iniziative di arte contemporanea e il periodico informativo gratuito DiZona, che propone con cadenza circa

bimestrale una visione alternativa su vari argomenti di interesse per il quartiere. Il tutto punteggiato da ‘eventi’, corsi e attività gratuite organizzati dal comitato nel suo insieme o da persone che, nel quartiere, dispongono di competenze che desiderano condividere. Tutto questo in uno spazio che alcuni non esitano a definire illegale. Ma la scelta non è casuale per un gruppo che opera, e vuole continuare ad operare, con modalità di decisione orizzontale in un consesso tra pari e che guarda con occhio molto critico ad un sistema di ‘regole’ che troppo spesso pare funzionale agli interessi di pochi e lascia invece abbandonati i più deboli. Le ‘regole’ imporrebbero al comitato la costituzione formale di un’associazione, con la conseguente necessità di individuare al suo interno delle ‘cariche’ a rappresentanza del gruppo stesso, che svuoterebbero di senso l’orizzontalità organizzativa; inoltre, si subirebbe una ‘burocratizzazione’ insostenibile per il gruppo. Questa scelta ha come conseguenza principale il fatto che ognuno

deve assumersi direttamente la responsabilità di quanto, nel bene e nel male, potrà accadergli in seguito alla sua presenza nel centro (un po’ come avviene, per esempio, se si decide di fare una gita in montagna...). La motivazione prima e più profonda della scelta di operare in uno spazio ‘irregolare’ è stata tuttavia quella di soddisfare l’esigenza, molto sentita tra gli attivi del comitato, di sottolineare attraverso le proprie azioni la sostanziale differenza che può esistere tra ‘legittimità’ e ‘legalità’. Un modo per sottrarsi in modo visibile ad un sistema normativo che ora contiene, ad esempio, l’avallo legale alla segnalazione di una persona che chiede aiuto in un pronto soccorso. Una protesta che si esplica con azioni volte a stimolare la riflessione, il confronto, l’attivismo sociale, la costruzione dal basso di una società basata su regole condivise, in opposizione alle regole del profitto che, a livello globale, dominano la nostra attuale società. www.comitatoquartierevanchiglia.net





Roundabout

Abitare. Un viaggio nelle case degli altri.

La memoria emotiva

a cura di Giulio Mozzi e Clementina S. Ammendola

Architettura e modernità. Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica

Terre di mezzo Editore, Stili di vita, 2009 pp. 260 | € 14.00 ISBN 9788861891104

Carocci Editore, Frecce, 2010 pp. 468 | € 43.70 ISBN 9788843051649

Sperling & Kupfer, 2006 pp. 192 | € 15,00 ISBN 978882004063

Pentolini che risvegliano ricordi d’infanzia, cassettoni enormi in cui ci si nascondeva da piccoli, pattine che non ci si può togliere neanche da seduti: la casa è il luogo della memoria e delle piccole ossessioni quotidiane, di fantasie e storie quasi epiche di conquista. Queste pagine raccolgono le ‘poco ortodosse’ riflessioni sul vivere urbano nate da un laboratorio di scrittura dedicato a persone in condizioni di disagio psichico della cooperativa sociale Progetto Muret di Torino. I partecipanti al laboratorio hanno intervistato famiglie, amici coabitanti, studenti, coppie e persone che per lavoro entrano nelle case altrui. Si sono intrufolati per qualche ora nei territori dell’intimità e dell’abitudine, luoghi da cui lo sguardo dell’osservatore è di solito tenuto a distanza.

Il passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione ha portato con sé profonde trasformazioni, anche per quanto riguarda l’architettura e il modo di lavorare degli architetti. La presenza sempre più massiccia dell’informatica e l’affermazione di nuovi modi di produzione rendono necessari un profondo ripensamento e nuovi tipi di approccio che diano conto di questi cambiamenti, attraverso l’esplorazione di un’idea di architettura basata sulla soggettività, la comunicazione, la complessità. Sottolineando i momenti di crisi e i catalizzatori di questo processo e mettendo a fuoco gli sforzi della ricerca architettonica e dei suoi protagonisti per affrontare i continui mutamenti dell’ultimo secolo, il libro illustra le tappe fondamentali del lungo percorso dal Bauhaus alla rivoluzione informatica.

Quante volte abbiamo tentato invano di ricordare un numero di telefono, il nome di un libro o di una persona, una data! E ci siamo arresi, dicendo: "Se solo avessimo più memoria!". La realtà è che sfruttiamo troppo poco e male quella che abbiamo. Gianni Golfera, famosissimo mnemonista, ci spiega i segreti della sua prodigiosa memoria: la prima regola è abbinare un’emozione a un dato da memorizzare, essa si imprimerà nella nostra mente e il grosso del lavoro sarà già svolto: basterà poi organizzare in tanti contenitori ben ordinati le cartellette con i dati, e il nostro cervello sarà pronto a richiamare le informazioni quando ne avremo bisogno. Si tratta di metodi antichissimi che Golfera semplifica e attualizza, regalandoci il segreto di una vita migliore e più intensa: quella di chi ricorda senza problemi tutto quello di cui ha bisogno.

Giulio Mozzi ha pubblicato alcuni libri di racconti (il più recente: Sono l’ultimo a scendere e altre storie credibili, Mondadori, 2009). Con Giuseppe Caliceti ha curato per Einaudi due inchieste sull’adolescenza. Nel 2009 ha pubblicato per Terre di mezzo (non) Un corso di scrittura e narrazione. Dal 2000 pubblica il bollettino di letture e scritture vibrisse. Clementina Sandra Ammendola, sociologa, lavora come educatrice psichiatrica. Ha scritto alcuni saggi, tra i quali: L’allievo di origine argentina (Progetto Alias, 2003), Immigrazione di ritorno e percorsi di cittadinanza in Borderlines (Iannone, 2003) e il libro Lei, che sono io/Ella, que soy yo (Sinnos, 2005).

di Gianni Golfera

di Antonino Saggio

Antonino Saggio, architetto, insegna Progettazione architettonica e urbana alla Facoltà di Architettura L. Quaroni di Roma La Sapienza. Ha fondato nel 1998 la collana internazionale La Rivoluzione Informatica in Architettura, ha curato la serie monografica Gli Architetti per Marsilio. Si è interessato alla diffusione di progetti di co-housing e del concetto di ‘case basse ad alta densità’ nella città costruita.

Gianni Golfera è l’ideatore del metodo Gigotec (Gianni Golfera Techniques) per memorizzare ogni informazione in maniera rapida e stabile. Tiene corsi presso università, aziende e gruppi manageriali in Italia e all’estero. Per la sua prodigiosa memoria, da anni è costantemente contattato e intervistato dai più importanti media internazionali.


Pubbliredazionale

Continuare la storia nel cuore di Torino Recupero dell’isolato San Liborio: conservazione e innovazione

All’interno del perimetro del Quadrilatero romano di Torino, tra le vie Santa Chiara e San Domenico, in via Bellezia 14, è situato Palazzo San Liborio. Disabitato per molti anni e abbandonato in condizioni di profondo degrado architettonico e strutturale, lo stabile, mantenendo come elemento cardine del progetto il rispetto e la conservazione del carattere settecentesco, ha subito un totale intervento di restauro volto a trasformare la struttura in un complesso residenziale e commerciale. La conoscenza della realtà urbana, unita alle competenze tecniche e progettuali di Zumaglini & Gallina, hanno garantito la buona riuscita del progetto di restauro e di risanamento conservativo dello stabile insieme alla riqualificazione dell’intero isolato. L’intervento progettuale ha rafforzato la centralità storica dell’androne e dello scalone aulico, recuperando l’antico asse che mette in comunicazione la strada esterna con il cortile, anticamente sede del chiostro di un complesso conventuale e oggi, a seguito di scavi, area archeologica. Gli ambienti interni all’edificio hanno differenti destinazioni d’uso: commerciale e terziaria al piano terra e interrato, residenziale ai piani superiori, compreso il quarto piano mansardato recuperato a seguito del completo rifacimento del tetto. L’identità degli spazi non cambia, anzi gli interventi di restauro ne confermano il carattere aulico unito a un intervento moderno di elevata qualità architettonica ed impiantistica, tanto da aver meritato il BTicino Contech Award nel 2008. L’impegno di Zumaglini & Gallina nel riqualificare l’opera ricalca con fedeltà il modo di operare da oltre sessant’anni alla base dell’impresa: elevata qualità costruttiva, soluzioni impiantistiche all’avanguardia e di ultima generazione, finiture di prima scelta, rispetto e conservazione della storia e soddisfazione completa delle esigenze del cliente.

Zumaglini & Gallina S.p.A. C.so Vittorio Emanuele II, 103 10128 Torino T +39 0115178540 F +39 0115178757 info@zumagliniegallina.it www.zumagliniegallina.it



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A cura di Emilia Garda Guido Montanari

In collaborazione con

Fotografie di Roberto Albano

DISET Dipartimento Ingegneria Sistemi Edilizi e Territoriali DICAS Dipartimento Casa-CittĂ


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